expand_lessAPRI WIDGET

Depressione post partum paterna: come si manifesta?

Depressione post partum paterna: Spesso la depressione post partum è associata ad una condizione materna. Un recente studio ha però mostrato come cambiamenti di livello di testosterone, in particolare a circa 9 mesi dopo la nascita del proprio figlio, possano indurre una condizione simile anche nei padri. I padri, i cui livelli di testosterone erano aumentati, presentavano un rischio maggiore di sperimentare stress a causa del nuovo ruolo genitoriale e, inoltre, un maggiore rischio di attuazione di comportamenti ostili, come ad esempio l’aggressione emotiva, verbale o fisica verso la propria partner. 

 

Lo studio è stato pubblicato nella rivista Hormones and Behavior.

Darby Saxbe, autore principale, dichiara che i risultati emersi, sono a sostegno di studi effettuati precedentemente che mostrano le diverse risposte biologiche dell’uomo alla paternità.

Spesso si pensa alla maternità come qualcosa di biologicamente determinato perché le madri hanno appunto un legame biologico con il proprio bambino, garantito dalla gravidanza e dall’allattamento. La paternità non viene intesa negli stessi termini biologici. Si sa che i papà contribuiscono molto alla cura dei figli e che nel complesso i piccoli crescono meglio se all’interno della famiglia il papà è presente. Quindi è importante capire quali fattori contribuiscono e in che modo, a determinare un maggior coinvolgimento da parte di alcuni padri rispetto ad altri che sono assenti.

Lo studio: il legame tra livelli di testosterone e depressione post partum paterna

Saxbe ha lavorato con un team di ricercatori della USC, Università della California di Los Angeles e della Northwestern University. In questo studio sono state esaminate le associazioni tra testosterone paterno, i sintomi depressivi post-partum (paterni e materni) e il successivo funzionamento familiare.

Per lo studio, i ricercatori hanno esaminato i dati provenienti da 149 coppie della Community Child Health Research Network. Sono state reclutate madri tra i 18 e i 40 anni con basso reddito familiare e che avevano dato alla luce il loro primo, secondo o terzo figlio; i padri che hanno partecipato, hanno fornito campioni di testosterone. Gli intervistatori hanno visitato le coppie, nei primi due anni dopo la nascita del bambino per tre volte (circa a due, a nove e a 15 mesi dopo la nascita del bambino).

Durante la visita del nono mese, i ricercatori hanno consegnato il kit per il prelievo della saliva ai papà, con la raccomandazione di prelevare i campioni tre volte al giorno (mattina, mezzogiorno e sera) per monitorare i loro livelli di testosterone.

I partecipanti hanno risposto alle domande sui sintomi depressivi basati su una scala utilizzata nella maggior parte dei programmi di screening, la Edinburgh Postnatal Depression. Successivamente, hanno riportato il livello di soddisfazione del rapporto col partner, lo stress genitoriale e lo stato emotivo. I punteggi elevati evidenziavano un maggior livello di depressione, stress, insoddisfazione e aggressività. Pochi partecipanti, tra mamme e papà, sono stati identificati come clinicamente depressi.

Invece di utilizzare diagnosi cliniche, i ricercatori hanno esaminato il numero di sintomi depressivi sperimentati da ciascun partecipante. I livelli di testosterone maschile sono stati messi in relazione sia ai propri sintomi depressivi che a quelli della loro partner. Ad esempio, quantità basse di testosterone sono state associate a maggiori sintomi nei papà e meno nelle mamme. Il legame tra i livelli di testosterone e depressione è stato mediato dalla soddisfazione del rapporto con la/il partner. Le donne hanno riferito una maggiore soddisfazione per la loro relazione, che a loro volta ha contribuito a ridurre i sintomi depressivi. Ciò accade probabilmente perché i papà con testosterone inferiore trascorrono più tempo nel prendersi cura del bambino oppure perché hanno profili ormonali più sincronizzati con le mogli. Infatti si sa che per le madri, il sostegno sociale riduce il rischio di sviluppare una depressione post partum. I papà con i livelli di testosterone più alto riportano un maggiore stress genitoriale, e le loro mogli riferiscono una maggiore aggressività nella coppia.

Per misurare lo stress genitoriale è stato utilizzato il Parenting Stress Index-Short Form. La maggior parte delle risposte “sì” sono state date per items quali “Mi sento intrappolato dalle mie responsabilità di genitore” e ” Mio figlio mi fa più richieste rispetto agli altri bambini”. Le domande sulla soddisfazione del rapporto di coppia sono state valutate mediante un altro strumento largamente utilizzato, la Dyadic Adjustment Scale. I genitori hanno risposto a 32 item sulla soddisfazione del rapporto di coppia, tra cui aree di disaccordo o il loro livello di vicinanza e affetto. I punteggi più alti hanno evidenziato una maggiore insoddisfazione di coppia.

Le madri hanno risposto ad ulteriori domande mediante il questionario HITS (Hurts, Insults, and Scales of Threats), per indagare la presenza/assenza di insulti, minacce e violenza fisica nell’ultimo anno. È stato inoltre chiesto se il proprio partner avesse limitato attività come: fare la spesa, fare visita alla famiglia o agli amici. Questi ultimi sono considerati da Saxbe come fattori di rischio che possono contribuire ad una condizione cronica di depressione.

Il trattamento della depressione post partum paterna

Anche se i medici potrebbero far fronte alla depressione post partum paterna aumentando i livelli di testosterone, Saxbe dichiara che i risultati dello studio indicano che un aumento potrebbe peggiorare lo stress della famiglia; inoltre, bassi livelli potrebbero essere la conseguenza di un adattamento normale e naturale alla genitorialità.

Diversi studi hanno dimostrato che la forma fisica e un’adeguata regolazione della qualità del sonno possono migliorare l’umore e possono aiutare a bilanciare i livelli ormonali. Inoltre, sia le madri che i padri devono essere consapevoli dei segnali della depressione post partum paterna e materna ed essere disposti a cercare trattamenti e assistenza adeguati.

Quando la Mindfulness incontra il movimento: il metodo Feldenkrais per il nostro benessere

Metodo Feldenkrais: Feldenkrais ha sviluppato un metodo per giungere alla consapevolezza attraverso il movimento: l’idea alla base è che promuovendo il movimento e la consapevolezza di sé nello spazio, la persona possa essere stimolata nel vivere hic et nunc, favorendo la percezione dei suoi stati interni, lasciando scorrere sentimenti, pensieri e sensazioni che possono essere causa di stress e sovraccarico mentale.

Sara Pedroni, Sara Ghezzer, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI BOLZANO

Le reazioni allo stress

Di fronte a uno stimolo di stress, il nostro sistema nervoso ha una reazione detta di “attacco o fuga – fight or flight” e che si traduce in una mobilitazione generale di tutte le nostre risorse interne: i muscoli si tendono, aumenta la produzione degli “ormoni dello stress”, tra i quali adrenalina e cortisolo, aumentano il battito cardiaco e la pressione sanguigna, il respiro è più corto e appare affannoso, il sistema digestivo rallenta o si blocca e ci si trova in uno stato di eccitazione: siamo particolarmente responsivi a tutti gli stimoli presenti attorno a noi.

La reazione “fight or flight” è una reazione adattiva quando il nostro corpo percepisce un allarme momentaneo, ma se persiste nel tempo e si cronicizza, può portare al burn-out (Selye, 1975).

Solitamente, una volta che il pericolo è passato, si torna a uno stato di riposo in cui la pressione sanguigna e il ritmo cardiaco riprendono il loro ritmo normale, i muscoli si rilassano e tutto l’organismo recupera l’energia persa. Il problema insorge quando la “reazione allo stress” diventa uno stile di vita, una modalità con cui ci si approccia al mondo. Se questo accade si possono provare sintomi di diversa entità:

  • sintomi fisici come mal di testa, mal di schiena, indigestione, tensione nel collo e nelle spalle, dolore allo stomaco, tachicardia, sudorazione delle mani, extrasistole, agitazione, problemi di sonno, stanchezza, capogiri, perdita di appetito, problemi sessuali, fischi alle orecchie.
  • Sintomi comportamentali: digrignare i denti, alimentazione compulsiva, più frequente assunzione di alcolici, atteggiamento critico verso gli altri, comportamenti prepotenti, difficoltà a portare a termine i compiti.
  • Sintomi emozionali: tensione, rabbia, nervosismo, ansia, pianto frequente, infelicità, senso di impotenza, predisposizione ad agitarsi o sentirsi sconvolti.
  • Sintomi cognitivi: difficoltà a pensare in maniera chiara, problemi nella presa di decisione, distrazione, preoccupazione costante, perdita del senso dell’umorismo, mancanza di creatività.

Un sintomo frequente che riportano le persone che si trovano in uno stato di stress o che riferiscono di essere preoccupati per alcuni aspetti della loro vita, sono le contrazioni a diverse parti del corpo: spalle, collo, mandibola, bacino, mani, occhi, bocca, fronte e altre parti del viso.
Comprensibilmente tutti questi sintomi divengono a loro volta ulteriori fattori di stress.
A questo si affianca la frequente impossibilità nel rallentare il ritmo quotidiano, portando la persona a ricercare sistemi rapidi, brevi e poco invasivi per ridurre lo stress.

I programmi di mindfulness per ridurre lo stress

Negli ultimi decenni, la pratica della Mindfulness si è diffusa dall’America all’Europa, promossa in primis da Jon Kabat-Zinn (1991) che ha messo a punto dei programmi di riduzione dello stress basati sulla consapevolezza (MBSR). L’idea centrale è di stimolare la persona a implementare la propria sicurezza addestrandola nel dirigere l’attenzione sul qui e ora, interrompendo il “pilota automatico” che ci permette di vedere solo quello su cui siamo focalizzati: spesso segnali di emergenza, preoccupazioni e ansia.

Con Mindfulness si intende la consapevolezza del momento presente, che si coltiva esercitando l’attenzione in una modalità intensa e peculiare, ossia con intenzione, focalizzandosi sul momento presente e senza un’attitudine giudicante.
Moshe Feldenkrais, ingegnere israeliano, a partire dagli anni Cinquanta, ha sviluppato il metodo che prende il suo nome, anche altrimenti conosciuto come metodo di auto-consapevolezza del movimento.

Tuttavia, solo a partire dagli anni Ottanta, tale metodo ha iniziato a prendere piede in Europa e in Italia, dove attualmente esiste l’AIIMF, l’Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais, un’organizzazione senza scopo di lucro, con l’obiettivo di formare e diffondere questa disciplina.

Il metodo Feldenkrais: coniugare la mindfulness con il movimento

Feldenkrais ha sviluppato un metodo per giungere alla consapevolezza attraverso il movimento: l’idea alla base è che promuovendo il movimento e la consapevolezza di sé nello spazio, la persona possa essere stimolata nel vivere hic et nunc, favorendo la percezione dei suoi stati interni, lasciando scorrere sentimenti, pensieri e sensazioni che possono essere causa di stress e sovraccarico mentale.

Al contempo, le sequenze motorie, lente e continue, sono preparate in modo tale che tutto l’apparato muscolo-scheletrico possa sentirne i benefici, andando a stimolare il rafforzamento della struttura corporea.

Interessante è il tentativo di coniugare l’attività motoria ad un’attività Mindful: prestando attenzione e concentrandoci sul momento attuale possiamo rilassarci, abbandonare pensieri e preoccupazioni, portando corpo e mente ad un punto di calma e pace.

Il rilassamento, accostato all’attività motoria ci permette di diminuire lo stress quotidiano che spesso può essere causa di sintomatologia fisica, comportamentale, cognitiva ed emozionale.
La maggior parte delle persone spesso si trova a vivere momenti di conflittualità interna: riuscire a fare più cose contemporaneamente, soddisfare i propri bisogni e quelli altrui, tenere tutto sotto controllo, evitare danni e sofferenza. Tali situazioni si possono provare in qualsiasi momento, quotidianamente.

Per esempio, immaginiamo di essere bloccati in una riunione al lavoro, fissata improvvisamente dai nostri datori senza preavviso, in realtà quello che davvero vorremmo fare è essere a casa sdraiati sul divano: sviluppiamo risentimento, la nostra tensione aumenta, emergono emozioni negative come noia e contemporaneamente la tensione muscolare aumenta, prende avvio un’orchestra di sintomi da stress che si traduce in dolori e fastidi.
Ora, se fosse possibile ordinare i pensieri lasciando andare ciò che si desidera per se stessi, impegnandosi e appendendo tutte le preoccupazioni fuori dalla sala riunioni, potremmo stare lì, approfittarne per risolvere incombenze, sfruttando al meglio anche l’imprevisto negativo, accettando e sfruttando al meglio la situazione.
Saggiare la positività della situazione senza accumulare tensione.

È possibile risolvere il conflitto a livello della mente, oppure è possibile risolverlo a livello del corpo. In entrambi i casi è un’apertura verso la risoluzione, un apprendimento di una strategia verso il nostro benessere psico-fisico.

Le lezioni di Feldenkrais, anche definite di autoconsapevolezza con il movimento – ATM, offrono l’ occasione per la persona di trovare un momento in cui far fluire i pensieri, osservarli, comprenderli e accettarli. Una forma di meditazione e di movimento per comprendere che talvolta è possibile non richiedere troppo a sé e riuscire a stare in una situazione, serenamente, interrompendo il circolo vizioso che si crea molto spesso a causa dei diversi fattori di stress e riportato nel grafico sottostante.

grafico

Jon Kabat-Zinn, professore di Medicina Emerito presso l’Università del Massachusetts Medical School, ha fatto ricerche per convalidare ciò che la maggior parte delle persone che meditano già sanno: i benefici misurabili sulla psiche, il cervello e il sistema immunitario sono derivati ​​dalla pratica continua. Il metodo Feldenkrais fa lo stesso, aggiungendo il movimento cosicché mente e corpo siano entrambi beneficiari.

Movimento senza conflitti è una gioia, perché è un ritorno per completare la spontaneità. Il metodo Feldenkrais si orienta soprattutto alla rieducazione del corpo al movimento consapevole, migliorando la coordinazione delle diverse parti in un’alternanza efficiente di stabilità e flessibilità. In sintesi si tratta di creare un legame stretto con gesti e azioni che compiamo tutti i giorni. Ogni lezione di Consapevolezza Attraverso il Movimento è costruita su una funzione, come sedersi, allungare un braccio, girarsi, rotolare, camminare…tutti movimenti che iniziamo a compiere con un’attenzione, una consapevolezza e una presenza nuove, in un processo di cambiamento vissuto non come correzione bensì come evoluzione, con un senso di stima e di soddisfazione per le nostre capacità.

In modo fisiologico, senza alcuna imposizione esterna, bensì grazie a un’autoregolazione, ci sganciamo dai comportamenti automatici e limitanti, liberi di fare scelte più salutari e gratificanti. L’attenzione guidata e l’interesse sul movimento nel suo divenire ci cattura al punto che non possiamo che essere lì, presenti a noi stessi, con un senso di pienezza vitale mentre ascoltiamo le nostre sensazioni, osserviamo i nostri pensieri, accogliamo i moti dell’animo, ci percepiamo nel flusso spazio-temporale. In questo modo impediamo alla mente quel vagare che sperimentiamo nella vita quotidiana, quando il nostro corpo assolve ai soliti compiti, quasi in automatico, mentre la mente è altrove, nel passato o nel futuro, di rado nel luogo dell’azione. Nella pratica del metodo Feldenkrais riusciamo invece a dimenticarci della mente, perché essa è tutt’uno col corpo, ed è attiva semplicemente come attenta osservatrice dell’esperienza che stiamo vivendo momento per momento. Per queste caratteristiche il metodo Feldenkrais viene utilizzato per agevolare e rendere più sicuro il movimento delle persone anziane, nella riabilitazione fisica, e per il trattamento delle patologie caratterizzate da dolore cronico, con ottime dimostrazioni di efficacia.

Sfortunatamente abbiamo l’abitudine di frammentare il mondo in interiore ed esteriore, soggetto e oggetto, questo e quello, percettore e percepito, quello che ci piace e quello che non ci piace, quello che pensiamo e quello che facciamo, psiche e corpo. Di conseguenza non ci sentiamo mai veramente completi; ma, come disse Goleman, è bene ricordare che stare attenti rende felici.

