expand_lessAPRI WIDGET

Ego Depletion: autocontrollo e il dispendio di risorse mentali. Rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale è come processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Gli studi sul fenomeno dell’Ego Depletion ci danno informazioni interessanti sul nostro libero arbitrio. In particolare esercitare autocontrollo nelle sue varie modalità (es. resistere alle tentazioni, perseverare innanzi alle frustrazioni e così via) consuma una energia che ostacola esercizi di autocontrollo successivi. Questo significa che l’ autocontrollo è una risorsa limitata, che si può allenare, esaurire e recuperare con il riposo.

Ma è possibile usare strategie di autocontrollo che consumano una ridotta quantità di energia? È possibile esercitare autocontrollo con modalità così efficaci in grado di rallentare il processo di ego-depletion e aumentare i gradi di esercizio della libera volontà?

Probabilmente un minimo livello di carico cognitivo è comunque richiesto dall’azione conscia più che dall’abitudine automatizzata. Tuttavia esistono modalità consce di gestione del comportamento (in termini di espressione, presa di decisione, realizzazione dell’atto) che consumano maggiori risorse mentali e lasciano proni a un successivo esaurimento del muscolo dell’autocontrollo (Ego-Depletion, Baumeister et al., 1998).

Nel panorama scientifico alcuni processi cognitivi sono ormai considerati una modalità piuttosto costosa in termini di fatica mentale e stress emotivo di governo del comportamento. Tra questi, i più conosciuti sono rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero. Rimuginio e ruminazione sono particolarmente cancerogeni non solo perché determinano il cognitive load ma perché continuano a elaborare le medesime informazioni e non prendono in alcuna considerazione nuove informazioni dall’ambiente.

Qui la questione centrale è la sovrapposizione tra la necessità di uno stato interno equilibrato (assenza di pensieri o emozioni negative) e la possibilità di esercitare libero arbitrio. Una pretesa nei confronti di sé stessi, quella che il corpo e la mente siano d’accordo con noi. Le semplici traduzioni di questo scopo (metacognitivo) irrealistico sono forse più chiare: la pretesa di scegliere l’esposizione senza provare paura; la pretesa del rischio senza dubbi e preoccupazioni che ronzano in testa; la pretesa della rinuncia alle tentazioni senza un pensiero pulsante; la pretesa di fronteggiare una critica senza che la mente ci giudichi inadeguati. L’essere umano tende un po’ a cercare l’accordo assoluto con i propri eventi interni e a far dipendere le proprie decisioni da questo accordo. Ma la ricerca della coerenza per decidere, anziché aiutare a prendere decisioni buone o autentiche, rende le decisioni sofferte, difficili e confuse.

Come l’individuo procede a questa ricerca di coerenza interna? Prima via: rimuginare, ovvero il tentativo di risolvere i dissidi interiori attraverso svariate forme di ragionamento, le persone cercano di risolvere dubbi e domande esistenziali prima di decidere. Seconda via: la soppressione dei pensieri e delle emozioni, il tentativo di oscurare, combattere, cancellare o semplicemente ignorare i propri stati interni per garantirsi un finto equilibrio. Entrambe queste risorse consumano energia, sono faticose e superflue per arrivare a una decisione e quindi generano un carico cognitivo che riduce nel tempo le risorse a disposizione per l’esercizio del libero arbitrio.

Come aumentare i gradi di esercizio della libera volontà? Abbandonando l’uso di queste strategie, il che però implica decidere anche indipendentemente da segnali di incoerenza interna (emozioni e pensieri negativi) o aspettare che si plachino da soli. Possiamo prendere decisioni indipendentemente dal disaccordo (o dall’accordo) espresso dai nostri pensieri o dalle nostre emozioni.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

5 – Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

6 – L’ autocontrollo e il dispendio di risorse mentali: rimuginio, ruminazione e soppressione del pensiero

Elaborazione degli stimoli visivi: siamo sempre consapevoli di ciò che vediamo?

I ricercatori di Bonn si sono posti l’obiettivo di comprendere come l’elaborazione visiva differisca sulla base della consapevolezza dello stimolo. Essi hanno misurato le risposte dei singoli neuroni agli stimoli visivi attraverso l’impianto di elettrodi cerebrali nel lobo temporale mediale di 21 pazienti con epilessia al lobo temporale mediale.

 

Come avviene l’elaborazione degli stimoli visivi?

Se vi chiedete perché non sempre siamo consapevoli di ciò che vediamo, la risposta è nel cervello, che decide cosa è rilevante o meno. La letteratura scientifica, in ambito psicologico, presenta delle lacune in riferimento all’individuazione dei meccanismi neurali alla base della percezione consapevole degli stimoli (Koch, Massimini, Boly, & Tononi, 2016). Tra i pochi studi di riferimento, due sono significativamente rilevanti: uno su primati non umani e l’altro su esseri umani. Il primo prevede registrazioni a singolo neurone che mostrano come la percezione consapevole avvenga nelle regioni anteriori del circuito ventrale (Sheinberg, & Logothetis, 1997; Logothetis, 1998); mentre il secondo evidenzia come regione implicata il lobo temporale mediale (MTL) (Kreiman, Fried, & Koch, 2002; Quiroga, Mukamel, Isham, Malach, & Fried, 2008). Per ampliare questi dati di ricerca, presso l’università di Bonn è stato pensato un progetto che indaga il processo di elaborazione degli stimoli e, soprattutto, come le informazioni da essi veicolate si dissolvano nel viaggio verso la consapevolezza.

Quando l’immagine di uno stimolo viene proiettata sulla retina del nostro occhio, l’informazione visiva viaggia attraverso il nervo ottico fino alla corteccia visiva primaria nel lobo occipitale. Da qui il segnale si estende e in parte è proiettato nelle regioni anteriori, tra cui quelle del MTL. A volte, però, tale segnale può disintegrarsi prima che l’osservatore ne sia consapevole. E’ in questa fase che si può identificare, attraverso la registrazione dei cambiamenti dei segnali elettrici cerebrali, la differenziazione tra consapevolezza e inconsapevolezza dell’informazione visiva.

Come varia l’elaborazione visiva a seconda del livello di consapevolezza?

Sulla base di quanto riportato, i ricercatori di Bonn si sono posti l’obiettivo di comprendere come l’elaborazione visiva differisca sulla base della consapevolezza dello stimolo. Essi hanno misurato le risposte dei singoli neuroni agli stimoli visivi attraverso l’impianto di elettrodi cerebrali nel MTL di 21 pazienti con epilessia al lobo temporale mediale.

E’ necessario che stimoli identici talvolta siano visibili ed altre volte no; dunque, il metodo utilizzato si avvale del cosiddetto “attentional blink ”, ovvero il fenomeno per cui il secondo di due stimoli bersaglio, presentati in stretta successione, spesso non viene percepito coscientemente (Raymond, Shapiro, & Arnell, 1992). La consapevolezza del secondo stimolo, infatti, è possibile solo se c’è un intervallo di tempo sufficiente tra i due.

In questo studio, dunque, i partecipanti vedono una serie di immagini su uno schermo, ognuna presentata per poco più di un decimo di secondo. Prima di ogni serie, si richiede di prestare attenzione a due stimoli bersaglio per ricordarsi successivamente se sono apparsi nella serie. Il tempo tra le due immagini varia. I risultati mostrano che, quando gli stimoli bersaglio sono presentati in stretta successione, i partecipanti riportano in poco più della metà dei casi di vedere soltanto il primo, confermando la differente elaborazione conscia e inconscia. A livello neurale ciò corrisponde a un indebolimento degli impulsi elettrici in risposta alle immagini non consapevolmente percepite. Il segnale proiettato dall’area visiva primaria alle zone anteriori del MTL, infatti, si indebolisce disintegrandosi o arrivando comunque in ritardo. Nelle zone posteriori, invece, non si evidenziano segnali differenti poiché si tratta della sede di elaborazione primaria e più generica degli stimoli.

In sintesi, lo studio rivela un gradiente anatomico lungo il quale l’attività neurale è modulata in risposta alla percezione degli stimoli: più ne siamo consapevoli, più si attivano le aree anteriori del MTL.

In conclusione, questa ricerca fornisce nuovi elementi di indagine sul tema della percezione inconsapevole, utilizzando le risposte neurali come marker fisiologico della percezione cosciente.

L’impulsività e la disregolazione emotiva: come tollerare la sofferenza

L’ accettazione della sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire con impulsività, peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Perché è utile tollerare la sofferenza

La capacità di tollerare e accettare la sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire d’impulso, peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose. Il dolore e la sofferenza fanno parte della vita e per questo non possono essere completamente evitati. Imparare ad accettare e a tollerare tale sofferenza è l’unico modo per non farsi sopraffare dalle emozioni.

Questo tema è stato ampiamente indagato da Marsha Linehan (docente di psicologia e psichiatria presso l’Università di Washington e specializzata nel trattamento dei pazienti con disturbo borderline di personalità), la quale ha ideato un programma di skills training, facente parte del modello psicoterapico DBT (Dialectical Behavior Therapy). Tale terapia è stata concepita inizialmente per il disturbo borderline, ma successivamente si è evoluta ed è stata adattata anche ad altre forme psicopatologiche, tra cui i disturbi alimentari, le dipendenze, il comportamento suicidario, la depressione resistente.

La Dialectical Behavior Therapy prevede la combinazione di una terapia individuale e di uno skills training condotto in gruppo da un conduttore e un co-conduttore entrambi esperti di terapia dialettico-comportamentale. E’ opportuno anche che ci sia uno scambio di informazioni tra il terapeuta individuale e i conduttori dello skills training per favorire una maggiore integrazione tra i due tipi di terapia.

Lo skills training prevede 4 moduli e viene attuato generalmente in un setting di gruppo. L’obiettivo è quello di favorire nei pazienti l’apprendimento di strategie più adattive per gestire le situazioni difficili. I moduli dello skills training sono relativi alla pratica della mindfulness, alla regolazione delle emozioni, all’efficacia nelle relazioni interpersonali e alla tolleranza della sofferenza emotiva. In questo articolo mi soffermerò proprio su quest’ultimo modulo.

La tolleranza della sofferenza può essere definita come la capacità di percepire l’ambiente circostante senza pretendere che sia diverso da come è e di sperimentare le proprie emozioni e riconoscere i propri pensieri osservandoli senza valutarli o controllarli (Marsha Linehan, 2015). Per poter raggiungere tale obiettivo, secondo Marsha Linhean, è necessario apprendere delle abilità definite di sopravvivenza alle crisi, che consistono in soluzioni a breve termine a situazioni particolarmente dolorose. Le abilità di sopravvivenza alle crisi è, tuttavia, opportuno che siano utilizzate solo in momenti davvero critici, di elevata intensità emotiva, quando si rischia di agire con impulsività, peggiorando le conseguenze; in un secondo momento, invece, è utile utilizzare le abilità presentate negli altri moduli della DBT per regolare le emozioni, raggiungere i propri scopi, attuare processi di problem-solving, gestire le proprie relazioni interpersonali, e quindi in ultima analisi costruire una vita degna di essere vissuta.

Nello stesso modulo Marsha Linehan presenta il tema dell’accettazione della realtà quando gli eventi risultano dolorosi, ma purtroppo non possono essere modificati, perlomeno nel breve termine. Tale percorso risulta spesso molto doloroso, ma al termine di esso è possibile sperimentare uno stato di maggiore calma e serenità. Tale concetto sarà meglio esplicato in seguito.

Cos’è una crisi e quando utilizzare tali abilità

La crisi può essere definita come una situazione particolarmente stressante, di breve durata ma che non può essere modificata nell’immediato. Essa genera un’emozione molto forte, ma se si utilizzano alcune abilità è possibile ridurre l’intensità del dolore e dell’emozione tanto da renderlo più sopportabile.

Mettendo in atto queste abilità, si evita di agire sull’onda della mente emotiva, dell’ impulsività, di peggiorare la situazione e invece si permette a se stessi di porsi nella mente saggia e di definire ciò che può essere più vantaggioso in quella determinata situazione. Un esempio di situazione critica in cui è assolutamente opportuno ricorrere a tali abilità può essere quella in cui si è assaliti da un desiderio impellente di bere, abusare di droghe o picchiare qualcuno, in quanto tali comportamenti risultano disfunzionali, peggiorano la situazione e presentano una serie di effetti contrari e negativi a lungo termine.

Le abilità per tollerare la sofferenza, senza agire con impulsività

Una prima abilità che, secondo Marsha Linehan, consente di trattenersi dall’agire con impulsività peggiorando così la situazione, è quella dello STOP che prevede diversi passi:

  1. Stop: quando le emozioni stanno per prendere il sopravvento, è opportuno fermarsi, non reagire, non muovere nessun muscolo per cercare di conservare il controllo;
  2. Fare un passo indietro: prendere le distanze dalla situazione e respirare profondamente è funzionale a riacquistare il controllo della situazione;
  3. Osservare: fermarsi a guardare ciò che accade dentro e al di fuori di sé consente di non saltare alle conclusioni, di comprendere ciò che sta accadendo e di considerare le diverse opzioni;
  4. Procedere in maniera mindful: questo passo consente di agire con consapevolezza, considerando i propri pensieri e le proprie emozioni e quelli degli altri; si agisce ponendosi nella mente saggia e chiedendosi ciò che sarebbe più opportuno fare per non peggiorare la situazione.

Un’ abilità che, invece, consente di prendere decisioni rispetto al proprio comportamento scegliendo tra 2 o più possibilità è quella dei PRO  e dei CONTRO. La strategia consiste nello stilare una lista dei vantaggi e degli svantaggi dell’agire con impulsività e del resistere all’impulso sia a breve che a lungo termine. Azioni dettate dall’ impulsività potrebbero essere: mettere in atto comportamenti violenti, di abuso di alcol o sostanze oppure comportamenti autolesivi. Una volta stilata tale lista dei Pro e Contro potrebbe essere opportuno portarla con sé e rileggerla quando si sta per mettere in atto un comportamento impulsivo.

Altri comportamenti funzionali nei momenti di crisi sono quelli che agiscono sulla chimica del corpo e che abbassano il livello fisiologico di attivazione. Queste abilità consistono nel ridurre la temperatura corporea ad esempio utilizzando dell’acqua fredda, oppure nel compiere uno sforzo fisico o ancora nel rallentare il ritmo della respirazione. Infine se si ha più tempo a disposizione è possibile mettere in atto il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Altre abilità che consentono di porsi nella mente saggia e di ridurre il contatto con la propria sofferenza sono quelle di distrazione. Tali skills sono opportune nelle situazioni in cui il dolore può diventare troppo forte o quando i problemi non possono essere risolti immediatamente. È possibile individuare 7 diversi tipi di attività di distrazione:

  1. Impegnarsi in attività emotivamente neutrali o opposte alle emozioni negative contribuisce a ridurre impulsività e sofferenza emotiva (ad esempio guardare un film, ascoltare della musica, leggere, praticare dello sport sono azioni che possono aiutare a distrarsi dal dolore);
  2. Contribuire al benessere degli altri attraverso azioni gentili, premurose o di volontariato consente di spostare la propria attenzione da se stessi agli altri;
  3. Fare confronti con chi è meno fortunato può essere funzionale a rileggere la propria situazione in un’ottica più positiva;
  4. Un’altra abilità consiste nel mettere in atto azioni opposte, ossia azioni che generano un’emozione opposta rispetto a quella che si sta sperimentando in quel momento. Provare ad attivare emozioni diverse nelle situazioni di crisi consente di avere il controllo di sé e delle proprie emozioni, di allontanarsi per un momento da un dolore troppo forte e di rendere più sopportabile una sofferenza che altrimenti sarebbe troppo intensa;
  5. In alcuni casi anche tenere lontana una situazione fisicamente o mentalmente può consentire di evitare di mettere in atto comportamenti distruttivi; si può immaginare di impacchettare il dolore, di chiuderlo in una scatola o di erigere un muro tra sé e quella situazione;
  6. In altri casi può essere più funzionale distrarsi con delle azioni mentali, tra cui contare fino a 10, oppure con azioni concrete, ad esempio cantare una canzone o fare dei puzzle.
  7. Un’ultima categoria di abilità è rappresentata da quelle che consentono di generare sensazioni fisiche differenti, ad esempio stringere una palla di gomma o un cubetto di ghiaccio o fare un bagno caldo o una doccia fredda possono indurre dei cambiamenti fisiologici repentini e contribuire a tollerare e a modificare quel momento doloroso.

Altre abilità autoconsolatorie sono, invece, quelle che consentono di sfruttare i cinque sensi per rendere più piacevole e confortante una situazione difficile, utilizzando la vista (osservare la natura, il cielo stellato, altri stimoli visivi), l’udito (ascoltare la musica, il rumore della pioggia, suonare uno strumento..), l’olfatto (sentire il profumo dell’incenso, di una candela profumata, di un fiore..), il gusto (degustare cibi preferiti) e il tatto (coccolare un animale domestico, spalmarsi della crema idratante..) contribuisce a rendere più tollerabile e piacevole la situazione presente.

Infine altre abilità funzionali a rendere meno doloroso il momento presente possono essere: immaginare di essere in un posto immaginario o reale rilassante, cercare un senso al dolore che si sta provando, pregare, dedicarsi ad attività rilassanti (quali lo yoga o la meditazione), stare sul presente e compiere solo un’azione alla volta, concedersi un breve riposo, autoincoraggiarsi e complimentarsi con se stessi per gli sforzi che si stanno compiendo.

Le abilità di accettazione della realtà

Quando la situazione che si sta vivendo continua ad essere dolorosa e non è possibile modificarla, perlomeno nell’immediato, secondo Marsha Linehan è opportuno mettere in atto delle abilità di accettazione della realtà, che consentono di vivere una vita presente migliore di quella che si vivrebbe continuando ad ostinarsi nel voler modificare tale realtà.

Accettare la realtà significa smettere di combatterla e lasciar andare l’amarezza e la sofferenza; la realtà andrebbe accettata in ogni sua parte, in maniera completa. Ciò che è opportuno accettare è che ogni cosa ha delle cause che possono anche prescindere da se stessi, che ci sono limitazioni legate al passato o al presente e che la vita può essere degna di essere vissuta anche se vi sono eventi dolorosi. Se questi eventi negativi e immodificabili non vengono accettati si rischia di continuare a provare emozioni intense e dolorose di tristezza, vergogna o rabbia.

L’ accettazione rappresenta, dunque, l’opposto dell’ostinazione, che invece consiste nel continuare a rifiutare la realtà, nel volerla cambiare a tutti i costi, nel voler continuare a tenere il controllo della situazione. Il processo di accettazione, invece, può comportare emozioni di tristezza ma successivamente ne segue una sensazione di calma e si evita di trasformare il dolore in sofferenza ripetuta.

