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13 Reasons Why: in USA la serie tv di Netflix fa impennare le ricerche sulla parola “suicidio”

Nel periodo in cui è andata in onda la serie televisiva 13 Reasons Why, nei motori di ricerca USA si è registrato un notevole aumento delle ricerche relative alla parola “suicidio”.

 

Nel periodo in cui è andata in onda la serie televisiva di Netflix 13 Reasons Why, nei motori di ricerca USA si è registrato un notevole aumento delle ricerche relative alla parola “suicidio”. La protagonista delle serie TV muore suicida e lascia dei video in cui spiega le ragioni del suo gesto.

13 Reasons Why e suicidio: la ricerca statunitense

Uno studio statunitense pubblicato online il 31 luglio da JAMA Internal Medicine rivela che le ricerche sul web relative alla parola “suicidio” hanno spiccato il volo subito dopo che Netflix ha messo in onda 13 Reasons Why. Si tratta di una popolare serie TV la cui protagonista si suicida.

I ricercatori hanno utilizzato un algoritmo, per valutare come le ricerche online sul suicidio siano cambiate dopo 13 Reasons Why, basato sulle tendenze di ricerca quotidiane dal 15 gennaio al 30 marzo, vigilia della messa in onda. Il team scientifico ha in seguito valutato i volumi di ricerca online sul suicidio dalla data di esordio della trasmissione (31 marzo) fino al 18 aprile. Per 12 dei 19 giorni successivi al 31 marzo, tutte le ricerche online relative al suicidio sono aumentate dal 15 al 44%.

Questo significa 900.000-1.5 milioni di ricerche più rispetto alla media.

Più qualcuno riflette sul suicidio, più è probabile che lo metta in atto – dice John Ayers, della San Diego State University of California, autore principale dello studio.

Ad esempio, il numero di ricerche con la parola “suicidio” ha registrato un aumento del 26% dopo il debutto di 13 Reasons Why mentre quello delle ricerche con le parole “commettere suicidio” è risultato più elevato del 18%. Infine, le ricerche sul web con la frase “come uccidere se stessi” sono risultate più numerose del 9%. Allo stesso tempo, anche le ricerche di richiesta di aiuto sono aumentate rispetto alla media. Dopo la serie TV il “suicide hotline number” è stato sollecitato un numero di volte superiore del 21% rispetto al previsto e le ricerche online con la frase “prevenzione del suicidio” sono state più numerose del 23%. La ricerca con le parole “suicidio teen” è stata superiore del 34%.

13 Reasons Why: le preoccupazioni degli esperti

In 13 Reasons Why la studentessa di scuola superiore Hannah Baker si uccide e lascia videoregistrazioni degli eventi che hanno portato alla sua morte, mostrata in dettaglio grafico nel finale della serie. La fiction contiene scene di stupro, guida in stato di ubriachezza e bullismo. Dopo il suo debutto, molti esperti di salute mentale hanno sollevato preoccupazioni. Il loro timore era quello che si verificassero casi di suicidio per emulazione in adolescenti vulnerabili, già in difficoltà per depressione o pensieri suicidi.

Netflix, in risposta alle preoccupazioni sulla serie, ha aggiunto ulteriori avvertenze sui contenuti e informazioni sulla prevenzione del suicidio. La pay-tv ha anche incoraggiato i genitori a guardare lo spettacolo con i figli adolescenti e ha offerto possibilità di dibattito sulla questione. “Abbiamo sempre creduto che questo spettacolo avrebbe incoraggiato la discussione su questo argomento difficile”, ha detto Netflix.

Gli sceneggiatori potevano fare di più per evitare di scatenare pensieri suicidi o tentativi di togliersi la vita – dice Kimberly McManama O’Brien, coautore dell’ editoriale di accompagnamento e ricercatrice di psichiatria presso la Harvard Medical School di Boston. – La decisione di mostrare in dettaglio il suicidio della protagonista della serie è stata controversa. La ricerca ha dimostrato che le immagini o le descrizioni dettagliate di come o dove una persona muore suicida può costituire un fattore scatenante in individui vulnerabili.

Su 20 ricerche comuni in tema di suicidio esaminate dai ricercatori, 17 hanno evidenziato un volume di ricerca superiore al previsto durante il periodo di studio.

Poiché lo studio suggerisce che lo spettacolo TV abbia aumentato sia la consapevolezza che l’ideazione suicida, si potrebbero aggiungere ulteriori avvertimenti alle serie TV attuali e future – concludono i ricercatori.

 

13 REASONS WHY – IL TRAILER: 

https://www.youtube.com/watch?v=kHUe5oBvfHI

I gruppi tendono a mentire più degli individui?

Un nuovo studio tedesco osserva come le persone, quando sono in gruppo, siano più propense a mettere in atto comportamenti disonesti, soprattutto quando è coinvolto il denaro. I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista Management Science.

Cosa spinge un gruppo ad azioni disoneste?

Quando le aziende intraprendono comportamenti ingannevoli o corrotti su larga scala, spesso non si tratta solo di uno o due dipendenti disonesti, ma di uno sforzo coordinato di molti individui, che coinvolge i vertici dell’azienda.
Tra i principali esempi figurano i fallimenti di WorldCom e Enron e, più recentemente, la presunta emissione di certificati del produttore tedesco Volkswagen.

Questo studio ha esaminato le motivazioni del gruppo ad agire in modo disonesto, anche a fronte di precedente onestà.

I ricercatori della Ludwig-Maximilians-University di Monaco di Baviera, Germania, hanno valutato 273 partecipanti sia nelle situazioni individuali che in gruppo.
Ai partecipanti è stato mostrato un video nel quale c’erano dei dadi che roteavano ed è stato chiesto poi di riferire il numero che compariva in ogni dado. Quanto più alto era il numero che compariva nei dadi, tanti più soldi ricevevano.

I partecipanti sono stati valutati individualmente e in due gruppi (i membri sono stati in grado di comunicare tramite una funzione di chat).
In una delle situazioni di gruppo, tutti i membri erano tenuti a riferire il medesimo numero per ricevere il denaro. Nell’altro gruppo, i membri non dovevano segnalare il numero per ricevere un compenso.

I gruppi mentivano significativamente più degli individui quando questo significava un reciproco guadagno e dovevano coordinarsi a tal fine” ha affermato l’autore, il Dr. Martin G. Kocher.

Un totale di 78 gruppi ha partecipato allo studio. Tra questi, gli argomenti a favore di azioni disoneste sono stati esplicitamente menzionati nel 51 per cento delle discussioni di gruppo: il 43,4% ha sostenuto la disonestà, mentre solo il 15,6% ha optato per l’onestà.

Un dato interessante è che la disonestà individuale misurata nella prima parte dello studio, non ha influito sul risultato finale. Infatti, la disonestà si è verificata anche in gruppi in cui tutti i membri avevano precedentemente risposto onestamente.

Secondo i ricercatori la possibilità di discutere in gruppo le potenziali giustificazioni a un comportamento disonesto consente di stabilire una nuova norma in merito a ciò che è o non è disonesto: ciò che prima era considerato disonesto può quindi diventare lecito e aprire il campo a comportamenti scorretti sostenuti dall’intero gruppo.

L’unico dato certo è quell’odio verso la statistica che smentisce i nostri pregiudizi

Una guerra è in corso tra la statistica e le nostre indignazioni pubbliche. Non facciamo in tempo a prendercela per la perdita di valori –qualunque essi siano, progressisti o conservatori pari sono- che da qualche parte salta fuori una statistica che rende ogni pensiero marginale e irrimediabilmente privato.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 12/08/2017 

 

Pensavamo di essere surfisti sull’onda di un grande idea storica insieme a un popolo in rivolta e ci ritroviamo con una nostra insignificante idiosincrasia, una semplice emozione travestita da idea universale. Curioso poi che questa azione solvente della statistica sia a tutto campo e non risparmi nessuno. Un giorno colpisce una persona di simpatie conservatrici preoccupata per la perdita dell’identità culturale europea minacciata dalle immigrazioni. Arriva la statistica e dimostra che le cifre sono sempre meno catastrofiche di quel che si pensava.

Non fai in tempo a rallegrarti per la degradazione delle idee altrui a pregiudizi che ti ritrovi nella stessa situazione. Hai appena deriso l’amico troppo preoccupato per l’invasione dei migranti che magari ti ritrovi a scoprire che il tasso di femminicidio è risibile. Numeri bassi che vanno d’accordo con la diminuzione della delinquenza in atto da anni. Cerchi di consolarti pensando “si, ma in Italia…” e poi scopri che il strage delle donne è soprattutto un problema del nordeuropa e che l’Italia è sotto la media europea. D’altro canto avevamo appena detto all’amico destrorso che tutta questa sua preoccupazione per la sicurezza è esagerata.

Potevamo anche aspettarcelo che anche la strage delle donne seguisse la stessa tendenza. Ce lo dice il rapporto dell’ONU sugli omicidi in base al sesso. E ce lo ha dimostrato lo psicologo (e statistico) Steven Pinker in “Il Declino della Violenza”. La violenza diminuisce nel mondo, e quindi diminuisce anche la violenza degli immigrati; e viceversa, però: diminuisce la violenza dei gruppi xenofobi contro gli immigrati. In teoria dovremmo essere tutti più contenti. Invece ci sentiamo tutti un po’ stupidi senza il nostro nemico preferito. Isaia 11, 1-10: “Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo giacerà col capretto, il vitello, il giovin leone e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà” e tutti si sentiranno un po’ cretini e un po’ infastiditi.

Nietzsche ci aveva avvertito: senza odio da nutrire ci annoiamo. Grattarsi può essere dannoso ma è anche piacevole e l’impossibilità di farlo è seccante. È come avere un prurito persistente proprio su quel punto della schiena dove non riusciamo a grattarci.

La mente funziona per generalizzazioni. Nei tempi antichi, quando c’erano i soliti greci, eravamo contentissimi di questa nostra peculiarità, la capacità di generare concetti. Ci faceva sentire alla sommità della creazione. Bei ricordi di scuola. Socrate, Platone, Aristotele, i concetti, le idee, ma anche Prometeo. Che forza, che potenza, che bello pensare! Oggi siamo più prudenti. Ogni concetto che mettiamo assieme si irrigidisce in un pregiudizio nel tempo di cottura di un uovo. Siamo lì con una buona idea e dopo un po’ ci ritroviamo con una realtà incomprensibile che riduce ogni nostra rappresentazione a uno stereotipo.

Che bella l’idea dell’Occidente patria dei diritti individuali e ti ritrovi a essere uno spaurito intollerante di provincia pieno di pregiudizi. Che bella l’idea del maschio violento e dopo un po’ ci ritroviamo quasi di fianco al filisteo che rimpiange i tempi antichi eternamente preoccupato da un inesistente aumento della violenza moderna (è vero il contrario) o peggio rasentiamo il pregiudizio anti-meridionale dopo aver scoperto che gli amici nordeuropei fanno fuori più donne di noi italiani.

Insomma, con la statistica sembra che non accada mai nulla. Le cifre non sono mai significative. Il brutto è che poi la verifica oggettiva, il fact checking all’inglese che suona sempre bene, diventa sempre più confusivo perché i dati a disposizione sono talmente tanti che non si arriva mai a un’informazione conclusiva. I fatti sfuggono. Non che i ragionamenti non statistici siano di maggiore aiuto. Il vitalizio ai parlamentari, vogliamo parlarne? Per carità. Non era stato già abolito? Abolito di nuovo? Non si capisce. Ai tempi dei soliti greci avevamo deciso di finanziare chi partecipava all’assemblea per impedire che la politica fosse privilegio dei ricchi e oggi invece brighiamo notte e giorno per rendere la politica un affare non retribuito, rischiando di consegnarla di nuovo ai ricchi oligarchi. Questo sviluppo è progressista? È conservatore? Non chiedetecelo, non lo sappiamo. Ogni ragionamento porta dappertutto e in nessun luogo.

Le idee iperverificate diventano inverificabili e scadono a pregiudizi privati. E attraverso questa via tornano a essere non più rappresentazioni della realtà ma di noi stessi. Ma poi, proprio perché confinate in noi stessi finiscono per diventare di nuovo visioni del mondo che non vogliono confrontarsi con i fatti. È il vecchio bisogno di appartenenza, che però non è affatto etnico, ma è mentale e culturale. Ho una sensibilità di destra? Mi preoccupo della mia identità culturale e non mi importa delle cifre. Ho una sensibilità di sinistra? Mi preoccupo dei diritti delle minoranze -oggi le donne, domani chissà- e non mi importa delle cifre. Strano percorso, strana giostra. Le idee degradate a ossessioni personali finiscono per rivendicare la loro natura di rappresentazioni culturali. Oscillando troppo ci agganciamo a un’ancora mentale e finiamo nel fondo del mare, ancora una volta.

Il dolore non è solo dolore

Cos’è il dolore? Come definireste quella sensazione spiacevole che identificate come dolore? Soprattutto, lo definireste in relazione esclusivamente alla sensazione somatica (per lo più tattile) che evoca?

 

Cos’è il dolore? Come definireste quella sensazione spiacevole che identificate come dolore? Soprattutto, lo definireste in relazione esclusivamente alla sensazione somatica (per lo più tattile) che evoca? Penso di no, quello che è chiaro e fuori ogni dubbio quando provate dolore è che esso non si limita ad essere una semplice sensazione, ma riguarda qualcosa di più che tocca il vostro pensiero e la vostra emotività.

La definizione di dolore della IASP (International Association for the Study of Pain) mette in rilievo la sua componente esperienziale e cognitivo/affettiva, infatti lo definisce “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”, tuttavia in letteratura e nella pratica clinica ancora oggi è spesso considerato solo nella sua componente sensoriale. Tanto che, per esempio, uno dei più influenti ricercatori e teorici sul tema nel 2005 scriveva:

We are so accustomed to considering pain as a purely sensory phenomenon that we have ignored the obvious fact that injury does not merely produce pain; it also disrupt the brain’s homeostatic regulation systems, thereby producing “stress” and initiating complex programs to reinstate homeostasis” (Melzack, 2005, pag. 89).

Il dolore dal punto di visto fisiologico

Il dolore quindi non si limita ad essere una “semplice” sensazione, ma causa un complesso fenomeno di risposta omeostatica che interessa un network cerebrale e fisiologico complessissimo, che riguarda tutti i livelli di (ri)trasmissione dell’impulso nervoso (vedi figura 1)

Il dolore oltre l aspetto fisiologico: componenti psicologiche, cognitive ed emozional_Fig 1

Figura 1- tratta da Schweinhardt et al., 2010.

 

Questo network altamente riverberante e ad ampio spettro ci fa capire la complessità della risposta dolorifica, ma anche la sua validità filogenetica, dato che tutti i livelli di ritrasmissione, perfino quelli più “antichi” partecipano a definire la nostra esperienza dolorifica. Vi basti pensare che le fibre C (cellule nervose caratteristiche del sistema dolorifico) sono presenti anche negli invertebrati (Kumazawa, 1998). Il network, come si evince dalla figura, va a toccare aree del sistema nervoso centrale che partecipano a livello psicologico e soggettivo a definire la parte cognitiva, emotiva e di risposta fisiologica/omeostatica dell’esperienza dolorifica. Cercheremo di descrivere brevemente ognuna di queste componenti, che appaiono essere rappresentate a livello biologico nel nostro sistema nervoso, ma che dobbiamo ancora scoprire come si manifestano a livello psicologico e comportamentale.

