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Il ragionamento clinico in psicoterapia – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale. Un sintomo è dunque semplicemente una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Ragionamento clinico – Nr. 23

 

Il ragionamento clinico del terapeuta a partire dal sintomo del paziente

Quando ho di fronte a me un paziente o più in generale una persona cerco di seguire attraverso la traccia delle sue parole il filo del suo ragionamento e nel farlo anche io ragiono e da questo mio ragionare scaturiscono domande, attenzioni, atteggiamenti che a loro volta influenzano il dipanarsi del filo del ragionamento dell’altro. I fili dei due ragionamenti si intrecciano, si intessono e si influenzano l’un l’altro. Normalmente al termine sono abbastanza in grado di descrivere il ragionamento dell’altro, molto meno il mio perchè evidentemente mi do per scontato, mi sembra naturale, ovvio e non ci bado, non è un oggetto esterno ma il soggetto descrittore. Siccome invece è parte fortemente in gioco immagino ora di essere un omuncolo piccino piccino seduto sul bordo interno della soffice circonvoluzione frontale sinistra con i piedi che spencolano sopra il corpo calloso e di osservare cosa mi dice il mio cervello mentre cerca di capire cosa diavolo il cervello dell’altro dice a lui. Dunque provo a seguire il ragionamento che più o meno automaticamente parte di fronte ad un paziente con un sintomo.

Intanto definisco sintomo un comportamento o una emozione che il soggetto stesso ritiene inadeguato, sgradevole e di cui vorrebbe liberarsi (insomma rispetto al quale ha sviluppato un problema secondario).

Dopo averne indagato la pervasività e le varie forme che assume nei diversi ambiti esistenziali (la gravità) mi chiedo:
a cosa serve? quale risultato vuole ottenere o pericolo scongiurare? e ciò lo faccio più facilmente se vado a ricostruire in quali circostanze il sintomo è nato (scompenso ed esordio) prima di diventare col tempo un’abitudine automatica. Continuando ad approfondire questa indagine sulla sua utilità (Laddering) cerco di identificare gli scopi terminali o gli antiscopi che organizzano l’esistenza del soggetto. Il sintomo acquista così significato nel contesto della vicenda esistenziale della persona, dei suoi valori e dei piani di vita. Fin qui cerco di dare un senso, un significato a ciò che agli stessi occhi del paziente appariva insensato, ascopico, estraneo a sè e come tale fuori dal suo controllo mentre si tratta di un’ espressione che persegue o salvaguarda qualcosa di molto importante per lui. Il paziente collabora volentieri perchè ci si occupa direttamente del sintomo che lo tormenta e perchè il capirne il senso lo fa sentire meno matto.

Una seconda fase che potremmo dire essere la prova del 9, la verifica della prima, parte sempre dal sintomo ma per indagare i motivi per cui gli dia tanto fastidio. Insomma le ragioni del secondario ognuna delle quali va indagata con la stessa tecnica precedente (laddering). Anche in questo caso si arriverà per una via diversa a definire gli scopi terminali e gli antiscopi del soggetto, insomma il suo panorama esistenziale, il perchè e il come sta al mondo.

Il sintomo come strategia in conflitto con altri scopi

A questo punto si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale. Un sintomo è dunque semplicemente una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare.

Compreso il senso e l’utilità del sintomo pur continuando ad avvertirne il disagio avviene una operazione di normalizzazione dello stesso che riduce il secondario principale motore da un lato del cambiamento ma anche, dall’altro, della sofferenza che ha l’effetto dannoso di far percepire la situazione come emergenziale riducendo paradossalmente la disponibilità ad abbandonare gli antichi e sperimentati modi di fare per provarne di alternativi.

Gli scopi che organizzano l’esistenza sono in parte genetici in parte di origine culturale, familiare ed esperienziale ed il loro cambiamento è opera ardua prefigurando una rivoluzione del paradigma (per dirla con Khun) esistenziale e quando ciò avviene siamo di fronte a vere e proprie rare conversioni. Ancorchè molto difficile da ottenere, il più delle volte non c’è alcuna richiesta ne volontà di metterli in discussione. Questo dunque è un livello di cambiamento in cui raramente mi avventuro per incompetenza e timore di tentazioni da guru e mi accontento di una ristrutturazione che elimini la sofferenza con il minimo cambiamento possibile (mi sembra peraltro una forma di rispetto dell’unicità dell’altro).

Ma anche le strategie di perseguimento degli scopi o di evitamento degli antiscopi sono apprese, in genere precocemente e nel contesto familiare. Allora faccio notare al paziente come esse si siano dimostrate in passato adattive e addirittura decisive per la sopravvivenza nel contesto di apprendimento che in genere è quello della famiglia d’origine. Gli faccio poi notare come oggi in un contesto diverso siano invece disadattive e si siano trasformate in sintomi, qualcosa che mette in atto perchè ha sempre fatto così non accorgendosi che se prima funzionava adesso è addirittura controproducente rispetto agli stessi obiettivi per cui si era sviluppato.

La ristrutturazione cognitiva

Successivamente inizia la parte per così dire creativa della terapia (la cosiddetta ristrutturazione cognitiva) che per semplicità distinguo in due livelli. Il primo livello consiste nell’elaborazione di nuove strategie compatibili comunque con i vincoli intrapsichici, interpersonali e contestuali attuali, attaccando solo quelli che rappresentano un rinforzo ed un mantenimento del sintomo. Si tratta di riscoprirle nel proprio patrimonio comportamentale in cui magari in modo minoritario e saltuario sono state però presenti nel tempo, copiarle osservando gli altri ed in particolare quelli più vicini al soggetto come aspetto motivazionale oppure inventarle di sana pianta come se si trattasse di un vero e proprio problem solving. Averle identificate non basta e si tratta poi di sperimentarle inizialmente in contesti protetti che ne garantiscano il successo e il rinforzo per poi progressivamente generalizzarle e ripeterle finchè non sostituiscano i vecchi automatismi.

Dopo aver gattopardescamente cambiato tutto perchè nulla cambi mi limito a provare a perturbare il livello superiore dell’assetto motivazionale auspicando un processo di cambiamento da lasciare avvenire da solo in tempi lunghi e grazie alle esperienze che il soggetto vive che sono i perturbatori più significativi.

Lo faccio da un lato cercando di reputare meno assoluti e doveristici gli scopi evidenziando come normalmente non comportino la realizzazione e la felicità di cui li si accredita e dall’altro considerando meno intollerabili e minacciosi gli antiscopi, sostanzialmente rendendoli per quanto sgradevoli pensabili e immaginando schemi operativi non per prevenirli ma per viverli qualora vi ci si trovasse. Nel frattempo l’omuncolo piccino picciò annoiato del freddo computare dei neuroni corticali si è calato in basso e con la flottiglia di surf della terza ondata tenta di cavalcare i marosi che si spintonano tra l’amigdala e il lobo limbico in attesa di farmacologici soccorsi.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Interventi psicologici per le coppie con problematiche di infertilità

Uno degli interventi principali che si va a svolgere con queste coppie è la consulenza all’interno dei centri di Procreazione Medicalmente assistita. Lo scopo principale del sostegno psicologico alle coppie infertili è quello di assicurarsi che comprendano le implicazioni delle loro scelte di trattamento, che ricevano un adeguato sostegno emotivo e che possano far fronte in modo sano alle conseguenze dell’esperienza dell’ infertilità.

 

L’importanza di interventi di sostegno psicologico per le coppie con problemi di infertilità

Sono svariati i fattori psicosociali che modulano il desiderio di avere un bambino: fattori legati alla personalità, processi socioculturali, dinamiche familiari, fattori economici e processi relazionali di coppia. Quando questo desiderio diventa forte e non viene soddisfatto naturalmente, può generare una ferita narcisistica che può portare a una diminuzione della sicurezza in se stessi. Le conseguenze possono essere sentimenti di disperazione e impotenza, senso di colpa e problematiche di coppia, sessuali e relazionali. Infatti, mentre fino a qualche tempo fa l’ infertilità veniva considerata un problema fisico, oggi è risaputo che le componenti psicologiche giocano un ruolo importante non solo come elemento causale, ma anche come conseguenza dell’iter diagnostico e terapeutico.

La ricerca di una gravidanza può avere diversi esiti: dall’arrivo di un figlio dopo vari tentativi alla decisione di intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita; dalla decisione di perseguire la strada dell’adozione all’accettazione di rimanere una coppia senza figli. Per alcune coppie questo problema potrebbe costituire motivo di separazione. E’ dunque indispensabile un sostegno psicologico che accompagni nella fase decisionale e nell’elaborazione dei vissuti. Non a caso in Italia la legge 40, che regola la normativa in merito alla procreazione medicalmente assistita, indica la necessità di un servizio di sostegno psicologico all’interno dei centri di PMA.

Uno degli interventi principali che si va a svolgere con queste coppie è quindi la consulenza all’interno dei centri di Procreazione Medicalmente assistita. Lo scopo principale del sostegno psicologico alle coppie infertili è quello di assicurarsi che comprendano le implicazioni delle loro scelte di trattamento, che ricevano un adeguato sostegno emotivo e che possano far fronte in modo sano alle conseguenze dell’esperienza dell’ infertilità. Si ritiene, sulla base di numerose ricerche, che un approccio integrato (medico e psicologico) aumenti i risultati positivi, aumenti la soddisfazione del paziente, riduca le reazioni psicologiche negative ed aiuti meglio i pazienti a concludere la loro esperienza (Galhardo A. et al., 2015; McNaughton-Cassill M.E. et al., 2002).

Andiamo a vedere quali sono le maggiori problematiche su cui si va ad operare in questo tipo di interventi.

La gravidanza come esito dei trattamenti di Procreazione medicalmente assistita

Anche se i pazienti hanno molte aspettative positive su come potrebbe essere vivere una gravidanza, in realtà quando questo accade si trovano a confrontarsi con la possibilità di complicazioni, ansie e preoccupazioni, soprattutto per chi ha già vissuto esperienze di aborti spontanei. Alcune donne possono avere un rifiuto della gravidanza per paura di eventi negativi nel corso della stessa. Il fatto che alcune donne non siano felici e serene come vorrebbero può causare in loro anche sensi di colpa e vergogna. Un altro vissuto comune è il dover dimostrare a se stessi e agli altri di essere genitori perfetti.

Gli obiettivi che ci si pone in questi casi sono la normalizzazione della gravidanza, lo sviluppo dell’attaccamento al feto ed essere sostenuti nel diventare genitori. Altri obiettivi importanti sono la riduzione dell’ansia, aiutare la coppia a confrontarsi con le emozioni che stanno vivendo sviluppando un senso di autostima. Nei casi di fecondazione eterologa è necessario anche occuparsi di elaborare e gestire i sentimenti ambivalenti verso il feto.

Le gravidanze multiple

Le coppie che affrontano un percorso di PMA in alcuni casi si trovano a dover decidere se trasferire uno o più embrioni, quindi se avere una gravidanza gemellare (talvolta anche plurigemellare) o meno. Anche in questo caso, spesso per le coppie una gravidanza gemellare sembra la soluzione ideale in quanto consentirebbe di ottenere una “famiglia già fatta”. Tuttavia i futuri genitori hanno bisogno di avere un quadro realistico di cosa significherebbe essere genitori di tre o quattro bambini della stessa età, quindi allo stesso stadio di sviluppo. Vanno sostenuti nella riflessione sull’accudimento pratico, finanziario e domestico, nonché sugli aspetti psicosociali, la stabilità della coppia e le conseguenze per la loro salute mentale. Naturalmente bisogna aiutare la coppia a considerare anche i problemi della scelta opposta, ossia della riduzione fetale: sentimenti di angoscia, stress, paura; senso di colpa e lutto per la perdita di uno o più feti.
L’obiettivo è quello di far fare alla coppia una scelta informata, consapevole e adatta alla loro situazione specifica.

La decisione di interrompere il trattamento

Per alcune coppie il fallimento dei tentativi di PMA può comportare una crisi esistenziale con diverse reazioni emotive anche gravi. La prospettiva di vivere senza un figlio dovrebbe essere affrontata fin dall’inizio del trattamento, tuttavia è necessario riaffrontarla in un momento così delicato. E’ importante che lo psicologo sostenga i pazienti nell’esplorare il significato personale della perdita di un obiettivo fondamentale della loro vita, ma anche che rinforzi le loro risorse e gli aspetti positivi del vivere una vita senza figli.

La sessualità di coppia

La sessualità è una delle principali tematiche che deve essere affrontata con questi pazienti, in quanto in alcuni casi può essere la causa del mancato concepimento (vaginismo, dispareunia, disfunzione erettile, rapporti poco frequenti), mentre in altri casi le problematiche possono essere la conseguenza dell’obiettivo procreativo, che fa perdere di spontaneità l’attività sessuale. I problemi possono essere causati infatti dalla programmazione rigida dei rapporti, dalla presenza psicologica del team medico nell’intimità dei pazienti e dal fatto che i rapporti diventano orientati solo al fine riproduttivo.

Lo psicologo va quindi a valutare se le problematiche sessuali sono primarie o secondarie all’ infertilità, a capire se ci sono psicopatologie che vanno ad influire sulla sessualità (ansia, depressione ecc.), ed aiuta la coppia a ristabilire la sessualità come fonte di piacere e non solo orientata all’avere un figlio.

La prospettiva dell’adozione

Lo scopo del sostegno psicologico in questo caso è creare un ambiente sicuro in cui la coppia possa esprimere i sentimenti di perdita e le reazioni di adattamento ai problemi medici. In seguito si può aiutare la coppia a valutare se desidera o meno avere e crescere un figlio con cui non si ha un legame genetico. Bisogna aiutare la coppia anche a valutare l’impatto che potrebbe avere un nuovo fallimento, considerando che la strada per l’adozione è in molti casi lunga e tortuosa.

Nel caso la coppia decida per l’adozione, va aiutata a non idealizzare eccessivamente il bambino e a non riporre su di lui eccessive aspettative. Se si tratta di infertilità secondaria vanno prese in carico anche le emozioni dei figli già presenti in famiglia, che possono crearsi la fantasia di non essere stati in grado di soddisfare abbastanza i loro genitori.

Altri possibili interventi psicologici per chi affronta le difficoltà dell’ infertilità

Vediamo ora quali altri servizi possono essere attuati nei centri di PMA oltre al sostegno psicologico di coppia.

  • Informazioni psicosociali scritte o videoregistrate: informazioni preliminari da offrire alle coppie su aspetti fisici, emotivi, psicologici e sociali delle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita.
  • Consulenze telefoniche: possono essere usate per chiarire aspetti del trattamento medico e per esprimere cosa sta comportando il trattamento a livello personale.
  • Gruppi di sostegno: lo psicologo fa da organizzatore, conduttore e mediatore. Possono essere strutturati in diversi modi, ad esempio aperti a tutte le problematiche legate all’ infertilità o solo ad una specifica. I gruppi di sostegno hanno diverse funzioni benefiche per i partecipanti: alleviare l’isolamento, fornire sostegno emotivo in tutte le fasi della PMA, ridurre i livelli di ansia, esplorare i propri atteggiamenti rispetto a infertilità, gravidanza, nascita e genitorialità, aumentare l’autostima.

Ci sono vari interventi che possono essere effettuati anche in altri contesti, quali studi privati o all’interno di associazioni che si occupano di nascita e sostegno alla genitorialità.

  • Consulenza individuale, di coppia e gruppi di sostegno: questi servizi sono molto simili nei contenuti a quelli che si possono effettuare nei centri di PMA, con la differenza che cambia il contesto e non si fa parte dell’équipe medica che si occupa della coppia.
  • Spazio informativo per la coppia con problematiche di infertilità e sterilità: utile per informare le coppie sugli aspetti medici, biologici e psicologici dell’ infertilità, nonché per orientare a servizi e cliniche presenti sul territorio.
  • Percorsi di accompagnamento alla PMA: utili per affrontare le emozioni intense e talvolta confuse rispetto alle procedure di PMA, dubbi e perplessità.

