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Congresso dell’EABCT 2017: il report dalla seconda giornata

Questa edizione del congresso EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) si sta assumendo molti rischi, forse perfino troppi. Mentre a Stoccolma un anno fa erano prevalsi i toni dell’autocelebrazione, quest’anno si preferisce guardare in faccia i punti critici. È successo il primo giorno con Hayes, è successo ancor di più con Wells in questo secondo giorno che sto andando a raccontarvi.

 

Perchè l’eclettismo nella psicoterapia cognitivo-comportamentale?

Per capire l’impatto della presentazione di Wells occorre però fare un passo indietro e tornare alla presentazione di Adam Radomsky durante la prima giornata. Radomsky aveva parlato di un aspetto tra quelli più critici della psicoterapia cognitivo-comportamentale: perché così pochi la eseguono fedelmente? Perché così tanti si perdono in un eclettismo mal definito? In concreto, perché solo il 16% dei terapisti cognitivo-comportamentali, quando eseguono i protocolli per i disturbi d’ansia o ossessivo-compulsivo, prescrivono con convinzione, efficacia e chiarezza l’esposizione comportamentale? Lo aveva detto anche Mehmet Sungur nel discorso introduttivo della cerimonia d’apertura: troppi terapisti cognitivo-comportamentali non eseguono la terapia cognitivo-comportamentale e sono solo genericamente cognitivi, ossia parlano di pensieri. Cosa che in realtà fanno tutti, anche i rogersiani e gli psicoanalisti.

In genere a questa domanda si risponde con le solite argomentazioni del paziente difficile o della relazione terapeutica. Qui però non si parla di pazienti difficili (qualunque cosa significhi questa espressione) ma di pazienti ansiosi e ossessivi in un servizio psicologico specializzato per pazienti ansiosi e ossessivi della Concordia University di Montreal dove lavora Radomsky. Di cosa stiamo parlando, allora?

Radomsky ha fatto una piccola indagine nel suo gruppo di lavoro e altrove e ha scoperto che le quattro risposte più ricorrenti alla domanda: “perché non istruisci il paziente all’esposizione comportamentale?” sono:

  • “Non mi piace rendere i miei pazienti troppo ansiosi” (I don’t like making my client feel too anxious)
  • “Preferisco la terapia integrata perché suona più carina” (I prefer integrative because it feels nicer)
  • “Non sono venuto in questo campo per far soffrire le persone” ((I didn’t go into this field to make people suffer)
  • “Se vedo che l’esposizione turba il mio paziente, ci prendiamo una pausa e parliamo delle crisi evolutive precoci” (If I see that exposure is upsetting my patient, we’ll take a break and talk about early developmental crises)
  • “Vorrei che la terapia comportale per i disturbi d’ansia non avesse così tanta esposizione” (I wish behavior therapy for anxiety disorders didn’t have so much exposure in it).

Paziente difficile? O difficoltà nostre nell’eseguire la psicoterapia cognitivo-comportamentale? Ognuno può trarne le conclusioni che vuole. Si può pensare che hanno ragione quelli che dicono che i pazienti sono tutti difficili, che la soluzione è “integrare” gli interventi cognitivo comportamentali con interventi definiti per lo più “relazionali” e che troppo spesso corrispondono agli interventi della client-centered therapy di Rogers, ovvero delle soste supportive e accoglienti che servono a gestire la terapia in attesa che il paziente si decida ad affrontare gli interventi davvero terapeutici, e così via.

In fondo anche la risposta di Radomsky è compromissoria. Come ho scritto ieri: “visto che l’esposizione comportamentale è una delle nostre bestie nere (è tanto più bello chiacchierare col paziente della sua storia personale) Radomsky suggerisce di inserire negli interventi di esposizione degli aspetti rassicuranti che mantengano in parte quei safety behaviours che lo aiutano a controllare l’ansia, chiamandoli supportive approaches.” Aspetti rassicuranti o ancora una volta una “integrazione” che annacqua? Oppure si tratta di una posizione inevitabilmente di attesa supportiva che rientra nella good practice. Possibile, ma chiamiamola col suo nome: attesa supportiva e non terapia.

I dati di efficacia della terapia metacognitiva

Secondo Adrian Wells questa tendenza integrativa è però una vera deriva che sta deteriorando l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale. Wells nella sua presentazione dal provocatorio titolo “Metacognitive Therapy: is more effective than other therapies?” parla anche di questo. Prima parla però del suo modello metacognitivo, che abbiamo già illustrato altrove. Wells racconta poi i dati di efficacia della terapia metacognitiva e, un po’ come era accaduto il giorno prima per Arnzt con la Schema Therapy, sono dati impressionanti. La terapia metacognitiva mostra un concreto e significativo incremento di efficacia su tutti i disturbi di elezione della terapia cognitivo comportamentale: Disturbo d’ansia generalizzata, depressione maggiore, fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo e disturbo post-traumatico da stress. L’efficacia passa una un 60% della psicoterapia cognitivo comportamentale a un 80% di remissioni per il disturbo d’ansia generalizzato e, ancor più impressionante, da un 25% della psicoterapia cognitivo comportamentale per il disturbo ossessivo compulsivo (eh si, va detto: la psicoterapia cognitivo comportamentale funzionicchia ma non fa sfracelli con gli ossessivi; meglio che niente, certo, visto che tutto il resto non funziona per niente) a un abbagliante 75%. Dati da confermare nella pratica reale? Vero. Gli studi di Wells però sono numerosi e robusti e devo confessare che la mia pratica clinica personale conferma queste cifre.

Adrian Wells - EABCT 2017 Ljubljana
Adrian Wells

 

Ciò che conta nella presentazione di Wells è però altro. Wells mostra anche altri dati in cui paragona interventi cognitivi, metacognitivi e “integrati” che combinano interventi vari in sequenza. Ebbene, le prestazioni peggiori sono degli interventi “integrati”. Questo dato presta a Wells l’occasione per una tirata appassionata contro l’ecclettismo e la terapia integrata, a suo dire all’origine della crisi della stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale. Troppi, dice Wells, di fronte alle difficoltà di esecuzione della psicoterapia cognitivo-comportamentale si rifugiano in un facile eclettismo travestito da psicoterapia integrata. Rifugio non innocuo che deteriora la qualità della diffusione della pratica cognitivo-comportamentale tra gli operatori.

Quale sia il futuro, non è facile a dirsi. Questo congresso ha mostrato audacia, invitando Hayes e Wells dopo anni di assenza. Molte nuove terapie mostrano efficacia significativa (Schema Therapy e Terapia Metacognitiva). La psicoterapia cognitivo-comportamentale presenta una crescente crisi nella qualità della sua esecuzione tra gli operatori che ci fa porre domande sulla qualità dei training e delle supervisioni. Le risposte classiche sono sempre state di integrare con gli aspetti relazionali o, peggio, dei fattori comuni alla Lambert che nascondono un sostanziale annacquamento e una distorsione nella concezione dei pazienti, troppo facilmente tacciati di essere difficili.

La soluzione non può essere: visto che non riusciamo a farla, annacquiamola. E nemmeno può essere il sostenere che ciò che conta è la concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso mentre la tecnica viene dopo. Ovvero: limitiamoci a descrivere cognitivamente il paziente. La verità è che la concettualizzazione è l’unica cosa che i terapisti cognitivo-comportamentali ancora fanno bene mentre il problema è quello che si fa dopo. È dopo la concettualizzazione che si inizia a non fare (sottolineo: a non fare) la terapia cognitivo-comportamentale.

Judith Beck e la CBT per i disturbi di personalità

Altre presentazioni interessanti della giornata sono state quelle di Judith Beck (di cosa stavamo parlando? De te fabula narratur) che parla dei disturbi di personalità e della loro nota difficoltà di ingaggio nel contratto terapeutico. Beck ripropone il modello cognitivo-comportamentale riportando le credenze dei vari pazienti e proponendo di applicare queste concettualizzazioni alle loro difficoltà di ingaggio, analizzandole nei termini delle loro stesse credenze e sviluppando una buona alleanza terapeutica attraverso tecniche di validazione di derivazione rogersiana e gestendo il proprio disagio analizzandolo cognitivamente.

Judith Beck - EABCT 2017 Ljubljana
Judith Beck

Nulla di nuovo, la validazione rimane lo strumento principe della gestione del paziente difficile, non si discute. Rimane il dubbio che la validazione, utilizzata al di fuori dell’alveo teorico della terapia dialettico comportamentale di Marsha LInehan e “integrata” nella terapia cognitivo-comportamentale perda il suo senso clinico e diventi solo un modo per gestire un paziente recalcitrante. Sarà questa la “integrazione” sbagliata di cui parla Wells e che fa diminuire l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale?

L’applicazione rigorosa delle procedure EMDR

L’ultima presentazione a cui assisto è quella di un simposio del gruppo di ricerca di Isabel Fernandez sulla EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), procedura di terapia specifica per il trauma. I pregi e i problemi della EMDR sono noti: è una tecnica efficace per il trauma ma non si conosce bene il suo meccanismo di funzionamento e spesso è applicata indiscriminatamente a pazienti non traumatizzati.

EMDR Simposio - EABCT 2017 Ljubljana

Il gruppo di Fernandez presenta una interessante ipotesi neurologica basata su dati di neuro-imaging sul funzionamento della EMDR. Seguono poi delle illustrazioni cliniche sulle applicazioni della EMDR. Ciò che colpisce nella EMDR, al di là degli aspetti neurologici e clinici sui quali ho scarsa competenza, è la sua rigorosità di applicazione, l’enfasi che vien posta sulla fedeltà della sua esecuzione. Insomma, non ci sono cedimenti a ecclettismi o contaminazioni. Forse questo spiega parte del suo successo. Insomma, questo congresso ci dice che la psicoterapia cognitivo-comportamentale deve affrontare il problema dell’aderenza.

Il cervello comunica al nostro corpo come bruciare grassi dopo un pasto

Gli scienziati della Monash University’s Biomedicine Discovery hanno trovato un meccanismo con il quale il cervello bilancia l’alimentazione con la spesa energetica, risolvendo un enigma per la ricerca e offrendo una potenziale nuova via per il trattamento dell’ obesità.

 

L’ obesità è un fattore di rischio importante per molte malattie tra cui le malattie cardiovascolari, diabete, malattie epatiche e diversi tumori,e  sembra essersi diffusa a macchia d’olio in Australia.

I ricercatori del programma di malattie metaboliche e obesità hanno dimostrato tramite modelli di laboratorio che l’alimentazione controlla il “browning” (brunimento) del grasso, cioè la conversione del grasso bianco, che contiene l’energia, in grasso bruno, che controlla il consumo e la spesa di energia. Il grasso nel corpo umano è immagazzinato in cellule speciali denominate adipociti che modificano il loro status da bianco a marrone e viceversa.

Lo studio pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, mostra che dopo un pasto il cervello risponde alla quantità di insulina presente in circolazione, che aumenta come conseguenza dell’aumentato glucosio nel sangue.

Il cervello invierebbe poi dei segnali per promuovere l’ “imbrunimento” del grasso e il dispendio di energie.

Al contrario, dopo un digiuno, il cervello istruisce questi adipociti imbruniti a convertirsi in adipociti bianchi, iniziando nuovamente l’immagazzinamento di energie.

Questi processi aiutano a prevenire sia l’eccesso di peso che l’eccesso di perdita di peso in risposta sia ad un’eccessiva alimentazione che a condizioni di digiuno, in modo che nel tempo il peso rimanga relativamente stabile.

I ricercatori hanno dimostrato che la capacità del cervello di sensibilizzarsi ai livelli di insulina e di coordinare l’alimentazione con il dispendio energetico attraverso l’imbrunimento degli adipociti è controllato da un meccanismo ad interruttore che si attiva dopo il digiuno per reprimere la risposta all’insulina, inibendo l’imbrunimento e conservando le energie, e in seguito si spegne dopo un pasto per facilitare la risposta dell’insulina e promuovere l’imbrunimento e il consumo di energie.

Quello che accade nel contesto dell’ obesità è che l’interruttore è disfunzionale, non si spegne durante i pasti – ha dichiarato il ricercatore, il professor Tony Tiganis – Di conseguenza, l’imbrunimento degli adipociti è spento e tutto il tempo e le spese energetiche diminuiscono, quindi quando si mangia, non si vede un aumento proporzionale delle spese energetiche – e tale condizione promuove l’aumento di peso.

Abbiamo mostrato non solo perché questo accade ma anche il meccanismo fondamentale implicato. È stato molto emozionante – ha detto il dottor Dodd.

I ricercatori stanno esplorando ulteriormente la possibilità di indurre l’inibizione dell’interruttore per scopi terapeutici per promuovere lo spargimento di grasso in eccesso.

L’ obesità è un fattore importante e con un impatto importante considerando le malattie presenti in tutto il mondo e, per la prima volta nella storia moderna, potrebbe portare ad una diminuzione dell’aspettativa di vita globale – ha dichiarato il professor Tiganis – Ciò che i nostri studi hanno dimostrato è che esiste un meccanismo fondamentale in gioco che normalmente assicura che la spesa energetica sia abbinata all’assunzione di energia. Quando questo meccanismo si “guasta”, si verifica l’aumento di peso.

Potenzialmente la scoperta di questo meccanismo potrebbe aiutare nella creazione di una nuova terapia per promuovere la perdita di peso negli individui obesi, ma ogni nuova terapia ha bisogno di tempi lunghi prima di poter essere accettata.

 

Trattato dei disturbi di personalità (2017) di J. M. Oldham, A. E. Skodol, D. S. Bender – Recensione

Il Trattato dei disturbi di personalità, di John M. Oldham, Andrew E. Skodol, Donna S. Bender è un corposo volume, scritto da più autori di diverse formazioni cliniche e culturali, che prende in considerazione gli aspetti, diagnostici, psicopatologici, eziologici, neurobiologici e di trattamento di questi disturbi che hanno una prevalenza in forte crescita.

 

I disturbi di personalità (PD) hanno un ruolo particolarmente stimolante in psichiatria: l’approccio diagnostico categoriale non consente una comprensione adeguata, tant’è che il DSM5 ha introdotto una sezione specifica in cui nella classificazione si introduce un approccio dimensionale; la definizione dei sintomi e dei segni siano essi considerati in termini polittici, monotetici o persino prototipici definiscono quadri psicopatologici molto diversi anche per lo stesso disturbo e la frequente co-occorrenza rappresenta un ulteriore elemento di complessità; viepiù, definire indicatori di processo e di esito per valutare l’efficacia dei trattamenti è una sfida ancora aperta sulla quale ormai da qualche tempo molti ricercatori si sono ingaggiati.

Trattato dei disturbi di personalità – Concetti clinici ed eziologia

Il Trattato dei disturbi di personalità, di John M. Oldham, Andrew E. Skodol, Donna S. Bender è un corposo volume, scritto da più autori di diverse formazioni cliniche e culturali, che prende in considerazione gli aspetti, diagnostici, psicopatologici, eziologici, neurobiologici e di trattamento di questi disturbi che hanno una prevalenza in forte crescita.

L’edizione italiana è stata curata da Franco Del Corno e Vittorio Lingiardi e la prefazione è di Steven E. Hyman.

La prima parte del volume “Concetti clinici ed eziologia” si apre con un capitolo dedicato all’evoluzione della classificazione diagnostica dal DSM I del 1952 fino al DSM5 del 2013. La storia della classificazione della patologia di personalità apre uno sguardo sui progressi nella comprensione dei disturbi di personalità.

Gli autori del Trattato dei disturbi di personalità avvertono che a mano a mano che impareremo di più a proposito delle eziologie e delle patologie di questi disturbi, non sarà più necessario, o persino desiderabile, limitare i nostri schemi diagnostici a fenomeni descrittivi e ateoretici, e potremo mirare a una comprensione arricchita della patologia della personalità, a migliori trattamenti e a linee guida per la prevenzione.

Nel secondo capitolo del Trattato dei disturbi di personalità sono descritti i modelli e le teorie della personalità: le teorie psicodinamiche con particolare riferimento ai contributi di Kernberg, le teorie cognitive di Beck e Young, il modello Five-Factor, sono prese in considerazione le prospettive biologiche e i sistemi neurali con riferimento a Cloninger e al suo modello a due domini (temperamento e carattere) e vengono descritte ricerche che misurano la trasmissione genetica dei tratti e dei comportamenti di personalità. Infine vengono descritti i modelli integrativi, il modello socio-evolutivo di Millon, la teoria interpersonale di Lorna Benjamin, chiamata Structural Analysis of Social Behavior, il modello dei domini funzionali di Westen.

Molto spazio nel Trattato dei disturbi di personalità è riservato al modello dimensionale della sezione III del DSM 5, non solo con il capitolo di chiusura e con l’appendice che riporta integralmente la sezione, ma già dal terzo capitolo, in cui si fornisce una panoramica della nozione di “compromissione fondamentale” nei disturbi di personalità e si descrive la storia di questo concetto e della sua affermazione proprio nel modello della Sezione III del DSM-5. Un’ampia parte del capitolo è dedicata alle ricerche che possono essere d’aiuto per esprimere con più precisione le caratteristiche di questo concetto e dimostrarne la potenziale validità e utilità, insieme ad alcuni esempi clinici in cui le modalità disfunzionali riguardano le categorie di identità, autodirezionalità, empatia e intimità.

Il quarto capitolo tratta il ruolo dell’attaccamento. Il progredire della comprensione sulla connessione tra sviluppo cerebrale e prime esperienze psicosociali ha reso evidente che il ruolo evolutivo della relazione d’attaccamento va ben oltre il garantire una protezione fisica al bambino e modella lo sviluppo della personalità.