Dolore: aspetti attentivi e di risposta omeostatica

Pensate un secondo a quando vi capita di urtare per sbaglio uno spigolo con la vostra mano, percepite immediatamente dolore e rivolgete la vostra attenzione subito verso la parte del corpo dolorante e, al contempo, ritraete rapidamente la mano. Tutto questo procedimento lo fate immediatamente e senza pensarci. In altre parole, provare dolore ci fa interrompere qualsiasi attività e catalizza tutte le risorse attenzionali verso la fonte dolorifica (Price, 1988). L’attenzione è così importante nel definire come percepiamo lo stimolo che utilizzando tecniche di distrazione, si riduce sensibilmente l’intensità dolorifica percepita e la tolleranza (per esempio è stato utilizzato efficacemente il visore di realtà virtuale – vedi Sil et al, 2014). La cattura dell’attenzione non si realizza casualmente, ma è finalizzata a determinare una risposta nei confronti della fonte dello stimolo doloroso. Detto in altri termini: l’attenzione è un meccanismo di selezione per l’azione: quando sentiamo dolore ne consegue una spinta “arcaica” finalizzata alla fuga dalla fonte dello stimolo nocivo (Ercolani e Pasquini, 2007). Questa “spinta” ovviamente è sostenuta dall’attivazione del nostro sistema omeostatico (HPA) che si attiva quando il nostro sistema rileva uno stimolo stressogeno, di cui il dolore è il miglior rappresentante.

Non è di per sé sorprendente osservare che il dolore catturi in toto la nostra attenzione e che il suo fine principale sia quello di attivare sistemi di regolazione omeostatica che hanno l’obbiettivo di rispondere o fuggire alla fonte dello stimolo. Se ci pensiamo, il dolore può essere considerato il “senso” più ancestrale di cui dispone il nostro sistema per interfacciarsi con l’ambiente, ed è il più importante perché ci permette di preservare la nostra integrità. Non sembra un caso che il nostro SNC abbia “costruito” un network così complesso e ampio per fronteggiare e processare il dolore (figura 1).

Aspetti cognitivi, emozionali e psicopatologici del dolore

Pensate ad un giorno in cui avete avuto un dolore persistente alla testa, che non vi lasciava in pace, ve lo siete trascinato fino alla sera fin quando non vi siete coricati. Se ci riflettete, scommetto che riuscirete a ricordarvi che in quel giorno eravate nervosi, oppure eravate leggermente depressi, sicuramente il dolore avrà condizionato la vostra giornata. Ora, se riprendiamo la definizione proposta dalla IASP, troviamo che il danno tissutale può essere in atto o potenziale. Questo è un punto fondamentale perché vuol dire che la nostra percezione del dolore è influenzata dalla nostra interpretazione e valutazione. Quando noi proviamo dolore, soprattutto a livello cronico, il sintomo che più spesso vi si associa è l’ansia. Paura ed ansia portano il paziente ad anticipare il dolore che proverà, esacerbando di conseguenza la sensazione. Inoltre, l’ansia anticipatoria correlata al dolore, può portare a gravi livelli di disabilità, poiché conduce all’evitamento massivo di tutte quelle situazioni e luoghi (anche lavorativi e scolastici) dove il soggetto ha sperimentato dolore (Gatchel et al., 2007).

La depressione è forse il sintomo più comune, secondo la  letteratura essa è presente in una percentuale che varia tra il 40% e il 50% nelle persone che soffrono di dolore cronico. Tuttavia, non sembra essere tanto la sensazione dolorifica in sé a generare lo stato depressivo, quanto le difficoltà nel farvi fronte e le ricadute sulla vita quotidiana. Ancora una volta non è la sensazione dolorifica a determinare una disfunzionalità quanto l’esperienza di dolore in generale.

Infine, insieme all’ansia e alla depressione troviamo la rabbia, che nell’individuo con sofferenza cronica di solito viene repressa (Okifuji e colleghi, 1999), perché socialmente indesiderabile, questo conduce ad una maggiore probabilità di trovare soggetti che rivolgono la rabbia verso se stessi piuttosto che verso gli altri. Anche in questo caso il nostro stato emotivo (rabbia) e il giudizio della situazione sociale determinano in modo importante il modo in cui esprimiamo e processiamo la nostra esperienza dolorifica.

Insieme a questi fenomeni cognitivo-affettivi abbiamo costrutti “puramente” cognitivi. Tra i più importanti troviamo le credenze e la tendenza a catastrofizzare. Un modello a mio parere interessante che cerca di fondere aspetti cognitivi ed affettivi in modo abbastanza coerente è quello proposto da Vlaeyen e Linton (2000) conosciuto anche come Fear-avoidance Model (figura 2).

Il dolore oltre l aspetto fisiologico componenti psicologiche, cognitive ed emozionali_fig2

Figura 2. Tratta da Vlaeyen e Linton (2000)

Nello schema semplificato che vedete (figura 2), si può osservare come la tendenza a catastrofizzare sia centrale nel definire la paura associata alle esperienze dolorifiche, al contempo però la catastrofizzazione dipende dalla affettività negativa e da come viene valutata la malattia (o lo stimolo doloroso). Senza addentrarci nella spiegazione di questo sistema di elaborazione delle informazioni, appare importante sottolineare come questo modello metta in evidenza la natura estremamente multicomponenziale dell’ esperienza dolorifica e il fatto, ormai non più trascurabile, che il dolore non si esaurisca nella sua componente sensoriale.

Prima di concludere sarebbe opportuno chiarire un punto importante, che potrebbe portare a fraintendimenti: quando scrivo di “secondarietà” dell’aspetto sensoriale, non vorrei lasciar intendere che il dolore come espressione nocicettiva non debba essere trattato; anzi, il primo passo per migliorare la sofferenza di un individuo è consentirgli di non provare più dolore. Quello che spero di aver trasmesso è il fatto che, soprattutto in condizioni di cronicità, il dolore come nocicezione è solo la punta dell’iceberg di un complesso sistema di valutazione ed espressione.

Volutamente ho tralasciato la componente sociale, che meriterebbe una discussione a sé. In quest’ultimo campo infatti si stanno facendo passi avanti enormi, sia a livello clinico che di pura speculazione scientifica. Un esempio su tutti: lo stile di attaccamento influenza in modo importante le modalità di espressione e processamento dell’esperienza dolorifica.

Il dolore è forse l’esperienza soggettiva più difficile da spiegare. Tanti hanno provato a definirlo ma pochi hanno colto nel segno come la definizione che segue, che in parte riassume tutto quello finora illustrato:

Il dolore si differenzia molto chiaramente dagli altri sistemi sensoriali poiché nell’elaborazione di una percezione identificata come dolore, la sensazione, l’emozione e la cognizione (anche sociale, ndr) sono strettamente legate (Le Bars e Willer, 2004, pag. 3)

Il problema di San Paolo – Ciottoli di Psicopatologia Generale

E’ di facile osservazione in psicoterapia e, per non andare lontano, nella nostra vita quotidiana la presenza di comportamenti che si ritengono utili ma, nonostante si sia effettivamente convinti della loro bontà e giustezza, non si riescono a mettere in atto. Al contrario ce ne sono altri che, pur valutati inutili e dannosi, non si riesce ad interrompere.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il problema di San Paolo (Nr. 24)

Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Romani 7,18-19).

 

La difficoltà di interrompere comportamenti dannosi

Sia gli uni, il buono che non si pratica, sia gli altri, il cattivo che non si abbandona attraversano il territorio della patologia come quello della normale vita quotidiana. Ne sono classici esempi: non seguire una dieta o non fare attività fisica nonostante lo si ritenga importante, non smettere di fumare, bere o assumere cibi o sostanze dannose e, più in generale non abbandonare tutte le cosiddette cattive abitudini e non praticare quelle che all’opposto si ritengono buone. Non interrompere relazioni o progetti che provocano danni e sofferenza e non intraprenderne altri evidentemente vantaggiosi.

Se poi si entra nel campo della psicopatologia appartengono a questa categoria tutti i sintomi (un evitamento fobico, un rituale ossessivo, un’abbuffata, ecc.) tant’è che il paziente intraprende una terapia proprio per eliminare comportamenti che lui stesso ritiene negativi e viceversa per assumerne altri che ritiene virtuosi.

Al danno poi si aggiunge la beffa quando il soggetto se la prende con se stesso (rabbia) o si svaluta (tristezza) per non riuscire a fare ciò che ritiene buono e giusto raggiungendo quel doppio stato di sofferenza che gli autori di scuola salernitana defininiscono come il mood del “cornuto e mazziato”caratterizzato da tutti quei rimproveri che si fanno a se stessi per non essere o comportarsi come si vorrebbe e che in terapia cognitiva si definiscono “problemi secondari” per intendere che diventa un problema pure avere il primo problema (fonte ispiratrice della fortunata serie “senza pace”).

E’ da comprendere meglio per poterlo superare lo iato esistente tra il capire e l’agire di conseguenza che nella vita di tutti i giorni o in terapia ci viene riferito o raccontiamo a noi stessi con frasi del tipo “ non ce la faccio!”, “E’ più forte di me!”, “Vorrei, dovrei, ma non posso, non riesco”. Insomma, il materiale di cui sono fatte le buone intenzioni destinate a rimanere tali per essere utilizzate per la pavimentazione delle strade che conducono ai nostri inferni privati.

I comportamenti negativi hanno dei vantaggi immediati ai quali non si intende rinunciare

In primo luogo bisogna capire che anche il comportamento giudicato negativo comporta dei vantaggi e delle ricompense immediate, non è dunque senza senso: solo prendendolo sul serio, trattandolo con rispetto e ascoltando i suoi motivi si può gestirlo, non certo bollandolo come folle, insensato e, peggio, fuori dal nostro controllo. Ciò è importante perché i bisogni a cui, pur malamente e con troppi effetti collaterali, risponde andranno pur soddisfatti in qualche altro modo. L’alcol e la nicotina come pure gli evitamenti e le compulsioni procurano nell’immediato una piacevole riduzione della tensione ansiosa. Insomma funzionano e come!

Esaminiamo i modi di funzionare innati nella specie umana che ci impediscono di passare dallo stato attuale, reputato negativo allo stato desiderato.
Tutti i processi di scelta sono guidati da un automatico e rapidissimo bilancio costi/benefici delle varie alternative e la scelta cade infine su quella che ha più vantaggi e meno costi. Il più delle volte e soprattutto per le questioni più importanti tale bilancio è attuato a livello sottocorticale, fuori dalla consapevolezza e si fonda su apprendimenti antichissimi sia nella filogenesi che nell’ontogenesi. Insomma è decisivo quello che hanno imparato i nostri lontani progenitori e noi stessi da piccolissimi.

Tre bias intervengono però a inficiare questo processo se non viene fatto a freddo a tavolino ma in diretta nell’impellenza del vivere.
Il primo è che il peso emotivo negativo delle perdite è pari esattamente al doppio di quello positivo di un guadagno della stessa entità. Lo spread tra i due è molto elevato (oltre 200 punti base). Il chè se è stato evolutivamente vantaggioso facendoci prudenti e attenti soprattutto a non prenderle, ci rende anche tendenzialmente conservatori e diffidenti del cambiamento perché ciò che si perderebbe lasciando il comportamento attuale è soppesato con la valuta pesante delle perdite mentre i vantaggi dello stato desiderato hanno il cambio svalutato dei guadagni.

Il secondo è che mentre il danno della perdita è sicuro e soprattutto immediato, il vantaggio dello stato desiderato è spostato nel futuro e neppure assolutamente certo. Il fondatore della psicoterapia cognitiva Aaron Beck esprimeva questo concetto centrale con la sua celebre frase “ the egg is here and now, the chicken perhaps tomorrow but I don’t know” che riporto controvoglia in inglese perché la traduzione in italiano è meno pregnante ma sta a significare che la certezza rappresenta un fattore importante nel determinare la preferenza di qualcosa rispetto a qualcos’altro. Il piacere di una buona bevuta, di una sigaretta, una canna o una scopata come Dio comanda, è immediato e certo, mentre la cirrosi, il cancro al fegato o ai polmoni, i sensi di colpa e le legnate del di lei marito non sono affatto certi e comunque non imminenti e con l’ottimismo infondato che anima la nostra specie circa la nostra possibilità di controllo sugli eventi tendiamo a pensare che non capiterà di certo a noi e comunque tocca anche a chi non fuma, non beve e si comporta secondo codice penale e galateo.

Il terzo è che per cambiare il corso naturale degli eventi sono necessari più motivi (circa il doppio) di quanti ne servano per lasciare le cose come sono. Solo un intervento attivo sembra comportare la responsabilità mentre a rigor di logica, la passività è altrettanto responsabile. Sono ben noti gli esperimenti sulla difficoltà ad azionare uno scambio sulle rotaie di un treno impazzito che causerà la morte di un certo preciso individuo pur salvandone altri. Sembra che alla fin fine si tenti di scongiurare più la propria responsabilità che i fatti in sé (gli ossessivi insegnano).

Cosa fare?

Come si può risolvere il problema di Paolo da soli o con l’aiuto di un terapeuta senza necessariamente fondare una religione ed una Chiesa che nella convulsa vita moderna è poco pratico?

Il primo passo è riappropriarsi dell’agentività sul comportamento problematico evidenziando gli scopi che persegue e i vantaggi che comporta per vedere se siano ottenibili in altri modi più egosintonici. Non dirsi scempiaggini tipo “lo faccio per danneggiarmi”, “ perché sono masochista”, “ perché non mi voglio bene”. Un comportamento può avere effetti collaterali dannosi e financo letali ma sono appunto costi indesiderati del perseguimento di qualcosa giudicato molto importante anche se non è evidente immediatamente alla consapevolezza.

Il secondo passo è descrivere lo stato attuale in termini di perdite che comporta immediatamente nel presente piuttosto che di costi o minacce future che forse implicherà. Smetterò di fumare non per il possibile cancro ai polmoni ma per gli amplessi che il mio partner oggi mi nega se puzzo di nicotina o per la cattiva immagine che do di me stesso comportandomi da dipendente oppure per le perdite di viaggi, spettacoli e luoghi cui debbo rinunciare per non poter stare senza sigarette. Anche l’utilizzo di rinforzi positivi da associare ai comportamenti virtuosi e punizioni ai comportamenti negativi hanno efficacia solo se in un ambito temporale molto ristretto e certi. Il malessere che provoca il disulfiram dopo l’assunzione di alcol è efficace per smettere più dello spettro di una morte per cirrosi perché si manifesta subito, non è una possibilità spostata in un incerto futuro. Nel fare i bilanci che orientano le scelte siamo particolarmente miopi e partiamo da due assunti appartenenti alla tradizione stoica secondo cui “oggi ci siamo e domani vai a sapere!” ed epicurea che ci ricorda che “ogni lasciata è persa”.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

La visione condivisa di film e serie TV fa bene alla coppia

Una squadra di psicologi della University of Aberdeen guidata da Sarah Gomillion afferma che il divertimento condiviso dalle coppie nel guardare la TV, i film e leggere libri insieme può contribuire a favorire i sentimenti di vicinanza e di identità sociale condivisa.

 

Gli effetti positivi della condivisione di serie tv in coppia

Mia moglie ed io eravamo ridicolmente eccitati nell’attendere di vedere insieme il recente finale di stagione di Game of Thrones. Avevamo visto tutti i precedenti sessantasei episodi insieme, e i personaggi erano quasi entrati a far parte della nostra vita”.

Trascorrere il nostro tempo insieme in questo modo è sempre stato piacevole, ma la conferma arriva da una squadra di psicologi della University of Aberdeen guidata da Sarah Gomillion, che afferma che il divertimento condiviso dalle coppie nel guardare la TV, i film e leggere libri insieme può contribuire a favorire i sentimenti di vicinanza e di identità sociale condivisa.

