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Adulti con ADHD: come superare le sfide e le difficoltà legate al disturbo

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e dei livelli di attivazione. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità da parte degli adulti con ADHD di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.

 

Le difficoltà che incontrano gli adulti con ADHD

Gli adulti con ADHD spesso si considerano persone improduttive, o ancor peggio, pigre e incompetenti.
Ottenere risultati, soprattutto se legati a compiti noiosi, può sembrare impossibile e chi ci prova spesso ne esce demoralizzato.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e dei livelli di attivazione. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.

Ma il vero problema del sentirsi incompetenti non è perchè chi ne è affetto è una persona inefficace o inutile; il problema risiede, in realtà, nel non possedere le strategie efficaci.

Questo quanto afferma Roberto Olivardia, psicologo clinico specializzato in individui con ADHD e lui stesso affetto da questo disturbo.
Egli ha suggerito agli adulti con ADHD di pensare a se stessi come “produttori in corso”.

Le strategie che possono essere utili per gli adulti con ADHD

Se dovessimo fare un tour nell’universo dell’ADHD cosa troveremmo? Vediamo quali sono le sfide più ardue per alcuni soggetti intervistati.

Per Roberto Olivardia la sfida più grande nel fare compiti più complessi del normale è la mancanza di motivazione per cose che non sono urgenti o emozionanti.

Ecco perché secondo lui, una strategia utile sarebbe quella di creare un senso di urgenza con dei timer.
Per esempio: egli non ama la falciatura del prato, quindi quando deve farlo imposta un timer di 34 minuti e 32 secondi e cerca di battere quel tempo; questo fornisce una certa stimolazione al compito, come se stesse intraprendendo una gara.

Risulta inoltre utile separare un compito in piccoli passi in modo che questi sembrino gestibili e richiedano poca energia.
Per esempio, quando Olivardia scrive un documento di ricerca, lo scompone in questi passaggi:
1) Carta 2) Assicurarsi che l’inchiostro e la carta siano pronti e la scrivania sia pulita 3) Scrittura della bibliografia 4) Scrivere l’introduzione 5) Scrivere il metodo 6) Scrivere la sezione dei risultati 7) Scrivere la conclusione 8) Leggere la bozza e fare qualsiasi modifica.
Infine, Olivardia ricorda che compiti noiosi o impegnativi sono semplicemente noiosi o impegnativi, “non esiste un modo magico per renderli piacevoli” ricorda inoltre.

Abbiamo visto dunque come la motivazione possa essere una strategia efficace, vediamo ora invece la sfida più grande per Bonnie Mincu, con diagnosi di ADHD e fondatrice della pratica di coaching “Thrive with ADD”.

La strategia più efficace per lei è quella di crearsi degli imprevisti.
Come imprenditrice, ha un’agenda con un programma scandito da scadenze: ciò che aiuta Mincu è infatti creare una scadenza, oltre che stabilire un’ora di partenza del compito che si propone di svolgere; se avvengono poi imprevisti l’importante è stare negli orari stabiliti.
Per esempio, quando deve lavorare ad una pagina web, Mincu si crea una schema nel quale mette a che ora lavorerà ad una determinata pagina, quanto tempo impiegherà e quando finirà.
Altra sfida da affrontare per chi soffre di questa patologia, sono le distrazioni e quanto queste possano deconcentrare.

Per Dana Rayburn, anch’essa affetta da ADHD, la sfida più grande sono appunto le distrazioni quali “Facebook, email, telefonate, messaggi di testo, spettacoli televisivi, libri, familiari e amici”, ha detto Rayburn, che conduce programmi di coaching privati e di gruppo per persone con ADHD.
Per questo ha sviluppato un processo a tre fasi per affrontare le distrazioni. Naturalmente, per prima cosa è importante che ci si accorga che l’attenzione si è defocalizzata. In secondo luogo bisogna controllare le distrazioni ed infine, reindirizzare l’attenzione al compito.

Per le persone con ADHD quindi cosa impedisce di essere produttivi?
Non conoscere il “colpevole” specifico, quindi non riconoscere effettivamente quello che ci sta distraendo, è in realtà il blocco più grande per ottenere dei risultati, ha detto Mincu.
Frequentando le persone con ADHD sente spesso dire : “Per qualunque motivo non ho fatto [il compito]”.
Tuttavia, c’è sempre una ragione, e identificare che ragione o che motivi specifici si sono intromessi nella riuscita del compito possono aiutare a trovare la strategia giusta per superare la sfida.

Per esempio, se ci si sente stressati perché sembra che si abbiano troppe cose da fare, la soluzione è quella di preparare un piano e creare un calendario che aiuta a visualizzare che c’è tempo per tutto ciò che è nell’elenco.

 

Ovviamente, identificare le trappole della produttività potrebbe non essere così semplice. Questo è il momento in cui entra in gioco l’aiuto di un allenatore o di un terapeuta.
È anche importante osservare se stessi. Ogni volta che si tenta di eseguire un’attività, cosa succede? Come ci si sente? Quali pensieri si hanno? Quando si è in grado di completare un’attività, che tipo di compito è? Qual è l’ambiente idoneo per farlo? In altre parole, cosa sembra che possa aiutare a compiere quel compito?

Ottenere le cose quando soffri di ADHD può essere difficile, poiché l’ADHD colpisce tutto, dalla capacità di sostenere l’attenzione alla capacità di priorità.
Ma, come dimostrano alcuni adulti con ADHD, è assolutamente possibile superare i propri ostacoli.
La chiave è identificare le insidie personali e trovare soluzioni ADHD-friendly che funzionino.

Il cliente (2016) di Aristide Tronconi – Recensione del libro

Il romanzo Il cliente affronta il tema dell’ omosessualità che, contemplato attraverso grandi figure storiche, eroi e poeti, evidenzia le grandi contraddizioni e paradossi della società contemporanea che, impaurita dalla diversità, rigetta ciò che non riconosce per tutelarsi.

 

Protagonista de Il cliente è Marco, un uomo sposato di mezz’età. Affetto da dolori alla schiena che pregiudicano attività lavorativa e famigliare. Si affida alle cure di Alessandro, giovane fisioterapista. Il rapporto tra i due è dapprima convenzionale, professionista-cliente, ma a mano a mano che le sedute vanno avanti, dall’ iniziale dialogo formale prendono una piega introspettiva, quasi mimando un percorso di analisi reciproca che porterà ad una intimità maggiore e ad uno scambio di ruoli.

Attraverso una scrittura scorrevole, il romanzo Il cliente con una chiave del tutto realistica affronta il tema dell’ omosessualità che, contemplato attraverso grandi figure storiche, eroi e poeti, evidenzia le grandi contraddizioni e paradossi della società contemporanea, le diverse difficoltà sulla presa di coscienza e accettazione del proprio “io” rapportate all’impreparato mondo che impaurito dalla diversità, rigetta ciò che non riconosce per tutelarsi.

Si rimanda molto ne Il cliente, come detto, al mito greco ma, l’ omosessualità è una tematica per la nostra società del tutto estranea alla naturalezza con cui si descrive nel De Rerum Naturae, citato da Marco. Dalla grecia ai giorni nostri, dalla naturale attrazione, l’ omosessualità è diventata prima “ devianza sessuale” e quindi inserita nel DSM (Diagnostic   and   statistical   manual   of   mental   disorders,   dall’American   Psychiatric  Associatio) e solo nel 1993 viene definito dalla psichiatria come un “orientamento sessuale” non patologico.

Il cliente: omosessualità e omofobia

Il problema principale per le persone omosessuali è l’ omofobia. Il termine omofobia compare nel 1972, nel libro di G. Weinberg “Society and the Healthy Homosexual”. La definizione di omofobia è:

paura irrazionale, l’intolleranza e l’odio perpetrati nei confronti delle persone omosessuali, gay e lesbiche, dalle società “eterosessiste”, che si rifanno a uno schema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di persone non eterosessuali.

La definizione attuale di omofobia è:

un insieme di emozioni e sentimenti quali ansia, disgusto, avversione, rabbia, paura e disagio che gli eterosessuali provano, consapevolmente o inconsapevolmente, nei confronti di gay e lesbiche (Hudson e Rickets, 1980).

Tutto questo si traduce in una grande difficoltà per le persone omosessuali che si ritrovano ad affrontare quotidianamente problematiche sociali e personali dovute all’ omofobia; a volte ciò può comportare difficoltà emotive quali aumento degli evitamenti, ansia, depressione, e difficoltà nel vivere una vita serena.

Come la relazione fra allenatore e giocatore influisce sulle performance sportive dei giovani calciatori

Tutte le squadre di calcio, che gareggiano nella prima divisione inglese, hanno una scuola/accademia, il cui obiettivo è quello di coltivare nuovi talenti da avviare alla carriera calcistica. Queste istituzioni sono aperte a ragazzi di età compresa fra 9 e 21 anni. La qualità della relazione che si crea fra giocatore ed allenatore è estremamente importante in quanto ha dei riverberi di notevole portata sul giovane giocatore. Infatti, essa influisce sul suo benessere, sulle strategie di fronteggiamento degli ostacoli e sulle performance sportive.

