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Valutare l’ attaccamento adulto: l’Adult Attachment Interview – Introduzione alla Psicologia

Adult Attachment Interview: George, Kaplan e Main (1987), sulla base dei tre pattern di attaccamento, hanno ipotizzato la possibilità di differenziare i modelli di attaccamento adulto. Per questo, hanno sviluppato uno strumento, l’ Adult Attachment Interview, questionario semi-strutturato in cui si registrano le interviste che saranno classificate secondo diversi parametri. L’ Adult Attachment Interview ha permesso di definire tre modelli rappresentativi interni del sé e delle figure di attaccamento in età adulta e conseguentemente consente una classificazione degli adulti in altrettante categorie

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ attaccamento adulto e i modelli operativi interni

Per John Bowlby i legami emotivamente sicuri hanno un valore fondamentale per la sopravvivenza.
Bowlby teorizzò che i bambini, durante i primi anni di vita, partendo da esperienze relazionali precoci costruiscono dei “Modelli Operativi Interni” (MOI). I MOI sono strutture cognitive che guidano le relazioni sociali modellando la percezione sociale e il comportamento.
Queste rappresentazioni interne tendono a persistere nel tempo, sebbene nuove esperienze potrebbero trasformare i modelli esistenti modificandoli (Vaughn, Egeland, Sroufe e Waters, 1979).

Mary Ainsworth (1982), più tardi, è riuscita a supportare la teoria di Bowlby con dati empirici, e per prima individuò tre distinti pattern di attaccamento attraverso una situazione appositamente ideata in laboratorio: la Strange Situation Procedure (SSP).

La Ainsworth, dall’osservazione di gruppi di bambini che si ricongiungevano alla madre dopo essere stati separati, individuò un primo gruppo di bambini che manifestava sentimenti positivi verso la madre, un secondo che mostrava relazioni marcatamente ambivalenti ed un terzo intratteneva con la madre relazioni non espressive, indifferenti o ostili.

In un secondo momento, Main e Solomon (1990) hanno introdotto una quarta categoria, relativa ai bambini che, al momento del ricongiungimento con la madre, manifestavano comportamenti non riconducibili a nessuno dei tre pattern descritti. In questa categoria i bambini erano disorientati e confusi sia nelle intenzioni sia nei comportamenti. Per questo, tale pattern venne definito attaccamento disorganizzato/disorientato.

Questi pattern comportamentali infantili furono validati da numerose osservazioni longitudinali, raccolte sugli stessi soggetti. Ainsworth evidenziò che le madri dei bambini sicuri tendono a fornire adeguate risposte ai segnali dei loro bambini; le madri dei bambini evitanti, invece, tenderebbero a essere fredde e poco accoglienti, mentre le madri dei bambini ansiosi sarebbero inadeguate nelle risposte.

I bambini sviluppano entro i primi 8 mesi di vita uno stile di attaccamento, che si completa entro il loro secondo anno. L’indicatore per eccellenza che il legame di attaccamento è stabilito, si identifica nell’angoscia da separazione. Possono anche verificarsi attaccamenti multipli, che nel corso dello sviluppo sono suscettibili di variazioni.

Non è chiaro quando avvenga esattamente il passaggio dall’attaccamento genitoriale a quello tra i pari. Nell’adolescenza, però, l’attaccamento attraversa un periodo di transizione. L’adolescente si allontana intenzionalmente dalla relazione con i genitori e familiari, per costruire relazioni nuove con coetanei, relazioni amicali e amorose.

Negli anni ‘80 i modelli derivati dalla Strange Situation di Ainsworth, Blehar, Waters e Wall (1978), hanno stimolato un filone di studi sull’attaccamento delle relazioni adulte. L’assunto di base da cui si partì era che i MOI si costituiscono in base alle esperienze reali che i bambini hanno con le figure di attaccamento (Bowlby, 1973). I bambini, dunque, interiorizzano questi modelli che, successivamente, diventeranno la base sulla quale costruire le relazioni nell’età adulta.

Secondo Weiss (1982), l’ attaccamento adulto e quello dei bambini sono diversi tra loro. Infatti, l’attaccamento infantile è “complementare” perché la figura di attaccamento offre cure ma non ne riceve, mentre il bambino cerca, ma non offre, sicurezza. Al contrario, l’ attaccamento adulto dovrebbe essere tipicamente reciproco: entrambi i partner danno e ricevono protezione. Inoltre, per l’adulto, la figura di attaccamento è un pari e, ancora, nelle relazioni amorose è implicata anche la sfera della sessualità. Le relazioni amorose sono le relazioni di attaccamento più importanti della vita adulta (Brown e Harris, 1978; Quinton, Rutter e Liddle, 1984).

Hazan e Shaver (1987) sostengono che nell’età adulta l’amore sia simile al sentimento provato dal bambino per la madre. Ipotizzano, inoltre, che i tre pattern di attaccamento della Ainsworth si ripresentino anche nelle relazioni di coppia e le differenze individuali determinino le differenti modalità con cui i soggetti si rappresentano le relazioni di attaccamento sviluppate durante l’infanzia.

L’ Adult Attachment Interview

George, Kaplan e Main (1987), sulla base dei tre pattern di attaccamento, hanno ipotizzato la possibilità di differenziare i modelli di attaccamento adulto. Per questo, hanno sviluppato uno strumento, l’ Adult Attachment Interview, questionario semi-strutturato in cui si registrano le interviste che saranno classificate secondo diversi parametri. L’ Adult Attachment Interview ha permesso di definire tre modelli rappresentativi interni del sé e delle figure di attaccamento in età adulta e conseguentemente consente una classificazione degli adulti in altrettante categorie:

Adulti Sicuri (“F”, free): sono soggetti che mostrano valutazioni coerenti nella narrazione delle loro esperienze, anche in presenza di un’infanzia difficile o segnata da eventi traumatici.
Dimostrano di aver libero accesso ai ricordi dell’infanzia, non hanno pregiudizi e non operano una selezione di quello che viene riferito. Presentano consapevolezza del passato e raccontano facilmente anche eventi spiacevoli.

Adulti Distanzianti (“Ds”, dismissing): sono soggetti che tendono a fornire descrizioni generalizzate dei propri genitori ma non riescono a supportare tali definizioni con ricordi specifici. Se è presente il ricordo di un’esperienza difficile, a questa è attribuito scarso o nessun peso nella vita.
Hanno uno stile narrativo economico e scarno delle loro esperienze infantili e dai loro racconti è difficile individuare le emozioni sottostanti.

Adulti Preoccupati (“E”, entangled): sono soggetti ancora fermi con i ricordi alle esperienze precoci con i propri genitori che descrivono estensivamente ma con modalità incoerente e confusa. Dai loro racconti si evince un’inversione di ruolo con i propri genitori che non costituiscono pertanto una base sicura. Presentano una seria difficoltà a definire le emozioni.

Esistono anche altre due possibili codifiche derivanti dall’ Adult Attachment Interview:

Adulti Irrisolti (“U”, unresolved): sono soggetti che non hanno risolto le esperienze traumatiche legate all’attaccamento, possono presentarsi coerenti nei loro racconti, ma fanno affermazioni decisamente non plausibili a proposito delle cause e delle conseguenze di eventi traumatici, quali
la perdita di una figura di attaccamento.

– Non classificabile (CC, cannot classify): utilizzata per descrivere i trascritti delle interviste che non soddisfano pienamente i criteri per l’inserimento in una delle tre categorie “centrali” dell’attaccamento.

Un ulteriore approfondimento delle rappresentazioni di attaccamento fu compiuto da Bartholomew. Bartholomew (1990) mise in evidenza l’importanza di considerare l’effetto dell’immagine interna che ciascuno ha di sé e degli altri sulle rappresentazioni di attaccamento, in linea con il pensiero di Bowlby (1973), sapendo che i modelli operativi interni differiscono proprio in termini di immagine di sé e degli altri. Partendo da questo presupposto, Bartholomew individuò quattro modalità prototipiche di attaccamento derivanti dalla combinazione dei due livelli di immagine di sé (positiva e negativa) con i due livelli di immagine degli altri (positiva e negativa).

Quindi, i quattro prototipi di attaccamento individuati da Bartholomew sono:
(a) Prototipo Sicuro: deriva da una equilibrata combinazione tra intimità e autonomia. I soggetti
sicuri affrontano le relazioni con facilità in quanto in essi la sensazione di essere amabili (immagine positiva di sé) si combina perfettamente con l’idea che le persone sono in genere ben disposte e sensibili.
(b) Prototipo Preoccupato: indica livelli di preoccupazione elevati per le relazioni. I soggetti preoccupati tendono ad essere estremamente bisognosi di sostegno e di attenzione; a livello comportamentale ed emotivo sono instabili e ipersensibili. Inoltre sono portati a svalutarsi e ad essere eccessivamente dipendenti dall’approvazione altrui, tendendo ad idealizzare gli altri.
(c) Prototipo Distaccato/Svalutante: indica la negazione dell’intimità. I soggetti evitanti di tipo distaccato/svalutante esprimono esageratamente indipendenza e invulnerabilità; hanno una visione negativa degli altri rispetto ad una percezione positiva di se stessi. Per mantenere questa immagine positiva si distanziano emotivamente dagli altri e, con il tempo, sono portati a vedersi come pienamente autonomi. Pertanto essi raggiungono l’autonomia e il sentimento di autostima a spese dell’intimità.
(d) Prototipo Timoroso: indica la paura dell’intimità. I soggetti timorosi hanno una visione negativa sia di se stessi, sia degli altri; desiderano il contatto sociale e l’intimità, ma non si fidano degli altri e ne temono il rifiuto, per cui evitano le situazioni sociali.

A ogni prototipo è possibile avvicinarsi per gradi, poiché la maggior parte degli individui mostra più modalità di attaccamento durante l’arco della vita.
Bartholomew (1993) creò il Relationship Scale Questionnaire, per valutare la presenza delle quattro modalità prototipiche di attaccamento adulto.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Perché lo sbadiglio è contagioso?

La propensione umana allo sbadiglio contagioso, dunque, è innescata automaticamente da riflessi motori primitivi e, sebbene presente in tutti gli esseri umani, si presenta con una variabilità individuale (Bartholomew, & Cirulli, 2014). Questa idea è stata la base di un progetto di ricerca messo in atto da esperti dell’università di Nottingham, poi tradotto in un articolo pubblicato recentemente su Current Biology.

 

I correlati neurali responsabili dello sbadiglio contagioso

Vi è mai capitato di non sentirvi stanchi ma di osservare qualcun altro sbadigliare ed essere portati involontariamente ad imitarlo? Si tratta del cosiddetto fenomeno dello sbadiglio contagioso, una forma comune di “ecofenomeno”, comune in più specie, ovvero l’imitazione automatica di ciò che fa l’altro, come parole (ecolalia) o azioni (ecoprassia) (Ganos, Ogrzal, Schnitzler, & Munchau, 2012).

Le basi neurali degli ecofenomeni sono ancora sconosciute, anche se sono nate diverse teorie a riguardo. Una di queste ultime riguarda il potenziale nesso tra ecofenomeno e iper-eccitabilità della corteccia motoria primaria (Ganos et al., 2012).

La propensione umana allo sbadiglio contagioso, dunque, è innescata automaticamente da riflessi motori primitivi e, sebbene presente in tutti gli esseri umani, si presenta con una variabilità individuale (Bartholomew, & Cirulli, 2014). Questa idea è stata la base di un progetto di ricerca messo in atto da esperti dell’università di Nottingham, poi tradotto in un articolo pubblicato recentemente su Current Biology. I ricercatori hanno indagato i correlati neurali dello sbadiglio contagioso attraverso la stimolazione magnetica transcranica (TMS) di 36 soggetti adulti mentre erano esposti a video in cui altri individui sbadigliavano. Inoltre, i partecipanti erano separati in due gruppi: ad uno era richiesto di resistere a sbadigliare, all’altro era permesso di farlo. Tutti venivano video registrati per conteggiare il numero di sbadigli effettuati o trattenuti. L’utilizzo della TMS serviva a quantificare l’eccitabilità e l’inibizione fisiologica della corteccia motoria di ogni soggetto, in modo tale da predire la loro tendenza allo sbadiglio contagioso e, quindi, a confermare come questa fosse determinata proprio dall’attivazione di tali regioni cerebrali.

I risultati hanno dimostrato un incremento dell’urgenza a sbadigliare e un’alterazione della modalità di sbadiglio (es. completo vs. trattenuto) nei partecipanti a cui era richiesto di reprimere lo sbadiglio, ma non era emersa alcuna alterazione della tendenza individuale allo sbadiglio contagioso. Al contrario, i dati elettrofisiologici derivati dalla TMS risultavano predittori significativi di tale fenomeno spiegando il 50 % della variabilità individuale riscontrata. In altre parole, la variabilità individuale nell’imitare un’altra persona che sta sbadigliando dipende dall’attività eccitatoria/inibitoria della corteccia motoria primaria.

Questa ricerca rientra in una categoria di studi rilevanti per le loro implicazioni pratiche, poiché gli ecofenomeni sono riscontrabili in una serie di condizioni cliniche collegate all’attività della corteccia, come epilessia, demenza, autismo e sindrome di Tourette (Ganos et al., 2012). Dunque, comprendendo come le alterazioni nell’eccitabilità corticale determinino disturbi neurali, si potrebbe pensare a un trattamento in grado di modulare il disequilibrio presente nei network neurali.

Abuso infantile e futura promiscuità sessuale – Le risposte di fluIDsex

Mi chiedo se un abuso subito tra i nove e i dieci anni possa aver influito sulla mia fluidità sessuale, portandomi ad agire un comportamento promiscuo per molti anni della mia vita sia con uomini che con donne, fino all’attuale stabilizzazione verso il sesso femminile (Danilo).

