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Furcht (1917) di Robert Wiene – Recensione del film

Film psicoanalitico e misterioso, Furcht, dominato da un sentimento di paura, anticipa quella che sarà la corrente cinematografica dell’espressionismo tedesco.

 

Come ogni anno nel mese di giugno, dal 1986 a Bologna, si è svolto il festival del Cinema Ritrovato. Questa rassegna cinematografica ci riporta come una macchina del tempo ad esplorare, scoprire e godere di pellicole di ogni nazionalità ormai scordate ma che comunque portano con sé un valore artistico e non, inestimabile.

Tra i vari film in programmazione ho potuto godere della proiezione del film di Robert Wiene Furcht, uscito per la prima volta nelle sale cinematografiche nel 1917 e accompagnato al piano, nella sala Lumiere a Bologna dal bravissimo Antonio Coppola. Come detto Furcht è firmato Robert Wiene, lo stesso regista della ben più nota pellicola “Il gabinetto del dottor Caligari”, anticipatore della corrente espressionista tedesca.

Furcht: anticipazione dell’espressionismo tedesco

Il protagonista di Furcht, un aristocratico tedesco (Bruno Decarli), ruba un idolo durante un soggiorno a Giava. Il fantasma del sacerdote a cui ha sottratto l’oggetto sacro, però, lo ossessiona e gli profetizza una morte vicina: morirà dopo sette anni di vita e da questa profezia ogni azione è dominata dal turbinio di un ossessione mistica.

Film psicoanalitico e misterioso, Furcht, dominato da un sentimento di paura, anticipa come detto quella che sarà la corrente cinematografica dell’espressionismo tedesco.

In effetti si possono tracciare due linee di approccio tra il rapporto psicologia e cinema espressionista:

  1. quella che fa leva sulle tesi junghiane dell’inconscio collettivo
  2. quella freudiana sul perturbante che si divide ulteriormente in due differenti tipologie per quanto riguarda la settima arte.

La prima è legata al vissuto del singolo individuo e scaturisce dal rapporto che si stabilisce tra lo stimolo esterno (il film) ed il materiale inconscio rimosso. La seconda ha un risvolto collettivo e si manifesta davanti alla percezione che il racconto possa sovrapporsi alla realtà.

Il film Furcht gioca molto sull’angoscia, peculiare caratteristica del perturbante, basti pensare allo stato d’incertezza in cui si trova lo spettatore per tutta la durata del film. Estremamente allegorico, ci si chiede continuamente se il fantasma ci sia realmente o questa proiezione non è altro che il frutto del senso di colpa che avvolge il protagonista e che lo condurrà lentamente alla pazzia.

Inserito nella sezione “100 anni fa”, Furcht apre le piste a quella che sarà la corrente artistica cinematografica forse con maggior correlazione con la psicoanalisi.

Il cervello e la creatività: le basi neurali e molecolari del processo creativo

Quando gli esseri umani sono impegnati con qualsiasi tipo di processo creativo, un gran numero di regioni del cervello quindi si attiverebbe, le stesse che si attivano anche in molti processi cognitivi cosiddetti “ordinari”; la creatività può essere considerata il prodotto di una complessa interazione tra processi cognitivi “ordinari” ed emozione.

Ilaria Biasion – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Ogni atto creativo comporta… una rinnovata innocenza nella nostra percezione,
liberata dalle pressioni del comune pensare.
Arthur Koestler

La creatività

Una delle prime definizioni di creatività è da attribuire a William James, che nel 1890 nei suoi “Principi di psicologia” la definì come “una transizione da un’idea a un’altra, una inedita combinazione di elementi, una acuta capacità associativa e analogica”, promuovendo in tal modo un’idea di creatività caratterizzata da una rivoluzione della solita routine mentale, un uscire dagli schemi del pensiero normale, una generazione di nuovi punti di vista per associazione analogica.

Le definizioni di creatività sono andate sommandosi nel corso degli anni, ma il concetto centrale è rimasto sostanzialmente invariato, si parla di immaginazione, genio, idea, tutti sinonimi per definire una proprietà umana unica e fondamentale. Cartesio citava  “La ragione non è nulla senza l’immaginazione”, Abraham Lincoln diceva “Nella sua grandezza, il genio disdegna le strade battute e cerca regioni ancora inesplorate”, e ancora Victor Hugo “Niente al mondo è così potente quanto un’idea della quale sia giunto il tempo”.

Nonostante il pensiero creativo fosse conosciuto da moltissimi secoli, soltanto agli inizi del 1900 venne studiato ed indagato in modo specifico e, con lo sviluppo della ricerca scientifica, la letteratura sull’argomento si è arricchita di nuovi spunti provenienti da diverse discipline, così il tema della creatività è stato indagato da molti punti di vista.

Parecchi dunque gli studi che nel corso degli anni si sono susseguiti, relativamente ad un concetto complesso e sfaccettato, non facilmente comprensibile, il quale rappresenta un costrutto vasto che è stato ed è fondamentale per il progresso della civiltà umana e per lo sviluppo dei processi di ragionamento (Rex E. Jung, 2013).

La complessità che ruota intorno alla creatività è facilmente evidente, infatti ripercorrendo la storia degli studi in materia, è possibile assistere ad una variazione del concetto a dir poco sorprendente. In breve tempo si è passati dal considerare la creatività una dote innata alla scoperta invece di una possibile acquisizione di tale caratteristica, ma non solo, la creatività originariamente considerata patrimonio esclusivo di pochi eletti, i cosiddetti “geni”, è divenuta oggi patrimonio umanitario generale, sebbene in misura differente. Per molto tempo, inoltre, la creatività è stata assimilata all’intelligenza, negli anni ’70 però, grazie a Paul Torrance (Torrance 1988), furono sviluppati dei test di misurazione del quoziente di intelligenza (QI) e del talento creativo più precisi, i quali portarono alla conclusione che le persone creative possiedono un QI nella media. Oltre un certo limite, quindi, a seconda della disciplina interessata, il quoziente intellettivo non è fondamentale nel scatenare la creatività, esso è necessario ma non sufficiente.

Oggi, la maggior parte dei ricercatori, concordano con la definizione standard della creatività, ovvero quella proposta originariamente da Stein nel 1953, secondo la quale “La creatività richiede sia l’originalità che l’utilità” e riguarda proprio la produzione di un qualcosa di nuovo e di utile.

Gli sforzi per definire la creatività in termini psicologici risalgono però a Guilford (Guilford, 1950), che ha riconosciuto l’idea secondo cui gli aspetti che contraddistinguono il pensiero creativo sono: la fluidità, ovvero la capacità di produrre abbondanti idee, senza riferimento alla loro adeguatezza ai fini della risoluzione del problema; la flessibilità, cioè la capacità di cambiare strategia ideativa, quindi di passare da una successione di idee a un’altra, da uno schema a un altro; l’originalità, che consiste nella capacità di trovare risposte uniche, particolari e insolite; l’elaborazione, ovvero il percorrere fino alla fine una strada ideativa con ricchezza di particolari collegati in maniera sensata tra di loro; la sensibilità ai problemi, vale a dire il selezionare idee e organizzarle in forme nuove, capire cosa non va e cosa può essere perfezionato negli oggetti di uso comune.

Molti autori da allora hanno esteso la tesi secondo cui un atto creativo non è un evento singolo, ma un processo di interazione tra elementi cognitivi ed affettivi. In questa prospettiva, l’atto creativo ha due fasi, una generativa e una esplorativa o valutativa (Finke et al., 1996). Durante il processo generativo, la mente creativa immagina una serie di nuovi modelli mentali come potenziali soluzioni ad un problema, nella fase esplorativa, vengono valutate le diverse opzioni e poi viene selezionata quella migliore.

I primi studiosi della creatività, come Guilford, hanno caratterizzato le due fasi, come pensiero divergente e pensiero convergente (Guilford, 1950), definendo il primo come la capacità di produrre una vasta gamma di associazioni o di arrivare a molte soluzioni in riferimento ad un problema, esso quindi va al di la di ciò che è contenuto nella situazione di partenza, supera la chiusura dei dati del problema, esplora varie direzioni e produce qualcosa di nuovo. Al contrario, il pensiero convergente si riferisce alla capacità di concentrarsi rapidamente sulla migliore soluzione ad una difficoltà, rimane quindi circoscritto all’interno degli schemi del problema.

L’idea dell’esistenza di due fasi del processo creativo è coerente con i risultati della ricerca cognitiva che indica l’esistenza di due modi diversi di pensare, uno associativo e uno analitico (Neisser, 1963; Sloman, 1996). Nella modalità associativa, il pensiero è intuitivo, nella modalità analitica, il pensiero è invece concentrato sull’analisi delle relazioni di causa ed effetto.

Il punto focale, portato alla luce dagli studi, è quindi che la creatività non è una proprietà unica, ma è il risultato della complementarietà tra deduzione e intuizione, tra ragione e immaginazione, tra emozione e riflessione, tra pensiero divergente e pensiero convergente.

Basi neurali della creatività

Nonostante una serie di attività siano state svolte nel campo delle neuroscienze cognitive, recenti ricerche hanno dimostrato che non esiste un quadro coerente e unitario per quanto riguarda le basi neuroanatomiche della creatività.

Alcuni studi sui meccanismi neurali della creatività hanno esaminato il ruolo dell’ asimmetria emisferica (Martindale, 1999). Originariamente la creatività era considerata una funzione dell’emisfero destro, l’idea principale che i creativi utilizzassero soprattutto l’emisfero destro, mentre le persone razionali, meno creative, usassero principalmente l’emisfero sinistro, è stata infatti per lungo tempo al centro delle credenze principali sull’ argomento. Tale teoria, affascinante per la sua linearità, appare oggi semplicistica, a fronte della complessità del cervello.

Studi sul pensiero divergente che hanno utilizzato l’elettroencefalogramma (EEG), per rilevare l’attività elettrica del cervello, non hanno confermato infatti una specifica lateralizzazione destra della creatività. (Dietrich, Kanso. 2010 )

Le tendenze più recenti sono quelle di considerare la non esistenza chiara di una lateralizzazione emisferica per la creatività e l’esistenza di diverse aree cerebrali attivate a seconda della natura del processo creativo in atto. Quando gli esseri umani sono impegnati con qualsiasi tipo di processo creativo, un gran numero di regioni del cervello quindi si attiverebbe. Le stesse regioni cerebrali sono quelle che si attivano anche in molti processi cognitivi cosiddetti “ordinari” (ad esempio, la memoria, l’attenzione, il controllo, il monitoraggio delle prestazioni), pertanto, questi studi suggeriscono come la creatività possa essere considerata il prodotto di una complessa interazione tra processi cognitivi “ordinari” ed emozione.

Altri studi neuroanatomici funzionali, realizzati utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o la tomografia ad emissione di positroni (PET) hanno riportato un coinvolgimento maggiore della corteccia prefrontale (PFC) come substrato neuroanatomico critico per il pensiero divergente (Folley, Park, 2005; Dietrich, Kanso, 2010).

Questi studi di neuroimaging che misurano gli aspetti funzionali del cervello, riportano quindi una costante attivazione della corteccia prefrontale nel cervello di persone coinvolte in compiti di pensiero creativo (Carlsson et al, 2000;. Chavez- Eakle et al., 2007; Fink, Grabner, et al., 2009; Folley & Park, 2005; Gibson et al., 2009). Ciò che dall’analisi degli studi sull’argomento appare meno chiaro è quali siano le aree specifiche della corteccia prefrontale che si attivano in risposta a compiti creativi.

Anche se alcuni studi hanno riportato un’ attivazione prefrontale diffusa (Carlsson et al., 2000;. Folley e Park, 2005;. Gibson et al., 2009; Sieborger et al., 2007), altri invece hanno fatto riferimento a regioni specifiche. Ad esempio, per quanto riguarda la corteccia prefrontale ventro-laterale (BA 47), Goel e Vartanian nel 2005 riportano un’attivazione unilaterale a destra, mentre Chavez-Eakle e collaboratori in una ricerca del 2007 evidenziano un’attivazione prevalente del lato sinistro.

Per quanto riguarda il giro frontale (BA 9) e il polo frontale (BA 10), quattro studi hanno riportato un aumento dell’attività nell’emisfero sinistro (Chavez- Eakle et al., 2007; Goel e Vartanian, 2005; Hansen et al., 2008; Howard-Jones et al., 2005).Ci sono anche ricerche che riferiscono un’ attivazione della corteccia cingolata anteriore sinistra (Howard-Jones et al., 2005), dell’area prefrontale dorso-laterale sinistra (BA 46), e dell’area motoria supplementare (Fink, Grabner et al., 2009).

Infine, un numero di altre strutture cerebrali, sia corticali che sottocorticali pare svolgano un ruolo nel pensiero divergente. Ci sono evidenti riscontri per le aree visive (Howard-Jones et al., 2005; Jung, Segall, et al., 2009), il talamo (Fink, Grabner et al., 2009), lo striato (Blom et al., 2008), l’ippocampo (Fink, Grabner et al., 2009), il giro cingolato anteriore (Fink, Grabner et al., 2009; Howard-Jones et al., 2005), il cervelletto (Chavez-Eakle et al., 2007) e il corpo calloso (Moore et al., 2009). Tuttavia, tali risultati sono dispersivi e pare non siano supportati dalla stragrande maggioranza degli studi.

Da quanto emerso dalla letteratura presa in esame, sembra non esserci un accordo unanime tra i ricercatori su quali siano le precise aree cerebrali coinvolte nel processo creativo.

Rimane abbastanza chiaro, tuttavia, il coinvolgimento della corteccia prefrontale, nonostante non si sia effettivamente ancora chiarita la misura di tale coinvolgimento.

La conclusione è che il pensiero divergente non rappresenta una modalità diversa o separata di pensare, per cui non vi è un insieme specifico di regioni cerebrali coinvolte durante tale processo, piuttosto pare produca un’attivazione ampia e diffusa (Dietrich, 2007). E’ probabile che la ricerca futura identificherà specifiche aree cerebrali per i processi creativi, ma questo sforzo richiederà una maggiore divisione del concetto di creatività in diversi sotto-processi, in quanto la creatività, come costrutto generale e univoco, non pare essere chiaramente localizzabile.

Dopamina: forse la molecola della creatività

Alcuni studi realizzati sui pazienti affetti da malattia di Parkinson sembrano mostrare un ruolo cruciale della dopamina nella creatività. La dopamina è una sostanza chimica coinvolta principalmente nel controllo delle emozioni e degli impulsi e nelle normali funzioni motorie. Questa sostanza, carente nei malati di Parkinson, quando viene innalzata grazie all’effetto dei farmaci dopaminergici produce un aumento della produzione creativa.

Walker e collaboratori nel 2006, hanno riportato un aumento della produttività nel caso di un artista che, con i farmaci dopaminergici, ha incrementato la sua attività di disegno. Analogamente Kulisevsky e collaboratori nel 2009, hanno riferito il caso di un paziente che prima di sperimentare la malattia dipingeva e in seguito ad un aumentato della dose di farmaci dopaminenrgici ha incrementato la sua attività pittorica rispetto al passato.

Quindi, dall’analisi dei casi, potrebbe essere verosimile che gli slanci creativi osservati nei pazienti siano dovuti alla terapia farmacologica, tuttavia quello dell’aumento della creatività non è l’unico fenomeno osservato, pare infatti che una dose eccessiva di farmaci tenda a produrre un’alterazione del controllo degli impulsi (sindrome da disregolazione dopaminergica), per cui i malati di Parkinson iniziano a mostrare comportamenti privi di freni inibitori e tendenti all’ossessività. Quindi la creatività, osservata nelle persone affette da malattia di Parkinson, potrebbe essere solo un sintomo della sindrome da disregolazione dopaminergica (DDS), causata dai farmaci.

Un caso interessante è stato descritto da Scrag e Trimble nel 2001 riguardante un paziente parkinsoniano, il quale iniziò a scrivere poesie di alta qualità durante i primi mesi di assunzione dei farmaci dopaminergici. Tale aumento nella capacità di scrittura potrebbe però, secondo gli studiosi, essere dovuta alla tendenza ossessiva, che causa una sovraesposizione artistica.

Nonostante ciò, non tutti i pazienti parkinsoniani, in seguito ad un aumento della sostanza nel cervello indotta dai farmaci, mostrano una spinta alla produzione artistica, quindi gli effetti della dopamina sulla creatività non sono ancora chiari

De Manzano e collaboratori nel 2010 suggeriscono un importante ruolo del recettore D2 della dopamina nel talamo, il quale pare svolgere un’azione importante sulla creatività negli individui sani. Il talamo ha un’azione importante nel cervello dal momento che funziona come una sorta di filtro cerebrale, che setaccia le informazioni che arrivano nelle aree della corteccia responsabili, tra l’altro, della cognizione e del ragionamento. Secondo gli studi degli autori avere meno recettori D2 nel talamo, dall’effetto inibitorio, comporterebbe un grado minore di filtrazione del segnale e quindi un flusso maggiore di informazioni dal talamo alla corteccia. Le persone molto creative, in base ai test sulle capacità di pensiero divergente, hanno proprio mostrato una minore densità di recettori D2 nel talamo rispetto a chi, dai test, è risultato meno creativo.

Anche se ancora non sono conosciuti gli effetti specifici della dopamina sulla creatività nel cervello sano, la densità dei recettori D2 potrebbe essere la spiegazione circa la vasta gamma di differenze creative che si riscontrano nelle persone.

Stimolare la creatività

La possibilità di apprendere delle tecniche di pensiero creativo, ha preso il via nel 1960 grazie agli studi di Jerome Bruner, il quale sosteneva che i bambini dovessero essere incoraggiati a “trattare un compito come un problema per il quale si possa inventare una risposta, piuttosto che trovarla in un libro o scritta sulla lavagna“(Bruner, 1965)

Da quel momento gli psicologi hanno elaborato programmi di istruzione progettati per promuovere la creatività e l’inventiva in molte discipline e in ogni popolazione di studenti (Scott et al., 2004).

Le tecniche di pensiero creativo, oggi si fondano sulla possibilità di cambiare direzione al pensiero, produrre idee sempre nuove, cambiare i vecchi schemi attraverso processi che consentano di focalizzare l’attenzione, superare i limiti della situazione attuale e creare legami nuovi e diversi che tengano la mente sempre attiva.

Molto spesso risolvere un problema richiede uno sforzo, è faticoso in quanto la confusione che genera in noi può essere forte e difficile da gestire, una delle tecniche che più spesso risulta utile in questo caso e scomporre il problema, focalizzarsi su un aspetto alla volta separando le emozioni dalla logica, la creatività dalle informazioni che abbiamo. Imparare a fermarsi dinnanzi ad un problema e fare una pausa per lasciare libero il pensiero creativo è un’altra possibilità, molto spesso le intuizioni migliori giungono proprio nel momento in cui ci si discosta dal problema. Allo stesso modo, imparare a focalizzare volontariamente l’attenzione è molto utile allo sviluppo del pensiero divergente, imparare a fermarsi su un particolare a cui non si è mai fatto caso, osservare i dettagli di una scena, di un paesaggio, di una vetrina o di un immagine, sviluppa la nostra capacità creativa, portandoci ad incrementare nuove idee o a produrre innovazioni a un qualcosa di già esistente. Anche esercitarsi nel pensare cose impossibili, contraddittorie e illogiche, può servire per dare una scossa al pensiero divergente e offrire spunti per nuove idee. Spingersi oltre il logico, il razionale, il conosciuto, può portare a qualcosa di innovativo, a percorrere nuove direzioni mai esplorate prima

Per quanto riguarda gli esercizi più utili allo sviluppo e all’ implementazione della creatività, quelli che non prevedono un’unica soluzione giusta, sono sicuramente i più utili, quegli esercizi quindi che lasciano al pensiero la possibilità di reagire ad uno stimolo seguendo varie strade. La possibilità di generare nuove idee, di non arrendersi alla prima opportunità di risoluzione di un problema, questa è quella che viene definita apertura, capacità di guardare le cose sempre con occhi diversi senza lasciarsi imbrigliare dagli schemi rigidi di pensiero con cui si è soliti ragionare.

Alcuni di questi esercizi sono ad esempio quelli che richiedono la capacità di trovare nuovi usi ad oggetti comuni, oppure costruire dei disegni a partire dalla presentazione di una forma astratta, inventare una breve storia a partire da alcune parole date, creare delle associazioni casuali, ovvero dimostrare che due oggetti, due parole, due immagini presi casualmente sono simili, o ancora descrivere situazioni ipotetiche, ad esempio immaginare come sarebbe il mondo se l’uomo sapesse volare.

Un altro esercizio utile a facilitare il pensiero creativo è la costruzione di ”mappe mentali”. Data una parola stimolo, si chiede di disegnare o scrivere intorno ad essa tutte le parole che in qualche modo secondo noi sono collegate alla parola data. Per ogni termine trovato poi si può ampliare l’esercizio cercando ulteriori associazioni. In questo modo si ottiene la propria mappa mentale di un termine. Questa tecnica rappresenta un importante strumento di percezione di un problema, e ci consente di trovare immediatamente la relazione tra un’idea centrale e le altre che ruotano attorno ad essa. La percezione di un problema espresso attraverso le mappe mentali, consente una migliore organizzazione dei pensieri e facilita il processo creativo. Il fatto che ogni persona possa produrre dei concetti diversi associati ad una parola data, ci fa capire quanta differenza intersoggettiva possa esistere e quanto la comunicazione sia un processo difficile, infatti il riuscire a farsi capire dal proprio interlocutore è strettamente legato alla capacità di entrare nella sua mappa mentale, se questo non avviene c’è il rischio che quanto compreso sia diverso rispetto a quanto si voleva esprimere.

Esistono quindi molti esercizi utili allo sviluppo di una funzione che è utile all’essere umano in quanto gli consente di superare i limiti che lo condizionano, lo sviluppo creativo è un viaggio che allarga la conoscenza e il sapere di tutti. Ogni cosa può essere guardata da varie angolazioni, tutto sta nell’imparare a vederle.

Acceptance and commitment therapy: uno studio pilota sull’assetto autonomico e le patologie cardiovascolari

É ormai nota in letteratura l’evidenza di una relazione tra malattia cardiovascolare e fattori di rischio psicologici con effetti sulla modulazione del network autonomico sia relativamente all’insorgenza che alla prognosi della cardiopatia ischemica. Scopo della ricerca è di verificare l’efficacia di un intervento di gruppo basato sull’Acceptance and CommitmentTherapy (ACT) nel migliorare alcuni indici di prognosi cardiovascolare e di qualità della vita.

Ciraci et al.