Accettare, tuttavia, non significa rassegnarsi o essere passivi di fronte ad eventi dolorosi; significa prendere consapevolezza delle proprie emozioni, smettere di ostinarsi contro la realtà. Se si negano o si evitano gli eventi, perché troppo dolorosi, essi non cambiano e le emozioni dolorose persisteranno a lungo. Il dolore non può essere evitato e per cambiare la realtà è necessario prima accettarla. In questo senso accettare non significa rassegnarsi.

L’ accettazione della realtà è l’obiettivo fondamentale anche della psicoterapia dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), la quale sostiene che la sofferenza non possa essere evitata e che accompagni la vita di chiunque. L’ACT si basa su 3 punti essenziali che consistono nell’ accettazione esperienziale, nella mindfulness e nell’impegno a vivere la propria vita in base ai propri valori. L’ACT è stata sviluppata da Steve Hayes e i suoi collaboratori nel 1986 e sostiene in generale che sia necessario combattere l’evitamento con l’ accettazione dell’esperienza e delle emozioni esperite e che ognuno abbia dei valori che guidano la propria esistenza.

La mindfulness, che viene contemplata sia nell’ambito della DBT che dell’ACT, è invece un approccio di consapevolezza alla realtà e consiste nel prestare attenzione al momento presente, con intenzione e in maniera non giudicante (Jon Kabat Zinn). Avere un approccio mindful significa essere presenti nel qui e ora e vivere la ricchezza e la pienezza della vita presente, senza giudicare o pensare troppo. L’obiettivo è quello di favorire una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada e dei propri stati mentali.

Ciò che accomuna l’ACT, la DBT  e la mindfulness è l’attenzione posta all’ accettazione della realtà e degli stati mentali anziché tentare di modificarli e tutti e tre gli approcci fanno parte della terza ondata della terapia cognitivo-comportamentale.

Concludendo, quando la realtà che si sta vivendo è troppo dolorosa e si rischia di mettere in atto comportamenti dettati dall’ impulsività che potrebbero peggiorare la situazione è opportuno utilizzare delle strategie di sopravvivenza alla crisi, finalizzate a tollerare la sofferenza emotiva. Inoltre, quando la realtà risulta immodificabile e al contempo genera sofferenza, anziché ostinarsi nel cercare di cambiarla, può essere più vantaggioso avviare un processo di accettazione dell’esperienza dolorosa.

Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza – L’Adult Attachment Projective Picture System – Recensione

Il volume “Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza” edito da Franco Angeli presenta uno strumento (l’AAP, Adult Attachment Projective Picture System) che tenta di raccogliere questa sfida, in un’epoca in cui anche in ambito psicologico sono sempre più richiesti approcci evidence- based, misure di efficacia, analisi standardizzate del rapporto costi-benefici degli interventi.

La teoria dell’attaccamento

La teoria dell’attaccamento di Bowlby, una delle più importanti e rigorose teorie psicologiche moderne, si basa sul presupposto che le esperienze relazionali precoci, in particolare quelle tra il bambino e chi si prende cura di lui, abbiano un impatto decisivo non soltanto sullo sviluppo emotivo e psicologico infantile ma anche sul funzionamento in età adulta, che si rivelerà sano o patologico a seconda della qualità delle prime esperienze di accudimento.

Tali esperienze sono infatti considerate determinanti per l’integrità del senso di sé e degli altri: quando l’attaccamento è sicuro, gli individui sono guidati da un’idea degli altri come amorevoli e responsivi e di se stessi come meritevoli dell’amore e delle cure altrui. Questo tipo di sicurezza, nel tempo, sostiene la resilienza individuale e la capacità di affrontare adeguatamente i momenti critici. Quando l’attaccamento invece è insicuro le reazioni emotive e comportamentali risentono della percezione inconscia che il proprio desiderio di vicinanza e consolazione resterà insoddisfatto o che è illecito; l’idea degli altri come ostili e di se stessi come indegni di amore diventa chiaramente predittivo di una vulnerabilità individuale allo sviluppo di problematiche relazionali e psicopatologiche.

Pur trattandosi di un paradigma che si fonda su una visione evoluzionistica della mente (la predisposizione umana a ricercare una figura di attaccamento è istintiva e sostenuta da basi biologiche), il concetto di attaccamento è intessuto di processi psicodinamici (modelli operativi interni, processi difensivi) che pongono la sfida di trovare strumenti di misurazione standardizzabili e validi da un punto di vista psicometrico, sia rispetto all’assessment che all’eventuale valutazione degli outcome di una psicoterapia.

Il manuale “Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza” e lo strumento Adult Attachment Projective Picture System

Il volume “Psicodinamica dei pattern di attaccamento in età adulta e adolescenza” edito da Franco Angeli presenta uno strumento (l’AAP, Adult Attachment Projective Picture System) che tenta di raccogliere questa sfida, in un’epoca in cui anche in ambito psicologico sono sempre più richiesti approcci evidence- based, misure di efficacia, analisi standardizzate del rapporto costi-benefici degli interventi.

L’ Adult Attachment Projective Picture System consiste in alcune tavole raffiguranti scenari (solitari o diadici) che richiamano esperienze di attaccamento (minaccia di separazione, malattia, solitudine, morte, abuso); al soggetto è richiesto di descrivere cosa sta succedendo nella scena, che cosa ha condotto a quella scena, cosa stanno pensando e provando i personaggi e che cosa succederà dopo. La classificazione dei pattern di attaccamento coincide con quella tradizionale (sicuro, ansioso/resistente, ansioso/evitante e disorganizzato) e si basa sulla codifica dettagliata di tre aspetti delle trascrizioni: la narrativa, il contenuto della storia e i processi difensivi.

Quest’ultima dimensione in particolare assume un’importanza cruciale perché una delle differenze sostanziali tra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento risiede proprio nella concettualizzazione dei meccanismi di difesa. I modelli psicoanalitici tradizionali descrivono infatti una complessa costellazione di fenomeni intrapsichici legati alle difese (tra cui fantasie, sogni, desideri, impulsi) mentre la teoria dell’attaccamento individua tre specifiche modalità di esclusione difensiva (deactivation, cognitive disconnection e segregated system) che permettono all’ Adult Attachment Projective Picture System di differenziare con precisione i profili individuali nei termini di come le persone mettono in atto strategie difensive per processare e pensare la propria esperienza di attaccamento.

La ricerca di un preciso sistema di codifica e di classificazione permette all’ Adult Attachment Projective Picture System di essere non soltanto una misura proiettiva (dove il termine proiettivo richiama spesso un’idea infelice di scarsa oggettività) ma uno strumento standardizzato a tutti gli effetti, un perfomance based personality test, dove il compito di “raccontare” la storia diventa una prova di problem solving (e non più quindi solo una vaga proiezione di contenuti inconsci) in cui occorre identificare i protagonisti, individuare la situazione lungo una dimensione temporale, comprendere e mettere in relazione gli stati interni dei personaggi raffigurati con i propri modelli interni legati all’attaccamento. In questo senso uno dei vantaggi di valutare l’attaccamento tramite uno strumento come l’ Adult Attachment Projective Picture System consiste nel fatto che i disegni costituiscono stimoli neutri per l’elicitazione di narrative personali potenzialmente dolorose; spesso i pazienti, in particolare quelli che hanno alle spalle esperienze traumatiche, hanno paura di dover parlare della propria esperienza, soprattutto durante la fase di assessment, quando l’alleanza terapeutica è ancora tutta da costruire.

Le tavole dell’ Adult Attachment Projective Picture System permettono invece al paziente di rievocare e raccontare memorie faticose o destabilizzanti non necessariamente come parte della propria esperienza personale bensì ancorandosi alle vignette, il che può mettere al riparo da vissuti di costrizione e di disagio. Il volume si arricchisce anche di un’ampia rassegna, molto interessante per i professionisti, che illustra l’utilizzo clinico dell’ Adult Attachment Projective Picture System in svariati settori e con pazienti sia in età evolutiva che adulta.

Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi (2017) di Antonino Ferro – Recensione del libro

Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi, scritto da Antonino Ferro, analista e supervisore nella Società Psicoanalitica Italiana, di cui è stato il Presidente, è la proposta di un viaggio verso gli scenari non consueti della psicoanalisi, una fenditura sul conosciuto da cui si scorge la possibilità di sperimentarsi in esperienze sempre nuove e vivificatrici.

 

Un dialogo a due voci conduce il lettore a farsi spettatore del confronto tra l’esperienza che si trasforma in arte e il prudente e poco creativo, ma verosimilmente reale, modo di procedere del giovane analista. In questa mappa di sentieri nuovi riconoscere l’impercorribilità di quelli ormai vecchi limita il rischio di essere contaminati solo da ciò che è stato conosciuto.

Si tratta di un viaggio che l’analista compie con un bagaglio leggero e che con attitudine curiosa verso l’ignoto va co-costruendo insieme al paziente, attraverso la moltitudine di storie che prendono vita in seduta.

Dal primo colloquio e dall’uso del lettino, passando per la comunicazione analista-paziente, fino all’agire in analisi, è sollecitata una riflessione su quella parte del setting che inevitabilmente muta sotto l’influenzata della cultura e a cui possiamo decidere di aderire con buon senso senza esporci a eccessivi sensi di colpa. Un percorso lungo anni, in cui una buona analisi personale, la scelta di supervisioni che permettano di conoscere e confrontare vari modelli, la conoscenza di contributi teorici che appartengono al passato fino a quelli più innovativi si fondono per dare corpo a una dimensione creativa e personale del procedere psicoanalitico.

In esso, le libere associazioni freudiane, la regola fondamentale, le interpretazioni di trasfert, sono abbandonate in favore del modello più creativo e meno prescrittivo bioniano. Di quest’ultimo è esaltata l’originalità e l’utilità dei cambiamenti che ha apportato nel panorama psicoanalitico. Dalla funzione alfa, attività della mente che si occupa di produrre costantemente immagini per il pensiero onirico della veglia, che a sua volta creeranno gli elementi costitutivi del pensiero e del sogno, di cui la rêverie ci rende consapevoli, si giunge presto a riconoscere la perdita di centralità dell’insight sostituito dalla trasformazione.

Il percorso di rinnovamento psicoanalitico, di cui Ferro si fa testimone con la sua teoria del campo, è fatto di tanti gradini, modelli teorici messi a confronto, conosciuti e poi dimenticati. Più precisamente, l’autore ricorda i contributi kleiniani, winnicottiani, freudiani, bioniani, dei Baranger, di Sullivan, di Donnel Stern, di Marco Conci e Corrao, la narratologia e gli apporti di Ogden e Grotstein che tanto raccomanda per le nuove formazioni. Si tratta di un’evoluzione che vede, inoltre, i suoi pazienti come importanti collaboratori delle variazioni da lui compiute al suo modo di procedere nel corso degli anni.

Cosi, la mia idea del campo è quella del gruppo interno che un paziente porta con sé, nell’incontro con il gruppo interno dell’analista che gli apre la porta dello studio. Non appena queste gruppalità s’incontrano, abbiamo immediatamente una trasformazione, un Big Bang del campo, abitato da tutti questi personaggi (Ferro, 2017, pp.93-94).

Si parte dall’accoglienza del paziente, un sostare doveroso sul contenuto manifesto, in modo che non si senta attaccato, ma compreso e si procede comunque con un’attività esplorativa, verificando le sue reazioni e aspettando di giungere insieme a una comprensione creativa.

È un gioco con questi personaggi che affollano la stanza e riprendendo il contributo di Ogden, si tratta di compiere una “trasformazione in sogno”, ossia costruire insieme narrazioni che possano operare una “decostruzione del sintomo”.

Questa processualità è resa possibile da un sistema di regole condivise da paziente e analista, tra cui il luogo, il ritmo, l’onorario, la condizione di asimmetria di ruoli, sperimentare il piacere del gioco.

L’analisi dovrebbe essere una cosa bella, una cosa divertente, qualcosa che somiglia a un gioco. Dovrebbe essere qualcosa che piace e per la quale uno è disposto a impegnare energie, tempo e soldi, come quando si va a vedere una partita (Ferro, 2017, p.19).

Il tempo a essa riservato, non può essere stabilito priori, ma sarà determinato dalla capacità del paziente di acquisire una dotazione di strumenti per funzionare meglio. D’altronde percorrere mondi sconosciuti e impervi richiede del tempo e a questo scopo, la capacita negativa dell’analista dovrebbe consentire questo procedere lento, impedendogli di sentirsi minacciato.

Ugualmente al paziente, anche l’analista, attraverso l’analisi, contribuisce al personale sviluppo degli strumenti per pensare e alla loro conservazione, a patto che si conceda del tempo in cui s’impegna in altro.

Per concludere, ci troviamo di fronte a un interessante contributo teorico e metodologico che, con toni irriverenti e un’indubbia capacità di sintesi, ci consente direttamente di guardare dentro la stanza d’analisi. Diventa difficile non aderire all’offerta di stimolanti spunti di riflessione sul futuro della psicoanalisi e al tentativo, seppur a tratti radicale, di smuovere con una certa energia le acque del procedere più ortodosso. In esso, i più curiosi potranno carpire gli inconfessati accorgimenti per rifuggire da una carriera professionale dominata della staticità. Una speranza per il futuro di una disciplina in costante trasformazione, che creativa e aperta a una pluralità di modelli, dovrebbe metterli da parte dopo averli conosciuti, riconsiderando che come ricorda Ferro (2017):

[…] forse la vera operazione di guarigione è quella di rendere inconscio quello che è troppo conscio, cioè di trasformare una realtà troppo concreta in una realtà che sia possibile sognare (p.124).

7 passi per mantenere un cervello sano

Secondo una nuova ricerca dell’American Heart Association, uno stile di vita sano aiuterebbe a mantenere il cervello sano e diminuirebbe il rischio di declino cognitivo.

 

Il programma Life’s Simple 7 per prevenire patologie cardiache e il declino cognitivo

Il cuore e il cervello necessitano costantemente di un adeguato afflusso di sangue, ma capita, nel corso della vita, che alcuni vasi sanguigni si restringano lentamente o si blocchino (aterosclerosi) provocando repentini infarti.

Molti fattori di rischio per l’aterosclerosi possono essere prevenuti e regolati attraverso una dieta sana, praticando attività fisica ed evitando di fumare.

La ricerca dimostra in modo convincente che gli stessi fattori di rischio che causano l’aterosclerosi sono anche i principali fattori della comparsa di declino cognitivo o della malattia di Alzheimer. Seguendo sette semplici passi (un programma chiamato Life’s Simple 7), non solo possiamo prevenire l’attacco cardiaco, ma potremmo anche prevenire il verificarsi di deficit cognitivi “, ha affermato il neurologo vascolare Philip Gorelick.

Life’s Simple 7 individua una serie di fattori sanitari sviluppati dall’American Heart Association per definire e promuovere il benessere cardiovascolare e cerebrale. Gli studi dimostrano, infatti, che questi sette fattori possono anche contribuire a promuovere la salute del cervello negli adulti.

Il programma Life’s Simple 7 invita gli individui a:
– controllare la pressione sanguigna
– evitare livelli alti di colesterolo
– mantenere un normale livello di glicemia
– essere fisicamente attivi
– seguire una dieta sana
– perdere peso
– non fumare.

Un cervello sano si definisce in grado di prestare attenzione, ricevere e riconoscere le informazioni dai nostri sensi, impara, ricorda, comunica, risolve i problemi, prende decisioni, regola le emozioni.

Lo studio, pubblicato sulla rivista American Heart Association Stroke, sottolinea l’importanza di adottare misure per prevenire patologie cardiache e cerebrali.

Gli studi in corso stanno cercando di individuare come uno stile di vita sano possa influire sulla salute del nostro cervello“, ha detto Gorelick. Sebbene sia necessaria una maggiore ricerca, ha detto, “la prospettiva è promettente“.

Secondo recenti evidenze gli stessi fattori di rischio per l’ictus – cui si fa riferimento in Life’s Simple 7 – sono anche fattori di rischio per l’Alzheimer e plausibilmente anche per altri disturbi neurodegenerativi “, ha dichiarato Gorelick.

I principi di prevenzione di Life’s Simple 7 sono stati formulati a seguito di una meta-analisi di molteplici ricerche scientifiche, esaminando 182 studi scientifici che hanno indagato questo tema.

Feccia (2017) di Paul Williams – Recensione del libro

Feccia (titolo originale “Scum”) di Paul Williams dà vita e forma alle parole, ai pensieri, alle emozioni e alle visioni di un adolescente costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, in un contesto familiare minaccioso e indecifrabile.

 

Chiederesti mai a una volpe ferita che effetto fa essere schiacciati dalle ruote di un tir?
Ossa rotte occhi offuscati sangue che cola dal muso bile asfalto raccontano tutto.

(tratto da “Feccia” di Paul Williams, p. 32)

 

Secondo di tre romanzi autobiografici che andranno a comporre una trilogia centrata sulle descrizione degli effetti psichici della trascuratezza e dell’ abuso infantile, Feccia (titolo originale “Scum”) di Paul Williams dà vita e forma alle parole, ai pensieri, alle emozioni e alle visioni di un adolescente costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, in un contesto familiare minaccioso e indecifrabile.

Il racconto prosegue dalla fine del primo volume Il quinto principio, che descrive invece l’infanzia di Paul, e ci porta ad esplorare la sua vita di adolescente che deve far fronte ad un’età già difficile e ingrata, come sempre l‘adolescenza è, in circostanze decisamente catastrofiche.

Il linguaggio scelto è la chiave emotiva del racconto: un flusso di coscienza, senza punteggiatura e spesso senza soggetto, che ben rappresenta lo sguardo di Paul verso il mondo, carico di confusione, stupore, terrore, spaesamento e impossibilità di dare un senso alle più semplici esperienze quotidiane.

A che servono madri e padri? A che serve un bambino? Cosa è un pasto caldo? Quando si può dormire? Che ci fa tutta quella gente allineata in un’aula? Cosa è l’inchiostro? Chi è Annibale? Cosa vuol dire automobile? Cosa vuol dire casa? Chi vive nel Bosco? Domande semplici, risposte impossibili.

Feccia di Paul Williams: tra trauma e dissociazione

Il mondo del trauma è un mondo arbitrario, niente è come dovrebbe essere: chi dovrebbe proteggere minaccia, chi dovrebbe insegnare punisce, chi dovrebbe giocare attacca, chi dovrebbe prendersi cura deride e abbandona. La paura allora diventa una “bussola interna” che tiene pronti a fuggire, a sottomettersi ai più forti, a diventare invisibili o a distaccarsi dal corpo quando il dolore è troppo. Il Paul adolescente protagonista di Feccia non conosce le principali reazioni della mente di fronte a pericoli mortali (attacco, fuga, freeze, svenimento), ma lo stesso riesce a descriverle così come le sente arrivare nel suo corpo e nella sua mente, offrendo direttamente a chi legge il suo vissuto traumatico e lo scenario frammentato della realtà che riesce solo a tratti a ricomporre.

