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Mindful-eating: una metodologia innovativa per regolare il rapporto con il cibo – Recensione

Il libro ” Mindful Eating ” come dice la stessa autrice, Teresa Montesarchio, non è stato scritto per essere un libro di auto aiuto, ne tanto meno vuole sostituirsi ad un percorso psicoterapico mirato alla risoluzione di una disfunzione del comportamento alimentare conclamata. Bensì rappresenta una guida verso il viaggio del cambiamento alimentare orientato al COME mangiamo piuttosto che al COSA mangiamo.

 

Mindful Eating: mangiare con consapevolezza

Attraverso una serie di esercizi orientati a riprendere contatto con noi stessi, ci guida in un cammino verso la consapevolezza del qui ed ora, dei nostri effettivi bisogni legati al cibo, e del modo in cui stiamo e percepiamo noi stessi.

Il cambio di prospettiva è visibile fin da subito, l’autrice propone di compilare un diario alimentare con l’invito ad osservare il MODO in cui mangiamo e non solo COSA mangiamo. Quando si ha a che fare con l’alimentazione incontrollata, sia nella pratica clinica che nella vita, la teoria, il cosa dovremmo mangiare, è ben chiaro e presente, ma il come spesso passa in secondo piano. L’invito è quello di osservare e annotare senza giudizio le nostre abitudini alimentari. Osservare senza giudizio ciò che accade in questo momento, prestare attenzione al presente in maniera curiosa, aperta e non giudicante sono i principi alla base di uno stile mindful.

Dall’annotare le abitudini alimentari, la Dr.ssa Montesarchio nel libro Mindful Eating ci guida verso il riconoscimento del nostro pilota automatico, quella funzione utile alla nostra mente quando dobbiamo fare più cose a tempo (guidare e parlare con il nostro compagno di viaggio) ma che spesso porta la nostra mente distante, lontano dall’azione che stiamo facendo anche quando non avremmo bisogno.

Guidandoci attraverso la respirazione consapevole e invitandoci a metterla in pratica quotidianamente, arriviamo ad osservare la nostra smania di cibo come un’onda che possiamo cavalcare invece che affrontarla con l’idea di abbatterla. Nel caso dell’alimentazione incontrollata spesse volte è presente una lotta verso il desiderio di cibo, cerchiamo di scacciarlo, di abbatterlo ma difficilmente proviamo a passarci attraverso, ad aspettare senza agire guardando ciò che succede. Ed è questo l’inghippo dell’urgenza, attivarsi per risolverla immediatamente non ci consente di notare che come arriva e aumenta, allo stesso modo decresce e poi se ne va. Lo stesso accade per la smania di cibo. Ma soprattutto abbiamo realmente fame? Di cosa realmente abbiamo fame?

Mindful eating: alla scoperta di diversi tipi di fame

Seguendo la via della consapevolezza la nostra guida ci porta alla scoperta dei 9 tipi di fame che ognuno di noi incontra. Ci invita ad esplorare il cibo non solo con il gusto ma anche con la vista, l’olfatto, il tatto, e l’udito. Prestiamo attenzione e notiamo cosa accade dentro di noi quando esploriamo il cibo con gli occhi, le dita, la bocca, cosa sentiamo con il nostro naso e anche che rumore fa se ci soffermiamo sulla percezione delle nostre orecchie.

Dopo questo invito a rallentare, e concentrarci su cosa proviamo durante l’esperienza del pasto, veniamo guidati verso la distinzione tra sazietà e pienezza e quindi tra fame cellulare e fame dello stomaco. Imparando che la sazietà dipende dalla qualità dei nutrienti e la pienezza dalla quantità di materia presente nel nostro stomaco, impareremo a riconoscere di esser sazi senza per forza sentirci pieni. Il nostro cammino prosegue poi attraverso la fame della mente, proveremo a guardare determinati tipi di cibo non più come un’ossessione proibita, ma come un’esperienza che sta attraversando la nostra mente, e in modo privo di giudizio la nostra guida ci invita a farci delle domande su questo, come per esempio che gusto ha, se quell’ alimento va bene per il nostro tipo di fame, oppure se ci conduce verso la via della felicità.

Per ultima ma non per importanza arriviamo alla fame del cuore. Le emozioni che proviamo hanno dei segnali somatici che spesso confondiamo con segnali di natura più organica come la fame ad esempio. Oppure ancora emozioni spiacevoli, tristezza, senso di vuoto, che cerchiamo di colmare con il cibo, oppure ansia che cerchiamo di gestire controllando ciò che mangiamo. In questo viaggio del COME la nostra guida ci invita ancora una volta a sederci, a rallentare, a prendere contatto con il momento presente attraverso il nostro respiro, ed esercitarci nella pratica meditativa quando sentiamo l’esigenza di fare uno snack per vedere quale emozione ci sta guidando e se possiamo trovare altre valide alternative per soddisfarla.

Il concetto di immagine corporea nel libro Mindful Eating

Fra le ultime tappe si prende in esame il concetto di Immagine corporea, l’importanza che viene data ai giudizi esterni per definire il nostro corpo piacevole oppure no, e quanto questo continuo paragone non faccia altro che indurre ed aumentare l’emozione di vergogna che proviamo verso il nostro corpo. Accade spesso nei casi di difficoltà legate alla sfera alimentare che il corpo e la forma corporea diventino il mezzo per definire il valore personale, e i parametri valutativi sono parametri esterni che costantemente si sente il bisogno di monitorare, in quest’ottica qualsiasi feedback esterno che non va verso una conferma del nostro valore corporeo rischia di diventare una profonda ferita curata con il controllo del cibo. Il viaggio che pertanto viene suggerito va verso qualcosa di soggettivo ed interno piuttosto che di oggettivo ed esterno. Riprendere contatto con il proprio corpo attraverso l’unione di questo alla propria mente. E per farlo si può trovare nella guida una serie di esercizi di Yoga che praticati quotidianamente in associazione ad una buona pratica sul respiro chiudono questo viaggio, invitando a ripeterlo per connettersi sempre più a ciò che sentiamo e siamo in maniera priva di giudizio.

Coltivare la gratitudine

Si prosegue nel libro Mindful Eating con un invito a coltivare il sentimento di gratitudine, che come spiega l’autrice citando Emmons, ci consente di percepire quanto in realtà siamo supportati dal mondo esterno e quanto di buono in noi e attorno a noi ci sia nonostante le difficoltà che possiamo incontrare. Esercitarci nell’essere grati ci porta ad avere un cambio di prospettiva verso il mondo, che da ostile diviene via via sempre più benevolo e richiede il riconoscere che qualcosa di nuovo sta accadendo in questo momento. Provando ad esercitarci tenendo un diario della gratitudine veniamo poi guidati attraverso un esercizio di consapevolezza corporea per prendere contatto con il nostro corpo e per essere grati di quanto ci è stato donato e fare qualcosa di concreto prendendosi cura di lui per valorizzarlo.
Il viaggio è iniziato con il prendere nota delle nostre abitudini in un diario e si conclude con il suggerimento di provare a ricompilarlo per vedere come l’esperienza è cambiata invitando a ripeterla nell’ottica che qualsiasi cosa sia accaduta va bene così com’è in quanto frutto dell’esperienza che stiamo vivendo.

Una guida che tutti noi possiamo decidere di provare a seguire, in maniera curiosa notando ciò che accade guardando al come piuttosto che al cosa facciamo e mangiamo.

La psicopatia immunizza dal contagio della risata?

Psicopatia e contagio della risata: uno studio pubblicato su Current Biology si è posto l’obiettivo di indagare come i ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia elaborino le emozioni alla base dell’affiliazione sociale, come quelle associate alla risata.

 

La psicopatia e la mancanza di contagio della risata

Gli esseri umani sono animali sociali che tendono a creare legami affettivi duraturi (Boyd & Richerson, 2009). Tuttavia, esiste una minoranza di persone che presentano tratti di personalità psicopatici, ovvero comportamenti violenti e antisociali, che non consentono la formazione di rapporti basati sulla reciprocità e risonanza emotiva tra le persone. Riguardo ai processi neurali sottostanti all’affiliazione sociale atipica, si conosce ancora poco.

Uno dei fattori che promuove l’affiliazione e la coesione sociale è la risata umana, che attiva aree cerebrali coinvolte nella risonanza emotiva (McGettigan, Walsh, Jessop, Agnew, Sauter, Warren, & Scott, 2015; Scott, Lavan, Chen, & McGettigan, 2014; Szameitat, D.P., Kreifelts, B., Alter, K., Szameitat, Sterr, Grodd, & Wildgruber, 2010). Per la maggior parte delle persone, infatti, la risata è talmente contagiosa che è impossibile sentire o vedere qualcuno ridere senza avvertire la necessità di ridere a propria volta. Ciò, però, non risulta altrettanto vero per i bambini o ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia. In risposta alla risata il loro cervello evidenzia una ridotta attivazione delle aree implicate nella condivisione e nella risonanza emotiva con l’altro.

Studi precedenti si sono focalizzati su come avvenisse l’elaborazione delle emozioni negative nei soggetti con tratti psicopatici e come questa potesse spiegare la loro aggressività, lasciando meno spazio all’analisi dell’incapacità di formare legami affettivi.

Alla luce di quanto riportato, uno studio pubblicato su Current Biology si è posto l’obiettivo di indagare come i ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia elaborino le emozioni alla base dell’affiliazione sociale, come quelle associate alla risata.

I partecipanti alla ricerca sono 62 ragazzi tra gli 11 e i 16 anni con comportamenti dirompenti, con o senza tratti anaffettivi, e 30 soggetti di controllo. I gruppi sono bilanciati per abilità, etnia, dominanza manuale e contesto socioeconomico. Ogni partecipante viene monitorato attraverso risonanza magnetica funzionale (fMRI) mentre ascolta risate spontanee, risate artificiose o suoni che riproducono il pianto. Successivamente ciascuno deve indicare, attraverso un punteggio da 1 a 7, quanto ascoltare quei suoni generi in lui un’emozione e se questa sia genuina.

I risultati evidenziano che i soggetti con comportamenti dirompenti in combinazione con alti livelli di anaffettività non mostrano il contagio della risata, a differenza del gruppo di controllo e dei soggetti psicopatici ma con bassi livelli di anaffettività.

In particolare, l’attivazione cerebrale in risposta alla risata è ridotta nell’insula anteriore e nell’area motoria supplementare, a conferma del coinvolgimento delle zone implicate nella risonanza emotiva. E’ difficile comprendere se la riduzione dell’attivazione cerebrale in queste aree sia causa o conseguenza dei comportamenti dirompenti; dunque, studi futuri dovrebbero concentrarsi su come i segnali sociali di affiliazione siano elaborati da coloro che sono a rischio di sviluppare psicopatia o affetti da disturbo di personalità antisociale. Si potrebbe iniziare dall’indagine di fenomeni con funzione analoga alla risata, come volti sorridenti o parole d’incoraggiamento, valutando anche a che età iniziano a manifestarsi differenze tra gruppo sperimentale e di controllo. Il fatto che i ragazzi a rischio di psicopatia non provino emozioni in risposta a segnali sociali riguardanti il benessere o il dolore altrui, non significa che essi siano destinati a diventare antisociali o pericolosi, ma possono spiegare perché compiono scelte diverse dai loro pari.

Una comprensione esaustiva sul comportamento prosociale di ragazzi a rischio di sviluppare psicopatia è fondamentale, non solo per migliorare gli attuali trattamenti dei pazienti ma anche per fornire supporto alle loro famiglie.

I neurotrasmettitori: che cosa sono e le diverse tipologie – Introduzione alla Psicologia

I neurotrasmettitori sono delle sostanze fisiologiche che consentono la trasmissione degli impulsi nervosi tra due regioni anatomicamente separate e poste in collegamento da sinapsi, o da fibre nervose, o da nervi e fibre muscolari presenti nelle placche motrici. All’interno del sistema nervoso, i neurotrasmettitori svolgono un ruolo essenziale nella trasmissione degli impulsi di tipo eccitatorio o inibitorio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Cosa sono i neurotrasmettitori

I neurotrasmettitori sono delle sostanze liberate dai neuroni a livello sinaptico ed espletano la propria funzione su un neurone o un organo effettore. Essi sono sintetizzati nel neurone e si trovano nella terminazione sinaptica; sono liberati in quantità sufficiente per esercitare l’azione eccitatoria su un neurone postsinaptico

Sono, dunque, prodotti dalla cellula trasmittente (presinaptica) ed immessi nello spazio che la divide dalla cellula ricevente (postsinaptica) del sistema nervoso; aderiscono alla membrana della cellula ricevente e ne trasmettono le informazioni. Successivamente, si staccano dalla membrana e sono distrutti o riassorbiti dalla cellula trasmittente.

I neurotrasmettitori sono prodotti utilizzando gli aminoacidi, all’interno della cellula presinaptica, tramite il reticolo endoplasmatico e l’apparato del golgi e sono immagazzinati nelle vescicole che vagano nel citosol della cellula nervosa. Al sopraggiungere dell’impulso nervoso, le vescicole si fondono con la membrana cellulare, liberando i neurotrasmettitori nella fessura sinaptica.

I neurotrasmettitori sono captati da specifici recettori, canali ionici, posti sulla membrana della cellula postsinaptica. L’interazione fra i neurotrasmettitori e il recettore/canale ionico scatena una risposta eccitatoria o inibitoria nel neurone post-sinaptico.

Il segnale chimico trasportato dai neurotrasmettitori è tradotto in segnale elettrico e quindi, dopo aver svolto la propria funzione, i neurotrasmettitori sono rimossi dai recettori. Tale processo è chiamato ricaptazione e vede il loro riassorbimento, ad opera della cellula presinaptica, che li distruggerà nel citosol o li reintegrerà nelle vescicole. Senza la ricaptazione, i neurotrasmettitori potrebbero continuare a stimolare o deprimere il neurone post-sinaptico.

Tipi di neurotrasmettitori

In relazione al tipo di risposta prodotta, i neurotrasmettitori possono essere eccitatori, inibitori o soppressori, quindi possono rispettivamente promuovere la creazione di un impulso nervoso nel neurone ricevente o inibire l’impulso stesso.

Inoltre, sulla base della dimensione, i neurotrasmettitori possono essere distinti in neuropeptidi e piccole molecole. I neuropeptidi comprendono dai 3 ai 36 amminoacidi, mentre nel gruppo delle piccole molecole ci sono amminoacidi singoli, come il glutammato ed il gaba e i neurotrasmettitori come l’acetilcolina, la serotonina e l’istamina. I due gruppi di neurotrasmettitori presentano anche modalità di sintesi e rilascio differenti.

Sostanzialmente, esistono due gruppi di neurotrasmettitori sinaptici: quello costituito da trasmettitori a basso peso molecolare a rapida azione e il gruppo dei neuropeptidi di dimensioni maggiori ad azione più lenta.