La teoria dell’attaccamento viene sempre più considerata come un significativo supporto teorico alla comprensione e alla cura dei disturbi di personalità.

Negli ultimi 30 anni si è assistito a un rapido aumento della conoscenza riguardo alla neurobiologia dei substrati cerebrali. Vulnerabilità biologiche modellate da disposizioni genetiche, unitamente ai traumi o ai vincoli provenienti dall’ambiente sono considerate nel quinto capitolo e discusse in relazione ai disturbi borderline, schizotipico, antisociale ed evitante. In particolare un aspetto che va rilevato è che il disturbo di personalità borderline è il disturbo che è stato più volte preso a riferimento nei vari capitoli. Ciò è spiegabile dal fatto che il borderline, tra i disturbi di personalità è quello più studiato.

Le principali dimensioni che sono prese in considerazione sono la regolazione emotiva e affettiva, la modulazione degli impulsi/dell’azione, la cognitività interpersonale/sociale e l’ansia connessa alle difese che ne contrastano le manifestazioni.

Nel sesto capitolo sono considerati una serie di studi che prendono in esame la prevalenza e i fattori socio-economici, socio-demografici e la compromissione del funzionamento.

Il capitolo successivo passa in rassegna i due modelli della patologia della personalità proposti dal DSM-5 – l’approccio categoriale della Sezione II derivato dal DSM-IV e il nuovo modello ibrido dimensionale-categoriale della Sezione III e prende in considerazione i temi relativi alla valutazione, alla diagnosi e alla diagnosi differenziale.

Benché l’interazione clinico-paziente possa essere un’occasione di osservazione utile e obiettiva, gli autori raccomandano di essere cauti nell’interpretarne la significatività, e invitano a cercare di integrare questa informazione in un quadro complessivo più ampio del bpersonalità del paziente.

Diversi strumenti sono proposti per il processo di valutazione inventari self-report, interviste semi-strutturate, il colloquio clinico su un inventario di caratteristiche psicopatologiche, l’utilizzo di informant.

Il Decorso e l’esito sono trattati nell’ottavo capitolo del Trattato dei disturbi di personalità dove si sottolinea che i PD dimostrano solo una moderata stabilità e, nonostante siano associati genericamente a esiti negativi, possono migliorare nel tempo e beneficiare di specifici trattamenti, anche se non sono molti gli studi longitudinali prospettici con valutazioni ripetute nel tempo che possono far comprendere in modo più specifico il decorso: Children in the Community Study (CICS) Brook et al., 2002; McLean Study of Adult Development (MSAD) Zanarini et al., 2003; Collaborative Longitudinal Personality Disorders Study (CLPS) Gunderson et al., 2000.

Trattato dei disturbi di personalità – Il trattamento

La seconda parte del volume riguarda il trattamento e si apre con un capitolo di Donna S. Bender sull’alleanza terapeutica, fattore che si è distinto nella letteratura empirica come il più solido predittore dell’outcome delle psicoterapie. Indipendentemente dal modello di trattamento adottato con i pazienti con disturbi di personalità, è evidente che prestare attenzione all’alleanza è della massima importanza. La relazione con questi pazienti va attentamente monitorata e le dinamiche accuratamente gestite perché il paziente possa sperimentare un’esperienza emozionale correttiva.

Nel capitolo 10 del Trattato dei disturbi di personalità sono riassunti i principali concetti psicoanalitici e psicodinamici e descritti i differenti modelli di psicoterapia psicodinamica applicati al trattamento dei disturbi di personalità.

Al di là delle differenze, all’interno della cornice psicoanalitica i principi di intervento sono: 1) l’interpretazione; 2) l’analisi del transfert; 3) un atteggiamento tecnicamente neutrale; e 4) l’utilizzo delle proprie risposte controtransferali.

Il capitolo 11, curato da Martin Bohus, è invece dedicato alla psicoterapia cognitivo-comportamentale. Offre una guida al trattamento dei pazienti ed è basato principalmente su concetti evidence-based derivanti dagli approcci della terapia dialettico-comportamentale e dell’Acceptance and Commitment Therapy.

J. Christopher Fowler, John M. Hart hanno curato il capitolo seguente del Trattato dei disturbi di personalità che illustra le terapie cognitivo-comportamentali manualizzate, incluso l’approccio basato sull’accettazione (Gratz, Gunderson, 2006), che si sono dimostrate efficaci nel ridurre la sintomatologia associata ai disturbi di personalità, con particolare riferimento al disturbo borderline.

In successione i capitoli seguenti prendono in considerazione le psicoterapie di gruppo, familiari e di coppia con esemplificazioni di orientamenti teorici e tecnici diversi e con l’illustrazione di aspetti che facilitano o viceversa ostacolano il trattamento; l’approccio psicoeducativo rivolto al paziente e ai suoi familiari con riferimento alle applicazioni più note (i gruppi multifamiliari secondo l’approccio di Gunderson, le applicazioni della DBT, dello STEPPS e del Family Connections); i trattamenti somatici con riferimenti agli studi metanalitici sui trattamenti farmacologici; il trattamento collaborativo che prevede l’intervento di più di un professionista in un approccio alla cura integrato caratterizzato da confronto, collaborazione affinché l’intervento sia coerente e unitario ed eviti di produrre “scissioni”; ed infine i problemi legati ai confini del setting con illustrazioni esemplificative di superamento o violazione in relazione alle diverse patologie.

Trattato dei disturbi di personalità: problemi, popolazioni e setting particolari

La parte terza del volume si occupa di problemi, popolazioni e setting particolari e si apre con il capitolo 18 sulla valutazione e gestione del rischio suicidario. Sono illustrati protocolli di terapia e gestione che possono ridurre il rischio di suicidio nei pazienti con disturbi di personalità che spesso fanno ricorso a comportamenti anticonservativi. Gli autori evidenziano che i risultati degli studi sui fattori di rischio suggeriscono che eventi di vita stressanti e alcune comorbilità psichiatriche possono essere fattori di rischio modificabili per ridurre un’esacerbazione acute-on-chronic del rischio suicidario.

Il diciannovesimo capitolo riporta molti studi che hanno indagato la comorbilità tra disturbi di personalità e uso di sostanze. La letteratura sulla doppia diagnosi è nutrita e prende in considerazione sia le principali questioni diagnostiche, sia i modelli eziopatogenetici e di trattamento, sia la ricerca genetica più recente su questi disturbi.

Questa parte del Trattato dei disturbi di personalità si chiude con due capitoli, il primo sul disturbo antisociale su cui quasi assenti sono i modelli di trattamento risultati efficaci a verifiche empiriche e il secondo sui disturbi di personalità trattati in un contesto medico con la descrizione di proposte tecniche di gestione di questi pazienti in contesti terapeutici sia in fase di acuzie, sia per trattamenti di lungo corso.

Il Trattato dei disturbi di personalità si chiude con alcune riflessioni sulle direzioni future. Il capitolo 22 si concentra su due aspetti del disturbo borderline di personalità (Borderline Personality Disorder, BPD): i problemi relativi all’interazione sociale e alcune forme di alterazione percettiva (percezione del dolore e dissociazione), con l’intento di mostrare in quale modo le attuali metodologie delle neuroscienze comportamentali e degli approcci traslazionali possano essere d’aiuto per capire i meccanismi sottesi a questa psicopatologia e, in ultima istanza, per contribuire a migliorare i trattamenti destinati ai pazienti con BPD.

L’ultimo capitolo è incentrato come già accennato sulla sezione III del DSM-5.

Il libro di Oldham, Skodol e Bender, Trattato dei disturbi di personalità, offre un’ampia panoramica sui disturbi di personalità utile sia per chi alle prime armi ha bisogno di approfondire temi specifici, sia a terapeuti più esperti che trattano da anni questo tipo di disturbi.

Il testo riporta ampi riferimenti alla letteratura relativa ad aspetti clinici e neurobiologici, forse l’eterogeneità degli autori non ha permesso un’articolazione più dettagliata di alcune parti, soprattutto di quelle che riguardano il trattamento. Va detto che nell’economia del lavoro, composto di oltre settecento pagine, forse sarebbe stato eccessivo dilungarsi su alcuni temi, anche perché proporre facili soluzioni ai clinici che trattano questa popolazione impegnativa sarebbe fuorviante, troppe sono le questioni contrastanti opportunamente trattate in modo esplicito e chiaro dal testo.

Un libro che contribuisce a migliorare la comprensione di questi disturbi, e dei rilevanti progressi scientifici compiuti negli ultimi anni, la cui lettura va consigliata ai professionisti della salute mentale.

Congresso dell’EABCT 2017: il report dalla prima giornata

Il 47esimo congresso della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) inizia mercoledì 13 settembre con il discorso introduttivo del principale organizzatore della manifestazione, Mehmet Sungur, Professore di Psichiatria all’Ospedale Universitario di Marmara, Istanbul. Non è un momento del tutto felice per Sungur, che avrebbe voluto inaugurare il congresso nella sua Istanbul, sede originaria del congresso. Le preoccupazioni per i rischi del terrorismo internazionale hanno suggerito lo spostamento a Lubiana in Slovenia. 

Mehmet Sungur - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Mehmet però si lascia alle spalle le difficoltà del mondo e si concentra su quelle della psicoterapia cognitivo-comportamentale -meno drammatiche ma altrettanto confuse- e tenta di elencarle concentrandosi sulla principale, che ormai si ripropone uguale a tutti gli ultimi congressi:

“la terapia cognitivo comportamentale conserva ancora una sua identità coesa e coerente oppure è diventata un ombrello troppo ricco di contenuti nel quale si raccoglie un po’ di tutto, accomunato solo da una generica attinenza con l’attività mentale?”

Mehmet non risponde ma ha il merito di porre la domanda e non sarà l’ultima volta in questo congresso.

Il 47esimo Congresso EABCT

Il giorno dopo iniziano i lavori del congresso. La prima relazione a cui assisto è di Keith Dobson, professore di psicologia a Calgary, Australia. Presenta un modello cognitivo classico per il trauma. Nulla di nuovo, ma ha il merito di ricordarci che la psicoterapia cognitivo comportamentale è ancora il trattamento più efficace per le condizioni post-traumatiche insieme all’eye movement desensitisation and reprocessing (EMDR), trattamento emergente che ha affiancato la terapia cognitivo-comportamentale per il trauma ma non la ha mai scalzata.

Keith Dobson - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

 

Dopo Dobson, ascolto Arnoud Arnzt, lo psicologo professore dell’Università di Amsterdam che da anni porta avanti la cosiddetta Schema Therapy, terapia specifica per i disturbi di personalità. I dati di Arnzt sono impressionanti. Secondo i suoi dati la Schema Therapy è definitivamente il trattamento più efficace per i disturbi di personalità. Dati rigorosi, frutto di una meta-analisi faraonica che raccoglie i dati di 72 studi effettuati su 4463 pazienti dal 1990 a oggi. La Schema Therapy, tra le nuove terapie, è quella che mantiene la parentela più stretta con la psicoterapia cognitivo-comportamentale classica. All’intervento razionalista classico questa nuova psicoterapia unisce una forte componente emozionale ottenuta attraverso interventi di tipo immaginativo, guided imagery, e relazionale, self-disclosure e re-parenting, individuati dallo stesso Arnzt come gli interventi decisivi.

Arnoud Arntz - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Una terapia a elevata temperatura emotiva, in cui il terapista svolge una funzione di forte ri-genitorializzazione (re-parenting) per così dire. Con alcuni limiti, certo, ma anche con una vicinanza e un coinvolgimento forti.
Non basta però: c’è anche un altro elemento. Che è il grande impegno tecnico. La Schema Therapy è una terapia da eseguirsi in maniera molto meticolosa, con interventi descritti in maniera formalizzata e replicabile ed esercizi dall’esecuzione minuziosa e dal timing controllatissimo. Secondo Arnzt, questo aspetto tecnico è centrale e i terapisti migliori sono proprio i più tecnici, quelli che più si impegnano nell’apprendimento e nell’esecuzione fedele dell’intervento. Il dato empirico più stupefacente riportato da Arnzt è che la tecnica migliora e predice la relazione terapeutica, dato contro-intuitivo ma -secondo Arnzt- corroborato da conferme empiriche.

Psicoterapia ed esposizione comportamentale


Nel pomeriggio assisto a un intervento di Adam Radomsky della Concordia University di Montreal su come rendere la psicoterapia cognitivo-comportamentale più accettabile e amichevole. Secondo Radomsky il problema non è il paziente, ma il terapista. Siamo noi che abbiamo difficoltà a eseguire la nostra terapia, non il paziente a reggerla. Ci annoiamo, ci confondiamo e spesso  nascondiamo le nostre difficoltà dietro lo schermo della relazione con il paziente. Sosteniamo di non eseguire i protocolli per non danneggiare il paziente, per non renderlo meno motivato, meno partecipe. Insomma, per non danneggiare la relazione terapeutica. La realtà è che siamo noi quelli che fanno fatica e confusione.

Adam Radomsky - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Per rimediare, Radomsky propone degli accorgimenti che rendano la nostra psicoterapia più digeribile. Per esempio, visto che l’esposizione comportamentale è una delle nostre bestie nere (è tanto più bello chiacchierare col paziente della sua storia personale) Radomsky suggerisce di inserire negli interventi di esposizione degli aspetti rassicuranti che mantengano in parte quei safety behaviours che lo aiutano a controllare l’ansia, chiamandoli supportive approaches. Che è interessante, anche se è in contraddizione con l’assunto iniziale: se siamo noi terapisti ad avere problemi con l’esposizione comportamentale forse varrebbe la pena chiedersi quali siano i nostri safety behaviours (pardon, ora si chiamano supportive approaches) che ci aiuteranno a eseguire quei maledetti interventi di esposizione che tanto ci mettono a disagio.

Dibattito: Il futuro della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Sungur Hayes Salkovskis Hofmann Leahy - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Infine c’è il dibattito. Dibatte un quartetto di voci: un esponente della psicoterapia cognitivo comportamentale classica, Paul Salkovskis, un esponente dei nuovi sviluppi, Steven Hayes, e due studiosi posizionati in mezzo tra conservazione e innovazione, Robert Leahy e Stefan Hofmann. Moderatore Mehmet Sungur, ancora lui. Chiaramente è li per la sua esperienza di gestione del rischio di terrorismo ai congressi. Il problema è che Hayes e Salkovskis battagliano da una ventina d’anni sul futuro del paradigma cognitivo, e lo fanno in maniera intensa, sfiorando spesso l’offesa personale. Dieci anni fa, al congresso di Helsinky, l’offesa personale non la sfiorarono ma la centrarono in pieno e finì con Hayes con gli occhi lucidi, tanto era rimasto scosso dal violento sarcasmo di Salkovskis. Ancora una battuta dell’inglese e una lagrima gli avrebbe rigato le guance.

Questa volta Hayes si emoziona ma non piange. Rinnova le sue accuse a Salkovskis. Va detto che sono pugni duri. Hayes gli imputa, e con lui imputa l’intera vecchia guardia dei teorici della psicoterapia cognitivo comportamentale, da Beck a Clark, di aver creato un modello che funziona clinicamente ma che è teoricamente debole perché debole è la conoscenza della psicologia di base di questi vecchi teorici e clinici. Un modello che si funziona, ma per ragioni diverse da quelle pensate da Beck e Clark.
Salkovskis non può non rispondere duramente, dicendo che queste accuse sono ridicole. Reazione inevitabile: Hayes ha appena dato dei cialtroni a Beck, Clark e Salkovskis. Con l’aggravante che Clark e Salkovskis sono psicologi, e quindi doppiamente cialtroni. Almeno Beck si salva essendo psichiatra e medico. Qualche semplificazione teorica al patriarca Beck la si può perdonare: la sua formazione non è psicologica. Non Clark e Salkovskis che, da psicologi, passano per due rintronati che non hanno ancora capito la materia che hanno studiato all’Università. Eppure è quello che sta dicendo Hayes.

Steven Hayes - Paul Salkovskis - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA
Steven Hayes e Paul Salkovskis

Dopo il “ridicolo” fucilato da Salkovskis però lo scontro si sgonfia. Il colpo Salkovskis peraltro non lo ha sparato a Hayes ma alle sue accuse; stavolta niente attacco ad personam. C’è un altro colpetto beffardo di Hofman che da del “carismatico” a Hayes (sembra un elogio ed è un offesa) mentre Lehay, che è un piacione, si affanna a metter pace. L’urto frontale infine non avviene, ormai i due contendenti sono stanchi da anni di duelli. Semplicemente prendono atto di parlare due linguaggi troppo diversi e incompatibili. Va detto finalmente: i nuovi sviluppi sono qualcosa di filosoficamente altro rispetto alla psicoterapia cognitivo-comportamentale classica. Il nuovo paradigma “processuale” –volgarmente chiamato di “terza onda” (la prima essendo stato il comportamentismo e la seconda la psicoterapia cognitivo-comportamentale classica)- ha tagliato le radici con il passato. Non è uno sviluppo ma una rivoluzione.

Ci pensa Mehmet Sungur però a sganciare la bomba terroristica:

“per diventare terapisti processuali la formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale classica, quella che ancora oggi tutti gli studenti seguono nei loro primi passi, è ancora necessaria?” La domanda è talmente gravida di conseguenze che finisce per rimanere senza risposta.

Mehmet rilancia temerario (fermatelo!): siamo ancora uniti o ci stiamo dividendo? Stavolta rispondono tutti e quattro: rimaniamo uniti, per carità! Lo dice perfino Hayes. Lo dicono con una faccia un po’ così, un po’ confusi e stupidi come nel finale primo dell’Italiana in Algeri di Rossini, con un’espressione un po’ così come in una canzone di Jannacci.