 

Buongiorno Danilo, sicuramente un abuso può determinare delle conseguenze ed alcune di queste possono anche riguardare l’identità sessuale ed il modo di vivere la sessualità del soggetto abusato.

Ciò che mi preme però specificare è che la fluidità sessuale non è un comportamento promiscuo, ma un’espressione fluttuante dell’identità, o per lo meno dell’orientamento, sessuale del soggetto.

La promiscuità sessuale è invece un comportamento generalmente caratterizzato da un’alta numerosità di rapporti sessuali, non protetti, con diverse persone di differenti generi. Detto questo non vi è una soglia precisa che indichi quante persone bisogna aver “incontrato sessualmente” perché un comportamento possa essere considerato promiscuo. Inoltre, in psicologia, un’altra dimensione che viene considerata importante per l’inquadramento della promiscuità sessuale è la giovinezza del soggetto che si impegna nei suoi primi rapporti.

Tornando alla sua domanda, diversi studi scientifici hanno rilevano una relazione tra abuso in infanzia e promiscuità sessuale. Un’interpretazione che gli studiosi hanno dato a questo effetto dell’abuso sul comportamento sessuale del soggetto abusato è la difficoltà che può accompagnare quest’ultimo nello scindere l’affettività dalla sessualità.

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’ortoressia e il senso del cibo, spunti di riflessione dalla rete

L’ ortoressia viene definita come un’ ossessione per il “mangiare sano” che va ad incidere negativamente sulla sfera relazionale, emotiva e corporea dell’individuo. Stando alla letteratura l’esordio dell’ ortoressia nervosa è un condivisibile desiderio di mangiare meglio per avere una migliore forma fisica.

Bocazza Sara, Kettmaier Matteo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Introduzione: il significato del cibo, oltre l’utilità nutritiva

Il cibo, nella cultura italiana e in altre culture non solo occidentali, ha da sempre assunto un significato che travalica la sua utilità nutritiva. Il rituale del pranzo di famiglia ha avuto per molti anni la funzione di unificare il gruppo famigliare nonché di essere luogo per l’espressione e risoluzione di conflitti. Pensiamo al film Disney Ratatouille nel cui immancabile lieto fine il severissimo critico gastronomico viene sedotto dalla semplice ratatouille del titolo capace di risvegliare in lui il ricordo dell’affetto materno.

Già nel seminale testo di Mara Selvini Palazzoli “L’anoressia mentale” i disturbi restrittivi dell’alimentazione venivano messi in correlazione ad uno stile genitoriale materno in cui “l’importanza dell’ alimentazione vi è sottolineata pedantemente e aggressivamente, mentre i pasti hanno luogo in una atmosfera di reciproca critica e malumore”. L’ attinenza tra educazione affettiva e alimentare nei primi anni di vita è un tema che poi è stato ripreso in diverse correnti terapeutiche.

Viene da chiedersi come i mutamenti sociali degli ultimi anni in termini di composizione del nucleo famigliare, stile genitoriale e orizzonte valoriale stiano producendo un cambiamento in questo fondamentale mattoncino del percorso evolutivo di ciascuno.

Di sicuro il cibo, soprattutto negli ultimi cinque anni, è oggetto di un’attenzione mediatica senza precedenti: innumerevoli spettacoli televisivi, reality shows, approfondimenti, pareri di esperti e forum riempiono palinsesti televisivi, giornali e, soprattutto, bacheche online. A questo surplus di informazione si accompagna inevitabilmente un certo grado di disinformazione.

Per (apparente) paradosso proprio un momento storico in cui l’ alimentazione sembra passare da “questione famigliare” a “questione sanitaria” assistiamo alla proliferazione di un inquinamento informativo senza precedenti; il paradosso è apparente perché insito nella impossibilità di un’autorità assoluta sul tema. Tramontato il tempo della madre nutrice depositaria della saggezza alimentare tramandata da generazioni, nessuna autorità può davvero imporre o proporre un’alimentazione “corretta e adatta” per tutti in quanto non verrebbero presi in considerazione innumerevoli parametri individuali.  Quando poi le linee guida generali delle autorità sanitarie non bastano a rispondere a preoccupazioni personali ecco spalancarsi il vaso di Pandora delle riposte definitive che nella maggior parte dei casi sono inutili e dannose.

Ortoressia: l’ ossessione per il mangiar sano

In questo scenario emerge lo spettro di una nuova etichetta diagnostica: l’ ortoressia.

L’ ortoressia viene definita come un’ ossessione per il “mangiare sano” che va ad incidere negativamente sulla sfera relazionale, emotiva e corporea dell’individuo. Stando alla letteratura (Oberle et al., 2017) l’esordio dell’ ortoressia nervosa è un condivisibile desiderio di mangiare meglio per avere una migliore forma fisica.

E’ riportato anche come molti dei pazienti diagnosticabili con tale disturbo avessero un BMI superiore alla norma il che lascia intendere che l’ immagine corporea percepita sia problematica ma non eccessivamente distorta. Il nucleo patologico dell’ ortoressia risiederebbe quindi altrove: in una serie di convinzioni distorte su ciò che è sano e nel senso di superiorità personale che deriva dal sottoporsi alle restrizioni alimentari derivanti.

L’ ortoressia on-line

Non è difficile trovare esempi di tali convinzioni distorte in quanto esse vengono diffuse e propagandate da numerosi siti.

In attesa di un’analisi qualitativa approfondita del voluminosissimo materiale online al riguardo, riportiamo di seguito qualche esempio di convinzioni distorte.

Mangiare cibo spazzatura abbassa il vostro livello intellettivo rendendovi più facili da controllare. Questo cibo scompiglia letteralmente la vostra mente, intorpidendo i vostri sensi con il glutammato monosodico, l’aspartame ed estratti di lievito […] il cibo morto spegne i livelli superiori della coscienza […]1

Gli scarti della frutta sono eliminabili dai nostri organi in maniera perfetta, di tutta l’acqua di cui è composta la frutta il sangue se ne libera attraverso i reni, mentre il suo materiale va via attraverso l’intestino senza lasciare scorie. E’ un equilibrio perfetto in cui il sangue nutre le cellule, e dove i pochissimi scarti da loro prodotti vengono espulsi dal corpo umano attraverso il sangue, che li scarta negli organi emuntori. Questa è la perfezione che il fruttariano cerca di non alterare, ed ecco invece cosa non succede al resto del mondo, che ogni giorno subisce il circolo perverso che porta con l’andare del tempo alla debilitazione fisica” 2.

Le persone che ci accusano di ortoressia sono persone ignoranti, schiave del sistema economico-sociale-bancario-farmaceutico-alimentare-industriale attuale; io sono fiero di dire ad alta voce che tutto dipende dall’ alimentazione, anche il peccato originale è nato da un atto errato di alimentarsi (ma non era di certo la mela). L’umano dovrebbe essere l’animale più intelligente, eppure lavora e si ritrova in catene per alimentarsi.3

[…] gli ortoressici stanno cominciando ad essere visti come una minaccia per le Grandi Multinazionali, tanto da dover essere domati e repressi da Big Pharma […]4

Queste citazioni possono essere inscritte in un filone di disinformazione le cui conseguenze sulla società diventano sempre più forti ed evidenti. Antivaccinisti, sovranisti individuali, seguaci di David Icke e simili acquistano spazio nel discorso pubblico esacerbando condizioni difficili e rendendo sempre più fumoso il concetto di scientificità e libertà individuale.

In molte di queste tendenze di pensiero complottista si può riscontrare una delle componenti proposte da Oberle e collaboratori (2017) per la diagnosi di ortoressia: il senso di superiorità nei confronti degli altri. L’ ossessione per il cibo sano si presenterebbe quindi non solo come una risposta facile alla paura della morte condita da letture semplicistiche della realtà, ma anche come un “automedicazione narcisistica” che protegge da un senso di inadeguatezza sociale. Come avviene quasi sempre parlando di disturbi mentali, anche in caso di ortoressia abbiamo l’instaurarsi di un circolo vizioso per cui proprio le ossessioni alimentari finiscono per alimentare isolamento sociale e difficoltà relazionali.

A riguardo nella scala EHQ (Eating Habits Questionnaire) troviamo i seguenti item:

  • Le mie abitudini alimentari sono superiori a quelle degli altri
  • La mia dieta è migliore di quella di altre persone
  • Io cucino nella maniera più sana in assoluto
  • Io sono maggiormente informato rispetto agli altri riguardo al cibo sano.

Disinformazione on-line: quale differenza tra siti pro-ortoressia e siti pro-ana?

La disinformazione online “pro-ortoressia” si differenzia da quella, ampiamente discussa e controversa, dei canali “pro-ana” che promuovono comportamenti francamente patologici e che oscillano tra la fascinazione morbosa per la malattia e l’auto mutuo aiuto tra membri e frequentatori. L’ambizione degli integralisti del cibo sano è di tipo informativo e si presenta come una realtà rivelata spesso non scevra di accenni mistici e pseudo spirituali. Se l’ingroup dei siti pro-ana si identifica come deviante, così come le comunità online riconoscibili dalla chiave di ricerca #mysecretfamily e altre (si veda Moreno et al. 2016), parlando di ortoressia c’è invece una pretesa di superiorità morale e di proselitismo.

I danni dell’ ortoressia: le testimonianze

Fortunatamente, sempre su Internet, possiamo trovare anche testimonianze di chi ha subito le conseguenze avverse di questa condizione. Particolarmente illuminante quella di Steve Bratman 5:

Dopo un anno circa di questo regime auto-imposto, mi sentivo leggero, con la mente sgombra, pieno di energie, forte e dalla parte del giusto. Consideravo le miserabili, dissolute anime che ingoiavano biscotti con gocce di cioccolato e patatine come meri animali ridotti al soddisfare la loro brama gustativa. Ma non ero compiaciuto della mia virtù. Sentendo come un obbligo l’illuminare i miei deboli fratelli, istruivo continuamente amici e familiari sulla dannosità dei cibi raffinati e processati e sulla pericolosità di pesticidi e fertilizzanti artificiali.

In questa sofferta testimonianza possiamo leggere tutta la pesantezza di quel senso di superiorità, epifania e rivelazione di cui sopra. Questa euforia però non dura:

Gradualmente, comunque, iniziai a sentire che c’era qualcosa di sbagliato. Il bisogno di ottenere cibo privo di carne, grassi o composti chimici artificiali mise quasi tutta la socialità legata al cibo fuori dalla mia portata. Inoltre, pensieri intrusivi di cavolini si frapponevano fra me e la buona conversazione. La cosa più sconvolgente di tutte, forse, era che cominciavo a sentire che la poesia nella mia vita era diminuita. Tutto quello a cui riuscivo a pensare era il cibo.

La testimonianza di Bratman è particolarmente preziosa perché è dal suo vissuto personale e dal suo lavoro che il costrutto di ortoressia ha iniziato a farsi strada nella comunità clinica.

I siti anonimi di confessioni e testimonianze sono, poi, degli utilissimi portali per sentire la voce di chi soffre a causa dell’ ortoressia.

Per riassumere, un disturbo è un disturbo. Quando “ortoressia” è diventato finalmente parte del lessico ero sia spaventata che sollevata. Spaventata perché quello che faccio potrebbe essere considerato un disturbo; sollevata perché anche altri condividono questo dolore. L’altra cosa è che la mia vita è miserabile. Io non saprei come altro descriverlo. Riesco ad indossare la mia taglia 38 ma a parte questo tutto il resto sta crollando. Non necessariamente a causa dell’ ortoressia, ma l’ ortoressia sicuramente non aiuta, psicologicamente. Vorrei sentire le storie di altri che sono prigionieri delle loro “regole” alimentari perché è così che mi sento in questi giorni. Prigioniera”. 6

Mio marito ha iniziato a preoccuparsi della sua salute circa un anno fa e da allora mangia solo insalata scondita, verdure al vapore, frutta e frutta secca. Lui nega assolutamente che ci siano problemi di sorta nonostante abbia perso 27 kg e abbia tutti i tipi di fastidi e dolori muscolari (corre e solleva pesi ogni giorno). E’ molto difficile averci a che fare“. 7

Il ruolo e l’autorità delle informazioni online riguardanti i disturbi mentali sono un aspetto che gli operatori della salute mentale devono e dovranno tenere sempre più in considerazione. Nel caso dell’ ortoressia questo problema è particolarmente evidente. Trattandosi di un disturbo che, quantomeno al suo esordio, si presenta come egosintonico, la diffusione di informazioni a riguardo assume inevitabilmente i modi di una propaganda. Questo genere di contenuti è più facile da produrre, da ricevere e da diffondere rispetto alle storie personali segnate da vergogna, disagio e sofferenza di chi è andato oltre la “luna di miele” con le convinzioni ortoressiche.

Siamo all’alba della definizione di un disturbo che si presenta particolarmente insidioso da descrivere in termini semplici che non suonino paradossali. Se pensiamo a quanta poca informazione ci sia tutt’oggi, ad esempio, riguardo a un disturbo riconosciuto e conclamato come il gioco d’azzardo patologico ci rendiamo conto di quanto sia difficile informare e sensibilizzare riguardo a un disturbo che si presenta come parossismo patologico di un comportamento sano: l’attenzione per ciò che si mangia.

Per uscire da questa impasse occorrerebbe una maggiore enfasi sull’aspetto relazionale della vita odierna. Quello che l’ ortoressia toglie alle persone è proprio la pienezza dell’esperienza alimentare come momento sociale e culturale. La convivialità sembra essere un valore perduto e la rappresentazione mediatica del cibo assume toni sempre più medicalizzanti e elitistici.

Telegiornali e riviste insistono quotidianamente nel proporre improbabili regimi alimentari perfetti con i quali prevenire malattie e vivere a lungo oppure indugiano nella retorica di un cibo sano perché tradizionale, etico, e puro. In tutto questo si è perso il senso comunitario del nutrirsi aprendo la porta alle esagerazioni della pubblicistica online, narrazioni del cibo coerenti con quelle ufficiali ma con quell’esasperazione contenutistica capace di creare un nuovo senso di appartenenza negli utenti di tali siti.