Il primo gruppo è composto da neurotrasmettitori responsabili della maggior parte delle risposte rilasciate dal sistema nervoso, come la trasmissione di segnali sensoriali al cervello e di comandi motori ai muscoli. I neurotrasmettitori a basso peso molecolare sono sintetizzati nel citosol della terminazione presinaptica e, successivamente, mediante trasporto attivo, sono assorbiti all’interno delle numerose vescicole presenti nel terminale sinaptico. Quando un segnale giunge al terminale sinaptico, poche vescicole alla volta liberano il loro neurotrasmettitore nella fessura sinaptica. Tale processo avviene in genere nell’arco di un millisecondo.

I neuropeptidi, invece, sono implicati negli effetti più prolungati, come le modificazioni a lungo termine del numero di recettori e la chiusura o l’apertura prolungata di alcuni canali ionici. I neuropeptidi sono sintetizzati come parti di grosse molecole proteiche dai ribosomi del soma neuronale.

Tali proteine sono trasportate all’interno del reticolo endoplasmatico e quindi all’interno dell’apparato del Golgi, dove la proteina da cui originerà il neuropeptide è scissa enzimaticamente in frammenti più piccoli, alcuni dei quali costituiscono il neuropeptide o un suo precursore e successivamente, l’apparato del Golgi impacchetta il neuropeptide in piccole vescicole che si generano da esso. Grazie al flusso assonale le vescicole sono trasportate alle estremità delle terminazioni nervose, pronte per essere liberate nel terminale nervoso all’arrivo di un potenziale d’azione.

Tra i neurotrasmettitori a basso peso molecolare ritroviamo la acetilcolina, le amine biogene (dopamina, adrenalina e noradrenalina), l’istamina, gli aminoacidi (gaba, glicina e il glutammato) e l’atp.

Tra i neuropeptidi vi sono gli oppioidi, gli ormoni neuroipofisari, le tachichinine, le secretine, l’insulina, le somatostatine e le gastrine.

Neurotrasmettitori a basso peso molecolare

Esistono 9 sostanze a basso peso molecolare che sono riconosciute come neurotrasmettitori. Otto di queste sono delle amine e sette di loro sono aminoacidi o derivati di questi ultimi. La sintesi di questi neurotrasmettitori è catalizzata da enzimi presenti nel citosol.

L’acetilcolina (ACH) è il neurotrasmettitore usato dai motoneuroni del midollo spinale e di conseguenza è presente a livello di tutte le giunzioni neuromuscolari dei vertebrati. Nel sistema nervoso autonomo essa è il neurotrasmettitore di tutti i neuroni pregangliari e di quelli parasimpatici postgangliari. L’ACH è presente anche a livello di molte sinapsi cerebrali, in particolare del nucleo basale.

La molecola della acetilcolina è stata il primo neurotrasmettitore a essere individuato. È responsabile della trasmissione nervosa sia a livello del sistema nervoso centrale sia del sistema nervoso periferico. Essa è liberata dai terminali dei motoneuroni, dai neuroni pregangliari, dai neuroni postgangliari del parasimpatico ed in varie zone del sistema nervoso centrale, dove svolge un ruolo essenziale nei processi  cognitivi (alzheimer).

Esistono due categorie di recettori per l’ACH:
-recettori nicotinici, di tipo ionotropico
-recettori muscarinici, di tipo metabotropico.

Le azioni muscariniche  indotte dall’ACH generano una vasodilatazione generalizzata e una iper secrezione da parte delle ghiandole sudoripare, che sono innervate da fibre colinergiche del sistema nervoso simpatico.
Le azioni nicotiniche si verificano sui gangli dei sistemi simpatico e parasimpatico, della placca neuromuscolare dei muscoli volontari e delle terminazioni nervose dei nervi splancnici che circondano le cellule secretorie della midollare del surrene.

Neurotrasmettitori costituiti da amine biogene

Questo gruppo di sostanze comprende le catecolamine, la serotonina e anche l’istamina. I neurotrasmettitori della famiglia delle catecolamine comprendono la dopamina, la norepinefrina (noradrenalina) e l’epinefrina (adrenalina) e sono tutte sintetizzate a partire dalla tirosina.

Nel sistema nervoso centrale la norepinefrina è il neurotrasmettitore dei neuroni che hanno il corpo cellulare nel locus coreules. Numerosi neuroni serotoninergici sono localizzati lungo la linea mediana del tronco dell’encefalo in un gruppo di nuclei detti del raphe che sono implicati nel controllo dell’attenzione e in altre funzioni cognitive complesse.

L’istamina è attiva nei processi infiammatori, nel controllo dei vasi della muscolatura liscia e delle ghiandole esocrine. L’istamina è una molecola organica, e appartenente alla classe di ammine biogene, uno dei mediatori chimici dell’infiammazione ed è presente nell’ippocampo.

L’istamina consente una neurotrasmissione di tipo veloce, aumentando la conduttanza agli ioni cloro nel talamo attraverso i suoi recettori h2 o un canale ionico. I neuroni istaminaergici possono regolare ed essere regolati da altre vie neurochimiche.

L’istamina, inoltre, è un regolatore dei cicli sonno-veglia, per questo alcuni farmaci antiallergici che agiscono attraverso un meccanismo antagonista dell’istamina provocano sonnolenza.

La dopamina, invece, è un neurotrasmettitore endogeno della famiglia delle catecolammine. All’interno del cervello questa feniletilammina funziona da neurotrasmettitore tramite l’attivazione dei recettori dopaminici specifici e subrecettori. Essa è prodotta in diverse aree del cervello, tra cui la substantia nigra e l’area tegmentale ventrale. Grandi quantità si trovano nei gangli della base, soprattutto nel telencefalo, nell’accumbens, nel tubercolo olfattorio, nel nucleo centrale dell’amigdala, nell’eminenza mediana e in alcune zone della corteccia frontale.
La dopamina è un ormone rilasciato dall’ipotalamo e la sua principale funzione è inibire il rilascio di prolattina da parte del lobo anteriore dell’ipofisi. A livello gastrointestinale il suo effetto principale è l’emesi.
La dopamina può essere fornita come un farmaco che agisce sul sistema nervoso simpatico, producendo effetti come aumento della frequenza cardiaca e pressione del sangue.

L’adrenalina, o epinefrina, è stata considerata per anni il neurotrasmettitore principale del sistema nervoso simpatico, nonostante fosse noto che gli effetti della sua somministrazione erano differenti da quelli ottenuti tramite stimolazione diretta del simpatico. L’adrenalina, oltre che nella parte midollare del surrene è liberata anche a livello di sinapsi del sistema nervoso centrale, dove svolge il ruolo di neurotrasmettitore. Per questo motivo e perché è rilasciata al termine di una via riflessa, che coinvolge sia il sistema nervoso sia quello endocrino, l’adrenalina rientra tra i neurormoni.

In generale l’adrenalina, è coinvolta nella reazione “attacco e fuga”. In generale i suoi effetti sono: rilassamento gastrointestinale, dilatazione dei bronchi, aumento della frequenza cardiaca e del volume sistolico (e di conseguenza della gittata cardiaca), deviazione del flusso sanguigno verso i muscoli, il fegato, il miocardio e il cervello e aumento della glicemia.

La noradrenalina o norepinefrina è un neurotrasmettitore rilasciato dalle cellule cromaffini come ormone nel sangue, è anche un neurotrasmettitore nel sistema nervoso, dove è rilasciato dai neuroni noradrenergici durante la trasmissione sinaptica. In quanto ormone dello stress, coinvolge parti del cervello dove risiedono i controlli dell’attenzione e delle reazioni. Insieme all’epinefrina, provoca la risposta di ‘attacco o fuga’, attivando il sistema nervoso simpatico per aumentare il battito cardiaco, rilasciare energia sotto forma di glucosio dal glicogeno e aumentare il tono muscolare.

La noradrenalina è rilasciata quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. Questo è provocato dall’attivazione del locus coeruleus.
La serotonina, la dopamina e la norepinefrina hanno un ruolo importante nei meccanismi patologici che stanno alla base di alcune malattie mentali quali la schizofrenia, le forme depressive, e il morbo di Parkinson.

I neurotrasmettitori di natura aminoacida: l’acetilcolina e le amine biogene sono sostanze che non fanno parte delle comuni vie del metabolismo intermedio e sono sintetizzate soltanto in determinate cellule nervose. Al contrario esiste un gruppo di aminoacidi che sono liberati come neurotrasmettitore ma che sono costituenti cellulari universalmente diffusi. La glicina ed il glutammato sono gli aminoacidi più comuni che vengono incorporati nelle proteine di tutte le cellule.

Il glutammato monosodico è il sale di sodio dell’acido glutammico, uno dei 23 amminoacidi naturali che costituiscono le proteine. È uno degli amminoacidi più abbondanti in natura ed è possibile trovarlo nel latte, nei pomodori e nei funghi, oltre che in alcune alghe usate nella cucina giapponese. Il parmigiano è il cibo che ne contiene di più: 1,2 grammi ogni 100. A temperatura ambiente si presenta come una polvere bianca cristallina, solubile in acqua.

In natura, scoperto nel 1908 dal chimico giapponese kikunae ikeda, è un costituente della laminaria japonica (kombu), un’alga comunemente utilizzata nella cucina giapponese. È largamente utilizzato come additivo esaltatore di sapidità anche nella cucina cinese.

Il glutammato monosodico trova uso nell’industria alimentare come additivo ed è identificato dalla sigla e621. È l’ingrediente principale dei dadi da brodo e dei preparati granulari per brodo.

La glicina è sintetizzata dalla serina ed è uno dei due neurotrasmettitori degli interneuroni inibitori del midollo spinale. Essa è un amminoacido non polare. La maggior parte delle proteine è costituita da piccole quantità di glicina. Una notevole eccezione è il collagene, di cui invece costituisce circa un terzo.

Il GABA (acido gamma-amminobutirrico) viene sintetizzato a partire dal glutammato con una reazione catalizzata dell’acido-gluttammatico-decarbossilasi. Il GABA  è presente in concentrazioni elevate nel sistema nervoso centrale (ma anche nel pancreas e nella midollare del surrene).

Una classe importante di interneuroni inibitori è quella gaba-ergica. Si ritiene che il GABA  sia il principale neurotrasmettitore inibitorio di molte aree cerebrali, a livello di numerosi interneuroni inibitori e nei granuli del bulbo olfattivo. Il GABA  è anche liberato dalle cellule amacrine della retina, dalle cellule del purkinje del cervelletto e dalle cellule a canestro del cervelletto e dell’ippocampo.

ATP e adenosina: in certi tipi di sinapsi l’ ATP e i suoi prodotti di degradazione possono fungere da neurotrasmettitore. L’adenina, la guanina e i loro derivati sono delle purine. Essa si trova principalmente tra i neuroni connessioni sinaptiche con il dotto deferente e con la muscolatura cardiaca. Le vescicole sinaptiche di alcune di queste terminazioni nervose contengono molto più ATP del normale.

Smaltimento del neurotrasmettitore

Vi sono tre meccanismi diversi che consentono al tessuto nervoso di smaltire i neurotrasmettitori:
1.  la diffusione che permette l’allontanamento di tutti i neurotrasmettitori.
2.  la degradazione enzimatica impiegata soprattutto nel sistema colinergico.
3. La riassunzione dei neurotrasmettitori dalla fessura sinaptica, meccanismo più comune e funziona tramite i carrier che si legano ai neurotrasmettitori e che necessitano di ATP per agire.
La liberazione contemporanea di diverse sostanze neuroattive da parte di un neurone presinaptico e la presenza contemporanea di opportuni recettori postsinaptici consente al sistema nervoso di disporre di una gamma straordinariamente ricca di possibilità nel trasferimento d’informazioni a livello di ogni sinapsi.

Farmaci, droghe ed altre sostanze possono interferire con il funzionamento dei neurotrasmettitori. Molte sostanze stimolanti e anti-depressive alterano la trasmissione dei neurotrasmettitori. Per esempio, la cocaina blocca la ricaptazione della dopamina, consentendo di rimanere più a lungo nello spazio inter-sinaptico. In particolare, la cocaina altera i circuiti dopaminergici del nucleus accumbens, regione del cervello implicata nella spinta motivazionale e nel rafforzamento emozionale. La reserpina, impiegata inizialmente come agente anti-ipertensivo e successivamente come antipsicotico nel trattamento della schizofrenia, causa una deplezione di neurotrasmettitori mediante la rottura delle vescicole sinaptiche e la degradazione da parte delle monoammino ossidasi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Nomofobia (2017) di Salvo Orto – Recensione del libro

La parola nomofobia è composta dal prefisso abbreviato no-mobile e dal suffisso fobia, e si riferisce alla paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile.

 

Il fenomeno nomofobia

Secondo recenti ricerche, su gruppi di età eterogenea, la quasi totalità della popolazione che possiede uno smartphone non riuscirebbe a vivere serena senza di esso, e il solo pensarci genera una reazione di panico.

Quello della nomofobia sembrerebbe un meccanismo del tutto analogo a una tossicodipendenza, si ha sempre bisogno di aumentare il dosaggio spendendo sempre più tempo al telefono per esempio, oppure tenersi incollati ai social network per vedere cosa condividono i propri amici, anche nelle ore notturne, senza mai spegnere il dispositivo. Tale dipendenza morbosa allo smartphone causerebbe anche delle interferenze nella produzione della dopamina, neurotrasmettitore coinvolto nel circuito della ricompensa: ad ogni notifica o like ricevuto, il livello di dopamina s’innalza dandoci la sensazione che ci sia qualcosa di nuovo e interessante in serbo per noi. Questo ci spinge a controllare lo smartphone, con un meccanismo simile a quello che s’innesca nel giocatore d’azzardo.

Nomofobia di Salvo Orto: uno sguardo sulla società iperconnessa

Il libro Nomofobia di Salvo Orto, con una tinta di sarcasmo, analizza gli aspetti della nostra società iperconnessa, travolta dai rapidi cambiamenti tecnologici che il progresso ci mette a disposizione. Secondo l’autore basta entrare in un qualunque ristorante per vedere tali effetti: padri e madri di famiglia a tavola, pronti a fotografare qualunque cosa da condividere sul gruppo whatsapp dei cugini o sui social network, di fronte a piatti che si raffreddano solitari, e a carrozzine di bambini che piangono ignorati dai propri genitori, intenti prima a rispondere ai messaggi.

Passando dal selfie selvaggio ai nuovi stili di comunicazione, dalla Facebook-addiction alla internet dipendenza fino all’Hikikomori, l’autore di Nomofobia analizza con semplicità e chiarezza, in un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori, le problematiche legate all’uso abnorme dello smartphone e del computer, evidenziandone i rischi per la salute, e la necessità di cautela rispetto alla gestione dei cambiamenti apportati dalla tecnologia nella vita delle persone.

L’utilizzo dell’ Emotional Awareness and Therapy Expression nel trattamento della fibromialgia

L’ Emotional Awareness and Therapy Expression, ovvero la psicoterapia che incoraggia i pazienti ad affrontare le esperienze emotive relative ai traumi, ai conflitti e ai problemi di relazione è risultata utile per le persone affette da fibromialgia.

 

Nello studio clinico randomizzato eseguito dall’University of Detroit, 230 adulti con fibromialgia hanno ricevuto uno nuovo trattamento chiamato Emotional Awareness and Therapy Expression (EAET).