Lo stadio operatorio formale: chi sono? – Gli adolescenti tra pensiero e identità

Per il ragazzo che si guarda allo specchio e vede di fronte a se modificazioni esterne e pensieri che si accavallano confusi la domanda è: chi sono? Piaget definisce questa fase stadio operatorio formale, nel quale prende forma il pensiero.

 

Eccoci qui di fronte un grande interrogativo sia per i ragazzi che per i genitori: chi sono?

Per il genitore che sta osservando la crescita del proprio bambino, più precisamente a questa età la domanda è: cosa sta diventando mio figlio? Per il ragazzo che si guarda allo specchio e vede di fronte a se modificazioni esterne e pensieri che si accavallano confusi la domanda è: chi sono?

Stadio operatorio formale: il formarsi dei pensieri al di là dei dati concreti

 Piaget definisce questa fase stadio operatorio formale, nel quale prende forma il pensiero. Lo stadio operatorio formale è caratterizzato dalla capacità di eseguire operazioni formali e va dai 12 anni in poi.

Secondo la teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget, lo stadio operatorio formale si raggiunge dopo il susseguirsi, durante la crescita, di altri stadi: lo stadio senso-motorio (da 0 ai 2 anni), lo stadio pre-operatorio (dai 2 ai 6 anni) e lo stadio operatorio concreto (dai 6 ai 12 anni) NdR.

Durante lo stadio operatorio formale bambino inizia a formulare pensieri, ipotesi, partendo non più solo dai dati concreti. Mentre prima per fare deduzione aveva bisogno di verificare materialmente un evento ora riesce pian piano ad ipotizzarlo (per esempio le operazioni matematiche).

Come dice lo stesso Piaget:

Dopo gli undici o dodici anni, il pensiero formale diviene appunto possibile, e le operazioni logiche cominciano a venir trasposte dal piano della manipolazione concreta al piano delle idee pure espresse in un qualsiasi linguaggio (il linguaggio delle parole o quello dei simboli matematici ecc.), ma senza l’appoggio della percezione, dell’esperienza, o persino della convinzione …. il pensiero formale è quindi “ipotetico-deduttivo”, cioè in grado di trarre conclusione da pure ipotesi e non soltanto da una osservazione concreta.

L’ adolescente è come un bambino piccolo che va alla scoperta del nuovo mondo fatto di mille domande. Vive nel presente ma inizia ad avere sogni, a fantasticare su un ipotetico futuro. Ogni giorno è una scoperta nuova su stesso, sul suo modo di essere. Nello stadio operatorio formale ogni ragionamento porta con sé nuove scoperte e nuove domande.

Come ci dice Flavell, il bambino

si occupa per lo più del presente, di ciò che è oggetto della sua esperienza immediata; l’adolescente estende la sfera della sua attività concettuale all’ipotetico, al futuro, a ciò che è lontano nello spazio.

Quale genitore non direbbe al proprio figlio di essere egocentrico. L’ egocentrismo infatti è parte del passaggio adolescenziale. In questo momento l’egocentrismo è di proprietà del pensiero. L’adolescente si sente padrone di tutto. Pensa, deduce quindi può. L’equilibrio tra pensiero e reale si concretizza quando ciò che pensa diventa riscontrabile nella realtà proprio come quando da neonati tutto era assimilabile a se stessi.

Con l’acquisizione di un pensiero proprio, durante lo stadio operatorio formale, gli adolescenti creano delle rappresentazioni della famiglia, della scuola e degli amici, criticandole ed esprimendone giudizi. Per gli adolescenti il futuro rappresenta l’ipotizzabile ed è a ciò che riversano più energie.

Adolescenti e acquisizione dell’identità

Durante lo stadio operatorio formale, fase di profondo cambiamento, si instaura nei ragazzi la ricerca di stessi, della propria identità.

I ragazzi si ritrovano a dover fare i conti con le proprie convinzioni, ciò che i genitori hanno loro trasmesso e ciò che vorrebbero, proiettandosi in una società specchio e sono alla ricerca di un equilibrio che si trova nella definizione della propria identità.

Secondo Erikson, si passa da uno stato di diffusione d’ identità ad uno di acquisizione dell’ identità.

Lo stato di diffusione è caratterizzato da una sperimentazione per l’adolescente di ruoli diversi, figlio, studente. In questa fase si vedono crescere le relazioni sociali e si vedono ragazze tutte vestite allo stesso modo o parlare allo stesso modo. Sono queste le prime identificazioni. Ora ci si trova non solo di fronte alle figure genitoriali ma anche a quelle dei coetanei o di  ragazzi più grandi.

La  ricerca dell’autonomia è sempre maggiore ed gli adolescenti iniziano a fare gruppo, si ritrovano nelle attività pomeridiane .

Si vedono i ragazzi comportarsi diversamente a seconda dei vari contesti. Quando si porta un amico a casa si utilizzeranno nuove regole da far rispettare anche ai genitori, se è possibile che siano presenti! Il processo di acquisizione dell’ identità non si risolve scegliendo un ruolo bensì con una sintesi dei diversi ruoli che ha sperimentato.

Tutto ciò comporta una turbolenza emotiva non da meno. Si è alle prese con adolescenti nervosi, scocciati, sempre alla ricerca di qualcosa. La conflittualità interiore provata da un adolescente è molto forte: si ritrova a combattere con il bisogno di autonomia sempre crescente e il desiderio di sentirsi ancora bambini protetti e rassicurati dai genitori.

Passeranno da momenti di rifiuto completo dei genitori a momenti che presi dal panico torneranno nel nido alla ricerca di rassicurazioni.

Il periodo adolescenziale è lungo e complesso ma così ricco di esperienze che porteranno i ragazzi ad essere degli adulti pronti ad affrontare le nuove sfide che la vita gli offrirà.

Psicologia applicata allo sport (2016) di P. Delfini – Recensione del libro

Il volume Psicologia applicata allo sport è stato scritto da Pietro Delfini, atleta e allenatore di pugilato, nonché psicologo, è stato coordinatore del Dipartimento di Psicologia dell’Istituto di Scienza dello Sport del Coni e professore a contratto presso la Facoltà di Scienze Motorie S. Raffaele di Roma.

Maricchiolo

 

Psicologia applicata allo sport: i processi cognitivi e i processi di apprendimento

Il testo, inserito nella Collana di scienze del comportamento nello sport diretta da Fabio Lucidi, si compone di due parti: la prima parte affronta i temi dei processi cognitivi, motivazionali ed emozionali implicati nell’atto sportivo. In particolare rispetto ai processi cognitivi trovano approfondimento, il processo attentivo, percettivo e mnestico. Da qui si prosegue nel considerare gli aspetti della motivazione allo sport e delle dinamiche emotive, passando attraverso l’influenza dell’arousal, dello stress e dell’ansia in rapporto alla prestazione sportiva.

Nella seconda parte di Psicologia applicata allo sport vengono trattati i temi relativi ai processi di apprendimento e a quelli legati a specifiche azioni motorie; alle dinamiche all’interno del gruppo sportivo e alla personalità dell’atleta vincente.

Concludono il testo Psicologia applicata allo sport due schede: una sul problema dell’ avviamento alla pratica sportiva intesa quale alfabetizzazione motoria, contro la precoce specializzazione in una disciplina sportiva; l’altra, sul ruolo dell’allenatore, che si consustanzia, nella modalità di leadership, nella comprensione delle motivazioni, nella competenza tecnico-tattica, nella capacità di comunicazione e dimostrazione, nella gestione delle emozioni.

Quale conditio sine qua non per la formazione e la riuscita di un allenatore di successo, dunque, oltre al possesso di competenze tecniche e di componenti tattiche tipiche di una particolare disciplina, vi è anche la conoscenza degli strumenti atti al controllo delle emozioni. Quest’ultimo aspetto se correttamente monitorato ed indirizzato, può trasformarsi in vantaggio per l’atleta, considerandolo nei termini di ansia pre-agonistica il cui effetto positivo si esplica nell’attivazione, nella “carica” ottimale dell’atleta, al fine di ottenere la sua massima prestazione.

Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Negli articoli precedenti sono state evidenziate due cose: (1) in qualsiasi singolo momento gli esseri umani sono in pieno controllo del proprio comportamento e (2) anche l’apparente disregolazione può essere un tentativo volontario di abbandonare il controllo cosciente per evitare la fatica o il disagio che comporta e (3) la convinzione di non avere controllo porta gli esseri umani a non esercitare controllo su di sé.

Tuttavia non viviamo singoli monadici momenti non integrati con ciò che accade prima o dopo. Questo è un aspetto centrale. Il controllo cosciente è sensibile a quanto viene utilizzato (Baumeister, Heatherton & Tice, 2014). La scelta volontaria di abbandono della coscienza a fronte di una invalidazione non è l’unica via in cui i nostri impulsi automatici possono prendere il sopravvento. Un’altra via è l’esaurimento delle nostre risorse. Quando siamo a secco di carburante l’esercizio del controllo cosciente è fisicamente più difficile (Vohs, et al., 2014). Questo ci dice anche che le persone che più esercitano controllo sono sia quelle più allenate ma anche quelle che possono esaurirlo con maggior frequenza.

Allenare l’ autocontrollo

La metafora più semplice per spiegare questo meccanismo è considerare l’ autocontrollo come fosse un muscolo. Questo ha due implicazioni: (1) si può allenare e migliorare con il tempo, (2) si può stancare e perdere forza con l’esercizio, (3) può recuperare energia attraverso il riposo. Quando il nostro sistema cognitivo è affaticato (stato di cognitive load), le redini del comportamento vengono lasciate maggiormente nelle mani delle abitudini e del contesto. Per esempio, lo stato di cognitive load danneggia la capacità di imparare quale sia il mazzo di carte che porta il maggior numero di vincite tra quattro possibili opzioni (Iowa Gambling Task) e riduce i livelli di conduttanza cutanea davanti a scelte rischiose (Dretsch & Tipples, 2008). Inoltre condizioni di cognitive load risultano un impedimento al processo creativo (Wagner, 2002). Questo fenomeno è conosciuto con il nome di Ego-Depletion (Baumeister et al., 1998) vale a dire una propensione naturale ad esaurire risorse dedicate all’ autocontrollo con l’esercizio.

Una moltitudine di studi sperimentali hanno verificato questo fenomeno: l’esercizio del controllo cosciente è sempre possibile ma produce carico cognitivo. Il carico cognitivo affatica il muscolo del controllo cosciente. Conseguentemente processi automatici assumono maggior rilievo. Inoltre l’energia impiegata per un esercizio di autocontrollo è sempre la medesima, quindi compiti di natura diversa si influenzano reciprocamente: il carico cognitivo generato dal tentativo di resistere a un desiderio ha un impatto su un successivo problema di resistenza alle tentazioni come su un esercizio di ragionamento, di risoluzione di un anagramma, di organizzazione di una decisione difficile.

Il correlato fisiologico del libero arbitrio

Abbiamo un’ unica risorsa cognitiva limitata che è garante del nostro libero arbitrio. Questa risorsa ha un chiaro correlato fisiologico: la concentrazione di glucosio nel cervello (Gailliot et al., 2007). Esercizi di autocontrollo riducono la concentrazione di glucosio che è correlata al calo delle prestazioni dovuto all’ego-depletion.

Parallelamente la somministrazione di glucosio tra due compiti di autocontrollo è in grado di ridurre o annullare gli effetti del processo di ego-depletion.

In sintesi, esercitare autocontrollo consuma glucosio; se il glucosio è scarso si perde la capacità di governare coscientemente il proprio comportamento che torna in mano ad automatismi radicati e routinari. Volendo un po’ esagerare potremmo sostenere che il glucosio sia la molecola su cui si fonda la libertà.

Altra considerazione affascinante: più usiamo il nostro libero arbitrio, più rischiamo di finire esauriti nella gabbia dei nostri automatismi. Quindi, libero arbitrio: usare con cura.


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

5 – Autocontrollo: la sottile linea rossa tra libero arbitrio e automatismi comportamentali

 

 

Le innovazioni della riabilitazione neuropsicologica 3.0

Grazie ai progressi della tecnologia nasce la riabilitazione neuropsicologica 3.0, capace di creare ambienti virtuali, tridimensionali complessi e interattivi che includono le rappresentazioni degli svariati luoghi frequentati dal paziente. Questa nuova tecnologia disponibile ad un prezzo sempre più accessibile consente di ottenere un alto controllo degli stimoli attraverso le diverse modalità sensoriali.

 

La riabilitazione neuropsicologica rappresenta un approccio multidisciplinare che ha come obiettivo quello di migliorare le attività di vita di tutti i giorni dei pazienti con danno cerebrale. Grazie alla conoscenza del funzionamento del cervello è possibile sottoporre i soggetti a training riabilitativi che hanno la funzione di sostituire o compensare l’abilità perduta, contribuendo a migliorare la funzione cognitiva lesa. Sebbene l’entità del deficit sia valutato mediante test standardizzati, questo approccio ha dei limiti che riguardano la validità ecologica. Un altro metodo utilizzato è la ricostruzione di ambienti di vita quotidiana in cui far esercitare il paziente; anche questo approccio pone dei limiti che vanno dai costi economici al controllo sistemico dello stimolo reale.

Storia della riabilitazione neuropsicologica

La comprensione del funzionamento cerebrale può essere ricondotto agli antichi greci e romani, le cui teorizzazioni erano limitate alle credenze religiose e culturali del tempo. Una delle prime teorie influenti è stata quella proposta, nel XVIII secolo, da F. Gall sulla specificità delle funzioni cerebrali. Fu Broca a presentare un primo programma riabilitativo per un paziente con deficit di linguaggio. Successivamente Wernicke, dichiarò che la funzione del cervello è dipendente dall’interconnessione di regioni neurali; S. Franz si è concentrato sull’apprendimento di strategie compensative. Altri sviluppi si sono verificati durante e dopo la seconda guerra mondiale a causa delle ferite al cervello riportate dai soldati. Goldstein e Luria in questo periodo hanno lavorato sulla compensazione delle abilità perdute e sui metodi per modificare i comportamenti. Un contributo significativo fu dato da Zangwill (1947) con l’introduzione di tre procedure riabilitative: strategie di sostituzione, di compensazione e di ripristino della funzione danneggiata. Ad oggi le strategie e le tecniche di rieducazione cognitiva sono in continuo sviluppo e l’obiettivo è quello di superare alcune criticità metodologiche tra cui: l’eterogeneità dei disturbi, la durata e le capacità di recupero, il grado di disabilità ed eterogeneità delle misure e delle tecniche di intervento.

Riabilitazione neuropsicologica 2.0

Recentemente, la riabilitazione neuropsicologica, sta avanzando verso un approccio valutativo più tecnologico. Ciò aiuterebbe a migliorare l’efficienza e l’accuratezza delle procedure di registrazione dei dati. La tecnologia 2.0 permette di utilizzare un metodo di raccolta dati innovativo come la “rilevazione istantanea” (metodo in cui al suono di un timer tarato sul termine dell’intervallo prestabilito, si sigla se è attivo il comportamento o meno). Un ulteriore contributo è l’adattamento della tecnologia alle esigenze individuali di ogni paziente mediante dispositivi elettronici in grado di aiutarli e sostenerli anche in contesti di vita reale. Inoltre, l’uso della tecnologia permette al paziente di registrare i dati su un dispositivo che memorizza e trasmette le informazioni elettronicamente su un database sicuro. Vengono anche proposti training riabilitativi sotto forma di software computerizzati adatti alle diverse popolazioni. Uno dei software che ha riscontrato maggior successo è “Capitain’Log” un training cognitivo capace di migliorare le prestazioni a livello di velocità di elaborazione, flessibilità cognitiva e di memoria dichiarativa in bambini sopravvissuti al cancro ed evidenziando miglioramenti anche in bambini affetti da altri tipi di patologie.

Training computerizzato

Sono stati sviluppati diversi training attentivi computerizzati che trattano tale deficit mediante un aumento graduale della difficoltà del compito. Uno studio ha mostrato l’efficacia della pratica assidua mediante tali software in bambini con ADHD, con miglioramenti di working memory spaziale, di inibizione della risposta e con la riduzione dei sintomi caratteristici del disturbo (inattenzione, iperattività e impulsività).