 

Il supporto psicologico nel percorso riabilitativo

Alcuni studi mostrano l’efficacia dell’ intervento psicologico durante il trattamento fisioterapico, specialmente per quel che riguarda il riconoscimento delle emozioni presenti nella fase di riabilitazione e l’utilità del sostegno psicologico per il raggiungimento di uno stato di benessere psico-fisico.

Silvia Pomi, Lorena Menta

 

La fisioterapia è una disciplina che si pone una sfida importante, quella di co-costruire con il paziente una via di guarigione. Non è un percorso statico, ma dinamico, che richiede collaborazione e compartecipazione tra fisioterapista e paziente. I costrutti psicologici e gli interventi di sostegno psicologico possono apportare un valido sostegno in tutte quelle situazioni in cui la manifestazione sintomatica va oltre un’evidenza clinica.

Il concetto di salute, così come definito dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità): “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in una assenza di malattia o d’infermità”, implica un’inscindibile unità tra la componente fisica e quella psichica della persona. Di fronte alla malattia appare di primaria importanza tenere conto che questo binomio diventa ancora più evidente e richiede dall’ambito sanitario un approccio globale al paziente.

La vulnerabilità emotiva nella riabilitazione

La vulnerabilità emotiva a cui è esposto il paziente che ha subito un infortunio o che manifesta dolori cronici è un aspetto osservabile da tutti coloro che intervengono nella fase di riabilitazione.

Persone ansiose o predisposte alla depressione appaiono particolarmente suscettibili al dolore; gli stress emotivi possono essere infatti associati ad un aumento di dolore, in quanto viene ad aumentare l’attività dei sistemi biologici responsabili della stimolazione nociva.

Le modificazioni viscerali causate da fattori di ordine emotivo e psicologico a loro volta contribuirebbero nel provocare uno stato di malessere generalizzato. (Drago E., 2017)

Alcuni studi condotti a Londra presso il St. Thomas Hospital da Harding e Williams (2009) mostrano l’efficacia dell’intervento di sostegno psicologico durante il trattamento fisioterapico, specialmente per quel che riguarda il riconoscimento delle emozioni presenti nella fase di riabilitazione e l’utilità del sostegno psicologico per il raggiungimento di uno stato di benessere psico-fisico.

Harding e Williams sostengono che la cosiddetta “intelligenza emotiva” faccia da protagonista nei percorsi di riabilitazione e mettono in luce l’importanza per gli operatori della fisioterapia nel saper dare risposte emozionali adeguate ai propri pazienti. Ciò va a sottolineare come la guarigione oltre ad essere fisica, avvenga in modo parallelo a livello mentale ed emotivo e saper identificare ed esprimere le proprie emozioni durante il trattamento produce un incremento dei benefici. Dare importanza ai vissuti mentali, sentirsi riconosciuti nelle emozioni che si accompagnano alla riabilitazione consentirebbe al paziente di velocizzare il raggiungimento degli obiettivi sul piano organico.

Negli ultimi anni si è assistito a una integrazione sempre maggiore tra le  discipline mediche e psicologiche. L’esperienza della malattia coinvolge infatti la persona in tutti i suoi aspetti fisici, emozionali e relazionali; la disabilità, in particolare, “è un evento destrutturante, che obbliga ad una valutazione della condizione psicologica del paziente e delle sue relazioni, per accompagnare e guidare al meglio le reazioni emotive, per contenere l’angoscia, per individuare e sostenere la parte sana, capace dell’adattamento migliore alla situazione”.

Nell’ambito della riabilitazione fisioterapica si assiste quotidianamente all’esperienza della persona che, divenuta disabile, deve fare i conti con la difficoltà ed a volte l’impossibilità di recuperare un’abilità perduta; in questo caso un progetto riabilitativo globale promuove un percorso per giungere alla costruzione di un nuovo e costruttivo concetto di sé, anche attraverso l’elaborazione dell’evento traumatico, la rimodulazione delle aspettative, delle relazioni, degli affetti e degli interessi, al fine di raggiungere i livelli massimi di autonomia. (Matteucci L., 2005).

Un intervento psicologico adeguato ha un fondamentale ruolo di collegamento ad integrazione dell’atto terapeutico: supporta le modalità di approccio al paziente, le informazioni intorno alla malattia fornite alla famiglia, il linguaggio utilizzato per comunicare le ipotesi diagnostiche, prognostiche e terapeutiche.

In una recente ricerca Australiana di Jackson A.C.; Liang R.; Frydenberg E.; Higgins R.; Murphy B.M (2016) è stato esaminato lo stato attuale dei programmi psico-sociali per genitori di bambini con patologie croniche e quindi con particolari esigenze sanitarie. Lo scopo dei programmi di training ai genitori è quello di assistere le famiglie attraverso il rafforzamento del loro ruolo, migliorare le interazioni genitore-figlio e con il resto della famiglia. Ciò è particolarmente importante per le famiglie di bambini con esigenze di assistenza sanitaria speciale come una patologia cronica. I risultati mostrano positivi miglioramenti a livello familiare in una vasta gamma di aree di funzionamento (salute mentale, genitorialità, comunicazione, problem solving).

Per quanto riguarda gli adulti molti sono gli studi che descrivono la correlazione tra i problemi della sfera psicologica e le problematiche neurologiche (Cieza A.; Anczewska M.; Ayuso-Mateos J.; Baker M.;Bickenbach J.; Chatterji S.; Hartley S.; Leonardi M.; Pitkänen T., 2015). In particolare nelle Sclerosi Multiple un recente studio di Pagnini F.; Bosma C.; Phillip D. e Langer E. (2014) ha messo in luce che interventi di sostegno psicologico hanno un impatto positivo sui sintomi della malattia quali la fatica, il dolore, la vitalità fisica e la qualità del sonno. Nelle SLA le linee guida nazionali parlano della necessità di un supporto psicologico professionale sia per le famiglie che per i pazienti e in particolare l’intervento psicologico attuato al momento della diagnosi.

In conclusione l’analisi della letteratura ha sottolineato le connessioni tra problemi psicologici e disabilità sia da parte del paziente che del care-giver e quanto questo possa compromettere il processo di cura e quindi il trattamento riabilitativo.

L’ impatto del sostegno psicologico sul percorso di riabilitazione fisioterapica

In un recente lavoro su professionisti impiegati nell’U.O. di Medicina Riabilitativa e Fisiatria Territoriale dell’area Età Evolutiva del Distretto di Fidenza da diversi anni (6% 3-5 anni di servizio, 32%  5-10 anni, 32% più di 10 anni e il 29% di più di 20 anni), L. Menta ha cercato di indagare, attraverso l’utilizzo di un questionario (costruito prendendo spunto da un sito specializzato sull’argomento e individuando elementi utili su altri questionari esistenti), l’impatto di un sostegno psicologico sul percorso fisioterapico. Lo scopo di questa ricerca è quello di indagare, in modo anonimo: il tipo di organizzazione e quindi il tipo di patologie trattate, l’eventuale necessità, da parte degli operatori, del sostegno psicologico durante il progetto/programma di riabilitazione fisioterapica, il tipo di emozioni esternate dai pazienti e l’influenza di esse sull’esito del trattamento riabilitativo. È stato somministrato a Fisioterapisti e Fisiatri che lavorano con adulti ed età evolutiva. I dati mostrano un’identificazione nella dimissione e nella diagnosi come i due eventi più critici di tutto il percorso dal punto di vista emotivo (in entrambi i casi per il 42% di essi).

Dal progetto è emerso che gli utenti manifestano le loro emozioni durante le sedute riabilitative e durante la fase di valutazione e questo influenza l’esito di esse; la quasi totalità degli operatori (93% degli intervistati), ritiene che sia necessario il supporto psicologico durante il progetto riabilitativo e che questo possa contribuire a una migliore gestione di esso e che il supporto psicologico potrebbe determinare una migliore compliance dei pazienti alle proposte riabilitative.

Ogni condizione di patologia organica, comporta una quota di stress personale e familiare, spesso amplificato dalle strategie con cui si affronta la malattia, e dalle modalità di relazione terapeutica adottate dall’equipe curante.

L’intervento psicologico è mirato a favorire il processo di accettazione e adattamento alla patologia, facilitando la relazione terapeutica con l’equipe curante, sostenendo il paziente sul piano emotivo, promuovendo l’assunzione di responsabilità individuale nel processo decisionale, ma contemporaneamente, sostenendo l’assunzione delle responsabilità di cura da parte dell’equipe. Solo in tal modo si può ottenere una relazione buona, ove esista uno scambio autentico, una reale condivisione delle scelte terapeutiche, pur mantenendo ruoli chiari e definiti: medico, infermiere, paziente. Lo psicologo contribuisce, dunque, alla realizzazione di un modello di cura che comprenda l’ascolto, maggiore attenzione alle esigenze personali e alla sofferenza emotiva del paziente, rendendolo più partecipe al proprio percorso terapeutico. Il lavoro col paziente e i familiari, d’altra parte, oltre ad offrire sostegno, favoriscono la comprensione delle esigenze terapeutiche (e organizzative ), con l’obiettivo di migliorare l’aderenza alle cure e mantenere, per quanto possibile, un’accettabile qualità della vita.

È da considerare inoltre che in Lombardia, si stanno attuando normative in materia e la Giunta Regionale ha inserito, nelle regole di sistema 2014, tra le norme di accreditamento per le strutture riabilitative, la figura dello psicologo come obbligatoria. In particolare, tra i requisiti organizzativi, nel caso delle “Aree Degenza Riabilitazione intensiva ad alta complessità” e “Riabilitazione intensiva” è richiesta la presenza di uno psicologo o un neuropsicologo per almeno 15 ore/settimana ogni 20 posti letto, mentre per area Degenza – “Riabilitazione estensiva”  è richiesta la presenza di uno psicologo o un neuropsicologo per almeno 10 ore/settimana ogni 20 posti letto.”.  (DELIBERAZIONE N° X / 1185 Seduta del 20/12/2013)

Passeggiare con il proprio cane rende felici?

Secondo una nuova ricerca dell’University of Liverpool, chi possiede un cane è anche motivato a passare del tempo con l’animale passeggiando all’aria aperta perché lo fa star bene.

 

Chi possiede un cane in salute trascorre più tempo all’aria aperta

Nello studio, i ricercatori hanno scoperto che chi possiede un cane tende a passare molto più tempo all’aria aperta, a camminare di più e ipotizzano i ricercatori che ciò potrebbe aumentare l’emozione di felicità anche grazie alle interazioni sociali che si instaurano grazie al loro amico a quattro zampe. Questi sentimenti di felicità, tuttavia, sono correlati al fatto che il padrone percepisce il cane come un animale sano e in grado di godere della passeggiata. Viceversa, la percezione di avere un cane pigro o troppo vecchio, ridurrebbe la motivazione ad uscire fuori per camminare.

Il Dottor Carri Westgarth, ricercatore presso l’Università di Liverpool, ha dichiarato che i fattori che motivano e aumentano il desiderio del cane a camminare sono numerosi e complessi, ma sappiamo che possono correlarsi anche a modalità di comportamentali ed emotive dell’uomo.
Circa otto milioni di famiglie del Regno Unito possiedono un cane, quindi per un numero sempre maggiore di persone portare il cane a spasso è un’attività quotidiana. Chi possiede un cane generalmente è più attivo fisicamente rispetto a chi non può godere di tale privilegio.

I benefici di una passeggiata col proprio cane

Se si portasse fuori il cane per almeno 30 minuti al giorno, ogni giorno, si supererebbero facilmente i 150 minuti di attività fisica settimanale (la minima consigliata per promuovere un buono stato di salute).

Il Dottor Westgarth ha aggiunto che è chiaro ed evidente che uscire fuori per camminare soddisfa le esigenze emotive del padrone come anche quelle del proprio cane. Sarebbe importante sensibilizzare maggiormente la popolazione su questo argomento e soprattutto sui benefici sia a livello fisico che emotivo, che si riscontrano nel possedere un cane.

I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria? – Coscienza e comportamento

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

L’abbandono del controllo può derivare da una scelta consapevole?

Un altro aspetto interessante riguarda gli studi su come un comportamento apparentemente incontrollato (impulsivo o disregolato) possa essere l’oggetto di una scelta volontaria. In particolare, ci si riferisce a tutti i comportamenti come il consumo di alcool, sostanze stupefacenti ma anche immersione in attività come l’alimentazione o la sessualità che mostrano una componente gratificante e/o fortemente distraente (Caselli & Spada, 2015).

Molti approcci teorici considerano questi comportamenti come il risultato di una motivazione inconscia, di un apprendimento o frutto di uno sbilanciamento neurochimico di circuiti cerebrali. Tutte queste componenti hanno certamente un ruolo che spesso viene riconosciuto all’interno della vasta gamma di fattori predisponenti o moderatori del comportamento (Robinson & Berridge, 1993) oppure fattori che hanno un impatto diretto sulla decisione individuale. È meno chiaro quanto siano considerati dall’individuo all’interno del processo decisionale e quanto siano vincoli che governano la decisione al di là della volontà. Ma l’abbandono del controllo cosciente può essere una scelta consapevole?

Le sostanze psicoattive come modalità di autoregolazione volontaria per fuggire da stati di coscienza dolorosi

Diverse ricerche e parecchi modelli teorici mostrano come l’abbandono del controllo sia spesso un’attività consapevole guidata dallo scopo di ridurre stati interni di disagio oppure staccare la mente da pensieri fastidiosi e preoccupazioni (funzione autoregolatoria dell’uso di sostanze). Si tratterebbe quindi di abbandonare la coscienza per trovare sollievo e la sostanza sarebbe un mezzo utile anche se non necessario. La riduzione dello stato di coscienza non sembra necessariamente connesso all’atto o alle caratteristiche psicoattive della sostanza. Il picco di riduzione della tensione corporea avviene subito dopo la presa di decisione e prima dell’inizio del consumo della sostanza vero e proprio. Non sono tanto il cibo o l’alcool a ridurre la coscienza e la tensione, ma la scelta di concentrarsi sul cibo o sull’alcool o su un qualsivoglia oggetto desiderato e cercare di raggiungerlo.

Questo rivela come la strategia più comune e rapida per ridurre la coscienza sia restringere il fuoco dell’attenzione sull’immediato presente e su stimoli concreti dell’ambiente (Baumeister, 1990). Quindi è possibile abbandonare il controllo cosciente anche senza l’uso di sostanze psicoattive. Queste possono essere sostituite da attività assorbenti che catturano completamente l’attenzione. L’immersione in simili attività può essere quindi una scelta cosciente per fuggire da stati di coscienza dolorosi (Caselli et al., 2010; Heatherton & Baumeister, 1991; Hull, 1981). Concentrarsi su aspetti concreti è un modo rapido per evitare pensieri astratti, significati elaborati o autovalutazioni o implicazioni a lungo termine. La consapevolezza è ridotta ai movimenti, alle sensazioni del presente e a prefigurazioni desiderate e concrete. Questa prospettiva mentale che abbiamo definito rimuginio desiderante (Caselli & Spada, 2010, 2015) può anticipare il comportamento vero e proprio e nel breve termine essere anche una fonte di riduzione della tensione, una via cognitiva attraente per fuggire da preoccupazioni, minacce e pressioni.

Anche in questo caso i comportamenti apparentemente disregolati, impulsivi (automatici) possono essere modalità di autoregolazione volontaria che mirano a ridurre i livelli di coscienza.

L’alta autoconsapevolezza presente nei binge eaters

Vediamo quello che accade nei binge eaters: persone che tendono ad effettuare frequenti abbuffate. Diversi studi hanno mostrato che il fattore predisponente di maggiore impatto è un’alta tendenza all’autoconsapevolezza (self-consciousness, Heatherton & Baumeister, 1991). L’episodio di binge eating si realizza con maggior frequenza nel momento in cui vi è un calo di consapevolezza in una persona mediamente eccessivamente consapevole. I binge eaters mostrano segni di alta autoconsapevolezza, soprattutto pubblica, vale a dire sono molto attenti al modo in cui possono apparire agli occhi degli altri. Questa forma di costante attenzione all’immagine pubblica è (1) faticosa e (2) aumenta l’esposizione a maggiori pensieri negativi (minacce per l’autostima) e possibili processi ruminativi. L’esito è una maggior vulnerabilità a emozioni negative come ansia e depressione, sia per il più frequente senso di minaccia, sia per la tendenza alla ruminazione, sia per la fatica mentale del controllo.