 

La percezione del rapporto fra giocatore e allenatore rimane stabile nel tempo ed è correlata al raggiungimento degli obiettivi finali della scuola/accademia. Inoltre, un legame emotivamente forte fra allenatore e giocatore diviene il paradigma fondante di ottime performance sportive del futuro calciatore.

L’importanza della relazione tra allenatore e giocatore

Tutte le squadre di calcio, che gareggiano nella prima divisione inglese, hanno una scuola/accademia, il cui obiettivo è quello di coltivare nuovi talenti da avviare alla carriera calcistica. Queste istituzioni sono aperte a ragazzi di età compresa fra 9 e 21 anni. All’interno di tali scuole, i minori sono suddivisi in tre gruppi, ovvero i principianti, con un’età compresa fra 9 e 11 anni; le giovani promesse, la cui età varia fra 12 e 16 anni; i giovani in procinto di diventare giocatori professionisti, la cui età è fra 17 e 21 anni. I ragazzi delle prime due fasce frequentano contemporaneamente la scuola pubblica, che compete loro per età (primaria – secondaria). I giocatori dell’ultima fascia, dai 18 anni in su, una volta terminato l’obbligo scolastico, si dedicano completamente agli impegni connessi con la frequentazione dell’accademia. Essere un giocatore che proviene dall’accademia di una squadra di prima divisione è considerato il viatico per diventare giocatore professionista di élite (Nicholls e al., 2017).

La qualità della relazione che si crea fra giocatore ed allenatore è estremamente importante in quanto ha dei riverberi di notevole portata sul giovane giocatore. Infatti, essa influisce sul suo benessere (Lafreniere e al., 2011), sulle strategie di fronteggiamento degli ostacoli (Nicholls, 2016) e sulle performance sportive (Jowett e Cockerill, 2003). Esiste un legame diretto fra relazione allenatore – giocatore e qualità delle prestazioni dell’atleta (Mata e Da Silva Gomes, 2013; Vieria e al., 2015).

La relazione tra allenatore e giocatore favorisce il raggiungimento degli obiettivi

Una ricerca inglese (Nicholls e al., 2017) si è posta l’obiettivo di capire se la percezione da parte del giovane giocatore della relazione con l’allenatore cambia nell’arco di un semestre di frequentazione della scuola calcio e se tale relazione influenza il raggiungimento degli obiettivi formativi dell’accademia calcistica.

Alla ricerca hanno partecipato 104 giocatori delle scuole – calcio della premier league inglese. I ragazzi avevano un’età compresa fra 9 e 20 anni, con un’età media di 14 anni, appartenenti a più etnie.
Per valutare il rapporto fra allenatore e giocatore si è utilizzato il Questionario sulla relazione fra atleta e coach (CART – Q) di Jowett e Ntoumanis del 2004. Il questionario è composto da 11 item che misurano la vicinanza, l’impegno reciproco e la complementarità che si crea fra giocatore ed allenatore.

Il raggiungimento degli obiettivi formativi è stato sondato attraverso i 12 item della scala che stima il grado di padronanza nell’ambito delle competenze sportive (A – SAGS), messo a punto da Amiot e al. nel 2004. In questo test il giocatore deve valutare le sue abilità nello sport praticato.
I partecipanti hanno compilato i due questionari per due volte, a distanza di sei mesi una dall’altra.

La ricerca ha stabilito che la qualità della relazione fra giocatore e allenatore rimane stabile nel tempo ed è correlata al raggiungimento degli obiettivi finali della scuola. In altre parole, più la relazione è positiva e più il giocatore ha la percezione di essere in grado di raggiungere gli obiettivi accademici. Il fatto che la relazione fra allenatore e giocatore rimanga stabile nel tempo dimostra che, affinché essa sia foriera di un buon apprendimento, deve essere impostata in maniera efficace e positiva fin dalle prime fasi. Inoltre, una relazione emotivamente forte fra allenatore e giocatore diviene il paradigma fondante di ottime performance sportive del futuro calciatore (Nicholls e al., 2017).

Keywords: scuola calcio, giovane sportivo, allenatore, relazione, performance sportive.

Psiconcologia in adolescenza: il doppio dramma dell’accettazione della malattia e dei cambiamenti corporei

Psiconcologia in adolescenza: La neoplasia o tumore, rappresenta in patologia la formazione di un nuovo tessuto che sostituisce il precedente e che cresce in modo diverso da quello fisiologico. Quando tale malattia, di per sé debilitante ed estenuante per il corpo e la mente, si manifesta o viene scoperta durante la fase adolescenziale, molteplici sono le difficoltà e gli scompensi che possono verificarsi negli adolescenti.

Laura Allamprese

 

I cambiamenti che caratterizzano l’ adolescenza

L’ adolescenza rappresenta di per sé un periodo di vita caratterizzato da profondi cambiamenti. Sia per quanto riguarda l’aspetto corporeo che quello psichico. Il corpo maschile e femminile in questa fase vanno incontro a rapide modifiche, come il cambiamento della voce, la maturazione dell’apparato riproduttivo, la comparsa dei caratteri sessuali secondari, seguito a volte dall’incremento ponderale. In questa fase inoltre si stabilizza l’identità sessuale.

Il periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta, comporta anche degli sconvolgimenti nella vita psichica. I cambiamenti corporei spesso vengono vissuti con disagio e sofferenza, infatti l’immagine corporea non è più quella dell’infanzia ma non ha raggiunto la maturità sufficiente per essere considerata adulta. Secondo Mastrangelo gli adolescenti devono affrontare tre lutti: la perdita del corpo infantile, la perdita del ruolo infantile e la perdita dei genitori dell’infanzia. Il più sofferto di questi lutti è costituito dalla perdita del corpo infantile, in quanto nella società contemporanea non viene data nessuna connotazione sociale agli individui che si trovano in questa fase, che vengono dunque condannati ad una marginalità sociale.

Psiconcologia: quando il tumore genera ulteriori cambiamenti nel corpo

La neoplasia o tumore, rappresenta in patologia la formazione di un nuovo tessuto che sostituisce il precedente e che cresce in modo diverso da quello fisiologico. Quando tale malattia, di per sé debilitante ed estenuante per il corpo e la mente, si manifesta o viene scoperta durante la fase adolescenziale, molteplici sono le difficoltà e gli scompensi che possono verificarsi. Infatti tutti gli stravolgimenti che questa delicata fase della vita comporta, nel caso di patologia organica vanno a sommarsi alle difficoltà di accettazione e adattamento alla malattia e alle cure, a difficoltà relazionali, a problemi di compliance alle terapie, al disagio emotivo dei pazienti lungosopravviventi, al dolore delle malattie in fase terminale e a cure particolari come le chemioterapie ad alte dosi e gli interventi chirurgici mutilanti, rendendo la transizione alla fase adolescenziale ulteriormente più complessa e sofferta.

Gli adolescenti malati quindi devono affrontare i difficili cambiamenti dovuti alla pubertà, osteggiati e resi più complessi dall’insorgenza della malattia.
Per quanto riguarda i cambiamenti fisici e corporei, essi, in caso di malattia sono alterati o interrotti; può infatti verificarsi la perdita dei capelli, la variazione del peso corporeo, la comparsa di cicatrici in seguito agli interventi chirurgici, o la costante presenza del catetere.

Anche il suddetto processo di separazione dalle figure genitoriali è ostacolato dalla tendenza dei genitori di pazienti neoplasici all’ iper-coinvolgimento e all’iperprotettività, che spesso comportano una perdita di autonomia degli adolescenti con tumore, essi non sono indipendenti né dal punto di vista economico né da quello decisionale; essi a volte regrediscono ad una dipendenza totale dalle figure genitoriali.

Invece di andare incontro ad una progressiva maturazione della personalità, ed al conseguimento degli obiettivi di sviluppo, quello che si verifica in tali pazienti è una regressione, con paura della malattia e delle conseguenze dei trattamenti. Inoltre la tipica crisi d’identità adolescenziale si intreccia con il problema di integrare una condizione mentale tipica della giovinezza, ricca di speranze, entusiasmi, desideri e una condizione fisica che necessita di cure come accade nell’età senile. L’adolescente con tumore si trova inoltre costretto a sperimentare anche una serie di problemi sociali, come la mancata frequenza scolastica, le carenti o nulle relazioni con i compagni e amici, la sospensione di attività sportive o ludiche e la ridotta frequenza delle relazioni con eventuali fratelli o sorelle. Insomma , il vissuto di isolamento è alle porte.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che, come ha rilevato Ferrari ( 2010) spesso gli adolescenti stanno in una “ terra di nessuno “ tra il mondo dell’oncologia pediatrica e quella dell’oncologia dell’adulto, dunque si trovano sospesi tra questi due ambiti, dunque, il risultato è che il trend di miglioramento in termini di sopravvivenza documentato negli ultimi anni per i bambini e per i pazienti adulti non si è osservato nei pazienti in questa fascia di età, infatti a parità di condizione clinica, di fatto un adolescente ha minori probabilità di guarigione di un bambino, spesso semplicemente in relazione alla rapidità con cui arriva alla diagnosi, alla qualità della cura, all’arruolamento nei protocolli clinici.