I metodi computerizzati si sono dimostrati efficaci sin dagli anni 80’ in pazienti con lesioni cognitive, demenza e schizofrenia. Generalmente il metodo consiste nel chiedere al paziente di dare delle risposte mediante una tastiera o un joystick in modo tale che essa venga immediatamente registrata; ciò permette la restituzione di un feedback in tempo reale, sul monitor, sull’efficienza della prestazione. Questo approccio ha evidenziato notevoli miglioramenti in questi pazienti nell’elaborazione attentiva dell’informazione. Ci sono discordanze sull’efficacia di training attentivi mirati, ad esempio, i risultati ottenuti da revisioni sommative hanno riportato un miglioramento moderato dell’attenzione in pazienti con lesione cerebrale traumatica di grado moderato-grave.

Uno studio di Brehmer e colleghi (2012) ha utilizzato un programma di riabilitazione basato su videogiochi, “Cogmed”, praticato 30 minuti al giorno per 5 giorni, per 5 settimane, in un gruppo di adulti e anziani privi di lesioni cerebrali. I risultati hanno mostrato un miglioramento significativo nelle abilità di memoria di lavoro verbale e non verbale, attenzione sostenuta e nel self-report del funzionamento cognitivo. Non è stato dimostrato nessun miglioramento della memoria, del ragionamento non verbale e nella capacità di inibire la risposta.

Riabilitazione neuropsicologica 3.0

La riabilitazione neuropsicologica 1.0 e 2.0 hanno delle limitazioni dovute alla scarsa capacità di riportare fedelmente le sfide e gli ostacoli che frequentemente si riscontrano nella vita di tutti giorni, e non replicabili in uno studio sterile o in un ambiente ospedaliero. Grazie ai progressi della tecnologia nasce la riabilitazione neuropsicologica 3.0, capace di creare ambienti virtuali, tridimensionali complessi e interattivi che includono le rappresentazioni degli svariati luoghi frequentati dal paziente. Questa nuova tecnologia disponibile ad un prezzo sempre più accessibile consente di ottenere un alto controllo degli stimoli attraverso le diverse modalità sensoriali. Grazie alla riabilitazione neuropsicologica 3.0, la registrazione delle risposte comportamentali, in relazione non solo alla lesione cerebrale o alla patologia presente, ma anche in relazione all’ambiente socio-culturale, può aiutare lo specialista nella comprensione dei problemi del paziente durante la routine quotidiana. La terapia basata sulla realtà virtuale può venire continuamente aggiornata per mezzo della risposta individuale o delle preferenze del professionista. La possibilità di rivivere esperienze emotive o dolorose potrebbero portare benefici grazie alla continua esposizione che si traduce in una maggior consapevolezza e comprensione e, di conseguenza, porta ad un maggior controllo. Gli ambienti virtuali sono sempre più utilizzati nella popolazione psichiatrica per la modificazione di problemi comportamentali o sociali; lo specialista può manipolare l’ambiente mediante l’invio di feedback in tempo reale.

La realtà virtuale si è recentemente focalizzata sulla valutazione e la riabilitazione di pazienti con deficit cognitivi. Molti ricercatori hanno promosso l’utilizzo di paradigmi di rotazione mentale ritenuti utili nel miglioramento della memoria e del problem solving. Alcuni interventi neuropsicologici sono stati tradotti in formati virtuali, come la versione VR del Multiple Errands Test (MET; Burgess et al., 2006). Questo ambiente virtuale è stato utilizzato come training per le funzioni esecutive: la pianificazione strategica, la flessibilità cognitiva e l’inibizione. Il MET è stato convalidato su pazienti con ictus e con lesioni da trauma cranico.

Interfaccia neurale nella riabilitazione

Un’interfaccia neurale (BCI) è un mezzo di comunicazione diretto tra parti funzionali del sistema nervoso centrale e un dispositivo esterno quale ad esempio un computer. Generalmente il dispositivo esterno riceve comandi direttamente da segnali derivanti dall’attività cerebrale. Le BCI bi-direzionali combinano il descritto canale di comunicazione con una linea di ritorno che permetterebbe lo scambio di informazioni tra il dispositivo esterno e il cervello. Ad oggi questa tecnologia si è focalizzata maggiormente sui disturbi motori e di comunicazione in pazienti con lesioni provocate da ictus o deficit derivanti da patologie come la sclerosi laterale amiotrofica. Inoltre, diverse ricerche stanno studiando l’influenza della BCI in popolazioni sane per indagare gli aspetti emozionali e del carico di lavoro cognitivo.

Conclusioni

Nonostante i grandi vantaggi che la realtà virtuale potrebbe portare alla riabilitazione neuropsicologica, vi sono delle barriere che ne ostacolano l’utilizzo. I principali limiti riguardano la gestione dei problemi tecnologici e i costi. Infatti molti ambienti virtuali utilizzati in diversi studi, non sono commercialmente disponibili. Per quanto concerne la difficoltà della gestione dei problemi tecnici, bisognerebbe formare il personale per il servizio di supporto, fondamentale se si vuole utilizzare tale tecnologia in ambito riabilitativo. Bisogna considerare i costi che ciò comporta, insieme al rimborso per i servizi clinici e per un personale che si occupi anche dell’analisi dei dati. Inoltre gli ambienti virtuali richiedono spazi adeguati privi di distrazioni, ma anche questa è un’altra sfida da affrontare.

Prevenire la dislessia evolutiva giocando con i videogames

Diverse ricerche hanno provato l’efficacia dei videogames nella riabilitazione della dislessia evolutiva; essi migliorano una grande varietà di abilità cognitive, come la visualizzazione spaziale, la capacità decisionale, il processamento visuo-spaziale e quello linguistico (Dorval e Pepin, 1986; Ball et al., 2002; Castel et al., 2005; Bialystok, 2006).

Vittoria Trezzi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

La dislessia evolutiva: le caratteristiche del disturbo

La lettura è un processo cognitivo complesso che riguarda l’essere umano, il quale dimostra di apprenderla abbastanza facilmente, passando dalla comprensione dei rapporti tra linguaggio orale e linguaggio scritto, ad una completa automatizzazione dei processi di lettura (Frith U., 1985).
Per alcuni bambini l’apprendimento della lettura risulta non priva di difficoltà, come se il meccanismo, che per alcuni individui risulta spontaneo, si sia inceppato.

Circa il 3,6 – 8,5% della popolazione italiana soffre di Dislessia Evolutiva, o Disturbo Specifico della Lettura (DE – Lindgren et al., 1985), un disturbo neurobiologico complesso a carattere ereditario.

La Dislessia Evolutiva è uno dei più comuni disturbi in età evolutiva e rientra all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), insieme al Disturbo Specifico della Scrittura (Disortografia e Disgrafia) e il Disturbo Specifico del Calcolo (Discalculia).
Il livello di capacità di leggere raggiunto dai bambini con Dislessia Evolutiva (cioè, precisione, velocità, o comprensione della lettura misurate da test standardizzati somministrati individualmente) si situa sostanzialmente al di sotto di quanto ci si aspetterebbe data l’età cronologica del soggetto, la valutazione psicometrica dell’intelligenza, e un’istruzione adeguata all’età.

L’anomalia della lettura interferisce notevolmente con l’apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura (APA, 2013).

Le teorie che spiegano la dislessia evolutiva

La spiegazione maggiormente accreditata per quanto riguarda l’insorgenza della Dislessia Evolutiva, si trova nel processo linguistico-fonologico. Questo modello (Teoria Fonologica) afferma che i soggetti affetti da Dislessia Evolutiva hanno uno specifico disturbo nella rappresentazione, memoria e/o recupero del suono della parola. La teoria fonologica si basa sull’assunto che, per imparare un sistema alfabetico, si ha bisogno di apprendere la corrispondenza grafema (lettera) – fonema (suono). Se questo suono è scarsamente rappresentato, memorizzato e/o recuperato, l’apprendimento della corrispondenza grafema – fonema e, successivamente, del sistema alfabetico è significativamente compromesso (Bradley e Bryant, 1978; Snowling, 1981).
La rappresentazione fonologica comprende la consapevolezza fonologica, la memoria a breve termine verbale, la denominazione rapida, l’apprendimento fonologico, la percezione dei suoni del linguaggio e la ripetizione di non parole (Goswami, 2003).

Accanto a questa spiegazione tradizionale, diversi studi mostrano come la Dislessia Evolutiva sia il risultato di una combinazione di diverse cause neurocognitive. L’attenzione visiva e la via magnocellulare-dorsale (M-D) deficitarie sono considerate cause della Dislessia (Franceschini et al., 2013). Questo modello non esclude l’ipotesi del deficit fonologico – uditivo, ma enfatizza il contributo dei meccanismi visivi nell’acquisizione e automatizzazione della lettura (Stein, 2001; Gori et al., 2014; 2015).

La teoria del deficit visuo-attentivo afferma che le abilità di attenzione visuo-spaziale (AVS) risultano avere un ruolo fondamentale nella capacità di scomposizione grafemica. Un’abilità di AVS compromessa può causare la perdita della corretta sequenza di lettere o l’errata percezione dell’orientamento delle loro caratteristiche. Queste abilità deficitarie sono frequentemente riscontrate nei bambini con difficoltà di lettura (Wolf, 2000).
L’abilità di lettura necessita dello “spotlight” attenzionale, il quale ha la funzione di “illuminare” determinate aree di interesse all’interno dell’ambiente, consentendo di individuare gli obiettivi tramite l’integrazione delle caratteristiche dell’oggetto, ossia: dimensione, forma, colore, movimento e profondità (Vidyasagar e Pammer, 2010).

Successivamente ad una prima e fondamentale elaborazione visuo-percettiva in attenzione distribuita, la cui efficacia sembra essere dovuta ad una elaborazione grossolana del sistema visivo magnocellulare-dorsale (M-D; Stein, 2014; Vidyasagar e Pammer, 2010, Facoetti, 2010; Gori e Facoetti, 2014; 2015), questo fascio attenzionale si orienta sul lato sinistro della stringa di lettere. Questa focalizzazione avviene tramite specifici meccanismi inibitori dell’elaborazione delle lettere laterali presenti sul lato destro, per poi, solo successivamente, orientarsi e focalizzarsi rapidamente sulla successiva lettera a destra. In seguito a questo meccanismo, si verifica la conversione grafema-fonema, e poi il meccanismo di mantenimento temporaneo nella MBT del fonema appena individuato.

Diversi studi affermano che bambini con Dislessia Evolutiva hanno più difficoltà nei compiti di ricerca visiva se comparati con i normo-lettori, a causa dei deficit della via M-D (Vidyasagar e Pammer, 1999; Gori et al., 2014; 2015).

Le capacità dell’AVS si ripercuotono sulle abilità di accesso rapido alle rappresentazioni fonologiche (Denka e Rudel, 1974) e concorrono, con altre difficoltà fonologiche, mnestiche e di coordinazione, alla strutturazione delle futura abilità di lettura (Franceschini et al., 2012).

Gori e collaboratori (2015) hanno mostrato il ruolo cruciale della via M-D nell’apprendimento della lettura, dimostrando che la percezione del movimento visivo, richiedente l’integrazione spazio-temporale di diversi punti in movimento coerente, misurate durante la scuola dell’infanzia, è predittiva delle future abilità di lettura. Bambini considerati cattivi lettori presentano, già alla scuola dell’infanzia, un disturbo della via M-D ed un disturbo nell’AVS (Gori et al., 2015). Questi risultati sembrano mostrare dunque come i meccanismi di orientamento e focalizzazione dell’AVS, controllati dalla via M-D, siano cruciali per lo sviluppo delle future abilità di lettura (Stein, 2001).

Tuttavia un deficit della via M-D, quindi una compromissione della percezione del movimento, non è riscontrabile in tutta la popolazione affetta da Dislessia Evolutiva (Talcott et al., 2013).

Dai dati appena presentati emerge l’esistenza di un legame causale tra i disturbi visivo-attentivi e le difficoltà di lettura (Gori e Facoetti, 2014); è quindi possibile pensare che la riabilitazione della via visiva M-D porterebbe ad un miglioramento delle abilità di lettura in soggetti con Dislessia Evolutiva senza allenare direttamente la lettura o il linguaggio.

Il trattamento della dislessia evolutiva

Attualmente i trattamenti si basano sul potenziamento fonologico, con il fine di velocizzare e migliorare l’accuratezza della lettura.

Tuttavia, date le recenti evidenze dell’implicazione del sistema attentivo nella dislessia, alcuni studiosi stanno implementando, in alternativa al tradizionale modello fonologico, un nuovo sistema di riabilitazione.

Questo recente sistema di riabilitazione supporta la teoria magnocellulare – dorsale e si prefigge l’obiettivo di prevenire la Dislessia potenziando le abilità visuo – attentive. Questo modello si basa sull’utilizzo di specifici videogiochi d’azione: gli Action Video Games (AVG). Questi sono dei videogiochi che mirano a potenziare il funzionamento cognitivo e nello specifico lavorano sul sistema attentivo, implicato nella via magnocellulare – dorsale.

Le caratteristiche che definiscono gli AVG sono: un’elevata velocità di gioco; un alto grado di carico percettivo, cognitivo e motorio (necessità di pianificazione, di tracciare il movimento di più elementi o di doverli mantenere in memoria, necessità di pianificare diverse strategie d’azione da mettere in pratica in modo rapido); imprevedibilità (temporale e spaziale); notevole rilevanza degli avvenimenti che si manifestano lontano dal centro dello schermo (Green, Li e Bavelier, 2010).

L’efficacia dei videogames nella riabilitazione della dislessia evolutiva

Diverse ricerche hanno provato l’efficacia dei videogames; essi migliorano una grande varietà di abilità cognitive, come la visualizzazione spaziale, la capacità decisionale, il processamento visuo-spaziale e quello linguistico (Dorval e Pepin, 1986; Ball et al., 2002; Castel et al., 2005; Bialystok, 2006) anche in soggetti sani (Green e Bavelier, 2003; 2006).

Solo in seguito al trattamento di AVG su soggetti adulti sani, questo strumento è stato applicato su adulti con Dislessia, raggiungendo risultati positivi (Harrar et al., 2014).

Un’ampia porzione della letteratura scientifica mostra come gli AVG siano in grado di potenziare le abilità attenzionali e percettive nei normo-lettori, funzioni che risultano compromesse in soggetti con Dislessia (Franceschini et al., 2013).

Successivamente, il trattamento con AVG è stato implementato sui bambini e gli autori di questa ricerca hanno mostrato che giocare agli AVG per sole 12 ore può significativamente migliorare le abilità dei bambini affetti da Dislessia evolutiva (Franceschini et al., 2013).

I risultati di questa ricerca hanno evidenziato un miglioramento nelle abilità di lettura che è maggiore di quanto ci si sarebbe aspettati dopo un anno di sviluppo spontaneo della lettura e, inoltre, uguali se non maggiori rispetto ai risultati ottenuti dalla riabilitazione fonologica tradizionale (Franceschini et al., 2013).

Questo dato suggerisce che il trattamento AVG è in grado di migliorare l’attenzione selettiva, per quanto riguarda la dimensione temporale e spaziale (Green et al., 2012).

Inoltre, nonostante la maggior parte degli studi parlino di miglioramenti nell’attenzione visiva a seguito di riabilitazione con AVG, sembra che vi siano benefici anche per quanto riguarda il processo visivo ed uditivo (Donohue et al., 2010; Green et al., 2010).
Dal momento che la riabilitazione della abilità attentive non implica un apprendimento già completato della lettura, essa può essere applicata a bambini in età prescolare.

L’impiego dei videogames nella riabilitazione dei disturbi del linguaggio

Un successivo passaggio di fondamentale interesse, riguarda l’applicazione della riabilitazione tramite AVG su soggetti con Disturbo Specifico del Linguaggio (DSL).
Il DSL è un deficit neuropsicologico dello sviluppo, il quale riguarda un insieme di compromissioni a livello di codifica fonologica, grammaticale, sintattica e/o lessicale. La comprensione sembra invece essere in tutti più progredita, rispetto all’abilità di produzione (Leonard, 1998).
Le difficoltà grammaticali e lessicali sembrano essere quelle più frequenti e la comunicazione si presenta impoverita, caratterizzata da frasi brevi e semplici, difficoltà a coniugare i verbi al passato, scarsa costruzione sintattica (Hsu e Bishop, 2014) sostituzioni, difficoltà nel trovare le parole (DSM – V, 2013) e nell’apprenderne di nuove (Kan e Windsor, 2010).