L’eccesso di autoconsapevolezza (e le sue controparti di ruminazione e controllo; Sassaroli e Ruggiero, 2003) e le sue conseguenze, motivano le persone a scegliere di abbandonare il controllo per (1) uscire dalla fatica dello sforzo autoconsapevole costante, (2) ridurre il malessere che si accompagna alla coscienza dei pensieri negativi e al perseverare della ruminazione mentale (Spada et al., 2015; Caselli & Spada, 2015).

I binge eaters possono cercare di rimuovere pensieri negativi dalla coscienza restringendo il fuoco attentivo. Questo ha una conseguenza principale: la rimozione delle inibizioni. In una condizione in cui la coscienza è tenuta a basso livello, diventa impossibile monitorare in modo adeguato il consumo di cibo e identificare quei segnali (e.g. sazietà, sollievo) che ci dicono che l’obiettivo è stato raggiunto o anche solo prendere in considerazione una serie di altre informazioni che potrebbero influenzare la nostra decisione (es. conseguenze negative a lungo termine come la colpa del giorno dopo). In conclusione è possibile che la perdita di controllo sia un comportamento almeno in parte determinato da un processo consapevole e volontario.

È piuttosto arduo sostenere che le persone siano motivate a danneggiarsi. Forse questa è una delle ragioni che storicamente ha condotto in auge una prospettiva di deficit per cui: le persone si danneggiano perché non hanno la capacità di autocontrollo sufficientemente sviluppata. Dare questa spiegazione dei comportamenti autodistruttivi non significa necessariamente attribuire all’ individuo una volontà inconscia di danneggiarsi. In questo senso due precisazioni sono d’obbligo: (1) la motivazione non è ferirsi o danneggiarsi ma tenere lontano dalla coscienza pensieri negativi, (2) la volontarietà è innanzitutto intesa come volontà di uscire dalla fatica imposta da uno stato di iper-coscienza prima di intenderla come volontà di ferirsi con gli impulsi che emergono una volta che abbandoniamo la coscienza.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


La Mindfulness riduce stress e glicemia nelle donne

Un programma di riduzione dello stress basato sulla consapevolezza (Mindfulness Based Stress Reduction – MBSR) della durata di 8 settimane, non solo riduce lo stress, ma è in grado anche di abbassare la glicemia. È quanto emerge da uno studio curato da Nazia Raja-Khan, della Penn State College of Medicine di Hershey, Pennsylvania (USA) e pubblicato dalla rivista Obesity.

 

Gli effetti benefici della MBSR nel ridurre lo stress e la glicemia

La MBSR, un programma intensivo di formazione guidato da un istruttore, comprende meditazione, consapevolezza del corpo e altre tecniche che aiutano a ridurre l’ansia. È stato sviluppato alcuni decenni fa da John Kabat-Zinn professore presso la University of Massachusetts Medical School per aiutare i pazienti a gestire il dolore durante i trattamenti contro il cancro e altre gravi malattie. Questa tecnica ha dato risultati positivi e ne è stata ipotizzata l’efficacia anche nella riduzione delle malattie cardiache in individui in sovrappeso oppure obesi.

Per valutare questo aspetto, i ricercatori guidati da Nazia Raja-Khan (1) hanno diviso 86 donne, con un indice di massa corporea superiore a 25, in due gruppi: il primo ha ricevuto otto settimane di MBSR, il secondo un programma di educazione sanitaria incentrato sulla dieta e l’esercizio fisico. Entrambi i gruppi sapevano che l’obiettivo principale dello studio era la riduzione dello stress. Dopo 8 e dopo 16 settimane i ricercatori hanno analizzato i cambiamenti dei livelli di stress, dell’umore, della qualità della vita e del sonno. Sono stati anche valutati pressione sanguigna, glicemia, peso e altri parametri.

Dopo otto settimane, il gruppo MSBR presentava un netto miglioramento della consapevolezza e della diminuzione dello stress rispetto al gruppo che ha eseguito dieta ed esercizio fisico. La percezione di stress è rimasta più bassa nel gruppo MBSR anche dopo 16 settimane. Le donne del gruppo MBSR mostravano inoltre riduzione dei livelli di  zucchero nel sangue dopo 8 e 16 settimane mentre le donne del gruppo di educazione sanitaria non mostravano nessun cambiamento del profilo glicemico. Entrambi i gruppi avvertivano nel complesso minore stress psicologico, meno ansia e sonno migliore, ma non si sono registrati diminuzioni dei parametri infiammatori e/o del livello di colesterolo. Inoltre nessuno nei due gruppi aveva perso peso e le risposte all’insulina non apparivano migliorate.

In conclusione, donne con sovrappeso o obesità, dopo MBSR, hanno presentato riduzione significativa dello stress e hanno avuto effetti benefici sulla glicemia. Studi futuri che dimostrano i benefici cardiometabolici a lungo termine del MBSR saranno fondamentali per l’istituzione della MBSR come strumento efficace nella gestione dell’obesità.

Vagare con la mente quando guidiamo, quanto è pericoloso?

La disattenzione dei conducenti è un fattore importante per gli incidenti stradali e soprattutto per quanto riguarda gli incidenti mortali. Le fonti più evidenti di distrazione sono esterne, come telefoni o altri dispositivi mobili, ma molti incidenti si verificano senza ovvie distrazioni esterne.
Il vagare con mente o sognare ad occhi aperti è una forma di distrazione, nella quale chi guida inizia a fantasticare e a spostare l’attenzione dalla guida ai propri pensieri.

 

Sognare ad occhi aperti alla guida è molto frequente

In un nuovo studio è stato dimostrato che sognare ad occhi aperti durante la guida è molto comune. I volontari che hanno partecipato a questa ricerca hanno dichiarato che sognare ad occhi aperti si verifica per il 70 per cento del tempo in cui guidano.

Utilizzando misure elettrofisiologiche, i ricercatori hanno affermato di poter identificare i cambiamenti specifici nei modelli cerebrali quando i volontari erano nella fase del “sogno ad occhi aperti”.

La disattenzione dei conducenti è un fattore importante per gli incidenti stradali e soprattutto per quanto riguarda gli incidenti mortali. Le fonti più evidenti di distrazione sono esterne, come telefoni o altri dispositivi mobili, ma molti incidenti si verificano senza ovvie distrazioni esterne.
Il vagare con mente o sognare ad occhi aperti è una forma di distrazione, nella quale chi guida inizia a fantasticare e a spostare l’attenzione dalla guida ai propri pensieri.

Ma per garantire un buon livello di sicurezza, i guidatori dovrebbero rimanere concentrati per poter rispondere rapidamente a eventi imprevisti.

Gli effetti sul cervello della distrazione alla guida

In questo nuovo studio, pubblicato in “Frontiers in human Neuroscience”, i ricercatori hanno chiesto a un gruppo di volontari di utilizzare un simulatore di guida, collegandosi ad un sistema di monitoraggio elettrofisiologico, per misurare l’attività elettrica del loro cervello. Per cinque giorni consecutivi, i volontari hanno avuto il compito di eseguire due simulazioni di guida di 20 minuti lungo un tratto monotono di autostrada diritta ad una velocità costante. Tra i due compiti giornalieri, hanno completato un test scritto per simulare l’effetto di stanchezza mentale di un giorno di lavoro.

Durante l’esperimento, i volontari hanno sentito un allarme a intervalli casuali, e ogni volta che questo allarme suonava dovevano indicare su tablet o su computer se la loro mente fosse stata distratta proprio prima di sentire l’allarme.

Abbiamo scoperto che durante la guida simulata, le menti della gente “vagavano” molto, alcuni per periodi superiori al 70 per cento del tempo totale“, ha detto il dottor Carryl Baldwin della George Mason University, che era coinvolto nello studio.

Lo studio ha scoperto che le menti dei partecipanti erano più propense a fantasticare nel secondo percorso della simulazione, ovvero la strada che portava a casa dopo il lavoro.

Secondo i risultati, in media i guidatori erano consapevoli dei loro sogni ad occhi aperti solo il 65 per cento del tempo.
I ricercatori hanno riferito di poter anche rilevare direttamente il ”fantasticare” dall’attività cerebrale dei volontari.
Siamo stati in grado di individuare i periodi nei quali la mente vagava attraverso distintivi modelli cerebrali elettrofisiologici, alcuni dei quali addirittura indicavano che i conducenti erano probabilmente meno ricettivi agli stimoli esterni”, ha detto Baldwin.
Che cosa significa? La mente è pericolosa, e se è così, possiamo smettere di farlo?

Perdersi nei propri pensieri può essere una parte essenziale dell’esistenza umana ed è inevitabile“, ha detto. “Può essere un modo per ripristinare la mente dopo una lunga giornata in ufficio. Ciò di cui non siamo ancora sicuri è quanto sia pericoloso durante la guida. Abbiamo bisogno di ulteriori ricerche per scoprirlo.”
In termini di miglioramento della sicurezza in futuro, un’opzione potrebbe essere creare sistemi di trasporto autonomi, come autovetture che permettono di “auto-guidarsi, ma che siano anche in grado di ricatturare la nostra attenzione quando necessario”.

Thirteen Reasons Why: i vissuti psicologici dietro al suicidio di Hannah Baker – Recensione della serie

Preceduta dal gran successo ottenuto dal libro, Thirteen reasons why di Jay Asher, con protagonista Hannah Baker, la serie televisiva omonima prodotta da Netflix è stata anticipata da grandi attese. Se le tematiche affrontate sono tutt’altro che leggere, la serie non manca di artifici narrativi degni del migliore giallo.

 

Preceduta dal gran successo ottenuto dal libro, Thirteen reasons why di Jay Asher, la serie televisiva omonima prodotta da Netflix è stata anticipata da grandi attese. L’adattamento dell’opera di Asher mantiene le promesse in termini di popolarità, con più di 11 milioni di mentions dopo appena un mese dal suo rilascio.

Se le tematiche affrontate sono tutt’altro che leggere, bullismo, violenza, discriminazione, abuso di sostanze, la serie non manca di artifici narrativi degni del migliore giallo: suspense, colpi di scena, ironia, il tutto condito con una sapiente regia e fotografia e senza stravolgere la trama originaria del romanzo.

THIRTEEN REASONS WHY – GUARDA IL TRAILER:

https://www.youtube.com/watch?v=kHUe5oBvfHI

Thirteen reasons why – La trama

Hannah Baker è una 16enne studentessa del Liberty High School, da poco arrivata in città. Era, perché fin dai primi minuti sappiamo che la ragazza si è suicidata da pochi giorni, che i suoi compagni sono sconvolti e che l’evento appare inspiegabile. Dopo poco però scopriamo che un senso c’è, che il gesto è stato non solo premeditato ma anche studiato a tavolino: Hannah ha lasciato infatti 7 cassette che, nello svolgersi delle puntate, una per ogni lato della cassetta, ci faranno scoprire dettagli sulla sua vita e sulle sue motivazioni. Ogni lato di ogni cassetta racconta una storia che ha per protagonista lei e un altro personaggio. Le cassette sono numerate perché c’è un ordine nell’ascolto, una escalation nelle motivazioni e nei vissuti, nelle violenze e nella disperazione, un percorso che porta Hannah Baker verso una scelta di non ritorno.

Curiosa la scelta del mezzo con cui Hannah Baker decide di incidere le sue parole, le vecchie musicassette ormai in pensione da anni considerando che la serie è ambientata nel 2017. Questa scelta inusuale, voluta dalla stessa Hannah, si accompagna ad un’altra altrettanto desueta: assieme alle cassette Hannah Baker ha lasciato una mappa cartacea, su cui ha segnato con delle crocette dei punti che nello svolgersi della storia saranno delle tappe esplicative. Questo ritorno al passato, potremmo dire anche questo tocco vintage data l’età della ragazza, ci comunica che c’è un pensiero dietro al gesto, una ricercatezza fin troppo leziosa. Un prendere le distanze dal mondo a cui sente di non appartenere, quello dei suoi coetanei fatto di smartphone e cuffie beats, a cui pure non è estranea. Del resto la vediamo arrotondare con un lavoretto pomeridiano altrettanto vintage, vende infatti pop corn nel cinema della città, il Crestmont, e assieme a lei Clay, altro protagonista della serie e altra figura ‘diversa’ rispetto agli altri.

I vissuti di Hannah Baker – uno sguardo psicologico alla serie

Da spettatore di Thirteen reasons why e si viene catapultati in una sorta di thriller, si vede la serie tutta d’un fiato per i continui colpi di scena inattesi che tengono viva la curiosità. Da psicologo la visione lascia nella mente la eco di una nota stonata. Quello che non convince è proprio tutto quello che dovrebbe andare oltre il romanzo e andare a toccare nel vivo i problemi. Ma è proprio quello che sembra non fare, anzi. Saltando con disinvoltura da un tema all’altro e non toccandone mai uno nel profondo si ha l’impressione che gli accadimenti di Thirteen reasons why siano funzionali solo a mantenere alta la suspense. Inoltre la presenza di personaggi altamente stereotipati non aiuta a rendere il tutto più credibile (il ricco, borioso, viziato, cattivo; il belloccio quarterback che sembra cattivo ma poi scopriamo avere la madre alcolizzata e la figura paterna assente; la perfettina della scuola che nasconde la sua omosessualità; le cheerleader che sono delle ochette alla mercé dei giocatori di football; il bravo e buon ragazzo che muore in un incidente, lo ‘sfigato’ invisibile ma intelligente e sensibile). Si finisce per non prendere sul serio i temi seri e per prendere sul serio gli aspetti futili di qualsiasi teen drama.

Hannah Baker inizialmente attira anche una certa sensazione di fastidio perché sembra sia lei stessa ad esasperare avvenimenti del resto non così drammatici, non così gravi, portando paradossalmente anche noi spettatori a sminuire il suo vissuto. Perché anche di vissuto si tratta, non solo di eventi oggettivamente dannosi.
Quasi del tutto inedita in letteratura questa accentuazione di desiderio di vendetta da parte della vittima, quanto piuttosto di senso di vergogna e colpa che la accompagna, cose che aumentano il rischio di suicidio, come illustrato dalla recente meta analisi di Holt e colleghi (2015).

Hannah vive intensamente quello che le accade e con queste cassette lascia la sua vendetta che sa avrà conseguenze serie, lascia a tutti i coprotagonisti dei racconti un turbinio di sensi di colpa, rimuginio, ansia che si manifestano con abuso di sostanze (alcol e marijuana) e, in altri casi, con meccanismi di rimozione. Ma alla fine tutti capiranno che le loro azioni hanno un peso anche quando le compiono con leggerezza. Il disimpegno morale con condotte di ‘spegnimento’ momentaneo del giudizio morale viene sgretolato quando, ascoltate le cassette, si fanno i conti con i fatti, la realtà.

Senza dubbio si tratta di una serie corale, laddove ogni avvenimento si genera e si evolve in una serie di relazioni e non potrebbe svolgersi altrimenti. Ogni personaggio di Thirteen reason why, anche secondario, concorre a favorire, ostacolare, avallare e in ogni caso prende parte alle azioni, in una vicenda in cui ogni tassello è determinante.

Anche questo sottolineare il concorso di colpe ci ricorda che laddove c’è una vittima di bullismo, c’è qualcuno che è il bullo, ci sono i complici, ci sono gli spettatori, ci sono figure di riferimento assenti o inadeguate a gestire o anche solo a notare la situazione.