La Emotional Awareness and Therapy Expression si focalizza sulla consapevolezza del dolore e degli altri sintomi fibriomialgici che sono anche influenzati dalle emozioni, spiegano i ricercatori. La terapia EAET mira ad aiutare i pazienti a sperimentare ed esprimere le proprie esperienze emotive, come ad esempio la rabbia e la tristezza, ma anche la gratitudine, la compassione e il perdono, focalizzandosi anche sulle relazioni interpersonali dei pazienti.

L’intervento Emotional Awareness and Therapy Expression è stato confrontato sia con un intervento educativo, sia con l’approccio psicologico standard usato nel caso di diagnosi di fibriomialgia, ovvero la terapia cognitiva comportamentale. Sei mesi dopo la fine dei trattamenti, i pazienti sono stati valutati per la gravità e il grado del loro dolore riportato.

Fibromialgia: gli effetti dell’intervento Emotional Awareness and Therapy Expression

I pazienti che hanno ricevuto l’intervento Emotional Awareness and Therapy Expression avevano risultati migliori – riducendo la percezione del dolore diffuso, i disturbi fisici, i problemi di attenzione e di concentrazione, l’ansia e la depressione, nonché riportando emozioni più positive – rispetto ai pazienti che hanno ricevuto l’intervento educativo.

I pazienti sottoposti al nuovo trattamento EAET hanno riferito di stare “molto meglio” rispetto ai trattamenti educativi precedenti.

Un importante riscontro aggiuntivo è che la nuova terapia emozionale sembra avere avuto un vantaggio maggiore anche rispetto alla terapia cognitiva comportamentale standard nel ridurre la percezione del dolore diffuso.

Molte persone con fibromialgia hanno un trascorso di vita che crea emozioni importanti, le quali vengono spesso soppresse o evitate – ha affermato Mark A. Lumley, Ph.D., professore di psicologia – Abbiamo sviluppato e testato un approccio che cerca di aiutare le persone a superare questi problemi emotivi e di relazione riducendo i loro sintomi, piuttosto che aiutare le persone a gestire o accettare la loro fibromialgia. Anche se questo trattamento non aiuta tutte le persone affette da fibromialgia, molti pazienti hanno trovato che è molto utile, e alcuni hanno avuto miglioramenti nella loro vita e nella loro salute.

I ricercatori del Wayne State hanno collaborato con un team di ricercatori dell’Università del Michigan Medical Center guidato da David A. Williams, Ph.D., professore di anestesiologia.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PAIN.

Trauma e gravidanza: gli effetti neuro-bio-psicologici delle esperienze traumatiche nelle donne in dolce attesa – Report dal Convegno Attaccamento e Trauma

La mattina del primo giorno, dopo l’intervento di Louis Cozolino, prosegue con l’intervento di Massimo Ammaniti, psichiatra, psicanalista, professore onorario in psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza tra le altre cariche. Gli interessi clinici del Prof. Ammaniti ruotano intorno alle interazioni precoci, alle ricerche nel campo della gravidanza e dei traumi infantili.

 

Cosa accade nella mente della donna durante la gravidanza?

La relazione esposta unisce questi suoi interessi e vengono presentati infatti “gli esiti prossimali e distali dello stress e dei traumi in gravidanza”, mettendo un faro sul periodo delle madri in attesa, sulle conseguenze negative dello stress in gravidanza sullo sviluppo del feto e sulla fisiologia del parto.

Anche questa presentazione parte dal presupposto, ormai difficilmente discutibile, che il legame fra genitore e figlio garantisca la sopravvivenza e che il passo iniziale per l’apprendimento e l’acquisizione della comunicazione parta dal contatto oculare (non appena il bambino nasce). Tuttavia l’inizio dello sviluppo del contesto intersoggettivo si sviluppa ancor prima, fin dai mesi della gravidanza; è già in questo periodo che la mamma comincia ad avere in testa il proprio bambino, “a mentalizzarlo” potremmo dire.

I 9 mesi che precedono la nascita sono un momento molto particolare, denso di trasformazioni da tutti i punti di vista, che coinvolgono entrambi i genitori. Sono mesi in cui riaffiorano le memorie delle proprie esperienze precoci infantili, mesi in cui la coppia comincia una propria trasformazione e in cui avvengono cambiamenti importanti anche a livello ormonale nella madre.

Nella mente della donna emergono dei temi (se non delle vere e proprie domande) circa la sua capacità di poter essere in grado di amare il figlio, di poter essere in grado di garantirgli la sopravvivenza e di riuscire a far meglio dei propri genitori.

Domande, cioè, sul fatto se saranno o meno mamme sufficientemente buone e, sempre in termini winnicottiani, se svilupperanno “la preoccupazione materna primaria”, caratterizzata da una iperattivazione e aumentata sensibilità.

Lo stress materno

Numerosi studi riportano come al termine della gravidanza si possano registrare (più nelle madri ma anche nei padri) alcuni tipi di timori, rispetto alla salute del neonato nella maggioranza dei casi, ma anche quelli (più ossessivi) di poterlo colpire, gettare a terra o far piangere.

Evidentemente tali pensieri possono costituire, sulla base della frequenza e della durata, una fonte di distress.
La definizione di stress materno è tutt’ora un pò confusa e abbraccia fattori di tipo personale, familiare, sociale ed economico.
Tuttavia è piuttosto riconosciuto come questo sia associato e associabile a problemi emotivo comportamentali nei primi due anni di vita del bambino. I dati suggeriscono alcune ipotesi sulla trasmissione dello stress in questo arco di vita. Probabilmente un’alta concentrazione di ormoni derivanti dallo stress materno impatta sullo sviluppo cerebrale del feto.

Alcuni ricercatori hanno riportato che lo stress prenatale ha un impatto nella neurobiologia del neonato come un’attivazione più forte del cervello frontale destro.
Questo ponte tra gravidanza e neonato sottolinea l’importanza dell’interazione tra caratteristiche innate e l’esperienza relazionale con il caregiver.
L’alterazione del sistema di caregiving determina un deficit dell’asse HPA (asse ipotalamo-pituitario-surrenale) inibendo le risposte allo stress.
Studi condotti sullo stress materno in gravidanza hanno rilevato un aumento del cortisolo e dell’ormone di rilascio della corticotropina sia nella madre che nel feto.

Alcuni studi evidenziano come lo stress prenatale sia in grado di spiegare il 10/15% delle difficoltà infantili.
Questi studi suggeriscono interessanti ipotesi in merito ai meccanismi di trasmissione dello stress, presumibilmente associati a elevate concentrazioni di ormoni materni coinvolti nella risposta allo stress che possono impattare sullo sviluppo cerebrale.

Presentazione di un caso clinico

L’intervento di Ammaniti prosegue poi con un interessantissimo caso clinico, ben spiegato ed articolato per mettere insieme scienza e clinica.
È un intervento di sostegno in gravidanza di una donna al settimo mese di gravidanza, che viene chiamata Carla.

Carla ha una relazione con Giovanni, il loro rapporto è piuttosto conflittuale e la donna teme che il compagno non si possa rilevare fonte di supporto nella crescita del figlio. Giovanni è stato allevato dalla nonna e proviene da una famiglia difficile, mentre Carla ha subito abusi e molestie sessuali in infanzia e nell’adolescenza ha avuto esperienze sessuali promiscue.

A circa 20 anni riporta un aborto a seguito del quale sviluppa una depressione che viene trattata in psicoterapia.
Carla desiderava molto il figlio ma Giovanni non era pienamente d’accordo e, a causa di problemi di salute di lui, hanno optato per una procreazione assistita.

Il tono dell’umore di Carla è piuttosto deflesso e questo poteva costituire un rischio per il futuro legame con il bambino pertanto accetta di farsi seguire dal progetto di sostegno.

Carla è sesta di sei figli, racconta il rapporto con sua madre molto conflittuale e rancoroso sia in epoche infantili sia tutt’ora (per questo ha affrontato la gravidanza senza l’appoggio dei familiari). La descrive come “sempre stanca, poco presente mentalmente e nervosa”.
Esperisce un senso di solitudine e, sebbene si senta contenta della gravidanza, non ha mai avuto alcuna fantasia sul bambino né ha preparato qualcosa per il suo arrivo. Ha cominciato a sentirsi madre dai primi movimenti del feto ma non ha alcuna fantasia sul figlio “sono tremenda, non immagino nulla, mi arrabbio ma non riesco a vedere la faccia di questa creaturina”.

La gravidanza è andata avanti alla luce di molte ansie della madre sulla possibilità di non essere adeguata, o sulla possibilità che il padre non si prenda cura di lui. Carla attende il figlio come l’arrivo del “Messia” che possa illuminare la sua vita. Dal punto di vista dell’attaccamento, viene riconosciuta in Carla una relazione invischiata con sua madre.

Dopo la nascita del piccolo. Carla riferisce che è diverso da ciò che si aspettava, il bambino piange e vuole essere preso in braccio.
Il bambino nasce sottopeso e in epoca perinatale va incontro ad alcune infezioni; in questo la madre cerca di prendersi cura di lui ma esperisce un senso di inadeguatezza nel suo ruolo di caregiver e inizia pertanto a prendersi cura dell’igiene del piccolo e della casa in modo ossessivo.
Emergono qui timori di potere arrecare danno al bambino.
Durante i primi mesi, il bambino perde peso e la madre riferisce forti stati ansiosi. Non provando gioie nell’allattamento comincia l’alimentazione tramite biberon che consente al bambino di avere ritmi regolari.

A testimonianza della sua scarsa fiducia con il figlio Carla sente quasi il bisogno che il bambino pianga come indice del suo attaccamento, da una parte è totalmente dedita a lui, dall’altra mostra intolleranza.
La stessa ambivalenza che emerge anche con coloro che si occupano del suo sostegno e della sua presa in carico (capita spesso che sposti o cancelli gli appuntamenti).

Con il passare del tempo Carla riporta i primi cambiamenti positivi e diventa maggiormente capace di riconoscere i bisogni del piccolo rispetto ai suoi ritmi e questo permette al piccolo di acquisire peso.
Vorrebbe essere la madre perfetta che non ha avuto ma la vicinanza emotiva del figlio la spaventa.
La parte estremamente interessante sono le interazioni riportate in video che mostrano scene come quella dell’allattamento.
Si nota la madre che fornisce il biberon al piccolo ma è dedica molto più al controllo dei livelli corretti di latte piuttosto che al contatto oculare con lui.
Durante questi momenti delicati parla poco infatti con il figlio, d’altra parte lui sollecita gli scambi con la madre, ma tende ad evitare di guardarla nonostante a volte ne ricerchi lo sguardo.

Dal 4 al 6 mese il bambino comincia ad avere ritmi regolari e la madre appare più sollevata, questo le permette di concedere la possibilità di esplorare e sperimentare liberamente un senso agente di sé.

La coppia madre-figlio viene poi sottoposta al paradigma Still Face. Si tratta di una procedura di osservazione dell’interazione madre-bambino, creata con l’obiettivo di verificare cosa succede nel momento in cui la madre smette di interagire col figlio. Nella prima fase la madre interagisce liberamente col figlio mediante un’interazione faccia a faccia, giocando e parlando con lui. Nella seconda fase si richiede alla madre di mantenere il volto inespressivo e di non reagire a nessuna sollecitazione da parte del figlio. Nell’ultima fase la madre ritorna a giocare col bimbo, riprendendo la normale interazione col figlio.

Osservando il momento in cui il volto della madre è assente si notano i tentativi del figlio di ristabilire l’interazione con la madre. Inizialmente la guarda, le sorride, poi iniziano i vocalizzi e si protende verso di lei. Non riuscendo nei suoi tentativi il bambino cerca di regolare le sue emozioni succhiando il pollice, toccandosi le orecchie, inarcando la schiena. La prolungata assenza della madre suscita il pianto del bambino.
Tuttavia gli effetti dello stress si evidenziano al terzo step quando la madre riprende ad interagire con il bambino. Mostra infatti qualche problema nel consentire alla mamma di tranquillzzarlo. Impiega un po’ di tempo per riconnettersi al suo piccolo e l’aggancio dello sguardo risulta inizialmente faticoso.

Si comprende come il bambino abbia difficoltà a regolarsi emotivamente se non dopo numerosi tentativi e sorrisi della mamma per ristabilire la relazione.
Il punto della questione (e della relazione) è che avendo Carla affrontato la gravidanza in condizioni difficili queste hanno pesato sulla gestazione e sulla nascita del figlio. Dopo una fase difficile in cui non riesce ad entrare in sintonia con il figlio, grazie al supporto fornito, diventa mano a mano in grado di recuperare le capacità di scambio e di interazione con il piccolo.

Conclusioni: il rapporto tra attaccamento e trauma nelle donne in gravidanza

La presentazione di Ammanniti sicuramente non apporta novità in senso stretto, ma direi conferme.
La questione dell’attaccamento è ormai qualcosa che sta unendo i mondi degli psicanalisti, dei terapeuti cognitivi e di molti altri sia da un punto di vista di modelli teorici che di linguaggio.
Il suo ruolo nella formazione dei primi legami con il caregiver e l’impatto di questo nello sviluppo psicobiologico sono dati ormai piuttosto riconosciuti da tutti.
L’intervento è stato piacevolmente “clinico” permettendo di notare in modo naturale quelle che sono effettivamente le interazioni precoci in una diade con una mamma traumatizzata.

Risulta pertanto piuttosto importante essere particolarmente sensibili per questo tipo di popolazione “a rischio”.
Come è noto l’attaccamento è transgenerazionale, in più esperienze traumatiche nelle madri possono impattare sia a livello emotivo, come si comprende bene, ma anche a livello neurobiologico pertanto un’attenzione a questo tipo di donne potrebbe essere particolarmente rilevante. Sia da un punto di vista della ricerca che della clinica.
E questo vale non solo dal momento in cui il bambino nasce, ma (e qui sta probabilmente la questione che Massimo Ammaniti ha voluto sottolineare) dai mesi di gravidanza che costituiscono un momento delicato per lo sviluppo del futuro bambino.

La Depressione Perinatale e il suo sviluppo nei padri: stato attuale, differenze con la Depressione materna e possibili direzioni future

La sintomatologia ricorrente comprende: irrequietezza, tristezza, malinconia, impotenza, disperazione, sconforto, umore depresso, perdita d’interessi, preoccupazione costante, calo della libido, insonnia. Spesso la Depressione perinatale paterna si palesa attraverso manifestazioni somatiche atipiche anche gravi quali ansia elevata, crisi di rabbia, ipocondria, sintomi funzionali o somatizzazione e acting out comportamentali (fughe, comportamenti violenti, attività fisica o sessuale compulsive, relazioni extraconiugali, disturbi del comportamento alimentare, alcolismo o altri disturbi di dipendenza).

