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Alla ricerca della felicità: adottare il pensiero positivo o percorrere la “via negativa”?

Davvero adottare il pensiero positivo ci porta al raggiungimento della felicità? Oppure a volte è meglio percorrere una via più negativa?

Di Simone Negrini

Pubblicato il 03 Ott. 2016

Aggiornato il 04 Ott. 2019 13:59

La via negativa alla felicità è un punto di vista differente riguardo a ciò che ci sforziamo di evitare abitualmente, significa imparare ad apprezzare l’incertezza, a smetterla di cercare il pensiero positivo ad ogni costo e a familiarizzarci con il fallimento e con le emozioni negative che esso comporta.

Simone Negrini – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Felicità oggi: tra pensiero positivo e ricerca del successo

Sustine et abstine, recita il motto del filosofo greco Epittèto che riassume l’etica della filosofia stoica: sopporta quel che capita e astieniti da tutto ciò che non è in tuo potere cambiare. Questa antica formula per la felicità sembra tuttavia essere in contrasto con la tendenza odierna del pensiero positivo e del proliferarsi di manuali di self-help e di corsi che sono orientati ad aiutarci a prendere in mano le redini della nostra vita attraverso uno sforzo personale di concentrazione sulla visualizzazione del felice esito delle situazioni.

Questo approccio, teorizzato a volte dalla psicologia tradizionale, viene oggi spesso estremizzato e generalizzato a qualunque ambito della vita delle persone, diventando di fatto un businness, tanto che è ormai noto il proliferarsi, specialmente negli Stati Uniti, di seminari a pagamento nei quali vengono invitati come oratori personalità dall’indubbio successo personale allo scopo di motivare anche i più reticenti, e di spronarli verso la dottrina del ottenere il successo a tutti i costi e del raggiungimento degli obiettivi personali (Salerno, 2005).

Del resto, basta osservare gli scaffali di qualunque libreria e troveremo almeno un reparto composto da libri che vorrebbero aiutarci a liberarci dai nostri problemi, che riguardino la nostra autostima, la produttività sul lavoro, o il successo personale.

Anche in un campo delicato in questo periodo storico come quello economico, alcuni studiosi pensano che una delle cause della spregiudicatezza con la quale i broker di banche d’affari hanno agito negli ultimi anni, dando così il via alla attuale crisi economica, sia l’applicazione diretta di questo modo di pensare orientato all’ottimismo e al raggiungimento degli obiettivi a breve termine a discapito di un atteggiamento più realistico e prudenziale nella lettura della realtà economica attuale (Ehrenreich, 2010).

Seppur sia riconosciuto in termini evoluzionistici il ruolo del pensiero positivo, la felicità e l’umana tendenza a guardare al futuro con positività, il trend odierno sembra quello di voler imporre una visione basata sull’ottimismo incrollabile sempre e in qualunque contesto bandendo qualunque sentimento che sia in contrasto con questa visione.

 

Felicità e consapevolezza dei limiti

Ed è qui che si evidenziano le differenze fondamentali tra lo stoicismo e il modello di pensiero degli odierni promotori dell’ottimismo. L’approccio dei filosofi stoici teneva in grande considerazione il senso del limite che l’uomo per la sua stessa natura mortale, conteneva in sé. Il senso del limite portava gli stoici a ritenere che l’aspirazione dell’essere umano consistesse al massimo nel raggiungimento di una placida tranquillità in armonia con l’ambiente circostante che prescindeva dalla faticosa ricerca del controllo degli eventi spiacevoli e dei pensieri negativi. In questo senso, una delle strategie utilizzate consisteva proprio nel confrontarsi con le esperienze negative della vita e con le emozioni che ne conseguivano, e di esaminarle attraverso l’uso della ragione, invece di tentare di eluderle (Irvine, 2008).

Oliver Burkeman, autore di diversi libri che raccolgono il lavoro di psicologi e filosofi, sostiene nel suo ultimo lavoro ‘La regola del contrario‘, che questo modo di pensare, cioè lo sforzo continuo di eliminare le difficoltà e le incertezze della vita attraverso l’ottimismo a tutti i costi e la visualizzazione del successo possa essere perfino controproducente al fine di raggiungere quella che viene comunemente intesa come felicità. Secondo Burkeman, la problematica di fondo di alcune teorie che sostengono la tesi che per essere felici si debba imparare a essere ottimisti in ogni circostanza, è proprio questa tendenza all’assolutismo e alla non tollerabilità dei possibili esiti negativi che renderebbe il fallimento ancora più difficile da gestire (Burkeman, 2015).