Gli stessi psicologi che hanno condotto questa ricerca, aggiungono che i vantaggi di vedere film e TV insieme possono essere particolarmente evidenti per le coppie che hanno una vita sociale scarsamente condivisa.

In questo studio i ricercatori hanno chiesto a 259 studenti impegnati in una relazione monogama della durata media di 16 mesi, di compilare questionari sulla qualità della loro relazione, indagando quanti erano gli amici comuni e quanto tempo avevano trascorso a guardare spettacoli televisivi o film insieme.

I partecipanti che hanno dichiarato di avere più amici in comune con il loro partner hanno anche valutato il loro rapporto in modo più positivo, così come quelli che hanno affermato di aver trascorso più tempo insieme a vedere TV o film, anche se quest’ultima variabile era più debole.

Tuttavia, i partecipanti che hanno affermato di avere pochi amici in comune con il loro partner, hanno dichiarato che la condivisione di TV o film insieme è fortemente associata alla valutazione positiva del loro rapporto, inclusa una più elevata interdipendenza, una più sentita vicinanza e maggiore fiducia nel rapporto. Quest’ultima associazione è rimasta statisticamente significativa anche dopo aver controllato il tempo complessivamente trascorso insieme.

Successivamente, i ricercatori hanno chiesto ad altri 128 partecipanti, di trascorrere del tempo a pensare agli amici in comune con il partner o a pensare a tutti gli amici non in comune; sono stati anche invitati a guardare insieme al proprio partner film e serie TV: questo ha aumentato la motivazione a condividere i film e TV con il partner e ha influenzato la stima della qualità della relazione in senso positivo.

I partecipanti che sono stati invitati a pensare alla mancanza di amici in comune nel mondo reale tendevano a riferire un maggiore interesse a vedere serie TV insieme al partner, come se avessero intuito l’utilità nell’aumentare la qualità della relazione di coppia.

Secondo i ricercatori sarà utile in futuro esplorare i potenziali vantaggi dei media per le relazioni, avendo anche presente il rischio che l’eccessivo consumo e condivisione in coppia dei media possa portare all’isolamento sociale, limitando le opportunità di condividere altri tipi di esperienze sociali di coppia.

 

Intervista a Paolo Michielin, docente di Psicologia clinica all’Università di Padova

Paolo Michielin, lei è stato il primo presidente dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, nell’ormai lontano 1990. Che cosa ricorda e che cosa è rimasto nella psicologia professionale italiana di quell’esperienza?

Il mondo della psicologia professionale che aveva ricevuto con la legge n. 56/1989 un riconoscimento e un ordinamento attesi da decine di anni, arrivava a questo appuntamento diviso, e a volte in conflitto, tra ambiti di intervento e approcci diversi. Ho dovuto quindi puntare su un dialogo, un’apertura e un rispetto di tutte le diverse anime della psicologia per formare un’identità comune, per far emergere le ragioni dello stare insieme. Fondamentali passaggi di questo percorso sono stati il Codice deontologico e il Nomenclatore tariffario, che definisce cosa fa e, dunque, chi è lo psicologo.

 

Parliamo di psicoterapia: che cosa è cambiato in questi anni? La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) che è sempre stato il suo modello culturale di riferimento, è molto cambiata in questi 25 anni.

La ricerca sull’efficacia teorica e sull’efficacia nella pratica dei trattamenti si sta imponendo come metodologia di base anche in altri modelli psicoterapeutici, oltre che nella TCC, e credo che questo sia un processo molto positivo.  A sua volta la CBT si è arricchita di dimensioni e termini che all’inizio della sua storia non erano parte essenziale del bagaglio tecnico e culturale, come la relazione terapeutica. Una nuova generazione di terapia cognitivo-comportamentale si è sviluppata: parliamo di Schema Therapy, di ACT, di Mindfulness Based Therapies, di Terapia Metacognitiva, di EMDR;  ma parliamo anche di termini come amore, compassion e self compassion che ormai sono entrati nel linguaggio di molte forme di CBT.  Questa positiva evoluzione ha determinato anche spinte centrifughe per cui credo che, nel mondo cognitivo-comportamentale, sia necessaria la stessa opera di conoscenza reciproca, di dialogo e di rispetto che ho portato avanti nell’Ordine; un’opera che ci consenta di riscoprire le radici scientifico-culturali comuni, le finalità e i metodi condivisi, e di abbandonare partigianerie e pretese di superiorità.

 

Lei è un uomo delle istituzioni e che ha sempre lavorato dentro le istituzioni. Come vede ora la situazione della psicologia e della psicoterapia nel Servizio Sanitario Nazionale, anche in relazione alle sperimentazioni che stanno avvenendo con successo in altri paesi?

La psicologia è parte essenziale del sistema sanitario e il suo contributo diventerà sempre più importante nel tempo; penso ai temi dell’assistenza psicologica ai bambini e agli adolescenti, decisiva per il loro futuro e che deve essere potenziata, o ai pazienti fragili, con malattie croniche e invalidanti. Per ampliare i nostri ambiti di intervento (e le possibilità occupazionali) è necessario mostrare che i trattamenti psicologici sono effettivamente realizzabili, efficaci, apprezzati dai pazienti ed economicamente vantaggiosi. Recentemente è uscito un libro curato dagli amici Giusi Maiani e Giorgio de Isabella, purtroppo prematuramente scomparso, che parla dei vantaggi che la psicologia può offrire alla medicina e alla salute in genere e mostra anche il rapporto costo-efficacia dei nostri interventi. Nei servizi che ho diretto mi sono impegnato a mostrare che, con risorse ragionevoli, è possibile individuare e curare le donne con depressione post-partum, assistere a domicilio i pazienti fragili e le loro famiglie, limitando di molto la necessità di ricovero, sostenere i minori che vivono in famiglie a rischio e i loro genitori, senza che diventi necessario l’inserimento in una comunità… Un modello di riferimento validissimo, che sarebbe entusiasmante riuscire ad applicare in Italia, è lo IAPT-Improving Access to Psychological Therapies; nel Regno Unito esso assiste ogni anno quasi un milione di persone con disturbi emotivi comuni ed impiega migliaia di psicoterapeuti, prevalentemente di formazione cognitivo-comportamentale.

 

Quali competenze deve avere uno psicologo-psicoterapeuta per partecipare a questo processo di sviluppo dell’assistenza sanitaria?

Ci sono competenze “di sistema” che sono la capacità di lavorare in gruppi multiprofessionali, di integrarsi in organizzazioni complesse, condividendone gli scopi e i modi di funzionare, di fare progetti, di prendere dimestichezza con risorse e costi, di documentare l’utilità del proprio lavoro. Per quanto riguarda, invece, le specifiche competenze psicoterapeutiche, ricordo che gli unici requisiti per lavorare nel SSN sono aver concluso un corso di specializzazione riconosciuto ed essere autorizzati alla psicoterapia. Non occorrono ulteriori certificazioni, patentini o iscrizioni ad elenchi di società: sta alla coscienza e alla responsabilità del singolo psicologo utilizzare, come dice il Codice deontologico, solo metodologie e tecniche nelle quali sia adeguatamente preparato ed aggiornato. Questa acquizione di competenze, soprattutto per le tecniche nuove, è facilitata non solo dalla disponibilità di corsi, master…, ma anche dall’esistenza di manuali di trattamento e dalla collaborazione con colleghi già formati. E, a mio giudizio, il bagaglio di competenze dello psicoterapeuta cognitivo-comportamentale dovrebbe essere sufficientemente ampio, non limitato a un’unico metodo o tecnica: per rispondere ai bisogni specifici di ciascun paziente è necessario utilizzare un insieme di tecniche diverse, quelle appunto più adatte a lui. Tra queste tecniche, vorrei spendere una parola a favore delle più consolidate e sperimentate, come ad esempio l’attivazione comportamentale, che oggi magari sono meno “di moda” ma che restano fondamentali nel nostro bagaglio.

 

In Italia ci sono due storiche associazioni di CBT, la SITCC e l’AIAMC. Sappiamo che lei si è candidato per la presidenza di quest’ultima. Come mai ora?

Credo, come dicevo, che all’interno del complesso e variegato mondo cognitivo-comportamentale sia necessaria un’opera di dialogo fattivo e rispettoso tra le diverse componenti, che altrimenti rischiano di andare ognuna per conto proprio, e sia opportuno riscoprire le radici e le prospettive comuni, la necessità e l’utilità di stare insieme. Nello stesso tempo, credo che le società scientifiche dovrebbero promuovere di più la partecipazione dei soci, stimolarne la crescita scientifica e professionale, e offrire molti più servizi utili alla loro pratica quotidiana. Per quanto riguarda, infine, l’AIAMC, associazione composta prevalentemente da psicologi clinici, penso che ora sia necessario un presidente di estrazione clinica, dopo due presidenti che hanno certamente solide competenze, ma uno in ambito metodologico-statistico e l’altro nella psicologia del lavoro.

 

 

 

— Aggiornamento di Mercoledì 27 Settembre 2017 —

Pubblichiamo una precisazione del Prof. Aristide Saggino all’intervista di State of Mind a Paolo Michielin. [NdR]

 

Gentilissimi,
ho letto sul sito State of mind l’ntervista al Dott. Paolo Michielin nella quale appare la frase “Per quanto riguarda, infine, l’AIAMC, associazione composta prevalentemente da psicologi clinici, penso che ora sia necessario un presidente di estrazione clinica, dopo due presidenti che hanno certamente solide
competenze, ma uno in ambito metodologico-statistico e l’altro nella psicologia del lavoro.” Io sarei quello con solide competenze metodologico-statistiche. Pur ringraziando per le solide competenze, vorrei farrilevare quanto segue:
1) sono inserito nell’elenco degli psicoterapeuti e quindi per le leggi italiane sono a tutti gli effetti uno psicoterapeuta;
2) ho la specializzazione post-laurea in Psicologia Clinica presso l’ Università La Sapienza di Roma e quindi sono uno Specialista in Psicologia Clinica (sempre per la Repubblica italiana);
3) sono un Professore Ordinario di Psicologia e non di Statistica. Basterebbe una sia pur minima conoscenza degli ordinamenti accademici italiani per sapere che i raggruppamenti preceduti dalla sigla M-PSI, come quello cui appartengo, sono tutti raggruppamenti di insegnamenti psicologici, laddove quelli statistici sono
preceduti dalla sigla SECS.
4) last but not the least, sono anche responsabile del conto terzi di terapia cognitivo-comportamentale della Università di Chieti-Pescara.
Tenendo conto di tutti questi elementi di fatto la frase riportata all’inizio non rappresenta assolutamente le mie capacità professionali. Sarebbe come dire che un cardiologo universitario è uno statistico o un metodologo solo perchè oltre a fare il cardiologo si occupa anche di ricerca cardiologica!

Con viva cordialità,
Aristide Saggino
Professore Ordinario di Psicologia Generale,
Psicobiologia e Psicometria,
Università di Chieti-Pescara

 

— Aggiornamento di Giovedì 28 Settembre 2017 —

Pubblichiamo una replica del Prof. Paolo Michielin alla precisazione del Prof. Aristide Saggino. [NdR]

Il prof. Saggino insegna Tecniche di analisi dei dati, materia che appartiene al Settore Scientifico Disciplinare M/PSI03 che fa parte del maxi gruppo 11/E1. Il settore di Psicologia clinica, cui il mio insegnamento Psicologia Clinica appartiene,  (M-PSI/08) è molto lontano concettualmente.

11/E – Psicologia 11/E1 – Psicologia generale, psicobiologia e psicometria M-PSI/01 – Psicologia generale
M-PSI/02 – Psicobiologia e psicologia fisiologica
M-PSI/03 – Psicometria
11/E2 – Psicologia dello sviluppo e dell’educazione M-PSI/04 – Psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione
11/E3 – Psicologia sociale, del lavoro e delle organizzazioni M-PSI/05 – Psicologia sociale
M-PSI/06 – Psicologia del lavoro e delle organizzazioni
11/E4 – Psicologia clinica e dinamica M-PSI/07 – Psicologia dinamica
M-PSI/08 – Psicologia clinica

Il focus della mia intervista è una panoramica che abbraccia la nascita della professione di psicologo e il futuro della psicoterapia, in Italia e all’estero. Alla presidenza AIAMC, in tutta l’intervista, sono dedicate poco più  di 2 righe. Quelle di Saggino più che precisazioni sono autoproclamazioni di competenze, che nessuno aveva messo in dubbio, e che sono impertinenti con i temi  dell’intervista.

Prof. Paolo Michielin, docente di Psicologia Clinica

Congresso del European Council for Eating Disorders – ECED a Vilnius (Lituania), 7-9 Settembre 2017 – Report

È la prima volta che una conferenza internazionale sui disturbi alimentari (DA) si svolge nell’area dell’ex Unione Sovietica; area geografica nella quale pare esserci molto fermento culturale finalizzato all’apprendimento di approcci terapeutici efficaci. Il tema principale della conferenza è stato quello dei DA nei setting multiculturali; tema decisamente interessante con cui sempre con maggiore frequenza i professionisti della salute mentale si confrontano.

 

L’efficacia della MBT nel trattamento dei pazienti borderline con disturbi alimentari

Dopo l’introduzione di Aurelius Veryga (Ministro della Salute Lituano), Hubert Lacey (fondatore dell’ECED), Brigita Baks (responsabile del comitato scientifico), Dainius Puras (Relatore Speciale dell’ONU sul diritto alla salute) e di Martynas Marcinkevicius (direttore del centro di salute mentale di Vasaros in Lituania), prende la parola il Prof. Paul Robinson dello Univeristy College of London – UCL per la sua lezione magistrale sul Mentalisation-Based Treatment for Eating Disorders (MBT-ED).

Dopo una rapida introduzione sulla Mentalization-Based Therapy (MBT), il Prof. Robinson illustra un RCT multicentrico (NOURISHED study) nel quale, insieme al suo gruppo di lavoro, ha confrontato il trattamento MBT-ED con una gestione specialistica di supporto clinico (Specialist Supportive Clinical Management – SSCM-ED) in pazienti con DA e Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Sebbene l’alto tasso di drop-out – solo il 22% dei soggetti ha completato il follow-up a 18 mesi – abbia reso i risultati di difficile interpretazione, gli autori hanno riscontrato un miglioramento clinico nella sintomatologia generale e specifica dei DA.

Alla fine della relazione vado via con alcune perplessità sull’efficacia – anche prospettica, e spero di essere smentito negli anni a venire – dell’approccio descritto in una popolazione clinicamente complessa (e con una psicopatologia “specifica”) come i DA. Se confrontiamo questi dati con quelli che la MBT ha ottenuto nel trattamento del DBP, infatti, il drop-out si assesta intorno al 12% e i miglioramenti clinici appaiono decisamente più consistenti.

Attaccamento, regolazione emotiva e il Sè nei pazienti affetti da disturbi alimentari

Il secondo giorno di lavori, dopo un dibattito sulla necessità dei ricoveri obbligatori per i pazienti con DA, vede il susseguirsi di diversi seminari clinici tra i quali quello di alcuni colleghi scandinavi (i.e., Rasmus Isomaa, Andreas Birgegård, Emma Forsén Mantilla, Elin Monell) su “Attaccamento, regolazione emotiva e il Sé: un modello integrativo con esemplificazioni cliniche”. In questo seminario i colleghi illustrano un modello clinico dove invitano i clinici a riflettere su diverse componenti costitutive dei DA. Nello specifico, l’interazione tra modelli di attaccamento, regolazione emotiva, la relazione del paziente con il proprio DA, l’immagine del sé e i sintomi alimentari specifici. I colleghi, pur suggerendo un approccio terapeutico centrato sui sintomi, stimolano una riflessione complessa sull’interazione di questi fattori per un management clinico maggiormente efficace.