Riassunto dello studio

Metodologia: Sono stati reclutati 18 pazienti tra i 55 e 76 anni con esiti di bypass aortocoronarico. I soggetti sono stati equamente randomizzati in 3 condizioni: il gruppo sperimentale ha ricevuto un training basato sull’ ACT, un gruppo controllo ha seguito incontri psico-educativi, il secondo gruppo controllo non ha seguito alcuna attività. Le variabili cardiovascolari, rilevate tramite Nexfin nelle fasi pre e post trattamento, sono state confrontate con i controlli.

Risultati: Nel gruppo sperimentale si osserva una riduzione percentuale relativa del 12% della frequenza cardiaca media a riposo e un aumento della Heart Rate Variability del 170% rispetto ai valori baseline in associazione ad un riferito miglioramento globale della qualità della vita a fronte di alcuna modificazione significativa di tali variabili nei due gruppi di controllo.

I risultati di questo studio pilota preliminare potrebbero essere indicativi dell’efficacia di un training di gruppo basato sull’ ACT nel miglioramento dell’equilibrio autonomico di pazienti con cardiopatia ischemica, agendo su alcuni indici di prognosi cardiovascolare. L’ampliamento del campione ed ulteriori studi in merito sarebbero necessari al fine di verificare e/o corroborare l’efficacia del trend descritto.

Parole chiave: Acceptance and CommitmentTherapy, ACT, Patologie cardiovascolari, cardiopatia ischemica, Psicoterapia in cardiologia, Prevenzione secondaria, Heart Rate Variability.

Abstract

There is a strong evidence in the literature between coronary heart disease and psychological risk factors with consequent effects on the modulation of the autonomic network regarding both the onset and the prognosis of ischemic disease. The aim of the study is to test the effectiveness of a group intervention based on Acceptance and Commitment Therapy in improving some indices of cardiovascular outcomes and quality of life.
Methodology: We recruited 18 patients aged between 55 and 76 years with coronary heart disease. Equally and randomly assigned to three different conditions: the experimental group received a training based on ACT, a control group followed psycho-educational sessions, and the second control group did not attend any activity. The cardiovascular variables, as detected by Nexfin in pre and post treatment, were compared with controls.
Results: the experimental pilot group shows a reduction of 12% of the average heart rate at rest and increased Heart Rate Variability of 170% compared to baseline in combination with an overall reported improvement in quality of life compared to the two control groups. New studies and increase of groups are needed to verify the effectiveness of these preliminary results.
Keywords: Acceptance and Commitment Therapy, ACT, Cardiovascular Disease, Psychotherapy in cardiology, Cardiac Secondary Prevention, Heart Rate Variability.

Introduzione

Negli ultimi anni, la malattia cardiovascolare costituisce la più importante causa di mortalità e morbilità in Italia e all’estero nella nostra realtà epidemiologica (Ministero della Salute, 2012). La valenza sanitaria e sociale di questi dati risulta ancor più significativa dalla conoscenza ed individuazione dei fattori di rischio, che sono in larga parte prevenibili.

I fattori di rischio cardiovascolari possono essere suddivisi, infatti, in fattori di rischio non modificabili (età, sesso, familiarità per malattie cardiovascolari) e modificabili (ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, diabete, fumo di sigaretta, inattività fisica, aumento dei livelli ematici di trigliceridi, obesità) (Ministero della Salute, 2012). I fattori di rischio modificabili appaiono strettamente correlati allo stile di vita, che risulta, a sua volta, fortemente influenzato da fattori psicologici oltreché psicosociali.

Il legame eziologico e prognostico tra personalità, disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, stress e vari esiti clinici di tipo cardiovascolare correlati con alterazioni del network autonomico, è riconosciuto ampiamente sia in ambito medico che psicologico (Ladwig et al., 2014; Pogosova et al., 2014). In particolare, è stata riscontrata l’esistenza di un’associazione bidirezionale tra i disturbi dell’umore e malattia cardiovascolare e tra i disturbi di ansia ed eziologia e prognosi della malattia coronarica indipendentemente dall’età e da altri fattori di rischio cardiaco (Rozanski, 2014). Altre ricerche hanno riscontrato uno stretto legame tra stili di personalità di tipo A e D e patologie cardiache (Denollet, Schiffer &Spek, 2010). Questi dati supportano la possibilità che tali fattori psicologici, in un gran numero di pazienti, possano non solo essere corresponsabili della comparsa dei disturbi cardiovascolari, ma possano costituire anche un importante fattore di rischio cardiovascolare in fase di prevenzione secondaria e/o terziaria e in termini di aderenza al trattamento farmacologico, alle indicazioni psico-educative e al conseguente impatto sullo stile di vita del paziente.

Numerosi studi dimostrano come un intervento cardio-chirurgico possa portare a sperimentare stati depressivi, aumentando il rischio di mortalità per patologie coronariche (Connerney et al., 2001; Fresure-Smith, Lespèrance, Juneau &Thèroux, 2000). L’insorgenza di tale sintomatologia nel post-intervento, oltre a risentire di variabili di tipo psicologico, potrebbe essere correlata a una riduzione del tono vagale cardiovascolare e un contestuale aumento delle influenze adrenergiche, mediate da deficit del controllo centrale del network autonomico, che comporterebbe una riduzione della flessibilità nella responsività agli stimoli ambientali (Frenneaux, 2004).

Recenti studi epidemiologici nella popolazione generale hanno correlato una minore variabilità della Heart Rate Variability (HRV) con un aumento di incidenza di infarto acuto del miocardio e morti cardiache improvvise. Inoltre, emergono evidenze di associazione tra ridotta Heart Rate Variability e sintomatologia ansiosa e/o depressiva (Sirois&Burg, 2003), che risulterebbe influenzata oltre che dalla frequenza respiratoria e dall’equilibrio fra le influenze della componente simpatica e parasimpatica, anche dagli stati emozionali che possono influenzare il bilanciamento del sistema nervoso autonomo.

Secondo un modello di integrazione neuroviscerale infatti, lo squilibrio del sistema nervoso autonomo sarebbe l’elemento comune di stati emozionali negativi e patologie cardiache ed in particolare l’Heart Rate Variability è stata associata ad alterazioni psicologiche e neurovegetative (Gorman&Sloan, 2000; Honing, 2000; Yeragani et al., 1993). Inoltre, il ruolo dell’ Heart Rate Variability come fattore indipendente di cattiva prognosi, è ormai consolidato: nei pazienti con pregresso infarto, una riduzione dell’Heart Rate Variability è associata ad aumentato rischio di morte aritmica (Lombardi, 2000). Questo fenomeno, la cui fisiopatologia è ancora oggetto di ricerca, probabilmente è dovuto ad una stimolazione delle terminazioni simpatiche nell’area ischemica che innescano dei riflessi cardiaco-cardiaci simpato-vagali (Schwartz et al., 1973).

L’analisi dell’Heart Rate Variability sta assumendo, conseguentemente, sempre maggior rilievo in ambito medico e soprattutto cardiologico, in quanto rappresenta una tecnica per misurare ed esaminare, in modo non invasivo e ripetibile, la regolazione centrale dello stato autonomico, delle correlazioni tra processi psicologici e funzioni fisiologiche, permettendo una stratificazione del rischio cardiovascolare.

Date tali premesse appare significativamente rilevante un intervento di prevenzione secondaria che agisca sulla percezione delle proprie condizioni cliniche, sull’ansia e la depressione correlate all’intervento. Le linee guida che definiscono le attività psicologiche per la riabilitazione della malattia cardiovascolare (Sommaruga et al, 2003) raccomandano la valutazione delle variabili di rischio descritte all’interno dei contesti di degenza in pazienti con differenti problematiche cardiache indicandone anche l’efficacia dei differenti trattamenti. Viene riportato come trattamenti psicoeducativi e di stress management (Donker, 2000; Dusseldorp et al., 1999), e confermato da recenti studi, risultino essere efficaci rispetto ad indicatori prognostici di carattere psicologico e cardiaco associati a monitoraggio medico-farmacologico e training fisico.

Ad oggi dunque nella pratica della riabilitazione cardiologica,il ruolo dei fattori psico-sociali e comportamentali è considerato alla pari degli altri fattori di rischio classici: ciò raccomanda la presenza, in tali contesti, della figura dello psicologo adeguatamente formato e di programmi di intervento multidisciplinari il cui scopo generale è migliorare la qualità di vita del paziente (De Isabella & Majani, 2015; Sommaruga et al., 2003, Biondi-Zoccai et al., 2016).

Negli ultimi quindici anni, viene riportato in letteratura un aumento del numero di trial clinici randomizzati al fine di valutare l’efficacia di interventi di natura psicoterapeutica su una popolazione cardiaca. Diversi studi mostrano effetti positivi sul miglioramento di depressione, ansia, stress, e qualità della vita, con favorevoli incidenze anche sulla mortalità cardiaca e sulla morbilità (Ladwig et al., 2014; Whalley, Thompson & Taylor, 2014). Tali ricerche sono eterogenee sotto il profilo metodologico (modello teorico di riferimento, contenuti, metodo, durata, formazione del trainer, etc.) e non sempre ben articolate sotto il profilo procedurale, il che rende difficile la valutazione dell’efficacia e dell’efficienza degli interventi stessi e di una tipologia di intervento piuttosto che di un’altra.

Le meta-analisi presenti in letteratura sugli interventi psicoterapeutici rivolti a pazienti con malattia cardiovascolare, popolazione per la quale è presente il maggior numero di ricerche cliniche, mostrano un maggiore utilizzo ed efficacia del modello di intervento cognitivo comportamentale, sia sulle variabili psicologiche che cardiache (Biondi-Zoccai et al., 2016; Dickens et al., 2013; Welton, Caldwell, Adamopoulos e Vedhara, 2009): si osservano risultati positivi per ansia, depressione, stress e qualità della vita (Whalley et al., 2011), in aggiunta ad un miglioramento negli indici cardiaci (van Dixhoom& White, 2005).

Recentemente il crescente interesse per gli approcci psicoterapeutici si è esteso anche ai più attuali approcci cognitivo-comportamentali di terza generazione, tra i quali mindfulness e Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ne costituiscono alcune applicazioni (Hayes et al.,2006), impiegati per problematiche di medicina generale (Prevedini et al., 2012) e malattia cardiovascolare. Benchè l’applicazione di interventi basati su questo approccio risulti attualmente ancora esigua, sono osservabili evidenze di efficacia della mindfulness, nel migliorare non solo la qualità di vita ma anche alcuni indici prognostici cardiaci, (Parswani, Sharma&Iyengar, 2013) e dell’ ACT nel favorire la messa in atto di comportamenti protettivi della salute, quali dieta, attività fisica (Goodwin et al., 2012) e conseguentemente nella riduzione dei singoli fattori di rischio quali obesità, fumo, diabete (Prevedini et al., 2011).

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) si colloca, nell’attuale cornice della medicina comportamentale, come un modello di intervento efficace e meritevole di essere sperimentato e applicato in diversi contesti clinici (Prevedini et al., 2011). Secondo il modello dell’ ACT, la sofferenza psicologica e il restringimento del repertorio comportamentale risultano strettamente connessi al tentativo di controllare o reprimere emozioni associate alla propria condizione di malattia cronica (Hayes et al., 2006).

L’obiettivo dell’ ACT è quello di contribuire ad aumentare la flessibilità psicologica, ovvero l’abilità di relazionarsi con i propri pensieri ed emozioni in modo funzionale, non rimanendo intrappolati in essi, comportandosi in modo efficace rispetto a quello che personalmente sentiamo importante con un conseguente miglioramento significativo della qualità della vita (Prevedini, Miselli & Moderato, 2015). La finalità di un trattamento con l’Accepance and Commitment Therapy, rivolto a pazienti che hanno subito un intervento di bypass aorto-coronarico, va nella direzione di un miglioramento della qualità della vita, riducendo i possibili effetti negativi che una condizione di malattia cardiaca potrebbe comportare quali restringimento del repertorio comportamentale, messa in atto di condotte disfunzionali alla propria salute, focalizzazione su pensieri ed emozioni negative.

L’obiettivo che ci si pone in questo studio pilota è la valutazione dell’impatto di un training basato sull’ ACT non solo sulla qualità della vita di pazienti con malattia cardiovascolare sottoposti ad un intervento di bypass aortocoronarico, ma anche sul funzionamento del sistema nervoso autonomo, differenziandosi da quanto già presente in letteratura. Recentemente lo studio pilota di Goodwin et al. (2012) e il protocollo di intervento proposto da Spatola et al., (2014), rivolti entrambi ad una popolazione di pazienti con diagnosi di cardiopatia ischemica, hanno utilizzato il modello dell’ ACT valutandone gli effetti solamente su variabili psicologiche e le ripercussioni sullo stile di vita oltre che sulla qualità di vita (Goodwin et al., 2012; Spatola et al., 2014), non valutando le modificazioni che l’intervento ha avuto sulle variabili cardiache e nel bilancio autonomico dei pazienti.

Alla luce delle considerazioni effettuate, il nostro studio, se pur riferendosi ad un campione esiguo, appare essere il primo studio presente in letteratura in cui ci si propone di verificare sperimentalmente quanto l’attivazione dei processi chiave del modello dell’ ACT (variabili indipendenti) risulti efficace nell’influenzare positivamente l’attività del sistema nervoso autonomo con un effetto anche sul miglioramento riferito della qualità della vita, in pazienti con malattia cardiovascolare, condizione clinica che appare più sensibile sia in termini di eziologia che di prognosi alle variabili psicologiche (Park, Tahk & Bae, 2015). Le variabili dipendenti misurate sono state l’eventuale presenza di una sintomatologia ansiosa e di una sintomatologia depressiva, la percezione del proprio stato di salute generale, la flessibilità psicologica, la valutazione dei domini valoriali e delle azioni congruenti con tali domini, le aspettative e l’impatto della patologia cardiaca sulla qualità di vita, la percezione del funzionamento del proprio cuore e il bilancio autonomico del soggetto.

Metodo

Partecipanti e Procedura

La sperimentazione è uno studio clinico preliminare monocentrico del tipo between-groups. Il campione totale consta di 18 soggetti, maschi, caucasici, con età media compresa tra i 55 e 75 anni, sottoposti a intervento di rivascolarizzazione miocardica chirurgica mediante di bypass aorto-coronarico, ricoverati presso l’Unità Operativa di Prevenzione e Riabilitazione Cardiovascolare ”Don Gnocchi” di Parma. I principi di inclusione prevedono il campionamento di pazienti non affetti da altre patologie organiche/psichiatriche riportate in cartella clinica. I pazienti sono stati distribuiti in modo randomizzato in 3 gruppi differenti ciascuno costituito da 6 componenti:
– Gruppo sperimentale: training basato sull’ ACT
– Gruppo controllo 1: incontri di gruppo a carattere psico-educazionale
– Gruppo controllo 2: nessun tipo di trattamento psicologico e/o educativo

La ricerca si articola secondo le seguenti fasi:

FASE 1. Reclutamento e prima valutazione:
I pazienti che hanno subito un intervento di bypass aorto-coronarico, ricoverati presso il reparto di riabilitazione cardiovascolare, sono stati valutati sotto il profilo clinico e psicologico, come da prassi, durante il periodo di degenza. Dopodiché, verificata l’eleggibilità per il presente studio, regolarmente approvato dal comitato etico, è stato acquisito il consenso informato e i pazienti sono stati inseriti in modo randomizzato all’interno di uno dei tre gruppi di ricerca, proponendo loro la somministrazione degli strumenti psico-diagnostici e valutando il funzionamento fisiologico.

FASE 2. Seconda valutazione pre-trattamento:
I pazienti, contattati telefonicamente una settimana prima dell’inizio del trattamento sono stati invitati a recarsi nel centro di riabilitazione, in un orario compreso tra le 9.00 e le 13.00 di mattina. Ciascun paziente si è sottoposto nuovamente a:
Valutazione fisiologica: misurazione mediante Nexfin® (della durata di 20 minuti, di cui i primi 10 in clinostatismo e i rimanenti 10 in posizione seduta) di diverse variabili inerenti principalmente la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la gittata cardiaca. Durante la misurazione era previsto che l’operatore uscisse dalla stanza per non influenzare in alcun modo il paziente. Si è raccomandato ai pazienti di non variare abitudini alimentari ed evitare condizioni quali fumo o eccessivo consumo di caffè, in grado di interferire con lo studio del sistema nervoso autonomo.
Valutazione psicologica: Somministrazione testistica descritta nella parte relativa agli strumenti

FASE 3 fase sperimentale:
I tre gruppi sono stati sottoposti alle diverse condizioni previste dalla ricerca:
1. Il gruppo sperimentale è stato sottoposto a un intervento basato sul protocollo per l’ ACT (Hayes et al., 2006) strutturato in cinque incontri a cadenza settimanale, della durata di circa 2 ore l’uno.
2. Il gruppo controllo 1 ha seguito cinque sedute psico-educazionali di gruppo appositamente disegnate. Durante ogni incontro sono stati trattati i seguenti argomenti: fattori di rischio cardiovascolare modificabili, stile di vita sano, ruolo di stress, ansia e depressione nella malattia cardiovascolare. È stato trattato un argomento per ogni incontro, con la durata complessiva di circa due ore per incontro.
3. Il gruppo di controllo 2 non ha ricevuto alcun tipo di intervento psicologico o psicoeducazionale.
Tra la seconda e la terza seduta, sono stati somministrati a tutti i pazienti gli stessi otto questionari utilizzati in fase di baseline. Questa valutazione aggiuntiva ha permesso di monitorare il funzionamento emotivo a metà del percorso sperimentale comparandola agli altri due gruppi di controllo.

FASE 4: Raccolta dei dati post-intervento e analisi statistiche.

Alla fine di ogni ciclo, per ognuno dei tre gruppi, sono state rifatte le stesse valutazioni della FASE 2. Tale valutazione è stata eseguita nello stesso periodo della giornata e mantenendo le medesime condizioni della baseline.

Strumenti

Per la valutazione delle variabili cardiovascolari e neurovegetative è stato impiegato il Nexfin, che consente di avere una forma d’onda di pressione in modo non invasivo e continuo, battito per battito. É costituito da due componenti: una cuffia pneumatica in grado di generare una curva di pressione fisiologica e un sistema ottico per la rilevazione del volume delle arterie; è inoltre in grado di fornire una registrazione elettrocardiografica dinamica per un determinato periodo di tempo. Le variabili che un’analisi Nexfin riesce a fornire sono le seguenti: monitoraggio completo dei parametri emodinamici (gittata cardiaca, stroke volume, pressione arteriosa sistolica e diastolica e rispettive deviazioni standard); monitoraggio ECG (frequenza cardiaca, intervallo RR e rispettive deviazioni standard).

Per le variabili psicologiche sono stati utilizzati i seguenti test psicometrici in lingua italiana quali:
– sintomatologia ansiosa: State Trait Anxiety Inventory forma Y-1, Y-2 (Spielberger,Gorsuch&Lushene, 1989) al fine di valutare l’ansia di stato e l’ansia di tratto;
– sintomatologia depressiva: Beck Depression Inventory-II (BDI-II; Ghisi et al., 2006) al fine di valutare la sintomatologia Depressiva.
– percezione del proprio stato di salute generale: Questionario sullo stato di salute SF-36 (Apolone& Mosconi, 1998) al fine di valutare la percezione dello stato di salute generale.
– flessibilità psicologica: Acceptance and Action Questionnaire-II (AAQ-II; Bond et al., 2011; Pennato, Berrocal, Bernini &Rivas, 2013) volto a valutare la flessibilità psicologica.
– valutazione dei domini valoriali e delle azioni congruenti con tali domini: Valued Living Questionnaire (VLQ; Rabitti et al., 2009; Wilson, Sandoz &Kitchens, 2010) finalizzato alla misurazione del processo dei valori e di quello di azione impegnata.

Si sono utilizzati, inoltre, alcuni strumenti self report non validati ai fini di valutare rispettivamente le seguenti variabili: l’impatto della patologia cardiaca sulla qualità di vita, la percezione del funzionamento del proprio cuore:
– Scala di valutazione da 0–10 volta a indagare le aspettative circa l’impatto che l’evento morboso potrà avere sui comportamenti diretti alle proprie aree importanti di vita e una scala di valutazione da 0–10 volta a indagare l’effetto dell’impatto che l’evento morboso ha avuto concretamente su tali comportamenti;
– Scala da 0–10 al fine di indagare la percezione dello stato di funzionamento del cuore.

Trattamento

Il protocollo terapeutico proposto al gruppo sperimentale si è basato sui modelli di protocollo dell’ ACT (Hayes et al., 2006; Previdini et al., 2015) rivolti al trattamento della sintomatologia ansiosa (Eifert et al., 2009) depressiva (Forman et al., 2007) e del dolore cronico (Vowles, Wetherell&Sorrell, 2009) adattandoli alla tipologia clinica dei pazienti. Coerentemente al modello teorico di riferimento, si sono utilizzate tecniche psico-educazionali, esercizi di mindfulness, esercizi esperienziali e metafore (Bond &Hayes, 2002), con la finalità di attivare i processi sottesi alla flessibilità psicologica.

Il protocollo psicoterapeutico ha previsto cinque sedute di due ore ciascuna a cadenza settimanale, condotte all’interno di uno spazio dell’unità operativa di riabilitazione cardiovascolare, appositamente adibito ad accogliere i pazienti. Durante l’iter terapeutico, non vi sono state variazioni né relativamente al setting, né relativamente alla tempistica per fornire ai pazienti una routine e un ambiente che favorisse l’adesione, la familiarità e l’aderenza.

Analisi statistiche

Le variabili emodinamiche e neurovegetative sono state raggruppate nelle tre aree indagate: frequenza cardiaca, pressione arteriosa, gittata cardiaca. I valori sono stati suddivisi in clinostatismo e ortostatismo e tra valori baseline e misurazioni finali. Con questa suddivisione, ogni paziente è stato studiato per 12 variabili. Uno dei pazienti del gruppo di controllo 2, che si sottoponeva agli incontri psico-educazionali, è uscito dallo studio prima di poter effettuare la valutazione alla fine del ciclo di incontri. Per questo motivo non si è tenuto conto della misurazione di baseline ai fini dell’analisi statistica dei risultati, senza particolari conseguenze sull’esito dell’analisi stessa (Tabella I; Tabella II). Dopo la fase di raccolta dei dati è stato utilizzato Datadesk®, un programma finalizzato alla gestione, all’analisi statistica e alla produzione di grafici.
L’analisi dei dati è stata effettuata per mezzo del software statistico R.