I soggetti con DSL condividono con i bambini affetti da Dislessia una marcata difficoltà nei compiti di conoscenza fonologica e lessicale (Catts et al., 2005), come nell’apprendimento di parole nuove (Storkel, 2003) e nella ripetizione di non – parole (Vitevitch et al.,1997).

Oltre al dominio linguistico, il DSL interessa anche le abilità visuo-spaziali (Hill, 2001; Bavin et al., 2005). A tal proposito, accanto all’insieme di sintomi conosciuti e descritti dai criteri diagnostici del DSM – 5 (2013), è stato evidenziato che i bambini con DSL presentano anche un deficit di tipo attentivo, comune alla Dislessia. Questi dati potrebbero spiegare la relazione che sussiste tra DSL e DE. Infatti, risulta che il 51% dei bambini con DSL, sviluppa successivamente difficoltà specifiche nella lettura (McArthur et al., 2000).

Questi dati potrebbero confermare diversi studi secondo cui le abilità attentive sono un’importante e necessaria componente per lo sviluppo delle abilità di lettura (Vidyasagar e Pammer, 2010; Franceschini et al., 2012; Facoetti et al., 2010).
Questi studi infatti non mettono in dubbio l’importanza delle abilità fonologiche, necessarie per l’acquisizione della lettura e, per l’appunto, deficitarie nei DSL e DE. Bensì, essi sottolineano il fatto che la decodifica fonologica richiede in origine una rapida selezione delle unità sub-lessicali ortografiche, che avviene attraverso un orientamento seriale dell’attenzione. Alla base del DSL e della DE ci sarebbe un deficit nell’attenzione visuo-spaziale, la quale causerebbe abilità fonologiche deficitarie (Stein, 2001; Vidyasagar e Pammer, 2010; Ruffino et al., 2010; Gori et al., 2014).
Questi studi potrebbero offrire un nuovo approccio per l’identificazione precoce della Dislessia evolutiva e per la sua riabilitazione preventiva effettuata su bambini con DSL (Facoetti et al., 2010).

Progetto di ricerca sui fattori predittivi e preventivi della dislessia evolutiva

All’interno di questa cornice teorica nasce il progetto di ricerca dal titolo: “La Dislessia Evolutiva: fattori predittivi e preventivi” svolto in collaborazione con l’Istituto Scientifico IRCCS Eugenio Medea di Bosisio Parini (Lecco), e l’Istituto “La Nostra Famiglia” di Como, insieme all’Università degli studi di Padova e di Bergamo.

Lo scopo del progetto è di indagare se l’utilizzo di specifici videogiochi possa avere un effetto preventivo sullo sviluppo di Dislessia Evolutiva (DE) in bambini in età prescolare con diagnosi di Disturbo Specifico del Linguaggio (DSL). Le componenti proprie di ciascun video game, con il miglior potenziale preventivo, verranno quindi identificate e rappresenteranno le basi per il successivo sviluppo di un video game volto alla prevenzione della Dislessia evolutiva.

Per raggiungere tale obiettivo i bambini che partecipano al progetto come gruppo di controllo sono sottoposti ad un trattamento logopedico standard. Tutti i bambini, a prescindere dal gruppo di appartenenza, verranno seguiti longitudinalmente per tre anni al fine di valutare e quantificare lo sviluppo dell’acquisizione delle abilità di lettura e le abilità neuropsicologiche ad essa associate.
Attualmente sono state condotte delle analisi preliminari volte ad indagare un miglioramento nelle abilità neuropsicologiche connesse alla Dislessia Evolutiva, a seguito di 12 ore di trattamento sperimentale con gli AVG.

Dai risultati ottenuti si può ipotizzare un miglioramento nell’attenzione spaziale distribuita e focalizzata e nella percezione visiva. Come già riscontrato in Franceschini e coll. (2013) si può parlare di un miglioramento generale nelle performance attentive, nei soggetti che hanno seguito un trattamento di AVG per 12 ore. I bambini sottoposti a trattamento logopedico sono anch’essi migliorati ma in modo inferiore rispetto a quelli del gruppo AVG.

Si può quindi affermare che, coerentemente con la natura della stimolazione del training, i videogames migliorano significativamente le abilità visuo spaziali ed i meccanismi attenzionali visivi alla base del riconoscimento ortografico (Bavelier et al., 2013).

Questi risultati supportano una visione multi-fattoriale della Dislessia evolutiva (Bosse et al., 2007). Infatti, se il trattamento logopedico è definito di dominio specifico, concentrandosi sugli aspetti esclusivamente fonologici, il trattamento AVG è di dominio generale, potenziando quindi sia le abilità visive, sia quelle uditive e fonologiche.

In linea con i diversi studi passati, è evidente come gli AVG permettano il miglioramento della capacità attentiva (Green & Bavelier, 2012; Franceschini et al., 2013).

I risultati dimostrano che gli AVG coinvolgono la riabilitazione di molte abilità sensoriali e, per questo motivo, sono degli ottimi candidati per il trattamento della Dislessia. Allenare i soggetti che soffrono di Dislessia a spostare il focus attenzionale verso diversi stimoli visivi ed uditivi, come accade durante l’esperienza di gioco, potrebbe aiutare a migliorare le abilità di scrittura e lettura (Harrar et al., 2014).

Questi risultati sono supportati da ricerche che mostrano che l’attenzione può essere studiata (Bulf e Valenza, 2013) ed efficacemente allenata (Wass et al., 2011) durante l’infanzia. Queste importanti evidenze aprono la strada ad un progetto di prevenzione efficace, il quale potrebbe ridurre l’incidenza di DE (Facoetti et al., 2003; Green e Bavelier, 2012; Franceschini et al., 2013, Bavelier et al. 2013).

I soggetti in età prescolare con DSL, andrebbero incontro ad un tipo di riabilitazione dell’apprendimento percettivo, che è in grado di migliorare non solo le abilità attenzionali, bensì anche le future abilità di lettura (Franceschini et al., 2013; Gori et al., 2015).

Accanto all’efficacia di questo trattamento sulle abilità di lettura, gli AVG hanno anche altri vantaggi:
– essi, come già accennato, non richiedono abilità nella lettura, quindi possono essere utilizzati agevolmente prima della diagnosi in DE. In questo senso, gli AVG sono utilizzati per un trattamento a scopo preventivo del deficit di lettura.
– inoltre, gli AVG risultano efficaci a prescindere dai vari sottotipi di DE e dalla profondità del disturbo.
– per la prima volta, il bambino si troverebbe ad affrontare una riabilitazione cognitiva sotto forma di gioco. Il bambino potrà, dunque, migliorare giocando, anche dentro camera sua.

Esattamente per queste ragioni, il trattamento AVG sembra essere un candidato per la prevenzione della Dislessia evolutiva.

Neuropsicologia dell’inconscio – Integrare mente e cervello nella psicoterapia (2017) di Efrat Ginot – Recensione del libro

Mi incuriosisce il fatto che in Neuropsicologia dell’ inconscio ci siano alcuni termini a me noti e mi interessa capire come vengono utilizzati in un approccio differente da quello cognitivo e cognitivo-comportamentale.

 

Scelgo di recensire il testo della Ginot, Neuropsicologia dell’ inconscio, in preda al terror vacui nel vedere l’agenda vuota per tutto il mese di agosto. Mi faccio recapitare il libro, lo osservo velocemente e mi pento immediatamente della scelta fatta. Non sono assolutamente esperta né di neuropsicologia, né tantomeno di inconscio. Che competenze ho per valutare questo lavoro? Leggo la prefazione di Allan Shore, ricercatore e psicanalista statunitense, autore di numerosissime pubblicazioni, e confermo la mia idea. Scriverò alla redazione un sentito mea culpa, chiedendo di affidare a una persona più esperta questo incarico. Già, perché la prefazione parla di rimozione, trasfert-controtransfert, cervello destro e risulta poco comprensibile a chi non abbia dimestichezza con questi concetti. Figuriamoci a me, che se avevo una certezza sulle neuroscienze era ciò che mi diceva una collega ricercatrice, che non si parla più tanto di “aree deputate”, quanto di reti e connessioni.

Do un’altra possibilità alle mie di connessioni, provando a vedere se andando avanti riesco a capirci qualcosa. Efrat Ginot, psicologa e psicanalista, lavora come libera professionista a New York, insegna all’Institute for Contemporary Psychotherapy e collabora come supervisore al Fifth Avenue Center For Counseling and Psychotherapy.

Inaspettatamente, all’inizio del lavoro ho una sensazione di famigliarità quando leggo:

Il termine rimozione, per esempio, e più recentemente quello di dissociazione, vengono spesso usati per descrivere le funzioni difensive dell’ inconscio dinamico

O ancora quando leggo:

Si pensa che la persistenza di pattern ripetuti che non aiutano più l’individuo a ottenere ciò che desidera consapevolmente sia determinata da conflitti irrisolti, dalla fedeltà del paziente alle figure di attaccamento interiorizzate o da un “bisogno” inconscio di ripetere tali comportamenti per mantenere le connessioni Sé-oggetto che portano a un senso di benessere” (pag. 4).

Mi incuriosisce il fatto che in Neuropsicologia dell’ inconscio ci siano alcuni termini a me noti e mi interessa capire come vengono utilizzati in un approccio differente da quello cognitivo e cognitivo-comportamentale in cui sono formata.

Neuropsicologia dell’ inconscio: i temi trattati nel libro

Nell’introduzione di Neuropsicologia dell’ inconscio vengono forniti alcuni concetti necessari a comprendere il lavoro della Ginot. Si sottolinea la tendenza a considerare l’ inconscio come una struttura dinamica, non più solo custode di contenuti rimossi o inaccessibili, ma anche insieme di

reti neurali interconnesse costituite da affetti innati, dall’apprendimento condizionato che hanno prodotto, da una miriade di difese automatiche e dalle innumerevoli associazioni tra di esse” (pag. 8).

Di qui la definizione di inconscio dinamico.

Viene sottolineata la centralità delle regioni sottocorticali (gangli basali e cervelletto), ma non senza le relative connessioni con diverse aree. Non esiste quindi un’area del cervello che possiamo disegnare, colorare e scriverci vicino “Inconscio”, anzi “Freud”, se volessimo seguire l’esempio di Broca o Wernicke. E l’inconscio manco è così recondito come lo immaginavo io. Infatti l’autrice parla di continuum conscio-inconscio, che insieme al continuum rigidità-flessibilità rende comportamenti, emozioni e cognizioni più o meno consapevoli, più o meno accessibili in terapia, più o meno conosciuti dall’individuo.

È inevitabile che mi venga in mente, leggendo Neuropsicologia dell’ inconscio un certo parallelismo con modalità di azione e interazione automatiche di alcuni pazienti, ma non voglio peccare di riduzionismo e quindi tengo a bada le mie già provate connessioni.

Il secondo capitolo si focalizza sui fondamenti neuropsicologici della paura e dell’ansia, analizzando quindi nel dettaglio il ruolo dell’amigdala: la sua attivazione determina apprendimenti sulla minaccia alla propria sicurezza, talmente primitivi e rapidi da risultare inconsci.

Per di più, una via diretta all’amigdala, al di fuori della consapevolezza, favorisce l’impiego di pattern difensivi in risposta a stimoli sensoriali o percettivi anche molto deboli (Ohman, 2009). Questi meccanismi influenzano tutti gli aspetti della nostra vita adulta, a livello emotivo, comportamentale e delle interazioni sociali. Percepiamo gli stimoli, interpretiamo gli eventi e ci comportiamo in un certo modo senza sapere perché. Tale programma emotivo viene eseguito anche contro la volontà” (pag. 73).

Nei capitoli seguenti di Neuropsicologia dell’ inconscio vengono illustrate le manifestazioni dell’ inconscio, ovvero la messa in atto di mappe inconsce che si esprimono attraverso agiti inter e intrapersonali, dando luogo a esperienze sempre più accessibili e consapevoli. In terapia questi pattern sono ancora più evidenti nelle resistenze al cambiamento e nella tendenza dei pazienti a riproporre comportamenti dannosi, che però sono noti e vengono applicati in automatico (o meglio, inconsciamente). Ma non solo: anche la definizione di sé e la lettura della propria storia di vita vengono plasmati da apprendimenti scritti in mappe neurali inconsce.

In ambito psicopatologico, il volume da spazio all’esemplificazione delle mappe inconsce nel disturbo narcisistico di personalità. Uno su tutti per descrivere la complessa realtà dei disturbi di personalità, scelto probabilmente anche per i notevoli risvolti in termini di transfert e controtransfert, che vengono rapidamente descritti.

Successivamente, in Neuropsicologia dell’ inconscio, viene dedicato un capitolo sulla terapia, troppo breve per essere esaustivo (e nemmeno è lo scopo del libro), che accenna ai momenti di insight del paziente, alla gestione del continuum rigidità-flessibilità e alla necessità di lavorare verso l’integrazione di affetti e cognizioni.

Dal momento che emozione e cognizione sono così strettamente intrecciate, esercitare la riflessività durante uno stato emotivo che compromette il benessere di un individuo può aiutare a ripristinare l’equilibrio tra le due (…). Divenendo più regolati, i comportamenti automatici e le emozioni non assumono più il controllo dell’intera esperienza cosciente di un individuo. Si guadagna maggiore prospettiva, il che può aiutare un individuo a calmarsi. A loro volta, stati più regolati possono influenzare la qualità dell’attenzione e dei processi cognitivi, nello specifico il livello di pensiero negativo” (pag. 233).

A me continua a venire in mente che la condivisione della concettualizzazione del caso con il paziente e la restituzione del suo funzionamento abbiano qualcosa in comune con quello che sto leggendo. Che sia come uno spiegargli ciò che finora ha fatto “in automatico”, specie se nel farlo contempliamo il pattern di attaccamento e le modalità che utilizza ora (su di sé e sugli altri) per evitare stati d’animo dolorosi o giudizi intollerabili su di sé. Lungi dall’essere la stessa cosa, sia chiaro, ma mi sembra che ci sia la possibilità di un confronto anche a partire da prospettive differenti. Che quando siamo nel nostro studio con il paziente siamo poi tutti di questa terra.

L’autrice di Neuropsicologia dell’ inconscio si sofferma anche sulla necessità di una terapia di lunga durata, citando studi di efficacia nel lungo termine, e affermando che il lavoro sull’ inconscio è troppo lungo e articolato per pensare che bastino poche sedute per ottenere risultati. La terapia cognitivo comportamentale viene descritta come breve e focalizzata sul sintomo: questa cosa mi crea un po’ di sconcerto e mi riporta nella realtà, dove si mantiene quella tendenza a competere più che a comprendere. Infine, viene dedicato un capitolo alla trasmissione intergenerazionale del trauma, anche qui si evidenzia come le mappe inconsce saranno pressoché inevitabilmente segnate dall’esperienza traumatica del genitore.

Il volume Neuropsicologia dell’ inconscio è impegnativo, ma lo stile di scrittura è piuttosto scorrevole. Sebbene un collega di formazione analitica possa apprezzarlo a pieno, il testo è comprensibile a chiunque operi nell’ambito. Alcuni argomenti meritano un approfondimento ulteriore, la scelta dei contenuti da trattare avrebbe potuto essere più lineare. Alla fine, l’insegnamento più grande per una profana di inconscio come me, è che al di là della frammentarietà tipica della nostra scienza, è possibile anche contemplare un’ottica integrativa, curiosa e capace di dialogare a ampio raggio nel rispetto delle differenze individuali.

Olivia: tra il bisogno del controllo e il desiderio di abbandono – Ritratti

Un’ora e quattro minuti dall’alba. Una schiera di sveglie puntate in ordinata successione suonò per ricordare a Olivia di essere al mondo. In questo mondo. Una sequenza martellante di suoni contundenti quasi quanto la voce di sua madre, che per anni aveva svolto la stessa mansione con zelo.

Anna Rossi

 

A tutto ciò Olivia aveva imparato nel tempo a opporre una resistenza passiva più o meno efficace. Imbrigliava ogni millimetro del suo corpo, quello che a quell’ora del giorno non ricordava ancora di avere, in ogni corpuscolo di quel sogno in cui non servivano né regoli né squadre. Come sempre, una lotta estenuante, in cui servivano tenacia e ferma determinazione a non mollare la presa da quella condizione di sospensione rassicurante. Alla fine di ogni combattimento, quelle note di disappunto riuscivano ad avere la meglio e a trascinarla mani e piedi (stava finalmente cominciando a ricordare la loro fattezza e la loro funzione) al centro del letto in cui la sera prima, come ogni sera, aveva preso congedo dalle sue consuete operazioni. Lì capiva di non avere più scampo. Il senso di sovranità che fino a quel momento le aveva consentito di manifestare con fermezza il proprio rifiuto, stava lentamente e inesorabilmente abdicando.