L’immagine corporea nei pazienti con disturbi alimentari

Nel pomeriggio, oltre alle sessioni parallele di poster, assisto al seminario di Gerard Butcher e Michel Probst (rispettivamente del “Cognitive Solutions Clinic” a Dublino e della University of Leuven) su “Il corpo come amico o nemico: la gestione pratica delle problematica relativa all’immagine corporea nei DA”. Nel corso del seminario, dopo una breve introduzione sul concetto di immagine corporea, l’attenzione viene focalizzata su come, non solo all’interno dei social network (Facebook e Instagram su tutti), l’immagine proposta del corpo maschile e femminile “thin and toned” (magro e tonico) sia praticamente onnipresente anche nelle riviste specifiche di attività non prettamente di “fitness” come lo Yoga. In effetti, su quest’ultimo punto ci sono anche alcune ricerche che testimoniano questa tendenza e, le implicazioni socio-culturali di tali messaggi.

Successivamente a questo cappello teorico, il seminario continua con alcune esemplificazioni di interessanti interventi clinici gruppali focalizzati sull’immagine corporea ai quali prendiamo parte.

Il terzo, e ultimo, giorno di lavori ci vede – come gruppo di lavoro – presentare un lavoro sulle variabili cognitive e metacognitive nei DA, dove abbiamo assunto che non solo il perfezionismo e la bassa autostima, ma anche altre credenze cognitive e metacognitive specifiche per l’ansia (e.g., il Worry) avrebbero discriminato tra soggetti con DA e un gruppo di controllo. Come obiettivo secondario dello studio, inoltre, abbiamo illustrato le possibili differenze – in particolare per quanto riguarda le variabili di Worry, Controllability e Perfectionism – tra i sottotipi di DA, con un focus specifico su Anoressia e Bulimia Nervosa. Vivace il dibattito con la platea, prevalentemente composta da terapeuti di orientamento psicodinamico, sui pro e contro dell’implementare la complessità del trattamento versus l’esplorazione di nuove direzioni. A nostro modo di vedere, infatti, un possibile percorso alternativo – per aumentare la comprensione clinica e migliorare l’efficacia terapeutica del trattamento dei DA – potrebbe includere l’esplorazione del ruolo dei processi metacognitivi nella genesi e nel mantenimento di tali patologie.

Il Congresso si conclude con un dibattito dal titolo “la focalizzazione sull’immagine corporea è una componente essenziale per il miglioramento clinico nei DA?” che vede Fernando Fernandez-Aranda (University of Barcelona) difendere il “si” e Cynthia Bulik (Karolinska Institutet), opporre un deciso “no”. La discussione con la platea è accesa e il dibattito estremamente stimolante. Per la maggior parte, i colleghi si schierano per il “si” con motivazioni che vanno dall’analisi di studi correlazionali tra i DA e l’insoddisfazione corporea al fatto che, in termini nosografici, la componente “immagine corporea” sia presente in tutti i manuali della American Psychiatric Association (APA).

C’è da dire che il concetto di immagine corporea non è limitato soltanto all’insoddisfazione corporea, alla forma corporea, al body checking o all’essere felici del proprio corpo, ma risulta più ampio e inclusivo di dimensioni del sé quali, ad esempio, il self-concept o il self-scheme; in tale ottica, infatti, la discrepanza di risultati che riscontriamo in letteratura potrebbe derivare sia dalla vasta serie di strumenti e procedure di valutazione clinica, sia dalla notevole eterogeneità concettuale relativa a tale costrutto. D’altro canto, la Bulik sottolinea come i disturbi dell’immagine corporea siano clinicamente rilevanti nei campioni di pazienti con AN e, meno, nei pazienti con BN e DAI. Inoltre, citando Caterina da Siena, si ipotizza la scarsa riuscita di un trattamento psicoterapico focalizzato sull’immagine corporea, data la presenza di una forte componente ascetica e non focalizzata su un aspetto prettamente relativo a forme corporee, ponendo contestualmente la variabile culturale come dirimente nella genesi di problematiche relative alla body image. In definitiva, la Bulik suggerisce di non considerarla come componente “essenziale” ma, piuttosto, come una variabile da trattare quando presente.

Il dibattito, finito con delle votazioni vere e proprie (per alzata di mano), vede vincitore di gran lunga Fernandez-Aranda e il “si”.
Personalmente, concordo con una visione cauta (non ecumenica) e, in linea di massima – dovendo proprio scegliere – sceglierei la posizione della Bulik con la motivazione principale della penuria di studi clinici a supporto dell’”essenzialità”. Se osserviamo la letteratura CBT sull’argomento, infatti, possiamo notare come, oltre alla componente non trascurabile di una definizione univoca e per quanto possibile “netta” del costrutto, quando è stato confrontato l’intevento CBT-E (enhanced cognitive therapy) con uno CBT con una componente di ristrutturazione cognitiva incentrata sull’immagine corporea (CBT-C), entrambi i trattamenti sono risultati altrettanto efficaci sulla variabile dell’immagine corporea sia al post-trattamento che al follow-up di 4 mesi. Ovviamente ulteriori studi verranno condotti ma, allo stato attuale della ricerca, non mi sentirei di definire tale variabile come “essenziale” in tutto lo spettro dei DA.

 

Il congresso termina con un convivio a base di prodotti tipici lituani e, davanti al buffet imbandito, i contrasti del dibattito appena concluso sembrano appianarsi e assumere una luce diversa. Un plauso all’impeccabile organizzazione e alla determinazione dei colleghi lituani che hanno permesso uno svolgimento puntuale e rigoroso dei lavori nonché una piacevolissima permanenza in una stupenda capitale europea. A Parigi (2019)!

Presentazione delle Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione – Report dall’evento

Presentate a Roma il 7 settembre, presso il Ministero della Salute le Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’ alimentazione (DA).

Paola Medde

 

Anoressia e bulimia rappresentano un problema di crescente importanza per la sanità pubblica e per tutte le persone coinvolte (professionista, famiglia, paziente). Negli ultimi decenni si è registrato un abbassamento dell’età dell’esordio; ciò significa che individui sempre più giovani sono a rischio elevato di danni permanenti a seguito della malnutrizione, con conseguenze sullo sviluppo del sistema nervoso centrale, ancora in fase di completa formazione, e sull’apparato scheletrico.

Nella letteratura scientifica le linee guida costituiscono un insieme di raccomandazioni operative emergenti dall’analisi sistematica dei dati di studi clinici la cui utilità consiste, essenzialmente, nel “guidare” appunto operatori sanitari e specialisti nelle decisioni di intervento e orientare i pazienti nell’appropriatezza delle terapie in una prospettiva di trasparenza.

Ad oggi, consapevoli che ancora molto si deve fare, poiché nel campo dei Disturbi dell’alimentazione sono ancora pochi gli studi di ricerca sul trattamento nutrizionale, risulta prioritario – si legge in una nota del Ministero – “cercare di rendere omogeneo, sull’intero territorio nazionale, ogni intervento terapeutico e strutturare programmi multidisciplinari, validati, efficaci ed efficienti”.

Linee guida per la riabilitazione dei Disturbi dell’alimentazione - Report dall'evento - IMM. 2

Immagine 1 – Foto dall’evento Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione

Per questo, già nel marzo 2015, la Direzione Generale per l’Igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, guidata da Giuseppe Ruocco, ha istituito un Tavolo di lavoro, coordinato da Denise Giacomini, per la stesura delle prime “Linee di Indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con disturbi dell’alimentazione“, documento approvato in sede di Conferenza Stato Regioni a giugno 2017.

Linee guida per la riabilitazione dei Disturbi dell’alimentazione - Report dall'evento - IMM.1

Immagine 2 – Foto dall’evento Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione

Il Quaderno Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei pazienti con Disturbi dell’alimentazione (DA) rappresenta un manuale operativo per la valutazione nutrizionale e per la scelta terapeutica più opportuna, che deve comunque basarsi sulla continuità assistenziale e sulle attività dell’equipe multidisciplinare, tenendo conto delle caratteristiche multifattoriali e multidimensionali del disturbo. Nonostante il documento prodotto si focalizzi sui metodi e gli strumenti di valutazione e intervento nutrizionale, la prospettiva interdisciplinare rimane alla base del percorso diagnostico e terapeutico e, l’approccio integrato, inteso come più professionisti (psichiatra, psicologo-psicoterapeuta, nutrizionista etc) che con diverse competenze collaborano al trattamento di patologie complesse, non deve essere trascurato.

Se, infatti, nel caso dell’ anoressia si evidenzia la necessità di supplementi nutrizionali (integratori), nutrizione artificiale (sondino naso gastrico) a seguito della malnutrizione carenziale,  “per quanto riguarda le condizioni di malnutrizione legate alla presenza di crisi bulimiche e/o comportamenti di eliminazione e le condizioni in cui si può associare anche una malnutrizione per eccesso, più che di interventi nutrizionali si dovrebbe parlare di interventi di psico-educazione alimentare, che sono in genere parte costitutiva di tecniche di trattamento psicologiche come le terapie cognitivo-comportamentali”, si ribadisce nell’introduzione.

Il documento sui disturbi alimentari presentato al Ministero deve essere un riferimento importante per i professionisti che operano nel settore al quale deve seguire una riflessione seria sistematica e sperimentata su come procedere. Alla base del trattamento nutrizionale dei disturbi dell’ alimentazione è fondamentale l’approccio multidimensionale, interdisciplinare e pluriprofessionale integrato per una gestione programmata degli interventi nutrizionali, organizzata in modo da essere coordinata con le terapie mediche e psicologiche.

La pubblicazione rappresenta, inoltre, un ausilio per i professionisti del settore utile ad “intercettare” precocemente i pazienti grazie ad una collaborazione attiva con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta che, in modo sistematico parteciperanno attivamente al processo, al fine di ridurre il rischio di complicanze, ospedalizzazioni e cronicità.

Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento – Coscienza e comportamento

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Il ruolo delle convinzioni sul controllo cosciente del comportamento

Un’altra componente che influenza il controllo cosciente sul nostro comportamento sono le convinzioni che noi abbiamo circa le nostre capacità di controllo (Wells, 2009). Negli articoli precedenti abbiamo descritto alcuni esempi in cui comportamenti apparentemente incontrollabili possano essere esito di un controllo cosciente. Questa lettura distorta circa la controllabilità del comportamento non colpisce solo chi osserva il comportamento ma anche chi lo agisce.

Le convinzioni più studiate in questa direzione sono le credenze circa l’incontrollabilità del pensiero e del proprio comportamento (es. non riesco a smettere di rimuginare quando comincio, dentro di me c’è qualcosa più forte di me su cui non ho controllo, sono i miei impulsi a decidere le mie azioni).

Quale impatto hanno queste convinzioni sull’esercizio dell’autocontrollo? Negli ultimi dieci anni numerose ricerche hanno rilevato come ritenere che certi sintomi siano incontrollabili porta a intensificarli (per una revisione vedi Wells, 2013). In sintesi, il miglior modo per perdere il controllo è pensare di non avere controllo. Rispetto a diversi fattori predisponenti come temperamento, attaccamento o personalità le convinzioni di incontrollabilità sono elementi prossimali nella cascata che conduce al fallimento dell’esercizio efficace di autocontrollo.

Perché non cerchiamo di esercitare ogni giorno un controllo sul tempo atmosferico? Perché pensiamo che sia qualcosa fuori dal nostro controllo. Una convinzione magica circa la possibilità di influenzare il tempo atmosferico potrebbe indurci a esercitare uno sforzo in questo senso e provare a danzare intorno a un totem per evocare la pioggia. Al polo opposto, la convinzione che i nostri impulsi siano fuori controllo ci pone nella posizione peggiore per esercitare qualsivoglia forma di controllo efficace, uno stato di impotenza appresa rispetto ai propri automatismi. Ogni sforzo in una direzione di autocontrollo è percepito come inefficace e quindi superfluo. Si innesca una profezia che si auto-avvera: siccome non ho controllo sul mio comportamento, non esercito controllo, il mio comportamento appare impulsivo e privo di controllo e ciò conferma l’idea di non avere alcun controllo (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

L’esito finale solidifica una percezione di stabile impotenza verso ciò che ci accade dentro. Stati interni dolorosi, le reazioni a questi o addirittura le proprie scelte non ricadono sotto il dominio personale ma sono attribuiti agli scherzi del fato, all’intenzionalità avversa degli altri, alla propria ormai inflessibile natura genetica.

 

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


Le funzioni del sonno e l’effetto sulle funzioni cognitive

L’effetto del sonno è importantissimo sul potenziamento di altre funzioni cognitive come apprendimento, concentrazione e attenzione, e sulla capacità di partecipare attivamente alla vita sociale. Il riposo, inoltre, influisce sul mantenimento dell’equilibrio psico-emotivo della persona, stabilizzando il tono dell’umore, allentando le tensioni e riducendo i livelli di ansia e stress.

Ilaria Biasion, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Le fasi del sonno e le funzioni esecutive

Il sonno viene definito come uno stato comportamentale reversibile, caratterizzato da isolamento percettivo e assenza di responsività agli stimoli ambientali ma, al tempo stesso, un complesso insieme di processi fisiologici e comportamentali (Carskadon & Dement, 2005).
In base a misure polisonnografiche, il sonno è stato diviso nelle categorie REM e NREM, o sonno ad onde lente. I cicli del sonno sono detti così per via della loro associazione con la presenza (REM) o assenza (NREM) di rapidi movimenti oculari.

La maggior parte dei ricercatori sostiene che la principale funzione del sonno sia quella di promuovere lo sviluppo cerebrale e l’apprendimento. Durante questa fase, infatti, il cervello ne approfitta per eliminare le sostanze di scarto attraverso il sistema linfatico, il quale pompa liquor nei tessuti cerebrali ripulendoli dalle proteine tossiche accumulate durante il giorno. Tale processo è indispensabile poiché, ad esempio, l’accumulo di una di queste proteine, la beta amiloide, è correlata all’insorgenza di malattia di Alzheimer (Nedergaard et al., 2013).

Molte sono state, negli ultimi anni, le ricerche relative al sonno, le quali hanno portato alla comprensione di quale sia la sua importanza e quella relativa alla cura dei disturbi legati a questo processo fisiologico fondamentale. Tali disturbi sembrano avere un impatto enorme sull’efficienza mentale e in generale sulla qualità della vita delle persone. Grazie al crescente interesse nei confronti di questo tema, e allo sviluppo di laboratori specifici del sonno, gli studiosi hanno potuto diagnosticare e trattare, in modo efficace, un numero sempre crescente di pazienti riportanti disturbi del sonno. Una gestione ottimale di questi disturbi richiede, quindi, una comprensione globale dei meccanismi patologici che ne stanno alla base e ancora prima una buona conoscenza della fisiologia del sonno (Thien Thanh Dang-Vu, 2007).

Lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, negli ultimi decenni, ha fornito un importante strumento di ricerca non invasiva, consentendo il rilevamento di alterazioni anatomiche sottili e di variazioni del flusso sanguigno cerebrale, nonché, una comprensione circa la fisiologia del sonno umano, presentando mappe cerebrali funzionali delle diverse fasi (Maquet et al., 1997; Braun et al., 1997), e dando sostegno ad un suo ruolo nell’apprendimento e nella memoria (Peigneux et al., 2004).