Trauma e alimentazione: il nesso nascosto nel cibo – Report dal seminario con Natalia Seijo

Nelle corso delle due giornate di formazione sul trattamento dei disturbi del comportamento alimentare in relazione al trauma, la dott.ssa Natalia Seijo ha alternato la spiegazione di contenuti teorici, la trasmissione di elementi di pratica e di strumenti terapeutici e la visione e discussione di casi clinici esemplificativi.

Di Valentina Congedo

Il trattamento della Dissociazione Traumatica. I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” è un corso di formazione pratica avanzata organizzato da Area Trauma e dal Centro Clinico Crocetta. Si è svolto a Torino a partire dal 21 gennaio 2017 e ha offerto cinque preziosi week end di approfondimento teorico e pratico tenuti da esperti di trauma e dissociazione.

Il master si è concluso nel fine settimana del 9 e il 10 settembre con il seminario “Trauma e alimentazione: il nesso nascosto nel cibo” , con la partecipazione della Dott.ssa Natalia Seijo, psicoterapeuta specializzata in psicosomatica e nel trattamento dei disturbi alimentari, dei traumi complessi e della dissociazione traumatica, EMDR Europe Supervisor, terapeuta e trainer sensorimotor.

Nelle corso delle due giornate di formazione, la dott.ssa Seijo ha alternato la spiegazione di contenuti teorici, la trasmissione di elementi di pratica e di strumenti terapeutici e la visione/discussione di casi clinici esemplificativi.

L’atmosfera accogliente ha permesso agli uditori di fare domande di approfondimento o di rapido confronto sui propri pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare. Le tematiche del trauma e della dissociazione nei disturbi alimentari sono stati affrontate con efficacia e con la semplicità che deriva da una grande professionalità, fatta di preparazione ed esperienza e che contrasta con la difficoltà e la fatica del lavoro psicoterapeutico. La vitalità e l’energia della dott.ssa Natalia Seijo e della sua collaboratrice possono essere “strumenti” ulteriori per combattere l’alone mortifero e autodistruttivo che accompagna i disturbi del comportamento alimentare.

Un rapporto disturbato con il cibo è pericoloso, perchè sembra prevalere sull’istinto primario dell’essere umano, quello di sopravvivere; considerare il proprio corpo come un nemico o come l’arena in cui si combatte una sanguinosa battaglia tra parti del Sè, è angosciante. Eppure è ciò che accade nel mondo interno delle persone che soffrono di un disturbo alimentare con aspetti dissociativi.

Per comprendere come si struttura una personalità con queste difficoltà, è necessario indagare molto indietro nel tempo, agli albori della storia di vita. Natalia Seijo ha ribadito diverse volte, nel corso delle due giornate, che il disturbo alimentare non ha esordio quando si manifestano i sintomi, ma molto tempo prima. Durante l’infanzia, la persona struttura un sistema psichico che sarà il teatro di un disturbo alimentare conclamato o meno, o che una situazione o una fase di vita stressante potrà far precipitare in sintomi stabili o discontinui. La platea ha sentito la dott.ssa Seijo che paragonava ripetutamente il mondo interno di un individuo a un carciofo, composto di strati, strati e strati. Il trattamento ideale delle persona con DCA è quello che procede dagli strati più esterni, ossia dai sintomi, a quelli più profondi, con il giusto ritmo. La psicoeducazione e un’alimentazione almeno minima sono la condizione necessaria ma non sufficiente di un trattamento terapeutico efficace.

L’attaccamento e la diagnosi di disturbo alimentare

Trauma e alimentazione - Seminario con Natalia Seijo - 2

Nell’assessment psicodiagnostico, la raccolta dell’anamnesi deve iniziare dalla storia di attaccamento verso i principali caregiver, al fine di individuare il tipo di attaccamento del paziente.

La storia di attaccamento determina la strutturazione di una base sicura (Bowlby, 1973), ossia di un insieme di risorse interne, strategie o processi utili ad autoregolarsi, far fronte al dolore e calmarsi. In età precoce, la base sicura di un bambino sono i suoi caregiver; successivamente, la base sicura sarà costituita dalla loro interiorizzazione, ossia dall’aver fatto proprie le loro modalità di rispondere ai suoi bisogni.

Da adulti, l’attivazione della rappresentazione interna della base sicura può avvenire attraverso il richiamo di pensieri, immagini e comportamenti confortanti. Nella persona che soffre di un disturbo del comportamento alimentare, si è strutturata una strategia disfunzionale di rassicurazione attraverso il cibo; la relazione con il cibo, in diverse modalità, è usata come risorsa per attivare la base sicura e calmarsi.

Gli stili di attaccamento in relazione ai disturbi alimentari

L’esame dello stile di attaccamento rivela che esso è frequentemente di tipo insicuro. L’articolazione tra i criteri diagnostici del DSM5, il tipo di attaccamento e il profilo di personalità permette di fare la corretta diagnosi di disturbo del comportamento alimentare.

Trauma e alimentazione il nesso nascosto nel cibo - Report dal seminario con Natalia Seijo - SLIDE 1

 

Natalia Seijo ha affermato che i terapeuti che voglio occuparsi di persone che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare, devono conoscere i concetti di trauma e dissociazione. Durante l’assessment, se emerge un attaccamento disorganizzato, è probabile che nell’eziopatogenesi giochino un ruolo fondamentale il trauma e le difese dissociative.

Nella storia precoce di relazione di un individuo, la base che crea un attaccamento disorganizzato è caotica, frequentemente minacciosa e spaventosa, a tratti amorevole ma in modo imprevedibile; nonostante ciò, essa resta la base “sicura”, poiché è necessaria per sopravvivere. Questa modalità di attaccamento ha come risultato la dissociazione del mondo interno. La sopravvivenza emotiva dipende dalla divisione interna, come specchio della dissociazione interna alla figura di attaccamento.

Nei disturbi del comportamento alimentare, la dissociazione può essere presente a diversi livelli: è una difesa naturale che si attiva rapidamente quando la persona si sente in pericolo; può essere funzionale in un episodio traumatico circoscritto, ma non se si cronicizza come principale o più frequente meccanismo di protezione. In tali casi al disturbo alimentare si associa un disturbo dissociativo dell’identità, in cui una parte del mondo interno ha un disturbo alimentare.

Se non correttamente diagnosticato, il grado di dissociazione può generare problemi nel trattamento terapeutico.

La divisione del mondo interno nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare

Nella sua esperienza clinica, Natalia Seijo ha individuato parti di personalità ricorrenti nel mondo interno delle persone con un disturbo del comportamento alimentare con aspetti dissociativi. Spesso, queste persone non hanno vissuto l’infanzia, sono state trattate come piccoli adulti fin da quando hanno memoria; sono state forzate ad assumersi responsabilità che non spettavano a loro. Il mondo interno ha dovuto usare la dissociazione per crescere più rapidamente in una parte e uno sviluppo accelerato non può essere salutare. La bambina non scompare, ma resta in una parte, come bloccata nel tempo.

 

La bambina che non è mai stata

La dott.ssa Seijo chiama la parte precocemente adultizzata “La bambina che non è mai stata”: è quella parte che cresce troppo velocemente e che affronta tutte le richieste provenienti dall’ambiente.

È la parte più danneggiata che genera più difese. Contiene il dolore e la frustrazione per aver dovuto imparare a fare le cose da sola. Ha imparato ad autoregolarsi e autocontrollarsi attraverso il cibo. È la parte dominante nel mondo interno delle persone con anoressia nervosa.

È una parte controllante, sfiduciata, spesso alimentata dalla comorbilità con un disturbo ossessivo di personalità e un disturbo dell’immagine corporea.

La bambina che non ha potuto crescere

La parte infantile che rimane bloccata nel tempo è chiamata “La bambina che non ha potuto crescere”. La raccolta anamnestica svolta con la famiglia lascia emergere l’immagine di un bambino o una bambina precoce, con comportamenti non appropriati all’età. Ha sviluppato la convinzione  che “si ha bisogno di essere malati per ottenere attenzione” e attraverso il cibo cerca di essere vista. È la parte dominante nel mondo interno di chi soffre di bulimia. Ha appreso che il cibo è il miglior modo per compensare rabbia, tristezza e frustrazione col cibo. La vita emotiva è disregolata e spesso si riscontrano comportamenti impulsivi.

La critica patologica

La “critica patologica” è il primo aspetto del Sè con con cui Natalia Seijo consiglia di lavorare nel trattamento dei DCA; è una parte aggressiva, spesso associata alla “Bambina che non è mai stata”.

Nella storia di vita del paziente, “la critica patologica” ha avuto una funzione utile, quella creare uno schermo protettivo agli attacchi e al disprezzo proveniente dal mondo esterno. Però essa blocca l’autostima del paziente e filtra la realtà attraverso una prospettiva negativa.

Il sè rifiutato

Un’altra parte identificata è il “Sè rifiutato”: essa è la parte del mondo interno che contiene la distorsione dell’immagine corporea, quell’immagine di Sè che la persona non vuole tornare a essere mai più.

Il sè nascosto

Una delle ultime parti a cui si può accedere nel lavoro terapeutico è il “Sè nascosto”: protegge il sistema interno non mostrandosi, perché farlo, in passato, è stato pericoloso. È una parte che somatizza ciò che non può esprimere in altro modo. Si sviluppa presto nella vita; le emozioni dominanti in essa sono paura, umiliazione e vergogna.

Il sè cicciottello

Il “Sè cicciottello” è la parte dissociativa che si mostra più spesso nel binge eating e nell’iperfagia; è collegata al sovrappeso, diventa impressa nel sistema interno e, anche se  la persona dimagrisce, continua a esistere ed è resistente al cambiamento.

 

Trauma e alimentazione: linee guida sulla terapia

Come linee guida per la terapia, Natalia Seijo afferma che il lavoro sul “Sè rifiutato” è l’ultima parte della terapia. Prima bisogna aver calmato “La critica patologica”, poi “La bambina che non è mai stata”, successivamente “La bambina che non è mai cresciuta” permettendole di evolvere e integrandola nel sé adulto. Lavorando con il “Sè rifiutato”, emergerà anche il “Sè nascosto”.

Il terapeuta deve riconoscere il significato che il paziente dà al proprio disturbo alimentare, così come rispettare la struttura dissociativa che lo ha mantenuto.

Questa organizzazione psichica è il modo in cui il paziente è stato capace di dare a ogni parte del sè qualcosa che esso richiedeva senza entrare in un conflitto insopportabile. È stata funzionale alla sopravvivenza. Per essere una figura di attaccamento sostitutiva, il terapeuta deve essere comprensivo e compassionevole rispetto a questo. Per essere d’aiuto, dovrà essere validante rispetto all’esperienza di un paziente che ha sviluppato un rapporto disfunzionale col cibo, e aiutarlo a trovare una strategia stabile alternativa di attivazione delle sicurezza interna.

 

L’utilizzo del test MMPI-2 nella valutazione della genitorialità

In ambito forense, il MMPI-2 è uno dei test clinici più frequentemente utilizzato, in molti casi giudiziari scelto per fornire informazioni utili sulla personalità dei protagonisti, laddove i fattori psicologici siano ritenuti utili alla soluzione del caso. Così come i test grafici ed i test proiettivi, il MMPI-2 non è stato costruito a scopo peritale, ma rappresenta uno strumento clinico ad esso adattato.

Rachele Recanatini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

MMPI: il questionario di valutazione della personalità

Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) è un questionario di autovalutazione che ha lo scopo di individuare le caratteristiche strutturali della personalità e la presenza di eventuali disturbi psicologici. È costituito da 567 item che comportano risposte dicotomiche, di tipo vero/falso. Può essere facilmente somministrato sia a singoli individui, sia a gruppi di persone, ed il completamento richiede circa un’ora e trenta minuti per gli adulti.

Le domande sono scritte in modo da essere comprese da persone con almeno sei anni di scolarità. Le risposte agli item di ciascuna scala vengono poi annotate e registrate su un foglio di profilo, mentre lo scoring può essere effettuato manualmente o usando programmi computerizzati che lo valorizzano, riducendo gli errori e permettendo un minor dispendio di tempo e di energie da parte del somministratore. Inoltre, l’oggettività dell’assegnazione dei punti assicura attendibilità nell’elaborazione del protocollo dei test, soprattutto utilizzando i code-type per l’interpretazione, elemento particolarmente importante in ambito giuridico.

MMPI-2: la versione aggiornata dell’ MMPI

Il MMPI-2 è la forma aggiornata del MMPI, destinata a persone con più di 18 anni di età. Il test nella sua forma definitiva ha mantenuto le 10 scale cliniche e le scale di validità tradizionali, a cui sono state aggiunte 3 scale di controllo (VRIN, TRIN, F-Back), 15 scale di contenuto ed alcune scale supplementari (Butcher et al., 2001). Le scale, empiricamente valutate, hanno un significato molto chiaro e stabile: un punteggio alto ad una particolare scala clinica viene associato statisticamente a determinate caratteristiche comportamentali, applicate oggettivamente alle persone che si sottopongono al test.

Il questionario fornisce quindi una descrizione valida e chiara delle problematiche, dei sintomi e delle caratteristiche personologiche dell’esaminato, espresse con un linguaggio clinico. I punteggi, inoltre, permettono di prevedere alcuni comportamenti o risposte a diversi approcci trattamentali e riabilitativi. Nello specifico, il questionario è composto da 10 scale cliniche, o scale di base, che coprono le tradizionali categorie psicopatologiche di riferimento: Ipocondria, Depressione, Isteria, Deviazione psicopatica, Mascolinità-Femminilità, Paranoia, Psicastenia, Schizofrenia, Ipomania, Introversione sociale.

I Punteggi T che vanno da 57 a 65 potrebbero indicare semplici aspetti caratteriali, mentre da 76 a 85 si presentano sintomi pervasivi, clinici ed onnipresenti, non situazionali. Il MMPI-2 è uno strumento che analizza tre livelli di validità, attraverso gli indici L (bugia cosciente), F (frequenza di patologia) e K (controllo delle scale inconscio), i quali ci dicono se il questionario risulta valido e quindi se si possa leggere, ancora prima del profilo clinico. Questo aspetto è molto importante in quanto nel MMPI la psicopatologia è valutata da ciò che dice il soggetto, quindi è fondamentale indagarne la validità rispetto all’immagine che la persona ha di sé. In ambito peritale si trovano costantemente MMPI non validi: quando L e K risultano superiori a 65 T ci indicano che l’individuo mente sapendo di mentire o mente per un meccanismo di controllo inconsapevole, effettuando una simulazione o dissimulazione di patologia; nel caso in cui l’indice F superi 85 T, unito alle scale di nevrosi (HS e HY) o di psicosi (PA e SC) superiori a 65 T, indica che il soggetto probabilmente non ha capito la consegna, in quanto sarebbe un paziente eccessivamente grave. Il test è considerato dubbio nel caso in cui, ad esempio, ci troviamo in ambito civile con una elevazione della scala L: la persona potrebbe offrire un’immagine positiva o negativa a seconda di ciò che vorrebbe ottenere, come analizzeremo più in dettaglio in seguito. In ambito peritale il test non si può risomministrare se non a distanza di circa un anno, per questo l’esperto potrà soltanto annotare che le difese risultano troppo elevate. Esistono inoltre le scale addizionali, che facilitano l’interpretazione delle scale di base ed approfondiscono la natura dei vari disturbi, e le scale di contenuto, che permettono di descrivere e predire diverse variabili di personalità.

L’utilizzo dell’ MMPI-2 in ambito forense

In ambito forense, il MMPI-2 è uno dei test clinici più frequentemente utilizzato, in molti casi giudiziari scelto per fornire informazioni utili sulla personalità dei protagonisti, laddove i fattori psicologici siano ritenuti utili alla soluzione del caso. Così come i test grafici ed i test proiettivi, il MMPI-2 non è stato costruito a scopo peritale, ma rappresenta uno strumento clinico ad esso adattato; attualmente sono pochi i professionisti che utilizzano strumenti specifici, i cosiddetti Forensic Assessment Instruments (Gulotta, Villata, 2002).

Il MMPI-2 valuta inoltre un certo numero di “atteggiamenti” di risposta della persona che si sottopone al test: ogni strumento self-report è infatti suscettibile di manipolazioni, siano esse a livello inconsapevole o conscio (Bagby et al., 2006). All’interno di un contesto forense, l’ordinanza del Giudice potrebbe portare un professionista psicologo ad utilizzare il test MMPI-2 durante il ricorso in giudizio per ottenere la collocazione prevalente o l’affidamento dei figli.

L’impiego dell’ MMPI-2 per la valutazione delle competenze genitoriali

L’introduzione della legge 54/20061 (Legge 8 febbraio 2006, n. 54: “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”) ha fornito nuove importanti indicazioni sulla disciplina dei rapporti e delle responsabilità dei genitori con i figli minori in occasione della rottura dell’unità familiare. Sempre più spesso, infatti, le situazioni di separazione conflittuale richiedono valutazioni psicogiuridiche di un esperto che viene chiamato dal Giudice per fornire un contributo tecnico utile, nella tutela del benessere psicofisico dei minori coinvolti, attraverso una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), indagine psicologica prevista dall’articolo 61 del Codice di Procedura Civile.

Il CTU ha il compito di valutare le competenze genitoriali delle parti in causa, allo scopo di rispondere al quesito inerente il miglior regime di affidamento e collocazione dei figli. È lo psicologo quindi che si deve esprimere, in qualità di esperto, riguardo la salute mentale ed emotiva del genitore, valutare i possibili problemi di adattamento e le questioni legate allo sviluppo dei bambini coinvolti. La capacità genitoriale rappresenta sicuramente un concetto molto complesso. I metodi e gli strumenti di valutazione della genitorialità sono molteplici, nell’intento di indagare i fattori individuali, familiari, sociali e dell’ambiente di vita, e le loro reciproche interazioni riguardo al funzionamento genitoriale (Di Blasio, 2005).