Pertanto il rischio che si determini l’insorgenza di una psicopatologia è piuttosto elevato, e sarebbe dunque fondamentale un’integrazione degli interventi per la salute mentale nell’oncologia dell’adolescente.

Un altro dato interessante e corroborante l’idea di un’integrazione della cura psicologica a quella organica è dato da alcune ricerche di Spiegel e Giese-Davis ( 2002) secondo cui lo stress emotivo della malattia, il modo in cui esso viene gestito, e soprattutto la sua estremizzazione e cronicizzazione potrebbe essere in relazione all’incidenza del cancro e influenzare gli aspetti fisiologici e le capacità di coping. Spiegel infatti pratica la psicoterapia di gruppo con pazienti oncologici, favorendo in tal modo il supporto reciproco tra questi pazienti.

Psiconcologia: l’importanza della compliance e dell’accettazione della malattia e delle cure

La compliance indica l’accettazione delle cure e del trattamento medico consigliato. Nei giovani pazienti spesso le angosce dovute alla malattia si intrecciano con le difficoltà di far fronte alle trasformazioni adolescenziali, ed è frequente che emergano comportamenti di negazione della malattia e di rifiuto delle cure. Il rifiuto delle cure e del trattamento in pazienti neoplasici, non va solitamente interpretato come un sintomo di patologia psichica, ma può rendere necessario il trattamento psicologico qualora dovesse rappresentare un impedimento alle cure mediche.

Nell’ambito della psiconcologia lo psicologo viene interpellato di solito quando il comportamento del paziente interferisce con il piano terapeutico. Tra i problemi più gravi si riscontrano la negazione di malattia, il fatalismo paralizzante, la rabbia incontrollabile e l’ideazione persecutoria. Il trattamento può richiedere un intervento di sostegno per le paure di dolore legate all’intervento o la perdita di controllo e di aumento di vulnerabilità, le perdite riguardano la privazione di un seno o un arto, dei capelli, oppure del lavoro e dei contatti sessuali, o della funzionalità sessuale. I meccanismi difensivi che il paziente adotta a questo punto sono finalizzati all’elaborazione dei vissuti e delle emozioni suscitati dalla malattia. Spesso, come ricorda Ferrari, un limite che si riscontra nel personale sanitario, è considerare che il comportamento dei pazienti sia regolato completamente da meccanismi logico- razionali, ed alcune situazioni vengono considerate inspiegabili. Esistono invece delle specifiche raccomandazioni cliniche quando un paziente adolescente rifiuta un trattamento salvavita che prevedono la valutazione della capacità decisionale, la valutazione delle ragioni del rifiuto e il fondamento di tale rifiuto.

Bisogna tener conto del fatto che spesso gli adolescenti sono più interessati agli effetti collaterali acuti che non alla guarigione a distanza, sebbene con grossi sacrifici.

Spesso in psiconcologia la collaborazione nei pazienti in età evolutiva è compromessa in maniera evidente dall’angoscia; il mondo ospedaliero può apparire inquietante agli occhi dei giovani pazienti e dunque il rifiuto al trattamento può essere causato dalla paura. È perciò fondamentale che l’organizzazione di un reparto di cura di adolescenti malati di tumore sia organizzato con finalità di diminuire lo stress e l’ansia. È dunque necessario che gli adolescenti malati siano curati in luoghi costruiti appositamente per loro. In casi invece estremi di opposizione al trattamento o di insorgenza di malattia psicopatologica è raccomandabile un trattamento psicoterapeutico individuale o di gruppo.

Un altro aspetto importante da considerare nell’ambito della psiconcologia, per quanto riguarda l’adattamento alle vicende difficili come le malattie gravi, riguarda i meccanismi di difesa intesi come strumenti utilizzati dagli individui non solo per fronteggiare l’angoscia derivante da conflitti psichici interni, ma anche come meccanismi per far fronte all’angoscia legata ad aspetti reali, come situazioni che mettono a rischio la vita. Tali difese vanno valutate in base alla loro intensità, flessibilità e al livello di maturità del soggetto e alla possibilità di modificarsi in base alle situazioni. L’impiego elastico delle difese permette infatti di fronteggiare efficacemente l’angoscia. Nello specifico nel caso della malattia l’obbiettivo fondamentale dei meccanismi di difesa è quello di attenuare l’angoscia di morte. Spesso nei pazienti oncologici in età evolutiva si assiste a fasi di regressione a comportamenti tipici di fasi precedenti dello sviluppo. In particolare, durante le tappe più importanti del processo di separazione individuazione è possibile che si verifichi una regressione più intensa e un conflitto tra esigenze di autonomia e bisogni di accudimento. Una regressione eccessiva che si protrae troppo a lungo per effetto di una malattia grave durante la crescita, può rappresentare un problema.

Un aspetto importante su cui negli ultimi anni si è concentrata l’attenzione dei clinici riguarda quelle reazioni del paziente che non consentono l’espressione della sofferenza. Il rischio è che le paure più profonde vengano negate e compaiano come sintomi psicopatologici in momenti successivi.

Trattamento di psiconcologia per gli adolescenti

Le modalità di intervento in psiconcologia e di supporto psicologico nell’adolescente affetto da neoplasia sono differenti rispetto a quelle dei pazienti adulti o dei bambini. Infatti mentre è generalmente l’ammalato a chiedere una cura perché consapevole del suo disagio o perché ritiene che un intervento psicologico potrebbe essere di giovamento, nell’assistenza alle malattie gravi questo accade molto raramente, perché il soggetto di solito non presenta una psicopatologia conclamata, ma adotta modalità di adattamento fisiologico inadeguate o insufficienti che quindi richiedono un intervento di supporto. È in questa fase fondamentale che la proposta di intervento di supporto psicologico venga svolta in modo appropriato ai fini di una buona riuscita dell’alleanza terapeutica, ed è consigliabile che siano i medici a prospettare al giovane paziente oncologico la possibilità di un intervento psicologico. È infatti importante che l’attenzione ai bisogni psicologici sia inserita in un progetto integrato di presa in carico globale del paziente, dove il personale medico collabori attivamente con psicologi e psicoterapeuti, altrimenti c’è il rischio che ad un possibile rifiuto delle cure del corpo si aggiunga il rifiuto per le cure della psiche.

La sensazione di confusione è presente in molti pazienti in seguito all’esordio della malattia e alla diagnosi; l’ascolto e il colloquio con gli operatori può contribuire a ristabilire negli adolescenti in crisi emotiva un concetto di sé stabile e realistico sostenendo un senso di competenza rispetto al funzionamento personale e alle relazioni sociali, affettive e lavorative. Il colloquio può offrire un supporto in un momento di temporanea difficoltà ad integrare un evento o una situazione nei suoi processi di elaborazione di significato. In ospedale la modalità di intervento maggiormente utilizzata è quella supportiva. Tali tipi di intervento hanno l’obiettivo di migliorare l’autostima, la fiducia in se stessi, l’adattamento alla malattia e alle cure, oltre a lavorare per permettere un miglior funzionamento mentale di altre capacità come l’esame di realtà, le relazioni oggettuali, i meccanismi di difesa.

Clerici e colleghi ( 2014) identificano tre aree critiche nell’adattamento psicologico ad una malattia grave, costituite da processi emozionali, risposte cognitive e rappresentazione di sé. Per quanto riguarda le risposte emotive esse possono comportare sensazioni di torpore e ottundimento emotivo e cognitivamente la gamma di pensieri può essere limitata. I pazienti possono sperimentare l’assenza di emozioni positive a causa dell’improvviso irrompere della malattia nella vita, con i suoi effetti limitanti le prospettive del futuro, può riattivarsi una relazione ambivalente con le figure di attaccamento.

Se il corpo è sofferente e mal funzionante a causa della neoplasia o di aspetti derivanti dalle cure, l’adolescente può sperimentare un conflitto tra se stesso e la nuova realtà, avvertendo sensazioni caotiche, di depersonalizzazione e derealizzazione e sensazioni di isolamento.

Si può dunque affermare che l’obiettivo generale della psiconcologia è quello di guidare l’adolescente all’accettazione della patologia organica, sostenendo e promuovendo al contempo il suo sviluppo identitario e la sua maturazione psichica e facilitando il transito ad un’identificazione con la nuova immagine corporea, caratterizzata dai cambiamenti legati alla fase puberale e post puberale e dai cambiamenti imposti dalla malattia. Per fare ciò lo psicoterapeuta che segue un malato oncologico farebbe bene dunque a liberarsi dai suoi vissuti di onnipotenza e ricordarsi che egli può fare molto per il malato, ridimensionando e lenendo la sua angoscia di morte, ma che – chiaramente- la patologia organica non ricade sotto la sua area di competenza. L’intervento psicologico dovrà essere orientato innanzitutto ad affrontare e cercare di risolvere quanto prima l’opposizione del malato al riconoscimento del suo stato ed il rifiuto delle cure.