Il passaggio definitivo da quello a questo mondo avveniva sempre secondo la stessa progressione di gesti. Tutti eseguiti intorno al tavolo apparecchiato per la colazione già dalla sera prima. Una piccola festa di benvenuto, da lei stessa organizzata per dare risposta a quel suo fondamentale bisogno di incoraggiamento prima di condurre il suo corpo, al contempo così inesperto e così vissuto, nel bel mezzo di una nuova giornata. Intorno a quel tavolo, che faceva da ponte tra i due mondi, Olivia vedeva ogni mattina sedere fianco a fianco quelle due parti di sé in perenne disputa tra loro. A sinistra, il bisogno di programmazione rigorosa, anche dei più piccoli dettagli, che si manifestava per esempio nella scrupolosità con cui poneva ogni arnese necessario alla colazione (tazze, scodelle, cucchiai) alla giusta distanza rispetto agli altri, in modo da rendere ogni manovra la più rapida, economica ed efficiente possibile. A destra, il desiderio di abbandono a innocenti ambizioni, come quando si concedeva di affondare selvaggiamente le dita dentro una torta ai mirtilli e di scavarci dentro con prepotenza, estraendo uno a uno quei piccoli bottoni violacei per poi portarli lentamente al palato. In quei casi si sorprendeva per la latitanza del senso di colpa. Quello che avrebbe dovuto provare per non aver mostrato adeguata sollecitudine nei confronti di quella massa ormai informe, simile alla superficie lunare, che giaceva al centro del tavolo, in stato di totale abbandono e trascuratezza.

Il fine di ogni rituale era in fondo generare un’atmosfera familiare dalla quale lasciarsi avvolgere e contenere. Una specie di casamobile invisibile. Con le sue regole. Con i suoi atti di ribellione. Nella quale cercare rifugio al primo accenno di stanchezza o tempesta. Una casa che, ogni giorno della sua vita, aveva edificato dandogli una forma diversa, e il giorno dopo smantellato, dopo accurate valutazioni tecniche che rivelavano la scarsa solidità dei punti di appoggio e i relativi rischi per la sicurezza. O in preda ai suoi tsunami emotivi, di quelli che radono tutto al suolo, anche l’illusione di rifugio. Ma su quello che le sarebbe piaciuto o servito davvero come luogo in cui dimorare regnava sovrana l’indecisione. Di solito, in fase di progettazione Olivia si affidava alle vite degli altri, puntandoci sopra un teleobiettivo (ne aveva una quindicina) che le consentiva di mantenere dal soggetto quella distanza necessaria a non risultare invadente. Scattava così istantanee di pochi centimetri di quotidiana normalità. Avesse usato un grandangolo, se lo diceva spesso, forse il risultato non sarebbe stato così ingenuo. Tutte le immagini ottenute in quel modo venivano poi sparpagliate su una grande scrivania e quindi assemblate in composizioni azzardate, precarie. Mai abbastanza convincenti. Mai fino in fondo sincere.

Erano ormai passati ventisette minuti e quarantatré secondi dalla consapevolezza di avere un corpo. La successiva conquista consisteva nel recuperare da qualche parte la capacità di farlo funzionare sotto la guida di comandi precisi. Dopo aver ritrovato in qualche file salvato in memoria il manuale di istruzioni e averlo sfogliato velocemente per un breve ripasso, Olivia cominciò a muovere i primi di una lunga sequenza di passi nella direzione dei chilometri delle cose da fare. Tutte cose di buon senso, di quelle che tutte le persone giudiziose normalmente fanno. Prima di uscire fece il solito appello a voce alta per controllare che nella borsa ci fosse tutto il necessario. Pettine, rossetto e profumo, semmai avesse avuto bisogno di ravvivare quell’aria di normalità che solitamente indossava fuori casa senza grande disinvoltura. Portafogli, con contanti e carte di credito a seguito, uno status al quale una persona della sua età non avrebbe dovuto rinunciare se davvero desiderava apparire socialmente adattata. Sigarette e accendino, efficace ma insano rimedio per quel senso di oppressione riportato come effetto collaterale sul bugiardino del Buonsenso. Chiavi, per poter rientrare, a fine giornata, nel suo appartamento di novanta metri quadri o, all’occorrenza e in qualsiasi momento, nella sua casamobile. Infine righello e squadra, nel caso in cui si fosse accorta di deviare dalla giusta traiettoria e si fosse pertanto reso necessario un aggiustamento delle geometrie relazionali in cui si era avventurata.

Ad avvisarla della necessità di operare delle correzioni (solitamente mentre si trovava già in corsa) era una serie di segnali di allarme provenienti dal corpo, che in quei casi funzionava in modo del tutto autonomo rispetto alle indicazioni che arrivavano dalla Sala di Comando. All’inizio Olivia provava a ignorarli. E solo quando quei richiami si facevano più insistenti, al punto che neanche più il rossetto bastava a farla sentire nell’assetto giusto, cominciava a prenderli seriamente in considerazione.

Con la meticolosità e la freddezza tipiche di un ingegnere – esattamente quelle competenze che sua madre si era impegnata a trasmetterle già durante l’imprinting – cominciava allora a eseguire una serie di rigorose operazioni. Calcolava la distanza tra sé e gli altri, il perimetro della loro relazione e la superficie delle emozioni coinvolte. Verificava la correttezza delle misure ottenute, essenziale per creare lo spazio ideale in cui ogni cosa sta nella posizione giusta rispetto alle altre. Cercava di capire se quella particolare configurazione di numeri e proporzioni avesse le carte in regola per rientrare nella categoria delle Perfette Geometrie, di quelle capaci di imprigionare lo sguardo in un senso di assoluta, gelida, infeconda simmetria. Se qualcosa non tornava nei conti, non nutriva alcun dubbio: era tutta colpa della sua approssimazione. Allora, invasa da un profondo senso di indegnità, si immaginava costituirsi di fronte ai suoi professori del liceo, supplicarli di farle ritentare l’esame di maturità. Perché, in fondo lo sapevano tutti, quel diploma non se lo era affatto meritato.

Per tentare di risolvere il problema Olivia operava diligentemente una serie di aggiustamenti, accorciando o allungando la distanza a seconda della condizione di partenza. Ma nessuna di queste operazioni la conduceva mai al risultato sperato, a quello stato di ordine ultimo in cui ogni cosa dava l’impressione di stare esattamente al posto assegnatole dal Creatore. Solitamente invece i suoi aggiustamenti producevano come effetto un aumento del disordine o un irrigidimento delle posizioni dentro e fuori di sé. Quando accorciava la distanza sentiva ogni molecola del suo corpo impazzire come fa l’acqua quando la si lascia per molto tempo sopra il fuoco. Quando invece l’aumentava, il suo stato ricordava quello del ghiaccio solido, in cui ogni libertà di movimento, pensiero o espressione veniva congelata all’interno di vincoli inflessibili. E così, in preda alla confusione più disperata, tornava a documentarsi, a leggere, a studiare, nella speranza sempre viva che qualcuno più sapiente e saggio di lei potesse una volta per tutte insegnarle a stare al mondo.

Salita in macchina accese la radio e cominciò a cantare senza ritegno il suo rock preferito, accompagnando ogni vocalizzo con una mimica indecorosa, cui tutto il suo corpo aveva deciso di dare un contributo. Erano le 8.25 del mattino e Olivia, sebbene si trovasse in questo mondo, si stava concedendo di abbandonare temporaneamente ogni imperativo di normalità. Era fiduciosa del fatto che nessuno dei tanti affaccendati, che con espressioni tutt’altro che entusiaste tentavano di raggiungere il posto di lavoro o di arrivare a scuola almeno all’inizio della seconda ora, avrebbe fatto caso a quello che accadeva dentro la sua auto. Sentiva che l’ordinario tran tran collettivo di inizio giornata non poteva che giocare in suo favore, consentendole con alta probabilità di scansare qualsiasi sguardo di sdegno. Mentre si lasciava andare a quegli atti di ribellione, la stessa dei brani che stava ascoltando a tutto volume, si rese conto di essere percorsa da emozioni dimenticate da qualche parte del passato.

Una serie di immagini, souvenir di qualche viaggio a occhi nudi e senza obiettivo, le passò davanti in disordinata sequenza per poi condensarsi in un reticolo di sensazioni dentro cui si rese conto di essere immersa. Un brivido di vitalità le salì su per la schiena e si propagò in ogni altra parte del suo corpo. Cominciò a sentirsi partecipe di tutto quello che le stava intorno, di tutto ciò che riusciva a scorgere sino all’orizzonte, ma anche di tutto quello che si trovava oltre questo e che i suoi occhi (ma non la sua anima) non arrivavano a cogliere. Si rese conto che quella musica, cui attribuiva l’effetto che stava sperimentando, non aveva in realtà creato nulla di nuovo ma semplicemente aperto un varco nella sua interiorità. Un’interiorità non euclidea, dove per ogni punto esterno a una retta possono passare infinite parallele oppure nessuna, dove l’importante non è tanto effettuare misurazioni quanto piuttosto saper navigare nel modo migliore possibile uno spazio disseminato di protuberanze, avvallamenti e ondulazioni.

Accostò la macchina al marciapiede, aprì lo sportellino del cruscotto e con un gesto quasi automatico tirò fuori l’itinerario del viaggio sino a quel momento effettuato. Nell’esaminarlo Olivia si rese conto di prestare per la prima volta attenzione non tanto alla linearità del percorso seguito, quanto piuttosto alla profondità delle impronte lasciate sul suo cuore dai passi di altri viaggiatori incrociati durante il cammino.

Si stupì del fatto che quella mappa, che lei aveva affidato a un pezzo di carta che ricordava integro e illeso, contenesse in realtà i segni di ogni incontro vissuto, degli anni passati, delle vittorie e delle sconfitte sperimentate, dei doni offerti e di quelli ricevuti.

Le venne in mente quell’abbraccio incompiuto, un semplice ‘se’, un condizionale senza implicazioni, eppure così reale e attuale come l’aria che anche in quel momento entrava e usciva dai suoi polmoni, come l’acqua che lava via ogni impurità.

Assaporò l’immanenza di quella distanza che, nonostante la sua invalicabilità, la faceva sentire così prossima e vista e accolta. Si promise di custodirla con cura in un angolo di sé di cui non era fondamentale conoscere l’ampiezza.

Gettò via righello e squadra, salutò con affetto e un pizzico di nostalgia quei due mondi nei quali si era per tanto tempo divisa, vendette a un prezzo stracciato la sua collezione di obiettivi e rinunciò (senza troppa fatica) a fare ulteriori progressi nel campo dell’edilizia.

Semplicemente, indossò un berretto da marinaio a strisce bianche e blu e si mise curiosa al timone della sua vita.

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia

Lascia i tuoi commenti su cosa ti ha evocato leggere questo pezzo: emozioni o idee

Cambiamento nel trattamento psichiatrico: revisione del ruolo della serotonina

Su Journal of Psychopharmacology (2017) è stata pubblicata una ricerca che integra le evidenze già presenti sul ruolo della serotonina con quelle più recenti, per creare un nuovo modello bipartito, ovvero analizzando le due vie principali della trasmissione serotoninergica.

 

Il ruolo della serotonina nella regolazione dell’umore e dello stress

Da anni i ricercatori in ambito psicofarmacologico hanno cercato di identificare, senza successo, una teoria unitaria sul ruolo di un neurotrasmettitore fondamentale per regolare l’umore e lo stress: la serotonina. Nonostante la sua rilevanza nella comunicazione neurale, non esistono ancora modelli totalmente esplicativi della sua funzione.

Alla luce di ciò, su Journal of Psychopharmacology (2017) è stata pubblicata una ricerca che integra le evidenze già presenti a riguardo con quelle più recenti, per creare un nuovo modello bipartito, ovvero analizzando le due vie principali della trasmissione serotoninergica.
La serotonina, infatti, agisce su 14 tipi di recettori ma le sostanze antidepressive, antipsicotiche e psichedeliche si legano in particolare ai recettori 1A e 2A.

Come trattamento per pazienti depressi di solito vengono somministrati i cosiddetti farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRIs), i quali aumentano i livelli di serotonina a livello dei recettori 1A riducendo i sintomi depressivi. Questi sono considerati parte di un circuito di “coping passivo”, con la funzione di intervenire sulla tolleranza dello stress. Le sostanze psichedeliche come LSD, invece, agiscono sui recettori 2A partecipando a un “coping attivo” che consente di affrontare direttamente una fonte stressogena. Inoltre, la letteratura suggerisce prove a favore di un trattamento per i disturbi mentali la cui efficacia deriva dall’integrazione tra l’azione del farmaco sui recettori 2A e la psicoterapia.

Le nuove scoperte nell’ambito della psicofarmacologia

A differenza di quanto avvenuto in precedenza, gli autori dello studio ritengono che sia necessario spostare il focus del trattamento farmacologico sui recettori 2A, sopratutto per casi particolarmente gravi. In questo modo i pazienti diventerebbero più sensibili al proprio ambiente attraverso il miglioramento della loro adattabilità a situazioni stressanti.

Dunque, il circuito che coinvolge i recettori 1A consente di ottenere maggiore resilienza, mentre il circuito con i recettori 2A è utile nel determinare un cambiamento rapido a livello comportamentale. Quest’ultimo è richiesto soprattutto per pazienti depressi resistenti al trattamento, ossessivi-compulsivi o dipendenti da droghe, poiché l’attivazione dei recettori 2A interromperebbe il circolo che determina la pervasività e disfunzionalità dei sintomi, offrendo anche maggiore compliance a livello psicoterapeutico.

In conclusione, nuovi modelli serotoninergici potrebbero determinare un cambiamento della cura psichiatrica modificando il modo di pensare e di comportarsi dei pazienti. D’altra parte, come afferma il Dr. Carhart- Harris, in psichiatria non esistono cose o bianche o nere, quindi è necessario promuovere un modello di salute mentale che non sia costituito solo da farmaci o solo dalla psicoterapia ma da entrambi.

Manuale di psicopatologia perinatale. Profili psicopatologici e modalità di intervento (2016) – Recensione

Il Manuale di psicopatologia perinatale è scritto a più mani e ciascun autore, esperto di perinatalità, fornisce il proprio contributo psicologico, medico e giuridico rispetto a diverse questioni che riguardano appunto il periodo della perinatalità.

 

La maternità è un’esperienza di vita complessa che comporta una serie di modificazioni non solo nella donna, ma anche nel partner e nella coppia. Si tratta di un’esperienza spesso faticosa e impegnativa, caratterizzata da responsabilità, difficoltà e nuovi ruoli.

Sebbene spesso la maternità venga dipinta con volti sempre felici e sorridenti, sottintendendo che non si possa non essere entusiasti quando arriva un bimbo in famiglia, la realtà alle volte è molto lontana da tali pregiudizi e stereotipi culturali e informare le mamme del fatto che se non si sentono sempre contente di essere madri non significa essere delle “cattive madri”, è un passo fondamentale.

Manuale di psicopatologia perinatale: una visione globale al periodo della perinatalità

Il Manuale di psicopatologia perinatale è scritto a più mani e ciascun autore, esperto di perinatalità, fornisce il proprio contributo psicologico, medico e giuridico rispetto a diverse questioni che riguardano appunto il periodo della perinatalità.

Nella prima parte del libro, viene fornita una panoramica descrittiva delle patologie psichiatriche che possono insorgere durante la gravidanza e il post-partum, i fattori epidemiologici, i principali fattori di rischio, le conseguenze sulla salute della madre e del bambino e le possibilità di intervento più efficaci.