Nella presunzione e nel narcisismo di questi profeti dell’ alimentazione pura assistiamo al ribaltamento definitivo dell’idea giudaico-cristiana del cibo come fattore di inclusione e condivisione. Proprio gli alimenti diventano invece veicoli di auto esclusione, dei totem attribuiti di proprietà magiche positive o negative il cui culto divide l’umanità tra i risvegliati e i dormienti: non è un caso che molto spesso venga citato il film Matrix come metafora di questa condizione. Non possiamo che sperare in una maggiore attenzione nei confronti del disagio mentale, non solo in materia di ortoressia ma in generale, nonostante lo scarso appeal che questo può avere sul sistema dei mass media.

L’anonimato della comunicazione online in questo gioca un ruolo positivo permettendo la self-disclosure anche dei vissuti più difficili.

Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi (2015) di Giuseppe Craparo – Recensione del libro

Appare molto interessante questo libro di Craparo che già dal titolo, Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, mostra il tentativo di affrontare alcuni temi particolarmente pregnanti nella pratica analitica.

Francesca Picone

 

Appare molto interessante questo libro di Craparo che già dal titolo, Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, mostra il tentativo di affrontare alcuni temi particolarmente pregnanti nella pratica analitica, quali il significato del desiderio e del desiderare e il confronto con il bisogno di certezze secondo i principi del classico modello scientifico. Si tratta di un piccolo libro che però un analista aggiornato, o comunque uno studioso di psicodinamica, non può non tenere a portata di mano per l’importanza degli argomenti trattati.

Craparo, infatti, presenta con Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi un lavoro molto denso ed estremamente ricco, che spazia dalla più tradizionale teoria freudiana alle più moderne impostazioni psicoanalitiche: pur attingendo a punti di vista di Autori di correnti anche apparentemente molto distanti tra loro, ne emerge una visione personale sintetica, che è la risultante di una propria matura rielaborazione, supportata in modo assolutamente appropriato dalla presentazione di più situazioni cliniche.

Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi: dalla teoria alla pratica

Nel corso della lettura di Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, appare evidente una sorta di progressione a partire da una dimensione più teoretica che puntualizza i differenti concetti di inconscio, per poi giungere alle più evidenti implicazioni nelle patologie relative al disfunzionamento dell’inconscio rimosso e dell’inconscio non rimosso, fino ad entrare nella pratica clinica.

Il testo è scritto in maniera molto chiara e concisa, procedendo talora in modo molto serrato; in più circostanze, Craparo si espone direttamente con un proprio punto di vista a volte in forte contrasto con i vari Autori, mentre in altre circostanze precisa e chiarifica l’opinione di altri studiosi in modo sempre lucido; la padronanza dei temi indica lo spessore culturale e clinico dell’Autore, soprattutto quando si sofferma sul ruolo delle emozioni traumatiche in alcune forme di patologie gravi, quali le dipendenze patologiche.

La stessa lucidità la si ritrova quando vengono descritte le differenze tra acting out ed enactment, partendo dalle definizioni in letteratura, ma rivisitandole sulla scorta dell’excursus teorico mostrato nel testo. Ne scaturiscono, in particolare, importanti e preziose ricadute dell’enactment sulla relazione analitica, come espressione in termini di non-detto di ciò che il paziente non riesce altrimenti ad articolare, di quel desiderio (da de-siderare, raggiungere, avvicinarsi  alle stelle), che in modo diverso a seconda della gravità del disturbo, si ritrova per così dire fissato nel sintomo.

All’analista allora, scrive Craparo in Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, il compito di ascoltare il sintomo, perché possa successivamente essere interrogato. Ancora all’analista, il compito di dover duramente fare i conti con il fatto di “sapere di non sapere” e di fare della pratica dell’in-certezza l’unica dimensione possibile per l’analisi, capace di rendere oggettivo e quindi certo, ciò che è soggettivo e quindi totalmente incerto, in un processo di profonda condivisione emotiva  tra analista e paziente.

Il sintomo, dalla sua radice greca sun-temno (tagliare, interrompere), può diventare così sum-ballo (mettere insieme), cioè simbolo, riattivando, e in alcuni casi, avviando per la prima volta, quello straordinario percorso, che è il viaggio della vita.

L’utilizzo di tecniche di neurostimolazione nel trattamento dei disturbi psichiatrici

Recentemente, un numero sempre crescente di studi neuroscientifici ha indagato i circuiti neurali coinvolti nei vari disturbi psichiatrici, allo scopo di chiarire i meccanismi neurobiologici che contribuiscono alla loro comparsa e mantenimento e sviluppare delle tecniche di neurostimolazione efficaci.

 

Le evidenze circa il ruolo di determinate regioni cerebrali e circuiti neurali ha portato ad indagare l’utilizzo di tecniche di neurostimolazione per interferire con l’attività delle aree coinvolte nella fisiopatologia dei diversi disturbi, allo scopo di sviluppare protocolli di trattamento da affiancare alle classiche terapie farmacologiche e alla psicoterapia. Queste tecniche infatti sono facilmente impiegabili sia in ambito clinico che in contesti di ricerca e hanno il vantaggio di produrre effetti specifici, non invasivi e potenzialmente a lungo termine.

Tecniche di neurostimolazione: la Stimolazione Magnetica Transcranica

La Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), introdotta inizialmente per la studio dell’eccitabilità della corteccia motoria, è una delle tecniche di neurostimolazione non invasive, in grado di indurre potenziali post sinaptici eccitatori all’area target della stimolazione creando un campo elettromagnetico attraverso un coil. Quest’ultimo può essere di varie forme: circolare, caratterizzato da un campo elettrico diffuso; a farfalla, costituito da un campo elettrico più concentrato e più forte che rende questo tipo di coil il più adatto per gli studi di mappaggio cerebrale; conico, con le ali che seguono la forma della testa e con un campo elettrico meno concentrato ma più forte, infatti esso viene usato soprattutto per stimolare aree corticali più profonde e infine il coil 25 mm, impiegato in particolare per la stimolazione periferica. La TMS viene applicata seguendo diversi paradigmi di stimolazione tra cui la stimolazione on-line e off-line, la stimolazione a singolo e a doppio impulso e quella a impulsi ripetuti (rTMS), che determina effetti neurali più duraturi; in particolare quando la rTMS viene applicata a bassa frequenza (< 1 Hz) l’eccitabilità corticale si riduce, quando invece viene utilizzata ad alta frequenza (> 1 Hz) l’eccitabilità aumenta.

Effetti della TMS su alcuni disturbi psichiatrici

L’efficacia della TMS nel trattamento della depressione maggiore è stata approvata nel 2008 dalla Food and Drug Administration (FDA), sulla base dei risultati di alcuni studi tra cui quello di O’Reardon e colleghi (2007) che ha riportato un miglioramento significativo dei sintomi depressivi in un campione di 301 pazienti sottoposti ad un trattamento che prevedeva l’applicazione della rTMS ad alta frequenza sulla corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra (lDLPFC), cinque volte la settimana, per sei settimane. In particolare, la neurostimolazione può aver interferito con l’ipoeccitabilità della lDLPFC, che sembra avere un ruolo nella genesi del disturbo.

Rispetto all’uso di tecniche di neurostimolazione in caso di disturbo ossessivo-compulsivo, uno studio (Ruffini, Locatelli, Luca et al., 2009) ha utilizzato per tre settimane consecutive la rTMS a bassa frequenza sulla corteccia orbito frontale sinistra di 18 pazienti, dimostrando un miglioramento dei sintomi al termine del trattamento e a dieci settimane dalla fine.

L’efficacia della neurostimolazione può essere il risultato dell’interferenza con l’iperattività della corteccia orbito frontale. Diversi studi di neuroimaging infatti hanno associato il disturbo ossessivo-compulsivo a disfunzioni a carico del circuito neurale che lega la strutture frontali ai gangli della base: in particolare si osserva un’aumentata attività a livello della corteccia orbito frontale, della corteccia cingolata anteriore, dell’area supplementare motoria, del nucleo caudato e del talamo.

Infine, per quanto riguarda l’uso di tecniche di neurostimolazione nei disturbi del comportamento alimentare, uno studio recente (McClelland, Kekic, Campbell et al., 2016) ha dimostrato l’efficacia della rTMS ad alta frequenza applicata per venti sessioni sulla corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra di 5 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa. Si è osservata infatti una riduzione della sintomatologia alimentare e delle difficoltà legate all’umore in seguito al trattamento e fino a 12 mesi di follow-up. L’ipotesi è di un recupero, attraverso la rTMS, dell’ipoattività delle regioni frontali associata ai problemi di controllo inibitorio e di flessibilità cognitiva, caratteristici dell’anoressia nervosa.

Gli esempi illustrati, dunque, sottolineano le potenzialità dell’impiego delle tecniche di neurostimolazione in ambito clinico, tuttavia ulteriori studi sono necessari per chiarire i loro effetti e il ruolo delle aree corticali implicate nei diversi disturbi. In particolare, in base ai risultati, potrebbe essere possibile mettere a punto dei trattamenti di neurostimolazione che, in associazione a quelli standard già implementati, possano favorire miglioramenti dei sintomi a lungo termine.

13 Reasons Why: in USA la serie tv di Netflix fa impennare le ricerche sulla parola “suicidio”

Nel periodo in cui è andata in onda la serie televisiva 13 Reasons Why, nei motori di ricerca USA si è registrato un notevole aumento delle ricerche relative alla parola “suicidio”.

 

Nel periodo in cui è andata in onda la serie televisiva di Netflix 13 Reasons Why, nei motori di ricerca USA si è registrato un notevole aumento delle ricerche relative alla parola “suicidio”. La protagonista delle serie TV muore suicida e lascia dei video in cui spiega le ragioni del suo gesto.

13 Reasons Why e suicidio: la ricerca statunitense

Uno studio statunitense pubblicato online il 31 luglio da JAMA Internal Medicine rivela che le ricerche sul web relative alla parola “suicidio” hanno spiccato il volo subito dopo che Netflix ha messo in onda 13 Reasons Why. Si tratta di una popolare serie TV la cui protagonista si suicida.

I ricercatori hanno utilizzato un algoritmo, per valutare come le ricerche online sul suicidio siano cambiate dopo 13 Reasons Why, basato sulle tendenze di ricerca quotidiane dal 15 gennaio al 30 marzo, vigilia della messa in onda. Il team scientifico ha in seguito valutato i volumi di ricerca online sul suicidio dalla data di esordio della trasmissione (31 marzo) fino al 18 aprile. Per 12 dei 19 giorni successivi al 31 marzo, tutte le ricerche online relative al suicidio sono aumentate dal 15 al 44%.

Questo significa 900.000-1.5 milioni di ricerche più rispetto alla media.

Più qualcuno riflette sul suicidio, più è probabile che lo metta in atto – dice John Ayers, della San Diego State University of California, autore principale dello studio.

Ad esempio, il numero di ricerche con la parola “suicidio” ha registrato un aumento del 26% dopo il debutto di 13 Reasons Why mentre quello delle ricerche con le parole “commettere suicidio” è risultato più elevato del 18%. Infine, le ricerche sul web con la frase “come uccidere se stessi” sono risultate più numerose del 9%. Allo stesso tempo, anche le ricerche di richiesta di aiuto sono aumentate rispetto alla media. Dopo la serie TV il “suicide hotline number” è stato sollecitato un numero di volte superiore del 21% rispetto al previsto e le ricerche online con la frase “prevenzione del suicidio” sono state più numerose del 23%. La ricerca con le parole “suicidio teen” è stata superiore del 34%.

13 Reasons Why: le preoccupazioni degli esperti

In 13 Reasons Why la studentessa di scuola superiore Hannah Baker si uccide e lascia videoregistrazioni degli eventi che hanno portato alla sua morte, mostrata in dettaglio grafico nel finale della serie. La fiction contiene scene di stupro, guida in stato di ubriachezza e bullismo. Dopo il suo debutto, molti esperti di salute mentale hanno sollevato preoccupazioni. Il loro timore era quello che si verificassero casi di suicidio per emulazione in adolescenti vulnerabili, già in difficoltà per depressione o pensieri suicidi.

Netflix, in risposta alle preoccupazioni sulla serie, ha aggiunto ulteriori avvertenze sui contenuti e informazioni sulla prevenzione del suicidio. La pay-tv ha anche incoraggiato i genitori a guardare lo spettacolo con i figli adolescenti e ha offerto possibilità di dibattito sulla questione. “Abbiamo sempre creduto che questo spettacolo avrebbe incoraggiato la discussione su questo argomento difficile”, ha detto Netflix.

Gli sceneggiatori potevano fare di più per evitare di scatenare pensieri suicidi o tentativi di togliersi la vita – dice Kimberly McManama O’Brien, coautore dell’ editoriale di accompagnamento e ricercatrice di psichiatria presso la Harvard Medical School di Boston. – La decisione di mostrare in dettaglio il suicidio della protagonista della serie è stata controversa. La ricerca ha dimostrato che le immagini o le descrizioni dettagliate di come o dove una persona muore suicida può costituire un fattore scatenante in individui vulnerabili.

Su 20 ricerche comuni in tema di suicidio esaminate dai ricercatori, 17 hanno evidenziato un volume di ricerca superiore al previsto durante il periodo di studio.

Poiché lo studio suggerisce che lo spettacolo TV abbia aumentato sia la consapevolezza che l’ideazione suicida, si potrebbero aggiungere ulteriori avvertimenti alle serie TV attuali e future – concludono i ricercatori.

 

13 REASONS WHY – IL TRAILER: 

https://www.youtube.com/watch?v=kHUe5oBvfHI

I gruppi tendono a mentire più degli individui?

