expand_lessAPRI WIDGET

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: un approccio sistemico-relazionale

Le emozioni sono delle variabili fondamentali nel processo di apprendimento e devono essere tenute debitamente in conto nel percorso del bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

 

Introduzione: i Disturbi Specifici dell’Apprendimento oltre il potenziamento degli apprendimenti

Un errore che molto spesso viene commesso quando si parla del benessere in età evolutiva è quello di scindere le aree di vita del bambino. Ecco che così tutta la sfera dell’apprendimento diviene una problematica relativa al mondo scolastico, mentre i problemi emotivi ad essa connessi vengono trattati in famiglia. In realtà l’esperienza ci mostra che il quadro definito “Disturbo Specifico dell’Apprendimento – DSA” è molto più complesso e richiede una presa in carico che vada oltre il sistema di potenziamento degli apprendimenti. Infatti le emozioni sono delle variabili fondamentali nel processo di apprendimento e devono essere tenute debitamente in conto nel percorso del bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Emozioni ed apprendimento

Nessun atto della vita psichica è caratterizzato da una scissione fra meccanismi cognitivi e meccanismi emotivi, infatti queste due funzioni operano contemporaneamente in ogni momento della nostra quotidianità. La stessa cosa vale per il processo di apprendimento. Ogni volta che un bambino apprende, accanto alle funzioni esecutive, alla memoria di lavoro, all’attenzione, inevitabilmente sperimenterà anche delle emozioni. Queste emozioni tracciano la memoria di ciò che si sta apprendendo ed è proprio per questo motivo ormai la ricerca ci dice che l’attivazione emotiva favorisce la memorizzazione. Infatti durante il processo di immagazzinamento delle informazioni nella memoria accade che le nozioni scaturite dai processi cognitivi vengono conservate nella memoria semantica, mentre invece la traccia emotiva che ha accompagnato quell’apprendimento finisce nella memoria autobiografica (Lucangeli, 2015).

Ciò ci porta a delle implicazioni non indifferenti: difficilmente il bambino si ricorderà degli errori che faceva, ma ricorderà l’emozione associata a questi errori (paura, confusione, impotenza). L’emozione, a differenza delle nozioni apprese, è tracciata nella memoria di sé e ciò influenzerà significativamente tutti gli apprendimenti successivi e l’atteggiamento del bambino nei confronti della scuola, infatti ogni volta che dovrà recuperare tali informazioni, nei circuiti della memoria verranno riattivate anche le emozioni ad esse associate.

Questo ciclo, ogni volta che si ripete, stabilizza la percezione del bambino di sé stesso come adeguato o inadeguato con ovvie conseguenze sullo sviluppo dell’autostima.

Cosa vuole comunicare la sintomatologia DSA alla famiglia?

Se le emozioni sono così importanti durante il processo di apprendimento esse assumono un ruolo di assoluto rilievo all’interno delle dinamiche familiari.

Cosa significa per la famiglia avere a che fare con un figlio con Disturbi Specifici dell’Apprendimento? I Disturbi Specifici dell’Apprendimento sfidano uno dei pilastri portanti della nostra società, ovvero la credenza per cui se un bambino è intelligente andrà bene a scuola. Inoltre, per molti genitori, la pronuncia della fatidica frase “mio figlio va bene a scuola” è sinonimo di buone competenze educative, di essere un buon genitore che segue il figlio.

Il primo giorno di scuola è un rituale che investe non solo il bambino, ma tutta la famiglia. L’ingresso nel mondo scolastico è accompagnato da una buona quota di ansia e di aspettative sia dal bambino, ma anche e soprattutto dalla famiglia.

Si pensi a quante coppie genitoriali si sentono in colpa quando viene loro comunicata la diagnosi del figlio, come se le difficoltà nel rendimento scolastico fossero una responsabilità alla quale non possono sottrarsi.

Dunque una diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento mette in crisi la famiglia da un punto di vista sociale, genitoriale e relazionale in quanto la relazione genitore-figlio avrà come perno sempre la scuola e poiché la frustrazione dei genitori può portare conflitto anche all’interno della coppia.

E’ interessante sottolineare anche il ruolo degli insegnanti e della scuola che, in questo contesto, diventano facili bersagli di malcontento e scarichi di responsabilità, operatori che oscillano fra l’estremo bisogno di aiutare il bambino in difficoltà e le richieste rigide del sistema scolastico che impone ritmi di apprendimento e di studio ben definiti e serrati.

Non a caso ciò che ci mette davanti la sintomatologia DSA è un messaggio che, immersi nella frenetica società di oggi, fatichiamo ad accettare: la lentezza. Sono bambini che, portatori di un ritardo di maturazione di determinati meccanismi, ci chiedono prepotentemente di rispettare i loro tempi, di riappropriarsi delle tempistiche evolutive, soggettive ed insindacabili. Sono bambini che chiedono e richiedono tempo e che ci invitano a rallentare e a staccare dai controlli ossessivi degli orologi e dei sistemi di valutazione.

Come una terapia familiare può essere d’aiuto?

Il quadro appena descritto appare connotato in maniera marcata dal conflitto. Non solo quello, classico, fra genitori e figli, ma anche quello all’interno della coppia, quello fra i genitori e l’istituzione scolastica, quello fra il bambino ed il gruppo di pari per il quale nutre un profondo senso di inferiorità ed inadeguatezza. All’interno di tutto questo la terapia familiare si inserisce primariamente come un facilitatore comunicativo, un rimando verso tutti i membri della famiglia del come stanno vivendo la situazione, non facile per nessuno, restituendo loro la legittima quota di frustrazione e sofferenza per la quale non devono sentirsi giudicati.

Il ruolo fondamentale è quello poi di ridurre il senso di non-accettazione esperito dal bambino, aiutarlo a comunicare le sue esigenze peculiari accompagnando i genitori in questo percorso di comprensione in cui saranno in grado di prendere consapevolezza di cosa è realmente e cosa comporta un Disturbo Specifico dell’apprendimento.

Contestualmente al lavoro sull’impotenza appresa del bambino si lavorerà anche sul senso di impotenza e di incompetenza dei genitori e sul loro ruolo educativo, riorganizzando spazi e tempi domestici in relazione ai bisogni specifici di tutta la famiglia, non solo del bambino. L’obiettivo primario sarà quello di restituire il bambino alla famiglia, spostando il focus dal deficit alle risorse, a ciò che di soddisfacente il bambino può dare, al tempo di qualità vissuto con i genitori in esperienze ludico-ricreative evitando la sgradevole sensazione del bambino di essere preso in considerazione solo per il rendimento scolastico e non per la sua individualità ed unicità.

Lavorando sugli ambiti di autonomia personale si darà così modo alla famiglia si respirare un’ aria diversa, che non sia incatenata a certi rituali come i compiti e le lotte per essere accompagnati a scuola.

In questa ottica i Disturbi Specifici dell’Apprendimento si configurano come una sfida da accettare con entusiasmo che trasforma le criticità in risorse per tutti i sistemi coinvolti, in un ascolto attivo e collaborativo nel quale ognuno può trovare il giusto spazio per sé e le proprie esigenze senza rimanere intrappolato dai numeri, che siano quelli dei voti o quelli sui quali scorrono le lancette dell’orologio.

Psicoterapia cognitiva della coppia. Dalla valutazione ai percorsi di intervento – Recensione

Psicoterapia cognitiva della coppia: Il manuale si suddivide in tre parti: la prima parte (capp. 1-5) più teorica, la seconda parte (capp. 6-8) più focalizzata sulle specifiche aree di intervento e la terza parte (capp. 9-12) maggiormente dedicata alle metodiche.

Alessia Offredi, Chiara Bellardi

 

Il libro di Vinai e Rebecchi: un importante contributo alla psicoterapia cognitiva della coppia

Il clinico che tratta coppie deve essere sapiente, forte, deciso, ma anche capace di risuonare in modo convincente con gli stati emotivi spesso caotici e urgenti che si trova ad affrontare”, afferma Sassaroli nel presentare il volume Psicoterapia cognitiva della coppia, 208 pagine edite da Edizioni Libreria Cortina Milano e curate da Daniela Rebecchi e Piergiuseppe Vinai.

E in effetti il compito dei terapeuti di coppia è decisamente arduo, perché se di solito si ha a che fare con un altro individuo, in questi casi i pazienti nello studio sono tre: i due partner e la loro relazione. Tre situazioni spesso complesse, ognuna con la propria storia e i propri bisogni, che chiedono di ricevere aiuto e supporto dalla stessa persona. Non facile farlo, figuriamoci spiegarlo. Forse anche per questo motivo mancava, nella letteratura di settore dedicata alla terapia cognitiva, un volume sulla coppia. E probabilmente per lo stesso motivo i curatori dell’opera hanno coinvolto numerosi colleghi, operanti nell’ambito o esperti di temi specifici, che hanno contribuito alla stesura del libro. Ne risulta un volume molto chiaro nei contenuti, che non si propone di illustrare nel dettaglio ogni tecnica (spesso già note al terapeuta di formazione cognitiva), ma che offre una struttura definita in cui orientarsi. Complice talvolta la domanda che la coppia porta in terapia, “Il rischio è che focalizzandosi soltanto su aree specifiche, si perda di vista la globalità della problematica, e si finisca per proporre soluzioni a macchia di leopardo, che non tengono conto del complesso intreccio psicorelazionale che sottostà a una difficoltà sessuale o genitoriale”.

La struttura e i contenuti del manuale “Psicoterapia cognitiva della coppia”

Il manuale si suddivide in tre parti: la prima parte (capp. 1-5) più teorica, la seconda parte (capp. 6-8) più focalizzata sulle specifiche aree di intervento e la terza parte (capp. 9-12) maggiormente dedicata alle metodiche.

Il primo capitolo (Pericoli, Rossi, Pasqualetti) passa in rassegna i modelli che nel tempo si sono occupati di formalizzare la terapia rivolta alla coppia. Dalla psicoanalisi all’approccio sistemico, fino ad approfondire le prospettive del panorama cognitivo-comportamentale, gli autori illustrano i passaggi principali avvenuti in quest’ambito, descrivendo l’evoluzione del target di trattamento.

Il secondo capitolo (Nigro, Mancioppi, Possi) affronta uno degli aspetti più difficili da gestire del setting: la relazione terapeutica. La tentazione di “tenere le parti” di uno dei due partner è uno degli aspetti che forse più preoccupano il terapeuta di coppia inesperto, ed è bene che un po’ di questo timore ci sia, per aumentare la vigilanza sui nostri segnali (verbali e non!). In questo capitolo troveremo indicazioni utili, con esempi tratti dalla pratica clinica, su come creare e mantenere una relazione terapeutica sufficientemente flessibile per poter lavorare con i “tre” pazienti, ma al contempo salda e capace di essere base sicura durante il percorso.

Il capitolo dedicato all’assessment e alla valutazione clinica (Rebecchi, Vinai, Boldrini) descrive ciò che accade nelle prime sedute di psicoterapia cognitiva della coppia e quali strumenti è possibile utilizzare in questa fase iniziale. Gli autori analizzano ogni passaggio: dalla richiesta iniziale, alla valutazione della motivazione, all’indagine delle teorie naïf, alla gestione di eventuali sedute individuali, fino ad arrivare alla restituzione. Vengono inoltre illustrate le situazioni in cui la psicoterapia cognitiva della coppia è controindicata, nonché gli elementi che rendono invece possibile procedere con una psicoterapia cognitiva della coppia.

Il quarto capitolo (Rebecchi, Vinai, Framba, Dadà, Gemelli, Sgambati, Boldrini) è dedicato ai percorsi psicoterapeutici e costituisce un compendio di target e interventi dedicati che costituiscono una vera e propria mappa in cui il terapeuta riesce a orientarsi e trovare le soluzioni più adatte alle problematiche che le coppie portano in studio. Nello specifico, vengono analizzati gli interventi rivolti alla modifica di comportamenti disfunzionali nella comunicazione, credenze patogene, emozioni negative e cicli interpersonali disfunzionali, con esempi mirati per ogni sezione. L’ottica integrativa e lo sforzo di sintesi (in senso etimologico) degli autori offre al lettore la possibilità di conoscere prospettive differenti, il cui utilizzo è spesso congiunto in terapia, specie da parte di clinici esperti che sanno adottare interventi diversi senza perdere di vista l’obiettivo e senza farsi trasportare dalla confusione che talvolta caratterizza le coppie problematiche.

Il quinto capitolo (Rebecchi, Caselli e Gemelli) illustra la concettualizzazione delle dinamiche relazionali di coppia attraverso il modello LIBET (Life Themes and Plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment)) di Ruggiero, Sassaroli 2013. Viene proposta una concettualizzazione del funzionamento della coppia attraverso l’individuazione dell’interazione dei temi dolorosi di vita e soprattutto dei piani di vita di ciascun membro della coppia. Tali piani avrebbero una funzione difensiva rispetto al tema doloroso; essi infatti costituiscono “l’insieme degli scopi che l’individuo persegue a lungo termine, che gli consentono di dare una direzione, un senso e un ordine alla sua vita e cha va sotto il nome di self-directedness” (Ruggiero, Sassaroli, 2013). Spesso il motivo del disagio è riconducibile a una rottura del piano, che può avvenire per esaurimento o per invalidazione. Il trattamento consiste nel tentare di fornire alla coppia gli strumenti per individuare ed, eventualmente, flessibilizzare i propri piani. Attualmente i piani identificati dagli autori sono tre: prudenziale, prescrittivo o immunizzante. Nel capitolo sono portati diversi esempi di concettualizzazioni del funzionamento della coppia secondo il modello LIBET, con particolare attenzione ai piani. “Le rotture si verificano quando per eventi interni o esterni il piano di vita di un singolo individuo non è più soddisfacente e funzionale all’interno della coppia. Quando il piano del singolo è inflessibile e rigido, se invalidato, può rompersi. A volte distruggendo anche quello del partner, specialmente se anche questo lo era. […] Finché il piano di vita di coppia è funzionale al singolo, la relazione è “battagliera”, ma non così facile a rompersi. I piani di vita molto simili come tipologia e/o con una interazione fortemente complementare sono generalmente molto prudenziali o controllanti; questo li rende gratificanti a breve termine, ma alla lunga diventano frustranti, perché non arricchiscono l’individuo nel raggiungimento di nuovi scopi”.

Psicoterapia cognitiva della coppia: come trattare i disturbi sessuali e le difficoltà legate alla genitorialità

Con il sesto capitolo dedicato alla domanda sessuologica (Giuri, Rebecchi) si apre la seconda parte, più incentrata sulle specifiche aree di intervento. Le autrici sintetizzano in poche pagine una panoramica che va da un’analisi puntuale dell’inquadramento nosografico secondo il DSM 5 dei disturbi, all’accoglimento della domanda, alla riformulazione della specifica problematica come “sofferenza appartenente alla coppia” e non al singolo, con la comprensione della stessa all’interno dei sistemi di credenze e scopi. Le autrici invitano a lavorare tenendo presente il triplice livello comportamentale, cognitivo e relazionale, cercando di creare dei nessi tra il funzionamento attuale, la storia della coppia e la storia di attaccamento dei singoli individui. Vengono inoltre date indicazioni sugli elementi oggetto del contratto terapeutico: definizione della situazione, degli obiettivi, degli strumenti, del rapporto con il terapeuta. Le autrici forniscono altresì alcuni criteri utili ad individuare quando sia raccomandabile un intervento di terapia sessuologica mansionale, una psicoterapia cognitiva della coppia e/o una psicoterapia individuale. In particolare le autrici asseriscono che “il trattamento della coppia che porta un sintomo sessuale è volto ad aiutare i partner a formulare alternative alle loro modalità di lettura della realtà, a pensare e a metter in atto strategie di soluzione più efficaci alla luce della nuova modalità di leggere e dare significato alla loro sessualità e alla loro vita di relazione sessuale […]. Nel concordare con la coppia un contratto terapeutico è fondamentale che si ridefinisca il problema in termini di “sofferenza appartenente alla coppia” […]. La versione di ognuno è volta alla protezione dell’idea di sé, quanto più questa è rigida, tanto più si faticherà alla ricostruzione che tenga conto invece di entrambi i punti di vista, che ne valorizzi il significato, consentendo una maggiore libertà di costruzione di se stessi, abbandonando la poco sana rigidità […]. La terapia in tal senso dovrebbe aumentare i gradi di libertà con cui il soggetto costruisce se stesso al fine di una costruzione che permetterà attraverso questa esperienza, non solo di progettare un futuro diverso, ma anche di rivedere un passato diverso”.

Il settimo capitolo (Querci) oltre a proporre una meta-analisi della letteratura sul tema della genitorialità in termini di funzioni genitoriali, si concentra sull’assessment, sulla condivisione e sull’alleanza terapeutica. Inizialmente vengono prese in considerazione le funzioni genitoriali (protettiva, affettiva, regolativa, normativa, predittiva, significante, rappresentativa e comunicativa, triadica e transgenerazionali) e i costrutti della genitorialità secondo quanto riportato nel 2009 dall’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna (adattabilità, empatia, riflessibilità, regolazione, organizzazione, partecipazione, vitalità, qualità della relazione, cogenitorialità, intersoggettività). In seguito vengono prese in considerazione le varie situazioni che possono arrivare all’attenzione del clinico: il figlio ha nuovi bisogni, il figlio ha delle difficoltà ma i genitori non sanno come gestirle, il figlio manifesta un disturbo diagnosticabile, sottolineando l’importanza della interpretazione della problematica e degli obiettivi. In seguito la coppia genitoriale viene invitata ad utilizzare lo strumento dell’analisi funzionale: “i genitori devono riportare la situazione attivante, il comportamento problematico del figlio e le conseguenze emotive e comportamentali del figlio e di loro stessi” (Ruggiero, Sassaroli, 2013). Il coinvolgimento dei genitori può essere di tre tipi: facilitatore, co-terapeutico, come clienti. Si dedica attenzione agli interventi di parent-training e di coping-power.

Nell’ottavo capitolo (De Rosa) viene proposta una meta-analisi della IPV (Intimate Partner Violence), ovvero della violenza di genere all’interno della coppia. Viene offerta una panoramica delle tipologie di violenza (fisica, psicologica e materiale) e della diffusione del fenomeno in maniera trasversale sia in termini geografici che sociografici, con le seguenti specificità secondo il rapporto redatto nel giugno del 2013 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla base di uno studio condotto in 161 paesi: “la violenza fisica o sessuale colpisce più di un terzo delle donne nel mondo (35%) e la violenza domestica inflitta dal partner ne è la forma più comune (30%). Nel mondo la prima causa di morte violenta di donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio a opera di persone conosciute”. Vengono poi prese in esame l’importanza delle conseguenze degli abusi sulle donne in termini di conseguenze fisiche e psicologiche sulle donne stesse e sui figli. Infine vengono analizzati gli approcci dei diversi orientamenti alla questione: cognitivo-comportamentale, psicodinamico e profemminista. In particolare si sottolinea l’importanza del focalizzare l’intervento sull’uomo violento (perpetrator) piuttosto che sulle caratteristiche della vittima. Si fa riferimento al modello Duluth, proposto negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta e al modello ATV proposto in Norvegia. Mentre il protocollo Duluth di matrice cognitivo comportamentale si focalizza su aspetti specifici (responsabilizzazione dell’autore, stereotipi di genere, empatia, skill-training sulla comunicazione), l’intervento scandinavo si caratterizzerebbe per essere meno strutturato e per tenere maggiormente in considerazione gli aspetti emotivi individuali e la storia di vita del perpetrator.

Le metodiche di intervento della psicoterapia cognitiva della coppia

Con il nono capitolo (Rebecchi, Chiappelli) si apre la terza parte dedicata alle metodiche di intervento. Viene preso in esame l’utilizzo dell’ABC, “il paradigma di analisi di base nella psicoterapia cognitiva. L’ABC è un’espressione ideata da Albert Ellis, ed è un acronimo in cu A sta per antecedente; B per pensieri, C per emozioni e comportamenti”. Vengono poi riferite le domande proposte da Dryden per completare lo schema su tre colonne: qual era la situazione in cui il problema si è manifestato? Cosa ha provato? Cosa ha fatto? Che cosa le passava per la mente in quel momento?

