expand_lessAPRI WIDGET

Scuola, malattie somatiche complesse e salute mentale: cosa ne pensano i genitori

Quale potrebbe essere il personale più adatto, all’interno delle scuole, a riconoscere e aiutare uno studente che, dopo il divorzio dei propri genitori, sperimenta uno stato di tristezza profonda? Oppure un adolescente che lotta con la propria ansia a causa della pressione scolastica?

 

Secondo un sondaggio nazionale del C.S. Mott Children’s Hospital, sulla salute dei bambini, presso l’Università del Michigan, solo il 38% dei genitori ripone fiducia nelle capacità della scuola di prendersi cura di uno studente con sospetto problema di salute mentale.

La maggior parte dei genitori (il 77%) sono sicuri che le scuole siano in grado di fornire un primo aiuto per problemi minori, come il sanguinamento causato da una piccola ferita. Ma sono meno sicuri della capacità di una scuola di rispondere prontamente a situazioni di salute più complesse, come ad esempio un attacco d’asma, crisi epilettiche o reazioni allergiche gravi. L’incertezza più grande si ha sulla capacità di identificare e aiutare studenti con difficoltà e problemi nell’area della salute mentale.

Una delle sfide maggiori, sarebbe quella di affrontare le diverse sfaccettature del problema che potrebbero includere stati di tristezza prolungati, problemi di gestione della rabbia o casi di ADHD non diagnosticati, sintomi di ansia, uso di sostanze e pensieri suicidari.

I genitori degli studenti delle scuole secondarie sono dell’opinione che l’inserimento di uno psicologo scolastico sarebbe più adatto per affrontare e per assistere i ragazzi con problemi di salute mentale.

Per i primi soccorsi di base e le condizioni sanitarie urgenti, i genitori identificano come figura con responsabilità primaria l’infermiera scolastica. Circa 3 genitori su 5 ritengono che un’infermiera scolastica sia fondamentale in loco, presso la scuola materna 5 giorni alla settimana (mentre è dello stesso parere il 61% dei genitori delle elementari e il 57% dei genitori delle superiori). Pensare che un’infermiera scolastica sia disponibile 5 giorni alla settimana evidenzia livelli più elevati di fiducia da parte dei genitori nelle capacità della scuola di gestire situazioni di salute e di sicurezza.

Tuttavia, dati recenti della National Association of School Nurses, suggeriscono che i genitori spesso sovrastimano la quantità di tempo che un’infermiera trascorre nella scuola del proprio figlio. Meno della metà delle scuole americane hanno infermieri a tempo pieno, con variazioni sostanziali tra le varie regioni.

Dare per scontato la costante disponibilità di un’infermiera scolastica può essere particolarmente rischioso per gli studenti con condizioni sanitarie complesse che potrebbero aver bisogno di una risposta immediata, come ad esempio la somministrazione di un farmaco o l’individuazione del momento critico in cui dover chiamare l’ambulanza.

Sarah Clark, la co-responsabile del sondaggio, dichiara che i genitori dei bambini con esigenze di salute particolari dovrebbero lavorare direttamente con il personale scolastico per comprendere la disponibilità in loco degli infermieri e garantire che il personale non medico sia disposto a gestire situazioni di salute urgenti che possono sorgere durante la giornata scolastica.

 

La musica influenza la scelta del partner?

Un recente studio ha indagato come la musica possa influenzare l’interesse verso il sesso opposto ed eventualmente la scelta del partner. I risultati mostrano che i volti maschili sembrano essere più attraenti per le donne che hanno appena ascoltato dei brani musicali.

 

La musica può influenzare l’ attrattività fisica e la scelta del partner?

L’attrattività facciale è una delle caratteristiche fisiche che possono influenzare in prima battuta la scelta del partner. Nello studio ci si è proposti di indagare come la musica possa alterare la percezione dell’attrattività facciale”, afferma Helmut Leder della Facoltà di Psicologia dell’Università di Vienna.

Secondo il team di ricerca, la musica può influire positivamente sulla percezione visiva dei volti. I ricercatori hanno quindi esaminato l’impatto dell’esposizione musicale sulle valutazioni soggettive dei volti di genere opposto.

Nell’esperimento alcuni partecipanti eterosessuali sono stati esposti a brani musicali strumentali, e in seguito è stata loro mostrata una fotografia di un volto del sesso opposto con un’espressione facciale neutra.

I partecipanti hanno valutato l’attrattiva del viso ed è stato loro chiesto di esprimere se avessero accettato un appuntamento con la persona raffigurata nella foto. Nella condizione di controllo sono stati presentati solo i volti senza l’ascolto di brani musicali.

Nello studio sono stati coinvolti tre gruppi sperimentali: le donne nella fase fertile del ciclo mestruale, le donne nella fase non fertile del ciclo mestruale e gli uomini. Tutti i partecipanti avevano preferenze e formazione musicale equiparabile.

I risultati hanno dimostrato che le donne in generale hanno valutato i volti maschili come più attraenti quando erano state precedentemente esposte all’ascolto di musica. Il ciclo di fertilità non ha avuto una grande influenza nella valutazione dell’attrattività del volto. Nel complesso, la musica ha portato un effetto significativo rispetto alla condizione di controllo (assenza di musica). Questo effetto non è stato però riscontrato nei soggetti di genere maschile.

I ricercatori ritengono che questi risultati siano promettenti e aprano nuove possibilità per indagare il ruolo della musica nella selezione dei partner in relazione agli aspetti dell’attrattività fisica. “Il nostro obiettivo è replicare questi risultati in un campione più grande e modificare alcuni aspetti dell’esperimento“, afferma Bruno Gingras dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Innsbruck.

I risultati dello studio potrebbero avere ampie implicazioni, poichè vi è un crescente numero di risultati empirici che dimostrano che la musica ha il potere di influenzare il comportamento umano in relazione alla selezione dei partner.

“Che ci amino gli altri” di Alessio Creatura – Recensione

Un disco onesto che lascia il segno già a primo impatto e che, ascolto dopo ascolto, si fa apprezzare per le emozioni rilasciate dai brani, dieci, camaleontici nella loro originalità. Testi poetici che baciano melodie evocative. Tele musicali tratteggiate da una delle voci più interessanti del cantautorato italiano, Alessio Creatura.

 

Le emozioni trasmesse da Alessio Creatura attraverso le sue canzoni

Cosa accade quando la vita ci ferisce? Forse cresciamo improvvisamente o, forse, decidiamo di crescere soltanto a metà, conservando gelosamente ali pronte a volar via, a salvarci da un contesto che non ci appartiene e in cui non ci riconosciamo. Nelle tasche, pronti all’uso, riponiamo sogni e progetti. Ma il sentimento no. Quello impariamo a dosarlo, a non concederlo a tutti, anzi, a non concederlo mai. Le persone più sensibili ipotecano ogni grammo d’anima in uno sguardo, in un legame, in un’amicizia, ma una promessa disattesa, un silenzio o, peggio, l’indifferenza o la falsità di un gesto, le feriscono a fondo, senza rimedio. E allora, si sigillano al mondo per paura di amare, vivere, soffrire, cadere.

Ecco, probabilmente è questo il senso più profondo di “Che ci amino gli altri”, secondo lavoro del cantautore abruzzese, ravennate di adozione, Alessio Creatura. Un disco onesto che lascia il segno già a primo impatto e che, ascolto dopo ascolto, si fa apprezzare per le emozioni rilasciate dai brani, dieci, camaleontici nella loro originalità.

Alessio Creatura

Testi poetici che baciano melodie evocative. Tele musicali tratteggiate da una delle voci più interessanti del cantautorato italiano. Apre l’album, che arriva a cinque anni di distanza da “Non ho più pace”, l’atmosfera di “Cerco trasparenza”, parto di un’interiorirà amareggiata, ma non sconfitta, dalla mediocrità di una società anestetizzata che, puntando sull’apparenza, condanna l’innocenza. Un labirinto esistenziale cui l’artista non cede il passo, fermo sulla sua “inossidabile fierezza”, in bilico tra ideali e realtà. Introspezione incalzata dal blues di “Lolita”, simbolo della “dolce bimba” che “donna non è” che gioca con l’acerba femminilità, rischiando di consumare la magia della sua età.

Silenzio posato ad arte, ed un arcobaleno di suoni, introducono “Dici di non pretendere”, che descrive, con necessario distacco, le conseguenze di un rapporto tossico, in cui il disequilibrio di aspettative e la sete di certezze che non arriveranno mai, uccidono la voglia di costruire il domani. Ma a corrodere l’anima, fa intendere Alessio Creatura in “Che ci amino gli altri”, è anche la staticità che si raggiunge quando, stanchi di darsi senza ricevere, si decide di diventare “persone che / che non chiedono e sai / che se chiedono amore a chi è come me / beh / che chiedano agli altri”.

Tutt’altro che ironico, a dispetto della veste musicale, è “Non sono più lo stesso”, pezzo swing che canta un malinconico “sono già tre mesi che / non ho più lacrime / sai ricordare ora mi fa meno male e potrei anche cantare”.

Ad effetto, anche la nostalgica “Come si cresce”, viaggio a ritroso tra “l’entusiasmo di un Natale / e l’infanzia di una canzone per me speciale” che trova approdo nel desiderio di restare bambini riflesso in poche parole: “come si cresce? / Non lo so… / se rimango uguale? / Ma si poi perché no?”.

Seguono, l’introspettiva “Ti porto rancore”, disincanto di chi aveva “dato tutto” ma di quel tutto viene “derubato” e la delicata “Grazie al cielo”, connubio voce pianoforte, che mette a nudo la forza insita nella fragilità dell’uomo pronto a concedersi altre scelte. Un uomo che confessa: “piango al cielo / perché sono ancora capace / di avere rimorsi / rimpianti / piango al cielo / perché sono ancora capace / di giudicami / di fare pace”. Soprende la fiabesca “La ballata di (cir)costanza” e, a chiudere, la versione acustica del brano che titola un album che non delude.

Report dal convegno Attaccamento e Trauma – Roma, 22-24 settembre 2017

Si è svolto a Roma questo weekend il Convegno “Attaccamento e Trauma. Evoluzione umana e guarigione”, convegno che ha visto partecipare importanti esponenti di studiosi nel settore da Van Der Kolk, a Robin Shapiro, da Kathy Steele a Daniel Siegel.

 

La quinta edizione del Convegno Attaccamento e Trauma

E’ la quinta edizione e l’organizzazione è ad opera dell’Istituto di Scienze Cognitive che per questo 2017 ha portato la discussione circa il trauma e l’attaccamento anche a Londra, nel maggio scorso (“La resilienza del corpo e della Mente), e la porterà a New York (“La neurobiologia della guarigione”) questo autunno.

Sfumature diverse dello stesso spettro, programmi e relatori molto simili, ma fortunatamente dislocate nel globo dando a tutti la possibilità di ascoltare alcuni tra i big sull’argomento.

La sede scelta è particolare ed apprezzabile, il Teatro Brancaccio, l’orario pare piuttosto intenso (dalle 9 alle 19) tuttavia gli interventi sono relativamente pochi, soltanto 4 al giorno e ogni relatore, nella sua ora e mezza di presentazione, ha avuto l’opportunità di approfondire sia teoricamente che clinicamente i propri contributi (spesso con l’ausilio di video di sedute che fanno sempre piacere), pertanto l’organizzazione merita sicuramente un elogio.

Il convegno è fatto per l’80% da ospiti internazionali, ad eccezione dell’intervento di Massimo Ammaniti e del direttore d’orchestra Carmelita, il resto è made in USA.

Gli 11 relatori sono stati chiamati a mettere in relazione i dati scientifici e le conoscenze teoriche con la clinica del paziente con trauma complesso.
Il taglio del convegno è sicuramente quello evolutivo ed epigenetico. Due parole che sono le keywords di tutte le presentazioni. L’argomento è sicuramente attuale, che si odi o si ami, si parla di Attaccamento (disorganizzato aggiungerei tra parentesi), Traumi (“T grandi e t piccoli”) e vien da sé che queste due parole suonino bene con dissociazione (o frammentazione delle parti come più spesso gli americani hanno detto).
La parte neurobiologica fa da sfondo all’evento, forse da palcoscenico meglio dire, data la location.

Il punto da cui si parte è cercare di comprendere quello che accomuna l’esperienza del trauma dai primati all’uomo, quello che avviene al feto prima e al neonato poi da un punto di vista fisiologico e neuronale in seguito alle esperienze traumatiche della madre e, ovviamente, capire il ruolo delle dinamiche dell’attaccamento e come queste modellino la struttura del cervello e quindi l’impatto che abbiano nel funzionamento delle capacità di autoregolazione (anche emotiva) determinandone il comportamento.
Il “palinsesto” del primo giorno vede Louis Cozolino, Massimo Ammaniti, Diana Fosha e Dan Hughes.

L’intervento di Louis Cozolino: il cervello sociale e l’impatto del trauma

Di seguito viene riportato il primo dei diversi interventi che sono stati presentati durante il convegno.
L’idea di questo report è proprio quella di selezionare alcuni dei contributi di cui il primo è “Our social brain and the impact of trauma” di Louis Cozolino.
In perfetto stile anglosassone alle 9:00 si aprono i lavori.

Cozolino è laureato in filosofia, Teologia e Psicologia Clinica e ha docenze internazionali e attività clinica a Los Angeles.
La sua tesi centrale è che il trauma possa avere un impatto nell’attaccamento sicuro e anche a livello del cervello e del suo sviluppo, e quindi di conseguenza anche compromettere la capacità di connettersi con gli altri.
La sua relazione è in termini evolutivi e in un’ottica “sociale” appunto. Molto focalizzata sulla ricerca scientifica e meno sulla pratica clinica ma indubbiamente interessante.

Cozolino evidenzia come i neuroni abbiano “bisogno” di comunicare tramite le loro migliaia di connessioni per evitare il fenomeno di apoptosi e come questo sia metaforicamente lo stesso bisogno di tutti i mammiferi: restare in connessione con gli altri garantisce la sopravvivenza della specie.

I pinguini per esempio si uniscono tutti insieme in gruppo per non disperdere calore e sopravvivere alle temperature del Polo Sud; così anche per l’uomo la connessione va a formare “la mente di gruppo” e diventa fondamentale per il suo sviluppo. Così nei mammiferi il maschio alfa serve per far sì che esista un maschio beta, che combatta, e un omega che perda in modo da rimanere e perpetuare l’equilibrio (sociale) e da garantire sempre il miglior proseguimento della specie.