Un nuovo studio tedesco osserva come le persone, quando sono in gruppo, siano più propense a mettere in atto comportamenti disonesti, soprattutto quando è coinvolto il denaro. I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista Management Science.

Cosa spinge un gruppo ad azioni disoneste?

Quando le aziende intraprendono comportamenti ingannevoli o corrotti su larga scala, spesso non si tratta solo di uno o due dipendenti disonesti, ma di uno sforzo coordinato di molti individui, che coinvolge i vertici dell’azienda.
Tra i principali esempi figurano i fallimenti di WorldCom e Enron e, più recentemente, la presunta emissione di certificati del produttore tedesco Volkswagen.

Questo studio ha esaminato le motivazioni del gruppo ad agire in modo disonesto, anche a fronte di precedente onestà.

I ricercatori della Ludwig-Maximilians-University di Monaco di Baviera, Germania, hanno valutato 273 partecipanti sia nelle situazioni individuali che in gruppo.
Ai partecipanti è stato mostrato un video nel quale c’erano dei dadi che roteavano ed è stato chiesto poi di riferire il numero che compariva in ogni dado. Quanto più alto era il numero che compariva nei dadi, tanti più soldi ricevevano.

I partecipanti sono stati valutati individualmente e in due gruppi (i membri sono stati in grado di comunicare tramite una funzione di chat).
In una delle situazioni di gruppo, tutti i membri erano tenuti a riferire il medesimo numero per ricevere il denaro. Nell’altro gruppo, i membri non dovevano segnalare il numero per ricevere un compenso.

I gruppi mentivano significativamente più degli individui quando questo significava un reciproco guadagno e dovevano coordinarsi a tal fine” ha affermato l’autore, il Dr. Martin G. Kocher.

Un totale di 78 gruppi ha partecipato allo studio. Tra questi, gli argomenti a favore di azioni disoneste sono stati esplicitamente menzionati nel 51 per cento delle discussioni di gruppo: il 43,4% ha sostenuto la disonestà, mentre solo il 15,6% ha optato per l’onestà.

Un dato interessante è che la disonestà individuale misurata nella prima parte dello studio, non ha influito sul risultato finale. Infatti, la disonestà si è verificata anche in gruppi in cui tutti i membri avevano precedentemente risposto onestamente.

Secondo i ricercatori la possibilità di discutere in gruppo le potenziali giustificazioni a un comportamento disonesto consente di stabilire una nuova norma in merito a ciò che è o non è disonesto: ciò che prima era considerato disonesto può quindi diventare lecito e aprire il campo a comportamenti scorretti sostenuti dall’intero gruppo.

L’unico dato certo è quell’odio verso la statistica che smentisce i nostri pregiudizi

Una guerra è in corso tra la statistica e le nostre indignazioni pubbliche. Non facciamo in tempo a prendercela per la perdita di valori –qualunque essi siano, progressisti o conservatori pari sono- che da qualche parte salta fuori una statistica che rende ogni pensiero marginale e irrimediabilmente privato.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 12/08/2017 

 

Pensavamo di essere surfisti sull’onda di un grande idea storica insieme a un popolo in rivolta e ci ritroviamo con una nostra insignificante idiosincrasia, una semplice emozione travestita da idea universale. Curioso poi che questa azione solvente della statistica sia a tutto campo e non risparmi nessuno. Un giorno colpisce una persona di simpatie conservatrici preoccupata per la perdita dell’identità culturale europea minacciata dalle immigrazioni. Arriva la statistica e dimostra che le cifre sono sempre meno catastrofiche di quel che si pensava.

Non fai in tempo a rallegrarti per la degradazione delle idee altrui a pregiudizi che ti ritrovi nella stessa situazione. Hai appena deriso l’amico troppo preoccupato per l’invasione dei migranti che magari ti ritrovi a scoprire che il tasso di femminicidio è risibile. Numeri bassi che vanno d’accordo con la diminuzione della delinquenza in atto da anni. Cerchi di consolarti pensando “si, ma in Italia…” e poi scopri che il strage delle donne è soprattutto un problema del nordeuropa e che l’Italia è sotto la media europea. D’altro canto avevamo appena detto all’amico destrorso che tutta questa sua preoccupazione per la sicurezza è esagerata.

Potevamo anche aspettarcelo che anche la strage delle donne seguisse la stessa tendenza. Ce lo dice il rapporto dell’ONU sugli omicidi in base al sesso. E ce lo ha dimostrato lo psicologo (e statistico) Steven Pinker in “Il Declino della Violenza”. La violenza diminuisce nel mondo, e quindi diminuisce anche la violenza degli immigrati; e viceversa, però: diminuisce la violenza dei gruppi xenofobi contro gli immigrati. In teoria dovremmo essere tutti più contenti. Invece ci sentiamo tutti un po’ stupidi senza il nostro nemico preferito. Isaia 11, 1-10: “Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo giacerà col capretto, il vitello, il giovin leone e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà” e tutti si sentiranno un po’ cretini e un po’ infastiditi.

Nietzsche ci aveva avvertito: senza odio da nutrire ci annoiamo. Grattarsi può essere dannoso ma è anche piacevole e l’impossibilità di farlo è seccante. È come avere un prurito persistente proprio su quel punto della schiena dove non riusciamo a grattarci.

La mente funziona per generalizzazioni. Nei tempi antichi, quando c’erano i soliti greci, eravamo contentissimi di questa nostra peculiarità, la capacità di generare concetti. Ci faceva sentire alla sommità della creazione. Bei ricordi di scuola. Socrate, Platone, Aristotele, i concetti, le idee, ma anche Prometeo. Che forza, che potenza, che bello pensare! Oggi siamo più prudenti. Ogni concetto che mettiamo assieme si irrigidisce in un pregiudizio nel tempo di cottura di un uovo. Siamo lì con una buona idea e dopo un po’ ci ritroviamo con una realtà incomprensibile che riduce ogni nostra rappresentazione a uno stereotipo.

Che bella l’idea dell’Occidente patria dei diritti individuali e ti ritrovi a essere uno spaurito intollerante di provincia pieno di pregiudizi. Che bella l’idea del maschio violento e dopo un po’ ci ritroviamo quasi di fianco al filisteo che rimpiange i tempi antichi eternamente preoccupato da un inesistente aumento della violenza moderna (è vero il contrario) o peggio rasentiamo il pregiudizio anti-meridionale dopo aver scoperto che gli amici nordeuropei fanno fuori più donne di noi italiani.

Insomma, con la statistica sembra che non accada mai nulla. Le cifre non sono mai significative. Il brutto è che poi la verifica oggettiva, il fact checking all’inglese che suona sempre bene, diventa sempre più confusivo perché i dati a disposizione sono talmente tanti che non si arriva mai a un’informazione conclusiva. I fatti sfuggono. Non che i ragionamenti non statistici siano di maggiore aiuto. Il vitalizio ai parlamentari, vogliamo parlarne? Per carità. Non era stato già abolito? Abolito di nuovo? Non si capisce. Ai tempi dei soliti greci avevamo deciso di finanziare chi partecipava all’assemblea per impedire che la politica fosse privilegio dei ricchi e oggi invece brighiamo notte e giorno per rendere la politica un affare non retribuito, rischiando di consegnarla di nuovo ai ricchi oligarchi. Questo sviluppo è progressista? È conservatore? Non chiedetecelo, non lo sappiamo. Ogni ragionamento porta dappertutto e in nessun luogo.

Le idee iperverificate diventano inverificabili e scadono a pregiudizi privati. E attraverso questa via tornano a essere non più rappresentazioni della realtà ma di noi stessi. Ma poi, proprio perché confinate in noi stessi finiscono per diventare di nuovo visioni del mondo che non vogliono confrontarsi con i fatti. È il vecchio bisogno di appartenenza, che però non è affatto etnico, ma è mentale e culturale. Ho una sensibilità di destra? Mi preoccupo della mia identità culturale e non mi importa delle cifre. Ho una sensibilità di sinistra? Mi preoccupo dei diritti delle minoranze -oggi le donne, domani chissà- e non mi importa delle cifre. Strano percorso, strana giostra. Le idee degradate a ossessioni personali finiscono per rivendicare la loro natura di rappresentazioni culturali. Oscillando troppo ci agganciamo a un’ancora mentale e finiamo nel fondo del mare, ancora una volta.

Il dolore non è solo dolore

Cos’è il dolore? Come definireste quella sensazione spiacevole che identificate come dolore? Soprattutto, lo definireste in relazione esclusivamente alla sensazione somatica (per lo più tattile) che evoca?

 

Cos’è il dolore? Come definireste quella sensazione spiacevole che identificate come dolore? Soprattutto, lo definireste in relazione esclusivamente alla sensazione somatica (per lo più tattile) che evoca? Penso di no, quello che è chiaro e fuori ogni dubbio quando provate dolore è che esso non si limita ad essere una semplice sensazione, ma riguarda qualcosa di più che tocca il vostro pensiero e la vostra emotività.

La definizione di dolore della IASP (International Association for the Study of Pain) mette in rilievo la sua componente esperienziale e cognitivo/affettiva, infatti lo definisce “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”, tuttavia in letteratura e nella pratica clinica ancora oggi è spesso considerato solo nella sua componente sensoriale. Tanto che, per esempio, uno dei più influenti ricercatori e teorici sul tema nel 2005 scriveva:

We are so accustomed to considering pain as a purely sensory phenomenon that we have ignored the obvious fact that injury does not merely produce pain; it also disrupt the brain’s homeostatic regulation systems, thereby producing “stress” and initiating complex programs to reinstate homeostasis” (Melzack, 2005, pag. 89).

Il dolore dal punto di visto fisiologico

Il dolore quindi non si limita ad essere una “semplice” sensazione, ma causa un complesso fenomeno di risposta omeostatica che interessa un network cerebrale e fisiologico complessissimo, che riguarda tutti i livelli di (ri)trasmissione dell’impulso nervoso (vedi figura 1)

Il dolore oltre l aspetto fisiologico: componenti psicologiche, cognitive ed emozional_Fig 1

Figura 1- tratta da Schweinhardt et al., 2010.

 

Questo network altamente riverberante e ad ampio spettro ci fa capire la complessità della risposta dolorifica, ma anche la sua validità filogenetica, dato che tutti i livelli di ritrasmissione, perfino quelli più “antichi” partecipano a definire la nostra esperienza dolorifica. Vi basti pensare che le fibre C (cellule nervose caratteristiche del sistema dolorifico) sono presenti anche negli invertebrati (Kumazawa, 1998). Il network, come si evince dalla figura, va a toccare aree del sistema nervoso centrale che partecipano a livello psicologico e soggettivo a definire la parte cognitiva, emotiva e di risposta fisiologica/omeostatica dell’esperienza dolorifica. Cercheremo di descrivere brevemente ognuna di queste componenti, che appaiono essere rappresentate a livello biologico nel nostro sistema nervoso, ma che dobbiamo ancora scoprire come si manifestano a livello psicologico e comportamentale.

Dolore: aspetti attentivi e di risposta omeostatica

Pensate un secondo a quando vi capita di urtare per sbaglio uno spigolo con la vostra mano, percepite immediatamente dolore e rivolgete la vostra attenzione subito verso la parte del corpo dolorante e, al contempo, ritraete rapidamente la mano. Tutto questo procedimento lo fate immediatamente e senza pensarci. In altre parole, provare dolore ci fa interrompere qualsiasi attività e catalizza tutte le risorse attenzionali verso la fonte dolorifica (Price, 1988). L’attenzione è così importante nel definire come percepiamo lo stimolo che utilizzando tecniche di distrazione, si riduce sensibilmente l’intensità dolorifica percepita e la tolleranza (per esempio è stato utilizzato efficacemente il visore di realtà virtuale – vedi Sil et al, 2014). La cattura dell’attenzione non si realizza casualmente, ma è finalizzata a determinare una risposta nei confronti della fonte dello stimolo doloroso. Detto in altri termini: l’attenzione è un meccanismo di selezione per l’azione: quando sentiamo dolore ne consegue una spinta “arcaica” finalizzata alla fuga dalla fonte dello stimolo nocivo (Ercolani e Pasquini, 2007). Questa “spinta” ovviamente è sostenuta dall’attivazione del nostro sistema omeostatico (HPA) che si attiva quando il nostro sistema rileva uno stimolo stressogeno, di cui il dolore è il miglior rappresentante.

Non è di per sé sorprendente osservare che il dolore catturi in toto la nostra attenzione e che il suo fine principale sia quello di attivare sistemi di regolazione omeostatica che hanno l’obbiettivo di rispondere o fuggire alla fonte dello stimolo. Se ci pensiamo, il dolore può essere considerato il “senso” più ancestrale di cui dispone il nostro sistema per interfacciarsi con l’ambiente, ed è il più importante perché ci permette di preservare la nostra integrità. Non sembra un caso che il nostro SNC abbia “costruito” un network così complesso e ampio per fronteggiare e processare il dolore (figura 1).

Aspetti cognitivi, emozionali e psicopatologici del dolore

Pensate ad un giorno in cui avete avuto un dolore persistente alla testa, che non vi lasciava in pace, ve lo siete trascinato fino alla sera fin quando non vi siete coricati. Se ci riflettete, scommetto che riuscirete a ricordarvi che in quel giorno eravate nervosi, oppure eravate leggermente depressi, sicuramente il dolore avrà condizionato la vostra giornata. Ora, se riprendiamo la definizione proposta dalla IASP, troviamo che il danno tissutale può essere in atto o potenziale. Questo è un punto fondamentale perché vuol dire che la nostra percezione del dolore è influenzata dalla nostra interpretazione e valutazione. Quando noi proviamo dolore, soprattutto a livello cronico, il sintomo che più spesso vi si associa è l’ansia. Paura ed ansia portano il paziente ad anticipare il dolore che proverà, esacerbando di conseguenza la sensazione. Inoltre, l’ansia anticipatoria correlata al dolore, può portare a gravi livelli di disabilità, poiché conduce all’evitamento massivo di tutte quelle situazioni e luoghi (anche lavorativi e scolastici) dove il soggetto ha sperimentato dolore (Gatchel et al., 2007).