Nel decimo capitolo (Chiappelli, Boldrini) viene spiegato come utilizzare nella psicoterapia cognitiva della coppia lo strumento del genogramma, introdotto da Murray nel 1979. “Ripercorrere la storia familiare in una prospettiva “intergenerazionale” aiuta a comprendere il legame tra questa e la propria storia personale e a riconoscere l’influenza delle modalità relazionali delle famiglie d’origine sulle proprie dinamiche di coppia. Il genogramma può altresì contribuire a portare alla luce segreti familiari a lungo taciuti”. Vengono fornite le istruzioni per compilare lo stesso, al fine di facilitare l’emergere delle dinamiche agonistiche o cooperative strutturatesi nel tempo. Le autrici asseriscono che “nella terapia di coppia è particolarmente indicato “ingrandire l’angolo di osservazione”, legando insieme i due genogrammi, e collegando in questo modo le famiglie dei partner”.

Nell’undicesimo capitolo (Vinai e Speciale), viene descritta la Self- Mirroring Therapy, che si avvale dell’utilizzo di una telecamera per riprendere la persona in due momenti: nel filmato n° 1 la persona viene ripresa durante una seduta di terapia, mentre nel filmato n° 2 la persona viene ripresa mentre guarda la videoregistrazione. Il terapeuta dedica particolare attenzione a far emergere le congruenze e le incongruenze. Nel capitolo viene presentato il background neurofisiologico ed in seguito il protocollo clinico. Gli autori riportano che “un recente studio (Sel, Forster, Calvo-Merino, 2014) ha riscontrato che la visione di volti emozionati induce una più precoce attività nelle regioni somato-sensoriali cerebrali rispetto alla visione di volti con espressioni neutre”.

Nel dodicesimo capitolo (Pasqualetti, Pericoli, Rossi) vengono passati in rassegna i questionari e le scale diagnostiche che è possibile utilizzare a seconda delle aree di maggior interesse, solitamente individuate tra le seguenti: soddisfazione relazionale, comunicazione, credenze, sessualità, abusi/violenze, psicopatologia.

Gli autori concludono asserendo che: “Il modello di terapia che abbiamo descritto in questo volume vuole essere uno strumento quotidianamente applicabile e flessibile, che accompagni nel suo lavoro quotidiano il clinico che già si occupa di terapia di coppia e che stimoli a interessarsene altri cognitivisti che ancora non lo fanno. La nostra speranza è di aver stimolato ricerche di esito e di processo che possano chiarire quali modalità terapeutiche siano più indicate per ciascun tipo di coppia e per ogni dinamica relazionale disfunzionale”.

 

Disapprendere l’ansia attraverso la stimolazione magnetica transcranica (TMS)

Oltre ai trattamenti psicoterapeutici, esistono quelli farmacologici e quelli che agiscono sui network neurali (Bajbouj, & Padberg, 2014), come la stimolazione magnetica transcranica (TMS). Rispetto a questi ultimi, l’idea è quella di indagare la fisiopatologia dei disturbi d’ ansia per comprendere i meccanismi neurali che facilitano l’estinzione della risposta di paura a seguito dell’esposizione allo stimolo ansiogeno.

 

La stimolazione magnetica transcranica per il trattamento dei disturbi d’ansia

I disturbi d’ansia rappresentano una delle più diffuse tra le patologie mentali e a volte può debilitare i pazienti al punto da ostacolare la loro vita quotidiana. Evidenze dimostrano che il trattamento più idoneo per tali disturbi è la terapia cognitivo – comportamentale (CBT).

Oltre ai trattamenti psicoterapeutici, però, esistono quelli farmacologici e quelli che agiscono sui network neurali (Bajbouj, & Padberg, 2014), come la stimolazione magnetica transcranica (TMS). Rispetto a questi ultimi, l’idea è quella di indagare la fisiopatologia dei disturbi d’ansia per comprendere i meccanismi neurali che facilitano l’estinzione della risposta di paura a seguito dell’esposizione allo stimolo ansiogeno (Vervliet, Craske, & Hermans, 2013).

Da ricerche effettuate sia su animali che su umani emerge che un’area rilevante per l’estinzione della risposta a uno stimolo condizionato, quindi anche per disapprendere l’ansia, è la corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC) (Guhn, Dresler, Hahn, Muhlberger, Strohle, Deckert, et al., 2012).

Uno studio recente, effettuato dal dipartimento di psicologia clinica dell’università di Wurzburg, ha cercato di aumentare l’efficacia della terapia cognitivo – comportamentale per i disturbi d’ansia combinandola con l’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica. Come sappiamo, l’ansia può essere legata a svariate situazioni ma i ricercatori si sono soffermati sull’acrofobia (paura per le altezze elevate) di 39 soggetti. Il metodo di ricerca consisteva nella stimolazione della vmPFC attraverso stimolazione magnetica transcranica per 20 minuti durante una terapia di tipo espositivo in una realtà virtuale (VRET). La realtà virtuale consentiva di elicitare le stesse risposte di quella reale, poiché le persone avvertivano comunque la paura, nonostante sapessero che non erano effettivamente in pericolo.

I risultati della ricerca hanno dimostrato che la stimolazione del lobo frontale consente di inibire la paura contribuendo ad ampliare i dati riguardanti i processi di estinzione dell’apprendimento non solo in soggetti sani ma anche in quelli fobici. Dunque, combinando la stimolazione magnetica transcranica con una terapia espositiva e cognitivo comportamentale, i pazienti fobici migliorano più facilmente e velocemente. Gli sviluppi futuri di tale studio potrebbero riguardare la validazione di questo intervento per altre forme di ansia, come la fobia sociale, il disturbo d’attacco di panico o quello d’ansia generalizzata.

Oltre l’aspetto ludico: Pokémon Go tra captologia, tecnologia positiva e intelligenza emotiva

Il fenomeno Pokémon Go, dalla sua comparsa negli store Android e Apple, si è diffuso in maniera notevole in tutto il globo. Il target a cui fa riferimento non riguarda esclusivamente una sola fascia d’età, ma varia. Bambini, ragazzi e adulti sono tutti presi da questa apllicazione. Ma qual è il motivo per cui questo videogioco a realtà aumentata ha così successo? E poi, può Pokémon Go, essere anche usato a fini non solo videoludici?

Lazzeri Marco

 

Nel cercare di rispondere a tali quesiti proverò ad avvalermi di diverse argomentazioni quali: la psicologia sociale, la captologia, la psicologia positiva nonché il contributo del Web e della letteratura scientifica su temi come i  videogiochi o la realtà virtuale.

Infine, quale ultimo contributo personale, cercherò di ipotizzare come Pokémon Go possa essere utile allo sviluppo dell’intelligenza emotiva dei giocatori.

Pokémon Go: la Realtà aumentata

Tutti noi, forse tranne qualche eccezione, conoscono il fenomeno di Pokémon Go. Dalla sua comparsa  nei principali store per smartphones (Apple e Android), questa applicazione si è diffusa a macchia d’olio in tutto il globo. Ancora adesso, mentre sto scrivendo, se ne continua a parlare. La televisione, i canali social, i giornali ed il Web continuano a bombardarci di informazioni su tale applicativo, sia nel bene che nel male.

Ma che cos’è poi alla fine Pokémon Go? Per chi non lo sapesse, Pokémon Go, non è altro che un videogioco. Un videogioco a realtà aumentata. Per realtà aumentata o realtà mediata dall’elaboratore (in inglese augmented reality, abbreviato “AR”), si intende l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi. Gli elementi che “aumentano” la realtà possono essere aggiunti attraverso un dispositivo mobile, come uno smartphone, con l’uso di un PC dotato di webcam o altri sensori, con dispositivi di visione (per es. occhiali a proiezione sulla retina), di ascolto (auricolari) e di manipolazione (guanti) che aggiungono informazioni multimediali alla realtà già normalmente percepita.

Nella realtà virtuale (VR), le informazioni aggiunte o sottratte elettronicamente sono preponderanti, al punto che le persone si trovano immerse in una situazione nella quale le percezioni naturali di molti dei cinque sensi non sembrano neppure essere più presenti e sono sostituite da altre. Nella realtà aumentata (AR), invece, la persona continua a vivere la comune realtà fisica, ma usufruisce di informazioni aggiuntive o manipolate della realtà stessa. La distinzione tra realtà virtuale e realtà aumentata è peraltro artificiosa: la realtà mediata, infatti, può essere considerata come un continuo, nel quale realtà virtuale e realtà aumentata si collocano adiacenti e non sono semplicemente due concetti opposti. Dopotutto la realtà aumentata, non è altro che una “realtà mista”, nata dall’intuizione di fondere la realtà virtuale con le ambientazioni reali.

La Psicologia dei Videogames

Sebbene Pokémon Go sia un videogame così caratteristico, rimane dopotutto pur sempre un videogioco. Di videogiochi ne esistono forme e tipologie estremamente diversificate e costantemente soggette a trasformazioni ed implementazioni. Sarebbe troppo riduttivo pensare al videogioco solo come una forma di semplice intrattenimento (Bittanti, 2004) e basta. Si rischia di non coglierne il reale significato e valore d’uso. Sono sempre più numerosi i titoli utilizzati a fini formativi o a supporto dei processi di apprendimento. Inoltre, in forte crescita vi sono anche i videogiochi che hanno come obiettivo la promozione del benessere psicologico e fisico delle persone.

Ne sono un esempio i conosciuti Wii Sports e WiiFit della Nintendo nati per promuovere un utilizzo del corpo divertente e utile per bruciare calorie, o il conosciuto (in ambito statunitense) Virtual Iraq per curare i reduci di guerra dal Disturbo da stress Post Traumatico. Tale videogioco è statao creato ad hoc per l’occasione e, basato sul videogame Full Spectrum Warrior, fa rivivere ai reduci il conflitto bellico che li ossessionava in forma virtuale nonché sicura nel medesimo momento.

Attualmente giocare ai videogiochi non comporta più una modalità esclusivamente univoca: videogioco non è più accessibile soltanto dal computer di casa, ma anche su altre piattaforme elettroniche, invadendo console grandi e piccole, fisse e portatili, ma soprattutto smartphone e tablet.

Quando parliamo o abbiamo a che fare con i videogiochi, non possiamo non ricadere (ma questo non vale per tutti) in considerazioni a sfondo negativo. Le rappresentazioni maggiormente condivise sono le seguenti:

  • “Videogiochi violenti, persone violente”: il videogioco come strumento che influenza le emozioni assieme al comportamento. Questa concezione sostiene che i comportamenti osservati all’interno dei videogiochi ed agite da personaggi interpretati o incontrati, possano essere riprodotti nella realtà. Ne derivano conseguenze negative se consideriamo che moltissime delle azioni e degli atteggiamenti presenti nei videogame sono moralmente riprovevoli o pericolosi. Quale potrebbe essere un esempio calzante se non il conosciuto (soprattutto dai giovani gamers) Grand Theft Auto, o GTA?.
  • Smettila di giocare ai videogiochi ed esci un po’!”: il videogioco come qualcosa che isola e impigrisce. Quanto spesso ci capita di essere così rapiti da ciò che accade sullo schermo da dimenticarci, anche per lunghe ore, di tutto il resto? Ne può derivare una preoccupazione sia a livello fisico che sociale. Nel primo caso, il videogioco è visto come qualcosa che impigrisce, che ti obbliga a stare fermi e che, in relazione ad esso, può portare a condotte scorrette dal punto di vista alimentare, motorio e igienico. Nel secondo caso invece può emergere l’idea di un ritiro sociale, quasi come se si preferisse relazionarsi ai personaggi fittizi del gioco piuttosto che le persone reali.
  • Molto meglio un buon libro!”: il videogioco come strumento che dissocia dalla realtà. Questa concezione attribuisce al videogioco la pericolosa capacità di sostituirsi all’esperienza reale, imprigionando l’utente in mondi fantastici che, nei casi più estremi, non sarebbe più in grado di distinguere dalla realtà.

La Captologia

Come già accennato all’inizio dell’articolo esistono però anche videogiochi che, alla luce di obiettivi pedagogici, psicofisici e formativi possono influenzare positivamente il comportamento delle persone. E questo, avviene soprattutto in funzione del loro forte potere “persuasivo”. Da qui la mia scelta, ed il mio interesse, di parlare di Pokémon Go. Ma procediamo con ordine. Per chi non lo sapesse la captologia, e qui Wikipedia ci aiuta, è lo studio dei computer (sia a livello hardware che software) come tecnologie persuasive. Questa recente area d’indagine esplora lo spazio di confine tra persuasione (influenza, motivazione, cambio di comportamento e così via) e tecnologia del computer.

Ciò comprende la progettazione, la ricerca e l’analisi dei prodotti informatici interattivi, come il Web, il software per computer, apparecchi specializzati, etc., creati allo scopo di cambiare gli atteggiamenti o i comportamenti delle persone. B.J. Fogg, direttore del Laboratorio di Tecnologia Persuasiva della Stanford University, ha coniato il termine “Captologia” nel 1996, derivandolo dall’acronimo “Computers As Persuasive Technologies = CAPT”. Il campo della captologia, dove l’arte della persuasione e la scienza dei computer si sovrappongono, sta crescendo rapidamente: ogni giorno nuovi prodotti informatici, inclusi siti web e applicazioni mobili, sono progettati per cambiare ciò che le persone pensano e fanno. I social network ad esempio, come Facebook e Twitter, sono ormai dei potenti mezzi di persuasione di massa.

La persuasione, nel senso della captologia, si riferisce a qualsiasi tentativo atto a provocare “intenzionalmente”, tramite l’interazione uomo-macchina, un determinato cambiamento  “volontario” nelle idee e nei comportamenti, senza far uso di inganno o coercizione. In tal senso, sono esclusi dal campo di indagine della captologia quei cambiamenti che, pur avvenendo a seguito dell’interazione uomo- macchina, non sono stati voluti e intenzionalmente pianificati dal progettista.

Cosa c’entra però Pokémon Go con la captologia? Tralasciando il principio ispiratore del gioco, i dispositivi portatili, ed i software ad essa correlati, offrono un’opportunità unica per la persuasione.

La ragione più ovvia e convincente di questo è il fatto che tali apparecchi rimangono a stretto contatto con l’utente durante tutta la giornata. Questa costante presenza dà luogo a due fattori che contribuiscono a creare opportunità di persuasione, i quali vengono definiti da Fogg stesso, come il fattore “kairos” e “il fattore comodità”.

L’ origine del kairos risale all’ antica Grecia. Gli antichi greci avevano due parole per indicare il tempo, vale a dire chronos e kairos. Mentre la prima si riferisce al tempo cronologico e sequenziale, la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un istante o momento “giusto” in cui si verifica un evento significativo.

Fogg teorizzò sul kairos che:”i sistemi portatili del futuro saranno in grado di identificare il momento opportuno e ci influenzeranno in maniera più efficace di quanto non facciano oggi. Quando saranno in grado di conoscere l’obiettivo dell’utente, le sue abitudini, l’ubicazione e l’attività del momento, questi sistemi mobili saranno in grado di determinare quando il soggetto è maggiormente predisposto ad essere persuaso attraverso forme di promemoria, suggerimenti o simulazioni“. Quanto detto fino ad ora, può però essere in qualche misura correlato al prodotto della Niantic? Ebbene si. Ci sono troppi fattori che confermano la presenza del principio del Kairos in Pokémon Go.

Uno tra tutti, ma forse è quello più evidente (e per alcuni però non così intuibile immediatamente) consiste nel vedersi spuntare fuori all’improvviso i pokémon durante la propria ricerca. Il “suggerimento” dato dalla comparsa del pokémon mentre esploriamo le diverse zone territoriali, è a tutti gli effetti parte integrante del Kairos. La conseguenza di ciò, è un aumento del potere persuasivo del gioco.

Non c’è però solo questo aspetto evidente di Pokémon Go da considerare a proposito del Kairos, ma bensì anche altri. Un ‘altro esempio sono le notifiche che compaiono qualora il segnale del GPS non sia rilevato, o la rilevazione stessa del nostra persona sulla “mappa” virtuale mentre stiamo giocando.

Vi sono poi anche le notifiche che ci vengono chieste a inizio gioco sui dispositivi Apple dopo la sua installazione. Il messaggio che ci compare, successivamente al suo primo avvio, è il seguente: “Pokémon Go vorrebbe inviarti delle notifiche. Le notifiche (che possiamo tuttavia accettare o meno), possono includere avvisi, suoni, badge icone configurabili in Impostazioni”. Tutti questi “segnali” ed accorgimenti aumentano la persuasione, in questo nostro caso, del videogioco a realtà aumentata.

Dopo il kairos, un altro elemento da tenere in considerazione, riguarda il fattore comodità. La tecnologia mobile facilita l’interazione uomo-macchina, intensificando ulteriormente il potenziale per la persuasione. Il dispositivo mobile è praticamente sempre a portata di mano e risponde nell’immediato, senza tempi di attesa lunghi (salvo imprevisti dovuti alla tecnologia hardware o software) per caricare o scaricare informazioni. Le esperienze interattive a cui è facile accedere, anche solo con un clic sul proprio dispositivo, hanno maggiori opportunità di persuasione.

A rafforzare tale principio troviamo altri due fattori, che in relazione al fenomeno di Pokémon Go, avvalorano quanto vi ho detto finora. Tali fattori sono definiti come il principio della semplicità mobile, il principio del confronto sociale e il principio della competizione. La semplicità mobile molto rapidamente afferma che qualunque applicazione, se facile da usare, avrà un maggiore potenziale persuasivo.

Il confronto sociale invece sottolinea come le persone saranno maggiormente motivate a tenere un determinato comportamento se possono paragonare la loro performance con quella degli altri, in particolare con quella di altri soggetti simili a loro. In ultimo, il principio della competizione chiarisce come la tecnologia informatica può motivare gli utenti ad assumere un determinato atteggiamento o comportamento, sfruttando la naturale tendenza delle persone ad essere competitive.

Come possono tuttavia essere applicati a Pokémon Go tutti questi principi precedentemente descritti (comodità, semplicità mobile, confronto sociale e competizione)? Ebbene, se ci riflettiamo sopra, notiamo che (a parte problematiche dovute a server down o difficoltà legate all’hardware del proprio dispositivo mobile) interagire con il software della Niantic è facile e immediato. Basta letteralmente un solo click per catturare i Pokémon e, accedere al videogioco, avviene davvero rapidamente. Catturare poi i Pokémon e collezionarli tutti, è diventato un obiettivo che ciascun giocatore vuole portare a termine e nel farlo, tende a competere con altri suoi coetanei o pari. A consolidare poi la competizione c’è il confronto dei Pokedex. Quanti ne hai catturati tu? Quanti ne ho catturati io? Ogni Pokémon catturato fa salire di punteggio del giocatore che può formare e potenziare a sua volta i Pokémon per le battaglie future.

Gli upgrade futuri promessi dalla casa sviluppatrice del gioco, uno tra tutti l’inserimento di ulteriori nuovi Pokémon (tra cui i rari), comporterà un considerevole aumento persuasivo del gioco.

La captologia dietro il fenomeno di successo della Niantic, è anche avvalorato non solo dalla teoria, ma anche da fatti e dati concreti. È il caso di Tom Currie, un 24enne neozelandese che ha deciso che le ore libere non gli bastavano più. E per questo motivo ha abbandonato il proprio lavoro. Società come SimilarWeb, nate per l’analisi dei dati, hanno mostrato come gli utenti del gioco si colleghino in media 33 minuti ogni giorno. In poche parole, gli americani ne sono ormai ossessionati. Informazioni poi diffuse da poco in rete da Sensor Tower confermano che il livello di download totali dell’applicazione Niantic, dopo aver solo da poco superato la soglia dei 50 milioni di download su Android, ha toccato già quota 75 milioni. Il titolo Niantic, inoltre, si è poi aggiudicato il record di “titolo più veloce” ad aver raggiunto la soglia dei 50 milioni di download, con largo anticipo rispetto a Color Switch, seconda app presente nella classifica pubblicata da Sensor Tower.