Ancor più evidente è il bisogno del neonato di connettersi al caregiver per un sano sviluppo neuro-bio-psicologico.
Dalla Cibernetica (“il mondo è composto da una serie di sistemi che si compenetrano a vicenda”) alla terapia sistemica, l’ottica di connessioni che mantengono in equilibrio (omeostasi) è chiara anche in psicologia.

Allo stesso modo anche gli uomini sono “sociali” così come lo è il loro cervello, pertanto quello che avviene nell’ambiente è importante anche a livello neuropsicologico.

Dalla psicologia sociale che studia l’impatto delle relazioni sull’elaborazione cognitiva ed emotiva, alla psicoimmunologia che studia l’impatto dei fattori sociali sulla salute all’epigenetica che studia l’impatto dell’esperienza sull’espressione genetica: un concentrato di saperi per sottolineare (anche se forse siamo tutti già abbastanza d’accordo) “che nessun uomo è un’isola.”

Le evidenze biologiche della natura sociale del nostro cervello e del profondo legame tra il singolo, l’altro e l’ambiente passano dal sistema dell’attaccamento (per es i bambini sicuri reagiscono meglio allo stress e hanno un numero maggiore di recettori per la serotonina), ai neuroni specchio che predispongono il bambino (e i primati) sin dopo 36 ore dalla nascita all’imitazione dell’altro tramite connessione visiva fino ai sistemi esecutivi che si sono evoluti in un’ ottica di sempre maggiore connessione con l’altro e si sono andati a specializzare con l’evoluzione della specie sino a diventare estremamente “sociali” nell’uomo.

Il primo sistema esecutivo è il più arcaico e riguarda le strutture sottocorticali e l’amigdala dediti a meccanismi di attacco-fuga, risponde a segni di pericolo o sicurezza; il secondo riguarda le reti parietali e ippocampali che coordinano le capacità di percezione del tempo e dello spazio e molte attività cognitive come il problem-solving e il ragionamento e poi il terzo sistema definito il “Default Mode Network (DMN)” deputato all’ attaccamento, all’empatia e alla consapevolezza di sé.

Il DMN in neuroscienze è un network di aree del cervello e si attiva generalmente quando la persona non è focalizzata all’esterno, ma il cervello è a “riposo” come nel sogno o nel “wandering” o riflette su sé o gli altri. Tra le funzioni in cui è coinvolto questo network ci sono sia la capacità di riflettere su se stessi (metacognizione) sia quella di riflettere sull’altro (è il centro della Teoria della Mente dei pensieri e delle emozioni dell’altro, e pertanto dell’empatia).

I sistemi più arcaici pongono il veto sull’attivazione di quelli più nuovi pertanto se si attiva quello sotto quello sopra viene inibito.

Il trauma andrebbe ad intaccare il funzionamento non permettendo l’attivazione del DMN e quindi dei processi di regolazione affettiva, della sintonizzazione, della compassione e dell’empatia riducendo le capacità di consapevolezza di sé e di insight. Questo comporta quindi sia un danneggiamento di sistemi biochimici (la memoria, l’apprendimento e le funzioni cognitive risultano danneggiati dalle molteplici conseguenze dell’attivazione cronica) e tutto questo comporta un indebolimento dello status sociale (impedendo la “connessione”), aumentando il rischio di essere maschio “omega” e di non sopravvivere.

Si conclude con una brevissima presentazione degli studi ACE (Adverse Childhood Experiences) ovvero una serie di molteplici studi a lungo termine su un campione di 17421 soggetti, che ha riportato la prevalenza delle esperienze infantili avverse, dall’abuso emotivo (11%) a quello fisico (28%) a quello sessuale (21%) e altri ancora correlati con uno sviluppo difficile. Tali esperienze possono correlare sia con problematiche fisiche sia psicologiche. Maggiore il numero di ACE, maggiore è il tasso di tentativi di suicidio.

Tali esperienze avverse sono correlate sia a patologie epatiche, fumo, obesità e patologie polmonari sia a depressione, alcolismo, mancanza di casa, dipendenze, violenze domestiche e gravidanze indesiderate.

Le conclusioni vanno nella direzione del fatto che le relazioni plasmano la mente, che il comportamento degli altri regola il nostro cervello e che un trauma può disconnetterci dalla “Group mind” fondamentale per la sopravvivenza.

Un intervento che non apporta nulla di nuovo ma rimarca l’importanza di qualcosa che deve essere tenuto in considerazione; le dinamiche relazionali sono determinanti non solo per i primati ma anche per noi e di conseguenza l’impatto clinico di tanta epigenetica va adeguatamente tenuto in considerazione.

Nei successivi articoli verranno illustrati i contributi dei relatori della prima giornata.

L’ asfissia autoerotica: quando il piacere sessuale si fa pericoloso

Tra i vari tipi di comportamento sessuale atipici, probabilmente l’ asfissia autoerotica è tra le più pericolose. L’ asfissia erotica è una pratica sessuale che attraverso la deprivazione di ossigeno al cervello, aumenta la sensibilità durante la masturbazione e l’orgasmo.

Serena Pattara – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Asfissia autoerotica: cos’è e perché rientra tra le pratiche sessuali più pericolose

Esistono varie modalità per incrementare il piacere sessuale, più o meno accettate socialmente, più o meno pericolose. L’ asfissia autoerotica (altrimenti detta Asfissiofilia) è un Disturbo Parafilico non Altrimenti Specificato associata al Disturbo da Masochismo Sessuale (DSM V, 2013).

Tra i vari tipi di comportamento sessuale atipici, probabilmente l’ asfissia autoerotica (un tempo chiamata anche ipossifilia) è tra le più pericolose (Prati, 2006).

L’ asfissiofilia erotica (o autoerotica) è una pratica sessuale che attraverso la deprivazione di ossigeno al cervello, aumenta la sensibilità durante la masturbazione e l’orgasmo.

La deprivazione di ossigeno può essere attuata in vari modi: attraverso l’utilizzo di lacci, sacchetti di plastica, compressione del torace, strumenti da soffocamento, immersione della testa in liquidi, stordimento da inalazioni di sostanze chimiche, impiego di maschere particolari (Myers et al., 2008).

Soffermandoci sulla pericolosità di questa pratica, il rischio di decessi improvvisi è elevato, soprattutto se attuata in solitudine. Durante la deprivazione di ossigeno, da un lato si ha un aumento delle sensazioni di piacere, dall’altro diminuiscono i tempi di reazione. Capita spesso, infatti, che la persona non sia capace di liberarsi dalla morsa che si era creata e che muoia per soffocamento.

È molto difficile stabilire l’epidemiologia del fenomeno, sia perché l’ asfissia autoerotica è una pratica molto privata e socialmente poco accettata, sia perché spesso vengono scambiate per casi di suicidio.

Uno studio pioneristico rileva che dei 97 suicidi di giovani compiuti in Massachussetts dal 1941 al 1950, ben 25 non hanno una chiara spiegazione. La più plausibile è la morte accidentale o asfissia autoerotica (Stearns, 1953).

Da questa ricerca pioneristica è intuibile come la pratica dell’ asfissia autoerotica sia non del tutto nuova. Secondo alcuni autori, già prima del 600’ si era a conoscenza del fatto che la deprivazione di ossigeno poteva causare erezione e eiaculazione negli uomini (Prati, 2006).

Nel 1988 uno studio più recente dimostrò che il 6,5% dei suicidi tra gli adolescenti e il 30% dei suicidi in generale, avevano a che fare con l’ asfissia autoerotica (Sheehan, Garfinkel, 1988).

Negli stati Uniti ogni anno muoiono più di 1000 uomini e meno di 20 donne a causa di questa pratica (Byard, Hucker, Hazelwood 1990). Il numero minore di donne coinvolte non è chiaro se dovuto ad un atteggiamento più prudente o dall’ erronea interpretazione della scena della morte (Beherendt, Buhl, Seidl 2002).

Hucker (2008) dall’analisi di un campione studiato su internet , descrive che il 40% delle persone che dichiara di praticare la tecnica, sia accompagnato da un partner durante l’attività, proprio per evitare tragedie. Lo stesso autore evidenzia un’elevata percentuale di decessi per pratiche di asfissia autoerotica, con circa 100 casi l’anno.

In questa pratica, morte e piacere sono tragicamente uniti e la fatalità si cela dietro l’angolo. In uno studio effettuato su 117 morti a causa dell’ asfissia erotica ha dimostrato che la pratica di soffocamento più utilizzata è l’impiccagione (93 casi su 117) (Blanchard, Hucker, 1991).

Le modalità e i tempi di soffocamento possono variare: alcuni praticanti utilizzano l’ asfissia solo durante le prime fasi dell’eccitamento, altri durante tutto l’arco di tempo. L’ asfissia autoerotica si accompagna spesso all’uso di materiale pornografico, al travestitismo, al feticismo, al masochismo e ad altre forme di parafilia. Quando è associato al sadismo il rischio di una nefasta conclusione è molto elevato (Prati, 2006).

La legatura può avere un significato funzionale e\o simbolico (Hazelwood, Dietz, Burgess 1983). Da una parte il mancato apporto di ossigeno crea euforia, leggerezza, diminuzione delle inibizioni, stordimento ed incremento delle reazioni fisiologiche alla stimolazione genitale (Resnik, 1972). Dall’altra il significato simbolico riguarda più aspetti: desiderio di emozioni forti legati al rischio e alla sperimentazione sessuale; fantasia masochistica di dolore e bondage; bisogno di espiazione per gli impulsi sessuali.

Lo stato mentale innescato da questa pratica (eccitamento, perdita del giudizio, delle inibizione e della coscienza) può portare alla morte a causa dell’incapacità, da parte della vittima, di utilizzare i sistemi di protezione che si era creato. Oppure la morte può essere causata dalla cattiva disposizione della legatura o del cappio, dal mancato funzionamento dei sistemi di protezione o dell’attrezzatura in generale. Oltre alla morte per soffocamento, vi sono altre conseguenze pericolose tra cui danni cerebrali, rottura della trachea, frattura laringe, ictus cerebrale.

La protratta ripetizione di questa pratica assieme ad un desiderio di un maggiore piacere sessuale costituiscono ulteriori fattori di rischio non trascurabili. Per questo motivo venne definita da Resnik (1972) “impiccagione eroticizzata e ripetitiva”, poiché si è portati alla ripetizione ossessiva della pratica che oltre ad aumentare le probabilità di un esito tragico, comporta l’assuefazione alle sensazioni piacevoli cosicché è necessario aumentarne la pericolosità per provare ancora piacere.

Un altro fattore di rischio aggiuntivo è l’uso concomitante di stupefacenti come il Popper o altri inalanti, alcol e altre droghe (Uva, 1995).

Asfissia autoerotica: gli interventi terapeutici

L’ asfissia autoerotica può avere conseguenze letali, è più diffusa di quello che si può pensare e coinvolge sia uomini che donne di tutte le età. Alla stato attuale non si dispongono di dati sufficienti per affrontare e monitorare il fenomeno in modo adeguato.

Continua la lettura dell’articolo >> CLICCA QUI

EMDR Revolution – Cambiare la propria vita un ricordo alla volta – Recensione

Il testo della Croitoru EMDR Revolution è prezioso per i nostri pazienti e per tutte le persone che sono in un momento di vita difficile e che cercano aiuto, serve per poter orientarsi meglio nel marasma di approcci ed orientamenti che esistono oggi. Il libro è una raccolta anche di storie con un lieto fine, davanti al malessere esiste una via d’uscita, messaggio di speranza e consapevolezza.

 

“Io mi baso sulle migliaia di ore di trattamento con EMDR che ho fatto con i miei pazienti, ho parlato con molti colleghi connazionali e internazionali, ho letto centinaia di articoli e ho seguito da vicino tutto quello che è stato fatto e detto nel campo dello studio di questo approccio terapeutico e credo che l’EMDR porti con sé una grande speranza per l’umanità e che questa sia la rivoluzione che stavamo aspettando da tempo nel mondo della psicoterapia moderna.
Io credo che tutte le persone abbiano il diritto di fare una terapia che li aiuti – non in modo lento, ma velocemente e in modo evidente”.
Tal Croitoru

Emdr revolution: un libro che spiega in cosa consiste l’ EMDR

L’autrice è psicoterapeuta e supervisore del metodo EMDR, lavora nell’ambito degli effetti psicofisici del trauma e collabora con l’università di Haifa in Israele. Il titolo di impatto ci introduce nel mondo EMDR che da circa venticinque anni ha guadagnato sempre maggiore importanza tra gli approcci terapeutici come il metodo più utilizzato e di maggiore efficacia nella risoluzione dei traumi.

Questo metodo è scientificamente validato ed inserito nelle Linee Guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la gestione delle condizioni correlate allo stress e indicato come trattamento di elezione per la cura dei traumi.

Il testo della Croitoru EMDR Revolution è prezioso per i nostri pazienti e per tutte le persone che sono in un momento di vita difficile e che cercano aiuto, serve per poter orientarsi meglio nel marasma di approcci ed orientamenti che esistono oggi. Il libro è una raccolta anche di storie con un lieto fine, davanti al malessere esiste una via d’uscita, messaggio di speranza e consapevolezza.

Il libro ci introduce al mondo EMDR in modo semplice ed esaustivo, di facile lettura spiega in modo accurato metodo, procedure, tempistiche ed effetti collaterali.

Se il soggetto sente emozioni negative, paure, preoccupazioni, vive ostacoli o sono accaduti traumi la buona notizia è che ci sono buone probabilità di stare meglio!

Che cos’è l’emdr?

L’acronimo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) sta ad indicare Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. La desensibilizzazione si riferisce alla diminuzione di intensità dell’emozione percepita davanti al trauma, successivamente la rielaborazione riguarda i ricordi degli eventi traumatici che non sono stati elaborati in modo adeguato al momento dell’accaduto. Tutto ciò avviene tramite i movimenti oculari secondo una stimolazione bilaterale per far partecipare i due emisferi alla procedura di elaborazione. Ad oggi la stimolazione bilaterale avviene non solo mediante movimenti oculari ma anche attraverso altri canali: il canale uditivo (utilizzo di auricolari per l’ emissione di suoni alternati); canale tattile (uso di manopole che sviluppano la vibrazione alternata dei palmi delle mani).

Il metodo è stato ideato da Francine Shapiro nel 1987 ed inizialmente è stato utilizzato per curare i reduci delle guerre americane con disturbi post traumatici ed in seguito il metodo viene utilizzato per l’elaborazione di altri eventi traumatici. Come l’autrice illustra la metodologia EMDR è applicabile a soggetti di tutte le età e per tutti i tipi di disturbo psicologico.

EMDR Revolution: Come funziona la tecnica dell’ EMDR?