Nell’interesse primario del benessere del minore, uno degli aspetti da approfondire è rappresentato dalle caratteristiche personologiche del genitore, che possono essere valutate proprio attraverso la somministrazione del MMPI-2. Nello specifico, studi recenti hanno rilevato che gli strumenti ed i metodi di indagine che utilizza il CTU per la valutazione delle capacità genitoriali sono per il 22% il colloquio individuale, il 17% il colloquio di coppia ed il 16% il MMPI-2, al primo posto tra i test (Gulotta, 2016).

Dato il grande impulso all’utilizzo di questo questionario in alcuni studi è stato suggerito l’utilizzo di scale e di indici di validità sia standard che aggiuntivi per valutare ogni possibile distorsione nelle risposte (Posthuma e Harper, 1998). Come per ogni questionario di personalità, anche il MMPI-2 presenta punti deboli nel caso di somministrazione in ambito giuridico; in particolare, risulta ovvio come la motivazione dell’esaminato abbia effetti sulle risposte agli item, tuttavia questa è la ragione per cui sono state sviluppate le scale di validità: individuare la presenza di elementi motivazionali che possano invalidare il test (Pope et. al, 2006).

A questo punto, sembra corretto chiedersi in che modo siano da considerare tali scale durante lo scoring del questionario: è per questo che le valutazioni di personalità di genitori che si contendono l’affido familiare sono tra le più complesse che lo psicologo si può trovare ad affrontare. Nello specifico, ci sono due ordini di difficoltà: la qualità delle informazioni che si hanno a disposizione, spesso sospetta, e la mancanza di misurazioni appropriate in questo ambito. La sfida più difficile in ambito forense è valutare la credibilità dell’esaminato: il genitore che richiede l’affidamento del figlio potrebbe essere davvero valido e competente o semplicemente molto abile nel mentire.

Il Consulente Tecnico è spesso chiamato ad esprimere il suo parere sulla credibilità del genitore, come richiesto dal Giudice date le sue particolari conoscenze. Il MMPI-2 è il test più impiegato in ambito forense e spesso ci permette di identificare modalità di risposta non valide. Gli autori del test Hathaway e McKinley, infatti, già molti anni fa avevano tenuto in grande considerazione tale aspetto inserendo scale di controllo e di validità. All’interno di una consulenza tecnica in caso di separazione conflittuale, in particolare, i genitori tendono ad avere un atteggiamento difensivo, sostengono l’assenza di problemi e, allo stesso tempo, tendono a fornire informazioni particolarmente negative nei confronti dell’altro. Il professionista deve quindi esplorare attentamente ed approfondire tali questioni, adattando al suo scopo le misurazioni testistiche; i genitori che si sottopongono alla compilazione del MMPI-2 in un contesto valutativo per l’affido, presentano sintomi e comportamenti in modo diverso da chi, ad esempio, richiede la valutazione di un danno.

Risultati scientifici indicano come l’erronea autopresentazione positiva rappresenti un reale e costante problema nella compromissione della validità ai test nella valutazione della genitorialità (Carr et al., 2005). Gli studi condotti sull’argomento evidenziano che i genitori appaiono molto preoccupati per la loro immagine sociale, tendendo a produrre profili particolarmente difensivi, ovvero alti punteggi alle scale L o K (Butcher et al., 2000). La maggioranza dei genitori non raggiunge punteggi patologici alle scale cliniche ma almeno il 20% degli uomini ed il 23.5% delle donne presentano punteggi ben definiti al di sopra di 65 T; le scale che si elevano maggiormente sono la 6, Paranoia, in entrambi i genitori, la 9, Ipomania, per gli uomini e per le donne la scala 4, Deviazione psicopatica. Genitori che ottengono un profilo non difensivo e sincero spesso ammettono di sentirsi sospettosi e pieni di risentimento, dato il contesto di elevata conflittualità genitoriale. Ciò potrebbe causare l’elevazione della scala della Paranoia: in questo caso è importante dare minore rilevanza alle caratteristiche psicopatologiche della scala, ponendo l’accento sull’atteggiamento collaborativo, sulla sincerità e sui particolari vissuti emotivi che il genitore si trova a dover sperimentare (Marzioni, Sardella 2007). La scala L misura la tendenza a manipolare le risposte allo scopo di fornire un’immagine di sé eccessivamente virtuosa e positiva. Un punteggio T particolarmente elevato, sopra 65, evidenzia la mancata accettazione dei propri difetti, debolezze, piccole disonestà, allo scopo di porsi favorevolmente all’esaminatore; potrebbe altresì indicare una autopercezione eccessivamente ingenua ed una forte tendenza ad essere rigidi e moralisti. La scala K rileva lo stile difensivo nei confronti del test, una riluttanza nel fornire delle risposte personali, con punteggi superiori a 55 T in maniera moderata, al di sopra di 70 T marcatamente.

Nel contesto di valutazione genitoriale le scale di validità risultano elevate, ponendo un grave problema per l’interpretazione. Alcuni suggeriscono di considerare un profilo non valido con la scala L superiore a 70 T, dato il particolare contesto (Gitlin, 2005): circa il 90% di genitori che si contende la custodia di un figlio riporta punteggi pari o inferiori a 70 T. La media della scala K è di 59 T, superiore di un decile rispetto alla media standardizzata: ben il 90% dei genitori riporta un punteggio pari o inferiore a 68 T. All’interno del range 59-68 T si trovano persone intimidite, inibite, che mostrano autocontrollo ed efficacia personale. La tendenza a manipolare il test, in questo contesto, viene considerata solo per punteggi superiori a 68 T.

Queste nuove norme invitano a riflettere sull’adeguamento che i professionisti si trovano a dover operare nell’interpretare il MMPI-2 nel contesto di affidamento, per evitare che la grande maggioranza dei genitori appaia molto meno collaborativa di quanto sia in realtà e che una notevole quantità di informazioni vada persa a causa dell’invalidazione del profilo (Marzioni, Sardella 2007). Una forma estremamente manipolatoria della tendenza ad apparire virtuosi viene chiamata “faking good” o profilo dissimulatorio, in cui troviamo le scale L e K significativamente elevate, mentre la scala F al di sotto di 50 T; tali soggetti riportano solitamente profili bassi alle scale cliniche. Il profilo difensivo indica la tendenza a presentarsi in maniera irrealisticamente favorevole, ma meno apertamente rispetto al profilo precedentemente descritto. Le scale L e K sono elevate significativamente ma non in maniera estrema, per cui l’invalidazione del test deve essere indagata con cautela. Le scale cliniche dovrebbero comunque, a mio avviso, essere valutate con attenzione poiché potrebbero riflettere delle problematiche significative, al di sopra di 60 T.

Nel contesto di separazione conflittuale, è stata scoperta una interessante correlazione tra la Sindrome di Alienazione Genitoriale (PAS) e l’elevazione di particolari scale nel MMPI-2: studi scientifici hanno rilevato che i genitori alienanti mostravano punteggi più elevati rispetto alle scale che indicano l’utilizzo di difese primitive, mentre i genitori alienati erano simili al campione di controllo (Gordon et al., 2008). Nello specifico, i risultati indicano che le madri che mostravano comportamenti alienanti ottenevano punteggi significativamente elevati alla scala K e bassi alla scala F (Siegel, Langford, 1998).

Rispetto alla personalità dei genitori che si contendono l’affidamento dei figli, è stato riscontrato nella maggioranza dei casi un particolare codice (3-6/6-3) che rileva un rifiuto dei problemi personali accompagnato da una forte ambizione, un notevole bisogno di controllo, una repressione dei propri impulsi ostili ed aggressivi, ed una rigidità nei giudizi; sono persone che desiderano essere riconosciute socialmente e che spesso manifestano profondi sentimenti di sospettosità nei riguardi dei propri familiari, che non riconoscono la loro rabbia ed hanno scarsa consapevolezza emotiva. Il 12% dei genitori valutati riportano un codice (3-4/4-3) che indica invece un ipercontrollo, in particolare se la scala Pd è più elevata della scala Hy. La caratteristica principale è una intensa e persistente rabbia, una costante richiesta di attenzione ed approvazione, fino ad apparire falsi e disonesti; anche in questo caso è prevista la negazione dei problemi personali. Stessa percentuale per il codice (4-6/6-4) che rileva la presenza di immaturità e narcisismo, in persone passivo-dipendenti che richiedono attenzioni ma si infastidiscono di fronte alle richieste altrui. Spesso tale codice è associato ai conflitti coniugali: eccessiva superbia, astio e gelosia nei confronti dell’altro. I code type descritti sono considerati profondamente negativi rispetto alle capacità genitoriali, in quanto caratterizzati da estrema rigidità, scarso insight e difficoltà relazionali, unite a profonda negazione, emozioni di rabbia, frustrazione ed ostilità. La configurazione maggiormente negativa è determinata dalla correlazione con una elevazione della scala Deviazione psicopatica, che spesso descrive un atteggiamento materno che fornisce una base non sicura, con scarso accudimento e vicinanza affettiva, e della scala Paranoia, qualora si associ ad una forte identificazione con i figli, con estrema severità nel caso in cui le aspettative genitoriali vengano disattese. Tale caratteristica è riscontrata spesso in genitori di bambini che affrontano un trattamento psicologico.

In conclusione possiamo dire che l’uso del MMPI-2 viene ampliamente citato nelle cause civili di valutazione per l’affidamento dei figli minori e per la limitazione della potestà genitoriale, in cui l’obiettivo è stabilire gli accordi di affido o di visita del genitore nell’interesse dei bambini coinvolti. La valutazione genitoriale tramite il questionario MMPI-2 ci può offrire informazioni preziose, non solo nell’identificare problemi psicologici e comportamentali, ma anche caratteristiche che ci possono suggerire alcune specifiche capacità parentali.

La Cassazione riporta numerosi casi in cui l’affido non è stato riconosciuto a seguito di una serie di test psicologici, incluso il MMPI-2, da cui emergeva un profilo psicologico instabile e patologico di un genitore. Alla luce di quanto emerso, ritengo importante valutare i singoli punteggi delle scale di validità, ma soprattutto integrarli con le informazioni ottenute dall’elevazione delle altre scale, in un contesto di assessment in cui analizzare anche la storia di vita della persona, osservare il suo comportamento durante la somministrazione ed il suo grado di collaborazione complessivo. A mio avviso è fondamentale utilizzare un assessment di tipo collaborativo (Finn, 2009), ricordandosi che la valutazione è richiesta da un genitore e spesso subita in maniera involontaria dall’altro; già dal colloquio iniziale, infatti, lo psicologo riveste un ruolo decisivo nel riconoscere i bisogni dell’esaminato, nel fornire chiare informazioni sul percorso valutativo e nell’indagare le competenze di ciascun genitore.

Cyberbullismo: guida completa per genitori, ragazzi e insegnanti – Recensione

Il libro, scritto da Mauro Berti (Sovrintendente capo della Polizia di Stato e responsabile dell’Ufficio Indagini Pedofilia), Serena Valorzi (Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale esperta in dipendenze da comportamento) e Michele Facci (Psicologo ed esperto in pericoli e potenzialità di internet), delinea in modo chiaro, immediato ed efficace la natura del cyberbullismo, le sue differenze con il bullismo e le implicazioni psicologiche e legali di questo fenomeno sempre più in espansione.

 

Che cos’è il Cyberbullismo? Ha le stesse caratteristiche del bullismo o ci sono delle differenze?

Gli autori sostengono che avere la capacità tecnica di usare uno strumento informatico non significa saperlo usare responsabilmente. Per questo motivo la guida è indirizzata non solo ai genitori e agli insegnanti, ma anche ai ragazzi stessi, al fine di renderli consapevoli delle implicazioni che può avere una navigazione non responsabile, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo dei social network.

Il fenomeno del bullismo

Il fenomeno del bullismo venne studiato da Olweus negli anni ’70, a partire da situazioni problematiche che si erano create nelle scuole scandinave e che in poco tempo si diffusero in tutto il mondo, in particolare nei paesi anglosassoni. Oggi il bullismo viene definito come “Il fenomeno delle prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei soprattutto in ambito scolastico”.

Per parlare di vero bullismo è necessario che i comportamenti siano reiterati nel tempo e che i ruoli di vittima e carnefice siano ben definiti. E’ all’interno di questo contesto che si colloca il cyberbullismo.

Quando si parla di cyberbullismo

Si può parlare di Cyberbullismo quando le azioni nei confronti della vittima avvengono all’interno della rete, come un blog, un sito internet, un social network o ambienti virtuali come WhatsApp. Spesso la vittima non conosce l’identità del suo aggressore, che può nascondersi dietro un nickname o agire in anonimato. Il Cyberbullismo è una forma di violenza, che si manifesta in forme e modalità diverse: minacce e offese occasionali volte a fomentare discussioni (Flaming), utilizzo di comunicazioni illecite e aggressive reiterate nel tempo (Harassment), vere e proprie persecuzioni che limitano lo spazio di libertà della vittima (Cyberstalking), fino all’appropriazione illecita delle credenziali di accesso o di materiale fotografico che permetta all’aggressore di fingersi la vittima, allo scopo di ledere la sua reputazione (Impersonation).

Il furto di identità è considerato a tutti gli effetti un comportamento criminale. La forma più diffusa di cyberbullismo sembra essere il Cyberbashing o Happy slapping, che consiste nell’esercitare violenza sulla vittima da parte di una o più persone, mentre qualcuno sta video-registrando. Il contenuto del filmato viene poi caricato in rete. Anche questo è considerato un comportamento criminale perseguibile penalmente. Da questa breve descrizione ci si rende conto che il cyberbullismo non riguarda solo i giovani ma che è molto diffuso anche nel mondo degli adulti, in particolare in ambito lavorativo. Come dimostrato da una recente ricerca, anche i meno giovani (età media 34 anni) fanno abuso della rete, in particolare dei social network.

Per quanto riguarda i giovani, una ricerca ISTAT del 2014 ha mostrato la veloce diffusione del fenomeno nelle nuove generazioni. Dai dati emerge che il 5,9 % dei ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni che utilizzano il cellulare e/o internet, sono vittime di ripetute azioni vessatorie tramite e-mail, chat, sms o social network. Tra questi, le femmine sono le vittime più frequenti (7,1% contro il 4,6% dei maschi). Le condotte tipiche che caratterizzano il fenomeno sono le continue pressioni psicologiche, aggressioni, molestie, diffamazioni, furti di identità, trattamento illecito di dati personali e detenzione o diffusione di immagini erotiche minorili.

Negli ultimi anni i social network e il canale youtube hanno radicalmente modificato l’approccio al mondo di internet, che una volta veniva utilizzato soprattutto come canale di conoscenza e di approfondimento. Ciò a cui abbiamo assistito è la nascita di un mondo parallelo, che segue leggi proprie della comunicazione umana, che altera i confini della propria identità e stravolge le norme etiche che una volta regolavano la riservatezza e il rispetto della privacy, propria e altrui. Nel mondo dei social network tutto è immediato quanto immutabile, e se non si conoscono i suoi lati oscuri ci si può ritrovare facilmente intrappolati nelle sue dinamiche, nel ruolo di vittima o di carnefice.

Il libro, molto fruibile e divulgativo, contiene gli elementi necessari per un approfondimento generale di un fenomeno dalla crescita inquietante, non solo dal punto di vista psicologico ma anche per quanto riguarda gli elementi giuridico-legali. Infine, vengono proposti spunti di riflessione interessanti sugli aspetti di prevenzione, che possono risultare utili nella pratica educativa quotidiana.

Dopo l’Edipo: un impasse generazionale – Una lettura dell’opera Sette contro Tebe di Eschilo

Antigone nell’ opera Sette contro Tebe rappresenta quel passaggio importante che permette di rompere le eredità transgenerazionali disfunzionali, quella possibilità di creare un invento, al di là dell’oracolo e delle predestinazioni. L’inventum si inscrive nel registro della concepibilità e rimanda al non-ancora e non al già noto (Di Maria, 2000), quindi appartenente alla dimensione del futuro e capace di trasformare le ritualità generazionali; un tradimento se vogliamo, un tradimento che ha dignità di esistere, se ha la funzione di rompere tradizioni così forti da diventare cieche.

Dott.ssa Anna Ruggirello, Dott.ssa Maria Maddalena Viola, dott.ssa Linda Giusino

L’opera di Eschilo ” Sette contro Tebe “

Laio, figlio di Labdaco e discendente di Cadmo, fondatore della città di Tebe, viene accolto dal re Pelope e innamoratosi del figlio Crisippo lo rapisce portandolo a Tebe e abusando di lui. Il giovane Crisippo si uccide per la vergogna e Pelope scaglia una maledizione su Laio: se avesse avuto un figlio sarebbe stato ucciso per mano di questo. La maledizione si abbatte su Laio e sulla sua stirpe e, come racconta il mito, Laio viene ucciso per mano del figlio Edipo che sposa la madre Giocasta e diviene re di Tebe. Da questa unione incestuosa nascono i fratelli Eteocle e Polinice e le figlie Antigone e Ismene.

L’opera Sette contro Tebe di Eschilo narra dei figli di Edipo e della maledizione che portano e che li precede. Eteocle e Polinice si accordano per regnare sulla città di Tebe alternandosi un anno ciascuno ma improvvisamente Eteocle, allo scadere del proprio anno, non vuole più lasciare il regno al fratello Polinice che dichiara guerra alla sua città, alla sua patria, a suo fratello.