Validazione dei dati e analisi della correlazione tra clinostatismo e ortostatismo

Nella prima fase dell’analisi, si è voluto anzitutto capire se ci fosse qualche correlazione tra le due condizioni in cui sono stati rilevati i parametri fisiologici: clinostatismo e ortostatismo. La correlazione è risultata molto alta, con una media di circa 0,9: per questo motivo si è potuto proseguire l’analisi statistica normalizzando le variabili in clinostatismo con quelle in ortostatismo, valutandone la variazione percentuale tra baseline e valore finale. Durante la valutazione delle curve di dispersione, un valore riferito alla pressione arteriosa sistolica aveva una forte diversità tra clinostatismo/ortostatismo, interferendo con la correlazione. Tale valore poteva pertanto verosimilmente essere definito come ‘’outlier’’. Dopo questa modifica, la correlazione clinostatismo/ortostatismo per la pressione arteriosa sistolica è passata da un valore di 0.75 a 0.93, in linea con quelle riscontrate per le altre variabili. Si è effettuata una riespressione dei dati come differenza fra dopo-trattamento e baseline, il tutto rapportato allo stato di baseline, potendo valutare, in termini percentuali, gli eventuali incrementi e/o decrementi dei valori indipendentemente dal loro valore assoluto di partenza; in questo modo si è potuto procedere ad un’analisi di tipo comparativo.

Analisi dei cambiamenti proporzionali tra i tre gruppi relativamente alle variabili cardiologiche

Le due più importanti variazioni percentuali relative si sono osservate nella media della frequenza cardiaca (riduzione del 12%) e nella variabilità della frequenza cardiaca nel dominio del tempo (aumento del 170 %), espressioni entrambe di attivazione vagale (Figura I, Figura II).
Per quanto riguarda l’intervallo RR si è assistito a un suo incremento percentuale relativo nel gruppo sperimentale rispetto ai due gruppi controllo (Figura III). I dati relativi alla variabilità dell’intervallo RR mostrano un miglioramento nel gruppo sperimentale ma sono caratterizzati da un errore standard elevato e necessitano di un campione più ampio per guadagnare di significatività. Tuttavia, poiché l’intervallo RR è inversamente proporzionale alla frequenza cardiaca, era prevedibile che a una riduzione della frequenza corrispondesse un aumento di tale intervallo.

Figura 1

 

Figura 2

 

Figura 3

Effetti dell’ ACT sulle variabili psicologiche

Data l’esigua numerosità dei partecipanti, non sono state fatte analisi inferenziali sui diversi gruppi.

Analisi descrittive tra i gruppi

Si riportano, di seguito, i grafici più significativi relativi alle variabili psicologiche misurate nelle tre fasi differenti e relativamente ai tre gruppi. Trattandosi di uno studio pilota caratterizzato da una esigua numerosità del campione non è stato possibile evidenziare delle differenze significative né entro i gruppi né tra di essi. Tuttavia, è stato possibile riscontrare un andamento peculiare del gruppo sperimentale rispetto alle differenti fasi di misurazione e agli altri gruppi relativamente agli indici di sintomatologia depressiva valutata mediante Beck Depression Inventory-II e il processo di azione impegnata valutato tramite il Valued Living Questionnaire.

In relazione alla sintomatologia depressiva si osserva un peggioramento della medesima (all’interno di un range di normalità) del gruppo sperimentale nella fase di misurazione effettuata durante il trattamento psicoterapeutico; è possibile notare lo stesso peculiare andamento alle misure del Valued Living Questionnaire, a fronte di un trend caratterizzato da assenza di particolari evidenti variazioni, nelle differenti fasi, degli altri gruppi (Figure IV, V). E’ importante riportare come i valori di baseline del gruppo sperimentale rispetto alle misure del Valued Living Questionnaire siano più elevati rispetto ai due gruppi di controllo, indicando una presumibile maggiore coerenza tra domini valoriali e azioni congruenti.

Per quanto riguarda la sintomatologia ansiosa, la percezione del proprio stato di salute generale, gli indicatori di flessibilità psicologica e le variabili “impatto patologia cardiaca sulla qualità della vita e percezione dello stato di funzionamento del cuore (queste due ultime misurate tramite self report non validati) non si sono riscontrati trend degni di attenzione tra il pre e post trattamento in nessuno dei tre gruppi.

Figura 4

 

Figura 5

Risultati

Il presente lavoro è stato condotto su una coorte di 18 pazienti di età media pari a 62 anni, con esiti recenti di rivascolarizzazione miocardica chirurgica, ricoverati presso il reparto di Prevenzione e Riabilitazione Cardiovascolare Don Gnocchi di Parma. Il campionamento ha tenuto conto di alcuni criteri di esclusione, ovvero di tutte quelle condizioni psichiatriche/organiche che potevano influire ulteriormente sull’assetto neurovegetativo dei pazienti. Da questo studio pilota è emerso che, in fase di prevenzione secondaria, l’utilizzo di un intervento basato sull’ ACT di sole 5 sedute per un totale di circa 10 ore di trattamento potrebbe modificare alcune variabili cardiovascolari come frequenza cardiaca a riposo e Heart Rate Variability. Tali variabili hanno un comprovato e significativo valore prognostico per pazienti con cardiopatia ischemica (Lombardi, 2000) ma sono alterate anche in particolari stati emozionali come condizioni di ansia, stress e depressione (Sirois & Burg, 2003; Yeragani et al., 1993) mostrando un’alterazione dell’assetto autonomico e una riduzione della variabilità della frequenza cardiaca.

All’interno del gruppo sperimentale si è riscontrato un decremento percentuale relativo di circa il 12% della frequenza cardiaca media e nella variabilità della frequenza cardiaca nel dominio temporale (espresso come deviazione standard della frequenza cardiaca media) che è rappresentata da un aumento del 170%. Per quanto riguarda l’intervallo RR, si registra un aumento percentuale relativo al gruppo sperimentale rispetto ai due gruppi di controllo; tuttavia, poiché l’intervallo RR è inversamente proporzionale alla frequenza cardiaca, si prevede che la riduzione della frequenza cardiaca possa corrispondere ad un aumento di tale intervallo. I dati per la variabilità dell’intervallo RR (rappresentati come deviazione standard dell’intervallo RR) mostrano un miglioramento nel gruppo sperimentale, tuttavia, appaiono caratterizzati da un errore standard elevato e richiedono un campione più grande per ottenere un maggiore significato.

Si possono avanzare, infine, delle ipotesi interpretative dei dati psicologici pur in assenza di un’analisi statistica inferenziale. Per quanto concerne la sintomatologia depressiva, nonostante in fase di baseline non fosse stata riscontrata alcuna condizione di psicopatologia è stato possibile osservare un andamento peculiare nel gruppo sperimentale rispetto ai due gruppi di controllo: dalla misurazione effettuata tramite Beck Depression Inventory II, tra la seconda e la terza seduta, si è riscontrato una deflessione del tono dell’umore rispetto alla misurazione in baseline con un miglioramento nella fase di fine trattamento. Si riscontra lo stesso andamento peculiare per quanto riguarda la variabile misurata tramite il Valued Living Questionnaire finalizzato alla valutazione dei domini valoriali e delle azioni congruenti con tali domini. A fine trattamento i risultati, nonostante appaiano simili a quelli della baseline potrebbero risultare qualitativamente diversi poiché caratterizzati da una consapevolezza differente. Non emergono cambiamenti significativi e/o trend caratteristici per le altre variabili psicologiche indagate.

Discussione

Attualmente, appaiono diversi e sempre più in aumento gli studi presenti in letteratura che mostrano come il modello di intervento basato sull’ ACT si dimostri efficace nel promuovere comportamenti sani, migliorando il benessere psicologico in pazienti con patologie fisiche croniche di varia natura (Prevedini et al.,2011; Lundgren, Yardi, Melin & Kies, 2008; Dahl, Wilson, Nilsson, 2004; McCracken, Vowles & Eccleston, 2005). Ad oggi la letteratura mostra l’efficacia di interventi psicoterapeutici, in particolare di natura cognitivo-comportamentale su pazienti con malattia cardiovascolare sia su fattori di rischio psicologico che su indicatori di prognosi cardiovascolare (Biondi-Zoccai et al., 2016).

Questo studio pilota si presenta, all’interno del panorama scientifico, come il primo studio pilota clinico randomizzato rivolto a pazienti con cardiopatia ischemica in cui si dispone di dati non solo rispetto a variabili psicologiche ma anche cardiache conseguentemente ad un training basato sull’ ACT.

Dai risultati preliminari emerge come il gruppo sperimentale abbia evidenziato un trend di miglioramento di alcuni indici prognostici cardiovascolari quali Heart Rate Variability (aumento del 170%), e frequenza cardiaca media (riduzione del 12%), mentre non è stato possibile evidenziare un effetto significativo sulle variabili psicologiche indagate, né entro né tra i gruppi.

Benchè i punteggi ottenuti non siano risultati significativi, presumibilmente anche a causa dell’esiguo numero dei pazienti, è
stato comunque possibile notare, attraverso un’analisi di tipo qualitativo, un andamento peculiare del gruppo sperimentale rispetto agli altri due gruppi di controllo, in particolar modo, relativamente alla sintomatologia depressiva misurata tramite il Beck Depression Inventory-II e all’azione impegnata misurata tramite il Valued Living Questionnaire: durante il corso del trattamento è stato possibile osservare, nel gruppo sperimentale, diversamente dai gruppi di controllo, una lieve deflessione del tono dell’umore rispetto agli altri tempi di misurazione che potrebbe essere associata, nella stessa fase, ad una percezione di maggiore discrepanza tra importanza attribuita ai propri domini valoriali e commitment. Questo peculiare andamento potrebbe presumibilmente essere connesso all’acquisizione di maggiore consapevolezza, durante il percorso terapeutico, della natura delle proprie emozioni e dei propri comportamenti, conseguenti all’attivazione di processi quali accettazione, disponibilità, contatto con i valori, che si ritiene essere uno tra i principali obiettivi del modello dell’ ACT.

I pazienti del gruppo sperimentale hanno inoltre riferito di aver acquisito una maggiore consapevolezza circa i propri fattori di rischio per la salute cardiaca a livello sia comportamentale che di funzionamento cognitivo con l’adozione di comportamenti funzionali a uno stile di vita protettivo per la salute del cuore (dieta, assenza di fumo, attività fisica, aderenza farmacologica, ecc.), peraltro non previsti tra gli indicatori di esito specifici. Le peculiari caratteriste di funzionamento psicologico e comportamentale considerate tra i trigger di un cattivo funzionamento cardiaco riferite dai soggetti sperimentali nel corso degli incontri, e ascrivibili allo stile di personalità di tipo A e D (Molinari et al., 2007), sono state le seguenti: “super-responsabilità”, “sregolatezza”, “timore”, “primeggiare”, “incontentabile”, “rigidità”. La maggior parte di questi sostantivi e verbi riportati, fa riferimento a modalità comportamentali finalizzate alla gestione di pensieri ed emozioni difficili da accettare relativi alla propria condizione di essere umano e alla propria storia di vita: “debole”, “non amabile”, “insicuro”, “vuoto”,” invisibile”, “fallito”. I soggetti consideravano, nello specifico, la modalità di gestione di questi limiti alla base della messa in atto di azioni nocive per la loro salute psicologica e fisica.

Alla luce di ciò è interessante notare come, nonostante non siano stati rilevati indici di patologia ai test preliminari per ansia e depressione, il colloquio clinico ha permesso di mettere in evidenza l’esistenza di un funzionamento psicologico caratterizzato, in particolar modo, da estrema rigidità comportamentale, difficoltà nello sperimentare e riconoscere le proprie emozioni, inflessibilità psicologica, restringimento del repertorio comportamentale, appiattimento affettivo e rimuginio mentale, processi associati spesso alla patologia ansiosa e depressiva che, benchè inizialmente non sia stata posta in evidenza dagli psicometrici, presumibilmente, potrebbe aver avuto un ruolo nella modalità di fronteggiamento della malattia cardiaca.

Ciascuno dei pazienti, nel corso del trattamento, è diventato, dunque, consapevole non solo delle emozioni predominanti che hanno caratterizzato la sua vita ma di come il tentativo di gestirle, soffocarle e l’apparente percezione di controllo sulle medesime lo avesse portato a perdere di vista i principi guida che orientano e guidano ciascuno, durante il percorso della propria esistenza.

Conclusioni: gli effetti dell’ ACT sui pazienti con malattia cardiovascolare

In conclusione, il presente lavoro si pone come il primo studio pilota clinico randomizzato che ha utilizzato un intervento basato sul modello dell’ ACT su pazienti con malattia cardiovascolare, indagandone variabili psicologiche e variabili di prognosi cardiaca, per le quali è emerso un miglioramento nella frequenza cardiaca a riposo, Heart Rate Variability, intervallo RR e rispettiva deviazione standard.

Attualmente, le linee guida relative alle attività psicologiche (Sommaruga et al., 2003) in contesti di riabilitazione cardio-vascolare raccomandano interventi psicoeducativi e di stress management, nonostante nell’ultimo decennio il numero degli studi volti a valutare l’efficacia di interventi psicoterapeutici su problematiche cardiovascolari sia aumentato notevolmente, evidenziando un effetto positivo su variabili psicologiche quali ansia, stress, depressione oltre che sulla mortalità e morbilità cardiovascolare (Whalley et al., 2014).

Tuttavia la proposta di interventi di carattere psicoterapeutico negli ambienti riabilitativi cardiovascolari si rende di difficile applicabilità a causa dei tempi di degenza che non superano spesso le due settimane, in contrasto con la durata degli interventi psicoterapeutici che in alcuni casi hanno richiesto dalle 24 settimane (Huffman et al, 2014) agli 8 mesi (Rollman et al, 2009), con la conseguente difficoltà di ricontattare il paziente dopo la dimissione, e la mancanza di risorse economiche volte a finanziare un trattamento di questo tipo.

Un intervento basato sull’ ACT che consta di solo cinque sedute per un totale di dieci ore di trattamento, peculiare sia per modi che per tempi di somministrazione, potrebbe inserirsi, in modo meno difficoltoso, rispetto ad un percorso psicoterapeutico lungo e dispendioso, all’interno delle dinamiche di un reparto riabilitativo e permetterebbe un’implementazione del piano di prevenzione secondaria e terziaria, con un giovamento per i pazienti anche dal punto di vista neurovegetativo.

È importante sottolineare come i risultati riportati da questo studio pilota sono ancora dei riscontri preliminari e che le prospettive future mirano ad aumentare l’ampiezza del campione in aggiunta a un approfondimento dell’esistenza di una correlazione tra modificazioni psicologiche e modificazioni fisiologiche per le quali, in questa sede, non è stato possibile valutarne un andamento comune. Un altro obiettivo è costituito dalla valutazione in follow-up delle variabili oggetto di indagine al fine di osservare nel tempo l’evoluzione dei risultati ottenuti all’interno di ciascun gruppo e tra gruppi sottoposti a condizioni differenti.

Sarebbe auspicabile, inoltre, il confronto tra l’efficacia di un modello di intervento basato sull’ ACT e altre tipologie di interventi psicoterapeutici in modo da poter verificare l’esistenza di un’ efficacia maggiore di un modello di intervento rispetto ad un altro sugli indici di prognosi cardiaca indagati.

Incertezza ed interdipendenza: il ruolo della performance adattiva nel contesto lavorativo

La performance adattiva acquista crescente rilevanza quando ci riferiamo a fattori come l’avvento della tecnologia, la ridefinizione del lavoro, i cambiamenti della strategia etc. Per ciò che riguarda la sua definizione, anche qui esistono concezioni differenti, ma nonostante ciò la maggior parte dei ricercatori concorda nel sottolinearne gli aspetti che riguardano l’apprendimento e l’applicazione delle nuove conoscenze e competenze alle esigenze di attività che cambiano (Mariani, 2011).

 

Al giorno d’oggi i contesti organizzativi sono soggetti all’influenza di un ambiente che si mostra sempre più complesso e dinamico. La globalizzazione dei mercati, la forte competizione che ne deriva, insieme all’avvento delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione, hanno portato ad una trasformazione veloce e considerevole del mondo del lavoro.

In risposta a questi avvenimenti, le caratteristiche del lavoro sono mutate e così anche i requisiti richiesti, i ruoli ed i profili (Mariani, 2011). Questa situazione fa da cornice al cambiamento del significato che viene dato alla performance lavorativa. Tradizionalmente, la performance lavorativa veniva considerata in termini di competenza con il quale l’individuo porta a termine i compiti accuratamente specificati nella descrizione del lavoro (Murphy e Jackson, 1999). Oggi, il cambiamento della natura del lavoro e delle organizzazioni ha sfidato le tradizionali visioni della performance lavorativa (Ilgen & Pulakos, 1999). Le tendenze attuali, considerano i ruoli lavorativi in contesti organizzativi dinamici, ampliando il concetto di prestazione lavorativa. In altre parole, per ottenere performance efficaci, gli individui e i gruppi di lavoro, così come le stesse organizzazioni, devono adattarsi prontamente ai nuovi compiti, alle richieste lavorative e più in generale al mercato lavorativo. In quest’ottica, lo spostamento del focus va dalla stretta considerazione di compiti specifici e doveri inerenti a posizioni fisse, alla considerazione di un più ampio range di competenze professionali che emergono dai ruoli lavorativi (Sarchielli, 2008 in Mariani 2011).

Nel presente elaborato verranno presentati alcuni contributi alla comprensione delle prestazioni lavorative, in risposta ai mutamenti dei contesti lavorativi. In seguito, verranno prese in considerazione le caratteristiche del contesto lavorativo e successivamente verranno trattati i cambiamenti che si ripercuotono sulle caratteristiche del lavoro. Più avanti, infine, sarà approfondito il costrutto di performance adattiva.

Come cambia il concetto di prestazione lavorativa

In seguito all’aumentare della complessità del lavoro, in letteratura, la prestazione lavorativa viene rappresentata come un punto nevralgico di complessa definizione (Austin e Villaova 1992; Campbell 1990; Murphy e Cleveland 1995; Shmidt e Hunter, 1992). A spiegarne l’importanza troviamo la sua implicazione nei processi che riguardano la gestione delle risorse umane. Per questo motivo, l’attenzione che il costrutto ha ricevuto da parte di ambiti alquanto eterogenei, ha portato l’apparizione di diverse correnti interpretative.

Come affermano Binning e Barrett (1989 in Pini e Mariani, 2014), è possibile leggere le prestazioni lavorative seguendo due correnti: la prima si riferisce alle prestazioni seguendo un approccio più riferito ai comportamenti, mentre la seconda si rifà ai risultati portati a termine. Per sormontare questo dualismo, Viswesvran e Ones (2000), adottano un approccio più inclusivo, concettualizzando la performance lavorativa come un congiunto di azioni, comportamenti e risultati che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi organizzativi.

Successivamente, Motowidlo (2003), sottolinea l’importanza di differenziare i concetti di prestazione, comportamento e risultato. L’esigenza di questa differenziazione nasce dal presupposto che l’insieme di comportamenti eseguiti durante lo svolgimento del proprio lavoro, siano scindibili in comportamenti che non apportano nessun contributo diretto al raggiungimento degli obiettivi organizzativi e comportamenti che sono direttamente collegati a questi ultimi. Motowidlo (2003), dunque, definisce la prestazione lavorativa come il valore atteso dall’organizzazione in seguito ad episodi comportamentali che un individuo mette in atto in un determinato periodo di tempo. In aggiunta, viene effettuata una seconda differenziazione, che separa i comportamenti dai risultati. Come spiegano Motowidlo (2003) e Viswesvaran (2001), infatti, nonostante la distinzione tra comportamenti e risultati non possa essere del tutto netta, è importante poiché tiene conto del grado di controllo sui compiti e dell’influenza che questo può avere sui risultati.

Task e contextual performance

In merito all’aspetto che riguarda le diverse componenti della performance lavorativa, intesa come costrutto multidimensionale, Borman e Motowidlo (1993) effettuano una distinzione tra task performance (la performance riferita al compito) e contextual performance (la performance riferita al contesto). Come spiegano gli autori, la task performance viene definita come l’efficacia con la quale le attività dei lavoratori contribuiscono a quello che viene chiamato “technical core” dell’organizzazione. Quando parliamo di technical core, ci riferiamo a quelle attività che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi organizzativi sia direttamente, per esempio tramite l’implementazione di un processo tecnologico, che indirettamente, ovvero tramite la lavorazione di materiali o la prestazione di servizi (Borman e Motowidlo, 1993). Un esempio in grado di facilitare la comprensione della dimensione della task performance, può esserci dato dall’analisi dell’attività lavorativa di vendita. La task performance, in questo caso, include le conoscenze sul prodotto venduto, la finalizzazione della vendita e la gestione del tempo. Allo stesso modo, i comportamenti inerenti alla task performance per il lavoro svolto da un pompiere, avranno a che vedere con operazioni di salvataggio, come l’applicazione di procedure di estrazione delle persone dalle macerie in seguito ad un terremoto.

Dall’altro lato, il dominio della contexual performance, espande il costrutto della performance lavorativa, includendo una varietà di comportamenti non specifici del lavoro (Borman e modowildo, 1993), che quindi non fanno formalmente parte del ruolo lavorativo in sé (Conway, 1999). Pertanto, a differenza delle attività legate al compito, che vengono di norma esplicitate nella job description e variano considerevolmente rispetto al tipo di ruolo, le attività contestuali non sempre sono riportate nella job description e tendono ad essere più simili quando effettuiamo comparazioni tra diversi lavori (Borman e Motowidlo (1993). La contextual performance, si riferisce a quelle attività che supportano il contesto organizzativo, sociale e psicologico, catalizzando così, i processi e le attività legate ai compiti (Borman e Motowidlo, 1997).

Successivamente, Viswesvran e Ones (2000), approfondiscono un’area di comportamenti affine al concetto di contextual performance: i comportamenti di cittadinanza organizzativa. Questi comportamenti, vennero indagati originariamente da Smith, Organ e Near (1983; 1988) e si riferiscono a dimensioni come l’altruismo e la tendenza a conformarsi alle regole. Così come la prestazione legata al contesto, anche i comportamenti di cittadinanza organizzativa vengono descritti con accezione discrezionale.

Fino ad ora, abbiamo parlato di comportamenti sul lavoro con valenza positiva. Le dimensioni presentate precedentemente, infatti, posseggono un certo grado di desiderabilità. Tuttavia, alcune condotte risultano essere negative per l’organizzazione. Ne fanno parte i “comportamenti controproducenti”, che vengono descritti da Sackett e DeVore (2001 in Mariani 2011) come qualsiasi comportamento intenzionale da pare di un membro dell’organizzazione, che sia considerato da quest’ultima come contrario ai suoi interessi legittimi.