All’interno della psiconcologia, l’approccio psicoanalitico consiste nella chiarificazione dell’informazione all’interno dell’unità somato-psichica: eliminando le informazioni aberranti originate da misconoscimenti dovuti all’immaturità dell’apparato psichico in formazione, liberando gli accumuli energetici che non hanno trovato modalità fisiologiche di scarica, ridimensionando i vissuti di onnipotenza narcisistici. La scomposizione delle componenti psichiche si completa con una sintesi superiore dei contenuti rappresentazionali-affettivi ( Zangrilli, 2006).

Al di là della paura: la psicologia del terrorismo

Dopo gli avvenimenti del Settembre del 2001 il terrorismo è diventato una minaccia incombente e quotidiana che ha turbato la serenità collettiva. Negli ultimi anni le paure ad esso connesse hanno raggiunto l’apice storico.

Giulia Grigi, Carmine Rescigno – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Dopo gli attentati recenti in Francia, in Belgio e in Inghilterra, l’Europa e il Mondo sono ripiombati nuovamente in un clima di sgomento e di terrore. Il terrorismo è divenuto uno di quei temi con i quali ci ritroviamo a fare i conti quotidianamente, quasi costretti a confrontarci con questa nuova realtà sempre più incalzante.

Terrorismo, adolescenti e internet

Sempre più giovani adolescenti, vengono reclutati tra le fila degli aspiranti attentatori. Dounia Bouzar, antropologa impegnata in Francia in un lavoro di decondizionamento delle menti dei giovani, sedotte da questo ideale, fa notare che soltanto uno stimolo emozionale, e non cognitivo, legato alla ragione può liberare questi giovani dalla chiamata alle armi. La Bouzar avverte i genitori riguardo la necessità di avvertire i propri figli riguardo i pericoli nascosti in Internet, piattaforma per il reclutamento delle nuove giovani leve al servizio della Jihad contro il mondo occidentale.

Il web rappresenta un vero e proprio nodo cruciale nella strategia di ISIS che è fondata principalmente sulla diffusione virale dei propri contenuti online. I social network come Facebook, Youtube, Twitter diventano parte integrante di un marketing del terrore che assume sempre più i toni di una propaganda mondiale, forte soprattutto dell’abile utilizzo da parte degli estremisti della lingua inglese.

Psicologia del terrorismo: cosa accade nella mente di un attentatore

A questo punto nasce spontaneo interrogarsi sulla psicologia del terrorismo, in particolare sulla psicologia della mente di un attentatore.

Innanzitutto quali meccanismi rendono qualcuno un fanatico? Una ipotesi è stata avanzata dagli psicologi sociali Stephen D. Reicher e S. Alexander Haslam (2016), i quali suppongono che in molti casi i terroristi non siano personalità sadiche o psicopatiche come saremmo portati a pensare, bensì persone ordinarie che vengono condizionate da dinamiche di gruppo nel commettere degli atti di efferata atrocità in nome di una percepita giusta causa.

Reicher e Haslam ci spiegano che queste dinamiche tendono ad influenzare anche noi, in quanto le nostre paure e le nostre reazioni esagerate possono produrre dei livelli più elevati di estremismo, dando vita ad un ciclo che è stato denominato “co-radicalizzazione”. Un’altra importante questione ci porta a riflettere e a porci degli interrogativi riguardo al come possono dei terroristi, esseri umani, trattare con tanta crudeltà altri esseri umani, e soprattutto come questo possa risultare fascinoso sui giovani e cosa hanno in mente questi, quando scelgono come obiettivo dei civili innocenti?

Molti potrebbero saltare a conclusioni affrettate, solamente dei sadici o degli psicopatici – individui del tutto diversi da noi – potrebbero indossare un giubbotto imbottito di esplosivo o imbracciare un fucile e fare fuoco all’impazzata. Ma purtroppo questa prospettiva pare errata. Grazie agli esperimenti fatti tra il 60 e il 70 in psicologia sociale siamo venuti a conoscenza che individui sani e senza nessuna particolare psicopatologia erano in grado di poter infliggere senza provare alcuna forma di rimorso danni molto gravi ad altre persone. Questo viene dimostrato nel celeberrimo esperimento tratto dallo studio di Millgram (1978) sull’obbedienza all’autorità che dimostra che il suo campione di soggetti dei test era pronto a infliggere quelle che ritenevano essere delle scariche elettriche letali semplicemente perché questo veniva espressamente chiesto da ricercatori in camice bianco.

Successivamente un altro esperimento di Zimbardo (1972) ha dimostrato che gli studenti a cui veniva assegnato il ruolo di guardie carcerarie erano disposti a infliggere qualsiasi sorta di umiliazione e a commettere ogni genere di abuso sugli studenti che impersonavano i prigionieri. Questi studi appena citati hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani può commettere atti di violenza se si trova in una determinata condizione. E vale lo stesso discorso per i terroristi. Da un punto di vista della psicologia del terrorismo, tutti coloro che aderiscono a gruppi estremisti non sono dei mostri, ma come afferma l’antropologo Scott Atran studioso di questa tipologia di assassini,  ma gente ordinaria. Quello che trasforma una persona in un fanatico, spiega Atran “non è qualche inerente difetto di personalità, ma piuttosto la dinamica trasformatrice della personalità che si stabilisce nel gruppo” a cui appartiene.

Secondo Millgram e Zimbardo lo sviluppo di queste dinamiche di gruppo è correlato con il conformismo, ovvero l’obbedienza ad un leader oppure il sottostare al punto di vista della maggioranza. Numerosi studi che hanno abbracciato la gran parte dell’ultimo mezzo secolo hanno aumentato la nostra comprensione circa il comportamento delle persone all’interno dei gruppi. In particolare, stiamo imparando che la radicalizzazione non avviene dal nulla ma è portata in essere, almeno in parte, da tensioni tra i gruppi che gli estremisti pianificano di creare, sfruttare e provocare. Se si riesce a convincere un numero sufficiente di non-Musulmani a guardare i Musulmani con timore e ostilità, allora i Musulmani che fino a quel momento si erano mantenuti su posizioni moderate potrebbero sentirsi ignorati e prestare orecchio alla chiamata delle voci fondamentaliste.

Allo stesso modo, se si può convincere un numero sufficiente di Musulmani a manifestare ostilità verso gli Occidentali, allora la maggioranza in Occidente potrebbe iniziare a sostenere una leadership più disposta al conflitto. Sebbene spesso pensiamo ai fondamentalisti islamici e agli islamofobi come poli opposti, in realtà le due posizioni sono inestricabilmente interconnesse. E questa consapevolezza comporta che le soluzioni alla piaga del terrore devono riguardare entrambe le parti. Le scoperte di Milgram e Zimbardo hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani potrebbe abusare degli altri. Se si guarda attentamente ai risultati, però, la maggior parte dei soggetti non lo ha fatto (per i risultati dei singoli esperimenti vedi bibliografia).

Identificazione e disidentificazione

Quali sono gli elementi peculiari di coloro che lo hanno fatto? Henry Tajfel e John Turner, sostenevano che il comportamento di un gruppo e l’influenza del suo leader dipendessero da due fattori collegati tra di loro: l’identificazione e la disidentificazione, cioè affinché qualcuno si lasci influenzare dal gruppo ci si deve identificare con i membri del gruppo e al tempo stesso distaccare dagli esterni al gruppo, ritenendo che questi ultimi non abbiano niente a che spartire con sé.

Hanno trovato conferma di queste dinamiche nel loro lavoro gli studiosi di psicologia sociale S.D. Reicher e A. Haslam (2016), che ha rivisitato i paradigmi di Milgram e Zimbardo. Attraverso un buon numero di studi diversi, abbiamo scoperto consistentemente che, proprio come avevano sostenuto Tajfel e Turner, i soggetti sono disposti ad agire in maniera oppressiva solo a patto di aderire alla causa a cui gli è stato in precedenza chiesto di aderire – e disidentificarsi con coloro a cui devono fare del male. Più ritengono giusta la causa, più giustificano i loro atti come sgradevoli ma necessari.

Questa comprensione – cioè che è l’identità sociale e non la spinta a conformarsi che determina il punto fin cui si è disposti a spingersi – ben si accorda con le scoperte sulle motivazioni dei terroristi. Nel suo libro del 2004 Comprendere i Network del Terrore, lo psichiatra forense Mark Sageman, un ex ufficiale della CIA, sottolinea che i terroristi sono in genere autentici credenti che capiscono esattamente quello che stanno facendo. “I Mujaddin erano killer entusiasti“, fa notare, “non robot che rispondevano semplicemente alle pressioni sociali o alle dinamiche di gruppo“. Sageman non sminuisce l’importanza di leader carismatici come Osama Bin Laden e Abu Bakr Al-\Baghdadi dell’ ISIS, ma ha suggerito che provvedono più a fornire ispirazione che a dirigere le operazioni, impartire ordini o tirare i fili.