Sebbene sia il DSM-5 che l’ICD-10 facciano riferimento solo alla depressione come disturbo con esordio nel peripartum, gli studiosi sono ormai concordi nel dire che la depressione non è affatto l’unico disturbo che può insorgere in tale periodo. I disturbi dell’umore possono includere il Baby Blues, la depressione e il disturbo bipolare; i disturbi d’ansia più frequenti che si possono riscontrare sono il disturbo ossessivo compulsivo (caratterizzato dalle ossessioni della contaminazione o da quelle di poter fare del male al bambino), il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo da stress post-traumatico (a volte il parto può essere vissuto come un’esperienza traumatica) e la tocofobia, ossia la paura del parto. Con minore frequenza possono presentarsi disturbi psicotici e deliranti, che possono mettere ad alto rischio l’incolumità sia della madre che del bambino. In comorbidità possono, inoltre, presentarsi anche disturbi del comportamento alimentare o disturbi da uso di sostanze.

Le patologie psichiatriche in epoca perinatale possono comportare importanti effetti sulla salute della madre e del bambino e sullo sviluppo del bambino e in alcuni casi possono presentarsi casi di suicidio o infanticidio (Oates, 2003). I figli di madri con disturbi psichiatrici sono a rischio di neglect o di cure inadeguate e possono sviluppare disturbi psichici durante l’infanzia e l’adolescenza.

Dopo aver descritto le principali patologie psichiatriche perinatali, i fattori di rischio e gli effetti che possono avere sulla mamma e sul bambino, vengono descritte nel libro Manuale di psicopatologia perinatale altre situazioni possibili, tra cui il diniego della gravidanza, il suicidio della madre e il neonaticidio. Il diniego della gravidanza si verifica quando le madri non riconoscono il loro stato di gravidanza, manca il processo di consapevolezza della stessa e ciò può comportare seri rischi per la salute di entrambi, tra cui l’assenza di cure per il neonato, la messa in atto di comportamenti pericolosi, i maltrattamenti e perfino il neonaticidio. Le donne che presentano diniego della gravidanza sono spesso giovani, single, primipare, studentesse e vivono ancora con i genitori.

Il suicidio materno, pur essendo piuttosto raro, costituisce comunque un fenomeno piuttosto grave ed è una delle prime cause di morte per le donne durante la gravidanza e il primo anno del post partum in alcuni Paesi, come Nuova Zelanda, Regno Unito, Stati Uniti e Australia. Per questo, è importante indagare il rischio di suicidio materno già in gravidanza, ponendo domande alle donne rispetto alla possibile presenza di pensieri suicidari, al’ipotetica pianificazione e approfondire anche la presenza di fattori di rischio e protettivi, lo stato mentale della donna, la familiarità per il suicidio, precedenti tentativi di suicidio, la rete di supporto. Le donne che più frequentemente commettono il suicidio hanno precedenti esperienze di ospedalizzazione, presentano disturbi psichiatrici, sono più mature e multipare.

Il neonaticidio è, purtroppo, un altro tema difficile da affrontare, di cui si parla nel Manuale di psicopatologia perinatale. Esso consiste nell’uccisione del bambino subito dopo il parto e generalmente il figlio non è desiderato dalla madre. Si parla di infanticidio, invece, se l’uccisione avviene entro un anno di vita del bambino e di figlicidio se avviene dal primo anno di vita in poi. Vengono di seguito forniti nel testo i principali fattori di rischio, tra cui la presenza di sintomi psicotici o di patologie psichiatriche, la familiarità psichiatrica, l’abuso di sostanze, la gravidanza non desiderata, l’aver vissuto abusi o violenze nell’infanzia, lo status socio-economico basso, l’isolamento, ecc. In alcuni casi il neonaticidio è seguito dal suicidio della madre. In questi casi è molto importante la prevenzione e il riconoscimento precoce di tali situazioni a rischio, in modo tale da poter intervenire tempestivamente.

Successivamente, il Manuale di psicopatologia perinatale lascia spazio alle situazioni in cui sono presenti disturbi alimentari nelle donne o disturbi da uso di sostanze, sottolineando i possibili rischi che questi possono avere sul bambino e descrivendo le possibili modalità di intervento più adeguate in queste situazioni.

Segue il capitolo in cui vengono fornite indicazioni sugli psicofarmaci che si possono utilizzare in gravidanza e nel post-partum a seconda della diagnosi psichiatrica della mamma. La ricerca ha, infatti, dimostrato come vi siano farmaci che comportano pochi rischi per il bambino e la mancanza di una terapia farmacologica in alcuni casi può risultare devastante sia per la madre che il bambino.

Manuale di psicopatologia perinatale: il ruolo del padre

Infine, l’ultimo capitolo del Manuale di psicopatologia perinatale viene dedicato ai disturbi affettivi nei padri. Si sostiene, infatti, che, sebbene la ricerca abbia spesso dato spazio al ruolo fondamentale della madre per lo sviluppo del bambino, anche il ruolo del padre stia diventando sempre più rilevante. In particolare, nel periodo perinatale il padre svolge una funzione di base sicura per la compagna, la aiuta a superare le difficoltà e a creare una buona relazione con il bambino. In alcuni casi, il padre può soffrire degli stessi disturbi affettivi della madre e possono mostrarsi anch’essi depressi, ansiosi, ipocondriaci o presentare problemi di alcolismo o altre dipendenze. Questo può costituire una minaccia sia per la compagna che per il bambino; per questo sono importanti interventi di prevenzione o trattamento che considerino l’intero sistema familiare.

La maternità, dunque, non rappresenta sempre un periodo completamente felice della vita della donna e della coppia e informare tutto il personale medico (ginecologi, ostetriche, pediatri, medici, psicologi) delle possibili manifestazioni patologiche che possono insorgere nel periodo perinatale può essere un modo efficace per prevenire o trattare tempestivamente possibili disturbi psichiatrici o eventi negativi.

Maschi in difficoltà. Perché il digitale crea sempre più problemi alla nuova generazione e come aiutarla – Recensione

Maschi in difficoltà. L’autore descrive in una serie di capitoli una vera e propria sintomatologia volta ad identificare il periodo che si trova ad esperire il cosiddetto giovane maschio in difficoltà. Innanzitutto mette in evidenza che, rispetto agli anni addietro, la scuola sta perdendo autorevolezza e ciò fa sì che i giovani di oggi non si impegnino adeguatamente nello studio e che siano poco motivati da un’eventuale posizione lavorativa da raggiungere in futuro. A ciò si affianca il fatto che le donne paiono riuscire meglio nello studio e nella carriera, soppiantando così le posizioni che un tempo erano rivestite dagli uomini.

 

Maschi in difficoltà: un libro di Zimbardo

Mai giudicare un libro dalla copertina, ma una cosa che inevitabilmente salta all’occhio trovandosi tra le mani questo libro è l’autore.
Zimbardo, il celebre psicologo famoso per il suo esperimento della prigione di Stanford che inscenando un contesto di realtà virtuale vide i suoi attori, in questo caso subordinati e aguzzini, invischiati in un vero e proprio “carcere della mente”.

Quarant’anni fa, a seguito di questo studio, Zimbardo evidenziò che un contesto non reale ma ben costruito riesce in qualche modo a plasmare l’individuo, determinando in lui condotte non costruttive.

Con quest’ultimo libro l’autore non si allontana dall’argomento, anzi lo sostiene e conferma le sue ipotesi adattandole al contesto in cui si trovano a vivere i giovani di oggi: un contesto in cui dominano una serie di strumenti virtuali, i quali allontanano l’individuo dalla “normale” vita quotidiana.

Ma perché il libro si intitola “ Maschi in difficoltà ”? perché “Maschi” e non semplicemente “Ragazzi”?

Zimbardo si rivolge esclusivamente all’universo maschile per una serie di motivi ben precisi. Motivi che vengono ben esplicati nella prima parte del libro.

I maschi in difficoltà di oggi: chi sono e perchè sono in difficoltà

L’autore descrive in una serie di capitoli una vera e propria sintomatologia volta ad identificare il periodo che si trova ad esperire il cosiddetto giovane maschio in difficoltà.

Innanzitutto mette in evidenza che, rispetto agli anni addietro, la scuola sta perdendo autorevolezza e ciò fa sì che i giovani di oggi non si impegnino adeguatamente nello studio e che siano poco motivati da un’eventuale posizione lavorativa da raggiungere in futuro. A ciò si affianca il fatto che le donne paiono riuscire meglio nello studio e nella carriera, soppiantando così le posizioni che un tempo erano rivestite dagli uomini.

Zimbardo ci tiene a porre l’accento sulla questione relativa alla timidezza che caratterizza il giovane di oggi. Pare infatti che nel periodo odierno i ragazzi si sentano molto inadeguati, soprattutto se debbono rapportarsi ai propri coetanei o a delle ragazze che suscitano loro interesse. Causa di ciò potrebbe essere il potere che hanno i media nel proporre sempre ideali di bellezza e adeguatezza basati su quella perfezione che non esiste. Ed è impossibile sfuggire all’influenza dei media in un’epoca dove questi strumenti dominano la scena.

Per cui i ragazzi tendono a chiudersi in se stessi, rifugiandosi nell’eccessivo utilizzo di internet e dei video games.
Naturalmente viviamo in una società dove la tecnologia ha in un certo senso monopolizzato il mondo, e risulta per cui difficile non esserne coinvolti. Ma sembrerebbe che l’adolescente maschio sia particolarmente attratto dai videogiochi e dalla pornografia, strumenti che danno un senso di potere e di controllo, oltre che fornire una gratificazione immediata. È ciò non è cosa da poco, visto che i giovani in questione si dichiarano timidi e impacciati nelle relazioni, con conseguente calo dell’autostima.

Maschi in difficoltà: impegnati nel mondo digitale e non in quello reale

Ma perché si è arrivati ad una condizione del genere? Come mai i giovani maschi di oggi sono tanto legati al digitale ed hanno tutta questa difficoltà nel rapportarsi al mondo reale?

Zimbardo dà la risposta a questa domanda nella seconda parte del libro, dove esplica le cause di questi disagi.
È da asserire che i ragazzi non sono particolarmente cambiati in questi ultimi anni, ma sono pesantemente mutate le condizioni e gli ambienti in cui i giovani si ritrovano: la famiglia, il gruppo di pari, la scuola, il mondo del lavoro.

Le famiglie divorziate sono in costante aumento e ciò fa sì che i giovani di oggi si ritrovino con dei padri assenti.
Anche i cambiamenti che hanno caratterizzato il sistema scolastico, rendendolo meno autorevole e fin troppo permissivo, ha contribuito a far sì che le relazioni di qualità con gli adulti scarseggino; i ragazzi sembrano non trovare figure di riferimento né nei propri genitori tantomeno negli insegnanti.
I cambiamenti situazionali non facilitano la situazione, in quanto mettono il giovane di fronte a delle prospettive lavorative incerte e poco appaganti, gratificazione che ancora una volta viene compensata con l’utilizzo di internet e dei videogiochi.

A ciò va ad aggiungersi la cosiddetta “ascesa delle donne”.
Le donne hanno conquistato molti diritti rispetto agli anni passati, riuscendo di conseguenza ad affermarsi lavorativamente e non, conquistando un’indipendenza che permette loro di vivere senza necessariamente avere un uomo al proprio fianco. Ciò rende ancora più difficile da parte degli uomini relazionarsi a loro e costruirci le basi per una relazione stabile.
Insomma Zimbardo descrive ciò che è la realtà di adesso: la realtà virtuale in cui si trovano a vivere i giovani maschi di oggi. Una condizione che in qualche modo li condanna ad un isolamento e ad un rifugiarsi in un mondo tutto loro in cui troverebbero le corrette gratificazioni.
Ma è possibile intervenire al fine di migliorare la coesione sociale ed il corretto approccio alla vita dei giovani oggi?

Come risolvere la situazione?

La terza parte del libro espone le possibili soluzioni al problema.
E con il giusto ottimismo Zimbardo riconosce il ruolo del governo, della famiglia, della scuola e dei media, tutti strumenti in grado di porre rimedio alle conseguenze negative della tecnologia.
E in conclusione è possibile fare una considerazione: l’ossessione per la tecnologia sta crescendo in tutto il mondo, ma ciò non deve destare preoccupazione. Il rimedio alle cattive condotte vi è e sarà per cui fondamentale comprendere sia le conseguenze negative sia le potenzialità positive della tecnologia, in modo che le future generazioni possano usarle con maggior responsabilità.

Valutare l’ attaccamento adulto: l’Adult Attachment Interview – Introduzione alla Psicologia

Adult Attachment Interview: George, Kaplan e Main (1987), sulla base dei tre pattern di attaccamento, hanno ipotizzato la possibilità di differenziare i modelli di attaccamento adulto. Per questo, hanno sviluppato uno strumento, l’ Adult Attachment Interview, questionario semi-strutturato in cui si registrano le interviste che saranno classificate secondo diversi parametri. L’ Adult Attachment Interview ha permesso di definire tre modelli rappresentativi interni del sé e delle figure di attaccamento in età adulta e conseguentemente consente una classificazione degli adulti in altrettante categorie

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ attaccamento adulto e i modelli operativi interni

Per John Bowlby i legami emotivamente sicuri hanno un valore fondamentale per la sopravvivenza.
Bowlby teorizzò che i bambini, durante i primi anni di vita, partendo da esperienze relazionali precoci costruiscono dei “Modelli Operativi Interni” (MOI). I MOI sono strutture cognitive che guidano le relazioni sociali modellando la percezione sociale e il comportamento.
Queste rappresentazioni interne tendono a persistere nel tempo, sebbene nuove esperienze potrebbero trasformare i modelli esistenti modificandoli (Vaughn, Egeland, Sroufe e Waters, 1979).

Mary Ainsworth (1982), più tardi, è riuscita a supportare la teoria di Bowlby con dati empirici, e per prima individuò tre distinti pattern di attaccamento attraverso una situazione appositamente ideata in laboratorio: la Strange Situation Procedure (SSP).

La Ainsworth, dall’osservazione di gruppi di bambini che si ricongiungevano alla madre dopo essere stati separati, individuò un primo gruppo di bambini che manifestava sentimenti positivi verso la madre, un secondo che mostrava relazioni marcatamente ambivalenti ed un terzo intratteneva con la madre relazioni non espressive, indifferenti o ostili.

In un secondo momento, Main e Solomon (1990) hanno introdotto una quarta categoria, relativa ai bambini che, al momento del ricongiungimento con la madre, manifestavano comportamenti non riconducibili a nessuno dei tre pattern descritti. In questa categoria i bambini erano disorientati e confusi sia nelle intenzioni sia nei comportamenti. Per questo, tale pattern venne definito attaccamento disorganizzato/disorientato.

Questi pattern comportamentali infantili furono validati da numerose osservazioni longitudinali, raccolte sugli stessi soggetti. Ainsworth evidenziò che le madri dei bambini sicuri tendono a fornire adeguate risposte ai segnali dei loro bambini; le madri dei bambini evitanti, invece, tenderebbero a essere fredde e poco accoglienti, mentre le madri dei bambini ansiosi sarebbero inadeguate nelle risposte.

I bambini sviluppano entro i primi 8 mesi di vita uno stile di attaccamento, che si completa entro il loro secondo anno. L’indicatore per eccellenza che il legame di attaccamento è stabilito, si identifica nell’angoscia da separazione. Possono anche verificarsi attaccamenti multipli, che nel corso dello sviluppo sono suscettibili di variazioni.

Non è chiaro quando avvenga esattamente il passaggio dall’attaccamento genitoriale a quello tra i pari. Nell’adolescenza, però, l’attaccamento attraversa un periodo di transizione. L’adolescente si allontana intenzionalmente dalla relazione con i genitori e familiari, per costruire relazioni nuove con coetanei, relazioni amicali e amorose.

Negli anni ‘80 i modelli derivati dalla Strange Situation di Ainsworth, Blehar, Waters e Wall (1978), hanno stimolato un filone di studi sull’attaccamento delle relazioni adulte. L’assunto di base da cui si partì era che i MOI si costituiscono in base alle esperienze reali che i bambini hanno con le figure di attaccamento (Bowlby, 1973). I bambini, dunque, interiorizzano questi modelli che, successivamente, diventeranno la base sulla quale costruire le relazioni nell’età adulta.

Secondo Weiss (1982), l’ attaccamento adulto e quello dei bambini sono diversi tra loro. Infatti, l’attaccamento infantile è “complementare” perché la figura di attaccamento offre cure ma non ne riceve, mentre il bambino cerca, ma non offre, sicurezza. Al contrario, l’ attaccamento adulto dovrebbe essere tipicamente reciproco: entrambi i partner danno e ricevono protezione. Inoltre, per l’adulto, la figura di attaccamento è un pari e, ancora, nelle relazioni amorose è implicata anche la sfera della sessualità. Le relazioni amorose sono le relazioni di attaccamento più importanti della vita adulta (Brown e Harris, 1978; Quinton, Rutter e Liddle, 1984).