Assistiamo, dunque, ad una graduale assunzione del ruolo lavorativo come componente strettamente interconnessa con la totalità del sistema organizzativo. Questo passaggio ad una concezione del ruolo lavorativo come parte integrante di un sistema interconnesso con l’ambiente, ha portato i recenti approcci a concentrarsi sull’intero insieme di comportamenti che contribuiscono all’efficacia dei risultati organizzativi. Il primo aspetto da sottolineare in questa tendenza, è senza dubbio la rilevanza che sta assumendo, non solo il modo di svolgere un determinato compito, ma anche il modo in cui l’individuo regola l’insieme di comportamenti legato al contesto in cui il compito viene svolto.

In relazione a quanto appena detto, uno studio di Griffin, Neal e Neale (2000)1 , mostra come la percezione dell’efficacia della performance dei controllori del traffico aereo, da parte dei supervisori, sia influenzata dalla contextual performance. L’aspetto interessante dello studio risiede nella rilevanza dei comportamenti legati al contesto, anche per ruoli strettamente tecnici. Lo studio riflette un primo interesse degli autori per quello che è l’ambiente sociale in cui si manifesta la prestazione. Diversi anni dopo, infatti, Griffin, Neal e Parker (2007), riprendono il concetto di ambiente organizzativo, concentrandosi su alcune condizioni attuali del mondo del lavoro, che hanno caratterizzato il consequenziale cambiamento dei ruoli lavorativi.

Nei prossimi paragrafi verranno presentati alcuni contribuiti che forniscono una chiave di lettura dell’evoluzione del contesto lavorativo e l’impatto che ha avuto sullo studio della performance lavorativa.

Incertezza ed interdipendenza nelle organizzazioni: la performance adattiva

L’interdipendenza e l’incertezza negli ambienti lavorativi, sono questioni che hanno acquisito una certa consistenza nelle organizzazioni (Burns e Stalker, 1961; Perrow, 1967; Thompson, 1967 in Griffin, Neal e Parker, 2007). L’interesse verso i temi riguardanti le caratteristiche dell’ambiente, nasce proprio dall’esigenza di incorporare i fattori del contesto organizzativo, in modo tale da avere una comprensione più ampia, in grado di spiegare e valutare la prestazione lavorativa degli individui. Pertanto, con l’intento di fornire delle linee guida per leggere adeguatamente la performance in seno ai cambiamenti che caratterizzano l’ambiente organizzativo, alcuni autori si sono concentrati sul modo in cui, essi stessi, dirigono il cambiamento della natura dei ruoli lavorativi.

Nel 2007 Griffin, Neal e Parker, mettono a punto un modello di performance, focalizzandosi su due aspetti importanti degli odierni contesti lavorativi: l’incertezza e l’interdipendenza. Tali condizioni, sono scaturite dalla competizione che caratterizza i mercati, dai cambiamenti tecnologici e dalla maggiore attenzione diretta alle esigenze dei clienti (Burns e Stakler, 1961). Riprendendo la distinzione strutturale effettuata da Borman e Motowidlo (1993), è evidente che la task e la contextual performance siano concepite come due dimensioni distinte e separate. Tuttavia, nonostante la contextual performance sia definita convenzionalmente come un insieme di comportamenti discrezionali, numerose ricerche ne riconoscono l’importanza per il raggiungimento dei risultati organizzativi (Griffin, Neal e Neale, 2000). Seguendo questa linea, Griffin, Neal e Parker (2007) si concentrano sul modo in cui l’interdipendenza nei contesti organizzativi, mette in risalto il valore dei comportamenti mirati a costruire e mantenere il contesto sociale.

Basandosi sulla teoria del ruolo (Kats e Kahn, 1978), gli autori descrivono l’organizzazione come un sistema di comportamenti interdipendenti. Secondo loro, di fatti, i comportamenti mirati a costruire e mantenere il contesto sociale organizzativo, assumono valore quando i sistemi che compongono un’organizzazione si configurano come interdipendenti. Quando parliamo di interdipendenza, ci riferiamo alla cooperazione delle varie componenti del sistema organizzativo, che lavorano insieme per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi (Cummings e Blumberg, 1987). Nei sistemi interdipendenti, il comportamento dell’individuo ha un impatto non solo sull’efficacia dell’individuo stesso, ma anche sull’efficacia dei gruppi, dei team e dell’organizzazione stessa (Murphy & Jckson, 1999). Seguendo questo approccio, è possibile notare che quando le attività del ruolo lavorativo sono interdipendenti dagli altri ruoli, il collegamento tra l’efficacia e i comportamenti acquisisce una certa complessità (Griffin, 2007). Per esempio, aiutare un collega membro del proprio team, non contribuirebbe direttamente all’efficacia dell’individuo che mette in atto quel comportamento, ma potrebbe contribuire all’efficacia dell’intero team.

Mettendo da parte per un momento il concetto di interdipendenza, ci concentriamo adesso su un altro aspetto che caratterizza i contesti lavorativi odierni: l’incertezza.
Nel loro studio, gli autori affrontano il bisogno di fronteggiare situazioni d’incertezza nelle organizzazioni (Burns & Stalker, 1961; Perrow, 1967; Thompson, 1967). L’incertezza, viene definita da Kats e Khan (1978) come una caratteristica del contesto organizzativo, che si contraddistingue per la poca prevedibilità degli input, dei processi o degli output dei sistemi lavorativi (Wall, Cordery & Clegg, 2001). Ma quali sono le ripercussioni che questi cambiamenti hanno sui ruoli lavorativi? Se prima, essere consapevoli dei requisiti richiesti dai ruoli lavorativi fosse pressoché di norma, al giorno d’oggi i ruoli sono connotati da una grande flessibilità (Sarchielli, 2008). In questo caso, come spiegano Griffin e collegi, (2007), i ruoli lavorativi emergono dinamicamente in risposta alle esigenze del contesto. L’incertezza nei contesti organizzativi plasma i comportamenti che vengono valutati durante lo svolgimento del lavoro, determinandone il grado di formalizzazione. Gli individui, infatti, per fronteggiare situazioni nuove, mettono in atto a loro volta, dei nuovi comportamenti.

Il modello presentato dagli autori, propone la categorizzazione di tre tipi di comportamenti: abilità messe in atto, adattamento e proattività. Questa prima distinzione, risponde al bisogno di fare chiarezza circa il carattere multidimensionale della performance adattiva lavorativa. In aggiunta, vengono presentati tre livelli, che vedono l’individuo come attore organizzativo, rispettivamente inserito in differenti contesti. I livelli che vengono presi in considerazione sono: il contesto individuale, gruppale ed organizzativo.

Tuttavia, nonostante la peculiarità del modello consista nella possibilità di identificare 9 sottodimensioni distinte ed integrate in un unico costrutto di prestazione di ruolo (Pini e Mariani, 2014), in questo elaborato ci concentreremo solo su quello della performance adattiva.

La performance adattiva secondo il modello di Griffin, Neal e Parker

Uno dei primi tentativi di descrivere quella che viene intesa performance adattiva è da ricondursi ad Allworth e Hesketh (1999 in Mariani 2011) che si riferivano ai comportamenti di fronteggiamento dei cambiamenti e al trasferimento dell’apprendimento ad altri.

La performance adattiva acquista crescente rilevanza quando ci riferiamo a fattori come l’avvento della tecnologia, la ridefinizione del lavoro, i cambiamenti della strategia etc. Per ciò che riguarda la sua definizione, anche qui esistono concezioni differenti, ma nonostante ciò la maggior parte dei ricercatori concorda nel sottolinearne gli aspetti che riguardano l’apprendimento e l’applicazione delle nuove conoscenze e competenze alle esigenze di attività che cambiano (Mariani, 2011). Per sottolineare la centralità dell’adattamento dell’individuo all’ambiente, Griffin, Neal e Parker (2007), parlano di adattamento in un’ottica di fronteggiamento dell’incertezza che influenza i ruoli lavorativi. Questa emergente dimensione della performance adattiva, viene descritta tenendo conto dei tre livelli contestuali nei quali l’individuo può trovarsi:

  • L’adattamento a livello individuale, riflette il grado in cui gli individui affrontano, rispondono e supportano i cambiamenti che fanno parte del loro ruolo lavorativo.
  • L’adattamento a livello gruppale, riflette il grado in cui gli individui fronteggiano, rispondono e supportano i cambiamenti che interessano i loro ruoli all’interno di un gruppo.
  • L’adattamento a livello organizzativo, riflette il grado in cui gli individui fronteggiano, rispondono e supportano i cambiamenti che gravano sui loro ruoli, in qualità di membri di un’organizzazione.

Come spiega Pulakos (2000), l’adattamento individuale fa capo alla necessità di avere a che fare con situazioni lavorative incerte, dettate ad esempio dai cambiamenti tecnologici. Nell’epoca attuale, d’altronde, gli individui sono tenuti a fronteggiare la repentina evoluzione delle tecnologie necessarie per svolgere i compiti lavorativi. Così come per il singolo individuo che si trova ad affrontare cambiamenti nei loro compiti individuali, l’incertezza del contesto impatta anche sull’individuo in qualità di membro del team e dell’organizzazione. I team, infatti, sono chiamati ad adattarsi non solo ai cambiamenti esterni, ma anche a quelli dei singoli individui che li compongono (Kozlowski, Gully, Nason e Smith 1999) e allo stesso tempo, ai cambiamenti che interessano l’organizzazione in sé, come ad esempio cambiamenti di strategie.

In questo quadro, è importante riprendere il concetto di interdipendenza che caratterizza tutti i sistemi dell’organizzazione. Come spiegano Griffin, Neal e Parker (2007), i processi attraverso i quali i cambiamenti organizzativi sono scaturiti da cambiamenti all’interno dei ruoli oppure a livello del team. E ancora, i cambiamenti a livello organizzativo, potrebbero ripercuotersi sui ruoli individuali, portando i lavoratori a svolgere nuovi compiti tecnici, per i quali è necessario l’utilizzo di una determinata nuova tecnologia.

La performance adattiva secondo il modello di analisi integrata di Mariani

Con l’intento di chiarificare la molteplicità di fattori individuali ed ambientali che incidono sulla performance, Mariani (2011) presenta un modello integrato di performance, a partire da un ampliamento del modello di Leplat e Cuny (1984). La prima sostanziale differenza tra il modello originale e quello proposto da Mariani, è il focus che viene posto, non più sui comportamenti e sulle attività, bensì sulle prestazioni. Così come per il modello di Griffin, Neal e Parker (2007), anche qui si tiene in considerazione, non solo l’influenza esercitata dall’ambiente organizzativo a vari livelli, ma anche l’interconnessione tra questi ultimi. Con l’ausilio di questo modello, è possibile leggere la performance adattiva come funzione di tre elementi: gli aspetti di base, i comportamenti e i risultati, considerati da un punto di vista individuale, situazionale e di ruolo.

Gli aspetti di base del modello della performance adattiva si posizionano al primo livello ed includono:

  • Variabili individuali: le abilità mentali, la self-efficacy, la flessibilità cognitiva e tutte quelle caratteristiche delle personalità come l’apertura all’esperienza, l’empatia, la tolleranza e l’autocontrollo.
  • Variabili contestuali: il clima organizzativo, gli stili di leadership, il feedback, il supporto e l’identificazione nell’organizzazione, l’apprendimento di gruppo e la giustizia organizzativa. Inoltre, viene identificata la dimensione relativa ai ritmi di lavoro in relazione alle richieste lavorative (variabilità temporale) e la giustizia organizzativa dell’espressione dell’equità percepita dai lavoratori sul rapporto costi/risultati.
  • Ruolo: si riferisce agli obiettivi inerenti al profilo lavorativo, alle norme a cui attenersi e ai valori in termini di identificazione della persona nella mansione ricoperta.

Al secondo livello del modello della performance adattiva troviamo dunque i comportamenti e i vari fattori d’influenza che agiscono sugli stessi:

  • Caratteristiche individuali del lavoratore: gli atteggiamenti, le motivazioni e i valori
  • Caratteristiche della situazione: come il clima organizzativo nell’espressione della percezione di equità nelle procedure lavorative.

Infine, al terzo livello della performance adattiva, troviamo i risultati e le conseguenze per l’individuo e l’organizzazione. Un aspetto interessante della rivisitazione del modello, risiede proprio nel prendere in considerazione, non solo le conseguenze dal punto di vista del lavoratore, ma anche dal punto di vista dell’organizzazione. In questo quadro, le conseguenze per l’individuo possono riferirsi ai ritorni economici, alla soddisfazione ed al prestigio, mentre quelle per l’organizzazione fanno capo ai risultati, ovvero la qualità e la quantità delle pratiche che un dipendente amministrativo ha evaso.

Chiaramente, è necessario non dimenticare che le conseguenze possono avere doppia valenza, tanto positiva, quanto negativa (Mariani, 2011).
Come è possibile notare, nell’ampliamento del modello di Leplat e Cuny (1984) proposto da Mariani (2011), viene largamente espresso il carattere interdipendente dei livelli e delle varie componenti dell’organizzazione. Di fatti, le caratteristiche personali e situazionali, così come anche i ruoli, vengono influenzati dagli stessi comportamenti. Ad esempio, durante lo svolgimento di determinate attività, il lavoratore svilupperà ulteriormente le sue competenze legate al ruolo in una prospettiva di ampliamento delle skills professionali e di adattamento al cambiamento. Ed allo stesso modo, i risultati e conseguenze scaturite dai comportamenti, andranno ad influenzare gli altri livelli.

Conclusioni

Alla luce di quanto detto fino ad ora, è doveroso riconoscere che, da vent’anni a questa parte, sono stati fatti notevoli progressi orientati alla comprensione della natura della performance lavorativa. In questo elaborato sono stati presentati alcuni dei contributi che riguardano lo sviluppo di nuovi costrutti, in risposta all’incertezza ed all’interdipendenza dell’ambiente lavorativo.

L’influenza esercitata dall’ambiente rappresenta al giorno d’oggi un fattore da tenere in stretta considerazione quando si parla di performance lavorativa. Come affermano Griffin, Neal e Parker (2007), la performance adattiva assume rilevanza quando i requisiti del ruolo non possono essere formalizzati a causa dell’incertezza del contesto.

Ci dirigiamo, così, verso ruoli lavorativi sempre più dinamici e flessibili, che richiedono una serie di nuove competenze, in grado di far emergere dinamicamente i ruoli, a partire dalla loro interdipendenza con l’ambiente.

L’intento di questo lavoro, è stato quello di mettere in luce la crescente complessità del contesto e dei ruoli lavorativi, presentando due modelli in grado di fare chiarezza sul modo in cui, nuovi tipi di performance assumono rilevanza in un’ottica di gestione e valorizzazione del capitale intellettuale.

In conclusione, come sottolineano i contribuiti scientifici, gli avanzamenti nella comprensione della performance adattiva, rappresentano un sostanziale punto di partenza verso studi più approfonditi, in grado di catturare aspetti che spiegano e predicono la prestazione lavorativa.

La sindrome del bluff – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Mi riferisco con questo termine ad una particolare costellazione di comportamenti e vissuti, alcuni dei quali riconosciuti come sintomatici ed altri intesi semplicemente come caratteristiche di personalità talvolta persino rinforzate dall’ambiente che hanno il loro nucleo profondo in un sentimento di inadeguatezza, incapacità, indegnità, insufficienza che potremmo sintetizzare in una parola come “difetto”.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La sindrome del bluff  (Nr. 22)

 

La sindrome del bluff e l’idea di sè come indegno e difettoso

Il soggetto sente di essere fatto male nella sua essenza, storto, difettato appunto. Questo sentimento nucleare persiste nonostante il soggetto possa avere e anche riconoscersi moltissimi successi in tutti i campi sia prestazionali che relazionali. Per spiegare questa apparente incongruenza il soggetto elabora la teoria del bluff per cui i successi sono attribuiti all’errore valutativo degli altri o a fattori esterni come il caso o la buona sorte. In realtà più semplicemente i due domini, quello dell’essere e quello del fare, non si influenzano reciprocamente e possono seguire traiettorie completamente diverse.

In realtà questo è vero solo in parte nel senso che mentre i successi non modificano il vissuto del difetto, gli insuccessi, anche minimi vengono presi in considerazione e lo confermano: sembra quindi che ci sia una intenzionalità a mantenere l’idea di sé come difettoso che viene difesa e rinforzata a tutti i costi. L’origine di tale vissuto è da ricercare in esperienze relazionali molto precoci ed è spesso costruita su vissuti corporei di debolezza verso forza, malattia verso salute, bruttezza verso bellezza che solo più tardi saranno riferiti agli aspetti di personalità. Le idee circa noi stessi sono state originariamente idee sul nostro corpo che rivendica così il primato nella costruzione dell’identità.

Il soggetto cerca sin da piccolo di compensare questo vissuto difettuale cercando successi in ambito prestazionale e specializzandosi in ciò può ottenere davvero grandi risultati.
Altrettanto può ricercare e ottenere grandi successi in ambito relazionale e per ottenere riconoscimenti essere completamente dedito agli altri o diventare un seduttore seriale.
Insomma si configura un quadro di narcisismo che galleggia senza modificarlo minimamente sul vissuto abissale del difetto.
Tanto è brillante e disponibile per relazioni superficiali tanto teme e fugge una intimità profonda immaginandola come lo smascheramento del bluff, per cui oscilla tra avvicinamenti e allontanamenti in quanto il bisogno che ha dell’altro è pari solo alla paura che gli incute. Paradossalmente a volte si lega a persone che lo criticano o lo disprezzano perché avverte che hanno colto la sua vera natura e possono stargli accanto nonostante essa: solo coloro gli appaiono interlocutori autorevoli e sinceri.

Cosa fare?

Probabilmente alcune delle più recenti tecniche terapeutiche (EMDR, mindfulness, sensomotoria) possono favorire una diversa rielaborazione delle esperienze precoci che hanno generato il vissuto del difetto. Altre possibili strade non sono mirate a modificare quel vissuto ma a limitarne le conseguenze dannose ed in particolare si può:
– rinunciare: evitare che il soggetto sia schiavo del riconoscimento altrui avendo consapevolezza che, tranne una momentanea soddisfazione, non cambierà nulla;
– “come se”: rivalutare costantemente l’oggettività dei suoi risultati prestazionali e professionali e rapportarsi con gli altri come se fosse davvero come appare e trattarsi scegliendo per sé cose di valore come se fosse davvero come appare.
– accettazione: non tentare di cambiare il vissuto difettuale attraverso l’inefficiente strategia della prestazione ma farne il centro della propria identità accomunando se stesso e l’umanità in una comprensione compassionevole e inesigente.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Dormire o fare sesso? I comportamenti della Drosophila, il moscerino della frutta

Scegliere tra fare sesso o dormire rappresenta un problema comportamentale e decisionale per molte specie, tra le quali troviamo la mosca della frutta.

 

Scegliere tra fare sesso o il dolce dormire rappresenta un problema comportamentale e decisionale per molte specie, tra le quali vi troviamo la mosca della frutta. Un team di ricercatori hanno rilevato che, nella specie Drosophila sia i maschi che le femmine devono affrontare questa problematica.

Secondo Michael Nitabach, professore di fisiologia cellulare e molecolare e professore di genetica alla Yale University, un organismo può svolgere un solo compito alla volta. Quello che si è scoperto in questo studio è l’esistenza di una connessione neuronale che regola l’interazione tra il corteggiamento (e desiderio sessuale) e il sonno.

Il Dottor Nitabach, in collaborazione con gli scienziati della Janelia Research Campus della Howard Hughes Medical Institute, della Sotheast University in Cina e University of San Diego, ha indagato l’ attività neuronale coinvolta in entrambi i comportamenti ed ha scoperto che i maschi della drosophila deprivati del sonno mostrano meno interesse nel corteggiamento, mentre tale deprivazione nelle femmine non ha nessun effetto sul comportamento sessuale.

Gli scienziati affermano che il comportamento degli esemplari maschili è facilmente spiegato come un comportamento adattivo: dormire piuttosto che fare sesso, ovviamente, non è un buon modo per tramandare i propri geni. Quindi, si chiedevano i ricercatori, perché le femmine sono più ricettive rispetto ai maschi anche durante il sonno?

Secondo il Dottor Nitabach, le femmine non possono permettersi di essere stanche perché tutto è nelle loro mani (o grembo) per contribuire a mandare avanti il “corredo genetico”. Oltre ad identificare questo pattern comportamentale tra la sessualità e il sonno, il team di ricerca ha anche rilevato quelli che sono i sottostanti collegamenti funzionali tra i centri neurali che mediano il desiderio sessuale e il sonno nella Drosophila.

Il Dottor Nitabach ha detto che gli esseri umani potrebbero avere un meccanismo molto simile, ma questo è tutto ancora da riscontrare.

Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Il controllo cosciente del comportamento

Molte azioni che appaiono fortemente automatizzate possono essere sempre riportate sotto il controllo cosciente nel momento in cui il soggetto diviene consapevole della decisione che sta prendendo. Le emozioni per esempio sono una guida motivazionale che spesso sorge in automatico sulla base di esperienze apprese. Le persone che si rendono conto delle emozioni che stanno provando possono scegliere liberamente se seguire l’impulso verso cui sono guidati oppure no. Un primo punto: il potere determinante delle emozioni sul nostro comportamento è inversamente proporzionale a quanto le persone sono consapevoli di provare un’emozione (Lambie, 2009).

Allo stesso modo anche l’acquisizione di nuove informazioni a livello conscio può ripristinare il controllo del comportamento, favorendo l’interruzione di automatismi. Persone che ricevono un feedback molto negativo su di sé da uno sperimentatore riducono immediatamente il comportamento aggressivo nel momento in cui vengono informate che lo sperimentatore ha letto un profilo sbagliato. Innanzi alla coscienza di informazioni nuove le persone sono capaci di interrompere il proprio comportamento automatizzato (Krieglmeyer et al., 2009). Le istruzioni verbali (comprese a livello conscio) hanno il potere di azzerare l’effetto di apprendimenti condizionati, compresa la loro controparte fisiologica, vale a dire possono placare stati emotivi intensi (Colgan, 1970). Ne deriva che il comportamento governato da automatismi è più facile che rimanga tale e incontrollato qualora l’attenzione dell’individuo sia fissata rigidamente su stimoli congrui al proprio stato emotivo, in quanto ciò può ostacolare la raccolta di nuove informazioni (Malik, Wells & Wittkowski, 2015).

In sintesi, in un qualsiasi momento è possibile esercitare un controllo conscio sul comportamento volto a cambiare, interrompere o intensificare un’azione appresa. Questa operazione di libero arbitrio sembra facilitata da due aspetti:

  1. la consapevolezza che si sta provando uno stato emotivo/impulso all’azione,
  2. l’assenza di una rigida fissazione attentiva su stimoli congruenti all’impulso.