Micaela Fratus, Martina Tramontano, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

La nascita di un figlio e i primi mesi successivi ad essa rappresentano un periodo particolarmente vulnerabile per entrambi i genitori che si apprestano ad affrontare questa nuova fase di vita. Le numerose modificazioni fisiche, psicologiche e relazionali comportano una necessaria riorganizzazione non solo del mondo esterno, ma anche del mondo psichico interno, delle figure coinvolte. Inizialmente, la maggior parte degli studi scientifici si sono concentrati sulla figura materna e sulla possibilità di sviluppare una sintomatologia depressiva: quali sono i fattori predisponenti? Quali sono i principali sintomi? Quali metodi di cura sono più efficaci per uscire dalla depressione post-partum? Quali sono le ripercussioni su bambini di mamme depresse? Sebbene se ne parli ancora poco, già dalla fine degli anni ’90 alcuni studi scientifici hanno dimostrato che anche nei padri è possibile osservare lo sviluppo di una certa forma di depressione nei mesi successivi alla nascita del figlio. La depressione post-partum può colpire entrambi i genitori con un’incidenza rispettivamente di 1 su 7 nelle donne e di 1 su 10 negli uomini. Come si sviluppa nei padri? Come si differenziano le due patologie? Ci sono dei punti in comune? Come si relazionano tra loro? Quali sono i possibili trattamenti?

Aspetti psicopatologici della maternità

La decisione di mettere al mondo un figlio è un momento unico all’interno del ciclo di vita di una coppia che si appresta a iniziare un percorso nuovo, che richiede la messa in discussione di molti aspetti identitari, psicologici e relazionali al fine di poterli riadattare alla nuova struttura familiare.

Approcciarsi a questa fase di vita richiede ad entrambe le figure genitoriali di affrontare cambiamenti ormonali, immunitari, relativi all’immagine corporea, al proprio ruolo sociale e al senso di identità che con difficoltà è stato costruito negli anni di maturazione e crescita. E’ possibile che questo momento delicato di cambiamento, in soggetti che hanno determinati fattori di vulnerabilità, dia spazio allo sviluppo di sintomi psicopatologici di diversa natura e diversa gravità, che possono avere una durata limitata oppure possono perpetuarsi nel tempo.

Come accennato precedentemente, l’interesse del clinico si è concentrato soprattutto sulla figura genitoriale materna. Le motivazioni che hanno determinato questo decentramento hanno radici culturali, epidemiologiche e prognostiche rispetto allo sviluppo psicologico del bambino.

Culturalmente si è portati a credere che la donna sia la figura all’interno della coppia che maggiormente è esposta ai cambiamenti sopra descritti. Infatti, alla futura madre è richiesto di portare avanti la gravidanza in maniera controllata e attenta per la salute del nascituro, osservando il proprio corpo che si trasforma; è richiesto di affrontare le paure e la dolorosità legate al parto e di affrontare l’importante e delicata fase di allattamento. Le motivazioni epidemiologiche sono legate al fatto che le donne manifestano un’incidenza doppia delle sindromi depressive rispetto agli uomini e quindi si ritiene che siano più a rischio di sviluppare una patologia durante la gravidanza. I dati clinici che si sono focalizzati sulla relazione madre-bambino hanno poi dimostrato che i figli di madri depresse hanno una maggior probabilità di sviluppare disturbi dell’adattamento e depressione infantile rispetto ai figli delle mamme non depresse. Tali risultati evidenziano l’importanza della condizione di salute psichica della madre nei primi mesi di vita del bambino e l’incidenza che essa ha sul suo sviluppo psicologico. Alla luce di quanto appena detto, la figura genitoriale maschile è sempre stata vista come marginale.

E’ stato accertato che in fase di vita il 20% delle donne sperimenta l’insorgenza di disturbi ansiosi e depressivi (più del 12,5% dei ricoveri femminili avvengono nel periodo del post-partum). I principali tipi di disturbi dell’umore caratteristici del periodo post-partum riconosciuti sono:
– Malinconia della maternità (maternity blues): insorge nelle due settimane successive al parto (dal 50 all’ 85% della popolazione). E’ caratterizzata da scoppi improvvisi di pianto, irritabilità, sentimenti di tristezza e sfiducia, ansia, disforia lieve.
– Psicosi post-partum: insorge nei mesi successivi al parto, è molto rara ma più grave (1 o 2 donne su 1000). I sintomi più frequenti sono: depressione, euforia maniacale, confusione mentale, allucinazioni e illusioni, insonnia e disturbi dell’alimentazione. La gravità di questo quadro clinico porta all’assunzione da parte della madre di atteggiamenti ambivalenti nei confronti del figlio fino ad arrivare a pericolosi atti di infanticidio e suicidio.
Depressione post-partum: insorge nell’anno successivo al parto (più del 10% delle donne).

Depressione post-partum nelle madri (DPM): quadro clinico

La depressione post-partum è un quadro clinico caratterizzato da sintomi depressivi che possono differire per numero e per tipo dalle manifestazioni depressive mostrate da donne che non hanno partorito. I sintomi più frequenti sono legati ad un marcato senso di irritabilità e forti sentimenti di collera; le donne affermano di sentirsi deboli e prive di forza e di provare uno stato pervasivo di anedonia. Da un punto di vista cognitivo le madri con Depressione-postpartum mostrano un’attitudine a colpevolizzarsi, una scarsa fiducia nelle proprie competenze genitoriali e bassa autostima.

Sentimenti profondi di colpa e di vergogna nel provare un’esperienza depressiva in un periodo di vita che dovrebbe essere culturalmente ricco di gioia e positività, possono accompagnare il quadro sintomatico appena descritto. Come si può evincere da quanto detto, l’umore deflesso non è necessariamente la manifestazione sintomatica più importante per le madre affette da Depressione post-partum. In una percentuale non irrisoria di casi è spesso preceduto da ansia, labilità emotiva, disturbi del sonno, faticabilità e irritabilità. In alcune situazioni, le madri manifestano anche dei pensieri ossessivi di tipo aggressivo nei confronti del bambino fino ad arrivare ad un quadro più grave che comprende atti lesivi auto ed eterodiretti (Aceti, et al., 2015).

Fattori di rischio

I fattori di rischio che risultano essere più probabili si concentrano sulla possibilità di aver fatto esperienza di stati depressivi durante la propria storia di vita personale, di aver difficoltà relazionali con il partner e con la propria famiglia d’origine associati ad una mancanza di sostegno pratico ed emotivo.

Differenti studi hanno indagato la presenza di una relazione tra stile di attaccamento appreso dalla madre e la possibilità di sviluppare una Depressione post-partum. West, Rose e Spreng (1999) hanno dimostrato come donne che hanno sviluppato uno stile di attaccamento insicuro, possono manifestare sintomi più gravi e severi. Più recentemente Bifulco (2004) ha evidenziato che uno stile di attaccamento di tipo evitante è correlato positivamente con disturbi depressivi prima del parto, invece uno stile di attaccamento di tipo ansioso è correlato positivamente con sintomi depressivi che si sviluppano nel periodo successivo al parto. Come detto, gli aspetti familiari e relazionali non sono gli unici fattori di rischio evidenziati.

L’ipotesi di una correlazione tra particolari disturbi psicologici e Depressione post-partum è stata avvallata da autori come Newman che ha dimostrato come il disturbo di personalità ossessivo-compulsivo, dipendente ed evitante e il disturbo borderline possono essere legati allo sviluppo di tale patologia. Di fatto sembrerebbe che il timore nelle relazioni interpersonali, l’ansia e la mancanza di assertività siano aspetti precipitanti per lo sviluppo di una sintomatologia depressiva dopo il parto.

Depressione perinatale paterna (DPP): definizione e sintomatologia

Una mole considerevole di ricerche cliniche ed empiriche si è occupata di indagare e sviluppare trattamenti ed interventi rivolti ai disturbi psicologici che possono colpire la maternità nel periodo conseguente al parto. E’ bene sottolineare come anche i padri possano andare incontro a psicopatologie della genitorialità come la depressione maggiore, la psicosi della paternità, la depressione ed acting.

A confronto, però, i tentativi di studiare la condizione psicologica dell’uomo nella transizione alla paternità, si presentano rari e lacunosi. Le ragioni che possono spiegare tale differenza nella quantità e qualità degli studi sono da rintracciare nella scarsa disponibilità dei padri a partecipare alle ricerche, nella minore incidenza del disturbo depressivo nella popolazione maschile, nella carente disponibilità di metodi d’indagine validi e attendibili che tengano conto delle differenze di genere, nei fattori socioculturali che portano a trascurare il coinvolgimento del padre nel periodo perinatale (Baldoni, F., & Ceccarelli, L. 2010). Infatti, la nostra società fino a tempi recenti ha associato il ruolo paterno prevalentemente alla figura di sostentamento, di supporto economico e in parte disciplinare all’interno del nucleo familiare. La relazione padre-figlio veniva rappresentata come un rapporto “in divenire”, da prendere in considerazione successivamente; la donna, dotata di ciò che viene definito “istinto materno”, deteneva il ruolo attivo nell’accudimento e soddisfacimento dei bisogni primari e affettivi dei figli. Nella società odierna, invece, in risposta al progressivo aumento di separazioni e divorzi, e al maggiore scambio di ruoli tra uomo e donna sia all’interno del mercato del lavoro che tra le mura domestiche, la paternità ha visto incrementare la sua importanza, connessa al diffondersi del concetto di “triade familiare” come necessità imprescindibile per un sano sviluppo psico-fisico del bambino e per una buona relazione affettiva familiare reciproca (Caponeri, D. P.).

La Depressione Perinatale Paterna (DPP) è la traduzione del neologismo francese “Depression Périnatale Paternelle” coniato in ambito psicoanalitico. Colpisce il 5-10% dei padri e risulta associata con un incremento del rischio da parte dei bambini di sviluppare difficoltà di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale. Essa deve essere distinta dalla “Sindrome della Couvade” che può colpire i padri durante la gravidanza ed è caratterizzata da sintomi somatici (nausea, gonfiore o dolore addominale) e comportamenti femminili tipici della gravidanza che non assumono un vero significato psicopatologico. I sintomi della depressione paterna, anche se possono presentare la stessa durata, si differenziano da quelli caratterizzanti la Depressione post-partum materna: sono talvolta meno definiti, coinvolgono meno disturbi e manifestano alterazioni affettive più lievi.

La sintomatologia ricorrente comprende: irrequietezza, tristezza, malinconia, impotenza, disperazione, sconforto, umore depresso, perdita d’interessi, preoccupazione costante, calo della libido, insonnia. Spesso la Depressione perinatale paterna si palesa attraverso manifestazioni somatiche atipiche anche gravi quali ansia elevata, crisi di rabbia, ipocondria, sintomi funzionali o somatizzazione e acting out comportamentali (fughe, comportamenti violenti, attività fisica o sessuale compulsive, relazioni extraconiugali, disturbi del comportamento alimentare, alcolismo o altri disturbi di dipendenza).

È fondamentale, però, tener presente che la maggior parte delle ricerche che si sono occupate di valutare le alterazioni affettive prodotte dalla depressione perinatale paterna, hanno impiegato questionari self-report che non tengono conto delle differenze di genere e possono presentare problematiche di validità e attendibilità, evidenziando nell’uomo sofferenze minori rispetto alla donna (Ballard, C., & Davies, R. 1996).

Fattori di rischio e conseguenze della depressione perinatale paterna

Durante il periodo post-natale è stato dimostrato che la Depressione perinatale paterna produce effetti negativi sulle capacità genitoriali, sull’abilità di stabilire una relazione di attaccamento con il bambino e sulla relazione di coppia. Quest’ultima pertanto si configura come un fattore di rischio non solo per la Depressione materna, ma anche per quella paterna: nelle ricerche è emerso che la presenza di un basso livello di soddisfazione di coppia e del consenso e della coesione coniugale, connessi ad alti livelli di stress perinatale, rappresentano fattori predisponenti la Depressione Perinatale Paterna.
Per quanto riguarda i fattori psicosociali correlati alla presenza della sintomatologia depressiva paterna rintracciamo:
– Età giovane o molto avanzata;
– Basso livello d’istruzione, scarso reddito, preoccupazioni finanziarie e disoccupazione.

Inoltre la depressione materna e la presenza di disturbi mentali nella madre sono stati identificati come due tra i maggiori fattori predisponenti della Depressione perinatale paterna.

Altro aspetto rilevante è il concetto di “autoefficacia”: percepirsi come un genitore inutile, inadeguato, incapace e poco efficace nel prendersi cura del proprio figlio, rappresenta un fattore di rischio.

Infine gli studi più recenti e attualmente disponibili sulla Depressione Perinatale Paterna hanno messo in evidenza diversi altri fattori di rischio oltre quelli psicosociali e relazionali; fra questi sono da evidenziare:
– alti livelli di percezione dello stress (essa è correlata al temperamento del neonato: bambini impegnativi, molto richiedenti, che piangono, dormono e si alimentano con problematicità, produrranno livelli più elevati di stress e questo aspetto risulta più critico per i padri rispetto alle madri);
– caratteristiche di personalità (alcune ricerche hanno evidenziato nei padri con Depressione Perinatale Paterna la presenza di tratti depressivi ansiosi, di un elevato grado di nevroticismo e un basso livello di estroversione);
– fattori socio-familiari (qualità della relazione con i propri genitori durante l’infanzia, gravidanza indesiderata, discrepanza tra aspettative durante la gravidanza e l’esperienza di genitore dopo il parto, appartenenza ad una famiglia ricomposta).
Stranamente non è stata riscontrata una correlazione significativa tra la storia psichiatrica precedente del padre e lo sviluppo di Depressione Perinatale Paterna.

Una panoramica sulla ricerca

Il primo articolo sulla Depressione Perinatale Paterna è stato pubblicato all’inizio degli anni trenta da Zilboorg (1931) con il titolo di “Depressive reactions related to parenthood”; in seguito altri autori hanno preso in considerazione la gravidanza come fattore di criticità per i futuri padri.
Baldoni e Ceccarelli nel 2010 hanno condotto una minuziosa rassegna rivolta a tutta la produzione scientifica pubblicata su tale tematica che ha consentito di tracciare due principali periodi:
1930-1980: resoconti di osservazioni condotte su casi clinici;
1980- 2010: studi empirici al fine di misurare la sintomatologia, la prevalenza e l’eziopatogenesi della Depressione Perinatale paterna e a valutare la correlazione tra questa, la Depressione materna e lo sviluppo psicologico, comportamentale e somatico del figlio.

Le ricerche attuali seguono e approfondiscono questo secondo filone. La maggior parte delle ricerche di natura epidemiologica ed empirica sono state condotte negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Australia.

In Italia merita di essere citata la ricerca svolta da Currò e colleghi nel 2009. Essi hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale che può avere il pediatra nel riconoscere i genitori maggiormente predisposti al rischio di sviluppare la Depressione Perinatale Paterna, somministrando loro un semplice test (EPDS). I genitori venivano intervistati durante la prima visita del figlio e coloro che riportavano un alto punteggio venivano riesaminati dopo 5 settimane. Se persisteva un punteggio alto allora venivano esaminati da uno psichiatra per confermare la diagnosi. Dalla ricerca è emerso che alla prima visita il 26,6% delle madri e il 12,6% dei padri ha riportato un alto punteggio all’EPDS mentre, alla seconda visita, il 19,0% delle madri e il 9,1% dei padri, ha riportato un risultato al test che segnalava il rischio della malattia depressiva. Pertanto Depressione Perinatale Paterna è comune nella popolazione media.