Il regista Marco Baliani, che ha diretto l’opera durante il 53° ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, in questa rivisitazione ha voluto porre l’accento sull’oracolo di Apollo che narra di una maledizione che si perpetuerà nel trigenerazionale: se Laio avesse procreato lui e la sua famiglia “avrebbero avuto sfracelli e morti” per almeno 3 generazioni.

I sette contro Tebe, la terza generazione maledetta giunge così al suo compimento: la guerra fratricida tra Eteocle e Polinice.
La scena si presenta spoglia di architetture teatrali e colpisce la presenza di un unico grande albero totemico, simbolo aggregativo della polis e della devozione della città agli Dei. Quello che sarà il campo di battaglia è ricco di piccoli trucioli di sughero con ai margini perimetrali sette blocchi di pietra bianca ad indicare le sette porte che delimitano l’ingresso nella città e che avvolgono tutto lo spazio interno che presto diverrà scenario di una guerra fratricida.

Tebe è dunque una città contesa tra eserciti fratelli, una città angosciata e colpita dagli esiti di una stirpe maledetta che ha peccato di hybris ed è stata punita.

Dall’alto di una casa, dietro la cavea del teatro greco di Siracusa, Eteocle parla alla sua gente paragonando Tebe ad una nave che non può affondare, in una sorta di grande rassicurazione per avere, tra i loro, una schiera di marinai-combattenti valorosi che proteggeranno Tebe e la sua gente. La paura è palpabile dall’inizio dell’opera, lo spettacolo si presenta subito in movimento, di corsa, in continua azione, l’arrivo del messaggero che annuncia l’imminente attacco dell’esercito nemico porta il panico nella popolazione. Eteocle appare come un re amato e preoccupato di rincuorare la popolazione ma anche un re deciso, che ammonisce le donne e la sorella Antigone per gli eccessi di paura che manifestano. Il messaggero annuncia che a ciascuna delle sette porte di Tebe l’esercito nemico assegnerà un guerriero e che alla settima e ultima porta ci sarà Polinice stesso a combattere. Eteocle ascolta il messaggero analizzando attentamente le caratteristiche di ciascun guerriero e scegliendo anch’egli fra i suoi uomini un guerriero all’altezza dello scontro. Su questo punto la tragedia si permea di riti e danze primitivi e aborigeni come primitiva e antica è la sorte maledetta di tale generazione, libertà stilistica già preannunciata dalla scelta dei costumi e delle maschere. Queste ultime, verranno indossate dai guerrieri tebani, e verranno fatte uscire, per essere mostrate al pubblico, da una struttura di bambù che evoca quella dell’uomo vitruviano di Leonardo, in ultime saranno appese su ogni pietra/porta. La struttura vitruviana composta da un cerchio e un quadrato, se letti in chiave simbolica, anche basandosi sulle riletture cristiane della teoria del microcosmo, rimandano allusivamente alla sfera divina quale perfezione di circonferenza, mentre il quadrato al mondo terreno. L’uomo, il valoroso scelto ne I sette contro Tebe, dunque, a metà tra divino e terrestre rappresenterebbe un elemento di raccordo capace di unire i due mondi; ciò farebbe di loro guerrieri eletti, pronti a combattere fieri e lontani dalla paura.

La contrapposizione tra maschile e femminile nell’opera Sette contro Tebe

Il contrasto tra il coro delle vergini tebane, tutto composto di donne, atterrito dalla paura e il re Eteocle, sprezzante della paura delle donne, riportano alla mente lo stereotipo di una fragilità più al femminile che non vale la pena di prendere in considerazione. Eteocle ammonisce così il coro, che cerca di dissuaderlo dalla sua posizione irremovibile, e lo esorta a non strepitare e a non dare consigli in “questioni maschili” come una guerra.

Una contrapposizione fra maschile e femminile ben definita in ruoli e responsabilità; contrapposizione che diventa cieca e inflessibile, e che suscita alcune domande nello spettatore: a cosa in effetti sembra non potercisi sottrarre? Alle ripetizioni dei mandati generazionali? In quale relazione ci si pone nei confronti dell’oracolo? Il vaticinio diventa un fatto assoluto e incommensurabile? I turbamenti di Eteocle potrebbero rappresentare indizi da dover interrogare?

L’impasse generazionale e relazionale

Nel proseguo la figura di Eteocle diviene maggiormente incerta: egli è un uomo solo nella sua decisione, sa che affrontando il fratello in battaglia entrambi troveranno la morte, teme d’altro canto di sfidare gli Dei cambiando il terribile destino che è riservato alla sua stirpe. Qui sembrerebbe dipanarsi quell’impasse generazionale a titolo di questo scritto. L’impasse sarebbe così rappresentato dalla continuità generazionale della maledizione che parrebbe impossibile da spezzare per la presenza di quel divino a cui probabilmente ci si può solo prostrare; ma si tratterebbe anche di un impasse relazionale nella impossibilità di mischiare quel maschile e femminile in una relazione che porti allo sviluppo per il tramite di un’interruzione generazionale non pensabile.

Lo stereotipo tra razionale e irrazionale in Sette contro Tebe

Nella rappresentazione il coro si presenta per nulla compatto e fisso come vuole la tradizione delle tragedie: è fatto, invece, da individui e individualità sempre in movimento. La dimensione di gruppalità presente nel coro spicca come elemento di vitalità, di emozionalità che, tuttavia, non può essere presa in considerazione perché al limite con l’irrazionale. Ecco il dispiegarsi di un secondo stereotipo; nel senso comune, infatti, si è soliti rendere due opposti dicotomici il razionale e l’irrazionale, dove quest’ultimo prende le vesti di istintualità, e come tale non ponderata. Le emozioni, a nostro modo di vedere arricchito di certo di cultura psicologica, rappresentano delle bussole per orientare la nostra attenzione e comprenderne la natura e quel turbinio sperimentato durante lo svolgersi della tragedia, misto di paura, adrenalina, terrore che emerge nelle danze corali de I sette contro Tebe, allertando sulla sorte avversa.

Nel coro spicca la figura di Antigone dominata dall’inquietudine. Ed ecco il presentarsi del turbamento ancora. La sorella di Eteocle si fa simbolo del femmineo con il suo corredo di carnale istinto di pace suggerendo il dolore corale come somma di individuali patimenti. Antigone ha un ruolo chiave nella tragedia, se immaginiamo la maledizione come un modello familiare che si tramanda, Antigone è colei che propone di spezzare la catena riflessiva che perpetua il comportamento adesivo ai modelli dei padri. Antigone esalta il valore del legame familiare, che seppur inquinato, sporco, maledetto può essere salvaguardato; propone di riscrivere il senso di quello che si è abbattuto sulla sua famiglia ma si scontra con l’amaro destino che presto si manifesterà “O dolore: dormirai nello stesso letto del padre”. Ma Antigone è una donna e nel momento in cui gli uomini della città devono partire per la guerra le donne devono tacere, la sua voce diventa un riverbero sterile dinanzi alla cecità indotta dai turbamenti emotivi.

La scena fa sentire forte la confusione, lo stato emotivo di una città sotto imminente assedio, grida di guerra, esplosioni tuonanti, cavalli galoppanti, urla, preghiere e gesti ossessivi di paura. Prevale una rappresentazione indiretta della realtà: una drammaturgia dell’invisibile, un combattimento virtuale, dove il nemico è presente nei suoni delle spade che fragorosamente si fanno sentire, negli scoppi di bombe, nei rombi di aerei ed elicotteri, a riecheggiare quell’Apocalipse now del 1979 diretto da Francis Ford Coppola e ancora attuale negli ultimi avvenimenti riguardanti la Siria e i paesi limitrofi.

Antigone: il personaggio in Sette contro Tebe che rompe le eredità transgenerazionali disfunzionali

L’arrivo del messaggero annuncia la morte dei due fratelli e che il nuovo re di Tebe, Creonte, ha deciso di dare sepoltura solo ad Eteocle. Ancora una volta la voce saggia e ribelle di Antigone irrompe nella scena sfidando tale decisione, sfidando le leggi della città e il perpetuarsi del dolore nella sua stirpe e nella sua generazione. Antigone rivendicando la sepoltura per entrambi i figli di Edipo, valorizza ancora una volta il potere del legame affettivo, della relazione: “C’è un potere tremendo nell’essere nati dalle stesse viscere, dalla stessa madre sventurata e dallo stesso padre infelice. …anima mia…il cuore nato da una stessa stirpe ti unisca, viva, ad un morto”. Antigone dunque decide di seppellire anche da sola il fratello Polinice. La tragedia si conclude con il coro che approva la decisione di Antigone e propone anche un corteo per la memoria di Eteocle che ha protetto la città di Cadmo.

Antigone rappresenta quel passaggio importante che permette di rompere le eredità transgenerazionali disfunzionali, quella possibilità di creare un invento, al di là dell’oracolo e delle predestinazioni. L’inventum si inscrive nel registro della concepibilità e rimanda al non-ancora e non al già noto (Di Maria, 2000), quindi appartenente alla dimensione del futuro e capace di trasformare le ritualità generazionali; un tradimento se vogliamo, un tradimento che ha dignità di esistere, se ha la funzione di rompere tradizioni così forti da diventare cieche.

Elaborare il lutto: per andare avanti si deve perdere qualcosa

Nel finale tragico si annida inoltre il tema della possibilità di elaborare il lutto, inteso come elemento psichico necessario affinché i personaggi, la famiglia e poi l’intera polis possano proseguire lungo un cammino evolutivo che metaforicamente sembra rappresentare la condizione umana e soggettiva che troppo spesso rimane incastrata dentro lutti irrisolti e tragedie personali che sembrano assumere il sapore di condanne esistenziali e inesorabili. Con la morte dei due fratelli, e attraverso la presenza di Antigone, figura capace di sostare psichicamente dentro la dimensione di paura, terrore e sofferenza, sembra che si alluda alla possibilità di ritrovare la funzione creativa e di legame, a fronte di un vissuto mortifero che nasce prima nel tabù dell’incesto e che appare riproporsi a livello transgenerazionale nelle sue caratteristiche traumatiche.

Il segreto, il tabù, il trauma, infatti, assumono la funzione simbolica di elementi che congelano e pietrificano dentro un tempo che collassa, perdendo le sue coordinate storico-temporali condannando il soggetto a rimanere prigioniero di un presente eterno, nel quale il nemico è sempre alla porta impendendo dunque la possibilità di muoversi, impendendo tanto l’ingresso quanto l’uscita di elementi psichici e vitali. Pertanto, nel contesto di tale rappresentazione è solo con la morte, solo con il lutto, celebrato attraverso un corteo funebre, che è possibile permettere ai fantasmi psichici di trasformarsi in antenati (Schutzenberger, 2004), e dunque attraverso ciò permettere il superamento del trauma originario; possiamo quindi concludere questo breve saggio, cogliendo nel triste epilogo della tragedia, un elemento vitale e vivificante, ovvero la consapevolezza, seppur dolorosa, che per andare avanti si deve inevitabilmente perdere qualcosa.

Ecstasy: come agisce sul cervello e quali sono i suoi effetti – Introduzione alla Psicologia

L’ ecstasy è una metamfetamina avente attività eccitante ed entactogena ovvero genera empatia ed euforia agevolando le relazioni sociali. Il nome tecnico dell’ ecstasy è 3-4 metilenediossimetamfetamina (MDMA). 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ ecstasy è una sostanza psicoattiva, poiché provoca effetti allucinogeni e stimolanti simili a quelli ottenuti dalle amfetamine. Esistono anche varianti della stessa classe, come l’MDEA (Eve), l’MDA (Love Drug), e l’MBDM (TNT).

Si tratta di un composto semisintetico ottenuto dal safrolo, uno degli olii essenziali presenti nel sassofrasso, nella noce moscata, nella vaniglia, nella radice di acoro, e in diverse altre spezie vegetali. Spesso, oltre al principio attivo, si utilizzano altre sostanze che ne potenziano l’effetto, come anfetamine, cocaina, caffeina, efedrina o farmaci per uso umano o veterinario.

L’ ecstasy, abitualmente, è preparata clandestinamente sotto forma di capsule, polveri e, per lo più, compresse colorate, con nomi e disegni originali in superficie che rappresentano sia il marchio di colui che l’ha preparata sia i differenti effetti.

Questa sostanza è consumata, solitamente, insieme a bevande alcoliche alle quali conferisce un retrogusto amaro. Inoltre, la si può trovare anche sotto forma di polvere e a volte viene sniffata, occasionalmente fumata, ma raramente iniettata.

Gli effetti dell’ ecstasy possono durare ore e consistono nell’ eliminazione dell’ansia, rilassatezza, assenza di fame, di sete e di sonno.

Si sperimenta, innanzitutto, un senso di fervore, seguito da un senso di calma e benessere sociale, spesso accompagnato da un acutizzarsi della percezione dei colori e dei suoni. Provoca, inoltre, un senso di maggiore energia e forza personale, e ha un moderato effetto allucinogeno.

Ecstasy: storia dell’uso

La 3,4-metilenediossimetanfetamina è stata sintetizzata per la prima volta nel 1912 nei laboratori farmacologici tedeschi Merck, che la brevettarono pensando di ricavarne un farmaco antifame, ma la prima guerra mondiale portò le case farmaceutiche a orientare la produzione esclusivamente per fini bellici.

Dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l’MDMA e molte altre sostanze brevettate furono consegnate agli alleati come bottino di guerra. Il brevetto rimase nel dimenticatoio per molti anni, ma nel 1950  l’esercito degli Stati Uniti, in pieno clima di Guerra Fredda, commissionò lo studio di alcune sostanze psicotrope tra cui l’LSD e l’MDMA, per utilizzo militare, nonostante l’avesse utilizzato come siero della verità.

Il composto fino all’inizio del 1970 non venne mai prodotto, finché non suscitò l’interesse del chimico Alexander Shulgin che, scoprendone il potenziale empatico, lo consigliò ad alcuni psicoterapeuti.

A partire dalla fine degli anni ’70, l’Mdma si diffonde negli ambienti della controcultura californiana e statunitense, e contemporaneamente alcuni psichiatri della West Coast cominciano a utilizzarla nel corso delle sedute psicoterapeutiche, nelle terapie di coppia e con pazienti borderline, con difficoltà di comunicazione anche e soprattutto nella interrelazione fra psicoterapeuta e paziente. Erano state sfruttate le caratteristiche di entactogenicità della molecola poiché facilitavano il dialogo e la verbalizzazione. Gli psicoterapeuti californiani portarono avanti un po’ di ricerca, ma in maniera informale, per il timore che, una volta nota come droga di strada, potesse essere sottoposta a restrizioni di carattere giuridico e legislativo.

Fino a tutto il 1984 in America è assolutamente legale l’uso dell’ ecstasy e così comincia a entrare nel giro studentesco e si diffonde in diversi ambiti sociali.

Ben presto, l’ ecstasy si diffonde in Europa, soprattutto nei locali di tendenza frequentati dai giovani.

Il I luglio 1985 in America si interrompe l’uso di Mdma che viene inserita nella categoria delle droghe pericolose.

Il 22 aprile dello stesso anno l’ ecstasy viene messa fuori legge in Svizzera; il 18 luglio in Germania; in Italia nel 1988. Il Dpr 309/90 stabilisce la dose giornaliera: 50 mg, difficile da comprendere realmente poiché dipende da come è stata creata la pastiglia. In Gran Bretagna è stata bandita dal 1977, come tutte le altre anfetamine psichedeliche.

Come l’ ecstasy agisce sul cervello

L’ ecstasy agisce sui circuiti serotoninergici del cervello, aumentandone la produzione. La serotonina è il neurotrasmettitore che, tra le altre cose, controlla l’umore, le emozioni, l’aggressività, il sonno, l’appetito, l’ansia, la memoria e la percezione. I canali lungo i quali viaggia questa sostanza sarebbero il bersaglio principale dell’ ecstasy.

Un uso regolare e cronico della sostanza determinerebbe un effetto neurotossico, ovvero si avrebbe un danno permanentemente a carico della produzione di serotonina. Di conseguenza potrebbero insorgere patologie psichiche come depressione, psicosiattacchi di panico e danni permanenti della memoria.

Gli effetti dell’ ecstasy

L’ ecstasy produce sostanzialmente tre tipi di effetti:

  • Effetti positivi o a breve termine. Dopo aver assunto l’ ecstasy si verifica un aumento delle capacità sensoriali e percettive. Di conseguenza le emozioni, l’intimità e l’affettività, sono amplificate. Si percepiscono, inoltre, euforia, spensieratezza, beatitudine e mancanza di emozioni negative e disinibizione sociale. Gli effetti hanno durata diversa a seconda della sostanza assunta, ma generalmente durano dalle 4-6 ore a 8-12 ore, e iniziano dopo venti-sessanta minuti dall’assunzione.
  • Effetti negativi fisiologici. L’ ecstasy dopo gli effetti positivi genera: nausea, allucinazioni, brividi e sudorazione, aumento della temperatura corporea, tremore, crampi muscolari e offuscamento della vista. Inoltre, genera un aumento della pressione sanguigna e frequenza cardiaca, tachicardia, disidratazione dovuta a intensa sudorazione, crampi e svenimenti dovuti anche all’innalzamento notevole della temperatura corporea (fino a 43 gradi). L’insorgere di problemi cardiaci e/o respiratori e il surriscaldamento eccessivo del corpo possono essere causa di morte, anche in seguito a una sola assunzione.
  • Effetti negativi psicologici. Subito dopo l’assunzione si verifica una perdita della recaptazione di serotonina con conseguente manifestazione di insonnia, perdita di appetito, scarsa concentrazione e riduzione della capacità di giudizio.