Egli scrive infatti:

La formula generale, al di là delle differenze nell’approccio dell’argomento trattato, sembra essere questa: se ti sforzi di pensare alla positività e al successo, di concentrarti sul raggiungimento degli obiettivi, felicità e successo arriveranno da sé.

In altre parole, una volta deciso di adottare l’ideologia del pensiero positivo dovremmo sforzarci  di interpretare praticamente ogni eventualità come giustificazione del pensiero positivo. L’ipotesi del fallimento non è contemplata. Alcuni editori parlano della regola dei diciotto mesi, secondo la quale l’acquirente più probabile di un libro di self-help è quello che negli ultimi diciotto mesi ha comprato un libro dello stesso genere e che evidentemente  non ha risolto tutti i suoi problemi.

Ma il lavoro di svariati studiosi in questo ambito ci suggerisce anche un ‘alternativa più promettente – scrive ancora Burkeman – ovvero un approccio alla felicità che potrebbe assumere una forma completamente diversa. Il primo passo è dare un taglio alla ricerca della positività ad ogni costo, al contrario, diversi autori della “via negativa” sostengono, in modo paradossale ma persuasivo, che accogliere deliberatamente ciò che riteniamo negativo sia una precondizione della vera felicità. L’ottimismo incondizionato non fa che acuire lo shock quando le cose vanno per il verso sbagliato: sforzandoci di nutrire esclusivamente convinzioni positive sul futuro, il pensatore positivo finisce per essere meno preparato e più vulnerabile agli (inevitabili) eventi che non riesce a classificare come auspicabili. Voler vedere sempre il bicchiere mezzo pieno richiede uno sforzo costante e faticoso. Se il nostro impegno fallisce o si dimostra insufficiente a reggere uno shock imprevisto, ricadremo in una depressione forse ancora più nera (Burkeman, 2015).

Nel corso degli anni sono state condotte svariate ricerche in questo campo, al fine di verificare le possibili conseguenze negative sul benessere e sulla salute mentale dell’applicazione di un approccio così radicale. La conclusione alla quale sono giunte è stata la seguente: i nostri tentativi di raggiungere la felicità attraverso l’auto-imposizione di un pensiero positivo può renderci più depressi, così come i nostri tentativi di eliminare tutto ciò che crediamo essere negativo, come il fallimento, l’incertezza, e i sentimenti di tristezza, sono proprio gli stessi che contribuiscono a renderci più insicuri, ansiosi o infelici.

 

La via negativa per la felicità

In questo scenario sembra plausibile quindi tentare di adottare un approccio alternativo, una via negativa alla felicità appunto, un punto di vista differente riguardo a ciò che ci sforziamo di evitare abitualmente. Significa imparare ad apprezzare l’incertezza, a smetterla di cercare di pensare positivo ad ogni costo e a familiarizzarci con il fallimento e con le emozioni negative che esso comporta (Shapiro, 2006).

Sebbene come abbiamo visto l’imperativo positivo abbia raggiunto una notevole popolarità in questo periodo, questo diverso punto di vista trae le sue origini da fonti lontane e autorevoli. Le filosofie greche e latine ad esempio sottolineavano già allora i vantaggi di prendere in considerazione lo scenario peggiore quando ci si confronta con paure ed incertezze. E’ insita nel buddismo la consapevolezza che solo attraverso l’accettazione incondizionata delle insicurezze e delle emozioni negative si possa raggiungere la serenità interiore. Infine è un concetto ripreso e utilizzato a tutt’oggi nell’ambito delle psicoterapie cognitive-comportamentali, come la REBT di Albert Ellis, e dalle cosiddette terapie di terza ondata.

Tra gli studiosi più illustri delle problematiche del pensiero positivo figura Daniel Wegner, professore di psicologia nonché direttore del Mental Control Laboratory dell’università di Harvard. In particolare Wegner si è a lungo soffermato sulla teoria del processo ironico, ovvero lo studio di come i nostri tentativi di sopprimere alcuni pensieri o comportamenti finiscano paradossalmente per rafforzarli.