Possibili trattamenti

Le principali linee-guida per il trattamento della depressione indicano come intervento di prima scelta terapie di tipo psicologico, in particolare cognitivo-comportamentale. Tale suggerimento viene esteso anche alla depressione post partum, viste le maggiori controindicazioni e la riluttanza delle donne ad intraprendere una terapia farmacologica durante l’allattamento.

Nel 2011 Piacentini e altri hanno condotto uno studio che ha confermato i dati secondo cui interventi cognitivo-comportamentali brevi e strutturati possono essere efficaci e facilmente accettati dalle donne affette da depressione post-partum e, pertanto, ne sarebbe auspicabile una maggiore diffusione nella pratica clinica. Come abbiamo descritto e sottolineato fino ad adesso è importante, per proteggere la relazione madre-bambino e lo sviluppo globale di quest’ultimo, prendere in considerazione entrambi i genitori e quindi anche il ruolo ricoperto dal padre fin dall’inizio della gravidanza, cercando di coinvolgerlo sia durante il periodo di gestazione che successivamente al parto. Ulteriore aspetto emerso precedentemente e da non sottovalutare è l’influenza reciproca tra gli stati psicologici delle madri e dei padri: i disturbi depressivi, ansiosi e comportamentali del padre possono incidere e favorire una reazione depressiva nella donna, condizionando lo sviluppo psicologico e fisico del nascituro.

A differenza del panorama di studi sulla Depressione post-partum materna, rispetto alla Depressione Perinatale Paterna attualmente non possediamo chiare informazioni sulle modalità di screening, sulle terapie più indicate per il sostegno psicologico, sull’efficacia delle psicoterapie o dei trattamenti farmacologici. La maggior parte delle ricerche condotte non ha indagato tali aree d’interesse. L’analisi delle ricerche più recenti ha mostrato la diffusione di terapie sulla prevenzione e sulla cura della depressione perinatale basate sulla Mindfulness. Tale tecnica potrebbe essere utilizzata anche nella prevenzione della depressione perinatale paterna consentendo di fare un intervento con entrambi i genitori. Essa intende insegnare le abilità necessarie per affrontare il parto e la genitorialità, con l’obiettivo di prevenire le situazioni psicopatologiche che si possono verificare in questi stati di vulnerabilità sia nell’uomo sia nella donna, promuovendo risposte sane allo stress psicologico e fisiologico. L’acquisizione della coscienza del proprio ruolo è stata descritta come una competenza chiave della genitorialità. Promuovere la consapevolezza nel contesto della genitorialità quotidiana e formare il padre e la madre sono le strade migliori per incrementare l’efficacia degli interventi della coppia sul figlio (Cicchiello, S. 2015).

Nell’ambito della depressione post partum esistono due ricerche che hanno ottenuto buoni risultati ricorrendo a dei programmi basati sulla Mindfulness per l’accompagnamento al parto e la promozione della genitorialità. Uno di essi ha applicato un programma basato sulla Mindfulness per il parto e la genitorialità: il “Mindfulness-Based Childbirth and Parenting” (MBCP). Il programma MBCP è un adattamento del programma di riduzione dello stress (MBSR) fondato da Jon Kabat-Zinn, destinato sia ad aiutare i partecipanti a “essere nel momento presente” sia a consentire ai genitori di vivere la cura del figlio con consapevolezza, gentilezza e condivisione.

Lo studio pilota di Duncan e Bardacke del 2012 ha proposto un programma di MBCP che necessita di ulteriori approfondimenti futuri. Esso ha consentito, però, di ampliare le strategie d’intervento nell’ambito della depressione perinatale non solo nei confronti della madre ma anche dei padri. I risultati di questo studio pilota sembrano essere promettenti: si sono avuti effetti nella riduzione dell’ansia rispetto alla gravidanza, nell’aumento della consapevolezza e nella manifestazione di emozioni positive.

La detached mindfulness è davvero mindfulness?

La detached mindfulness di Wells non prevede alcuna meditazione né alcun ancoraggio al corpo o al respiro ed ha, come obiettivo ultimo, quello di rendersi consapevoli dei propri pensieri più che all’esperienza del qui e ora nella sua totalità. Prevede la sospensione di tutti i coping maladattivi con lo scopo di rafforzare la meta-consapevolezza ed il distacco: l’obiettivo è aiutare il paziente a gestire la propria sintomatologia in modi efficaci.

 

Le differenze tra la mindfulness e la detached mindfulness

La detached mindfulness (DM) è stata messa a punto da Adrian Wells nella sua terapia metacognitiva come tecnica per favorire distacco e consapevolezza. Non a caso il termine “detached” deriva da “detachment” che vuol dire distacco, mentre “mindfulness” richiama la definizione classica di Kabat-Zinn, ideatore del famoso protocollo MBRS (mindfulness based stress reduction). Eppure è un errore frequente rapportare la detached mindfulness alle pratiche mindfulness intese come meditazione intensiva.
Vediamo nel dettaglio cosa succede.

Jon Kabat-Zinn descrive la mindfulness come “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, al momento presente, in modo non giudicante, non critico e di accettazione” (Kabat-Zinn, 1994); il momento presente comprende pensieri, credenze, ricordi ed una serie di sensazioni somatiche del qui e ora. La potenza della consapevolezza risiede nella sua capacità di creare un’attenzione che può nello stesso momento favorire l’accettazione.

Il secondo termine, detached, fa riferimento al prendere le distanze da ogni reazione emotiva verso gli eventi interni indesiderati e dolorosi, che sono indipendenti dalla coscienza, in modo che l’individuo sia uno spettatore esterno capace di osservare i propri pensieri e le proprie credenze (Wells A, 2012).

L’insieme dei due elementi (detached e mindfulness) favorisce l’interruzione di tutti i processi cognitivi e comportamentali che si mettono in atto nel tentativo di sopprimere l’evento interno indesiderato con il risultato di rafforzarlo ed ingigantirlo. Esempi di tali processi sono la ruminazione, il controllo del pensiero o delle emozioni, il monitoraggio della minaccia e gli evitamenti (sia cognitivi che comportamentali). Questi sono tutti elementi che Wells ha concettualizzato nella “sindrome cognitivo-attentiva”, più conosciuta come “CAS” quando ha descritto il modello dell’autoregolazione delle funzioni esecutive nel 1994 (Wells e Matthews, 1996).

È ovvio che la detached mindfulness non è una tecnica di evitamento, né cognitivo-emotiva e non è neppure una strategia di controllo; piuttosto è l’esatto contrario: i pensieri non vengono allontanati, modificati o controllati, ma osservati per quello che sono senza agire alcuna azione e senza giudicarli: è un modo diverso di osservarli.

In che cosa, allora, la detached mindfulness di Wells si distanzia dalla mindfulness di Kabat-Zinn?

Nel suo lavoro principale, “Full catastrophe living” del 1990, Kabat-Zinn definisce la mindfulness come “porre attenzione”: la concentrazione sul respiro è mezzo per focalizzare l’attenzione sul momento presente, diventando consapevoli del proprio flusso di pensiero, senza giudicarlo ma lasciando fluire, accettandolo per come è. Il respiro è l’ancora! Nei suoi protocolli, l’autore richiede pratica intensiva, esercizi quotidiani (e qui si intravede l’influenza buddista) e la focalizzazione sul proprio corpo. Gli esempi più importanti sono le meditazioni formali, il body scan, la walking meditation oppure le meditazioni informali. Queste ultime si svolgono nelle attività quotidiane come mangiare, guidare o parlare al telefono così da apprezzare in pieno gli elementi di curiosità, di non giudizio, di accettazione e del lasciare andare.

La detached mindfulness di Wells non prevede alcuna meditazione né alcun ancoraggio al corpo o al respiro ed ha, come obiettivo ultimo, quello di rendersi consapevoli dei propri pensieri più che all’esperienza del qui e ora nella sua totalità. Prevede la sospensione di tutti i coping maladattivi con lo scopo di rafforzare la meta-consapevolezza ed il distacco: l’obiettivo è aiutare il paziente a gestire la propria sintomatologia in modi efficaci.

Ricordiamo che vi sono di diversi di esercizi di detached mindfulness e sono tutti descritti nel manuale di terapia metacognitiva dei disturbi di ansia e di depressione di Wells del 2012 ed in altri suoi approfondimenti (Wells, 2005). Nel testo sono anche spiegati i modi di utilizzo di quest’ultime e i casi in cui gli studi hanno dimostrato essere più fruttuosi come con i pazienti con depressione, disturbo di ansia generalizzato, il disturbo post traumatico da stress o il disturbo ossessivo compulsivo.

Punire, correggere, rieducare, curare – Recensione del libro: Minori e giovani adulti autori di reato

In Minori e giovani adulti autori di reato i curatori hanno selezionato numerosi contributi, che affrontano la problematica dei minori autori di reato da molteplici punti di vista: giuridico, psicologico, psicoanalitico, di psicologia sociale e delle organizzazioni, strettamente sociologico.

 

Quale rapporto tra salute mentale e legge?

Freud (1906) riteneva che la psicoanalisi non potesse rispondere ai quesiti propri del diritto: la colpevolezza, la responsabilità. La prospettiva dell’inconscio è indifferente ai fatti, alla legge, ai rapporti di causa effetto per come sono percepiti nella prospettiva chiara e distinta della vita diurna.

Oggi le cose sono molte cambiate. Il tramonto del codice paterno, l’implicita identificazione sociale con un sé adolescenziale ed irresponsabile hanno fatto sparire la prospettiva della pena dall’orizzonte sociale. La macchina punitiva della legge deve in qualche modo giustificarsi. Esplicita e formalizza sempre più finalità trasformative, educative, terapeutiche. E chiede ai professionisti della salute mentale, psichiatri, psicologi, educatori, di assumere un ruolo centrale nel sistema di controllo e retribuzione della devianza, in particolare quando sono in gioco soggetti minori o giovani adulti.

E’ un compito impervio. Nasce da una posizione culturale e da una legislazione in qualche modo volontaristiche, ma prive fino ad ora di un’ adeguata elaborazione teorica e modellizzazione clinico-professionale.

Minori e giovani adulti autori di reato: l’adolescente e il piano educativo

A questo gap vuole rispondere il bel volume curato da Alfredo De Risio, Paola della Rovere, Chantal Favale, Simona Iacoella: Minori e giovani adulti autori di reato. Alla molteplicità dei professionisti che si confrontano con la devianza sono attribuiti compiti caratterizzati da elevata complessità e multidimensionalità. I curatori hanno perciò selezionato numerosi contributi, che affrontano la problematica dei minori autori di reato da molteplici punti di vista: giuridico, psicologico, psicoanalitico, di psicologia sociale e delle organizzazioni, strettamente sociologico.

L’ adolescente di oggi, si confronta con una realtà particolarmente debole sul piano educativo. Come osserva Paola della Rovere in Minori e giovani adulti autori di reato:“I cambiamenti sociologici dell’epoca contemporanea, il venire meno del prestigio e dell’autorevolezza delle “grandi istituzioni” (famiglia, scuola…),

La rapidità di comunicazione e l’accesso continuo all’informazione – spesso caotica – determinata da internet, hanno diluito la trasmissione del messaggio educativo, che non riesce più ad essere normativo, regolatore e maieutico, rispetto al riconoscimento delle proprie passioni, ancora in divenire. In questa prospettiva “Il comportamento deviante può essere uno degli esiti del disagio adolescenziale e può essere considerata una espressione all’interno di un quadro sintomatologico più problematico, indicatore di sofferenza mentale o addirittura di un vero e proprio disturbo psicopatologico

Il modello carcerario e correzionale si confronta inevitabilmente sul campo con la prospettiva rieducativa e terapeutica: “si crea una cesura tra finalità cliniche e percorsi giudiziari riabilitativi: le necessità cliniche spesso contrastano con le finalità giudiziarie o talvolta coincidono in maniera impropria.” Paola della Rovere osserva: “Il dualismo “sano = normale, malato = criminale” è estremamente riduttivo: non spiega, difatti, come mai esistono sani di mente “criminali” e malati di mente “non criminali”.

Di fronte a queste ideologie contrapposte, di cui vediamo ampia eco nella polemica sul diritto alla difesa, anche armata, è necessario saper prendere le distanze, inquadrare i fenomeni in una giusta prospettiva storica. Ezio Antonio Giacalone, in Minori e giovani adulti autori di reato, ricostruisce la nascita delle istituzioni correzionali per gli adolescenti, avvenuta nel XVII secolo: “a fronte di una massiccia urbanizzazione e del conseguente aumento di poveri, folli, vagabondi e minori disagiati che affollavano le strade – le istituzioni si posero per la prima volta il problema complessivo del controllo e della correzione morale dei devianti, al fine di un loro ‘recupero’ attraverso la disciplina ed il lavoro” con “la netta separazione tra le istituzioni che si occupavano dei minorenni e quelle competenti per gli adulti”, accentuando nei confronti dei secondi finalità esplicitamente assistenziali e riabilitative: “rivestirli, nutrirli, medicarli, trovar loro un lavoro in botteghe esterne o in officine interne e istruirli nel santo timore di Dio

Punizione o assistenza, controllo o cura? Paola Iacoella osserva: “L’operatore corre due rischi: la criminalizzazione, sostenuta dal contesto sociale, attraverso la legge e il comune sentire, che comporta il rischio di perdere di vista le radici del comportamento, oppure la patologizzazione di qualunque reato, e in particolare dei reati a sfondo sessuale, che può erroneamente indurre a privare la persona della sua responsabilità giuridica e morale in termini di “assoluzione”. Entrambi gli atteggiamenti costituiscono un a priori che rischia di spostare il focus del lavoro psicologico, che … consiste nel … capire e comprendere, concentrando, laddove possibile, la propria attività professionale sulla sofferenza psichica ed aiutando la persona a modificare i propri comportamenti”.

L’istituzione e gli operatori incaricati di intervenire sulla devianza adolescenziale e giovanile sono confrontati quotidianamente con un fondamentale problema motivazionale. Per assistere questo tipo di utenza, osserva ancora Iacoella in Minori e giovani adulti autori di reato, occorre rispondere ad un interrogativo preliminare: “perché occuparsi degli abusanti?” L’autrice offre molteplici possibili risposte: “per prevenire la recidiva, quindi il compimento di atti analoghi verso altre potenziali vittime, per evitare che essi diventino successivamente dei pedofili o dei padri abusanti o reiterino su altre potenziali vittime le gravi azioni già compiute.” Ma anche in una prospettiva terapeutica: “Perché (anche) gli abusanti sono dei pazienti

Più complessa la posizione di Deiacobis che osserva:  “l’azione deviante ha un’alta valenza comunicativa e rappresenta una delle forme attraverso cui si esprime lo scacco dei processi evolutivi e, più in generale, il disagio psichico nella fase adolescenziale”. Deiacobis sostanzia le sue posizione in Minori e giovani adulti autori di reato con un bellissimo caso clinico, in cui il trattamento psicologico individuale ed un atteggiamento di autentica empatia con il giovane criminale mettono in moto profondi processi trasformativi e di maturazione.

Ma torniamo a Freud: non possiamo accontentarci di spiegare il fatto illecito. Le radici inconsce, i deficit metacognitivi, la genetica, la sociologia (il testo è una miniera di informazioni su queste ed altre dimensioni) ci possono aiutare a ricostruire un comportamento. Ma il reato non è una forma generica di comunicazione. Passa attraverso la violenza, il sangue la paura, la vittima. Ecco credo non si possa lavorare in modo genuino nei contesti rieducativi se non si ha il coraggio di riconoscere e denominare l’atto criminale, se non si riesce a includere l’esperienza della vittima, a riconoscere nella sua pienezza, la perfidia, la doppiezza, l’efferatezza del reato. Solo così possiamo aiutare veramente l’autore del reato a iniziare un percorso di vita nuovo e, davvero, libero.

Il decadimento della memoria sociale nella schizofrenia

Le persone affette da schizofrenia spesso vanno incontro a debilitanti problemi cognitivi, inclusi i deficit di memoria episodica, un fattore chiave per il funzionamento sociale.

 

Cosa accade alla memoria episodica e al funzionamento sociale nei pazienti affetti da schizofrenia?

La funzione della memoria episodica è quella di immagazzinate informazioni relative ad eventi specifici; essa è importante per la rievocazione della maggior parte degli avvenimenti della nostra vita, include eventi personali e dettagli delle interazione sociali. La compromissione di tale funzione mnestica limita la capacità di formare relazioni con gli altri ed è una delle caratteristiche che si riscontra nei pazienti schizofrenici.

Recentemente, i ricercatori della University of California, Los Angeles (UCLA) hanno scoperto che i pazienti schizofrenici, in fase iniziale, hanno la possibilità di migliorare la capacità di richiamo di eventi sociali se vengono dati loro dei suggerimenti specifici.

I risultati della ricerca suggeriscono una potenziale strategia per il mantenimento della memoria episodica nelle persone affette da schizofrenia.
Per lo studio, i ricercatori hanno voluto verificare se la memoria episodica, in particolare in relazione al ricordo degli eventi sociali, peggiora nel corso della malattia. Il campione sperimentale era suddiviso in tre gruppi: persone ad alto rischio di psicosi, persone che hanno vissuto un episodio di psicosi e persone con schizofrenia cronica.

Ai soggetti non è stato comunicato né l’oggetto della ricerca, né i vari test di memoria a cui sarebbero stati sottoposti. I ricercatori hanno mostrato ai partecipanti 24 filmati, raffiguranti amici che parlavano, un meccanico che parlava con un cliente e altre scene ordinarie di vita quotidiana.
I partecipanti hanno poi esaminato diverse fotografie: 24 immagini raffiguranti persone presenti nei filmati e 24 immagini di persone che non lo erano.

I ricercatori hanno chiesto ai soggetti di identificare quali facce apparivano familiari e quali suscitavano il ricordo di dettagli appartenenti alle scene viste. Tutti i volontari dei tre i gruppi sono stati in grado di identificare i volti presenti nei filmati, ma hanno mostrato una difficoltà specifica nella capacità di rievocare le situazioni sociali associate ai volti, indicando una scarsa funzionalità della memoria episodica.

Nella seconda parte dello studio, ai partecipanti sono state nuovamente mostrate le foto con la richiesta di scegliere tra quattro frasi proposte, quella in grado di descrivere meglio la situazione in cui era apparso uno specifico volto. I partecipanti con alto rischio di sviluppare la schizofrenia non hanno avuto problemi nello svolgere questo compito. Tuttavia, coloro che avevano già sperimentato un episodio psicotico o che presentavano già schizofrenia cronica hanno riscontrato delle difficoltà significativamente maggiori in questo compito sperimentale.

Secondo i ricercatori dunque la differenza tra i gruppi nel compito sperimentale di “selezione della frase” sottolinea un cambiamento della memoria episodica con l’insorgenza della psicosi.

 

Prima edizione del ciclo “Pratichiamo la teoria”, incontri formativi di confronto fra modelli – Report dall’evento

La Scuola di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato presso la sede di Milano un ciclo di incontri formativi di confronto fra modelli dal titolo “Pratichiamo la teoria”.

 

Incontri di formazione teorici e pratici

La Scuola di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato presso la sede di Milano un ciclo di incontri formativi di confronto fra modelli dal titolo “Pratichiamo la teoria”.

Questo ciclo di incontri non era la solita lezione frontale, ma univa teoria e pratica perché in fondo “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo” (Aristotele).

Ecco così un’ottima occasione di formazione sia teorica che sul campo. Ad ogni incontro è stato presentato un modello specifico di intervento.

Gli incontri hanno seguito questa struttura:

  • Breve introduzione teorica sul modello presentato
  • Simulata in diretta dell’intervento del modello affrontato sul medesimo caso clinico
  • Spazio aperto di confronto tra il relatore e i partecipanti

Il caso clinico era simulato da una collega psicologa psicoterapeuta (Mara Soliani) che interpretava Cinzia, giovane studentessa universitaria di 24 anni la cui domanda di terapia era la seguente “Devo fare il tirocinio e lavorare con altre persone… non reggo lo sguardo degli altri, non riesco a parlare in pubblico, mi sento agitata, mi blocco….la mia tutor ha uno sguardo che mi blocca”.

Nel corso degli incontri i partecipanti hanno visto i diversi relatori effettuare, sulla stessa problematica presentata, domande e approfondimenti differenti in base al modello di riferimento utilizzato.

Quali sono stati i modelli presentati e applicati?

Nel primo incontro Sandra Sassaroli ha presentato il modello LIBET.

LIBET (Life Themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) è un modello integrato di concettualizzazione che nasce nel gruppo ricerca di Studi Cognitivi (Sassaroli, Bassanini, Redaelli, Caselli, Ruggiero 2014).

Questo modello consente di capire il paziente all’interno della sua storia evolutiva, senza trascurare allo stesso tempo i sintomi. LIBET inoltre nasce anche come proposta di integrazione tra i diversi mondi della psicoterapia e permette di armonizzare in un quadro unico contributi di diversi orientamenti evidence based.

Durante la simulata Sandra Sassaroli, autrice del modello LIBET, si è focalizzata sulla concettualizzazione del funzionamento della paziente andando a indentificare, a partire dalla domanda di terapia e dall’esordio sintomatico, il tema doloroso, i piani semiadattivi e la rottura del piano.

Pratichiamo la teoria, incontri formativi di confronto fra modelli - Report dall'evento IMM2

La Dottoressa Sandra Sassaroli illustra il Modello LIBET

Nel secondo incontro Giovanni Maria Ruggiero presenta invece il modello REBT.

La REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) è un tipo di terapia cognitivo comportamentale sviluppata da Ellis nel 1955. Nell’ottica REBT l’enfasi è sul presente e le persone sono invitate a esaminare e a cambiare i loro pensieri irrazionali che creano emozioni non sane e comportamenti auto-danneggianti e auto-sabotanti. La tecnica della REBT include l’attuazione del modello “ABC” e il focus terapeutico è sulle credenze irrazionali.

Giovanni Maria Ruggiero presenta la REBT, di cui è supervisore, e durante la sua simulata ha focalizzato il suo intervento sulla costruzione di un ABC, sull’identificazione dei pensieri irrazionali e sul disputing di questi.

Nel terzo incontro Gabriele Caselli presenta infine il modello MCT.

MCT (Metacognitive Therapy) è una recente forma di psicoterapia che ha introdotto una nuova modalità di concettualizzazione e trattamento dei disturbi psicologici. MCT risulta efficace nel trattamento dei Disturbi d’Ansia (Wells, 1995, 2000) e della Depressione (Norman, Van Emmerik & Molina, 2014). MCT ha come obiettivo la riduzione del pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) e riportare sotto il controllo cosciente la risposta a pensieri ed emozioni negative.

Gabriele Caselli, terapeuta level 2 MCT, dopo la presentazione teorica, orienta la sua simulata su un colloquio di concettualizzazione e familiarizzazione con il modello MCT.

Pratichiamo la teoria, incontri formativi di confronto fra modelli - Report dall'evento IMM 1

Il Dott. Gabriele Caselli e la Dott.ssa Mara Soliani durante la simulazione di un caso clinico

Nuove edizioni del ciclo “Pratichiamo la teoria”

Dato l’interesse mostrato dalle richieste dei partecipanti, Studi Cognitivi riproporrà a Milano una seconda edizione del ciclo “Pratichiamo la teoria”. In questa nuova edizione ci saranno nuovi argomenti che verranno trattati con la stessa modalità di breve presentazione teorica e simulata.

Anche altre sedi del Network di Studi Cognitivi si stanno organizzando per lanciare questi tipi di eventi.

Vi siete persi questi incontri? La prima sede che lancerà il ciclo “Pratichiamo la teoria” già questo autunno sarà il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova.

Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors: la sapienza e l’esperienza clinica di J. Fisher – Recensione del libro

Ormai da qualche tempo è uscito Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors (edito Routledge), l’ autrice è Janina Fisher PhD, tale testo oggi si pone come riferimento imprescindibile per coloro che si impegnano nel trattamento dei pazienti complessi.

 

Janina Fisher è assistente direttore dell’istruzione dell’Istituto di Psicoterapia Sensomotoria (SPI, www.sensorimotorpsychotherapy.org), consulente EMDR International Association (EMDRIA) e un ex trainer presso il Trauma Center (Brookline, MA, USA), centro clinico e per la ricerca fondato da Bessel van der Kolk. Conosciuta per la sua esperienza di psicoterapeuta, autrice e trainer, è anche past president della New England Society per il Trattamento del Trauma e della Dissociazione, un ex trainer della Harvard Medical School e coautore (con Pat Ogden) di Psicoterapia Sensomotoria: Interventi per il trauma e l’attaccamento (2016, Raffaello Cortina).

Il prof. G. Liotti  ha detto di questo libro:

Il ruolo del trauma cumulativo nella frammentazione dell’esperienza di sé, le strategie per identificare insieme al paziente le parti non integrate della personalità durante gli scambi clinici e il potere integrativo del dialogo psicoterapico sono stati raramente trattati in modo così convincente e originale come nelle pagine di questo libro affascinante. 

Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors: la summa della conoscenza di Janina Fisher

Potrei proseguire questa recensione con altri commenti positivi su questa linea, ma non è il mio scopo. Questa recensione vuole segnalare, prima di tutto, quanto Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors sia la summa della conoscenza teorica ed empirica dell’autrice e quanto rappresenti il precipitato della sua mirabile esperienza clinica. Fatto raro, Janina Fisher da grande clinico, ma soprattutto da grande mentore qual è, con questo testo ha dato una risorsa a quanti suoi allievi, e non, ne avevano bisogno. Approcciandovi a questo libro noterete quanto è pratico, senza essere prosaico o riduttivo. La prosa, leggibile per la maggior parte di noi che ormai quotidianamente scavalchiamo il muro della lingua anglosassone, è autorevole, ma accogliente.

Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors integra una comprensione neurobiologicamente informata del trauma, della dissociazione e dell’attaccamento con un approccio pratico al trattamento. Questo viene comunicato in una lingua semplice, accessibile a terapeuti esperti e non, oltre che ad altri operatori dell’ambito della salute mentale. Il lettore entrerà in contatto con un modello teorico e di lavoro che sottolinea la “risoluzione” come una trasformazione nel rapporto con se stessi, sostituendo la vergogna, l’autocritica e le ipotesi di colpa, con l’accettazione compassionevole.

Gli interventi unici, proposti nel testo, sono stati adattati da una serie di approcci terapeutici all’avanguardia, come la Psicoterapia Sensomotoria e l’Internal Family Sistem, entrambe terapie basate sulla realizzazione della consapevolezza di sé, da parte del paziente e del terapeuta. I lettori chiuderanno le pagine di Healing the Self Fragmented of Trauma Survivors con una solida comprensione degli approcci terapeutici per i disturbi post traumatici, per lavorare con sintomi dissociativi e disturbi spesso non diagnosticati, integrando i metodi di trattamento dal “cervello destro verso il cervello destro” (Sensorimotor Psychoterapy) e molto di più. Soprattutto, resteranno impressi gli strumenti per aiutare i pazienti a creare un senso interno di sicurezza e una connessione compassionevole con se stessi.

In un momento così vivace di voci, anche autorevoli, che si esprimono sui vari aspetti del trattamento dei pazienti difficili, complessi, come sono quelli affetti da Disturbi Dissociativi e/o Post Traumatici, è importante lasciarsi guidare da chi ha non solo il sapere, o solo esperienza clinica. Janina Fisher coniuga, indiscutibilmente, nel panorama attuale, la sapienza teorica e la pratica clinica, alimentate però dalla lungimiranza di aver vissuto nel tempo lo sviluppo dei nuovi approcci e l’integrazione di questi con le grandi teorie psicoterapiche.

La parola d’ordine è nel vivere l’integrazione come un obiettivo, non solo per il paziente, ma prima di tutto per il terapeuta. La lezione di Janina Fisher più importante per noi clinici è questa ad oggi: occorre sapere, saper fare, falsificare/verificare e ancora fare, confrontandosi costantemente con gli altri e cogliendo sempre nel tempo il meglio dell’evoluzione degli approcci clinici.

Buona lettura!

 

Scuola, malattie somatiche complesse e salute mentale: cosa ne pensano i genitori

Quale potrebbe essere il personale più adatto, all’interno delle scuole, a riconoscere e aiutare uno studente che, dopo il divorzio dei propri genitori, sperimenta uno stato di tristezza profonda? Oppure un adolescente che lotta con la propria ansia a causa della pressione scolastica?

 

Secondo un sondaggio nazionale del C.S. Mott Children’s Hospital, sulla salute dei bambini, presso l’Università del Michigan, solo il 38% dei genitori ripone fiducia nelle capacità della scuola di prendersi cura di uno studente con sospetto problema di salute mentale.

La maggior parte dei genitori (il 77%) sono sicuri che le scuole siano in grado di fornire un primo aiuto per problemi minori, come il sanguinamento causato da una piccola ferita. Ma sono meno sicuri della capacità di una scuola di rispondere prontamente a situazioni di salute più complesse, come ad esempio un attacco d’asma, crisi epilettiche o reazioni allergiche gravi. L’incertezza più grande si ha sulla capacità di identificare e aiutare studenti con difficoltà e problemi nell’area della salute mentale.

Una delle sfide maggiori, sarebbe quella di affrontare le diverse sfaccettature del problema che potrebbero includere stati di tristezza prolungati, problemi di gestione della rabbia o casi di ADHD non diagnosticati, sintomi di ansia, uso di sostanze e pensieri suicidari.

I genitori degli studenti delle scuole secondarie sono dell’opinione che l’inserimento di uno psicologo scolastico sarebbe più adatto per affrontare e per assistere i ragazzi con problemi di salute mentale.

Per i primi soccorsi di base e le condizioni sanitarie urgenti, i genitori identificano come figura con responsabilità primaria l’infermiera scolastica. Circa 3 genitori su 5 ritengono che un’infermiera scolastica sia fondamentale in loco, presso la scuola materna 5 giorni alla settimana (mentre è dello stesso parere il 61% dei genitori delle elementari e il 57% dei genitori delle superiori). Pensare che un’infermiera scolastica sia disponibile 5 giorni alla settimana evidenzia livelli più elevati di fiducia da parte dei genitori nelle capacità della scuola di gestire situazioni di salute e di sicurezza.

Tuttavia, dati recenti della National Association of School Nurses, suggeriscono che i genitori spesso sovrastimano la quantità di tempo che un’infermiera trascorre nella scuola del proprio figlio. Meno della metà delle scuole americane hanno infermieri a tempo pieno, con variazioni sostanziali tra le varie regioni.

Dare per scontato la costante disponibilità di un’infermiera scolastica può essere particolarmente rischioso per gli studenti con condizioni sanitarie complesse che potrebbero aver bisogno di una risposta immediata, come ad esempio la somministrazione di un farmaco o l’individuazione del momento critico in cui dover chiamare l’ambulanza.

Sarah Clark, la co-responsabile del sondaggio, dichiara che i genitori dei bambini con esigenze di salute particolari dovrebbero lavorare direttamente con il personale scolastico per comprendere la disponibilità in loco degli infermieri e garantire che il personale non medico sia disposto a gestire situazioni di salute urgenti che possono sorgere durante la giornata scolastica.

 

La musica influenza la scelta del partner?

Un recente studio ha indagato come la musica possa influenzare l’interesse verso il sesso opposto ed eventualmente la scelta del partner. I risultati mostrano che i volti maschili sembrano essere più attraenti per le donne che hanno appena ascoltato dei brani musicali.

 

La musica può influenzare l’ attrattività fisica e la scelta del partner?

L’attrattività facciale è una delle caratteristiche fisiche che possono influenzare in prima battuta la scelta del partner. Nello studio ci si è proposti di indagare come la musica possa alterare la percezione dell’attrattività facciale”, afferma Helmut Leder della Facoltà di Psicologia dell’Università di Vienna.

Secondo il team di ricerca, la musica può influire positivamente sulla percezione visiva dei volti. I ricercatori hanno quindi esaminato l’impatto dell’esposizione musicale sulle valutazioni soggettive dei volti di genere opposto.

Nell’esperimento alcuni partecipanti eterosessuali sono stati esposti a brani musicali strumentali, e in seguito è stata loro mostrata una fotografia di un volto del sesso opposto con un’espressione facciale neutra.

I partecipanti hanno valutato l’attrattiva del viso ed è stato loro chiesto di esprimere se avessero accettato un appuntamento con la persona raffigurata nella foto. Nella condizione di controllo sono stati presentati solo i volti senza l’ascolto di brani musicali.

Nello studio sono stati coinvolti tre gruppi sperimentali: le donne nella fase fertile del ciclo mestruale, le donne nella fase non fertile del ciclo mestruale e gli uomini. Tutti i partecipanti avevano preferenze e formazione musicale equiparabile.

I risultati hanno dimostrato che le donne in generale hanno valutato i volti maschili come più attraenti quando erano state precedentemente esposte all’ascolto di musica. Il ciclo di fertilità non ha avuto una grande influenza nella valutazione dell’attrattività del volto. Nel complesso, la musica ha portato un effetto significativo rispetto alla condizione di controllo (assenza di musica). Questo effetto non è stato però riscontrato nei soggetti di genere maschile.

I ricercatori ritengono che questi risultati siano promettenti e aprano nuove possibilità per indagare il ruolo della musica nella selezione dei partner in relazione agli aspetti dell’attrattività fisica. “Il nostro obiettivo è replicare questi risultati in un campione più grande e modificare alcuni aspetti dell’esperimento“, afferma Bruno Gingras dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Innsbruck.

I risultati dello studio potrebbero avere ampie implicazioni, poichè vi è un crescente numero di risultati empirici che dimostrano che la musica ha il potere di influenzare il comportamento umano in relazione alla selezione dei partner.

“Che ci amino gli altri” di Alessio Creatura – Recensione

Un disco onesto che lascia il segno già a primo impatto e che, ascolto dopo ascolto, si fa apprezzare per le emozioni rilasciate dai brani, dieci, camaleontici nella loro originalità. Testi poetici che baciano melodie evocative. Tele musicali tratteggiate da una delle voci più interessanti del cantautorato italiano, Alessio Creatura.

 

Le emozioni trasmesse da Alessio Creatura attraverso le sue canzoni

Cosa accade quando la vita ci ferisce? Forse cresciamo improvvisamente o, forse, decidiamo di crescere soltanto a metà, conservando gelosamente ali pronte a volar via, a salvarci da un contesto che non ci appartiene e in cui non ci riconosciamo. Nelle tasche, pronti all’uso, riponiamo sogni e progetti. Ma il sentimento no. Quello impariamo a dosarlo, a non concederlo a tutti, anzi, a non concederlo mai. Le persone più sensibili ipotecano ogni grammo d’anima in uno sguardo, in un legame, in un’amicizia, ma una promessa disattesa, un silenzio o, peggio, l’indifferenza o la falsità di un gesto, le feriscono a fondo, senza rimedio. E allora, si sigillano al mondo per paura di amare, vivere, soffrire, cadere.

Ecco, probabilmente è questo il senso più profondo di “Che ci amino gli altri”, secondo lavoro del cantautore abruzzese, ravennate di adozione, Alessio Creatura. Un disco onesto che lascia il segno già a primo impatto e che, ascolto dopo ascolto, si fa apprezzare per le emozioni rilasciate dai brani, dieci, camaleontici nella loro originalità.

Alessio Creatura

Testi poetici che baciano melodie evocative. Tele musicali tratteggiate da una delle voci più interessanti del cantautorato italiano. Apre l’album, che arriva a cinque anni di distanza da “Non ho più pace”, l’atmosfera di “Cerco trasparenza”, parto di un’interiorirà amareggiata, ma non sconfitta, dalla mediocrità di una società anestetizzata che, puntando sull’apparenza, condanna l’innocenza. Un labirinto esistenziale cui l’artista non cede il passo, fermo sulla sua “inossidabile fierezza”, in bilico tra ideali e realtà. Introspezione incalzata dal blues di “Lolita”, simbolo della “dolce bimba” che “donna non è” che gioca con l’acerba femminilità, rischiando di consumare la magia della sua età.

Silenzio posato ad arte, ed un arcobaleno di suoni, introducono “Dici di non pretendere”, che descrive, con necessario distacco, le conseguenze di un rapporto tossico, in cui il disequilibrio di aspettative e la sete di certezze che non arriveranno mai, uccidono la voglia di costruire il domani. Ma a corrodere l’anima, fa intendere Alessio Creatura in “Che ci amino gli altri”, è anche la staticità che si raggiunge quando, stanchi di darsi senza ricevere, si decide di diventare “persone che / che non chiedono e sai / che se chiedono amore a chi è come me / beh / che chiedano agli altri”.

Tutt’altro che ironico, a dispetto della veste musicale, è “Non sono più lo stesso”, pezzo swing che canta un malinconico “sono già tre mesi che / non ho più lacrime / sai ricordare ora mi fa meno male e potrei anche cantare”.

Ad effetto, anche la nostalgica “Come si cresce”, viaggio a ritroso tra “l’entusiasmo di un Natale / e l’infanzia di una canzone per me speciale” che trova approdo nel desiderio di restare bambini riflesso in poche parole: “come si cresce? / Non lo so… / se rimango uguale? / Ma si poi perché no?”.

Seguono, l’introspettiva “Ti porto rancore”, disincanto di chi aveva “dato tutto” ma di quel tutto viene “derubato” e la delicata “Grazie al cielo”, connubio voce pianoforte, che mette a nudo la forza insita nella fragilità dell’uomo pronto a concedersi altre scelte. Un uomo che confessa: “piango al cielo / perché sono ancora capace / di avere rimorsi / rimpianti / piango al cielo / perché sono ancora capace / di giudicami / di fare pace”. Soprende la fiabesca “La ballata di (cir)costanza” e, a chiudere, la versione acustica del brano che titola un album che non delude.

Report dal convegno Attaccamento e Trauma – Roma, 22-24 settembre 2017

Si è svolto a Roma questo weekend il Convegno “Attaccamento e Trauma. Evoluzione umana e guarigione”, convegno che ha visto partecipare importanti esponenti di studiosi nel settore da Van Der Kolk, a Robin Shapiro, da Kathy Steele a Daniel Siegel.

 

La quinta edizione del Convegno Attaccamento e Trauma

E’ la quinta edizione e l’organizzazione è ad opera dell’Istituto di Scienze Cognitive che per questo 2017 ha portato la discussione circa il trauma e l’attaccamento anche a Londra, nel maggio scorso (“La resilienza del corpo e della Mente), e la porterà a New York (“La neurobiologia della guarigione”) questo autunno.

Sfumature diverse dello stesso spettro, programmi e relatori molto simili, ma fortunatamente dislocate nel globo dando a tutti la possibilità di ascoltare alcuni tra i big sull’argomento.

La sede scelta è particolare ed apprezzabile, il Teatro Brancaccio, l’orario pare piuttosto intenso (dalle 9 alle 19) tuttavia gli interventi sono relativamente pochi, soltanto 4 al giorno e ogni relatore, nella sua ora e mezza di presentazione, ha avuto l’opportunità di approfondire sia teoricamente che clinicamente i propri contributi (spesso con l’ausilio di video di sedute che fanno sempre piacere), pertanto l’organizzazione merita sicuramente un elogio.

Il convegno è fatto per l’80% da ospiti internazionali, ad eccezione dell’intervento di Massimo Ammaniti e del direttore d’orchestra Carmelita, il resto è made in USA.

Gli 11 relatori sono stati chiamati a mettere in relazione i dati scientifici e le conoscenze teoriche con la clinica del paziente con trauma complesso.
Il taglio del convegno è sicuramente quello evolutivo ed epigenetico. Due parole che sono le keywords di tutte le presentazioni. L’argomento è sicuramente attuale, che si odi o si ami, si parla di Attaccamento (disorganizzato aggiungerei tra parentesi), Traumi (“T grandi e t piccoli”) e vien da sé che queste due parole suonino bene con dissociazione (o frammentazione delle parti come più spesso gli americani hanno detto).
La parte neurobiologica fa da sfondo all’evento, forse da palcoscenico meglio dire, data la location.

Il punto da cui si parte è cercare di comprendere quello che accomuna l’esperienza del trauma dai primati all’uomo, quello che avviene al feto prima e al neonato poi da un punto di vista fisiologico e neuronale in seguito alle esperienze traumatiche della madre e, ovviamente, capire il ruolo delle dinamiche dell’attaccamento e come queste modellino la struttura del cervello e quindi l’impatto che abbiano nel funzionamento delle capacità di autoregolazione (anche emotiva) determinandone il comportamento.
Il “palinsesto” del primo giorno vede Louis Cozolino, Massimo Ammaniti, Diana Fosha e Dan Hughes.

L’intervento di Louis Cozolino: il cervello sociale e l’impatto del trauma

Di seguito viene riportato il primo dei diversi interventi che sono stati presentati durante il convegno.
L’idea di questo report è proprio quella di selezionare alcuni dei contributi di cui il primo è “Our social brain and the impact of trauma” di Louis Cozolino.
In perfetto stile anglosassone alle 9:00 si aprono i lavori.

Cozolino è laureato in filosofia, Teologia e Psicologia Clinica e ha docenze internazionali e attività clinica a Los Angeles.
La sua tesi centrale è che il trauma possa avere un impatto nell’attaccamento sicuro e anche a livello del cervello e del suo sviluppo, e quindi di conseguenza anche compromettere la capacità di connettersi con gli altri.
La sua relazione è in termini evolutivi e in un’ottica “sociale” appunto. Molto focalizzata sulla ricerca scientifica e meno sulla pratica clinica ma indubbiamente interessante.

Cozolino evidenzia come i neuroni abbiano “bisogno” di comunicare tramite le loro migliaia di connessioni per evitare il fenomeno di apoptosi e come questo sia metaforicamente lo stesso bisogno di tutti i mammiferi: restare in connessione con gli altri garantisce la sopravvivenza della specie.

I pinguini per esempio si uniscono tutti insieme in gruppo per non disperdere calore e sopravvivere alle temperature del Polo Sud; così anche per l’uomo la connessione va a formare “la mente di gruppo” e diventa fondamentale per il suo sviluppo. Così nei mammiferi il maschio alfa serve per far sì che esista un maschio beta, che combatta, e un omega che perda in modo da rimanere e perpetuare l’equilibrio (sociale) e da garantire sempre il miglior proseguimento della specie.

Ancor più evidente è il bisogno del neonato di connettersi al caregiver per un sano sviluppo neuro-bio-psicologico.
Dalla Cibernetica (“il mondo è composto da una serie di sistemi che si compenetrano a vicenda”) alla terapia sistemica, l’ottica di connessioni che mantengono in equilibrio (omeostasi) è chiara anche in psicologia.

Allo stesso modo anche gli uomini sono “sociali” così come lo è il loro cervello, pertanto quello che avviene nell’ambiente è importante anche a livello neuropsicologico.

Dalla psicologia sociale che studia l’impatto delle relazioni sull’elaborazione cognitiva ed emotiva, alla psicoimmunologia che studia l’impatto dei fattori sociali sulla salute all’epigenetica che studia l’impatto dell’esperienza sull’espressione genetica: un concentrato di saperi per sottolineare (anche se forse siamo tutti già abbastanza d’accordo) “che nessun uomo è un’isola.”

Le evidenze biologiche della natura sociale del nostro cervello e del profondo legame tra il singolo, l’altro e l’ambiente passano dal sistema dell’attaccamento (per es i bambini sicuri reagiscono meglio allo stress e hanno un numero maggiore di recettori per la serotonina), ai neuroni specchio che predispongono il bambino (e i primati) sin dopo 36 ore dalla nascita all’imitazione dell’altro tramite connessione visiva fino ai sistemi esecutivi che si sono evoluti in un’ ottica di sempre maggiore connessione con l’altro e si sono andati a specializzare con l’evoluzione della specie sino a diventare estremamente “sociali” nell’uomo.

Il primo sistema esecutivo è il più arcaico e riguarda le strutture sottocorticali e l’amigdala dediti a meccanismi di attacco-fuga, risponde a segni di pericolo o sicurezza; il secondo riguarda le reti parietali e ippocampali che coordinano le capacità di percezione del tempo e dello spazio e molte attività cognitive come il problem-solving e il ragionamento e poi il terzo sistema definito il “Default Mode Network (DMN)” deputato all’ attaccamento, all’empatia e alla consapevolezza di sé.

Il DMN in neuroscienze è un network di aree del cervello e si attiva generalmente quando la persona non è focalizzata all’esterno, ma il cervello è a “riposo” come nel sogno o nel “wandering” o riflette su sé o gli altri. Tra le funzioni in cui è coinvolto questo network ci sono sia la capacità di riflettere su se stessi (metacognizione) sia quella di riflettere sull’altro (è il centro della Teoria della Mente dei pensieri e delle emozioni dell’altro, e pertanto dell’empatia).