Il controllo degli automatismi

Un altro punto della nostra esplorazione del controllo cosciente del comportamento riguarda quanto spesso riusciamo ad agire volontariamente sui nostri automatismi. Talvolta la frequenza delle situazioni in cui esercitiamo controllo è mascherata alla nostra percezione dall’intensità delle occasioni in cui non la eseguiamo. Immaginiamo una persona permalosa che legge facilmente come offensive le parole degli altri e se ne difende con una reazione aggressiva come risposta appresa. Una descrizione dello stile comportamentale potrebbe catalogare la persona come impulsiva e disregolata, incapace di tollerare la minima frustrazione. Tuttavia la descrizione, come dire estetica, può restare cieca rispetto alla proporzione opposta: quante sono le situazioni in cui si è sentita offesa e ha scelto di non reagire aggressivamente, vale a dire di controllare consciamente il proprio impulso all’azione? Se il rapporto tra stimolo e risposta automatizzata è 100/10 (cinque agiti aggressivi per cento esposizioni all’impulso) rispetto a una proporzione di 4/1, quale potrebbe essere definito come più autoregolato? Ma soprattutto se il nostro disregolato riesce a controllare il 90% degli impulsi, potremmo davvero definirlo impulsivo?

Tuttavia, se ci fermiamo a una prospettiva estetica, potremmo contare cinque risposte aggressive contro una e in modo distorto classificarlo impulsivo. Purtroppo sull’esplorazione di questo punto cieco esiste al momento poca ricerca. Nell’ambito della Psicologia Clinica l’eccessiva attenzione alla descrizione della psicopatologia può portare con sé una scarsa attenzione agli elementi che discriminano un funzionamento patologico da uno non patologico. In sintesi, troppo poco si sa di come funziona la salute mentale.

Non solo esiste la concreta possibilità che in qualsiasi singolo momento nel tempo noi possiamo avere il controllo sul nostro comportamento (vedi articolo precedente), ma che i singoli episodi in cui manifestiamo un comportamento impulsivo vengano considerati come prova di una deficitaria capacità di autocontrollo, piuttosto che un singolo fallimento di autoregolazione che può far da spola ad altrettanti e forse maggiori episodi di autoregolazione efficace.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

La coscienza è una delle caratteristiche che definisce l’essere umano, è la facoltà che conferisce la possibilità di vivere esperienze soggettive e riferite a sé. Si presume che la coscienza abbia un ruolo nel governo del nostro comportamento.

 

Tuttavia, per molti anni, teorici e scienziati hanno sostenuto il ruolo dominante di processi inconsci e automatici nella genesi del comportamento umano. L’assunto che i pensieri consci siano un mero epifenomeno senza alcuna forza causale è stato sostenuto aggressivamente durante l’era comportamentista e anche quella psicoanalitica e risorge ora in un’epoca neuroscientifica facendo leva sugli studi circa l’automaticità del cervello che sembrano minare il concetto di libero arbitrio e considerare il comportamento umano come determinato da componenti neurochimiche piuttosto che genetiche o legate alla storia degli apprendimenti evolutivi.

Dalla metà del secolo scorso il cognitivismo si è innalzato come quasi unico baluardo a difesa del potere della coscienza, assumendo a tratti contorni rigidi e rischiando l’esatto opposto: trascurare l’esistenza di una modalità non pienamente consapevole di elaborare le informazioni.

Insomma, quanto gli aspetti inconsapevoli e consapevoli influiscano sulle nostre scelte è un dibattito tuttora aperto e dopo un periodo in cui la coscienza era tornata in auge i moderni studi neuroscientifici rischiano di oscurarne nuovamente il ruolo. Storia, temperamento e neurochimica determinerebbero il comportamento dell’essere adulto.

L’estremo di questa linea di pensiero risiede nell’affermazione di Bargh (1999):

In definitiva non c’è alcun futuro per il ruolo dei processi consci nella descrizione della mente in termini di forza di volontà e libero arbitrio.

Ma esiste uno spazio della coscienza nel determinare il comportamento umano?

Un riferimento utile per rispondere a questa domanda è la recente rassegna di Baumeister e colleghi (2011) nella quale viene esplorata a fondo la letteratura scientifica rispetto al ruolo dei processi consci nel determinare il comportamento umano. Tuttavia prima di iniziare l’esplorazione è utile precisare alcune questioni centrali.

Due livelli di coscienza

In primo luogo occorre definire di quale coscienza stiamo parlando. La maggior parte degli scienziati riconosce l’esistenza di almeno due se non più livelli di coscienza. Il primo, più basico, corrisponde generalmente a ciò che gli esseri umani condividono con gli altri mammiferi, vale a dire la possibilità di avere esperienza e di provare sensazioni. Il secondo livello è assunto come proprio degli esseri umani e include la capacità di attuare processi decisionali consapevoli complessi.

In secondo luogo occorre liberare il campo da certi fraintendimenti. Per esempio, se ci asteniamo dagli ideologismi, possiamo riconoscere ormai l’esistenza di un rapporto di mutua influenza tra processi consci e inconsci, questo di per sé dovrebbe escludere dal dibattito tutti i modelli teorici che non spiegano né descrivono questa interazione. La causa prossimale del movimento dei muscoli sono i potenziali evocati a livello neurale, che sono processi inconsci. Tuttavia, il fatto che un processo inconscio causi un fenomeno X, questo non annulla la possibilità che X possa essere determinato da un processo conscio. La domanda più utile è se i processi consci giochino un qualsiasi ruolo causale necessario lungo la catena che porta all’azione. Per esempio, molte prospettive anti-coscienza si concentrano su questo punto ed eliminano la possibilità che i processi consci causino il comportamento in modo indiretto, per esempio attraverso attivazione o manipolazione di processi inconsci. È il braccio meccanico della gru che causa il sollevamento del peso o il braccio umano che lo manovra attraverso il telecomando? Sia la causazione diretta che quella indiretta andrebbero tenute in considerazione.

In terzo luogo è altrettanto fallace l’idea diametralmente opposta per cui se un evento cerebrale precede il pensiero conscio, allora il pensiero conscio non è causa del seguente comportamento (Roediger et al., 2008). È difficile considerare che esistano possibili cause che non siano a loro volta causate da altro (Baumeister et al., 2011). Ancora una volta, la questione utile è se il pensiero conscio è un anello vitale nella catena causale piuttosto che un semplice effetto collaterale. Sebbene gli impulsi appresi si generino a livello inconscio, l’esito comportamentale (1) dipende da ciò che accade quando gli impulsi sono contemplati a livello conscio oppure (2) ciò che accade nella coscienza è quasi totalmente ininfluente per la definizione del comportamento e al più agisce come regolatore a posteriori?

Assieme agli studi di Roy Baumeister e dei suoi collaboratori proviamo a fare il punto sul ruolo della coscienza nel definire il comportamento e quindi anche su ciò che è comunemente conosciuto con il nome, quasi mitologico, di forza di volontà o libero arbitrio.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


Il trauma tra le cause del disturbo ossessivo compulsivo in età evolutiva

Doc in età evolutiva e trauma: Vari studi hanno messo in luce la presenza di un legame tra esposizione a eventi traumatici in età evolutiva e il successivo sviluppo di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) (Huppert et al., 2005).

Di Egidio Marika, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Il DOC in età evolutiva

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è considerato un disturbo cronico e invalidante con alcune caratteristiche cliniche e psicopatologiche peculiari. Il DOC è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e/o compulsioni. Le ossessioni sono pensieri, impulsi, immagini ricorrenti e persistenti, vissuti come intrusivi e indesiderati. Esse causano, nella maggior parte degli individui, ansia o disagio marcati. Il soggetto tenta di ignorarle o sopprimerle o neutralizzarle con altri pensieri o azioni, ossia mettendo in atto le compulsioni.

Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (es. controllare, riordinare, lavarsi le mani) o azioni mentali (es. contare, pregare, ripetere alcune parole) che il soggetto attua in risposta a un’ossessione, secondo regole  ben definite e rigide. Le compulsioni hanno il fine di prevenire o ridurre l’ansia e il disagio, o di prevenire alcuni eventi temuti. Esse non sono collegate in modo realistico con l’evento che devono prevenire oppure sono eccessive rispetto ad esso (APA, 2013).

I sintomi del DOC in età evolutiva  sono simili a quelli riscontrati nel DOC adulto, e i due gruppi di pazienti sono trattati con terapie comportamentali e farmacologiche simili.

L’età di esordio del DOC in età evolutiva si colloca tra i 9 e gli 11 anni e presenta un’incidenza pari al 2-3% della popolazione infantile e adolescenziale (Kessler et al., 2005).

La manifestazione del disturbo può variare nel tempo e nelle circostanze. I sintomi possono accentuarsi in determinati periodi stressanti e modificarsi nella loro manifestazione.

È bene non confondere la sintomatologia ossessiva del bambino con normali comportamenti ripetitivi quali chiedere di ascoltare sempre la stessa fiaba o rivedere più e più volte lo stesso cartone animato. La maggior parte dei bambini infatti attraversa fasi di sviluppo caratterizzate dalla normale presenza di piccoli comportamenti compulsivi e rituali. Questi comportamenti si riscontrano comunemente in bimbi di età compresa tra due e otto anni, e sembrano essere funzionali al bisogno di controllare l’ambiente, gestire paure e ansie e sentirsi rassicurati. Al contrario, i rituali del bambino con Disturbo Ossessivo Compulsivo persistono nel tempo, sono invalidanti, provocano sofferenza, sentimenti di vergogna e portano all’isolamento.

I bambini e gli adolescenti con DOC in genere, hanno un livello di ansia elevato e parallelamente all’aggravarsi della sintomatologia ossessivo-compulsiva sviluppano vissuti depressivi di impotenza e inadeguatezza. Sono perfezionisti, eccessivamente attenti a tutti i dettagli e molto preoccupati di poter fare o dire qualcosa di sbagliato. Tendono a compiacere gli altri. Hanno pochi amici e tendono a evitare le situazioni sociali poiché, a causa del loro bisogno di controllo, faticano a stare con i coetanei, percepiti come imprevedibili e incontrollabili.

In età evolutiva le ossessioni più frequenti sono quelle che riguardano lo sporco e la contaminazione, le ossessioni dubitative (es. il dubbio che porte o finestre siano aperte, il timore di fare qualcosa di sconveniente davanti a tutti), di simmetria (es. il bisogno di verificare che certi oggetti siano disposti in una determinata posizione), di danno (es. timore di eventi catastrofici, della morte o della malattia propria o di una persona cara), di superstizione (es. necessità di rispettare determinate regole autodeterminate per evitare che si verifichi un evento sfortunato o temuto), aggressive (es. paura di poter danneggiare gli altri o se stessi). In adolescenza sono frequenti anche le ossessioni a contenuto religioso o sessuale.

A tali pensieri ossessivi fanno spesso seguito compulsioni di verifica (es. controllare la chiusure di porte, finestre, interruttori della luce, ecc. per evitare di provocare danni a sé e ad altri), di ripetizione (entrare e uscire dalla porta, leggere un testo più volte, cancellare e riscrivere parole finché non si sente di averlo fatto nel modo giusto), di ordine e simmetria relative alla disposizione degli oggetti.

Le possibili cause del DOC in età evolutiva

Come per tanti disturbi, non c’è ancora una letteratura sufficientemente robusta e condivisa sulle cause del DOC; per spiegarne le origini si fa di solito ricorso a teorie di tipo bio-psico-sociale.

Dal punto di vista strettamente psicologico, esistono evidenze del fatto che determinate esperienze e alcune caratteristiche educative contribuiscono alla genesi del disturbo.

A tal proposito, numerose evidenze empiriche e cliniche hanno dimostrato che il timore di colpa e l’elevato senso di responsabilità predicono la tendenza ad avere ossessioni e compulsioni e che la manipolazione della responsabilità influenza l’intensità e la frequenza dei comportamenti ossessivi sia nei pazienti che nei soggetti non clinici.

Anche una forte rigidità morale, di frequente frutto di una educazione particolarmente severa, con grande attenzione alle regole e con punizioni sproporzionate o difficilmente prevedibili, è un elemento generalmente ravvisabile nella storia delle persone che soffrono del DOC; si tratta di aspetti educativi che molto probabilmente favoriscono lo sviluppo di un senso di responsabilità eccessivo e una particolare sensibilità alla colpa.

In genere, i genitori di bambini e/o adolescenti con Disturbo Ossessivo Compulsivo sono soggetti poco capaci di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, appaiono poco spontanei e molto controllati. Hanno aspettative eccessive nei confronti dei figli e standard morali elevati. Danno molta importanza alla performance. Pongono al figlio richieste irrealistiche di maturità e responsabilità. Tendono a utilizzare punizioni quando il bambino non soddisfa le loro aspettative. Promuovono l’autonomia del figlio senza dare l’accoglimento e il sostegno affettivo necessario perché possa  affrontare liberamente nuove esperienze a livello relazionale, scolastico, sportivo e ludico.

A volte anche situazioni stressanti, come l’inizio della scuola, un trasferimento, una bocciatura o la separazione del genitori, possono essere gli eventi scatenanti del disturbo.

Il trauma tra le cause del DOC in età evolutiva

A tal proposito vari studi hanno messo in luce la presenza di un legame tra esposizione a eventi traumatici in età evolutiva e il successivo sviluppo di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (Huppert et al., 2005).

E’ noto che traumi in età evolutiva (fisici, emotivi o sessuali, neglect fisico ed emotivo) sono collegati a specifici cambiamenti neurobiologici e sono associati a una varietà di effetti avversi nel lungo termine, incluso un aumentato rischio di sviluppare patologie psichiatriche (Bierer et al., 2003; Gearon et al., 2003; Haller and Miles, 2004; Kendler et al., 2004; Langeland et al., 2004; Rayworth et al., 2004).

Lochner et al. (2002) hanno valutato l’associazione tra neglect emotivo, abuso fisico, sessuale ed emotivo da un lato, e sintomatologia ossessiva dall’altro, evidenziando una maggior presenza di sintomi ossessivi e compulsivi in adolescenti che avevano subito un trauma psicologico (in particolare neglect emotivo) rispetto a un gruppo di controllo non esposto a eventi traumatici.

Mathewes et al. (2008) confermano i risultati di Lochner et al. (2002) evidenziando una relazione diretta tra neglect, abuso emotivo e sviluppo di sintomatologia ossessivo-compulsiva.

L’abuso fisico, sessuale e altri eventi stressanti e traumatici sono associati a un maggior rischio di sviluppo di questo quadro sintomatologico. Nello specifico, il 6.7% delle vittime di abuso sessuale infantile sviluppa in età evolutiva i sintomi del DOC (APA, 2013).

Gothelf et al. (2004) hanno osservato che i bambini che avevano sviluppato un DOC si erano trovati a vivere un maggior numero di eventi traumatici nell’anno precedente l’esordio del disturbo.
In letteratura si parla di “DOC post traumatico” per definire il fenomeno per cui, a partire dall’esposizione all’evento traumatico, un bambino sviluppa i sintomi del DOC nel momento in cui inizia a tentare di fronteggiare ed evitare i pensieri e le immagini dolorose legate al trauma subito (Gershuny et al., 2002).

La presenza di eventi traumatici vissuti come incontrollabili nella vita del bambino può innescare, soprattutto in individui predisposti e con alta vulnerabilità genetica, una marcata tendenza a evitare il danno, a sopprimere i pensieri percepiti come pericolosi, a mettere in atto continui tentativi di controllo del proprio corpo, facilitando così l’insorgenza della sintomatologia.

La ricerca clinica ha mostrato l’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nel trattamento di pazienti con DOC (Hofmann et al., 2012). Tuttavia, in coloro che hanno vissuto esperienze traumatiche, oltre alla Terapia Cognitivo Comportamentale è necessario affiancare anche interventi specifici rivolti al trauma. In effetti, gli individui vittime di abuso sessuale durante l’infanzia presentano molto spesso sia PTSD sia DOC, un quadro sintomatologico molto complesso da trattare. Alcuni studi hanno infatti rilevato che i pazienti con DOC e PTSD in comorbilità non tendono a mostrare un miglioramento dei sintomi a seguito di Terapia Cognitivo Comportamentale (effettuata sia con che senza trattamento farmacologico congiunto), a differenza dei pazienti affetti solo da DOC. Lo studio condotto da Gershuny e collaboratori (2002), inoltre, ha mostrato che alcuni pazienti con PTSD e DOC presentavano un iniziale decremento dei sintomi del DOC dopo il protocollo di esposizione con prevenzione della risposta, ma che questo iniziale miglioramento veniva purtroppo seguito da una successiva intensificazione di flashback, incubi e pensieri intrusivi legati al trauma, con successivo incremento delle compulsioni.

Alla luce di tali osservazioni risulta necessario procedere a un accurato assessment del DOC in età evolutiva e alla progettazione, laddove necessario, di interventi che integrino il trattamento del DOC a quello specifico del trauma.

La pazza gioia (2016) di P. Virzì: ritrovare la felicità decostruendo le nostre euristiche – Recensione del film

Ne La Pazza Gioia personaggi agli antipodi, raccontano con sincerità un mondo ai più sconosciuto. Un mondo di donne dimenticate e punite a causa dei propri problemi psichici, con quei terapeuti ed assistenti sociali che quotidianamente combattono con passione e dignità per riuscire ad aiutarle

 

La Pazza Gioia, film del 2016, regia di Paolo Virzì. Protagoniste, un eccezionale Valeria Bruni Tedeschi che interpreta Beatrice Morandini Valdirana, una logorroica squilibrata contessa a suo dire in intimità con i personaggi più influenti e potenti del mondo, in realtà fatta internare dall’ex marito in una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali dove conosce Donatella Morelli, Micaela Ramazzotti, giovane donna, fragile, silenziosa che custodisce un doloroso segreto.

Dal nulla, anche se caratterialmente distanti, le due diverranno incredibilmente amiche, tanto da dar vita ad una fuga dalla comunità e che le condurrà alla disperata ricerca di quella felicità da tempo sfuggita. Personaggi agli antipodi, quelli de La Pazza Gioia, che raccontano con sincerità un mondo ai più sconosciuto. Un mondo di donne dimenticate e punite a causa dei propri problemi psichici, con quei terapeuti ed assistenti sociali che quotidianamente combattono con passione e dignità per riuscire ad aiutarle, a ‘recuperarle’, letteralmente, in modo da poter poi tornare in quella stessa società che le aveva rigettate.

Non volendo trascurare la tematica sociale cosi ben descritta dal regista in una scena del film La Pazza Gioia, Beatrice alla domanda “Ma dove si trova la felicità?” risponde cosi: “Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili

La Pazza Gioia: cos’è la felicità? Dove si trova davvero? Cosa ci rende felici?

La felicità è un sentimento spontaneo, che arriva inaspettato, difficile da definire e quindi anche da cercare volontariamente. Secondo le ricerche dello psicologo Daniel Kahneman è vero che abbiamo serie difficoltà nel pensare cosa ci farà felici in futuro, ma è altrettanto vero che percepiamo con grande facilità il piacere, la soddisfazione e il benessere nel momento in cui li stiamo vivendo.

Siamo in grado di sapere ora quello che ci farà felici in futuro? Se non riusciamo ad avere ben chiaro quello che potrebbe farci felici, difficilmente potremo costruire una vita soddisfacente. Che poi è quello che spesso accade. Ogni giorno ognuno di noi prende un gran numero di decisioni, che ci mettono di fronte a situazioni più o meno piacevoli e nel giudicare e scegliere, siamo raramente razionali e ci lasciamo influenzare dal contesto sociale e culturale. Ricorriamo spesso a meccanismi cognitivi, chiamati euristiche, ragionamenti comodi, automatici e poco dispendiosi, ma che spesso ci portano fuori strada.

Le euristiche ingannevoli e il rischio di allontanarci dalla felicità

Seguendo euristiche ingannevoli, infatti, potremmo convincerci che un certo cambiamento possa avere conseguenze determinanti per la nostra vita, e questa convinzione può diventare motivante portandoci con una valutazione senza fondamento, ad una vera e propria illusione cognitiva.

Due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman (1974) hanno studiato le euristiche concludendo che esse possiedono le seguenti caratteristiche: sono ruotinarie, molto efficienti, poco consapevoli, automatiche e tendono alla semplificazione. Gli autori ne hanno individuate quattro:

  1. Euristica della disponibilità. Secondo la Tversky e Kanheman(1974) la utilizziamo per giudicare la probabilità di un evento. Quando ci troviamo in queste occasioni noi cerchiamo di ricordare esempi. Quindi giudichiamo la probabilità di un evento sulla base della facilità di immaginare esempi, ovvero sulla disponibilità mentale che abbiamo di essi. Perciò se gli esempi ci vengono in mente con facilità concludiamo che la probabilità di quel tipo di eventi è elevata. Da ciò si capisce che questo è un modo per scegliere velocemente.
  2. Euristica della simulazione: ragionamento controfattuale. Consiste nell’immaginare come si sarebbero potuti verificare risultati diversi da quelli che si sono effettivamente verificati. Le euristiche della simulazione accentuano le reazioni emotive positive e negative: se immaginiamo ipotetici svolgimenti diversi più positivi si avrà un peggioramento dello stato emotivo, invece se immaginiamo ipotetici svolgimenti diversi più negativi noteremo un miglioramento dello stato emotivo.
  3. Euristica dell’ancoraggio e dell’aggiustamento. L’opinione espressa da chi parla per primo esercita una notevole influenza e i giudizi successivi non si spostano mai più di tanto da esso. Gli altri interlocutori utilizzano la valutazione del primo come punto di ancoraggio e introducono solo degli aggiustamenti rispetto ad esso. Da tutto ciò si evince che se il primo non è un esperto si può arrivare a decisioni errate.
  4. Euristica della rappresentatività. Le euristiche della rappresentatività sono una scorciatoia di pensiero che consente di ridurre la soluzione di un problema inferenziale a un’operazione di giudizio particolarmente semplice. Le euristiche della rappresentatività inducono a valutare la probabilità di un’ipotesi, in base ad un giudizio di similarità ovvero consistono nella classificazione di un caso sulla base della somiglianza con il caso tipico.

Il pensiero quotidiano, quindi tende ad essere economico, efficiente e poco critico. Costruisce ipotesi e tende a confermarle finché è possibile automatizzarle. Il pensiero critico è disconfermazionalista, faticoso, anti-economico portando le persone ad avere un atteggiamento critico nei confronti dei propri pensieri che possono trasformarsi in vere e proprie distorsioni cognitive delle quali si può diventar prigionieri.

Il personaggio di Beatrice Valdirana, nel film La Pazza Gioia, afferma anche “chi ha mai trovato la felicità in un tramezzino?” ecco, decostruendo certe euristiche ingannevoli, forse sarà possibile anche trovare la felicità, lì, in un semplice buonissimo tramezzino.