La depressione è forse il sintomo più comune, secondo la  letteratura essa è presente in una percentuale che varia tra il 40% e il 50% nelle persone che soffrono di dolore cronico. Tuttavia, non sembra essere tanto la sensazione dolorifica in sé a generare lo stato depressivo, quanto le difficoltà nel farvi fronte e le ricadute sulla vita quotidiana. Ancora una volta non è la sensazione dolorifica a determinare una disfunzionalità quanto l’esperienza di dolore in generale.

Infine, insieme all’ansia e alla depressione troviamo la rabbia, che nell’individuo con sofferenza cronica di solito viene repressa (Okifuji e colleghi, 1999), perché socialmente indesiderabile, questo conduce ad una maggiore probabilità di trovare soggetti che rivolgono la rabbia verso se stessi piuttosto che verso gli altri. Anche in questo caso il nostro stato emotivo (rabbia) e il giudizio della situazione sociale determinano in modo importante il modo in cui esprimiamo e processiamo la nostra esperienza dolorifica.

Insieme a questi fenomeni cognitivo-affettivi abbiamo costrutti “puramente” cognitivi. Tra i più importanti troviamo le credenze e la tendenza a catastrofizzare. Un modello a mio parere interessante che cerca di fondere aspetti cognitivi ed affettivi in modo abbastanza coerente è quello proposto da Vlaeyen e Linton (2000) conosciuto anche come Fear-avoidance Model (figura 2).

Il dolore oltre l aspetto fisiologico componenti psicologiche, cognitive ed emozionali_fig2

Figura 2. Tratta da Vlaeyen e Linton (2000)

Nello schema semplificato che vedete (figura 2), si può osservare come la tendenza a catastrofizzare sia centrale nel definire la paura associata alle esperienze dolorifiche, al contempo però la catastrofizzazione dipende dalla affettività negativa e da come viene valutata la malattia (o lo stimolo doloroso). Senza addentrarci nella spiegazione di questo sistema di elaborazione delle informazioni, appare importante sottolineare come questo modello metta in evidenza la natura estremamente multicomponenziale dell’ esperienza dolorifica e il fatto, ormai non più trascurabile, che il dolore non si esaurisca nella sua componente sensoriale.

Prima di concludere sarebbe opportuno chiarire un punto importante, che potrebbe portare a fraintendimenti: quando scrivo di “secondarietà” dell’aspetto sensoriale, non vorrei lasciar intendere che il dolore come espressione nocicettiva non debba essere trattato; anzi, il primo passo per migliorare la sofferenza di un individuo è consentirgli di non provare più dolore. Quello che spero di aver trasmesso è il fatto che, soprattutto in condizioni di cronicità, il dolore come nocicezione è solo la punta dell’iceberg di un complesso sistema di valutazione ed espressione.

Volutamente ho tralasciato la componente sociale, che meriterebbe una discussione a sé. In quest’ultimo campo infatti si stanno facendo passi avanti enormi, sia a livello clinico che di pura speculazione scientifica. Un esempio su tutti: lo stile di attaccamento influenza in modo importante le modalità di espressione e processamento dell’esperienza dolorifica.

Il dolore è forse l’esperienza soggettiva più difficile da spiegare. Tanti hanno provato a definirlo ma pochi hanno colto nel segno come la definizione che segue, che in parte riassume tutto quello finora illustrato:

Il dolore si differenzia molto chiaramente dagli altri sistemi sensoriali poiché nell’elaborazione di una percezione identificata come dolore, la sensazione, l’emozione e la cognizione (anche sociale, ndr) sono strettamente legate (Le Bars e Willer, 2004, pag. 3)

Il problema di San Paolo – Ciottoli di Psicopatologia Generale

E’ di facile osservazione in psicoterapia e, per non andare lontano, nella nostra vita quotidiana la presenza di comportamenti che si ritengono utili ma, nonostante si sia effettivamente convinti della loro bontà e giustezza, non si riescono a mettere in atto. Al contrario ce ne sono altri che, pur valutati inutili e dannosi, non si riesce ad interrompere.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il problema di San Paolo (Nr. 24)

Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Romani 7,18-19).

 

La difficoltà di interrompere comportamenti dannosi

Sia gli uni, il buono che non si pratica, sia gli altri, il cattivo che non si abbandona attraversano il territorio della patologia come quello della normale vita quotidiana. Ne sono classici esempi: non seguire una dieta o non fare attività fisica nonostante lo si ritenga importante, non smettere di fumare, bere o assumere cibi o sostanze dannose e, più in generale non abbandonare tutte le cosiddette cattive abitudini e non praticare quelle che all’opposto si ritengono buone. Non interrompere relazioni o progetti che provocano danni e sofferenza e non intraprenderne altri evidentemente vantaggiosi.

Se poi si entra nel campo della psicopatologia appartengono a questa categoria tutti i sintomi (un evitamento fobico, un rituale ossessivo, un’abbuffata, ecc.) tant’è che il paziente intraprende una terapia proprio per eliminare comportamenti che lui stesso ritiene negativi e viceversa per assumerne altri che ritiene virtuosi.

Al danno poi si aggiunge la beffa quando il soggetto se la prende con se stesso (rabbia) o si svaluta (tristezza) per non riuscire a fare ciò che ritiene buono e giusto raggiungendo quel doppio stato di sofferenza che gli autori di scuola salernitana defininiscono come il mood del “cornuto e mazziato”caratterizzato da tutti quei rimproveri che si fanno a se stessi per non essere o comportarsi come si vorrebbe e che in terapia cognitiva si definiscono “problemi secondari” per intendere che diventa un problema pure avere il primo problema (fonte ispiratrice della fortunata serie “senza pace”).

E’ da comprendere meglio per poterlo superare lo iato esistente tra il capire e l’agire di conseguenza che nella vita di tutti i giorni o in terapia ci viene riferito o raccontiamo a noi stessi con frasi del tipo “ non ce la faccio!”, “E’ più forte di me!”, “Vorrei, dovrei, ma non posso, non riesco”. Insomma, il materiale di cui sono fatte le buone intenzioni destinate a rimanere tali per essere utilizzate per la pavimentazione delle strade che conducono ai nostri inferni privati.

I comportamenti negativi hanno dei vantaggi immediati ai quali non si intende rinunciare

In primo luogo bisogna capire che anche il comportamento giudicato negativo comporta dei vantaggi e delle ricompense immediate, non è dunque senza senso: solo prendendolo sul serio, trattandolo con rispetto e ascoltando i suoi motivi si può gestirlo, non certo bollandolo come folle, insensato e, peggio, fuori dal nostro controllo. Ciò è importante perché i bisogni a cui, pur malamente e con troppi effetti collaterali, risponde andranno pur soddisfatti in qualche altro modo. L’alcol e la nicotina come pure gli evitamenti e le compulsioni procurano nell’immediato una piacevole riduzione della tensione ansiosa. Insomma funzionano e come!

Esaminiamo i modi di funzionare innati nella specie umana che ci impediscono di passare dallo stato attuale, reputato negativo allo stato desiderato.
Tutti i processi di scelta sono guidati da un automatico e rapidissimo bilancio costi/benefici delle varie alternative e la scelta cade infine su quella che ha più vantaggi e meno costi. Il più delle volte e soprattutto per le questioni più importanti tale bilancio è attuato a livello sottocorticale, fuori dalla consapevolezza e si fonda su apprendimenti antichissimi sia nella filogenesi che nell’ontogenesi. Insomma è decisivo quello che hanno imparato i nostri lontani progenitori e noi stessi da piccolissimi.

Tre bias intervengono però a inficiare questo processo se non viene fatto a freddo a tavolino ma in diretta nell’impellenza del vivere.
Il primo è che il peso emotivo negativo delle perdite è pari esattamente al doppio di quello positivo di un guadagno della stessa entità. Lo spread tra i due è molto elevato (oltre 200 punti base). Il chè se è stato evolutivamente vantaggioso facendoci prudenti e attenti soprattutto a non prenderle, ci rende anche tendenzialmente conservatori e diffidenti del cambiamento perché ciò che si perderebbe lasciando il comportamento attuale è soppesato con la valuta pesante delle perdite mentre i vantaggi dello stato desiderato hanno il cambio svalutato dei guadagni.

Il secondo è che mentre il danno della perdita è sicuro e soprattutto immediato, il vantaggio dello stato desiderato è spostato nel futuro e neppure assolutamente certo. Il fondatore della psicoterapia cognitiva Aaron Beck esprimeva questo concetto centrale con la sua celebre frase “ the egg is here and now, the chicken perhaps tomorrow but I don’t know” che riporto controvoglia in inglese perché la traduzione in italiano è meno pregnante ma sta a significare che la certezza rappresenta un fattore importante nel determinare la preferenza di qualcosa rispetto a qualcos’altro. Il piacere di una buona bevuta, di una sigaretta, una canna o una scopata come Dio comanda, è immediato e certo, mentre la cirrosi, il cancro al fegato o ai polmoni, i sensi di colpa e le legnate del di lei marito non sono affatto certi e comunque non imminenti e con l’ottimismo infondato che anima la nostra specie circa la nostra possibilità di controllo sugli eventi tendiamo a pensare che non capiterà di certo a noi e comunque tocca anche a chi non fuma, non beve e si comporta secondo codice penale e galateo.

Il terzo è che per cambiare il corso naturale degli eventi sono necessari più motivi (circa il doppio) di quanti ne servano per lasciare le cose come sono. Solo un intervento attivo sembra comportare la responsabilità mentre a rigor di logica, la passività è altrettanto responsabile. Sono ben noti gli esperimenti sulla difficoltà ad azionare uno scambio sulle rotaie di un treno impazzito che causerà la morte di un certo preciso individuo pur salvandone altri. Sembra che alla fin fine si tenti di scongiurare più la propria responsabilità che i fatti in sé (gli ossessivi insegnano).

Cosa fare?

Come si può risolvere il problema di Paolo da soli o con l’aiuto di un terapeuta senza necessariamente fondare una religione ed una Chiesa che nella convulsa vita moderna è poco pratico?

Il primo passo è riappropriarsi dell’agentività sul comportamento problematico evidenziando gli scopi che persegue e i vantaggi che comporta per vedere se siano ottenibili in altri modi più egosintonici. Non dirsi scempiaggini tipo “lo faccio per danneggiarmi”, “ perché sono masochista”, “ perché non mi voglio bene”. Un comportamento può avere effetti collaterali dannosi e financo letali ma sono appunto costi indesiderati del perseguimento di qualcosa giudicato molto importante anche se non è evidente immediatamente alla consapevolezza.

Il secondo passo è descrivere lo stato attuale in termini di perdite che comporta immediatamente nel presente piuttosto che di costi o minacce future che forse implicherà. Smetterò di fumare non per il possibile cancro ai polmoni ma per gli amplessi che il mio partner oggi mi nega se puzzo di nicotina o per la cattiva immagine che do di me stesso comportandomi da dipendente oppure per le perdite di viaggi, spettacoli e luoghi cui debbo rinunciare per non poter stare senza sigarette. Anche l’utilizzo di rinforzi positivi da associare ai comportamenti virtuosi e punizioni ai comportamenti negativi hanno efficacia solo se in un ambito temporale molto ristretto e certi. Il malessere che provoca il disulfiram dopo l’assunzione di alcol è efficace per smettere più dello spettro di una morte per cirrosi perché si manifesta subito, non è una possibilità spostata in un incerto futuro. Nel fare i bilanci che orientano le scelte siamo particolarmente miopi e partiamo da due assunti appartenenti alla tradizione stoica secondo cui “oggi ci siamo e domani vai a sapere!” ed epicurea che ci ricorda che “ogni lasciata è persa”.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

La visione condivisa di film e serie TV fa bene alla coppia

Una squadra di psicologi della University of Aberdeen guidata da Sarah Gomillion afferma che il divertimento condiviso dalle coppie nel guardare la TV, i film e leggere libri insieme può contribuire a favorire i sentimenti di vicinanza e di identità sociale condivisa.

 

Gli effetti positivi della condivisione di serie tv in coppia

Mia moglie ed io eravamo ridicolmente eccitati nell’attendere di vedere insieme il recente finale di stagione di Game of Thrones. Avevamo visto tutti i precedenti sessantasei episodi insieme, e i personaggi erano quasi entrati a far parte della nostra vita”.

Trascorrere il nostro tempo insieme in questo modo è sempre stato piacevole, ma la conferma arriva da una squadra di psicologi della University of Aberdeen guidata da Sarah Gomillion, che afferma che il divertimento condiviso dalle coppie nel guardare la TV, i film e leggere libri insieme può contribuire a favorire i sentimenti di vicinanza e di identità sociale condivisa.

Gli stessi psicologi che hanno condotto questa ricerca, aggiungono che i vantaggi di vedere film e TV insieme possono essere particolarmente evidenti per le coppie che hanno una vita sociale scarsamente condivisa.

In questo studio i ricercatori hanno chiesto a 259 studenti impegnati in una relazione monogama della durata media di 16 mesi, di compilare questionari sulla qualità della loro relazione, indagando quanti erano gli amici comuni e quanto tempo avevano trascorso a guardare spettacoli televisivi o film insieme.

I partecipanti che hanno dichiarato di avere più amici in comune con il loro partner hanno anche valutato il loro rapporto in modo più positivo, così come quelli che hanno affermato di aver trascorso più tempo insieme a vedere TV o film, anche se quest’ultima variabile era più debole.

Tuttavia, i partecipanti che hanno affermato di avere pochi amici in comune con il loro partner, hanno dichiarato che la condivisione di TV o film insieme è fortemente associata alla valutazione positiva del loro rapporto, inclusa una più elevata interdipendenza, una più sentita vicinanza e maggiore fiducia nel rapporto. Quest’ultima associazione è rimasta statisticamente significativa anche dopo aver controllato il tempo complessivamente trascorso insieme.