In un famoso esperimento un gruppo di soggetti venne istruito in particolare a non pensare a un orso bianco per cinque minuti, mentre i soggetti raccontavano i pensieri che liberamente attraversavano la loro mente. Ogni volta che avessero pensato ad un orso bianco avrebbero dovuto suonare un campanello. Ad un altro gruppo invece non venne fornita alcuna specifica istruzione riguardo all’imporsi di non pensare all’orso. Il risultato eclatante fu che si osservò un aumento nella frequenza dei trilli del campanello nel gruppo che aveva il compito specifico di non pensare all’orso bianco rispetto al gruppo che aveva la facoltà di pensarci liberamente. Secondo Wegner, si tratta di un malfunzionamento della metacognizione, vale a dire di quella capacità di distanziarsi, di auto-osservare e di riflettere sui propri stati mentali.  Questa capacità di pensare ai nostri pensieri abitualmente ci consente di avere consapevolezza e di analizzare il nostro punto di vista, tuttavia può nascere una problematica quando la attiviamo per tentare di controllare i nostri pensieri quotidiani oggettuali, per esempio sforzandoci di non pensare agli gli orsi bianchi oppure rimpiazzare i pensieri negativi con quelli positivi.

Lo sforzo che facciamo per eliminare un pensiero dalla nostra mente, ad esempio il tentare di non pensare all’orso bianco, automaticamente attiva un meccanismo di monitoraggio metacognitivo atto a stabilire se il tentativo è efficace oppure no. In questo contesto, quando ci sforziamo eccessivamente di evitare un pensiero, secondo gli studi di Wegner, la metacognizione rischia di deragliare e il monitoraggio di voler rubare ai pensieri la scena cognitiva, ed ecco che ci si troverà quasi costantemente a pensare agli orsi bianchi e a quanto siamo incapaci di pensare agli orsi bianchi (Wegner, 1989).

Secondo le ricerche svolte in questa direzione, lo stesso tipo di bias metacognitivo può essere applicato anche nel caso in cui ci sforziamo di essere positivi ottenendo di fatto il risultato opposto. Ad esempio, in un ulteriore studio di Wegner è stato dimostrato che i soggetti che vengono informati di una notizia triste e poi invitati a non sentirsi tristi finiscono per sentirsi peggio di quelli che vengono informati della notizia senza ulteriori istruzioni (Wegner et al., 1993). In un altro studio, ad alcuni pazienti che soffrivano di attacchi di panico venivano fatti ascoltare degli audio rilassanti insieme alla richiesta di sforzare di rilassarsi da parte degli sperimentatori, ma il loro cuore batteva più rapidamente rispetto ad altri pazienti che ascoltavano dei comuni audiolibri e a qui non era stata data alcuna istruzione. O ancora, dopo un lutto, i soggetti che erano sollecitati a sforzarsi più intensamente di evitare il dolore della perdita, erano quelli che ci mettevano più tempo ad elaborarlo (Lindeman, 1944).

Un’altra argomentazione a supporto dell’ipotesi della via negativa si rifà agli studi del 2009 della psicologa Joanne Wood. Wood si concentra in particolare sull’efficacia delle affermazioni positive, quella serie di statement che secondo i fautori del pensiero positivo dovrebbero incondizionatamente aumentare il tono dell’umore di chi le ripete. La teoria dell’autoraffronto prevede tuttavia che la sensazione di possedere un identità organica e coerente sia prevalente rispetto al nostro tentativo di visualizzarci come persone positive anche in situazioni che indurrebbero sentimenti di frustrazione o infelicità. Ne consegue che tendiamo a trovare artefatti e poco credibili i messaggi che confliggono con il senso di identità, e pertanto spesso li rifiutiamo, anche se veicolano messaggi ottimistici e anche se provengono da noi stessi. L’ipotesi di partenza è che a cercare conforto nelle auto-affermazioni positive incondizionate siano per definizione i soggetti più insicuri, i quali tuttavia, proprio per questo motivo, finirebbero per ribellarsi a tali messaggi in quanto incompatibili con l’immagine di sé.

In una serie di esperimenti, i soggetti venivano divisi in due gruppi a seconda del loro livello di autostima misurata in precedenza tramite dei test specifici e poi invitati a svolgere un esercizio che consisteva nel tenere un diario in cui riportavano le sensazioni provate durante l’esperimento. Ogni volta che veniva fatto squillare un campanello, dovevano ripetere a se stessi la seguente frase: ‘Io sono una persona adorabile’. I risultati di questi esperimenti ottenuti tramite le registrazioni dei pensieri su di sé dei diari dei soggetti mostrarono che il gruppo composto da soggetti con bassa autostima diventavano ancora più infelici e frustrati dopo essersi ripetuti che erano persone adorabili. L’immagine che avevano di sé collideva drasticamente con il pensiero positivo di essere una persona realmente adorabile, e il tentativo di convincersi del contrario non aveva fatto che rafforzare la loro negatività. L’utilizzo del pensiero positivo aveva di fatto peggiorato il loro stato d’animo (Wood et al., 2009).