La Tecnologia Positiva

Terminando la parte riguardante la captologia, cercherei ora di includere Pokémon Go tra le tecnologie positive.

Nella storia dell’interazione uomo-computer è possibile identificare un trend costante: rendere l’interazione con i nuovi media il più possibile simile a quella che ciascuno di noi ha all’interno di un ambiente reale. E questo ha reso i contenuti tecnologici sempre più delle esperienze aumentandone l’impatto sulla vita quotidiana delle persone. In che modo però questa trasformazione può essere utile al benessere delle persone? Come riuscire ad utilizzare la dimensione esperienziale della tecnologia per promuovere la crescita personale e sociale?

Il tentativo di offrire una risposta a queste domande viene da una disciplina emergente, la «Tecnologia Positiva» (TP), che può essere definita come (Riva, Banos, Botella, Wiederhold, & Gaggioli, 2012) “un approccio scientifico applicativo che usa la tecnologia per modificare le caratteristiche della nostra esperienza personale – strutturandola, aumentandola o sostituendola con ambienti sintetici – al fine di migliorare la qualità della nostra esperienza personale, e aumentare il benessere in individui, organizzazioni e società”. Peraltro, le TP si poggiano sul diverse tecnologie esperienziali: smartphone e tablet, serious gaming, realtà virtuale e augmented reality.

La Psicologia Positiva può suggerirci come sviluppare sistemi e applicazioni tecnologiche che favoriscano emozioni positive, promuovano la crescita personale e offrano un contributo allo sviluppo sociale e culturale. Martin Seligman, considerato un pioniere del movimento della Psicologia Positiva, ha identificato “tre pilastri” della vita positiva nel suo libro “Authentic Happiness” (M. E. P. Seligman, 2002):

  • la vita piacevole (the pleasant life), raggiungibile attraverso l’esperienza di emozioni positive;
  • la vita coinvolgente (the engaged life), raggiungibile attraverso il coinvolgimento in attività appaganti e soddisfacenti e l’utilizzo delle proprie abilità e talenti;
  • la vita piena di significato (the meaningful life), raggiungibile attraverso la partecipazione ad attività mirate ad obiettivi più ampi di quelli individuali.

Più recentemente, Seligman ha introdotto il modello PERMA, acronimo dei cinque pilastri del benessere: emozioni positive, coinvolgimento, relazioni sociali, significato e realizzazione (M. E. P. Seligman, 2011). In linea con questa prospettiva, Keyes e Lopez hanno proposto che il funzionamento positivo è dato dalla combinazione di tre alti livelli di benessere: quello emotivo, psicologico e sociale (Keyes & Lopez, 2002).

A partire da queste riflessione la Tecnologia Positiva a sua volta si suddivide in tre diverse aree:

  • Tecnologie Edoniche: le tecnologie usate per indurre esperienze positive e piacevoli;
  • Tecnologie Eudaimoniche: le tecnologie usate per aiutare gli individui nel raggiungimento di esperienze coinvolgenti e auto-realizzanti;
  • Tecnologie Sociali/interpersonali: le tecnologie usate per aiutare e migliorare l’integrazione sociale e/o le connessioni sociali tra individui, gruppi e organizzazioni.

I Benefici di Pokémon Go

Un articolo apparso su Panorama.it del 14 luglio 2016 ci da una mano nel confermare quanto vi sto dicendo. L’articolo ci riporta una riflessione del dottor John Grohol, esperto nello studio dell’impatto della tecnologia sul comportamento umano, sulla salute mentale e fondatore del fondato Psych Central, il più grande network su internet che contiene ricerche, spunti materiale di supporto sui disturbi psichici.

Ecco uno stralcio di quanto viene riportato: “La sfida, per chi è depresso, è aumentare i livelli motivazionali per uscire di casa, fino a quel momento inesistenti. Ci sarebbe bisogno di andare fuori e respirare un po’ di aria pulita, magari farsi una doccia o un bagno. Sembrano cose stupide ma sono estremamente difficili da affrontare per chi è ansioso o è depresso. Per questo credo che l’impatto del gioco possa davvero portare a notevoli benefici”. Continua ancora lo stesso Grohol: “ “La scienza è molto chiara su questo punto: più si fa attività fisica più scendono i livelli di depressione. Si tratta di uno strumento molto potente, con un effetto notevole”. Ma in che modo quindi Pokémon Go può aiutare a uscire da uno stato mentale di apatia e scoraggiamento? Prima di tutto l’app punta molto sull’interazione con il mondo esterno più che concentrandosi solo sul personaggio che si comanda. In questo modo si incoraggia verso la conoscenza di edifici e monumenti storici (i cosiddetti “Pokéstop”) e il contatto con altri giocatori sulla mappa. Inoltre, il solo fatto di dover uscire allo scoperto per avanzare nel gioco è già un primo passo verso l’apertura allo sconosciuto, all’esterno, a quel mondo che fa così tanta paura.

Certo, non è possibile e corretto considerare questo gioco come la cura per l’ansia e la depressione, ma è sicuramente un valido strumento per dare uno slancio.

L’utilità positiva di Pokémon Go tuttavia non si ferma qui. Un altro esempio della sua funzionalità, in quanto tecnologia positiva, ci viene fornito dalla vicenda del C.S. Mott Children’s Hospital – Stati Uniti.

In questo ospedale pediatrico del Michigan, è in uso una terapia veramente speciale, avente a che fare con la popolarissima applicazione dei Pokémon. Pokémon Go viene difatti utilizzato come terapia in un ospedale pediatrico! I bambini con una vasta gamma di condizioni mediche (pazienti affetti da cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc.) sono incoraggiati a utilizzare il videogioco negli spazi pubblici dell’ ospedale, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti! L’utilizzo della stessa, sebbene in condizioni alquanto singolari, è volto a migliorare le condizioni dei bambini: grazie a Pokémon Go possono muoversi dal proprio letto e socializzare più facilmente! Il movimento, dice un uomo facente parte del personale, aiuta i bambini dal punto di vista fisico, non lasciando atrofizzare gli arti, mentre il socializzare con gli altri li fa sentire meno soli e allevia stati psichichi come l’ansia o la depressione.

L’Intelligenza Emotiva in Pokémon Go

C’è ancora un espediente positivo da scoprire nel fenomeno di scala mondiale della Niantic di cui vi vorrei parlare. Tale funzionalità è correlata agli aggiornamenti futuri dichiarati da John Hanke, CEO di Niantic (l’azienda che insieme a Nintendo e a The Pokémon Company ha realizzato il simpatico videogioco). Hanke, durante l’intervista si è soffermato sull’interazione tra allenatori dichiarando che nonostante questa funzione non sia ancora presente sarà comunque un elemento centrale del gioco. Tra le novità che verranno introdotte, come abbiamo appena detto, c’è lo scambio di Pokémon, ma questa non sarà l’unica funzione ad essere introdotta nel futuro aggiornamento di Pokémon Go. L’altra novità potrebbe riguardare le sfide tra allenatori, anche al di fuori delle palestre. Infatti, nella nuova modalità Multiplayer di Pokémon Go gli altri allenatori potrebbero fare la loro comparsa sulla mappa del gioco e sarà possibile lanciargli una sfida. In questo modo potrete allenare i vostri Pokémon anche quando non vi trovate in palestra.

Personalmente sono convinto che, in quanto psicologo, gli aggiornamenti futuri dichiarati dal CEO della Niantic, contribuiranno all’incremento dell’intelligenza emotiva dei suoi giocatori. Per chi fosse all’oscuro sull’argomento, lo psicologo statunitense Daniel Goleman ha formulato il costrutto di Intelligenza Emotiva, con cui identifica un particolare tipo di intelligenza legato all’uso corretto delle emozioni. Secondo Goleman, sviluppare questo tipo di intelligenza può costituire un fattore determinante nel raggiungimento dei propri successi personali e professionali. Se adeguatamente gestite, possono però regalarci una marcia in più aiutandoci a comunicare efficacemente, a saperci automotivare, a reagire meglio agli stimoli provenienti dall’ambiente.

Le abilità che compongono l’Intelligenza Emotiva sono 5 (spesso indicate da diversi autori con terminologie differenti). Esse vengono indicate insieme alle capacità più specifiche che ne derivano, che rappresentano dei veri e propri indicatori di come si manifestano tali abilità le quali, considerate più dettagliatamente, possono far comprendere il contributo fornito alla salute mentale o, viceversa, i costi che possono derivare a quest’ultima quando queste capacità risultano deficitarie. Tali abilità sono:

  • Consapevolezza di sé. La capacità di riconoscere un emozione così come si presenta. Sviluppare la consapevolezza di sé richiede di “sintonizzarsi” sui propri sentimenti reali, riconoscendone i segnali fisiologici che ne indicano l’arrivo. Se si valutano le proprie emozioni, è possibile gestirle.
  • Auto-regolazione. Spesso si ha poco controllo quando si sperimentano alcune emozioni. Tuttavia, è possibile utilizzare una serie di tecniche per alleviare e regolare le emozioni negative come rabbia, ansia o depressione.
  • Empatia. La capacità di riconoscere come le persone si sentono è importante per il successo nella propria vita e carriera. Più si è abile nel discernere i sentimenti che stanno dietro ai segnali degli altri, maggiore è la sensibilità alle emozioni e alla prospettiva altrui.
  • Motivazione. Motivare se stessi per raggiungere qualsiasi risultato richiede obiettivi chiari, un atteggiamento positivo e la capacità di incanalare, energizzare e armonizzare le proprie emozioni.
  • Capacità sociali. Questa competenze sono molto importante in ambito lavorativo, perché saper costruire relazioni di qualità con i colleghi è fondamentale sia per lavorare bene nel team sia nella leadership per influenzare e ispirare gli altri.

L’ intelligenza emotiva applicata a questo gioco sarà dovuta quando, con l’ aggiornamento promesso da Niantic, le persone saranno in grado di sfidare i singoli giocatori al di fuori delle palestre. Perché dirlo? La risposta è molto semplice. Con il nuovo aggiornamento dell’ applicazione ci saranno infatti duelli tra allenatori reali. Durante la lotta, il giocatore, senza nemmeno rendersi conto, cercherà di mettersi nei panni del suo avversario per cercare di capire il piano di gioco e perché ha scelto quel particolare tipo di Pokémon. Cercherà anche di capire quali mosse utilizzerà e come si comporterà il suo avversario. La strategia di gioco per vincere contro gli avversari, alla fine, svilupperà la capacità di mentalizzare il giocatore stesso. Questa è, e rimane comunque la mia inferenza. Solo il tempo confermerà se ciò che dico ora sarà vero o meno.

Conclusioni

In conclusione, il successo di Pokémon Go è noto a tutti. Questo successo, nel bene o nel male, porterà senza dubbio ad una maggiore diffusione del gioco della realtà aumentata e questo oltre ai continui aggiornamenti che ci saranno in futuro.

Dieci principi per una terapia di coppia efficace (2017) – Recensione

Lo scopo del libro è offrire al terapeuta ancora in formazione, ma anche al clinico più esperto una visione di insieme di ciò che permette a una coppia di funzionare e cosa invece la porta a separarsi. Vengono anche proposti diversi strumenti terapeutici per la terapia di coppia, non solo fondati su un’esperienza clinica di decenni, ma che sono stati oggetto di attenti studi per dimostrarne l’efficacia clinica. A rendere più facile la comprensione, intervengono poi gli esempi clinici di coppie trattate dai due terapeuti nel corso degli anni.

 

“Ciò che conta in un matrimonio felice non è tanto quanto si è compatibili, ma come ci si relaziona con l’incompatibilità” (George Levinger)

Julie Schwartz Gottman e John M. Gottman sono una coppia di terapeuti sul lavoro e nella vita. Da più di vent’anni si occupano di terapia di coppia presso il Gottman Institute di Seattle, da loro fondato.

Julie Schwartz Gottman, oltre alla direzione del Gottman Institute, svolge l’attività clinica e di supervisione. Grazie alle sue esperienze sul campo è una consulente esperta su tematiche quali matrimonio, molestie sessuali e violenza domestica e problemi legati alla genitorialità.

John M. Gottman ha studiato per 40 anni le coppie cercando di capire quali siano gli indicatori della stabilità di un matrimonio e quali, invece, possano considerarsi i fattori che predicono un divorzio. Ha all’attivo 200 pubblicazioni e 40 libri sul tema. John è professore emerito di Psicologia presso l’Università di Washington dove continua i suoi studi sulle coppie.

I cambiamenti nelle attuali relazioni di coppia

Nella civiltà occidentale il senso del matrimonio, inteso come l’unione di due persone che si trovano a trascorrere il resto della loro vita insieme, è cambiato con il cambiare della società. Dagli anni Cinquanta in poi, si è passati da una società definita rigidamente, in cui sposarsi era una tappa obbligatoria, a una società, quella odierna, dove non solo il matrimonio è visto come una delle scelte possibili ma anche, grazie al divorzio, non necessariamente una scelta che si fa per la vita. Rimanere insieme, quando le cose non funzionano, per una coppia, non è più qualcosa di prestabilito, ma una sfida che richiede impegno e lavoro.

È in questa prospettiva che la terapia di coppia può assumere un ruolo fondamentale. I pazienti spesso portano in terapia i loro problemi di relazione con il partner, ma il lavoro di ricostruzione o riconsolidamento del rapporto che si può fare col singolo è limitato. Per lavorare sulla coppia, è necessario lavorare con la coppia. In che modo, lo spiegano i coniugi Gottman con “Dieci principi per una terapia di coppia efficace”.

I principi per una terapia di coppia efficace

Lo scopo del libro è offrire al terapeuta ancora in formazione, ma anche al clinico più esperto una visione di insieme di ciò che permette a una coppia di funzionare e cosa invece la porta a separarsi. Vengono anche proposti diversi strumenti terapeutici, non solo fondati su un’esperienza clinica di decenni, ma che sono stati oggetto di attenti studi per dimostrarne l’efficacia clinica. A rendere più facile la comprensione, intervengono poi gli esempi clinici di coppie trattate dai due terapeuti nel corso degli anni.

I principi illustrati nell’opera non fanno riferimento a un orientamento psicologico ben preciso, ma si fondano sull’approccio della Neurobiologia Interpersonale (NI). La NI è una disciplina fondata da Daniel J.Siegel alla fine del secolo scorso con l’intento di sviluppare una cornice concettuale comune e superare la distanza tra le varie discipline che si occupano di mente, cervello e relazioni interpersonali, studiate fino ad allora in maniera separata.

I dieci principi scandiscono i capitoli del libro. Si parte da quelli che sono comuni a tutte le psicoterapie: utilizzare metodi testati scientificamente, come condurre la valutazione del problema della coppia per poi procedere con l’intervento terapeutico, comprendere il mondo interno di ciascun partner, solo per citare i primi. Si passa poi a quelli più specifici utilizzati dai Gottman per aiutare le coppie a ricostruire la relazione partendo dalle fondamenta. Ad esempio l’identificazione dei “Quattro Cavalieri” (in riferimento a quelli dell’Apocalisse) che predicono la fine di una relazione: il criticismo, il disprezzo, il ritiro sulla difensiva e l’ostruzionismo.

Un altro concetto interessante è che la relazione di una coppia solida è paragonata ad una casa. Al primo piano della casa risiede la conoscenza del mondo interiore del partner, “le mappe dell’amore”: le necessità, i valori, le esperienze passate, le priorità, gli agenti stressanti. Al secondo piano si trova la cultura dell’affettuosità: l’apprezzamento e l’ammirazione per il partner che vengono espressi concretamente con parole e gesti. Al terzo piano vi è la capacità da parte della coppia di entrare in contatto intimo tra loro, non tanto o solo a livello fisico, quanto a quello comunicativo. All’ultimo piano della casa, ispirandosi al lavoro di Robert Weiss sui conflitti matrimoniali, è presente infine la “prospettiva positiva” in cui la coppia rimane anche quando si trova a scontrarsi.

Per usare le parole di Siegel che ha scritto l’introduzione del testo, il pregio dell’opera non consiste semplicemente nell’offrire al terapeuta strumenti per il suo lavoro con le coppie. In “Dieci principi per una terapia di coppia efficace” vengono presentate un’ampia gamma di teorie scientifiche a cui hanno fatto seguito numerosi studi, applicate alla pratica quotidiana della psicoterapia secondo i principi dell’integrazione tra le discipline. Ogni sezione è ricca di teorie scientifiche, metodologie, strumenti, ma anche aneddoti e considerazioni personali. Tutto ciò contribuisce a rendere “Dieci principi per una terapia di coppia efficace” un’opera stimolante, informativa e che porta ad assumere nuovi punti di vista. Un ulteriore pregio dell’opera è il non basarsi su un unico orientamento psicologico, ma su un approccio olistico utilizzabile dai terapeuti di scuole diverse, senza mai scadere nel tono manualistico e cattedratico.

 

Si può cambiare idea? – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Il problema di come avvenga il cambiamento è centrale per la terapia cognitiva ma più in generale per tutti coloro interessati a cambiare le idee alla gente che si tratti di esperti di marketing, di politici in cerca di voti, di opinion leader o influencer, come si dice oggi o semplicemente del coniuge o del vicino di casa. L’ arte della persuasione ha sempre conferito molto potere a chi la possedeva.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Si può cambiare idea? (Nr. 25)

 

In genere si usa dire che un modo per provocare il cambiamento sia mostrare i fatti supponendo siano portatori di una verità inoppugnabile. La teoria sottostante è l’empirismo per cui mi faccio delle idee o delle teorie sulla base dei fatti e sempre sulla base di altri fatti queste possono cambiare: il primato dei fatti sulle teorie è assoluto.

Due obiezioni. La prima sofisticata e teorica riprende Kant che sosteneva l’inconoscibilità della ”cosa in sé” ed il nostro accesso al solo mondo dei fenomeni (il racconto che della “cosa in sé” fa la nostra mente) e le moderne teorie sullo story-telling che sostengono non esistere realtà accessibile se non attraverso una narrazione. Tutto ciò non è difficile da comprendere per i cognitivisti abituati al costruttivismo più o meno radicale ed al primato del pensiero.

La seconda la vediamo tutti i giorni nel mondo delle idee politiche o sportive per citare due campi dove si muovono forti emozioni. Qualsiasi siano i fatti accaduti che siano i gulag, i campi di concentramento, i rifiuti per strada, gli arresti per corruzione, l’attacco alle torri gemelle, ciascuno ne trova corroborazione al proprio modo di vedere che ne esce rafforzato. Perciò riesce difficile applicare il ragionamento “cui prodest” per risalire alle cause di un evento. Si pensi agli attentati in Gran Bretagna nei giorni pre-elettorali. Giovano alla May che può invocare una maggiore chiusura del paese e l’intervento armato contro l’IS ma anche all’opposizione che li può attribuire proprio alla politica di chiusura e guerrafondaia della premier. Chi era a suo favore lo sarà ancora di più e chi non lo era lo sarà ancora di meno.

Attacchi, critiche e denunce vengono esibiti come prova che si sono finalmente andati a toccare gli interessi dei poteri forti.

Siccome è proprio vero l’assunto di Epitteto che non sono le cose a determinare come stiamo e cosa facciamo ma la nostra opinione su di esse, dobbiamo rassegnarci all’evidenza che le opinioni possibili su un fatto siano praticamente finite e sarà presa per buona quella più congrua con le credenze preesistenti.