Nella vita di Paul sono proprio le sue principali figure di attaccamento – i genitori – ad essere traumatizzanti e dunque il bambino, e poi l’adolescente, non può da solo fronteggiare la paura e l’angoscia, ma ne viene sopraffatto vivendo continuamente emozioni dirompenti di terrore e impotenza. Paul tuttavia non può che continuare a dipendere dalla sua famiglia, la stessa che lo espone ripetutamente al pericolo, ed è di fronte a questo paradosso che la mente inizia ad aver bisogno di soluzioni emotive più estreme, come la dissociazione, per sopravvivere. Il disprezzo di sé, il senso di inadeguatezza, la colpa di essere profondamente sbagliati diventano allora credenze interiorizzate negative che aiutano almeno in parte a dare un senso al rifiuto delle “persone chiamate genitori”. In questo passaggio le sue parole descrivono la nascita di queste credenze disfunzionali:

Unico stratagemma a cui ricorrere in caso di emergenza attribuire a lui la colpa

di quello che non era andato nella vita di sua madre cioè ogni cosa il tarlo si era insinuato in lui

quando l’uomo chiamato padre aveva cominciato a fiancheggiare le aggressioni di lei

disprezzo derisione verità diabolica. L’uomo chiamato padre sapeva che un bambino aggredito

cerca qualcuno che lo consoli e non può tollerare di non trovarlo… (p. 84)

L’identità si divide allora tra più rappresentazioni, o parti di sé o stati dell’Io, che sono tra loro inconciliabili: da un lato il bambino spaventato e vittima degli abusi, dall’altro il bambino sbagliato che merita il disprezzo e le percosse, e infine il bambino arrabbiato che sfoga, seppur raramente, un odio narcisistico violento nel tentativo di liberarsi dall’alienazione.

Il risultato per chi osserva è uno stile di relazione “bizzarro” e “strano”, fatto di reazioni opposte e imprevedibili che si delineano in quello che viene definito “attaccamento disorganizzato”, ovvero condizionato da una costante paura e sfiducia verso gli altri.

Queste parti emergono nel racconto di Paul WilliamsFeccia, come voci, allucinazioni o figure interne immaginarie che talora minacciano e talora incoraggiano aiutandolo a mettersi al sicuro e a scegliere per il suo futuro.

La traiettoria evolutiva descritta da Paul Williams in Feccia nella storia di Paul è la storia di molte persone che hanno vissuto nella loro infanzia abusi, maltrattamenti e grave trascuratezza e che sono state costrette a fronteggiare emozioni intollerabili, restando vive e costruendo con coraggio mondi possibili in alternativa alla realtà del trauma.

La dissociazione traumatica genera inizialmente una profonda frammentazione della coscienza e una perdita del senso di sé e del mondo, che determina sintomi dissociativi e psicotici: confusione, allucinazioni, amnesia, derealizzazione, sconcerto, depersonalizzazione, comportamenti esplosivi e un’alterata percezione del rischio che rende impossibile proteggersi dal pericolo. Tuttavia questa apparente disorganizzazione della mente è necessaria alla sopravvivenza emotiva e indispensabile a tenere il dolore, la vergogna, l’umiliazione e l’impotenza chiusi tra le mura psichiche create dai sintomi dissociativi. A volte queste mura crollano inondando la mente di terrore, ma altre volte permettono di respirare un po’, di guardarsi intorno, di concedersi qualche esplorazione solitaria e magari di cogliere, come sarà per Paul, l’aiuto di chi si accorge della sua sofferenza e gli offre un luogo finalmente sicuro che cambierà per sempre la sua traiettoria di vita.

Oncologia pediatrica: il lavoro dei volontari per il sostegno delle famiglie

Il presente contributo intende analizzare l’impatto della malattia sul bambino, sui vissuti legati all’ospedalizzazione, gli atteggiamenti regressivi e le possibili risposte emotive che un bambino può sviluppare a seguito della diagnosi o durante le fasi di una patologia organica grave.

Sofia Tavella, Chiara Granato, Michela Liberatoscioli, Beatrice Plini, Fabiana Prota, Giovanna Tedeschi

 

L’insorgere di essa può comportare nella vita di un bambino una serie di cambiamenti sia a livello psicofisico che relazionale, incidendo sulle sue dimensioni più intime e personali, limitando autonomia e indipendenza dalle figure di riferimento primarie. Bisogna considerare che in seguito a una diagnosi di cancro potrebbe emergere una profonda disorganizzazione con l’uso di meccanismi e strategie di difesa quali la negazione, l’isolamento, la proiezione, la regressione, ecc. che potrebbero portare il soggetto a sviluppare psicopatologie come: alterazioni dell’immagine corporea, sintomi depressivi, somatizzazioni, isolamento e disagio sociale che possono legarsi al trattamento (Moore et al., 2003), ma anche difficoltà affettive, comportamentali, scolastiche (Meyer et Kieran, 2002) e il PTSD, disturbo da stress post-traumatico (Roy et Russell, 2000).

Inoltre, anche se alle volte è curabile, nell’immaginario comune si tratta di una malattia direttamente collegata alla morte ed è compito dello psicologo riconoscere la presenza di eventuali disturbi o delle angosce di morte che il bambino malato potrebbe sviluppare. Le angosce di morte (Derealizzazione, Depersonalizzazione e Destrutturazione) portano il bambino a interrogarsi sul proprio futuro, a perdere la motivazione a vivere, a non riconoscersi più nel proprio ruolo e ad identificarsi differente dalla condizione iniziale di salute; crollano così i miti dell’eterna giovinezza e dell’eterna salute (Crocetti, 2012). Poiché il disagio psicologico aumenta la percezione del dolore (Riva, 2013), riducendo le angosce di morte che spesso accompagnano il paziente oncologico vi è anche un decremento del dolore fisico (Mangani, 2015).

Il dolore fisico è correlato anche ai modelli che il bambino ha appreso dalle figure di riferimento, a fattori sociali e alle credenze che gli adulti possono avere sulla percezione del dolore del bambino e il suo modo di affrontarlo (Ross e Ross, 1984; McGrath e McAlpine, 1993; Capoleoni 2000). Le figure di accudimento possono inoltre incrementare la paura per le procedure mediche, la difficoltà ad adattarsi, a fronteggiare la malattia e il dolore provato (McGrath, 1995).

Tra i pazienti oncologici sono state rilevate diverse strategie di coping nell’affrontare lo stress legato alla malattia neoplastica. Le principali strategie individuate da Burgess (1988) sono: Hopelessness/helplessness, lo spirito combattivo, l’accettazione stoica, la negazione/evitamento e il coping religioso.

La tendenza a percepire gli eventi esterni come ineluttabili e legati al destino, external locus of control, tende a favorire modalità disadattive alla malattia, mentre la tendenza a percepire gli eventi come controllabili, internal locus of control, facilita modalità più adattive (Grassi et al, 2003).

Per comprendere i vissuti di un bambino ricoverato in un reparto di oncologia pediatrica è necessario porsi determinate domande: come spiegare la patologia al bambino? Quali potrebbero essere le conseguenze psicosociali derivanti dall’ospedalizzazione? Com’è opportuno gestire l’impatto del cambiamento fisico e ambientale sia sul bambino che nel contesto familiare?

Tramite il progetto “Al servizio dei bambini“, fondato dall’associazione Alma Salus nel 2007, è stato possibile assistere bambini con patologie temporaneamente o permanentemente invalidanti, o in fase terminale della malattia.

Noa è un bambino di 9 anni che ha iniziato un lungo e intenso percorso legato alla diagnosi di carcinoma renale bilaterale; è stato sottoposto ad un intervento di asportazione chirurgica di un rene, continuando parallelamente sia le terapie chemioterapiche ogni ventuno giorni, con l’intento di diminuire le dimensioni del carcinoma, sia i relativi controlli per monitorare l’andamento delle cellule tumorali.

Oltre ai ricoveri legati alle terapie, Noa torna in ospedale con frequenza variabile a causa degli episodi di aplasia che lo costringono a non uscire dalla stanza e quindi ad una limitazione sociale e ambientale. Appare un bambino timido e introspettivo, con cui è difficile entrare in relazione sia a livello verbale che visivo, soprattutto in presenza dei genitori. Tuttavia, con la costante ricerca della sua partecipazione è stata notata una differenza sostanziale nell’interazione e nelle attività ludiche che avvengono al di fuori della stanza, in presenza di altri bambini, in un luogo probabilmente percepito come più adeguato alla sua età.

Da quanto riferito dai genitori, Noa sa di avere due “palline” sul rene, una delle quali è stata tolta. Nonostante sia solo un bambino di nove anni, la curiosità di sapere cosa deve affrontare, non è mai venuta a mancare, arrivando a chiedere anche spiegazioni per iscritto ai dottori. L’intervento e gli effetti collaterali della chemioterapia hanno inciso in maniera evidente sul vissuto emozionale del bambino, portandolo ad un rifiuto del contatto fisico anche con gli stessi genitori, soprattutto nelle zone coinvolte dall’intervento. Queste ed altre conseguenze, vanno ad aumentare il senso d’impotenza dei genitori ed in particolar modo della madre, che per prima avverte il distacco del figlio, sentendo la costante necessità di “controllare” o ” percepire” il dolore e i bisogni.

Il caso di Noa ci aiuta meglio a comprendere come sia importante considerare la soggettività di ogni situazione data, dalla storia, dall’emotività e dal livello evolutivo di ciascuno. Queste caratteristiche vanno considerate in ogni fase della malattia, fin dal suo esordio. L’angoscia, che inevitabilmente accompagna ogni percorso di malattia, può venire espressa, celata, affrontata o negata, in modi differenti. L’esperienza di ammalarsi gravemente comporta comunque per un soggetto in crescita carichi emotivi eccessivi per l’età; questo se da un lato spinge ad un adeguamento troppo precoce al mondo adulto, dall’altro impone situazioni di dipendenza che rallentano lo sviluppo. Può, inoltre, venire compromesso l’equilibrio all’interno del nucleo familiare, con alterazioni delle dinamiche esistenti.

Al fine di evitare queste ed altre compromissioni, al fianco delle figure professionali che si occupano della malattia in senso clinico, è importante che operino persone qualificate che si prendano cura del bambino e di tutta la sua famiglia a livello psicologico ed emotivo, ricordando sempre che un paziente ricoverato in oncologia pediatrica è sempre un bambino e, in quanto tale, necessita di attività ludiche, di interazioni sociali, di accudimento, ecc.

Avvicinarsi ad una realtà ospedaliera e al progetto “Al servizio dei bambini” significa dunque intervenire in un contesto dove spesso la malattia diviene l’unica protagonista.

Marsha Linehan e la DBT – Introduzione alla Psicologia

Marsha Linehan è professore di psicologia, psichiatria e scienze del comportamento all’Università di Washington. E’ specialista nel trattamento del disturbo di personalità Borderline per il quale ha ideato un approccio terapeutico, la terapia Dialettico comportamentale (DBT) che, risulta essere uno dei trattamenti di elezione per pazienti affetti da tale patologia.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Marsha Linehan è direttrice di diverse cliniche di ricerca e terapia comportamentale e fondatrice di due organizzazioni dedicate alla diffusione del suo trattamento DBT: Behavioral Tech, LLC e The Linehan Institute.

Inoltre, è autrice di numerosi libri e studi scientifici, ha ricevuto molti riconoscimenti e il suo trattamento è considerato il precursore per il Disturbo della Personalità Borderline e dei comportamenti auto-lesivi.

La storia di Marsha Linehan

Marsha Linehan nacque a Tulsa, in Oklahoma il 5 maggio del 1943, terza di sei figli, studentessa eccellente e abile suonatrice di pianoforte. Durante l’adolescenza, esattamente a 17 anni le venne diagnosticato un disturbo schizofrenico. Marsha Linehan frequentemente bruciava i polsi con le sigarette, si taglia le braccia e le gambe utilizzando oggetti taglienti, e per questo, classificarono questi comportamenti come tipici di una grave malattia mentale, poichè all’epoca non era ancora noto il Disturbo Borderline di Personalità.

Trascorse molto tempo in un Istituto psichiatrico dove occupava l’area di isolamento, zona dedicata a pazienti molto gravi.
In quella stanza d’isolamento Marsha Linehan, giurò a se stessa che si sarebbe liberata dall’inferno in cui si trovava e che avrebbe aiutato gli altri a uscire da questa condizione.

Marsha Linehan afferma: “Mi sentivo completamente vuota in quel periodo, come l’uomo di latta; non riuscivo a comunicare cosa stava succedendo in me, e non c’era nessun modo per farlo capire“. Proprio in questo istituto, iniziò a comprendere di essere in grado di prendersi cura di altre persone, e notò di riuscire molto bene in questo.

Nel 1967, diversi anni dopo aver lasciato l’istituto psichiatrico, Marsha Linehan, si trasferì a Chicago e iniziò a lavorare per una compagnia assicurativa, mentre di notte si dedicava agli studi di psicologia. In questo periodo, divenne una credente – praticante e, successivamente, proprio la fede l’aiutò a prendersi cura di se stessa senza più infliggersi dolore fisico. Gli anni di studio in psicologia le diedero la possibilità di capire cosa le stava accadendo a livello emotivo e, per questo, decise di intraprendere un lungo processo di accettazione della sofferenza legata alla sua condizione.

Marsha Linehan, dopo aver conseguito la laurea, ottenne un dottorato in psicologia, e contemporaneamente lavorava con persone disagiate e emotivamente disperate che consideravano il suicidio la risposta alla loro miseria e dolore.

Ella intuì che prima di poter cambiare qualsiasi tipo di comportamento era necessario accettare la sofferenza, solo a quel punto si poteva cambiare. Così, intraprese un lungo processo di comprensione volto a individuare come unire due principi apparentemente opposti: l’accettazione della vita esattamente com’è e la necessità di cambiare apprendendo nuove modalità cognitive e comportamentali.
Lo scopo era, però, capire se questo approccio potesse funzionare in generale anche con un certo tipo di pazienti; per questo era necessario testare questo approccio su gruppi particolari di pazienti, come persone ad alto rischio suicidario e coloro che erano affetti da disturbo borderline di personalità, noti per essere a rischio di suicidio oltre che per presentare una forte disregolazione emotiva.

Nel 1980 Marsha Linehan chiese all’Istituto Nazionale di Salute Mentale americano di poter condurre un trial clinico per verificare l’efficacia del suo trattamento.
I dati derivanti dalla sperimentazione confermarono che l’approccio utilizzato dalla Linehan, fondato sulla dialettica tra strategie di cambiamento cognitivo-comportamentale e concetti filosofici orientali, come l’accettazione e la mindfulness, aveva successo nel trattamento del paziente difficile.

Quindi, applicando questo modello, si potevano ottenere miglioramenti sugli aspetti emotivi e comportamentali dei pazienti difficili (Linehan, Armostrong, Suarez, Allmon, Heard, 1991; Linehan, Heard Armostrong, 1993; Leichsenring, Leibing, Kruse, New & Leweke, 2011).
Marsha Linehan, definì questo nuovo approccio terapeutico Dialectical Behavior Therapy, DBT (Linehan, Comtois, Murray, Brown, Gallop, et al. 2006)

Il trattamento DBT prevede la combinazione di psicoterapia individuale, skills training di gruppo e un team specifico di consultazione terapeutica, che può includere, oltre ai terapisti individuali e di gruppo anche un medico psichiatra.

Nascita ed evoluzione della terapia dialettico – comportamentale

La DBT rappresenta il trattamento d’elezione evidence-based (basato su prove scientifiche di efficacia) per il Disturbo Borderline di Personalità e, pur fondandosi sugli assunti e sulle strategie cognitivo-comportamentali, è caratterizzato da elementi unici e specificatamente rivolti alla disregolazione emotiva e al trattamento di comportamenti impulsivi e autolesivi.

La DBT integra i principi della mindfulness, principi di behaviorismo e di terapia cognitivo-comportamentale. Per definire la sintesi di queste diverse correnti teoriche fu utilizzato il termine “dialettica”, riferendosi, anche, al concetto filosofico sottostante e alle continue tensioni dialettiche tra la psicologia occidentale e la pratica orientale che guidano l’evoluzione di tale modello con la psicoterapia (Arkowitz, 1989, Arkowitz, 1992, Prochaska & Diclemente, 2005, Ryle, 2005; Norcross & Goldfried, 2005).

Con il termine dialettica si vuole far emergere l’interrelazione e l’unitarietà della realtà, poiché non limitata all’analisi delle singole parti di un sistema, ma a specifici contesti in cui si esplica il comportamento dei singoli e dei singoli nel gruppo.
Quindi, la realtà non è concepita come statica, ma composta da forze interne opposte (tesi e antitesi) in continua evoluzione, e la cui sintesi genera una nuova tensione tra forze opposte. In tal senso, i pattern di pensiero e di comportamento dei pazienti sono considerati come dei fallimenti dialettici, poiché la persona è bloccata su polarità estreme e fatica a muoversi dinamicamente verso una sintesi. La realtà, dunque, è fondata sul cambiamento e sul processo, l’individuo e l’ambiente sono in costante mutamento.

La terapia DBT

La terapia DBT non è mirata al mantenimento della stabilità in un contesto coerente, ma tende a promuovere l’apprendimento di competenze atte a gestire il cambiamento.

La DBT lavora sui comportamenti disfunzionali o disadattivi (comportamenti suicidari e parasuicidari, impulsivi e disfunzionali) che impattano sulla vita della persona affetta da disturbo borderline della personalità. Lo scopo è modificare questi comportamenti acquisendone nuovi o apprendendo ad utilizzare comportamenti alternativi e funzionali. Quindi, attraverso il miglioramento della gestione dei comportamenti disfunzionali, della regolazione emotiva e della validazione della sofferenza, che spesso accompagna gli individui con disturbo borderline, è possibile costruire uno vita “degna di essere vissuta”, per citare un’espressione della stessa Marsha Linehan.

L’intero trattamento DBT sottolinea la costruzione e il mantenimento di una relazione tra paziente e terapeuta in cui la validazione dei pensieri, dei sentimenti, delle emozioni e dei comportamenti del paziente è fondamentale.

Il trattamento consiste in una co-terapia, in cui diversi terapeuti interagiscono verso un obiettivo comune. Il terapeuta individuale, i terapisti conduttori dello skills training di gruppo, a volte anche lo psichiatra. Il modello DBT prevede generalmente una seduta di psicoterapia individuale alla settimana e una seduta settimanale di skills-training di gruppo della durata di circa un’ora e mezza o due ore.