L’importanza dello studio relativo ai disturbi del sonno nasce dalla considerazione di quanto esso sia essenziale per le prestazioni cognitive, in particolare gioca un ruolo fondamentale nel processo di memorizzazione (Maquet, 2001), poiché potenzia e riattiva le tracce mnestiche e le incorpora nei circuiti della memoria a lungo termine, favorisce i meccanismi di plasticità neuronale, influenza la capacità di prendere decisioni e di ragionare.

Non solo, ma l’effetto del sonno è importantissimo sul potenziamento di altre funzioni cognitive come apprendimento, concentrazione e attenzione, e sulla capacità di partecipare attivamente alla vita sociale. Il riposo, inoltre, influisce sul mantenimento dell’equilibrio psico-emotivo della persona, stabilizzando il tono dell’umore, allentando le tensioni e riducendo i livelli di ansia e stress.

Anche gli studi più recenti hanno evidenziato come la scarsa qualità del sonno si associ ad uno scarso funzionamento cognitivo, in particolare Nebes e collaboratori in uno studio del 2009 hanno riportato un’associazione con la riduzione delle funzioni esecutive.

La prevalenza media di persone che lamentano problematiche inerenti il sonno in età adulta varia tra l’8% e il 18% (Asplund & Aberg, 1998). Queste anomalie sono più frequenti con l’avanzare dell’età e colpiscono più le donne che gli uomini. I disturbi più significativi sono l’insonnia, l’apnea notturna, la narcolessia e la sindrome delle “gambe senza riposo”.

Gli Episodi di Sonnolenza Diurna (EDS) sono il sintomo più frequentemente riportato, durante il giorno, dai soggetti che presentano disturbi del sonno, e possono essere conseguenti a frammentazione del sonno notturno o sfasamento del ritmo circadiano.
Il sonno è quindi necessario per il normale funzionamento cerebrale, tuttavia non solo la qualità risulta essere importante, ma anche la quantità, infatti le persone che ne sono deprivate sono in grado di svolgere normalmente la maggior parte dei compiti cognitivi di breve durata, ma dopo due giorni di deprivazione, le prestazioni in compiti che richiedono elevati livelli di funzionamento peggiorano (Horne & Petit, 1985). In particolare si ha un rendimento compromesso nelle prove che richiedono attenzione, allerta e vigilanza.

Uno studio recente (2011), condotto da Jane Ferrie dell’University College London Medical School, si è occupato di valutare gli effetti della qualità e della quantità di sonno. Lo studio ha dimostrato, ancora una volta, come una buona qualità del sonno sia fondamentale per il funzionamento e per il benessere della persona, inoltre la sua privazione e la sonnolenza hanno degli effetti negativi sulle prestazioni in compiti che valutano i tempi di risposta, l’attenzione e la concentrazione. Per quanto riguarda la quantità, questa viene associata ad una vasta gamma di aspetti importanti della vita, come ad esempio il funzionamento sociale e la salute mentale e fisica, quindi la quantità di ore che si passano a dormire influenza la qualità della vita. Secondo tale studio inoltre, la durata ideale del sonno notturno pare essere di 6-8 ore, superare tale durata o al contrario, dormire meno, avrebbe degli effetti negativi; contribuirebbe, infatti, ad un declino fisico e cognitivo.

Il sonno e le funzioni cognitive nell’adulto anziano

Anche se le prestazioni cognitive diminuiscono con l’aumentare dell’età, vi è una variabilità individuale nella grandezza di questi decrementi cognitivi (Ardila, 2007). Tale variabilità sembra dipendere dalle differenze individuali legate alle disfunzioni cerebrali alla base dell’invecchiamento, come ad esempio la gravità dell’atrofia a livello corticale (Raz, Gunning-Dixon, Head, Dupuis, Acker, 1998). Tuttavia un altro potenziale contributo alla variabilità individuale dei deficit cognitivi associati all’età, giunge dagli studi relativi alla quantità e alla qualità del sonno. Come detto in precedenza, i disturbi sono presenti in una percentuale piuttosto alta nella popolazione e tendono ad aggravarsi con l’avanzare dell’età. Molte persone anziane riferiscono problemi cronici nella fase iniziale del sonno, nella durata e nella qualità, con conseguenze negative quali sonnolenza, cadute e disabilità funzionale (Vaz Fragoso & Gill, 2007).

Anche se la letteratura relativa alle prestazioni cognitive degli anziani con problemi del sonno appare abbondante (Haimov, Hanuka & Horowitz, 2008), ci sono poche informazioni sul grado in cui i disturbi possono contribuire alla variabilità individuale della performance cognitiva riscontrata in queste persone, in particolare pare non esserci un accordo specifico su quali siano le principali funzioni cognitive a risentire della scarsa qualità del sonno.

Uno studio effettuato da Bastien e collaboratori nel 2003 ha riportato l’esistenza di una correlazione tra la qualità del sonno, auto-riferito dalle persone, e la velocità di elaborazione delle informazioni (Bastie net al., 2003), le funzioni esecutive (attenzione divisa, memoria di lavoro, capacità di inibizione, fluenza verbale e problem solving) e la memoria a lungo termine (Schmutte et al., 2007).

Altre ricerche hanno mostrato come poco sonno abbia un impatto sulle prestazioni in compiti che valutano i tempi di reazione semplici e complessi, l’attenzione e la vigilanza (Blatter et al., 2006).

Alcuni studiosi, inoltre, sostengono che la perdita di sonno porti a transitorie modificazioni nel metabolismo del cervello, riducendo l’efficienza nella corteccia prefrontale (Killgore, 2010), di conseguenza, si presume siano maggiormente correlate alla qualità del sonno le funzioni esecutive legate proprio alle regioni prefrontali (Durmer & Dinges, 2005; Jones & Harrison, 2001).

Negli anziani ciò appare particolarmente evidente visto che le regioni prefrontali sono altamente sensibili all’età e le maggiori differenze in termini di prestazioni cognitive legate all’età si riscontrano proprio nelle attività dipendenti dalla corteccia prefrontale (MacPherson, Phillips, Della Sala, 2002).

Un altro fattore importante da tenere in considerazione nel contesto del sonno e delle funzioni cognitive in età avanzata, è che gli indicatori soggettivi della qualità del sonno sono costantemente connessi a misure di depressione (Riemann, Berger, Voderholzer, 2001). Ad esempio, Riemann e collaboratori (2001) hanno suggerito che, in maniera ambivalente, i problemi di sonno sono sintomi di depressione e, allo stesso tempo, possono rappresentare un fattore di rischio per la depressione. Inoltre Naismith e collaboratori, in un lavoro del 2011, hanno dimostrato che i disturbi del sonno in pazienti anziani con depressione, influenzano le funzioni cognitive. Una correlazione, ad esempio, è stata trovata tra la durata dei risvegli notturni e le prestazioni in prove di apprendimento, memoria, fluenza semantica, inibizione di risposte irrilevanti e problem solving.

Dalla revisione della letteratura in merito alla relazione esistente tra sonno e funzioni cognitive, appare evidente quindi come esso influisca in modo importante sulla qualità della vita, in particolare prendersi cura del sonno significa avere riguardo nei confronti della propria salute psicofisica ma anche della propria prospettiva di vita.

La filosofia spiegata con le serie tv (2017) di T. Ariemma, una rivoluzione didattica tra i banchi di scuola di Ischia – Recensione e intervista all’autore

Nel libro La filosofia spiegata con le serie tv, che racchiude il suo metodo didattico, Ariemma invita non solo gli studenti ma tutti i lettori a scovare l’imperativo categorico di Kant nell’isola di Lost o a conoscere il mondo delle idee di Platone dietro lo specchio di Black Mirror.

 

Tommaso Ariemma (Napoli 1980), docente di Estetica presso le Accademie di Belle Arti di Lecce e Perugia e attualmente insegnante di filosofia presso il liceo statale di Ischia ci racconta la sua passione per la filosofia e la nascita di quella che ormai viene da tutti definita “Una rivoluzione didattica”.

Nel libro La filosofia spiegata con le serie tv, che racchiude il suo metodo didattico, Ariemma invita non solo gli studenti ma tutti i lettori a scovare l’imperativo categorico di Kant tra i sopravvissuti dell’isola di Lost, a conoscere il mondo delle idee di Platone dietro lo specchio di Black Mirror, e a riflettere sul pensiero di Macchiavelli seguendo le orme di Twin Lannister del Trono di Spade. Un’idea originale, innovativa e fuori dagli schemi, che lascia stupiti nell’immaginare che si sia sviluppata tra i banchi di scuola di un liceo.

Far appassionare gli adolescenti ai grandi filosofi del passato non deve essere un’impresa facile, eppure lui c’è riuscito perfettamente, soverchiando il metodo didattico tradizionale e stimolando l’interesse degli alunni attraverso un canale preferenziale, quello delle serie tv. E’ interessante capire l’impatto che questo approccio ha avuto sugli studenti dal punto di vista motivazionale e sul loro livello di apprendimento. Alcune risposte ci sono arrivate dal professore stesso, in un’intervista lasciata in esclusiva per State of Mind.

 

La filosofia spiegata con le serie tv – Intervista all’autore

Intervistatrice (I): Professore, che impatto ha avuto sugli studenti la spiegazione dei grandi filosofi del passato attraverso le serie tv?

Tommaso Ariemma (T.A.): Si dice cha la filosofia nasca dalla meraviglia. Ho voluto prendere alla lettera questa tesi di Aristotele applicandola al mio insegnamento: per avvicinare i miei studenti alla filosofia ho voluto stupirli, spiazzarli. All’inizio sono apparsi un po’ disorientati, in seguito il mio approccio ha generato in loro grande motivazione allo studio della filosofia. Aristotele aveva ragione.

 

I: Ci sono stati dei miglioramenti significativi dal punto di vista relazionale, motivazionale o dell’apprendimento seguendo questo metodo non convenzionale?

T.A.: Secondo le direttive ministeriali l’approccio didattico più recente si fonda su conoscenze, abilità e competenze, trascurando il vero fuoco intorno al quale ruota l’apprendimento: la motivazione o, se vogliamo usare un termine più vicino ai giovani, la grinta. Il mio approccio “pop”, non convenzionale, lavora proprio sulla motivazione, come se sussurrasse alle menti dei ragazzi: “Impegnati, perché ciò che sta accadendo è fuori dal comune, è un’occasione unica”. I miei ragazzi si sentono così “speciali” e questo ha un impatto positivo anche sulla stima di sé e sul coinvolgimento in classe.

 

I: Ci sono state delle ricadute positive anche sul suo livello di motivazione nello svolgere il ruolo di docente?

T.A.: Confesso che nei primi mesi di insegnamento a scuola mi sono sentito spaesato e demotivato. Provenivo da un insegnamento universitario decennale, avevo pubblicato 15 libri, ero abituato a fare ricerca filosofica a livelli molto alti. Andare in classe e recitare uno dei tanti manualetti in circolazione annoiava persino me, figuriamoci i ragazzi. La mia fortuna è stata quella di essermi occupato, da studioso e filosofo, di serie tv e cultura pop. Quando ho capito che potevo portare le mie vere competenze in classe è accaduto ciò che qualcuno ha definito una “Rivoluzione didattica”. Mi sono sentito anch’io, come i miei ragazzi, un po’ speciale. Come vede, il metodo ha funzionato in primis sulla mia motivazione.

 

Ringrazio il prof. Ariemma per la disponibilità e per averci raccontato di un metodo nuovo, originale e autentico per alimentare un aspetto essenziale della conoscenza: l’entusiasmo.

La danza come rimedio all’invecchiamento cerebrale

La danza sembra essere un’attività che consente di migliorare l’equilibrio delle strutture cerebrali anche durante la vecchiaia, poiché richiede l’integrazione di informazioni sensoriali (uditive, visive, vestibolari) e il controllo motorio di tutto il corpo, oltre al coinvolgimento di abilità cognitive. Uno studio recente, eseguito in un centro tedesco per i disturbi neurodegenerativi e pubblicato su Frontiers in Human Neuroscience, ha mostrato gli effetti sul volume dell’ ippocampo e sull’ invecchiamento cerebrale di due differenti tipi di attività fisica: danza e allenamento di fitness tradizionale.

 

La danza: un’attività che contrasta l’invecchiamento cerebrale e migliora l’equilibrio

Con l’avanzare dell’età tutti gli esseri umani vanno incontro a una degenerazione psico-fisiologica che coinvolge anche le strutture cerebrali, compromettendo funzioni cognitive ed equilibrio. Allo stesso tempo, però, è risaputo che la plasticità cerebrale è preservata lungo tutto l’arco di vita, sopratutto attraverso attività che tengono in allenamento le funzioni cognitive.

Tra le strutture cerebrali più colpite dall’ invecchiamento cerebrale si ricorda l’ippocampo che, con l’avanzare dell’età, determina deficit nel consolidamento delle informazioni in memoria, nell’apprendimento e nell’orientamento spaziale (Barnes et al., 2009; Driscoll et a., 2003). Allo stesso tempo, esso è una delle poche regioni che negli anni riesce a generare nuovi neuroni, garantendo plasticità cerebrale anche da adulti (Kempermann et al., 2010; Spalding et al., 2013). Oltre alle attività sopra citate, l’ippocampo sembra essere implicato anche nell’equilibrio, funzione essenziale per la mobilità e la qualità della vita in età anziana (Dordevic et al., 2017).

Rispetto a quanto descritto, la danza sembra essere un’attività che consente di migliorare l’equilibrio delle strutture cerebrali anche durante la vecchiaia, poiché richiede l’integrazione di informazioni sensoriali (uditive, visive, vestibolari) e il controllo motorio di tutto il corpo, oltre al coinvolgimento di abilità cognitive.
Uno studio recente, eseguito in un centro tedesco per i disturbi neurodegenerativi e pubblicato su Frontiers in Human Neuroscience, ha mostrato gli effetti sul volume dell’ ippocampo di due differenti tipi di attività fisica: danza e allenamento di fitness tradizionale.

A questa ricerca hanno preso parte 68 soggetti sani di età compresa tra 63 e 80 anni, sottoposti a un programma di allenamento di 18 settimane. In particolare, essi erano assegnati in modo randomizzato a due tipi di attività: un programma di danza in cui era necessario imparare sempre nuove coreografie di diversi generi o un programma di fitness tradizionale con esercizi ripetitivi, come la camminata nordica o andare sulla cyclette.

Dai risultati si evinceva che in entrambi i gruppi era presente un incremento del volume dell’ippocampo, dimostrando che tutte e due le attività fisiche producevano effetti benefici sull’ invecchiamento cerebrale. La danza, però, sembrava mostrare un effetto più profondo perché era l’unica ad assicurare beneficio anche a livello dell’equilibrio. Ciò è giustificabile dal fatto che nell’imparare nuove coreografie era necessario tenere sempre attivo il processo di apprendimento, richiamando alla memoria i passi, la velocità, il ritmo, la formazione mentre si era sottoposti a pressione temporale senza alcun aiuto da parte degli istruttori.
Da questi dati si può pensare di elaborare un programma di attività che consenta di massimizzare gli effetti anti-età sul cervello. A tal proposito, gli autori dello studio stanno valutando di creare un sistema di allenamento sensoriale basato sull’attività fisica, chiamato “Jymmin” dall’unione di jamming e ginnastica.

Concludendo, questo studio si inserisce nella gamma di quelli già esistenti in letteratura sugli effetti cognitivi e neurali dell’attività fisica lungo tutto il ciclo di vita e, a differenza delle ricerche già esistenti, cerca di stabilire cosa rende un’attività fisica migliore di un’altra.