L’obiettivo dichiarato della serie è quanto mai ambizioso e mirabile, ovvero puntare i riflettori su un fenomeno ancora troppo sommerso e sfuggevole. Ma anche un po’ pretenzioso, dato che i temi affrontati sono tanti e complessi. Hannah Baker è vittima di cyberbullismo e bullismo, discriminazione sessuale, e, infine, di violenza sessuale. Ma non solo, è vittima anche di una violenza più sottile e meno manifesta, come l’indifferenza dei genitori e la disconferma dello psicologo della scuola nell’unico momento in cui, esasperata, cerca apertamente conforto in una figura adulta di riferimento.

Nota di pregio di Thirteen reason why è il porre l’attenzione al bullismo e in generale ad espressioni di disagio in età evolutiva come fenomeni compositi e complessi, che vanno affrontati su più fronti e più livelli. Non si può prescindere dall’intervento degli adulti, delle figure di riferimento (insegnanti, coach) e dei compagni stessi, ma nemmeno si può eludere un confronto con i ragazzi, con cui lavorare in percorsi di aumento di responsabilità e comprensione delle possibili conseguenze, da cui non possono prescindere percorsi di intervento e prevenzione (Cook et al., 2010). Gli Autori evidenziano come i fattori predittivi possano essere di natura individuale e contestuale, e sulla base di queste riflessioni andrebbero creati modelli di intervento multicomponenziali.

C’è ancora molto da fare, c’è ancora molto da definire e migliorare in termini di interventi e ricerca, ancora molto eterogenea in termini di costrutti indagati e analisi (e.g. Jiménez-Barbero et al., 2016), ma è grazie a prodotti come Thirteen reasons why che si riesce a smuovere anche l’opinione comune su problematiche che sono vicine a noi, più di quanto pensiamo.

 

Comportamenti di sicurezza tra i pazienti con disturbo di panico: una nuova lista per identificarli con maggior precisione

comportamenti di sicurezza sono quei comportamenti agiti in una situazione ansiogena, senza cui l’ ansia aumenterebbe in maniera sostanziale. Pertanto, sebbene si resti nella situazione temuta, in realtà la si sta ancora evitando.

 

Ansia: tra evitamento ed esposizione

La relazione tra ansia ed evitamento fobico ha ricevuto considerevole attenzione negli ultimi quarant’anni. L’evitamento e la fuga possono presentarsi in risposta a pericoli e paura, e a loro volta, tali risposte possono mantenere le credenze fobiche. Per contro, la teoria dell’apprendimento ci insegna che l’esposizione a stimoli fobici comporta la riduzione dell’ ansia. Questo processo è meglio noto come “abituazione”. L’esposizione viene ritenuta un trattamento altamente efficace per i disturbi di panico e fobia sociale.

Tuttavia, in alcuni pazienti fobici, i miglioramenti ottenuti con la sola esposizione sembrano relativamente modesti. Ad esempio, sebbene i soggetti con fobia sociale si trovino ripetutamente esposti a situazioni sociali durante la vita quotidiana, essi non sembrano mostrare una forte riduzione dell’ ansia. Si ipotizza che il fattore di mantenimento dell’ ansia siano i comportamenti di sicurezza, agiti all’interno della situazione ansiogena (Clark et al.2006).

comportamenti di sicurezza sono quei comportamenti agiti in una situazione ansiogena, senza cui l’ ansia aumenterebbe in maniera sostanziale. Pertanto, sebbene si resti nella situazione temuta, in realtà la si sta ancora evitando. Questi comportamenti di sicurezza funzionano come un amuleto. I comportamenti di sicurezza utilizzati spesso dalle persone con attacchi di panico includono: evitare di andare in giro senza i farmaci in borsa (anche se non li prendono mai o raramente); assicurarsi di avere il cellulare con sé quando ci si allontana da casa; stare vicino all’uscita quando si prende un autobus o il treno (Nakano et al.2008).

Salkovskis e colleghi (1991) ritengono che i comportamenti di sicurezza agiti nelle situazioni ansiogene giochino un ruolo importante nel mantenere l’ ansia, nonostante l’esposizione, poiché essi impediscono alle persone di confrontarsi direttamente con la disconferma delle loro credenze catastrofiche ed irrazionali. Per esempio, un soggetto con fobia sociale che evita lo sguardo dell’altro per timore di essere notato e deriso, probabilmente pensa “sono riuscito ad evitare di essere notato e di essere considerato strano, perché ho evitato lo sguardo altrui”. Impegnarsi in comportamenti di sicurezza mette al riparo le persone dalle loro minacce percepite, compromettendo però la possibilità di scoprire quanto siano in realtà improbabili le catastrofi immaginate. Se i pazienti continuano ad usare comportamenti di sicurezza per “prevenire” il danno, il nesso logico con la minaccia percepita si rafforza e l’esposizione agli stimoli fobici finisce per distorcere ulteriormente la credenza.

Comportamenti di sicurezza e disturbo di panico

Poche ricerche si sono occupate di esaminare i comportamenti di sicurezza nel disturbo di panico. Nel caso del panico, l’attacco si manifesta come risultato dell’errata interpretazione delle sensazioni corporee che si accompagnano normalmente all’ ansia, che vengono identificate come pericolose.

Salkovskis e colleghi (1996) elencarono 10 tipici comportamenti di sicurezza e chiesero a più di 100 soggetti con disturbo di panico quanto spesso ricorressero a tali comportamenti quando si sentivano ansiosi. Successivamente, correlando l’uso dei comportamenti di sicurezza con le cognizioni catastrofiche, identificarono diverse ipotetiche associazioni teoriche. Ad esempio, una persona che teme di svenire è probabile che si aggrappi a qualcosa, mentre una persona che teme un attacco di cuore si asterrà dall’esercizio fisico.

I comportamenti di sicurezza possono essere molto subdoli e idiosincratici. Ad esempio, mentre alcuni soggetti che temono le palpitazioni evitano di bere alcolici, altri possono bere per ridurre la loro ansia in pubblico. Per i primi soggetti, evitare l’alcool è un comportamento di sicurezza, mentre per i secondi il consumo di alcool è un comportamento di sicurezza. La personale visione di ciò che è catastrofico determina quale azione sia un comportamento di sicurezza. In maniera simile, alcuni soggetti preferiscono fare shopping in posti affollati, sentendosi più sicuri quando vi sono attorno molte persone disponibili, mentre altre entrano nei negozi soltanto quando vi sono pochissime persone presenti, ad esempio la mattina presto o la sera tardi, poiché possono evitare di essere visti qualora avessero un attacco di panico.

Molti comportamenti di sicurezza non sono immediatamente riconoscibili (si parla di comportamenti “covert”), come l’avere nel portafoglio abbastanza soldi per assicurarsi che siano pronti qualora succeda qualcosa, assicurarsi di portare il telefono cellulare o che qualcun’ altro sia a casa mentre il soggetto è fuori.

Tutti questi comportamenti sono normali nel senso che possono verificarsi quotidianamente nella vita di chiunque, ma è il processo cognitivo del paziente che rende queste azioni dei comportamenti di sicurezza. Per identificare correttamente i comportamenti di sicurezza “covert” sembrano essere necessari ben più di 10 elementi elencati da Salkovskis e colleghi.

Una recente ricerca, svolta da Funayama e colleghi presso l’università di Kyoto, pubblicata nel 2013, ha individuato una lista di 25 comportamenti di sicurezza più frequentemente riportati dai soggetti con disturbo di panico, e li ha correlati con i sintomi ansiosi, le situazioni agorafobiche e le risposte al trattamento di tali soggetti.

A 46 pazienti, partecipanti ad un trattamento cognitivo comportamentale di gruppo per il disturbo di panico, fu consegnata la lista di comportamenti di sicurezza sviluppata dagli autori in base alle esperienze con pazienti con disturbo di panico. La lista conteneva 25 item, a cui i pazienti potevano aggiungere ulteriori comportamenti agiti e non presenti in elenco. La lista comprendeva: portarsi dietro i farmaci, distrazione dell’attenzione, portarsi dietro una bottiglia di plastica, bere acqua, focalizzare l’attenzione su qualcosa, portarsi dietro il cellulare, assicurarsi della posizione delle uscite, cercare di stare assieme a qualcuno, cercare una via di fuga, sedersi vicino alla porta sul treno o in autobus, rimanere fermi, portare soldi extra, aggrapparsi a qualcosa, accovacciarsi, aprire la finestra, muoversi lentamente, chiudere gli occhi, leggere un libro o una rivista, spingere il carrello mentre si fa shopping, muoversi, ascoltare musica dalle cuffie, chiedere aiuto, prendere le medicine prima di uscire, tenersi a qualcuno, controllare i movimenti di braccia e gambe.

Altri comportamenti aggiunti dai soggetti furono: canticchiare a bassa voce, portarsi dietro asciugamani e salviette per le mani, portare dietro carta d’identità e patente, esporsi al vento, incrociare le gambe, bere alcol, evitare alcol, fumare, prendere più vestiti, evitare di mangiare prima di uscire, studiare la via del ritorno e controllare il calendario, guidare da soli, camminare veloci, portarsi dietro un ventaglio, portarsi dietro un piccolo snack, cercare un lavandino, incrociare le braccia, dormire, fare una doccia, evitare gli angoli della stanza, dormire a pancia in giù, guardare la tv, controllare l’agenda del partner, giocare sul cellulare, portarsi dietro un paio di slip, camminare con lo sguardo basso.

Aver dietro i medicinali (n=29), distrarre l’attenzione (n=27), portare una bottiglia di plastica (n=24) e bere acqua (n=23) furono riportati da più della metà dei pazienti. Le più forti correlazioni tra sintomi del panico e comportamenti di sicurezza furono rilevate tra l’evitare i sintomi di derealizzazione ascoltando musica con le cuffie, prevenire le parestesie spingendo il carrello durante lo shopping, evitare il senso di nausea accovacciandosi o restando fermi. L’associazione più forte tra situazioni agorafobiche e comportamenti di sicurezza fu rilevata tra la paura di prendere un autobus o un treno da soli e il bisogno di muoversi. Riuscire a rimanere fermi è indice di risposta positiva al programma di CBT, mentre il cercare di concentrarsi su altro predice una scarsa risposta al trattamento (Funayama et al. 2013).

La ricerca, sebbene limitata, ha posto le basi per lo sviluppo di linee guida nell’identificazione dei comportamenti di sicurezza tra soggetti con disturbo di panico, e potrebbe essere uno strumento d’aiuto ai clinici per fornire trattamenti CBT ancor più individualizzati ed efficaci.

La psicologia di Internet (2017) di Patricia Wallace – Recensione del libro

Patricia Wallace nella sua seconda edizione de La psicologia di Internet racconta come la rivoluzione di Internet sia giunta a influenzare e cambiare le nostre abitudini di comportamento, le regole si comunicazione e i rapporti tra le persone “in modi talvolta curiosi“.

 

Nel 1999 Patricia Wallace – insegnante della Graduate School del Maryland University College studiosa in materia di psicologia delle relazioni e dell’apprendimento – pubblica la prima edizione de Psicologia di Internet. Per dare al lettore un’idea del contesto, nel 1999 Mark Elliot Zuckerberg era studente di liceo e ancora non si sospettava cosa avrebbe mai ideato pochi anni dopo.

Instagram, come molti altri social ora in voga, non era nemmeno allo studio, sarà lanciato infatti undici anni dopo. Le librerie erano ancora principalmente fatte di muri e persone e se ti serviva comprare qualcosa cercavi il negozio più vicino non il pc o la Wi-Fi per un rapido acquisto online.

Internet rappresenta un ambiente completamente nuovo per il comportamento sociale e l’autrice de La psicologia di Internet ha continuato a studiarlo in tutte le sue manifestazioni e prodotti e come ci spiega:

Abbiamo avuto migliaia di anni di evoluzione per prendere confidenza con le interazioni umane in situazioni a faccia a faccia, ma appena due decenni per il mondo online diffuso su larga scala, e ora è il luogo, dove si svolge molta dell’interazione umana, con strumenti del tutto diversi (….) Non solo manca il contatto faccia a faccia, ma c’è anche la distanza fisica, l’incertezza sul pubblico che ci vede e ci ascolta, la percezione dell’anonimato, la mancanza di un feedback immediato e gli strumenti di comunicazione che usiamo si basano principalmente su testo e immagini. Al tempo stesso Internet è un motore senza precedenti di innovazione, connessione e sviluppo umano.


Ricordiamo il significato del termine Internet? Dal punto di vista tecnico è definito come un sistema globale di reti di computer interconnesse, che fanno uso dello stesso protocollo di comunicazione. L’obiettivo del libro La psicologia di Internet è soprattutto fornire un’analisi degli aspetti psicologici di qualunque situazione in relazione a mezzi digitali e ai nuovi ambienti virtuali.

Gli ambienti d’internet cambiano e si evolvono molto rapidamente, per cui non è possibile mantenere uno schema classificatorio fisso. Si può però creare uno schema del genere basato su caratteristiche specifiche che possono influenzare il comportamento umano.

La psicologia di Internet: quali sono gli ambienti internet di maggior uso comune?

Il web: ricordiamo la definizione? World Wide Web è il primo ambiente online, che è stato reso disponibile a milioni di persone. Il web è considerato una fonte d’informazioni molto importante.

La faccia oscura di Internet: il Deep Web e il Dark Web. Il Deep Web è molto più esteso del Web di superficie. La maggior parte del materiale è in database accessibile solo agli utenti che sono in grado di inserire gli opportuni termini di ricerca. Il Dark Web è una sottosezione del Deep Web, in altre parole i siti che sono invisibili ai motori di ricerca che scansionano il Web di superficie e richiedono un’autorizzazione o software dedicati. Spesso queste piattaforme sono sfruttate a sfondo criminale, per evitare la censura, e per commettere atti illeciti.

Un altro ambiente degli utenti della rete è la posta elettronica, memorizziamo gli indirizzi email delle persone che incontriamo più degli indirizzi di casa.

I forum di discussione asincrona sono ambienti che permettono uno scambio continuato, in cui le persone partecipano a discussioni su un argomento. Quest’ultime possono durare poche ore, oppure anche arrivare a durare settimane. I forum di discussione asincrona possono utilizzare piattaforme diverse: indirizzi di posta elettronica e sistemi di bacheca elettronica.

Le piattaforme più amate dai teenagers sono certamente le chat sincrone e di messaggistica istantanea, permettono o di riprodurre una conversazione in tempo reale usando solo parole digitate su una tastiera.

I blog sono siti che sono aggiornati continuamente con nuovo materiale e che permettono ai lettori di esprimere la propria opinione mediante commenti. La maggior parte dei contenuti è informale.

I social network: la vera rivoluzione in materia di rapporti interpersonali; forniscono la possibilità di costruire un proprio profilo e di connettersi con familiari, amici, colleghi e altre persone. I social network permettono di scrivere post su una bacheca centrale, ma anche di inviare messaggi come se fossero normali SMS. Sono social network anche i siti utilizzati per la condivisione di contenuti (YouTube, Flickr, Instagram e Snapchat). Insomma creiamo e manteniamo relazioni umane, attraverso una macchina e senza un umano davanti a noi…o almeno non necessariamente. In particolare Twitter è un social network, dove gli utenti possono scambiarsi messaggi e aggiungere altri contenuti mediali. Ogni utente può accumulare followers (persone che lo seguono) che vede tutti i suoi messaggi di testo. Qui, gli utenti possono seguire chiunque, senza bisogno dell’approvazione della richiesta d’amicizia. La convenzione dell’hashtag facilita la ricerca dei messaggi tramite parole chiave.

I messaggi WhatsApp, simili a Twitter, sono dei brevi che la maggior parte dei destinatari legge non appena arrivano, spesso interrompendo quello che stanno facendo senza nemmeno avere la percezione di essersi distratti.

Internet fa perdere tempo?