In realtà, vi è una scarsa evidenza documentata di marionettisti che orchestrino gli atti terroristici, per quanto il linguaggio dei media spesso lasci intendere il contrario. Il che ci porta al secondo recente sviluppo per quanto riguarda il nostro pensiero sulle dinamiche di gruppo: abbiamo osservato che quando le persone si pongono sotto l’influenza di autorità, malevole o meno, solitamente non assumono atteggiamenti servilistici, ma piuttosto trovano strade uniche e individuali per portare avanti gli obiettivi del gruppo. Dopo che l’esperimento della prigione di Stanford si era concluso, per esempio, una delle guardie più zelanti ha chiesto al prigioniero di cui aveva abusato che cosa avrebbe fatto al suo posto. Il prigioniero replicò: “Non credo che avrei avuto tanta inventiva quanta ne hai avuta tu. Non credo che sarei riuscito ad essere così creativo in quello che facevo. Non sarei riuscito a realizzare un capolavoro come il tuo“. Anche i singoli terroristi tendono ad essere sia autonomi sia creativi, e l’assenza di una struttura gerarchica di comando è ciò che rende il terrorismo così difficile da combattere.

Il ruolo dei leader

Sorge spontanea la domanda sulla strategia impiegata da parte dei leader di queste cellule sul come facciano ad attrarre nuovi seguaci senza impartire ordini diretti. La risposta potrebbe arrivare da scoperte passate che sottolineano il ruolo che i leader giocano nel costruire un senso di identità e scopo condivisi per un gruppo, aiutando i membri a trovare una cornice di riferimento per interpretare le loro esperienze. Rafforzano i loro seguaci stabilendo una causa comune e rafforzano sé stessi nel formarla. In realtà, gli esperimenti di Milgram e Zimbardo sono lezioni autorevoli sul come creare una identità condivisa e poi impiegarla per mobilitare le persone verso fini distruttivi.

Proprio come i due hanno convinto i soggetti dei loro studi a infliggere dolore nel nome del progresso scientifico, così i leader di successo hanno bisogno di far passare l’impresa che hanno in programma per il loro gruppo come onorevole e nobile.

Sia al Qaeda sia l’ISIS sfruttano questa strategia. Una larga parte del fascino che esercitano sui simpatizzanti è dovuta al fatto che promuovono il terrore nel nome di una società migliore, una che si richiama alla comunità pacifica che circondava il profeta Maometto. È cruciale, tuttavia, che la credibilità e influenza dei leader – specialmente quelli che promuovono il conflitto e la violenza – dipenda non solo da ciò che dicono e fanno ma anche dal comportamento dei loro oppositori. Prove di ciò sono emerse dopo una serie di esperimenti condotti da uno studio di Haslam e Ilka Gleibs (2016) che hanno studiato come la gente scelga i propri leader. Una delle scoperte chiave è stata che le persone sono più bendisposte a supportare un leader bellicoso se il loro gruppo si trova in contrasto con un altro gruppo che ha una attitudine belligerante.

Proprio come l’ISIS fomenta i politici radicali in Occidente, così quei politici indirettamente e forse inconsapevolmente fomentano l’ ISIS per ottenere sostegno. Questo scambio è parte di quello che lo studioso delle religioni Douglas Pratt dell’Università di Waikato in Nuova Zelanda ha denominato co-radicalizzazione. E in essa si può individuare il vero potere del terrorismo: può essere utilizzato per provocare altri gruppi affinché considerino il proprio stesso gruppo come pericoloso – il che consolida i seguaci di quei leader che predicano l’inimicizia. Il terrorismo non riguarda tanto il diffondere la paura nello stato di cose vigente, ma nel modificare quello stato di cose seminando sfiducia e ulteriore conflitto.

Nel febbraio 2015 la rivista dell’ISIS Dabiq ha pubblicato un editoriale intitolato “L’ estinzione della zona grigia“. I suoi autori si lamentavano del fatto che molti Musulmani non vedessero l’Occidente come il loro nemico e che molti rifugiati fuggiti da Siria e Afghanistan in realtà vedessero i paesi occidentali come luoghi di opportunità. Invocavano la fine della ‘zona grigia’ di coesistenza costruttiva e la creazione di un mondo nettamente diviso tra Musulmani e non Musulmani, nel quale ciascuno o sta dalla parte dell’ISIS o dalla parte dei kuffar (miscredenti). Inoltre spiegava l’attacco alla sede del magazine francese Charlie Hebdo esattamente in questi termini: “Il tempo era giunto per un nuovo evento – magnificato dalla presenza del Califfato sul palcoscenico globale – per portare nuova divisione nel mondo”.

Sintetizzando, il terrorismo si basa tutto sulla polarizzazione. Si tratta di riconfigurare le relazioni intergruppali in modo che le leadership radicali sembrino offrire la soluzione più sensata per affrontare un mondo di sfide radicali. Da questo punto di vista, il terrorismo è il completo opposto della distruzione insensata. E’ piuttosto una strategia conscia – ed efficace – per attirare seguaci nell’ambito dei leader disposti al conflitto. In questo modo, quando si tratta di capire perché i leader radicali continuino a fomentare il terrorismo, abbiamo bisogno di porre in esame sia le loro azioni sia le nostre reazioni.

La lotta al terrorismo: attenzione alle azioni e alle reazioni

Attualmente le energie adoperate da molti paesi per contrastare il terrorismo, prestano poca attenzione al modo in cui le nostre reazioni vadano a costituire l’antefatto delle loro azioni. Queste iniziative si concentrano esclusivamente sugli individui e si aspettano che qualcosa mini il senso di sé e la determinazione di qualcuno: discriminazione, la perdita di un genitore, il bullismo, un trasferimento, o qualsiasi cosa che lasci la persona confusa, incerta e sola.

Lo psicologo Erik Erikson (1968) ha notato che i giovani con una identità ancora in costruzione sono particolarmente vulnerabili a questo tipo di deragliamento. Di conseguenza diventano facili vittime di gruppi che affermano di offrire una comunità di supporto nel perseguimento di un nobile obiettivo. Questa potrebbe essere una parte importante del processo con il quale le persone vengono attirate all’interno di organizzazioni terroristiche. Una grande quantità di prove indica l’importanza dei legami dei piccoli gruppi e, secondo Atran e Sageman (2010; 2016), i terroristi islamici sono caratteristicamente fondati su piccole associazioni di parenti e amici intimi. Molti gruppi creano legami affettivi centrati su una causa comune: gruppi sportivi, gruppi culturali, gruppi di difesa dell’ambiente. Anche tra le fazioni religiose – inclusi i gruppi islamici – la grande maggioranza offre un senso di comunanza e di significanza senza con ciò promuovere la violenza. Allora perché, nello specifico, alcune persone sono attratte dai pochi gruppi islamici che predicano il confronto violento?

È ipotizzabile che questi gruppi offrano molto di più che la semplice consolazione e supporto. Offrono anche delle narrative adatte alle loro reclute e li aiutano a trarre senso dalle loro esperienze. E in quel caso, bisogna esaminare seriamente le idee che i gruppi islamici militanti promuovono – inclusa la nozione che l’Occidente sia un nemico di sempre che odia tutti i Musulmani. Forse che le nostre reazioni maggioritarie in qualche modo finiscano per supportare le tendenze radicalizzanti nelle comunità islamiche minoritarie? Forse che la polizia, gli insegnanti e altre figure di rilievo facciano sentire i giovani islamici in Occidente esclusi e rigettati – in maniera tale che arrivano a vedere lo stato meno come un protettore e più come il loro avversario? Se è così, in che modo ciò cambia il loro comportamento?

In uno studio attualmente in corso, Reicher in collaborazione con Blackwood e Hopkins hanno condotto una serie di sondaggi individuali e di gruppo all’interno degli aeroporti scozzesi nel 2013. Abbiamo scoperto che la maggior parte degli Scozzesi – islamici e non islamici – hanno un chiaro senso di ‘tornare a casa’ dopo i loro viaggi all’estero. Eppure molti musulmani scozzesi provavano l’esperienza di essere trattati con sospetto ai controlli aeroportuali. Chiedendosi il perché di essere stati perquisiti, il perché di aver risposto a tutte quelle domande e il perché vengano portati in una stanza separata.

Questa esperienza di “misriconoscimento” ovvero di trovarsi in una situazione in cui gli altri dubitano o negano una data identità, ha provocato ira e cinismo verso le autorità. Ha condotto queste persone a prendere le distanze dalla gente dal chiaro aspetto britannico. Per essere chiari, il misriconoscimento non trasforma istantaneamente gente altrimenti moderata in terroristi o estremisti. Nonostante questo, ha iniziato a spostare la bilancia del potere dai leader che dicono: “Collaborate con le autorità; sono vostre amiche”, verso quelli che insistono: “Le autorità sono vostre nemiche.”

I leader delle minoranze radicali usano la violenza e l’odio per provocare le autorità maggioritarie a istituire una cultura di sorveglianza contro i membri dei gruppi minoritari. Questa cultura provoca misriconoscimento, che porta al disimpegno e alla disidentificazione dalla cultura maggioritaria. E questa presa di distanze può rendere gli argomenti dei radicali più difficili da ignorare. In conclusione si potrebbe affermare che da sole le voci delle minoranze radicali non bastano a radicalizzare qualcuno né bastano le esperienze individuali di questo qualcuno. Ciò che è efficace, invece, è il mix delle due cose e la loro caratteristica di rinforzarsi e amplificarsi a vicenda.