È stato dimostrato che l’ ecstasy non solo degenera le terminazioni e diramazioni del sistema nervoso, ma le fa rigenerare in maniera anormale, impedendone la riconnessione con alcune aree del cervello. Il risultato è il manifestarsi di disturbi cognitivi, emotivi, della capacità di apprendimento, della memoria.

Conseguenze derivanti dall’assunzione di ecstasy

L’ ecstasy, come tutte le sostanze stupefacenti, porta a dipendenza e ad assuefazione, ovvero il consumo di dosi sempre maggiori per provare gli effetti piacevoli legati alla funzione psicoattiva della sostanza.

L’overdose di ecstasy può essere fatale, perché l’improvviso innalzamento della temperatura corporea può portare a un arresto cardiaco o a un ictus.

La sospensione brusca dell’assunzione di ecstasy in soggetti che ne fanno uso abitualmente provoca una sintomatologia di tipo astinenziale con cefalea, sudorazione profusa, palpitazioni, vertigini, crampi muscolari, disturbi vasomotori ed effetti spiacevoli, in gergo denominati crasi, rappresentati da ansietà, tremori, irritabilità, disturbi del sonno, affaticamento, depressione e isolamento sociale. L’uso continuativo di ecstasy può portare all’insorgere di stati permanenti di depressione, paranoia, psicosi in genere, distruzione dei muscoli scheletrici, insufficienze renale ed epatica acute.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbi comportamentali nella demenza – Behavioral and Psychological Symptoms in Dementia (BPSD)

I disturbi comportamentali sono spesso identificati con il termine Behavioral and Psychological Symptoms in Dementia (BPSD) e sono definiti come un gruppo eterogeneo di manifestazioni caratterizzate da alterazioni della percezione, del contenuto di pensiero, dell’umore e del comportamento che si osservano frequentemente in pazienti affetti da demenza (IPA Consensus conference; 1996).

Francesca Colli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Nella definizione della patologia dementigena i disturbi comportamentali BPSD risultano rilevanti come i disturbi cognitivi e sono fortemente correlati con il grado di  deficit funzionale che essa comporta (Cerejeira et al.; 2012).

Si è rilevato che la maggior parte dei soggetti affetti da demenza sviluppa un disturbo comportamentale durante la sua storia di malattia (Lyketsos et al.;2000; Hersch et al.; 2007).

Infatti, fin dalle prime descrizioni delle patologie dementigene, i disturbi comportamentali sono stati individuati come sintomi propri di queste condizioni. Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1838) nella definizione di “Demenza senile” rileva che tale problematica è frequentemente accompagnata da disturbi emotivi.

Anche Alzheimer (1907) ha segnalato la presenza di disturbi comportamentali quali paranoia, deliri, allucinazioni e urla nella sua paziente Auguste D.

Solo dal 1980 però i disturbi non cognitivi delle demenze sono stati considerati fondamentali per la valutazione delle sindromi demenziali. Attualmente nel manuale DSM-V, nella diagnosi dei casi di decadimento cognitivo, si valuta la presenza di disturbi comportamentali.

Le determinanti dei disturbi comportamentali della demenza

I BPSD possono essere determinati da una vasta gamma di fattori ambientali, psicologici e neurologici e dall’interazione tra di essi.

L’eziologia di questi disturbi comportamentali può essere varia: alcuni hanno una causa organica importante e diretta, altri sono riconducibili a meccanismi psicologici normalmente osservabili, ma in questi casi fallaci.

Un esempio del primo caso è la presenza di allucinazioni visive nei casi di demenza a corpi di Lewy (LBD) che sembra essere collegata a un danno a livello del nucleo basolaterale dell’amigdala e del paraippocampo ed è correlata con la patologia da alfa-sinucleina a livello della corteccia frontale (Williams et al. 2006).

Un’altra vasta gamma di sintomi invece non può essere riconducibile a un’alterazione organica: la deflessione del tono dell’umore che si osserva in una persona che mostra le prime manifestazioni di perdita della memoria e di alterazione dell’efficienza cognitiva potrebbe essere la normale reazione di un individuo che si rende conto di essere affetto da una patologia grave e che si isola socialmente a causa del disagio che essa comporta.

Un’ipotesi interessante relativa all’eziologia dei disturbi comportamentali nella demenza è stata proposta da Cummings (Cummings; 2003). L’autore definisce differenti classi sintomatologiche a seconda della proteina principalmente coinvolta in ogni forma di demenza: quando la proteina coinvolta è la tau, come ad esempio nella Demenza frontotemporale (FTD), la sintomatologia comportamentale è caratterizzata da disinibizione, apatia e comportamenti compulsivi. In altri casi, in cui vi è una disfunzione dell’alfa-sinucleina, come nel caso della malattia di Parkinson (PD) e della LBD, si rileva una prevalenza di allucinazioni, deliri e disturbi del sonno.

Caratteristiche comuni nei disturbi comportamentali in pazienti con demenza

La prevalenza dei disturbi comportamentali BPSD varia ampiamente nei differenti studi, ma si possono definire alcune caratteristiche comuni.

In primo luogo il loro decorso non è lineare rispetto all’andamento dei disturbi cognitivi e funzionali della sindrome demenziale, nonostante si osservi un aumento della frequenza e della gravità di essi con il progredire della sindrome dementigena (Lyketsos; 2002).

Inoltre più disturbi comportamentali possono essere presenti contemporaneamente nello stesso individuo.

Sebbene alcuni disturbi comportamentali possano regredire altri BPSD, quali apatia, agitazione, ripetitività e resistenza aggressiva sono cronicamente presenti e in genere persistono fino alla morte.

Inoltre la presenza di BPSD è stata associata a un’evoluzione prognostica peggiore, a decadimento cognitivo maggiormente ingravescente e rapido e a maggiori difficoltà nelle attività della vita quotidiana (Paulsen et al.; 2000).

Quattro tipologie di disturbi comportamentali nella demenza

Nonostante i sintomi neuropsichiatrici dei soggetti con demenza siano molto eterogenei, essi possono essere raggruppati in quattro classi principali (Petrovic et al.; 2007).

La prima tipologia di sintomi riguarda l’alterazione del tono dell’umore: la depressione può essere osservata fin dalle fasi iniziali della patologia e può essere interpretata come reazione comprensibile alla situazione clinica caratterizzata da perdita della forza, della salute, del ruolo e dell’autonomia. Nella persona affetta da patologia dementigena la depressione è spesso accompagnata da importanti stati ansiosi.

Una seconda classe di sintomi comprende manifestazioni di aggressività, disinibizione, irritabilità e agitazione (Chan et al.; 2003).

La disinibizione è tipica delle fasi iniziali della FTD, ma si osserva anche nei soggetti affetti da Alzheimer (AD). Essa consiste nella messa in atto di comportamenti motori e verbali impropri. La consapevolezza dell’inadeguatezza di queste condotte è scarsa (Holm et al; 2007). La disinibizione può anche manifestarsi con condotte impulsive di gioco d’azzardo o di operazioni finanziarie eccessivamente rischiose (Manoochehri et al.; 2012).

L’aggressività è frequente nella demenza: i comportamenti aggressivi sono difficilmente prevedibili ed evitabili. Essa è definita come un comportamento fisico e verbale che ha l’obiettivo di colpire o ferire un altro individuo (Kolanowski et al 1995). Le condotte aggressive nelle patologie demenziali sono messe in atto con grande intensità, ma spesso mancano della corretta sequenza fisica per produrre un effettivo danno nell’altra persona.

L’irritabilità è spesso connessa alle prime fasi della malattia e può essere ricondotta alle sempre maggiori difficoltà che il paziente si trova ad affrontare con il progredire della patologia.

In questa classe di disturbi comportamentali BPSD si possono inserire anche i disturbi del comportamento motori: affaccendamento e wandering.

Il primo termine indica la tendenza dell’individuo affetto da patologia dementigena a continuare a manipolare oggetti diversi, parti del proprio corpo o vestiti. Il comportamento è afinalistico e ripetitivo e solitamente si osserva negli stadi più avanzati della patologia (Boccardi et al.;2007). Il wandering è il continuo girovagare senza una metà precisa: spesso è protratto per molto tempo e a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Un’altra classe sintomatologica di disturbi comportamentali BPSD riguarda le manifestazioni delle psicosi in particolare deliri e allucinazioni. Le allucinazioni, specialmente visive, sono più frequenti nella LBD e sono più rare nell’AD. Il soggetto ritiene vere queste manifestazioni e si sintonizza emotivamente sul contenuto di esse piuttosto che sulla realtà circostante (Boccardi; 2007). Si possono poi rilevare idee deliranti, che non raggiungono mai una strutturazione chiara e sono tipicamente meno complesse di quelle dei pazienti non affetti da sindrome dementigena.

I contenuti dei deliri esprimono spesso delle preoccupazioni comprensibili e sono collegati al tipo di compromissione cognitiva del soggetto. Gli esempi più comuni sono: la convinzione che le altre persone nascondano o rubino alcuni oggetti, la convinzione che il partner sia un impostore (sindrome di Capgras), l’accusa verso i caregiver di abbandono e cospirazione e la credenza che gli altri individui agiscano con fini malevoli o con intenti discriminatori (Tariot et al; 1995).

I deliri sono quindi idee, non corrispondenti alla realtà, che il malato di demenza crea dentro di sé per darsi una spiegazione di ciò che succede attorno a lui, poiché non è in grado di comprendere correttamente la situazione dal punto di vista cognitivo (Boccardi; 2007).

L’ultima classe di disturbi comportamentali della demenza è caratterizzata dai disturbi del ritmo sonno-veglia e dell’appetito.

Nei soggetti affetti da demenza si osserva una disorganizzazione dei regolari ritmi circadiani che regolano il normale alternarsi della condizione di sonno e veglia (Loewestein et al.; 1982). I principali disturbi riportati sono insonnia, ipersonnia, parasonnie, eccessiva attività motoria notturna, apnee notturne e disturbi del ritmo sonno-veglia (Beaulieu-Bonneau et al.;2009). Solitamente la gravità del disturbo del sonno aumenta con il progredire della patologia dementigena (Moe et al.; 1995).

Queste condizioni spesso contribuiscono a peggiorare la qualità di vita dell’individuo (Rongve et al.; 2010).

Il comportamento alimentare nel paziente con demenza

Per quanto riguarda il comportamento alimentare nella patologia dementigena sono state osservate numerose alterazioni tra le quali anoressia, iperfagia, cambiamento di preferenze alimentari, consumo di sostanze non edibili. Questi disturbi sono connessi al decadimento cognitivo e ai correlati organici della patologia demenziale (Frissoni et al.; 1998; Ikeda et al.; 2002). Questa tipologia di disturbi comportamentali BPSD è spesso correlata con lo stadio di gravità della patologia (Taemeeyapradit et al.; 2014).

I soggetti affetti da AD lamentano spesso perdita di appetito e conseguente calo ponderale (Grundman et al.; 1996), nella LBD vengono riportate difficoltà di deglutizione e perdita dell’appetito (Shinigawa et al.; 2009), mentre nella FTD si osserva un aumento dell’appetito con la comparsa di preferenze verso cibi specifici e condotte alimentari ripetitive (Ikeda et al.; 2002).

L’assessment dei disturbi comportamentali nella sindrome dementigena

Esistono numerosi strumenti per la definizione e l’assessment dei disturbi comportamentali nei soggetti con demenza.

La scala Cohen-Mansfield Agitation Inventory (CMAI) permette di individuare i sintomi di agitazione e di stabilirne la frequenza (Cohen-Mansfield; 1996).

L’UCLA Neuropsychiatric Inventory (NPI) (Cummings et al; 1994) indaga la presenza di numerosi BPSD e permette di valutare anche la loro frequenza, la gravità e il distress psicologico dei familiari.

L’utilizzo di scale di misurazione dei disturbi comportamentali BPSD è utile sia nella fase diagnostica e di scelta dei trattamenti terapeutici e riabilitativi, sia per la verifica di tali interventi al fine del monitoraggio o dell’eventuale sospensione di essi.

Legame tra sintomi da attacco di panico e recettori sensibili all’acidosi metabolica

Attacco di panico e acidosi metabolica: Ricercatori dell’Università di Cincinnati hanno riscontrato che, nel comportamento e nella fisiologia legate all’ attacco di panico, svolgono un ruolo cruciale i recettori associati alla morte di cellule T relative al gene 8 (TDAG8). I recettori TDAG8, infatti, sono sensibili ai cambiamenti del pH e sono stati identificati per la prima volta nelle cellule immunitarie del corpo, dove regolano le risposte infiammatorie.

 

Attacco di panico: conseguenza dell’ acidosi metabolica?

Il disturbo da attacco di panico (DAP) è una sindrome caratterizzata da episodi improvvisi e ricorrenti di ansia eccessiva accompagnata da un forte iperarousal (Kessler et al., 2005) con sintomi fisici quali palpitazioni del cuore, sudorazione o raffreddamento, difficoltà a respirare, nausea e dolori al petto. Tale condizione si manifesta solitamente durante l’adolescenza o nella prima età adulta (Beesdo et al., 2010).

Nonostante i progressi ottenuti per diagnosticare e trattare il disturbo, la sua fisiopatologia presenta ancora degli aspetti poco chiari.
Da alcuni studi pre-clinici sono emerse evidenze che attribuiscono l’avvio dell’attacco di panico a una disregolazione dell’equilibrio acido- base presente nel corpo; dunque, esso sarebbe una conseguenza dell’ acidosi metabolica (Vollmer et al., 2015; Wemmie, 2011). Quello che resta da analizzare è quale sia il meccanismo attraverso il quale la rottura dell’equilibrio del pH generi i sintomi fisiologici del panico.

Ricercatori dell’università di Cincinnati hanno riscontrato che, nel comportamento e nella fisiologia legate all’attacco di panico, svolgono un ruolo cruciale i recettori associati alla morte di cellule T relative al gene 8 (TDAG8). I recettori TDAG8, infatti, sono sensibili ai cambiamenti del pH e sono stati identificati per la prima volta nelle cellule immunitarie del corpo, dove regolano le risposte infiammatorie. A livello cerebrale tali recettori sono collocati in cellule immunitarie dette microglia. Sebbene sulla fisiologia del panico sia emersa la potenziale correlazione tra recettori TDAG8 e sintomi del panico, bisogna stabilire se questi recettori abbiano un ruolo significativo tale da dare origine al disturbo da attacco di panico.

A partire da ciò, uno studio pilota successivo si è posto l’obiettivo di indagare se l’espressione dei recettori TDAG8, in adolescenti e giovani adulti, fosse diversa tra due gruppi: campione sperimentale di soggetti con disturbo d’attacco di panico e campione di controllo costituito da soggetti in salute. I risultati hanno dimostrato una correlazione significativa sia tra i recettori TDAG8 e la gravità dei sintomi del disturbo, sia tra gli stessi e la risposta al trattamento con antidepressivi. Potrebbe accadere, dunque, che i pazienti in trattamento presentino una remissione dell’espressione dei TDAG8.

In conclusione, studi futuri dovrebbero analizzare ulteriormente il legame tra i recettori TDAG8 e il disturbo d’attacco di panico per spiegare se e come essi possano predire la risposta positiva al trattamento farmacologico. Inoltre si potrebbe indagare la natura di tali recettori, valutando se l’alterazione del loro funzionamento sia determinata da una variazione genetica o da altri fattori ambientali.

Guarire dalle ferite psicologiche lasciate da un narcisista violento – Le risposte di fluIDsex

Se finisci una storia con un narcisista maligno diagnosticato e violento, come puoi uscire dai traumi fisici e dai graffi nell’anima? (Icara)

 

Cara Icara, ci sono relazioni che finiscono e ci obbligano a fare i conti con tutto il dolore che ci hanno procurato. Se il suo ex era un narcisista maligno posso immaginare quando sia stato complicato gestire il vostro rapporto e quanta sofferenza possa averle arrecato. I narcisisti maligni sono esperti di manipolazione affettiva ed usano ricatti e colpevolizzazioni per mantenere il controllo sul partner e affermare la propria superiorità.

Ma anche se porta ancora i segni dell’accaduto possiamo partire da una considerazione positiva: la sua storia con questa persona è finita. Tutt’altro che scontato in un panorama dove moltissime persone faticano a uscire da relazioni violente.

Ora che una fase negativa è finita si concentri su tutte le cose positive di cui finora non poteva godere, dedichi tempo e attenzioni a sé, si dedichi quelle attenzioni che prima venivano assorbite dal suo partner narcisista. Il percorso di guarigione può essere lungo, ma è più facile se accanto ha delle persone affidabili e premurose; ma se il dolore è ancora forte e pensa che le persone che ha accanto non riescano a capirla valuti la possibilità di vedere un terapeuta.

E chissà che un nuovo incontro non scacci definitivamente i demoni del passato.

 

Mattia Nese  

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Correlazione fra l’uso dello smartphone e performance attentive, mnestiche e cognitive

La tecnologia mobile, fra cui lo smartphone, ha attualmente una diffusione capillare. Che impatto producono le nuove tecnologie sull’attenzione, sulla memoria e sulle performance cognitive dell’individuo? Diverse recenti ricerche hanno indagato le correlazioni che esistono fra questi fattori e l’ uso dello smartphone.

Abstract

L’utilizzo protratto dello smartphone fa decrescere i tempi attentivi, in particolar modo dell’attenzione sostenuta. Riguardo alla memoria, il rapido reperimento delle informazioni, che la tecnologia mobile permette, incide negativamente sulla memoria personale, ovvero sulla capacità di ricordare episodi della propria vita, i luoghi che si sono visitati e le persone che si sono incontrate. Anche in ambito cognitivo, un uso eccessivo dello smartphone inficia le performance cognitive individuali, determinando, per esempio, nel contesto scolastico, performance scadenti negli apprendimenti scolastici.