Questa domanda è il titolo che Wallace sceglie per il capitolo undicesimo del suo libro La psicologia di Internet. Spesso i ricercatori ci chiedono di misurare per quanto tempo siamo connessi, ma se abbiamo internet al polso, per misurare passi e calorie, e lo smartphone in tasca per i messaggi, la posta elettronica o altro, di fatto, siamo connessi 24 ore su 24 e sette giorni su sette. Certo la connettività ubiquitaria ha molti vantaggi e aumenta la nostra efficacia: posso fare la spesa su un’App mentre sono in metropolitana e sto andando in studio, posso terminare un articolo mentre sto attendendo il treno lavorando in condivisione con il collega che è rimasto in ufficio e molte altre cose ancora.

Effetti collaterali? Forse il mio capo si aspetterà che io risponda a una sua mail la domenica. Vita personale e vita professionale si mescolano ed emergono nuovi obblighi morali e aspettative. Come racconta l’autrice nel libro La psicologia di Internet costruire un equilibrio tra casa e lavoro è divenuto molto più complesso da quando la connettività ubiquitaria è la nostra compagna inseparabile. Saper stabilire i confini diviene importante quanto complicato, lo spazio e il tempo non sono più gli elementi che tracciano il confine.

Nel testo si citano diverse ricerche sull’argomento ad esempio in uno studio longitudinale, i ricercatori hanno studiato coppie newyorkesi per due anni, hanno raccolto dati sulla loro vita di coppia, sui livelli di stress e sull’uso degli strumenti tecnologici. I risultati hanno evidenziato una forte correlazione tra l’uso continuo dello smartphone e un effetto “straripamento”, per cui la vita professionale invadeva pericolosamente la vita domestica, provocando maggiore stress e minore soddisfazione relazionale.

Le caratteristiche della rete creano dipendenza?

Numerose sono le ricerche condotte dagli anni novanta su questo tema e naturalmente con esiti diversi secondo la tipologia del campione. Tuttavia un punto comune da rilevare è che vi sono ambienti virtuali particolarmente affascinanti e irresistibili. Wallace spiega:

Qualsiasi ambiente di Internet può rivelarsi sufficientemente attraente da generare problemi a persone vulnerabili che sono di per sé inclini a comportamenti compulsivi in altri contesti della loro vita. Tuttavia, analizzando più da vicino gli studi che valutano i tassi di prevalenza, si può notare che determinati ambienti ricorrono regolarmente.

Ecco gli ambienti più irresistibili e connessi alla dipendenza: social network; le aste online e i giochi online. L’architettura di questi ultimi è progettata per indurre la persona a giocare ripetutamente. L’autrice descrive gli effetti psicologici ma anche i vantaggi che hanno su chi ne usufruisce, con particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti.

Una dimensione psicologica patognomica collegabile alla dipendenza dalla rete è identificabile mediante l’acronimo inglese FOMO (Fear of Missing Out) coniato negli anni Novanta. Nell’Oxford English Dictionary si legge: “L’ansia che in quel momento possa verificarsi da qualche altra parte un evento interessante o eccitante, frequentemente generata da post visionati su un social medium”.

Insomma sempre connessi per l’ansia di non sapere tutto? Ovvero sperimentare la paura di essere tagliato fuori, questo sentimento è uno degli indici di dipendenza patologica da internet.

Un’ulteriore dimensione psicologica tipica degli ambienti online e della comunicazione virtuale è il grado di anonimato possibile. Quando il livello di consapevolezza di sé è più basso, esso può influenzare il comportamento delle persone. Un’altra variabile modulatrice è la presenza o assenza di un’autorità locale. Il più importante modulatore del comportamento nei diversi ambienti online è lo scopo che anima le persone che li visitano, ma talvolta lo scopo può essere il sentimento di paura dell’essere tagliato fuori. Questa paura può essere così intensa da farci dimenticare le scadenze, confondere le priorità e trascurare le relazioni. I messaggi sul social a volte sostituiscono le interazioni a faccia a faccia, i messaggi vocali creano l’illusione di essere più in relazione, le persone non imparano o disimparano a utilizzare i feedback della comunicazione non verbale, non c’è nessuno da guardare negli occhi e i neuroni specchio non si attivano. La mancanza di reciprocità può essere in relazione anche a comportamenti aggressivi spesso presenti in rete, che l’autrice esamina alla luce degli studi di psicologia dell’aggressività.

La studiosa, in La psicologia di Internet, approfondisce il tema delle dinamiche di gruppo in rete e di alcuni fenomeni sociali che come il conformismo, il confronto d’idee, i conflitti e la collaborazione.

Infine potere agli utenti

In conclusione ricordo l’obiettivo del libro La psicologia di Internet ovvero analizzare l’impatto psicologico che internet ha sull’essere umano. Vi sono effetti potenzialmente dannosi, pertanto sono opportune alcune raccomandazioni in modo particolare a beneficio dei giovani e degli adolescenti.

La rete è una tecnologia molto giovane e in continuo cambiamento che offre potenzialità e numerosi vantaggi. Wallace prende in considerazione l’altruismo, il volontariato e l’uso del Web per campagne di raccolta di fondi e diffusione di gruppi di sostegno.

Studiare la relazione tra essere umani e internet comprende anche lo studio del potere che gli utenti hanno su internet e sugli sviluppi e usi futuri. Non siamo però per forza dipendenti: abbiamo, infatti, la possibilità di influenzare questo strumento.

E poi il futuro? Non posso che essere d’accordo con la prudenza dell’autrice nel formulare previsioni:

Ci sono voluti cent’anni perché i libri arrivassero ad avere un’influenza tanto fondamentale sulla società; e per noi oggi, seicento anni dopo, i libri continuano a essere una parte essenziale delle nostre vite.. Considerando quanto Internet ci abbia sorpreso nei primi decenni della sua esistenza, l’unica previsione sicura è che sono in serbo per noi molte altre sorprese.

Negligenza spaziale unilaterale e anosognosia

Le diverse manifestazioni della negligenza spaziale unilaterale sono intrinsecamente caratterizzate da inconsapevolezza per il deficit, per indicare tale fenomeno si utilizza il termine anosognosia.

Francesca Maria Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La negligenza spaziale unilaterale

L’ eminattenzione spaziale unilaterale, o negligenza spaziale unilaterale (NSU) o neglect, come l’afasia, non è più concepita come un disordine monolitico, ma come una sindrome neuropsicologica “debole” (Ladavas, 2012), ossia frequente associazione di sintomi e segni, determinati da meccanismi patologici distinti benché in parte comuni.

È caratterizzata dall’incapacità di percepire, elaborare e rispondere a stimoli presentati nell’emispazio controlesionale, in assenza di deficit sensoriali elementari (Vallar at al., 2012). In particolare, durante l’attività spontanea o nell’eseguire uno compito specifico, i pazienti negligenti riducono il loro ambito d’azione e non dirigono l’esplorazione verso la metà spaziale controlaterale alla lesione.

In fase acuta il paziente può manifestare una deviazione più o meno completa e irremovibile degli occhi e del capo verso il lato della lesione; qualora lo stato di vigilanza permetta al paziente di entrare in contatto verbale con l’esaminatore, se questo gli si rivolge dal lato sinistro, il paziente risponde verso il lato opposto non negletto (Denes & Pizzamiglio, 1996). Nonostante vi siano prove empiriche a sostegno del fatto che gli stimoli trascurati vengano elaborati a livello non consapevole, i soggetti con negligenza spaziale unilaterale si comportano come se non fossero più in grado né di percepire né di concepire l’esistenza di una parte dello spazio.

La negligenza spaziale unilaterale può interessare lo spazio extra-personale o peripersonale, la parte controlesionale del corpo, ed in questo caso si parla di negligenza personale o emisomatoagnosia, infine il paziente può non utilizzare gli arti controlesionali pur in assenza di paralisi, si parla quindi di negligenza motoria (Vallar & Papagno, 2007). In base al sistema di riferimento può essere riferibile a coordinate di tipo egocentrico, quali il piano medio-sagittale del corpo (NSU egocentrico), oppure “basato o riferito sull’oggetto”, interessandone la prozione controlesionale indipendentemente dalla sua posizione rispetto al piano medio-sagittale (NSU allocetrico).

La negligenza spaziale unilaterale si manifesta quindi con un ampia gamma di sintomi che hanno rilevanza in situazioni e contesti differenti: per esempio il paziente può presentare difficoltà a trovare il cibo nel proprio piatto, a orientarsi in un percorso, a leggere un giornale o a pettinarsi (Carlomagno, 2007).

Sul piano neuroanatomico nella maggioranza dei pazienti la lesione è localizzata nell’emisfero destro e il deficit riguarda la parte sinistra dello spazio (Vallar & Papagno, 2007). L’incidenza accertata di tale sindrome dipende dai test diagnostici utilizzati ma è di oltre il 40% nei cerebrolesi destri e di circa il 20% nei sinistri. La letteratura conferma l’opinione clinica che la negligenza spaziale unilaterale sia associata a un danno della regione parietale, in particolare del lobulo parietale inferiore, o fronto-parietali nel territorio dell’arteria cerebrale media di destra, ma sono riportati casi di negligenza spaziale unilaterale a seguito di lesioni circoscritte ad altre aree cerebrali quali frontale, temporale, strutture sottocorticali come talamo e gangli della base e anche cerebellari (Denes & Pizzamiglio, 1996).

Alcune evidenze suggeriscono che il 43% circa dei pazienti con negligenza spaziale unilaterale recupera spontaneamente nelle due settimane successive alla valutazione in fase acuta (Farné et al., 2004), nel 40% circa dei paziente in fase subacuta e cronica è ancora presente neglect, nel 33% dei paziente la negligenza spaziale unilaterale diventa cronica (Karnath et al., 2011)

La presenza di negligenza spaziale unilaterale è fattore prognostico negativo dopo l’ictus in termini sia di risultato funzionale del recupero che di durata del ricovero ospedaliero; ne consegue che pazienti con ictus che non presentano neglect mostrano un miglior riadattamento al contesto di vita quotidiana (Appelros et al., 2002).

L’ anosognosia nella negligenza spaziale unilaterale

Gainotti (1972) indagò le reazioni emozionali nei pazienti affetti da lesioni cerebrali osservando che soggetti con lesione cerebrale sinistra manifestavano principalmente reazioni catastrofiche ai fallimenti rispetto ai test cognitivi o sintomatologia ansioso-depressiva. Al contrario, riscontrò una reazione emotiva opposta tra i pazienti affetti da una lesione emisferica destra: scarsa consapevolezza delle difficoltà (anosognosia), tendenza a minimizzare, indifferenza rispetto alla malattia o mancanza di reazione emotiva adeguata al deficit (anosodiaforia), creazione di rappresentazioni deliranti circa il lato controlesionale dello spazio corporeo e/o extracorporeo (somatoparafrenia) fino a veri e propri atti di violenza verso tali arti ritenuti “alieni” (misoplegia). Tali reazioni di indifferenza risultarono correlate con la presenza di negligenza spaziale e personale.

Le diverse manifestazioni della negligenza spaziale unilaterale sono intrinsecamente caratterizzate da inconsapevolezza per il deficit: il paziente infatti può non essere consapevole del fatto che la sua prestazione a prove che esaminano la negligenza spaziale extra-personale (lettura, disegno) è scadente (Vallar & Papagno, 2007). Per indicare tale fenomeno si utilizza il termine anosognosia.

In origine riferito alla mancata consapevolezza dell’emiplegia in seguito a ictus cerebrale (Babinski, 1914;1918), fu applicato a differenti condizioni cliniche quali l’emianopsia, i disturbi di memoria, i disturbi del linguaggio e altre condizioni (Jenkinson et al., 2011). L’ anosognosia è descrivibile come la mancanza di consapevolezza (insight) o sottostima di uno specifico deficit sensoriale, percettivo, motorio, o cognitivo causato da una lesione cerebrale, con una frequenza nella popolazione cerebrolesa che varia tra il 7% e il 77% (Dai et al., 2014). Risulta più frequente dopo lesione cerebrale destra, anche se risulta di difficile valutazione nei soggetti cerebrolesi sinistri a causa del possibile concomitante deficit afasico (Jenkinson et al., 2011).

Di solito l’ anosognosia compare in fase acuta o sub-acuta e tende a regredire spontaneamente nei giorni o settimane successive all’evento acuto. Ciononostante la presenza di anosognosia può essere fluttuante nel corso del tempo, e vi sono dati a sostegno di una possibile permanenza anche mesi dopo l’evento acuto. Secondo Vocat & Vuillermier (2010) sarebbe l’interazione di differenti fattori neurologici e neuropsicologici a determinare l’eventuale permanere di anosognosia anche oltre la fase acuta. In particolare una diminuzione dei deficit riguardanti propriocezione, la negligenza spaziale, il disorientamento spazio-temporale pare correlare con la riduzione dell’ anosognosia, mentre il perdurare a livello cronico (a 6 mesi) dell’ anosognosia correlerebbe con il persistere di negligenza spaziale unilaterale, disturbi della memoria, disorientamento spazio-temporale. Inoltre, secondo gli autori, la presenza di anosognosia in forma cronica sembra avere correlati neurali parzialmente differenti rispetto a quelli riscontrati nel caso di anosognosia in fase acuta, suggerendo che alla base dell’insorgenza e del mantenimento dell’ anosognosia vi sia un complesso network di regioni cerebrali responsabili.

Inconsapevolezza e negazione di malattia si possono manifestare in varie condizioni morbose e la loro origine è verosimilmente eterogenea (Denes & Pizzamiglio, 1996).  Nel caso di disordini neurologici quali deterioramento intellettuale, confusione e attenuazione dello stato di vigilanza, inconsapevolezza e negazione di malattia sono parte costitutiva di tali disordini anziché sintomo derivante da disfunzioni accessorie, aspecifiche e pervasive. Tale definizione comprende inoltre fenomeni di negazione di disordini neurologici unilateriali (emiplegia, emianopsia, emianestesia) che hanno un problematico rapporto con la negligenza spaziale unilaterale.

La valutazione dell’ anosognosia nei pazienti con negligenza spaziale unilaterale

Nel caso della negligenza spaziale unilaterale, l’ anosognosia può includere una negazione dell’emiparesi (anosoplegia) e di altri deficit, incluse l’emianestesia, l’emianopsia e/o l’eminattenzione, nell’emispazio visivo oppure tattile o uditivo (Blundo, 2010). A volte può raggiungere un livello di gravità tale per cui il paziente può anche riferire in modo perseverante che gli arti controlaterali non appartengono a lui, talvolta anche attribuendoli a un altro (emisomatoagnosia). Tale patologia si verifica a seguito di lesioni estese dell’emisfero non dominante in sede parietale, frontale e temporale come pure nell’insula e nelle adiacenti regioni sottocorticali.

Sono altresì documentati in letteratura casi di anosognosia senza negligenza spaziale unilaterale e viceversa, a dimostrazione del fatto che rappresentano due processi indipendenti (Jenkinson et al., 2011).

La valutazione dell’ anosognosia per il neglect può essere effettuata clinicamente nel corso del colloquio oppure chiedendo al paziente di valutare la propria capacità di eseguire o meno correttamente un test (ad esempio cancellazione di stimoli target, bisezione di una linea) prima e dopo la sua esecuzione usando una scala Likert (Vallar & Papagno, 2007). La scala di Catherine Bergego (CBS) è basata su una diretta osservazione funzionale del paziente in dieci situazioni reali, quali per esempio rassettarsi capelli e viso, vestirsi o muoversi in carrozzina. Le stesse domande sono proposte ai pazienti e alle persone che li assistono per consentire una stima della anosognosia valutando la differenza tra l’autovalutazione e la valutazione fatta dal terapista (Azouvi et al., 2003).

In letteratura sono state documentate condizioni in cui il paziente è consapevole dei deficit neurologici ma non della negligenza. Inoltre, il fatto che la negligenza spaziale unilaterale possa verificarsi senza deficit neurologici senso-motori (e viceversa) indica che i relativi meccanismi di monitoraggio sono indipendenti.

Nel corso del recupero funzionale, anche aiutato dai trattamenti riabilitativi, il paziente può divenire gradualmente consapevole che “non presta attenzione e non esplora la parte sinistra dello spazio” e mettere in atto conseguenti strategie di compenso (Vallar & Papagno, 2007).