 

La via negativa verso la felicità in psicoterapia

In ambito psicoterapeutico, numerosi sono gli approcci che attingono per alcuni aspetti all’idea della via negativa alla felicità.

L’idea originaria di Albert Ellis era offrire un’esemplificazione concreta di una filosofia antica, quella degli stoici appunto, tra i primi a ipotizzare che la via per la felicità potesse fondarsi sulla negatività.

Molti di noi, riflettono gli stoici, credono che a renderci tristi, ansiosi o arrabbiati siano certi eventi, persone o situazioni, mentre in realtà sono le convinzioni che noi nutriamo su questi eventi, persone o situazioni a renderci tali. Il nostro punto di vista o, per dirla alla Ellis, le nostre credenze irrazionali ci pongono nello stato d’animo sgradevole in cui siamo. Questo concetto, ripreso dalla filosofia stoica, è espresso anche dal imperatore-filosofo Marco Aurelio; il quale sosteneva che ‘le cose non toccano l’anima, i turbamenti vengono soltanto dall’opinione che si forma all’interno’. Una delle strategie utilizzate in questo tipo di terapia è lo spronare ad esercitarsi ad affrontare gradualmente le situazioni che ci sembrano insostenibili, invece di mettere in atto evitamenti cognitivi e comportamentali riguardo a ciò che ci fa paura, o che percepiamo come indesiderabile. Solo in questo modo ci renderemo conto di un risvolto psicologico interessante: le nostre convinzioni su quanto l’esperienza sarà atroce, una volta portate alla luce ed esaminate con razionalità, appariranno del tutto sproporzionate.

Ecco perché quando ci si trova in contesti altamente indesiderabili la strategia della visualizzazione negativa dello scenario peggiore risulta efficace: la distinzione fra eventi molto negativi e assolutamente terribili ci aiuta a dare un confine a paure che inizialmente ci possono apparire senza limiti. Inoltre, le nostre convinzioni assolutistiche, i must per dirla alla Ellis, siano essi positivi (dobbiamo essere sempre ottimisti) o negativi ci portano in genere a soffrire di uno stress indebito e ad una eccessiva preoccupazione di fallire nel tentativo di soddisfare costantemente i nostri standard (Ellis, 1989).

In conclusione, riporta Burkeman:

Ci sono tanti modi di essere infelici ma c’è un solo modo di stare tranquilli, ed è smetterla di correre dietro alla felicità.

Un’acuta osservazione utile a ribadire il problema del culto dell’ottimismo, quello sforzo ironico e, a volte controproducente, che se eccessivo finisce per scardinare la positività (Burkeman, 2015).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Burkeman O., (2015) La legge del contrario. Mondadori Libri. Milano
  • Ehrenreich B., (2010) Smile or Die: How Positive Thinking Fooled America and the World. Granta, p.12. London
  • Ellis A., (1989) Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Casa editrice Astrolabio-Ubaldini Editore. Roma
  • Irvine W., (2008) A Guide to the Good Life: The Ancient Art of Stoic Joy. Oxford University Press. New York
  • Lindeman E., (1944) Symptomatology and Management of Acute Grief. American Journal of Psychiatry 101: 141-148, citato in Wegner D., “White bears”, p. 9.
  • Mancioppi S., (2014) Quando I nostri obiettivi in realtà ci allontanano dalla felicità. State of Mind
  • Salerno S., (2005) Shame: How the Self-Help Movement Made America Helpless. Crown. New York
  • Shapiro S., (2006) Goal-free Living. John Wiley & Sons. P. 12. Hoboken. New Jersey
  • Wegner D., et al. (1993) Ironic Processes in the Mental Control of Mood and Mood-related Thought. Journal of Personality and Social Psychology 65: 1093-1104.
  • Wegner D.,  (1989) White Bears and Other Unwanted Thoughts. Guildford Press, p. 3. New York.
  • Wood J., et al. (2009)  Positive Self-statements: Power for Some, Peril for Others. Psychological Science 20: 860-866
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