Lasciamo per un attimo da parte i cosiddetti deliranti e parliamo con un fanatico di qualsiasi fede, sia essa religiosa, politica, sportiva, alimentare e proviamo a fargli cambiare idea sulla base dei fatti. Si ottiene esattamente l’opposto. Ora mettete da parte anche il fanatico e guardatevi allo specchio perché nello stesso identico modo funzioniamo, ovviamente senza alcuna consapevolezza, tutti noi soprattutto nelle aree che riteniamo più importanti (identità e relazioni significative in primis). Al contrario su questioni scientifiche, tecniche, pratiche non emotivamente rilevanti siamo disponibilissimi a cambiare idea imparando un percorso stradale o una procedura esecutiva per la lavatrice o per il cambio dell’ora sul cruscotto, più efficiente.

Possiamo dunque dire che popolarmente si riconosce il primato dei fatti sulle teorie, ma ad una riflessione più attenta e psicologica le cose stanno esattamente all’opposto. Per dirla con Piaget: l’assimilazione predomina grandemente sull’accomodamento.

Le persone crescono, i cambiamenti avvengono

Tuttavia è evidente che le persone cambiano anche radicalmente, che non la pensiamo più come a diciotto anni e non solo sull’opportunità di essere incendiari o pompieri ma anche su temi più personali. Insomma si cambia, anche molto ma non sulla base dei fatti che difficilmente riescono ad invalidare le nostre credenze soprattutto se centrali. E allora? La metto giù radicale per essere più esplicito e rimando a dopo la risoluzione del regresso all’infinito che può comportare. Cambiamo idea solo quando cambiano le motivazioni cosicché la lettura che diamo dei fatti è sempre e solo determinata dalla convenienza. La cognizione è al servizio dei nostri scopi (del resto sarebbe strano non fosse così: non siamo al mondo per cercare la verità ma per cavarcela). Insomma non vogliamo una cosa perché col ragionamento la reputiamo buona e giusta, ma, al contrario, la reputiamo buona e giusta perché la vogliamo.

I partiti ritengono giusta la legge elettorale che li avvantaggia e se un po’ ci marciano per la gran parte ci credono davvero. Continuamente ci autoinganniamo dipingendoci la realtà a nostro piacimento. Il miglior predittore delle idee politiche di un individuo è il suo status economico che cambia nell’arco della vita e sempre la pensiamo nel modo che più ci avvantaggia. E’ brutto? Intanto è così comunque e poi forse non c’è niente di male se ciascuno bada ai propri interessi e li persegue, semmai si tratta di non fare scorrettezze. Sarei preoccupato se fosse messo in cantina perché contrario al buonismo cattolico in cui siamo immersi, un meccanismo che è stato il motore di tutta l’evoluzione.

Come avevo anticipato però il problema si sposta solo perché occorre chiedersi quando e come si cambia l’assetto motivazionale. In primo luogo credo sia decisivo considerare il ciclo vitale che genera bisogni diversi nelle varie età della vita. Diversi sono i compiti evolutivi di un ragazzo, di un giovane adulto, di un adulto che deve procreare, di un vecchio che si prepara a morire. A seconda dei compiti evolutivi avranno scopi diversi e visioni della realtà congrue con essi.

In secondo luogo credo necessario ricollocare il corpo al centro della vita psichica ed anzi vedere quest’ultima come al suo servizio (mi vado facendo persuaso che molte convinzioni inerenti il proprio valore personale che ovviamente da adulti riguardano se stessi come persona ed in particolare l’aspetto mentale si strutturino nella prima infanzia sul vissuto corporeo, dice un mio paziente che potrebbe vincere il nobel ma si sentirebbe comunque un ciccione goffo e brutto).

Insomma per dar ragione del cambio di motivazioni che causano i cambi di credenze credo bisogni abbandonare i piani alti della corteccia e calarsi dabbasso nelle zone più primitive del cervello e giù giù nel corpo. Altra grande fonte di cambiamento del sistema motivazionale è il contesto e soprattutto quello interpersonale: essere soli. In coppia o con dei figli cambia ciò che vogliamo e la prospettiva con cui guardiamo il mondo. Se la maturazione e l’assetto relazionale sono i motori fondamentali del cambio motivazionale normale non bisogna trascurare quelli che chiameremo “eventi soggettivamente catastrofici” (ESC) da intendere come invalidazioni massicce e ineludibili ai pilastri della propria identità. Si tratta delle stesse invalidazioni che abbiamo descritto come causa del delirio inteso come un modo di non prenderne atto per non cadere in un vuoto predittivo rifugiandosi in una verità privata e autarchica.

Per un attimo dopo l’invalidazione il soggetto si trova in uno stato precario senza certezze e riferimenti (il cosiddetto “umore predelirante”) che corrisponde anche ad una estrema assenza di vincoli e totale libertà. Gli si prospettano due strade a seconda della ricchezza e rigidità del suo sistema cognitivo. Da un lato può caparbiamente ribadire la vecchia costruzione di sé assimilando forzatamente ad essa i dati contraddittori e incamminandosi verso il delirio. Dall’altro può abbandonare la vecchia identità e ricostruirne una completamente nuova e libera dai condizionamenti familiari. Questa è l’esperienza rara ma assoluta della conversione la nuova identità non è in continuità con la precedente, non ne è un aggiustamento ma qualcosa di assolutamente nuovo e la vecchia non è più riconosciuta come parte di sé: le sue motivazioni e la conseguente visione del mondo sono incomprenbili e sbagliate.

Ovviamente gli ESC che sono la porta d’ingresso del bivio tra delirio e conversione non sono provocabili attraverso la psicoterapia che normalmente si limita a modeste perturbazioni catalizzatrici di contenuti aggiustamenti. Quello che può preventivamente fare la psicoterapia è favorire lo sviluppo di un sistema ricco ed elastico che a fronte di un ESC possa imboccare la strada della conversione invece di fuggire verso il delirio.

Un ESC genera comunque una frattura, una discontinuità, una nuova persona che vive una nuova esistenza che in Italia, dopo la loro chiusura, è comunque fuori dal manicomio.

Approfondire seriamente il legame tra il vecchio e il nuovo modo di stare al mondo significherebbe forse occuparsi del grande tema della dissociazione e dei disturbi da personalità multiple, del delirio e delle grandi conversioni, il che esula dallo scopo di stimolo di una semplice appendice.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Depressione post partum paterna: come si manifesta?

Depressione post partum paterna: Spesso la depressione post partum è associata ad una condizione materna. Un recente studio ha però mostrato come cambiamenti di livello di testosterone, in particolare a circa 9 mesi dopo la nascita del proprio figlio, possano indurre una condizione simile anche nei padri. I padri, i cui livelli di testosterone erano aumentati, presentavano un rischio maggiore di sperimentare stress a causa del nuovo ruolo genitoriale e, inoltre, un maggiore rischio di attuazione di comportamenti ostili, come ad esempio l’aggressione emotiva, verbale o fisica verso la propria partner. 

 

Lo studio è stato pubblicato nella rivista Hormones and Behavior.

Darby Saxbe, autore principale, dichiara che i risultati emersi, sono a sostegno di studi effettuati precedentemente che mostrano le diverse risposte biologiche dell’uomo alla paternità.

Spesso si pensa alla maternità come qualcosa di biologicamente determinato perché le madri hanno appunto un legame biologico con il proprio bambino, garantito dalla gravidanza e dall’allattamento. La paternità non viene intesa negli stessi termini biologici. Si sa che i papà contribuiscono molto alla cura dei figli e che nel complesso i piccoli crescono meglio se all’interno della famiglia il papà è presente. Quindi è importante capire quali fattori contribuiscono e in che modo, a determinare un maggior coinvolgimento da parte di alcuni padri rispetto ad altri che sono assenti.

Lo studio: il legame tra livelli di testosterone e depressione post partum paterna

Saxbe ha lavorato con un team di ricercatori della USC, Università della California di Los Angeles e della Northwestern University. In questo studio sono state esaminate le associazioni tra testosterone paterno, i sintomi depressivi post-partum (paterni e materni) e il successivo funzionamento familiare.

Per lo studio, i ricercatori hanno esaminato i dati provenienti da 149 coppie della Community Child Health Research Network. Sono state reclutate madri tra i 18 e i 40 anni con basso reddito familiare e che avevano dato alla luce il loro primo, secondo o terzo figlio; i padri che hanno partecipato, hanno fornito campioni di testosterone. Gli intervistatori hanno visitato le coppie, nei primi due anni dopo la nascita del bambino per tre volte (circa a due, a nove e a 15 mesi dopo la nascita del bambino).

Durante la visita del nono mese, i ricercatori hanno consegnato il kit per il prelievo della saliva ai papà, con la raccomandazione di prelevare i campioni tre volte al giorno (mattina, mezzogiorno e sera) per monitorare i loro livelli di testosterone.

I partecipanti hanno risposto alle domande sui sintomi depressivi basati su una scala utilizzata nella maggior parte dei programmi di screening, la Edinburgh Postnatal Depression. Successivamente, hanno riportato il livello di soddisfazione del rapporto col partner, lo stress genitoriale e lo stato emotivo. I punteggi elevati evidenziavano un maggior livello di depressione, stress, insoddisfazione e aggressività. Pochi partecipanti, tra mamme e papà, sono stati identificati come clinicamente depressi.

Invece di utilizzare diagnosi cliniche, i ricercatori hanno esaminato il numero di sintomi depressivi sperimentati da ciascun partecipante. I livelli di testosterone maschile sono stati messi in relazione sia ai propri sintomi depressivi che a quelli della loro partner. Ad esempio, quantità basse di testosterone sono state associate a maggiori sintomi nei papà e meno nelle mamme. Il legame tra i livelli di testosterone e depressione è stato mediato dalla soddisfazione del rapporto con la/il partner. Le donne hanno riferito una maggiore soddisfazione per la loro relazione, che a loro volta ha contribuito a ridurre i sintomi depressivi. Ciò accade probabilmente perché i papà con testosterone inferiore trascorrono più tempo nel prendersi cura del bambino oppure perché hanno profili ormonali più sincronizzati con le mogli. Infatti si sa che per le madri, il sostegno sociale riduce il rischio di sviluppare una depressione post partum. I papà con i livelli di testosterone più alto riportano un maggiore stress genitoriale, e le loro mogli riferiscono una maggiore aggressività nella coppia.

Per misurare lo stress genitoriale è stato utilizzato il Parenting Stress Index-Short Form. La maggior parte delle risposte “sì” sono state date per items quali “Mi sento intrappolato dalle mie responsabilità di genitore” e ” Mio figlio mi fa più richieste rispetto agli altri bambini”. Le domande sulla soddisfazione del rapporto di coppia sono state valutate mediante un altro strumento largamente utilizzato, la Dyadic Adjustment Scale. I genitori hanno risposto a 32 item sulla soddisfazione del rapporto di coppia, tra cui aree di disaccordo o il loro livello di vicinanza e affetto. I punteggi più alti hanno evidenziato una maggiore insoddisfazione di coppia.

Le madri hanno risposto ad ulteriori domande mediante il questionario HITS (Hurts, Insults, and Scales of Threats), per indagare la presenza/assenza di insulti, minacce e violenza fisica nell’ultimo anno. È stato inoltre chiesto se il proprio partner avesse limitato attività come: fare la spesa, fare visita alla famiglia o agli amici. Questi ultimi sono considerati da Saxbe come fattori di rischio che possono contribuire ad una condizione cronica di depressione.

Il trattamento della depressione post partum paterna

Anche se i medici potrebbero far fronte alla depressione post partum paterna aumentando i livelli di testosterone, Saxbe dichiara che i risultati dello studio indicano che un aumento potrebbe peggiorare lo stress della famiglia; inoltre, bassi livelli potrebbero essere la conseguenza di un adattamento normale e naturale alla genitorialità.

Diversi studi hanno dimostrato che la forma fisica e un’adeguata regolazione della qualità del sonno possono migliorare l’umore e possono aiutare a bilanciare i livelli ormonali. Inoltre, sia le madri che i padri devono essere consapevoli dei segnali della depressione post partum paterna e materna ed essere disposti a cercare trattamenti e assistenza adeguati.

Quando la Mindfulness incontra il movimento: il metodo Feldenkrais per il nostro benessere

Metodo Feldenkrais: Feldenkrais ha sviluppato un metodo per giungere alla consapevolezza attraverso il movimento: l’idea alla base è che promuovendo il movimento e la consapevolezza di sé nello spazio, la persona possa essere stimolata nel vivere hic et nunc, favorendo la percezione dei suoi stati interni, lasciando scorrere sentimenti, pensieri e sensazioni che possono essere causa di stress e sovraccarico mentale.

Sara Pedroni, Sara Ghezzer, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI BOLZANO

Le reazioni allo stress

Di fronte a uno stimolo di stress, il nostro sistema nervoso ha una reazione detta di “attacco o fuga – fight or flight” e che si traduce in una mobilitazione generale di tutte le nostre risorse interne: i muscoli si tendono, aumenta la produzione degli “ormoni dello stress”, tra i quali adrenalina e cortisolo, aumentano il battito cardiaco e la pressione sanguigna, il respiro è più corto e appare affannoso, il sistema digestivo rallenta o si blocca e ci si trova in uno stato di eccitazione: siamo particolarmente responsivi a tutti gli stimoli presenti attorno a noi.

La reazione “fight or flight” è una reazione adattiva quando il nostro corpo percepisce un allarme momentaneo, ma se persiste nel tempo e si cronicizza, può portare al burn-out (Selye, 1975).

Solitamente, una volta che il pericolo è passato, si torna a uno stato di riposo in cui la pressione sanguigna e il ritmo cardiaco riprendono il loro ritmo normale, i muscoli si rilassano e tutto l’organismo recupera l’energia persa. Il problema insorge quando la “reazione allo stress” diventa uno stile di vita, una modalità con cui ci si approccia al mondo. Se questo accade si possono provare sintomi di diversa entità:

  • sintomi fisici come mal di testa, mal di schiena, indigestione, tensione nel collo e nelle spalle, dolore allo stomaco, tachicardia, sudorazione delle mani, extrasistole, agitazione, problemi di sonno, stanchezza, capogiri, perdita di appetito, problemi sessuali, fischi alle orecchie.
  • Sintomi comportamentali: digrignare i denti, alimentazione compulsiva, più frequente assunzione di alcolici, atteggiamento critico verso gli altri, comportamenti prepotenti, difficoltà a portare a termine i compiti.
  • Sintomi emozionali: tensione, rabbia, nervosismo, ansia, pianto frequente, infelicità, senso di impotenza, predisposizione ad agitarsi o sentirsi sconvolti.
  • Sintomi cognitivi: difficoltà a pensare in maniera chiara, problemi nella presa di decisione, distrazione, preoccupazione costante, perdita del senso dell’umorismo, mancanza di creatività.

Un sintomo frequente che riportano le persone che si trovano in uno stato di stress o che riferiscono di essere preoccupati per alcuni aspetti della loro vita, sono le contrazioni a diverse parti del corpo: spalle, collo, mandibola, bacino, mani, occhi, bocca, fronte e altre parti del viso.
Comprensibilmente tutti questi sintomi divengono a loro volta ulteriori fattori di stress.
A questo si affianca la frequente impossibilità nel rallentare il ritmo quotidiano, portando la persona a ricercare sistemi rapidi, brevi e poco invasivi per ridurre lo stress.

I programmi di mindfulness per ridurre lo stress

Negli ultimi decenni, la pratica della Mindfulness si è diffusa dall’America all’Europa, promossa in primis da Jon Kabat-Zinn (1991) che ha messo a punto dei programmi di riduzione dello stress basati sulla consapevolezza (MBSR). L’idea centrale è di stimolare la persona a implementare la propria sicurezza addestrandola nel dirigere l’attenzione sul qui e ora, interrompendo il “pilota automatico” che ci permette di vedere solo quello su cui siamo focalizzati: spesso segnali di emergenza, preoccupazioni e ansia.

Con Mindfulness si intende la consapevolezza del momento presente, che si coltiva esercitando l’attenzione in una modalità intensa e peculiare, ossia con intenzione, focalizzandosi sul momento presente e senza un’attitudine giudicante.
Moshe Feldenkrais, ingegnere israeliano, a partire dagli anni Cinquanta, ha sviluppato il metodo che prende il suo nome, anche altrimenti conosciuto come metodo di auto-consapevolezza del movimento.

Tuttavia, solo a partire dagli anni Ottanta, tale metodo ha iniziato a prendere piede in Europa e in Italia, dove attualmente esiste l’AIIMF, l’Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais, un’organizzazione senza scopo di lucro, con l’obiettivo di formare e diffondere questa disciplina.

Il metodo Feldenkrais: coniugare la mindfulness con il movimento

Feldenkrais ha sviluppato un metodo per giungere alla consapevolezza attraverso il movimento: l’idea alla base è che promuovendo il movimento e la consapevolezza di sé nello spazio, la persona possa essere stimolata nel vivere hic et nunc, favorendo la percezione dei suoi stati interni, lasciando scorrere sentimenti, pensieri e sensazioni che possono essere causa di stress e sovraccarico mentale.

Al contempo, le sequenze motorie, lente e continue, sono preparate in modo tale che tutto l’apparato muscolo-scheletrico possa sentirne i benefici, andando a stimolare il rafforzamento della struttura corporea.

Interessante è il tentativo di coniugare l’attività motoria ad un’attività Mindful: prestando attenzione e concentrandoci sul momento attuale possiamo rilassarci, abbandonare pensieri e preoccupazioni, portando corpo e mente ad un punto di calma e pace.

Il rilassamento, accostato all’attività motoria ci permette di diminuire lo stress quotidiano che spesso può essere causa di sintomatologia fisica, comportamentale, cognitiva ed emozionale.
La maggior parte delle persone spesso si trova a vivere momenti di conflittualità interna: riuscire a fare più cose contemporaneamente, soddisfare i propri bisogni e quelli altrui, tenere tutto sotto controllo, evitare danni e sofferenza. Tali situazioni si possono provare in qualsiasi momento, quotidianamente.

Per esempio, immaginiamo di essere bloccati in una riunione al lavoro, fissata improvvisamente dai nostri datori senza preavviso, in realtà quello che davvero vorremmo fare è essere a casa sdraiati sul divano: sviluppiamo risentimento, la nostra tensione aumenta, emergono emozioni negative come noia e contemporaneamente la tensione muscolare aumenta, prende avvio un’orchestra di sintomi da stress che si traduce in dolori e fastidi.
Ora, se fosse possibile ordinare i pensieri lasciando andare ciò che si desidera per se stessi, impegnandosi e appendendo tutte le preoccupazioni fuori dalla sala riunioni, potremmo stare lì, approfittarne per risolvere incombenze, sfruttando al meglio anche l’imprevisto negativo, accettando e sfruttando al meglio la situazione.
Saggiare la positività della situazione senza accumulare tensione.

È possibile risolvere il conflitto a livello della mente, oppure è possibile risolverlo a livello del corpo. In entrambi i casi è un’apertura verso la risoluzione, un apprendimento di una strategia verso il nostro benessere psico-fisico.

Le lezioni di Feldenkrais, anche definite di autoconsapevolezza con il movimento – ATM, offrono l’ occasione per la persona di trovare un momento in cui far fluire i pensieri, osservarli, comprenderli e accettarli. Una forma di meditazione e di movimento per comprendere che talvolta è possibile non richiedere troppo a sé e riuscire a stare in una situazione, serenamente, interrompendo il circolo vizioso che si crea molto spesso a causa dei diversi fattori di stress e riportato nel grafico sottostante.

grafico

Jon Kabat-Zinn, professore di Medicina Emerito presso l’Università del Massachusetts Medical School, ha fatto ricerche per convalidare ciò che la maggior parte delle persone che meditano già sanno: i benefici misurabili sulla psiche, il cervello e il sistema immunitario sono derivati ​​dalla pratica continua. Il metodo Feldenkrais fa lo stesso, aggiungendo il movimento cosicché mente e corpo siano entrambi beneficiari.