Si è stimato che il 23% circa dei pazienti dopo ictus presentano neglect, il 17% anosognosia e il 9.6% entrambe le sindromi (Appelros et al., 2007). Data la frequente copresenza di negligenza spaziale unilaterale e anosognosia in fase acuta post-ictus, Appelros e collaboratori (2002) hanno osservato come negligenza spaziale unilaterale e anosognosia siano predittori del livello di autonomia nella vita quotidiana (ADL, Activity of Daily Leaving).

Impatto dell’ anosognosia sulla vita del paziente

La presenza di anosognosia a seguito di una lesione cerebrale può impattare sulla percezione individuale della Qualità della Vita (QOL, quality of life): soggetti affetti da schizofrenia con uno scarso insight rispetto alla patologia riferiscono una qualità della vita soggettivamente percepita come migliore rispetto a quanto riportato dei soggetti con buone capacità di insight. Tale rapporto è stato riscontrato anche in pazienti con demenza e lesioni cerebrali di natura traumatica (Appelros et al., 2007).

In linea con tali ipotesi Dai e collaboratori (2014) hanno effettuato uno studio volto a verificare la relazione tra neglect, anosognosia e qualità della vita percepita. Il campione di 60 soggetti con diagnosi di ictus (ischemico ed emorragico) destro e venne suddiviso tre gruppi sperimentali, 20 soggetto “A+N+” che presentavano anosognosia e neglect; 20 soggetti “A-N+” con neglect ma non anosognosia; 20 soggetti “A-N-” senza neglect e anosognosia, quest’ultimi selezionati da un campione omogeneo per caratteristiche demografiche e presenza di emiplegia. Gli strumenti di misura utilizzati comprendevano la valutazione dell’ anosognosia per l’emiplegia secondo la procedura proposta da Bisiach e collaboratori (1986), la valutazione del neglect tramite la Rivermead Behavioral Inattention Test (BITC), l’indagine dalla qualità della vita tramite la Stroke-Specific Quality of Life (SS-QOL), l’analisi dello stato cognitivo per mezzo del Mini Mental State Examination (MMSE). I risultati dimostrarono che i soggetti con anosognosia percepivano una miglior qualità di vita: punteggi più altri al SS-QOL vennero ottenuti dal gruppo “A+N+” e da un gruppo non inserito a causa dell’esiguità del campione e definito “A+N-”, ossia con anosognosia e non neglect.

La mancanza di consapevolezza del proprio deficit, così come il disinteresse verso le sue conseguenze, rappresentano un grave ostacolo alla riabilitazione e influenzano quindi la qualità della vita sia del paziente che dei suoi familiari e (Niger, 2014).

L’ anosognosia per la negligenza spaziale unilaterale rappresenta un complicazione di notevole importanza in riabilitazione: a causa della scarsa consapevolezza dei propri deficit i pazienti spesso rifiutano o forniscono scarsi livelli di compliance al trattamento, con un conseguente impatto negativo sul recupero funzionale e in generale a livello prognostico (Jenkinson et al., 2011). Inoltre, come riportato in precedenza il persistere di neglect può esacerbare la gravità della concomitante anosognosia: ne consegue che una riduzione della negligenza spaziale correla con un miglioramento in termini di consapevolezza (Jenkinson et al., 2011).

Tra le varie metodologie riabilitative della negligenza spaziale unilaterale ricordiamo metodi sia di tipo cognitivo (ad esempio addestrare il paziente a prestare attenzione alle informazioni presentate nell’emispazio trascurato), sia di tipo fisiologico (per esempio l’uso degli occhiali prismatici). Inoltre in letteratura sono disponibili prove sufficienti per dare una indicazione a favore del trattamento visuo-esplorativo (strategia top-down), inteso come strategia in cui si insegna esplicitamente al paziente ad orientarsi attivamente ed esplorare l’emicampo negletto (Inzaghi & Algeri, 2010).

Mindfulness e ipnosi per alleviare il dolore acuto in pazienti ospedalizzati

Interventi basati su mindfulness e ipnosi sarebbero in grado di ridurre drasticamente il dolore acuto nei pazienti ospedalizzati, questo secondo la nuova ricerca pubblicata nel Journal of General Internal Medicine.

 

L’efficacia degli interventi di mindfulness e ipnosi nella riduzione del dolore acuto

Lo studio condotto dall’ University of Utah ha avuto l’obiettivo di indagare gli effetti degli interventi di mindfulness e ipnosi sul dolore acuto in pazienti ricoverati in setting ospedaliero.

Dopo aver ricevuto una sola sessione di 15 minuti di uno di questi interventi (mindfulness o ipnosi) i pazienti all’ospedale dell’Università dello Utah a Salt Lake City hanno riportato una immediata riduzione dei livelli di dolore simile a quella che ci si potrebbe aspettare da un antidolorifico oppiaceo.
È stato davvero sorprendente vedere tali risultati significativi dati da una singola sessione di interventi psicologici”, ha detto il dottor Eric Garland, autore principale dello studio e direttore dell’Università degli Utah Center on Mindfulness e Integrative Health Intervention Development.

Data l’attuale epidemia di oppioidi nella nostra nazione, le implicazioni di questo studio sono potenzialmente enormi. Queste brevi terapie di mente-corpo potrebbero essere integrate efficacemente nella cure mediche standard, come terapie aggiunte alla gestione del dolore“.

Lo studio ha coinvolto 244 partecipanti che hanno riportato dolore non gestibile a causa di una malattia o di una procedura chirurgica.
I volontari sono stati assegnati in modo randomizzato a diverse condizioni di trattamento: un intervento basato sulla mindfulness, uno basato sull’ipnosi e una psicoeducazione mirata al trattamento diretto del dolore.

Gli interventi sono stati somministrati da operatori sanitari ospedalieri che avevano completato la formazione di base in ogni tipo di trattamento.
Tutti e tre i metodi di intervento hanno ridotto l’ansia dei pazienti e hanno aumentato i loro sentimenti di rilassamento. Tuttavia, i pazienti che hanno partecipato all’intervento di suggerimento ipnotico e l’intervento di attenzione hanno sperimentato rispettivamente una riduzione del dolore al 29% e al 23%.

I pazienti che hanno ricevuto gli interventi di mindfulness e ipnosi hanno riportato una significativa diminuzione della loro necessità percepita di assumere farmaci oppioidi.

Al contrario, i pazienti che hanno partecipato all’intervento mirato al dolore sperimentavano solo una riduzione del dolore del 9%, senza ridurre la loro necessità di assumere farmaci oppioidi.

Ricerche precedenti suggeriscono che gli interventi di carattere psicologico attuati settimanalmente possono essere un modo efficace per ridurre i sintomi del dolore cronico e diminuire gli abusi di oppioidi prescritti.

Garland e il suo team di ricerca interdisciplinare intendono approfondire le terapie di mindfulness e ipnosi come strumenti non-oppioidi per ridurre il dolore e intendono condurre uno studio nazionale di replicazione in un campione di migliaia di pazienti in più ospedali in tutti gli Stati Uniti.

I potenziali evocati (ERP): in cosa consistono – Introduzione alla Psicologia

I potenziali evocati evento correlati, ERP, rappresentano delle modificazioni riguardanti il segnale derivante dall’elettroencefalografia. Si tratta di variazioni del potenziale elettrico derivanti da uno stimolo visivo, somestesico o uditivo. Essi sono modificazioni dell’attività̀ elettrica cerebrale spontanea scaturente da un evento esterno, stimolazione sensoriale esogena, usato per evocare un fenomeno cognitivo endogeno. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

I potenziali evocati: che cosa sono

I potenziali evocati hanno una dimensione di segnale molto ridotta rispetto all’EEG. Essi sono ricavati estraendo rumore di fondo da una serie di registrazioni da cui si deduce una media del segnale (Averaging). Di conseguenza, al crescere del numero di stimolazioni la morfologia del segnale sarà più̀ definita e darà origine ad un ERP.
Gli ERP si rappresentano attraverso delle onde, ovvero variazioni di voltaggio nel tempo dell’ordine del microVolt e consistono graficamente in una serie di flessi sia positivi che negativi cui seguono dei picchi, anche essi positivi o negativi, in base alla polarità e alla posizione ordinale dell’onda (N1, P2, N2 etc) o alla latenza (in ms, ad esempio P300).

Storia

La prima testimonianza relativa a registrazioni di attività bioelettriche cerebrali risale al 1875, quando Richard Caton pubblicò i risultati dei suoi esperimenti su animali. Successivamente, nel 1924, Hans Berger riuscì ad ottenere la prima registrazione di segnali elettrici cerebrali su un uomo, usando strisce metalliche attaccate allo scalpo del soggetto come elettrodi e un sensibile galvanometro come strumento di registrazione. Berger fu il primo ad osservare i pattern temporali delle onde elettriche cerebrali. Dal 1924 al 1938 egli pose le basi per descrivere la registrazione dei potenziali elettrici cerebrali.
Questi ultimi sono classificabili in tre categorie:
1) attività spontanea;
2) potenziali evocati;
3) eventi bioelettrici provocati da singoli neuroni.

Potenziali evocati: come vengono registrati

I potenziali evocati o risposte evocate, risultano registrati attraverso elettrodi di superficie posizionati sulla testa. Al contrario dell’EEG che descrive l’attività̀ elettrica cerebrale di base, un potenziale evocato consiste in una variazione specifica del segnale bioelettrico conseguente alla stimolazione di una via sensoriale o ad un evento motorio. Un Potenziale Evocato è costituito da oscillazioni del potenziale elettrico e ha una forma d’onda caratterizzata da una serie di punti di flesso positivi o negativi, definite componenti.

Le componenti sono caratterizzate dalla polarità del picco (positivo o negativo), che dipende dalla posizione dell’elettrodo all’interno della distribuzione del campo elettrico superficiale. La distribuzione dei campi superficiali dipende, a sua volta, dall’area corticale attivata, dal suo orientamento rispetto al cuoio capelluto e dalla natura del campo elettrico. Le altre caratteristiche delle componenti sono l’ampiezza, considerata l’espressione del livello di attivazione delle cellule, la latenza, ovvero i millisecondi che si hanno dalla comparsa dello stimolo, in cui minore è l’intervallo, più̀ precoce si ritiene sia la comparsa dello stadio di elaborazione dell’informazione che la componente riflette, e la distribuzione sullo scalpo, sede delle componenti che consente di identificare quale regione corticale è attiva in seguito ad un particolare stimolo.

Ciascuna componente riflette la presenza di potenziali post sinaptici, eccitatori o inibitori, sincroni derivanti da un gruppo di neuroni corticali in grado di generare campi sufficientemente ampi da essere registrati in superficie. La localizzazione delle componenti permette quindi di identificare quale area corticale è attiva in seguito ad un particolare stimolo sperimentale.

I parametri che si analizzano nello studio dei potenziali evocati sono:
• la latenza, distanza temporale tra il momento di applicazione dello stimolo ed il momento di comparsa della componente;
• la topografia, posizione sulla superficie cranica in cui è ottenibile la massima ampiezza della componente;
L’ampiezza, grandezza della deflessione della componente rispetto al livello basale.

I potenziali, dunque, sono registrati mentre sono presentati, a un soggetto, stimoli ripetitivi sperimentali, visivi, uditivi, etc. I tracciati, successivamente, saranno sottoposti a procedure standard di elaborazione e alla scomposizione in epoche, risposte allo stimolo, discrete e sincronizzate con gli eventi stimolanti. I campioni del segnale vengono quindi mediati (averaging), per riuscire a estrarre segnale pulito dal rumore di fondo, tale tecnica costituisce l’essenza di base delle metodiche di elaborazione dei potenziali evocati.

L’averaging rappresenta la risposta media del cervello allo stimolo o all’evento, derivante dalla sommazione di numerose epoche sincronizzate con lo stimolo o con l’evento stesso. In questo modo, l’attività̀ evocata dall’evento si somma algebricamente con l’attività̀ di fondo, la quale, essendo fondamentalmente casuale rispetto all’evento, tende a ridursi o annullarsi; in tal modo, l’attività̀ evocata viene posta in risalto rispetto al rumore di fondo. Pertanto, la risposta media è la risposta evocata, le cui componenti (picchi positivi o negativi) sono riconducibili ai vari stadi di processamento dell’informazione sensoriale o evento-correlata nel cervello.

Dopo aver isolato la risposta evocata, si procede con l’analisi delle sorgenti delle componenti, individuando la loro localizzazione. A tal scopo si sfruttano le variazioni nello spettro di potenza del segnale causate da uno stimolo sensoriale o evento. Il metodo consiste nel calcolo dello spettro dei segnali conseguenti lo stimolo e nel confronto con lo spettro dei segnali antecedenti lo stimolo.

Tipi di segnale

I potenziali evocati si dividono in:
– Stimolo-correlati: essi dipendono dalle caratteristiche fisiche dello stimolo sperimentale applicato.
– Evento-correlati o Event Related Potentials (ERP): derivano dal contesto psicologico, o evento, in cui avviene la stimolazione. Tali potenziali, a differenza di quelli stimolo-correlati, dipendono dal contenuto informativo dello stimolo e compaiono solo quando il soggetto presta attenzione allo stimolo stesso e gli attribuisce un significato.

I segnali ERP sono fondamentali nel campo delle neuroscienze poiché aiutano a comprendere come le funzioni cognitive, e le relative manifestazioni in comportamenti ed esperienze soggettive, siano correlate all’attività̀ cerebrale.
Le componenti che caratterizzano il potenziale evocato sono collegate alle varie funzioni cerebrali e riguardano le funzioni cognitive derivanti dall’attività̀ cerebrale registrata sullo scalpo.

Esse sono rappresentate da sigle, ad esempio:
P1: se presente, ha una latenza di 50 ms dopo l’inizio dello stimolo uditivo o 100 ms dopo lo stimolo visivo. Questa componente viene interpretata come un indicatore neurofisiologico dell’attenzione allo stimolo sensoriale.
N1: si riferisce all’attenzione selettiva rivolta verso uno stimolo e ai processi di pattern recognition. Si presenta tipicamente 100 ms dopo l’inizio dello stimolo visivo e ha la sua massima ampiezza nelle aree fronto-centrali. Esiste anche una N1 uditiva composta da due componenti, una sopra il sito centrale con latenza pari a 100 ms e un’altra sopra il sito posteriore con latenza pari a 165 ms.
P2: legata a diversi task cognitivi, inclusi quelli di attenzione selettiva e memoria a breve termine. E’ presente anche in stimoli uditivi insieme alla N1, ma meno localizzata e risulta sensibile ai parametri fisici dello stimolo, come suono alto o suono basso.
N2: è sensibile alla varianza tra soggetti e può essere soggetta a diverse interpretazioni psicologiche, tra cui la discriminazione dello stimolo. Il picco N170 fa parte del complesso N2 ed è associato al riconoscimento dei volti umani.
P300: è un potenziale positivo che per definizione compare solamente in seguito a stimoli target e deriva principalmente da aree centro-parieto-occipitali mediane.
P300 non riflette una specifica funzione cognitiva, ma è espressione globale dei molteplici processi cerebrali implicati nel mantenimento della memoria di lavoro. La P300 si genera ogni qualvolta il soggetto aggiorna la propria rappresentazione mentale del contesto ambientale nel quale si trova ad operare. La latenza della P300 esprime il tempo impiegato dal soggetto per completare il pieno riconoscimento dello stimolo atteso. L’ampiezza, invece, è funzione inversa della probabilità̀ di comparsa (sia oggettiva che soggettiva) dello stimolo significativo e della quantità di informazione da esso trasmessa al soggetto. In ordine temporale di comparsa, la componente P300 segue la componente N2.
La N400. Rappresenta un indice generale derivante dalla difficoltà di recupero di conoscenze concettuali immagazzinate in relazione a uno stimolo dotato di significato. Essa è stata descritta per la prima volta nel contesto dell’elaborazione di frasi, ma studi recenti dimostrano che può essere elicitata anche da stimoli non linguistici come le immagini dotate di significato.