Hazan e Shaver (1987) sostengono che nell’età adulta l’amore sia simile al sentimento provato dal bambino per la madre. Ipotizzano, inoltre, che i tre pattern di attaccamento della Ainsworth si ripresentino anche nelle relazioni di coppia e le differenze individuali determinino le differenti modalità con cui i soggetti si rappresentano le relazioni di attaccamento sviluppate durante l’infanzia.

L’ Adult Attachment Interview

George, Kaplan e Main (1987), sulla base dei tre pattern di attaccamento, hanno ipotizzato la possibilità di differenziare i modelli di attaccamento adulto. Per questo, hanno sviluppato uno strumento, l’ Adult Attachment Interview, questionario semi-strutturato in cui si registrano le interviste che saranno classificate secondo diversi parametri. L’ Adult Attachment Interview ha permesso di definire tre modelli rappresentativi interni del sé e delle figure di attaccamento in età adulta e conseguentemente consente una classificazione degli adulti in altrettante categorie:

Adulti Sicuri (“F”, free): sono soggetti che mostrano valutazioni coerenti nella narrazione delle loro esperienze, anche in presenza di un’infanzia difficile o segnata da eventi traumatici.
Dimostrano di aver libero accesso ai ricordi dell’infanzia, non hanno pregiudizi e non operano una selezione di quello che viene riferito. Presentano consapevolezza del passato e raccontano facilmente anche eventi spiacevoli.

Adulti Distanzianti (“Ds”, dismissing): sono soggetti che tendono a fornire descrizioni generalizzate dei propri genitori ma non riescono a supportare tali definizioni con ricordi specifici. Se è presente il ricordo di un’esperienza difficile, a questa è attribuito scarso o nessun peso nella vita.
Hanno uno stile narrativo economico e scarno delle loro esperienze infantili e dai loro racconti è difficile individuare le emozioni sottostanti.

Adulti Preoccupati (“E”, entangled): sono soggetti ancora fermi con i ricordi alle esperienze precoci con i propri genitori che descrivono estensivamente ma con modalità incoerente e confusa. Dai loro racconti si evince un’inversione di ruolo con i propri genitori che non costituiscono pertanto una base sicura. Presentano una seria difficoltà a definire le emozioni.

Esistono anche altre due possibili codifiche derivanti dall’ Adult Attachment Interview:

Adulti Irrisolti (“U”, unresolved): sono soggetti che non hanno risolto le esperienze traumatiche legate all’attaccamento, possono presentarsi coerenti nei loro racconti, ma fanno affermazioni decisamente non plausibili a proposito delle cause e delle conseguenze di eventi traumatici, quali
la perdita di una figura di attaccamento.

– Non classificabile (CC, cannot classify): utilizzata per descrivere i trascritti delle interviste che non soddisfano pienamente i criteri per l’inserimento in una delle tre categorie “centrali” dell’attaccamento.

Un ulteriore approfondimento delle rappresentazioni di attaccamento fu compiuto da Bartholomew. Bartholomew (1990) mise in evidenza l’importanza di considerare l’effetto dell’immagine interna che ciascuno ha di sé e degli altri sulle rappresentazioni di attaccamento, in linea con il pensiero di Bowlby (1973), sapendo che i modelli operativi interni differiscono proprio in termini di immagine di sé e degli altri. Partendo da questo presupposto, Bartholomew individuò quattro modalità prototipiche di attaccamento derivanti dalla combinazione dei due livelli di immagine di sé (positiva e negativa) con i due livelli di immagine degli altri (positiva e negativa).

Quindi, i quattro prototipi di attaccamento individuati da Bartholomew sono:
(a) Prototipo Sicuro: deriva da una equilibrata combinazione tra intimità e autonomia. I soggetti
sicuri affrontano le relazioni con facilità in quanto in essi la sensazione di essere amabili (immagine positiva di sé) si combina perfettamente con l’idea che le persone sono in genere ben disposte e sensibili.
(b) Prototipo Preoccupato: indica livelli di preoccupazione elevati per le relazioni. I soggetti preoccupati tendono ad essere estremamente bisognosi di sostegno e di attenzione; a livello comportamentale ed emotivo sono instabili e ipersensibili. Inoltre sono portati a svalutarsi e ad essere eccessivamente dipendenti dall’approvazione altrui, tendendo ad idealizzare gli altri.
(c) Prototipo Distaccato/Svalutante: indica la negazione dell’intimità. I soggetti evitanti di tipo distaccato/svalutante esprimono esageratamente indipendenza e invulnerabilità; hanno una visione negativa degli altri rispetto ad una percezione positiva di se stessi. Per mantenere questa immagine positiva si distanziano emotivamente dagli altri e, con il tempo, sono portati a vedersi come pienamente autonomi. Pertanto essi raggiungono l’autonomia e il sentimento di autostima a spese dell’intimità.
(d) Prototipo Timoroso: indica la paura dell’intimità. I soggetti timorosi hanno una visione negativa sia di se stessi, sia degli altri; desiderano il contatto sociale e l’intimità, ma non si fidano degli altri e ne temono il rifiuto, per cui evitano le situazioni sociali.

A ogni prototipo è possibile avvicinarsi per gradi, poiché la maggior parte degli individui mostra più modalità di attaccamento durante l’arco della vita.
Bartholomew (1993) creò il Relationship Scale Questionnaire, per valutare la presenza delle quattro modalità prototipiche di attaccamento adulto.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Perché lo sbadiglio è contagioso?

La propensione umana allo sbadiglio contagioso, dunque, è innescata automaticamente da riflessi motori primitivi e, sebbene presente in tutti gli esseri umani, si presenta con una variabilità individuale (Bartholomew, & Cirulli, 2014). Questa idea è stata la base di un progetto di ricerca messo in atto da esperti dell’università di Nottingham, poi tradotto in un articolo pubblicato recentemente su Current Biology.

 

I correlati neurali responsabili dello sbadiglio contagioso

Vi è mai capitato di non sentirvi stanchi ma di osservare qualcun altro sbadigliare ed essere portati involontariamente ad imitarlo? Si tratta del cosiddetto fenomeno dello sbadiglio contagioso, una forma comune di “ecofenomeno”, comune in più specie, ovvero l’imitazione automatica di ciò che fa l’altro, come parole (ecolalia) o azioni (ecoprassia) (Ganos, Ogrzal, Schnitzler, & Munchau, 2012).

Le basi neurali degli ecofenomeni sono ancora sconosciute, anche se sono nate diverse teorie a riguardo. Una di queste ultime riguarda il potenziale nesso tra ecofenomeno e iper-eccitabilità della corteccia motoria primaria (Ganos et al., 2012).

La propensione umana allo sbadiglio contagioso, dunque, è innescata automaticamente da riflessi motori primitivi e, sebbene presente in tutti gli esseri umani, si presenta con una variabilità individuale (Bartholomew, & Cirulli, 2014). Questa idea è stata la base di un progetto di ricerca messo in atto da esperti dell’università di Nottingham, poi tradotto in un articolo pubblicato recentemente su Current Biology. I ricercatori hanno indagato i correlati neurali dello sbadiglio contagioso attraverso la stimolazione magnetica transcranica (TMS) di 36 soggetti adulti mentre erano esposti a video in cui altri individui sbadigliavano. Inoltre, i partecipanti erano separati in due gruppi: ad uno era richiesto di resistere a sbadigliare, all’altro era permesso di farlo. Tutti venivano video registrati per conteggiare il numero di sbadigli effettuati o trattenuti. L’utilizzo della TMS serviva a quantificare l’eccitabilità e l’inibizione fisiologica della corteccia motoria di ogni soggetto, in modo tale da predire la loro tendenza allo sbadiglio contagioso e, quindi, a confermare come questa fosse determinata proprio dall’attivazione di tali regioni cerebrali.

I risultati hanno dimostrato un incremento dell’urgenza a sbadigliare e un’alterazione della modalità di sbadiglio (es. completo vs. trattenuto) nei partecipanti a cui era richiesto di reprimere lo sbadiglio, ma non era emersa alcuna alterazione della tendenza individuale allo sbadiglio contagioso. Al contrario, i dati elettrofisiologici derivati dalla TMS risultavano predittori significativi di tale fenomeno spiegando il 50 % della variabilità individuale riscontrata. In altre parole, la variabilità individuale nell’imitare un’altra persona che sta sbadigliando dipende dall’attività eccitatoria/inibitoria della corteccia motoria primaria.

Questa ricerca rientra in una categoria di studi rilevanti per le loro implicazioni pratiche, poiché gli ecofenomeni sono riscontrabili in una serie di condizioni cliniche collegate all’attività della corteccia, come epilessia, demenza, autismo e sindrome di Tourette (Ganos et al., 2012). Dunque, comprendendo come le alterazioni nell’eccitabilità corticale determinino disturbi neurali, si potrebbe pensare a un trattamento in grado di modulare il disequilibrio presente nei network neurali.

Abuso infantile e futura promiscuità sessuale – Le risposte di fluIDsex

Mi chiedo se un abuso subito tra i nove e i dieci anni possa aver influito sulla mia fluidità sessuale, portandomi ad agire un comportamento promiscuo per molti anni della mia vita sia con uomini che con donne, fino all’attuale stabilizzazione verso il sesso femminile (Danilo).

 

Buongiorno Danilo, sicuramente un abuso può determinare delle conseguenze ed alcune di queste possono anche riguardare l’identità sessuale ed il modo di vivere la sessualità del soggetto abusato.

Ciò che mi preme però specificare è che la fluidità sessuale non è un comportamento promiscuo, ma un’espressione fluttuante dell’identità, o per lo meno dell’orientamento, sessuale del soggetto.

La promiscuità sessuale è invece un comportamento generalmente caratterizzato da un’alta numerosità di rapporti sessuali, non protetti, con diverse persone di differenti generi. Detto questo non vi è una soglia precisa che indichi quante persone bisogna aver “incontrato sessualmente” perché un comportamento possa essere considerato promiscuo. Inoltre, in psicologia, un’altra dimensione che viene considerata importante per l’inquadramento della promiscuità sessuale è la giovinezza del soggetto che si impegna nei suoi primi rapporti.

Tornando alla sua domanda, diversi studi scientifici hanno rilevano una relazione tra abuso in infanzia e promiscuità sessuale. Un’interpretazione che gli studiosi hanno dato a questo effetto dell’abuso sul comportamento sessuale del soggetto abusato è la difficoltà che può accompagnare quest’ultimo nello scindere l’affettività dalla sessualità.

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’ortoressia e il senso del cibo, spunti di riflessione dalla rete

L’ ortoressia viene definita come un’ ossessione per il “mangiare sano” che va ad incidere negativamente sulla sfera relazionale, emotiva e corporea dell’individuo. Stando alla letteratura l’esordio dell’ ortoressia nervosa è un condivisibile desiderio di mangiare meglio per avere una migliore forma fisica.

Bocazza Sara, Kettmaier Matteo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Introduzione: il significato del cibo, oltre l’utilità nutritiva

Il cibo, nella cultura italiana e in altre culture non solo occidentali, ha da sempre assunto un significato che travalica la sua utilità nutritiva. Il rituale del pranzo di famiglia ha avuto per molti anni la funzione di unificare il gruppo famigliare nonché di essere luogo per l’espressione e risoluzione di conflitti. Pensiamo al film Disney Ratatouille nel cui immancabile lieto fine il severissimo critico gastronomico viene sedotto dalla semplice ratatouille del titolo capace di risvegliare in lui il ricordo dell’affetto materno.

Già nel seminale testo di Mara Selvini Palazzoli “L’anoressia mentale” i disturbi restrittivi dell’alimentazione venivano messi in correlazione ad uno stile genitoriale materno in cui “l’importanza dell’ alimentazione vi è sottolineata pedantemente e aggressivamente, mentre i pasti hanno luogo in una atmosfera di reciproca critica e malumore”. L’ attinenza tra educazione affettiva e alimentare nei primi anni di vita è un tema che poi è stato ripreso in diverse correnti terapeutiche.

Viene da chiedersi come i mutamenti sociali degli ultimi anni in termini di composizione del nucleo famigliare, stile genitoriale e orizzonte valoriale stiano producendo un cambiamento in questo fondamentale mattoncino del percorso evolutivo di ciascuno.

Di sicuro il cibo, soprattutto negli ultimi cinque anni, è oggetto di un’attenzione mediatica senza precedenti: innumerevoli spettacoli televisivi, reality shows, approfondimenti, pareri di esperti e forum riempiono palinsesti televisivi, giornali e, soprattutto, bacheche online. A questo surplus di informazione si accompagna inevitabilmente un certo grado di disinformazione.

Per (apparente) paradosso proprio un momento storico in cui l’ alimentazione sembra passare da “questione famigliare” a “questione sanitaria” assistiamo alla proliferazione di un inquinamento informativo senza precedenti; il paradosso è apparente perché insito nella impossibilità di un’autorità assoluta sul tema. Tramontato il tempo della madre nutrice depositaria della saggezza alimentare tramandata da generazioni, nessuna autorità può davvero imporre o proporre un’alimentazione “corretta e adatta” per tutti in quanto non verrebbero presi in considerazione innumerevoli parametri individuali.  Quando poi le linee guida generali delle autorità sanitarie non bastano a rispondere a preoccupazioni personali ecco spalancarsi il vaso di Pandora delle riposte definitive che nella maggior parte dei casi sono inutili e dannose.

Ortoressia: l’ ossessione per il mangiar sano

In questo scenario emerge lo spettro di una nuova etichetta diagnostica: l’ ortoressia.

L’ ortoressia viene definita come un’ ossessione per il “mangiare sano” che va ad incidere negativamente sulla sfera relazionale, emotiva e corporea dell’individuo. Stando alla letteratura (Oberle et al., 2017) l’esordio dell’ ortoressia nervosa è un condivisibile desiderio di mangiare meglio per avere una migliore forma fisica.

E’ riportato anche come molti dei pazienti diagnosticabili con tale disturbo avessero un BMI superiore alla norma il che lascia intendere che l’ immagine corporea percepita sia problematica ma non eccessivamente distorta. Il nucleo patologico dell’ ortoressia risiederebbe quindi altrove: in una serie di convinzioni distorte su ciò che è sano e nel senso di superiorità personale che deriva dal sottoporsi alle restrizioni alimentari derivanti.

L’ ortoressia on-line

Non è difficile trovare esempi di tali convinzioni distorte in quanto esse vengono diffuse e propagandate da numerosi siti.

In attesa di un’analisi qualitativa approfondita del voluminosissimo materiale online al riguardo, riportiamo di seguito qualche esempio di convinzioni distorte.

Mangiare cibo spazzatura abbassa il vostro livello intellettivo rendendovi più facili da controllare. Questo cibo scompiglia letteralmente la vostra mente, intorpidendo i vostri sensi con il glutammato monosodico, l’aspartame ed estratti di lievito […] il cibo morto spegne i livelli superiori della coscienza […]1

Gli scarti della frutta sono eliminabili dai nostri organi in maniera perfetta, di tutta l’acqua di cui è composta la frutta il sangue se ne libera attraverso i reni, mentre il suo materiale va via attraverso l’intestino senza lasciare scorie. E’ un equilibrio perfetto in cui il sangue nutre le cellule, e dove i pochissimi scarti da loro prodotti vengono espulsi dal corpo umano attraverso il sangue, che li scarta negli organi emuntori. Questa è la perfezione che il fruttariano cerca di non alterare, ed ecco invece cosa non succede al resto del mondo, che ogni giorno subisce il circolo perverso che porta con l’andare del tempo alla debilitazione fisica” 2.

Le persone che ci accusano di ortoressia sono persone ignoranti, schiave del sistema economico-sociale-bancario-farmaceutico-alimentare-industriale attuale; io sono fiero di dire ad alta voce che tutto dipende dall’ alimentazione, anche il peccato originale è nato da un atto errato di alimentarsi (ma non era di certo la mela). L’umano dovrebbe essere l’animale più intelligente, eppure lavora e si ritrova in catene per alimentarsi.3

[…] gli ortoressici stanno cominciando ad essere visti come una minaccia per le Grandi Multinazionali, tanto da dover essere domati e repressi da Big Pharma […]4

Queste citazioni possono essere inscritte in un filone di disinformazione le cui conseguenze sulla società diventano sempre più forti ed evidenti. Antivaccinisti, sovranisti individuali, seguaci di David Icke e simili acquistano spazio nel discorso pubblico esacerbando condizioni difficili e rendendo sempre più fumoso il concetto di scientificità e libertà individuale.