Movimento senza conflitti è una gioia, perché è un ritorno per completare la spontaneità. Il metodo Feldenkrais si orienta soprattutto alla rieducazione del corpo al movimento consapevole, migliorando la coordinazione delle diverse parti in un’alternanza efficiente di stabilità e flessibilità. In sintesi si tratta di creare un legame stretto con gesti e azioni che compiamo tutti i giorni. Ogni lezione di Consapevolezza Attraverso il Movimento è costruita su una funzione, come sedersi, allungare un braccio, girarsi, rotolare, camminare…tutti movimenti che iniziamo a compiere con un’attenzione, una consapevolezza e una presenza nuove, in un processo di cambiamento vissuto non come correzione bensì come evoluzione, con un senso di stima e di soddisfazione per le nostre capacità.

In modo fisiologico, senza alcuna imposizione esterna, bensì grazie a un’autoregolazione, ci sganciamo dai comportamenti automatici e limitanti, liberi di fare scelte più salutari e gratificanti. L’attenzione guidata e l’interesse sul movimento nel suo divenire ci cattura al punto che non possiamo che essere lì, presenti a noi stessi, con un senso di pienezza vitale mentre ascoltiamo le nostre sensazioni, osserviamo i nostri pensieri, accogliamo i moti dell’animo, ci percepiamo nel flusso spazio-temporale. In questo modo impediamo alla mente quel vagare che sperimentiamo nella vita quotidiana, quando il nostro corpo assolve ai soliti compiti, quasi in automatico, mentre la mente è altrove, nel passato o nel futuro, di rado nel luogo dell’azione. Nella pratica del metodo Feldenkrais riusciamo invece a dimenticarci della mente, perché essa è tutt’uno col corpo, ed è attiva semplicemente come attenta osservatrice dell’esperienza che stiamo vivendo momento per momento. Per queste caratteristiche il metodo Feldenkrais viene utilizzato per agevolare e rendere più sicuro il movimento delle persone anziane, nella riabilitazione fisica, e per il trattamento delle patologie caratterizzate da dolore cronico, con ottime dimostrazioni di efficacia.

Sfortunatamente abbiamo l’abitudine di frammentare il mondo in interiore ed esteriore, soggetto e oggetto, questo e quello, percettore e percepito, quello che ci piace e quello che non ci piace, quello che pensiamo e quello che facciamo, psiche e corpo. Di conseguenza non ci sentiamo mai veramente completi; ma, come disse Goleman, è bene ricordare che stare attenti rende felici.

Lo stadio operatorio formale: chi sono? – Gli adolescenti tra pensiero e identità

Per il ragazzo che si guarda allo specchio e vede di fronte a se modificazioni esterne e pensieri che si accavallano confusi la domanda è: chi sono? Piaget definisce questa fase stadio operatorio formale, nel quale prende forma il pensiero.

 

Eccoci qui di fronte un grande interrogativo sia per i ragazzi che per i genitori: chi sono?

Per il genitore che sta osservando la crescita del proprio bambino, più precisamente a questa età la domanda è: cosa sta diventando mio figlio? Per il ragazzo che si guarda allo specchio e vede di fronte a se modificazioni esterne e pensieri che si accavallano confusi la domanda è: chi sono?

Stadio operatorio formale: il formarsi dei pensieri al di là dei dati concreti

 Piaget definisce questa fase stadio operatorio formale, nel quale prende forma il pensiero. Lo stadio operatorio formale è caratterizzato dalla capacità di eseguire operazioni formali e va dai 12 anni in poi.

Secondo la teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget, lo stadio operatorio formale si raggiunge dopo il susseguirsi, durante la crescita, di altri stadi: lo stadio senso-motorio (da 0 ai 2 anni), lo stadio pre-operatorio (dai 2 ai 6 anni) e lo stadio operatorio concreto (dai 6 ai 12 anni) NdR.

Durante lo stadio operatorio formale bambino inizia a formulare pensieri, ipotesi, partendo non più solo dai dati concreti. Mentre prima per fare deduzione aveva bisogno di verificare materialmente un evento ora riesce pian piano ad ipotizzarlo (per esempio le operazioni matematiche).

Come dice lo stesso Piaget:

Dopo gli undici o dodici anni, il pensiero formale diviene appunto possibile, e le operazioni logiche cominciano a venir trasposte dal piano della manipolazione concreta al piano delle idee pure espresse in un qualsiasi linguaggio (il linguaggio delle parole o quello dei simboli matematici ecc.), ma senza l’appoggio della percezione, dell’esperienza, o persino della convinzione …. il pensiero formale è quindi “ipotetico-deduttivo”, cioè in grado di trarre conclusione da pure ipotesi e non soltanto da una osservazione concreta.

L’ adolescente è come un bambino piccolo che va alla scoperta del nuovo mondo fatto di mille domande. Vive nel presente ma inizia ad avere sogni, a fantasticare su un ipotetico futuro. Ogni giorno è una scoperta nuova su stesso, sul suo modo di essere. Nello stadio operatorio formale ogni ragionamento porta con sé nuove scoperte e nuove domande.

Come ci dice Flavell, il bambino

si occupa per lo più del presente, di ciò che è oggetto della sua esperienza immediata; l’adolescente estende la sfera della sua attività concettuale all’ipotetico, al futuro, a ciò che è lontano nello spazio.

Quale genitore non direbbe al proprio figlio di essere egocentrico. L’ egocentrismo infatti è parte del passaggio adolescenziale. In questo momento l’egocentrismo è di proprietà del pensiero. L’adolescente si sente padrone di tutto. Pensa, deduce quindi può. L’equilibrio tra pensiero e reale si concretizza quando ciò che pensa diventa riscontrabile nella realtà proprio come quando da neonati tutto era assimilabile a se stessi.

Con l’acquisizione di un pensiero proprio, durante lo stadio operatorio formale, gli adolescenti creano delle rappresentazioni della famiglia, della scuola e degli amici, criticandole ed esprimendone giudizi. Per gli adolescenti il futuro rappresenta l’ipotizzabile ed è a ciò che riversano più energie.

Adolescenti e acquisizione dell’identità

Durante lo stadio operatorio formale, fase di profondo cambiamento, si instaura nei ragazzi la ricerca di stessi, della propria identità.

I ragazzi si ritrovano a dover fare i conti con le proprie convinzioni, ciò che i genitori hanno loro trasmesso e ciò che vorrebbero, proiettandosi in una società specchio e sono alla ricerca di un equilibrio che si trova nella definizione della propria identità.

Secondo Erikson, si passa da uno stato di diffusione d’ identità ad uno di acquisizione dell’ identità.

Lo stato di diffusione è caratterizzato da una sperimentazione per l’adolescente di ruoli diversi, figlio, studente. In questa fase si vedono crescere le relazioni sociali e si vedono ragazze tutte vestite allo stesso modo o parlare allo stesso modo. Sono queste le prime identificazioni. Ora ci si trova non solo di fronte alle figure genitoriali ma anche a quelle dei coetanei o di  ragazzi più grandi.

La  ricerca dell’autonomia è sempre maggiore ed gli adolescenti iniziano a fare gruppo, si ritrovano nelle attività pomeridiane .

Si vedono i ragazzi comportarsi diversamente a seconda dei vari contesti. Quando si porta un amico a casa si utilizzeranno nuove regole da far rispettare anche ai genitori, se è possibile che siano presenti! Il processo di acquisizione dell’ identità non si risolve scegliendo un ruolo bensì con una sintesi dei diversi ruoli che ha sperimentato.

Tutto ciò comporta una turbolenza emotiva non da meno. Si è alle prese con adolescenti nervosi, scocciati, sempre alla ricerca di qualcosa. La conflittualità interiore provata da un adolescente è molto forte: si ritrova a combattere con il bisogno di autonomia sempre crescente e il desiderio di sentirsi ancora bambini protetti e rassicurati dai genitori.

Passeranno da momenti di rifiuto completo dei genitori a momenti che presi dal panico torneranno nel nido alla ricerca di rassicurazioni.

Il periodo adolescenziale è lungo e complesso ma così ricco di esperienze che porteranno i ragazzi ad essere degli adulti pronti ad affrontare le nuove sfide che la vita gli offrirà.

Psicologia applicata allo sport (2016) di P. Delfini – Recensione del libro

Il volume Psicologia applicata allo sport è stato scritto da Pietro Delfini, atleta e allenatore di pugilato, nonché psicologo, è stato coordinatore del Dipartimento di Psicologia dell’Istituto di Scienza dello Sport del Coni e professore a contratto presso la Facoltà di Scienze Motorie S. Raffaele di Roma.

Maricchiolo

 

Psicologia applicata allo sport: i processi cognitivi e i processi di apprendimento

Il testo, inserito nella Collana di scienze del comportamento nello sport diretta da Fabio Lucidi, si compone di due parti: la prima parte affronta i temi dei processi cognitivi, motivazionali ed emozionali implicati nell’atto sportivo. In particolare rispetto ai processi cognitivi trovano approfondimento, il processo attentivo, percettivo e mnestico. Da qui si prosegue nel considerare gli aspetti della motivazione allo sport e delle dinamiche emotive, passando attraverso l’influenza dell’arousal, dello stress e dell’ansia in rapporto alla prestazione sportiva.

Nella seconda parte di Psicologia applicata allo sport vengono trattati i temi relativi ai processi di apprendimento e a quelli legati a specifiche azioni motorie; alle dinamiche all’interno del gruppo sportivo e alla personalità dell’atleta vincente.

Concludono il testo Psicologia applicata allo sport due schede: una sul problema dell’ avviamento alla pratica sportiva intesa quale alfabetizzazione motoria, contro la precoce specializzazione in una disciplina sportiva; l’altra, sul ruolo dell’allenatore, che si consustanzia, nella modalità di leadership, nella comprensione delle motivazioni, nella competenza tecnico-tattica, nella capacità di comunicazione e dimostrazione, nella gestione delle emozioni.

Quale conditio sine qua non per la formazione e la riuscita di un allenatore di successo, dunque, oltre al possesso di competenze tecniche e di componenti tattiche tipiche di una particolare disciplina, vi è anche la conoscenza degli strumenti atti al controllo delle emozioni. Quest’ultimo aspetto se correttamente monitorato ed indirizzato, può trasformarsi in vantaggio per l’atleta, considerandolo nei termini di ansia pre-agonistica il cui effetto positivo si esplica nell’attivazione, nella “carica” ottimale dell’atleta, al fine di ottenere la sua massima prestazione.

Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Negli articoli precedenti sono state evidenziate due cose: (1) in qualsiasi singolo momento gli esseri umani sono in pieno controllo del proprio comportamento e (2) anche l’apparente disregolazione può essere un tentativo volontario di abbandonare il controllo cosciente per evitare la fatica o il disagio che comporta e (3) la convinzione di non avere controllo porta gli esseri umani a non esercitare controllo su di sé.

Tuttavia non viviamo singoli monadici momenti non integrati con ciò che accade prima o dopo. Questo è un aspetto centrale. Il controllo cosciente è sensibile a quanto viene utilizzato (Baumeister, Heatherton & Tice, 2014). La scelta volontaria di abbandono della coscienza a fronte di una invalidazione non è l’unica via in cui i nostri impulsi automatici possono prendere il sopravvento. Un’altra via è l’esaurimento delle nostre risorse. Quando siamo a secco di carburante l’esercizio del controllo cosciente è fisicamente più difficile (Vohs, et al., 2014). Questo ci dice anche che le persone che più esercitano controllo sono sia quelle più allenate ma anche quelle che possono esaurirlo con maggior frequenza.

Allenare l’ autocontrollo

La metafora più semplice per spiegare questo meccanismo è considerare l’ autocontrollo come fosse un muscolo. Questo ha due implicazioni: (1) si può allenare e migliorare con il tempo, (2) si può stancare e perdere forza con l’esercizio, (3) può recuperare energia attraverso il riposo. Quando il nostro sistema cognitivo è affaticato (stato di cognitive load), le redini del comportamento vengono lasciate maggiormente nelle mani delle abitudini e del contesto. Per esempio, lo stato di cognitive load danneggia la capacità di imparare quale sia il mazzo di carte che porta il maggior numero di vincite tra quattro possibili opzioni (Iowa Gambling Task) e riduce i livelli di conduttanza cutanea davanti a scelte rischiose (Dretsch & Tipples, 2008). Inoltre condizioni di cognitive load risultano un impedimento al processo creativo (Wagner, 2002). Questo fenomeno è conosciuto con il nome di Ego-Depletion (Baumeister et al., 1998) vale a dire una propensione naturale ad esaurire risorse dedicate all’ autocontrollo con l’esercizio.

Una moltitudine di studi sperimentali hanno verificato questo fenomeno: l’esercizio del controllo cosciente è sempre possibile ma produce carico cognitivo. Il carico cognitivo affatica il muscolo del controllo cosciente. Conseguentemente processi automatici assumono maggior rilievo. Inoltre l’energia impiegata per un esercizio di autocontrollo è sempre la medesima, quindi compiti di natura diversa si influenzano reciprocamente: il carico cognitivo generato dal tentativo di resistere a un desiderio ha un impatto su un successivo problema di resistenza alle tentazioni come su un esercizio di ragionamento, di risoluzione di un anagramma, di organizzazione di una decisione difficile.

Il correlato fisiologico del libero arbitrio

Abbiamo un’ unica risorsa cognitiva limitata che è garante del nostro libero arbitrio. Questa risorsa ha un chiaro correlato fisiologico: la concentrazione di glucosio nel cervello (Gailliot et al., 2007). Esercizi di autocontrollo riducono la concentrazione di glucosio che è correlata al calo delle prestazioni dovuto all’ego-depletion.

Parallelamente la somministrazione di glucosio tra due compiti di autocontrollo è in grado di ridurre o annullare gli effetti del processo di ego-depletion.

In sintesi, esercitare autocontrollo consuma glucosio; se il glucosio è scarso si perde la capacità di governare coscientemente il proprio comportamento che torna in mano ad automatismi radicati e routinari. Volendo un po’ esagerare potremmo sostenere che il glucosio sia la molecola su cui si fonda la libertà.

Altra considerazione affascinante: più usiamo il nostro libero arbitrio, più rischiamo di finire esauriti nella gabbia dei nostri automatismi. Quindi, libero arbitrio: usare con cura.


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

5 – Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

 

 

Le innovazioni della riabilitazione neuropsicologica 3.0

Grazie ai progressi della tecnologia nasce la riabilitazione neuropsicologica 3.0, capace di creare ambienti virtuali, tridimensionali complessi e interattivi che includono le rappresentazioni degli svariati luoghi frequentati dal paziente. Questa nuova tecnologia disponibile ad un prezzo sempre più accessibile consente di ottenere un alto controllo degli stimoli attraverso le diverse modalità sensoriali.

 

La riabilitazione neuropsicologica rappresenta un approccio multidisciplinare che ha come obiettivo quello di migliorare le attività di vita di tutti i giorni dei pazienti con danno cerebrale. Grazie alla conoscenza del funzionamento del cervello è possibile sottoporre i soggetti a training riabilitativi che hanno la funzione di sostituire o compensare l’abilità perduta, contribuendo a migliorare la funzione cognitiva lesa. Sebbene l’entità del deficit sia valutato mediante test standardizzati, questo approccio ha dei limiti che riguardano la validità ecologica. Un altro metodo utilizzato è la ricostruzione di ambienti di vita quotidiana in cui far esercitare il paziente; anche questo approccio pone dei limiti che vanno dai costi economici al controllo sistemico dello stimolo reale.

Storia della riabilitazione neuropsicologica

La comprensione del funzionamento cerebrale può essere ricondotto agli antichi greci e romani, le cui teorizzazioni erano limitate alle credenze religiose e culturali del tempo. Una delle prime teorie influenti è stata quella proposta, nel XVIII secolo, da F. Gall sulla specificità delle funzioni cerebrali. Fu Broca a presentare un primo programma riabilitativo per un paziente con deficit di linguaggio. Successivamente Wernicke, dichiarò che la funzione del cervello è dipendente dall’interconnessione di regioni neurali; S. Franz si è concentrato sull’apprendimento di strategie compensative. Altri sviluppi si sono verificati durante e dopo la seconda guerra mondiale a causa delle ferite al cervello riportate dai soldati. Goldstein e Luria in questo periodo hanno lavorato sulla compensazione delle abilità perdute e sui metodi per modificare i comportamenti. Un contributo significativo fu dato da Zangwill (1947) con l’introduzione di tre procedure riabilitative: strategie di sostituzione, di compensazione e di ripristino della funzione danneggiata. Ad oggi le strategie e le tecniche di rieducazione cognitiva sono in continuo sviluppo e l’obiettivo è quello di superare alcune criticità metodologiche tra cui: l’eterogeneità dei disturbi, la durata e le capacità di recupero, il grado di disabilità ed eterogeneità delle misure e delle tecniche di intervento.

Riabilitazione neuropsicologica 2.0

Recentemente, la riabilitazione neuropsicologica, sta avanzando verso un approccio valutativo più tecnologico. Ciò aiuterebbe a migliorare l’efficienza e l’accuratezza delle procedure di registrazione dei dati. La tecnologia 2.0 permette di utilizzare un metodo di raccolta dati innovativo come la “rilevazione istantanea” (metodo in cui al suono di un timer tarato sul termine dell’intervallo prestabilito, si sigla se è attivo il comportamento o meno). Un ulteriore contributo è l’adattamento della tecnologia alle esigenze individuali di ogni paziente mediante dispositivi elettronici in grado di aiutarli e sostenerli anche in contesti di vita reale. Inoltre, l’uso della tecnologia permette al paziente di registrare i dati su un dispositivo che memorizza e trasmette le informazioni elettronicamente su un database sicuro. Vengono anche proposti training riabilitativi sotto forma di software computerizzati adatti alle diverse popolazioni. Uno dei software che ha riscontrato maggior successo è “Capitain’Log” un training cognitivo capace di migliorare le prestazioni a livello di velocità di elaborazione, flessibilità cognitiva e di memoria dichiarativa in bambini sopravvissuti al cancro ed evidenziando miglioramenti anche in bambini affetti da altri tipi di patologie.

Training computerizzato

Sono stati sviluppati diversi training attentivi computerizzati che trattano tale deficit mediante un aumento graduale della difficoltà del compito. Uno studio ha mostrato l’efficacia della pratica assidua mediante tali software in bambini con ADHD, con miglioramenti di working memory spaziale, di inibizione della risposta e con la riduzione dei sintomi caratteristici del disturbo (inattenzione, iperattività e impulsività).

I metodi computerizzati si sono dimostrati efficaci sin dagli anni 80’ in pazienti con lesioni cognitive, demenza e schizofrenia. Generalmente il metodo consiste nel chiedere al paziente di dare delle risposte mediante una tastiera o un joystick in modo tale che essa venga immediatamente registrata; ciò permette la restituzione di un feedback in tempo reale, sul monitor, sull’efficienza della prestazione. Questo approccio ha evidenziato notevoli miglioramenti in questi pazienti nell’elaborazione attentiva dell’informazione. Ci sono discordanze sull’efficacia di training attentivi mirati, ad esempio, i risultati ottenuti da revisioni sommative hanno riportato un miglioramento moderato dell’attenzione in pazienti con lesione cerebrale traumatica di grado moderato-grave.

Uno studio di Brehmer e colleghi (2012) ha utilizzato un programma di riabilitazione basato su videogiochi, “Cogmed”, praticato 30 minuti al giorno per 5 giorni, per 5 settimane, in un gruppo di adulti e anziani privi di lesioni cerebrali. I risultati hanno mostrato un miglioramento significativo nelle abilità di memoria di lavoro verbale e non verbale, attenzione sostenuta e nel self-report del funzionamento cognitivo. Non è stato dimostrato nessun miglioramento della memoria, del ragionamento non verbale e nella capacità di inibire la risposta.