In diagnostica, i potenziali evocati più frequentemente utilizzati sono quelli somato-sensoriali (indotti da stimolazione elettrica tipicamente del nervo mediano del braccio o del nervo tibiale della gamba), quelli visivi (stimolazione tramite ad esempio un’immagine a scacchiera in movimento su un monitor) e quelli uditivi (stimolazione acustica ad esempio mediante ‘click’ di basso volume applicati tramite una cuffia). I potenziali evocati esaminano l’integrità̀ delle vie di conduzione nervosa periferiche e centrali. La forma e la latenza del potenziale possono rivelare alterazioni delle vie afferenti e permettono di evidenziare un difetto sensoriale, quantificandone anche l’entità̀. Tale metodica risulta ad esempio utile per lo studio delle lesioni sistemiche afferenti del sistema nervoso, causate da patologie croniche degenerative.

Applicazione, vantaggi e svantaggi dei potenziali evocati

Gli ERP rappresentano una tecnica molto adeguata con cui studiare l’attività corticale e non sono invasivi, malgrado mostrino poca risoluzione spaziale; necessitano di numerose prove da cui estrarre il segnale e mostrano artefatti soprattutto dovuti ai movimenti oculari di ammiccamento e allo stato di tensione della mandibola. Per ovviare a tali problemi e individuare l’esatta sede di produzione del segnale elettrico si utilizzano algoritmi matematici per modellizzare le sorgenti intracorticali che sottendono le distribuzioni dei potenziali di superficie.

Gli ERP sono utilizzati nella ricerca per studiare i processi cognitivi normali e patologici, come afasia, dislessia, pazienti con lesioni prefrontali, etc.
Essi, inoltre, sono comuni anche nella pratica clinica per individuare l’integrità funzionale, il livello di compromissione o il grado di maturazione di vie nervose periferiche visive, uditive, somatosensoriali, e delle funzioni cognitive superiori.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La detached mindfulness: strategia anti-ruminazione

Dico spesso ai miei pazienti con problemi di ruminazione che non dobbiamo fare un braccio di ferro con i pensieri, sembra semplice a dirsi ma è molto complicato da mettere in pratica. Ecco che allora è meglio guidare i pazienti verso esperimenti esperienziali con cui possano toccare con mano l’effetto.

La ruminazione, intesa come un’attività della mente che pensa e ripensa spesso alle stesse cose, è caratterizzata dalla pervasività e dalla insistenza. Un’esperienza del genere è difficile da interrompere ed è accompagnata da emozioni di ansia e irrequietezza e da un primo pensiero di partenza la catena si allunga fino a sviluppare dei pensieri che possono essere anche lontani da quello di partenza. A volte hanno la formula “se……allora” costringendo a trovare delle risposte.

La prima osservazione che i pazienti fanno è che proprio non riescono a smettere di ruminare e vanno alla ricerca del tempo e dello spazio opportuno per farlo. Un mio paziente mi disse che aveva comperato una poltrona apposta per mettersi lì a pensare e che aveva tutto un suo rituale per farlo: aspettava che tutti andavano a dormire, per poi prepararsi un tè e sedersi lì per ruminare. Godeva del senso di pienezza e trascorreva molto tempo senza che, ovviamente, se ne accorgesse.

Dare vita e adito al pensiero è un meccanismo di mantenimento che permette al pensiero di esserci con tutta la sua forza senza lasciare spazio ad un’attività cognitiva più razionale e funzionale.

Adrian Wells, con la sua terapia metacognitiva, ci insegna proprio quello da fare per far sì che la mente non ci faccia soccombere sotto questo suo meccanismo; io spesso dico ai miei pazienti che non dobbiamo fare un braccio di ferro con i pensieri, ma lasciare che essi ci siano, che occupino lo spazio mentale che devono per poi osservare che, così come sono arrivati, possano poi lasciarci.

Sembra semplice a dirsi ma è molto complicato da mettere in pratica.

Ecco che allora piuttosto che lasciare che questo resti un concetto astratto è meglio guidare i pazienti verso esperimenti esperienziali con cui possano toccare con mano l’effetto, altrimenti resta così aleatorio ed il paziente va via con l’idea di un qualcosa da fare…ma che non sa bene cosa sia.

Wells ne ha messi a punto diversi di esercizi, alcuni molto simpatici. Io li scelgo secondo le caratteristiche del paziente così è più probabile che riesca a farli anche da solo a casa. Quando si fanno provare in seduta, il terapeuta deve guidare il paziente e magari farlo insieme a lui: lavorare con la nostra mente come speriamo possano fare loro nello stesso momento; sembra che in questo modo la condivisione sia maggiore.

La terapia metacognitiva insegna che non è tanto il contenuto del pensiero che sembra rilevante quanto il modo in cui trattiamo i pensieri; in altri termini non è cosa pensiamo ma come lo facciamo perché quest’ultimo aspetto determina la tonalità emotiva ed il controllo che esercitiamo sulle nostre emozioni. Ecco perché la metacognizione si definisce come “il pensiero applicato al pensiero” (Wells A, 2012).

Applicazione della Detached Mindfulness

Senza entrare nel merito dei dettagli del modello messo appunto da Wells, che ha tanti punti e spunti di riflessione molto interessanti, descriviamo ora cosa si intende per Detached Mindfulness (DM) e come si applica.

La Detached Mindfulness (Wells e Matthews, 1994 ) lavora sul modo in cui ci relazioniamo alle nostre cognizioni rendendoci più flessibili da un punto di vista attentivo e cognitivo. Infatti essa viene descritta come uno stato di coscienza dei propri eventi interni senza sentirsi in obbligo di valutarli, controllarli o reprimerli, senza cioè mettere in atto alcun comportamento in particolare. In questo modo permettiamo al pensiero di occupare lo spazio mentale che deve con la consapevolezza che si tratta solo di un evento mentale. L’obiettivo ultimo, quindi, è cercare di sospendere i processi di rimuginio e ruminazione stando bene attenti dal non considerarla come un tecnica di evitamento né come un’altra strategia maladattiva di controllo (Wells, 2005b).

In questo senso si comprende come l’obiettivo non sia lavorare sul contenuto ma sul processo di relazione con il pensiero.

Nel manuale di Wells del 2012, Terapia metacognitiva dei disturbi di ansia e della depressione, vengono descritti 10 tecniche sulla base dei lavori precedenti, del 2005.

Tra di esse, ad esempio, ritroviamo la tecnica delle libere associazioni. A questa sono molto affezionata perché mi ricorda quando da piccola, durante i viaggi lunghi in macchina, costringevo i miei familiari a dire una parola che veniva in mente loro in seguito a quella precedentemente ascoltata. Ammetto che ogni tanto lo faccio ancora. Nel setting terapeutico chiediamo ai pazienti di osservare il fluire dei pensieri senza fare alcuno sforzo attivo, senza pensare a qualcosa in particolare. In questo modo bisogna solo osservare quello che accade nella propria mente, come un osservatore curioso. Il terapeuta elenca delle parole ed il paziente è istruito a vagare liberamente per ogni stimolo ascoltato. Non c’è nulla da controllare o analizzare. È bello anche apprezzare il fatto che alcune volte può non emergere nulla.

Guidiamo il paziente nell’esercizio e dopo commentiamo le sensazioni che derivano dall’osservare passivamente ciò che accade: secondo Wells, va bene tutto e non ci sono spiegazioni da cercare!!!

Un secondo esperimento è quello della metafora della nuvola. Di solito permetto per qualche minuto al paziente di osservare i pensieri della mente, per poi far sì che i pensieri stessi vengano considerati come nuvole che possono apparire anche nelle giornate più serene, e a volte persistono per molto tempo mentre altre vanno via veloci. Il messaggio che ci si porta a casa è che i pensieri, proprio come le nuvole, occupano lo spazio mentale che devono e poi, con i loro tempi, vanno via.

Un mio paziente ha creato la sua versione personale in cui invece di osservare la nuvola, osserva i palloncini: il figlio, a quanto pare, è un amante dei palloncini ad elio. Invece, una paziente con disturbo ossessivo compulsivo aveva frequenti pensieri di morte: dopo una decina di giorni di training, riusciva da sola a notare il pensiero dispettoso, quello che proprio non voleva lasciarla in pace, volare via come una nuvola. Dai suoi sorrisi, si vedeva il senso di libertà.

Vi sono altri esercizi, alcuni altrettanto interessanti come questi due; ognuno di essi va bene purché sia chiaro il messaggio che contengono. Apprezziamo e rinforziamo anche i piccoli risultati che i nostri pazienti ottengono: sappiamo bene che diventare osservatori di se stessi non è molto semplice oppure quanto può risultare noioso ripetere gli esercizi a casa da soli ma se sviluppiamo in loro un senso di autonomia e di motivazione i risultati non tarderanno ad arrivare.

Romantic love e love addiction: dall’amore alla dipendenza

È normale che l’amore preveda, soprattutto nella fase dell’innamoramento, coincidente con l’amore romantico (o Romantic Love), un certo grado di dipendenza dall’altra persona, che consente a due individui di formare un insieme che va oltre la somma delle due singole parti. Possiamo però distinguere un attaccamento sano da una dipendenza problematica, in quanto solo la seconda impedirebbe all’individuo il distacco dal partner, negandogli la libertà e l’individualità, incatenandolo al vincolo di coppia, provocandogli solo sofferenza e sfociando, secondo Guerreschi (2011), nella cosiddetta Love Addiction, la dipendenza affettiva.

Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

A proposito dell’amore

A chi non è mai capitato di parlare dell’amore? Che sia come desiderio, come passione, come affetto, come dolore, di amore si è trattato fin dall’antichità. È stato scritto, cantato e recitato, alcuni sono vissuti e altri sono morti per amore.
La vasta numerosità delle sfaccettature di questo stato sentimentale, se così possiamo definirlo, nonché il suo carattere di vissuto soggettivo, rende molto difficile la formulazione di una definizione che possa racchiuderne tutto il significato.

Maslow (1954), nella sua teoria, inserisce l’amore nel sistema motivazionale che sta alla base dell’azione umana, collocandolo all’interno della categoria dei bisogni d’appartenenza sociale. In questo senso, la necessità dell’individuo, di carattere secondario, di sentirsi parte di un contesto e di avere una vita affettiva e relazionale soddisfacente, si concretizzerebbe anche nella volontà di amare e di sentirsi amato.
Dobbiamo però a Sternberg (1986) il merito di aver elaborato un modello che individua diverse tipologie di amore di coppia, risultanti dalle intersecazioni di tre variabili che costituiscono l’essenza dello stesso. Se nessuna di queste fosse presente, infatti, si parlerebbe di Non Amore. La sua Teoria triangolare dell’amore prevede, quindi, sette modalità di espressione amorosa, risultanti dagli incroci tra Intimità, riferita a sentimenti di confidenza, condivisione e affinità, Passione, che riguarda aspetti più impulsivi come l’attrazione fisica, e Decisione-Impegno, che implica la responsabilità e la volontà di perpetuare la relazione.

L’autore distingue tra:
– Simpatia (solo intimità): connotata da confidenza, calore, tipica dei rapporti di amicizia;
– Infatuazione (solo passione): caratteristica dell’amore a prima vista, con l’idealizzazione dell’altro;
Amore vuoto (solo decisione-impegno): amore stagnante, routinario, senza dialogo. Può essere l’evoluzione di matrimoni che durano da molto tempo dove si resta insieme solo per il vincolo coniugale;
Amore romantico (intimità + passione): rimanda alle grandi storie d’amore letterarie o alle avventure estive, con la presenza di vicinanza e attrazione, ma senza progettualità;
Amore fatuo (passione + impegno): si è travolti dalla passione ma alla base non c’è la conoscenza emotiva profonda. E’ proprio delle relazioni in cui ci si sposa poco dopo essersi conosciuti, sull’onda della sola attrazione;
Amore amicizia (intimità + decisione-impegno): si ritrova nei rapporti di lunga durata, dove la passione si è spenta ma resta la condivisione;
Amore vissuto (intimità + passione + decisione-impegno): è l’amore completo, è difficile farne esperienza e, soprattutto, mantenerlo.

È normale che l’amore preveda, soprattutto nella fase dell’innamoramento, coincidente con l’amore romantico (o Romantic Love), un certo grado di dipendenza dall’altra persona, che consente a due individui di formare un insieme che va oltre la somma delle due singole parti. Possiamo però distinguere un attaccamento sano da una dipendenza problematica, in quanto solo la seconda impedirebbe all’individuo il distacco dal partner, negandogli la libertà e l’individualità, incatenandolo al vincolo di coppia, provocandogli solo sofferenza e sfociando, secondo Guerreschi (2011), nella cosiddetta Love Addiction, la dipendenza affettiva.

Si noti che, in lingua inglese, il termine addiction si riferisce a una condizione generale in cui la dipendenza psicologica spinge alla ricerca dell’oggetto di interesse, senza il quale la vita perderebbe di valore. Reynaud e collaboratori (Reynaud, Karila, Blecha e Benyamina, 2010), definiscono chiaramente le differenze tra amore e dipendenza, intendendo con il termine Love Passion uno stato universale e necessario per gli esseri umani, che implica un attaccamento funzionale agli altri, e con Love Addiction una condizione disadattiva caratterizzata da una necessità e da un desiderio imperiosi dell’altro che si traducono in pattern relazionali problematici, caratterizzati dalla persistente e assidua ricerca di vicinanza, nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative di tale comportamento.

Cos’hanno quindi in comune l’attaccamento sano e la dipendenza disfunzionale? A tal proposito, alcuni autori (Fisher, Xu , Aron e Brown, 2016), descrivono la presenza, in individui in fase di amore romantico, di sintomi caratteristici dei disturbi di dipendenza, tra cui euforia, desiderio, tolleranza, dipendenze emotiva e fisica, ritiro e ricaduta.

Prima di discutere circa le relazioni tra romantic love e love addiction, al fine di una maggiore comprensione delle dinamiche presenti, è tuttavia utile dedicare un po’ di spazio al chiarimento di questi due concetti.

Romantic Love

Xu e collaboratori (Xu, Aron, Brown, Cao, Feng e Weng, 2011) considerano l’amore romantico come parte naturale dell’imperativo biologico della riproduzione umana. Alcuni autori (Gonzaga, Keltner, Londahl e Smith, 2001) ne hanno identificato uno specifico pattern di caratteristiche fisiologiche, psicologiche e comportamentali, che include l’attenzione focalizzata sull’oggetto d’amore, la riorganizzazione delle priorità, un aumento di energia e sensazioni di euforia, sbalzi d’umore, risposte del sistema nervoso simpatico come sudorazione e batticuore, elevato desiderio sessuale e possessività sessuale, pensieri ossessivi sull’altro, desiderio per l’unione emotiva, gesti affiliativi, comportamenti orientati allo scopo e intensa motivazione per ottenere e mantenere il legame. Quando le caratteristiche più dipendenti diventano rigide e pervasive e assumono la connotazione di necessità assolute, il rischio è di cadere nel versante più disfunzionale del legame amoroso, quello relativo alla dipendenza patologica.

Love addiction

Sebbene la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati sperimentali, non rientri tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (American Psychiatric Association, 2013), essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, tra cui si ritrovano la dipendenza da Internet, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da sesso, la dipendenza da sport, lo shopping compulsivo, la dipendenza da lavoro.

Il gruppo di Reynaud (Reynaud, Karila, Blecha e Benyamina, 2010), partendo dalle analogie riscontrate con la dipendenza da sostanze, propone una definizione diagnostica della love addiction, basata sulla durata e sulla frequenza della sofferenza percepita:

“Un modello disadattivo o problematico della relazione d’amore che porta a deterioramento o angoscia clinicamente significativa, come manifestato da tre (o più) dei seguenti criteri (che si verificano in ogni momento, nello stesso periodo di 12 mesi, per i primi cinque criteri):
1. Esistenza di una sindrome da astinenza per l’assenza dell’amato, caratterizzata da significativa sofferenza e un bisogno compulsivo dell’altro;
2. Considerevole quantità di tempo speso per questa relazione (in realtà o nel pensiero);
3. Riduzione di importanti attività sociali, professionali o di svago;
4. Persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la propria relazione;
5. Ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa;
6. Esistenza di difficoltà di attaccamento, come manifestato da uno dei seguenti:
(a) ripetute relazioni amorose esaltate, senza alcun periodo di attaccamento durevole;
(b) ripetute relazioni amorose dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro”.