Tutti vorremmo vivere in salute, senza dipendere dagli altri, quanto più a lungo possibile e l’attività fisica è uno dei fattori che possono contribuire a questo obiettivo. In particolar modo la danza sembra avere un ruolo diverso e più significativo delle altre attività meramente di allenamento fisico, perché determina cambiamenti non solo a livello fisico ma anche psichico.

Congresso dell’EABCT 2017: il report dalla seconda giornata

Questa edizione del congresso EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) si sta assumendo molti rischi, forse perfino troppi. Mentre a Stoccolma un anno fa erano prevalsi i toni dell’autocelebrazione, quest’anno si preferisce guardare in faccia i punti critici. È successo il primo giorno con Hayes, è successo ancor di più con Wells in questo secondo giorno che sto andando a raccontarvi.

 

Perchè l’eclettismo nella psicoterapia cognitivo-comportamentale?

Per capire l’impatto della presentazione di Wells occorre però fare un passo indietro e tornare alla presentazione di Adam Radomsky durante la prima giornata. Radomsky aveva parlato di un aspetto tra quelli più critici della psicoterapia cognitivo-comportamentale: perché così pochi la eseguono fedelmente? Perché così tanti si perdono in un eclettismo mal definito? In concreto, perché solo il 16% dei terapisti cognitivo-comportamentali, quando eseguono i protocolli per i disturbi d’ansia o ossessivo-compulsivo, prescrivono con convinzione, efficacia e chiarezza l’esposizione comportamentale? Lo aveva detto anche Mehmet Sungur nel discorso introduttivo della cerimonia d’apertura: troppi terapisti cognitivo-comportamentali non eseguono la terapia cognitivo-comportamentale e sono solo genericamente cognitivi, ossia parlano di pensieri. Cosa che in realtà fanno tutti, anche i rogersiani e gli psicoanalisti.

In genere a questa domanda si risponde con le solite argomentazioni del paziente difficile o della relazione terapeutica. Qui però non si parla di pazienti difficili (qualunque cosa significhi questa espressione) ma di pazienti ansiosi e ossessivi in un servizio psicologico specializzato per pazienti ansiosi e ossessivi della Concordia University di Montreal dove lavora Radomsky. Di cosa stiamo parlando, allora?

Radomsky ha fatto una piccola indagine nel suo gruppo di lavoro e altrove e ha scoperto che le quattro risposte più ricorrenti alla domanda: “perché non istruisci il paziente all’esposizione comportamentale?” sono:

  • “Non mi piace rendere i miei pazienti troppo ansiosi” (I don’t like making my client feel too anxious)
  • “Preferisco la terapia integrata perché suona più carina” (I prefer integrative because it feels nicer)
  • “Non sono venuto in questo campo per far soffrire le persone” ((I didn’t go into this field to make people suffer)
  • “Se vedo che l’esposizione turba il mio paziente, ci prendiamo una pausa e parliamo delle crisi evolutive precoci” (If I see that exposure is upsetting my patient, we’ll take a break and talk about early developmental crises)
  • “Vorrei che la terapia comportale per i disturbi d’ansia non avesse così tanta esposizione” (I wish behavior therapy for anxiety disorders didn’t have so much exposure in it).

Paziente difficile? O difficoltà nostre nell’eseguire la psicoterapia cognitivo-comportamentale? Ognuno può trarne le conclusioni che vuole. Si può pensare che hanno ragione quelli che dicono che i pazienti sono tutti difficili, che la soluzione è “integrare” gli interventi cognitivo comportamentali con interventi definiti per lo più “relazionali” e che troppo spesso corrispondono agli interventi della client-centered therapy di Rogers, ovvero delle soste supportive e accoglienti che servono a gestire la terapia in attesa che il paziente si decida ad affrontare gli interventi davvero terapeutici, e così via.

In fondo anche la risposta di Radomsky è compromissoria. Come ho scritto ieri: “visto che l’esposizione comportamentale è una delle nostre bestie nere (è tanto più bello chiacchierare col paziente della sua storia personale) Radomsky suggerisce di inserire negli interventi di esposizione degli aspetti rassicuranti che mantengano in parte quei safety behaviours che lo aiutano a controllare l’ansia, chiamandoli supportive approaches.” Aspetti rassicuranti o ancora una volta una “integrazione” che annacqua? Oppure si tratta di una posizione inevitabilmente di attesa supportiva che rientra nella good practice. Possibile, ma chiamiamola col suo nome: attesa supportiva e non terapia.

I dati di efficacia della terapia metacognitiva

Secondo Adrian Wells questa tendenza integrativa è però una vera deriva che sta deteriorando l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale. Wells nella sua presentazione dal provocatorio titolo “Metacognitive Therapy: is more effective than other therapies?” parla anche di questo. Prima parla però del suo modello metacognitivo, che abbiamo già illustrato altrove. Wells racconta poi i dati di efficacia della terapia metacognitiva e, un po’ come era accaduto il giorno prima per Arnzt con la Schema Therapy, sono dati impressionanti. La terapia metacognitiva mostra un concreto e significativo incremento di efficacia su tutti i disturbi di elezione della terapia cognitivo comportamentale: Disturbo d’ansia generalizzata, depressione maggiore, fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo e disturbo post-traumatico da stress. L’efficacia passa una un 60% della psicoterapia cognitivo comportamentale a un 80% di remissioni per il disturbo d’ansia generalizzato e, ancor più impressionante, da un 25% della psicoterapia cognitivo comportamentale per il disturbo ossessivo compulsivo (eh si, va detto: la psicoterapia cognitivo comportamentale funzionicchia ma non fa sfracelli con gli ossessivi; meglio che niente, certo, visto che tutto il resto non funziona per niente) a un abbagliante 75%. Dati da confermare nella pratica reale? Vero. Gli studi di Wells però sono numerosi e robusti e devo confessare che la mia pratica clinica personale conferma queste cifre.

Adrian Wells - EABCT 2017 Ljubljana
Adrian Wells

 

Ciò che conta nella presentazione di Wells è però altro. Wells mostra anche altri dati in cui paragona interventi cognitivi, metacognitivi e “integrati” che combinano interventi vari in sequenza. Ebbene, le prestazioni peggiori sono degli interventi “integrati”. Questo dato presta a Wells l’occasione per una tirata appassionata contro l’ecclettismo e la terapia integrata, a suo dire all’origine della crisi della stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale. Troppi, dice Wells, di fronte alle difficoltà di esecuzione della psicoterapia cognitivo-comportamentale si rifugiano in un facile eclettismo travestito da psicoterapia integrata. Rifugio non innocuo che deteriora la qualità della diffusione della pratica cognitivo-comportamentale tra gli operatori.

Quale sia il futuro, non è facile a dirsi. Questo congresso ha mostrato audacia, invitando Hayes e Wells dopo anni di assenza. Molte nuove terapie mostrano efficacia significativa (Schema Therapy e Terapia Metacognitiva). La psicoterapia cognitivo-comportamentale presenta una crescente crisi nella qualità della sua esecuzione tra gli operatori che ci fa porre domande sulla qualità dei training e delle supervisioni. Le risposte classiche sono sempre state di integrare con gli aspetti relazionali o, peggio, dei fattori comuni alla Lambert che nascondono un sostanziale annacquamento e una distorsione nella concezione dei pazienti, troppo facilmente tacciati di essere difficili.

La soluzione non può essere: visto che non riusciamo a farla, annacquiamola. E nemmeno può essere il sostenere che ciò che conta è la concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso mentre la tecnica viene dopo. Ovvero: limitiamoci a descrivere cognitivamente il paziente. La verità è che la concettualizzazione è l’unica cosa che i terapisti cognitivo-comportamentali ancora fanno bene mentre il problema è quello che si fa dopo. È dopo la concettualizzazione che si inizia a non fare (sottolineo: a non fare) la terapia cognitivo-comportamentale.

Judith Beck e la CBT per i disturbi di personalità

Altre presentazioni interessanti della giornata sono state quelle di Judith Beck (di cosa stavamo parlando? De te fabula narratur) che parla dei disturbi di personalità e della loro nota difficoltà di ingaggio nel contratto terapeutico. Beck ripropone il modello cognitivo-comportamentale riportando le credenze dei vari pazienti e proponendo di applicare queste concettualizzazioni alle loro difficoltà di ingaggio, analizzandole nei termini delle loro stesse credenze e sviluppando una buona alleanza terapeutica attraverso tecniche di validazione di derivazione rogersiana e gestendo il proprio disagio analizzandolo cognitivamente.

Judith Beck - EABCT 2017 Ljubljana
Judith Beck

Nulla di nuovo, la validazione rimane lo strumento principe della gestione del paziente difficile, non si discute. Rimane il dubbio che la validazione, utilizzata al di fuori dell’alveo teorico della terapia dialettico comportamentale di Marsha LInehan e “integrata” nella terapia cognitivo-comportamentale perda il suo senso clinico e diventi solo un modo per gestire un paziente recalcitrante. Sarà questa la “integrazione” sbagliata di cui parla Wells e che fa diminuire l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale?

L’applicazione rigorosa delle procedure EMDR

L’ultima presentazione a cui assisto è quella di un simposio del gruppo di ricerca di Isabel Fernandez sulla EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), procedura di terapia specifica per il trauma. I pregi e i problemi della EMDR sono noti: è una tecnica efficace per il trauma ma non si conosce bene il suo meccanismo di funzionamento e spesso è applicata indiscriminatamente a pazienti non traumatizzati.

EMDR Simposio - EABCT 2017 Ljubljana

Il gruppo di Fernandez presenta una interessante ipotesi neurologica basata su dati di neuro-imaging sul funzionamento della EMDR. Seguono poi delle illustrazioni cliniche sulle applicazioni della EMDR. Ciò che colpisce nella EMDR, al di là degli aspetti neurologici e clinici sui quali ho scarsa competenza, è la sua rigorosità di applicazione, l’enfasi che vien posta sulla fedeltà della sua esecuzione. Insomma, non ci sono cedimenti a ecclettismi o contaminazioni. Forse questo spiega parte del suo successo. Insomma, questo congresso ci dice che la psicoterapia cognitivo-comportamentale deve affrontare il problema dell’aderenza.

Il cervello comunica al nostro corpo come bruciare grassi dopo un pasto

Gli scienziati della Monash University’s Biomedicine Discovery hanno trovato un meccanismo con il quale il cervello bilancia l’alimentazione con la spesa energetica, risolvendo un enigma per la ricerca e offrendo una potenziale nuova via per il trattamento dell’ obesità.

 

L’ obesità è un fattore di rischio importante per molte malattie tra cui le malattie cardiovascolari, diabete, malattie epatiche e diversi tumori,e  sembra essersi diffusa a macchia d’olio in Australia.

I ricercatori del programma di malattie metaboliche e obesità hanno dimostrato tramite modelli di laboratorio che l’alimentazione controlla il “browning” (brunimento) del grasso, cioè la conversione del grasso bianco, che contiene l’energia, in grasso bruno, che controlla il consumo e la spesa di energia. Il grasso nel corpo umano è immagazzinato in cellule speciali denominate adipociti che modificano il loro status da bianco a marrone e viceversa.

Lo studio pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, mostra che dopo un pasto il cervello risponde alla quantità di insulina presente in circolazione, che aumenta come conseguenza dell’aumentato glucosio nel sangue.

Il cervello invierebbe poi dei segnali per promuovere l’ “imbrunimento” del grasso e il dispendio di energie.

Al contrario, dopo un digiuno, il cervello istruisce questi adipociti imbruniti a convertirsi in adipociti bianchi, iniziando nuovamente l’immagazzinamento di energie.

Questi processi aiutano a prevenire sia l’eccesso di peso che l’eccesso di perdita di peso in risposta sia ad un’eccessiva alimentazione che a condizioni di digiuno, in modo che nel tempo il peso rimanga relativamente stabile.

I ricercatori hanno dimostrato che la capacità del cervello di sensibilizzarsi ai livelli di insulina e di coordinare l’alimentazione con il dispendio energetico attraverso l’imbrunimento degli adipociti è controllato da un meccanismo ad interruttore che si attiva dopo il digiuno per reprimere la risposta all’insulina, inibendo l’imbrunimento e conservando le energie, e in seguito si spegne dopo un pasto per facilitare la risposta dell’insulina e promuovere l’imbrunimento e il consumo di energie.

Quello che accade nel contesto dell’ obesità è che l’interruttore è disfunzionale, non si spegne durante i pasti – ha dichiarato il ricercatore, il professor Tony Tiganis – Di conseguenza, l’imbrunimento degli adipociti è spento e tutto il tempo e le spese energetiche diminuiscono, quindi quando si mangia, non si vede un aumento proporzionale delle spese energetiche – e tale condizione promuove l’aumento di peso.

Abbiamo mostrato non solo perché questo accade ma anche il meccanismo fondamentale implicato. È stato molto emozionante – ha detto il dottor Dodd.

I ricercatori stanno esplorando ulteriormente la possibilità di indurre l’inibizione dell’interruttore per scopi terapeutici per promuovere lo spargimento di grasso in eccesso.

L’ obesità è un fattore importante e con un impatto importante considerando le malattie presenti in tutto il mondo e, per la prima volta nella storia moderna, potrebbe portare ad una diminuzione dell’aspettativa di vita globale – ha dichiarato il professor Tiganis – Ciò che i nostri studi hanno dimostrato è che esiste un meccanismo fondamentale in gioco che normalmente assicura che la spesa energetica sia abbinata all’assunzione di energia. Quando questo meccanismo si “guasta”, si verifica l’aumento di peso.

Potenzialmente la scoperta di questo meccanismo potrebbe aiutare nella creazione di una nuova terapia per promuovere la perdita di peso negli individui obesi, ma ogni nuova terapia ha bisogno di tempi lunghi prima di poter essere accettata.

 

Trattato dei disturbi di personalità (2017) di J. M. Oldham, A. E. Skodol, D. S. Bender – Recensione

Il Trattato dei disturbi di personalità, di John M. Oldham, Andrew E. Skodol, Donna S. Bender è un corposo volume, scritto da più autori di diverse formazioni cliniche e culturali, che prende in considerazione gli aspetti, diagnostici, psicopatologici, eziologici, neurobiologici e di trattamento di questi disturbi che hanno una prevalenza in forte crescita.

 

I disturbi di personalità (PD) hanno un ruolo particolarmente stimolante in psichiatria: l’approccio diagnostico categoriale non consente una comprensione adeguata, tant’è che il DSM5 ha introdotto una sezione specifica in cui nella classificazione si introduce un approccio dimensionale; la definizione dei sintomi e dei segni siano essi considerati in termini polittici, monotetici o persino prototipici definiscono quadri psicopatologici molto diversi anche per lo stesso disturbo e la frequente co-occorrenza rappresenta un ulteriore elemento di complessità; viepiù, definire indicatori di processo e di esito per valutare l’efficacia dei trattamenti è una sfida ancora aperta sulla quale ormai da qualche tempo molti ricercatori si sono ingaggiati.

Trattato dei disturbi di personalità – Concetti clinici ed eziologia

Il Trattato dei disturbi di personalità, di John M. Oldham, Andrew E. Skodol, Donna S. Bender è un corposo volume, scritto da più autori di diverse formazioni cliniche e culturali, che prende in considerazione gli aspetti, diagnostici, psicopatologici, eziologici, neurobiologici e di trattamento di questi disturbi che hanno una prevalenza in forte crescita.

L’edizione italiana è stata curata da Franco Del Corno e Vittorio Lingiardi e la prefazione è di Steven E. Hyman.