I servizi psichiatrici di diagnosi e cura tra criticità e innovazione – Report dal corso di Palermo, 13 luglio 2017

Diagnosi, intervento precoce, in particolare per il contrasto dei comportamenti aggressivi, integrazione di farmacologia e psicoterapia, criticità e strategie di miglioramento dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), reparti psichiatrici attivi negli ospedali generali, affermatisi come la più durevole struttura dei Dipartimenti di Salute Mentale. Questi i temi centrali del corso di aggiornamento tenutosi a Palermo il 13 luglio scorso presso la sezione di psichiatria del Dipartimento di Biomedicina sperimentale e neuroscienze cliniche dell’Università di Palermo, diretto dal professor Daniele La Barbera.

 

I limiti e le innovazioni delle strutture psichiatriche di SPDC

L’idea da cui origina il presente corso è quella di chiarire funzioni proprie, limiti e possibilità di miglioramento dei SPDC, in virtù della presenza di protocolli nazionali comuni, di una vera e propria rete nazionale, soprattutto in relazione ad alcune emergenze riscontrabili nelle acuzie, come i comportamenti aggressivi e suicidari, con risvolti di tipo giuridico-forensi” commenta Antonio Francomano, cultore di materia e docente presso l’Università di Palermo.

Lungo il corso, che si è snodato tra sessioni mattutine e pomeridiane, argomenti cardine sono stati la diagnosi e la cura dell’esordio psicotico, l’individuazione di fattori di rischio, delle terapie farmacologiche e psicoterapeutiche più efficaci, in particolare sul versante della riabilitazione cognitiva, il tutto calibrato all’interno della struttura specifica dell’SPDC.

Riguardo ai fattori di rischio genetico è bene precisare che non esiste un gene della psicosi, piuttosto numerosi geni, ognuno dei quali conferisce un rischio aggiuntivo – spiega Emi Biondi, Responsabile SPDC Ospedali Riuniti di Bergamo e Presidente Coordinamento Nazionale SPDC. Esistono fattori di rischio perinatali come l’ipossia alla nascita, e altresì fattori legati all’uso di stupefacenti (per esempio la cannabis aumenta di tre volte il rischio di sviluppare disturbi psicotici, l’anfetamina è in grado di produrre sintomi positivi come i deliri, mentre l’LSD induce sia sintomatologia positiva che negativa, come l’apatia). Bisogna considerare altresì l’esperienza migratoria, possibile fattore scatenante di episodi psicotici dovuti allo stress”.

Report - I servizi psichiatrici di diagnosi e cura tra criticità e innovazione, Palermo

Si tratta di problematiche di natura cognitiva, affettiva e sociale, patologie invalidanti poiché investono l’ambito cognitivo, emotivo e relazionale da cui l’urgenza di interventi precoci centrati sulla combinazione di terapie psicologiche e di tipo farmacologico.

Ogni episodio di malattia è una sorta di infarto neurologico, ecco perché riuscire a seguire fin da subito gli episodi psicotici è importante per attutirne il decorso. I farmaci sono raccomandati fin dai primi esordi psicotici, soprattutto gli antipsicotici a rilascio prolungato, utili nei casi di scarsa compliance nei pazienti affetti da schizofrenia, in combinazione con interventi di carattere riabilitativo e psicosociale” – continua Biondi.
Interventi di routine, la cui efficacia, anzi la cui stessa praticabilità, si scontra con criticità di carattere organizzativo dei SPDC relative ai cosiddetti ricoveri impropri.

La filosofia dei SPDC è l’accoglienza, garantita dalla presenza di spazi per le attività psico-socio-educative e da un clima di reparto che promuove la riduzione degli agiti violenti. Noi intendiamo i SPDC non solo come spazi di contenimento farmacologico d’urgenza, ma come spazi di ricostruzione, di crescita e di riacquisizione di Sé e delle sue parti, nonché della capacità di stabilire sane relazioni sociali. E’ importante ricordare che la destinazione d’uso di un SPDC è quella di occuparsi dell’emergenza su pazienti bipolari e psicotici. Questa naturale funzione subisce però dei rallentamenti per la presenza in circa il 30% dei casi (almeno cinque su quindici posti letto) di altre tipologie di pazienti come minori o autori di reato – chiarisce Francesco Chimenz, Responsabile SPDC Ospedale di Taormina ASP Messina – Occuparsi di pazienti psicotici e bipolari significa lavorare su due aspetti specifici: da un lato la frequenza dei comportamenti violenti, più elevata nei pazienti bipolari, dall’altra la gestione del rischio suicidario. Sotto il primo aspetto una strategia relazionale molto utile adoperata dall’équipe di un SPDC è il talk down, strategia volta ad abbassare i toni del soggetto che esprime aggressività; nel secondo caso è importante tenere in osservazione il paziente, in seguito a un tentato suicidio, a un mancato suicidio o alla sola ideazione suicidaria, e dopo le dimissioni orientarlo e seguirlo attraverso i presidi territoriali”.

Le strategie più adeguate per la riabilitazione cognitiva nelle strutture di SPDC

Sulla riabilitazione cognitiva presenta infine la sua dettagliata relazione il professor Francomano, argomentando le strategie più idonee, sia sul versante cognitivo che socio-relazionale.

Solo il 27% dei pazienti schizofrenici non presenta problemi di cognitività. In quest’ambito dobbiamo considerare tre domini, ovvero la metacognizione, la consapevolezza delle proprie abilità cognitive, la neurocognitività, l’abilità di percepire e processare le informazioni, e la cognizione sociale, la capacità di percepire e interpretare il comportamento altrui, che implica la percezione delle emozioni altrui e il mettersi nei panni degli altri”.

Ecco che la riabilitazione cognitiva mira alla precocità degli interventi che riducono il deterioramento delle funzioni psichiche di memoria e attenzione e migliorano il funzionamento sociale, aspetto influenzato dalla cognizione, al fine di garantire al paziente con schizofrenia il mantenimento delle relazioni interpersonali e una vita autonoma. “E’ fondamentale una buona diagnosi e un tempestivo intervento. Infatti ciò che si perde nei primi cinque anni di malattia non si recupera più. La diagnosi di una compromissione cognitiva beneficia del Brief assessment of Cognition in Schizofrenia, una batteria di test per lo studio delle principali funzioni cognitive come attenzione, memoria di lavoro, velocità di processamento e funzioni esecutive così come del Global Assessment of Functioning (GAF) per la valutazione generale del funzionamento sociale, occupazionale e psicologico. Riguardo le tecniche di riabilitazione cognitiva da citare è la Cognitive Remediation Therapy (CRT) consistente in un programma di training cognitivo strutturato e costituito da tre moduli elaborati per lo sviluppo di funzioni quali flessibilità cognitiva, memoria di lavoro e pianificazione. L’obiettivo è di indurre la persona a sviluppare strategie proprie per risolvere i problemi, con il supporto di personale addestrato a guidare il soggetto nella formulazione di una risposta adeguata alle richieste dell’ambiente. Importanza assumono poi gli interventi psicoeducazionali, che guidano il soggetto alla miglior comprensione della malattia, al riconoscimento dei segnali precoci di crisi e al contenimento dell’emotività espressa intrafamiliare. Per incidere positivamente sul funzionamento sociale si utilizza infine il Social Skills Training, programma che aiuta a incrementare le abilità nelle relazioni interpersonali al fine di ritardare, o addirittura ridurre, la probabilità di ricaduta nei pazienti schizofrenici”.

Ricordo di Franco Giberti

Riceviamo notizia della scomparsa del prof. Franco Giberti, figura storica della psichiatria italiana. Fondatore della cattedra di Clinica Psichiatrica dell’Università di Genova, assieme a De Martis a Pavia e a Cazzullo a Milano è stato uno dei tre padri della psichiatria in Italia al momento della sua separazione dalla neurologia alla fine degli anni sessanta. Sul suo Manuale di Psichiatria -scritto insieme a Romolo Rossi- si sono formate intere generazioni di psichiatri italiani.

Un ricordo più dettagliato del nostro è quello del suo allievo Francesco Bollorino e lo possiamo trovare qui. L’impostazione di Giberti, oltre che basata sulla fenomenologia, la psicopatologia e la neurobiologia, era psicodinamica, il che a quei tempi denotava un interesse per gli aspetti psicologici della psichiatria, interesse non sempre garantito tra gli psichiatri. Cazzullo, ad esempio, aveva una impostazione più  medica e meno propensa a esplorare l’aspetto psicologico.