Lo skill-training assume una rilevanza fondamentale nella DBT, poiché è volto a colmare deficit nelle abilità di autoregolazione delle emozioni, dei comportamenti e delle relazioni interpersonali.

Lo skill-training consta di quattro moduli di apprendimento, acquisizione e generalizzazione di specifiche abilità.
Il primo modulo fa riferimento alle abilità nucleari di mindfulness, che consentono di osservare in modo consapevole se stessi e gli altri intorno a sè, nel momento presente, sospendendo il giudizio. Le abilità di mindfulness si suddividono a loro volta in tre abilità di contenuto che fanno riferimento all’oggetto dell’attività mentale (osservare, descrivere, partecipare) e tre abilità formali, relative invece alla modalità con cui tali processi mentali prendono forma (assumere un atteggiamento non giudicante, concentrarsi su una sola cosa alla volta, essere efficaci).

Nel secondo modulo si parla di abilità di regolazione emotiva, e consiste nell’allenare il riconoscimento e la regolazione delle emozioni nelle loro diverse componenti. Durante il modulo si lavora sull’appropriazione, miglioramento e generalizzazione delle abilità di regolazione delle emozioni.

Un terzo modulo riguarda le abilità di efficacia interpersonale mirate all’apprendimento di strategie utili per gestire le relazioni interpersonali. Durante il modulo si trattano diverse aree che riguardano la capacità di analisi delle situazioni interpersonali, la chiarificazione dei propri obiettivi, le abilità da utilizzare per raggiungere i propri obiettivi mantenendo il rispetto di sé e non deteriorando in maniera maladattiva la relazione.

L’ultimo e quarto modulo fa riferimento alle abilità di tolleranza della sofferenza mentale, utili quando il paziente è in uno stato di intensa disregolazione emotiva e comportamentale. L’intensità delle emozioni esperite è molto elevata, ed è proprio in questa fase che il soggetto può attuare agiti e condotte altamente disadattive e autolesive. Le abilità che caratterizzano questo modulo portano a riuscire a gestire e a tollerare in maniera più adattiva l’angoscia e l’attivazione emotiva allo scopo di prevenire i comportamenti disfunzionali.

Ogni modulo dello skill training è composto da 8 incontri e, generalmente, gli incontri si svolgono in gruppo di circa 6-10 partecipanti, con la presenza di due terapeuti, uno con ruolo principale di conduttore, l’altro con ruolo di co-conduttore, e aventi ciascuno specifici ruoli e funzioni.

Efficacia della DBT

Sono state realizzate diverse ricerche che hanno mostrato l’efficacia della DBT nella riduzione dei comportamenti disfunzionali nel Disturbo Borderline di Personalità, nel trattamento della disregolazione emotiva, ma anche per altri disturbi psichici. Nonostante la DBT presupponga un intervento integrato, recenti evidenze (Linehan et al., 2006; Neacsiu,  Rizvi,   Linehan, 2010; Linehan et al., 2015) hanno sottolineato l’efficacia dello skills training come una modalità di intervento a sé che è risultata efficace per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, soprattutto in termini di riduzione dei tentativi di suicidio, dei sintomi depressivi e dei comportamenti a rischio, e in termini di miglioramento della capacità di regolazione della rabbia, aumentando il benessere percepito e i comportamenti prosociali. Quindi, la letteratura scientifica e le evidenze cliniche suggeriscono come la DBT e lo skill training possano rappresentare degli strumenti di elezione per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità e, in generale, dei problemi associati alla disregolazione emotiva e al controllo degli impulsi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Non dormi a causa dello stress? La soluzione è in quello che mangi

Una ricerca del “International Institute for Integrative Sleep Medicine”, presso l’università di Tsukuba, ha dimostrato l’efficacia dell’octacosanolo nel ridurre lo stress e ripristinare il ciclo sonno-veglia.

 

Chi di noi quando è sotto stress non ne risente anche nella qualità del sonno? Nella società odierna si assiste ad una vita caratterizzata da un estremo dinamismo con continue richieste da soddisfare e ciò comporta una condizione di stress che, se perdura a lungo, può generare effetti deleteri sull’intero organismo. Tra le varie conseguenze derivanti dallo stress si riscontrano la perdita di sonno e la difficoltà di addormentarsi (Mesquita & Reimao, 2010; Pawlyk, Morrison, Ross, & Brennan, 2008), che a loro volta contribuiscono all’insorgenza di malattie cardiovascolari, depressione, ansia, obesità, ecc.

L’ octacosanolo come terapia per l’insonnia

A differenza degli effetti collaterali dei sonniferi, una ricerca del “International Institute for Integrative Sleep Medicine”, presso l’università di Tsukuba, ha dimostrato l’efficacia dell’octacosanolo nel ridurre lo stress e ripristinare il ciclo sonno – veglia. L’octacosanolo è una sostanza presente in diversi cibi (zucchero di canna, crusca di riso, olio di germe di grano, cera d’api, ecc.) che presiedono allo svolgimento di attività e funzioni biologiche, visto che ha effetto sul sistema nervoso centrale. Il suo estratto è il policosanolo, che è già stato utilizzato in passato per la cura di diverse patologie mediche.

Gli autori della ricerca hanno indagato l’effetto dell’octacosanolo su topi stressati e deprivati del sonno confrontandoli con topi sani.
I risultati hanno mostrato che tale sostanza non induceva il sonno nei topi sani ma in quelli stressati, riducendo la durata degli episodi di veglia. In più essa produceva un decremento dei livelli di un marker fortemente stressogeno (Andersen et al., 2005; Hairston et al., 2001; Dispersyn et al., 2017) nel plasma sanguigno: il corticostereone. Come previsto, anche la qualità del sonno dei topi risultava normalizzata; infatti, essi presentavano un sonno simile a quello naturale e fisiologico.

Alla luce di ciò, si può concludere che l’octacosanolo potrebbe essere utilizzato come terapia dell’insonnia causata dallo stress anche per gli esseri umani, poiché si tratta si una sostanza che è presente in cibi commestibili e che è utile al metabolismo lipidico e all’abbassamento del colesterolo.

Studi futuri dovrebbero confermare negli umani gli effetti sopra citati per gli animali, individuando non solo l’area cerebrale in cui l’octacosanolo agisce ma anche il meccanismo attraverso il quale consente di abbassare i livelli di stress.

EMDR: un metodo per rielaborare ricordi traumatici e perdite dolorose

L’ EMDR, attraverso i movimenti oculari, attiva il processo di rielaborazione dell’informazione traumatica e trasforma il materiale traumatico in una forma più adattiva e funzionale.

Marianna Palermo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Quando una persona vive un trauma psicologico, avviene uno squilibrio nel sistema nervoso e ciò fa sì che l’informazione acquisita al momento del trauma, comprese le immagini, i suoni, le sensazioni fisiche, vengano conservati a livello neurologico in uno stato disturbante.

L’ EMDR, invece, con i movimenti oculari, innesca un meccanismo che riattiva l’elaborazione dell’informazione e questo consente di raggiungere una sorta di autoguarigione psicologica. A seguito di una terapia di EMDR, infatti, i terapeuti affermano che le immagini, le emozioni e le cognizioni negative risultano più sfocate e meno disturbanti.

Per indicare il percorso effettuato con l’ EMDR si utilizza spesso la metafora del treno: “durante l’elaborazione accelerata, che ha luogo a ogni set, il treno procede verso l’altra stazione lungo la linea. A ogni plateau, o fermata, alcune informazioni disfunzionali vengono scaricate e altre informazioni adattive si aggiungono, proprio come i passeggeri che scendono a ogni fermata mentre altri salgono. Alla fine di una seduta di EMDR l’informazione target è completamente elaborata e il paziente raggiunge una risoluzione adattiva” (Shapiro, 2000). L’ EMDR, dunque, attraverso i movimenti oculari, attiva il processo di rielaborazione dell’informazione traumatica e trasforma il materiale traumatico in una forma più adattiva e funzionale.

Gli elementi di cui si compone una terapia con EMDR

Per poter avviare una terapia con EMDR è necessario innanzitutto individuare un target, che dovrebbe essere rappresentato da ricordi del passato, eventi recenti che attivano il disagio attuale ed eventi futuri associati al disagio attuale. È necessario, quindi, generalmente, procedere in senso cronologico partendo dai ricordi disturbanti del passato, procedendo con quelli del presente e anticipando quelli del futuro.

Una volta individuato il ricordo da cui partire, si chiede di individuare l’immagine peggiore dell’evento.

Si procede con l’individuazione della cognizione negativa che la persona ha sviluppato su di sé in relazione a tale ricordo; le cognizioni negative maggiormente riportate dai pazienti sono: non valgo, sono sbagliato, sono incapace, sono cattivo, non vado bene.. Identificare una corretta cognizione negativa è fondamentale in quanto l’ EMDR trasforma solo il materiale realmente inadeguato e disfunzionale, mentre quello veritiero non viene modificato (ad es. nel caso di una vittima di stupro la cognizione negativa “ero impotente” è probabilmente corretta in relazione all’evento, mentre la cognizione “sono impotente” può essere ristrutturata attraverso l’ EMDR in quanto non risulta più adeguata nel momento presente). La cognizione negativa, dunque, deve riferirsi a se stessi ed essere sostenuta nel presente.

A questo punto, viene identificata la cognizione positiva, ossia ciò che alla persona piacerebbe pensare di se stessa ripensando a quell’evento. Questa cognizione viene poi valutata sulla scala VOC a 7 punti, dove 1 significa “completamente falso” e 7 “completamente vero”. Identificare una cognizione positiva significa definire una visione alternativa del trauma.

Successivamente, vengono individuate le emozioni che la persona prova in questo momento ripensando all’ evento traumatico. L’intensità delle emozioni viene poi valutata sulla scala SUD, in cui 0 significa “nessun disturbo” e 10 “massimo disturbo”.

Infine, vengono chieste alla persona le sensazioni fisiche che sente nel corpo quando ripensa all’evento.

L’elaborazione dell’informazione traumatica con i movimenti oculari

Dopo aver definito i precedenti elementi in relazione al ricordo traumatico, si procede con i movimenti oculari, la cui distanza, velocità e direzione vengono adeguate al paziente. Ogni set generalmente consta dai 24 ai 36 movimenti bidirezionali; dunque, anche la durata di ogni set viene definita in base alla persona e a come risponde a questa fase di elaborazione. Dopo ogni set, si chiede al paziente un feedback per valutare le nuove informazioni, pensieri, immagini o emozioni che sono insorti durante il set.

Se l’elaborazione genera un’attivazione eccessiva, si può procedere con i movimenti verticali che hanno un effetto calmante. Anche nel caso in cui l’elaborazione risulti bloccata si può procedere variando la direzione dei movimenti, anche in direzione circolare o a forma di otto.

Se il paziente non tollera i movimenti oculari si può ricorrere a forme alternative di stimolazioni, tra cui i tamburellamenti sulle mani o gli stimoli uditivi alternati.

Le fasi del trattamento con l’ EMDR

La terapia con EMDR si compone di 8 fasi.

La prima fase consiste in un’approfondita anamnesi del paziente e nella definizione di un piano terapeutico. È opportuno verificare l’idoneità del paziente ad una terapia con EMDR, la stabilità personale, le risorse possedute. Se sono presenti impedimenti lavorativi o familiari che potrebbero ostacolare la continuità del percorso terapeutico sarebbe opportuno rinviare l’inizio dell’ EMDR.

La seconda fase è quella della preparazione del paziente al trattamento, durante la quale vengono spiegate la teoria e la procedura dell’ EMDR e i possibili disturbi che potrebbero insorgere sia durante l’elaborazione sia tra una seduta e l’altra. In questa fase è opportuno anche individuare delle tecniche di rilassamento che potrebbero essere efficaci in caso di eccessiva attivazione durante l’elaborazione.

La terza fase consiste nell’assessment e nella definizione degli elementi citati precedentemente (ricordo target, immagine peggiore, cognizione negativa, cognizione positiva, emozioni e sensazioni fisiche).

La quarta fase è quella relativa alla desensibilizzazione che avviene tramite i set di movimenti oculari e che si conclude solo quando il livello di SUD si riduce a 0.

La quinta è la fase dell’installazione e consiste nella ristrutturazione cognitiva e nell’installazione della cognizione positiva in relazione a tale evento traumatico. Si continua con i set per rafforzare la cognizione positiva finchè si raggiunge un punteggio di 7 sulla scala VOC.

La sesta fase consiste nella scansione corporea durante la quale si valuta se sono ancora presenti sensazioni corporee ripensando all’evento.

La penultima fase, ossia quella della chiusura, ha lo scopo di verificare lo stato di equilibrio del paziente e viene richiesto di compilare un diario in settimana nel caso in cui emergessero pensieri, sogni, immagini che potrebbero essere associati all’evento elaborato.

L’ultima fase viene effettuata la settimana successiva e consiste nella rivalutazione per verificare se in settimana sono insorti nuovi disturbi, emozioni o immagini disturbanti legati al ricordo iniziale.

La creazione del posto al sicuro

Prima di procedere con l’elaborazione di materiale traumatico, viene installato nel paziente il posto al sicuro, ossia si individua un luogo in cui la persona ha sperimentato una sensazione di benessere e di rilassamento. L’installazione di questo luogo può rappresentare un aiuto per ridurre l’attivazione emotiva nel caso di una seduta di elaborazione incompleta o per gestire eventuali disturbi che potrebbero insorgere tra una seduta e l’altra.

Anche l’installazione del posto al sicuro prevede 8 fasi:

  • Fase 1: il paziente identifica l’immagine di un posto al sicuro che gli genera una sensazione di calma e sicurezza.
  • Fase 2: si chiede al paziente di focalizzarsi sull’immagine e di percepire le emozioni e le sensazioni provate e dove queste sono localizzate.
  • Fase 3: il terapeuta ripete l’immagine del posto al sicuro e le emozioni che suscita nel paziente mentre quest’ultimo tiene gli occhi chiusi.
  • Fase 4: mentre il paziente richiama l’immagine e le sensazioni che prova si procede con alcuni set di movimenti oculari.
  • Fase 5: al paziente viene chiesto di identificare una parola chiave che possa evocare l’immagine e si procede con i movimenti oculari mentre il paziente lega l’immagine alla parola chiave.
  • Fase 6: il paziente viene istruito ad evocare automaticamente l’immagine e le sensazioni positive esperite.
  • Fase 7: il terapeuta potrebbe chiedere al paziente di pensare a qualcosa di minimamente disturbante, di notare le sensazioni negative provate e di riportare alla mente il luogo al sicuro per rimuovere le sensazioni negative.
  • Fase 8: il terapeuta chiede di riportare di nuovo alla mente un pensiero disturbante e di svolgere in autonomia l’esercizio precedente.

L’ EMDR nell’elaborazione del lutto

La perdita di una persona cara può essere considerata un’ esperienza traumatica. Sebbene l’essere umano sia predisposto a superare il dolore di una perdita, in alcune circostanze il processo di adattamento può bloccarsi e non consentire l’integrazione dell’evento luttuoso nella memoria (Shapiro, 2000).

L’elaborazione del lutto avviene principalmente attraverso 3 fasi: la prima è quella dell’evitamento, in cui il dolore è talmente forte che la persona è incapace di comprendere ciò che è successo e tende a negare l’evento; la seconda è la fase del confronto emotivo, in cui ci si confronta con la perdita e gradualmente se ne apprende l’impatto; l’ultima fase è quella dell’accomodamento, che prevede un adattamento alla nuova realtà senza dimenticare l’evento vissuto (Solomon, 2015).

Si parla di lutto complesso se emerge una compromissione o un mancato completamento di una delle fasi dell’ elaborazione del lutto. Solitamente quando manca una completa elaborazione dell’evento emergono due comportamenti caratteristici, che sono l’ evitamento di situazioni o aspetti legati alla perdita o l’aggrapparsi alla persona perduta senza lasciarla andare.

Le componenti alle quali l’ EMDR presta maggiore attenzione e che divengono oggetto di elaborazione durante il processo di desensibilizzazione attraverso i movimenti oculari sono appunto le emozioni, le sensazioni fisiche e le cognizioni associate all’evento luttuoso.

Le emozioni frequentemente esperite quando si vive un lutto sono la tristezza, la rabbia per aver perso la persona cara, la colpa se si teme di essere in parte responsabili della morte dell’altro o di non aver fatto abbastanza per salvarlo, l’ansia legata al timore di poter morire e l’impotenza.

Le sensazioni fisiche maggiormente associate al ricordo di un lutto possono essere: il vuoto allo stomaco, la stretta nel petto, la stretta alla gola, l’affanno, i muscoli indeboliti, la mancanza di energia o la bocca secca.

Le cognizioni frequentemente riscontrate in chi ha vissuto una perdita si riferiscono all’incredulità, alla confusione, alla sensazione di sentire la presenza della persona deceduta oppure possono comparire esperienze allucinatorie o illusorie.

Vi sono alcuni fattori che possono complicare l’ elaborazione di un lutto, che riguardano la modalità di decesso (morte improvvisa o inaspettata, morte violenta, decessi multipli, decessi ambigui..), il legame con la persona cara, la concorrenza con altri eventi stressanti, le caratteristiche legate alla personalità e alle strategie di coping.

L’ EMDR è una tecnica che può facilitare il passaggio per le diverse fasi di elaborazione del lutto, pur rispettando i tempi del paziente e senza eliminare i ricordi e le emozioni sane e adeguate legate alla perdita. Inoltre, può favorire il superamento di momenti di blocco e l’affiorare di ricordi positivi legati al rapporto con la persona cara.

Nella fase di anamnesi è opportuno raccogliere informazioni sulle circostanze del decesso, la natura della perdita, le reazioni al decesso sia da parte del paziente che di altri familiari, cosa è cambiato dopo la perdita della persona cara, il tipo di legame con la persona perduta. In questa fase è anche utile esplorare se ci sono state in passato altre esperienze dolorose, quale impatto hanno avuto sulla vita del paziente e come li vive nel presente. Nella concettualizzazione del caso è anche opportuno individuare i ricordi dolorosi del passato legati all’evento luttuoso, i triggers del presente che riattivano un certo grado di sofferenza ed eventuali situazioni future che potrebbero essere legate al lutto e che potrebbero riattivare emozioni dolorose.

Nella fase di preparazione è opportuno offrire al paziente un ambiente calmo e sicuro, stabilizzare il paziente, creare una buona relazione terapeutica, installare risorse e spiegargli come si procederà, preparandolo sulla possibile insorgenza in seduta di emozioni molto dolorose, che tuttavia è importante esperire e attraversare prima di raggiungere un maggiore equilibrio emotivo e psichico.

A questo punto si procederà con le fasi precedentemente descritte.

I target che vengono spesso utilizzati nel corso dell’ EMDR, riguardano il momento in cui è stata appresa la notizia, il funerale, immagini intrusive, immagini di incubi, aspetti legati alla responsabilità personale o alla propria mortalità.

L’ EMDR consente, quindi, di ristimolare il sistema bloccato e accelerare l’elaborazione della perdita, consentendo l’affioramento di emozioni sane. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che ogni paziente ha i suoi tempi e che è importante accompagnarlo in questo percorso di elaborazione rispettando i suoi tempi e il suo dolore.

L’efficacia terapeutica dell’EMDR

Gli effetti terapeutici dell’ EMDR sono stati osservati già nei primi studi condotti negli anni ’90. Due studi di Brom e coll. (1989) in cui sono state condotte 15 sedute di desensibilizzazione e un lavoro di Foa e coll. (1991) hanno dimostrato l’efficacia della tecnica. Anche uno studio condotto da Forbes e coll. (1994) su soggetti affetti da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) ha dimostrato l’efficacia dell’ EMDR solo dopo 4 sedute terapeutiche.

I primi studi sull’efficacia terapeutica dell’ EMDR sono stati condotti su vittime civili (Chemtob, Nakashima, Hamada, Carlson, 1996; Freund, Ironson, Williams, 1998; Lee e Gavriel, 1998…), sui reduci di guerra (Boudewyns e Hyer, 1996; Carlson e al., 1998..), su pazienti affetti da PTSD (Lazrove e coll, 2000; Grainger e al., 1997…) e hanno dimostrato come l’ EMDR favorisca una notevole riduzione della sintomatologia post traumatica.

Diverse reviews e studi meta-analitici anche più recenti dimostrano l’efficacia dell’ EMDR nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico (Maxfield, 2000; Shepherd, Stein, 2000). Ad esempio un recente studio del 2012 ha valutato l’efficacia clinica e neurobiologica dell’ EMDR in pazienti affetti da disturbo da stress post-traumatico. Tramite la risonanza magnetica cerebrale è stato valutato il quadro clinico dei pazienti e le volumetrie ippocampali in 29 soggetti con PTSD e 30 controlli sani. I pazienti sono stati trattati con EMDR e dopo tre mesi di psicoterapia sono stati rivalutati. I risultati indicano la scomparsa della diagnosi in tutti i pazienti che hanno terminato il percorso e in tutti è stato rilevato un incremento medio del 6% dei volumi ippocampali.

Questo dimostra come l’ EMDR non solo consenta una rielaborazione e reintegrazione degli eventi traumatici vissuti, ma abbia dei riscontri oggettivi anche a livello neurobiologico.

In un altro studio di Pagani del 2011 è stato utilizzato l’elettroencefalogramma per monitorare l’attivazione neuronale durante una sessione di EMDR. Lo studio ha descritto le attivazioni corticali dominanti durante la prima sessione di EMDR e durante l’ultima. Durante la prima sessione, la corteccia limbica prefrontale si attivava durante l’ascolto del testo autobiografico e durante i movimenti oculari bilaterali nella fase di desensibilizzazione dell’ EMDR. Durante l’ultima sessione l’attivazione prevalente si registrava nelle regioni corticali temporali, parietali e occipitali. Questo dimostra come anche a livello cerebrale sia possibile rilevare dei cambiamenti a seguito di una terapia con EMDR.

In uno studio di Hogberg del 2008, invece, venti soggetti con PTSD sviluppato in seguito a incidenti sul treno o aggressioni sul posto di lavoro, sono stati trattati con cinque sedute di EMDR. Ai pazienti sono state somministrate scale psicometriche e interviste diagnostiche prima del trattamento, dopo il trattamento, dopo otto mesi e dopo 35 mesi dopo la fine della terapia. Il follow up ha permesso di rilevare come i risultati riscontrati subito dopo il trattamento si mantengono nel tempo.

Gli studi anche recenti sull’ efficacia dell’ EMDR e il mantenimento dei risultati conseguiti anche nel follow-up dimostrano l’importanza di continuare ad investire nella ricerca e nell’ampliamento e perfezionamento della tecnica.

EMDR di gruppo: protocolli e possibilità applicative. Report dal seminario con Giada Maslovaric

Il 24 settembre si è tenuto a Milano presso l’hotel Michelangelo il seminario di Giada Maslovaric “ EMDR di gruppo: protocolli e possibilità applicative” organizzato dall’Associazione EMDR Italia. Giada Maslovaric, supervisore e facilitator EMDR, ha condotto un workshop ricco di stimoli con una calda professionalità caratterizzata da attenzione alle procedure tecniche e da una creatività che germoglia dalla sintonizzazione con il contesto.

 

Come nasce l’ EMDR di gruppo?

L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) (Shapiro, 2001) è un noto trattamento evidence based raccomandato da numerose linee guida, ad esempio dall’American Psychiatric Association (2004), per la cura del PTSD.

Numerosi studi hanno inoltre riportato l’efficacia del trattamento EMDR per il PTSD esordito nello specifico in seguito a disastri naturali come l’Uragano Andrew, l’Uragano Iniki e il terremoto nella regione di Marmara in Turchia.

Nel 1997 l’uragano Pauline in Messico provoca 230-500 morti e 300.000 sfollati.
Questi sono i numeri che due terapeuti EMDR, Ignacio Jarero e Lucina Artigas, si ritrovano ad affrontare.

I membri della Mexican Association for Mental Health Support in Crisis sviluppano un protocollo per riuscire a far fronte a tale catastrofe. Nasce così EMDR-IGTP (Eye Movement Desensitization and Reprocessiong- Intergrative Group Treatment Protocol).
EMDR di gruppo è un intervento che “combina un protocollo di gruppo con una stimolazione bilaterale autosomministrata (abbraccio a farfalla) e usa le 8 fasi dell’EMDR” (Maxfield, 2008).

Secondo Maxfield (2008) in letteratura sono presenti studi che mostrano prove preliminari di efficacia e utilità di questo intervento come lo studio di Fernandez et al. (2004). L’autore inoltre riporta che EMDR-IGTP è risultato efficace in diverse occasioni e utilizzato per migliaia di sopravvissuti in tutto il mondo e allo stesso tempo che sono auspicabili in futuro studi randomizzati e prospettici.

EMDR-IGTP è stato poi anche adattato successivamente da Maslovaric e Fernandez (2015). Infatti in Italia, in seguito a disastri sia naturali sia provocati dall’uomo, l’EMDR di gruppo è stato implementato. Questo intervento è stato applicato a diversi livelli di esposizione all’evento traumatico e a differenti fasce d’età.

Quali sono le caratteristiche dell’ EMDR di gruppo (EDMR-IGTP)?

L’EMDR-IGTP ha diverse peculiarità.
Innanzitutto ci sono delle caratteristiche preliminari necessarie quali: l’analisi del contesto, l’analisi del bisogno emotivo e concettualizzazione e assessment ben strutturati.

Il trattamento con EMDR-IGTP mira a facilitare la gestione e l’elaborazione del materiale traumatico presente dopo l’evento, offrendo inoltre supporto e trattando il maggior numero di persone all’interno di un medesimo contesto.
Il trattamento è rivolto a gruppi di persone omogenee (Es. per età, per evento traumatico vissuto) o gruppi pre-esistenti all’evento (es. una classe).

E’ presente l’uso di una testistica ad hoc per la tipologia di gruppo e il protocollo è applicabile sia per l’età evolutiva che per l’età adulta.
All’interno di un gruppo sarà inoltre possibile, dove necessario, individuare chi potrebbe avere bisogno di un intervento individuale.
Infine tale protocollo è applicabile sia in fase acuta (0-3 mesi dall’evento) che in fase cronica (dopo i 3 mesi).

Durante il seminario vengono poi presentate le diverse declinazioni e specifiche del protocollo illustrate con esempi di esperienza sul campo. Vengono così mostrati i disegni delle elaborazioni e un filmato.

Alcuni esempi riportati riguardano l’ambito della psicologia dell’emergenza: l’intervento di maxi emergenza nelle zone del Centro Italia terremotate (es. Amatrice, Norcia, Amandola), l’intervento umanitario a favore di orfani siriani a Gaziantep, i gruppi nelle scuole per eventi traumatici (es. suicidio di un compagno di classe). Possono essere presenti inoltre gruppi per il trauma vicario.

Altri esempi ancora raccontano dell’applicazione di EMDR-IGTP al di fuori dell’ambito emergenziale portando l’esperienza di gruppi omogenei di persone come i caregivers di pazienti con diagnosi specifiche.

Viene mostrato lo studio preliminare di Passani et al. (2016) sui caregivers di pazienti con demenza.
Successivamente vengono presentati ulteriori progetti che riguardano genitori con difficoltà diverse: bambini con disabilità (Incerti A., Rossi F.), bambini sottoposti a intervento chirurgico per craniostenosi (Di Carlo S., Finocchiaro C.Y, Lemmo A.), bambini con lo spettro autistico (Gullo R., Maslovaric G., Renna A.).
Tali progetti e studi mostrano risultati preliminari incoraggianti che dovranno poi essere implementati in futuro.

Giada Maslovaric conclude il seminario sottolineando che per poter inserire in modo adeguato ed utile l’EMDR di gruppo risultano fondamentali: un ottimo assessment, l’analisi del contesto e obiettivi chiari e definiti.
Si chiude la giornata citando, a proposito dell’importanza e della forza del gruppo, la frase di John Miur “Non c’è un solo frammento isolato in tutta la natura, ogni frammento fa parte di un’unità armoniosa e completa”.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: un approccio sistemico-relazionale

Le emozioni sono delle variabili fondamentali nel processo di apprendimento e devono essere tenute debitamente in conto nel percorso del bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

 

Introduzione: i Disturbi Specifici dell’Apprendimento oltre il potenziamento degli apprendimenti

Un errore che molto spesso viene commesso quando si parla del benessere in età evolutiva è quello di scindere le aree di vita del bambino. Ecco che così tutta la sfera dell’apprendimento diviene una problematica relativa al mondo scolastico, mentre i problemi emotivi ad essa connessi vengono trattati in famiglia. In realtà l’esperienza ci mostra che il quadro definito “Disturbo Specifico dell’Apprendimento – DSA” è molto più complesso e richiede una presa in carico che vada oltre il sistema di potenziamento degli apprendimenti. Infatti le emozioni sono delle variabili fondamentali nel processo di apprendimento e devono essere tenute debitamente in conto nel percorso del bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Emozioni ed apprendimento

Nessun atto della vita psichica è caratterizzato da una scissione fra meccanismi cognitivi e meccanismi emotivi, infatti queste due funzioni operano contemporaneamente in ogni momento della nostra quotidianità. La stessa cosa vale per il processo di apprendimento. Ogni volta che un bambino apprende, accanto alle funzioni esecutive, alla memoria di lavoro, all’attenzione, inevitabilmente sperimenterà anche delle emozioni. Queste emozioni tracciano la memoria di ciò che si sta apprendendo ed è proprio per questo motivo ormai la ricerca ci dice che l’attivazione emotiva favorisce la memorizzazione. Infatti durante il processo di immagazzinamento delle informazioni nella memoria accade che le nozioni scaturite dai processi cognitivi vengono conservate nella memoria semantica, mentre invece la traccia emotiva che ha accompagnato quell’apprendimento finisce nella memoria autobiografica (Lucangeli, 2015).

Ciò ci porta a delle implicazioni non indifferenti: difficilmente il bambino si ricorderà degli errori che faceva, ma ricorderà l’emozione associata a questi errori (paura, confusione, impotenza). L’emozione, a differenza delle nozioni apprese, è tracciata nella memoria di sé e ciò influenzerà significativamente tutti gli apprendimenti successivi e l’atteggiamento del bambino nei confronti della scuola, infatti ogni volta che dovrà recuperare tali informazioni, nei circuiti della memoria verranno riattivate anche le emozioni ad esse associate.

Questo ciclo, ogni volta che si ripete, stabilizza la percezione del bambino di sé stesso come adeguato o inadeguato con ovvie conseguenze sullo sviluppo dell’autostima.

Cosa vuole comunicare la sintomatologia DSA alla famiglia?

Se le emozioni sono così importanti durante il processo di apprendimento esse assumono un ruolo di assoluto rilievo all’interno delle dinamiche familiari.

Cosa significa per la famiglia avere a che fare con un figlio con Disturbi Specifici dell’Apprendimento? I Disturbi Specifici dell’Apprendimento sfidano uno dei pilastri portanti della nostra società, ovvero la credenza per cui se un bambino è intelligente andrà bene a scuola. Inoltre, per molti genitori, la pronuncia della fatidica frase “mio figlio va bene a scuola” è sinonimo di buone competenze educative, di essere un buon genitore che segue il figlio.

Il primo giorno di scuola è un rituale che investe non solo il bambino, ma tutta la famiglia. L’ingresso nel mondo scolastico è accompagnato da una buona quota di ansia e di aspettative sia dal bambino, ma anche e soprattutto dalla famiglia.

Si pensi a quante coppie genitoriali si sentono in colpa quando viene loro comunicata la diagnosi del figlio, come se le difficoltà nel rendimento scolastico fossero una responsabilità alla quale non possono sottrarsi.

Dunque una diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento mette in crisi la famiglia da un punto di vista sociale, genitoriale e relazionale in quanto la relazione genitore-figlio avrà come perno sempre la scuola e poiché la frustrazione dei genitori può portare conflitto anche all’interno della coppia.

E’ interessante sottolineare anche il ruolo degli insegnanti e della scuola che, in questo contesto, diventano facili bersagli di malcontento e scarichi di responsabilità, operatori che oscillano fra l’estremo bisogno di aiutare il bambino in difficoltà e le richieste rigide del sistema scolastico che impone ritmi di apprendimento e di studio ben definiti e serrati.

Non a caso ciò che ci mette davanti la sintomatologia DSA è un messaggio che, immersi nella frenetica società di oggi, fatichiamo ad accettare: la lentezza. Sono bambini che, portatori di un ritardo di maturazione di determinati meccanismi, ci chiedono prepotentemente di rispettare i loro tempi, di riappropriarsi delle tempistiche evolutive, soggettive ed insindacabili. Sono bambini che chiedono e richiedono tempo e che ci invitano a rallentare e a staccare dai controlli ossessivi degli orologi e dei sistemi di valutazione.

Come una terapia familiare può essere d’aiuto?

Il quadro appena descritto appare connotato in maniera marcata dal conflitto. Non solo quello, classico, fra genitori e figli, ma anche quello all’interno della coppia, quello fra i genitori e l’istituzione scolastica, quello fra il bambino ed il gruppo di pari per il quale nutre un profondo senso di inferiorità ed inadeguatezza. All’interno di tutto questo la terapia familiare si inserisce primariamente come un facilitatore comunicativo, un rimando verso tutti i membri della famiglia del come stanno vivendo la situazione, non facile per nessuno, restituendo loro la legittima quota di frustrazione e sofferenza per la quale non devono sentirsi giudicati.

Il ruolo fondamentale è quello poi di ridurre il senso di non-accettazione esperito dal bambino, aiutarlo a comunicare le sue esigenze peculiari accompagnando i genitori in questo percorso di comprensione in cui saranno in grado di prendere consapevolezza di cosa è realmente e cosa comporta un Disturbo Specifico dell’apprendimento.

Contestualmente al lavoro sull’impotenza appresa del bambino si lavorerà anche sul senso di impotenza e di incompetenza dei genitori e sul loro ruolo educativo, riorganizzando spazi e tempi domestici in relazione ai bisogni specifici di tutta la famiglia, non solo del bambino. L’obiettivo primario sarà quello di restituire il bambino alla famiglia, spostando il focus dal deficit alle risorse, a ciò che di soddisfacente il bambino può dare, al tempo di qualità vissuto con i genitori in esperienze ludico-ricreative evitando la sgradevole sensazione del bambino di essere preso in considerazione solo per il rendimento scolastico e non per la sua individualità ed unicità.

Lavorando sugli ambiti di autonomia personale si darà così modo alla famiglia si respirare un’ aria diversa, che non sia incatenata a certi rituali come i compiti e le lotte per essere accompagnati a scuola.

In questa ottica i Disturbi Specifici dell’Apprendimento si configurano come una sfida da accettare con entusiasmo che trasforma le criticità in risorse per tutti i sistemi coinvolti, in un ascolto attivo e collaborativo nel quale ognuno può trovare il giusto spazio per sé e le proprie esigenze senza rimanere intrappolato dai numeri, che siano quelli dei voti o quelli sui quali scorrono le lancette dell’orologio.

Psicoterapia cognitiva della coppia. Dalla valutazione ai percorsi di intervento – Recensione

Psicoterapia cognitiva della coppia: Il manuale si suddivide in tre parti: la prima parte (capp. 1-5) più teorica, la seconda parte (capp. 6-8) più focalizzata sulle specifiche aree di intervento e la terza parte (capp. 9-12) maggiormente dedicata alle metodiche.

Alessia Offredi, Chiara Bellardi

 

Il libro di Vinai e Rebecchi: un importante contributo alla psicoterapia cognitiva della coppia

Il clinico che tratta coppie deve essere sapiente, forte, deciso, ma anche capace di risuonare in modo convincente con gli stati emotivi spesso caotici e urgenti che si trova ad affrontare”, afferma Sassaroli nel presentare il volume Psicoterapia cognitiva della coppia, 208 pagine edite da Edizioni Libreria Cortina Milano e curate da Daniela Rebecchi e Piergiuseppe Vinai.

E in effetti il compito dei terapeuti di coppia è decisamente arduo, perché se di solito si ha a che fare con un altro individuo, in questi casi i pazienti nello studio sono tre: i due partner e la loro relazione. Tre situazioni spesso complesse, ognuna con la propria storia e i propri bisogni, che chiedono di ricevere aiuto e supporto dalla stessa persona. Non facile farlo, figuriamoci spiegarlo. Forse anche per questo motivo mancava, nella letteratura di settore dedicata alla terapia cognitiva, un volume sulla coppia. E probabilmente per lo stesso motivo i curatori dell’opera hanno coinvolto numerosi colleghi, operanti nell’ambito o esperti di temi specifici, che hanno contribuito alla stesura del libro. Ne risulta un volume molto chiaro nei contenuti, che non si propone di illustrare nel dettaglio ogni tecnica (spesso già note al terapeuta di formazione cognitiva), ma che offre una struttura definita in cui orientarsi. Complice talvolta la domanda che la coppia porta in terapia, “Il rischio è che focalizzandosi soltanto su aree specifiche, si perda di vista la globalità della problematica, e si finisca per proporre soluzioni a macchia di leopardo, che non tengono conto del complesso intreccio psicorelazionale che sottostà a una difficoltà sessuale o genitoriale”.

La struttura e i contenuti del manuale “Psicoterapia cognitiva della coppia”

Il manuale si suddivide in tre parti: la prima parte (capp. 1-5) più teorica, la seconda parte (capp. 6-8) più focalizzata sulle specifiche aree di intervento e la terza parte (capp. 9-12) maggiormente dedicata alle metodiche.

Il primo capitolo (Pericoli, Rossi, Pasqualetti) passa in rassegna i modelli che nel tempo si sono occupati di formalizzare la terapia rivolta alla coppia. Dalla psicoanalisi all’approccio sistemico, fino ad approfondire le prospettive del panorama cognitivo-comportamentale, gli autori illustrano i passaggi principali avvenuti in quest’ambito, descrivendo l’evoluzione del target di trattamento.

Il secondo capitolo (Nigro, Mancioppi, Possi) affronta uno degli aspetti più difficili da gestire del setting: la relazione terapeutica. La tentazione di “tenere le parti” di uno dei due partner è uno degli aspetti che forse più preoccupano il terapeuta di coppia inesperto, ed è bene che un po’ di questo timore ci sia, per aumentare la vigilanza sui nostri segnali (verbali e non!). In questo capitolo troveremo indicazioni utili, con esempi tratti dalla pratica clinica, su come creare e mantenere una relazione terapeutica sufficientemente flessibile per poter lavorare con i “tre” pazienti, ma al contempo salda e capace di essere base sicura durante il percorso.

Il capitolo dedicato all’assessment e alla valutazione clinica (Rebecchi, Vinai, Boldrini) descrive ciò che accade nelle prime sedute di psicoterapia cognitiva della coppia e quali strumenti è possibile utilizzare in questa fase iniziale. Gli autori analizzano ogni passaggio: dalla richiesta iniziale, alla valutazione della motivazione, all’indagine delle teorie naïf, alla gestione di eventuali sedute individuali, fino ad arrivare alla restituzione. Vengono inoltre illustrate le situazioni in cui la psicoterapia cognitiva della coppia è controindicata, nonché gli elementi che rendono invece possibile procedere con una psicoterapia cognitiva della coppia.

Il quarto capitolo (Rebecchi, Vinai, Framba, Dadà, Gemelli, Sgambati, Boldrini) è dedicato ai percorsi psicoterapeutici e costituisce un compendio di target e interventi dedicati che costituiscono una vera e propria mappa in cui il terapeuta riesce a orientarsi e trovare le soluzioni più adatte alle problematiche che le coppie portano in studio. Nello specifico, vengono analizzati gli interventi rivolti alla modifica di comportamenti disfunzionali nella comunicazione, credenze patogene, emozioni negative e cicli interpersonali disfunzionali, con esempi mirati per ogni sezione. L’ottica integrativa e lo sforzo di sintesi (in senso etimologico) degli autori offre al lettore la possibilità di conoscere prospettive differenti, il cui utilizzo è spesso congiunto in terapia, specie da parte di clinici esperti che sanno adottare interventi diversi senza perdere di vista l’obiettivo e senza farsi trasportare dalla confusione che talvolta caratterizza le coppie problematiche.

Il quinto capitolo (Rebecchi, Caselli e Gemelli) illustra la concettualizzazione delle dinamiche relazionali di coppia attraverso il modello LIBET (Life Themes and Plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment)) di Ruggiero, Sassaroli 2013. Viene proposta una concettualizzazione del funzionamento della coppia attraverso l’individuazione dell’interazione dei temi dolorosi di vita e soprattutto dei piani di vita di ciascun membro della coppia. Tali piani avrebbero una funzione difensiva rispetto al tema doloroso; essi infatti costituiscono “l’insieme degli scopi che l’individuo persegue a lungo termine, che gli consentono di dare una direzione, un senso e un ordine alla sua vita e cha va sotto il nome di self-directedness” (Ruggiero, Sassaroli, 2013). Spesso il motivo del disagio è riconducibile a una rottura del piano, che può avvenire per esaurimento o per invalidazione. Il trattamento consiste nel tentare di fornire alla coppia gli strumenti per individuare ed, eventualmente, flessibilizzare i propri piani. Attualmente i piani identificati dagli autori sono tre: prudenziale, prescrittivo o immunizzante. Nel capitolo sono portati diversi esempi di concettualizzazioni del funzionamento della coppia secondo il modello LIBET, con particolare attenzione ai piani. “Le rotture si verificano quando per eventi interni o esterni il piano di vita di un singolo individuo non è più soddisfacente e funzionale all’interno della coppia. Quando il piano del singolo è inflessibile e rigido, se invalidato, può rompersi. A volte distruggendo anche quello del partner, specialmente se anche questo lo era. […] Finché il piano di vita di coppia è funzionale al singolo, la relazione è “battagliera”, ma non così facile a rompersi. I piani di vita molto simili come tipologia e/o con una interazione fortemente complementare sono generalmente molto prudenziali o controllanti; questo li rende gratificanti a breve termine, ma alla lunga diventano frustranti, perché non arricchiscono l’individuo nel raggiungimento di nuovi scopi”.

Psicoterapia cognitiva della coppia: come trattare i disturbi sessuali e le difficoltà legate alla genitorialità

Con il sesto capitolo dedicato alla domanda sessuologica (Giuri, Rebecchi) si apre la seconda parte, più incentrata sulle specifiche aree di intervento. Le autrici sintetizzano in poche pagine una panoramica che va da un’analisi puntuale dell’inquadramento nosografico secondo il DSM 5 dei disturbi, all’accoglimento della domanda, alla riformulazione della specifica problematica come “sofferenza appartenente alla coppia” e non al singolo, con la comprensione della stessa all’interno dei sistemi di credenze e scopi. Le autrici invitano a lavorare tenendo presente il triplice livello comportamentale, cognitivo e relazionale, cercando di creare dei nessi tra il funzionamento attuale, la storia della coppia e la storia di attaccamento dei singoli individui. Vengono inoltre date indicazioni sugli elementi oggetto del contratto terapeutico: definizione della situazione, degli obiettivi, degli strumenti, del rapporto con il terapeuta. Le autrici forniscono altresì alcuni criteri utili ad individuare quando sia raccomandabile un intervento di terapia sessuologica mansionale, una psicoterapia cognitiva della coppia e/o una psicoterapia individuale. In particolare le autrici asseriscono che “il trattamento della coppia che porta un sintomo sessuale è volto ad aiutare i partner a formulare alternative alle loro modalità di lettura della realtà, a pensare e a metter in atto strategie di soluzione più efficaci alla luce della nuova modalità di leggere e dare significato alla loro sessualità e alla loro vita di relazione sessuale […]. Nel concordare con la coppia un contratto terapeutico è fondamentale che si ridefinisca il problema in termini di “sofferenza appartenente alla coppia” […]. La versione di ognuno è volta alla protezione dell’idea di sé, quanto più questa è rigida, tanto più si faticherà alla ricostruzione che tenga conto invece di entrambi i punti di vista, che ne valorizzi il significato, consentendo una maggiore libertà di costruzione di se stessi, abbandonando la poco sana rigidità […]. La terapia in tal senso dovrebbe aumentare i gradi di libertà con cui il soggetto costruisce se stesso al fine di una costruzione che permetterà attraverso questa esperienza, non solo di progettare un futuro diverso, ma anche di rivedere un passato diverso”.

Il settimo capitolo (Querci) oltre a proporre una meta-analisi della letteratura sul tema della genitorialità in termini di funzioni genitoriali, si concentra sull’assessment, sulla condivisione e sull’alleanza terapeutica. Inizialmente vengono prese in considerazione le funzioni genitoriali (protettiva, affettiva, regolativa, normativa, predittiva, significante, rappresentativa e comunicativa, triadica e transgenerazionali) e i costrutti della genitorialità secondo quanto riportato nel 2009 dall’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna (adattabilità, empatia, riflessibilità, regolazione, organizzazione, partecipazione, vitalità, qualità della relazione, cogenitorialità, intersoggettività). In seguito vengono prese in considerazione le varie situazioni che possono arrivare all’attenzione del clinico: il figlio ha nuovi bisogni, il figlio ha delle difficoltà ma i genitori non sanno come gestirle, il figlio manifesta un disturbo diagnosticabile, sottolineando l’importanza della interpretazione della problematica e degli obiettivi. In seguito la coppia genitoriale viene invitata ad utilizzare lo strumento dell’analisi funzionale: “i genitori devono riportare la situazione attivante, il comportamento problematico del figlio e le conseguenze emotive e comportamentali del figlio e di loro stessi” (Ruggiero, Sassaroli, 2013). Il coinvolgimento dei genitori può essere di tre tipi: facilitatore, co-terapeutico, come clienti. Si dedica attenzione agli interventi di parent-training e di coping-power.

Nell’ottavo capitolo (De Rosa) viene proposta una meta-analisi della IPV (Intimate Partner Violence), ovvero della violenza di genere all’interno della coppia. Viene offerta una panoramica delle tipologie di violenza (fisica, psicologica e materiale) e della diffusione del fenomeno in maniera trasversale sia in termini geografici che sociografici, con le seguenti specificità secondo il rapporto redatto nel giugno del 2013 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla base di uno studio condotto in 161 paesi: “la violenza fisica o sessuale colpisce più di un terzo delle donne nel mondo (35%) e la violenza domestica inflitta dal partner ne è la forma più comune (30%). Nel mondo la prima causa di morte violenta di donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio a opera di persone conosciute”. Vengono poi prese in esame l’importanza delle conseguenze degli abusi sulle donne in termini di conseguenze fisiche e psicologiche sulle donne stesse e sui figli. Infine vengono analizzati gli approcci dei diversi orientamenti alla questione: cognitivo-comportamentale, psicodinamico e profemminista. In particolare si sottolinea l’importanza del focalizzare l’intervento sull’uomo violento (perpetrator) piuttosto che sulle caratteristiche della vittima. Si fa riferimento al modello Duluth, proposto negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta e al modello ATV proposto in Norvegia. Mentre il protocollo Duluth di matrice cognitivo comportamentale si focalizza su aspetti specifici (responsabilizzazione dell’autore, stereotipi di genere, empatia, skill-training sulla comunicazione), l’intervento scandinavo si caratterizzerebbe per essere meno strutturato e per tenere maggiormente in considerazione gli aspetti emotivi individuali e la storia di vita del perpetrator.

Le metodiche di intervento della psicoterapia cognitiva della coppia

Con il nono capitolo (Rebecchi, Chiappelli) si apre la terza parte dedicata alle metodiche di intervento. Viene preso in esame l’utilizzo dell’ABC, “il paradigma di analisi di base nella psicoterapia cognitiva. L’ABC è un’espressione ideata da Albert Ellis, ed è un acronimo in cu A sta per antecedente; B per pensieri, C per emozioni e comportamenti”. Vengono poi riferite le domande proposte da Dryden per completare lo schema su tre colonne: qual era la situazione in cui il problema si è manifestato? Cosa ha provato? Cosa ha fatto? Che cosa le passava per la mente in quel momento?

Nel decimo capitolo (Chiappelli, Boldrini) viene spiegato come utilizzare nella psicoterapia cognitiva della coppia lo strumento del genogramma, introdotto da Murray nel 1979. “Ripercorrere la storia familiare in una prospettiva “intergenerazionale” aiuta a comprendere il legame tra questa e la propria storia personale e a riconoscere l’influenza delle modalità relazionali delle famiglie d’origine sulle proprie dinamiche di coppia. Il genogramma può altresì contribuire a portare alla luce segreti familiari a lungo taciuti”. Vengono fornite le istruzioni per compilare lo stesso, al fine di facilitare l’emergere delle dinamiche agonistiche o cooperative strutturatesi nel tempo. Le autrici asseriscono che “nella terapia di coppia è particolarmente indicato “ingrandire l’angolo di osservazione”, legando insieme i due genogrammi, e collegando in questo modo le famiglie dei partner”.

Nell’undicesimo capitolo (Vinai e Speciale), viene descritta la Self- Mirroring Therapy, che si avvale dell’utilizzo di una telecamera per riprendere la persona in due momenti: nel filmato n° 1 la persona viene ripresa durante una seduta di terapia, mentre nel filmato n° 2 la persona viene ripresa mentre guarda la videoregistrazione. Il terapeuta dedica particolare attenzione a far emergere le congruenze e le incongruenze. Nel capitolo viene presentato il background neurofisiologico ed in seguito il protocollo clinico. Gli autori riportano che “un recente studio (Sel, Forster, Calvo-Merino, 2014) ha riscontrato che la visione di volti emozionati induce una più precoce attività nelle regioni somato-sensoriali cerebrali rispetto alla visione di volti con espressioni neutre”.

Nel dodicesimo capitolo (Pasqualetti, Pericoli, Rossi) vengono passati in rassegna i questionari e le scale diagnostiche che è possibile utilizzare a seconda delle aree di maggior interesse, solitamente individuate tra le seguenti: soddisfazione relazionale, comunicazione, credenze, sessualità, abusi/violenze, psicopatologia.

Gli autori concludono asserendo che: “Il modello di terapia che abbiamo descritto in questo volume vuole essere uno strumento quotidianamente applicabile e flessibile, che accompagni nel suo lavoro quotidiano il clinico che già si occupa di terapia di coppia e che stimoli a interessarsene altri cognitivisti che ancora non lo fanno. La nostra speranza è di aver stimolato ricerche di esito e di processo che possano chiarire quali modalità terapeutiche siano più indicate per ciascun tipo di coppia e per ogni dinamica relazionale disfunzionale”.

 

Disapprendere l’ansia attraverso la stimolazione magnetica transcranica (TMS)

Oltre ai trattamenti psicoterapeutici, esistono quelli farmacologici e quelli che agiscono sui network neurali (Bajbouj, & Padberg, 2014), come la stimolazione magnetica transcranica (TMS). Rispetto a questi ultimi, l’idea è quella di indagare la fisiopatologia dei disturbi d’ ansia per comprendere i meccanismi neurali che facilitano l’estinzione della risposta di paura a seguito dell’esposizione allo stimolo ansiogeno.

 

La stimolazione magnetica transcranica per il trattamento dei disturbi d’ansia

I disturbi d’ansia rappresentano una delle più diffuse tra le patologie mentali e a volte può debilitare i pazienti al punto da ostacolare la loro vita quotidiana. Evidenze dimostrano che il trattamento più idoneo per tali disturbi è la terapia cognitivo – comportamentale (CBT).

Oltre ai trattamenti psicoterapeutici, però, esistono quelli farmacologici e quelli che agiscono sui network neurali (Bajbouj, & Padberg, 2014), come la stimolazione magnetica transcranica (TMS). Rispetto a questi ultimi, l’idea è quella di indagare la fisiopatologia dei disturbi d’ansia per comprendere i meccanismi neurali che facilitano l’estinzione della risposta di paura a seguito dell’esposizione allo stimolo ansiogeno (Vervliet, Craske, & Hermans, 2013).

Da ricerche effettuate sia su animali che su umani emerge che un’area rilevante per l’estinzione della risposta a uno stimolo condizionato, quindi anche per disapprendere l’ansia, è la corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC) (Guhn, Dresler, Hahn, Muhlberger, Strohle, Deckert, et al., 2012).

Uno studio recente, effettuato dal dipartimento di psicologia clinica dell’università di Wurzburg, ha cercato di aumentare l’efficacia della terapia cognitivo – comportamentale per i disturbi d’ansia combinandola con l’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica. Come sappiamo, l’ansia può essere legata a svariate situazioni ma i ricercatori si sono soffermati sull’acrofobia (paura per le altezze elevate) di 39 soggetti. Il metodo di ricerca consisteva nella stimolazione della vmPFC attraverso stimolazione magnetica transcranica per 20 minuti durante una terapia di tipo espositivo in una realtà virtuale (VRET). La realtà virtuale consentiva di elicitare le stesse risposte di quella reale, poiché le persone avvertivano comunque la paura, nonostante sapessero che non erano effettivamente in pericolo.

I risultati della ricerca hanno dimostrato che la stimolazione del lobo frontale consente di inibire la paura contribuendo ad ampliare i dati riguardanti i processi di estinzione dell’apprendimento non solo in soggetti sani ma anche in quelli fobici. Dunque, combinando la stimolazione magnetica transcranica con una terapia espositiva e cognitivo comportamentale, i pazienti fobici migliorano più facilmente e velocemente. Gli sviluppi futuri di tale studio potrebbero riguardare la validazione di questo intervento per altre forme di ansia, come la fobia sociale, il disturbo d’attacco di panico o quello d’ansia generalizzata.

Oltre l’aspetto ludico: Pokémon Go tra captologia, tecnologia positiva e intelligenza emotiva

Il fenomeno Pokémon Go, dalla sua comparsa negli store Android e Apple, si è diffuso in maniera notevole in tutto il globo. Il target a cui fa riferimento non riguarda esclusivamente una sola fascia d’età, ma varia. Bambini, ragazzi e adulti sono tutti presi da questa apllicazione. Ma qual è il motivo per cui questo videogioco a realtà aumentata ha così successo? E poi, può Pokémon Go, essere anche usato a fini non solo videoludici?

Lazzeri Marco

 

Nel cercare di rispondere a tali quesiti proverò ad avvalermi di diverse argomentazioni quali: la psicologia sociale, la captologia, la psicologia positiva nonché il contributo del Web e della letteratura scientifica su temi come i  videogiochi o la realtà virtuale.

Infine, quale ultimo contributo personale, cercherò di ipotizzare come Pokémon Go possa essere utile allo sviluppo dell’intelligenza emotiva dei giocatori.

Pokémon Go: la Realtà aumentata

Tutti noi, forse tranne qualche eccezione, conoscono il fenomeno di Pokémon Go. Dalla sua comparsa  nei principali store per smartphones (Apple e Android), questa applicazione si è diffusa a macchia d’olio in tutto il globo. Ancora adesso, mentre sto scrivendo, se ne continua a parlare. La televisione, i canali social, i giornali ed il Web continuano a bombardarci di informazioni su tale applicativo, sia nel bene che nel male.

Ma che cos’è poi alla fine Pokémon Go? Per chi non lo sapesse, Pokémon Go, non è altro che un videogioco. Un videogioco a realtà aumentata. Per realtà aumentata o realtà mediata dall’elaboratore (in inglese augmented reality, abbreviato “AR”), si intende l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi. Gli elementi che “aumentano” la realtà possono essere aggiunti attraverso un dispositivo mobile, come uno smartphone, con l’uso di un PC dotato di webcam o altri sensori, con dispositivi di visione (per es. occhiali a proiezione sulla retina), di ascolto (auricolari) e di manipolazione (guanti) che aggiungono informazioni multimediali alla realtà già normalmente percepita.

Nella realtà virtuale (VR), le informazioni aggiunte o sottratte elettronicamente sono preponderanti, al punto che le persone si trovano immerse in una situazione nella quale le percezioni naturali di molti dei cinque sensi non sembrano neppure essere più presenti e sono sostituite da altre. Nella realtà aumentata (AR), invece, la persona continua a vivere la comune realtà fisica, ma usufruisce di informazioni aggiuntive o manipolate della realtà stessa. La distinzione tra realtà virtuale e realtà aumentata è peraltro artificiosa: la realtà mediata, infatti, può essere considerata come un continuo, nel quale realtà virtuale e realtà aumentata si collocano adiacenti e non sono semplicemente due concetti opposti. Dopotutto la realtà aumentata, non è altro che una “realtà mista”, nata dall’intuizione di fondere la realtà virtuale con le ambientazioni reali.

La Psicologia dei Videogames

Sebbene Pokémon Go sia un videogame così caratteristico, rimane dopotutto pur sempre un videogioco. Di videogiochi ne esistono forme e tipologie estremamente diversificate e costantemente soggette a trasformazioni ed implementazioni. Sarebbe troppo riduttivo pensare al videogioco solo come una forma di semplice intrattenimento (Bittanti, 2004) e basta. Si rischia di non coglierne il reale significato e valore d’uso. Sono sempre più numerosi i titoli utilizzati a fini formativi o a supporto dei processi di apprendimento. Inoltre, in forte crescita vi sono anche i videogiochi che hanno come obiettivo la promozione del benessere psicologico e fisico delle persone.

Ne sono un esempio i conosciuti Wii Sports e WiiFit della Nintendo nati per promuovere un utilizzo del corpo divertente e utile per bruciare calorie, o il conosciuto (in ambito statunitense) Virtual Iraq per curare i reduci di guerra dal Disturbo da stress Post Traumatico. Tale videogioco è statao creato ad hoc per l’occasione e, basato sul videogame Full Spectrum Warrior, fa rivivere ai reduci il conflitto bellico che li ossessionava in forma virtuale nonché sicura nel medesimo momento.

Attualmente giocare ai videogiochi non comporta più una modalità esclusivamente univoca: videogioco non è più accessibile soltanto dal computer di casa, ma anche su altre piattaforme elettroniche, invadendo console grandi e piccole, fisse e portatili, ma soprattutto smartphone e tablet.

Quando parliamo o abbiamo a che fare con i videogiochi, non possiamo non ricadere (ma questo non vale per tutti) in considerazioni a sfondo negativo. Le rappresentazioni maggiormente condivise sono le seguenti:

  • “Videogiochi violenti, persone violente”: il videogioco come strumento che influenza le emozioni assieme al comportamento. Questa concezione sostiene che i comportamenti osservati all’interno dei videogiochi ed agite da personaggi interpretati o incontrati, possano essere riprodotti nella realtà. Ne derivano conseguenze negative se consideriamo che moltissime delle azioni e degli atteggiamenti presenti nei videogame sono moralmente riprovevoli o pericolosi. Quale potrebbe essere un esempio calzante se non il conosciuto (soprattutto dai giovani gamers) Grand Theft Auto, o GTA?.
  • Smettila di giocare ai videogiochi ed esci un po’!”: il videogioco come qualcosa che isola e impigrisce. Quanto spesso ci capita di essere così rapiti da ciò che accade sullo schermo da dimenticarci, anche per lunghe ore, di tutto il resto? Ne può derivare una preoccupazione sia a livello fisico che sociale. Nel primo caso, il videogioco è visto come qualcosa che impigrisce, che ti obbliga a stare fermi e che, in relazione ad esso, può portare a condotte scorrette dal punto di vista alimentare, motorio e igienico. Nel secondo caso invece può emergere l’idea di un ritiro sociale, quasi come se si preferisse relazionarsi ai personaggi fittizi del gioco piuttosto che le persone reali.
  • Molto meglio un buon libro!”: il videogioco come strumento che dissocia dalla realtà. Questa concezione attribuisce al videogioco la pericolosa capacità di sostituirsi all’esperienza reale, imprigionando l’utente in mondi fantastici che, nei casi più estremi, non sarebbe più in grado di distinguere dalla realtà.

La Captologia

Come già accennato all’inizio dell’articolo esistono però anche videogiochi che, alla luce di obiettivi pedagogici, psicofisici e formativi possono influenzare positivamente il comportamento delle persone. E questo, avviene soprattutto in funzione del loro forte potere “persuasivo”. Da qui la mia scelta, ed il mio interesse, di parlare di Pokémon Go. Ma procediamo con ordine. Per chi non lo sapesse la captologia, e qui Wikipedia ci aiuta, è lo studio dei computer (sia a livello hardware che software) come tecnologie persuasive. Questa recente area d’indagine esplora lo spazio di confine tra persuasione (influenza, motivazione, cambio di comportamento e così via) e tecnologia del computer.

Ciò comprende la progettazione, la ricerca e l’analisi dei prodotti informatici interattivi, come il Web, il software per computer, apparecchi specializzati, etc., creati allo scopo di cambiare gli atteggiamenti o i comportamenti delle persone. B.J. Fogg, direttore del Laboratorio di Tecnologia Persuasiva della Stanford University, ha coniato il termine “Captologia” nel 1996, derivandolo dall’acronimo “Computers As Persuasive Technologies = CAPT”. Il campo della captologia, dove l’arte della persuasione e la scienza dei computer si sovrappongono, sta crescendo rapidamente: ogni giorno nuovi prodotti informatici, inclusi siti web e applicazioni mobili, sono progettati per cambiare ciò che le persone pensano e fanno. I social network ad esempio, come Facebook e Twitter, sono ormai dei potenti mezzi di persuasione di massa.

La persuasione, nel senso della captologia, si riferisce a qualsiasi tentativo atto a provocare “intenzionalmente”, tramite l’interazione uomo-macchina, un determinato cambiamento  “volontario” nelle idee e nei comportamenti, senza far uso di inganno o coercizione. In tal senso, sono esclusi dal campo di indagine della captologia quei cambiamenti che, pur avvenendo a seguito dell’interazione uomo- macchina, non sono stati voluti e intenzionalmente pianificati dal progettista.

Cosa c’entra però Pokémon Go con la captologia? Tralasciando il principio ispiratore del gioco, i dispositivi portatili, ed i software ad essa correlati, offrono un’opportunità unica per la persuasione.

La ragione più ovvia e convincente di questo è il fatto che tali apparecchi rimangono a stretto contatto con l’utente durante tutta la giornata. Questa costante presenza dà luogo a due fattori che contribuiscono a creare opportunità di persuasione, i quali vengono definiti da Fogg stesso, come il fattore “kairos” e “il fattore comodità”.

L’ origine del kairos risale all’ antica Grecia. Gli antichi greci avevano due parole per indicare il tempo, vale a dire chronos e kairos. Mentre la prima si riferisce al tempo cronologico e sequenziale, la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un istante o momento “giusto” in cui si verifica un evento significativo.

Fogg teorizzò sul kairos che:”i sistemi portatili del futuro saranno in grado di identificare il momento opportuno e ci influenzeranno in maniera più efficace di quanto non facciano oggi. Quando saranno in grado di conoscere l’obiettivo dell’utente, le sue abitudini, l’ubicazione e l’attività del momento, questi sistemi mobili saranno in grado di determinare quando il soggetto è maggiormente predisposto ad essere persuaso attraverso forme di promemoria, suggerimenti o simulazioni“. Quanto detto fino ad ora, può però essere in qualche misura correlato al prodotto della Niantic? Ebbene si. Ci sono troppi fattori che confermano la presenza del principio del Kairos in Pokémon Go.

Uno tra tutti, ma forse è quello più evidente (e per alcuni però non così intuibile immediatamente) consiste nel vedersi spuntare fuori all’improvviso i pokémon durante la propria ricerca. Il “suggerimento” dato dalla comparsa del pokémon mentre esploriamo le diverse zone territoriali, è a tutti gli effetti parte integrante del Kairos. La conseguenza di ciò, è un aumento del potere persuasivo del gioco.

Non c’è però solo questo aspetto evidente di Pokémon Go da considerare a proposito del Kairos, ma bensì anche altri. Un ‘altro esempio sono le notifiche che compaiono qualora il segnale del GPS non sia rilevato, o la rilevazione stessa del nostra persona sulla “mappa” virtuale mentre stiamo giocando.

Vi sono poi anche le notifiche che ci vengono chieste a inizio gioco sui dispositivi Apple dopo la sua installazione. Il messaggio che ci compare, successivamente al suo primo avvio, è il seguente: “Pokémon Go vorrebbe inviarti delle notifiche. Le notifiche (che possiamo tuttavia accettare o meno), possono includere avvisi, suoni, badge icone configurabili in Impostazioni”. Tutti questi “segnali” ed accorgimenti aumentano la persuasione, in questo nostro caso, del videogioco a realtà aumentata.

Dopo il kairos, un altro elemento da tenere in considerazione, riguarda il fattore comodità. La tecnologia mobile facilita l’interazione uomo-macchina, intensificando ulteriormente il potenziale per la persuasione. Il dispositivo mobile è praticamente sempre a portata di mano e risponde nell’immediato, senza tempi di attesa lunghi (salvo imprevisti dovuti alla tecnologia hardware o software) per caricare o scaricare informazioni. Le esperienze interattive a cui è facile accedere, anche solo con un clic sul proprio dispositivo, hanno maggiori opportunità di persuasione.

A rafforzare tale principio troviamo altri due fattori, che in relazione al fenomeno di Pokémon Go, avvalorano quanto vi ho detto finora. Tali fattori sono definiti come il principio della semplicità mobile, il principio del confronto sociale e il principio della competizione. La semplicità mobile molto rapidamente afferma che qualunque applicazione, se facile da usare, avrà un maggiore potenziale persuasivo.

Il confronto sociale invece sottolinea come le persone saranno maggiormente motivate a tenere un determinato comportamento se possono paragonare la loro performance con quella degli altri, in particolare con quella di altri soggetti simili a loro. In ultimo, il principio della competizione chiarisce come la tecnologia informatica può motivare gli utenti ad assumere un determinato atteggiamento o comportamento, sfruttando la naturale tendenza delle persone ad essere competitive.

Come possono tuttavia essere applicati a Pokémon Go tutti questi principi precedentemente descritti (comodità, semplicità mobile, confronto sociale e competizione)? Ebbene, se ci riflettiamo sopra, notiamo che (a parte problematiche dovute a server down o difficoltà legate all’hardware del proprio dispositivo mobile) interagire con il software della Niantic è facile e immediato. Basta letteralmente un solo click per catturare i Pokémon e, accedere al videogioco, avviene davvero rapidamente. Catturare poi i Pokémon e collezionarli tutti, è diventato un obiettivo che ciascun giocatore vuole portare a termine e nel farlo, tende a competere con altri suoi coetanei o pari. A consolidare poi la competizione c’è il confronto dei Pokedex. Quanti ne hai catturati tu? Quanti ne ho catturati io? Ogni Pokémon catturato fa salire di punteggio del giocatore che può formare e potenziare a sua volta i Pokémon per le battaglie future.

Gli upgrade futuri promessi dalla casa sviluppatrice del gioco, uno tra tutti l’inserimento di ulteriori nuovi Pokémon (tra cui i rari), comporterà un considerevole aumento persuasivo del gioco.

La captologia dietro il fenomeno di successo della Niantic, è anche avvalorato non solo dalla teoria, ma anche da fatti e dati concreti. È il caso di Tom Currie, un 24enne neozelandese che ha deciso che le ore libere non gli bastavano più. E per questo motivo ha abbandonato il proprio lavoro. Società come SimilarWeb, nate per l’analisi dei dati, hanno mostrato come gli utenti del gioco si colleghino in media 33 minuti ogni giorno. In poche parole, gli americani ne sono ormai ossessionati. Informazioni poi diffuse da poco in rete da Sensor Tower confermano che il livello di download totali dell’applicazione Niantic, dopo aver solo da poco superato la soglia dei 50 milioni di download su Android, ha toccato già quota 75 milioni. Il titolo Niantic, inoltre, si è poi aggiudicato il record di “titolo più veloce” ad aver raggiunto la soglia dei 50 milioni di download, con largo anticipo rispetto a Color Switch, seconda app presente nella classifica pubblicata da Sensor Tower.

La Tecnologia Positiva

Terminando la parte riguardante la captologia, cercherei ora di includere Pokémon Go tra le tecnologie positive.

Nella storia dell’interazione uomo-computer è possibile identificare un trend costante: rendere l’interazione con i nuovi media il più possibile simile a quella che ciascuno di noi ha all’interno di un ambiente reale. E questo ha reso i contenuti tecnologici sempre più delle esperienze aumentandone l’impatto sulla vita quotidiana delle persone. In che modo però questa trasformazione può essere utile al benessere delle persone? Come riuscire ad utilizzare la dimensione esperienziale della tecnologia per promuovere la crescita personale e sociale?

Il tentativo di offrire una risposta a queste domande viene da una disciplina emergente, la «Tecnologia Positiva» (TP), che può essere definita come (Riva, Banos, Botella, Wiederhold, & Gaggioli, 2012) “un approccio scientifico applicativo che usa la tecnologia per modificare le caratteristiche della nostra esperienza personale – strutturandola, aumentandola o sostituendola con ambienti sintetici – al fine di migliorare la qualità della nostra esperienza personale, e aumentare il benessere in individui, organizzazioni e società”. Peraltro, le TP si poggiano sul diverse tecnologie esperienziali: smartphone e tablet, serious gaming, realtà virtuale e augmented reality.

La Psicologia Positiva può suggerirci come sviluppare sistemi e applicazioni tecnologiche che favoriscano emozioni positive, promuovano la crescita personale e offrano un contributo allo sviluppo sociale e culturale. Martin Seligman, considerato un pioniere del movimento della Psicologia Positiva, ha identificato “tre pilastri” della vita positiva nel suo libro “Authentic Happiness” (M. E. P. Seligman, 2002):

  • la vita piacevole (the pleasant life), raggiungibile attraverso l’esperienza di emozioni positive;
  • la vita coinvolgente (the engaged life), raggiungibile attraverso il coinvolgimento in attività appaganti e soddisfacenti e l’utilizzo delle proprie abilità e talenti;
  • la vita piena di significato (the meaningful life), raggiungibile attraverso la partecipazione ad attività mirate ad obiettivi più ampi di quelli individuali.

Più recentemente, Seligman ha introdotto il modello PERMA, acronimo dei cinque pilastri del benessere: emozioni positive, coinvolgimento, relazioni sociali, significato e realizzazione (M. E. P. Seligman, 2011). In linea con questa prospettiva, Keyes e Lopez hanno proposto che il funzionamento positivo è dato dalla combinazione di tre alti livelli di benessere: quello emotivo, psicologico e sociale (Keyes & Lopez, 2002).

A partire da queste riflessione la Tecnologia Positiva a sua volta si suddivide in tre diverse aree:

  • Tecnologie Edoniche: le tecnologie usate per indurre esperienze positive e piacevoli;
  • Tecnologie Eudaimoniche: le tecnologie usate per aiutare gli individui nel raggiungimento di esperienze coinvolgenti e auto-realizzanti;
  • Tecnologie Sociali/interpersonali: le tecnologie usate per aiutare e migliorare l’integrazione sociale e/o le connessioni sociali tra individui, gruppi e organizzazioni.

I Benefici di Pokémon Go

Un articolo apparso su Panorama.it del 14 luglio 2016 ci da una mano nel confermare quanto vi sto dicendo. L’articolo ci riporta una riflessione del dottor John Grohol, esperto nello studio dell’impatto della tecnologia sul comportamento umano, sulla salute mentale e fondatore del fondato Psych Central, il più grande network su internet che contiene ricerche, spunti materiale di supporto sui disturbi psichici.

Ecco uno stralcio di quanto viene riportato: “La sfida, per chi è depresso, è aumentare i livelli motivazionali per uscire di casa, fino a quel momento inesistenti. Ci sarebbe bisogno di andare fuori e respirare un po’ di aria pulita, magari farsi una doccia o un bagno. Sembrano cose stupide ma sono estremamente difficili da affrontare per chi è ansioso o è depresso. Per questo credo che l’impatto del gioco possa davvero portare a notevoli benefici”. Continua ancora lo stesso Grohol: “ “La scienza è molto chiara su questo punto: più si fa attività fisica più scendono i livelli di depressione. Si tratta di uno strumento molto potente, con un effetto notevole”. Ma in che modo quindi Pokémon Go può aiutare a uscire da uno stato mentale di apatia e scoraggiamento? Prima di tutto l’app punta molto sull’interazione con il mondo esterno più che concentrandosi solo sul personaggio che si comanda. In questo modo si incoraggia verso la conoscenza di edifici e monumenti storici (i cosiddetti “Pokéstop”) e il contatto con altri giocatori sulla mappa. Inoltre, il solo fatto di dover uscire allo scoperto per avanzare nel gioco è già un primo passo verso l’apertura allo sconosciuto, all’esterno, a quel mondo che fa così tanta paura.

Certo, non è possibile e corretto considerare questo gioco come la cura per l’ansia e la depressione, ma è sicuramente un valido strumento per dare uno slancio.

L’utilità positiva di Pokémon Go tuttavia non si ferma qui. Un altro esempio della sua funzionalità, in quanto tecnologia positiva, ci viene fornito dalla vicenda del C.S. Mott Children’s Hospital – Stati Uniti.

In questo ospedale pediatrico del Michigan, è in uso una terapia veramente speciale, avente a che fare con la popolarissima applicazione dei Pokémon. Pokémon Go viene difatti utilizzato come terapia in un ospedale pediatrico! I bambini con una vasta gamma di condizioni mediche (pazienti affetti da cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc.) sono incoraggiati a utilizzare il videogioco negli spazi pubblici dell’ ospedale, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti! L’utilizzo della stessa, sebbene in condizioni alquanto singolari, è volto a migliorare le condizioni dei bambini: grazie a Pokémon Go possono muoversi dal proprio letto e socializzare più facilmente! Il movimento, dice un uomo facente parte del personale, aiuta i bambini dal punto di vista fisico, non lasciando atrofizzare gli arti, mentre il socializzare con gli altri li fa sentire meno soli e allevia stati psichichi come l’ansia o la depressione.

L’Intelligenza Emotiva in Pokémon Go

C’è ancora un espediente positivo da scoprire nel fenomeno di scala mondiale della Niantic di cui vi vorrei parlare. Tale funzionalità è correlata agli aggiornamenti futuri dichiarati da John Hanke, CEO di Niantic (l’azienda che insieme a Nintendo e a The Pokémon Company ha realizzato il simpatico videogioco). Hanke, durante l’intervista si è soffermato sull’interazione tra allenatori dichiarando che nonostante questa funzione non sia ancora presente sarà comunque un elemento centrale del gioco. Tra le novità che verranno introdotte, come abbiamo appena detto, c’è lo scambio di Pokémon, ma questa non sarà l’unica funzione ad essere introdotta nel futuro aggiornamento di Pokémon Go. L’altra novità potrebbe riguardare le sfide tra allenatori, anche al di fuori delle palestre. Infatti, nella nuova modalità Multiplayer di Pokémon Go gli altri allenatori potrebbero fare la loro comparsa sulla mappa del gioco e sarà possibile lanciargli una sfida. In questo modo potrete allenare i vostri Pokémon anche quando non vi trovate in palestra.

Personalmente sono convinto che, in quanto psicologo, gli aggiornamenti futuri dichiarati dal CEO della Niantic, contribuiranno all’incremento dell’intelligenza emotiva dei suoi giocatori. Per chi fosse all’oscuro sull’argomento, lo psicologo statunitense Daniel Goleman ha formulato il costrutto di Intelligenza Emotiva, con cui identifica un particolare tipo di intelligenza legato all’uso corretto delle emozioni. Secondo Goleman, sviluppare questo tipo di intelligenza può costituire un fattore determinante nel raggiungimento dei propri successi personali e professionali. Se adeguatamente gestite, possono però regalarci una marcia in più aiutandoci a comunicare efficacemente, a saperci automotivare, a reagire meglio agli stimoli provenienti dall’ambiente.

Le abilità che compongono l’Intelligenza Emotiva sono 5 (spesso indicate da diversi autori con terminologie differenti). Esse vengono indicate insieme alle capacità più specifiche che ne derivano, che rappresentano dei veri e propri indicatori di come si manifestano tali abilità le quali, considerate più dettagliatamente, possono far comprendere il contributo fornito alla salute mentale o, viceversa, i costi che possono derivare a quest’ultima quando queste capacità risultano deficitarie. Tali abilità sono:

  • Consapevolezza di sé. La capacità di riconoscere un emozione così come si presenta. Sviluppare la consapevolezza di sé richiede di “sintonizzarsi” sui propri sentimenti reali, riconoscendone i segnali fisiologici che ne indicano l’arrivo. Se si valutano le proprie emozioni, è possibile gestirle.
  • Auto-regolazione. Spesso si ha poco controllo quando si sperimentano alcune emozioni. Tuttavia, è possibile utilizzare una serie di tecniche per alleviare e regolare le emozioni negative come rabbia, ansia o depressione.
  • Empatia. La capacità di riconoscere come le persone si sentono è importante per il successo nella propria vita e carriera. Più si è abile nel discernere i sentimenti che stanno dietro ai segnali degli altri, maggiore è la sensibilità alle emozioni e alla prospettiva altrui.
  • Motivazione. Motivare se stessi per raggiungere qualsiasi risultato richiede obiettivi chiari, un atteggiamento positivo e la capacità di incanalare, energizzare e armonizzare le proprie emozioni.
  • Capacità sociali. Questa competenze sono molto importante in ambito lavorativo, perché saper costruire relazioni di qualità con i colleghi è fondamentale sia per lavorare bene nel team sia nella leadership per influenzare e ispirare gli altri.

L’ intelligenza emotiva applicata a questo gioco sarà dovuta quando, con l’ aggiornamento promesso da Niantic, le persone saranno in grado di sfidare i singoli giocatori al di fuori delle palestre. Perché dirlo? La risposta è molto semplice. Con il nuovo aggiornamento dell’ applicazione ci saranno infatti duelli tra allenatori reali. Durante la lotta, il giocatore, senza nemmeno rendersi conto, cercherà di mettersi nei panni del suo avversario per cercare di capire il piano di gioco e perché ha scelto quel particolare tipo di Pokémon. Cercherà anche di capire quali mosse utilizzerà e come si comporterà il suo avversario. La strategia di gioco per vincere contro gli avversari, alla fine, svilupperà la capacità di mentalizzare il giocatore stesso. Questa è, e rimane comunque la mia inferenza. Solo il tempo confermerà se ciò che dico ora sarà vero o meno.

Conclusioni

In conclusione, il successo di Pokémon Go è noto a tutti. Questo successo, nel bene o nel male, porterà senza dubbio ad una maggiore diffusione del gioco della realtà aumentata e questo oltre ai continui aggiornamenti che ci saranno in futuro.

Dieci principi per una terapia di coppia efficace (2017) – Recensione

Lo scopo del libro è offrire al terapeuta ancora in formazione, ma anche al clinico più esperto una visione di insieme di ciò che permette a una coppia di funzionare e cosa invece la porta a separarsi. Vengono anche proposti diversi strumenti terapeutici per la terapia di coppia, non solo fondati su un’esperienza clinica di decenni, ma che sono stati oggetto di attenti studi per dimostrarne l’efficacia clinica. A rendere più facile la comprensione, intervengono poi gli esempi clinici di coppie trattate dai due terapeuti nel corso degli anni.

 

“Ciò che conta in un matrimonio felice non è tanto quanto si è compatibili, ma come ci si relaziona con l’incompatibilità” (George Levinger)

Julie Schwartz Gottman e John M. Gottman sono una coppia di terapeuti sul lavoro e nella vita. Da più di vent’anni si occupano di terapia di coppia presso il Gottman Institute di Seattle, da loro fondato.

Julie Schwartz Gottman, oltre alla direzione del Gottman Institute, svolge l’attività clinica e di supervisione. Grazie alle sue esperienze sul campo è una consulente esperta su tematiche quali matrimonio, molestie sessuali e violenza domestica e problemi legati alla genitorialità.

John M. Gottman ha studiato per 40 anni le coppie cercando di capire quali siano gli indicatori della stabilità di un matrimonio e quali, invece, possano considerarsi i fattori che predicono un divorzio. Ha all’attivo 200 pubblicazioni e 40 libri sul tema. John è professore emerito di Psicologia presso l’Università di Washington dove continua i suoi studi sulle coppie.

I cambiamenti nelle attuali relazioni di coppia

Nella civiltà occidentale il senso del matrimonio, inteso come l’unione di due persone che si trovano a trascorrere il resto della loro vita insieme, è cambiato con il cambiare della società. Dagli anni Cinquanta in poi, si è passati da una società definita rigidamente, in cui sposarsi era una tappa obbligatoria, a una società, quella odierna, dove non solo il matrimonio è visto come una delle scelte possibili ma anche, grazie al divorzio, non necessariamente una scelta che si fa per la vita. Rimanere insieme, quando le cose non funzionano, per una coppia, non è più qualcosa di prestabilito, ma una sfida che richiede impegno e lavoro.

È in questa prospettiva che la terapia di coppia può assumere un ruolo fondamentale. I pazienti spesso portano in terapia i loro problemi di relazione con il partner, ma il lavoro di ricostruzione o riconsolidamento del rapporto che si può fare col singolo è limitato. Per lavorare sulla coppia, è necessario lavorare con la coppia. In che modo, lo spiegano i coniugi Gottman con “Dieci principi per una terapia di coppia efficace”.

I principi per una terapia di coppia efficace

Lo scopo del libro è offrire al terapeuta ancora in formazione, ma anche al clinico più esperto una visione di insieme di ciò che permette a una coppia di funzionare e cosa invece la porta a separarsi. Vengono anche proposti diversi strumenti terapeutici, non solo fondati su un’esperienza clinica di decenni, ma che sono stati oggetto di attenti studi per dimostrarne l’efficacia clinica. A rendere più facile la comprensione, intervengono poi gli esempi clinici di coppie trattate dai due terapeuti nel corso degli anni.

I principi illustrati nell’opera non fanno riferimento a un orientamento psicologico ben preciso, ma si fondano sull’approccio della Neurobiologia Interpersonale (NI). La NI è una disciplina fondata da Daniel J.Siegel alla fine del secolo scorso con l’intento di sviluppare una cornice concettuale comune e superare la distanza tra le varie discipline che si occupano di mente, cervello e relazioni interpersonali, studiate fino ad allora in maniera separata.

I dieci principi scandiscono i capitoli del libro. Si parte da quelli che sono comuni a tutte le psicoterapie: utilizzare metodi testati scientificamente, come condurre la valutazione del problema della coppia per poi procedere con l’intervento terapeutico, comprendere il mondo interno di ciascun partner, solo per citare i primi. Si passa poi a quelli più specifici utilizzati dai Gottman per aiutare le coppie a ricostruire la relazione partendo dalle fondamenta. Ad esempio l’identificazione dei “Quattro Cavalieri” (in riferimento a quelli dell’Apocalisse) che predicono la fine di una relazione: il criticismo, il disprezzo, il ritiro sulla difensiva e l’ostruzionismo.

Un altro concetto interessante è che la relazione di una coppia solida è paragonata ad una casa. Al primo piano della casa risiede la conoscenza del mondo interiore del partner, “le mappe dell’amore”: le necessità, i valori, le esperienze passate, le priorità, gli agenti stressanti. Al secondo piano si trova la cultura dell’affettuosità: l’apprezzamento e l’ammirazione per il partner che vengono espressi concretamente con parole e gesti. Al terzo piano vi è la capacità da parte della coppia di entrare in contatto intimo tra loro, non tanto o solo a livello fisico, quanto a quello comunicativo. All’ultimo piano della casa, ispirandosi al lavoro di Robert Weiss sui conflitti matrimoniali, è presente infine la “prospettiva positiva” in cui la coppia rimane anche quando si trova a scontrarsi.

Per usare le parole di Siegel che ha scritto l’introduzione del testo, il pregio dell’opera non consiste semplicemente nell’offrire al terapeuta strumenti per il suo lavoro con le coppie. In “Dieci principi per una terapia di coppia efficace” vengono presentate un’ampia gamma di teorie scientifiche a cui hanno fatto seguito numerosi studi, applicate alla pratica quotidiana della psicoterapia secondo i principi dell’integrazione tra le discipline. Ogni sezione è ricca di teorie scientifiche, metodologie, strumenti, ma anche aneddoti e considerazioni personali. Tutto ciò contribuisce a rendere “Dieci principi per una terapia di coppia efficace” un’opera stimolante, informativa e che porta ad assumere nuovi punti di vista. Un ulteriore pregio dell’opera è il non basarsi su un unico orientamento psicologico, ma su un approccio olistico utilizzabile dai terapeuti di scuole diverse, senza mai scadere nel tono manualistico e cattedratico.

 

Si può cambiare idea? – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Il problema di come avvenga il cambiamento è centrale per la terapia cognitiva ma più in generale per tutti coloro interessati a cambiare le idee alla gente che si tratti di esperti di marketing, di politici in cerca di voti, di opinion leader o influencer, come si dice oggi o semplicemente del coniuge o del vicino di casa. L’ arte della persuasione ha sempre conferito molto potere a chi la possedeva.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Si può cambiare idea? (Nr. 25)

 

In genere si usa dire che un modo per provocare il cambiamento sia mostrare i fatti supponendo siano portatori di una verità inoppugnabile. La teoria sottostante è l’empirismo per cui mi faccio delle idee o delle teorie sulla base dei fatti e sempre sulla base di altri fatti queste possono cambiare: il primato dei fatti sulle teorie è assoluto.

Due obiezioni. La prima sofisticata e teorica riprende Kant che sosteneva l’inconoscibilità della ”cosa in sé” ed il nostro accesso al solo mondo dei fenomeni (il racconto che della “cosa in sé” fa la nostra mente) e le moderne teorie sullo story-telling che sostengono non esistere realtà accessibile se non attraverso una narrazione. Tutto ciò non è difficile da comprendere per i cognitivisti abituati al costruttivismo più o meno radicale ed al primato del pensiero.

La seconda la vediamo tutti i giorni nel mondo delle idee politiche o sportive per citare due campi dove si muovono forti emozioni. Qualsiasi siano i fatti accaduti che siano i gulag, i campi di concentramento, i rifiuti per strada, gli arresti per corruzione, l’attacco alle torri gemelle, ciascuno ne trova corroborazione al proprio modo di vedere che ne esce rafforzato. Perciò riesce difficile applicare il ragionamento “cui prodest” per risalire alle cause di un evento. Si pensi agli attentati in Gran Bretagna nei giorni pre-elettorali. Giovano alla May che può invocare una maggiore chiusura del paese e l’intervento armato contro l’IS ma anche all’opposizione che li può attribuire proprio alla politica di chiusura e guerrafondaia della premier. Chi era a suo favore lo sarà ancora di più e chi non lo era lo sarà ancora di meno.

Attacchi, critiche e denunce vengono esibiti come prova che si sono finalmente andati a toccare gli interessi dei poteri forti.

Siccome è proprio vero l’assunto di Epitteto che non sono le cose a determinare come stiamo e cosa facciamo ma la nostra opinione su di esse, dobbiamo rassegnarci all’evidenza che le opinioni possibili su un fatto siano praticamente finite e sarà presa per buona quella più congrua con le credenze preesistenti.

Lasciamo per un attimo da parte i cosiddetti deliranti e parliamo con un fanatico di qualsiasi fede, sia essa religiosa, politica, sportiva, alimentare e proviamo a fargli cambiare idea sulla base dei fatti. Si ottiene esattamente l’opposto. Ora mettete da parte anche il fanatico e guardatevi allo specchio perché nello stesso identico modo funzioniamo, ovviamente senza alcuna consapevolezza, tutti noi soprattutto nelle aree che riteniamo più importanti (identità e relazioni significative in primis). Al contrario su questioni scientifiche, tecniche, pratiche non emotivamente rilevanti siamo disponibilissimi a cambiare idea imparando un percorso stradale o una procedura esecutiva per la lavatrice o per il cambio dell’ora sul cruscotto, più efficiente.

Possiamo dunque dire che popolarmente si riconosce il primato dei fatti sulle teorie, ma ad una riflessione più attenta e psicologica le cose stanno esattamente all’opposto. Per dirla con Piaget: l’assimilazione predomina grandemente sull’accomodamento.

Le persone crescono, i cambiamenti avvengono

Tuttavia è evidente che le persone cambiano anche radicalmente, che non la pensiamo più come a diciotto anni e non solo sull’opportunità di essere incendiari o pompieri ma anche su temi più personali. Insomma si cambia, anche molto ma non sulla base dei fatti che difficilmente riescono ad invalidare le nostre credenze soprattutto se centrali. E allora? La metto giù radicale per essere più esplicito e rimando a dopo la risoluzione del regresso all’infinito che può comportare. Cambiamo idea solo quando cambiano le motivazioni cosicché la lettura che diamo dei fatti è sempre e solo determinata dalla convenienza. La cognizione è al servizio dei nostri scopi (del resto sarebbe strano non fosse così: non siamo al mondo per cercare la verità ma per cavarcela). Insomma non vogliamo una cosa perché col ragionamento la reputiamo buona e giusta, ma, al contrario, la reputiamo buona e giusta perché la vogliamo.

I partiti ritengono giusta la legge elettorale che li avvantaggia e se un po’ ci marciano per la gran parte ci credono davvero. Continuamente ci autoinganniamo dipingendoci la realtà a nostro piacimento. Il miglior predittore delle idee politiche di un individuo è il suo status economico che cambia nell’arco della vita e sempre la pensiamo nel modo che più ci avvantaggia. E’ brutto? Intanto è così comunque e poi forse non c’è niente di male se ciascuno bada ai propri interessi e li persegue, semmai si tratta di non fare scorrettezze. Sarei preoccupato se fosse messo in cantina perché contrario al buonismo cattolico in cui siamo immersi, un meccanismo che è stato il motore di tutta l’evoluzione.

Come avevo anticipato però il problema si sposta solo perché occorre chiedersi quando e come si cambia l’assetto motivazionale. In primo luogo credo sia decisivo considerare il ciclo vitale che genera bisogni diversi nelle varie età della vita. Diversi sono i compiti evolutivi di un ragazzo, di un giovane adulto, di un adulto che deve procreare, di un vecchio che si prepara a morire. A seconda dei compiti evolutivi avranno scopi diversi e visioni della realtà congrue con essi.

In secondo luogo credo necessario ricollocare il corpo al centro della vita psichica ed anzi vedere quest’ultima come al suo servizio (mi vado facendo persuaso che molte convinzioni inerenti il proprio valore personale che ovviamente da adulti riguardano se stessi come persona ed in particolare l’aspetto mentale si strutturino nella prima infanzia sul vissuto corporeo, dice un mio paziente che potrebbe vincere il nobel ma si sentirebbe comunque un ciccione goffo e brutto).

Insomma per dar ragione del cambio di motivazioni che causano i cambi di credenze credo bisogni abbandonare i piani alti della corteccia e calarsi dabbasso nelle zone più primitive del cervello e giù giù nel corpo. Altra grande fonte di cambiamento del sistema motivazionale è il contesto e soprattutto quello interpersonale: essere soli. In coppia o con dei figli cambia ciò che vogliamo e la prospettiva con cui guardiamo il mondo. Se la maturazione e l’assetto relazionale sono i motori fondamentali del cambio motivazionale normale non bisogna trascurare quelli che chiameremo “eventi soggettivamente catastrofici” (ESC) da intendere come invalidazioni massicce e ineludibili ai pilastri della propria identità. Si tratta delle stesse invalidazioni che abbiamo descritto come causa del delirio inteso come un modo di non prenderne atto per non cadere in un vuoto predittivo rifugiandosi in una verità privata e autarchica.

Per un attimo dopo l’invalidazione il soggetto si trova in uno stato precario senza certezze e riferimenti (il cosiddetto “umore predelirante”) che corrisponde anche ad una estrema assenza di vincoli e totale libertà. Gli si prospettano due strade a seconda della ricchezza e rigidità del suo sistema cognitivo. Da un lato può caparbiamente ribadire la vecchia costruzione di sé assimilando forzatamente ad essa i dati contraddittori e incamminandosi verso il delirio. Dall’altro può abbandonare la vecchia identità e ricostruirne una completamente nuova e libera dai condizionamenti familiari. Questa è l’esperienza rara ma assoluta della conversione la nuova identità non è in continuità con la precedente, non ne è un aggiustamento ma qualcosa di assolutamente nuovo e la vecchia non è più riconosciuta come parte di sé: le sue motivazioni e la conseguente visione del mondo sono incomprenbili e sbagliate.

Ovviamente gli ESC che sono la porta d’ingresso del bivio tra delirio e conversione non sono provocabili attraverso la psicoterapia che normalmente si limita a modeste perturbazioni catalizzatrici di contenuti aggiustamenti. Quello che può preventivamente fare la psicoterapia è favorire lo sviluppo di un sistema ricco ed elastico che a fronte di un ESC possa imboccare la strada della conversione invece di fuggire verso il delirio.

Un ESC genera comunque una frattura, una discontinuità, una nuova persona che vive una nuova esistenza che in Italia, dopo la loro chiusura, è comunque fuori dal manicomio.

Approfondire seriamente il legame tra il vecchio e il nuovo modo di stare al mondo significherebbe forse occuparsi del grande tema della dissociazione e dei disturbi da personalità multiple, del delirio e delle grandi conversioni, il che esula dallo scopo di stimolo di una semplice appendice.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

cancel