Successivamente, i ricercatori hanno chiesto ad altri 128 partecipanti, di trascorrere del tempo a pensare agli amici in comune con il partner o a pensare a tutti gli amici non in comune; sono stati anche invitati a guardare insieme al proprio partner film e serie TV: questo ha aumentato la motivazione a condividere i film e TV con il partner e ha influenzato la stima della qualità della relazione in senso positivo.

I partecipanti che sono stati invitati a pensare alla mancanza di amici in comune nel mondo reale tendevano a riferire un maggiore interesse a vedere serie TV insieme al partner, come se avessero intuito l’utilità nell’aumentare la qualità della relazione di coppia.

Secondo i ricercatori sarà utile in futuro esplorare i potenziali vantaggi dei media per le relazioni, avendo anche presente il rischio che l’eccessivo consumo e condivisione in coppia dei media possa portare all’isolamento sociale, limitando le opportunità di condividere altri tipi di esperienze sociali di coppia.

 

Intervista a Paolo Michielin, docente di Psicologia clinica all’Università di Padova

Paolo Michielin, lei è stato il primo presidente dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, nell’ormai lontano 1990. Che cosa ricorda e che cosa è rimasto nella psicologia professionale italiana di quell’esperienza?

Il mondo della psicologia professionale che aveva ricevuto con la legge n. 56/1989 un riconoscimento e un ordinamento attesi da decine di anni, arrivava a questo appuntamento diviso, e a volte in conflitto, tra ambiti di intervento e approcci diversi. Ho dovuto quindi puntare su un dialogo, un’apertura e un rispetto di tutte le diverse anime della psicologia per formare un’identità comune, per far emergere le ragioni dello stare insieme. Fondamentali passaggi di questo percorso sono stati il Codice deontologico e il Nomenclatore tariffario, che definisce cosa fa e, dunque, chi è lo psicologo.

 

Parliamo di psicoterapia: che cosa è cambiato in questi anni? La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) che è sempre stato il suo modello culturale di riferimento, è molto cambiata in questi 25 anni.

La ricerca sull’efficacia teorica e sull’efficacia nella pratica dei trattamenti si sta imponendo come metodologia di base anche in altri modelli psicoterapeutici, oltre che nella TCC, e credo che questo sia un processo molto positivo.  A sua volta la CBT si è arricchita di dimensioni e termini che all’inizio della sua storia non erano parte essenziale del bagaglio tecnico e culturale, come la relazione terapeutica. Una nuova generazione di terapia cognitivo-comportamentale si è sviluppata: parliamo di Schema Therapy, di ACT, di Mindfulness Based Therapies, di Terapia Metacognitiva, di EMDR;  ma parliamo anche di termini come amore, compassion e self compassion che ormai sono entrati nel linguaggio di molte forme di CBT.  Questa positiva evoluzione ha determinato anche spinte centrifughe per cui credo che, nel mondo cognitivo-comportamentale, sia necessaria la stessa opera di conoscenza reciproca, di dialogo e di rispetto che ho portato avanti nell’Ordine; un’opera che ci consenta di riscoprire le radici scientifico-culturali comuni, le finalità e i metodi condivisi, e di abbandonare partigianerie e pretese di superiorità.

 

Lei è un uomo delle istituzioni e che ha sempre lavorato dentro le istituzioni. Come vede ora la situazione della psicologia e della psicoterapia nel Servizio Sanitario Nazionale, anche in relazione alle sperimentazioni che stanno avvenendo con successo in altri paesi?

La psicologia è parte essenziale del sistema sanitario e il suo contributo diventerà sempre più importante nel tempo; penso ai temi dell’assistenza psicologica ai bambini e agli adolescenti, decisiva per il loro futuro e che deve essere potenziata, o ai pazienti fragili, con malattie croniche e invalidanti. Per ampliare i nostri ambiti di intervento (e le possibilità occupazionali) è necessario mostrare che i trattamenti psicologici sono effettivamente realizzabili, efficaci, apprezzati dai pazienti ed economicamente vantaggiosi. Recentemente è uscito un libro curato dagli amici Giusi Maiani e Giorgio de Isabella, purtroppo prematuramente scomparso, che parla dei vantaggi che la psicologia può offrire alla medicina e alla salute in genere e mostra anche il rapporto costo-efficacia dei nostri interventi. Nei servizi che ho diretto mi sono impegnato a mostrare che, con risorse ragionevoli, è possibile individuare e curare le donne con depressione post-partum, assistere a domicilio i pazienti fragili e le loro famiglie, limitando di molto la necessità di ricovero, sostenere i minori che vivono in famiglie a rischio e i loro genitori, senza che diventi necessario l’inserimento in una comunità… Un modello di riferimento validissimo, che sarebbe entusiasmante riuscire ad applicare in Italia, è lo IAPT-Improving Access to Psychological Therapies; nel Regno Unito esso assiste ogni anno quasi un milione di persone con disturbi emotivi comuni ed impiega migliaia di psicoterapeuti, prevalentemente di formazione cognitivo-comportamentale.

 

Quali competenze deve avere uno psicologo-psicoterapeuta per partecipare a questo processo di sviluppo dell’assistenza sanitaria?

Ci sono competenze “di sistema” che sono la capacità di lavorare in gruppi multiprofessionali, di integrarsi in organizzazioni complesse, condividendone gli scopi e i modi di funzionare, di fare progetti, di prendere dimestichezza con risorse e costi, di documentare l’utilità del proprio lavoro. Per quanto riguarda, invece, le specifiche competenze psicoterapeutiche, ricordo che gli unici requisiti per lavorare nel SSN sono aver concluso un corso di specializzazione riconosciuto ed essere autorizzati alla psicoterapia. Non occorrono ulteriori certificazioni, patentini o iscrizioni ad elenchi di società: sta alla coscienza e alla responsabilità del singolo psicologo utilizzare, come dice il Codice deontologico, solo metodologie e tecniche nelle quali sia adeguatamente preparato ed aggiornato. Questa acquizione di competenze, soprattutto per le tecniche nuove, è facilitata non solo dalla disponibilità di corsi, master…, ma anche dall’esistenza di manuali di trattamento e dalla collaborazione con colleghi già formati. E, a mio giudizio, il bagaglio di competenze dello psicoterapeuta cognitivo-comportamentale dovrebbe essere sufficientemente ampio, non limitato a un’unico metodo o tecnica: per rispondere ai bisogni specifici di ciascun paziente è necessario utilizzare un insieme di tecniche diverse, quelle appunto più adatte a lui. Tra queste tecniche, vorrei spendere una parola a favore delle più consolidate e sperimentate, come ad esempio l’attivazione comportamentale, che oggi magari sono meno “di moda” ma che restano fondamentali nel nostro bagaglio.

 

In Italia ci sono due storiche associazioni di CBT, la SITCC e l’AIAMC. Sappiamo che lei si è candidato per la presidenza di quest’ultima. Come mai ora?

Credo, come dicevo, che all’interno del complesso e variegato mondo cognitivo-comportamentale sia necessaria un’opera di dialogo fattivo e rispettoso tra le diverse componenti, che altrimenti rischiano di andare ognuna per conto proprio, e sia opportuno riscoprire le radici e le prospettive comuni, la necessità e l’utilità di stare insieme. Nello stesso tempo, credo che le società scientifiche dovrebbero promuovere di più la partecipazione dei soci, stimolarne la crescita scientifica e professionale, e offrire molti più servizi utili alla loro pratica quotidiana. Per quanto riguarda, infine, l’AIAMC, associazione composta prevalentemente da psicologi clinici, penso che ora sia necessario un presidente di estrazione clinica, dopo due presidenti che hanno certamente solide competenze, ma uno in ambito metodologico-statistico e l’altro nella psicologia del lavoro.

 

 

 

— Aggiornamento di Mercoledì 27 Settembre 2017 —

Pubblichiamo una precisazione del Prof. Aristide Saggino all’intervista di State of Mind a Paolo Michielin. [NdR]

 

Gentilissimi,
ho letto sul sito State of mind l’ntervista al Dott. Paolo Michielin nella quale appare la frase “Per quanto riguarda, infine, l’AIAMC, associazione composta prevalentemente da psicologi clinici, penso che ora sia necessario un presidente di estrazione clinica, dopo due presidenti che hanno certamente solide
competenze, ma uno in ambito metodologico-statistico e l’altro nella psicologia del lavoro.” Io sarei quello con solide competenze metodologico-statistiche. Pur ringraziando per le solide competenze, vorrei farrilevare quanto segue:
1) sono inserito nell’elenco degli psicoterapeuti e quindi per le leggi italiane sono a tutti gli effetti uno psicoterapeuta;
2) ho la specializzazione post-laurea in Psicologia Clinica presso l’ Università La Sapienza di Roma e quindi sono uno Specialista in Psicologia Clinica (sempre per la Repubblica italiana);
3) sono un Professore Ordinario di Psicologia e non di Statistica. Basterebbe una sia pur minima conoscenza degli ordinamenti accademici italiani per sapere che i raggruppamenti preceduti dalla sigla M-PSI, come quello cui appartengo, sono tutti raggruppamenti di insegnamenti psicologici, laddove quelli statistici sono
preceduti dalla sigla SECS.
4) last but not the least, sono anche responsabile del conto terzi di terapia cognitivo-comportamentale della Università di Chieti-Pescara.
Tenendo conto di tutti questi elementi di fatto la frase riportata all’inizio non rappresenta assolutamente le mie capacità professionali. Sarebbe come dire che un cardiologo universitario è uno statistico o un metodologo solo perchè oltre a fare il cardiologo si occupa anche di ricerca cardiologica!

Con viva cordialità,
Aristide Saggino
Professore Ordinario di Psicologia Generale,
Psicobiologia e Psicometria,
Università di Chieti-Pescara

 

— Aggiornamento di Giovedì 28 Settembre 2017 —

Pubblichiamo una replica del Prof. Paolo Michielin alla precisazione del Prof. Aristide Saggino. [NdR]

Il prof. Saggino insegna Tecniche di analisi dei dati, materia che appartiene al Settore Scientifico Disciplinare M/PSI03 che fa parte del maxi gruppo 11/E1. Il settore di Psicologia clinica, cui il mio insegnamento Psicologia Clinica appartiene,  (M-PSI/08) è molto lontano concettualmente.

11/E – Psicologia 11/E1 – Psicologia generale, psicobiologia e psicometria M-PSI/01 – Psicologia generale
M-PSI/02 – Psicobiologia e psicologia fisiologica
M-PSI/03 – Psicometria
11/E2 – Psicologia dello sviluppo e dell’educazione M-PSI/04 – Psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione
11/E3 – Psicologia sociale, del lavoro e delle organizzazioni M-PSI/05 – Psicologia sociale
M-PSI/06 – Psicologia del lavoro e delle organizzazioni
11/E4 – Psicologia clinica e dinamica M-PSI/07 – Psicologia dinamica
M-PSI/08 – Psicologia clinica

Il focus della mia intervista è una panoramica che abbraccia la nascita della professione di psicologo e il futuro della psicoterapia, in Italia e all’estero. Alla presidenza AIAMC, in tutta l’intervista, sono dedicate poco più  di 2 righe. Quelle di Saggino più che precisazioni sono autoproclamazioni di competenze, che nessuno aveva messo in dubbio, e che sono impertinenti con i temi  dell’intervista.

Prof. Paolo Michielin, docente di Psicologia Clinica

Congresso del European Council for Eating Disorders – ECED a Vilnius (Lituania), 7-9 Settembre 2017 – Report

È la prima volta che una conferenza internazionale sui disturbi alimentari (DA) si svolge nell’area dell’ex Unione Sovietica; area geografica nella quale pare esserci molto fermento culturale finalizzato all’apprendimento di approcci terapeutici efficaci. Il tema principale della conferenza è stato quello dei DA nei setting multiculturali; tema decisamente interessante con cui sempre con maggiore frequenza i professionisti della salute mentale si confrontano.

 

L’efficacia della MBT nel trattamento dei pazienti borderline con disturbi alimentari

Dopo l’introduzione di Aurelius Veryga (Ministro della Salute Lituano), Hubert Lacey (fondatore dell’ECED), Brigita Baks (responsabile del comitato scientifico), Dainius Puras (Relatore Speciale dell’ONU sul diritto alla salute) e di Martynas Marcinkevicius (direttore del centro di salute mentale di Vasaros in Lituania), prende la parola il Prof. Paul Robinson dello Univeristy College of London – UCL per la sua lezione magistrale sul Mentalisation-Based Treatment for Eating Disorders (MBT-ED).

Dopo una rapida introduzione sulla Mentalization-Based Therapy (MBT), il Prof. Robinson illustra un RCT multicentrico (NOURISHED study) nel quale, insieme al suo gruppo di lavoro, ha confrontato il trattamento MBT-ED con una gestione specialistica di supporto clinico (Specialist Supportive Clinical Management – SSCM-ED) in pazienti con DA e Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Sebbene l’alto tasso di drop-out – solo il 22% dei soggetti ha completato il follow-up a 18 mesi – abbia reso i risultati di difficile interpretazione, gli autori hanno riscontrato un miglioramento clinico nella sintomatologia generale e specifica dei DA.

Alla fine della relazione vado via con alcune perplessità sull’efficacia – anche prospettica, e spero di essere smentito negli anni a venire – dell’approccio descritto in una popolazione clinicamente complessa (e con una psicopatologia “specifica”) come i DA. Se confrontiamo questi dati con quelli che la MBT ha ottenuto nel trattamento del DBP, infatti, il drop-out si assesta intorno al 12% e i miglioramenti clinici appaiono decisamente più consistenti.