Stavola e collaboratori (Stavola, Mazzocato, Brambilla, Fiore, 2015), hanno svolto una ricerca sui fattori predisponenti la dipendenza affettiva, partendo dall’ipotesi che essa sia collegata alla presenza di fenomeni di dissociazione e di disregolazione emotiva conseguenti ad un trauma infantile e allo stile di attaccamento insicuro. Gli autori, per indagare le correlazioni tra il disturbo e i costrutti presi in esame, hanno sottoposto una serie di questionari self-report a un gruppo sperimentale di 99 individui, reclutati attraverso G.A.D.A. (Gruppi di AutoAiuto Dipendenza Affettiva), e a un gruppo di controllo di 75 persone: il Childhood Trauma Questionnaire – Short Form (Bernstein e Fink, 1998) per il trauma, il Relationship Questionnaire (Bartholomew e Horowitz, 1991) per l’attaccamento, la Dissociative Experience Scale (Carlson e Putnam, 1993) per la dissociazione e la Difficulties Emotion Regulation Scale (Gratz e Roemer, 2004) per la disregolazione emotiva. I risultati hanno permesso di confermare un modello eziopatogenetico della love addiction che individua, quali fattori predisponenti, la presenza di traumi di abuso emotivo e di negligenza emotiva, gli stili di attaccamento preoccupato e timoroso, la presenza di sintomi dissociativi a livello patologico, la difficoltà, clinicamente significativa, nella regolazione delle emozioni.
Resta ora da indagare quali collegamenti possano esserci tra l’amore romantico e la dipendenza affettiva. Gli studi cerebrali di neuroimmagine, in questo senso, hanno fornito un grosso contributo alla formulazione di preliminari ipotesi.

Romantic Love e Love Addiction: quali relazioni?

Le moderne tecniche di screening cerebrale hanno permesso di individuare e comparare i meccanismi neuronali impegnati nelle esperienze di dipendenza da sostanze, di dipendenza comportamentale e di innamoramento. In generale, dai dati empirici emerge che le sostanze stupefacenti provocano una iperattivazione dell’area tegmentale ventrale (VTA), dello striato ventrale (nucleo accumbens), della corteccia cingolata anteriore (ACC), della corteccia orbitofrontale (OFC), della corteccia prefrontale e dell’insula (Fowler, Volkow, Kassed & Chang, 2007).

Numerosi studi mostrano come le forme di abuso di sostanze attivino i circuiti di ricompensa cerebrale similmente alle altre forme di dipendenza (Cuzen e Stein, 2014). La cosa interessante è che parte di questi percorsi risultano attivati anche in uomini e donne che si collocano in fase di amore romantico, definendosi in questa come felici o come rifiutati. Gli individui che si trovano in questo stato, inoltre, mostrano molte caratteristiche associate ai disturbi da dipendenza, in particolare la focalizzazione (salience) e il desiderio compulsivo (craving) per l’oggetto d’amore. L’implicazione dei sistemi di gratificazione e di piacere, collegata all’innamoramento, è stata indagata da molti studiosi tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) durante l’esposizione dei soggetti a fotografie del loro amato. Xu e collaboratori (Xu, Aron, Brown, Cao, Feng e Weng, 2011), ad esempio, hanno riscontrato l’attivazione di regioni del mesencefalo ricche di dopamina, nelle vicinanze dell’area ventrale tegmentale, e dello striato. Altre ricerche (Ortigue, Bianchi-Demicheli, Hamilton e Grafton, 2007) hanno rilevato, in aggiunta, che il livello di risposta delle regioni deputate è correlato all’intensità della passione percepita, misurata attraverso la The Passionate Love Scale (Hatfield e Sprecher, 1986).

A fronte di questi risultati, Fisher e collaboratori (Fisher, Xu, Aron e Brown, 2016) propongono l’idea che l’amore romantico sia da considerare una forma di dipendenza, positiva se ricambiato, negativa se unilaterale, inappropriato, tossico. Il passaggio a un innamoramento disfunzionale, avverrebbe per la trasformazione del desiderio in bisogno necessario e del piacere in sofferenza. A ciò si accompagnerebbe l’estrema ostinazione nella ricerca e nel mantenimento della relazione, nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative. Essendo il desiderio compulsivo (craving), l’impegno ossessivo, la perseveranza dei comportamenti problematici e la compromissione dei sistemi di controllo di questi, elementi caratteristici delle dipendenze comportamentali (Potenza, 2006), è possibile supporre che la love addiction sia dovuta ad un irrigidimento disfunzionale delle caratteristiche naturali dell’amore romantico.

È comunque necessario tenere presente che nessun evento è circoscritto a se stesso e che qualsiasi manifestazione si insinua in un quadro molto più ampio, composto da fattori biologici, vulnerabilità personale, esperienze evolutive. Lungi dal voler spiegare in modo esaustivo il fenomeno in questione, intendere la dipendenza affettiva come un’evoluzione maladattiva di un naturale legame amoroso offre la possibilità di procedere nella ricerca di strategie di coping adattive, utili agli individui che si trovino in una situazione di rischio, al bivio tra attaccamento sano o addiction.

Dialogo interiore e autocontrollo: parlare a se stessi per regolare le emozioni

Il semplice atto di avere un dialogo interiore, silenzioso, con noi stessi in terza persona, durante un momento di stress, può aiutare ad avere una maggiore regolazione delle proprie emozioni senza uno sforzo mentale aggiuntivo, diversamente da quello che accade quando ci rivolgiamo a noi stessi in prima persona.

 

Parlare a se stessi per autoregolare le emozioni

Un primo obiettivo di una ricerca condotta dai ricercatori di psicologia della Michigan State University (MSU) e della University of Michigan (UM) è stato quello di dimostrare come parlare a se stessi in terza persona, implichi uno sforzo minimo nell’autocontrollo. I risultati della ricerca sono stati pubblicati online su Scientific Reports.

Dire, ad esempio, che un uomo di nome John è sconvolto perché è stato recentemente lasciato dalla fidanzata, implica semplicemente riflettere sui propri sentimenti in terza persona (“Perché è sconvolto John?”). In tal caso, John ha una reazione emotiva minore rispetto a come sarebbe stata se l’avesse affrontata in prima persona (“Perché sono sconvolto?”). Ciò aiuterebbe le persone a guadagnare un po’ di distanza psicologica dalle proprie esperienze e spesso può essere utile per regolare le emozioni.

Gli studi confermano la regolazione emotiva parlando a se stessi in terza persona

La ricerca è stata condotta mediante due studi che hanno rafforzato significativamente questa ipotesi.

Nello studio 1, svolto al Moser’s Clinical Psychophysiology Lab, venivano mostrate ai partecipanti delle immagini, alcune neutre e altre negative, su cui dovevano riflettere in base ai sentimenti generati utilizzando le due diverse condizioni: “self-talk in prima persona” e “self-talk in terza persona”. Durante il compito l’attività neurale della risposta emotiva veniva misurata mediante ERP (potenziale evento-correlato). La reazione scaturita dall’immagine negativa (ad esempio un uomo con una pistola puntata alla testa) correlava con una rapida diminuzione dell’attività cerebrale emotiva dei partecipanti (entro un secondo) quando si riferivano a se stessi in terza persona.

I ricercatori della MSU, inoltre, hanno misurato l’attività cerebrale correlata allo sforzo dei partecipanti e hanno scoperto che l’utilizzo della terza persona richiedeva meno fatica rispetto all’utilizzo della prima. Parlare a se stessi in terza persona sembrerebbe una buona strategia per la regolazione delle proprie emozioni, mentre molte altre forme di regolazione emotiva richiedono un considerevole sforzo e attività di pensiero.

Nello studio 2, guidato dal professore Ethan Kross è stato chiesto ai partecipanti di riflettere sulle proprie esperienze dolorose passate utilizzando sia la prima che la terza persona. Durante il compito, l’attività cerebrale è stata registrata mediante una risonanza magnetica funzionale (fMRI).
Con risultati simili a quelli ottenuti dal primo studio, i partecipanti, utilizzando il dialogo interiore in terza persona, hanno mostrato una minore attività in una specifica regione cerebrale, la corteccia prefrontale mediale, comunemente implicata nella riflessione delle esperienze emozionali dolorose, suggerendo una migliore regolazione emotiva. Inoltre, il self-talk in terza persona non richiedeva impegno cognitivo supplementare diversamente da quello che accade, normalmente, con l’utilizzo del self-talk in prima persona.

In sintesi i risultati suggeriscono che il dialogo interiore in terza persona agevola la capacità di autocontrollo e di regolazione emotiva.
Serviranno ulteriori ricerche per validare i risultati ottenuti. Chiarire ulteriormente il funzionamento di questi processi sarà utile per aiutare le persone ad avere una migliore regolazione delle proprie emozioni nella vita di tutti i giorni.

Terapia sensomotoria: quando il dolore è scritto nella memoria somatica

Per decenni il corpo si è eclissato dagli studi degli psicoterapeuti, soprattutto cognitivisti e psicoanalisti. Facevano parlare i pazienti soprattutto, anche se noi cognitivisti insistevamo anche sugli esercizi comportamentali. Questa sorta di estremismo del verbo non poteva durare a lungo. Il dolore si scrive nella memoria somatica prima ancora che nei ricordi autobiografici, e dal corpo va scacciato.

Articolo uscito su La Lettura del Corriere della Sera del 27 Agosto 2017

 

Pochi anni fa sono relatore a un congresso, tra gli speaker c’è Pat Ogden. Mostra il video di una sua seduta con un signore molto spaventato, il cui sorriso cauto maschera un’allerta primordiale, un atavico: “Stai lontana”. Vive, mi è chiarissimo, in un mondo di predatori. Lei è addossata alla parete di una stanza ampia. Il signore schiena alla parete opposta. Lei, dopo avergli chiesto il permesso, fa un passo. E gli domanda per filo e per segno quali siano le sensazioni corporee. “È ok”. Un altro passo. Ancora ok. Un altro ancora, ci saranno tre metri tra i due. “Ecco, ora non sto tanto bene”. Lei sorride, aspetta un attimo e gli chiede se deve fare un passo indietro. “Sì, meglio di sì”. Quello che vedo mi piace. Con un paziente come quello puoi parlare per mesi della sua difficoltà al contatto e del suo terrore primevo. Perdendo tempo. Invece con quei passi progressivi e negoziati ottieni di riattivare gli schemi: “Sono fragile, l’altro è minaccioso” e scoprire poco per volta che non sono veri. Ma è il corpo che lo avverte. Il terapeuta chieda: “È calata la tensione ora?” e ascolti il “Sì”. In quel momento lo schema è disattivato. Un uomo ha lasciato un mondo di rettili giganti ed è saltato nella realtà.

Neurobiologia del tempo (2017) di A. Benini – Recensione del libro

Nel libro Neurobiologia del tempo, l’autore Arnaldo Benini intende confermare che il tempo è reale, anche se per la fisica è un arcaico, obsoleto e ingannevole arnese mentale.

 

Possiamo congedarci dal tempo? Gli studi sul tempo, cioè su una dimensione fondamentale della vita degli esseri viventi, con sistema nervoso, hanno un aspetto paradossale: da un lato la fisica lo nega come illusione, dall’altro le neuroscienze e la biologia comparata trovano sempre nuovi dati sui meccanismi nervosi del senso del tempo nell’uomo e in molti esseri viventi, anche con sistema nervoso piccolissimo, a conferma della realtà di un evento biologico le cui origini risalgono a sistemi nervosi minuscoli e a età remotissime.

Neurobiologia del tempo intende confermare che il tempo è reale, anche se per la fisica è un arcaico, obsoleto e ingannevole arnese mentale. Nel 1905 il fisico Albert Einstein, infatti, dichiarava che il tempo è relativo alla velocità: più alta la velocità, più lento il tempo. Nel 1908 il matematico Herman Minkowski sosteneva che tempo e spazio erano destinati a diventare ombre, solo la loro unione avrebbe conservato una realtà indipendente. A partire dalla metà del XIX secolo, le scienze del sistema nervoso iniziarono a studiare i meccanismi nervosi che creano e manipolano il tempo. In particolare il medico e fisico Hermann von Helmholtz scoprì l’intervallo che corre fra gli stimoli nervosi e quelli che essi determinano. Intervallo che rappresenta una latenza tra stimolo e percezione del suo effetto, questa latenza è una delle regole dei meccanismi cerebrali, compresi quelli della coscienza, quindi uno dei capisaldi dell’esistenza.

Neurobiologia del tempo: tra tempo biologico e tempo soggettivo

Esiste un tempo che il cervello manipola e distorce prima di trasmetterlo alla coscienza, una parte del tempo è un ‘tempus perdus’ (tempo perduto, oggi si parla di ‘tempo compresso’) perché la coscienza non ne è informata. Il cervello può distorcere il tempo solo perché lo crea. Quindi che cos’è il tempo? Il tempo è formato (e non percepito) da meccanismi nervosi trasmessi geneticamente da una generazione all’altra. Il senso del tempo, la cui rappresentazione è uno degli enigmi della mente, ha tre aspetti: la stima della durata, dell’attesa e dell’ordine di successione degli eventi. Il tempo è creato dal cervello, senza che al suo interno esista un organo centrale e circoscritto del senso del tempo. Per questo il senso del tempo, unico fra le sue sensazioni, è presente come tempo oggettivo e soggettivo (con la componente emotiva) in tutte le esperienze sensoriali. Il tempo non si percepisce come evento del mondo esterno. Il tempo si sente come evento della coscienza di sé e del mondo.

Del senso del tempo sono elementi costitutivi le aree cerebrali della memoria. In particolare l’ippocampo, che è l’organo chiave sia della memoria sia del senso del tempo e dello spazio. Il tempo non è sempre lo stesso tempo. La manipolazione del senso del tempo rende le percezioni più incisive e, nel caso della casualità, più convincenti di quanto sarebbero se la compressione non avvenisse. Complessa ed elusiva, la compressione del tempo è un evento chiave e costante dell’esperienza sensoriale e dei meccanismi cognitivi.

Da oltre un decennio, uno de temi della neurobiologia del tempo è capire in quale degli emisferi cerebrali vengano elaborate prevalentemente le dimensioni emotive e quelle razionali del senso del tempo, poiché non esistono due cervelli uguali, il senso del tempo è diverso da persona a persona. L’organizzazione nervosa dei meccanismi del tempo è complessa e si estende dai lobi prefrontali al cervelletto.

Il tempo non si percepisce, ma si sente. L’esperienza del tempo è creata dal cervello. Il senso del tempo è un evento della coscienza, anche nell’incoscienza del sonno. Il tempo è dunque reale ed è una dimensione essenziale della vita: il libro Neurobiologia del tempo descrive studi e prove della sua esistenza. Attraverso i capitoli l’autore ci permette di comprendere la complessità dei processi nervosi del senso del tempo e il rapporto con lo spazio e con il numero (domini nei quali il cervello codifica e calcola la quantità). Delinea il valore del tempo per la memoria, il linguaggio e la musica. Ci permette di riflettere su cosa accade al senso del tempo in occasione di una lesione cerebrale o di una malattia. Per gli appassionati di scienza Neurobiologia del tempo è un libro da leggere, ricco di approfondimenti in tutte le materie e volto ad andare verso l’unità della comprensione scientifica sull’essere umano.

Nell’ultimo capitolo l’autore afferma ‘la neurobiologia del tempo è certamente uno dei meccanismi fondamentali della coscienza’.  Quindi, non possiamo congedarci dal tempo!

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