Quando avviene un evento traumatico il nostro cervello non è in grado di elaborare del tutto l’evento nel momento in cui avviene, per cui le informazioni vengono messe in memoria in forma grezza prive di elaborazione mantenendo odori, suoni, voci, pensieri e sensazioni avvenute nel momento del trauma. Tali informazioni persistono in una rete separata, in ogni momento un soggetto potrebbe avere stimolazioni esterne che attivano informazioni contenute nella rete e che provocano reazioni ed emozioni di intensità elevata rispetto alla natura dell’evento attuale.

Nel testo EMDR revolution, l’autrice prosegue presentando il protocollo emdr e le otto fasi di lavoro:
fase 1 – raccolta della storia del paziente (per capire quali ricordi traumatici hanno ancora un impatto negativo nel presente);
fase 2 – la preparazione dipende molto da soggetto a soggetto e dalle sue capacità di far fronte alla situazione problematica;
fase 3 – assessment per raccogliere le informazioni riguardanti l’evento traumatico (vengono recuperati gli elementi più disturbanti associati a tale ricordo);
fase 4 – desensibilizzazione; in questo momento viene completata l’elaborazione del ricordo dell’evento traumatico attraverso la stimolazione alternata prima dell’emisfero destro e poi di quello sinistro, ciò può avvenire attraverso stimolazione visiva, suoni alternati o tapping. Come il paziente gestisce questo momento varia molto dal singolo individuo e dalla capacità di gestione dello stress;
fase 5 – installazione della convinzione positiva;
fase 6 – scansione corporea, in questo momento ci assicuriamo che a livello fisico non ci sia disturbo relativo al ricordo traumatico;
fase 7 – chiusura della seduta e si spiega al paziente che possono emergere tra una seduta e l’altra alcuni dettagli legati all’evento traumatico;
fase 8 – rivalutazione e possibili effetti collaterali come stanchezza; non ci sono dei veri limiti per l’applicazione di questo metodo, solo valutare che il soggetto abbia le risorse per gestire l’elaborazione.

Vi sono anche alcuni effetti collaterali possibili dopo sessioni di EMDR: sensazione di stanchezza durante la seduta o dopo oppure un aumento del disagio prima di percepire una diminuzione duratura nel tempo.

Invece la difficoltà principale nella terapia EMDR non è applicare il metodo ma lavorare con il paziente nel recupero dei ricordi della prima infanzia; questi rappresentano molte volte il vero nucleo della maggior parte dei problemi dei nostri pazienti; ciò avviene per due motivi: da una parte da bambini tendiamo a pensare che tutto ciò che avviene intorno ha a che fare con noi e dall’altra da piccoli abbiamo meno risorse per cui veniamo soverchiati dagli eventi.

Pregio di questo testo è certamente quello di illustrare con parole semplici ma accurate l’EMDR, è fruibile da chiunque: professionisti ancora non formati in Emdr, pazienti desiderosi di capire meglio la metodologia di lavoro prima di cercare un terapeuta; terapeuti Emdr che cercano spunti per spiegare in modo efficace il processo terapeutico.

Un testo affascinante e ricco di esempi.
Buona lettura!

 

Ego Depletion: autocontrollo e il dispendio di risorse mentali. Rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale è come processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Gli studi sul fenomeno dell’Ego Depletion ci danno informazioni interessanti sul nostro libero arbitrio. In particolare esercitare autocontrollo nelle sue varie modalità (es. resistere alle tentazioni, perseverare innanzi alle frustrazioni e così via) consuma una energia che ostacola esercizi di autocontrollo successivi. Questo significa che l’ autocontrollo è una risorsa limitata, che si può allenare, esaurire e recuperare con il riposo.

Ma è possibile usare strategie di autocontrollo che consumano una ridotta quantità di energia? È possibile esercitare autocontrollo con modalità così efficaci in grado di rallentare il processo di ego-depletion e aumentare i gradi di esercizio della libera volontà?

Probabilmente un minimo livello di carico cognitivo è comunque richiesto dall’azione conscia più che dall’abitudine automatizzata. Tuttavia esistono modalità consce di gestione del comportamento (in termini di espressione, presa di decisione, realizzazione dell’atto) che consumano maggiori risorse mentali e lasciano proni a un successivo esaurimento del muscolo dell’autocontrollo (Ego-Depletion, Baumeister et al., 1998).

Nel panorama scientifico alcuni processi cognitivi sono ormai considerati una modalità piuttosto costosa in termini di fatica mentale e stress emotivo di governo del comportamento. Tra questi, i più conosciuti sono rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero. Rimuginio e ruminazione sono particolarmente cancerogeni non solo perché determinano il cognitive load ma perché continuano a elaborare le medesime informazioni e non prendono in alcuna considerazione nuove informazioni dall’ambiente.

Qui la questione centrale è la sovrapposizione tra la necessità di uno stato interno equilibrato (assenza di pensieri o emozioni negative) e la possibilità di esercitare libero arbitrio. Una pretesa nei confronti di sé stessi, quella che il corpo e la mente siano d’accordo con noi. Le semplici traduzioni di questo scopo (metacognitivo) irrealistico sono forse più chiare: la pretesa di scegliere l’esposizione senza provare paura; la pretesa del rischio senza dubbi e preoccupazioni che ronzano in testa; la pretesa della rinuncia alle tentazioni senza un pensiero pulsante; la pretesa di fronteggiare una critica senza che la mente ci giudichi inadeguati. L’essere umano tende un po’ a cercare l’accordo assoluto con i propri eventi interni e a far dipendere le proprie decisioni da questo accordo. Ma la ricerca della coerenza per decidere, anziché aiutare a prendere decisioni buone o autentiche, rende le decisioni sofferte, difficili e confuse.

Come l’individuo procede a questa ricerca di coerenza interna? Prima via: rimuginare, ovvero il tentativo di risolvere i dissidi interiori attraverso svariate forme di ragionamento, le persone cercano di risolvere dubbi e domande esistenziali prima di decidere. Seconda via: la soppressione dei pensieri e delle emozioni, il tentativo di oscurare, combattere, cancellare o semplicemente ignorare i propri stati interni per garantirsi un finto equilibrio. Entrambe queste risorse consumano energia, sono faticose e superflue per arrivare a una decisione e quindi generano un carico cognitivo che riduce nel tempo le risorse a disposizione per l’esercizio del libero arbitrio.

Come aumentare i gradi di esercizio della libera volontà? Abbandonando l’uso di queste strategie, il che però implica decidere anche indipendentemente da segnali di incoerenza interna (emozioni e pensieri negativi) o aspettare che si plachino da soli. Possiamo prendere decisioni indipendentemente dal disaccordo (o dall’accordo) espresso dai nostri pensieri o dalle nostre emozioni.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

5 – Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

6 – L’ autocontrollo e il dispendio di risorse mentali: rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero

Elaborazione degli stimoli visivi: siamo sempre consapevoli di ciò che vediamo?

I ricercatori di Bonn si sono posti l’obiettivo di comprendere come l’elaborazione visiva differisca sulla base della consapevolezza dello stimolo. Essi hanno misurato le risposte dei singoli neuroni agli stimoli visivi attraverso l’impianto di elettrodi cerebrali nel lobo temporale mediale di 21 pazienti con epilessia al lobo temporale mediale.

 

Come avviene l’elaborazione degli stimoli visivi?

Se vi chiedete perché non sempre siamo consapevoli di ciò che vediamo, la risposta è nel cervello, che decide cosa è rilevante o meno. La letteratura scientifica, in ambito psicologico, presenta delle lacune in riferimento all’individuazione dei meccanismi neurali alla base della percezione consapevole degli stimoli (Koch, Massimini, Boly, & Tononi, 2016). Tra i pochi studi di riferimento, due sono significativamente rilevanti: uno su primati non umani e l’altro su esseri umani. Il primo prevede registrazioni a singolo neurone che mostrano come la percezione consapevole avvenga nelle regioni anteriori del circuito ventrale (Sheinberg, & Logothetis, 1997; Logothetis, 1998); mentre il secondo evidenzia come regione implicata il lobo temporale mediale (MTL) (Kreiman, Fried, & Koch, 2002; Quiroga, Mukamel, Isham, Malach, & Fried, 2008). Per ampliare questi dati di ricerca, presso l’università di Bonn è stato pensato un progetto che indaga il processo di elaborazione degli stimoli e, soprattutto, come le informazioni da essi veicolate si dissolvano nel viaggio verso la consapevolezza.

Quando l’immagine di uno stimolo viene proiettata sulla retina del nostro occhio, l’informazione visiva viaggia attraverso il nervo ottico fino alla corteccia visiva primaria nel lobo occipitale. Da qui il segnale si estende e in parte è proiettato nelle regioni anteriori, tra cui quelle del MTL. A volte, però, tale segnale può disintegrarsi prima che l’osservatore ne sia consapevole. E’ in questa fase che si può identificare, attraverso la registrazione dei cambiamenti dei segnali elettrici cerebrali, la differenziazione tra consapevolezza e inconsapevolezza dell’informazione visiva.

Come varia l’elaborazione visiva a seconda del livello di consapevolezza?

Sulla base di quanto riportato, i ricercatori di Bonn si sono posti l’obiettivo di comprendere come l’elaborazione visiva differisca sulla base della consapevolezza dello stimolo. Essi hanno misurato le risposte dei singoli neuroni agli stimoli visivi attraverso l’impianto di elettrodi cerebrali nel MTL di 21 pazienti con epilessia al lobo temporale mediale.

E’ necessario che stimoli identici talvolta siano visibili ed altre volte no; dunque, il metodo utilizzato si avvale del cosiddetto “attentional blink ”, ovvero il fenomeno per cui il secondo di due stimoli bersaglio, presentati in stretta successione, spesso non viene percepito coscientemente (Raymond, Shapiro, & Arnell, 1992). La consapevolezza del secondo stimolo, infatti, è possibile solo se c’è un intervallo di tempo sufficiente tra i due.

In questo studio, dunque, i partecipanti vedono una serie di immagini su uno schermo, ognuna presentata per poco più di un decimo di secondo. Prima di ogni serie, si richiede di prestare attenzione a due stimoli bersaglio per ricordarsi successivamente se sono apparsi nella serie. Il tempo tra le due immagini varia. I risultati mostrano che, quando gli stimoli bersaglio sono presentati in stretta successione, i partecipanti riportano in poco più della metà dei casi di vedere soltanto il primo, confermando la differente elaborazione conscia e inconscia. A livello neurale ciò corrisponde a un indebolimento degli impulsi elettrici in risposta alle immagini non consapevolmente percepite. Il segnale proiettato dall’area visiva primaria alle zone anteriori del MTL, infatti, si indebolisce disintegrandosi o arrivando comunque in ritardo. Nelle zone posteriori, invece, non si evidenziano segnali differenti poiché si tratta della sede di elaborazione primaria e più generica degli stimoli.

In sintesi, lo studio rivela un gradiente anatomico lungo il quale l’attività neurale è modulata in risposta alla percezione degli stimoli: più ne siamo consapevoli, più si attivano le aree anteriori del MTL.

In conclusione, questa ricerca fornisce nuovi elementi di indagine sul tema della percezione inconsapevole, utilizzando le risposte neurali come marker fisiologico della percezione cosciente.

L’impulsività e la disregolazione emotiva: come tollerare la sofferenza

L’ accettazione della sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire con impulsività, peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Perché è utile tollerare la sofferenza

La capacità di tollerare e accettare la sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire d’impulso, peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose. Il dolore e la sofferenza fanno parte della vita e per questo non possono essere completamente evitati. Imparare ad accettare e a tollerare tale sofferenza è l’unico modo per non farsi sopraffare dalle emozioni.

Questo tema è stato ampiamente indagato da Marsha Linehan (docente di psicologia e psichiatria presso l’Università di Washington e specializzata nel trattamento dei pazienti con disturbo borderline di personalità), la quale ha ideato un programma di skills training, facente parte del modello psicoterapico DBT (Dialectical Behavior Therapy). Tale terapia è stata concepita inizialmente per il disturbo borderline, ma successivamente si è evoluta ed è stata adattata anche ad altre forme psicopatologiche, tra cui i disturbi alimentari, le dipendenze, il comportamento suicidario, la depressione resistente.

La Dialectical Behavior Therapy prevede la combinazione di una terapia individuale e di uno skills training condotto in gruppo da un conduttore e un co-conduttore entrambi esperti di terapia dialettico-comportamentale. E’ opportuno anche che ci sia uno scambio di informazioni tra il terapeuta individuale e i conduttori dello skills training per favorire una maggiore integrazione tra i due tipi di terapia.

Lo skills training prevede 4 moduli e viene attuato generalmente in un setting di gruppo. L’obiettivo è quello di favorire nei pazienti l’apprendimento di strategie più adattive per gestire le situazioni difficili. I moduli dello skills training sono relativi alla pratica della mindfulness, alla regolazione delle emozioni, all’efficacia nelle relazioni interpersonali e alla tolleranza della sofferenza emotiva. In questo articolo mi soffermerò proprio su quest’ultimo modulo.

La tolleranza della sofferenza può essere definita come la capacità di percepire l’ambiente circostante senza pretendere che sia diverso da come è e di sperimentare le proprie emozioni e riconoscere i propri pensieri osservandoli senza valutarli o controllarli (Marsha Linehan, 2015). Per poter raggiungere tale obiettivo, secondo Marsha Linhean, è necessario apprendere delle abilità definite di sopravvivenza alle crisi, che consistono in soluzioni a breve termine a situazioni particolarmente dolorose. Le abilità di sopravvivenza alle crisi è, tuttavia, opportuno che siano utilizzate solo in momenti davvero critici, di elevata intensità emotiva, quando si rischia di agire con impulsività, peggiorando le conseguenze; in un secondo momento, invece, è utile utilizzare le abilità presentate negli altri moduli della DBT per regolare le emozioni, raggiungere i propri scopi, attuare processi di problem-solving, gestire le proprie relazioni interpersonali, e quindi in ultima analisi costruire una vita degna di essere vissuta.

Nello stesso modulo Marsha Linehan presenta il tema dell’accettazione della realtà quando gli eventi risultano dolorosi, ma purtroppo non possono essere modificati, perlomeno nel breve termine. Tale percorso risulta spesso molto doloroso, ma al termine di esso è possibile sperimentare uno stato di maggiore calma e serenità. Tale concetto sarà meglio esplicato in seguito.

Cos’è una crisi e quando utilizzare tali abilità

La crisi può essere definita come una situazione particolarmente stressante, di breve durata ma che non può essere modificata nell’immediato. Essa genera un’emozione molto forte, ma se si utilizzano alcune abilità è possibile ridurre l’intensità del dolore e dell’emozione tanto da renderlo più sopportabile.