Riabilitazione neuropsicologica 3.0

La riabilitazione neuropsicologica 1.0 e 2.0 hanno delle limitazioni dovute alla scarsa capacità di riportare fedelmente le sfide e gli ostacoli che frequentemente si riscontrano nella vita di tutti giorni, e non replicabili in uno studio sterile o in un ambiente ospedaliero. Grazie ai progressi della tecnologia nasce la riabilitazione neuropsicologica 3.0, capace di creare ambienti virtuali, tridimensionali complessi e interattivi che includono le rappresentazioni degli svariati luoghi frequentati dal paziente. Questa nuova tecnologia disponibile ad un prezzo sempre più accessibile consente di ottenere un alto controllo degli stimoli attraverso le diverse modalità sensoriali. Grazie alla riabilitazione neuropsicologica 3.0, la registrazione delle risposte comportamentali, in relazione non solo alla lesione cerebrale o alla patologia presente, ma anche in relazione all’ambiente socio-culturale, può aiutare lo specialista nella comprensione dei problemi del paziente durante la routine quotidiana. La terapia basata sulla realtà virtuale può venire continuamente aggiornata per mezzo della risposta individuale o delle preferenze del professionista. La possibilità di rivivere esperienze emotive o dolorose potrebbero portare benefici grazie alla continua esposizione che si traduce in una maggior consapevolezza e comprensione e, di conseguenza, porta ad un maggior controllo. Gli ambienti virtuali sono sempre più utilizzati nella popolazione psichiatrica per la modificazione di problemi comportamentali o sociali; lo specialista può manipolare l’ambiente mediante l’invio di feedback in tempo reale.

La realtà virtuale si è recentemente focalizzata sulla valutazione e la riabilitazione di pazienti con deficit cognitivi. Molti ricercatori hanno promosso l’utilizzo di paradigmi di rotazione mentale ritenuti utili nel miglioramento della memoria e del problem solving. Alcuni interventi neuropsicologici sono stati tradotti in formati virtuali, come la versione VR del Multiple Errands Test (MET; Burgess et al., 2006). Questo ambiente virtuale è stato utilizzato come training per le funzioni esecutive: la pianificazione strategica, la flessibilità cognitiva e l’inibizione. Il MET è stato convalidato su pazienti con ictus e con lesioni da trauma cranico.

Interfaccia neurale nella riabilitazione

Un’interfaccia neurale (BCI) è un mezzo di comunicazione diretto tra parti funzionali del sistema nervoso centrale e un dispositivo esterno quale ad esempio un computer. Generalmente il dispositivo esterno riceve comandi direttamente da segnali derivanti dall’attività cerebrale. Le BCI bi-direzionali combinano il descritto canale di comunicazione con una linea di ritorno che permetterebbe lo scambio di informazioni tra il dispositivo esterno e il cervello. Ad oggi questa tecnologia si è focalizzata maggiormente sui disturbi motori e di comunicazione in pazienti con lesioni provocate da ictus o deficit derivanti da patologie come la sclerosi laterale amiotrofica. Inoltre, diverse ricerche stanno studiando l’influenza della BCI in popolazioni sane per indagare gli aspetti emozionali e del carico di lavoro cognitivo.

Conclusioni

Nonostante i grandi vantaggi che la realtà virtuale potrebbe portare alla riabilitazione neuropsicologica, vi sono delle barriere che ne ostacolano l’utilizzo. I principali limiti riguardano la gestione dei problemi tecnologici e i costi. Infatti molti ambienti virtuali utilizzati in diversi studi, non sono commercialmente disponibili. Per quanto concerne la difficoltà della gestione dei problemi tecnici, bisognerebbe formare il personale per il servizio di supporto, fondamentale se si vuole utilizzare tale tecnologia in ambito riabilitativo. Bisogna considerare i costi che ciò comporta, insieme al rimborso per i servizi clinici e per un personale che si occupi anche dell’analisi dei dati. Inoltre gli ambienti virtuali richiedono spazi adeguati privi di distrazioni, ma anche questa è un’altra sfida da affrontare.

Prevenire la dislessia evolutiva giocando con i videogames

Diverse ricerche hanno provato l’efficacia dei videogames nella riabilitazione della dislessia evolutiva; essi migliorano una grande varietà di abilità cognitive, come la visualizzazione spaziale, la capacità decisionale, il processamento visuo-spaziale e quello linguistico (Dorval e Pepin, 1986; Ball et al., 2002; Castel et al., 2005; Bialystok, 2006).

Vittoria Trezzi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

La dislessia evolutiva: le caratteristiche del disturbo

La lettura è un processo cognitivo complesso che riguarda l’essere umano, il quale dimostra di apprenderla abbastanza facilmente, passando dalla comprensione dei rapporti tra linguaggio orale e linguaggio scritto, ad una completa automatizzazione dei processi di lettura (Frith U., 1985).
Per alcuni bambini l’apprendimento della lettura risulta non priva di difficoltà, come se il meccanismo, che per alcuni individui risulta spontaneo, si sia inceppato.

Circa il 3,6 – 8,5% della popolazione italiana soffre di Dislessia Evolutiva, o Disturbo Specifico della Lettura (DE – Lindgren et al., 1985), un disturbo neurobiologico complesso a carattere ereditario.

La Dislessia Evolutiva è uno dei più comuni disturbi in età evolutiva e rientra all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), insieme al Disturbo Specifico della Scrittura (Disortografia e Disgrafia) e il Disturbo Specifico del Calcolo (Discalculia).
Il livello di capacità di leggere raggiunto dai bambini con Dislessia Evolutiva (cioè, precisione, velocità, o comprensione della lettura misurate da test standardizzati somministrati individualmente) si situa sostanzialmente al di sotto di quanto ci si aspetterebbe data l’età cronologica del soggetto, la valutazione psicometrica dell’intelligenza, e un’istruzione adeguata all’età.

L’anomalia della lettura interferisce notevolmente con l’apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura (APA, 2013).

Le teorie che spiegano la dislessia evolutiva

La spiegazione maggiormente accreditata per quanto riguarda l’insorgenza della Dislessia Evolutiva, si trova nel processo linguistico-fonologico. Questo modello (Teoria Fonologica) afferma che i soggetti affetti da Dislessia Evolutiva hanno uno specifico disturbo nella rappresentazione, memoria e/o recupero del suono della parola. La teoria fonologica si basa sull’assunto che, per imparare un sistema alfabetico, si ha bisogno di apprendere la corrispondenza grafema (lettera) – fonema (suono). Se questo suono è scarsamente rappresentato, memorizzato e/o recuperato, l’apprendimento della corrispondenza grafema – fonema e, successivamente, del sistema alfabetico è significativamente compromesso (Bradley e Bryant, 1978; Snowling, 1981).
La rappresentazione fonologica comprende la consapevolezza fonologica, la memoria a breve termine verbale, la denominazione rapida, l’apprendimento fonologico, la percezione dei suoni del linguaggio e la ripetizione di non parole (Goswami, 2003).

Accanto a questa spiegazione tradizionale, diversi studi mostrano come la Dislessia Evolutiva sia il risultato di una combinazione di diverse cause neurocognitive. L’attenzione visiva e la via magnocellulare-dorsale (M-D) deficitarie sono considerate cause della Dislessia (Franceschini et al., 2013). Questo modello non esclude l’ipotesi del deficit fonologico – uditivo, ma enfatizza il contributo dei meccanismi visivi nell’acquisizione e automatizzazione della lettura (Stein, 2001; Gori et al., 2014; 2015).

La teoria del deficit visuo-attentivo afferma che le abilità di attenzione visuo-spaziale (AVS) risultano avere un ruolo fondamentale nella capacità di scomposizione grafemica. Un’abilità di AVS compromessa può causare la perdita della corretta sequenza di lettere o l’errata percezione dell’orientamento delle loro caratteristiche. Queste abilità deficitarie sono frequentemente riscontrate nei bambini con difficoltà di lettura (Wolf, 2000).
L’abilità di lettura necessita dello “spotlight” attenzionale, il quale ha la funzione di “illuminare” determinate aree di interesse all’interno dell’ambiente, consentendo di individuare gli obiettivi tramite l’integrazione delle caratteristiche dell’oggetto, ossia: dimensione, forma, colore, movimento e profondità (Vidyasagar e Pammer, 2010).

Successivamente ad una prima e fondamentale elaborazione visuo-percettiva in attenzione distribuita, la cui efficacia sembra essere dovuta ad una elaborazione grossolana del sistema visivo magnocellulare-dorsale (M-D; Stein, 2014; Vidyasagar e Pammer, 2010, Facoetti, 2010; Gori e Facoetti, 2014; 2015), questo fascio attenzionale si orienta sul lato sinistro della stringa di lettere. Questa focalizzazione avviene tramite specifici meccanismi inibitori dell’elaborazione delle lettere laterali presenti sul lato destro, per poi, solo successivamente, orientarsi e focalizzarsi rapidamente sulla successiva lettera a destra. In seguito a questo meccanismo, si verifica la conversione grafema-fonema, e poi il meccanismo di mantenimento temporaneo nella MBT del fonema appena individuato.

Diversi studi affermano che bambini con Dislessia Evolutiva hanno più difficoltà nei compiti di ricerca visiva se comparati con i normo-lettori, a causa dei deficit della via M-D (Vidyasagar e Pammer, 1999; Gori et al., 2014; 2015).

Le capacità dell’AVS si ripercuotono sulle abilità di accesso rapido alle rappresentazioni fonologiche (Denka e Rudel, 1974) e concorrono, con altre difficoltà fonologiche, mnestiche e di coordinazione, alla strutturazione delle futura abilità di lettura (Franceschini et al., 2012).

Gori e collaboratori (2015) hanno mostrato il ruolo cruciale della via M-D nell’apprendimento della lettura, dimostrando che la percezione del movimento visivo, richiedente l’integrazione spazio-temporale di diversi punti in movimento coerente, misurate durante la scuola dell’infanzia, è predittiva delle future abilità di lettura. Bambini considerati cattivi lettori presentano, già alla scuola dell’infanzia, un disturbo della via M-D ed un disturbo nell’AVS (Gori et al., 2015). Questi risultati sembrano mostrare dunque come i meccanismi di orientamento e focalizzazione dell’AVS, controllati dalla via M-D, siano cruciali per lo sviluppo delle future abilità di lettura (Stein, 2001).

Tuttavia un deficit della via M-D, quindi una compromissione della percezione del movimento, non è riscontrabile in tutta la popolazione affetta da Dislessia Evolutiva (Talcott et al., 2013).

Dai dati appena presentati emerge l’esistenza di un legame causale tra i disturbi visivo-attentivi e le difficoltà di lettura (Gori e Facoetti, 2014); è quindi possibile pensare che la riabilitazione della via visiva M-D porterebbe ad un miglioramento delle abilità di lettura in soggetti con Dislessia Evolutiva senza allenare direttamente la lettura o il linguaggio.

Il trattamento della dislessia evolutiva

Attualmente i trattamenti si basano sul potenziamento fonologico, con il fine di velocizzare e migliorare l’accuratezza della lettura.

Tuttavia, date le recenti evidenze dell’implicazione del sistema attentivo nella dislessia, alcuni studiosi stanno implementando, in alternativa al tradizionale modello fonologico, un nuovo sistema di riabilitazione.

Questo recente sistema di riabilitazione supporta la teoria magnocellulare – dorsale e si prefigge l’obiettivo di prevenire la Dislessia potenziando le abilità visuo – attentive. Questo modello si basa sull’utilizzo di specifici videogiochi d’azione: gli Action Video Games (AVG). Questi sono dei videogiochi che mirano a potenziare il funzionamento cognitivo e nello specifico lavorano sul sistema attentivo, implicato nella via magnocellulare – dorsale.

Le caratteristiche che definiscono gli AVG sono: un’elevata velocità di gioco; un alto grado di carico percettivo, cognitivo e motorio (necessità di pianificazione, di tracciare il movimento di più elementi o di doverli mantenere in memoria, necessità di pianificare diverse strategie d’azione da mettere in pratica in modo rapido); imprevedibilità (temporale e spaziale); notevole rilevanza degli avvenimenti che si manifestano lontano dal centro dello schermo (Green, Li e Bavelier, 2010).

L’efficacia dei videogames nella riabilitazione della dislessia evolutiva

Diverse ricerche hanno provato l’efficacia dei videogames; essi migliorano una grande varietà di abilità cognitive, come la visualizzazione spaziale, la capacità decisionale, il processamento visuo-spaziale e quello linguistico (Dorval e Pepin, 1986; Ball et al., 2002; Castel et al., 2005; Bialystok, 2006) anche in soggetti sani (Green e Bavelier, 2003; 2006).

Solo in seguito al trattamento di AVG su soggetti adulti sani, questo strumento è stato applicato su adulti con Dislessia, raggiungendo risultati positivi (Harrar et al., 2014).

Un’ampia porzione della letteratura scientifica mostra come gli AVG siano in grado di potenziare le abilità attenzionali e percettive nei normo-lettori, funzioni che risultano compromesse in soggetti con Dislessia (Franceschini et al., 2013).

Successivamente, il trattamento con AVG è stato implementato sui bambini e gli autori di questa ricerca hanno mostrato che giocare agli AVG per sole 12 ore può significativamente migliorare le abilità dei bambini affetti da Dislessia evolutiva (Franceschini et al., 2013).

I risultati di questa ricerca hanno evidenziato un miglioramento nelle abilità di lettura che è maggiore di quanto ci si sarebbe aspettati dopo un anno di sviluppo spontaneo della lettura e, inoltre, uguali se non maggiori rispetto ai risultati ottenuti dalla riabilitazione fonologica tradizionale (Franceschini et al., 2013).

Questo dato suggerisce che il trattamento AVG è in grado di migliorare l’attenzione selettiva, per quanto riguarda la dimensione temporale e spaziale (Green et al., 2012).

Inoltre, nonostante la maggior parte degli studi parlino di miglioramenti nell’attenzione visiva a seguito di riabilitazione con AVG, sembra che vi siano benefici anche per quanto riguarda il processo visivo ed uditivo (Donohue et al., 2010; Green et al., 2010).
Dal momento che la riabilitazione della abilità attentive non implica un apprendimento già completato della lettura, essa può essere applicata a bambini in età prescolare.

L’impiego dei videogames nella riabilitazione dei disturbi del linguaggio

Un successivo passaggio di fondamentale interesse, riguarda l’applicazione della riabilitazione tramite AVG su soggetti con Disturbo Specifico del Linguaggio (DSL).
Il DSL è un deficit neuropsicologico dello sviluppo, il quale riguarda un insieme di compromissioni a livello di codifica fonologica, grammaticale, sintattica e/o lessicale. La comprensione sembra invece essere in tutti più progredita, rispetto all’abilità di produzione (Leonard, 1998).
Le difficoltà grammaticali e lessicali sembrano essere quelle più frequenti e la comunicazione si presenta impoverita, caratterizzata da frasi brevi e semplici, difficoltà a coniugare i verbi al passato, scarsa costruzione sintattica (Hsu e Bishop, 2014) sostituzioni, difficoltà nel trovare le parole (DSM – V, 2013) e nell’apprenderne di nuove (Kan e Windsor, 2010).

I soggetti con DSL condividono con i bambini affetti da Dislessia una marcata difficoltà nei compiti di conoscenza fonologica e lessicale (Catts et al., 2005), come nell’apprendimento di parole nuove (Storkel, 2003) e nella ripetizione di non – parole (Vitevitch et al.,1997).

Oltre al dominio linguistico, il DSL interessa anche le abilità visuo-spaziali (Hill, 2001; Bavin et al., 2005). A tal proposito, accanto all’insieme di sintomi conosciuti e descritti dai criteri diagnostici del DSM – 5 (2013), è stato evidenziato che i bambini con DSL presentano anche un deficit di tipo attentivo, comune alla Dislessia. Questi dati potrebbero spiegare la relazione che sussiste tra DSL e DE. Infatti, risulta che il 51% dei bambini con DSL, sviluppa successivamente difficoltà specifiche nella lettura (McArthur et al., 2000).

Questi dati potrebbero confermare diversi studi secondo cui le abilità attentive sono un’importante e necessaria componente per lo sviluppo delle abilità di lettura (Vidyasagar e Pammer, 2010; Franceschini et al., 2012; Facoetti et al., 2010).
Questi studi infatti non mettono in dubbio l’importanza delle abilità fonologiche, necessarie per l’acquisizione della lettura e, per l’appunto, deficitarie nei DSL e DE. Bensì, essi sottolineano il fatto che la decodifica fonologica richiede in origine una rapida selezione delle unità sub-lessicali ortografiche, che avviene attraverso un orientamento seriale dell’attenzione. Alla base del DSL e della DE ci sarebbe un deficit nell’attenzione visuo-spaziale, la quale causerebbe abilità fonologiche deficitarie (Stein, 2001; Vidyasagar e Pammer, 2010; Ruffino et al., 2010; Gori et al., 2014).
Questi studi potrebbero offrire un nuovo approccio per l’identificazione precoce della Dislessia evolutiva e per la sua riabilitazione preventiva effettuata su bambini con DSL (Facoetti et al., 2010).

Progetto di ricerca sui fattori predittivi e preventivi della dislessia evolutiva

All’interno di questa cornice teorica nasce il progetto di ricerca dal titolo: “La Dislessia Evolutiva: fattori predittivi e preventivi” svolto in collaborazione con l’Istituto Scientifico IRCCS Eugenio Medea di Bosisio Parini (Lecco), e l’Istituto “La Nostra Famiglia” di Como, insieme all’Università degli studi di Padova e di Bergamo.

Lo scopo del progetto è di indagare se l’utilizzo di specifici videogiochi possa avere un effetto preventivo sullo sviluppo di Dislessia Evolutiva (DE) in bambini in età prescolare con diagnosi di Disturbo Specifico del Linguaggio (DSL). Le componenti proprie di ciascun video game, con il miglior potenziale preventivo, verranno quindi identificate e rappresenteranno le basi per il successivo sviluppo di un video game volto alla prevenzione della Dislessia evolutiva.

Per raggiungere tale obiettivo i bambini che partecipano al progetto come gruppo di controllo sono sottoposti ad un trattamento logopedico standard. Tutti i bambini, a prescindere dal gruppo di appartenenza, verranno seguiti longitudinalmente per tre anni al fine di valutare e quantificare lo sviluppo dell’acquisizione delle abilità di lettura e le abilità neuropsicologiche ad essa associate.
Attualmente sono state condotte delle analisi preliminari volte ad indagare un miglioramento nelle abilità neuropsicologiche connesse alla Dislessia Evolutiva, a seguito di 12 ore di trattamento sperimentale con gli AVG.

Dai risultati ottenuti si può ipotizzare un miglioramento nell’attenzione spaziale distribuita e focalizzata e nella percezione visiva. Come già riscontrato in Franceschini e coll. (2013) si può parlare di un miglioramento generale nelle performance attentive, nei soggetti che hanno seguito un trattamento di AVG per 12 ore. I bambini sottoposti a trattamento logopedico sono anch’essi migliorati ma in modo inferiore rispetto a quelli del gruppo AVG.

Si può quindi affermare che, coerentemente con la natura della stimolazione del training, i videogames migliorano significativamente le abilità visuo spaziali ed i meccanismi attenzionali visivi alla base del riconoscimento ortografico (Bavelier et al., 2013).

Questi risultati supportano una visione multi-fattoriale della Dislessia evolutiva (Bosse et al., 2007). Infatti, se il trattamento logopedico è definito di dominio specifico, concentrandosi sugli aspetti esclusivamente fonologici, il trattamento AVG è di dominio generale, potenziando quindi sia le abilità visive, sia quelle uditive e fonologiche.

In linea con i diversi studi passati, è evidente come gli AVG permettano il miglioramento della capacità attentiva (Green & Bavelier, 2012; Franceschini et al., 2013).