In molte di queste tendenze di pensiero complottista si può riscontrare una delle componenti proposte da Oberle e collaboratori (2017) per la diagnosi di ortoressia: il senso di superiorità nei confronti degli altri. L’ ossessione per il cibo sano si presenterebbe quindi non solo come una risposta facile alla paura della morte condita da letture semplicistiche della realtà, ma anche come un “automedicazione narcisistica” che protegge da un senso di inadeguatezza sociale. Come avviene quasi sempre parlando di disturbi mentali, anche in caso di ortoressia abbiamo l’instaurarsi di un circolo vizioso per cui proprio le ossessioni alimentari finiscono per alimentare isolamento sociale e difficoltà relazionali.

A riguardo nella scala EHQ (Eating Habits Questionnaire) troviamo i seguenti item:

  • Le mie abitudini alimentari sono superiori a quelle degli altri
  • La mia dieta è migliore di quella di altre persone
  • Io cucino nella maniera più sana in assoluto
  • Io sono maggiormente informato rispetto agli altri riguardo al cibo sano.

Disinformazione on-line: quale differenza tra siti pro-ortoressia e siti pro-ana?

La disinformazione online “pro-ortoressia” si differenzia da quella, ampiamente discussa e controversa, dei canali “pro-ana” che promuovono comportamenti francamente patologici e che oscillano tra la fascinazione morbosa per la malattia e l’auto mutuo aiuto tra membri e frequentatori. L’ambizione degli integralisti del cibo sano è di tipo informativo e si presenta come una realtà rivelata spesso non scevra di accenni mistici e pseudo spirituali. Se l’ingroup dei siti pro-ana si identifica come deviante, così come le comunità online riconoscibili dalla chiave di ricerca #mysecretfamily e altre (si veda Moreno et al. 2016), parlando di ortoressia c’è invece una pretesa di superiorità morale e di proselitismo.

I danni dell’ ortoressia: le testimonianze

Fortunatamente, sempre su Internet, possiamo trovare anche testimonianze di chi ha subito le conseguenze avverse di questa condizione. Particolarmente illuminante quella di Steve Bratman 5:

Dopo un anno circa di questo regime auto-imposto, mi sentivo leggero, con la mente sgombra, pieno di energie, forte e dalla parte del giusto. Consideravo le miserabili, dissolute anime che ingoiavano biscotti con gocce di cioccolato e patatine come meri animali ridotti al soddisfare la loro brama gustativa. Ma non ero compiaciuto della mia virtù. Sentendo come un obbligo l’illuminare i miei deboli fratelli, istruivo continuamente amici e familiari sulla dannosità dei cibi raffinati e processati e sulla pericolosità di pesticidi e fertilizzanti artificiali.

In questa sofferta testimonianza possiamo leggere tutta la pesantezza di quel senso di superiorità, epifania e rivelazione di cui sopra. Questa euforia però non dura:

Gradualmente, comunque, iniziai a sentire che c’era qualcosa di sbagliato. Il bisogno di ottenere cibo privo di carne, grassi o composti chimici artificiali mise quasi tutta la socialità legata al cibo fuori dalla mia portata. Inoltre, pensieri intrusivi di cavolini si frapponevano fra me e la buona conversazione. La cosa più sconvolgente di tutte, forse, era che cominciavo a sentire che la poesia nella mia vita era diminuita. Tutto quello a cui riuscivo a pensare era il cibo.

La testimonianza di Bratman è particolarmente preziosa perché è dal suo vissuto personale e dal suo lavoro che il costrutto di ortoressia ha iniziato a farsi strada nella comunità clinica.

I siti anonimi di confessioni e testimonianze sono, poi, degli utilissimi portali per sentire la voce di chi soffre a causa dell’ ortoressia.

Per riassumere, un disturbo è un disturbo. Quando “ortoressia” è diventato finalmente parte del lessico ero sia spaventata che sollevata. Spaventata perché quello che faccio potrebbe essere considerato un disturbo; sollevata perché anche altri condividono questo dolore. L’altra cosa è che la mia vita è miserabile. Io non saprei come altro descriverlo. Riesco ad indossare la mia taglia 38 ma a parte questo tutto il resto sta crollando. Non necessariamente a causa dell’ ortoressia, ma l’ ortoressia sicuramente non aiuta, psicologicamente. Vorrei sentire le storie di altri che sono prigionieri delle loro “regole” alimentari perché è così che mi sento in questi giorni. Prigioniera”. 6

Mio marito ha iniziato a preoccuparsi della sua salute circa un anno fa e da allora mangia solo insalata scondita, verdure al vapore, frutta e frutta secca. Lui nega assolutamente che ci siano problemi di sorta nonostante abbia perso 27 kg e abbia tutti i tipi di fastidi e dolori muscolari (corre e solleva pesi ogni giorno). E’ molto difficile averci a che fare“. 7

Il ruolo e l’autorità delle informazioni online riguardanti i disturbi mentali sono un aspetto che gli operatori della salute mentale devono e dovranno tenere sempre più in considerazione. Nel caso dell’ ortoressia questo problema è particolarmente evidente. Trattandosi di un disturbo che, quantomeno al suo esordio, si presenta come egosintonico, la diffusione di informazioni a riguardo assume inevitabilmente i modi di una propaganda. Questo genere di contenuti è più facile da produrre, da ricevere e da diffondere rispetto alle storie personali segnate da vergogna, disagio e sofferenza di chi è andato oltre la “luna di miele” con le convinzioni ortoressiche.

Siamo all’alba della definizione di un disturbo che si presenta particolarmente insidioso da descrivere in termini semplici che non suonino paradossali. Se pensiamo a quanta poca informazione ci sia tutt’oggi, ad esempio, riguardo a un disturbo riconosciuto e conclamato come il gioco d’azzardo patologico ci rendiamo conto di quanto sia difficile informare e sensibilizzare riguardo a un disturbo che si presenta come parossismo patologico di un comportamento sano: l’attenzione per ciò che si mangia.

Per uscire da questa impasse occorrerebbe una maggiore enfasi sull’aspetto relazionale della vita odierna. Quello che l’ ortoressia toglie alle persone è proprio la pienezza dell’esperienza alimentare come momento sociale e culturale. La convivialità sembra essere un valore perduto e la rappresentazione mediatica del cibo assume toni sempre più medicalizzanti e elitistici.

Telegiornali e riviste insistono quotidianamente nel proporre improbabili regimi alimentari perfetti con i quali prevenire malattie e vivere a lungo oppure indugiano nella retorica di un cibo sano perché tradizionale, etico, e puro. In tutto questo si è perso il senso comunitario del nutrirsi aprendo la porta alle esagerazioni della pubblicistica online, narrazioni del cibo coerenti con quelle ufficiali ma con quell’esasperazione contenutistica capace di creare un nuovo senso di appartenenza negli utenti di tali siti.

Nella presunzione e nel narcisismo di questi profeti dell’ alimentazione pura assistiamo al ribaltamento definitivo dell’idea giudaico-cristiana del cibo come fattore di inclusione e condivisione. Proprio gli alimenti diventano invece veicoli di auto esclusione, dei totem attribuiti di proprietà magiche positive o negative il cui culto divide l’umanità tra i risvegliati e i dormienti: non è un caso che molto spesso venga citato il film Matrix come metafora di questa condizione. Non possiamo che sperare in una maggiore attenzione nei confronti del disagio mentale, non solo in materia di ortoressia ma in generale, nonostante lo scarso appeal che questo può avere sul sistema dei mass media.

L’anonimato della comunicazione online in questo gioca un ruolo positivo permettendo la self-disclosure anche dei vissuti più difficili.

Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi (2015) di Giuseppe Craparo – Recensione del libro

Appare molto interessante questo libro di Craparo che già dal titolo, Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, mostra il tentativo di affrontare alcuni temi particolarmente pregnanti nella pratica analitica.

Francesca Picone

 

Appare molto interessante questo libro di Craparo che già dal titolo, Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, mostra il tentativo di affrontare alcuni temi particolarmente pregnanti nella pratica analitica, quali il significato del desiderio e del desiderare e il confronto con il bisogno di certezze secondo i principi del classico modello scientifico. Si tratta di un piccolo libro che però un analista aggiornato, o comunque uno studioso di psicodinamica, non può non tenere a portata di mano per l’importanza degli argomenti trattati.

Craparo, infatti, presenta con Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi un lavoro molto denso ed estremamente ricco, che spazia dalla più tradizionale teoria freudiana alle più moderne impostazioni psicoanalitiche: pur attingendo a punti di vista di Autori di correnti anche apparentemente molto distanti tra loro, ne emerge una visione personale sintetica, che è la risultante di una propria matura rielaborazione, supportata in modo assolutamente appropriato dalla presentazione di più situazioni cliniche.

Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi: dalla teoria alla pratica

Nel corso della lettura di Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, appare evidente una sorta di progressione a partire da una dimensione più teoretica che puntualizza i differenti concetti di inconscio, per poi giungere alle più evidenti implicazioni nelle patologie relative al disfunzionamento dell’inconscio rimosso e dell’inconscio non rimosso, fino ad entrare nella pratica clinica.

Il testo è scritto in maniera molto chiara e concisa, procedendo talora in modo molto serrato; in più circostanze, Craparo si espone direttamente con un proprio punto di vista a volte in forte contrasto con i vari Autori, mentre in altre circostanze precisa e chiarifica l’opinione di altri studiosi in modo sempre lucido; la padronanza dei temi indica lo spessore culturale e clinico dell’Autore, soprattutto quando si sofferma sul ruolo delle emozioni traumatiche in alcune forme di patologie gravi, quali le dipendenze patologiche.

La stessa lucidità la si ritrova quando vengono descritte le differenze tra acting out ed enactment, partendo dalle definizioni in letteratura, ma rivisitandole sulla scorta dell’excursus teorico mostrato nel testo. Ne scaturiscono, in particolare, importanti e preziose ricadute dell’enactment sulla relazione analitica, come espressione in termini di non-detto di ciò che il paziente non riesce altrimenti ad articolare, di quel desiderio (da de-siderare, raggiungere, avvicinarsi  alle stelle), che in modo diverso a seconda della gravità del disturbo, si ritrova per così dire fissato nel sintomo.

All’analista allora, scrive Craparo in Inconsci, coscienza e desiderio – L’incertezza in psicoanalisi, il compito di ascoltare il sintomo, perché possa successivamente essere interrogato. Ancora all’analista, il compito di dover duramente fare i conti con il fatto di “sapere di non sapere” e di fare della pratica dell’in-certezza l’unica dimensione possibile per l’analisi, capace di rendere oggettivo e quindi certo, ciò che è soggettivo e quindi totalmente incerto, in un processo di profonda condivisione emotiva  tra analista e paziente.

Il sintomo, dalla sua radice greca sun-temno (tagliare, interrompere), può diventare così sum-ballo (mettere insieme), cioè simbolo, riattivando, e in alcuni casi, avviando per la prima volta, quello straordinario percorso, che è il viaggio della vita.

L’utilizzo di tecniche di neurostimolazione nel trattamento dei disturbi psichiatrici

Recentemente, un numero sempre crescente di studi neuroscientifici ha indagato i circuiti neurali coinvolti nei vari disturbi psichiatrici, allo scopo di chiarire i meccanismi neurobiologici che contribuiscono alla loro comparsa e mantenimento e sviluppare delle tecniche di neurostimolazione efficaci.

 

Le evidenze circa il ruolo di determinate regioni cerebrali e circuiti neurali ha portato ad indagare l’utilizzo di tecniche di neurostimolazione per interferire con l’attività delle aree coinvolte nella fisiopatologia dei diversi disturbi, allo scopo di sviluppare protocolli di trattamento da affiancare alle classiche terapie farmacologiche e alla psicoterapia. Queste tecniche infatti sono facilmente impiegabili sia in ambito clinico che in contesti di ricerca e hanno il vantaggio di produrre effetti specifici, non invasivi e potenzialmente a lungo termine.

Tecniche di neurostimolazione: la Stimolazione Magnetica Transcranica

La Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), introdotta inizialmente per la studio dell’eccitabilità della corteccia motoria, è una delle tecniche di neurostimolazione non invasive, in grado di indurre potenziali post sinaptici eccitatori all’area target della stimolazione creando un campo elettromagnetico attraverso un coil. Quest’ultimo può essere di varie forme: circolare, caratterizzato da un campo elettrico diffuso; a farfalla, costituito da un campo elettrico più concentrato e più forte che rende questo tipo di coil il più adatto per gli studi di mappaggio cerebrale; conico, con le ali che seguono la forma della testa e con un campo elettrico meno concentrato ma più forte, infatti esso viene usato soprattutto per stimolare aree corticali più profonde e infine il coil 25 mm, impiegato in particolare per la stimolazione periferica. La TMS viene applicata seguendo diversi paradigmi di stimolazione tra cui la stimolazione on-line e off-line, la stimolazione a singolo e a doppio impulso e quella a impulsi ripetuti (rTMS), che determina effetti neurali più duraturi; in particolare quando la rTMS viene applicata a bassa frequenza (< 1 Hz) l’eccitabilità corticale si riduce, quando invece viene utilizzata ad alta frequenza (> 1 Hz) l’eccitabilità aumenta.

Effetti della TMS su alcuni disturbi psichiatrici

L’efficacia della TMS nel trattamento della depressione maggiore è stata approvata nel 2008 dalla Food and Drug Administration (FDA), sulla base dei risultati di alcuni studi tra cui quello di O’Reardon e colleghi (2007) che ha riportato un miglioramento significativo dei sintomi depressivi in un campione di 301 pazienti sottoposti ad un trattamento che prevedeva l’applicazione della rTMS ad alta frequenza sulla corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra (lDLPFC), cinque volte la settimana, per sei settimane. In particolare, la neurostimolazione può aver interferito con l’ipoeccitabilità della lDLPFC, che sembra avere un ruolo nella genesi del disturbo.

Rispetto all’uso di tecniche di neurostimolazione in caso di disturbo ossessivo-compulsivo, uno studio (Ruffini, Locatelli, Luca et al., 2009) ha utilizzato per tre settimane consecutive la rTMS a bassa frequenza sulla corteccia orbito frontale sinistra di 18 pazienti, dimostrando un miglioramento dei sintomi al termine del trattamento e a dieci settimane dalla fine.

L’efficacia della neurostimolazione può essere il risultato dell’interferenza con l’iperattività della corteccia orbito frontale. Diversi studi di neuroimaging infatti hanno associato il disturbo ossessivo-compulsivo a disfunzioni a carico del circuito neurale che lega la strutture frontali ai gangli della base: in particolare si osserva un’aumentata attività a livello della corteccia orbito frontale, della corteccia cingolata anteriore, dell’area supplementare motoria, del nucleo caudato e del talamo.

Infine, per quanto riguarda l’uso di tecniche di neurostimolazione nei disturbi del comportamento alimentare, uno studio recente (McClelland, Kekic, Campbell et al., 2016) ha dimostrato l’efficacia della rTMS ad alta frequenza applicata per venti sessioni sulla corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra di 5 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa. Si è osservata infatti una riduzione della sintomatologia alimentare e delle difficoltà legate all’umore in seguito al trattamento e fino a 12 mesi di follow-up. L’ipotesi è di un recupero, attraverso la rTMS, dell’ipoattività delle regioni frontali associata ai problemi di controllo inibitorio e di flessibilità cognitiva, caratteristici dell’anoressia nervosa.

Gli esempi illustrati, dunque, sottolineano le potenzialità dell’impiego delle tecniche di neurostimolazione in ambito clinico, tuttavia ulteriori studi sono necessari per chiarire i loro effetti e il ruolo delle aree corticali implicate nei diversi disturbi. In particolare, in base ai risultati, potrebbe essere possibile mettere a punto dei trattamenti di neurostimolazione che, in associazione a quelli standard già implementati, possano favorire miglioramenti dei sintomi a lungo termine.

cancel