Mettendo in atto queste abilità, si evita di agire sull’onda della mente emotiva, dell’ impulsività, di peggiorare la situazione e invece si permette a se stessi di porsi nella mente saggia e di definire ciò che può essere più vantaggioso in quella determinata situazione. Un esempio di situazione critica in cui è assolutamente opportuno ricorrere a tali abilità può essere quella in cui si è assaliti da un desiderio impellente di bere, abusare di droghe o picchiare qualcuno, in quanto tali comportamenti risultano disfunzionali, peggiorano la situazione e presentano una serie di effetti contrari e negativi a lungo termine.

Le abilità per tollerare la sofferenza, senza agire con impulsività

Una prima abilità che, secondo Marsha Linehan, consente di trattenersi dall’agire con impulsività peggiorando così la situazione, è quella dello STOP che prevede diversi passi:

  1. Stop: quando le emozioni stanno per prendere il sopravvento, è opportuno fermarsi, non reagire, non muovere nessun muscolo per cercare di conservare il controllo;
  2. Fare un passo indietro: prendere le distanze dalla situazione e respirare profondamente è funzionale a riacquistare il controllo della situazione;
  3. Osservare: fermarsi a guardare ciò che accade dentro e al di fuori di sé consente di non saltare alle conclusioni, di comprendere ciò che sta accadendo e di considerare le diverse opzioni;
  4. Procedere in maniera mindful: questo passo consente di agire con consapevolezza, considerando i propri pensieri e le proprie emozioni e quelli degli altri; si agisce ponendosi nella mente saggia e chiedendosi ciò che sarebbe più opportuno fare per non peggiorare la situazione.

Un’ abilità che, invece, consente di prendere decisioni rispetto al proprio comportamento scegliendo tra 2 o più possibilità è quella dei PRO  e dei CONTRO. La strategia consiste nello stilare una lista dei vantaggi e degli svantaggi dell’agire con impulsività e del resistere all’impulso sia a breve che a lungo termine. Azioni dettate dall’ impulsività potrebbero essere: mettere in atto comportamenti violenti, di abuso di alcol o sostanze oppure comportamenti autolesivi. Una volta stilata tale lista dei Pro e Contro potrebbe essere opportuno portarla con sé e rileggerla quando si sta per mettere in atto un comportamento impulsivo.

Altri comportamenti funzionali nei momenti di crisi sono quelli che agiscono sulla chimica del corpo e che abbassano il livello fisiologico di attivazione. Queste abilità consistono nel ridurre la temperatura corporea ad esempio utilizzando dell’acqua fredda, oppure nel compiere uno sforzo fisico o ancora nel rallentare il ritmo della respirazione. Infine se si ha più tempo a disposizione è possibile mettere in atto il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Altre abilità che consentono di porsi nella mente saggia e di ridurre il contatto con la propria sofferenza sono quelle di distrazione. Tali skills sono opportune nelle situazioni in cui il dolore può diventare troppo forte o quando i problemi non possono essere risolti immediatamente. È possibile individuare 7 diversi tipi di attività di distrazione:

  1. Impegnarsi in attività emotivamente neutrali o opposte alle emozioni negative contribuisce a ridurre impulsività e sofferenza emotiva (ad esempio guardare un film, ascoltare della musica, leggere, praticare dello sport sono azioni che possono aiutare a distrarsi dal dolore);
  2. Contribuire al benessere degli altri attraverso azioni gentili, premurose o di volontariato consente di spostare la propria attenzione da se stessi agli altri;
  3. Fare confronti con chi è meno fortunato può essere funzionale a rileggere la propria situazione in un’ottica più positiva;
  4. Un’altra abilità consiste nel mettere in atto azioni opposte, ossia azioni che generano un’emozione opposta rispetto a quella che si sta sperimentando in quel momento. Provare ad attivare emozioni diverse nelle situazioni di crisi consente di avere il controllo di sé e delle proprie emozioni, di allontanarsi per un momento da un dolore troppo forte e di rendere più sopportabile una sofferenza che altrimenti sarebbe troppo intensa;
  5. In alcuni casi anche tenere lontana una situazione fisicamente o mentalmente può consentire di evitare di mettere in atto comportamenti distruttivi; si può immaginare di impacchettare il dolore, di chiuderlo in una scatola o di erigere un muro tra sé e quella situazione;
  6. In altri casi può essere più funzionale distrarsi con delle azioni mentali, tra cui contare fino a 10, oppure con azioni concrete, ad esempio cantare una canzone o fare dei puzzle.
  7. Un’ultima categoria di abilità è rappresentata da quelle che consentono di generare sensazioni fisiche differenti, ad esempio stringere una palla di gomma o un cubetto di ghiaccio o fare un bagno caldo o una doccia fredda possono indurre dei cambiamenti fisiologici repentini e contribuire a tollerare e a modificare quel momento doloroso.

Altre abilità autoconsolatorie sono, invece, quelle che consentono di sfruttare i cinque sensi per rendere più piacevole e confortante una situazione difficile, utilizzando la vista (osservare la natura, il cielo stellato, altri stimoli visivi), l’udito (ascoltare la musica, il rumore della pioggia, suonare uno strumento..), l’olfatto (sentire il profumo dell’incenso, di una candela profumata, di un fiore..), il gusto (degustare cibi preferiti) e il tatto (coccolare un animale domestico, spalmarsi della crema idratante..) contribuisce a rendere più tollerabile e piacevole la situazione presente.

Infine altre abilità funzionali a rendere meno doloroso il momento presente possono essere: immaginare di essere in un posto immaginario o reale rilassante, cercare un senso al dolore che si sta provando, pregare, dedicarsi ad attività rilassanti (quali lo yoga o la meditazione), stare sul presente e compiere solo un’azione alla volta, concedersi un breve riposo, autoincoraggiarsi e complimentarsi con se stessi per gli sforzi che si stanno compiendo.

Le abilità di accettazione della realtà

Quando la situazione che si sta vivendo continua ad essere dolorosa e non è possibile modificarla, perlomeno nell’immediato, secondo Marsha Linehan è opportuno mettere in atto delle abilità di accettazione della realtà, che consentono di vivere una vita presente migliore di quella che si vivrebbe continuando ad ostinarsi nel voler modificare tale realtà.

Accettare la realtà significa smettere di combatterla e lasciar andare l’amarezza e la sofferenza; la realtà andrebbe accettata in ogni sua parte, in maniera completa. Ciò che è opportuno accettare è che ogni cosa ha delle cause che possono anche prescindere da se stessi, che ci sono limitazioni legate al passato o al presente e che la vita può essere degna di essere vissuta anche se vi sono eventi dolorosi. Se questi eventi negativi e immodificabili non vengono accettati si rischia di continuare a provare emozioni intense e dolorose di tristezza, vergogna o rabbia.

L’ accettazione rappresenta, dunque, l’opposto dell’ostinazione, che invece consiste nel continuare a rifiutare la realtà, nel volerla cambiare a tutti i costi, nel voler continuare a tenere il controllo della situazione. Il processo di accettazione, invece, può comportare emozioni di tristezza ma successivamente ne segue una sensazione di calma e si evita di trasformare il dolore in sofferenza ripetuta.

Accettare, tuttavia, non significa rassegnarsi o essere passivi di fronte ad eventi dolorosi; significa prendere consapevolezza delle proprie emozioni, smettere di ostinarsi contro la realtà. Se si negano o si evitano gli eventi, perché troppo dolorosi, essi non cambiano e le emozioni dolorose persisteranno a lungo. Il dolore non può essere evitato e per cambiare la realtà è necessario prima accettarla. In questo senso accettare non significa rassegnarsi.

L’ accettazione della realtà è l’obiettivo fondamentale anche della psicoterapia dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), la quale sostiene che la sofferenza non possa essere evitata e che accompagni la vita di chiunque. L’ACT si basa su 3 punti essenziali che consistono nell’ accettazione esperienziale, nella mindfulness e nell’impegno a vivere la propria vita in base ai propri valori. L’ACT è stata sviluppata da Steve Hayes e i suoi collaboratori nel 1986 e sostiene in generale che sia necessario combattere l’evitamento con l’ accettazione dell’esperienza e delle emozioni esperite e che ognuno abbia dei valori che guidano la propria esistenza.

La mindfulness, che viene contemplata sia nell’ambito della DBT che dell’ACT, è invece un approccio di consapevolezza alla realtà e consiste nel prestare attenzione al momento presente, con intenzione e in maniera non giudicante (Jon Kabat Zinn). Avere un approccio mindful significa essere presenti nel qui e ora e vivere la ricchezza e la pienezza della vita presente, senza giudicare o pensare troppo. L’obiettivo è quello di favorire una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada e dei propri stati mentali.

Ciò che accomuna l’ACT, la DBT  e la mindfulness è l’attenzione posta all’ accettazione della realtà e degli stati mentali anziché tentare di modificarli e tutti e tre gli approcci fanno parte della terza ondata della terapia cognitivo-comportamentale.

Concludendo, quando la realtà che si sta vivendo è troppo dolorosa e si rischia di mettere in atto comportamenti dettati dall’ impulsività che potrebbero peggiorare la situazione è opportuno utilizzare delle strategie di sopravvivenza alla crisi, finalizzate a tollerare la sofferenza emotiva. Inoltre, quando la realtà risulta immodificabile e al contempo genera sofferenza, anziché ostinarsi nel cercare di cambiarla, può essere più vantaggioso avviare un processo di accettazione dell’esperienza dolorosa.

Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza – L’Adult Attachment Projective Picture System – Recensione

Il volume “Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza” edito da Franco Angeli presenta uno strumento (l’AAP, Adult Attachment Projective Picture System) che tenta di raccogliere questa sfida, in un’epoca in cui anche in ambito psicologico sono sempre più richiesti approcci evidence- based, misure di efficacia, analisi standardizzate del rapporto costi-benefici degli interventi.

La teoria dell’attaccamento

La teoria dell’attaccamento di Bowlby, una delle più importanti e rigorose teorie psicologiche moderne, si basa sul presupposto che le esperienze relazionali precoci, in particolare quelle tra il bambino e chi si prende cura di lui, abbiano un impatto decisivo non soltanto sullo sviluppo emotivo e psicologico infantile ma anche sul funzionamento in età adulta, che si rivelerà sano o patologico a seconda della qualità delle prime esperienze di accudimento.

Tali esperienze sono infatti considerate determinanti per l’integrità del senso di sé e degli altri: quando l’attaccamento è sicuro, gli individui sono guidati da un’idea degli altri come amorevoli e responsivi e di se stessi come meritevoli dell’amore e delle cure altrui. Questo tipo di sicurezza, nel tempo, sostiene la resilienza individuale e la capacità di affrontare adeguatamente i momenti critici. Quando l’attaccamento invece è insicuro le reazioni emotive e comportamentali risentono della percezione inconscia che il proprio desiderio di vicinanza e consolazione resterà insoddisfatto o che è illecito; l’idea degli altri come ostili e di se stessi come indegni di amore diventa chiaramente predittivo di una vulnerabilità individuale allo sviluppo di problematiche relazionali e psicopatologiche.

Pur trattandosi di un paradigma che si fonda su una visione evoluzionistica della mente (la predisposizione umana a ricercare una figura di attaccamento è istintiva e sostenuta da basi biologiche), il concetto di attaccamento è intessuto di processi psicodinamici (modelli operativi interni, processi difensivi) che pongono la sfida di trovare strumenti di misurazione standardizzabili e validi da un punto di vista psicometrico, sia rispetto all’assessment che all’eventuale valutazione degli outcome di una psicoterapia.

Il manuale “Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza” e lo strumento Adult Attachment Projective Picture System

Il volume “Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza” edito da Franco Angeli presenta uno strumento (l’AAP, Adult Attachment Projective Picture System) che tenta di raccogliere questa sfida, in un’epoca in cui anche in ambito psicologico sono sempre più richiesti approcci evidence- based, misure di efficacia, analisi standardizzate del rapporto costi-benefici degli interventi.

L’ Adult Attachment Projective Picture System consiste in alcune tavole raffiguranti scenari (solitari o diadici) che richiamano esperienze di attaccamento (minaccia di separazione, malattia, solitudine, morte, abuso); al soggetto è richiesto di descrivere cosa sta succedendo nella scena, che cosa ha condotto a quella scena, cosa stanno pensando e provando i personaggi e che cosa succederà dopo. La classificazione dei pattern di attaccamento coincide con quella tradizionale (sicuro, ansioso/resistente, ansioso/evitante e disorganizzato) e si basa sulla codifica dettagliata di tre aspetti delle trascrizioni: la narrativa, il contenuto della storia e i processi difensivi.

Quest’ultima dimensione in particolare assume un’importanza cruciale perché una delle differenze sostanziali tra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento risiede proprio nella concettualizzazione dei meccanismi di difesa. I modelli psicoanalitici tradizionali descrivono infatti una complessa costellazione di fenomeni intrapsichici legati alle difese (tra cui fantasie, sogni, desideri, impulsi) mentre la teoria dell’attaccamento individua tre specifiche modalità di esclusione difensiva (deactivation, cognitive disconnection e segregated system) che permettono all’ Adult Attachment Projective Picture System di differenziare con precisione i profili individuali nei termini di come le persone mettono in atto strategie difensive per processare e pensare la propria esperienza di attaccamento.

La ricerca di un preciso sistema di codifica e di classificazione permette all’ Adult Attachment Projective Picture System di essere non soltanto una misura proiettiva (dove il termine proiettivo richiama spesso un’idea infelice di scarsa oggettività) ma uno strumento standardizzato a tutti gli effetti, un perfomance based personality test, dove il compito di “raccontare” la storia diventa una prova di problem solving (e non più quindi solo una vaga proiezione di contenuti inconsci) in cui occorre identificare i protagonisti, individuare la situazione lungo una dimensione temporale, comprendere e mettere in relazione gli stati interni dei personaggi raffigurati con i propri modelli interni legati all’attaccamento. In questo senso uno dei vantaggi di valutare l’attaccamento tramite uno strumento come l’ Adult Attachment Projective Picture System consiste nel fatto che i disegni costituiscono stimoli neutri per l’elicitazione di narrative personali potenzialmente dolorose; spesso i pazienti, in particolare quelli che hanno alle spalle esperienze traumatiche, hanno paura di dover parlare della propria esperienza, soprattutto durante la fase di assessment, quando l’alleanza terapeutica è ancora tutta da costruire.