La prima parte del volume “Concetti clinici ed eziologia” si apre con un capitolo dedicato all’evoluzione della classificazione diagnostica dal DSM I del 1952 fino al DSM5 del 2013. La storia della classificazione della patologia di personalità apre uno sguardo sui progressi nella comprensione dei disturbi di personalità.

Gli autori del Trattato dei disturbi di personalità avvertono che a mano a mano che impareremo di più a proposito delle eziologie e delle patologie di questi disturbi, non sarà più necessario, o persino desiderabile, limitare i nostri schemi diagnostici a fenomeni descrittivi e ateoretici, e potremo mirare a una comprensione arricchita della patologia della personalità, a migliori trattamenti e a linee guida per la prevenzione.

Nel secondo capitolo del Trattato dei disturbi di personalità sono descritti i modelli e le teorie della personalità: le teorie psicodinamiche con particolare riferimento ai contributi di Kernberg, le teorie cognitive di Beck e Young, il modello Five-Factor, sono prese in considerazione le prospettive biologiche e i sistemi neurali con riferimento a Cloninger e al suo modello a due domini (temperamento e carattere) e vengono descritte ricerche che misurano la trasmissione genetica dei tratti e dei comportamenti di personalità. Infine vengono descritti i modelli integrativi, il modello socio-evolutivo di Millon, la teoria interpersonale di Lorna Benjamin, chiamata Structural Analysis of Social Behavior, il modello dei domini funzionali di Westen.

Molto spazio nel Trattato dei disturbi di personalità è riservato al modello dimensionale della sezione III del DSM 5, non solo con il capitolo di chiusura e con l’appendice che riporta integralmente la sezione, ma già dal terzo capitolo, in cui si fornisce una panoramica della nozione di “compromissione fondamentale” nei disturbi di personalità e si descrive la storia di questo concetto e della sua affermazione proprio nel modello della Sezione III del DSM-5. Un’ampia parte del capitolo è dedicata alle ricerche che possono essere d’aiuto per esprimere con più precisione le caratteristiche di questo concetto e dimostrarne la potenziale validità e utilità, insieme ad alcuni esempi clinici in cui le modalità disfunzionali riguardano le categorie di identità, autodirezionalità, empatia e intimità.

Il quarto capitolo tratta il ruolo dell’attaccamento. Il progredire della comprensione sulla connessione tra sviluppo cerebrale e prime esperienze psicosociali ha reso evidente che il ruolo evolutivo della relazione d’attaccamento va ben oltre il garantire una protezione fisica al bambino e modella lo sviluppo della personalità.

La teoria dell’attaccamento viene sempre più considerata come un significativo supporto teorico alla comprensione e alla cura dei disturbi di personalità.

Negli ultimi 30 anni si è assistito a un rapido aumento della conoscenza riguardo alla neurobiologia dei substrati cerebrali. Vulnerabilità biologiche modellate da disposizioni genetiche, unitamente ai traumi o ai vincoli provenienti dall’ambiente sono considerate nel quinto capitolo e discusse in relazione ai disturbi borderline, schizotipico, antisociale ed evitante. In particolare un aspetto che va rilevato è che il disturbo di personalità borderline è il disturbo che è stato più volte preso a riferimento nei vari capitoli. Ciò è spiegabile dal fatto che il borderline, tra i disturbi di personalità è quello più studiato.

Le principali dimensioni che sono prese in considerazione sono la regolazione emotiva e affettiva, la modulazione degli impulsi/dell’azione, la cognitività interpersonale/sociale e l’ansia connessa alle difese che ne contrastano le manifestazioni.

Nel sesto capitolo sono considerati una serie di studi che prendono in esame la prevalenza e i fattori socio-economici, socio-demografici e la compromissione del funzionamento.

Il capitolo successivo passa in rassegna i due modelli della patologia della personalità proposti dal DSM-5 – l’approccio categoriale della Sezione II derivato dal DSM-IV e il nuovo modello ibrido dimensionale-categoriale della Sezione III e prende in considerazione i temi relativi alla valutazione, alla diagnosi e alla diagnosi differenziale.

Benché l’interazione clinico-paziente possa essere un’occasione di osservazione utile e obiettiva, gli autori raccomandano di essere cauti nell’interpretarne la significatività, e invitano a cercare di integrare questa informazione in un quadro complessivo più ampio del bpersonalità del paziente.

Diversi strumenti sono proposti per il processo di valutazione inventari self-report, interviste semi-strutturate, il colloquio clinico su un inventario di caratteristiche psicopatologiche, l’utilizzo di informant.

Il Decorso e l’esito sono trattati nell’ottavo capitolo del Trattato dei disturbi di personalità dove si sottolinea che i PD dimostrano solo una moderata stabilità e, nonostante siano associati genericamente a esiti negativi, possono migliorare nel tempo e beneficiare di specifici trattamenti, anche se non sono molti gli studi longitudinali prospettici con valutazioni ripetute nel tempo che possono far comprendere in modo più specifico il decorso: Children in the Community Study (CICS) Brook et al., 2002; McLean Study of Adult Development (MSAD) Zanarini et al., 2003; Collaborative Longitudinal Personality Disorders Study (CLPS) Gunderson et al., 2000.

Trattato dei disturbi di personalità – Il trattamento

La seconda parte del volume riguarda il trattamento e si apre con un capitolo di Donna S. Bender sull’alleanza terapeutica, fattore che si è distinto nella letteratura empirica come il più solido predittore dell’outcome delle psicoterapie. Indipendentemente dal modello di trattamento adottato con i pazienti con disturbi di personalità, è evidente che prestare attenzione all’alleanza è della massima importanza. La relazione con questi pazienti va attentamente monitorata e le dinamiche accuratamente gestite perché il paziente possa sperimentare un’esperienza emozionale correttiva.

Nel capitolo 10 del Trattato dei disturbi di personalità sono riassunti i principali concetti psicoanalitici e psicodinamici e descritti i differenti modelli di psicoterapia psicodinamica applicati al trattamento dei disturbi di personalità.

Al di là delle differenze, all’interno della cornice psicoanalitica i principi di intervento sono: 1) l’interpretazione; 2) l’analisi del transfert; 3) un atteggiamento tecnicamente neutrale; e 4) l’utilizzo delle proprie risposte controtransferali.

Il capitolo 11, curato da Martin Bohus, è invece dedicato alla psicoterapia cognitivo-comportamentale. Offre una guida al trattamento dei pazienti ed è basato principalmente su concetti evidence-based derivanti dagli approcci della terapia dialettico-comportamentale e dell’Acceptance and Commitment Therapy.

J. Christopher Fowler, John M. Hart hanno curato il capitolo seguente del Trattato dei disturbi di personalità che illustra le terapie cognitivo-comportamentali manualizzate, incluso l’approccio basato sull’accettazione (Gratz, Gunderson, 2006), che si sono dimostrate efficaci nel ridurre la sintomatologia associata ai disturbi di personalità, con particolare riferimento al disturbo borderline.

In successione i capitoli seguenti prendono in considerazione le psicoterapie di gruppo, familiari e di coppia con esemplificazioni di orientamenti teorici e tecnici diversi e con l’illustrazione di aspetti che facilitano o viceversa ostacolano il trattamento; l’approccio psicoeducativo rivolto al paziente e ai suoi familiari con riferimento alle applicazioni più note (i gruppi multifamiliari secondo l’approccio di Gunderson, le applicazioni della DBT, dello STEPPS e del Family Connections); i trattamenti somatici con riferimenti agli studi metanalitici sui trattamenti farmacologici; il trattamento collaborativo che prevede l’intervento di più di un professionista in un approccio alla cura integrato caratterizzato da confronto, collaborazione affinché l’intervento sia coerente e unitario ed eviti di produrre “scissioni”; ed infine i problemi legati ai confini del setting con illustrazioni esemplificative di superamento o violazione in relazione alle diverse patologie.

Trattato dei disturbi di personalità: problemi, popolazioni e setting particolari

La parte terza del volume si occupa di problemi, popolazioni e setting particolari e si apre con il capitolo 18 sulla valutazione e gestione del rischio suicidario. Sono illustrati protocolli di terapia e gestione che possono ridurre il rischio di suicidio nei pazienti con disturbi di personalità che spesso fanno ricorso a comportamenti anticonservativi. Gli autori evidenziano che i risultati degli studi sui fattori di rischio suggeriscono che eventi di vita stressanti e alcune comorbilità psichiatriche possono essere fattori di rischio modificabili per ridurre un’esacerbazione acute-on-chronic del rischio suicidario.

Il diciannovesimo capitolo riporta molti studi che hanno indagato la comorbilità tra disturbi di personalità e uso di sostanze. La letteratura sulla doppia diagnosi è nutrita e prende in considerazione sia le principali questioni diagnostiche, sia i modelli eziopatogenetici e di trattamento, sia la ricerca genetica più recente su questi disturbi.

Questa parte del Trattato dei disturbi di personalità si chiude con due capitoli, il primo sul disturbo antisociale su cui quasi assenti sono i modelli di trattamento risultati efficaci a verifiche empiriche e il secondo sui disturbi di personalità trattati in un contesto medico con la descrizione di proposte tecniche di gestione di questi pazienti in contesti terapeutici sia in fase di acuzie, sia per trattamenti di lungo corso.

Il Trattato dei disturbi di personalità si chiude con alcune riflessioni sulle direzioni future. Il capitolo 22 si concentra su due aspetti del disturbo borderline di personalità (Borderline Personality Disorder, BPD): i problemi relativi all’interazione sociale e alcune forme di alterazione percettiva (percezione del dolore e dissociazione), con l’intento di mostrare in quale modo le attuali metodologie delle neuroscienze comportamentali e degli approcci traslazionali possano essere d’aiuto per capire i meccanismi sottesi a questa psicopatologia e, in ultima istanza, per contribuire a migliorare i trattamenti destinati ai pazienti con BPD.

L’ultimo capitolo è incentrato come già accennato sulla sezione III del DSM-5.

Il libro di Oldham, Skodol e Bender, Trattato dei disturbi di personalità, offre un’ampia panoramica sui disturbi di personalità utile sia per chi alle prime armi ha bisogno di approfondire temi specifici, sia a terapeuti più esperti che trattano da anni questo tipo di disturbi.

Il testo riporta ampi riferimenti alla letteratura relativa ad aspetti clinici e neurobiologici, forse l’eterogeneità degli autori non ha permesso un’articolazione più dettagliata di alcune parti, soprattutto di quelle che riguardano il trattamento. Va detto che nell’economia del lavoro, composto di oltre settecento pagine, forse sarebbe stato eccessivo dilungarsi su alcuni temi, anche perché proporre facili soluzioni ai clinici che trattano questa popolazione impegnativa sarebbe fuorviante, troppe sono le questioni contrastanti opportunamente trattate in modo esplicito e chiaro dal testo.

Un libro che contribuisce a migliorare la comprensione di questi disturbi, e dei rilevanti progressi scientifici compiuti negli ultimi anni, la cui lettura va consigliata ai professionisti della salute mentale.

Congresso dell’EABCT 2017: il report dalla prima giornata

Il 47esimo congresso della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) inizia mercoledì 13 settembre con il discorso introduttivo del principale organizzatore della manifestazione, Mehmet Sungur, Professore di Psichiatria all’Ospedale Universitario di Marmara, Istanbul. Non è un momento del tutto felice per Sungur, che avrebbe voluto inaugurare il congresso nella sua Istanbul, sede originaria del congresso. Le preoccupazioni per i rischi del terrorismo internazionale hanno suggerito lo spostamento a Lubiana in Slovenia. 

Mehmet Sungur - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Mehmet però si lascia alle spalle le difficoltà del mondo e si concentra su quelle della psicoterapia cognitivo-comportamentale -meno drammatiche ma altrettanto confuse- e tenta di elencarle concentrandosi sulla principale, che ormai si ripropone uguale a tutti gli ultimi congressi:

“la terapia cognitivo comportamentale conserva ancora una sua identità coesa e coerente oppure è diventata un ombrello troppo ricco di contenuti nel quale si raccoglie un po’ di tutto, accomunato solo da una generica attinenza con l’attività mentale?”

Mehmet non risponde ma ha il merito di porre la domanda e non sarà l’ultima volta in questo congresso.

Il 47esimo Congresso EABCT

Il giorno dopo iniziano i lavori del congresso. La prima relazione a cui assisto è di Keith Dobson, professore di psicologia a Calgary, Australia. Presenta un modello cognitivo classico per il trauma. Nulla di nuovo, ma ha il merito di ricordarci che la psicoterapia cognitivo comportamentale è ancora il trattamento più efficace per le condizioni post-traumatiche insieme all’eye movement desensitisation and reprocessing (EMDR), trattamento emergente che ha affiancato la terapia cognitivo-comportamentale per il trauma ma non la ha mai scalzata.

Keith Dobson - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

 

Dopo Dobson, ascolto Arnoud Arnzt, lo psicologo professore dell’Università di Amsterdam che da anni porta avanti la cosiddetta Schema Therapy, terapia specifica per i disturbi di personalità. I dati di Arnzt sono impressionanti. Secondo i suoi dati la Schema Therapy è definitivamente il trattamento più efficace per i disturbi di personalità. Dati rigorosi, frutto di una meta-analisi faraonica che raccoglie i dati di 72 studi effettuati su 4463 pazienti dal 1990 a oggi. La Schema Therapy, tra le nuove terapie, è quella che mantiene la parentela più stretta con la psicoterapia cognitivo-comportamentale classica. All’intervento razionalista classico questa nuova psicoterapia unisce una forte componente emozionale ottenuta attraverso interventi di tipo immaginativo, guided imagery, e relazionale, self-disclosure e re-parenting, individuati dallo stesso Arnzt come gli interventi decisivi.

Arnoud Arntz - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Una terapia a elevata temperatura emotiva, in cui il terapista svolge una funzione di forte ri-genitorializzazione (re-parenting) per così dire. Con alcuni limiti, certo, ma anche con una vicinanza e un coinvolgimento forti.
Non basta però: c’è anche un altro elemento. Che è il grande impegno tecnico. La Schema Therapy è una terapia da eseguirsi in maniera molto meticolosa, con interventi descritti in maniera formalizzata e replicabile ed esercizi dall’esecuzione minuziosa e dal timing controllatissimo. Secondo Arnzt, questo aspetto tecnico è centrale e i terapisti migliori sono proprio i più tecnici, quelli che più si impegnano nell’apprendimento e nell’esecuzione fedele dell’intervento. Il dato empirico più stupefacente riportato da Arnzt è che la tecnica migliora e predice la relazione terapeutica, dato contro-intuitivo ma -secondo Arnzt- corroborato da conferme empiriche.

Psicoterapia ed esposizione comportamentale


Nel pomeriggio assisto a un intervento di Adam Radomsky della Concordia University di Montreal su come rendere la psicoterapia cognitivo-comportamentale più accettabile e amichevole. Secondo Radomsky il problema non è il paziente, ma il terapista. Siamo noi che abbiamo difficoltà a eseguire la nostra terapia, non il paziente a reggerla. Ci annoiamo, ci confondiamo e spesso  nascondiamo le nostre difficoltà dietro lo schermo della relazione con il paziente. Sosteniamo di non eseguire i protocolli per non danneggiare il paziente, per non renderlo meno motivato, meno partecipe. Insomma, per non danneggiare la relazione terapeutica. La realtà è che siamo noi quelli che fanno fatica e confusione.