Franco Giberti inoltre è stato tra i precursori della cosiddetta legge Basaglia, ovvero la legge 180 del 13 maggio 1978 che permise la riforma della psichiatria e la chiusura dei manicomi. Infatti Giberti nel 1973 aveva fatto parte di una commissione nominata dall’amministrazione provinciale di Genova e composta da lui stesso e da Franco Basaglia in persona, oltre che da Elio Casetta, Pier Andrea Mazzoni e Pier Luigi Spadolini. Questa commissione aveva redatto un documento -approvato dal Consiglio provinciale nel gennaio 1974- in cui era vietato ogni nuovo ampiamento o edificazione di ospedali psichiatrici e si raccomandava la preferenza per forme alternative al manicomio di assistenza ai malati come l’inserimento in piccole comunità. Il documento del 1974 fu un importante passo verso la legge 180 ed è uno dei tanti meriti di Giberti da ricordare.

Giberti fu meno entusiasta del passo successivo, quello della legge Basaglia del 1978. Probabilmente egli temette che le limitate risorse della psichiatria non avrebbero consentito di far fronte alle esigenze del territorio, per il quale occorrevano nuove strutture. Ci fu dunque una divergenza strategica tra la scatto in avanti di Basaglia e la linea più prudente di Giberti. Come scrive Bollorino, Giberti preferì concentrarsi sulla creazione della clinica psichiatrica, forse ritenendo che questa opera dovesse precedere la chiusura dei manicomi. In termini pratici è vero che l’attuazione piena della legge Basaglia è avvenuta solo alla fine degli anni ’90, con l’iniziativa dell’allora ministro Bindi che stabilì che le Regioni che avessero avuto ancora dei manicomi aperti avrebbero avuto una decurtazione del 3% sul fondo sanitario nazionale. Il bastone della Bindi fu indubbiamente efficace. Come ricorda lo psichiatra Bruno Orsini –l’estensore materiale della legge Basaglia essendo nel 1978 sottosegretario alla sanità- in una intervista disponibile online: “Ci fu una corsa, un’improvvisa sensibilizzazione della vergogna che erano stati i manicomi”.

Ci lascia una figura importante che ha agito su vari nodi di sviluppo della psichiatria Italiana. Non dimenticarlo è doveroso.

 

Intervista a BRUNO ORSINI – La difficile attuazione della 180

 

Realtà virtuale: nuove frontiere per le patologiche psichiatriche

Realtà Virtuale: nuove frontiere per le patologie psichiatriche

Caterina Fusco (Psichiatra psicoterapeuta cognitivo-comportamentale AslNa2nord), Maddalena Pizziferro (Psicologa psicoterapeuta cognitivo-comportamentale), Antonietta Moccia (Tecnico della riabilitazione psichiatrica), Marianna Di Nunzio (Tecnico della riabilitazione psichiatrica)

 

Abstract

Gli Autori ripercorrono la storia della realtà virtuale partendo dai primi suggestivi esperimenti, risalenti alla prima metà del secolo scorso, fino ai nostri giorni. Vengono messi in evidenza i numerosi e stimolanti campi applicativi che questa nuova scienza oggi offre a chi vuole esperire nuove frontiere di applicazione allargando le possibilità terapeutiche in diversi campi della medicina. Fantascienza o reali possibilità? La cybertherapy appare ora una reale e nuova opportunità in grado di favorire l’apprendimento di tecniche complesse in maniera rapida ed efficace. In questa review gli Autori riportano anche le differenze tra i tipi di realtà virtuale ed infine si soffermano in campo psichiatrico mettendo in evidenza l’opportunità che la realtà virtuale offre ai pazienti:nuovi ed efficaci modelli di terapia per la cura di fobie, ossessioni, disturbi del comportamento alimentare e possibilità di trattamento di sintomi produttivi di pazienti più gravi. In particolare esaminano la possibilità di “sfruttare” la realtà virtuale per velocizzare percorsi riabilitativi per pazienti cronici come l’apprendimento di abilità sociali, messa in discussione dei vissuti deliranti. Il lavoro svolto finora dagli A.A. citati induce a pensare che la realtà virtuale potrebbe essere indubbiamente inserita nei protocolli di trattamento di diversi disturbi psichiatrici e allo stesso tempo suggerisce studi per aprire nuove strade e nuove frontiere a favore delle patologie psichiatriche più complesse.

Definizione di realtà virtuale

Si può definire la realtà virtuale come la simulazione di un ambiente tridimensionale costruito al computer, che può essere esplorato in tempo reale mentre con l’aiuto di particolari dispositivi,è possibile interagire con oggetti contenuti al suo interno e con situazioni come se fossero presenti realmente (Riva, 2005).

La realtà virtuale è definita da Riva (2007) come uno strumento che permette una forma specifica di comunicazione e di presenza. Il soggetto vive l’esperienza di essere presente fisicamente in uno scenario virtuale ed interagisce con esso con sensazioni, emozioni e valutazioni proprie dell’interazione quotidiana col mondo.

Realtà virtuale (virtual reality o VR) vs realtà aumentata (augmented reality o AR)

Per realtà aumentata (AR) si intende la rappresentazione di una realtà alterata in cui, alla normale realtà percepita attraverso i nostri sensi, vengono sovrapposte informazioni sensoriali artificiali/virtuali. Si tratta di un potenziamento percettivo, basato fondamentalmente sulla generazione di contenuti virtuali da parte di un computer e dalla loro sovrapposizione con la realtà.

La realtà virtuale nasce dall’idea di “replicare” la realtà, quanto più accuratamente possibile dal punto di vista visivo, uditivo, tattile e anche olfattivo, per compiere azioni nello spazio virtuale superando limiti fisici, economici e di sicurezza. Il soggetto viene proiettato all’interno di mondi alternativi, catapultato in ogni angolo del mondo vivendo avventure in prima persona.

In sintesi, possiamo dire che la realtà aumentata è basata sul potenziamento dei sensi, mentre quella virtuale sull’alterazione.

La realtà virtuale permette di conoscere il mondo mediante un apprendimento di tipo percettivo-motorio più naturale per l’essere umano, rispetto all’apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo mediato dalla scrittura o dalla tastiera di un computer (Galeazzi, Di Milo, 2011). L’apprendimento motorio prevede una ripetizione ciclica tra percezione e azione: il soggetto osserva i fenomeni, interviene con la propria azione, osserva gli effetti di tale azione in un ciclo basato sull’apprendimento per prove ed errori. In un ambiente di realtà virtuale è possibile conoscere gli oggetti e imparare ad utilizzarli attraverso l’esperienza diretta e in tempo reale delle reazioni alle proprie azioni. Tali aspetti dell’apprendimento esperienziale sono stati studiati in ambito della riabilitazione psichiatrica, dove è necessario che il paziente si riappropri di modalità di esecuzione e controllo di sequenze comportamentali complesse (Wann&Mon-Williams, 1996).

Tipi di realtà virtuale

Un sistema di realtà virtuale è costituito da una serie di strumenti in grado di ottenere informazioni sulle azioni del soggetto (strumenti di input), che vengono integrate e aggiornate in tempo reale dal computer in modo da costruire un mondo tridimensionale dinamico, per essere restituite al soggetto attraverso sofisticati strumenti di fruizione dell’informazione (strumenti di output). In base agli strumenti di output utilizzati è possibile distinguere tre tipi di realtà virtuale:

  • Immersiva: concernente dispositivi sonori, di visualizzazione, di movimento e tattili (casco 3D, guanti e tracciatori sensoriali) che isolano i canali percettivi del soggetto immergendolo in toto, a livello sensoriale, nell’esperienza virtuale che si accinge a compiere. (Melacca, 2016). L’interazione è data da uno o più sensori di posizione (tracker) che rilevano i movimenti del soggetto e li trasmettono al computer, così che questo possa modificare l’immagine tridimensionale in base alla posizione e al punto di vista assunto dal soggetto (Morganti, Riva, 2006).
  • Semi-Immersiva: determinata da stanze fornite di dispositivi e schermi di retro-proiezione surround che riproducono le immagini stereoscopiche del computer e le proiettano sulle pareti, con differenti forme e gradi di convessità, adeguati indici di profondità dell’immagine, dando il cosiddetto effetto tridimensionale (Melacca, 2016).
  • Non Immersiva: determinata da monitor che funge da “finestra” attraverso cui l’utente vede il mondo in 3D; l’interazione con il mondo virtuale può essere effettuata attraverso il mouse, il joystick o altre periferiche come i guanti (Melacca, 2016).

Cenni storici

Sebbene la letteratura tra Ottocento e Novecento sia ricca di riferimenti a mondi “altri” da quello in cui viviamo (Eva Futura di Villiers de l’Isle-Adam 1886),si inizia a parlare di realtà virtuale tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del 1900, quando lo scrittore Stanley Weinbaum pubblica il racconto breve The Pygmalion’s Spectacles, in cui fa riferimento a visori per la realtà virtuale basati su registrazioni olografiche di esperienze in grado di stimolare il senso della vista e dell’udito ed anche il senso del tatto e dell’olfatto.

Il fermento intellettuale nei confronti dei nuovi mondi virtuali troverà negli anni Cinquanta una prima applicazione della realtà virtuale.