Attaccamento, regolazione emotiva e il Sè nei pazienti affetti da disturbi alimentari

Il secondo giorno di lavori, dopo un dibattito sulla necessità dei ricoveri obbligatori per i pazienti con DA, vede il susseguirsi di diversi seminari clinici tra i quali quello di alcuni colleghi scandinavi (i.e., Rasmus Isomaa, Andreas Birgegård, Emma Forsén Mantilla, Elin Monell) su “Attaccamento, regolazione emotiva e il Sé: un modello integrativo con esemplificazioni cliniche”. In questo seminario i colleghi illustrano un modello clinico dove invitano i clinici a riflettere su diverse componenti costitutive dei DA. Nello specifico, l’interazione tra modelli di attaccamento, regolazione emotiva, la relazione del paziente con il proprio DA, l’immagine del sé e i sintomi alimentari specifici. I colleghi, pur suggerendo un approccio terapeutico centrato sui sintomi, stimolano una riflessione complessa sull’interazione di questi fattori per un management clinico maggiormente efficace.

L’immagine corporea nei pazienti con disturbi alimentari

Nel pomeriggio, oltre alle sessioni parallele di poster, assisto al seminario di Gerard Butcher e Michel Probst (rispettivamente del “Cognitive Solutions Clinic” a Dublino e della University of Leuven) su “Il corpo come amico o nemico: la gestione pratica delle problematica relativa all’immagine corporea nei DA”. Nel corso del seminario, dopo una breve introduzione sul concetto di immagine corporea, l’attenzione viene focalizzata su come, non solo all’interno dei social network (Facebook e Instagram su tutti), l’immagine proposta del corpo maschile e femminile “thin and toned” (magro e tonico) sia praticamente onnipresente anche nelle riviste specifiche di attività non prettamente di “fitness” come lo Yoga. In effetti, su quest’ultimo punto ci sono anche alcune ricerche che testimoniano questa tendenza e, le implicazioni socio-culturali di tali messaggi.

Successivamente a questo cappello teorico, il seminario continua con alcune esemplificazioni di interessanti interventi clinici gruppali focalizzati sull’immagine corporea ai quali prendiamo parte.

Il terzo, e ultimo, giorno di lavori ci vede – come gruppo di lavoro – presentare un lavoro sulle variabili cognitive e metacognitive nei DA, dove abbiamo assunto che non solo il perfezionismo e la bassa autostima, ma anche altre credenze cognitive e metacognitive specifiche per l’ansia (e.g., il Worry) avrebbero discriminato tra soggetti con DA e un gruppo di controllo. Come obiettivo secondario dello studio, inoltre, abbiamo illustrato le possibili differenze – in particolare per quanto riguarda le variabili di Worry, Controllability e Perfectionism – tra i sottotipi di DA, con un focus specifico su Anoressia e Bulimia Nervosa. Vivace il dibattito con la platea, prevalentemente composta da terapeuti di orientamento psicodinamico, sui pro e contro dell’implementare la complessità del trattamento versus l’esplorazione di nuove direzioni. A nostro modo di vedere, infatti, un possibile percorso alternativo – per aumentare la comprensione clinica e migliorare l’efficacia terapeutica del trattamento dei DA – potrebbe includere l’esplorazione del ruolo dei processi metacognitivi nella genesi e nel mantenimento di tali patologie.

Il Congresso si conclude con un dibattito dal titolo “la focalizzazione sull’immagine corporea è una componente essenziale per il miglioramento clinico nei DA?” che vede Fernando Fernandez-Aranda (University of Barcelona) difendere il “si” e Cynthia Bulik (Karolinska Institutet), opporre un deciso “no”. La discussione con la platea è accesa e il dibattito estremamente stimolante. Per la maggior parte, i colleghi si schierano per il “si” con motivazioni che vanno dall’analisi di studi correlazionali tra i DA e l’insoddisfazione corporea al fatto che, in termini nosografici, la componente “immagine corporea” sia presente in tutti i manuali della American Psychiatric Association (APA).

C’è da dire che il concetto di immagine corporea non è limitato soltanto all’insoddisfazione corporea, alla forma corporea, al body checking o all’essere felici del proprio corpo, ma risulta più ampio e inclusivo di dimensioni del sé quali, ad esempio, il self-concept o il self-scheme; in tale ottica, infatti, la discrepanza di risultati che riscontriamo in letteratura potrebbe derivare sia dalla vasta serie di strumenti e procedure di valutazione clinica, sia dalla notevole eterogeneità concettuale relativa a tale costrutto. D’altro canto, la Bulik sottolinea come i disturbi dell’immagine corporea siano clinicamente rilevanti nei campioni di pazienti con AN e, meno, nei pazienti con BN e DAI. Inoltre, citando Caterina da Siena, si ipotizza la scarsa riuscita di un trattamento psicoterapico focalizzato sull’immagine corporea, data la presenza di una forte componente ascetica e non focalizzata su un aspetto prettamente relativo a forme corporee, ponendo contestualmente la variabile culturale come dirimente nella genesi di problematiche relative alla body image. In definitiva, la Bulik suggerisce di non considerarla come componente “essenziale” ma, piuttosto, come una variabile da trattare quando presente.

Il dibattito, finito con delle votazioni vere e proprie (per alzata di mano), vede vincitore di gran lunga Fernandez-Aranda e il “si”.
Personalmente, concordo con una visione cauta (non ecumenica) e, in linea di massima – dovendo proprio scegliere – sceglierei la posizione della Bulik con la motivazione principale della penuria di studi clinici a supporto dell’”essenzialità”. Se osserviamo la letteratura CBT sull’argomento, infatti, possiamo notare come, oltre alla componente non trascurabile di una definizione univoca e per quanto possibile “netta” del costrutto, quando è stato confrontato l’intevento CBT-E (enhanced cognitive therapy) con uno CBT con una componente di ristrutturazione cognitiva incentrata sull’immagine corporea (CBT-C), entrambi i trattamenti sono risultati altrettanto efficaci sulla variabile dell’immagine corporea sia al post-trattamento che al follow-up di 4 mesi. Ovviamente ulteriori studi verranno condotti ma, allo stato attuale della ricerca, non mi sentirei di definire tale variabile come “essenziale” in tutto lo spettro dei DA.

 

Il congresso termina con un convivio a base di prodotti tipici lituani e, davanti al buffet imbandito, i contrasti del dibattito appena concluso sembrano appianarsi e assumere una luce diversa. Un plauso all’impeccabile organizzazione e alla determinazione dei colleghi lituani che hanno permesso uno svolgimento puntuale e rigoroso dei lavori nonché una piacevolissima permanenza in una stupenda capitale europea. A Parigi (2019)!

Presentazione delle Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione – Report dall’evento

Presentate a Roma il 7 settembre, presso il Ministero della Salute le Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’ alimentazione (DA).

Paola Medde

 

Anoressia e bulimia rappresentano un problema di crescente importanza per la sanità pubblica e per tutte le persone coinvolte (professionista, famiglia, paziente). Negli ultimi decenni si è registrato un abbassamento dell’età dell’esordio; ciò significa che individui sempre più giovani sono a rischio elevato di danni permanenti a seguito della malnutrizione, con conseguenze sullo sviluppo del sistema nervoso centrale, ancora in fase di completa formazione, e sull’apparato scheletrico.

Nella letteratura scientifica le linee guida costituiscono un insieme di raccomandazioni operative emergenti dall’analisi sistematica dei dati di studi clinici la cui utilità consiste, essenzialmente, nel “guidare” appunto operatori sanitari e specialisti nelle decisioni di intervento e orientare i pazienti nell’appropriatezza delle terapie in una prospettiva di trasparenza.

Ad oggi, consapevoli che ancora molto si deve fare, poiché nel campo dei Disturbi dell’alimentazione sono ancora pochi gli studi di ricerca sul trattamento nutrizionale, risulta prioritario – si legge in una nota del Ministero – “cercare di rendere omogeneo, sull’intero territorio nazionale, ogni intervento terapeutico e strutturare programmi multidisciplinari, validati, efficaci ed efficienti”.

Linee guida per la riabilitazione dei Disturbi dell’alimentazione - Report dall'evento - IMM. 2

Immagine 1 – Foto dall’evento Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione

Per questo, già nel marzo 2015, la Direzione Generale per l’Igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, guidata da Giuseppe Ruocco, ha istituito un Tavolo di lavoro, coordinato da Denise Giacomini, per la stesura delle prime “Linee di Indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con disturbi dell’alimentazione“, documento approvato in sede di Conferenza Stato Regioni a giugno 2017.

Linee guida per la riabilitazione dei Disturbi dell’alimentazione - Report dall'evento - IMM.1

Immagine 2 – Foto dall’evento Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione

Il Quaderno Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione (DA) rappresenta un manuale operativo per la valutazione nutrizionale e per la scelta terapeutica più opportuna, che deve comunque basarsi sulla continuità assistenziale e sulle attività dell’equipe multidisciplinare, tenendo conto delle caratteristiche multifattoriali e multidimensionali del disturbo. Nonostante il documento prodotto si focalizzi sui metodi e gli strumenti di valutazione e intervento nutrizionale, la prospettiva interdisciplinare rimane alla base del percorso diagnostico e terapeutico e, l’approccio integrato, inteso come più professionisti (psichiatra, psicologo-psicoterapeuta, nutrizionista etc) che con diverse competenze collaborano al trattamento di patologie complesse, non deve essere trascurato.

Se, infatti, nel caso dell’ anoressia si evidenzia la necessità di supplementi nutrizionali (integratori), nutrizione artificiale (sondino naso gastrico) a seguito della malnutrizione carenziale,  “per quanto riguarda le condizioni di malnutrizione legate alla presenza di crisi bulimiche e/o comportamenti di eliminazione e le condizioni in cui si può associare anche una malnutrizione per eccesso, più che di interventi nutrizionali si dovrebbe parlare di interventi di psico-educazione alimentare, che sono in genere parte costitutiva di tecniche di trattamento psicologiche come le terapie cognitivo-comportamentali”, si ribadisce nell’introduzione.

Il documento sui disturbi alimentari presentato al Ministero deve essere un riferimento importante per i professionisti che operano nel settore al quale deve seguire una riflessione seria sistematica e sperimentata su come procedere. Alla base del trattamento nutrizionale dei disturbi dell’ alimentazione è fondamentale l’approccio multidimensionale, interdisciplinare e pluriprofessionale integrato per una gestione programmata degli interventi nutrizionali, organizzata in modo da essere coordinata con le terapie mediche e psicologiche.

La pubblicazione rappresenta, inoltre, un ausilio per i professionisti del settore utile ad “intercettare” precocemente i pazienti grazie ad una collaborazione attiva con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta che, in modo sistematico parteciperanno attivamente al processo, al fine di ridurre il rischio di complicanze, ospedalizzazioni e cronicità.

Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Il ruolo delle convinzioni sul controllo cosciente del comportamento

Un’altra componente che influenza il controllo cosciente sul nostro comportamento sono le convinzioni che noi abbiamo circa le nostre capacità di controllo (Wells, 2009). Negli articoli precedenti abbiamo descritto alcuni esempi in cui comportamenti apparentemente incontrollabili possano essere esito di un controllo cosciente. Questa lettura distorta circa la controllabilità del comportamento non colpisce solo chi osserva il comportamento ma anche chi lo agisce.

Le convinzioni più studiate in questa direzione sono le credenze circa l’incontrollabilità del pensiero e del proprio comportamento (es. non riesco a smettere di rimuginare quando comincio, dentro di me c’è qualcosa più forte di me su cui non ho controllo, sono i miei impulsi a decidere le mie azioni).

Quale impatto hanno queste convinzioni sull’esercizio dell’autocontrollo? Negli ultimi dieci anni numerose ricerche hanno rilevato come ritenere che certi sintomi siano incontrollabili porta a intensificarli (per una revisione vedi Wells, 2013). In sintesi, il miglior modo per perdere il controllo è pensare di non avere controllo. Rispetto a diversi fattori predisponenti come temperamento, attaccamento o personalità le convinzioni di incontrollabilità sono elementi prossimali nella cascata che conduce al fallimento dell’esercizio efficace di autocontrollo.

Perché non cerchiamo di esercitare ogni giorno un controllo sul tempo atmosferico? Perché pensiamo che sia qualcosa fuori dal nostro controllo. Una convinzione magica circa la possibilità di influenzare il tempo atmosferico potrebbe indurci a esercitare uno sforzo in questo senso e provare a danzare intorno a un totem per evocare la pioggia. Al polo opposto, la convinzione che i nostri impulsi siano fuori controllo ci pone nella posizione peggiore per esercitare qualsivoglia forma di controllo efficace, uno stato di impotenza appresa rispetto ai propri automatismi. Ogni sforzo in una direzione di autocontrollo è percepito come inefficace e quindi superfluo. Si innesca una profezia che si auto-avvera: siccome non ho controllo sul mio comportamento, non esercito controllo, il mio comportamento appare impulsivo e privo di controllo e ciò conferma l’idea di non avere alcun controllo (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

L’esito finale solidifica una percezione di stabile impotenza verso ciò che ci accade dentro. Stati interni dolorosi, le reazioni a questi o addirittura le proprie scelte non ricadono sotto il dominio personale ma sono attribuiti agli scherzi del fato, all’intenzionalità avversa degli altri, alla propria ormai inflessibile natura genetica.

 

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


Le funzioni del sonno e l’effetto sulle funzioni cognitive

L’effetto del sonno è importantissimo sul potenziamento di altre funzioni cognitive come apprendimento, concentrazione e attenzione, e sulla capacità di partecipare attivamente alla vita sociale. Il riposo, inoltre, influisce sul mantenimento dell’equilibrio psico-emotivo della persona, stabilizzando il tono dell’umore, allentando le tensioni e riducendo i livelli di ansia e stress.