Keywords: smartphone, attenzione, memoria, prestazioni cognitive.

 

Uso dello smartphone ed effetti sulle performance cognitive

La tecnologia mobile, fra cui lo smartphone, ha attualmente una diffusione capillare. Alcune applicazioni presenti nei telefoni cellulari si sostituiscono all’uomo. In pratica, svolgono alcune delle funzioni tipiche dell’uomo, basti pensare, per esempio, al reperimento di informazioni. Da questo punto di vista, il consultare i motori di ricerca ha preso il posto dello sfogliare voluminose enciclopedie. Che impatto producono le nuove tecnologie sull’attenzione, sulla memoria e sulle prestazioni cognitive dell’individuo? Diverse recenti ricerche hanno indagato le correlazioni che esistono fra i fattori summenzionati e l’uso dello smartphone.

Relativamente all’attenzione, Nikken e Schols (2015) hanno riscontrato che l’uso protratto dello smartphone fa decrescere i tempi attentivi nell’età evolutiva. In altre parole, l’utilizzo del telefono incrementa la disattenzione.

A questo riguardo, è noto da tempo che la distrazione, che l’uso del telefono mobile produce, diviene pericolosa quando si guida. Uno studio di Caird e coll. (2014) ha evidenziato che lo scrivere un messaggio, quando si guida un’auto, rappresenta un evento che frequentemente causa incidenti stradali. Inoltre, anche il solo leggere un messaggio sul proprio telefono, quando si guida, è una condotta estremamente pericolosa e questa è un’abitudine diffusa sia fra la popolazione giovanile che fra gli adulti, come dimostra una recente indagine del Center for Disease Control and Prevention Statunitense (2016).

Quella che subisce gli effetti più negativi dall’uso continuo dello smartphone è l’attenzione sostenuta, come dimostra uno studio di Lee e coll. (2015). L’attenzione sostenuta, in accordo con Csikszentmihalyi, Abuhamdeh e Nakamura (2014), può essere definita come uno stato mentale che permette all’individuo di essere completamente concentrato su quello che sta facendo.

Come si è detto, lo smartphone dà la possibilità di effettuare qualsiasi ricerca e ciò consente in brevissimo tempo di reperire l’informazione desiderata. Se da un lato il rapido accesso a questo enorme database ha incrementato il possesso di informazioni, dall’altro lato, come diversi studi evidenziano (Frith e Kalin, 2015; Özkul e Humphreys, 2015), il rapido reperimento delle informazioni incide negativamente sulla memoria personale, ovvero sulla capacità di ricordare episodi della propria vita, i luoghi che si sono visitati e le persone che si sono incontrate.

Anche in ambito cognitivo, un uso eccessivo dello smartphone inficia le performance cognitive individuali, determinando, per esempio, nel contesto scolastico, performance scadenti negli apprendimenti scolastici (Beland e Murphy, 2014; Lepp e al., 2014).

In conclusione, se la tecnologia mobile incrementa l’accesso alle informazioni di un gran numero di persone, di fatto essa può avere delle ripercussioni negative sull’attenzione, sulla memoria e sulle prestazioni cognitive degli individui (Wilmer e al., 2017).

Determinanti sociali della salute mentale

I determinanti sociali della salute mentale sono costituiti dalle politiche di governance, sociali, macroeconomiche e dai valori culturali e sociali; tali determinanti contribuiscono ad assegnare a ciascun individuo uno status socio-economico, ovvero una posizione all’interno della gerarchia sociale. In base alla posizione sociale ciascuno avrà maggiori o minori probabilità di imbattersi in fattori di rischio e suscettibilità individuale alla malattia.

 

Un gruppo di colleghi psicologi e non, tutti aderenti alla Rete Sostenibilità e Salute, grazie al prezioso supporto di Dors (il Centro Regionale di Documentazione per la Promozione della Salute), hanno da poco tradotto un documento tematico pubblicato dall’OMS nel 2014 che titola “I Determinanti Sociali della Salute Mentale“, introdotto da una prefazione di Marialuisa Menegatto e di Adriano Zamperini.

Come gli aspetti sociali determinano lo stato di salute

Cosa sono i determinanti sociali della salute mentale e quali implicazioni possono avere per il lavoro degli psicologi?

Nel 1948, sotto la guida dello psichiatra George Brock Chisholm, il primo direttore generale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha definito la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità”.

Esattamente cent’anni prima, nel 1848, Rudolph Virchow, inviato dal governo prussiano in Polonia per combattere un’epidemia di tifo constatò che le vere cause del diffondersi di questa fossero la povertà, le condizioni igieniche e la presenza di uno stato autoritario e repressivo. Affermò inoltre che “i progressi della medicina possono prolungare la vita umana, ma i miglioramenti delle condizioni sociali possono ottenere questo risultato più rapidamente ed efficacemente” (Virchow, 1959).

Nello stesso secolo Freud identificò uno dei principali determinanti per l’insorgenza dell’isteria nella cultura patriarcale e nel set di norme e di valori di cui era portatrice (Freud, 1892).

Che cos’hanno in comune questi tre eventi storici, apparentemente senza legame e che costituiscono la cornice semantica all’interno della quale leggere il documento? Utilizzando il modello ecologico di Bronfenbrenner (1977) si potrebbe affermare che tutti pongono l’accento sull’interazione dinamica tra l’individuo e il suo macrosistema.

E’ proprio questa interazione, tra individuo e società, ad essere diventata il fulcro dei numerosissimi studi epidemiologici che costituiscono il background metodologico del documento e in cui viene dimostrato in maniera incontrovertibile, a livello di popolazione, il divario nell’aspettativa di vita, nell’incidenza e nella prevalenza per quasi la maggior parte delle patologie al variare delle condizioni socio-economiche: i poveri trascorrono più tempo delle loro più brevi vite affetti da patologia (Marmot, 2016). Ad esempio, in Glasgow, città nota agli epidemiologi, il divario nell’aspettativa di vita, tra quartieri ricchi e quartieri poveri, ammonta a  28 anni (Hanlon, 2006). Ad uno sguardo più attento, da questi studi emerge un altro dato importante che verrà evidenziato nel documento: entro una certa misura, non sono le condizioni materiali di per sé a determinare gli esiti di salute, quanto la struttura e l’organizzazione della società. A livello nazionale, ad esempio, negli Stati Uniti il reddito nazionale procapite è di un terzo più elevato rispetto a quello Svezia ma negli USA il rischio per un quindicennne di non arrivare al sessantesimo compleanno è il doppio rispetto alla Svezia (13vs7 su 100) e le condizioni di salute sono sensibilmente peggiori (Malik, 2014).

A livello individuale, all’interno di una stessa popolazione, tutti questi studi vengono arricchiti negli anni dall’introduzione del costrutto di gradiente di salute, a cui viene data grande importanza nel documento tradotto. La distribuzione della salute secondo un gradiente indica che per qualsiasi indicatore di status socio-economico considerato (istruzione, reddito, posizione lavorativa) ad ogni posizione sociale corrisponde un livello di salute peggiore di quello della posizione immediatamente superiore (Maciocco, 2014).

L’influenza dei determinanti sociali sulla salute mentale

Questa è l’assunzione alla base del paradigma dei determinanti sociali della salute, successivamente fatto proprio anche dall’epidemiologia psichiatrica che ha portato a rilevare ad esempio che per qualsiasi popolazione esaminata la depressione mostra tassi di prevalenza 1,5/2 volte maggiori in individui appartenenti al gruppo sociale dal reddito inferiore (Patel,  Kleinman,  2003). Come sostiene Saraceno (2016), in base a quanto evidenziato dal proprio studio critico con Levav e Kohn (Saraceno et al., 2005) sulla salute mentale, le persone con status socio economico più basso corrono un rischio relativo di sviluppare schizofrenia 8 volte maggiore rispetto a quelli con status socio-economico più alto (Holzer et al., 1986). Il benessere mentale e psicologico è influenzato non solo da caratteristiche e peculiarità individuali, ma anche dalle circostanze socioeconomiche nelle quali le persone si trovano e dal contesto generale in cui vivono (WHO, 2012).

L’OMS sottolinea nel documento che salute mentale e disturbi mentali non siano termini opposti e che la salute mentale non sia immaginabile come “solamente l’assenza di disturbo mentale”(WHO, 2013). Il documento tuttavia, pur dovendosi avvalere, per necessità metodologiche, della rilevazione quasi esclusiva dei disturbi mentali (sia quelli definiti “comuni” come ansia e depressione che quelli definiti “gravi” come schizofrenia e disturbo bipolare),  sottolinea la presenza di una grande sofferenza che non raggiungerebbe la soglia per essere diagnosticata come disturbo mentale e che colpirebbe una larga parte della popolazione (Murray, 2010).

Affrontare i determinanti sociali dei disturbi mentali comuni e dei disturbi mentali sottosoglia significa ridimensionare il peso dell’individuo nei processi che portano alla sofferenza in favore del rapporto tra l’individuo e il proprio contesto di vita all’interno del quale sono distribuiti e stratificati in maniera diseguale, quei fattori di rischio e di protezione, di carattere materiale, relazionale e simbolico, che predicono gli esiti di salute individuali.

I fattori di rischio e di protezione, intesi come cause che precedono immediatamente gli esiti di salute vengono definiti determinanti prossimali.

Quelle condizioni che determinano una distribuzione differenziale dei fattori di rischio e di protezione, ovvero le cause delle cause, rappresentano i determinanti sociali di salute (o determinanti distali o determinanti strutturali) cioè l’insieme delle condizioni contestuali in cui gli individui nascono, crescono, lavorano, invecchiano e muoiono, influenzate dalle politiche e dalla cultura.

I determinanti sociali della salute mentale sono costituiti dalle politiche di governance, sociali, macroeconomiche e dai valori culturali e sociali; tali determinanti influiscono sui processi di stratificazione della società tramite la distribuzione di opportunità e risorse, contribuendo ad assegnare a ciascun individuo uno status socio-economico, ovvero una posizione all’interno della gerarchia sociale, in base al reddito, l’istruzione, la posizione lavorativa, la classe sociale e il gruppo etnico. In base alla posizione sociale ciascuno avrà maggiori o minori probabilità di imbattersi nei determinanti prossimali (fattori di rischio materiali, psicosociali, comportamenti insalubri, condizioni di suscettibilità individuale alla malattia).

Inoltre, all’interno dei determinanti sociali oltre alle politiche abitative, lavorative e di welfare, che esercitano i loro effetti cumulativi lungo tutto il ciclo di vita, è possibile inserire anche tutti quegli aspetti di contesto quali il grado di fiducia reciproca, la coesione sociale, la discriminazione, il capitale sociale, anch’essi strettamente correlati (Wilkinson, Pickett, 2009) alle disuguaglianze sociali. Tanto più sono inique le politiche di distribuzione delle risorse, maggiori sono le disuguaglianze materiali, simboliche e di potere, minore è la coesione sociale, maggiore l’insorgenza di malattie mentali (Pickett, Wilkinson, 2010).

Depressione, ansia, violenza e razzismo non solo solamente reazioni psicologiche: essi sono anche fenomeni sociali poiché è anche al di fuori del soggetto che essi trovano gli elementi per il loro sviluppo (De Piccoli, 2014). A partire dalla consapevolezza che i fattori di rischio e di protezione agiscono su diversi livelli (l’individuo, la famiglia, la comunità, la struttura sociale e il livello di popolazione), un approccio fondato sui determinanti sociali di salute richiede azioni su molti livelli e su settori differenti (WHO, 2014) con una attenzione particolare agli interventi sulla qualità del contesto (Costa, 2014), tramite azioni di empowerment sul rendimento di questo volti all’attivazione e al coinvolgimento degli attori locali in un’ottica partecipativa.

 

Salute mentale: oltre i fattori di rischio individuali, il ruolo dei determinanti sociali-grafico

Relazione tra determinanti sociali, disuguaglianze ed esiti di salute mentale 

 

L’importanza di agire sul ciclo di vita e sulla trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza

Il contributo dell’approccio dei determinanti sociali della salute mentale proposto dal documento insiste sulla necessità di azioni focalizzate sull’intero ciclo di vita, familiare alla psicologia dello sviluppo con cui condivide anche un’attenzione ad un’ottica intergenerazionale. Le disuguaglianze sociali ed economiche che si tramandano di generazione in generazione, determinano con il tempo, il radicamento delle disuguaglianze relative alla salute mentale (WHO, 2014; Campion, 2013).

Esemplare a questo proposito è la ricerca delle psicologhe dell’infanzia Hart e Risley (2003) le quali hanno calcolato che la differenza, in termini di numero di parole (più avanti si concentreranno anche sulla qualità delle parole), a quattro anni di età tra un bambino proveniente da una famiglia svantaggiata e quello di una famiglia avvantaggiata si aggiri attorno ai trenta milioni. Un bambino nato e cresciuto in una famiglia ricca di media ascolta, a quattro anni, trenta milioni di parole in più rispetto ad un suo coetaneo proveniente da una famiglia povera. Immaginiamo quanto possano allontanarsi le traiettorie di vita dei due bambini, se proviamo ad osservarli a scuola dieci anni dopo, dopo altri dieci anni a lavoro, e a trent’anni dalla nascita, diventati genitori, quando il divario linguistico ereditato nelle prime fasi di vita verrà tramandato alla propria prole.

Adottare un approccio che prenda in considerazione i determinanti sociali lungo il ciclo di vita significa per cui agire anche sulla trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza e agire per migliorare le condizioni di vita quotidiana da prima della nascita, durante la prima infanzia, in età scolare, durante la creazione del nucleo familiare, nel corso dell’età lavorativa e durante la vecchiaia; permette sia di migliorare le condizioni di salute mentale nella popolazione che di ridurre il rischio per quei disturbi mentali associati alle disuguaglianze sociali (WHO, 2014).

Come psicologi, confrontarci con la sofferenza e provare ad agire per contrastarla, ci porta con immediatezza ad attribuirle un senso all’interno di una cornice di significato individuale, che ci permette anche di sperimentare un senso di efficacia relativo alle nostre azioni. Aprirsi ai determinanti sociali della salute mentale, significa, a partire dalle ampie evidenze scientifiche che questa prospettiva ci offre, ricollocare tale sofferenza nella dimensione che le compete ovvero nell’interazione tra l’individuo e il suo ambiente e questo vuol dire essere maggiormente consapevoli che le esperienze di sofferenza si configurano come la sedimentazione, nei corpi e nella mente, di un insieme eterogeneo di esperienze sociali, che attraversano le biografie degli individui e che li legano – gli uni agli altri – in specifici contesti d’azione (Cardano, 2008).

Questo rende la sofferenza e la salute mentale un problema non più meramente tecnico. Non dipende, alle sue origini, da fattori esclusivamente individuali ed ignorare questa inoppugnabile evidenza, equivale a continuare a spegnere il fuoco della sofferenza nell’individuo senza  prevenire gli incendi che la causano, trattare ortopedicamente gli individui per riportarli nelle stesse condizioni ambientali che hanno generato la sofferenza. Però le buone condizioni di vita quotidiana, le cose che realmente contano, sono distribuite in modo disuguale, molto più di quanto sia accettabile, (Marmot, 2016) e il risultato di una distribuzione disuguale delle condizioni della vita è che la salute si distribuisce in modo disuguale (ibidem).

Forti di queste evidenza, in quanto professionisti, dovremmo, in un’ottica preventiva, dare il nostro contributo per la creazione di una società più equa, giusta e meno nociva perché “un mondo più giusto sarebbe un mondo più sano” (WHO, 2008). Questo ci permetterebbe inoltre di riappropriarci, dopo 40 anni, del messaggio di Basaglia, soprendentemente assonante con l’intuizione di Virchow: “La medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su larga scala” (1959).

Buster Keaton: uno dei maestri del cinema muto

Durante la rassegna del Cinema ritrovato 2017 sono state proiettate diverse pellicole di Buster Keaton uno dei maestri dell’epoca muta che è tornato a vivere grazie all’impegno della Cineteca di Bologna e del suo laboratorio “L’Immagine Ritrovata”. Buster Keaton e la sua intera opera cinematografica sono infatti al centro di un progetto di restauro che come obiettivo ha quello di restituire al pubblico di tutto il mondo la possibilità di apprezzare le grandi opere di quest’ultimo.

 

I film Neighbors e The goat di Buster Keaton: la visione pessimistica della vita e la resilienza

Tra i film visti “NEIGHBORS” e “THE GOAT”.

Pochi registi hanno saputo sfruttare “la mise en scène”, Buster Keaton è senz’altro uno di questi. In Neighbors una staccionata e una corda da bucato creano l’intero balletto comico. Keaton nei suoi andirivieni le attraversa, le scavalca, ci passa sotto, sperimentando tutte le forme di movimento che la situazione gli consente.

In “The Goat” sembra, anzi estende, lo stile di Neighbors, il balletto non si svolge più nel cortile ma nella città intera, l’equivoco assume una gravità maggiore.

Le comiche di Keaton hanno tutte una certa peculiarità, rispecchiano la sua visione pessimistica della vita. Keaton ci mostra la situazione di serenità e subito dopo il suo esatto opposto, il rovescio della medaglia, un mondo che è soggetto all’imprevisto. In ogni caso, però, il suo personaggio balla e si muove sulle note della resilienza, riesce sempre a superare le avversità.

La resilienza è la capacità di autoripararsi, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo: esempio intravedere in un fallimento una opportunità di crescita personale e/o un miglioramento delle proprie competenze.

Sebbene nei suoi film la resilienza sia rappresentata dalla continua necessità di uscire fuori da situazioni scomode, ecco invece alcune strategie che possono aiutarci ad attuare questo concetto fuori da un film, nella vita reale:

1) Mantenere un atteggiamento costruttivo
Le persone resilienti riconoscono che per quanto negative possano essere le circostanze, potrebbe sempre andare peggio. Esse non si soffermano su quanto gravi sono i loro problemi e non perdono tempo ed energie a fantasticare quanto potrebbero ulteriormente peggiorare. Infine il fallimento è percepito come una potenziale risorsa costruttiva.

2) Cercare di trarre una “lezione” da ciò che è accaduto
Invece di inventarsi delle scuse o cercare dei capri espiatori per i loro fallimenti, le persone resilienti cercano di imparare da ogni errore, mettendo a fuoco quelle che possono essere potenziali lezioni di vita.

3) Accettare la propria vulnerabilità
Le persone resilienti non hanno paura di ammettere le proprie debolezze, infatti approfittano dei fallimenti per identificare quali aree di se stessi possano migliorare: proprio questa consapevolezza ed accettazione della propria vulnerabilità favorisce lo sviluppo di strategie di crescita personale.

4) Riconoscere i punti di forza
La resilienza permette di utilizzare il fallimento quale opportunità per riconoscere le nostre qualità positive, ricordandoci ad esempio quali risorse abbiamo utilizzato in passato nei momenti difficili o i nostri punti di forza che ci hanno fatto arrivare dove siamo oggi.

5) Elaborare strategie per migliorare come individui
Non dobbiamo vedere il fallimento come la fine, ma come l’inizio di qualcosa: quando un tentativo di raggiungere un nostro obiettivo inizialmente fallisce, soffermiamoci a considerare come possiamo affrontare la questione in modo diverso la prossima volta.

La resilienza non è una qualità innata e immutabile e chiunque, con volontà ed impegno, può svilupparla e imparare a migliorare a partire dalle proprie battute d’arresto.

Combattere la depressione: stimolazione cerebrale o terapia farmacologica?

Per il trattamento della depressione è stato confrontato il metodo della stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS) con un farmaco, un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina.

 

Un nuovo studio mette in dubbio l’efficacia dei trattamenti per la depressione basati sulla stimolazione cerebrale mediante corrente elettrica a bassa intensità. La tecnica è nota come stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS) ed è stata considerata un’alternativa promettente al trattamento con farmaci antidepressivi.

I ricercatori dell’ospedale universitario di San Paolo (HU-USP) e dell’Istituto di psichiatria dell’ospedale das Clínicas (HC-FMUSP-IP), in Brasile, dimostrano come la tDCS risulti meno efficace dell’escitalopram, un farmaco antidepressivo. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel New England Journal of Medicine.

Antidepressivi o tDCS?

Il gruppo di ricercatori guidato da André Brunoni, professore presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università Medical School di San Paolo e direttore del Servizio di Neuromodulazione, ha reclutato 245 pazienti con depressione e li ha suddivisi in tre gruppi in maniera casuale.

Un gruppo è stato trattato con tDCS più placebo per via orale, il secondo ha ricevuto il trattamento tDCS sham più il trattamento anti-depressivo e il terzo ha ricevuto il trattamento tDCS sham più il placebo orale.

Il trattamento tDCS è stato somministrato in sessioni di 30 minuti per 15 giorni feriali consecutivi, seguiti da sette sessioni settimanali. L’escitalopram è stato somministrato ad una dose di 10 mg al giorno per tre settimane e 20 mg al giorno per altre sette settimane. Il limite inferiore della tDCS rispetto all’ escitalopram è stato definito da un punteggio minimo, almeno il 50% della differenza nei punteggi in soggetti trattati con placebo rispetto a quelli trattati con l’antidepressivo. Il che significa che il tDCS dovrebbe essere efficace almeno nel 50%, tanto quanto l’antidepressivo, ma in questo studio, tale aspettativa, non si è verificata.

I risultati mostrano che il trattamento con tDCS non è più efficace del trattamento con escitalopram, quindi gli autori hanno concluso che la stimolazione transcranica non può essere raccomandata come terapia di prima linea contro la depressione. L’antidepressivo è più facile da somministrare e molto più efficace. D’altra parte, studi precedenti hanno dimostrato che la tDCS è migliore rispetto al placebo.

Secondo lo studio, inoltre, i pazienti che hanno ricevuto il trattamento con tDCS presentavano livelli più elevati di rossore cutaneo, acufene e nervosismo rispetto agli altri due gruppi, e mania di nuova insorgenza, che si è sviluppata in due pazienti di questo gruppo. Mentre, i pazienti che ricevevano escitalopram presentavano sonnolenza e costipazione più frequenti rispetto a quelli degli altri due gruppi.

Depressione: come funziona la tDCS e i rischi delle soluzioni fai-da-te

Si stima che circa il 12% -14% della popolazione mondiale soffre di depressione, e sembrerebbe relativamente facile trovare siti di auto-aiuto con i video che mostrano come somministrare la tDCS a casa.

Il Professore dichiara:

Questi siti che pretendono di dimostrare come stimolare il proprio cervello rappresentano un enorme rischio per i pazienti con depressione. Le soluzioni “fai da te” sono fortemente contro-indicate. Mi aspetto che il nostro studio abbia un impatto su questo fenomeno perché abbiamo dimostrato che ci sono effetti collaterali negativi e che non è così efficace come molti pensano.

Brunoni ha anche sottolineato l’importanza di non confondere la tDCS con altri metodi come la terapia elettroconvulsiva (ECT), che prevede una corrente molto più forte – tipicamente 800 milliampere, o 800 volte la corrente utilizzata nella tDCS – ed è progettata per produrre una scarica controllata. Altre differenze includono il fatto che la ECT fornisce un breve impulso piuttosto che una corrente costante.

Il dispositivo tDCS è uno stimolatore a corrente continua di bassa intensità collegato a due elettrodi di superficie (anodo e catodo). In generale, la tDCS anodica induce la depolarizzazione dei neuroni (attiva) mentre la tDCS catodica favorisce la loro iperpolarizzazione (inibisce). Nei soggetti con depressione, gli elettrodi vengono posizionati sulle loro tempie in modo che la corrente possa attraversare la corteccia prefrontale dorsolaterale (un’area con attività diminuita in tali soggetti). Le persone con depressione mostrano l’ipoattività cerebrale in diverse aree cerebrali, ma soprattutto in questa regione; si pensa che il meccanismo d’azione della stimolazione possa aumentare l’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ma ancora non è stato dimostrato nessun effetto di questo tipo.

Esistono ulteriori tecniche progettate per modificare l’attività elettrica del cervello: la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione transcranica a corrente alternata, la stimolazione profonda del cervello e gli ultrasuoni focalizzati. Di queste, solo la stimolazione magnetica transcranica e la terapia elettroconvulsiva sono attualmente approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) per il trattamento della depressione.

 

Fino all’osso (To the bone, 2017): un film sui disturbi alimentari – Recensione

Fino all’osso: 7 storie, 7 personaggi le cui vicende sono legate da un denominatore comune: i disturbi alimentari. Ma la volontà della regista è quella di dare spazio alla protagonista indiscussa del film: Ellen, una ventenne alle prese con un’anoressia nervosa che l’accompagna praticamente da sempre.

 

To the bone, Fino all’osso: la trama

In uno dei mille tentativi (falliti) di cure, Ellen, spinta dalla compagna del padre e dalla sorella, inizia un nuovo cammino, quello in una casa che ospita ragazzi che soffrono di disturbi alimentari. Ed è nella condivisione degli spazi comuni e non solo, che si inizia a formare un gruppo che risulta vincente nelle sue dinamiche di confronto e di supporto. La casa, grande, senza porte e cestini, con i bagni chiusi fino a mezz’ora dopo i pasti (per evitare le condotte di eliminazione), è comunque calda e confortevole, rifugio di sofferenze grandi, baia di sicurezza e protezione.

La visione del disturbo alimentare con un po’ di giusta ironia

La dimensione su cui si articola il film è quella prospettica: non ci si sofferma mai sulle cause del disturbo alimentare e sui sensi di colpa che ne possano derivare, ma la problematica alimentare viene inquadrata nella sua difficoltà ma anche nel suo superamento: si è protagonisti della propria vita fino in fondo, fino all’ultima conta delle calorie ingerite, fino all’ultima corsa che non guarda in faccia la stanchezza e la sopportazione, fino all’ultimo conato che sa di liberazione.

Per non appesantire troppo le vicende che sono comunque di un calibro emotivo importante, la regista utilizza l’ironia e una buona dose di sarcasmo per rappresentare, ad esempio, i momenti di alta tensione legati ai pasti e alla difficilissima “prova-peso” che porta con sé l’incubo di salire sulla bilancia, sentenza di condanna a morte. Qualche parola va spesa per la voce della speranza, affidata all’interpretazione di un bravissimo attore, Keanu Reeves, che nel ruolo del dottor Beckham, urla contro la malattia spesso con un linguaggio anche colorito, spronando ad abbandonare la paura che intimorisce e che non permette di essere se stessi.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM FINO ALL’OSSO:

L’importanza della famiglia quando è presente un disturbo alimentare

Certo il faro è volutamente puntato su Ellen e sui suoi vissuti legati al disturbo alimentare ma soprattutto quando i protagonisti sono così giovani, diventa imprescindibile non integrare i genitori nel percorso di cura. Nel film il padre di Ellen non appare mai: oberato di impegni, è echeggiato come colui che lavora sempre. La mamma di Ellen viene rappresentata con un disturbo di personalità bipolare e anche la compagna del padre sembra avere un’unica preoccupazione, quella di dover trovare una “sistemazione” per Ellen.

Nella riunione familiare che il dottor Beckham chiederà espressamente di fare (sostenendo, a ragione, di essere un pezzo molto importante nel processo di cura), appare una confusione che sembra dare una chiara idea di quale siano state le condizioni di ambivalenza e di disagio in cui ha vissuto la protagonista: nella totale assenza del padre, si accende una confusionaria sfida verbale tra le due opposte fazioni, paterna e materna, che ignorano totalmente i bisogni di Ellen.

Quello di non tenere conto della famiglia è sicuramente una scelta della regista ma se il messaggio voleva essere quello di spiegare che cosa significa vivere un disturbo alimentare, sicuramente un pezzo importante è stato accantonato: i disturbi alimentari sono patologie che coinvolgono l’intero nucleo familiare e non tenerne conto significa non affrontare il problema nella sua interezza e complessità. E nel momento in cui nel film la famiglia esce di scena, il percorso di cura che la giovane protagonista insegue diventa più impervio: il cammino è in salita e la battaglia sarà tutta tra Ellen ed Ellen, nella sfida dei limiti del proprio corpo e nella lotta per l’affermazione della propria identità.

Il ragionamento clinico in psicoterapia – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale. Un sintomo è dunque semplicemente una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Ragionamento clinico – Nr. 23

 

Il ragionamento clinico del terapeuta a partire dal sintomo del paziente

Quando ho di fronte a me un paziente o più in generale una persona cerco di seguire attraverso la traccia delle sue parole il filo del suo ragionamento e nel farlo anche io ragiono e da questo mio ragionare scaturiscono domande, attenzioni, atteggiamenti che a loro volta influenzano il dipanarsi del filo del ragionamento dell’altro. I fili dei due ragionamenti si intrecciano, si intessono e si influenzano l’un l’altro. Normalmente al termine sono abbastanza in grado di descrivere il ragionamento dell’altro, molto meno il mio perchè evidentemente mi do per scontato, mi sembra naturale, ovvio e non ci bado, non è un oggetto esterno ma il soggetto descrittore. Siccome invece è parte fortemente in gioco immagino ora di essere un omuncolo piccino piccino seduto sul bordo interno della soffice circonvoluzione frontale sinistra con i piedi che spencolano sopra il corpo calloso e di osservare cosa mi dice il mio cervello mentre cerca di capire cosa diavolo il cervello dell’altro dice a lui. Dunque provo a seguire il ragionamento che più o meno automaticamente parte di fronte ad un paziente con un sintomo.

Intanto definisco sintomo un comportamento o una emozione che il soggetto stesso ritiene inadeguato, sgradevole e di cui vorrebbe liberarsi (insomma rispetto al quale ha sviluppato un problema secondario).

Dopo averne indagato la pervasività e le varie forme che assume nei diversi ambiti esistenziali (la gravità) mi chiedo:
a cosa serve? quale risultato vuole ottenere o pericolo scongiurare? e ciò lo faccio più facilmente se vado a ricostruire in quali circostanze il sintomo è nato (scompenso ed esordio) prima di diventare col tempo un’abitudine automatica. Continuando ad approfondire questa indagine sulla sua utilità (Laddering) cerco di identificare gli scopi terminali o gli antiscopi che organizzano l’esistenza del soggetto. Il sintomo acquista così significato nel contesto della vicenda esistenziale della persona, dei suoi valori e dei piani di vita. Fin qui cerco di dare un senso, un significato a ciò che agli stessi occhi del paziente appariva insensato, ascopico, estraneo a sè e come tale fuori dal suo controllo mentre si tratta di un’ espressione che persegue o salvaguarda qualcosa di molto importante per lui. Il paziente collabora volentieri perchè ci si occupa direttamente del sintomo che lo tormenta e perchè il capirne il senso lo fa sentire meno matto.

Una seconda fase che potremmo dire essere la prova del 9, la verifica della prima, parte sempre dal sintomo ma per indagare i motivi per cui gli dia tanto fastidio. Insomma le ragioni del secondario ognuna delle quali va indagata con la stessa tecnica precedente (laddering). Anche in questo caso si arriverà per una via diversa a definire gli scopi terminali e gli antiscopi del soggetto, insomma il suo panorama esistenziale, il perchè e il come sta al mondo.

Il sintomo come strategia in conflitto con altri scopi

A questo punto si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale. Un sintomo è dunque semplicemente una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare.

Compreso il senso e l’utilità del sintomo pur continuando ad avvertirne il disagio avviene una operazione di normalizzazione dello stesso che riduce il secondario principale motore da un lato del cambiamento ma anche, dall’altro, della sofferenza che ha l’effetto dannoso di far percepire la situazione come emergenziale riducendo paradossalmente la disponibilità ad abbandonare gli antichi e sperimentati modi di fare per provarne di alternativi.

Gli scopi che organizzano l’esistenza sono in parte genetici in parte di origine culturale, familiare ed esperienziale ed il loro cambiamento è opera ardua prefigurando una rivoluzione del paradigma (per dirla con Khun) esistenziale e quando ciò avviene siamo di fronte a vere e proprie rare conversioni. Ancorchè molto difficile da ottenere, il più delle volte non c’è alcuna richiesta ne volontà di metterli in discussione. Questo dunque è un livello di cambiamento in cui raramente mi avventuro per incompetenza e timore di tentazioni da guru e mi accontento di una ristrutturazione che elimini la sofferenza con il minimo cambiamento possibile (mi sembra peraltro una forma di rispetto dell’unicità dell’altro).

Ma anche le strategie di perseguimento degli scopi o di evitamento degli antiscopi sono apprese, in genere precocemente e nel contesto familiare. Allora faccio notare al paziente come esse si siano dimostrate in passato adattive e addirittura decisive per la sopravvivenza nel contesto di apprendimento che in genere è quello della famiglia d’origine. Gli faccio poi notare come oggi in un contesto diverso siano invece disadattive e si siano trasformate in sintomi, qualcosa che mette in atto perchè ha sempre fatto così non accorgendosi che se prima funzionava adesso è addirittura controproducente rispetto agli stessi obiettivi per cui si era sviluppato.

La ristrutturazione cognitiva

Successivamente inizia la parte per così dire creativa della terapia (la cosiddetta ristrutturazione cognitiva) che per semplicità distinguo in due livelli. Il primo livello consiste nell’elaborazione di nuove strategie compatibili comunque con i vincoli intrapsichici, interpersonali e contestuali attuali, attaccando solo quelli che rappresentano un rinforzo ed un mantenimento del sintomo. Si tratta di riscoprirle nel proprio patrimonio comportamentale in cui magari in modo minoritario e saltuario sono state però presenti nel tempo, copiarle osservando gli altri ed in particolare quelli più vicini al soggetto come aspetto motivazionale oppure inventarle di sana pianta come se si trattasse di un vero e proprio problem solving. Averle identificate non basta e si tratta poi di sperimentarle inizialmente in contesti protetti che ne garantiscano il successo e il rinforzo per poi progressivamente generalizzarle e ripeterle finchè non sostituiscano i vecchi automatismi.

Dopo aver gattopardescamente cambiato tutto perchè nulla cambi mi limito a provare a perturbare il livello superiore dell’assetto motivazionale auspicando un processo di cambiamento da lasciare avvenire da solo in tempi lunghi e grazie alle esperienze che il soggetto vive che sono i perturbatori più significativi.

Lo faccio da un lato cercando di reputare meno assoluti e doveristici gli scopi evidenziando come normalmente non comportino la realizzazione e la felicità di cui li si accredita e dall’altro considerando meno intollerabili e minacciosi gli antiscopi, sostanzialmente rendendoli per quanto sgradevoli pensabili e immaginando schemi operativi non per prevenirli ma per viverli qualora vi ci si trovasse. Nel frattempo l’omuncolo piccino picciò annoiato del freddo computare dei neuroni corticali si è calato in basso e con la flottiglia di surf della terza ondata tenta di cavalcare i marosi che si spintonano tra l’amigdala e il lobo limbico in attesa di farmacologici soccorsi.

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