I sistemi più arcaici pongono il veto sull’attivazione di quelli più nuovi pertanto se si attiva quello sotto quello sopra viene inibito.

Il trauma andrebbe ad intaccare il funzionamento non permettendo l’attivazione del DMN e quindi dei processi di regolazione affettiva, della sintonizzazione, della compassione e dell’empatia riducendo le capacità di consapevolezza di sé e di insight. Questo comporta quindi sia un danneggiamento di sistemi biochimici (la memoria, l’apprendimento e le funzioni cognitive risultano danneggiati dalle molteplici conseguenze dell’attivazione cronica) e tutto questo comporta un indebolimento dello status sociale (impedendo la “connessione”), aumentando il rischio di essere maschio “omega” e di non sopravvivere.

Si conclude con una brevissima presentazione degli studi ACE (Adverse Childhood Experiences) ovvero una serie di molteplici studi a lungo termine su un campione di 17421 soggetti, che ha riportato la prevalenza delle esperienze infantili avverse, dall’abuso emotivo (11%) a quello fisico (28%) a quello sessuale (21%) e altri ancora correlati con uno sviluppo difficile. Tali esperienze possono correlare sia con problematiche fisiche sia psicologiche. Maggiore il numero di ACE, maggiore è il tasso di tentativi di suicidio.

Tali esperienze avverse sono correlate sia a patologie epatiche, fumo, obesità e patologie polmonari sia a depressione, alcolismo, mancanza di casa, dipendenze, violenze domestiche e gravidanze indesiderate.

Le conclusioni vanno nella direzione del fatto che le relazioni plasmano la mente, che il comportamento degli altri regola il nostro cervello e che un trauma può disconnetterci dalla “Group mind” fondamentale per la sopravvivenza.

Un intervento che non apporta nulla di nuovo ma rimarca l’importanza di qualcosa che deve essere tenuto in considerazione; le dinamiche relazionali sono determinanti non solo per i primati ma anche per noi e di conseguenza l’impatto clinico di tanta epigenetica va adeguatamente tenuto in considerazione.

Nei successivi articoli verranno illustrati i contributi dei relatori della prima giornata.

L’ asfissia autoerotica: quando il piacere sessuale si fa pericoloso

Tra i vari tipi di comportamento sessuale atipici, probabilmente l’ asfissia autoerotica è tra le più pericolose. L’ asfissia erotica è una pratica sessuale che attraverso la deprivazione di ossigeno al cervello, aumenta la sensibilità durante la masturbazione e l’orgasmo.

Serena Pattara – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Asfissia autoerotica: cos’è e perché rientra tra le pratiche sessuali più pericolose

Esistono varie modalità per incrementare il piacere sessuale, più o meno accettate socialmente, più o meno pericolose. L’ asfissia autoerotica (altrimenti detta Asfissiofilia) è un Disturbo Parafilico non Altrimenti Specificato associata al Disturbo da Masochismo Sessuale (DSM V, 2013).

Tra i vari tipi di comportamento sessuale atipici, probabilmente l’ asfissia autoerotica (un tempo chiamata anche ipossifilia) è tra le più pericolose (Prati, 2006).

L’ asfissiofilia erotica (o autoerotica) è una pratica sessuale che attraverso la deprivazione di ossigeno al cervello, aumenta la sensibilità durante la masturbazione e l’orgasmo.

La deprivazione di ossigeno può essere attuata in vari modi: attraverso l’utilizzo di lacci, sacchetti di plastica, compressione del torace, strumenti da soffocamento, immersione della testa in liquidi, stordimento da inalazioni di sostanze chimiche, impiego di maschere particolari (Myers et al., 2008).

Soffermandoci sulla pericolosità di questa pratica, il rischio di decessi improvvisi è elevato, soprattutto se attuata in solitudine. Durante la deprivazione di ossigeno, da un lato si ha un aumento delle sensazioni di piacere, dall’altro diminuiscono i tempi di reazione. Capita spesso, infatti, che la persona non sia capace di liberarsi dalla morsa che si era creata e che muoia per soffocamento.

È molto difficile stabilire l’epidemiologia del fenomeno, sia perché l’ asfissia autoerotica è una pratica molto privata e socialmente poco accettata, sia perché spesso vengono scambiate per casi di suicidio.

Uno studio pioneristico rileva che dei 97 suicidi di giovani compiuti in Massachussetts dal 1941 al 1950, ben 25 non hanno una chiara spiegazione. La più plausibile è la morte accidentale o asfissia autoerotica (Stearns, 1953).

Da questa ricerca pioneristica è intuibile come la pratica dell’ asfissia autoerotica sia non del tutto nuova. Secondo alcuni autori, già prima del 600’ si era a conoscenza del fatto che la deprivazione di ossigeno poteva causare erezione e eiaculazione negli uomini (Prati, 2006).

Nel 1988 uno studio più recente dimostrò che il 6,5% dei suicidi tra gli adolescenti e il 30% dei suicidi in generale, avevano a che fare con l’ asfissia autoerotica (Sheehan, Garfinkel, 1988).

Negli stati Uniti ogni anno muoiono più di 1000 uomini e meno di 20 donne a causa di questa pratica (Byard, Hucker, Hazelwood 1990). Il numero minore di donne coinvolte non è chiaro se dovuto ad un atteggiamento più prudente o dall’ erronea interpretazione della scena della morte (Beherendt, Buhl, Seidl 2002).

Hucker (2008) dall’analisi di un campione studiato su internet , descrive che il 40% delle persone che dichiara di praticare la tecnica, sia accompagnato da un partner durante l’attività, proprio per evitare tragedie. Lo stesso autore evidenzia un’elevata percentuale di decessi per pratiche di asfissia autoerotica, con circa 100 casi l’anno.

In questa pratica, morte e piacere sono tragicamente uniti e la fatalità si cela dietro l’angolo. In uno studio effettuato su 117 morti a causa dell’ asfissia erotica ha dimostrato che la pratica di soffocamento più utilizzata è l’impiccagione (93 casi su 117) (Blanchard, Hucker, 1991).

Le modalità e i tempi di soffocamento possono variare: alcuni praticanti utilizzano l’ asfissia solo durante le prime fasi dell’eccitamento, altri durante tutto l’arco di tempo. L’ asfissia autoerotica si accompagna spesso all’uso di materiale pornografico, al travestitismo, al feticismo, al masochismo e ad altre forme di parafilia. Quando è associato al sadismo il rischio di una nefasta conclusione è molto elevato (Prati, 2006).

La legatura può avere un significato funzionale e\o simbolico (Hazelwood, Dietz, Burgess 1983). Da una parte il mancato apporto di ossigeno crea euforia, leggerezza, diminuzione delle inibizioni, stordimento ed incremento delle reazioni fisiologiche alla stimolazione genitale (Resnik, 1972). Dall’altra il significato simbolico riguarda più aspetti: desiderio di emozioni forti legati al rischio e alla sperimentazione sessuale; fantasia masochistica di dolore e bondage; bisogno di espiazione per gli impulsi sessuali.

Lo stato mentale innescato da questa pratica (eccitamento, perdita del giudizio, delle inibizione e della coscienza) può portare alla morte a causa dell’incapacità, da parte della vittima, di utilizzare i sistemi di protezione che si era creato. Oppure la morte può essere causata dalla cattiva disposizione della legatura o del cappio, dal mancato funzionamento dei sistemi di protezione o dell’attrezzatura in generale. Oltre alla morte per soffocamento, vi sono altre conseguenze pericolose tra cui danni cerebrali, rottura della trachea, frattura laringe, ictus cerebrale.

La protratta ripetizione di questa pratica assieme ad un desiderio di un maggiore piacere sessuale costituiscono ulteriori fattori di rischio non trascurabili. Per questo motivo venne definita da Resnik (1972) “impiccagione eroticizzata e ripetitiva”, poiché si è portati alla ripetizione ossessiva della pratica che oltre ad aumentare le probabilità di un esito tragico, comporta l’assuefazione alle sensazioni piacevoli cosicché è necessario aumentarne la pericolosità per provare ancora piacere.

Un altro fattore di rischio aggiuntivo è l’uso concomitante di stupefacenti come il Popper o altri inalanti, alcol e altre droghe (Uva, 1995).

Asfissia autoerotica: gli interventi terapeutici

L’ asfissia autoerotica può avere conseguenze letali, è più diffusa di quello che si può pensare e coinvolge sia uomini che donne di tutte le età. Alla stato attuale non si dispongono di dati sufficienti per affrontare e monitorare il fenomeno in modo adeguato.

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EMDR Revolution – Cambiare la propria vita un ricordo alla volta – Recensione

Il testo della Croitoru EMDR Revolution è prezioso per i nostri pazienti e per tutte le persone che sono in un momento di vita difficile e che cercano aiuto, serve per poter orientarsi meglio nel marasma di approcci ed orientamenti che esistono oggi. Il libro è una raccolta anche di storie con un lieto fine, davanti al malessere esiste una via d’uscita, messaggio di speranza e consapevolezza.

 

“Io mi baso sulle migliaia di ore di trattamento con EMDR che ho fatto con i miei pazienti, ho parlato con molti colleghi connazionali e internazionali, ho letto centinaia di articoli e ho seguito da vicino tutto quello che è stato fatto e detto nel campo dello studio di questo approccio terapeutico e credo che l’EMDR porti con sé una grande speranza per l’umanità e che questa sia la rivoluzione che stavamo aspettando da tempo nel mondo della psicoterapia moderna.
Io credo che tutte le persone abbiano il diritto di fare una terapia che li aiuti – non in modo lento, ma velocemente e in modo evidente”.
Tal Croitoru

Emdr revolution: un libro che spiega in cosa consiste l’ EMDR

L’autrice è psicoterapeuta e supervisore del metodo EMDR, lavora nell’ambito degli effetti psicofisici del trauma e collabora con l’università di Haifa in Israele. Il titolo di impatto ci introduce nel mondo EMDR che da circa venticinque anni ha guadagnato sempre maggiore importanza tra gli approcci terapeutici come il metodo più utilizzato e di maggiore efficacia nella risoluzione dei traumi.

Questo metodo è scientificamente validato ed inserito nelle Linee Guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la gestione delle condizioni correlate allo stress e indicato come trattamento di elezione per la cura dei traumi.

Il testo della Croitoru EMDR Revolution è prezioso per i nostri pazienti e per tutte le persone che sono in un momento di vita difficile e che cercano aiuto, serve per poter orientarsi meglio nel marasma di approcci ed orientamenti che esistono oggi. Il libro è una raccolta anche di storie con un lieto fine, davanti al malessere esiste una via d’uscita, messaggio di speranza e consapevolezza.

Il libro ci introduce al mondo EMDR in modo semplice ed esaustivo, di facile lettura spiega in modo accurato metodo, procedure, tempistiche ed effetti collaterali.

Se il soggetto sente emozioni negative, paure, preoccupazioni, vive ostacoli o sono accaduti traumi la buona notizia è che ci sono buone probabilità di stare meglio!

Che cos’è l’emdr?

L’acronimo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) sta ad indicare Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. La desensibilizzazione si riferisce alla diminuzione di intensità dell’emozione percepita davanti al trauma, successivamente la rielaborazione riguarda i ricordi degli eventi traumatici che non sono stati elaborati in modo adeguato al momento dell’accaduto. Tutto ciò avviene tramite i movimenti oculari secondo una stimolazione bilaterale per far partecipare i due emisferi alla procedura di elaborazione. Ad oggi la stimolazione bilaterale avviene non solo mediante movimenti oculari ma anche attraverso altri canali: il canale uditivo (utilizzo di auricolari per l’ emissione di suoni alternati); canale tattile (uso di manopole che sviluppano la vibrazione alternata dei palmi delle mani).

Il metodo è stato ideato da Francine Shapiro nel 1987 ed inizialmente è stato utilizzato per curare i reduci delle guerre americane con disturbi post traumatici ed in seguito il metodo viene utilizzato per l’elaborazione di altri eventi traumatici. Come l’autrice illustra la metodologia EMDR è applicabile a soggetti di tutte le età e per tutti i tipi di disturbo psicologico.

EMDR Revolution: Come funziona la tecnica dell’ EMDR?

Quando avviene un evento traumatico il nostro cervello non è in grado di elaborare del tutto l’evento nel momento in cui avviene, per cui le informazioni vengono messe in memoria in forma grezza prive di elaborazione mantenendo odori, suoni, voci, pensieri e sensazioni avvenute nel momento del trauma. Tali informazioni persistono in una rete separata, in ogni momento un soggetto potrebbe avere stimolazioni esterne che attivano informazioni contenute nella rete e che provocano reazioni ed emozioni di intensità elevata rispetto alla natura dell’evento attuale.

Nel testo EMDR revolution, l’autrice prosegue presentando il protocollo emdr e le otto fasi di lavoro:
fase 1 – raccolta della storia del paziente (per capire quali ricordi traumatici hanno ancora un impatto negativo nel presente);
fase 2 – la preparazione dipende molto da soggetto a soggetto e dalle sue capacità di far fronte alla situazione problematica;
fase 3 – assessment per raccogliere le informazioni riguardanti l’evento traumatico (vengono recuperati gli elementi più disturbanti associati a tale ricordo);
fase 4 – desensibilizzazione; in questo momento viene completata l’elaborazione del ricordo dell’evento traumatico attraverso la stimolazione alternata prima dell’emisfero destro e poi di quello sinistro, ciò può avvenire attraverso stimolazione visiva, suoni alternati o tapping. Come il paziente gestisce questo momento varia molto dal singolo individuo e dalla capacità di gestione dello stress;
fase 5 – installazione della convinzione positiva;
fase 6 – scansione corporea, in questo momento ci assicuriamo che a livello fisico non ci sia disturbo relativo al ricordo traumatico;
fase 7 – chiusura della seduta e si spiega al paziente che possono emergere tra una seduta e l’altra alcuni dettagli legati all’evento traumatico;
fase 8 – rivalutazione e possibili effetti collaterali come stanchezza; non ci sono dei veri limiti per l’applicazione di questo metodo, solo valutare che il soggetto abbia le risorse per gestire l’elaborazione.

Vi sono anche alcuni effetti collaterali possibili dopo sessioni di EMDR: sensazione di stanchezza durante la seduta o dopo oppure un aumento del disagio prima di percepire una diminuzione duratura nel tempo.

Invece la difficoltà principale nella terapia EMDR non è applicare il metodo ma lavorare con il paziente nel recupero dei ricordi della prima infanzia; questi rappresentano molte volte il vero nucleo della maggior parte dei problemi dei nostri pazienti; ciò avviene per due motivi: da una parte da bambini tendiamo a pensare che tutto ciò che avviene intorno ha a che fare con noi e dall’altra da piccoli abbiamo meno risorse per cui veniamo soverchiati dagli eventi.

Pregio di questo testo è certamente quello di illustrare con parole semplici ma accurate l’EMDR, è fruibile da chiunque: professionisti ancora non formati in Emdr, pazienti desiderosi di capire meglio la metodologia di lavoro prima di cercare un terapeuta; terapeuti Emdr che cercano spunti per spiegare in modo efficace il processo terapeutico.

Un testo affascinante e ricco di esempi.
Buona lettura!

 

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