I risultati dimostrano che gli AVG coinvolgono la riabilitazione di molte abilità sensoriali e, per questo motivo, sono degli ottimi candidati per il trattamento della Dislessia. Allenare i soggetti che soffrono di Dislessia a spostare il focus attenzionale verso diversi stimoli visivi ed uditivi, come accade durante l’esperienza di gioco, potrebbe aiutare a migliorare le abilità di scrittura e lettura (Harrar et al., 2014).

Questi risultati sono supportati da ricerche che mostrano che l’attenzione può essere studiata (Bulf e Valenza, 2013) ed efficacemente allenata (Wass et al., 2011) durante l’infanzia. Queste importanti evidenze aprono la strada ad un progetto di prevenzione efficace, il quale potrebbe ridurre l’incidenza di DE (Facoetti et al., 2003; Green e Bavelier, 2012; Franceschini et al., 2013, Bavelier et al. 2013).

I soggetti in età prescolare con DSL, andrebbero incontro ad un tipo di riabilitazione dell’apprendimento percettivo, che è in grado di migliorare non solo le abilità attenzionali, bensì anche le future abilità di lettura (Franceschini et al., 2013; Gori et al., 2015).

Accanto all’efficacia di questo trattamento sulle abilità di lettura, gli AVG hanno anche altri vantaggi:
– essi, come già accennato, non richiedono abilità nella lettura, quindi possono essere utilizzati agevolmente prima della diagnosi in DE. In questo senso, gli AVG sono utilizzati per un trattamento a scopo preventivo del deficit di lettura.
– inoltre, gli AVG risultano efficaci a prescindere dai vari sottotipi di DE e dalla profondità del disturbo.
– per la prima volta, il bambino si troverebbe ad affrontare una riabilitazione cognitiva sotto forma di gioco. Il bambino potrà, dunque, migliorare giocando, anche dentro camera sua.

Esattamente per queste ragioni, il trattamento AVG sembra essere un candidato per la prevenzione della Dislessia evolutiva.

Neuropsicologia dell’inconscio – Integrare mente e cervello nella psicoterapia (2017) di Efrat Ginot – Recensione del libro

Mi incuriosisce il fatto che in Neuropsicologia dell’ inconscio ci siano alcuni termini a me noti e mi interessa capire come vengono utilizzati in un approccio differente da quello cognitivo e cognitivo-comportamentale.

 

Scelgo di recensire il testo della Ginot, Neuropsicologia dell’ inconscio, in preda al terror vacui nel vedere l’agenda vuota per tutto il mese di agosto. Mi faccio recapitare il libro, lo osservo velocemente e mi pento immediatamente della scelta fatta. Non sono assolutamente esperta né di neuropsicologia, né tantomeno di inconscio. Che competenze ho per valutare questo lavoro? Leggo la prefazione di Allan Shore, ricercatore e psicanalista statunitense, autore di numerosissime pubblicazioni, e confermo la mia idea. Scriverò alla redazione un sentito mea culpa, chiedendo di affidare a una persona più esperta questo incarico. Già, perché la prefazione parla di rimozione, trasfert-controtransfert, cervello destro e risulta poco comprensibile a chi non abbia dimestichezza con questi concetti. Figuriamoci a me, che se avevo una certezza sulle neuroscienze era ciò che mi diceva una collega ricercatrice, che non si parla più tanto di “aree deputate”, quanto di reti e connessioni.

Do un’altra possibilità alle mie di connessioni, provando a vedere se andando avanti riesco a capirci qualcosa. Efrat Ginot, psicologa e psicanalista, lavora come libera professionista a New York, insegna all’Institute for Contemporary Psychotherapy e collabora come supervisore al Fifth Avenue Center For Counseling and Psychotherapy.

Inaspettatamente, all’inizio del lavoro ho una sensazione di famigliarità quando leggo:

Il termine rimozione, per esempio, e più recentemente quello di dissociazione, vengono spesso usati per descrivere le funzioni difensive dell’ inconscio dinamico

O ancora quando leggo:

Si pensa che la persistenza di pattern ripetuti che non aiutano più l’individuo a ottenere ciò che desidera consapevolmente sia determinata da conflitti irrisolti, dalla fedeltà del paziente alle figure di attaccamento interiorizzate o da un “bisogno” inconscio di ripetere tali comportamenti per mantenere le connessioni Sé-oggetto che portano a un senso di benessere” (pag. 4).

Mi incuriosisce il fatto che in Neuropsicologia dell’ inconscio ci siano alcuni termini a me noti e mi interessa capire come vengono utilizzati in un approccio differente da quello cognitivo e cognitivo-comportamentale in cui sono formata.

Neuropsicologia dell’ inconscio: i temi trattati nel libro

Nell’introduzione di Neuropsicologia dell’ inconscio vengono forniti alcuni concetti necessari a comprendere il lavoro della Ginot. Si sottolinea la tendenza a considerare l’ inconscio come una struttura dinamica, non più solo custode di contenuti rimossi o inaccessibili, ma anche insieme di

reti neurali interconnesse costituite da affetti innati, dall’apprendimento condizionato che hanno prodotto, da una miriade di difese automatiche e dalle innumerevoli associazioni tra di esse” (pag. 8).

Di qui la definizione di inconscio dinamico.

Viene sottolineata la centralità delle regioni sottocorticali (gangli basali e cervelletto), ma non senza le relative connessioni con diverse aree. Non esiste quindi un’area del cervello che possiamo disegnare, colorare e scriverci vicino “Inconscio”, anzi “Freud”, se volessimo seguire l’esempio di Broca o Wernicke. E l’inconscio manco è così recondito come lo immaginavo io. Infatti l’autrice parla di continuum conscio-inconscio, che insieme al continuum rigidità-flessibilità rende comportamenti, emozioni e cognizioni più o meno consapevoli, più o meno accessibili in terapia, più o meno conosciuti dall’individuo.

È inevitabile che mi venga in mente, leggendo Neuropsicologia dell’ inconscio un certo parallelismo con modalità di azione e interazione automatiche di alcuni pazienti, ma non voglio peccare di riduzionismo e quindi tengo a bada le mie già provate connessioni.

Il secondo capitolo si focalizza sui fondamenti neuropsicologici della paura e dell’ansia, analizzando quindi nel dettaglio il ruolo dell’amigdala: la sua attivazione determina apprendimenti sulla minaccia alla propria sicurezza, talmente primitivi e rapidi da risultare inconsci.

Per di più, una via diretta all’amigdala, al di fuori della consapevolezza, favorisce l’impiego di pattern difensivi in risposta a stimoli sensoriali o percettivi anche molto deboli (Ohman, 2009). Questi meccanismi influenzano tutti gli aspetti della nostra vita adulta, a livello emotivo, comportamentale e delle interazioni sociali. Percepiamo gli stimoli, interpretiamo gli eventi e ci comportiamo in un certo modo senza sapere perché. Tale programma emotivo viene eseguito anche contro la volontà” (pag. 73).

Nei capitoli seguenti di Neuropsicologia dell’ inconscio vengono illustrate le manifestazioni dell’ inconscio, ovvero la messa in atto di mappe inconsce che si esprimono attraverso agiti inter e intrapersonali, dando luogo a esperienze sempre più accessibili e consapevoli. In terapia questi pattern sono ancora più evidenti nelle resistenze al cambiamento e nella tendenza dei pazienti a riproporre comportamenti dannosi, che però sono noti e vengono applicati in automatico (o meglio, inconsciamente). Ma non solo: anche la definizione di sé e la lettura della propria storia di vita vengono plasmati da apprendimenti scritti in mappe neurali inconsce.

In ambito psicopatologico, il volume da spazio all’esemplificazione delle mappe inconsce nel disturbo narcisistico di personalità. Uno su tutti per descrivere la complessa realtà dei disturbi di personalità, scelto probabilmente anche per i notevoli risvolti in termini di transfert e controtransfert, che vengono rapidamente descritti.

Successivamente, in Neuropsicologia dell’ inconscio, viene dedicato un capitolo sulla terapia, troppo breve per essere esaustivo (e nemmeno è lo scopo del libro), che accenna ai momenti di insight del paziente, alla gestione del continuum rigidità-flessibilità e alla necessità di lavorare verso l’integrazione di affetti e cognizioni.

Dal momento che emozione e cognizione sono così strettamente intrecciate, esercitare la riflessività durante uno stato emotivo che compromette il benessere di un individuo può aiutare a ripristinare l’equilibrio tra le due (…). Divenendo più regolati, i comportamenti automatici e le emozioni non assumono più il controllo dell’intera esperienza cosciente di un individuo. Si guadagna maggiore prospettiva, il che può aiutare un individuo a calmarsi. A loro volta, stati più regolati possono influenzare la qualità dell’attenzione e dei processi cognitivi, nello specifico il livello di pensiero negativo” (pag. 233).

A me continua a venire in mente che la condivisione della concettualizzazione del caso con il paziente e la restituzione del suo funzionamento abbiano qualcosa in comune con quello che sto leggendo. Che sia come uno spiegargli ciò che finora ha fatto “in automatico”, specie se nel farlo contempliamo il pattern di attaccamento e le modalità che utilizza ora (su di sé e sugli altri) per evitare stati d’animo dolorosi o giudizi intollerabili su di sé. Lungi dall’essere la stessa cosa, sia chiaro, ma mi sembra che ci sia la possibilità di un confronto anche a partire da prospettive differenti. Che quando siamo nel nostro studio con il paziente siamo poi tutti di questa terra.

L’autrice di Neuropsicologia dell’ inconscio si sofferma anche sulla necessità di una terapia di lunga durata, citando studi di efficacia nel lungo termine, e affermando che il lavoro sull’ inconscio è troppo lungo e articolato per pensare che bastino poche sedute per ottenere risultati. La terapia cognitivo comportamentale viene descritta come breve e focalizzata sul sintomo: questa cosa mi crea un po’ di sconcerto e mi riporta nella realtà, dove si mantiene quella tendenza a competere più che a comprendere. Infine, viene dedicato un capitolo alla trasmissione intergenerazionale del trauma, anche qui si evidenzia come le mappe inconsce saranno pressoché inevitabilmente segnate dall’esperienza traumatica del genitore.

Il volume Neuropsicologia dell’ inconscio è impegnativo, ma lo stile di scrittura è piuttosto scorrevole. Sebbene un collega di formazione analitica possa apprezzarlo a pieno, il testo è comprensibile a chiunque operi nell’ambito. Alcuni argomenti meritano un approfondimento ulteriore, la scelta dei contenuti da trattare avrebbe potuto essere più lineare. Alla fine, l’insegnamento più grande per una profana di inconscio come me, è che al di là della frammentarietà tipica della nostra scienza, è possibile anche contemplare un’ottica integrativa, curiosa e capace di dialogare a ampio raggio nel rispetto delle differenze individuali.

Olivia: tra il bisogno del controllo e il desiderio di abbandono – Ritratti

Un’ora e quattro minuti dall’alba. Una schiera di sveglie puntate in ordinata successione suonò per ricordare a Olivia di essere al mondo. In questo mondo. Una sequenza martellante di suoni contundenti quasi quanto la voce di sua madre, che per anni aveva svolto la stessa mansione con zelo.

Anna Rossi

 

A tutto ciò Olivia aveva imparato nel tempo a opporre una resistenza passiva più o meno efficace. Imbrigliava ogni millimetro del suo corpo, quello che a quell’ora del giorno non ricordava ancora di avere, in ogni corpuscolo di quel sogno in cui non servivano né regoli né squadre. Come sempre, una lotta estenuante, in cui servivano tenacia e ferma determinazione a non mollare la presa da quella condizione di sospensione rassicurante. Alla fine di ogni combattimento, quelle note di disappunto riuscivano ad avere la meglio e a trascinarla mani e piedi (stava finalmente cominciando a ricordare la loro fattezza e la loro funzione) al centro del letto in cui la sera prima, come ogni sera, aveva preso congedo dalle sue consuete operazioni. Lì capiva di non avere più scampo. Il senso di sovranità che fino a quel momento le aveva consentito di manifestare con fermezza il proprio rifiuto, stava lentamente e inesorabilmente abdicando.

Il passaggio definitivo da quello a questo mondo avveniva sempre secondo la stessa progressione di gesti. Tutti eseguiti intorno al tavolo apparecchiato per la colazione già dalla sera prima. Una piccola festa di benvenuto, da lei stessa organizzata per dare risposta a quel suo fondamentale bisogno di incoraggiamento prima di condurre il suo corpo, al contempo così inesperto e così vissuto, nel bel mezzo di una nuova giornata. Intorno a quel tavolo, che faceva da ponte tra i due mondi, Olivia vedeva ogni mattina sedere fianco a fianco quelle due parti di sé in perenne disputa tra loro. A sinistra, il bisogno di programmazione rigorosa, anche dei più piccoli dettagli, che si manifestava per esempio nella scrupolosità con cui poneva ogni arnese necessario alla colazione (tazze, scodelle, cucchiai) alla giusta distanza rispetto agli altri, in modo da rendere ogni manovra la più rapida, economica ed efficiente possibile. A destra, il desiderio di abbandono a innocenti ambizioni, come quando si concedeva di affondare selvaggiamente le dita dentro una torta ai mirtilli e di scavarci dentro con prepotenza, estraendo uno a uno quei piccoli bottoni violacei per poi portarli lentamente al palato. In quei casi si sorprendeva per la latitanza del senso di colpa. Quello che avrebbe dovuto provare per non aver mostrato adeguata sollecitudine nei confronti di quella massa ormai informe, simile alla superficie lunare, che giaceva al centro del tavolo, in stato di totale abbandono e trascuratezza.

Il fine di ogni rituale era in fondo generare un’atmosfera familiare dalla quale lasciarsi avvolgere e contenere. Una specie di casamobile invisibile. Con le sue regole. Con i suoi atti di ribellione. Nella quale cercare rifugio al primo accenno di stanchezza o tempesta. Una casa che, ogni giorno della sua vita, aveva edificato dandogli una forma diversa, e il giorno dopo smantellato, dopo accurate valutazioni tecniche che rivelavano la scarsa solidità dei punti di appoggio e i relativi rischi per la sicurezza. O in preda ai suoi tsunami emotivi, di quelli che radono tutto al suolo, anche l’illusione di rifugio. Ma su quello che le sarebbe piaciuto o servito davvero come luogo in cui dimorare regnava sovrana l’indecisione. Di solito, in fase di progettazione Olivia si affidava alle vite degli altri, puntandoci sopra un teleobiettivo (ne aveva una quindicina) che le consentiva di mantenere dal soggetto quella distanza necessaria a non risultare invadente. Scattava così istantanee di pochi centimetri di quotidiana normalità. Avesse usato un grandangolo, se lo diceva spesso, forse il risultato non sarebbe stato così ingenuo. Tutte le immagini ottenute in quel modo venivano poi sparpagliate su una grande scrivania e quindi assemblate in composizioni azzardate, precarie. Mai abbastanza convincenti. Mai fino in fondo sincere.

Erano ormai passati ventisette minuti e quarantatré secondi dalla consapevolezza di avere un corpo. La successiva conquista consisteva nel recuperare da qualche parte la capacità di farlo funzionare sotto la guida di comandi precisi. Dopo aver ritrovato in qualche file salvato in memoria il manuale di istruzioni e averlo sfogliato velocemente per un breve ripasso, Olivia cominciò a muovere i primi di una lunga sequenza di passi nella direzione dei chilometri delle cose da fare. Tutte cose di buon senso, di quelle che tutte le persone giudiziose normalmente fanno. Prima di uscire fece il solito appello a voce alta per controllare che nella borsa ci fosse tutto il necessario. Pettine, rossetto e profumo, semmai avesse avuto bisogno di ravvivare quell’aria di normalità che solitamente indossava fuori casa senza grande disinvoltura. Portafogli, con contanti e carte di credito a seguito, uno status al quale una persona della sua età non avrebbe dovuto rinunciare se davvero desiderava apparire socialmente adattata. Sigarette e accendino, efficace ma insano rimedio per quel senso di oppressione riportato come effetto collaterale sul bugiardino del Buonsenso. Chiavi, per poter rientrare, a fine giornata, nel suo appartamento di novanta metri quadri o, all’occorrenza e in qualsiasi momento, nella sua casamobile. Infine righello e squadra, nel caso in cui si fosse accorta di deviare dalla giusta traiettoria e si fosse pertanto reso necessario un aggiustamento delle geometrie relazionali in cui si era avventurata.

Ad avvisarla della necessità di operare delle correzioni (solitamente mentre si trovava già in corsa) era una serie di segnali di allarme provenienti dal corpo, che in quei casi funzionava in modo del tutto autonomo rispetto alle indicazioni che arrivavano dalla Sala di Comando. All’inizio Olivia provava a ignorarli. E solo quando quei richiami si facevano più insistenti, al punto che neanche più il rossetto bastava a farla sentire nell’assetto giusto, cominciava a prenderli seriamente in considerazione.

Con la meticolosità e la freddezza tipiche di un ingegnere – esattamente quelle competenze che sua madre si era impegnata a trasmetterle già durante l’imprinting – cominciava allora a eseguire una serie di rigorose operazioni. Calcolava la distanza tra sé e gli altri, il perimetro della loro relazione e la superficie delle emozioni coinvolte. Verificava la correttezza delle misure ottenute, essenziale per creare lo spazio ideale in cui ogni cosa sta nella posizione giusta rispetto alle altre. Cercava di capire se quella particolare configurazione di numeri e proporzioni avesse le carte in regola per rientrare nella categoria delle Perfette Geometrie, di quelle capaci di imprigionare lo sguardo in un senso di assoluta, gelida, infeconda simmetria. Se qualcosa non tornava nei conti, non nutriva alcun dubbio: era tutta colpa della sua approssimazione. Allora, invasa da un profondo senso di indegnità, si immaginava costituirsi di fronte ai suoi professori del liceo, supplicarli di farle ritentare l’esame di maturità. Perché, in fondo lo sapevano tutti, quel diploma non se lo era affatto meritato.

Per tentare di risolvere il problema Olivia operava diligentemente una serie di aggiustamenti, accorciando o allungando la distanza a seconda della condizione di partenza. Ma nessuna di queste operazioni la conduceva mai al risultato sperato, a quello stato di ordine ultimo in cui ogni cosa dava l’impressione di stare esattamente al posto assegnatole dal Creatore. Solitamente invece i suoi aggiustamenti producevano come effetto un aumento del disordine o un irrigidimento delle posizioni dentro e fuori di sé. Quando accorciava la distanza sentiva ogni molecola del suo corpo impazzire come fa l’acqua quando la si lascia per molto tempo sopra il fuoco. Quando invece l’aumentava, il suo stato ricordava quello del ghiaccio solido, in cui ogni libertà di movimento, pensiero o espressione veniva congelata all’interno di vincoli inflessibili. E così, in preda alla confusione più disperata, tornava a documentarsi, a leggere, a studiare, nella speranza sempre viva che qualcuno più sapiente e saggio di lei potesse una volta per tutte insegnarle a stare al mondo.

Salita in macchina accese la radio e cominciò a cantare senza ritegno il suo rock preferito, accompagnando ogni vocalizzo con una mimica indecorosa, cui tutto il suo corpo aveva deciso di dare un contributo. Erano le 8.25 del mattino e Olivia, sebbene si trovasse in questo mondo, si stava concedendo di abbandonare temporaneamente ogni imperativo di normalità. Era fiduciosa del fatto che nessuno dei tanti affaccendati, che con espressioni tutt’altro che entusiaste tentavano di raggiungere il posto di lavoro o di arrivare a scuola almeno all’inizio della seconda ora, avrebbe fatto caso a quello che accadeva dentro la sua auto. Sentiva che l’ordinario tran tran collettivo di inizio giornata non poteva che giocare in suo favore, consentendole con alta probabilità di scansare qualsiasi sguardo di sdegno. Mentre si lasciava andare a quegli atti di ribellione, la stessa dei brani che stava ascoltando a tutto volume, si rese conto di essere percorsa da emozioni dimenticate da qualche parte del passato.