Ilaria Biasion, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Le fasi del sonno e le funzioni esecutive

Il sonno viene definito come uno stato comportamentale reversibile, caratterizzato da isolamento percettivo e assenza di responsività agli stimoli ambientali ma, al tempo stesso, un complesso insieme di processi fisiologici e comportamentali (Carskadon & Dement, 2005).
In base a misure polisonnografiche, il sonno è stato diviso nelle categorie REM e NREM, o sonno ad onde lente. I cicli del sonno sono detti così per via della loro associazione con la presenza (REM) o assenza (NREM) di rapidi movimenti oculari.

La maggior parte dei ricercatori sostiene che la principale funzione del sonno sia quella di promuovere lo sviluppo cerebrale e l’apprendimento. Durante questa fase, infatti, il cervello ne approfitta per eliminare le sostanze di scarto attraverso il sistema linfatico, il quale pompa liquor nei tessuti cerebrali ripulendoli dalle proteine tossiche accumulate durante il giorno. Tale processo è indispensabile poiché, ad esempio, l’accumulo di una di queste proteine, la beta amiloide, è correlata all’insorgenza di malattia di Alzheimer (Nedergaard et al., 2013).

Molte sono state, negli ultimi anni, le ricerche relative al sonno, le quali hanno portato alla comprensione di quale sia la sua importanza e quella relativa alla cura dei disturbi legati a questo processo fisiologico fondamentale. Tali disturbi sembrano avere un impatto enorme sull’efficienza mentale e in generale sulla qualità della vita delle persone. Grazie al crescente interesse nei confronti di questo tema, e allo sviluppo di laboratori specifici del sonno, gli studiosi hanno potuto diagnosticare e trattare, in modo efficace, un numero sempre crescente di pazienti riportanti disturbi del sonno. Una gestione ottimale di questi disturbi richiede, quindi, una comprensione globale dei meccanismi patologici che ne stanno alla base e ancora prima una buona conoscenza della fisiologia del sonno (Thien Thanh Dang-Vu, 2007).

Lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, negli ultimi decenni, ha fornito un importante strumento di ricerca non invasiva, consentendo il rilevamento di alterazioni anatomiche sottili e di variazioni del flusso sanguigno cerebrale, nonché, una comprensione circa la fisiologia del sonno umano, presentando mappe cerebrali funzionali delle diverse fasi (Maquet et al., 1997; Braun et al., 1997), e dando sostegno ad un suo ruolo nell’apprendimento e nella memoria (Peigneux et al., 2004).

L’importanza dello studio relativo ai disturbi del sonno nasce dalla considerazione di quanto esso sia essenziale per le prestazioni cognitive, in particolare gioca un ruolo fondamentale nel processo di memorizzazione (Maquet, 2001), poiché potenzia e riattiva le tracce mnestiche e le incorpora nei circuiti della memoria a lungo termine, favorisce i meccanismi di plasticità neuronale, influenza la capacità di prendere decisioni e di ragionare.

Non solo, ma l’effetto del sonno è importantissimo sul potenziamento di altre funzioni cognitive come apprendimento, concentrazione e attenzione, e sulla capacità di partecipare attivamente alla vita sociale. Il riposo, inoltre, influisce sul mantenimento dell’equilibrio psico-emotivo della persona, stabilizzando il tono dell’umore, allentando le tensioni e riducendo i livelli di ansia e stress.

Anche gli studi più recenti hanno evidenziato come la scarsa qualità del sonno si associ ad uno scarso funzionamento cognitivo, in particolare Nebes e collaboratori in uno studio del 2009 hanno riportato un’associazione con la riduzione delle funzioni esecutive.

La prevalenza media di persone che lamentano problematiche inerenti il sonno in età adulta varia tra l’8% e il 18% (Asplund & Aberg, 1998). Queste anomalie sono più frequenti con l’avanzare dell’età e colpiscono più le donne che gli uomini. I disturbi più significativi sono l’insonnia, l’apnea notturna, la narcolessia e la sindrome delle “gambe senza riposo”.

Gli Episodi di Sonnolenza Diurna (EDS) sono il sintomo più frequentemente riportato, durante il giorno, dai soggetti che presentano disturbi del sonno, e possono essere conseguenti a frammentazione del sonno notturno o sfasamento del ritmo circadiano.
Il sonno è quindi necessario per il normale funzionamento cerebrale, tuttavia non solo la qualità risulta essere importante, ma anche la quantità, infatti le persone che ne sono deprivate sono in grado di svolgere normalmente la maggior parte dei compiti cognitivi di breve durata, ma dopo due giorni di deprivazione, le prestazioni in compiti che richiedono elevati livelli di funzionamento peggiorano (Horne & Petit, 1985). In particolare si ha un rendimento compromesso nelle prove che richiedono attenzione, allerta e vigilanza.

Uno studio recente (2011), condotto da Jane Ferrie dell’University College London Medical School, si è occupato di valutare gli effetti della qualità e della quantità di sonno. Lo studio ha dimostrato, ancora una volta, come una buona qualità del sonno sia fondamentale per il funzionamento e per il benessere della persona, inoltre la sua privazione e la sonnolenza hanno degli effetti negativi sulle prestazioni in compiti che valutano i tempi di risposta, l’attenzione e la concentrazione. Per quanto riguarda la quantità, questa viene associata ad una vasta gamma di aspetti importanti della vita, come ad esempio il funzionamento sociale e la salute mentale e fisica, quindi la quantità di ore che si passano a dormire influenza la qualità della vita. Secondo tale studio inoltre, la durata ideale del sonno notturno pare essere di 6-8 ore, superare tale durata o al contrario, dormire meno, avrebbe degli effetti negativi; contribuirebbe, infatti, ad un declino fisico e cognitivo.

Il sonno e le funzioni cognitive nell’adulto anziano

Anche se le prestazioni cognitive diminuiscono con l’aumentare dell’età, vi è una variabilità individuale nella grandezza di questi decrementi cognitivi (Ardila, 2007). Tale variabilità sembra dipendere dalle differenze individuali legate alle disfunzioni cerebrali alla base dell’invecchiamento, come ad esempio la gravità dell’atrofia a livello corticale (Raz, Gunning-Dixon, Head, Dupuis, Acker, 1998). Tuttavia un altro potenziale contributo alla variabilità individuale dei deficit cognitivi associati all’età, giunge dagli studi relativi alla quantità e alla qualità del sonno. Come detto in precedenza, i disturbi sono presenti in una percentuale piuttosto alta nella popolazione e tendono ad aggravarsi con l’avanzare dell’età. Molte persone anziane riferiscono problemi cronici nella fase iniziale del sonno, nella durata e nella qualità, con conseguenze negative quali sonnolenza, cadute e disabilità funzionale (Vaz Fragoso & Gill, 2007).

Anche se la letteratura relativa alle prestazioni cognitive degli anziani con problemi del sonno appare abbondante (Haimov, Hanuka & Horowitz, 2008), ci sono poche informazioni sul grado in cui i disturbi possono contribuire alla variabilità individuale della performance cognitiva riscontrata in queste persone, in particolare pare non esserci un accordo specifico su quali siano le principali funzioni cognitive a risentire della scarsa qualità del sonno.

Uno studio effettuato da Bastien e collaboratori nel 2003 ha riportato l’esistenza di una correlazione tra la qualità del sonno, auto-riferito dalle persone, e la velocità di elaborazione delle informazioni (Bastie net al., 2003), le funzioni esecutive (attenzione divisa, memoria di lavoro, capacità di inibizione, fluenza verbale e problem solving) e la memoria a lungo termine (Schmutte et al., 2007).

Altre ricerche hanno mostrato come poco sonno abbia un impatto sulle prestazioni in compiti che valutano i tempi di reazione semplici e complessi, l’attenzione e la vigilanza (Blatter et al., 2006).

Alcuni studiosi, inoltre, sostengono che la perdita di sonno porti a transitorie modificazioni nel metabolismo del cervello, riducendo l’efficienza nella corteccia prefrontale (Killgore, 2010), di conseguenza, si presume siano maggiormente correlate alla qualità del sonno le funzioni esecutive legate proprio alle regioni prefrontali (Durmer & Dinges, 2005; Jones & Harrison, 2001).

Negli anziani ciò appare particolarmente evidente visto che le regioni prefrontali sono altamente sensibili all’età e le maggiori differenze in termini di prestazioni cognitive legate all’età si riscontrano proprio nelle attività dipendenti dalla corteccia prefrontale (MacPherson, Phillips, Della Sala, 2002).

Un altro fattore importante da tenere in considerazione nel contesto del sonno e delle funzioni cognitive in età avanzata, è che gli indicatori soggettivi della qualità del sonno sono costantemente connessi a misure di depressione (Riemann, Berger, Voderholzer, 2001). Ad esempio, Riemann e collaboratori (2001) hanno suggerito che, in maniera ambivalente, i problemi di sonno sono sintomi di depressione e, allo stesso tempo, possono rappresentare un fattore di rischio per la depressione. Inoltre Naismith e collaboratori, in un lavoro del 2011, hanno dimostrato che i disturbi del sonno in pazienti anziani con depressione, influenzano le funzioni cognitive. Una correlazione, ad esempio, è stata trovata tra la durata dei risvegli notturni e le prestazioni in prove di apprendimento, memoria, fluenza semantica, inibizione di risposte irrilevanti e problem solving.

Dalla revisione della letteratura in merito alla relazione esistente tra sonno e funzioni cognitive, appare evidente quindi come esso influisca in modo importante sulla qualità della vita, in particolare prendersi cura del sonno significa avere riguardo nei confronti della propria salute psicofisica ma anche della propria prospettiva di vita.

La filosofia spiegata con le serie tv (2017) di T. Ariemma, una rivoluzione didattica tra i banchi di scuola di Ischia – Recensione e intervista all’autore

Nel libro La filosofia spiegata con le serie tv, che racchiude il suo metodo didattico, Ariemma invita non solo gli studenti ma tutti i lettori a scovare l’imperativo categorico di Kant nell’isola di Lost o a conoscere il mondo delle idee di Platone dietro lo specchio di Black Mirror.

 

Tommaso Ariemma (Napoli 1980), docente di Estetica presso le Accademie di Belle Arti di Lecce e Perugia e attualmente insegnante di filosofia presso il liceo statale di Ischia ci racconta la sua passione per la filosofia e la nascita di quella che ormai viene da tutti definita “Una rivoluzione didattica”.

Nel libro La filosofia spiegata con le serie tv, che racchiude il suo metodo didattico, Ariemma invita non solo gli studenti ma tutti i lettori a scovare l’imperativo categorico di Kant tra i sopravvissuti dell’isola di Lost, a conoscere il mondo delle idee di Platone dietro lo specchio di Black Mirror, e a riflettere sul pensiero di Macchiavelli seguendo le orme di Twin Lannister del Trono di Spade. Un’idea originale, innovativa e fuori dagli schemi, che lascia stupiti nell’immaginare che si sia sviluppata tra i banchi di scuola di un liceo.

Far appassionare gli adolescenti ai grandi filosofi del passato non deve essere un’impresa facile, eppure lui c’è riuscito perfettamente, soverchiando il metodo didattico tradizionale e stimolando l’interesse degli alunni attraverso un canale preferenziale, quello delle serie tv. E’ interessante capire l’impatto che questo approccio ha avuto sugli studenti dal punto di vista motivazionale e sul loro livello di apprendimento. Alcune risposte ci sono arrivate dal professore stesso, in un’intervista lasciata in esclusiva per State of Mind.

 

La filosofia spiegata con le serie tv – Intervista all’autore

Intervistatrice (I): Professore, che impatto ha avuto sugli studenti la spiegazione dei grandi filosofi del passato attraverso le serie tv?

Tommaso Ariemma (T.A.): Si dice cha la filosofia nasca dalla meraviglia. Ho voluto prendere alla lettera questa tesi di Aristotele applicandola al mio insegnamento: per avvicinare i miei studenti alla filosofia ho voluto stupirli, spiazzarli. All’inizio sono apparsi un po’ disorientati, in seguito il mio approccio ha generato in loro grande motivazione allo studio della filosofia. Aristotele aveva ragione.

 

I: Ci sono stati dei miglioramenti significativi dal punto di vista relazionale, motivazionale o dell’apprendimento seguendo questo metodo non convenzionale?

T.A.: Secondo le direttive ministeriali l’approccio didattico più recente si fonda su conoscenze, abilità e competenze, trascurando il vero fuoco intorno al quale ruota l’apprendimento: la motivazione o, se vogliamo usare un termine più vicino ai giovani, la grinta. Il mio approccio “pop”, non convenzionale, lavora proprio sulla motivazione, come se sussurrasse alle menti dei ragazzi: “Impegnati, perché ciò che sta accadendo è fuori dal comune, è un’occasione unica”. I miei ragazzi si sentono così “speciali” e questo ha un impatto positivo anche sulla stima di sé e sul coinvolgimento in classe.

 

I: Ci sono state delle ricadute positive anche sul suo livello di motivazione nello svolgere il ruolo di docente?

T.A.: Confesso che nei primi mesi di insegnamento a scuola mi sono sentito spaesato e demotivato. Provenivo da un insegnamento universitario decennale, avevo pubblicato 15 libri, ero abituato a fare ricerca filosofica a livelli molto alti. Andare in classe e recitare uno dei tanti manualetti in circolazione annoiava persino me, figuriamoci i ragazzi. La mia fortuna è stata quella di essermi occupato, da studioso e filosofo, di serie tv e cultura pop. Quando ho capito che potevo portare le mie vere competenze in classe è accaduto ciò che qualcuno ha definito una “Rivoluzione didattica”. Mi sono sentito anch’io, come i miei ragazzi, un po’ speciale. Come vede, il metodo ha funzionato in primis sulla mia motivazione.

 

Ringrazio il prof. Ariemma per la disponibilità e per averci raccontato di un metodo nuovo, originale e autentico per alimentare un aspetto essenziale della conoscenza: l’entusiasmo.

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