Adam Radomsky - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Per rimediare, Radomsky propone degli accorgimenti che rendano la nostra psicoterapia più digeribile. Per esempio, visto che l’esposizione comportamentale è una delle nostre bestie nere (è tanto più bello chiacchierare col paziente della sua storia personale) Radomsky suggerisce di inserire negli interventi di esposizione degli aspetti rassicuranti che mantengano in parte quei safety behaviours che lo aiutano a controllare l’ansia, chiamandoli supportive approaches. Che è interessante, anche se è in contraddizione con l’assunto iniziale: se siamo noi terapisti ad avere problemi con l’esposizione comportamentale forse varrebbe la pena chiedersi quali siano i nostri safety behaviours (pardon, ora si chiamano supportive approaches) che ci aiuteranno a eseguire quei maledetti interventi di esposizione che tanto ci mettono a disagio.

Dibattito: Il futuro della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Sungur Hayes Salkovskis Hofmann Leahy - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA

Infine c’è il dibattito. Dibatte un quartetto di voci: un esponente della psicoterapia cognitivo comportamentale classica, Paul Salkovskis, un esponente dei nuovi sviluppi, Steven Hayes, e due studiosi posizionati in mezzo tra conservazione e innovazione, Robert Leahy e Stefan Hofmann. Moderatore Mehmet Sungur, ancora lui. Chiaramente è li per la sua esperienza di gestione del rischio di terrorismo ai congressi. Il problema è che Hayes e Salkovskis battagliano da una ventina d’anni sul futuro del paradigma cognitivo, e lo fanno in maniera intensa, sfiorando spesso l’offesa personale. Dieci anni fa, al congresso di Helsinky, l’offesa personale non la sfiorarono ma la centrarono in pieno e finì con Hayes con gli occhi lucidi, tanto era rimasto scosso dal violento sarcasmo di Salkovskis. Ancora una battuta dell’inglese e una lagrima gli avrebbe rigato le guance.

Questa volta Hayes si emoziona ma non piange. Rinnova le sue accuse a Salkovskis. Va detto che sono pugni duri. Hayes gli imputa, e con lui imputa l’intera vecchia guardia dei teorici della psicoterapia cognitivo comportamentale, da Beck a Clark, di aver creato un modello che funziona clinicamente ma che è teoricamente debole perché debole è la conoscenza della psicologia di base di questi vecchi teorici e clinici. Un modello che si funziona, ma per ragioni diverse da quelle pensate da Beck e Clark.
Salkovskis non può non rispondere duramente, dicendo che queste accuse sono ridicole. Reazione inevitabile: Hayes ha appena dato dei cialtroni a Beck, Clark e Salkovskis. Con l’aggravante che Clark e Salkovskis sono psicologi, e quindi doppiamente cialtroni. Almeno Beck si salva essendo psichiatra e medico. Qualche semplificazione teorica al patriarca Beck la si può perdonare: la sua formazione non è psicologica. Non Clark e Salkovskis che, da psicologi, passano per due rintronati che non hanno ancora capito la materia che hanno studiato all’Università. Eppure è quello che sta dicendo Hayes.

Steven Hayes - Paul Salkovskis - EABCT 2017 LJUBLJANA - SLOVENIA
Steven Hayes e Paul Salkovskis

Dopo il “ridicolo” fucilato da Salkovskis però lo scontro si sgonfia. Il colpo Salkovskis peraltro non lo ha sparato a Hayes ma alle sue accuse; stavolta niente attacco ad personam. C’è un altro colpetto beffardo di Hofman che da del “carismatico” a Hayes (sembra un elogio ed è un offesa) mentre Lehay, che è un piacione, si affanna a metter pace. L’urto frontale infine non avviene, ormai i due contendenti sono stanchi da anni di duelli. Semplicemente prendono atto di parlare due linguaggi troppo diversi e incompatibili. Va detto finalmente: i nuovi sviluppi sono qualcosa di filosoficamente altro rispetto alla psicoterapia cognitivo-comportamentale classica. Il nuovo paradigma “processuale” –volgarmente chiamato di “terza onda” (la prima essendo stato il comportamentismo e la seconda la psicoterapia cognitivo-comportamentale classica)- ha tagliato le radici con il passato. Non è uno sviluppo ma una rivoluzione.

Ci pensa Mehmet Sungur però a sganciare la bomba terroristica:

“per diventare terapisti processuali la formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale classica, quella che ancora oggi tutti gli studenti seguono nei loro primi passi, è ancora necessaria?” La domanda è talmente gravida di conseguenze che finisce per rimanere senza risposta.

Mehmet rilancia temerario (fermatelo!): siamo ancora uniti o ci stiamo dividendo? Stavolta rispondono tutti e quattro: rimaniamo uniti, per carità! Lo dice perfino Hayes. Lo dicono con una faccia un po’ così, un po’ confusi e stupidi come nel finale primo dell’Italiana in Algeri di Rossini, con un’espressione un po’ così come in una canzone di Jannacci.

Trauma e alimentazione: il nesso nascosto nel cibo – Report dal seminario con Natalia Seijo

Nelle corso delle due giornate di formazione sul trattamento dei disturbi del comportamento alimentare in relazione al trauma, la dott.ssa Natalia Seijo ha alternato la spiegazione di contenuti teorici, la trasmissione di elementi di pratica e di strumenti terapeutici e la visione e discussione di casi clinici esemplificativi.

Di Valentina Congedo

Il trattamento della Dissociazione Traumatica. I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” è un corso di formazione pratica avanzata organizzato da Area Trauma e dal Centro Clinico Crocetta. Si è svolto a Torino a partire dal 21 gennaio 2017 e ha offerto cinque preziosi week end di approfondimento teorico e pratico tenuti da esperti di trauma e dissociazione.

Il master si è concluso nel fine settimana del 9 e il 10 settembre con il seminario “Trauma e alimentazione: il nesso nascosto nel cibo” , con la partecipazione della Dott.ssa Natalia Seijo, psicoterapeuta specializzata in psicosomatica e nel trattamento dei disturbi alimentari, dei traumi complessi e della dissociazione traumatica, EMDR Europe Supervisor, terapeuta e trainer sensorimotor.

Nelle corso delle due giornate di formazione, la dott.ssa Seijo ha alternato la spiegazione di contenuti teorici, la trasmissione di elementi di pratica e di strumenti terapeutici e la visione/discussione di casi clinici esemplificativi.

L’atmosfera accogliente ha permesso agli uditori di fare domande di approfondimento o di rapido confronto sui propri pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare. Le tematiche del trauma e della dissociazione nei disturbi alimentari sono stati affrontate con efficacia e con la semplicità che deriva da una grande professionalità, fatta di preparazione ed esperienza e che contrasta con la difficoltà e la fatica del lavoro psicoterapeutico. La vitalità e l’energia della dott.ssa Natalia Seijo e della sua collaboratrice possono essere “strumenti” ulteriori per combattere l’alone mortifero e autodistruttivo che accompagna i disturbi del comportamento alimentare.

Un rapporto disturbato con il cibo è pericoloso, perchè sembra prevalere sull’istinto primario dell’essere umano, quello di sopravvivere; considerare il proprio corpo come un nemico o come l’arena in cui si combatte una sanguinosa battaglia tra parti del Sè, è angosciante. Eppure è ciò che accade nel mondo interno delle persone che soffrono di un disturbo alimentare con aspetti dissociativi.

Per comprendere come si struttura una personalità con queste difficoltà, è necessario indagare molto indietro nel tempo, agli albori della storia di vita. Natalia Seijo ha ribadito diverse volte, nel corso delle due giornate, che il disturbo alimentare non ha esordio quando si manifestano i sintomi, ma molto tempo prima. Durante l’infanzia, la persona struttura un sistema psichico che sarà il teatro di un disturbo alimentare conclamato o meno, o che una situazione o una fase di vita stressante potrà far precipitare in sintomi stabili o discontinui. La platea ha sentito la dott.ssa Seijo che paragonava ripetutamente il mondo interno di un individuo a un carciofo, composto di strati, strati e strati. Il trattamento ideale delle persona con DCA è quello che procede dagli strati più esterni, ossia dai sintomi, a quelli più profondi, con il giusto ritmo. La psicoeducazione e un’alimentazione almeno minima sono la condizione necessaria ma non sufficiente di un trattamento terapeutico efficace.

L’attaccamento e la diagnosi di disturbo alimentare

Trauma e alimentazione - Seminario con Natalia Seijo - 2

Nell’assessment psicodiagnostico, la raccolta dell’anamnesi deve iniziare dalla storia di attaccamento verso i principali caregiver, al fine di individuare il tipo di attaccamento del paziente.

La storia di attaccamento determina la strutturazione di una base sicura (Bowlby, 1973), ossia di un insieme di risorse interne, strategie o processi utili ad autoregolarsi, far fronte al dolore e calmarsi. In età precoce, la base sicura di un bambino sono i suoi caregiver; successivamente, la base sicura sarà costituita dalla loro interiorizzazione, ossia dall’aver fatto proprie le loro modalità di rispondere ai suoi bisogni.

Da adulti, l’attivazione della rappresentazione interna della base sicura può avvenire attraverso il richiamo di pensieri, immagini e comportamenti confortanti. Nella persona che soffre di un disturbo del comportamento alimentare, si è strutturata una strategia disfunzionale di rassicurazione attraverso il cibo; la relazione con il cibo, in diverse modalità, è usata come risorsa per attivare la base sicura e calmarsi.

Gli stili di attaccamento in relazione ai disturbi alimentari

L’esame dello stile di attaccamento rivela che esso è frequentemente di tipo insicuro. L’articolazione tra i criteri diagnostici del DSM5, il tipo di attaccamento e il profilo di personalità permette di fare la corretta diagnosi di disturbo del comportamento alimentare.

Trauma e alimentazione il nesso nascosto nel cibo - Report dal seminario con Natalia Seijo - SLIDE 1

 

Natalia Seijo ha affermato che i terapeuti che voglio occuparsi di persone che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare, devono conoscere i concetti di trauma e dissociazione. Durante l’assessment, se emerge un attaccamento disorganizzato, è probabile che nell’eziopatogenesi giochino un ruolo fondamentale il trauma e le difese dissociative.

Nella storia precoce di relazione di un individuo, la base che crea un attaccamento disorganizzato è caotica, frequentemente minacciosa e spaventosa, a tratti amorevole ma in modo imprevedibile; nonostante ciò, essa resta la base “sicura”, poiché è necessaria per sopravvivere. Questa modalità di attaccamento ha come risultato la dissociazione del mondo interno. La sopravvivenza emotiva dipende dalla divisione interna, come specchio della dissociazione interna alla figura di attaccamento.

Nei disturbi del comportamento alimentare, la dissociazione può essere presente a diversi livelli: è una difesa naturale che si attiva rapidamente quando la persona si sente in pericolo; può essere funzionale in un episodio traumatico circoscritto, ma non se si cronicizza come principale o più frequente meccanismo di protezione. In tali casi al disturbo alimentare si associa un disturbo dissociativo dell’identità, in cui una parte del mondo interno ha un disturbo alimentare.

Se non correttamente diagnosticato, il grado di dissociazione può generare problemi nel trattamento terapeutico.

La divisione del mondo interno nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare

Nella sua esperienza clinica, Natalia Seijo ha individuato parti di personalità ricorrenti nel mondo interno delle persone con un disturbo del comportamento alimentare con aspetti dissociativi. Spesso, queste persone non hanno vissuto l’infanzia, sono state trattate come piccoli adulti fin da quando hanno memoria; sono state forzate ad assumersi responsabilità che non spettavano a loro. Il mondo interno ha dovuto usare la dissociazione per crescere più rapidamente in una parte e uno sviluppo accelerato non può essere salutare. La bambina non scompare, ma resta in una parte, come bloccata nel tempo.

 

La bambina che non è mai stata

La dott.ssa Seijo chiama la parte precocemente adultizzata “La bambina che non è mai stata”: è quella parte che cresce troppo velocemente e che affronta tutte le richieste provenienti dall’ambiente.

È la parte più danneggiata che genera più difese. Contiene il dolore e la frustrazione per aver dovuto imparare a fare le cose da sola. Ha imparato ad autoregolarsi e autocontrollarsi attraverso il cibo. È la parte dominante nel mondo interno delle persone con anoressia nervosa.

È una parte controllante, sfiduciata, spesso alimentata dalla comorbilità con un disturbo ossessivo di personalità e un disturbo dell’immagine corporea.

La bambina che non ha potuto crescere

La parte infantile che rimane bloccata nel tempo è chiamata “La bambina che non ha potuto crescere”. La raccolta anamnestica svolta con la famiglia lascia emergere l’immagine di un bambino o una bambina precoce, con comportamenti non appropriati all’età. Ha sviluppato la convinzione  che “si ha bisogno di essere malati per ottenere attenzione” e attraverso il cibo cerca di essere vista. È la parte dominante nel mondo interno di chi soffre di bulimia. Ha appreso che il cibo è il miglior modo per compensare rabbia, tristezza e frustrazione col cibo. La vita emotiva è disregolata e spesso si riscontrano comportamenti impulsivi.

La critica patologica

La “critica patologica” è il primo aspetto del Sè con con cui Natalia Seijo consiglia di lavorare nel trattamento dei DCA; è una parte aggressiva, spesso associata alla “Bambina che non è mai stata”.

Nella storia di vita del paziente, “la critica patologica” ha avuto una funzione utile, quella creare uno schermo protettivo agli attacchi e al disprezzo proveniente dal mondo esterno. Però essa blocca l’autostima del paziente e filtra la realtà attraverso una prospettiva negativa.

Il sè rifiutato

Un’altra parte identificata è il “Sè rifiutato”: essa è la parte del mondo interno che contiene la distorsione dell’immagine corporea, quell’immagine di Sè che la persona non vuole tornare a essere mai più.

Il sè nascosto

Una delle ultime parti a cui si può accedere nel lavoro terapeutico è il “Sè nascosto”: protegge il sistema interno non mostrandosi, perché farlo, in passato, è stato pericoloso. È una parte che somatizza ciò che non può esprimere in altro modo. Si sviluppa presto nella vita; le emozioni dominanti in essa sono paura, umiliazione e vergogna.

Il sè cicciottello

Il “Sè cicciottello” è la parte dissociativa che si mostra più spesso nel binge eating e nell’iperfagia; è collegata al sovrappeso, diventa impressa nel sistema interno e, anche se  la persona dimagrisce, continua a esistere ed è resistente al cambiamento.

 

Trauma e alimentazione: linee guida sulla terapia

Come linee guida per la terapia, Natalia Seijo afferma che il lavoro sul “Sè rifiutato” è l’ultima parte della terapia. Prima bisogna aver calmato “La critica patologica”, poi “La bambina che non è mai stata”, successivamente “La bambina che non è mai cresciuta” permettendole di evolvere e integrandola nel sé adulto. Lavorando con il “Sè rifiutato”, emergerà anche il “Sè nascosto”.

Il terapeuta deve riconoscere il significato che il paziente dà al proprio disturbo alimentare, così come rispettare la struttura dissociativa che lo ha mantenuto.

Questa organizzazione psichica è il modo in cui il paziente è stato capace di dare a ogni parte del sè qualcosa che esso richiedeva senza entrare in un conflitto insopportabile. È stata funzionale alla sopravvivenza. Per essere una figura di attaccamento sostitutiva, il terapeuta deve essere comprensivo e compassionevole rispetto a questo. Per essere d’aiuto, dovrà essere validante rispetto all’esperienza di un paziente che ha sviluppato un rapporto disfunzionale col cibo, e aiutarlo a trovare una strategia stabile alternativa di attivazione delle sicurezza interna.

 

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