Una serie di immagini, souvenir di qualche viaggio a occhi nudi e senza obiettivo, le passò davanti in disordinata sequenza per poi condensarsi in un reticolo di sensazioni dentro cui si rese conto di essere immersa. Un brivido di vitalità le salì su per la schiena e si propagò in ogni altra parte del suo corpo. Cominciò a sentirsi partecipe di tutto quello che le stava intorno, di tutto ciò che riusciva a scorgere sino all’orizzonte, ma anche di tutto quello che si trovava oltre questo e che i suoi occhi (ma non la sua anima) non arrivavano a cogliere. Si rese conto che quella musica, cui attribuiva l’effetto che stava sperimentando, non aveva in realtà creato nulla di nuovo ma semplicemente aperto un varco nella sua interiorità. Un’interiorità non euclidea, dove per ogni punto esterno a una retta possono passare infinite parallele oppure nessuna, dove l’importante non è tanto effettuare misurazioni quanto piuttosto saper navigare nel modo migliore possibile uno spazio disseminato di protuberanze, avvallamenti e ondulazioni.

Accostò la macchina al marciapiede, aprì lo sportellino del cruscotto e con un gesto quasi automatico tirò fuori l’itinerario del viaggio sino a quel momento effettuato. Nell’esaminarlo Olivia si rese conto di prestare per la prima volta attenzione non tanto alla linearità del percorso seguito, quanto piuttosto alla profondità delle impronte lasciate sul suo cuore dai passi di altri viaggiatori incrociati durante il cammino.

Si stupì del fatto che quella mappa, che lei aveva affidato a un pezzo di carta che ricordava integro e illeso, contenesse in realtà i segni di ogni incontro vissuto, degli anni passati, delle vittorie e delle sconfitte sperimentate, dei doni offerti e di quelli ricevuti.

Le venne in mente quell’abbraccio incompiuto, un semplice ‘se’, un condizionale senza implicazioni, eppure così reale e attuale come l’aria che anche in quel momento entrava e usciva dai suoi polmoni, come l’acqua che lava via ogni impurità.

Assaporò l’immanenza di quella distanza che, nonostante la sua invalicabilità, la faceva sentire così prossima e vista e accolta. Si promise di custodirla con cura in un angolo di sé di cui non era fondamentale conoscere l’ampiezza.

Gettò via righello e squadra, salutò con affetto e un pizzico di nostalgia quei due mondi nei quali si era per tanto tempo divisa, vendette a un prezzo stracciato la sua collezione di obiettivi e rinunciò (senza troppa fatica) a fare ulteriori progressi nel campo dell’edilizia.

Semplicemente, indossò un berretto da marinaio a strisce bianche e blu e si mise curiosa al timone della sua vita.

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia

Lascia i tuoi commenti su cosa ti ha evocato leggere questo pezzo: emozioni o idee

Cambiamento nel trattamento psichiatrico: revisione del ruolo della serotonina

Su Journal of Psychopharmacology (2017) è stata pubblicata una ricerca che integra le evidenze già presenti sul ruolo della serotonina con quelle più recenti, per creare un nuovo modello bipartito, ovvero analizzando le due vie principali della trasmissione serotoninergica.

 

Il ruolo della serotonina nella regolazione dell’umore e dello stress

Da anni i ricercatori in ambito psicofarmacologico hanno cercato di identificare, senza successo, una teoria unitaria sul ruolo di un neurotrasmettitore fondamentale per regolare l’umore e lo stress: la serotonina. Nonostante la sua rilevanza nella comunicazione neurale, non esistono ancora modelli totalmente esplicativi della sua funzione.

Alla luce di ciò, su Journal of Psychopharmacology (2017) è stata pubblicata una ricerca che integra le evidenze già presenti a riguardo con quelle più recenti, per creare un nuovo modello bipartito, ovvero analizzando le due vie principali della trasmissione serotoninergica.
La serotonina, infatti, agisce su 14 tipi di recettori ma le sostanze antidepressive, antipsicotiche e psichedeliche si legano in particolare ai recettori 1A e 2A.

Come trattamento per pazienti depressi di solito vengono somministrati i cosiddetti farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRIs), i quali aumentano i livelli di serotonina a livello dei recettori 1A riducendo i sintomi depressivi. Questi sono considerati parte di un circuito di “coping passivo”, con la funzione di intervenire sulla tolleranza dello stress. Le sostanze psichedeliche come LSD, invece, agiscono sui recettori 2A partecipando a un “coping attivo” che consente di affrontare direttamente una fonte stressogena. Inoltre, la letteratura suggerisce prove a favore di un trattamento per i disturbi mentali la cui efficacia deriva dall’integrazione tra l’azione del farmaco sui recettori 2A e la psicoterapia.

Le nuove scoperte nell’ambito della psicofarmacologia

A differenza di quanto avvenuto in precedenza, gli autori dello studio ritengono che sia necessario spostare il focus del trattamento farmacologico sui recettori 2A, sopratutto per casi particolarmente gravi. In questo modo i pazienti diventerebbero più sensibili al proprio ambiente attraverso il miglioramento della loro adattabilità a situazioni stressanti.

Dunque, il circuito che coinvolge i recettori 1A consente di ottenere maggiore resilienza, mentre il circuito con i recettori 2A è utile nel determinare un cambiamento rapido a livello comportamentale. Quest’ultimo è richiesto soprattutto per pazienti depressi resistenti al trattamento, ossessivi-compulsivi o dipendenti da droghe, poiché l’attivazione dei recettori 2A interromperebbe il circolo che determina la pervasività e disfunzionalità dei sintomi, offrendo anche maggiore compliance a livello psicoterapeutico.

In conclusione, nuovi modelli serotoninergici potrebbero determinare un cambiamento della cura psichiatrica modificando il modo di pensare e di comportarsi dei pazienti. D’altra parte, come afferma il Dr. Carhart- Harris, in psichiatria non esistono cose o bianche o nere, quindi è necessario promuovere un modello di salute mentale che non sia costituito solo da farmaci o solo dalla psicoterapia ma da entrambi.

Manuale di psicopatologia perinatale. Profili psicopatologici e modalità di intervento (2016) – Recensione

Il Manuale di psicopatologia perinatale è scritto a più mani e ciascun autore, esperto di perinatalità, fornisce il proprio contributo psicologico, medico e giuridico rispetto a diverse questioni che riguardano appunto il periodo della perinatalità.

 

La maternità è un’esperienza di vita complessa che comporta una serie di modificazioni non solo nella donna, ma anche nel partner e nella coppia. Si tratta di un’esperienza spesso faticosa e impegnativa, caratterizzata da responsabilità, difficoltà e nuovi ruoli.

Sebbene spesso la maternità venga dipinta con volti sempre felici e sorridenti, sottintendendo che non si possa non essere entusiasti quando arriva un bimbo in famiglia, la realtà alle volte è molto lontana da tali pregiudizi e stereotipi culturali e informare le mamme del fatto che se non si sentono sempre contente di essere madri non significa essere delle “cattive madri”, è un passo fondamentale.

Manuale di psicopatologia perinatale: una visione globale al periodo della perinatalità

Il Manuale di psicopatologia perinatale è scritto a più mani e ciascun autore, esperto di perinatalità, fornisce il proprio contributo psicologico, medico e giuridico rispetto a diverse questioni che riguardano appunto il periodo della perinatalità.

Nella prima parte del libro, viene fornita una panoramica descrittiva delle patologie psichiatriche che possono insorgere durante la gravidanza e il post-partum, i fattori epidemiologici, i principali fattori di rischio, le conseguenze sulla salute della madre e del bambino e le possibilità di intervento più efficaci.

Sebbene sia il DSM-5 che l’ICD-10 facciano riferimento solo alla depressione come disturbo con esordio nel peripartum, gli studiosi sono ormai concordi nel dire che la depressione non è affatto l’unico disturbo che può insorgere in tale periodo. I disturbi dell’umore possono includere il Baby Blues, la depressione e il disturbo bipolare; i disturbi d’ansia più frequenti che si possono riscontrare sono il disturbo ossessivo compulsivo (caratterizzato dalle ossessioni della contaminazione o da quelle di poter fare del male al bambino), il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo da stress post-traumatico (a volte il parto può essere vissuto come un’esperienza traumatica) e la tocofobia, ossia la paura del parto. Con minore frequenza possono presentarsi disturbi psicotici e deliranti, che possono mettere ad alto rischio l’incolumità sia della madre che del bambino. In comorbidità possono, inoltre, presentarsi anche disturbi del comportamento alimentare o disturbi da uso di sostanze.

Le patologie psichiatriche in epoca perinatale possono comportare importanti effetti sulla salute della madre e del bambino e sullo sviluppo del bambino e in alcuni casi possono presentarsi casi di suicidio o infanticidio (Oates, 2003). I figli di madri con disturbi psichiatrici sono a rischio di neglect o di cure inadeguate e possono sviluppare disturbi psichici durante l’infanzia e l’adolescenza.

Dopo aver descritto le principali patologie psichiatriche perinatali, i fattori di rischio e gli effetti che possono avere sulla mamma e sul bambino, vengono descritte nel libro Manuale di psicopatologia perinatale altre situazioni possibili, tra cui il diniego della gravidanza, il suicidio della madre e il neonaticidio. Il diniego della gravidanza si verifica quando le madri non riconoscono il loro stato di gravidanza, manca il processo di consapevolezza della stessa e ciò può comportare seri rischi per la salute di entrambi, tra cui l’assenza di cure per il neonato, la messa in atto di comportamenti pericolosi, i maltrattamenti e perfino il neonaticidio. Le donne che presentano diniego della gravidanza sono spesso giovani, single, primipare, studentesse e vivono ancora con i genitori.

Il suicidio materno, pur essendo piuttosto raro, costituisce comunque un fenomeno piuttosto grave ed è una delle prime cause di morte per le donne durante la gravidanza e il primo anno del post partum in alcuni Paesi, come Nuova Zelanda, Regno Unito, Stati Uniti e Australia. Per questo, è importante indagare il rischio di suicidio materno già in gravidanza, ponendo domande alle donne rispetto alla possibile presenza di pensieri suicidari, al’ipotetica pianificazione e approfondire anche la presenza di fattori di rischio e protettivi, lo stato mentale della donna, la familiarità per il suicidio, precedenti tentativi di suicidio, la rete di supporto. Le donne che più frequentemente commettono il suicidio hanno precedenti esperienze di ospedalizzazione, presentano disturbi psichiatrici, sono più mature e multipare.

Il neonaticidio è, purtroppo, un altro tema difficile da affrontare, di cui si parla nel Manuale di psicopatologia perinatale. Esso consiste nell’uccisione del bambino subito dopo il parto e generalmente il figlio non è desiderato dalla madre. Si parla di infanticidio, invece, se l’uccisione avviene entro un anno di vita del bambino e di figlicidio se avviene dal primo anno di vita in poi. Vengono di seguito forniti nel testo i principali fattori di rischio, tra cui la presenza di sintomi psicotici o di patologie psichiatriche, la familiarità psichiatrica, l’abuso di sostanze, la gravidanza non desiderata, l’aver vissuto abusi o violenze nell’infanzia, lo status socio-economico basso, l’isolamento, ecc. In alcuni casi il neonaticidio è seguito dal suicidio della madre. In questi casi è molto importante la prevenzione e il riconoscimento precoce di tali situazioni a rischio, in modo tale da poter intervenire tempestivamente.

Successivamente, il Manuale di psicopatologia perinatale lascia spazio alle situazioni in cui sono presenti disturbi alimentari nelle donne o disturbi da uso di sostanze, sottolineando i possibili rischi che questi possono avere sul bambino e descrivendo le possibili modalità di intervento più adeguate in queste situazioni.

Segue il capitolo in cui vengono fornite indicazioni sugli psicofarmaci che si possono utilizzare in gravidanza e nel post-partum a seconda della diagnosi psichiatrica della mamma. La ricerca ha, infatti, dimostrato come vi siano farmaci che comportano pochi rischi per il bambino e la mancanza di una terapia farmacologica in alcuni casi può risultare devastante sia per la madre che il bambino.

Manuale di psicopatologia perinatale: il ruolo del padre

Infine, l’ultimo capitolo del Manuale di psicopatologia perinatale viene dedicato ai disturbi affettivi nei padri. Si sostiene, infatti, che, sebbene la ricerca abbia spesso dato spazio al ruolo fondamentale della madre per lo sviluppo del bambino, anche il ruolo del padre stia diventando sempre più rilevante. In particolare, nel periodo perinatale il padre svolge una funzione di base sicura per la compagna, la aiuta a superare le difficoltà e a creare una buona relazione con il bambino. In alcuni casi, il padre può soffrire degli stessi disturbi affettivi della madre e possono mostrarsi anch’essi depressi, ansiosi, ipocondriaci o presentare problemi di alcolismo o altre dipendenze. Questo può costituire una minaccia sia per la compagna che per il bambino; per questo sono importanti interventi di prevenzione o trattamento che considerino l’intero sistema familiare.

La maternità, dunque, non rappresenta sempre un periodo completamente felice della vita della donna e della coppia e informare tutto il personale medico (ginecologi, ostetriche, pediatri, medici, psicologi) delle possibili manifestazioni patologiche che possono insorgere nel periodo perinatale può essere un modo efficace per prevenire o trattare tempestivamente possibili disturbi psichiatrici o eventi negativi.

Maschi in difficoltà. Perché il digitale crea sempre più problemi alla nuova generazione e come aiutarla – Recensione

Maschi in difficoltà. L’autore descrive in una serie di capitoli una vera e propria sintomatologia volta ad identificare il periodo che si trova ad esperire il cosiddetto giovane maschio in difficoltà. Innanzitutto mette in evidenza che, rispetto agli anni addietro, la scuola sta perdendo autorevolezza e ciò fa sì che i giovani di oggi non si impegnino adeguatamente nello studio e che siano poco motivati da un’eventuale posizione lavorativa da raggiungere in futuro. A ciò si affianca il fatto che le donne paiono riuscire meglio nello studio e nella carriera, soppiantando così le posizioni che un tempo erano rivestite dagli uomini.

 

Maschi in difficoltà: un libro di Zimbardo

Mai giudicare un libro dalla copertina, ma una cosa che inevitabilmente salta all’occhio trovandosi tra le mani questo libro è l’autore.
Zimbardo, il celebre psicologo famoso per il suo esperimento della prigione di Stanford che inscenando un contesto di realtà virtuale vide i suoi attori, in questo caso subordinati e aguzzini, invischiati in un vero e proprio “carcere della mente”.

Quarant’anni fa, a seguito di questo studio, Zimbardo evidenziò che un contesto non reale ma ben costruito riesce in qualche modo a plasmare l’individuo, determinando in lui condotte non costruttive.

Con quest’ultimo libro l’autore non si allontana dall’argomento, anzi lo sostiene e conferma le sue ipotesi adattandole al contesto in cui si trovano a vivere i giovani di oggi: un contesto in cui dominano una serie di strumenti virtuali, i quali allontanano l’individuo dalla “normale” vita quotidiana.

Ma perché il libro si intitola “ Maschi in difficoltà ”? perché “Maschi” e non semplicemente “Ragazzi”?

Zimbardo si rivolge esclusivamente all’universo maschile per una serie di motivi ben precisi. Motivi che vengono ben esplicati nella prima parte del libro.

I maschi in difficoltà di oggi: chi sono e perchè sono in difficoltà

L’autore descrive in una serie di capitoli una vera e propria sintomatologia volta ad identificare il periodo che si trova ad esperire il cosiddetto giovane maschio in difficoltà.

Innanzitutto mette in evidenza che, rispetto agli anni addietro, la scuola sta perdendo autorevolezza e ciò fa sì che i giovani di oggi non si impegnino adeguatamente nello studio e che siano poco motivati da un’eventuale posizione lavorativa da raggiungere in futuro. A ciò si affianca il fatto che le donne paiono riuscire meglio nello studio e nella carriera, soppiantando così le posizioni che un tempo erano rivestite dagli uomini.

Zimbardo ci tiene a porre l’accento sulla questione relativa alla timidezza che caratterizza il giovane di oggi. Pare infatti che nel periodo odierno i ragazzi si sentano molto inadeguati, soprattutto se debbono rapportarsi ai propri coetanei o a delle ragazze che suscitano loro interesse. Causa di ciò potrebbe essere il potere che hanno i media nel proporre sempre ideali di bellezza e adeguatezza basati su quella perfezione che non esiste. Ed è impossibile sfuggire all’influenza dei media in un’epoca dove questi strumenti dominano la scena.

Per cui i ragazzi tendono a chiudersi in se stessi, rifugiandosi nell’eccessivo utilizzo di internet e dei video games.
Naturalmente viviamo in una società dove la tecnologia ha in un certo senso monopolizzato il mondo, e risulta per cui difficile non esserne coinvolti. Ma sembrerebbe che l’adolescente maschio sia particolarmente attratto dai videogiochi e dalla pornografia, strumenti che danno un senso di potere e di controllo, oltre che fornire una gratificazione immediata. È ciò non è cosa da poco, visto che i giovani in questione si dichiarano timidi e impacciati nelle relazioni, con conseguente calo dell’autostima.

Maschi in difficoltà: impegnati nel mondo digitale e non in quello reale

Ma perché si è arrivati ad una condizione del genere? Come mai i giovani maschi di oggi sono tanto legati al digitale ed hanno tutta questa difficoltà nel rapportarsi al mondo reale?

Zimbardo dà la risposta a questa domanda nella seconda parte del libro, dove esplica le cause di questi disagi.
È da asserire che i ragazzi non sono particolarmente cambiati in questi ultimi anni, ma sono pesantemente mutate le condizioni e gli ambienti in cui i giovani si ritrovano: la famiglia, il gruppo di pari, la scuola, il mondo del lavoro.

Le famiglie divorziate sono in costante aumento e ciò fa sì che i giovani di oggi si ritrovino con dei padri assenti.
Anche i cambiamenti che hanno caratterizzato il sistema scolastico, rendendolo meno autorevole e fin troppo permissivo, ha contribuito a far sì che le relazioni di qualità con gli adulti scarseggino; i ragazzi sembrano non trovare figure di riferimento né nei propri genitori tantomeno negli insegnanti.
I cambiamenti situazionali non facilitano la situazione, in quanto mettono il giovane di fronte a delle prospettive lavorative incerte e poco appaganti, gratificazione che ancora una volta viene compensata con l’utilizzo di internet e dei videogiochi.

A ciò va ad aggiungersi la cosiddetta “ascesa delle donne”.
Le donne hanno conquistato molti diritti rispetto agli anni passati, riuscendo di conseguenza ad affermarsi lavorativamente e non, conquistando un’indipendenza che permette loro di vivere senza necessariamente avere un uomo al proprio fianco. Ciò rende ancora più difficile da parte degli uomini relazionarsi a loro e costruirci le basi per una relazione stabile.
Insomma Zimbardo descrive ciò che è la realtà di adesso: la realtà virtuale in cui si trovano a vivere i giovani maschi di oggi. Una condizione che in qualche modo li condanna ad un isolamento e ad un rifugiarsi in un mondo tutto loro in cui troverebbero le corrette gratificazioni.
Ma è possibile intervenire al fine di migliorare la coesione sociale ed il corretto approccio alla vita dei giovani oggi?

Come risolvere la situazione?

La terza parte del libro espone le possibili soluzioni al problema.
E con il giusto ottimismo Zimbardo riconosce il ruolo del governo, della famiglia, della scuola e dei media, tutti strumenti in grado di porre rimedio alle conseguenze negative della tecnologia.
E in conclusione è possibile fare una considerazione: l’ossessione per la tecnologia sta crescendo in tutto il mondo, ma ciò non deve destare preoccupazione. Il rimedio alle cattive condotte vi è e sarà per cui fondamentale comprendere sia le conseguenze negative sia le potenzialità positive della tecnologia, in modo che le future generazioni possano usarle con maggior responsabilità.

cancel