 

GUARDA IL TRAILER DEL FILM ‘LA PAZZA GIOIA’:

Il sexting e le sue conseguenze nella coppia

Le ricerche degli ultimi anni hanno scoperto che 8 persone su 10 comunicano tramite sexting. Un gruppo di psicologi sta esaminando le conseguenze positive e negative sull’utilizzo del cellulare impiegato per inviare immagini e messaggi sessualmente espliciti.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Computer in Human Behaviour, ha scoperto che i sexting inviati nei rapporti occasionali tendono ad avere risultati negativi, rispetto ad altre situazioni.

Michelle Drouin, autrice dello studio e collaboratrice presso l’Indiana University-Purdue, sottolinea come gran parte della ricerca si sia dedicata ai modi in cui la tecnologia viene direttamente coinvolta nelle relazioni sentimentali, e il sesso è emerso rapidamente come un tema degno di essere studiato. Oggi, abbiamo a disposizione studi scientifici sul sexting, ma mancano ancora informazioni riguardanti i suoi vantaggi all’interno dei rapporti interpersonali.

Dallo studio emerge che circa il 58% degli studenti universitari invia sex messagges e circa il 62% ha li ricevuti. Gli uomini hanno ammesso di inviare sex messagges prevalentemente a partner occasionali, mentre le donne hanno ammesso di condividere questa esperienza con il loro partner.

Sexting: tra piacere e paura

Sul sexting, la Dottoressa Drouin sostiene che la gente invia messaggi o video sessualmente espliciti al partner con la convinzione che tutto ciò sia divertente o piacevole per chi li riceve. Tuttavia, molte persone si pentono per paura delle conseguenze che potrebbero avere dopo aver inviato immagini sessualmente compromettenti, soprattutto se inviate a partner occasionali o appena conosciuti. La cosa importante per lo studio, è che chi lo fa ammette di avere meno benefici, sia a livello emotivo che sessuale, e più “danni” rispetto a chi invia sexting al proprio partner.

La maggior parte della ricerca sul sexting si concentra sugli adolescenti e sui giovani adulti, ha osservato la Dottoressa Drouin. Quello che non è chiaro è come le coppie percepiscono questi messaggi sessualmente espliciti e come li utilizzano nella coppia.

La comunicazione sessuale è solo una delle tante sfaccettature della vita che è stata colpita dalla tecnologia. Purtroppo, quest’ultima, cambia molto velocemente e studiare i suoi effetti risulta essere problematico. Ciò significa che il campo di studio è sempre vastissimo, e le domande sono sempre molte.

 

L’immagine corporea nell’obesità e l’insoddisfazione per il proprio corpo

Persone con problematiche di obesità riporterebbero grandi livelli di insoddisfazione riguardo la propria immagine corporea (Sarwer, Thompson, Cash, 2005). Quest’ultima si genererebbe a partire dallo specifico contesto in cui questi soggetti sono situati. Oltre alle ovvie complicanze fisiche, anche il contesto sociale assume un ruolo fondamentale. 

Alessandro Zucchetti, Giorgia Cipriano

 

Immagine corporea e schema corporeo: due dimensioni intrecciate

Il concetto di immagine corporea è piuttosto complesso e richiede delle precisazioni preliminari. Le prime definizioni risalgono a Paul Ferdinand Shilder, psicologo austriaco che nel 1935 definisce l’immagine corporea come “l’immagine del corpo che formiamo nella nostra mente, il modo in cui il corpo appare a noi stessi”.

Un altro importante studioso in questo campo, Slade (1988), la definisce come
l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo”.

In questo modo l’immagine corporea diventa un concetto dimensionalmente vario rispetto alla prima definizione di Shilder, in cui componenti percettive, attitudinali, affettive e comportamentali si intrecciano tra di loro.

Più recentemente, Cash (2002) parla dell’immagine corporea come un “insieme di percezioni e atteggiamenti di ciascuno collegati al proprio corpo, tra cui pensieri, convinzioni, sentimenti e comportamenti”. L’autore, seguendo una prospettiva cognitivista, distingue tra body image evalutation e body image investiment (Cash, 2002). Nel primo caso si parla della soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto, che deriverebbe dalla discrepanza o meno tra percezione del proprio corpo e ideali estetici riguardo esso. Nel secondo caso invece si fa riferimento all’importanza psicologica che gli individui danno al proprio aspetto fisico.

Alla luce di ciò, è importante però sottolineare come il concetto di body image venga, in questo modo, considerato in maniera prevalentemente riflessiva, inerente a ciò che il soggetto pensa riguardo a tale concetto. Come si genera dunque tale insieme di immagini? Qual è l’origine affinchè la corporeità possa venire pensata? E’ necessario a questo punto distinguere tra body image e body schema. All’inizio del XX secolo Bonnier (1905) fa di quest’ultimo concetto un rimando alla percezione immediata, spaziale, orientativa del nostro corpo. In tale prospettiva si muoveranno poi gli studi sulla fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty (1945), il quale, accantonando da un lato l’idea del corpo oggetto (korper) e dall’altro il soggettivismo tale per cui la rappresentazione del proprio corpo nascerebbe da una mente osservabile in maniera a sé stante, giunge alla definizione chiasmatica di chair, corpo vissuto, l’essere-sempre-mio del corpo, in cui propriocezione sensoriale e rappresentazione psicologica si confondono in maniera inestricabile.

Secondo Gallagher (2005) body schema origina proprio da quella dimensione propriocettiva, tale per cui l’immagine corporea (body image) sarebbe da pensare come a una appropriazione, un coglimento cognitivo di una dimensione che sarebbe già in atto, già presente. Questa differenza emerge in maniera evidente in particolare in alcune patologie. Secondo l’autore:

Penso che l’immagine corporea coinvolga un livello personale di esperienza del corpo. Normalmente esperisco il corpo come il mio. Esistono però patologie in cui ciò non accade [come] in alcuni casi di anosognosia […]. Il senso di proprietà, o il fallimento di questo senso in una particolare parte del corpo può essere basato su un mancato feedback sensoriale” (Gallagher, 2005. Traduzione mia)
In questa direzione, le rappresentazioni mentali che possiamo avere riguardo al nostro corpo sono generate da un’esperienza incarnata e costantemente agita.

Immagine corporea e obesità

Fatte certe premesse il concetto di body image viene inquadrato come un fatto non esclusivamente psicologico ma in continuità con l’esperienza sensoriale corporea, situazionale, emotiva, in cui i soggetti si trovano a vivere.

Persone con problematiche di obesità riporterebbero grandi livelli di insoddisfazione riguardo la propria immagine corporea (Sarwer, Thompson, Cash, 2005). Quest’ultima si genererebbe a partire dallo specifico contesto in cui questi soggetti sono situati. Oltre alle ovvie complicanze fisiche, anche il contesto sociale assume un ruolo fondamentale. In una società in cui è posta l’enfasi sulla magrezza estrema, su standard di vita lontani dalla quotidianità e dalle reali possibilità di esistenza, vengono ad essere interiorizzati modelli che finiscono quasi con il demonizzare tutto ciò che vi si discosta.

Secondo il Modello Tripartito di Influenza (Thompson et al., 1999; Kerry, van den Berg, Thompson, 2004; in Nerini, Stefanile & Mercurio, 2009) esisterebbero tre fonti primarie nello sviluppo delle problematiche legate all’immagine del proprio corpo: il gruppo dei pari, la famiglia e i mass media. I modelli sociali, lungi dall’essere relegati soltanto all’ambito della comunicazione mediatica (sebbene in questo campo possano trovare la loro sorgente principale) si intrecciano in numerosi altri ambienti sociali, finendo ad influenzare possibilità e aspettative.

Si rende così il terreno fertile a situazioni di diniego, derisione, rifiuto nei riguardi di ciò che il contesto culturale non considera adeguato: nel caso dell’obesità, numerosi studi legano esperienze di discriminazione legate al peso durante l’infanzia ad un aumento dell’insoddisfazione dell’immagine corporea nell’adulto (Jackson, Grilo, Masheb, 2000). Coerentemente con la distinzione tra body image/schema, è sensato ipotizzare che il soggetto viva uno scarto, generalmente piuttosto ampio, tra le richieste di accettabilità da parte del contesto sociale (dalla famiglia alla cultura più in generale) e le condizioni pre-noetiche (Gallagher, 2005) che il soggetto, a causa principalmente del peso ma non solo, si trova a esperire.

Sebbene la distribuzione di obesità tra uomini e donne sia piuttosto simile, le donne sarebbero molto più soggette degli uomini a percepire insoddisfazione nell’ immagine corporea rispetto agli uomini. Le donne con problematiche di obesità riporterebbero da moderato a estremo imbarazzo in situazioni sociali, dal lavoro ai contesti meno formali (Sarwer, Thompson, Cash, 2005).
In questi pazienti è evidente inoltre come un calo del peso si accompagni, solitamente, ad un miglioramento dell’ immagine corporea, e come d’altro canto la situazione opposta ne aumenti l’insoddisfazione (Sarwer, Grossbart, Didie, 2001). Tuttavia, questa situazione non è stata sempre confermata da altri studi (Sarwer, Thompson, Cash, 2005).

E’ interessante constatare che alcuni studi non hanno trovato particolari correlazioni tra l’insoddisfazione dell’  immagine corporea e l’indice di massa corporea (BMI) in donne obese e sovrappeso. D’altro canto non tutte le persone obese sembrano nutrire elevata insoddisfazione nei confronti della propria immagine corporea, dato quello che emerge ad esempio nel confronto tra donne statunitensi caucasiche e afroamericane dove queste ultime risulterebbero possedere immagini corporee meno negative delle prime (Celio, Zabinski, Wifley, 2002).

In un altro studio (Cash, Counts, Huffine, 1990) è emerso come non sempre la perdita di peso si correli a un miglioramento dell’ immagine corporea. Gli autori hanno definito questo fenomeno phantom fat, che sottolineerebbe la necessità di valutare insoddisfazioni riguardo la propria immagine corporea di questi pazienti in maniera più approfondita.

In queste persone il peso risulta possedere un ruolo centrale nel modellamento dell’ immagine corporea, ma non per questo isolabile da altri fattori esperienziali e contestuali.

Variazioni socioculturali

Stice, nel 2002, dimostrò come le variabili socioculturali influenzino la percezione della propria immagine corporea. Nel 2004, con il Modello Tripartito di Influenza, Thompson e colleghi individuarono nei pari, nei genitori e nei mass media la causa dell’influenza che rinforzerebbe l’attuale standard irrealistico di bellezza collegato, alla straordinaria enfasi alla magrezza, influenzando così la percezione distorta della propria immagine corporea.

Sono state effettutate numerose ricerche che valutano le differenze socio culturali sull’ obesità e la percezione dell’ immagine corporea; in particolare lo studio di Lopes de Sousa (2008) ha evidenziato come età, genere, livello socioeconomico e depressione influiscano sulla percezione distorta dell’ immagine corporea negli adolescenti, mentre il livello di scolarità, l’ attività o l’inattività fisica e il successo scolastico non incidano. In un interessante studio di Parker et al. (1995) è risultato come adolescenti femmine americane bianche e afroamericane differiscano in maniera antitetica rispetto alla percezione dell’ immagine corporea: in tal senso emerge come questi ultimi nonostante abbiano un peso nella norma o siano in sovrappeso percepiscano se stesse come più magre rispetto a quello che in realtà sarebbero. D’altro canto adolescenti bianche sembrano percepirsi con un peso maggiore. Se ne può dedurre che l’appartenenza a culture in parte differenti contribuisca a generare differenti percezioni nei confronti della propria immagine corporea. In uno studio più recente (Puoane, Tsolekile, Steyn, 2010) emerge come un terzo del campione di donne afroamericane intervistate (60 soggetti) abbia maggiori preferenze nei confronti di una corporeità più robusta motivata principalmente da un maggiore bisogno di forza fisica e associata ad una maggiore rispettabilità sociale rispetto ad una magrezza eccessiva. D’altro canto l’eccessiva magrezza veniva collegata dai soggetti a problematiche di salute come l’HIV o l’AIDS.

L’argomento resta in ogni caso complesso poiché non tutti gli studi sembrano andare nella stessa direzione (Flynn, Fitzghibbon, 1998) e sono necessari approfondimenti e studi più aggiornati.

Sviluppi futuri

Sosteniamo che il concetto di immagine corporea risulti essere un costrutto di grande valore nell’approfondimento degli aspetti psicologici annessi all’ obesità, che tuttavia richiede di ulteriori studi in direzione soprattutto di una chiarificazione concettuale di un tema così complesso.

 

Umorismo e psicoterapia: la funzione e i benefici dell’umorismo

L’ umorismo in psicoterapia è un fenomeno complesso in quanto coinvolge diversi aspetti: una risposta cognitiva, data dalla comprensione e dall’apprezzamento dell’intento umoristico, una reazione psicologica (la risata) e una risposta emotiva data dal vissuto di divertimento e allegria (Sultanoff, 2003). Affinchè l’utilizzo dello humour abbia esiti positivi, i terapeuti dovrebbero essere consapevoli delle diverse funzioni che svolge e individuare il momento più opportuno per ricorrervi.

Marika Di Egidio, Federica Di Francesco, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Cos’è l’ umorismo e qual è la sua funzione?

Etimologicamente, la parola “umorismo” deriva dal latino ‘humorert-em’ o ‘umorert-rem’ (umidità, liquido), che si avvicina anche al greco ‘yg-ròs’ (bagnato, umido). L’origine del termine sembrerebbe dunque rimandare alla medicina ippocratica che riteneva la personalità e la salute legata ai fluidi corporei, detti “umori”. L’umorismo, peculiarità dell’essere umano, rappresenta la capacità intelligente e sottile di individuare e ritrarre gli aspetti comici della realtà.

L’aspetto della condivisione è fondamentale quando si parla di comicità, infatti si tende a ridere perlopiù insieme agli altri – amici, parenti, familiari, o colleghi che siano –  di eventi e situazioni che spesso non hanno una connotazione umoristica in sé, ma la assumono per le circostanze stesse di condivisione in cui si verificano. Dunque tali eventi e situazioni diventano divertenti per i membri del gruppo in questione, diminuendo le distanze.

Ma cosa è considerato divertente e qual è la funzione dell’umorismo? A partire dall’inizio del scorso secolo, questi interrogativi hanno iniziato a suscitare interesse all’interno della comunità scientifica. Le teorie esplicative al riguardo sono state numerose. Tra le principali è possibile citare la teoria del Sollievo, che attribuisce all’umorismo una funzione liberatoria. Questa teoria, descritta per la prima volta da Freud, afferma che l’umorismo funziona quando uno scherzo o un’osservazione spiritosa serve ad allentare le nostre tensioni sessuali e aggressive represse. L’umorismo fornisce uno sbocco socialmente accettabile per quelle fondamentali pulsioni biologiche che sono presenti in tutti noi.

Un’altra teoria degna di nota è quella della Superiorità, essa sostiene che le situazioni e le osservazioni diventano umoristiche per noi perché finiamo col sentirci migliori quando qualche umiliazione o sfortuna capita ad altri. Questo è il motivo per cui ci sembra divertente vedere una persona che si da arie, scivolare e cadere. Noi non siamo coinvolti in modo negativo perché siamo in una posizione di superiorità. Naturalmente non sarebbe divertente se a cadere fosse un fragile signore anziano.

La teoria dell’Assurdo afferma invece che l’umorismo si verifica quando ci sono conseguenze impreviste in circostanze che sono familiari. Una persona può all’improvviso apparire o comportarsi in un modo inaspettato o diverso dalla norma. Per esempio, se un’automobile va in pezzi all’improvviso la cosa risulta buffa ai bimbi piccoli perché in contrasto con le loro aspettative (Franzini, 2011)

Altri modelli teorici hanno identificato l’umorismo come una strategia di coping o un meccanismo di difesa, intesi come la propensione a mantenere una prospettiva umoristica in circostanze avverse (Lefcourt e Martin, 1986); un’abilità cognitiva, volta a generare, comprendere, riprodurre e ricordare una situazione umoristica (Feingold e Mazzella, 1993); un pattern comportamentale abituale, quale tendenza a ridere frequentemente, a raccontare barzellette, a divertire gli altri e a ridere per gli scherzi altrui (Martin e Lefcourt, 1984); un atteggiamento positivo o divertito nei riguardi dell’umorismo o del mondo (Svebak, 1996); una risposta estetica, quale apprezzamento dell’umorismo e di particolari tipi di materiale umoristico (Ruch e Hehl, 1998); un tratto temperamentale connesso alle emozioni di cui l’allegria abituale costituisce una dimostrazione (Ruch e Kohler, 1998).

Spesso identificato come un costrutto benevolo legato a emozioni e vissuti piacevoli, nell’umorismo è in realtà possibile riscontrare anche una nota di sarcasmo e di ridicolo che attribuiscono a esso un’accezione negativa.

Gli stili umoristici e lo strumento di valutazione dell’umorismo

A tal proposito Martin et al. (2003) distinguono quattro stili umoristici: affiliativo, autorinforzativo, autodenigratorio e aggressivo.
Lo stile affiliativo viene utilizzato per migliorare e facilitare le relazioni con gli altri attraverso l’utilizzo di commenti divertenti, battute spiritose, barzellette e scherzi. Questa dimensione si identifica nel ridere con e non nel ridere di qualcuno.
L’umorismo autorinforzativo è legato alla tendenza ad avere un atteggiamento benevolo verso la vita, mettendo il soggetto nella condizione di riuscire a ridere di se stesso e delle circostanze, cogliendo gli aspetti divertenti della realtà e mantenendo una prospettiva umoristica di fronte a eventi avversi.
Lo stile umoristico autodenigratorio si riferisce all’utilizzo di un umorismo potenzialmente dannoso verso se stessi al fine di ottenere l’approvazione altrui attraverso commenti volti a mettersi in ridicolo per compiacere l’altro.
L’umorismo aggressivo può risultare particolarmente dannoso per le relazioni interpersonali, in quanto legato alla derisione e alla manipolazione dell’altro. L’intento di fondo è quello di danneggiare e sminuire l’altro.

Questi quattro stili umoristici possono essere facilmente valutati mediante lo Humor Styles Questionnaire (HSQ) messo a punto da Martin e colleghi (2003), realizzato sulla base di studi teorici e clinici volti ad indagare la relazione tra l’ umorismo e il benessere. Lo HSQ è stato tradotto e validato in contesti socio-culturali diversi, confermando complessivamente le buone qualità psicometriche e i fattori originari (Chen e Martin, 2007).

L’ umorismo in psicoterapia

I benefici dell’ umorismo sulla salute fisica e mentale sono stati ampiamente confermati, tuttavia vi è una carenza di interesse per lo studio dell’ umorismo in psicoterapia il cui utilizzo è, a tutt’oggi, un argomento controverso. Si ipotizza che lo studio in tale ambito sia rimasto inesplorato perchè i terapeuti sono poco inclini a inserire volontariamente lo humour durante i loro colloqui presupponendo che la psicoterapia sia “questione seria” e non possa includere contenuti frivoli, almeno in modo volontario.

Di contro, recenti ricerche hanno dimostrato l’efficacia dell’ umorismo in psicoterapia e la sua utilità quale elemento facilitatore nella costruzione dell’alleanza terapeutica e in alcune aree specifiche come la valutazione di personalità. Inoltre, diversi studi hanno rilevato come l’ umorismo possa essere inserito nel trattamento di un ampio numero di disturbi, quali, ad esempio, l’ansia, le fobie specifiche, il disturbo ossessivo-compulsivo e la depressione.

L’ umorismo in psicoterapia è un fenomeno complesso in quanto coinvolge diversi aspetti: una risposta cognitiva, data dalla comprensione e dall’apprezzamento dell’intento umoristico, una reazione psicologica (la risata) e una risposta emotiva data dal vissuto di divertimento e allegria (Sultanoff, 2003).
Affinchè l’utilizzo dello humour abbia esiti positivi, i terapeuti dovrebbero essere consapevoli delle diverse funzioni che svolge e individuare il momento più opportuno per ricorrervi.

Louis Franzini (2001) ha individuato diverse funzioni che può assolvere l’ umorismo  in psicoterapia, suggerendo inoltre di inserire lo humour fra le componenti informali del curriculum di ogni psicologo e psicoterapeuta.

In fase di assessment è opportuno che i terapeuti prestino attenzione a ciò che le persone trovano divertente: riuscendo a cogliere quale tipo di umorismo il paziente apprezza sarà possibile farsi un’idea della persona che si ha davanti ed evitare di incorrere in battute infelici. Inoltre, richiamare l’attenzione sull’atteggiamento umoristico (ad esempio, chiedendo perchè ride quando si parla di certi argomenti) rappresenta un metodo per aiutare il paziente ad aumentare la consapevolezza di sè .

L’ umorismo in psicoterapia può essere uno strumento di grande aiuto anche nella costruzione dell’alleanza terapeutica, esso ha un compito importante nella costituzione di una buona empatia, vista la sua funzione di facilitatore sociale che porta ad una maggiore soddisfazione del rapporto, a una maggiore vicinanza e a una risoluzione efficace dei conflitti (Cann et al., 2008). Va sottolineato che la direzione della relazione fra umorismo e alleanza terapeutica è bidirezionale: una maggiore empatia porta ad una maggiore alleanza terapeutica ed un’accresciuta alleanza terapeutica favorisce l’utilizzo dell’umorismo. Inoltre, l’umorismo può essere una strategia utile per favorire una comprensione empatica da parte del terapeuta nei riguardi del paziente (Meyer, 2007).

In fase di intervento l’ umorismo in psicoterapia può facilitare l’apprendimento di prospettive alternative e la riduzione dello stress. L’ umorismo è infatti un’efficace strategia di coping che aiuta a diminuire l’impatto emotivo causato dall’aver vissuto eventi stressanti. Il terapeuta può incoraggiare il paziente a modificare il proprio punto di vista portandolo a “vedere il lato divertente” delle cose, in modo da aiutarlo a regolare le emozioni negative trasformandole in positive.

Va ricordato che l’ umorismo di per sè non è terapeutico: è necessario che venga usato in modo terapeutico. I risultati migliori si ottengono quando i clinici trasmettono empatia e quando gli interventi umoristici vengono impiegati in maniera genuina, comunicando attenzione e sincerità per le preoccupazioni del paziente. D’ altra parte, l’umorismo può non sortire effetti terapeutici, ma arrivare a essere addirittura pericoloso, se non impiegato con criterio.

Uno dei rischi più frequenti nell’utilizzo dell’ umorismo in psicoterapia è che i pazienti non si sentano presi sul serio. Un altro rischio si verifica quando il terapeuta tocca temi importanti in modo divertente, conducendo il paziente all’errata interpretazione che certi argomenti non debbano essere discussi seriamente. Inoltre, secondo Robert Pierce (1994), il terapeuta può mettere in atto tre tipi di umorismo negativo, il cui utilizzo andrebbe, ovviamente, evitato.
1. Commenti umoristici non pertinenti per lo scopo terapeutico. In questo caso il terapeuta cambia totalmente argomento e ne introduce uno non attinente.
2. Uso dell’umorismo in modo difensivo. Viene utilizzato per spostare l’attenzione da temi particolarmente toccanti o personali, sia per se stesso che per il paziente, che il terapeuta non è in grado di affrontare, su altri che ritiene più sicuri.
3. Umorismo utilizzato dal terapeuta per attaccare il paziente. Rientrano in questa categoria i commenti usati per sminuire, prendersi gioco e ridere del paziente. Questo tipo di umorismo può essere vincolato da sentimenti di frustrazione e rabbia, sia consapevole sia inconsapevole.

In conclusione è possibile affermare che l’ umorismo rappresenta un valido aiuto per il terapeuta, uno strumento che, se usato con consapevolezza, consente al clinico di intensificare gli effetti positivi della terapia. Potrebbe essere utile a tal proposito, stimolare nei terapeuti un’attenta riflessione sul tema e esortarli a impiegare l’ umorismo all’interno della relazione terapeutica.

 

Lo stadio operatorio concreto: imparare giocando

Fino ad ora abbiamo esplorato due degli stadi della teoria Piagetiana. Siamo partiti dallo stadio senso motorio che copre l’arco di vita da 0 a 2 anni, passando poi per lo stadio pre-operatorio che va dai 2 ai 6 anni e giungiamo insieme al nostro bambino nella scuola primaria. Siamo nel pieno dello stadio operatorio concreto che va dai 6 ai 12 anni. Tante le novità e tante le abilità acquisite dal bambino in questa fase soprattutto attraverso il gioco. Una fase piena di creatività, di energia di voglia di fare e soprattutto di imparare.

 

La scuola è il momento dell’impegno costante nello studio e delle prime importanti responsabilità per i bambini. Le prime ansie iniziano a manifestarsi e pian piano iniziano le prime domande “ ma sono bravo tanto quanto?”, “ se la maestra mi mette un brutto voto ti arrabbi ?” . I bambini maturano e anche tra di loro inizia ad instaurarsi una relazione diversa.

Lo stadio operatorio concreto: cosa accade nello sviluppo cognitivo del bambino?

Vediamo nello specifico cosa accade nello stadio operatorio concreto e se… si può imparare giocando!
Piaget scrive : “Un’operazione è ciò che trasforma uno stato A in uno stato B, lasciando nel corso della trasformazione almeno una proprietà invariante, e con possibilità di ritornare da B ad A, annullando la trasformazione. Ora si riscontra – e questa volta la diagnosi è facile – che ai livelli preoperatorio la trasformazione è concepita come una modificazione simultanea di tutti i dati, senza nessuna conservazione, il che rende del tutto impossibile il ritorno al punto di partenza senza nuova azione che trasformi nuovamente il tutto (ricreando ciò che è stato distrutto, etc.)…” (Piaget, Inhekder, 1967, pp.137-138).

Nello stadio operatorio concreto, il bambino ammette ora l’esistenza della reversibilità, cioè concepisce l’azione di trasformazione come reversibile.
In questo momento le operazioni mentali si concretizzano e c’e un incontro tra i vari punti di vista. Fondamentale infatti è che le operazioni svolte dai bambini siano concrete cioè visibili a loro. Per esempio compiti di seriazione o classificazioni di oggetti secondo caratteristica vengono svolti con oggetti come gessetti, pennarelli, animali.

Oppure inoltrandoci nel contesto scolastico e nelle prime operazioni logico matematiche di addizione e sottrazione i bambini utilizzano oggetti concreti per poi passare a disegnarli essi stessi ma pur sempre avendo visivamente gli oggetti delle operazioni da compiere.
Nello stadio operatorio concreto, spiega Piaget concetti quali la reversibilità e la conservazione sono tra le acquisizioni logiche più importanti.

Per reversibilità si intende la capacità del bambino di svolgere mentalmente un’ azione inversa, cioè il bambino concepisce che in azione può tornare allo stadio iniziale, mentre per conservazione, intende la capacità del bambino di comprendere ad esempio che due contenitori con uguale capacità ma diversa forma contengano lo stessa quantità di liquido. Questo è uno degli esempi più celebri e più esplicativi di Piaget per descrivere il concetto di conservazione.

L’importanza del gioco nello stadio operatorio concreto

Gli esempi possono esseri diversi e i giochi da poter fare a casa anche. Giocare a classificare gli animali della foresta e quelli domestici, spostare liquidi da un contenitore ad un altro, a rischio di allagare la cucina di quest’ ultimo. Ci si può improvvisare pasticceri e giocare a dolcetti di più e di meno.
Si può giocare con puzzle, memory, giocare con le ombre, riporre oggetti dello stesso colore e della stessa forma.
Addizionare, sottrarre, saltare e contare. Importante è assecondare il momento del bambino e ciò che desidera senza forzarlo nell’imporgli concetti a lui non del tutto chiari.

Oltre a ciò nello stadio operatorio concreto iniziano anche i primi incontri tra bambini a casa, al parco. Come cambia il loro modo di giocare? A scuola si può imparare giocando?
I bambini di oltre 6 anni sono soliti giocare con giochi regolamentati. Questi giochi presuppongono una capacità di socializzazione, ovvero un certo grado di adattamento alla realtà e di tolleranza alle frustrazioni (in questi giochi infatti si deve accettare la sconfitta e non infierire sull’avversario in caso di vittoria). Le regole possono essere tradizionali (quelle tramandate) o frutto di accordi momentanei: l’importanza del loro rispetto è fondamentale per la riuscita di questi giochi.

I giochi di squadra, quali nascondino, ruba bandiera, etc., consentono ai ragazzi di rapportarsi gli uni con gli altri e di stringere amicizie. Nella società moderna, che tende ad organizzare i vari momenti della giornata ed a sacrificare ogni cosa nella competizione per ottenere il massimo dai ragazzi, occorre riconoscere il valore del gioco e assegnare allo stesso gli spazi che necessitano, accanto a quelli dedicati all’istruzione.

Altri tipi di attività ludiche che possono essere presenti sin dai 6 anni e che quindi caratterizzano lo stadio operatorio concreto sono gli hobby. Si tratta di attività intraprese per puro piacere ma che tendono alla realizzazione consapevole di uno scopo. Queste attività possono perseguire la realizzazione dello scopo anche tutta la vita, se le gratificazioni che forniscono crescono col passare del tempo (ad es. gli scacchi o la raccolta dei francobolli). Gli hobby si pongono quindi in una via di mezzo fra il gioco e il lavoro.

Verso i sette – otto anni il bambino acquisisce la facoltà di assumere i punti di vista altrui, di mettersi in qualche modo nei panni degli altri, di svolgere giochi con regole vincolati al rispetto delle stesse.

Quando si trova da solo senza compagni, ad esempio a casa non avendo sorelle o fratelli, mette in atto strategie di gioco diverse per sopperire alla solitudine, alla paura, alla noia. Una di queste strategie è il ricorso all’immaginazione per inventarsi un compagno di giochi, o un aiutante magico. Alcuni di loro investono questa figura di qualità che ad essi mancano, altri lo mettono al loro pari o come subordinati. Via via che il bambino acquisisce fiducia in se stesso, la capacità di star solo senza aver paura e con la crescita, il compagno immaginario tende a lasciare il posto ad amici reali.

Ci possono essere situazioni nelle quali la linea sottile tra “gioco buono” e “gioco cattivo” è molto labile. Per “gioco buono” si intende il gioco libero del bambino, durante il quale egli può esprimersi liberamente e al meglio, dando così modo all’educatore o all’adulto di essere osservatore partecipe e carpire eventuali richieste di aiuto o situazioni problematiche. Per “cattivo” invece s’intende quel gioco, dove si rischia una strumentalizzazione educativa volta a individuare contenuti validi, raccomandati, incentivati dagli adulti, che si tramutano in una sorta di addestramento al gioco centrato sul profitto e sulla prestazione. Queste tecniche sono al loro interno contraddittorie in quanto volte ad una liberazione del corpo nell’atto ludico ma costellate di regole per il raggiungimento di questo obbiettivo e per il suo mantenimento.

Nel momento in cui l’adulto, insegnante o genitore si accosta al bambino per giocare questi diventa incapace di giocare in modo creativo in quanto durante il gioco i bambini non tollerano intrusioni altrui. Spesso educatore e insegnanti si sentono obbligati a far giocare i bambini vivendo anche loro in maniera sbagliata questo compito.

Nel gioco il bambino diventa padrone unico e assoluto della realtà svolgendo un ruolo attivo che consente l’affermazione del proprio sé e delle proprie esigenze di controllo sul mondo.

L’insegnante o l’educatore che scelgono di utilizzare il gioco per il raggiungimento di obbiettivi didattici, educativi e/o terapeutici può avere due tipi di approcci diversi: il primo è quello del fornire regole, tecniche e mettersi a diventare egli stesso un giocatore tra gli altri. Presupposto fondamentale è che per far giocare egli debba saper giocare usando liberamente il proprio sé nell’ambito della relazione comunicativa con l’altro.

Il gioco riveste un ruolo importante nell’apprendimento, in quanto la scuola si configura come luogo di stimolazione dell’atteggiamento ludico e della drammatizzazione.

A scuola l’insegnante si trova di fronte a un interrogativo importante: come inserire il gioco nelle ore dell’attività didattica. Ci sono occasioni in cui egli vuole far giocare  gli alunni ed essi rifiutano ed altre in cui durante lo svolgimento di qualche attività essi trovano il modo ed il tempo di giocare. Il gioco si auto-crea e l’insegnante in classe  può vedere e far finta di nulla o vedere e punire essendo consapevole che comunque l’azione ludica si ripeta. Con esso si libera la propria affettività nei confronti degli altri, delle cose, è un momento di comunicazione. I bambini giocano tra di loro per sperimentare, stabilire relazioni, per provare piacere con gli altri.

A scuola si adopera una distinzione tra  “jocus” e “ludus”: il primo ad indicare un passatempo, il secondo un piacere sfrenato con regole ridotte al minimo. Gli joci sono regolati da regole, tempi, obbiettivi da raggiungere mentre i ludi sono più liberi e meno vincolati.

I modelli pedagogici del gioco

Ci sono vari modelli pedagogici di gioco cui i pedagogisti si rifanno consapevoli che « non potrà mai essere elaborata una teoria generale pedagogica sul gioco».

I tre modelli sono denominati funzionale, occasionale e delegato. Il primo ha come obbiettivo l’imparare più e meglio. Il bambino è gioco con gli insegnanti, gli altri alunni. È ritenuto funzionale perché  si impara giocando. Il secondo modello ovvero quello occasionale, ritiene che il gioco sia importante ma nello stesso tempo “speciale” . è  separato dall’attività didattica ed è regolato in momenti e tempi stabiliti. L’ultimo modello infine sostiene che la scuola non sia il luogo ove giocare in quanto richiede questa attività spazi adeguati  e il bambino deve poter utilizzare la sua fantasia al meglio.

Una delle finalità pedagogiche della scuola resta quella di ridurre al minimo lo sforzo del bambino nell’apprendere. L’insegnante deve rendere affascinante e meravigliose le varie forme di conoscenza, invogliare il bambino alla curiosità: «creatività e apprendimento dovrebbero compenetrarsi».
In questo periodo così lungo e impegnativo i bambini crescono e con loro i pensieri e si accingono pian piano a diventare degli adolescenti in piena tempesta!

Questo lo vedremo più avanti, nello specifico nell’ultima fase dello sviluppo secondo Piaget, ossia lo stadio operatorio formale dai 12 anni in poi.
Per ora giochiamo e divertiamoci con loro. Non esiste miglior apprendimento per i bambini e per gli adulti.

I bambini nel loro chiedere, hanno il potere molto raro di rendere felici due persone in modo opposto : chi si compiace di esaudire il loro ingenuo desiderio ed essi stessi che l’hanno quindi esaudito.

Alzheimer, scoperta rivoluzionaria: origine del morbo legata a depressione e disturbi dell’umore

Lo studio italiano, pubblicato sulla rivista Nature Communications, rivoluziona l’approccio alla demenza di Alzheimer imputandone l’origine all’area tegmentale ventrale, dove viene prodotta la dopamina, neurotrasmettitore coinvolto anche nei disturbi dell’umore.

 

La demenza di Alzheimer

La malattia di Alzheimer (Alzheimer disease – AD) è un disturbo neurologico caratterizzato da sintomi cognitivi e non cognitivi che sono associati ad atrofia cerebrale.

Nel mondo, secondo il World Alzheimer Report 2016 della Federazione Alzheimer’s Disease International (ADI), oltre 47 milioni di persone soffrono di demenza, un numero destinato a salire, a causa dell’invecchiamento della popolazione, a 131 milioni entro il 2050. L’età media dei malati di demenza di Alzheimer è di 78,8 anni, i caregiver impegnati nella loro assistenza ne hanno in media 59. Il morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza senile, oggi in Italia colpisce, 500-600 mila persone, pari al 5% delle persone con più di 60 anni.

Secondo una ricerca Censis-AIMA, il 18% vive da solo con la badante e i costi diretti per l’assistenza superano gli 11 miliardi di euro in Italia di cui il 73% è a carico delle famiglie. Oggi l’unico modo di fare una diagnosi certa di demenza di Alzheimer, ricorda il portale dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), è attraverso l’identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile solo con l’autopsia post-mortem. Nonostante i tanti investimenti in ricerca nel settore, non esistono ancora farmaci in grado di fermare e far regredire la malattia e tutti i trattamenti disponibili puntano a contenerne i sintomi.

Morbo di Alzheimer: la causa nell’area che governa i disturbi dell’umore?

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, la causa della demenza di Alzheimer non va cercata, come svolto finora, nell’area del cervello responsabile della memoria, ma sarebbe dovuta alla morte dei neuroni presenti in una delle zone che governa anche i disturbi dell’umore. La scoperta, tutta italiana, che promette di rivoluzionare l’approccio alla ‘malattia del secolo’, è il risultato di una ricerca coordinata da Marcello D’Amelio, professore di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Lo studio, condotto in collaborazione con la Fondazione IRCCS Santa Lucia e il CNR di Roma, getta una luce nuova su questa patologia che, solo in Italia, colpisce circa 500-600 mila persone. Finora si riteneva che, a causare la demenza di Alzheimer, fosse una degenerazione delle cellule dell’ippocampo, area cerebrale da cui dipendono i meccanismi del ricordo. La nuova ricerca invece, punta l’attenzione sull’area tegmentale ventrale, dove viene prodotta la dopamina, neurotrasmettitore coinvolto anche nei disturbi dell’umore. Come in un effetto domino, la morte di neuroni deputati alla produzione di dopamina provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, con la conseguente perdita dei ricordi.

L’ipotesi è stata confermata in laboratorio, somministrando su modelli animali con Alzheimer, due diverse terapie: una con un amminoacido precursore della dopamina (L-DOPA), l’altra a base di un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, si è registrato il recupero della memoria insieme a un pieno ripristino della motivazione. L’area tegmentale ventrale rilascia dopamina anche nell’area che controlla la gratificazione. Per cui, con la degenerazione dei neuroni dopaminergici, aumenta anche il rischio di andare incontro a una progressiva perdita di iniziativa. Questo spiega perchè la demenza di Alzheimer è accompagnata da un calo nell’interesse per le varie attività della vita, fino alla depressione.

Perdita di memoria e depressione possono essere definite due facce della stessa medaglia. Tuttavia, diversamente da quanto finora ritenuto, i cambiamenti dell’umore non sarebbero conseguenza dell’Alzheimer, ma un segnale del suo inizio. Pur essendo ancora lontana una cura, i risultati suggeriscono che terapie future, tanto per la demenza di Alzheimer che per il morbo di Parkinson, anch’esso causato dalla diminuzione dei neuroni che producono dopamina, potrebbero concentrarsi partendo da questa nuova scoperta.

Manipolazione psicologica: conoscerla per difendersi da essa

La manipolazione psicologica non è solo un processo psicologico, ma è un processo comunicativo (Zimbardo, 2008): un bravo comunicatore è colui che riesce a veicolare messaggi semplici, anche se profondi e sorprendenti, concreti e credibili, facendo leva sui fattori emotivi e con una modalità narrativa facilmente riproducibile.

Andrea Ferrari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

[blockquote style=”1″]Non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità[/blockquote] (Joseph Conrad).

In cosa consiste la manipolazione psicologica

Nel realizzare questa breve guida abbiamo tentato di ampliare i canoni della letteratura psicologica divulgativa, solitamente dominata da articoli che descrivono come possiamo ottenere un maggior benessere personale, cosa influenza le relazioni sentimentali o su come andare d’amore d’accordo con il nostro partner, figli, colleghi di lavoro ecc. Altri articoli, di stampo più specialistico, forniscono informazioni utili ad una platea di professionisti delle discipline psicologiche, aggiornandoli su nuove procedure diagnostiche, tecniche di intervento, studi di efficacia ecc.

D’altra parte, chi ha mai detto che la psicologia è solo una disciplina di aiuto? È probabile che il lettore profano, dinanzi alla parola psicologia, si immagini di calarsi all’interno di uno studio finemente arredato, con il pavimento in legno e le pareti dominate da acquerelli, attestati e un’immensa libreria di noce. La sua immaginazione lo porterà, quindi, su un divano comodo su cui stare seduto, o anche sdraiato, raccontando ciò che gli passa per la testa ad un signore barbuto, intento a prendere appunti.

Oggi vorremmo offrirvi un’immagine molto meno rassicurante, conducendovi all’interno di una stanza polverosa e chiusa a chiave, senza finestre, con la luce spettrale di un neon che illumina il volto del vostro interlocutore, intento a fumarsi una sigaretta mentre il suo sguardo, torvo, non abbandona neanche per un istante i vostri occhi; sa che, presto o tardi, gli direte ciò che vuole sentirsi dire.

Lo studio dei processi di manipolazione, suggestione e influenzamento è un tema caro alla psicologia sociale, che se ne occupa da decenni. La fine della II guerra mondiale costrinse il mondo occidentale a riflettere sui regimi totalitari, sollevando interrogativi inquietanti sul contributo di ciascun individuo nella genesi e nel mantenimento di sistemi politico-sociali basati sulla restrizione delle libertà, sulla violenza e sulla giustificazione dei crimini più atroci.

Milgram (1974) dimostrò in modo magistrale ciò che Hannah Arendt, quasi contemporaneamente, scriveva mentre assisteva al processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme: un uomo qualunque, inserito in un contesto socioculturale favorente, potrebbe diventare uno spietato gerarca nazista.

Milgram individuava nell’obbedienza, e nel timore di contraddire una fonte di autorità i fattori in grado di far compiere un’azione brutale, come somministrare una scarica elettrica ad alto voltaggio ad una persona indifesa. Tuttavia, la descrizione che la Arendt fa di Eichmann evidenzia fattori ancora più inquietanti nella loro meschinità, come il carrierismo e il bisogno di conformarsi ad un sistema gerarchico, oltre ad una incapacità di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Da una parte il timore di contraddire un’autorità, dall’altra il desiderio di esserne complici, indipendentemente dalle implicazioni morali.

Ma fermiamoci qui. Mentre questi esempi riguardano processi di influenzamento, in cui una persona si adegua in modo più o meno cosciente a decisioni imposte, nei processi più francamente manipolativi, la vittima viene soggiogata nel modo di pensare e percepire la realtà, convincendosi di quanto gli viene inculcato.

La manipolazione psicologica in ambito forense

La comprensione dei fenomeni di manipolazione psicologica è particolarmente importante per la psicologia forense, che tra le varie cose si occupa di come le testimonianze giuridiche possano essere influenzate dalle condizioni psicologiche del testimone. Il fenomeno delle false confessioni ne è forse l’esempio più significativo. Pare inoltre che le forze investigative negli USA (ma non solo negli USA) siano facili a confondere la conduzione di un interrogatorio con l’estorsione di una confessione. Va detto che nel sistema giudiziario degli Stati Uniti, la confessione di un imputato assume un valore probatorio decisivo per le sorti di un processo, anche nei casi in cui vi siano scarse evidenze fattuali. Nel 25% dei casi in cui una persona è stata scagionata grazie all’esame del DNA, l’imputazione era avvenuta tramite una falsa confessione (Kassin et al, 2009).

Anche se starete pensando di non essere i tipi da confessare uno stupro o un omicidio che non avete commesso, le ricerche indicano che le persone innocenti sono particolarmente vulnerabili durante gli interrogatori. Secondo Redlich e Meissner (2009) negli Stati Uniti vi sono diverse modalità per condurre un interrogatorio allo scopo di produrre (o estorcere) una confessione, tutte accomunate da tre fasi:
– Isolamento: il sospettato viene detenuto in una piccola stanza e lasciato solo, non gli è permesso di contattare un avvocato di fiducia. Il soggetto trattenuto è così incoraggiato a vivere una condizione psicologica di precarietà, con sentimenti di ansia e insicurezza.
– Confronto: Gli investigatori assumono per principio che la persona che si trovano davanti sia IL colpevole. Quindi, glielo comunicano in modo esplicito, affermano di avere delle prove in mano che consentono di incriminarlo (è utile ricordare che alla polizia è legalmente permesso di mentire), che non gli conviene negare le sue colpe, e che queste comportano gravi conseguenze.
– Minimizzazione: in questa fase chi conduce l’interrogatorio assume un atteggiamento empatico con il sospettato, allo scopo di guadagnare la sua fiducia, gli offre delle giustificazioni per il crimine che (non) ha commesso.

Gli amanti delle serie TV potranno osservare un interrogatorio così descritto nella prima stagione di True Detective, operato da un convincente Matthew McConaughey. E se state pensando che, almeno in Italia, certe cose non accadano, vi invitiamo a leggere questo articolo di Kassin (2012) che dedica particolare attenzione al caso di Amanda Knox, e del delitto di Perugia. Possiamo quindi concludere che gli interrogatori sono un setting ideale per esercitare una manipolazione psicologica.

È interessante osservare come queste modalità di conduzione degli interrogatori sembrano adattarsi al modello circolare dell’abuso di Walker (1979): secondo l’Autrice, la genesi delle violenze domestiche seguirebbe quattro fasi, indicate come
1) Incremento della tensione: la comunicazione tra partner abusante e vittima si interrompe, quest’ultima si sente spaventata e avverte il bisogno di placare la rabbia dell’abusante.
2) Incidente: Il partner abusante manifesta rabbia nei confronti della vittima ed esercita minacce e intimidazioni, si verifica un abuso, a livello verbale, fisico o comportamentale.
3) Riconciliazione: il partner abusante si scusa e si giustifica incolpando la vittima, nega il comportamento di abuso o ne minimizza la gravità;
4) Calma: l’incidente viene “dimenticato”, e non si verificano altri abusi. I partner vivono una “luna di miele” fittizia.

Alla luce delle somiglianze tra i due modelli, non appare azzardato affermare che le false confessioni sono ben più di una tecnica di manipolazione, bensì appaiono come una forma sottile e raffinata di tortura: anche se questo termine non compare mai nei modelli descritti, è evidente che la vittima di questi processi si ritrovi a vivere in uno stato di paura e di sottomissione, con l’impossibilità di chiedere aiuto o uscire dalla relazione. Ne consegue che l’unico modo per cavarsela è acconsentire alle richieste di chi detiene il potere nella relazione.

Un altro fattore che può contribuire ad assoggettare chi subisce un interrogatorio è la mancanza di riposo. Un recente studio di Frenda coll. (2016) ha indagato il ruolo della deprivazione dal sonno impiegando un metodo sperimentale. La variabile dipendente consisteva nell’ammissione di aver compiuto un fatto che non si era commesso, ovvero la produzione di una falsa confessione. II 50% dei soggetti assegnati al gruppo sperimentale, che avevano trascorso una notte in bianco al laboratorio universitario, producevano una falsa confessione, contro il 18% dei soggetti di controllo.

La manipolazione psicologica avviene attraverso una buona comunicazione

La manipolazione psicologica non è solo un processo psicologico, ma è un processo comunicativo (Zimbardo, 2008): un bravo comunicatore è colui che riesce a veicolare messaggi semplici, anche se profondi e sorprendenti, concreti e credibili, facendo leva sui fattori emotivi e con una modalità narrativa facilmente riproducibile. A questo proposito può essere molto utile conoscere i sei principi della persuasione sociale illustrati da Robert Cialdini (2009):

1) Reciprocità: o principio del “ti offro un dito per prenderti il braccio”, indica la nostra tendenza a ricambiare un favore che ci viene offerto. Una tecnica di persuasione che sfrutta questo principio è quella dei campioni gratuiti, si fornisce ai clienti una piccola quantità di prodotto con l’ “innocente” intenzione di informare il pubblico, mentre ciò mette in moto l’obbligo di ricambiare il dono.
2) Impegno e coerenza: il bisogno di apparire coerenti con ciò che abbiamo fatto ci induce un cambiamento mentale che supera le pressioni personali e interpersonali nello sforzo di essere coerenti con quell’impegno. Una tattica persuasiva che sfrutta questo principio è la tecnica del “piede nella porta” che consiste nell’ottenere grossi acquisti cominciando con uno piccolo.
3) Riprova sociale: talvolta, nel decidere che cos’è giusto per noi, ci è di aiuto cercare di scoprire cosa gli altri considerano giusto. Ad esempio, tendiamo a considerare più adeguata un’azione quando la fanno anche gli altri. L’impiego dei testimonial nella pubblicità è una delle trasposizioni pratiche di questo principio, un altro esempio sono le risate finte nelle sitcom.
4) Simpatia: di regola preferiamo acconsentire alle richieste delle persone che conosciamo e che ci piacciono, o che percepiamo come simili a noi. I mariti rimasti vittime dei Tupperware party riconosceranno gli effetti drammatici che questo principio, apparentemente così innocuo, ha sulla nostra pazienza.
5) Autorità: o principio del Megadirettore galattico, indica il senso di deferenza verso l’autorità per cui tendiamo a seguire fino all’estremo l’ordine di una persona autorevole (o presunta tale) in un determinato campo. È il motivo per cui si usano i dentisti negli spot sui dentifrici.
6) Scarsità: un prodotto diviene più attraente quando la sua disponibilità è limitata. Questo principio rappresenta inoltre un ottimo deterrente alla procrastinazione: avete mai sentito parlare della “corsa all’ultimo acquisto”? Sulla base di questo principio i venditori usano frequentemente le tattiche del numero limitato, o dell’offerta valida per pochi giorni.

Le caratteristiche di chi compie la manipolazione psicologica

Passiamo infine alla descrizione delle caratteristiche psicologiche del manipolatore: se questa è la carriera che desiderate intraprendere, potrebbe esservi di aiuto possedere di tratti di personalità afferenti alla triade oscura (Furnham et al., 2012; Paulhus & Williams, 2002), ovvero un costrutto impiegato per descrivere una costellazione di tre tratti di personalità:
narcisismo: tratto di personalità che descrive individui che tendono ad apparire ambiziosi, determinati e dominanti nelle relazioni interpersonali, fino ad esibire un senso di superiorità;
– machiavellismo: tratto di personalità che descrive individui con una forte tendenza al cinismo, alla scarsa considerazione per i principi etici e morali, con la tendenza a manipolare gli altri per raggiungere i propri scopi;
psicopatia: è considerato il tratto più maligno della triade oscura, descrive persone caratterizzate da scarsi livelli di empatia, in combinazione ad alti livelli di impulsività e ricerca di eccitazione. Molti di questi individui manifestano condotte francamente antisociali.

Ora che, in questa breve guida, abbiamo illustrato le principali conoscenze teoriche sulla manipolazione psicologica, siamo certi che la vostra fiducia nel genere umano non sia di certo aumentata. Riteniamo però che conoscere questi processi sia il necessario presupposto per potersi difendere, ricordando al lettore di stare in guardia quando il nostro interlocutore ci evoca sensazioni di insicurezza o di franca minaccia, o quando ad un comportamento seduttivo fanno seguito richieste di impegno (economico, affettivo, lavorativo…), alle quali sente di faticare a sottrarsi. Le domande da farsi in questi casi sono “cosa sta tentando di ottenere rivolgendosi a me in questo modo?”, “mi riesce davvero impossibile sottrarmi?”, “ci sono argomentazioni contrarie da opporre?”. Riconoscere il comportamento manipolativo è il primo passo per potersi sottrarre ad esso, con la necessaria fermezza che deriva dalla consapevolezza dei propri diritti che mai, debbono essere calpestati, sia tra le mura di casa, sia nelle aule della giustizia.

Tuttavia, la manipolazione psicologica fa parte della vita, e non vogliamo invitare il lettore a diventare paranoide nel tentativo di difendersi da minacce sconosciute. Tralasciando casi estremi come gli interrogatori di polizia, essere persuasi, ma anche lasciarsi infinocchiare, sono esperienze comuni; per chi ha un’impresa non è raro subire una truffa da un cliente o un fornitore, così come per chi è in cerca dell’amore della vita, non è raro subire il fascino di persone con intenzioni meno nobili. Ma queste esperienze, per quanto spiacevoli, non sono la prova di una sconfitta: possiamo incassare colpi sporadici senza perdere fiducia e positività nell’affrontare la vita, consapevoli che il mondo non è sempre un luogo rassicurante in cui vivere.

 

La neuroinfiammazione: ruolo e funzione nei disturbi psichiatrici

La neuroinfiammazione consiste in una complessa cascata di eventi biologici attraverso la quale, a partire dall’attivazione della microglia, si produce uno stato infiammatorio che persiste oltre la normale durata fisiologica, provocando uno condizione patologica progressiva.

Veronica Aggio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La neuroinfiammazione e le encefaliti

Storicamente, la neuroinfiammazione è stata inizialmente affrontata come argomento di ricerca solo relativamente allo studio delle encefaliti. L’encefalite è definibile come un processo infiammatorio sviluppatosi a livello cerebrale, e può essere classificata in: encefalite primaria, quando l’infezione origina direttamente a livello encefalico, encefalite secondaria, quando invece è una conseguenza di uno stato infiammatorio organico esterno al cervello, ed una encefalite autoimmune, provocata da una risposta anomala del sistema immunitario dell’individuo.

Tra il 1916 e il 1927, subito dopo la prima guerra mondiale, venne riportata una devastante epidemia di “encefalite letargica”, così denominata dal medico von Economo: i sintomi principali che colpivano i soggetti comprendevano i disturbi del sonno, letargia, sindromi extrapiramidali, e disturbi neuropsichiatrici quali il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), disturbi della condotta, catatonia, mutismo e apatia; ancora oggi, seppur molto raramente, vengono riportati dei casi di encefalite letargica che, se non completamente curata, può provocare un parkinsonismo postencefalico permanente. Tali processi infiammatori localizzati a livello cerebrale sono riscontrabili anche nelle patologie neurodegenerative: nel disturbo di Alzheimer, studi clinico-patologici mostrano come l’attivazione della microglia rappresenti un evento patogenico precedente all’estesa perdita neuronale caratteristica del disturbo, rappresentandone quindi un possibile biomarker. Inoltre, l’utilizzo di alcuni farmaci anti-infiammatori sembra possa prevenire e ritardare il rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer.

La neuroinfiammazione e le patologie psichiatriche

Risulta quindi intuitiva l’importanza del ruolo svolto dalla neuroinfiammazione nelle varie patologie inerenti il cervello; anche per questo, negli ultimi decenni, lo studio delle molecole legate alle risposte infiammatorie è stato esteso anche all’ambito psichiatrico. Uno dei primi inisght per lo studio dei fattori infiammatori anche in ambito psichiatrico deriva dalla pubblicazione nel 1988 di un lavoro di Mednick e colleghi, che riporta un aumento del rischio di sviluppo della schizofrenia nei figli delle madri affette dall’influenza epidemica del 1957 in Finlandia. Nel lavoro veniva proposta l’idea che un’infezione virale durante gli ultimi due trimestri di gravidanza potesse aumentare il rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta.

L’analisi retrospettiva di pazienti ricoverati ad Helsinki con diagnosi di schizofrenia, mostrò come molte delle madri dei pazienti, all’epoca in gestazione, avevano contratto o erano state esposte all’influenza epidemica di tipo A2. Successivamente, nel 2007, uno studio danese confermò i dati precedentemente riportati da Mednick, mostrando nuovamente un aumento del rischio per la schizofrenia associato all’influenza della madre durante la gestazione. Oltre agli stati influenzali, è stata riportata un’associazione fra un’ampia varietà di infezioni virali e batteriche contratte dalle madri durante la gestazione (morbillo, varicella-zoster, rosolia etc) ed un aumento del rischio di sviluppo di schizofrenia dei figli.

Partendo quindi dall’analisi del rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta, molti ricercatori hanno spostato l’attenzione all’analisi dei fattori infiammatori nella patogenesi e mantenimento delle patologie psichiatriche.

Da un punto di vista fisiologico, il corpo è dotato di un duplice sistema immunitario, uno innato ed uno adattivo, mentre il cervello non possiede un proprio sistema immunitario specifico. Il primo elemento che protegge meccanicamente (fisicamente, con la propria presenza) ed enzimaticamente il cervello è la barriera ematoencefalica (BBB – brain blood barrier). La BBB lascia passare selettivamente e bidirezionalmente diverse citochine: l’interleuchina 1-α (IL-1 α), IL-1β, IL-1ra, IL-6, fattore di necrosi tumorale (TNF), fattore inibitorio di leucemia (LIF) e diverse adipochine (citochine secrete dal tessuto adiposo). Queste citochine, che fungono da segnalatori di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e i diversi organi, rivestono un ruolo importante sia nella risposta fisiologica ad uno stato infiammatorio che nei processi neurodegenerativi. Per esempio, il TNF-α può causare uno stato infiammatorio, la morte cellulare inducendone l’apoptosi, e fungere da mediatore per la produzione/rilascio di altre citochine come IL-6, IL-1β e IL-8.

Una seconda forma di protezione del CNS viene fornita dalla microglia, ovvero le cellule immunitarie residenti nel sistema nervoso centrale (CNS), in condizioni normali si presenta in uno stato definito “silente”, caratteristico per la presenza di un piccolo soma e ramificazioni. In questa condizione, lo scopo della microglia è quello di controllare e sorvegliare costantemente l’ambiente circostante per verificare eventuali alterazioni dell’omeostasi cerebrale in seguito a traumi, infezioni, o alterazioni dell’attività neuronale stessa. Se rileva una di queste condizioni, la microglia cambia conformazione e passa ad uno stato “attivo”, assumendo una forma tondeggiante e acquisendo maggior motilità per raggiungere il sito dove è stata riscontrata tale anomalia. Una delle funzioni principali della microglia attivata è quella di regolare la risposta immunitaria del CNS e promuovere delle risposte idonee alla situazione, come il rilascio di citochine pro ed anti infiammatorie. E’ proprio questa risposta infiammatoria a livello cerebrale che viene definita neuroinfiammazione e rappresenta una risposta fisiologica fondamentale atta a difendere e proteggere il CNS. Se, però, tale stato fisiologico si protrae nel tempo in modo incontrollato, può risultare potenzialmente dannoso; ciò è particolarmente evidente nelle patologie neurodegenerative, dove è riscontrabile una condizione di neuroinfiammazione e la microglia risulta essere attivata.

Lo studio della neuroinfiammazione ha fornito risultati interessati in ambito psichiatrico, in particolare rispetto alla schizofrenia, al disturbo bipolare (BD – bipolar disorder) e alla depressione maggiore (MDD – major depressive disorder). Questi tre disturbi rappresentano ad oggi le patologie che comportano una maggiore compromissione e gravità in ambito psichiatrico. La schizofrenia, fra queste, è forse la più conosciuta in assoluto, a causa della sua caratteristica sintomatologia positiva (deliri e allucinazioni), insieme ad un marcato deficit cognitivo e sociale.

Il disturbo bipolare, invece, si caratterizza per un’ alternanza di episodi ipomaniacali (disturbo bipolare I), maniacali o misti (disturbo bipolare II) e depressivi con fasi “depressive”. Infine, la depressione maggiore, ed in particolare la depressione maggiore ricorrente, è definita da un umore deflesso solitamente accompagnato da sentimenti di svalutazione, perdita degli interessi, apatia e anedonia. Partendo da quest’ultimo, gli studi che hanno valutato il ruolo esercitato dalle molecole inerenti l’infiammazione nella MDD hanno più volte riscontrato le due cose come associate: i pazienti affetti da MDD che non hanno mai assunto degli psicofarmaci (drug-naive), mostrano un’alterazione dell’equilibrio fra fattori pro-infiammatori, come IL-1β, IL-2, IL-6, interferone-γ (IFN- γ), TNF ed i fattori anti-infiammatori (IL-4, IL-10). In particolare, in una recentissima review di Ke e collaboratori [2] sul ruolo svolto dalle citochine, ed in particolare dal TNF-α nella MDD, viene riportato come gli elevati livelli dei fattori pro-infiammatori riscontrati nei pazienti possano contribuire alla patogenesi del disturbo; anche gli studi pre-clinici su modelli animali mostrano come, iniettando elevati livelli di citochine pro-infiammatorie, l’animale inizi a mostrare dei sintomi e comportamenti simil-depressivi, dando ancora maggior appoggio alla teoria “macrofagica della depressione”, così come inizialmente definita da Smith, ed oggi riconosciuta come “teoria della depressione basata sulle citochine”.

Altri studi hanno dimostrato come le molecole pro-infiammatorie correlino positivamente con la gravità della sintomatologia depressiva (all’aumentare del numero di molecole pro-infiammatorie, aumenta la gravità dei sintomi). Invece, gli studi inerenti le terapie farmacologiche hanno dimostrato che l’utilizzo di antidepressivi riduce il rilascio di fattori infiammatori circolanti, incrementando anzi il rilascio di antagonisti endogeni delle citochine pro-infiammatorie come IL-10. Di converso, sia le molecole pro-infiammatorie che i fattori di crescita neuronale sono in grado di influenzare la risposta agli psicofarmaci. I pazienti affetti da MDD presentano bassi livelli della neurotrofina BDNF (brain-derived neurotrophic factor): studi recenti mostrano come i pazienti che presentano, alla baseline, livelli maggiori di BDNF rispetto al decremento generale riportato, hanno anche una risposta migliore agli antidepressivi, in particolare agli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina); infine, sembra che gli antidepressivi stessi, siano in grado di aumentare la produzione di BDNF circolante.

I fattori neuroinfiammatori risultano essere correlati anche con il rischio di suicidio, presente in tutte e tre le patologie psichiatriche sopra citate (MDD, BD e schizofrenia). Se comparati con pazienti depressi senza ideazione suicidaria, i pazienti con MDD che nella sintomatologia presentano anche un’ideazione sucidaria hanno dei livelli maggiori di molecole infiammatorie circolanti a livello periferico. Sembra sia oltretutto possibile identificare un profilo distinto di citochine periferiche caratteristico dei pazienti con MDD suicidi rispetto ai pazienti depressi.

Infine, gli stessi fattori che potrebbero essere implicati nella patogenesi e nel mantenimento di queste patologie psichiatriche sembrano avere anche un effetto sulla struttura cerebrale dei pazienti: tra gli studi recenti, uno degli ultimi lavori del gruppo di Benedetti e colleghi ha riportato una relazione fra alcune citochine pro-infiammatorie e gli indici di integrità della sostanza bianca (basati sulla diffusione delle molecole d’acqua nel cervello). In particolare, queste molecole erano associate significativamente con una diminuzione degli indici di integrità della sostanza bianca (anisotropia frazionaria) e con un aumento degli indici di permeabilità della guaina mielinica che riveste l’assone (diffusività radiale e media) in differenti fasci globalmente localizzati.

In conclusione, gli studi che hanno investigato il ruolo svolto dalla neuroinfiammazione hanno dimostrato che esiste un’alterazione generale dei parametri infiammatori nei pazienti affetti dalle principali patologie psichiatriche (MDD, BD e schizofrenia), sia in relazione alla patologia in quanto tale, sia rispetto alla sintomatologia e alle caratteristiche cerebrali strutturali (sostanza bianca e sostanza grigia). Risulta quindi essere di fondamentale importanza l’integrazione fra i dati provenienti dal mondo clinico con quelli più di carattere neuro scientifico e biologico per approfondire ulteriormente il ruolo e gli effetti della neuroinfiammazione in ambito psichiatrico.

 

Life Skills: l’importanza di apprendere empatia e abilità socio-emotive tra i banchi di scuola

Le Life Skills assumono particolare importanza all’interno della psicologia della salute e della prevenzione, in questo contesto, all’interno delle scuole, vengono applicati programmi per i giovani studenti per accrescere autonomia e specifiche capacità individuali e sociali.

 

Le Life Skills diventano un tema di discussione rilevante intorno agli anni 70 e assumono particolare importanza all’interno di una più grande area, rappresentata dalla psicologia della salute e della prevenzione. In questo contesto, all’interno delle scuole, iniziano ad essere applicati dei programmi finalizzati a incrementare nei giovani studenti un maggiore senso di autonomia e ad accrescere anche specifiche capacità individuali e sociali.

A fornire maggiore sostegno, nel 1993, è l’Organizzazione Mondiale della Sanità che pubblica un documento che invita all’insegnamento delle Life skills all’interno del contesto scolastico.

Le Life skills sono state definite dall’ OMS come l’insieme di specifiche abilità personali e sociali che permettono agli individui di far fronte alle sfide, richieste e difficoltà che si presentano nei diversi contesti della vita quotidiana. L’assenza di tali abilità personali e sociali può indurre nelle persone, soprattutto nei giovani, l’instaurarsi di comportamenti a rischio e l’incapacità di fronteggiare efficacemente situazioni di stress quotidiane.

Effetti a lungo termine dei programmi di apprendimento di Life skills

In particolare, nuove ricerche della UBC dell’Università dell’Illinois di Chicago e Loyola University dimostrano come i programmi di apprendimento di Life skills per i giovani non solo migliorano immediatamente la salute mentale, le abilità sociali e gli obiettivi di apprendimento, ma i bambini continuano a mantenere i benefici anche dopo molti anni.

Eva Oberle, assistente di professione presso l’UBC Human Early Learning Partnership nella scuola della popolazione e della sanità pubblica, ha dichiarato:

I programmi di apprendimento socio-emotivo insegnano le abilità di cui i bambini hanno bisogno per avere successo e prosperare nella vita.

L’apprendimento socio-emotivo insegna ai bambini a riconoscere e comprendere le loro emozioni, provare l’empatia, prendere decisioni, costruire e mantenere relazioni sane. Precedenti ricerche hanno dimostrato che l’applicazione di questi programmi di apprendimento di Life skills nelle scuole, non solo migliora i risultati relativi all’apprendimento didattico, ma in più riduce l’ansia e i problemi comportamentali tra gli studenti. Tra i programmi di apprendimento socio-emotivo che vengono spesso applicati troviamo ad esempio il MindUP e Roots of Empathy.

E’ stata condotta una ricerca al fine di valutare se, l’applicazione tali programmi di apprendimento delle Life skills, avesse effettivamente degli effetti positivi sugli individui a distanza di tempo, in quanto gli effetti positivi immediati sono facilmente rilevabili. Questo studio ha analizzato i risultati di 82 diversi programmi che hanno coinvolto più di 97.000 studenti, provenienti dalla scuola materna alla scuola media negli Stati Uniti, in Europa e nel Regno Unito, dove gli effetti sono stati valutati almeno sei mesi dopo la conclusione dei programmi. I ricercatori hanno scoperto che l’apprendimento socio-emotivo ha continuato ad apportare effetti positivi a lungo termine sugli studenti.

In particolare, i risultati evidenziano come gli studenti che hanno partecipato a programmi di apprendimento di Life skills si sono laureati all’università con un tasso superiore dell’11% a quelli che invece non hanno partecipato allo studio. Il tasso di diplomi delle scuole superiori è stato superiore del 6% e i problemi legati all’utilizzo dei farmaci sono stati inferiori del 6% per i partecipanti al programma. Infine, i tassi di arresto sono inferiori del 19% e le diagnosi di disturbi della salute mentale sono inferiori del 13,5% per coloro che hanno preso parte ai programmi.

Oberle ei suoi colleghi hanno anche scoperto che tutti i bambini, indipendentemente da etnia, background socioeconomico o dalla scuola, hanno beneficiato dei programmi.

Oberle afferma che:

L’insegnamento relativo all’apprendimento di abilità socio-emotive nelle scuole è un modo per sostenere i singoli bambini nei loro percorsi di crescita, ed è anche un modo per promuovere migliori risultati della salute pubblica più tardi nella vita.

Oberle e i suoi colleghi sostengono che le scuole siano il luogo ideale per attuare questi interventi di apprendimento di Life skills, perché favoriscono l’inclusione di quasi tutti i bambini, anche quelli considerati a rischio. Infine, Oberle mette in evidenza come, soprattutto durante gli anni della scuola media e prima adolescenza, i giovani si allontanino dalle loro famiglie divenendo sempre più sensibili alle influenze dei gruppi e degli insegnanti. I bambini spendono circa 923 ore in classe ogni anno, e ciò che accade nelle scuole è molto influente sul loro sviluppo.

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