Le tavole dell’ Adult Attachment Projective Picture System permettono invece al paziente di rievocare e raccontare memorie faticose o destabilizzanti non necessariamente come parte della propria esperienza personale bensì ancorandosi alle vignette, il che può mettere al riparo da vissuti di costrizione e di disagio. Il volume si arricchisce anche di un’ampia rassegna, molto interessante per i professionisti, che illustra l’utilizzo clinico dell’ Adult Attachment Projective Picture System in svariati settori e con pazienti sia in età evolutiva che adulta.

Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi (2017) di Antonino Ferro – Recensione del libro

Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi, scritto da Antonino Ferro, analista e supervisore nella Società Psicoanalitica Italiana, di cui è stato il Presidente, è la proposta di un viaggio verso gli scenari non consueti della psicoanalisi, una fenditura sul conosciuto da cui si scorge la possibilità di sperimentarsi in esperienze sempre nuove e vivificatrici.

 

Un dialogo a due voci conduce il lettore a farsi spettatore del confronto tra l’esperienza che si trasforma in arte e il prudente e poco creativo, ma verosimilmente reale, modo di procedere del giovane analista. In questa mappa di sentieri nuovi riconoscere l’impercorribilità di quelli ormai vecchi limita il rischio di essere contaminati solo da ciò che è stato conosciuto.

Si tratta di un viaggio che l’analista compie con un bagaglio leggero e che con attitudine curiosa verso l’ignoto va co-costruendo insieme al paziente, attraverso la moltitudine di storie che prendono vita in seduta.

Dal primo colloquio e dall’uso del lettino, passando per la comunicazione analista-paziente, fino all’agire in analisi, è sollecitata una riflessione su quella parte del setting che inevitabilmente muta sotto l’influenzata della cultura e a cui possiamo decidere di aderire con buon senso senza esporci a eccessivi sensi di colpa. Un percorso lungo anni, in cui una buona analisi personale, la scelta di supervisioni che permettano di conoscere e confrontare vari modelli, la conoscenza di contributi teorici che appartengono al passato fino a quelli più innovativi si fondono per dare corpo a una dimensione creativa e personale del procedere psicoanalitico.

In esso, le libere associazioni freudiane, la regola fondamentale, le interpretazioni di trasfert, sono abbandonate in favore del modello più creativo e meno prescrittivo bioniano. Di quest’ultimo è esaltata l’originalità e l’utilità dei cambiamenti che ha apportato nel panorama psicoanalitico. Dalla funzione alfa, attività della mente che si occupa di produrre costantemente immagini per il pensiero onirico della veglia, che a sua volta creeranno gli elementi costitutivi del pensiero e del sogno, di cui la rêverie ci rende consapevoli, si giunge presto a riconoscere la perdita di centralità dell’insight sostituito dalla trasformazione.

Il percorso di rinnovamento psicoanalitico, di cui Ferro si fa testimone con la sua teoria del campo, è fatto di tanti gradini, modelli teorici messi a confronto, conosciuti e poi dimenticati. Più precisamente, l’autore ricorda i contributi kleiniani, winnicottiani, freudiani, bioniani, dei Baranger, di Sullivan, di Donnel Stern, di Marco Conci e Corrao, la narratologia e gli apporti di Ogden e Grotstein che tanto raccomanda per le nuove formazioni. Si tratta di un’evoluzione che vede, inoltre, i suoi pazienti come importanti collaboratori delle variazioni da lui compiute al suo modo di procedere nel corso degli anni.

Cosi, la mia idea del campo è quella del gruppo interno che un paziente porta con sé, nell’incontro con il gruppo interno dell’analista che gli apre la porta dello studio. Non appena queste gruppalità s’incontrano, abbiamo immediatamente una trasformazione, un Big Bang del campo, abitato da tutti questi personaggi (Ferro, 2017, pp.93-94).

Si parte dall’accoglienza del paziente, un sostare doveroso sul contenuto manifesto, in modo che non si senta attaccato, ma compreso e si procede comunque con un’attività esplorativa, verificando le sue reazioni e aspettando di giungere insieme a una comprensione creativa.

È un gioco con questi personaggi che affollano la stanza e riprendendo il contributo di Ogden, si tratta di compiere una “trasformazione in sogno”, ossia costruire insieme narrazioni che possano operare una “decostruzione del sintomo”.

Questa processualità è resa possibile da un sistema di regole condivise da paziente e analista, tra cui il luogo, il ritmo, l’onorario, la condizione di asimmetria di ruoli, sperimentare il piacere del gioco.

L’analisi dovrebbe essere una cosa bella, una cosa divertente, qualcosa che somiglia a un gioco. Dovrebbe essere qualcosa che piace e per la quale uno è disposto a impegnare energie, tempo e soldi, come quando si va a vedere una partita (Ferro, 2017, p.19).

Il tempo a essa riservato, non può essere stabilito priori, ma sarà determinato dalla capacità del paziente di acquisire una dotazione di strumenti per funzionare meglio. D’altronde percorrere mondi sconosciuti e impervi richiede del tempo e a questo scopo, la capacita negativa dell’analista dovrebbe consentire questo procedere lento, impedendogli di sentirsi minacciato.

Ugualmente al paziente, anche l’analista, attraverso l’analisi, contribuisce al personale sviluppo degli strumenti per pensare e alla loro conservazione, a patto che si conceda del tempo in cui s’impegna in altro.

Per concludere, ci troviamo di fronte a un interessante contributo teorico e metodologico che, con toni irriverenti e un’indubbia capacità di sintesi, ci consente direttamente di guardare dentro la stanza d’analisi. Diventa difficile non aderire all’offerta di stimolanti spunti di riflessione sul futuro della psicoanalisi e al tentativo, seppur a tratti radicale, di smuovere con una certa energia le acque del procedere più ortodosso. In esso, i più curiosi potranno carpire gli inconfessati accorgimenti per rifuggire da una carriera professionale dominata della staticità. Una speranza per il futuro di una disciplina in costante trasformazione, che creativa e aperta a una pluralità di modelli, dovrebbe metterli da parte dopo averli conosciuti, riconsiderando che come ricorda Ferro (2017):

[…] forse la vera operazione di guarigione è quella di rendere inconscio quello che è troppo conscio, cioè di trasformare una realtà troppo concreta in una realtà che sia possibile sognare (p.124).

7 passi per mantenere un cervello sano

Secondo una nuova ricerca dell’American Heart Association, uno stile di vita sano aiuterebbe a mantenere il cervello sano e diminuirebbe il rischio di declino cognitivo.

 

Il programma Life’s Simple 7 per prevenire patologie cardiache e il declino cognitivo

Il cuore e il cervello necessitano costantemente di un adeguato afflusso di sangue, ma capita, nel corso della vita, che alcuni vasi sanguigni si restringano lentamente o si blocchino (aterosclerosi) provocando repentini infarti.

Molti fattori di rischio per l’aterosclerosi possono essere prevenuti e regolati attraverso una dieta sana, praticando attività fisica ed evitando di fumare.

La ricerca dimostra in modo convincente che gli stessi fattori di rischio che causano l’aterosclerosi sono anche i principali fattori della comparsa di declino cognitivo o della malattia di Alzheimer. Seguendo sette semplici passi (un programma chiamato Life’s Simple 7), non solo possiamo prevenire l’attacco cardiaco, ma potremmo anche prevenire il verificarsi di deficit cognitivi “, ha affermato il neurologo vascolare Philip Gorelick.

Life’s Simple 7 individua una serie di fattori sanitari sviluppati dall’American Heart Association per definire e promuovere il benessere cardiovascolare e cerebrale. Gli studi dimostrano, infatti, che questi sette fattori possono anche contribuire a promuovere la salute del cervello negli adulti.

Il programma Life’s Simple 7 invita gli individui a:
– controllare la pressione sanguigna
– evitare livelli alti di colesterolo
– mantenere un normale livello di glicemia
– essere fisicamente attivi
– seguire una dieta sana
– perdere peso
– non fumare.

Un cervello sano si definisce in grado di prestare attenzione, ricevere e riconoscere le informazioni dai nostri sensi, impara, ricorda, comunica, risolve i problemi, prende decisioni, regola le emozioni.

Lo studio, pubblicato sulla rivista American Heart Association Stroke, sottolinea l’importanza di adottare misure per prevenire patologie cardiache e cerebrali.

Gli studi in corso stanno cercando di individuare come uno stile di vita sano possa influire sulla salute del nostro cervello“, ha detto Gorelick. Sebbene sia necessaria una maggiore ricerca, ha detto, “la prospettiva è promettente“.

Secondo recenti evidenze gli stessi fattori di rischio per l’ictus – cui si fa riferimento in Life’s Simple 7 – sono anche fattori di rischio per l’Alzheimer e plausibilmente anche per altri disturbi neurodegenerativi “, ha dichiarato Gorelick.

I principi di prevenzione di Life’s Simple 7 sono stati formulati a seguito di una meta-analisi di molteplici ricerche scientifiche, esaminando 182 studi scientifici che hanno indagato questo tema.

Feccia (2017) di Paul Williams – Recensione del libro

Feccia (titolo originale “Scum”) di Paul Williams dà vita e forma alle parole, ai pensieri, alle emozioni e alle visioni di un adolescente costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, in un contesto familiare minaccioso e indecifrabile.

 

Chiederesti mai a una volpe ferita che effetto fa essere schiacciati dalle ruote di un tir?
Ossa rotte occhi offuscati sangue che cola dal muso bile asfalto raccontano tutto.

(tratto da “Feccia” di Paul Williams, p. 32)

 

Secondo di tre romanzi autobiografici che andranno a comporre una trilogia centrata sulle descrizione degli effetti psichici della trascuratezza e dell’ abuso infantile, Feccia (titolo originale “Scum”) di Paul Williams dà vita e forma alle parole, ai pensieri, alle emozioni e alle visioni di un adolescente costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, in un contesto familiare minaccioso e indecifrabile.

Il racconto prosegue dalla fine del primo volume Il quinto principio, che descrive invece l’infanzia di Paul, e ci porta ad esplorare la sua vita di adolescente che deve far fronte ad un’età già difficile e ingrata, come sempre l‘adolescenza è, in circostanze decisamente catastrofiche.

Il linguaggio scelto è la chiave emotiva del racconto: un flusso di coscienza, senza punteggiatura e spesso senza soggetto, che ben rappresenta lo sguardo di Paul verso il mondo, carico di confusione, stupore, terrore, spaesamento e impossibilità di dare un senso alle più semplici esperienze quotidiane.

A che servono madri e padri? A che serve un bambino? Cosa è un pasto caldo? Quando si può dormire? Che ci fa tutta quella gente allineata in un’aula? Cosa è l’inchiostro? Chi è Annibale? Cosa vuol dire automobile? Cosa vuol dire casa? Chi vive nel Bosco? Domande semplici, risposte impossibili.

Feccia di Paul Williams: tra trauma e dissociazione

Il mondo del trauma è un mondo arbitrario, niente è come dovrebbe essere: chi dovrebbe proteggere minaccia, chi dovrebbe insegnare punisce, chi dovrebbe giocare attacca, chi dovrebbe prendersi cura deride e abbandona. La paura allora diventa una “bussola interna” che tiene pronti a fuggire, a sottomettersi ai più forti, a diventare invisibili o a distaccarsi dal corpo quando il dolore è troppo. Il Paul adolescente protagonista di Feccia non conosce le principali reazioni della mente di fronte a pericoli mortali (attacco, fuga, freeze, svenimento), ma lo stesso riesce a descriverle così come le sente arrivare nel suo corpo e nella sua mente, offrendo direttamente a chi legge il suo vissuto traumatico e lo scenario frammentato della realtà che riesce solo a tratti a ricomporre.

Nella vita di Paul sono proprio le sue principali figure di attaccamento – i genitori – ad essere traumatizzanti e dunque il bambino, e poi l’adolescente, non può da solo fronteggiare la paura e l’angoscia, ma ne viene sopraffatto vivendo continuamente emozioni dirompenti di terrore e impotenza. Paul tuttavia non può che continuare a dipendere dalla sua famiglia, la stessa che lo espone ripetutamente al pericolo, ed è di fronte a questo paradosso che la mente inizia ad aver bisogno di soluzioni emotive più estreme, come la dissociazione, per sopravvivere. Il disprezzo di sé, il senso di inadeguatezza, la colpa di essere profondamente sbagliati diventano allora credenze interiorizzate negative che aiutano almeno in parte a dare un senso al rifiuto delle “persone chiamate genitori”. In questo passaggio le sue parole descrivono la nascita di queste credenze disfunzionali:

Unico stratagemma a cui ricorrere in caso di emergenza attribuire a lui la colpa

di quello che non era andato nella vita di sua madre cioè ogni cosa il tarlo si era insinuato in lui

quando l’uomo chiamato padre aveva cominciato a fiancheggiare le aggressioni di lei

disprezzo derisione verità diabolica. L’uomo chiamato padre sapeva che un bambino aggredito

cerca qualcuno che lo consoli e non può tollerare di non trovarlo… (p. 84)

L’identità si divide allora tra più rappresentazioni, o parti di sé o stati dell’Io, che sono tra loro inconciliabili: da un lato il bambino spaventato e vittima degli abusi, dall’altro il bambino sbagliato che merita il disprezzo e le percosse, e infine il bambino arrabbiato che sfoga, seppur raramente, un odio narcisistico violento nel tentativo di liberarsi dall’alienazione.

Il risultato per chi osserva è uno stile di relazione “bizzarro” e “strano”, fatto di reazioni opposte e imprevedibili che si delineano in quello che viene definito “attaccamento disorganizzato”, ovvero condizionato da una costante paura e sfiducia verso gli altri.

Queste parti emergono nel racconto di Paul WilliamsFeccia, come voci, allucinazioni o figure interne immaginarie che talora minacciano e talora incoraggiano aiutandolo a mettersi al sicuro e a scegliere per il suo futuro.

La traiettoria evolutiva descritta da Paul Williams in Feccia nella storia di Paul è la storia di molte persone che hanno vissuto nella loro infanzia abusi, maltrattamenti e grave trascuratezza e che sono state costrette a fronteggiare emozioni intollerabili, restando vive e costruendo con coraggio mondi possibili in alternativa alla realtà del trauma.

La dissociazione traumatica genera inizialmente una profonda frammentazione della coscienza e una perdita del senso di sé e del mondo, che determina sintomi dissociativi e psicotici: confusione, allucinazioni, amnesia, derealizzazione, sconcerto, depersonalizzazione, comportamenti esplosivi e un’alterata percezione del rischio che rende impossibile proteggersi dal pericolo. Tuttavia questa apparente disorganizzazione della mente è necessaria alla sopravvivenza emotiva e indispensabile a tenere il dolore, la vergogna, l’umiliazione e l’impotenza chiusi tra le mura psichiche create dai sintomi dissociativi. A volte queste mura crollano inondando la mente di terrore, ma altre volte permettono di respirare un po’, di guardarsi intorno, di concedersi qualche esplorazione solitaria e magari di cogliere, come sarà per Paul, l’aiuto di chi si accorge della sua sofferenza e gli offre un luogo finalmente sicuro che cambierà per sempre la sua traiettoria di vita.

Oncologia pediatrica: il lavoro dei volontari per il sostegno delle famiglie

Il presente contributo intende analizzare l’impatto della malattia sul bambino, sui vissuti legati all’ospedalizzazione, gli atteggiamenti regressivi e le possibili risposte emotive che un bambino può sviluppare a seguito della diagnosi o durante le fasi di una patologia organica grave.

Sofia Tavella, Chiara Granato, Michela Liberatoscioli, Beatrice Plini, Fabiana Prota, Giovanna Tedeschi

 

L’insorgere di essa può comportare nella vita di un bambino una serie di cambiamenti sia a livello psicofisico che relazionale, incidendo sulle sue dimensioni più intime e personali, limitando autonomia e indipendenza dalle figure di riferimento primarie. Bisogna considerare che in seguito a una diagnosi di cancro potrebbe emergere una profonda disorganizzazione con l’uso di meccanismi e strategie di difesa quali la negazione, l’isolamento, la proiezione, la regressione, ecc. che potrebbero portare il soggetto a sviluppare psicopatologie come: alterazioni dell’immagine corporea, sintomi depressivi, somatizzazioni, isolamento e disagio sociale che possono legarsi al trattamento (Moore et al., 2003), ma anche difficoltà affettive, comportamentali, scolastiche (Meyer et Kieran, 2002) e il PTSD, disturbo da stress post-traumatico (Roy et Russell, 2000).

Inoltre, anche se alle volte è curabile, nell’immaginario comune si tratta di una malattia direttamente collegata alla morte ed è compito dello psicologo riconoscere la presenza di eventuali disturbi o delle angosce di morte che il bambino malato potrebbe sviluppare. Le angosce di morte (Derealizzazione, Depersonalizzazione e Destrutturazione) portano il bambino a interrogarsi sul proprio futuro, a perdere la motivazione a vivere, a non riconoscersi più nel proprio ruolo e ad identificarsi differente dalla condizione iniziale di salute; crollano così i miti dell’eterna giovinezza e dell’eterna salute (Crocetti, 2012). Poiché il disagio psicologico aumenta la percezione del dolore (Riva, 2013), riducendo le angosce di morte che spesso accompagnano il paziente oncologico vi è anche un decremento del dolore fisico (Mangani, 2015).

Il dolore fisico è correlato anche ai modelli che il bambino ha appreso dalle figure di riferimento, a fattori sociali e alle credenze che gli adulti possono avere sulla percezione del dolore del bambino e il suo modo di affrontarlo (Ross e Ross, 1984; McGrath e McAlpine, 1993; Capoleoni 2000). Le figure di accudimento possono inoltre incrementare la paura per le procedure mediche, la difficoltà ad adattarsi, a fronteggiare la malattia e il dolore provato (McGrath, 1995).

Tra i pazienti oncologici sono state rilevate diverse strategie di coping nell’affrontare lo stress legato alla malattia neoplastica. Le principali strategie individuate da Burgess (1988) sono: Hopelessness/helplessness, lo spirito combattivo, l’accettazione stoica, la negazione/evitamento e il coping religioso.

La tendenza a percepire gli eventi esterni come ineluttabili e legati al destino, external locus of control, tende a favorire modalità disadattive alla malattia, mentre la tendenza a percepire gli eventi come controllabili, internal locus of control, facilita modalità più adattive (Grassi et al, 2003).

Per comprendere i vissuti di un bambino ricoverato in un reparto di oncologia pediatrica è necessario porsi determinate domande: come spiegare la patologia al bambino? Quali potrebbero essere le conseguenze psicosociali derivanti dall’ospedalizzazione? Com’è opportuno gestire l’impatto del cambiamento fisico e ambientale sia sul bambino che nel contesto familiare?

Tramite il progetto “Al servizio dei bambini“, fondato dall’associazione Alma Salus nel 2007, è stato possibile assistere bambini con patologie temporaneamente o permanentemente invalidanti, o in fase terminale della malattia.

Noa è un bambino di 9 anni che ha iniziato un lungo e intenso percorso legato alla diagnosi di carcinoma renale bilaterale; è stato sottoposto ad un intervento di asportazione chirurgica di un rene, continuando parallelamente sia le terapie chemioterapiche ogni ventuno giorni, con l’intento di diminuire le dimensioni del carcinoma, sia i relativi controlli per monitorare l’andamento delle cellule tumorali.

Oltre ai ricoveri legati alle terapie, Noa torna in ospedale con frequenza variabile a causa degli episodi di aplasia che lo costringono a non uscire dalla stanza e quindi ad una limitazione sociale e ambientale. Appare un bambino timido e introspettivo, con cui è difficile entrare in relazione sia a livello verbale che visivo, soprattutto in presenza dei genitori. Tuttavia, con la costante ricerca della sua partecipazione è stata notata una differenza sostanziale nell’interazione e nelle attività ludiche che avvengono al di fuori della stanza, in presenza di altri bambini, in un luogo probabilmente percepito come più adeguato alla sua età.

Da quanto riferito dai genitori, Noa sa di avere due “palline” sul rene, una delle quali è stata tolta. Nonostante sia solo un bambino di nove anni, la curiosità di sapere cosa deve affrontare, non è mai venuta a mancare, arrivando a chiedere anche spiegazioni per iscritto ai dottori. L’intervento e gli effetti collaterali della chemioterapia hanno inciso in maniera evidente sul vissuto emozionale del bambino, portandolo ad un rifiuto del contatto fisico anche con gli stessi genitori, soprattutto nelle zone coinvolte dall’intervento. Queste ed altre conseguenze, vanno ad aumentare il senso d’impotenza dei genitori ed in particolar modo della madre, che per prima avverte il distacco del figlio, sentendo la costante necessità di “controllare” o ” percepire” il dolore e i bisogni.

Il caso di Noa ci aiuta meglio a comprendere come sia importante considerare la soggettività di ogni situazione data, dalla storia, dall’emotività e dal livello evolutivo di ciascuno. Queste caratteristiche vanno considerate in ogni fase della malattia, fin dal suo esordio. L’angoscia, che inevitabilmente accompagna ogni percorso di malattia, può venire espressa, celata, affrontata o negata, in modi differenti. L’esperienza di ammalarsi gravemente comporta comunque per un soggetto in crescita carichi emotivi eccessivi per l’età; questo se da un lato spinge ad un adeguamento troppo precoce al mondo adulto, dall’altro impone situazioni di dipendenza che rallentano lo sviluppo. Può, inoltre, venire compromesso l’equilibrio all’interno del nucleo familiare, con alterazioni delle dinamiche esistenti.

Al fine di evitare queste ed altre compromissioni, al fianco delle figure professionali che si occupano della malattia in senso clinico, è importante che operino persone qualificate che si prendano cura del bambino e di tutta la sua famiglia a livello psicologico ed emotivo, ricordando sempre che un paziente ricoverato in oncologia pediatrica è sempre un bambino e, in quanto tale, necessita di attività ludiche, di interazioni sociali, di accudimento, ecc.

Avvicinarsi ad una realtà ospedaliera e al progetto “Al servizio dei bambini” significa dunque intervenire in un contesto dove spesso la malattia diviene l’unica protagonista.

Marsha Linehan e la DBT – Introduzione alla Psicologia

Marsha Linehan è professore di psicologia, psichiatria e scienze del comportamento all’Università di Washington. E’ specialista nel trattamento del disturbo di personalità Borderline per il quale ha ideato un approccio terapeutico, la terapia Dialettico comportamentale (DBT) che, risulta essere uno dei trattamenti di elezione per pazienti affetti da tale patologia.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Marsha Linehan è direttrice di diverse cliniche di ricerca e terapia comportamentale e fondatrice di due organizzazioni dedicate alla diffusione del suo trattamento DBT: Behavioral Tech, LLC e The Linehan Institute.

Inoltre, è autrice di numerosi libri e studi scientifici, ha ricevuto molti riconoscimenti e il suo trattamento è considerato il precursore per il Disturbo della Personalità Borderline e dei comportamenti auto-lesivi.

La storia di Marsha Linehan

Marsha Linehan nacque a Tulsa, in Oklahoma il 5 maggio del 1943, terza di sei figli, studentessa eccellente e abile suonatrice di pianoforte. Durante l’adolescenza, esattamente a 17 anni le venne diagnosticato un disturbo schizofrenico. Marsha Linehan frequentemente bruciava i polsi con le sigarette, si taglia le braccia e le gambe utilizzando oggetti taglienti, e per questo, classificarono questi comportamenti come tipici di una grave malattia mentale, poichè all’epoca non era ancora noto il Disturbo Borderline di Personalità.

Trascorse molto tempo in un Istituto psichiatrico dove occupava l’area di isolamento, zona dedicata a pazienti molto gravi.
In quella stanza d’isolamento Marsha Linehan, giurò a se stessa che si sarebbe liberata dall’inferno in cui si trovava e che avrebbe aiutato gli altri a uscire da questa condizione.

Marsha Linehan afferma: “Mi sentivo completamente vuota in quel periodo, come l’uomo di latta; non riuscivo a comunicare cosa stava succedendo in me, e non c’era nessun modo per farlo capire“. Proprio in questo istituto, iniziò a comprendere di essere in grado di prendersi cura di altre persone, e notò di riuscire molto bene in questo.

Nel 1967, diversi anni dopo aver lasciato l’istituto psichiatrico, Marsha Linehan, si trasferì a Chicago e iniziò a lavorare per una compagnia assicurativa, mentre di notte si dedicava agli studi di psicologia. In questo periodo, divenne una credente – praticante e, successivamente, proprio la fede l’aiutò a prendersi cura di se stessa senza più infliggersi dolore fisico. Gli anni di studio in psicologia le diedero la possibilità di capire cosa le stava accadendo a livello emotivo e, per questo, decise di intraprendere un lungo processo di accettazione della sofferenza legata alla sua condizione.

Marsha Linehan, dopo aver conseguito la laurea, ottenne un dottorato in psicologia, e contemporaneamente lavorava con persone disagiate e emotivamente disperate che consideravano il suicidio la risposta alla loro miseria e dolore.

Ella intuì che prima di poter cambiare qualsiasi tipo di comportamento era necessario accettare la sofferenza, solo a quel punto si poteva cambiare. Così, intraprese un lungo processo di comprensione volto a individuare come unire due principi apparentemente opposti: l’accettazione della vita esattamente com’è e la necessità di cambiare apprendendo nuove modalità cognitive e comportamentali.
Lo scopo era, però, capire se questo approccio potesse funzionare in generale anche con un certo tipo di pazienti; per questo era necessario testare questo approccio su gruppi particolari di pazienti, come persone ad alto rischio suicidario e coloro che erano affetti da disturbo borderline di personalità, noti per essere a rischio di suicidio oltre che per presentare una forte disregolazione emotiva.

Nel 1980 Marsha Linehan chiese all’Istituto Nazionale di Salute Mentale americano di poter condurre un trial clinico per verificare l’efficacia del suo trattamento.
I dati derivanti dalla sperimentazione confermarono che l’approccio utilizzato dalla Linehan, fondato sulla dialettica tra strategie di cambiamento cognitivo-comportamentale e concetti filosofici orientali, come l’accettazione e la mindfulness, aveva successo nel trattamento del paziente difficile.

Quindi, applicando questo modello, si potevano ottenere miglioramenti sugli aspetti emotivi e comportamentali dei pazienti difficili (Linehan, Armostrong, Suarez, Allmon, Heard, 1991; Linehan, Heard Armostrong, 1993; Leichsenring, Leibing, Kruse, New & Leweke, 2011).
Marsha Linehan, definì questo nuovo approccio terapeutico Dialectical Behavior Therapy, DBT (Linehan, Comtois, Murray, Brown, Gallop, et al. 2006)

Il trattamento DBT prevede la combinazione di psicoterapia individuale, skills training di gruppo e un team specifico di consultazione terapeutica, che può includere, oltre ai terapisti individuali e di gruppo anche un medico psichiatra.

Nascita ed evoluzione della terapia dialettico – comportamentale

La DBT rappresenta il trattamento d’elezione evidence-based (basato su prove scientifiche di efficacia) per il Disturbo Borderline di Personalità e, pur fondandosi sugli assunti e sulle strategie cognitivo-comportamentali, è caratterizzato da elementi unici e specificatamente rivolti alla disregolazione emotiva e al trattamento di comportamenti impulsivi e autolesivi.

La DBT integra i principi della mindfulness, principi di behaviorismo e di terapia cognitivo-comportamentale. Per definire la sintesi di queste diverse correnti teoriche fu utilizzato il termine “dialettica”, riferendosi, anche, al concetto filosofico sottostante e alle continue tensioni dialettiche tra la psicologia occidentale e la pratica orientale che guidano l’evoluzione di tale modello con la psicoterapia (Arkowitz, 1989, Arkowitz, 1992, Prochaska & Diclemente, 2005, Ryle, 2005; Norcross & Goldfried, 2005).

Con il termine dialettica si vuole far emergere l’interrelazione e l’unitarietà della realtà, poiché non limitata all’analisi delle singole parti di un sistema, ma a specifici contesti in cui si esplica il comportamento dei singoli e dei singoli nel gruppo.
Quindi, la realtà non è concepita come statica, ma composta da forze interne opposte (tesi e antitesi) in continua evoluzione, e la cui sintesi genera una nuova tensione tra forze opposte. In tal senso, i pattern di pensiero e di comportamento dei pazienti sono considerati come dei fallimenti dialettici, poiché la persona è bloccata su polarità estreme e fatica a muoversi dinamicamente verso una sintesi. La realtà, dunque, è fondata sul cambiamento e sul processo, l’individuo e l’ambiente sono in costante mutamento.

La terapia DBT

La terapia DBT non è mirata al mantenimento della stabilità in un contesto coerente, ma tende a promuovere l’apprendimento di competenze atte a gestire il cambiamento.

La DBT lavora sui comportamenti disfunzionali o disadattivi (comportamenti suicidari e parasuicidari, impulsivi e disfunzionali) che impattano sulla vita della persona affetta da disturbo borderline della personalità. Lo scopo è modificare questi comportamenti acquisendone nuovi o apprendendo ad utilizzare comportamenti alternativi e funzionali. Quindi, attraverso il miglioramento della gestione dei comportamenti disfunzionali, della regolazione emotiva e della validazione della sofferenza, che spesso accompagna gli individui con disturbo borderline, è possibile costruire uno vita “degna di essere vissuta”, per citare un’espressione della stessa Marsha Linehan.

L’intero trattamento DBT sottolinea la costruzione e il mantenimento di una relazione tra paziente e terapeuta in cui la validazione dei pensieri, dei sentimenti, delle emozioni e dei comportamenti del paziente è fondamentale.

Il trattamento consiste in una co-terapia, in cui diversi terapeuti interagiscono verso un obiettivo comune. Il terapeuta individuale, i terapisti conduttori dello skills training di gruppo, a volte anche lo psichiatra. Il modello DBT prevede generalmente una seduta di psicoterapia individuale alla settimana e una seduta settimanale di skills-training di gruppo della durata di circa un’ora e mezza o due ore.

Lo skill-training assume una rilevanza fondamentale nella DBT, poiché è volto a colmare deficit nelle abilità di autoregolazione delle emozioni, dei comportamenti e delle relazioni interpersonali.

Lo skill-training consta di quattro moduli di apprendimento, acquisizione e generalizzazione di specifiche abilità.
Il primo modulo fa riferimento alle abilità nucleari di mindfulness, che consentono di osservare in modo consapevole se stessi e gli altri intorno a sè, nel momento presente, sospendendo il giudizio. Le abilità di mindfulness si suddividono a loro volta in tre abilità di contenuto che fanno riferimento all’oggetto dell’attività mentale (osservare, descrivere, partecipare) e tre abilità formali, relative invece alla modalità con cui tali processi mentali prendono forma (assumere un atteggiamento non giudicante, concentrarsi su una sola cosa alla volta, essere efficaci).

Nel secondo modulo si parla di abilità di regolazione emotiva, e consiste nell’allenare il riconoscimento e la regolazione delle emozioni nelle loro diverse componenti. Durante il modulo si lavora sull’appropriazione, miglioramento e generalizzazione delle abilità di regolazione delle emozioni.

Un terzo modulo riguarda le abilità di efficacia interpersonale mirate all’apprendimento di strategie utili per gestire le relazioni interpersonali. Durante il modulo si trattano diverse aree che riguardano la capacità di analisi delle situazioni interpersonali, la chiarificazione dei propri obiettivi, le abilità da utilizzare per raggiungere i propri obiettivi mantenendo il rispetto di sé e non deteriorando in maniera maladattiva la relazione.

L’ultimo e quarto modulo fa riferimento alle abilità di tolleranza della sofferenza mentale, utili quando il paziente è in uno stato di intensa disregolazione emotiva e comportamentale. L’intensità delle emozioni esperite è molto elevata, ed è proprio in questa fase che il soggetto può attuare agiti e condotte altamente disadattive e autolesive. Le abilità che caratterizzano questo modulo portano a riuscire a gestire e a tollerare in maniera più adattiva l’angoscia e l’attivazione emotiva allo scopo di prevenire i comportamenti disfunzionali.

Ogni modulo dello skill training è composto da 8 incontri e, generalmente, gli incontri si svolgono in gruppo di circa 6-10 partecipanti, con la presenza di due terapeuti, uno con ruolo principale di conduttore, l’altro con ruolo di co-conduttore, e aventi ciascuno specifici ruoli e funzioni.

Efficacia della DBT

Sono state realizzate diverse ricerche che hanno mostrato l’efficacia della DBT nella riduzione dei comportamenti disfunzionali nel Disturbo Borderline di Personalità, nel trattamento della disregolazione emotiva, ma anche per altri disturbi psichici. Nonostante la DBT presupponga un intervento integrato, recenti evidenze (Linehan et al., 2006; Neacsiu,  Rizvi,   Linehan, 2010; Linehan et al., 2015) hanno sottolineato l’efficacia dello skills training come una modalità di intervento a sé che è risultata efficace per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, soprattutto in termini di riduzione dei tentativi di suicidio, dei sintomi depressivi e dei comportamenti a rischio, e in termini di miglioramento della capacità di regolazione della rabbia, aumentando il benessere percepito e i comportamenti prosociali. Quindi, la letteratura scientifica e le evidenze cliniche suggeriscono come la DBT e lo skill training possano rappresentare degli strumenti di elezione per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità e, in generale, dei problemi associati alla disregolazione emotiva e al controllo degli impulsi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Non dormi a causa dello stress? La soluzione è in quello che mangi

Una ricerca del “International Institute for Integrative Sleep Medicine”, presso l’università di Tsukuba, ha dimostrato l’efficacia dell’octacosanolo nel ridurre lo stress e ripristinare il ciclo sonno-veglia.

 

Chi di noi quando è sotto stress non ne risente anche nella qualità del sonno? Nella società odierna si assiste ad una vita caratterizzata da un estremo dinamismo con continue richieste da soddisfare e ciò comporta una condizione di stress che, se perdura a lungo, può generare effetti deleteri sull’intero organismo. Tra le varie conseguenze derivanti dallo stress si riscontrano la perdita di sonno e la difficoltà di addormentarsi (Mesquita & Reimao, 2010; Pawlyk, Morrison, Ross, & Brennan, 2008), che a loro volta contribuiscono all’insorgenza di malattie cardiovascolari, depressione, ansia, obesità, ecc.

L’ octacosanolo come terapia per l’insonnia

A differenza degli effetti collaterali dei sonniferi, una ricerca del “International Institute for Integrative Sleep Medicine”, presso l’università di Tsukuba, ha dimostrato l’efficacia dell’octacosanolo nel ridurre lo stress e ripristinare il ciclo sonno – veglia. L’octacosanolo è una sostanza presente in diversi cibi (zucchero di canna, crusca di riso, olio di germe di grano, cera d’api, ecc.) che presiedono allo svolgimento di attività e funzioni biologiche, visto che ha effetto sul sistema nervoso centrale. Il suo estratto è il policosanolo, che è già stato utilizzato in passato per la cura di diverse patologie mediche.

Gli autori della ricerca hanno indagato l’effetto dell’octacosanolo su topi stressati e deprivati del sonno confrontandoli con topi sani.
I risultati hanno mostrato che tale sostanza non induceva il sonno nei topi sani ma in quelli stressati, riducendo la durata degli episodi di veglia. In più essa produceva un decremento dei livelli di un marker fortemente stressogeno (Andersen et al., 2005; Hairston et al., 2001; Dispersyn et al., 2017) nel plasma sanguigno: il corticostereone. Come previsto, anche la qualità del sonno dei topi risultava normalizzata; infatti, essi presentavano un sonno simile a quello naturale e fisiologico.

Alla luce di ciò, si può concludere che l’octacosanolo potrebbe essere utilizzato come terapia dell’insonnia causata dallo stress anche per gli esseri umani, poiché si tratta si una sostanza che è presente in cibi commestibili e che è utile al metabolismo lipidico e all’abbassamento del colesterolo.

Studi futuri dovrebbero confermare negli umani gli effetti sopra citati per gli animali, individuando non solo l’area cerebrale in cui l’octacosanolo agisce ma anche il meccanismo attraverso il quale consente di abbassare i livelli di stress.

EMDR: un metodo per rielaborare ricordi traumatici e perdite dolorose

L’ EMDR, attraverso i movimenti oculari, attiva il processo di rielaborazione dell’informazione traumatica e trasforma il materiale traumatico in una forma più adattiva e funzionale.

Marianna Palermo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Quando una persona vive un trauma psicologico, avviene uno squilibrio nel sistema nervoso e ciò fa sì che l’informazione acquisita al momento del trauma, comprese le immagini, i suoni, le sensazioni fisiche, vengano conservati a livello neurologico in uno stato disturbante.

L’ EMDR, invece, con i movimenti oculari, innesca un meccanismo che riattiva l’elaborazione dell’informazione e questo consente di raggiungere una sorta di autoguarigione psicologica. A seguito di una terapia di EMDR, infatti, i terapeuti affermano che le immagini, le emozioni e le cognizioni negative risultano più sfocate e meno disturbanti.

Per indicare il percorso effettuato con l’ EMDR si utilizza spesso la metafora del treno: “durante l’elaborazione accelerata, che ha luogo a ogni set, il treno procede verso l’altra stazione lungo la linea. A ogni plateau, o fermata, alcune informazioni disfunzionali vengono scaricate e altre informazioni adattive si aggiungono, proprio come i passeggeri che scendono a ogni fermata mentre altri salgono. Alla fine di una seduta di EMDR l’informazione target è completamente elaborata e il paziente raggiunge una risoluzione adattiva” (Shapiro, 2000). L’ EMDR, dunque, attraverso i movimenti oculari, attiva il processo di rielaborazione dell’informazione traumatica e trasforma il materiale traumatico in una forma più adattiva e funzionale.

Gli elementi di cui si compone una terapia con EMDR

Per poter avviare una terapia con EMDR è necessario innanzitutto individuare un target, che dovrebbe essere rappresentato da ricordi del passato, eventi recenti che attivano il disagio attuale ed eventi futuri associati al disagio attuale. È necessario, quindi, generalmente, procedere in senso cronologico partendo dai ricordi disturbanti del passato, procedendo con quelli del presente e anticipando quelli del futuro.

Una volta individuato il ricordo da cui partire, si chiede di individuare l’immagine peggiore dell’evento.

Si procede con l’individuazione della cognizione negativa che la persona ha sviluppato su di sé in relazione a tale ricordo; le cognizioni negative maggiormente riportate dai pazienti sono: non valgo, sono sbagliato, sono incapace, sono cattivo, non vado bene.. Identificare una corretta cognizione negativa è fondamentale in quanto l’ EMDR trasforma solo il materiale realmente inadeguato e disfunzionale, mentre quello veritiero non viene modificato (ad es. nel caso di una vittima di stupro la cognizione negativa “ero impotente” è probabilmente corretta in relazione all’evento, mentre la cognizione “sono impotente” può essere ristrutturata attraverso l’ EMDR in quanto non risulta più adeguata nel momento presente). La cognizione negativa, dunque, deve riferirsi a se stessi ed essere sostenuta nel presente.

A questo punto, viene identificata la cognizione positiva, ossia ciò che alla persona piacerebbe pensare di se stessa ripensando a quell’evento. Questa cognizione viene poi valutata sulla scala VOC a 7 punti, dove 1 significa “completamente falso” e 7 “completamente vero”. Identificare una cognizione positiva significa definire una visione alternativa del trauma.

Successivamente, vengono individuate le emozioni che la persona prova in questo momento ripensando all’ evento traumatico. L’intensità delle emozioni viene poi valutata sulla scala SUD, in cui 0 significa “nessun disturbo” e 10 “massimo disturbo”.

Infine, vengono chieste alla persona le sensazioni fisiche che sente nel corpo quando ripensa all’evento.

L’elaborazione dell’informazione traumatica con i movimenti oculari

Dopo aver definito i precedenti elementi in relazione al ricordo traumatico, si procede con i movimenti oculari, la cui distanza, velocità e direzione vengono adeguate al paziente. Ogni set generalmente consta dai 24 ai 36 movimenti bidirezionali; dunque, anche la durata di ogni set viene definita in base alla persona e a come risponde a questa fase di elaborazione. Dopo ogni set, si chiede al paziente un feedback per valutare le nuove informazioni, pensieri, immagini o emozioni che sono insorti durante il set.

Se l’elaborazione genera un’attivazione eccessiva, si può procedere con i movimenti verticali che hanno un effetto calmante. Anche nel caso in cui l’elaborazione risulti bloccata si può procedere variando la direzione dei movimenti, anche in direzione circolare o a forma di otto.

Se il paziente non tollera i movimenti oculari si può ricorrere a forme alternative di stimolazioni, tra cui i tamburellamenti sulle mani o gli stimoli uditivi alternati.

Le fasi del trattamento con l’ EMDR

La terapia con EMDR si compone di 8 fasi.

La prima fase consiste in un’approfondita anamnesi del paziente e nella definizione di un piano terapeutico. È opportuno verificare l’idoneità del paziente ad una terapia con EMDR, la stabilità personale, le risorse possedute. Se sono presenti impedimenti lavorativi o familiari che potrebbero ostacolare la continuità del percorso terapeutico sarebbe opportuno rinviare l’inizio dell’ EMDR.

La seconda fase è quella della preparazione del paziente al trattamento, durante la quale vengono spiegate la teoria e la procedura dell’ EMDR e i possibili disturbi che potrebbero insorgere sia durante l’elaborazione sia tra una seduta e l’altra. In questa fase è opportuno anche individuare delle tecniche di rilassamento che potrebbero essere efficaci in caso di eccessiva attivazione durante l’elaborazione.

La terza fase consiste nell’assessment e nella definizione degli elementi citati precedentemente (ricordo target, immagine peggiore, cognizione negativa, cognizione positiva, emozioni e sensazioni fisiche).

La quarta fase è quella relativa alla desensibilizzazione che avviene tramite i set di movimenti oculari e che si conclude solo quando il livello di SUD si riduce a 0.

La quinta è la fase dell’installazione e consiste nella ristrutturazione cognitiva e nell’installazione della cognizione positiva in relazione a tale evento traumatico. Si continua con i set per rafforzare la cognizione positiva finchè si raggiunge un punteggio di 7 sulla scala VOC.

La sesta fase consiste nella scansione corporea durante la quale si valuta se sono ancora presenti sensazioni corporee ripensando all’evento.

La penultima fase, ossia quella della chiusura, ha lo scopo di verificare lo stato di equilibrio del paziente e viene richiesto di compilare un diario in settimana nel caso in cui emergessero pensieri, sogni, immagini che potrebbero essere associati all’evento elaborato.

L’ultima fase viene effettuata la settimana successiva e consiste nella rivalutazione per verificare se in settimana sono insorti nuovi disturbi, emozioni o immagini disturbanti legati al ricordo iniziale.

La creazione del posto al sicuro

Prima di procedere con l’elaborazione di materiale traumatico, viene installato nel paziente il posto al sicuro, ossia si individua un luogo in cui la persona ha sperimentato una sensazione di benessere e di rilassamento. L’installazione di questo luogo può rappresentare un aiuto per ridurre l’attivazione emotiva nel caso di una seduta di elaborazione incompleta o per gestire eventuali disturbi che potrebbero insorgere tra una seduta e l’altra.

Anche l’installazione del posto al sicuro prevede 8 fasi:

  • Fase 1: il paziente identifica l’immagine di un posto al sicuro che gli genera una sensazione di calma e sicurezza.
  • Fase 2: si chiede al paziente di focalizzarsi sull’immagine e di percepire le emozioni e le sensazioni provate e dove queste sono localizzate.
  • Fase 3: il terapeuta ripete l’immagine del posto al sicuro e le emozioni che suscita nel paziente mentre quest’ultimo tiene gli occhi chiusi.
  • Fase 4: mentre il paziente richiama l’immagine e le sensazioni che prova si procede con alcuni set di movimenti oculari.
  • Fase 5: al paziente viene chiesto di identificare una parola chiave che possa evocare l’immagine e si procede con i movimenti oculari mentre il paziente lega l’immagine alla parola chiave.
  • Fase 6: il paziente viene istruito ad evocare automaticamente l’immagine e le sensazioni positive esperite.
  • Fase 7: il terapeuta potrebbe chiedere al paziente di pensare a qualcosa di minimamente disturbante, di notare le sensazioni negative provate e di riportare alla mente il luogo al sicuro per rimuovere le sensazioni negative.
  • Fase 8: il terapeuta chiede di riportare di nuovo alla mente un pensiero disturbante e di svolgere in autonomia l’esercizio precedente.

L’ EMDR nell’elaborazione del lutto

La perdita di una persona cara può essere considerata un’ esperienza traumatica. Sebbene l’essere umano sia predisposto a superare il dolore di una perdita, in alcune circostanze il processo di adattamento può bloccarsi e non consentire l’integrazione dell’evento luttuoso nella memoria (Shapiro, 2000).

L’elaborazione del lutto avviene principalmente attraverso 3 fasi: la prima è quella dell’evitamento, in cui il dolore è talmente forte che la persona è incapace di comprendere ciò che è successo e tende a negare l’evento; la seconda è la fase del confronto emotivo, in cui ci si confronta con la perdita e gradualmente se ne apprende l’impatto; l’ultima fase è quella dell’accomodamento, che prevede un adattamento alla nuova realtà senza dimenticare l’evento vissuto (Solomon, 2015).

Si parla di lutto complesso se emerge una compromissione o un mancato completamento di una delle fasi dell’ elaborazione del lutto. Solitamente quando manca una completa elaborazione dell’evento emergono due comportamenti caratteristici, che sono l’ evitamento di situazioni o aspetti legati alla perdita o l’aggrapparsi alla persona perduta senza lasciarla andare.

Le componenti alle quali l’ EMDR presta maggiore attenzione e che divengono oggetto di elaborazione durante il processo di desensibilizzazione attraverso i movimenti oculari sono appunto le emozioni, le sensazioni fisiche e le cognizioni associate all’evento luttuoso.

Le emozioni frequentemente esperite quando si vive un lutto sono la tristezza, la rabbia per aver perso la persona cara, la colpa se si teme di essere in parte responsabili della morte dell’altro o di non aver fatto abbastanza per salvarlo, l’ansia legata al timore di poter morire e l’impotenza.

Le sensazioni fisiche maggiormente associate al ricordo di un lutto possono essere: il vuoto allo stomaco, la stretta nel petto, la stretta alla gola, l’affanno, i muscoli indeboliti, la mancanza di energia o la bocca secca.

Le cognizioni frequentemente riscontrate in chi ha vissuto una perdita si riferiscono all’incredulità, alla confusione, alla sensazione di sentire la presenza della persona deceduta oppure possono comparire esperienze allucinatorie o illusorie.

Vi sono alcuni fattori che possono complicare l’ elaborazione di un lutto, che riguardano la modalità di decesso (morte improvvisa o inaspettata, morte violenta, decessi multipli, decessi ambigui..), il legame con la persona cara, la concorrenza con altri eventi stressanti, le caratteristiche legate alla personalità e alle strategie di coping.

L’ EMDR è una tecnica che può facilitare il passaggio per le diverse fasi di elaborazione del lutto, pur rispettando i tempi del paziente e senza eliminare i ricordi e le emozioni sane e adeguate legate alla perdita. Inoltre, può favorire il superamento di momenti di blocco e l’affiorare di ricordi positivi legati al rapporto con la persona cara.

Nella fase di anamnesi è opportuno raccogliere informazioni sulle circostanze del decesso, la natura della perdita, le reazioni al decesso sia da parte del paziente che di altri familiari, cosa è cambiato dopo la perdita della persona cara, il tipo di legame con la persona perduta. In questa fase è anche utile esplorare se ci sono state in passato altre esperienze dolorose, quale impatto hanno avuto sulla vita del paziente e come li vive nel presente. Nella concettualizzazione del caso è anche opportuno individuare i ricordi dolorosi del passato legati all’evento luttuoso, i triggers del presente che riattivano un certo grado di sofferenza ed eventuali situazioni future che potrebbero essere legate al lutto e che potrebbero riattivare emozioni dolorose.

Nella fase di preparazione è opportuno offrire al paziente un ambiente calmo e sicuro, stabilizzare il paziente, creare una buona relazione terapeutica, installare risorse e spiegargli come si procederà, preparandolo sulla possibile insorgenza in seduta di emozioni molto dolorose, che tuttavia è importante esperire e attraversare prima di raggiungere un maggiore equilibrio emotivo e psichico.

A questo punto si procederà con le fasi precedentemente descritte.

I target che vengono spesso utilizzati nel corso dell’ EMDR, riguardano il momento in cui è stata appresa la notizia, il funerale, immagini intrusive, immagini di incubi, aspetti legati alla responsabilità personale o alla propria mortalità.

L’ EMDR consente, quindi, di ristimolare il sistema bloccato e accelerare l’elaborazione della perdita, consentendo l’affioramento di emozioni sane. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che ogni paziente ha i suoi tempi e che è importante accompagnarlo in questo percorso di elaborazione rispettando i suoi tempi e il suo dolore.

L’efficacia terapeutica dell’EMDR

Gli effetti terapeutici dell’ EMDR sono stati osservati già nei primi studi condotti negli anni ’90. Due studi di Brom e coll. (1989) in cui sono state condotte 15 sedute di desensibilizzazione e un lavoro di Foa e coll. (1991) hanno dimostrato l’efficacia della tecnica. Anche uno studio condotto da Forbes e coll. (1994) su soggetti affetti da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) ha dimostrato l’efficacia dell’ EMDR solo dopo 4 sedute terapeutiche.

I primi studi sull’efficacia terapeutica dell’ EMDR sono stati condotti su vittime civili (Chemtob, Nakashima, Hamada, Carlson, 1996; Freund, Ironson, Williams, 1998; Lee e Gavriel, 1998…), sui reduci di guerra (Boudewyns e Hyer, 1996; Carlson e al., 1998..), su pazienti affetti da PTSD (Lazrove e coll, 2000; Grainger e al., 1997…) e hanno dimostrato come l’ EMDR favorisca una notevole riduzione della sintomatologia post traumatica.

Diverse reviews e studi meta-analitici anche più recenti dimostrano l’efficacia dell’ EMDR nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico (Maxfield, 2000; Shepherd, Stein, 2000). Ad esempio un recente studio del 2012 ha valutato l’efficacia clinica e neurobiologica dell’ EMDR in pazienti affetti da disturbo da stress post-traumatico. Tramite la risonanza magnetica cerebrale è stato valutato il quadro clinico dei pazienti e le volumetrie ippocampali in 29 soggetti con PTSD e 30 controlli sani. I pazienti sono stati trattati con EMDR e dopo tre mesi di psicoterapia sono stati rivalutati. I risultati indicano la scomparsa della diagnosi in tutti i pazienti che hanno terminato il percorso e in tutti è stato rilevato un incremento medio del 6% dei volumi ippocampali.

Questo dimostra come l’ EMDR non solo consenta una rielaborazione e reintegrazione degli eventi traumatici vissuti, ma abbia dei riscontri oggettivi anche a livello neurobiologico.

In un altro studio di Pagani del 2011 è stato utilizzato l’elettroencefalogramma per monitorare l’attivazione neuronale durante una sessione di EMDR. Lo studio ha descritto le attivazioni corticali dominanti durante la prima sessione di EMDR e durante l’ultima. Durante la prima sessione, la corteccia limbica prefrontale si attivava durante l’ascolto del testo autobiografico e durante i movimenti oculari bilaterali nella fase di desensibilizzazione dell’ EMDR. Durante l’ultima sessione l’attivazione prevalente si registrava nelle regioni corticali temporali, parietali e occipitali. Questo dimostra come anche a livello cerebrale sia possibile rilevare dei cambiamenti a seguito di una terapia con EMDR.

In uno studio di Hogberg del 2008, invece, venti soggetti con PTSD sviluppato in seguito a incidenti sul treno o aggressioni sul posto di lavoro, sono stati trattati con cinque sedute di EMDR. Ai pazienti sono state somministrate scale psicometriche e interviste diagnostiche prima del trattamento, dopo il trattamento, dopo otto mesi e dopo 35 mesi dopo la fine della terapia. Il follow up ha permesso di rilevare come i risultati riscontrati subito dopo il trattamento si mantengono nel tempo.

Gli studi anche recenti sull’ efficacia dell’ EMDR e il mantenimento dei risultati conseguiti anche nel follow-up dimostrano l’importanza di continuare ad investire nella ricerca e nell’ampliamento e perfezionamento della tecnica.

EMDR di gruppo: protocolli e possibilità applicative. Report dal seminario con Giada Maslovaric

Il 24 settembre si è tenuto a Milano presso l’hotel Michelangelo il seminario di Giada Maslovaric “ EMDR di gruppo: protocolli e possibilità applicative” organizzato dall’Associazione EMDR Italia. Giada Maslovaric, supervisore e facilitator EMDR, ha condotto un workshop ricco di stimoli con una calda professionalità caratterizzata da attenzione alle procedure tecniche e da una creatività che germoglia dalla sintonizzazione con il contesto.

 

Come nasce l’ EMDR di gruppo?

L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) (Shapiro, 2001) è un noto trattamento evidence based raccomandato da numerose linee guida, ad esempio dall’American Psychiatric Association (2004), per la cura del PTSD.

Numerosi studi hanno inoltre riportato l’efficacia del trattamento EMDR per il PTSD esordito nello specifico in seguito a disastri naturali come l’Uragano Andrew, l’Uragano Iniki e il terremoto nella regione di Marmara in Turchia.

Nel 1997 l’uragano Pauline in Messico provoca 230-500 morti e 300.000 sfollati.
Questi sono i numeri che due terapeuti EMDR, Ignacio Jarero e Lucina Artigas, si ritrovano ad affrontare.

I membri della Mexican Association for Mental Health Support in Crisis sviluppano un protocollo per riuscire a far fronte a tale catastrofe. Nasce così EMDR-IGTP (Eye Movement Desensitization and Reprocessiong- Intergrative Group Treatment Protocol).
EMDR di gruppo è un intervento che “combina un protocollo di gruppo con una stimolazione bilaterale autosomministrata (abbraccio a farfalla) e usa le 8 fasi dell’EMDR” (Maxfield, 2008).

Secondo Maxfield (2008) in letteratura sono presenti studi che mostrano prove preliminari di efficacia e utilità di questo intervento come lo studio di Fernandez et al. (2004). L’autore inoltre riporta che EMDR-IGTP è risultato efficace in diverse occasioni e utilizzato per migliaia di sopravvissuti in tutto il mondo e allo stesso tempo che sono auspicabili in futuro studi randomizzati e prospettici.

EMDR-IGTP è stato poi anche adattato successivamente da Maslovaric e Fernandez (2015). Infatti in Italia, in seguito a disastri sia naturali sia provocati dall’uomo, l’EMDR di gruppo è stato implementato. Questo intervento è stato applicato a diversi livelli di esposizione all’evento traumatico e a differenti fasce d’età.

Quali sono le caratteristiche dell’ EMDR di gruppo (EDMR-IGTP)?

L’EMDR-IGTP ha diverse peculiarità.
Innanzitutto ci sono delle caratteristiche preliminari necessarie quali: l’analisi del contesto, l’analisi del bisogno emotivo e concettualizzazione e assessment ben strutturati.

Il trattamento con EMDR-IGTP mira a facilitare la gestione e l’elaborazione del materiale traumatico presente dopo l’evento, offrendo inoltre supporto e trattando il maggior numero di persone all’interno di un medesimo contesto.
Il trattamento è rivolto a gruppi di persone omogenee (Es. per età, per evento traumatico vissuto) o gruppi pre-esistenti all’evento (es. una classe).

E’ presente l’uso di una testistica ad hoc per la tipologia di gruppo e il protocollo è applicabile sia per l’età evolutiva che per l’età adulta.
All’interno di un gruppo sarà inoltre possibile, dove necessario, individuare chi potrebbe avere bisogno di un intervento individuale.
Infine tale protocollo è applicabile sia in fase acuta (0-3 mesi dall’evento) che in fase cronica (dopo i 3 mesi).

Durante il seminario vengono poi presentate le diverse declinazioni e specifiche del protocollo illustrate con esempi di esperienza sul campo. Vengono così mostrati i disegni delle elaborazioni e un filmato.

Alcuni esempi riportati riguardano l’ambito della psicologia dell’emergenza: l’intervento di maxi emergenza nelle zone del Centro Italia terremotate (es. Amatrice, Norcia, Amandola), l’intervento umanitario a favore di orfani siriani a Gaziantep, i gruppi nelle scuole per eventi traumatici (es. suicidio di un compagno di classe). Possono essere presenti inoltre gruppi per il trauma vicario.

Altri esempi ancora raccontano dell’applicazione di EMDR-IGTP al di fuori dell’ambito emergenziale portando l’esperienza di gruppi omogenei di persone come i caregivers di pazienti con diagnosi specifiche.

Viene mostrato lo studio preliminare di Passani et al. (2016) sui caregivers di pazienti con demenza.
Successivamente vengono presentati ulteriori progetti che riguardano genitori con difficoltà diverse: bambini con disabilità (Incerti A., Rossi F.), bambini sottoposti a intervento chirurgico per craniostenosi (Di Carlo S., Finocchiaro C.Y, Lemmo A.), bambini con lo spettro autistico (Gullo R., Maslovaric G., Renna A.).
Tali progetti e studi mostrano risultati preliminari incoraggianti che dovranno poi essere implementati in futuro.

Giada Maslovaric conclude il seminario sottolineando che per poter inserire in modo adeguato ed utile l’EMDR di gruppo risultano fondamentali: un ottimo assessment, l’analisi del contesto e obiettivi chiari e definiti.
Si chiude la giornata citando, a proposito dell’importanza e della forza del gruppo, la frase di John Miur “Non c’è un solo frammento isolato in tutta la natura, ogni frammento fa parte di un’unità armoniosa e completa”.

cancel