Il pioniere della realtà virtuale è stato Morton Heilig, il quale, nel 1957, progetta il Sensorama, una macchina che permetteva di guardare film coinvolgendo tutti i sensi. Non solo erano presenti stimoli visivi e uditivi, ma alla pellicola erano integrati movimenti del sedile, soffi d’aria, profumi e vibrazioni, rendendo l’esperienza di intrattenimento più coinvolgente. La visione futuristica di Heilig non trovò fondi sufficienti per essere sviluppata ed applicata al cinema, così il Sensorama rimase solo un prototipo. Successivamente Heilig lavorò ad una versione portatile, costruendo un visore chiamato Head Mounted Display (HMD), molto simile a quelli in commercio oggi, e nonostante fosse stato brevettato, il progetto restò solo sulla carta.

Nel 1968, Ivan Sutherland crea un visore in grado di far vedere immagini 3D che si sovrappongono a oggetti reali, rendendolo sostanzialmente il primo esempio di realtà aumentata della storia, ma il visore risultò essere pesante per cui doveva essere montato su un braccio collegato al soffitto, e per questo soprannominato “spada di Damocle”.

Nel 1987, Jaron Lanier conia il termine “virtual reality” (VR) e la serie televisiva Star Trek lancia l’Holodeck, dando a milioni di persone un’idea più concreta di come questa tecnologia possa funzionare.

All’inizio degli anni 2000, Palmer Luckey, giovane americano con la passione per la tecnologia, assembla un prototipo di visore e, da quel momento, il settore della realtà virtuale esce dalla nicchia di appassionati. Negli stessi anni continua a svilupparsi la realtà virtuale, che annulla sempre più la percezione dell’ambiente reale, ingannando i sensi e immergendo chi la utilizza in un contesto reale ed irreale contemporaneamente.

Il 2016 è stato definito l’anno della realtà virtuale e il fondatore di facebook, Mark Zuckerberg, afferma che la realtà virtuale sarà la piattaforma del futuro.

Campi applicativi

L’utilizzo delle nuove tecnologie digitali spazia in vasti settori produttivi: dal designer per la progettazione di oggetti, al prototipo di veicoli per le aziende automobilistiche, alle tecniche aeronautiche per la simulazione dei voli, all’ingegneria edile per la resa visiva e l’impatto ambientale delle opere finite, al cinema e intrattenimento in cui i visori a realtà virtuale permetteranno di “entrare” all’interno delle scene e di vedere tutto da una prospettiva differente.

Di recente anche le discipline umanistiche stanno traendo grande beneficio da queste nuove tecniche, basti pensare alle molteplici ricostruzioni virtuali nel campo del patrimonio artistico e culturale o, ad esempio, all’archeologia computazionale per la ricostruzione di monumenti, siti archeologici o città del passato. Le potenzialità della realtà virtuale si rivelano sempre più evidenti ed efficaci, soprattutto in alcune aree avanzate della ricerca scientifica e tecnologica.

Uno degli utilizzi più stimolanti della realtà virtuale è sicuramente l’ambito medico. In medicina la realtà virtuale è utilizzata per l’addestramento del chirurgo, per preparare l’intervento in 3D, eseguire più volte la procedura ed infine utilizzare il modello virtuale come guida durante l’operazione. Il giovane chirurgo potrà così esercitarsi in una tecnica operatoria “operando” virtualmente un paziente, correggere i propri errori e affinare la manualità. I simulatori, dunque, permettono di effettuare un addestramento ripetibile, graduabile alle difficoltà e adattabile alle esigenze dell’allievo.

In campo medico esistono diverse applicazioni della realtà virtuale:

  • nel contesto riabilitativo e di trattamento sia a livello fisico-organico (es. mobilità articolare) che cognitivo-psicologico, con programmi e sessioni volte a recuperare o migliorare i deficit acquisiti e le aree di funzionalità compromesse;
  • in ambito formativo ed educativo: la realtà virtuale potrebbe essere utilizzata nel campo della salute pubblica per simulare il mondo così come viene vissuto da una persona con specifici problemi di salute; ad esempio, mettendo le persone nelle condizioni di esperire come vivono i non vedenti o le persone con invalidità fisica, così da sensibilizzare l’opinione pubblica sulle loro necessità di assistenza.

Uso della realtà virtuale in Psichiatria e riabilitazione psichiatrica

In ambito psichiatrico, la realtà virtuale, sebbene sia uno strumento utilizzato da decenni, non ha ancora avuta la giusta diffusione. Il dott. Albert Rizzo, dell’Institute for Creative Technology della University of Southern California lavora sulla realtà virtuale in ambito psichiatrico da circa vent’anni. Il suo focus è stato finora il disturbo post traumatico da stress molto comune nei soldati veterani. Ricreando situazioni stressanti anche in modo graduale ha evidenziato notevoli potenziali terapeutici della realtà virtuale (Rizzo et al, 2005).

In Italia, l’Istituto Auxologico di Milano, è il primo ospedale al mondo che ha realizzato “Cave”, un sistema integrato che permette di ricostruire la realtà, considerando le sollecitazioni cognitive, uditive e visive. Grazie alla visione 3D stereostopica, legata a un sistema di tracciamento della posizione, è possibile una corretta lettura degli spazi, dei volumi e delle distanze, dando così la netta sensazione di essere immersi all’interno della scena virtuale proiettata sugli schermi. Il “Cave” è costituito da due stanze di 3 metri per 3 metri e mezzo dove ai pazienti vengono fatti indossare, oltre ai visori, anche dei biosensori che rilevano il battito cardiaco e la tensione muscolare. Si va ad intervenire su diverse situazioni della quotidianità, per migliorarle tra cui: dimensione sociale, assertività, gestione del tempo e capacità di chiedere aiuto. In base al tipo di patologia, dipenderà anche il professionista (psicologo, nutrizionista, neurologo) con il quale il paziente dovrà relazionarsi. In base al livello di patologia che si presenta si scelgono gli esercizi più opportuni per il paziente. Così ad esempio, chi soffre di stress, ansia o attacchi di panico, viene proiettato in un ambiente mindfulness (deserto, lago di montagna, cascata) in modo tale che possa rilassarsi (Istituto Auxologico di Milano, 2016).

Nell’ambito della riabilitazione cognitiva, invece, l’Istituto ha sviluppato una soluzione per rallentare il deterioramento cognitivo lieve (chiamato anche mild cognitive impairment) che ha come obiettivo quello di potenziare la memoria con esercizi specifici (Istituto Auxologico di Milano, 2016).

Numerose meta-analisi (Parsons & Rizzo, 2008; Powers & Emmelkamp, 2008) hanno mostrato come:

  • gli ambienti di realtà virtuale sono in grado di evocare le medesime reazioni ed emozioni della situazione vissuta nel mondo reale;
  • il senso di presenza può essere esperito anche in ambienti caratterizzati da un realismo grafico non particolarmente curato;
  • il senso di presenza è fortemente correlato con la possibilità di interagire con le componenti dell’ambiente virtuale, favorendo la concentrazione e il coinvolgimento del paziente;
  • vi è una generalizzazione di attribuzioni e credenze di un paziente dalle esperienze guidate negli ambienti virtuali verso le situazioni dell’ambiente reale.

Considerazioni applicative della realtà virtuale in Psicosi e Riabilitazione Psichiatrica

Sebbene l’utilizzo della realtà virtuale con pazienti schizofrenici sia una pratica piuttosto recente, numerosi studi dimostrano che la realtà virtuale consente, in una situazione controllata, interessanti applicazioni sia per la valutazione che per il trattamento. Essa permette, infatti, di riprodurre situazioni ambientali e sociali che stimolano il soggetto in modo simile al contesto reale; per di più, è possibile modulare l’intensità e la durata dell’esperienza virtuale in base alle esigenze del soggetto (La Barbera et al., 2010). L’utilizzo di questo strumento permette di riprodurre situazioni emotive e sociali, tipiche delle relazioni interpersonali (Kim e et al., 2010).

Così come nel trattamento delle fobie, gli ambienti virtuali consentono di esporre il paziente alle proprie paure persecutorie e di testare le proprie credenze su ciò che viene percepito come minaccioso.

È possibile far apprendere al paziente strategie di coping da adottare in situazioni sociali variegate, qualora si verifichino sintomi psicotici.

È possibile applicare la realtà virtuale nei giochi di ruolo, per stimolare e incrementare le abilità interpersonali dei pazienti, migliorandone le capacità di conversazione e la fiducia in sé stessi (Park et al., 2011). In ambito riabilitativo è possibile ipotizzare l’uso della realtà virtuale per sviluppare la gestione dello stress. La somministrazione guidata dal terapista in realtà virtuale di scene che favoriscono l’induzione della risposta di rilassamento, ha dimostrato effetti positivi (Riva, 1997). Ciò è dovuto prevalentemente agli effetti intrinseci dello strumento di realtà virtuale. La sensazione di presenza reale offerta dalla riproduzione realistica degli ambienti cibernetici e dal coinvolgimento di tutti i canali senso-motori, consente al soggetto in trattamento di vivere l’esperienza virtuale in modo più vivida e realistica di quanto potrebbe fare attraverso la propria immaginazione (Vincelli, