expand_lessAPRI WIDGET

La pratica del colloquio clinico (2017) di M. Recalcati – Recensione del libro

Il testo La pratica del colloquio clinico, punto nevralgico della epistemologia lacaniana, di cui l’autore Massimo Recalcati funge da insigne esponente, si compone di più parti, organizzate secondo una modalità che ricalca, per certi aspetti, la modalità dialogica e organizzativa del magister. 

 

La pratica del colloquio clinico: la parola nell’epistemologia lacaniana

Nella prima parte del libro La pratica del colloquio clinico, l’autore esplora e illustra in modo chiaro, avvalendosi di esemplificazioni schematiche che conferiscono al “DiKtat”  una maggior complessità, il concetto di parola e le sue declinazioni nell’ambito della epistemologia lacaniana. Gli aspetti evidenziati sono: il rapporto tra la funzione della parola e il linguaggio, l’interdipendenza relazionale di domanda e risposta e il rapporto tra la parola ed il desiderio. Il primo punto viene esplicitato dall’autore attraverso un interessante volano circa le funzioni del linguaggio sottolineando come la “domanda” sia strettamente connessa alla “risposta” e da come, in virtù di questo, emerga una spirale di significazione.

Nel secondo punto viene dato spazio alla forte interdipendenza relazionale tra domanda e risposta, sottolineando come entrambi siano fattori che rispettino il principio di reciprocità. A questo proposito, Massimo Recalcati fornisce un esempio (pianto del bambino) evidenziando come il processo di significazione possa aver luogo nel momento in cui quella comunicazione venga ascoltata dall’Altro (madre).

Questi tre aspetti si incastrano all’interno di una cornice relazionale dove peculiare risulta “il desiderio di essere il desiderio dell’Altro e il desiderio di riconoscimento e di ascolto dell’Altro”. Rispetto a questo costrutto , l’autore sottolinea come, nell’ambito di un colloquio clinico, la parola, in virtù dell’ascolto dell’Altro, acquisisca un significato nuovo.

Vari sono gli esempi presentati ne La pratica del colloquio clinico rispetto alle distorsioni di  questo “assioma”, come quello del soggetto isterico. Infatti il desiderio dell’isterica, secondo Massimo Recalcati, è l’essere in uno stato di perenne insoddisfazione. In virtù di questo, qualora il desiderio del soggetto isterico trovasse un suo appagamento, allora lo stesso desiderio verrebbe a scomparire. Questa distorsione si verifica in quanto alberga nella personalità isterica una disgiunzione tra desiderio e godimento.

L’inconscio Lacaniano

Riprendendo il magister, l’autore illustra il modello epistemologico strutturale secondo cui il soggetto è costituito dall’Altro. La relazione con l’altro, quindi, esiste prima del soggetto ed è parte integrante dello stesso in quanto lo determina ancora prima della sua nascita effettiva. Questi concetti , dalla lettura del testo La pratica del colloquio clinico, sembrerebbero un punto essenziale per la conduzione di un colloquio clinico che segua le tracce della matrice lacaniana. Altri punti nodali che vengono esplorati, riprendendo e delineneando le differenze rispetto a Freud, sono il concetto di inconscio lacaniano, il concetto di transfert simbolico e transfert immaginario, la parola piena, ovvero parola dell’ES e la parola vuota, ovvero parola dell’IO.

L’inconscio lacaniano viene descritto nel testo come una costruzione eterodeterminata del soggetto, il transfert viene definito come “ricerca dell’oggetto in movimento nel luogo dell’altro”. Nello specifico, il transfer immaginario, secondo l’autore, avviene quando le dinamiche relazionali che si innescano durante il colloquio comprendono i meccanismi di difesa di resistenza e idealizzazione, mentre il transfert simbolico, dinamica più profonda e a cui si spera auspichi la relazione terapeutica, favorisce la dinamica relazionale dei meccanismi di difesa di ripetizione ed elaborazione. La parola piena e la parola vuota, rispettivamente parola dell’Es e parola dell’Io, si manifestano la prima durante la relazione terapeutica quando è in atto il transfert simbolico, la seconda quando è in atto il transfert immaginario.

La conduzione del colloquio clinico illustrata da Massimo Recalcati

Focus della seconda parte de La pratica del colloquio clinico è la dinamica e conduzione del colloquio clinico. Con acume e chiarezza, l’autore Massimo Recalcati descrive la triade peculiare quale sintomo, domanda, transfert spiegando le rispettive declinazioni nei vari quadri psicopatologici dei casi clinici presentati. Grazie ad un  indispensabile exucursus è stato possibile, in accordo con l’imperativo dei nostri avi “repetita iuvant”, attraversare  i vari quadri psicopatologici, descritti con minuzia, osservandone similitudini e differenze rispetto alle dinamiche di transfert immaginario e simbolico.

In particolare, vengono delucidate con somma chiarezza le differenze di relazione terapeutica che si vengono a innescare nel contesto del colloquio clinico con soggetti con struttura psicotica e struttura nevrotica aventi quadri fenomenologici complessi (tossicodipendenza, isteria, nevrosi ossessiva, schizofrenia). Le differenze riguardano la posizione del terapeuta, la modalità di transfert, i meccanismi relazionali e difensivi che vengono messi in atto e l’elaborazione del transfert. Un testo chiaro, esauriente e che caldeggia il desiderio del lettore e, probabilmente, in accordo con Lacan, dell’ Altro (autore) di approfondire maggiormente la fonte epistemologica lacaniana.

Il ruolo della Fobia Sociale nel fenomeno dell’Hikikomori

Sembra non esser stata ancora ben esplorata la relazione tra sindrome di Hikikomori e ciò che ben conosciamo chiamarsi Fobia Sociale, tenteremo di porci in un’ottica esplorativa in base alla letteratura finora a disposizione, al fine di stimolare un approfondimento e conoscerne al meglio il legame

Cinzia Borrello e Valeria Mancini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

E’ un grido di protesta contro una società frenetica, feroce e soffocante, che non dà la possibilità di sbagliare, di essere diversi, di comportarsi al di fuori della logica del gruppo

 

Questo si può leggere nel sito della comunità Hikikomori Italia creata da Marco Crepaldi, laureato in psicologia.

Della sindrome di Hikikomori se ne parla ormai spesso, questi giovani, che si autorecludono nelle loro stanze senza più uscirne per lunghi periodi di tempo, sono stati oggetto di studio a partire dalla fine degli anni ’80. Come ben noto, a dare il nome a tale condizione fu lo psichiatra giapponese Saito Tamaki, con l’intento di dare un nome alla condizione che tali ragazzi stavano affrontando, un nome al fenomeno in generale piuttosto che dare una connotazione di malattia.

Si tratta di una sindrome, cioè un insieme di sintomi associati tra loro e non vi è diagnosi di malattia. Nel tempo i ragazzi stessi, una volta compreso di non essere i soli in tale condizione, ne hanno dato una connotazione soggettiva, una categoria in cui riconoscersi, al fine di crearsi un’identità comune: “io sono un hikikomori” (Tesi Braidotti, 2013).

E’ di social withdrawal ciò di cui si parla, una grave forma di ritiro sociale, autoreclusione che a partire dall’adolescenza viene a svilupparsi e a perdurare per un periodo che può anche arrivare a decenni. Di eziologia complessa, si compone di un disagio psichico dovuto alla concatenazione di una serie di fattori tra cui la presenza massiccia della figura materna e l’assenza emotiva del padre, nonché un contesto sociale frustrante, colmo di aspettative e omologante. Tale condizione induce nel ragazzo con vulnerabilità un senso di inadeguatezza che a fronte di un confronto con l’altro diviene così insostenibile da trovare nell’isolamento l’unica via percorribile (Moretti, 2010).

Sindrome di Hikikomori e fobia sociale: quale relazione?

Ansia marcata relativamente a situazioni sociali, timore del giudizio negativo, evitamento delle stesse situazioni che arrecano ansia e paura, isolamento sociale, confronto temuto con l’altro, queste e altre informazioni ci hanno fatto porre interrogativi sulla relazione esistente tra sindrome di Hikikomori e ciò che ben conosciamo chiamarsi Fobia Sociale. Sembra non esser stata ancora ben esplorata la relazione tra tali fenomeni, tenteremo di porci in un’ottica esplorativa in base alla letteratura finora a disposizione, al fine di stimolare un approfondimento e conoscerne al meglio il legame.

Premessa necessaria risulta essere quella secondo cui le difficoltà nel reperire informazioni, attendibili e generalizzabili, rispetto a ciò che è la relazione tra Fobia Sociale e la sindrome di Hikikomori, risiedono nel fatto che tale fenomeno nasce nell’Asia Orientale, nel quale la Fobia Sociale è socialmente accettabile. L’Asia Orientale ha una maggiore accettazione del ritiro sociale e delle tendenze evitanti, gli stessi livelli di ansia sociale potrebbero indurre diagnosi nei paesi occidentali e non soddisfare invece i criteri in un paese dell’Asia Orientale (Schreier et al., 2010 ).

La Fobia Sociale è un disturbo caratterizzato dalla paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri (American Psychiatric Association, 2014). Le situazioni condividono la credenza dell’individuo di essere osservato, di essere giudicato e di essere valutato negativamente come soggetto inadeguato e ridicolo. La Fobia Sociale risulta, quindi, essere una condizione in cui il timore di tali situazioni sociali inibisce le performance relative a vari contesti quali quello sociale, emozionale, prestazionale e lavorativo.

La recente revisione del manuale “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders” (5th ed., DSM-V; American Psychiatric Association, 2013) indica che tale disturbo viene diagnosticato con minore frequenza nei soggetti dell’Asia Orientale, proponendo l’ Hikikomori e il Taijin Kyofusho come manifestazioni di tale disturbo.

Chiare sono le differenze essenziali tra le culture individualistiche occidentali e quelle collettive orientali. Nelle culture occidentali, l’imbarazzo assume una connotazione negativa, esponendo il soggetto a una valutazione di incompetenza relazionale, mentre nelle culture orientali diviene segno di rispetto, competenza sociale e maturità (Chen, Rubin, Li, 1995; cit. in Procacci, Popolo e e Marsigli, 2015). Inoltre, nella cultura occidentale, l’autoesclusione tende ad esprimersi attraverso la dipendenza da alcol, droghe e/o le negazione dei propri bisogni primari (come accade ad esempio nei disturbi del comportamento alimentare attraverso l’anoressia o la bulimia), i giovani orientali, figli di un contesto gruppale, scelgono invece, la via del silenzio (Moretti, 2010).

Il ruolo dello stile genitoriale nella sindrome di Hikikomori e nella Fobia Sociale

Fattore comune a giustificare la presenza di soggetti con sindrome di Hikikomori in entrambe le società, potrebbe risiedere nello stile genitoriale; in accordo con Bowlby (1969), la competenza genitoriale si verrebbe a sviluppare attraverso un attaccamento sicuro, garantendo un senso di fiducia nella figura di attaccamento e una maggiore esplorazione. Un attaccamento insicuro potrebbe invece provocare difficoltà relazionali (Procacci, Popolo e e Marsigli, 2015).

Indisponibilità, criticismo, rifiuto ed uno stile che tende a valorizzare la competizione e l’umiliazione potrebbe favorire sentimenti di inadeguatezza e la convinzione di essere persone di scarso valore (Procacci, Popolo e e Marsigli, 2015).

In molti casi si è osservato come in soggetti Hikikomori vi siano episodi di “sconfitta senza lotta” già prima di presentare tale condizione, come ad esempio rinunciare ad un esame nonostante lo si abbia preparato o l’abbandono di una squadra perché si pensa non si verrà selezionati. Vengono quindi ad evitarsi condizioni di competizione sociale. Tali soggetti si trovano di fronte a un’immagine di un sé ideale che nasce dai desideri di altri piuttosto che dai propri. Un ideale avuto fin dall’infanzia, non prodotto dai propri interessi e passioni ma originato dalle opinioni altrui. Si crea quindi un’immagine fondata dalle aspettative altrui e dalle difficoltà di imporre i propri obiettivi. Il contrasto tra il proprio Sé e il Sé ideale imposto dai propri genitori e dalla società, provoca così l’impossibilità di alternative all’isolamento (Suwa, 2013). L’ipersensibilità al criticismo, nonostante non venga ad essere classificato all’interno dell’attuale sistema diagnostico, sembrerebbe essere una delle caratteristiche principali dei soggetti con sindrome di Hikikomori (Suwa, 2013).

In particolare la letteratura spiega come l’identikit di un soggetto con sindrome di Hikikomori sia quello di figlio unico, di genitori entrambi laureati, di cui la figura paterna, quasi sempre assente (a lavoro per gran parte della giornata), ricopre un ruolo dirigenziale, e scatena nel giovane Hikikomori il timore di non essere all’altezza, di non essere abbastanza bravo come i suoi compagni di scuola o di non essere sufficientemente adeguato per poter raggiungere lo stesso prestigio del padre, mentre la madre casalinga si occupa, come impone la cultura nipponica, della gestione di figli e della casa e risulta essere una figura fin troppo presente e iperprotettiva, unica deputata alla crescita e all’educazione del figlio sul quale è facile proiettare ansie e attese (Moretti, 2010)

Facile sembra essere l’analogia con lo stile genitoriale dei soggetti con Fobia Sociale. In genere cresciuti in famiglie chiuse, con carenti relazioni sociali, timorose del giudizio altrui, sensibili alla vergogna e poco affettuose. L’interesse di queste famiglie sembra più orientato ad avere giudizi positivi, o comunque non negativi, da parte degli altri che a godersi la vita. I genitori sono descritti spesso come ansiosi, ipercritici e severi.

In entrambe le condizioni appare chiaro come il coinvolgimento delle famiglie sia un fattore importante, in quanto esse contribuiscono non solo alla genesi ma anche al mantenimento di tali condizioni.

Sindrome di Hikikomori primaria e secondaria

Un ulteriore approfondimento chiarirebbe la presenza di studi che si pongono su due fronti differenti, sembrerebbero infatti esserci due tipologie di Hikikomori. Alcuni di essi mostrano come la condizione di Hikikomori sia la premessa da cui partire per indagare la possibile presenza di diagnosi di Fobia Sociale. Si è osservato, in tali ricerche, la presenza di diagnosi di Fobia Sociale in soggetti con sindrome di Hikikomori con una percentuale che va dal dal 3% (Watabe et al., 2008, cit. in Nagata, 2013) al 15% (Koyama et al., 2010, cit. in Nagata, 2013) del campione. In altri studi, differentemente da quanto si evince sopra, si è preso in considerazione la presenza di diagnosi di Fobia Sociale per poi indagare l’incidenza di tale fenomeno sulla presenza o meno della condizione di Hikikomori. Si sottolinea come vi possa essere la possibilità che la sindrome di Hikikomori possa essere causata da depressione, disturbo d’ansia o alcuni disturbi della personalità. Nella ricerca proposta da Nagata (2013) in tutti i casi presi in esame, l’esordio della Fobia Sociale ha preceduto o coinciso con l’ Hikikomori.

E’ così che ci si imbatte in una duplice condizione di Hikikomori: primario o secondario.

Si definisce primario la manifestazione del fenomeno non descritto dalle concettualizzazioni attuali presenti nel DSM-5, il soggetto non presenterebbe alcuna diagnosi grave pur non essendo in grado di entrare in società e di adattarsi al suo ambiente. Si definisce secondaria, invece, quella condizione che include gravi disturbi mentali tra i quali il Disturbo d’Ansia Sociale (Suwa, 2013). Come già sottolineato i soggetti con sindrome di Hikikomori potrebbero soffrire di molte patologie, tra le quali depressione, ansia, apatia, disturbi di personalità, antropofobia ma, secondo Saitō, queste si presenterebbero solo successivamente, come conseguenza del prolungato isolamento.

Il ruolo delle aspettative altrui

Nella condizione di ansia sociale il contesto sociale è spesso luogo di invalidazioni, ma anche l’ambiente in cui non è più possibile appartenere, il soggetto si sforza di restare nel gruppo per poi vanificare il tutto con il timore di fare una brutta figura. L’ansioso sociale tende a vivere isolato dagli altri perché non si sente all’altezza. L’esperienza della appartenenza ai gruppi è importante per tutti gli individui in funzione della costruzione della loro identità sociale, ma nei casi dell’ ansia sociale può risultare ridotta o addirittura compromessa (Castelfranchi, 1997; cit. in Procacci, Popolo e Marsigli, 2015).

All’interno della sindrome di Hikikomori, il senso di inadeguatezza dell’adolescente impatta con la società incentrata su valori consumistici, procurando reazioni di timore, angoscia e solitudine, verso un percorso che sfocia in un’estrema sfiducia verso la realtà che lo circonda.

In tale situazione, ciò che si altera, oltre alla nozione di tempo e spazio, con la conseguente inversione del ritmo giorno/notte, sembra essere il disagio psichico vissuto, espresso anche attraverso una sorta di regressione infantile che si alterna tra un eccessivo attaccamento materno espresso da una forma patologica e snaturata di dipendenza fino ad arrivare spesso ad un’estrema forma di violenza domestica agita all’interno del sistema familiare. (Moretti, 2010)

In alcuni casi quindi il senso di inadeguatezza sfocia in reazioni di rabbia e violenza e il confronto con gli altri diviene insostenibile; l’altro assume un ruolo di minaccia, confermando la propria idea di inadempienza, reagendo così con un estremo isolamento (Pieri, 2007).

Nei soggetti con Hikikomori il ritiro sociale inizialmente offrirebbe sensazioni di sollievo per essersi sottratti al peso del giudizio, ma con il suo perdurare, affiorano sentimenti depressivi legati al timore di non riuscire a trovare il coraggio di uscire da questa situazione di stallo. Non più abituati alle situazioni sociali questi ragazzi si trovano ad affrontare la situazione con sempre più difficoltà nell’esporsi e dipendenti dalle condotte di evitamento (Spiniello, Piotti, Comazzi, 2015).

In entrambe le condizioni appare chiaramente come le pressioni di realizzazione sociale siano molto forti nell’adolescenza e nei primi anni di vita adulta, quando vi sono molte aspettative sul futuro. Tali ragazzi si trovano a dover colmare, ad esempio virtualmente, il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative sociali. Si sperimentano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento in particolar modo quando questa differenza diviene insostenibile. Tali sentimenti negativi potrebbero condurre ad atteggiamenti di rifiuto ulteriore delle aspettative altrui, in particolar modo di genitori, insegnanti e coetanei, e in più in generale della società. Così vi sarà la tendenza all’evitamento e all’allontanamento della condizione temuta e odiata; e quindi all’isolamento  (Pieri, 2007).

Nella realtà clinica si può osservare come i disturbi legati alla presenza di livelli elevati di ansia sociale siano disposti lungo un continuum che va dalla timidezza ed inibizione comportamentale a quadri clinici complessi e invalidanti, caratterizzati da evitamento marcato di tutte le situazioni interpersonali e prestazionali a causa di una eccessiva sensibilità al giudizio e alla critica (Perugi, Simonini, Nassini, Moretti, 2002). Sarebbe davvero molto interessante riuscire a collocare la sindrome di Hikikomori e la Fobia Sociale lungo questo continuum, perché questo passaggio ci potrebbe aiutare a definire la cronologia dello sviluppo dei due disturbi e l’eventuale comorbilità tra essi. Ciò che emerge dalla letteratura è che il fenomeno dell’ Hikikomori sembra in qualche maniera fondarsi su una particolare caratteristica di personalità molto diffusa tra i giovani giapponesi che, a sua volta, in qualche modo, alimenta il desiderio di completo ritiro sociale, ovvero la timidezza, che nella lingua giapponese si traduce con lo stesso termine di vergogna e si amalgama in una morbosa paura degli altri, una sorta di fobia (Moretti, 2010). Ma, questo dato, da solo, non è sufficiente per il posizionamento dei due disturbi lungo il continuum. Questa carenza di informazioni è dovuta al fatto che ad oggi ci sono pochi studi accurati sull’ Hikikomori e inoltre, il Disturbo d’Ansia Sociale risulta essere il più sotto riconosciuto e sotto trattato disturbo d’ansia (Zimmerman & Chelminski, 2003;  cit. in Nagata, 2013).

Per le cause sopracitate, allo stato attuale, ci risulta davvero ostico definire la relazione tra tali fenomeni. Per il raggiungimento di questo obiettivo clinico, risultano necessari ulteriori studi su entrambi i disturbi.

Il progetto ReSource e gli effetti di diverse tipologie di training psicologico

Recentemente i ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze Sociali dell’Istituto Max Planck di Scienze Cognitive e del Cervello Umano a Leipzig (Germania) hanno condotto il progetto ReSource su larga scala che mira a indagare gli effetti di diversi training psicologici sulle strutture cerebrali, sullo stress e sul comportamento sociale.

 

Progetto ReSource: tre diversi training psicologici a confronto

Il progetto ReSource consiste nella verifica degli effetti di tre differenti moduli di formazione (della durata 3 mesi), e ciascuno incentrato su un gruppo di competenze diverse. Il primo dei tre traning psicologici e’ incentrato sulla pratica della mindfulness o attenzione consapevole. I partecipanti apprendono tecniche classiche di meditazione simili a quelle insegnate nel programma di riduzione dello stress basato su Mindfulness (MBSR), che richiede di spostare e mantenere l’attenzione consapevole sul respiro, sulle sensazioni in diverse parti del corpo o su segnali visivi e/o uditivi nell’ambiente.

Il secondo modulo del progetto ReSource è incentrato sulle competenze socio-affettive, come la compassione, la gratitudine e l’accettazione delle emozioni difficili. Oltre agli esercizi di meditazione classica, i partecipanti hanno appreso una nuova tecnica che richiede loro di praticare la meditazione ogni giorno in coppia per una durata di 10 minuti. Questi esercizi di coppia sono stati caratterizzati da uno scambio intensivo di esperienze affettive di vita quotidiana che mirano alla promozione di gratitudine, gestione delle emozioni difficili e ascolto empatico.

Nel terzo modulo i partecipanti hanno appreso abilità socio-cognitive, come la metacognizione e la comprensione e riconoscimento di stati mentali propri e altrui.

Tutti gli esercizi dei training psicologici sono stati eseguiti sei giorni alla settimana per un totale di 30 minuti al giorno. I ricercatori hanno valutato una serie di variabili, tra cui aspetti psicologico- comportamentali, il cambiamento morfologico delle strutture cerebrali mediante la risonanza magnetica (MRI) e alcuni indicatori fisiologici dello stress, quali il livelli del cortisolo a seguito di ciascuno dei tre moduli di formazione.

Gli effetti dei training psicologici

A seconda di quale tecnica di formazione mentale è stata praticata per il periodo di tre mesi, le strutture cerebrali specifiche e i marcatori fisiologico-comportamentali correlati sono cambiati in modo significativo nei partecipanti. Ad esempio, a seguito del modulo incentrato sulla mindfulness abbiamo osservato cambiamenti nella corteccia in aree legate all’attenzione e al funzionamento esecutivo. Nei due moduli sociali, incentrati sulle competenze socio-affettive e socio-cognitive, abbiamo potuto mostrare miglioramenti selettivi di comportamento in relazione alla compassione e alla capacità di comprensione degli stati mentali altrui. Questi cambiamenti nel comportamento corrispondevano al grado di plasticità strutturale del cervello in specifiche regioni della corteccia che sostengono queste capacità – afferma Sofie Valk, primo autore dello studio sul progetto ReSource, appena pubblicato dalla rivista Science Advances.

Oltre a influenzare la plasticità cerebrale, i diversi training psicologici hanno influenzato anche differenzialmente la risposta fisiologica dello stress.

Abbiamo scoperto che nei soggetti sottoposti ad un test di stress psicosociale, la secrezione di cortisolo è diminuita fino al 51%. – afferma Veronika Engert , primo autore di un’altra pubblicazione del progetto ReSourceSolo i due moduli che si concentrano sulle competenze sociali hanno significativamente selettivamente ridotto il rilascio di cortisolo dopo uno stress sociale. Pensiamo che la risposta allo stress del cortisolo sia stata influenzata in particolare dagli esercizi praticati nei moduli sociali.

È interessante notare che, nonostante queste differenze sul livello della fisiologia dello stress, ognuno dei moduli di formazione ha ridotto la percezione soggettiva dello stress.

I risultati attuali all’interno del progetto ReSource evidenziano non solo che le competenze sociali possono essere migliorate negli adulti, ma che tale formazione mentale porta a cambiamenti cerebrali strutturali e alla riduzione dello stress sociale specifiche in funzione del programma di training proposto.

Viversi la sieropositività, l’importanza della psicoterapia e dell’associazionismo. La storia di Lorenzo

Attraverso la rivisitazione di queste scene di vita e la continua riformulazione del caso, Lorenzo prende consapevolezza dei suoi schemi interpersonali, e che le modalità con cui esperisce e spiega gli eventi di vita e le relazioni con gli altri sono correlati alla sua storia di sviluppo. Questa consapevolezza di un rapporto causale tra “il bambino che è stato” e le sue attuali modalità di coping conduce il paziente al tentativo di ristrutturare una nuova narrativa, una nuova e più funzionale rilettura del passato ma soprattutto del presente e della sieropositività.

 

La storia di Lorenzo

Lorenzo è un giovane uomo di 31 anni che svolge l’attività di visagista. Viene a conoscenza della propria sieropositività dopo essersi sottoposto al test HIV nell’ambulatorio di Malattie Infettive della propria città.
Dichiara di aver contratto la sieropositività attraverso rapporti omosessuali non protetti.

Lo stato di avanzamento del virus, la replicazione virale ed il deficit immunitario richiedono l’intervento farmacologico immediato. Ha un iniziale rifiuto dell’assistenza medica e non intende assumere la terapia antiretrovirale.
Quando si presenta agli appuntamenti ambulatoriali è dimesso, a tratti cerca un contatto visivo ma poi si ripiega su se stesso, si tiene le mani e si accascia sul busto. Si evince che la sofferenza e la sintomatologia che il paziente riferisce sono state scatenate dalla diagnosi di sieropositività.

La depressione di Lorenzo e le emozioni sottostanti la sieropositività

Arriva al primo colloquio lamentando sensazione di stanchezza e forte affaticamento. Dopo la diagnosi ha perso il piacere nel fare le cose quotidiane, si sente totalmente inefficace ed inconcludente nelle attività che svolge. Si sveglia prima del dovuto, riferisce perdita di peso e difficoltà alla concentrazione. Durante il colloquio emergono spesso pensieri che riguardano la morte, anche se non è presente un’idea suicidaria strutturata.

Appare evidente che durante l’ultimo anno, Lorenzo aveva già una forte difficoltà. Sentiva di non riuscire ad affrontare la precarietà dell’organizzazione lavorativa, generata dalla saltuarietà della tipologia di lavoro (visagista per cerimonie) e allo stesso tempo la sua relazione affettiva aveva subito una crisi, alimentando un forte senso di fallimento ed incapacità personale. Nelle sue aspettative c’era il desiderio di lavorare ancora per l’azienda multinazionale con cui aveva già collaborato ma da cui non aveva ottenuto il rinnovo del contratto. Questo desiderio aveva ingenerato l’aspettativa di viaggiare per il mondo insieme alle celebri “firme” per grandi eventi di moda.

L’unica tonalità emotiva che Lorenzo sembra saper riconoscere attraverso elementi più viscerali è quella della tristezza. L’emozione della tristezza acquisisce senso alla luce del più ampio risvolto depressivo riportato da Lorenzo come mancanza di interesse per tutto ciò che lo circonda, assenza di vie d’uscita e di progettualità che si palesano nel rifiuto della terapia antiretrovirale, ed inoltre genera in lui frustrazione per le nuove restrizioni nello stile di vita, per doversi sottoporre per sempre a terapie aggressive e sfiguranti e per l’incertezza del futuro.

Lorenzo riporta anche l’emozione della rabbia quando parla di alcuni episodi che lo legano al suo ex: «Mi ha chiesto di non usare il preservativo, l’ha fatto apposta! Per distruggermi! Quando mi corteggiava, mi sembrava di toccare il cielo con un dito… lui regista famoso che corteggia me “il fallito”… ma avrei dovuto capire da subito che quando la vita ti sembra così vicina da toccarla… in realtà in quel momento è molto lontana! Quando ho fatto il test mi ha fatto compagnia ed è venuto anche lui a sottoporsi al test dicendo di non sapere di essere sieropositivo…. Ma secondo me lo sapeva!!! Mi ha infettato con intenzione…. se lo vedo in ambulatorio gli sparo. L’altra volta ho scavalcato il muro di casa sua, l’ho visto dalla finestra con un altro ragazzo, non avrà detto nulla neanche a lui…. devo fermarlo ma poi penso che sono solo un fallito».

Da una parte la rabbia favorisce il dispiegamento di energie finalizzate a cambiare la situazione che causa la sofferenza, mentre dall’altra il senso di impotenza elimina la progettualità e riduce l’azione.

Lorenzo si isola, non esce più con gli amici storici né si apre a nuove conoscenze. Non vuole parlare della sua malattia ai genitori né, tantomeno, tornare al paese d’origine identificato come troppo “bigotto” e dove potrebbe essere vittima di atteggiamenti discriminatori a causa della sua condizione. Lorenzo dichiara: “sono omosessuale e sieropositivo, praticamente un mostro!”

L’immagine del mostro è eloquente. Il mostro è qualcosa che fa paura, è il diverso per antonomasia, l’anomalo: l’autostigma, infatti, incorpora la costruzione di un confine apparentemente netto e indiscutibile che separa dai “sani”, dai “normali”.
Inoltre emerge il senso di colpa nei confronti della madre che non ha ancora accettato la sua omosessualità e a cui dovrà comunicare anche questa nuova “notizia”.

Riferisce pensieri continui e disturbanti circa la morte, il fallimento del trattamento farmacologico e la perdita di controllo del proprio corpo a causa degli effetti collaterali della terapia HAART (lipodistrofia). Dal diario emerge la paura che l’infezione possa progredire in AIDS per la comparsa di infezioni opportunistiche e tumori HIV-correlati.
Dai colloqui e dall’assessment psicodiagnostico si evince che la sofferenza e la sintomatologia che il paziente riferisce hanno la loro origine con la comunicazione della sua sieropositività. Tuttavia, l’evento critico si situa in uno sfondo caratterizzato da una significativa instabilità affettiva ed emotiva.

Una spirale viziosa ha condotto il paziente ad un disinvestimento emotivo e di impegno nell’organizzazione del proprio lavoro che, circolarizzato, ha finito per creare un senso di impotenza e di fallimento.
Risulta chiaro che, a monte del life event della scoperta della sieropositività, esisteva già una discrepanza tra aspettative attese e l’esperienza vissuta nel presente.

I modi attuali di essere nel mondo di Lorenzo hanno a che fare, anche, con le modalità della relazione diadica madre-figlio nella sua fanciullezza e, soprattutto, nell’adolescenza, quando emerge in lui la consapevolezza della sua sessualità. La madre vive la sessualità del figlio con una coloritura di emozioni centrate sulla vergogna, che la allontana sempre più dal figlio, confermando uno stile di accudimento distaccato, distanziante e quasi di ostilità e che elicita una esperienza di rottura affettiva con il figlio: «per mia madre sono sempre stato una vergogna, il figlio omosessuale da nascondere, quello che se incontri per strada non saluti e abbassi la testa. Mio padre voleva riscattarmi facendomi entrare nella banca dove lavora lui, mi aveva preparato un bel lavoro in paese, ma io ho rifiutato e da allora mi parla a stento. Da quando poi ho scelto di fare il truccatore, le chiacchere in famiglia non si sono risparmiate…e io non sono riuscito neanche a farmi rinnovare il contratto dall’azienda, ho confermato a tutti di essere un fallito».

Emerge un Sé debole con aspettative di abbandono, che lo portano a nascondere aspetti negativi di sé ritenuti incomunicabili per non recare disturbo alla figura di attaccamento.
In questo sfondo di organizzazione depressiva arriva il life event della scoperta della sieropositività, che finisce per scompensarlo ed elicita in lui processi disfunzionali di lettura della realtà solo in termini di perdita, rifiuto e paura di abbandono.

Il desiderio di vendetta, l’incapacità iniziale a focalizzarsi su se stesso rende la fase iniziale di terapia particolarmente difficile. Il paziente rischia di rimanere intrappolato nella ruminazione rabbiosa. Focalizza la sua attenzione e le sue energie sull’ingiustizia subita e sull’untore. Tale attivazione si autoalimenta attraverso la continua rievocazione degli eventi e attraverso “l’affect as information”, per cui Lorenzo usa la propria emozione come un’informazione che conferma il fatto di aver subito un torto. Dal punto di vista clinico, i sentimenti negativi e la ruminazione rabbiosa contribuiscono a disturbare la qualità del sonno e ciò che ne consegue in termini di ripercussione sulla vita sociale e lavorativa. Tra l’altro la ruminazione su un danno subito aumenta i livelli di cortisolo, con ripercussioni sul sistema immunitario già gravemente compromesso dal virus dell’HIV. Decidiamo insieme di iniziare la terapia antiretrovirale ed una terapia farmacologica antidepressiva. L’intervento si dispiega attraverso episodi narrativi che, piano piano, Lorenzo porta in seduta, sono scene nucleari della sua relazione con la madre. Emerge in tutta la sua portata il filo conduttore dell’intera storia: la rottura affettiva con la madre, in seguito all’avvenuta consapevolezza della omosessualità di Lorenzo. Lo stile di accudimento che si fa sempre più distaccato, di allontanamento e perfino di rifiuto.

Una rilettura più funzionale del passato, del presente e della sieropositività

Il paziente riconosce le proprie emozioni in seduta e attraverso la relazione terapeutica.
Accede a ricordi autobiografici riportando episodi dettagliati in cui aveva già sperimentato nell’infanzia ed in particolare nel rapporto con la madre vissuti di esclusione e rifiuto.

Attraverso la rivisitazione di queste scene di vita e la continua riformulazione del caso, Lorenzo prende consapevolezza dei suoi schemi interpersonali, e che le modalità con cui esperisce e spiega gli eventi di vita e le relazioni con gli altri sono correlati alla sua storia di sviluppo. Questa consapevolezza di un rapporto causale tra “il bambino che è stato” e le sue attuali modalità di coping conduce il paziente al tentativo di ristrutturare una nuova narrativa, una nuova e più funzionale rilettura del passato ma soprattutto del presente.

Il lavoro fatto in terapia gli ha permesso di riconciliarsi con “l’inquilino ingombrante”. La sua narrativa è cambiata: «L’HIV non è più un nemico, non lo vedo più come un inquilino invadente… ma piuttosto come un compagno di viaggio».
Questo passaggio dimostra un ribaltamento verso una capacità di cogliere nel negativo gli elementi positivi e permette di utilizzare l’aspetto di vulnerabilità verso una dimensione di possibilità, maturando un sentimento di condivisione e non di solitudine. L’accesso alle emozioni e alle memorie autobiografiche correlate ha permesso la realizzazione di un processo narrativo che è passato dall’IO SONO all’IO POSSO, consentendo la capacità di agency e sviluppando resilienza per creare prospettive future.
Gli ha consentito, inoltre, di rapportarsi all’altro in una dimensione di scambio, di reciprocità e di maggiore consapevolezza della propria sessualità.
E’ proprio nel riuscire ad affrontare l’esperienza dolorosa sublimandola ed utilizzandola come fondamento di una nuova costruzione che Lorenzo mette in gioco le sue reali potenzialità.

Via via Lorenzo diventa più disponibile ad assumersi la responsabilità del modo in cui gestisce la propria vita, abbandonando modalità di autosvalutazione e ricercando ragioni di vita al di là dei limiti esistenziali e di quelli imposti dalla malattia. Il percorso di accettazione si realizza lungo il tempo, vivendo la malattia nella concretezza della vita quotidiana e acquisendo di conseguenza un progressivo senso di controllo su di essa. Il risultato è che è più facile vivere la malattia che non immaginarsi di viverla, quando si riceve la diagnosi. Quindi anche l’attivazione comportamentale ha il suo ruolo nell’esprimere il nesso tra identità e autoefficacia, così importante nella malattia cronica: l’identità si realizza in azioni concrete, nelle quali la persona sperimenta la propria capacità di fare e di raggiungere mete significative.

Sieropositività e associazionismo

Durante la pratica della Mindfulness, utilizzata soprattutto per il rimuginio rabbioso, il paziente esprime il desiderio di “rompere i castelli di rabbia e le prigioni di vendetta” per poter accedere alla libertà del perdono. Il paziente esprime il desiderio di perdonare.
Lorenzo è riuscito a trovare un significato a ciò che ha subito, questo ha prodotto in lui un’energia positiva, capace di stimolare l’apertura verso altri bisognosi di aiuto, attivando un circolo virtuoso (oggi è un’attivista della LILA-Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, ed uno dei conduttori del gruppo di mutuo aiuto)

A Lorenzo risulta via via evidente che la sua sofferenza non è ascrivibile ad eventi fortuiti o alle colpe degli altri. La nuova proiezione di sé nel futuro lo induce ad un ulteriore atto di responsabilità: l’amore verso se stesso e verso gli altri.
Non a caso, l’attività di Lorenzo nell’ associazionismo gli ha permesso di sperimentare in gruppo, un senso di utilità ed autoefficacia, grazie alla versatilità di ruolo che il lavoro di gruppo ha favorito e di vivere sentimenti intensi sentendosi protetto e sostenuto dal gruppo potendo verificare che le aspettative temute di abbandono non si sono verificate nel “qui ed ora” dell’esperienza gruppale.

Come scrive Silvia Bonino, nel suo libro Mille fili mi legano qui – Vivere la malattia, «la promozione del sentimento di autoefficacia nelle situazioni che si affrontano nella vita quotidiana dovrebbe costituire una priorità sia per il paziente, sia per chi ha cura di lui». L’autoefficacia, ovvero la convinzione di poter raggiungere gli obiettivi prefissati e di affrontare le difficoltà che la vita pone, avendo fiducia nelle proprie risorse, è un sentimento che può essere favorito dalle esperienze positive, in una sorta di circolo virtuoso, dall’osservazione di altre persone che ce l’hanno fatta, e dalla persuasione, ovvero dall’incoraggiamento e dal sostegno da parte di chi crede nelle competenze della persona.

I gruppi di mutuo aiuto o di terapia breve, all’interno delle Associazioni a supporto delle persone HIV positive che svolgono attività continuativa direttamente a contatto con l’utenza, possono incrementare il sentimento di autoefficacia e possono favorire l’individuazione delle capacità, dei limiti e dei passi necessari, anche intermedi, per raggiungere gli obiettivi funzionali alla realizzazione in ambito personale, familiare, lavorativo, sociale.
Si innesca così un processo circolare, in cui il senso di autoefficacia e gli obiettivi raggiunti aiutano a trovare un senso alla propria vita e accrescono i livelli di autostima, “costruendo e plasmando l’immagine che abbiamo di noi stessi” (tratto da “Vivere la Sieropositività”).

Oggi più che mai, bisogna ricordare il ruolo decisivo svolto dalle associazioni di volontariato di pazienti HIV, dai gruppi di sostegno e soprattutto dagli attivisti organizzati in gruppi di pressione, all’interno delle steering committees e dei comitati organizzatori dei maggiori congressi: la loro presenza ha fatto sì che non si perdesse mai di vista il fine ultimo di iniziative volte a chiarire aspetti importanti della relazione medico-paziente. Pensiamo, ad esempio, al raggiungimento di alcune conquiste in ambito medico quali il counselling, che si richiede venga offerto obbligatoriamente prima e dopo il test; si pensi ancora alle garanzie individuate per mantenere l’anonimato, alla confidenzialità della relazione, alla questione del consenso informato, ed alla partecipazione agli studi sperimentali.

La lotta alla sieropositività, condotta dagli attivisti, ha rappresentato un’occasione unica in ambito medico per discutere della relazione tra comportamenti e salute ed ha permesso che si iniziasse a parlare di educazione alla salute, di promozione della salute e non semplicemente di prevenzione di stati patologici.

Infertilità: dove sono finiti gli uomini?

Nel panorama scientifico ci sono molte ricerche che si occupano degli aspetti psicologici dell’ infertilità e dei percorsi in procreazione medicalmente assistita, ma pochi riguardano gli uomini. Gli studi e le ricerche sono tendenzialmente più orientate a capire l’esperienza delle donne piuttosto che quella degli uomini.

 

Perché accade questo? Culley e i suoi collaboratori in una review interessante del 2013 parlano di una sorta di marginalizzazione degli uomini nel panorama scientifico (Culley et al, 2013).  Sembra quasi che gli uomini, quando si parla di riproduzione siano il “secondo sesso”. Non solo si sa poco di quello che l’uomo pensa rispetto al fare un figlio, ma anche rispetto alla decisione e all’esperienza stessa, così come si sa poco di quanto l’uomo contribuisca alla decisione della donna e agli aspetti riproduttivi della sua salute.

Infertilità: solo un problema femminile?

L’ infertilità in generale è concettualizzata come un problema femminile, al di là del fatto che il coinvolgimento femminile è maggiore in ogni senso, ma anche quando la causa dell’ infertilità è data da un fattore maschile, si sa poco di quella che è la loro esperienza. Manca ad esempio una rappresentazione emotiva degli spermatozoi in uomini che hanno problemi di infertilità e sono scarsi gli studi che si occupano delle ripercussioni che una diagnosi di infertilità ha sull’uomo. ( Swierkowsi-Blanchard et al., 2016)

Una delle motivazioni per questo disinteresse nella vita degli uomini è l’attribuzione quasi esclusiva del “pacchetto procreazione” alla vita delle donne da parte del contesto sociale culturale. Questa è da sempre vista come una “faccenda” femminile . A ben guardare ogni argomento che ruota intorno a questo tema, dal parto alla nascita alla contraccezione è inestricabilmente legata alla femminilità, con la ovvia controindicazione di una quasi assoluta assunzione di responsabilità da parte della donna. In aggiunta, ciò  marginalizza l’uomo in termini di diritti e di responsabilità, dalla pianificazione alla preparazione alla genitorialità.

Gli studi relativi all’ infertilità si concentrano sulla donna perché è la donna che riceve le cure e sostiene una  gravidanza. Il focus è sul corpo della donna e questo rinforza l’esclusione della prospettiva maschile e la percezione del contributo maschile, se non relativamente alla performance della sua mascolinità messa in contrapposizione all’altalena emotiva della donna.

Il corpo degli uomini tuttavia comincia a essere maggiormente considerato dall’introduzione di terapie e tecniche che lo coinvolgono più direttamente, basti pensare alla donazione di sperma o al ricorso al seme di terzi nella fecondazione eterologa.

È stato scritto poco riguardo i loro desideri e quella che si potrebbe chiamare la loro coscienza riproduttiva e responsabilità procreativa. Dunque, è difficile capire la preparazione degli uomini alla paternità, incluso il desiderio di avere un figlio, la consapevolezza della loro fertilità o infertilità e lo sforzo nel concepire un bambino.

Alcuni studi sostengono che l’ infertilità stressa maggiormente le donne piuttosto che gli uomini e che ci sono strategie di coping differenti. Uno studio del 2013 però effettuato su larga scala a livello europeo, mette in luce come lo svantaggio psicologico di non avere figli sia più forte per gli uomini che per le donne ( Hujitus et al., 2013).

Uomini e infertilità: quali vissuti?

Quel che diventa sempre più evidente è che l’ infertilità comporta uno stress emotivo anche per gli uomini indipendentemente dalla gravita della condizione di infertilità o dell’essere parte di una coppia infertile.

Il dolore e la sofferenza dell’uomo passano non solo dal significato della loro virilità, ma anche dal senso di colpa, dato dal fatto che sia la partner a sottoporsi in primis al dolore e allo stress dei trattamenti dell’ infertilità. C’è una quota di stress indiretto dunque, determinato proprio dal fatto di vedere la fatica della propria partner nel sottoporsi ai trattamenti e non poter far nulla per evitarglielo se non standole accanto e fornirle supporto emotivo.

Ci sono poi una serie di studi che si orientano principalmente sul concetto di mascolinità legato alla capacità procreativa dell’uomo e alla qualità del suo seme. Altri studi mettono in luce come oggi l’esperienza di infertilità e i relativi esami/terapie costituiscano un vero e proprio trauma per alcuni uomini al punto da innescare delle difficoltà sessuali. Ad esempio, in uno studio del 2016 viene chiesto a un gruppo di uomini senza figli etereo sessuali quale significato ha per loro avere un numero alto o normale di seme. La risposta più frequente nel caso di uomini in coppia era “avere un bambino”, mentre nel caso di single esso si associava più a un vissuto di mascolinità e virilità oppure una maggiore abilità sessuale. Allo stesso modo alla domanda “cosa accadrebbe se avessi uno scarso o nullo  numero di spermatozoi”, gli uomini per lo più rispondono che sarebbe doloroso. Gli uomini in coppia parlano anche di sentimenti di colpa e di vergogna rispetto alla loro partner.

Tutto sommato mancano studi specifici centrarti maggiormente su cosa gli uomini pensano dell’ infertilita e cosa sentono. Qual è  la loro esperienza durante il trattamento, il loro supporto, quanto contano nella decisione di interrompere il trattamento, il vissuto del loro ruolo nelle decisioni che vengono prese in questo iter. Anche perché spesso la decisione ultima viene affidata alla donna, visto che è lei a essere sottoposta a trattamento. La conseguenza di ciò può essere un maggior senso di solitudine e di responsabilità rispetto a un progetto di coppia.

L’ infertilità è una questione dolorosa e difficile da qualsiasi parte la si guardi, ma nel bene e nel male è maggiormente la donna a essere al centro dell’osservazione e della cura. La verità è che c’è una coppia, ma ci sono anche due individui e spesso nel tentativo di proteggere l’altro dal proprio dolore, si creano silenzi e difficoltà comunicative che possono mettere a dura prova la coppia stessa. Comprendere meglio i vissuti dell’uomo può essere un primo passo per facilitare la comunicazione e la condivisione.

Passivi o aggressivi? Meglio assertivi!

L’ assertività è una caratteristica del comportamento umano che permette alla persona di esprimere le proprie emozioni e punti di vista ed accogliere contemporaneamente le emozioni e il punto di vista dell’altro. Il comportamento assertivo quindi, permette all’individuo di rispettarsi e nello stesso tempo di rispettare l’interlocutore con il quale si relaziona.

 

Mancanza di assertività: essere passivi o aggressivi

Spesso, non si è in grado di far rispettare i propri limiti, di mettere i giusti paletti per preservare la propria intimità dal comportamento poco assertivo dell’altro; oppure accade che non si riesca a rispettare i limiti delle persone con le quali ci relazioniamo, senza neanche rendercene conto.

Seguono alcuni esempi di comportamento non assertivo:
– un amico prende in prestito un nostro cd musicale senza dircelo, convinto che la confidenza basti a giustificare un atteggiamento simile;
– una ragazza prende il cellulare del proprio partner o amico senza chiedere il permesso, anche se solo per cercare una notizia su google;
– un ragazzo prende con la sua forchetta la pasta dal piatto del suo amico per assaggiarla;
– siamo in dubbio se uscire o meno nel weekend, e lasciamo che la nostra amica aspetti la nostra risposta anche per un giorno intero;
– una mamma entra in camera della figlia senza bussare, oppure legge di nascosto il suo diario per controllare che stia bene e frequenti le persone giuste.

Questi sono solo alcuni degli eventi che potremmo considerare comuni, e che siamo abituati a minimizzare giustificandoli con la certezza che l’altra persona ci ami e sia pronta quindi ad accettare i nostri abusi di confidenza.

Il comportamento non assertivo può essere di tipo passivo o aggressivo.

Non esistono delle persone completamente aggressive o passive, ma esistono delle tipologie di persone tendenzialmente orientate verso l’una o l’altra modalità comportamentale.
Le due tipologie di comportamento non assertivo in genere sono apprese negli ambienti di crescita della persona, ma corrispondono anche a delle sfaccettature caratteriali insite nella struttura personologica dell’individuo.

Anche l’ambiente in cui la persona si trova può condizionare la messa in atto dell’uno o dell’altro comportamento, a seconda anche dell’interlocutore con il quale ci si relaziona.

Quindi, una stessa persona può assumere un comportamento di tipo passivo di fronte alle richieste di tipo aggressivo del suo datore di lavoro, e una volta tornato a casa riproporre il comportamento aggressivo con il quale è stato trattato nella relazione con la moglie e i figli, nel tentativo di riequilibrare la sua autostima.

Il livello di autostima infatti, sembra essere direttamente proporzionale al livello di assertività che si riesce a mettere in gioco nei confronti degli attori sociali con i quali ci si relaziona. Essere capaci di dar valore ai propri bisogni ed esprimerli in maniera adeguata senza lasciarsi invadere dalle necessità e dalle opinioni dell’altro o senza il bisogno di imporli a tutti i costi, ci permette di percepirci come persone consapevoli e integre, piene di valore e centratura.

Inoltre mettere in atto un comportamento assertivo stimola l’ assertività dell’interlocutore e promuove un feedback relazionale positivo, nutriente per la propria autostima ed utile a migliorare la percezione dell’immagine di sé.

Sembra che entrambi gli atteggiamenti, aggressivo e passivo abbiano un elemento in comune: la paura che il proprio pensiero o bisogno non venga riconosciuto e accolto, che la propria persona non venga accettata e valorizzata.

I comportamenti che si mettono in atto sono però diversi, ma entrambi compensatori: la persona aggressiva si mostra ostinata e giudicante, mentre la persona passiva appare compiacente e dipendente dal giudizio altrui.

Come si può acquisire la capacità di essere assertivi nelle relazioni quotidiane?

Il primo passo verso l’ assertività consiste sicuramente nell’accogliere, autorizzare e convalidare la paura di non essere accettati.
Ogni emozione, positiva o negativa che sia, ha in se stessa un significato da accettare e comprendere. Considerare questa paura come una nemica da distruggere non può far altro che sortire l’effetto opposto: essa verrà vissuta in maniera amplificata e costringerà la persona a mettere in atto dei comportamenti compensatori, aggressivi o passivi.

L’accettazione delle emozioni spiacevoli e la condivisione delle stesse può facilitare la loro gestione da parte della persona che le prova e favorire la centratura necessaria per mettere in atto un comportamento equilibrato e assertivo. L’ assertività è il segreto che sta dietro alla costruzione e al mantenimento di relazioni sociali sane e costruttive.

Efficacia degli antidepressivi: le aspettative del paziente influenzano il trattamento?

I farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRIs) costituiscono il trattamento farmacologico più comune per patologie come la depressione (Bschor & Kilarski, 2016; Khan & Brown, 2015) e l’ansia (Roest, et al., 2015; Sugarman, et al., 2014). Nonostante ciò, è in corso un dibattito tra clinici e ricercatori su quanto l’efficacia di tali farmaci sia reale o influenzata dalle aspettative del paziente sul trattamento stesso (Moncrieff, et al., 2004).

 

Le aspettative del paziente influenzano l’efficacia degli SSRI?

Rispetto a questo tema, recentemente è stato pubblicato su EBioMedicine uno studio dei ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Uppsala. Essi si erano posti l’obiettivo di indagare come le aspettative indotte verbalmente nel paziente, attraverso le prescrizioni mediche, influenzassero l’efficacia degli SSRI in soggetti con disturbo d’ansia sociale. In letteratura erano già presenti ricerche simili (Faria, et al., 2012; Faria, et al., 2014), però nessuna aveva misurato e manipolato sperimentalmente le aspettative del paziente sull’esito terapeutico.

Per testare quest’ipotesi specifica, tutti i pazienti con ansia sociale sono stati trattati con la stessa dose di escitalopam per nove settimane. Un gruppo è stato informato correttamente sull’efficacia del farmaco, l’altro invece credeva di essere trattato con un farmaco definito “placebo attivo” con effetti collaterali simili agli SSRI ma senza miglioramento clinico. Sebbene il trattamento farmacologico fosse identico nei due gruppi, i risultati mostravano il triplo dei miglioramenti in pazienti correttamente a conoscenza dell’efficacia del farmaco che avevano assunto.

Inoltre, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), era emerso che l’attività cerebrale in risposta agli SSRI era differente nei due gruppi a livello della corteccia cingolata posteriore e della sua connessione con l’amigdala, area fortemente coinvolta nelle risposte di paura e ansia.

Questi dati dimostrano l’importanza della comunicazione tra medico e paziente, sottolineando l’influenza delle informazioni verbali sugli effetti ansiolitici degli SSRI e la relativa attività cerebrale. Ciò non significa screditare le proprietà terapeutiche degli SSRI, ma attribuire pari importanza al trattamento e alla modalità di presentazione dello stesso.

La comprensione narrativa: un processo universale indipendente dal linguaggio

Lettori Inglesi, Iraniani e Cinesi userebbero le stesse parti del cervello per decodificare il significato di ciò che stanno leggendo. Una nuova ricerca dell’University of Southern California ha dimostrato che la lettura di storie attiva regioni analoghe nel cervello di soggetti con idiomi diversi. Per la prima volta nello scenario delle neuroscienze, sono stati scoperti modelli di attivazione cerebrali simili durante la comprensione narrativa a prescindere dalla lingua madre dei soggetti.

 

Come avviene la comprensione narrativa nel cervello?

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori hanno individuato le aree cerebrali implicate nella comprensione narrativa del significato di storie scritte in soggetti di lingua inglese, persiana (Farsi) e cinese mandarino.

L’ipotesi alla base della ricerca è rappresentata dall’idea secondo la quale l’esposizione al racconto narrativo potrebbe portare ad una maggior consapevolezza di se stessi e ad un aumento dell’empatia nei confronti degli altri, indipendentemente dalla lingua o dall’origine degli ascoltatori.

Per realizzare lo studio, i ricercatori hanno raccolto più di 20 milioni di post personali condivisi su un blog, sono state poi selezionate 40 storie riguardanti diversi argomenti privati quali ad esempio il divorzio. Gli aneddoti personali sono stati tradotti e presentati a soggetti Americani, Cinesi e Iraniani ai quali era richiesto di leggere nella propria lingua madre e rispondere a domande inerenti le narrazioni durante una sessione di risonanza magnetica.

Morteza Dehghani, autore dello studio e ricercatore presso il Brain and Creativity Institute dell’Università californiana afferma “nonostante la presenza di differenze a livello linguistico, quali ad esempio la direzione nella lettura o l’alfabeto completamente diverso, esiste un qualcosa di universale all’interno del cervello nel momento in cui elaboriamo le narrazioni”.

Cosa succede quindi all’interno del cervello? In tutti i soggetti sperimentali la lettura di ogni storia attiva specifici patterns di aree cerebrali generalmente attive e coinvolte nel cosiddetto “default mode network” del cervello. Il “default mode network” è una rete complessa di regioni corticali e sottocorticali che si attivano nel momento in cui la persona non è impegnata in alcun compito specifico, quando cioè non si utilizza attenzione focalizzata. In altre parole questo network, definibile come il pilota automatico del cervello, si attiverebbe quando quest’ultimo è in modalità standby ovvero in uno stato di riposo (Resting State).

Le evidenze trovate dimostrano che le aree solitamente coinvolte nel “default mode network” lavorano continuamente per decifrare il significato della narrazione svolgendo una funzione di recupero dei ricordi autobiografici che, a loro volta, influenzano la conoscenza relativa a noi stessi (al nostro passato e al nostro futuro) e alle nostre relazioni con gli altri. I risultati ottenuti avvalorano quindi l’ipotesi iniziale secondo la quale la lettura di storie è un’esperienza universale, indipendente dalle differenze linguistiche e culturali, che può avere come conseguenza una maggior empatia nei confronti degli altri.

Trauma: la vera sfida è intercettare l’impatto. Il 28 ottobre un convegno a Roma apre al confronto internazionale – Comunicato Stampa SISST

Un convegno internazionale gratuito su “Narrazione, trauma e salute: dall’individuo alla società” il 28 ottobre a Roma per capire ‘cosa si sta muovendo’ nella psicotraumatologia non solo a livello italiano ma anche europeo. La sfida è intercettare l’impatto del trauma il più precocemente possibile, non solo quando si presentano dei quadri clinici molto compromessi e complessi.

 

Roma, 9 ottobre

L’obiettivo è far vedere ‘cosa si sta muovendo’ nella psicotraumatologia non solo a livello italiano ma anche europeo. La sfida è intercettare l’impatto del trauma il più precocemente possibile, non solo quando si presentano dei quadri clinici molto compromessi e complessi.

Con questo intento Vittoria Ardino, presidente della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (Sisst), promuove insieme all’Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) e al Dipartimento di studi umanistici e internazionali dell’Università di Urbino (Discui) un convegno internazionale gratuito su “Narrazione, trauma e salute: dall’individuo alla società” il 28 ottobre a Roma nella Sala Congressi via Rieti dalle 8.30 alle 19.

l contesto italiano deve uscire da un isolamento di tematiche che si esaurisce nello studiare il trauma per possedere solo alcune tecniche psicoterapeutiche. Lo studio dell’impatto del trauma – chiarisce Ardino- tocca diversi aspetti dell’individuo, per questo motivo il campo non può essere ristretto alla clinica, ma deve aprirsi alla prevenzione per identificare e intercettare l’impatto che l’esperienza traumatica ha sull’individuo e sulla società. Un tema sul quale l’Italia è ancora molto indietro – denuncia la presidente della Sisst.

Questo significa “far parlare diversi professionisti”. Infatti, al convegno parteciperanno tanti esperti in settori differenti: psicoterapeuti, neuropsichiatri, docenti universitari, pediatri, un antropologo, un sociologo esperto di migrazioni e un avvocato che si occupa da anni di advocacy per la Fondazione Terre des Hommes Italia. La conferenza sarà, infatti, l’occasione per presentare proprio una ricerca congiunta della Sisst e della Fondazione Terre des Hommes sui costi delle mancate cure psicosociali per i minori migranti:

È uno studio di valutazione economica condotto sui minori stranieri non accompagnati in Italia e Germania. Abbiamo messo a confronto il sistema attuale delle cure psicosociali in questi due paesi con un modello sanitario virtuoso che investe nella prevenzione delle esperienze traumatiche, o delle problematiche legate alla Salute mentale, comportando un risparmio per la società nel lungo periodo. Al convegno mostreremo uno spaccato sulle diverse strategie legate a differenti politiche sociali e sanitarie. La sfida che si pone oggi la psicotraumatologia – continua Ardino- è chiedersi quali modelli di servizio possiamo implementare per intercettare meglio il trauma. Non è più sufficiente limitarsi a quello che avviene in uno studio privato dello psicoterapeuta, deve esserci una risposta sociale e pubblica al trauma.

La conferenza vedrà la partecipazione di relatori nazionali e internazionali e ha già ricevuto i patrocini dell’European Society for Traumatic Stress Studies (Estss), del Centro interdipartimentale per la ricerca transculturale applicata (Cirta) dell’Università di Urbino e della Fondazione Terre des Hommes Italia.

La presenza della Estss è un segnale importante, così come quella degli esperti dell’IdO grazie alla loro esperienza sui traumi che avvengono nella collettività. Questo ci aiuta – ricorda la presidente della Sisst- a far capire come evolve il trauma nel tempo, qual è la tempistica delle reazioni a livello collettivo per poterle prevenire al meglio.

Di trauma psicologico si parla da tempo.

Eventi traumatici sono sempre stati presenti in tutte le società e in tutte le epoche storiche. Oggi ne abbiamo una maggiore consapevolezza – fa sapere Ardino- e questo ci permette una riflessione più fine sul tema. È vero che accadono eventi potenzialmente traumatici a livello sociale, ma non dimentichiamo che il grande sommerso del trauma è legato ai traumi intra-familiari.

Per parlare di trauma, spiega la presidente della Sisst, occorre analizzare tre fattori: l’impatto, la specificità dell’evento e le caratteristiche individuali e sociali.

L’evento di per sé non ci dice niente – afferma la studiosa – dobbiamo sempre leggerlo insieme all’impatto che può avere su un singolo individuo, un gruppo sociale o una famiglia. È chiaro che per essere definito traumatico dovrà rappresentare una minaccia reale e/o percepita di pericolo per l’incolumità e l’integrità fisica e psicologica dell’individuo e/o di un gruppo sociale. È necessario osservare quale sarà l’impatto che questo evento avrà nel lungo periodo a livello individuale e collettivo. Il trauma diventa tale – conclude la presidente della Sisst – quando mette in scacco le risorse individuali e sociali, altrimenti si tratterà solo di un evento molto difficile da affrontare ma comunque superabile.

Oltre al convegno si svolgeranno anche due workshop il 27 ottobre a Roma, nella sede dell’IdO in via Alessandria 128/b. Il primo dalle 15 alle 18.30 su “La Brief Eclectic psychotherapy (BEEP) for PTSD (Disturbo post traumatico da stress) e la Narrative Exposure Therapy (NET)” che punta ad aprire un focus sulle terapie brevi per i disturbi trauma-correlati con Vittoria Ardino e Mariel Meewisse (in lingua inglese con traduzione); il secondo “Tra Psiche e Corpo: Memorie Somatiche e Trauma”, dalle 15.30 alle 18.30 con Tommaso Farma, esponente del board Estss.

Il convegno è gratuito, mentre i workshop prevedono un piccolo contributo spese. Per info e prenotazione: [email protected].

 

SCARICA LA LOCANDINA DELL’EVENTO

L’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d’ansia

L’utilizzo della realtà virtuale (VR) nel trattamento dei disturbi d’ansia supera le limitazioni dell’ esposizione in vivo o immaginativa. L’ esposizione in realtà virtuale si ritrova ad essere sotto il completo controllo del terapeuta il quale può generare gli stimoli di intensità diversa a seconda delle necessità del paziente ed eventualmente interrompere l’esposizione in caso di eccessiva attivazione emotiva.

Michela Cavallaro e Alessandro Gasperi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Fin dai primi anni 90 iniziarono le ricerche e gli esperimenti sull’utilizzo della realtà virtuale all’interno del contesto clinico; in questi anni i trials clinici sono dei veri e propri studi pionieristici che divennero poi sempre più sofisticati fino ad arrivare ai giorni nostri, dove l’uso della realtà virtuale nello studio del clinico diventa un ulteriore contesto di interazione attraverso il quale è possibile fare terapia.

I disturbi d’ansia sono molto diffusi in tutto il mondo e hanno una ricaduta significativa sulla vita personale e lavorativa. Attività comuni come prendere un treno, viaggiare in metropolitana, incontrarsi con altre persone e stare in luoghi affollati diventano così stressanti da portare il soggetto a evitare tutte le situazioni temute. Col tempo i comportamenti di evitamento peggiorano e si crea un circolo vizioso in un’ottica di condizionamento: infatti da una parte i comportamenti di evitamento, riducendo lo stimolo eversivo (ansia) fungono da rinforzo negativo, dall’altra il perpetrarsi delle condotte di evitamento mantiene l’associazione tra lo stimolo condizionato e lo stimolo incondizionato impedendo l’estinzione del fenomeno. Tra i molteplici trattamenti disponibili per i disturbi d’ansia è emerso che le terapie basate sull’esposizione risultano più efficaci di altre (Olatunji BO et al., 2010).

L’esposizione in vivo, in immaginazione e l’ esposizione in realtà virtuale

L’ esposizione è un processo mediante il quale il paziente si espone progressivamente allo stimolo temuto o alla situazione che gli genera ansia permettendo l’estinzione del fenomeno mediante abituazione. Tale terapia è risultata efficacie nel trattare fobie e disturbi quali il disturbo da attacchi di panico, la fobia sociale e il disturbo ossessivo compulsivo (Barlow JH et al., 2005; Olatunji BO et al., 2010). L’ esposizione può avvenire anche in concomitanza con l’utilizzo di tecniche di rilassamento, che generano uno stato fisiologico incompatibile con l’ ansia (Wolpe J., 1958). In questi protocolli il paziente impara a gestire l’ansia sostituendo l’attivazione disfunzionale con il rilassamento. Inoltre avendo la possibilità di osservare i suoi pensieri e le sue credenze con l’aiuto del terapeuta, mentre sperimenta l’ ansia, il paziente può ridurre le sue attribuzioni cognitive. Questo processo aiuta la persona a fronteggiare le sue paure e a rompere il circolo vizioso che mantiene il disturbo.

Tradizionalmente l’ esposizione può essere applicata in due modi: in vivo, cioè attraverso il contatto diretto con lo stimolo temuto, o attraverso l’immaginazione dello stimolo. Entrambi questi metodi presentano però dei limiti. L’ esposizione immaginativa risulta infatti difficile per alcuni pazienti che hanno scarse abilità nel creare immagini mentali. Ricostruire nella mente uno stimolo temuto può essere reso inoltre inaccurato a causa della paura stessa che generano tali immagini. L’ esposizione in vivo invece presenta altre limitazioni. Alcuni pazienti infatti possono essere contrari ad esporsi agli stimoli temuti nella realtà. L’ esposizione in vivo inoltre non è sotto il completo controllo del terapeuta il quale non può prevedere né evitare eventuali imprevisti. Infine alcune esposizioni risultano poco economiche o praticabili da effettuarsi in vivo, come nel caso della paura di volare, o comunque richiedono un certo sforzo da parte sia del terapeuta che del paziente che, dovendo lavorare insieme in situazioni stressanti reali, devono incontrarsi al di fuori dello studio.

L’utilizzo della realtà virtuale (VR) nel trattamento dei disturbi d’ansia supera molte di queste limitazioni e per questo negli anni ha attirato l’interesse di molti clinici. L’esposizione in realtà virtuale, al contrario di quella in vivo, si ritrova ad essere sotto il completo controllo del terapeuta il quale può generare gli stimoli di intensità diversa a seconda delle necessità del paziente ed eventualmente interrompere l’esposizione in caso di eccessiva attivazione emotiva. Il paziente può trovarsi più a suo agio a non affrontare lo stimolo nella realtà e la sua motivazione può quindi aumentare. È possibile inoltre ritagliare e ripetere una porzione di un evento più complesso per lavorare esattamente sullo stimolo critico senza perdere tempo con aspetti concomitanti. Alcune esposizioni a determinati stimoli, che in vivo risulterebbero costose, impraticabili o addirittura pericolose, grazie alla realtà virtuale risultano applicabili e ripetibili nello studio del terapeuta. Rispetto all’ esposizione immaginativa invece offre la possibilità di visualizzare un ambiente realistico e di interagire con esso, rendendo l’esperienza maggiormente immersiva e aumentando quindi il coinvolgimento personale. (Repetto & Riva, 2011).

La tecnologia della realtà virtuale

Il sistema della realtà virtuale è una combinazione di dispositivi tecnologici che consente all’utilizzatore di creare, esplorare ed interagire con ambienti in 3D. Questo è reso possibile da alcuni strumenti di input, guanti e tracker, che inviano la posizione e i movimenti dell’utilizzatore al computer in tempo reale consentendogli di cambiare la grafica degli ambienti virtuali in maniera coerente con le informazioni acquisite, un software che consenta la costruzione e il mantenimento dell’ambiente virtuale e dispositivi di output, visivi, uditivi e aptici, che rimandano un feedback dell’interazione all’utilizzatore. L’interazione di questi dispositivi permette all’utilizzatore di immergersi e di percepire un certo grado di “presenza” all’interno del mondo virtuale (Repetto & Riva, 2011). Le principali tecniche che sono state utilizzate per immergere i partecipanti nel mondo virtuale sono il display montato sulla testa (HMD) e l’ambiente automatico virtuale generato dal computer (CAVE). Nel CAVE il paziente e il terapeuta sono all’interno di un’istallazione cubica e circondati da immagini stereoscopiche generate dal computer su 4 e fino a 6 superfici. Paziente e terapeuta vengono muniti di occhiali per il 3D, un sistema di Tracking elettromagnetico e un sensore posizionato sugli occhiali del paziente vengono utilizzati per generare la corretta prospettiva (Fig.1).

L'esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d'ansia - Psicoterapia IMM 1

Fig. 1 – Esempio di CAVE

Il sistema HMD invece è composto da un display con degli schermi per generare l’ambiente virtuale e degli speaker vicino alle orecchie. Mediante un sensore attaccato all’elmetto e un sistema di tracking elettromagnetico, l’ambiente virtuale cambia in corrispondenza con i movimenti della testa compiuti nel mondo reale. L’elmetto è collegato a un computer dove il terapeuta può controllare ciò che vede il paziente e può controllare l’ambiente virtuale facendo comparire stimoli o muovendo il paziente all’interno di esso (Krijn M. et al., 2004 – Fig 2).

L'esposizione in realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d'ansia - Psicoterapia IMM 2

Fig. 2 – Esempio di sistema HMD

Presenza, immersione ed emozioni

L’uso della realtà virtuale nella terapia basata sull’ esposizione si fonda sull’assunto che il paziente sperimenti un certo grado di presenza all’interno dell’ ambiente virtuale e che stimoli temuti percepiti virtualmente, quindi non realmente presenti, generino comunque paura ed ansia. Sul concetto di presenza non si è raggiunto un accordo sulla definizione, ma molti ricercatori concordano su ciò che non è, come sottolineato da Riva e colleghi:

La presenza non è il livello di immersione tecnologica, non è la stessa cosa di un coinvolgimento emotivo, non è profondo interesse o attenzione o azione; ma tutte queste componenti hanno un ruolo potenziale per comprendere l’esperienza della presenza in interazione – l’esperienza di interagire con presenza ( Riva et al., 2014).

Al grado di presenza è stato attribuito un ruolo da mediatore necessario affinché emozioni reali vengano attivate in ambiente virtuale, sebbene questa relazione non sia stata del tutto chiarita in letteratura (Diemer et al., 2015). Il fenomeno della presenza interagisce sia con il grado di immersività che con le emozioni sperimentate. Un ambiente maggiormente immersivo, dato da una grafica aumentata, integrata e interattiva, è risultato essere maggiormente associato in letteratura a un maggiore senso di presenza specialmente con stimoli virtuali emotivamente neutri (Baños et al., 2004). Una maggiore immersività è inoltre associata ad un aumento della risposta emotiva, ma solo nel caso di emozioni altamente attivanti come ansia e paura, e non felicità e rilassamento (Juan & Perez, 2009; Freeman et al., 2005). La combinazione di più vie percettive, come quella visiva e tattile insieme, risulta inoltre produrre una maggiore risposta emotiva in presenza di uno stimolo spaventante, rispetto a una sola via percettiva (Peperkorn & Muhlberger, 2013). Il grado di presenza e il livello di paura percepito all’interno di un ambiente virtuale mostra una correlazione positiva solo in soggetti paurosi, così come anche la presenza e il livello di ansia sembrano maggiormente associati solo nei soggetti più ansiosi (Peperkorn & Muhlberger, 2013; Alsina-Jurnet et al., 2011). Questa correlazione risulta invece minore quando l’emozione sperimentata è meno attivante, come gioia o rilassamento. Il livello di presenza esperito e l’attivazione emotiva all’interno dell’ ambiente virtuale sembrano essere quindi variabili mutuamente dipendenti (Diemer et al., 2015). Gli studi che hanno indagato se l’ esposizione in realtà virtuale produca un’attivazione fisiologica di paura hanno mostrato che questa reazione è presente, soprattutto in termini di conduttanza cutanea, sia in pazienti con disturbi d’ansia sia in soggetti sani, mentre non hanno prodotto risultati conclusivi circa il processo di abituazione in realtà virtuale (Diemer et al., 2014).

Risultati nel trattamento dei disturbi d’ansia

Nelle fobie specifiche la terapia basata sull’ esposizione in realtà virtuale (VRET) ha permesso un’alternativa meno minacciosa rispetto all’ esposizione in vivo e più pratica rispetto all’ esposizione immaginativa. Durante le sessioni in vivo infatti quando i pazienti devono fronteggiare lo stimolo minaccioso circa il 27% di loro rifiutano la terapia e la interrompono mentre solo il 3% rifiuta l’ esposizione in realtà virtuale. Se messe a confronto i pazienti con fobie specifiche scelgono l’ esposizione in realtà virtuale nel 76% dei casi (García-Palacios et al., 2007). Per quanto riguarda l’efficacia, l’ esposizione in realtà virtuale è stata applicata e si è dimostrata efficacie in molte fobie specifiche. Una metanalisi di Powers ed Emmelkamp (2008) suggerisce che all’interno del dominio delle fobie specifiche non solo l’ esposizione in realtà virtuale si dimostra altamente efficacie se confrontata con gruppi di controllo, ma presenta anche un’efficacia lievemente superiore all’ esposizione in vivo (Powers & Emmelkamp, 2008).

Gli studi sull’uso dell’ esposizione in realtà virtuale nella acrofobia (paura dei luoghi alti) sono iniziati fin dagli anni 90. Uno studio del 1995 ha mostrato che un campione di studenti sottoposti a esposizione in realtà virtuale rispetto a un gruppo di controllo mostravano una riduzione della paura dell’altezza. Il risultato però è stato messo in dubbio dato che durante la sperimentazione alcuni studenti si sono sottoposti anche a esposizioni in vivo (Rothbaum et al., 1995). In seguito una serie di studi controllati ha confermato l’efficacia dell’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento dell’acrofobia. Rispetto all’esposizione in vivo infatti non emergevano differenze nei miglioramenti prodotti sui sintomi (Emmelkamp et al., 2001; Emmelkamp et al., 2002; Krijn et al. 2004). In due studi è emerso comunque un consistente numero di drop out causato da una bassa percezione di presenza durante l’ esposizione in realtà virtuale (Emmelkamp et al., 2002; Krijn et al. 2004).

Per il trattamento dell’aracnofobia è stato integrato all’ immagine virtuale di un ragno anche uno stimolo tattile che riproduceva la superficie pelosa dell’aracnide, espediente che permette di aumentare ulteriormente l’attivazione emotiva prodotta (Peperkorn & Muhlberger, 2013). Questo metodo utilizzato dapprima in uno studio su un singolo caso (Carlin et al., 1997) è stato poi riprodotto da uno studio del 2002. In questo studio i soggetti trattati con la esposizione in realtà virtuale e stimolazione tattile hanno ottenuto miglioramenti in tutte le misurazioni utilizzate rispetto ai soggetti in lista di attesa (Garcia-Palacios et al., 2002). Confrontando l’efficacia dell’ esposizione in vivo e dell’ esposizione in realtà virtuale nei pazienti aracnofobici non emergono differenze tra le due terapie se non un maggiore miglioramento sulle credenze cognitive sui ragni nei soggetti trattati in vivo (Michaliszyn D et al., 2010).

Nel trattamento della fobia specifica per il volo, l’ esposizione in realtà virtuale mostra dei vantaggi indiscutibili rispetto all’esposizione standard. Le singole componenti del volo, come partenza, viaggio e atterraggio, possono essere infatti ripetute all’infinito nell’ufficio del terapeuta anche con diverse condizioni atmosferiche. Gli studi effettuati con un gruppo di controllo hanno mostrato che l’ esposizione in realtà virtuale, sia in associazione con la terapia cognitiva che da sola, è efficacie nel ridurre i sintomi della paura di volare (Da Costa et al., 2008). Da uno studio che ha messo a confronto gli effetti dell’ esposizione in realtà virtuale con quelli della terapia cognitivo comportamentale (CBT) e della biblioterapia è emerso che i primi due sono entrambi più efficaci rispetto all’ultimo. Non emergevano invece differenze significative fra la CBT e l’ esposizione in realtà virtuale (Krijn et al., 2007).

Rispetto alle fobie specifiche gli altri disturbi d’ansia sono stati meno indagati. Mentre per alcune fobie specifiche, come l’aracnofobia o la paura di volare, ci sono delle evidenze dell’efficacia dell’ esposizione in realtà virtuale, per quanto riguarda altri disturbi d’ansia, come il disturbo da attacchi di panico e il disturbo d’ansia sociale i risultati sono promettenti ma necessitano di maggiori studi controllati (Meyerbroker et al., 2010).

Nel caso del disturbo da attacchi di panico con agorafobia (DPA) sono stati creati tutta una serie di ambienti virtuali per esporre i pazienti all’ ansia, per esempio un ascensore, un supermercato, una piazza e una panchina (Vincelli F. et al., 2002). L’ esposizione in realtà virtuale si è dimostrata efficace nel migliorare i sintomi del DPA rispetto ad una condizione senza trattamento. Tale miglioramento inoltre non sembra influenzato dal metodo utilizzato (HDM o CAVE) o dal livello di presenza sperimentato dai pazienti (Meyerbroeker K. et al., 2011). In uno studio randomizzato pazienti con DPA trattati con l’ esposizione in realtà virtuale e CBT hanno ottenuto miglioramenti simili a pazienti trattati con la CBT e l’esposizione in vivo. Questo miglioramento avveniva dopo lo stesso numero di sedute e con un profilo temporale simile fra le due condizioni, suggerendo uno stesso processo sottostante. Nonostante questo gli autori ritengono che per questo tipo di disturbo l’ esposizione in realtà virtuale non può essere raccomandata dato che i miglioramenti nei sintomi erano previsti soprattutto dai precedenti cambiamenti delle cognizioni agorafobiche ottenute nella CBT. L’esposizione in vivo inoltre aveva ottenuto un miglioramento leggermente superiore rispetto all’ esposizione in realtà virtuale sulla riduzione della gravità dei sintomi (Meyerbroeker K. et al., 2013).

Per quanto riguarda il disturbo da stress post traumatico (PTSD) diversi studi hanno indagato gli effetti dell’ esposizione in realtà virtuale su reduci di guerra e sopravvissuti ad attentati terroristici. La maggior parte degli studi controllati mostra una riduzione significativa dei sintomi di PTSD nel gruppo trattato con esposizione in realtà virtuale rispetto al gruppo in lista di attesa. Non sono invece emerse differenze statisticamente significative fra l’ esposizione in realtà virtuale e il trattamento basato sull’ esposizione in vivo. È comunque possibile che la differenza fra l’ esposizione in realtà virtuale e altri trattamenti non sia emersa a causa dell’esiguo numero di soggetti utilizzati negli studi. Inoltre nella maggior parte degli studi, insieme all’ esposizione in realtà virtuale venivano somministrati altri trattamenti aggiuntivi come psicoeducazione e gestione dell’ansia (Gonçalves et al., 2012).

Per il trattamento dell’ansia sociale i primi studi di realtà virtuale si sono focalizzati sulla paura di parlare in pubblico. Gli ambienti virtuali utilizzati a questo scopo sono costituiti da un pubblico, che può essere positivo neutro e negativo, davanti al quale l’utilizzatore deve fare un discorso. Questa ambientazione è risultata adeguata per generare ansia nei soggetti che vi si sottoponevano. Studenti con un’elevata paura di parlare in pubblico sperimentavano ansia in tutte e tre le condizioni, mentre studenti con bassa paura di parlare in pubblico provavano ansia solo nella condizione con un pubblico virtuale negativo (Pertaub et al., 2002). Uno studio del 2002 ha mostrato che sottoponendo degli studenti all’ esposizione in realtà virtuale vedevano migliorata la loro ansia sociale e la paura di parlare in pubblico rispetto agli studenti inseriti in un gruppo di controllo (Harris et al., 2002).

L’efficacia dell’ esposizione in realtà virtuale su pazienti con una diagnosi completa di disturbo d’ansia sociale (DAS) è stata indagata solo nel 2010. Nello studio di Robillard e coll. pazienti con un DAS sono stati divisi in tre gruppi: uno trattato con CBT associato alla esposizione in realtà virtuale, uno trattato con CBT associato all’ esposizione in vivo e una lista di attesa. Entrambi i gruppi terapeutici hanno mostrato miglioramenti significativi rispetto alla lista di attesa, ma nessuna differenza significativa fra di loro (Robillard et al., 2010). Un’ulteriore studio ha messo a confronto la sola esposizione in realtà virtuale con la sola esposizione in vivo e una lista di attesa in soggetti con un disturbo d’ansia sociale. Dai risultati è emerso che l’ esposizione in realtà virtuale era associata a un miglioramento dei sintomi rispetto alla lista di attesa, ma l’ esposizione in vivo risultava superiore a quella in realtà virtuale nel ridurre i sintomi. Nel follow up inoltre l’ esposizione in vivo aveva mantenuto i miglioramenti prodotti diversamente dalla esposizione in realtà virtuale. (Kampmann I.L. et al., 2015).

L’ esposizione in realtà virtuale nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è stata poco indagata. L’esposizione di pazienti con DOC ad ambienti virtuali ansiogeni (come un bagno sporco per pazienti con paure di contaminazione) risulta produrre un’attivazione maggiore rispetto all’esposizione di soggetti di controllo (Kim et al., 2009). Uno studio mostra che l’ esposizione in realtà virtuale in soggetti con DOC produce miglioramenti nella sintomatologia del disturbo, ma tale risultato è stato ottenuto su un campione di soli 3 soggetti (Laforest et al., 2016).

La realtà virtuale è stata applicata anche nel trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, per il quale è stata usata sia per creare ambienti virtuali, che aiutassero i pazienti a svolgere esercizi di rilassamento, sia per esporre i pazienti agli aspetti che provocano loro ansia. Tale trattamento ha mostrato risultati nel ridurre l’ ansia dei pazienti, soprattutto se associato al biofeedback durante l’immersione nella realtà virtuale (Gorini et al., 2010)

Conclusioni

Nonostante il primo ambito di studio in cui si è sviluppato l’uso della realtà virtuale sia quello dei disturbi fobici, sono presenti in letteratura anche ambiti di applicazione per altri disturbi quali: i disturbi alimentari (Molinari, Riva, 2004), disturbo da stress post-traumatico, dipendenze patologiche, autismo, ADHD (Vincelli, Riva, 2002, Vincelli, Riva 2007) e ancora per la riduzione del dolore cronico, riabilitazione motoria e si sempre più diffondendo in vari ambiti (Wierderhold, Wierderhold, 2001; Parsons, Rizzo, 2008; Andreoni, Acerra, Rossi, 2009).

Recenti applicazioni della realtà virtuale riguardano l’ambito della riabilitazione; in letteratura sono presenti studi che dimostrano come l’utilizzo della realtà virtuale dia risultati interessanti e di maggior efficacia rispetto alla riabilitazione tradizionale per soggetti con danni cerebrali, disturbi dell’apprendimento, sclerosi multipla, disturbi dello spettro autistico e ritardo mentale Kirner, Cerqueira, Kirner, 2012; Richard, Billaudeau, Richard, Gaudin, 2007; Correa, Klein, Lopes, 2009; Escobedo, Nguyen, Boyrd, Hirano, Rangel, Rosas, Tentori, Hayes,2012).

Attualmente i ricercatori si stanno focalizzando sull’utilizzo della realtà virtuale come strumento che possa favorire lo stato di “immersività”, ovvero quella condizione di estrema concentrazione ed efficienza, che caratterizza attività ad elevato coinvolgimento, emotivo e cognitivo come ad esempio la mindfulness (Neal, 2012).

In conclusione, l’incessante sviluppo tecnologico sta comportando importanti cambiamenti sociali e culturali e nell’ambito della medicina, psicologia e psicopedagogia sta fornendo risorse promettenti. (Cantalemi, 2015).

Per queste ragioni è possibile immaginare oggi la realtà virtuale come strumento per assessment, diagnosi e trattamento.

Cosa resta del padre: la paternità nell’epoca ipermoderna (2017) di M. Recalcati – Recensione del libro

Cosa resta del padreCosa resta del padre oggi? La risposta è scontata e desolante. La cultura di massa non è sola in una gigantesca opera di castrazione: del padre e della paternità stiamo cercando di liberarci in modo univoco, collettivo, universale.

 

Per gli esseri umani, per gli esseri che abitano il linguaggio, non c’è possibilità di autosufficienza, non c’è verso di sfuggire alla dipendenza strutturale dall’Altro.
Noi siamo, in questo senso, una preghiera.
(p. 6-7)

 

Cosa resta del padre? Cosa resta del padre oggi? La risposta è scontata e desolante. I media, la cultura, l’arte, la filosofia, le università – forse persino le religioni istituzionali –  agiscono di concerto. La cultura di massa non è sola in una gigantesca opera di castrazione: del padre stiamo cercando di liberarci in modo univoco, collettivo, universale.

Dei padri cancelliamo ogni traccia. Le culture locali spariscono o sono musealizzate. La storia ci annoia. La scuola riduce le ore di lezione per mandare i ragazzi ad imparare sul serio nelle fabbriche e nelle banche.

Gli esami scolastici sono via via aboliti. Disprezziamo ogni imperativo superegoico. La frustrazione ci terrorizza. Il politically correct è impegnato in un’operazione particolarmente capillare. Solerti vestali della modernità rimuovono statue di guerrieri e generali. E anche il povero Cristoforo Colombo rischia l’estromissione dalle piazze americane. Ovunque ecumenici e “libertari” fast food sostituiscono oppressivi templi, cappelle e minareti.

Già nel 1969 Lacan parlava di “evaporazione del padre” (cfr Lacan, 2003, p. 9). Mai affermazione fu più profetica. Oggi, in Cosa resta del padre un grande allievo dello psicoanalista francese ci offre un’analisi estremamente acuta di uno dei fenomeni che più caratterizzano l’epoca moderna.

Abbattere l’imago paterna può a prima vista sembrare un’operazione liberatoria ma, osserva Recalcati, non è priva di ambiguità “Lacan … indica una paradossale convergenza tra il moto della contestazione e l’affermazione del discorso del capitalista” (p. 26). Infatti la credenza che anima il discorso del capitalista è quella di un “soggetto … libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento, inebriato dalla sua avidità di consumo” (p. 27). In queste condizioni l’oggetto del desiderio perde ogni carattere propriamente umano: non più desiderio di madre, padre, uomo, donna, ma “una semplice presenza, … una Cosa, …. una montagna di cose… (ibidem).

Senza il padre, senza i suoi divieti, la madre non può essere oggetto di un desiderio nostalgico e struggente, viene percorsa in lungo e in largo dal soggetto in un delirio simbiotico e fusionale. In Cosa resta del padre Recalcati osserva: “la Legge non è in opposizione al desiderio, ma è la sua condizione di possibilità. In questo senso la Legge dona la possibilità del desiderio che è già possibilità dell’avvenire, possibilità di staccarsi dalla Cosa immediata del godimento, dal godimento “uniano” (unien) della Cosa” (p. 37 ).

Ecco quindi che una cosa, una sostanza, una performance, un ruolo, un’immagine di sé possono facilmente sostituire l’amore per un oggetto umano: cocaina o fisico da baby soldato rimpiazzano l’incontro faticoso con un uomo od una donne reali. Recalcati parla acutamente di una “dimensione genericamente maniacale del discorso del capitalista.” (p. 29)

Cosa resta del padre – Essere genitore oggi: una missione impossibile

In questo contesto  – si chiede Recalcati – è ancora possibile essere genitori?  Proporsi alla generazione che si affaccia per la prima volta nel mondo come un sostegno ed una guida? La crisi educativa è molto evidente nel mondo contemporaneo. I rapporti di forza si invertono. I genitori di oggi vivono nel terrore di non essere amati, sfuggono a posizione normativa e implicitamente frustrante il desiderio del figlio, inseguono un cameratismo complice e collusivo.

Siamo di fronte a processi sociali e culturali di portata planetaria, con un’accelerazione più evidente nel mondo occidentale. La psicoanalisi può essere solo testimone ed interprete di queste trasformazioni? O può aver anche una proposta? Recalcati, in Cosa resta del padre,non esita ad esporsi: è convinto che il padre giochi anche oggi un ruolo chiave nella famiglia e nella società.

Occorre però uscire da qualsiasi prospettiva nostalgica. Una mimesi degli stereotipi tradizionali può produrre solo caricature, come ci insegna la storia delle ideologie totalitariste. Osserva Recalcati: “Cosa, appunto, resta del padre? Si tratta di ripensare la sua identità non più dall’alto della gloria del suo comando infallibile o del suo potere, ma, come direbbe il giovane Marx della dialettica di Hegel, ‘dai suoi piedi’” (p. VIII). In questa prospettiva la vera funzione del padre è quella di “umanizzare la Legge, liberarla dalla violenza cieca della Legge, unire e non opporre” (p. X).

Recalcati, in Cosa resta del padre, si mostra convinto del fatto che la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra non possa avvenire “come la realizzazione di un programma cognitivo o come effetto di una retorica pedagogica” (p. 42). Solo il padre è in grado di trasfigurare una vita biologica, animale in una vita veramente umana. Solo l’interdizione del desiderio edipico, l’esperienza del limite e della finitezza umane possono aprire la via al desiderio e quindi allo sviluppo. “L’amore” osserva Recalcati in Cosa resta del padrenon può prescindere dalla dialettica del riconoscimento … dell’Altro come portatore di un nome proprio, particolare, inassimilabile alle leggi biologiche universali” (p. 63)

Amore e Mistero

Nella prospettiva di Recalcati dunque il padre, non certo solo nella sua identità fisiologica, ma inteso come funzione, come codice affettivo nel senso di Fornari (1981), è indispensabile alla costruzione di una vita simbolica, crea un’intercapedine tra desiderio e consumo dell’oggetto, crea lo spazio della fantasia del desiderio dell’oggetto. Insomma dell’amore.

Il padre apre la porta al mistero del vivere e del morire. Rimanda al Padre, al principio creatore dell’uomo e della natura. Organizza simbolicamente questo mondo in una ininterrotta relazione biunivoca con l’Altro mondo.

Per questo Recalcati ha deciso di insegnare ai suoi figli a confrontarsi con questa dimensione “la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare” (p. 4).

Il compito educativo del padre è dunque arduo, forse impossibile. Non certo agevole è quello dell’analista: aiutare i propri pazienti a riconoscere l’amore nascosto nei goffi tentativi con cui ognuno di noi ha cercato di essere autenticamente genitore.

Fuori dal buio – aiutare e sostenere chi soffre di ansia e attacchi di panico

Il ciclo di incontri “Fuori dal Buio” promosso dall’Associazione di volontariato Insieme Onlus, con il patrocinio del Comune di Grottammare, si pone come obiettivo quello di informare, sensibilizzare e di aiutare e sostenere le persone che soffrono di ansia e attacchi di panico.
Durante le tre giornate, del 14 e del 28 Ottobre e 4 Novembre, verranno trattati temi inerenti al “terremoto”, i “disagi del nostro tempo” e i “mali dell’anima”, come le reazioni da stress dopo eventi catastrofici quali il terremoto e le difficoltà di adattamento connesse;
in che maniera questi disagi si sono amplificati nell’ultimo periodo ma, soprattutto quali sono le strategie per combatterli.
Riuscire a raggiungere quelle certezze che in determinati momenti vengono a mancare.

  • Progetto Fuori dal Buio 14/28 Ottobre – 4 Novembre 2017
  • Ore 15:00 Sala Consiliare Comune di Grottammare (AP) via Marconi, 50

 

Gli eventi catastrofici legati al recente terremoto avvenuto nel Centro Italia, e le numerose scosse che si sono susseguite, hanno portato psicologi e cittadini a fronteggiare le conseguenze psicologiche che tali avvenimenti naturali hanno creato nella popolazione. Tali calamità superano infatti l’ambito della comune esperienza e dal punto di vista psicologico rappresentano dei veri e propri Traumi che possono generare uno stato di disagio psico-fisilogico e di malessere che spesso si associa a sindrome ansiose; perché intaccano qualcosa di profondo legato all’identità sia individuale che di comunità. Inoltre incidono sulle certezze che ci siamo costruiti nella nostra quotidianità, generando preoccupazione per il futuro.

Per questi e altri motivi l’organismo è esposto ad un enorme livello di stress ed il cervello si attiva istantaneamente per tentare di ripristinare il normale funzionamento fisiologico. Questo processo naturale a volte può non avvenire linearmente e andare incontro a dei blocchi o compromissioni, ed ecco la ragione per la quale gli specialisti cercheranno di rispondere e informare la cittadinanza rispetto al tema suddetto.

Risponderanno a temi come:

  • Quali sono i fattori di protezione e quali quelli di rischio da riconoscere?
  • Quali accorgimenti adottare in taluni casi? Come poter far fronte alle sfide quotidiane?

Questi sono alcuni dei quesiti che verranno sviscerati dai professionisti che interverranno alla giornata del 14 Ottobre;

la giornata del 28 Ottobre inizierà con un approfondimento del concetto di stress e una rassegna ed analisi sui “falsi miti” diffusi sullo stesso. Verranno chiarite le differenze esistenti tra stress “negativo” e stress “positivo”, i legami tra stress e malattia (organica e psicologica) e i meccanismi attraverso i quali determinati eventi diventano stressanti per alcuni individui;

la valutazione soggettiva dell’evento e la connessione tra questa e il sistema motivazionale dell’individuo;

le strategie cognitive e comportamentali messe in atto dalle persone per fronteggiare le situazioni difficili (strategie di coping);

l’incontro proseguirà mediante l’approfondimento e l’analisi delle varie strategie di coping (centrato sul compito, sulle emozioni o sull’evitamento) e delle circostanze in cui determinate strategie di coping diventano dannose per l’individuo. L’ultima parte dell’incontro verterà sull’autostima, le sue correlazioni con il benessere e con la vita personale e lavorativa, i fattori di vulnerabilità che portano allo sviluppo di un inadeguato livello di autostima e i conseguenti processi cognitivi disadattivi. Verranno infine presentate delle linee guida per incrementare il proprio livello di autostima;

A concludere, nella giornata del 4 Novembre, quale ultimo incontro del progetto “Fuori dal Buio”,  saranno presenti specialisti non solo in prima linea nella lotta per la salute mentale ma anche pionieri nella cultura dell’auto-mutuo-aiuto, come definito anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità”.

Verrà trattata l’importanza delle relazioni con gli altri e del sostegno reciproco; la qualità della vita e il disagio relazionale, con testimonianze dirette di membri e facilitatori dei gruppi Auto-Mutuo-Aiuto Insieme Onlus.

 

L’evento è gratuito non occorre registrarsi, alla fine degli incontri verrà rilasciato un attestato di partecipazione, durante gli incontri verrà offerto un Coffee Break

Per informazioni: Tel. 366/3623811- 342/8777135 [email protected]www.insiemedap.it

Associazione INSIEME ONLUS Ansia Attacchi di Panico Agorafobia

 

(Progetto Finanziato dal CSV MARCHE Centro Servizi per il volontariato, con il Patrocinio del Comune di Grottammare)

Relatori: Dr.ssa Clarice Mezzaluna – Dr. Lorenzo Flori – Dr.ssa Fabiana Bizzoni – Dr. Valerio Castellucci – Dr.ssa Tiziana Ciccioli – Dr.ssa Marika Ferri – Dr.ssa Emanuela Nittoli – Dr. Marco Forti – Dr.ssa Fiammetta Monte- Dr.ssa Marzullo Rosaria Laura – Dr. Pino Pini – Dr. Gianluigi Innocenti.

Scuole Partecipanti: Sipsi Società Italiana di Psicologia e Psichiatria – Studi Cognitivi – San Benedetto del Tronto –  Associazione Emdr.

Alzheimer e benessere psicologico: gli interventi non farmacologici

Tra le diverse forme di demenza, la demenza di Alzheimer è quella più diffusa e rappresenta una delle maggiori cause di disabilità, dipendenza e istituzionalizzazione per i malati e di carico e stress per i caregivers.

Giulia Cesetti – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

Nella popolazione anziana si assiste ad un aumento dell’incidenza di malattie croniche, tra queste la demenza. Tra le diverse forme di demenza, la demenza di Alzheimer è quella più diffusa (Cummings & Cole 2002) e rappresenta una delle maggiori cause di disabilità, dipendenza e istituzionalizzazione per i malati e di carico e stress per i caregivers (Schultz &Williamson, 1991). La demenza è un termine che descrive disturbi causati dal deterioramento cognitivo, capace di compromettere significativamente il funzionamento della persona (D’Onofrio et al., 2015).

I sintomi possono essere raggruppati in tre grandi domini: aspetti cognitivi, aspetti funzionali e sintomi neuropsichiatrici. Il declino cognitivo può coinvolgere diversi aree: la memoria, il linguaggio, l’apprendimento, le funzioni esecutive, l’attenzione, il movimento, la cognizione sociale (APA, 2013).

Demenza di Alzheimer: gli interventi non farmacologici

Allo stato attuale non esiste un trattamento capace di curare la demenza di Alzheimer (Algar, Woods & Windle, 2014), la limitata efficacia dei trattamenti farmacologici e la plasticità del cervello umano sono le due maggiori spiegazioni dell’interesse crescente per i trattamenti non-farmacologici. (D’Onofrio et al., 2016)

Gli stessi potrebbero rappresentare promettenti mezzi per incrementare il benessere psicologico e la qualità della vita delle persone con demenza; benessere e qualità della vita, infatti, nelle persone con demenza di Alzheimer, in molti casi risultano fortemente compromessi.

Nelle strutture che accolgono persone con demenza, allo stato attuale, vengono proposte diverse attività che variano per tipo ed intensità. Alcuni tra questi trattamenti non farmacologici, in pazienti con Alzheimer lieve-moderato, hanno prodotto un miglioramento del benessere fisico e psicologico, della qualità della vita e dell’integrazione sociale (Viola et al., 2011).

Una recente review (D’Onofrio et al., 2016) elenca alcuni interventi non farmacologici che potrebbero contribuire a promuovere il benessere e la qualità della vita della persona con demenza attraverso, ad esempio, una riduzione dei sintomi comportamentali.

Troviamo diverse attività di tipo cognitivo/emotivo che hanno come obiettivo quello di migliorare gli aspetti emotivi, cognitivi e le funzioni sociali nei pazienti con demenza (Finnema, Dröes Ribbe & Tilburg, 2000).

La terapia della reminiscenza è un intervento che sfrutta la naturale propensione dell’anziano a rievocare il proprio passato. Le persone vengono incoraggiate a parlare della loro infanzia e degli eventi vissuti. Alcuni studi mostrano un miglioramento nei sintomi cognitivi e depressivi (Ito , Meguro , Akanuma, Ishii , Mori, 2007; Testad et al.,2014; Wang, 2007).

La ROT (Reality orientation therapy) è una tecnica di stimolazione cognitiva finalizzata all’orientamento alla realtà (Choi & Twamley, 2013; Camargo, Justus & Retzlaff, 2015). In particolare la stessa è consigliata in pazienti con demenza lieve/moderata. La ROT può essere formale o informale. Il paziente durante le sessioni è stimolato a discutere di diversi argomenti riguardanti la routine e eventi recenti (Camargo et al.,2015; Spector, Davies, Woods & Orrell, 2000; Spector, Orrell, & Woods, 2010). Dalle prime pubblicazioni sulla ROT è cresciuto l’interesse nei confronti di questo trattamento e alcuni articoli hanno evidenziato benefici sostanziali dall’applicazione di queste strategie (Camargo et al., 2015; Spector et al.,2010; Spector, Woods,  & Orrell,2008). Sono stati implementati diversi metodi basati sulla ROT (Camargo et al.,2015; Spector et al., 2010). Studi recenti hanno messo in luce la ROT basata su nuove tecniche di stimolazione cognitiva (CST). La CST è caratterizzata, inoltre, da una stimolazione multi-sensoriale e da tecniche basate sulla reminiscenza  (Spector et al., 2008; Clare & Woods; 2004).

La Validation Therapy è un approccio relazionale che ha come obiettivo quello di ridurre lo stress e  mantenere la dignità della persona con demenza di Alzheimer. Il metodo si fonda sull’idea che sia possibile mantenere un contatto con la persona con demenza, sottolinea l’importanza della comprensione empatica. Le caratteristiche principali includono: i mezzi di classificazione dei comportamenti, le tecniche pratiche che aiutano a ripristinare la dignità, l’offerta di un ascoltatore empatico, il rispetto e l’empatia per gli anziani con demenza e l’accettazione della realtà della persona (Feil, 1992). Alcuni studi osservazionali hanno evidenziato che i partecipanti sottoposti a gruppi di validation therapy mostravano effetti positivi sulla durata e la quantità di interazione durante le sessioni di gruppo (Deponte &Missan, 2007), ma altri studi non hanno mostrato prove d’efficacia (Scanland & Emershaw, 1993).

I trattamenti sensoriali e multi sensoriali fanno riferimento a vari tipi di tecniche utilizzate per stimolare i sensi e ridurre i livelli di agitazione (Gammeltoft, 2005). Gli stimoli sensoriali utilizzati includono quelli visivi, uditivi, tattili, olfattivi e gustativi (Baker, Bell, Baker & Gibson, 2001; Vozzella, 2007).

L’arte terapia viene spesso considerata come trattamento-non farmacologico possibile per persone con demenza di Alzheimer e può rappresentare un mezzo di stimolazione importante. Disegnare e dipingere forniscono alle persone con demenza l’opportunità di esprimersi e di scegliere in termini, ad esempio, di colori e di soggetti da disegnare. Alcuni studi hanno evidenziato che l’arte terapia può essere utile nei pazienti con demenza di Alzheimer per incrementare il benessere, catturare l’attenzione e migliorare i sintomi neuropsichiatrici (Chancellor, Duncan & Chatterjee, 2014; Young,  Camic,  & Tischler, 2016).

La musico- terapia viene utilizzata per migliorare la comunicazione, l’apprendimento, la mobilità e altre funzioni mentali e fisiche delle persone (Raglio, Filippi, Bellandi,& Stramba-Badiale, 2014). Sono state sviluppate numerose tecniche di musicoterapia (Raglio et al., 2014). Le tecniche attive si basano sull’interazione diretta con il paziente, mentre le tecniche più ricettive richiedono un livello più basso di partecipazione. Gli interventi possono essere adattati ad un determinato soggetto e svolti con individui o gruppi. In alcuni studi la terapia musicale ha dimostrato di migliorare la memoria, l’orientamento, i sintomi ansioso- depressivi nei pazienti con Alzheimer lieve e moderato (Gallego & García, 2017).

Orticultura le attività della terapia orticulturale si svolgono prevalentemente all’aria aperta, invitando a stabilire un rapporto di cura e responsabilità verso gli organismi viventi. La terapia orticulturale è una terapia economica che può incrementare il benessere delle persone con demenza di Alzheimer (Blake & Mitchell, 2016). L’orticultura sembrerebbe ridurre i livelli di agitazione e aumentare le emozioni positive anche in pazienti con demenza di grado severo (Bomalaski, 2011).

Attività fisica: le attività fisiche includono diverse attività ricreative come la danza, lo sport, il teatro. L’esercizio fisico può ridurre il numero delle cadute nelle persone con demenza; inoltre produce miglioramenti per quanto riguarda la salute mentale, il sonno e l’umore (Douglas, James, Ballard, 2004).  E’ stato dimostrato che l’esercizio fisico durante il giorno riduce l’agitazione durante la notte e l’irrequietezza (Douglas et al., 2004).

La Terapia animale assistita (AAT) comunemente si basa sull’interazione tra un paziente e un animale addestrato, con un facilitatole umano, con l’obiettivo terapeutico di fornire rilassamento e piacere. Questa terapia sembra migliorare i sintomi neuropsichiatrici nei pazienti con demenza (Filan, 2006). Tali attività dovrebbero promuovere la sicurezza del paziente. Molti degli studi epidemiologici mostrano che la terapia animale assistita è una soluzione efficace per ridurre i sintomi emotivi, comportamentali, cognitivi e fisici della demenza, nonché  per aumentare l’assunzione di cibo dei pazienti e la qualità di vita percepita (Algar, Woods& Windle, 2016).

La Terapia della bambola consiste nell’utilizzo di bambole con caratteristiche particolari tali da favorire l’accudimento attivo da parte dell’anziano con un grado di demenza severo. Una recente review della letteratura ha messo in evidenza i benefici della terapia della bambola nella riduzione dei sintomi cognitivi, comportamentali ed emotivi e nell’aumento del benessere generale. Inoltre i pazienti con demenza, che avevano effettuato la terapia della bambola, erano maggiormente in grado di rapportarsi con l’ambiente circostante. (Ng, Koh, Tan & Chan, 2017)

I trattamenti non- farmacologi descritti, affinché possano risultare efficaci nel miglioramento dei livelli di benessere psicologico delle persone con demenza di Alzheimer, dovrebbero essere individualizzati sulla base dei gusti e degli interessi delle persone e dovrebbero tener conto del livello cognitivo e dello stadio della malattia. Inoltre sembrano necessari ulteriori studi in letteratura randomizzati e controllati, finalizzati ad individuare gli ingredienti specifici di questi trattamenti, capaci di determinare un effettivo incremento dei livelli di benessere psicologico e della qualità della vita nelle persone con demenza di Alzheimer.

 

 

 

Il suicidio e il mondo giovanile. A Palermo un seminario su terapia e prevenzione del suicidio in adolescenti e giovani

Il suicidio si verifica quando la realtà diviene insopportabile sofferenza e le fantasie di autoeliminazione, per evadere da tale condizione dolorosa, trovano realizzazione nell’agito. E’ un fenomeno intimo e complesso, non riducibile esclusivamente a sintomo di un disturbo mentale.

 

Il suicidio come mezzo per mettere fine ad una sofferenza troppo intensa

Si è svolto lo scorso 23 Settembre a Palermo, nella prestigiosa cornice dell’Hotel Mercure Palermo Centro, un intenso seminario di studi organizzato dallo Studio di Psicoterapia diretto dalla Dott.ssa Angela Ganci, psicologa psicoterapeuta a Palermo, con il patrocinio dall’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia, dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Aleteia di Enna e dall’Associazione di volontariato Co.tu.le.vi. che si occupa di contrasto al fenomeno della violenza in tutte le sue forme e rappresentata per l’evento dall’avvocato Bartolomei, responsabile dello Sportello Antiviolenza di Palermo, tenace difensore dei diritti del detenuto a una carcerazione non afflittiva e attivo sostenitore del contrasto del fenomeno del sovraffollamento, causa documentata di suicidi nelle carceri.

Attraverso uno spaccato variegato che ha toccato i diversi contesti in cui l’atto suicidario può verificarsi, dal modernissimo fenomeno del Blue Whale agli eventi traumatici a vario titolo costituenti fattori di innesco di dinamiche psichiche esitanti nel suicidio (come il cyberbullismo), la giornata di studio si è proposta di stimolare spunti di riflessione sulla prevenzione e il contrasto, da parte di operatori e famiglie, dell’atto auto-soppressivo per antonomasia, che può rappresentare sia l’espressione di emozioni a sfondo depressivo, che una scelta estrema indipendente da qualunque disturbo psichico.

Il suicidio si verifica quando la realtà diviene insopportabile sofferenza e le fantasie di autoeliminazione, per evadere da tale condizione dolorosa, trovano realizzazione nell’agito. E’ un fenomeno intimo e complesso, non riducibile esclusivamente a sintomo di un disturbo mentale – aprono i lavori Giovanbattista Maggì, psichiatra psicoterapeuta e Alessandra Stringi, psicologa psicoterapeuta – il suicidio ha la proprietà di non essere prevedibile o difficilmente prevenibile per i familiari, i vicini, il clinico, anche se bisogna comprendere la sofferenza che sottende l’atto suicidario per fare tutto ciò che è necessario al fine di far uscire chi ha un’ideazione suicidaria da tale condizione”.

Il suicidio come desiderio progressivo e inalienabile di porre fine a un intollerabile senso di sofferenza e l’autolesionismo come atto lesivo in grado di evolvere in suicidio vero e proprio e dove il ruolo delle fantasie di abbandono riveste un’importanza decisiva.

La paura di essere abbandonati in quanto indegni, cattivi, è all’origine nel paziente borderline del ricorso alle autolesioni come tagli e bruciature che diventano una fonte di sollievo più rapida di qualunque altro intervento terapeutico, poiché fermano l’ansia temporaneamente – spiega Angela Ganci – Il ruolo della psicoterapia è potenziare quelle abilità in cui il paziente risulta carente, in particolare la regolazione delle intense emozioni negative, anche nell’ottica di prevenire che l’autolesionismo esiti in suicidio vero e proprio. In tale ottica risulta di notevole efficacia la terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan, trattamento a orientamento cognitivo-comportamentale integrato”.

Autolesionismo come punizione autoinflitta, a cui dare attenzione nel suo possibile esitare in suicidio, ma anche da comprendere come atto comunicativo: le ferite rendono evidente la propria sofferenza, insieme fisica, e psicologica agli altri, e in un certo senso rappresentano un alleato per operatori e famiglie” chiarisce Marilena Pipitone, psicologo psicoterapeuta.

Il ruolo delle famiglie

E proprio sul ruolo delle famiglie si è incentrato l’intervento congiunto di Maria de La Luz Falcon, psicologa psicoterapeuta, e Antonino Leonardi, pedagogista, nell’esame del ruolo della rete come ambiente suscettibile di stimolare condotte autolesive e suicidarie.

Assistiamo oggi a forme nuove di bullismo, una violenza costituita da offese, parolacce e insulti, derisione per l’aspetto fisico o per il modo di parlare, diffamazione, aggressioni fisiche, che viaggiano sul Web con maggiore incisività, seguendo l’adolescente al di fuori delle mura di casa o dell’aula scolastica. Alcuni segnali a cui le famiglie devono fare attenzione sono l’isolamento, il diminuito o mancato interesse per le relazioni interpersonali, rabbie immotivate, nello stesso tempo insegnando un uso consapevole del web, proteggendo la propria privacy e autoproteggendosi dai molestatori online, espressione di un buon livello comunicativo e sostegno reciproco che evita la ricerca nei social network del supporto emozionale”.

Il fenomeno del Blue Whale

All’interno delle difficoltà relazionali e degli stili di attaccamento si deve ricondurre il fenomeno del Blue Whale, tuttora fonte di dibattito scientifico, nell’analisi condotta dal Prof. Tullio Scrimali, Professore di Psicologia Clinica, Università di Catania, Fondatore e Direttore di ALETEIA, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia di Enna.

Il profilo del giocatore di Blue Whale sembra riconducibile a quello di chi ha esperito un attaccamento ansioso evitante, caratterizzato da bassa autostima, tendenza all’isolamento, con una dipendenza relazionale nei confronti di presunti leader. Ecco che le vittime di Blue Whale soccombono alla fascinazione di una subcultura basata sull’ideale di liberare se stessi dall’infelicità della vita, costruendo un senso positivo del suicidio, utilizzando autolesionismo e dolore come modulazione delle emozioni negative. Se a questi elementi si uniscono specifici aspetti legati alle neuroscienze indotti dal Blue Whale come la deprivazione del sonno e la sovrastimolazione sensoriale, un modello possibile di trattamento e prevenzione che mi sento di proporre si fonda su seguenti steps: rottura dell’isolamento e istituzione di relazioni e soprattutto della relazione terapeutica, ristoro al cervello con riposo e ristabilimento dei ritmi circadiani, miglioramento dell’autostima, committment”.

Sane relazioni sociali, insieme alla garanzia di dignitose condizioni di vita, la cui compromissione grava sul benessere personale e relazionale conducendo ad atti suicidari, come accade nelle forme di disperazione conseguenti alla perdita del lavoro.
Assistiamo sempre più spesso a suicidi collegati alla perdita del lavoro– conclude il ventaglio di contesti Letizia Puccio, psicologa psicoterapeuta – Una scelta dettata da un’intollerabile percezione di fallimento, di compromissione del benessere dei propri cari, come evento critico che mette in discussione le proprie certezze esistenziali, e che lo Stato deve fronteggiare con adeguate politiche di reinserimento lavorativo e di incremento dell’offerta di lavoro che restituiscano una dignità e una sicurezza che il lavoro assicura in termini materiali, ma anche di autostima e senso di utilità personale e sociale”.

Psicologia Buddhista e Terapia Cognitivo Comportamentale (2016) – Recensione

Psicologia buddhista: Un valido aiuto per i terapeuti CBT che si vogliono addentrare nell’origine delle terapie di terza ondata. Un manuale di circa 300 pagine ricco sia di evidenze empiriche e ricerche recenti, sia di filosofia e tradizione buddhista.

 

La psicologia buddhista

A partire dalla cultura degli anni ’60 e dall’espansione di Internet, le pratiche come lo yoga, la meditazione buddhista e le altre filosofie delle religioni orientali hanno pervaso la medicina occidentale e la cultura popolare.

A seguito di queste tendenze anche nella psicoterapia (soprattutto nell’ambito della CBT) è emersa una nuova linea e queste nuove terapie attingono ai metodi più efficaci e testati delle precedenti psicoterapie, espandendo così la tradizione cognitivo-comportamentale “attraverso l’elaborazione di una nuova comprensione della natura del pensare, del sentire e del fare.”

Il libro “Psicologia Buddhista e Terapia Cognitivo Comportamentale” è un libro sia teorico che “pratico” (nel senso che sono descritte numerose pratiche all’interno) che nasce con lo scopo, direi piuttosto riuscito, di avvicinare alcune delle terapie di terza ondata a tutto quello che è il background nel quale – alcune di queste terapie- affondano le proprie radici, ovvero la psicologia buddhista definibile sia come una tradizione di tecniche psicologiche sia come una filosofia applicata della mente la cui origine si colloca almeno 2600 anni fa, all’interno del Buddhismo (non nella sua accezione religiosa) con l’intento di aiutare le persone a liberarsi dalla sofferenza.

Le affinità tra la psicologia buddhista e le terapie di terza ondata del cognitivismo

Il punto di forza del testo è certamente la qualità scientifica con il quale è stato scritto e descritto. Si cita la più recente letteratura e soprattutto si parla un linguaggio da e per psicologi cognitivi riscoprendo una enorme affinità tra la più antica tradizione buddhista e la terapia cognitivo comportamentale. La mission del libro è sia quella di creare un ponte tra i due mondi sia quella di parlare in termini più scientifici possibili di impermanenza, accettazione, compassione, impegno e amorevolezza.

Salta agli occhi la tenacia con la quale gli autori hanno cercato di percorrere i binari delle differenze e analogie tra la psicologia buddhista e quella scientifica condividendo senza giri di parole il fine ultimo di entrambe che è la riduzione della sofferenza.

La Mindfulness di Kabat-Zinn (1991), l’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Hayes, 2004) e la CFT (Compassion Focused Therapy, Gilbert 2010) vengono raccontate dall’ottica degli insegnamenti della psicologia buddhista.
Strumenti sia teorici, che pratici vengono descritti per ritrovare parallelismi, similitudini e differenze tra le varie discipline fornendo un contesto più ampio per una maggiore e più profonda comprensione.

Il libro si articola in 8 capitoli; Il filo conduttore è la comprensione del terreno di mezzo tra psicologia buddhista e alcune terapie di terza ondata mediante esercizi e “pratiche” che consentono al lettore di fermarsi e di sperimentare in prima persona quello che è il nucleo delle discipline.
Piuttosto che descrivere la pratica buddhista ortodossa, il libro presenta i concetti, le meditazioni e gli esercizi che sono particolarmente rilevanti per l’integrazione tra la psicologia buddhista e la CBT.

Il primo capitolo parte dalle basi introduttive di quelle che sono le relazioni tra la psicologia buddhista e la CBT cominciando dal primo grande punto in comune che è la cura della sofferenza umana da una prospettiva il più “empirica” possibile. Sia la CBT che la psicologia buddhista invitano a coltivare la coscienza del momento focalizzandosi sull’esperienza, al fine di eliminare l’influenza delle convinzioni deliranti e delle emozioni distruttive (Dalai Lama, 1991; Kwee, Gergen & Koshikawa, 2006).”

Il capitolo secondo comincia a introdurre la terminologia buddhista parlando delle quattro nobili verità, del concetto di dharma e del processo grazie al quale Siddartha ha potuto raggiungere il cammino per la liberazione dalla sofferenza. Le nobili verità vengono tradotte nel linguaggio CBT in una modalità che non risulta in nessun modo forzata ma più che scorrevole e legittima con l’aiuto di alcuni dialoghi esemplificativi tra paziente e terapeuta e di una terminologia cara ai cognitivisti che si basa su meccanismi quali apprendimento ed evitamento.

Il capitolo terzo e quarto traducono le pagine precedenti in comportamenti nella veste di “intervento della Via di Mezzo” (un insegnamento buddhista che cerca di non portare mai eccessi nella vita, né in un senso né nell’altro, per nulla lontano dagli obiettivi della psicoterapia cognitiva): dalla retta parola, alla retta azione, alla retta sussistenza, al retto sforzo, alla retta presenza mentale, fino alla retta concentrazione; tutto è accompagnato da esercizi già noti e utilizzati nelle terapie e nelle pratiche come l’ACT, la CFT e la Mindfulness ma ben inseriti nel contesto più ampio nel quale vengono trattati.

Il capitolo quinto si occupa della Mindfulness in modo più originale, dalla prospettiva della psicologia buddhista che fa della mindfulness uno dei cardini centrali. Mindfulness che viene pensata come una forma di meditazione che aiuta a comprendere la vera natura dell’esistenza attraverso tre indicatori: l’impermanenza, il non-sè e la sofferenza.

Il sesto capitolo apre la strada al concetto di compassione che verrà sviscerato abbondantemente e da tutti i punti di vista nei capitoli seguenti che possono rappresentare un buon compendio della CFT; dalla formulazione del caso, alle basi teoriche agli esercizi pratici in integrazione alla pratica della mindfulness.

Viene dato spazio alla spiegazione sia di quelli che sono gli aspetti centrali della CFT, sia alla compassione dal punto di vista del Buddha e dei suoi insegnamenti, sia dalla più recente e rigogliosa prospettiva delle neuroscienze.

Ampio rilievo, nel capitolo ottavo, viene dato all’auto-compassione (Mind-Self-Compassion). Anche in questo caso pratiche come la meditazione di metta o l’esercizio del sé compassionevole vengono illustrate passo passo.

Il nono capitolo ha l’accattivante titolo “evidence based a supporto dell’intervento della Via di Mezzo” che pare mettere insieme sacro e profano e risulta, invece, essere un capitolo che riassume come i due linguaggi siano così simili anche in termini di prove d’efficacia.
Ad oggi non esiste una ricerca su un approccio globale alla CBT focalizzata sulla psicologia buddhista; tuttavia quest’analisi si propone come un compendio comparativo, piuttosto che dichiarativo, che risulta utile per tutti i professionisti che hanno a che fare con queste discipline.

L’ultimo capitolo mostra invece il versante che più allontana le discipline, ovvero come coniugare il concetto di illuminazione e di “mente illuminata”, in ottica buddhista, all’interno della CBT.
Si cerca di tirare le fila rispetto a tutto quello affrontato nel libro per fornire una visione “comune” tra la psicologia buddhista e la terapia cognitiva attraverso una formulazione del caso esemplificativa.

Gli autori del manuale sono Dennis Tirch, tra le altre cariche è direttore del CFT di New York (il che aiuta a comprendere l’ampio spazio dedicato alla compassione nel manuale), Laura R. Silberstein, direttore associato del CFT e Russel L. Kolts , professore a Washington e si occupa, nella ricerca e nella clinica, anch’egli di compassion therapy.

Identità sociali complesse e benessere: le correlazioni

L’ identità sociale complessa diviene fonte di benessere individuale nella misura in cui le sottounità sociali da cui è composta si amalgamano fra loro e nessuna di esse determina fenomeni di esclusione sociale.

 

Le differenziazioni e le diversificazioni sociali e culturali, presenti nella maggior parte delle società occidentali, hanno avuto origine dai processi di mobilità sociale interni, dai movimenti migratori fra nazioni differenti, dagli sviluppi della globalizzazione in ambito economico e commerciale. Il polimorfismo etnico e culturale ha modificato il costrutto di sé che ogni individuo ha, essendosi tale cognizione arricchita di parametri che nella eterogeneità hanno il loro paradigma fondante. Le differenti e polimorfe percezioni di sé, che gli individui sviluppano allorquando vivono in tali contesti sociali variegati, si ripercuotono sul costrutto di benessere individuale. In altri termini, il polimorfismo sociale connota in maniera differente gli archetipi del senso di benessere personale. Roccas e Brewer hanno elaborato il concetto di identità sociale complessa, un paradigma che accoglie la multietnicità e la multiculturalità delle identità degli uomini contemporanei. L’ identità sociale complessa diviene fonte di benessere individuale nella misura in cui le sottounità sociali da cui è composta si amalgamano fra loro e nessuna di esse determina fenomeni di esclusione sociale

Keywords: contesto sociale, identità sociale complessa, benessere individuale.

 

Le differenziazioni e le diversificazioni sociali e culturali, presenti nella maggior parte delle società occidentali, hanno avuto origine dai processi di mobilità sociale interni, dai movimenti migratori fra nazioni differenti, dagli sviluppi della globalizzazione in ambito economico e commerciale.

In virtù di questa evoluzione avvenuta negli ultimi tempi, il contesto sociale degli stati odierni è profondamente mutato, divenendo variegato e complesso. Tutto questo ha avuto i suoi riverberi sulle identità individuali. In altre parole, il polimorfismo etnico e culturale ha modificato il costrutto di sé che ogni individuo ha, essendosi tale cognizione arricchita di parametri che nella eterogeneità hanno il loro paradigma fondante (Crisp e Hewstone, 2006). In pratica, si sono create delle identità sociali multiformi, derivanti dalla commistione di differenti tipizzazioni identitarie e di categorie sociali un tempo non sovrapponibili (Crisp e al., 2001).

Le differenti e polimorfe percezioni di sé, che gli individui sviluppano allorquando vivono in tali contesti sociali variegati, si ripercuotono sul costrutto di benessere individuale. In altri termini, il polimorfismo sociale connota in maniera differente gli archetipi del senso di benessere personale (Cross e al., 2003).

Identità sociale e benessere psicologico: uno sguardo alla letteratura

Le ricerche fin qui svolte associano questa poliedrica identità sociale all’incremento di alcuni parametri, che contraddistinguono cognitivamente il senso di benessere. Nello specifico, un’ identità sociale multiforme incrementa l’equilibrio emotivo (Jetten e al., 2010), implementa la resilienza (Jones e Jetten, 2011), migliora la qualità della vita (Haslam e al., 2008) e potenzia la capacità di fronteggiare lo stress (Iyer e al., 2009).

Per spiegare queste positività, Jetten e al. (2012) hanno ipotizzato che l’appartenenza a più gruppi sociali determina un’implementazione delle interazioni sociali e questo probabilmente incrementa le risorse interiori dell’individuo. Condizione necessaria perché tutto questo si realizzi è la complementarietà dei vari gruppi sociali di appartenenza. In altri termini, se l’individuo fa parte di più gruppi sociali, questi devono essere sintonici fra di loro. Nel caso in cui ci sia distonia non si realizza la positività sopramenzionata (Brook e al., 2008).

L’ identità sociale complessa

Roccas e Brewer (2002) hanno elaborato il concetto di identità sociale complessa, un paradigma che accoglie la multietnicità e la multiculturalità delle identità degli uomini contemporanei. A livello ontogenetico, l’ identità sociale complessa origina dalle diverse categorie sociali a cui l’individuo sente di appartenere. In pratica, essa nasce dalla sovrapposizione di più categorie – tipologie identitarie (Schmid e Hewstone, 2011).

L’ identità sociale complessa può palesarsi attraverso due morfologie, ovvero una a bassa strutturazione ed un’altra ad alta strutturazione. La prima è costituita da un numero esiguo di categorie sociali, che appaiono comunque non organiche una con l’altra. A creare l’ identità sociale complessa ad alta strutturazione concorrono più categorie sociali, che appaiono ben amalgamate fra loro. Secondo questo paradigma concettuale, affinché l’ identità sociale complessa possa dare un senso di benessere individuale, le categorie sociali, in essa racchiuse, devono avere lo stesso peso. In altri termini, nessuna di esse deve essere predominante e soprattutto, secondo l’ipotesi di Brook e al. (2008), l’individuo deve avere la percezione che le categorie sociali che compongono la sua identità sociale complessa siano compatibili fra loro.

In una recente ricerca Sǿnderlud e  al. (2017) hanno voluto indagare le relazioni esistenti fra identità sociale complessa e il benessere percepito dall’individuo. Essi sono giunti alla conclusione che esiste una relazione diretta fra identità sociale complessa ad alta strutturazione e benessere percepito. Perché questo possa verificarsi, nessuna delle singole categorie sociali che compongono l’ identità sociale deve essere oggetto di stigma sociale.

In conclusione, l’ identità sociale complessa, che caratterizza gli individui delle società odierne, multietniche e multiculturali, diviene fonte di benessere individuale nella misura in cui le sottounità sociali da cui è composta si amalgamano fra loro e nessuna di esse determina fenomeni di esclusione sociale.

Intesa Sanpaolo ha provato a cambiare: sbagliando si impara

Dopo il successo riscosso online dal video con protagonista la direttrice di sportello di Intesa Sanpaolo Katia e il suo team – ad eccezion fatta dell’indisposto Fabio, divenuto temporaneo eroe del Caso – e dal video della filiale di Genova della stessa banca, urge una breve riflessione riguardo a queste iniziative, tanto care alla psicologia del lavoro, impiegate come strumento di team building e per offrire un’immagine nuova, migliore dell’azienda.

 

Faccio una premessa. Non sono uno psicologo del lavoro, né un business coach. Tuttavia, come parte della specie “psicologi”, mi sento chiamato in causa, poiché i destinatari ultimi di questi progetti sono esseri umani e quando subentra quell’ormai celebre gogna mediatica che fa star male la gente, è giusto offrire un supporto, ridimensionare l’accaduto, cercando anche di approfondire i motivi che muovono le aziende a sviluppare e applicare queste metodologie.

Guardando il primo video, all’inizio ho sperimentato le stesse sensazioni (credo) di molti: ero divertito, infastidito, disgustato, impressionato, sconfortato e poi triste. Triste.

Pareva quasi che il povero Fantozzi ci avesse azzeccato, anzi, come scritto da alcuni “che ci fosse andato leggero”. Alla mente affioravano pensieri automatici come “ma guarda te cosa gli tocca fare per uno stipendio” e “non vorrei essere nei loro panni”. Ma su questo pensiero ci arriveremo a breve. Dopo decadi passate ad applicare in maniera scriteriata metodologie e strategie dai parziali, per non dire opinabili, risultati come il Management by Objectives (MBO), la Programmazione Neuro Linguistica (PNL) e dopo la pubblicazione di splendidi libri, come quello di Michela Marzano che è “Estensione del dominio della manipolazione”, dovremmo avere sviluppato un occhio critico nei confronti di un certo modo di condurre gli affari e di relazionarsi alle risorse umane. Questo è ciò che pensavo. Una riflessione banale, viscerale, a carattere globale e dettata dal momento.

Nel frattempo il video di Katia & Co. dilagava e come un boomerang colpiva a ripetizione chi aveva preso parte a quella iniziativa. Poi venne pubblicato il secondo video, quello della filiale di Genova. E giù a ridere. Questi “addirittura” avevano vinto il premio, perché ne esisteva uno, per il miglior progetto.

Poi qualcosa è cambiato. Il secondo pensiero automatico di cui sopra si è fatto largo sempre più nella mia mente, si è consolidato, l’arousal normalizzato e sintonizzatomi emotivamente con i protagonisti del video, non potevo che provare sconforto. Oltre al faticoso lavoro svolto per recitare e registrare il video queste persone, da lì a poco, avrebbero dovuto fronteggiare sfottò provenienti da ogni dove.

Così mi sono tuffato nel web, per capire cosa l’Italia stava pensando di questi progetti e ho rintracciato degli articoli interessanti. Accanto ai portali affezionati al click bait e alle notizie flash, (r)esiste una parte del web che analizza le notizie e dove fioriscono i pensatori dai toni moderati.

Uno di questi mi è parso Enrico Sola, che firma un articolo su Il Post. In realtà, non condivido la maggior parte dei suoi punti, tuttavia celebro la sua ampiezza e la qualità dell’analisi. Sola, dà la colpa ai frame, alla forma, ovvero il concetto stesso di quel tipo di progetto portato avanti dalle aziende, risparmia invece gli attori e i loro contributi, che risultano maldestri ma in fondo perché non sinceramente sentiti e dettati dalla paura, magari, di perdere il posto di lavoro.

Non condivido. Penso che la frase che meglio riassume il mio pensiero è: “qualcuno sta provando a fare qualcosa”. Un esempio potrebbe essere cominciare ad implementare delle teorie di successo di alcuni business coach. Ora vi spiego.

I dati riguardo il valore sul mercato del coaching evidenziano un gap importante tra l’Italia e il resto del mondo: da noi è stimato per circa 25-30 milioni di euro, complessivamente nel mondo vale 3 miliardi. E’ chiaro che la presenza di questi servizi nelle nostre aziende è veramente rara, siamo dei neofiti in questo campo e ci vorrà del tempo (ma soprattutto molti tentativi) per implementare determinate strategie con efficacia.

Non è un mistero che la qualità di vita al lavoro dei dipendenti italiani non sia un granché. All’estero qualcuno se la passa meglio e forse è arrivato il momento di avvicinarsi ai case studies, di guardare con occhio curioso a quello che qualcuno già fa (e che funziona!) e, infine, provare a replicare le stesse tecniche, consapevoli che il contesto del Bel Paese è acerbo per queste iniziative, meno dinamico e ossessionato da temi ben diversi (ad es., contratto a tempo indeterminato) che la realizzazione di sé sul posto di lavoro.

 

Ma passiamo oltre i dati, torniamo al caso in questione, in tal modo forse riuscirò a spiegarmi.

Innanzitutto il video faceva parte di un progetto realizzato ad uso interno, non era pensato per diventare una campagna pubblicitaria. Insomma, l’ennesimo strumento per fare team-building, portato avanti con l’intenzione di valorizzare i legami tra le persone e il servizio offerto da un essere umano più che un’istituzione, conditio sine qua non per una buona performance (alla fine si arriva sempre qui).

Volete la prova che questi progetti hanno un impatto positivo sulle aziende e sui loro lavoratori ? Bene, vi presento Simon Sinek, business coach seguito da quasi un milione di persone solo su Facebook, autore di diversi libri, consulente presso Apple, Microsoft, il governo americano, e altri ancora.

Sinek parla del Golden Circle, fondamentalmente tre cerchi concentrici denominati – dall’interno verso l’esterno – WHY, HOW e WHAT, tre categorie fondanti la comunicazione, ma anche l’essenza stessa, di un’azienda. Riflettendo sulle teorie di Sinek, quello che emerge è una prospettiva nuova, dove le aziende sono intrinsecamente motivate ad ispirare i propri dipendenti e ad interessarsi a loro poiché validi membri in un gruppo, spiega di conseguenza perché i dipendenti rincorrano aziende simili. Il motivo di questa scelta, secondo questo autore, è che i dipendenti, i clienti e l’azienda stessa condividono lo stesso WHY (le credenze, i valori, gli obiettivi). I leaders (i.e., managers, responsabili) non manipolano i loro followers ma li ispirano, li formano, li guidano e cercano di farli realizzare. Il leader non gestisce il lavoro, gestisce le persone che a loro volta gestiscono il lavoro. C’è una bella differenza. Così facendo si sposta il focus attentivo sulle competenze relazionali, e non tecniche, del leader.

Capisco che questa sia una retorica lontana dalla forma mentis italiana, che alle volte ci fa venire il mal di pancia e la nausea. E’ altresì vero che queste metodologie ripagano, il dipendente e l’azienda. L’azienda cresce, le persone lavorano meglio e con più passione, sono più felici.

Certo. I video di Intesa Sanpaolo non raggiungono questi obiettivi. Sono tentativi abbastanza rozzi che portano a risultati imperfetti e magari nel tempo peggiorativi della Quality of Work Life dei dipendenti, i quali per ora, in fin dei conti, non sembrano così convinti di ciò che stanno facendo.

Tuttavia molte aziende italiane cercano di rinnovarsi e si avvicinano a nuove teorie riguardo alla gestione del personale, della comunicazione e tentano di definirsi in maniera diversa. Questo gli va riconosciuto. La domanda finale quindi è: rimaniamo ancorati all’idea che l’azienda è solo un posto dove dobbiamo recarci, fare il nostro lavoro e tornarcene a casa oppure, posto il problema dei logoranti ambienti di lavoro italiani, vogliamo sperimentare un nuovo modo di intendere il nostro posto di lavoro, i nostri colleghi, i nostri superiori, magari utile a farci sentire meglio? Cambiamento o status quo?

Ho letto con grande piacere lo stato della pagina Facebook di Intesa Sanpaolo del 6 ottobre che, tra le altre cose, affermava: “…Katia non è mai stata sola, in nessun momento di queste giornate, il nostro Consigliere Delegato Carlo Messina l’ha immediatamente sentita, le ha parlato, le ha comunicato la sua vicinanza e quella di tutta Intesa Sanpaolo…”. Poco dopo la pubblicazione dell’ormai celebre video, l’azienda ha reso noto che non ci sarebbero state né sospensioni né licenziamenti.

Non è forse questo che l’azienda vuole trasmettere ai suoi dipendenti? Non era questo l’obiettivo del progetto, ovvero costruire dei team, un clima dove si respiri sicurezza, protezione, partecipazione ad un gruppo che, all’occorrenza, ci tende la mano come i membri di una famiglia? Intesa Sanpaolo ha davvero dato prova del fatto che “ci mette il cuore” e tratta i suoi dipendenti con rispetto. Insomma, ricollegandoci alle idee di Sinek, mi sembra che il WHAT (i video) di Intesa Sanpaolo sia perfettamente coerente con il suo WHY, condizione posta come imprescindibile dall’autore per un’azienda affidabile, quindi meritevole di loyalty da parte dei suoi dipendenti.

Purtroppo, come tante volte accade, se si decontestualizza un progetto lo si fa subito apparire grottesco e meritevole quantomeno di una fragorosa risata e di una condivisione sui social, atta a schernire – ma sopratutto a prendere le distanze – da chi pensa e agisce in un certo modo.

Immaginate di decontestualizzare un discorso di un politico, la recita di un attore, una qualsiasi azione umana. Il risultato è lo stesso.

Penso che le motivazioni che muovano questi progetti siano lodevoli e la loro messa in pratica, anche quando tragicomica perché decontestualizzata o perché gli attori sono alle prime armi, debba godere dello stesso rispetto che riserviamo ad una coppia imbranata che muove i suoi primi passi in una pista da ballo. Alla fine ci stanno provando! Miglioreranno, ma la direzione è giusta.

Ripercorrendo la storia della psicologia è facile trovare strafalcioni e teorie strampalate. Ma il progresso implica tutto questo. Il coaching e la psicologia del lavoro si confrontano tutti i giorni con realtà complesse come le aziende, delle vere e proprie gestalt, dove entrano in gioco vissuti individuali e dinamiche relazionali, e mettono al loro servizio tutto il know-how che hanno, sono disposti a rivedere i loro metodi, rincorrendo non solo il profitto, ma anche il miglioramento della qualità degli ambienti.

In tutto questo, comprendo – più di quanto vorrei – la difficoltà ad impedirci il risolino spontaneo al primo approccio con questi materiali (video), ma obbligarci a riuscire in questo significa progredire come membri di una società, indirizzata al reciproco rispetto piuttosto che al bullismo digitale, strumento che infine persegue lo scopo di rinsaldare in maniera precaria la nostra identità (o ingigantire il nostro ego?) e a distinguerci da queste “pochezze”.

Alla fine, per citare il comico americano Louis C.K, Here’s what I think.

Non me ne vogliate.

 



https://www.youtube.com/watch?time_continue=8&v=4bfTMqiMugc

Eroina: la storia, gli effetti e le differenti tipologie della sostanza – Introduzione alla Psicologia

L’ eroina provoca, in coloro che la assumono regolarmente, diversi effetti tra i quali il più noto, e anche il più appetibile, è un senso di euforia, detto rush, che induce gli eroinomani alla costante ricerca della sostanza.  L’uso abituale della stessa provoca dipendenza e assuefazione. In caso di overdose, senza un immediato intervento medico, il rischio di morte è elevato.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ eroina, stupefacente estremamente potente, deriva dalla morfina, principale alcaloide estratto della pianta del papavero da oppio, Papaverum somniferum. L’ eroina, pertanto, è un oppiaceo, ovvero un derivato dell’oppio

L’ eroina provoca, in coloro che la assumono regolarmente, diversi effetti tra i quali il più noto, e anche il più appetibile, è un senso di euforia, detto rush, che induce gli eroinomani alla costante ricerca della sostanza. L’uso abituale della stessa provoca dipendenza e assuefazione. In caso di overdose, senza un immediato intervento medico, il rischio di morte è elevato.

Eroina: origine del nome

Il termine eroina deriva dalla parola tedesca “heroisch”, che significa “eroico”, “potente” o “valoroso”. Tale termine fu usato per definire questa sostanza riconosciuta come un analgesico più efficace della morfina. Chimicamente è definita diacetilmorfina o diamorfina. Nel gergo dei tossicodipendenti, l’ eroina è conosciuta anche con i termini di “skag” e”junk”.

Storia dell’ eroina

Nel 1874 in Germania, Alder Wright, ricercatore britannico, riuscì a sintetizzare chimicamente dall’oppio una nuova sostanza: l’ eroina. Questa scoperta, però, ebbe poco successo e per quasi un ventennio non se ne parlò più poiché alcuni farmacologi, dopo avere sperimentato la molecola sulla rana e sul coniglio, ne decretarono l’inutilità clinica e così la diacetilmorfina, o eroina, cadde nel dimenticatoio.

Il 21 agosto del 1897 il chimico della Bayer, Felix Hoffmann scoprì che il processo di acetilazione degli alcaloidi naturali poteva originare composti meno tossici e più attivi, ovvero nuove molecole, più costose e redditizie del prodotto originale. Il successo dell’ eroina, però, è legato anche al suo nome, Heroin, che suggerisce l’idea dell’invincibilità e della grandezza.

Inoltre, tra il 1899 e il 1905 vennero pubblicati 180 lavori clinici sull’ eroina che includevano almeno 10.000 pazienti. Nessuno, però, parlava di dipendenza iatrogena probabilmente perché l’ eroina era somministrata in piccole dosi. Dopo alcuni anni dalla sua introduzione sul mercato clinico l’ eroina fu usata per le patologie respiratorie, per l’angina pectoris, l’insufficienza miocardica, l’aneurisma aortico, la disfagia, il cancro dello stomaco, l’influenza, la sclerosi multipla, le malattie ginecologiche (tamponi impregnati di eroina), il parto, la ninfomania e la narcosi. Nel 1899 la Bayer esportava l’ eroina in ventitré paesi.

Fino al 1913 la produzione annuale era limitata ad una tonnellata. Nel 1921 il Congresso medico riconobbe la pericolosità delle droghe ed emanò il Dangerou0s Drugs Act (legge contro le droghe pericolose). Questa nuova legge rese illegali gli acquisti di droghe da banco (non richiedenti prescrizione medica). Oggi l’uso medico dell’ eroina è legalmente autorizzato solo in Inghilterra, Belgio, Canada, Irlanda, Malta e Svizzera.

Tipi di eroina

Esistono diversi tipi di eroina che si differenziano per la qualità, per il tipo di impurità che presentano e per le sostanze da taglio che sono state aggiunte durante o dopo la produzione. I tipi più comuni sono l’ eroina bianca e l’ eroina base (Brown sugar).

L’ eroina bianca è un cloridrato di diamorfina ed è prodotta in Birmania, Laos e Thailandia. È la più pura tra quelle esistenti nel mercato ed è chiamata anche eroina nº 4 perché richiede 4 processi di raffinazione contro i 3 dell’ eroina base (brown sugar). Il quarto processo, la trasforma in sale (cloridrato), la rende molto più pura e maggiormente solubile in acqua. Questa fase di produzione è molto delicata e pericolosa poiché avviene attraverso l’ausilio di eteri, soggetti a esplodere con facilità.

L’ eroina bianca, essendo un sale, brucia con maggiore facilità dell’ eroina base ed i suoi effetti sono quindi notevolmente smorzati se è fumata. Per la sua facile solubilità nell’acqua, non sono richiesti agenti chimici per scioglierla come acido citrico, acido ascorbico, limone o aceto. È invece necessario mischiarla con l’acqua e scaldarla per disperderne le impurità.

L’ eroina base è un alcaloide, è detta anche diamorfina base e brown sugar, è meno pura dell’ eroina bianca e viene prodotta principalmente in Iran, Pakistan, India, Nepal e, soprattutto, in Afghanistan. Essa è chiamata anche eroina nº 3 perché richiede 3 processi di raffinazione. L’ eroina base, che presenta un colore marrone, non è un sale come quella bianca, e di conseguenza non è facilmente solubile in acqua. A parità di quantità consumata, la bianca è molto più forte rispetto alla base, che invece brucia a temperature più basse e può essere fumata con minore dispersione. L’ eroina base è prodotta con maggiore facilità e non richiede tutti gli accorgimenti necessari per produrre la bianca.

Per le iniezioni, l’ eroina base non si scioglie facilmente e ha bisogno di essere scaldata insieme all’acqua per un lasso di tempo adeguato. Per diventare un sale e sciogliersi deve essere inoltre mischiata con un agente chimico come acido citrico, acido ascorbico, limone o aceto in quantità adeguate per non causare danni alle vene. I primi due sono più puri e procurano meno effetti collaterali, mentre limone e aceto spesso contengono batteri come la candida che possono procurare endocardite e endoftalmite. Per le sue caratteristiche è quindi più adatta ad essere fumata, un tipo di consumo molto diffuso nel mondo che riduce i pericoli di overdose. Per evitarne la dispersione, i fumatori la consumano pura mettendone una linea su una stagnola che è scaldata lentamente aspirando il fumo con una cannuccia o una banconota arrotolata.

Esistono anche altri tipi meno diffusi, come l’ eroina Rosa, proveniente dalla Malesia, nota come Penang PinK; la Cobret, forma di eroina tagliata con degli additivi che permettono alla sostanza di fondere se scaldata su di un foglio di alluminio con una fiamma, vaporizzare e poi inalata.

Modalità d’assunzione

L’ eroina può essere assunta in diversi modi:

  • iniettata
  • inalata o aspirata
  • fumata.

Il metodo d’assunzione più diffuso è l’iniezione, chiamata “buco” o “pera”. L’ eroina in polvere è fatta sciogliere in un cucchiaino d’acqua calda con l’aggiunta di un agente chimico. In seguito, il liquido è filtrato, per eliminare residui solidi, e iniettato per via endovenosa, o intramuscolare, con una siringa da insulina. L’ eroina può esser anche sniffata o fumata sotto forma di polvere, oppure bruciata su una lastra per inalarne i fumi. Queste modalità d’assunzione sono scelte per evitare i rischi di infezione legati alle iniezioni, ma anche nell’errata convinzione che conducano meno facilmente alla dipendenza dalla sostanza. In ogni caso, l’iniezione endovenosa produce maggior intensità e un rapido raggiungimento dell’euforia (da 7 a 8 secondi), mentre l’iniezione intramuscolare produce un inizio relativamente lento dell’euforia (da 5 a 8 minuti). Invece, se inalata o fumata, l’effetto più forte si ottiene generalmente fra i 10 e i 15 minuti.

Dosaggio

La quantità di una singola dose di eroina può variare molto in funzione di chi la assume; poiché questa droga genera da subito sia assuefazione che tolleranza, i consumatori sono portati ad aumentare gradualmente, e inevitabilmente, il dosaggio. Inizialmente una dose media è di circa 5-15 mg. I consumatori abituali arrivano ad assumere dosi di 100 mg due-tre volte al giorno, per un totale di 250-300 mg. Una dose di 100 mg per un consumatore non assuefatto può risultare fatale.

Sostanze da taglio

Bisogna sempre tenere in considerazione che l’ eroina venduta in strada contiene basse dosi di principio attivo perché è tagliata con diverse sostanze al fine di implementare il volume e quindi migliorare i guadagni. In base alle sostanze da taglio utilizzate è possibile individuare due tipi di eroina: la tipo 1 che contiene il 50-70% di eroina e il 50-30% di caffeina , la tipo 2 contiene il 50-70% di eroina, il 30-45% di caffeina e il 0.5-10% di stricnina. Spesso passando dal produttore al consumatore l’ eroina subisce diluizioni con sostanze diverse, tanto che le dosi vendute per strada contengono solo il 10 o il 20% di sostanza originale.

Gli effetti dell’eroina

L’eroina dopo aver attraversato la barriera ematoencefalica perde uno o entrambi i gruppi acetilici per deacetilazione trasformandosi in morfina o in 3-monoacetilmorfina se perde il gruppo in posizione 6 o in 6-monoacetilmorfina se perde il gruppo in posizione 3.

Gli effetti dell’ eroina si dividono in fasi e dipendono dalla modalità di assunzione della droga.

Le fasi, dunque, dall’assunzione della sostanza sono le seguenti:

  • Nel giro di qualche minuto si ottiene un’estasi pari quasi ad un orgasmo che si diffonde a tutta la muscolatura del corpo, si ha confusione mentale e generale, senso di calore frequente anche dopo l’effetto, sudorazione fredda, mancamenti, talora vomito e nausea, bradicardia, dispnea e analgesia.
  • Dopo circa 20 min i legami associativi sono più lenti, il pensiero rallenta e perde un senso logico; l’umore è euforico o disforico e le percezioni temporali sono largamente alterate: le ore sembrano minuti, i minuti secondi.
  • Dopo circa un’ora compare il picco massimo dell’effetto: la mente raggiunge una sensazione di pace, il corpo è anestetizzato da un incondizionato senso di piacere misto ad un’esaltazione interiore. Il consumatore tende ad isolarsi per godere a pieno questa sensazione e ogni tipo di problema tende ad essere dimenticato.

Invece, se è iniettata per via endovena, l’ eroina provoca un caratteristico flash euforico della durata di circa 30-60 secondi, dovuto al rapido superamento della barriera ematoencefalica e l’immediata saturazione dei recettori oppioidi.

L’Euforia o “rush” o “high” è uno dei motivi che rendono l’ eroina una sostanza che crea dipendenza. Il rush è simile all’orgasmo e dura da alcuni secondi a un minuto. Passato il rush iniziale, lo stato che segue è di semi-vigilanza. In questo stato si verifica un distacco dalla realtà (being on the nod), e un effetto sedativo sul sistema nervoso centrale, si sperimenta una sensazione di piacevole pesantezza, come se il corpo fosse avvolto nell’ovatta. La coordinazione e la concentrazione sono ridotte e l’eloquio è confuso e lento. Le funzioni mentali sono annebbiate per alcune ore dopo la dose. Si ottiene, dunque, uno stato di forte benessere, un’estrema tranquillità interiore o una profonda soddisfazione.

Effetti a breve termine

L’ eroina rallenta l’attività del sistema nervoso centrale, si ha: sonnolenza, respiro profondo e rallentato, diminuzione della pressione arteriosa e ridotta frequenza cardiaca. È inoltre probabile che si manifestino anche gli altri sintomi: miosi (restringimento delle pupille), xerostomia (secchezza delle fauci), soppressione del riflesso della tosse, nausea, vomito, sudorazione, prurito, ridotta libido.

Effetti a lungo termine

Gli effetti a lungo termine derivanti dall’ uso di eroina posso essere devastanti, soprattutto se si abusa della droga senza richiedere un aiuto. La dipendenza genera conseguenze fisiche, mentali e sociali. Nel lungo periodo l’ eroinomane sviluppa una pluralità di problemi fisici che comprendono: grave immunodeficienza, esposizione a tutti i tipi di malattie infettive (HIV/AIDS, TB, epatite B e C); disturbi epatici, respiratori e cardiaci; collasso venoso, gravi ascessi cutanei, trombosi venosa; stipsi cronica; irregolarità mestruale e infertilità nelle donne, impotenza negli uomini; malsane abitudini alimentari, perdita di peso; forti disturbi emotivi e cognitivi.

La Dipendenza fisica

L’ eroinomane sperimenta velocemente la dipendenza fisica, caratterizzata dall’aumento della tolleranza alla droga e la comparsa della sindrome da astinenza. La tolleranza è definita come una crescente necessità nel tempo di dosi più elevate di droga per ottenere l’effetto euforico desiderato. Questo significa che il fisico si abitua agli effetti dell’ eroina. Infine si giunge a un punto in cui l’effetto euforico scompare, ma il fisico si è abituato alla presenza della droga nel suo sistema e ne ha bisogno per poter funzionare normalmente. I sintomi da astinenza compaiono con l’interruzione della regolare somministrazione di eroina.

La dipendenza psicologica si manifesta, inceve, con pensieri ricorrenti (pensiero desiderante), desiderio costante di assumere la sostanza (craving) seguito da umore negativo. Il comportamento del paziente è spesso irrazionale, poiché volto solo al raggiungimento dello scopo, ovvero la sostanza. Questo comportamento scompare dopo aver assunto la sostanza e una volta finiti gli effetti il circolo vizioso ricompare.

Astinenza da Eroina

L’ astinenza da eroina può presentarsi quattro-sei ore dall’ultima dose, quando si inizia a sentire irritabilità e tensione poiché la quantità di droga diminuisce nell’organismo. L’astinenza fisica può durare fino a 12 giorni, con una media del picco di intensità al quarto giorno e un’attenuazione al nono. Nonostante non sia di norma pericolosa per la vita, è una condizione dolorosa e molto stressante, tale da rendere difficile per molti liberarsi dalla dipendenza.

I sintomi comuni da astinenza fisica comprendono: midriasi (dilatazione delle pupille), forte dolore muscolare, del rachide, delle gambe e delle articolazioni; nausea e vomito, crampi allo stomaco, dissenteria, brividi e pelle d’oca, sudorazione, rinorrea, lacrimazione oculare, sbadigli; estrema irrequietezza e insonnia. Gli spasmi muscolari agli arti inferiori inducono a scalciare. I movimenti scalcianti delle gambe sono un sintomo molto tipico dell’astinenza da oppiacei. I sintomi psicologici comprendono ansia, disforia, depressione, insopportabile craving di eroina. In una settimana, con l’attenuarsi della maggior parte dei sintomi da astinenza, il paziente sperimenta di solito debolezza residua e dolore emotivo caratterizzati da un senso di colpa e vergogna. I disturbi tipici sono: frequenti sbalzi di umore, irritabilità, disturbi del sonno, sudorazioni notturne. L’ astinenza mentale o emotiva dall’eroina dura poche settimane. La sofferenza emotiva è spesso talmente importante da essere considerata la causa più comune di ricaduta.

Segni in chi abusa di eroina

Le persone dipendenti dall’ eroina mostrano una serie di sintomi facilmente riconoscibili: senso di stanchezza persistente, ferite da iniezione, infezioni cutanee da iniezione, respiro affannoso, vomito, nausea, costrizione della pupilla, difficoltà nel parlare o nello scandire le parole, disorientamento, deficit di memoria, progressivo distacco dai familiari e dagli amici di più vecchia data, perdita di interesse verso il futuro, trascuratezza della propria igiene personale, trascuratezza della propria immagine e mancanza di disciplina.

Overdose e cause di morte

L’ overdose indica l’assunzione eccessiva di una determinata sostanza stupefacente.
Se non trattata in tempo, l’overdose da eroina è fatale. Nella maggior parte dei casi, la morte sopraggiunge per marcata depressione respiratoria che si manifesta con arresto del respiro e/o arresto cardiocircolatorio. Il trattamento previsto in caso di overdose da eroina consiste, di solito, nella somministrazione degli antagonisti oppioidi naloxone o naltrexone.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

cancel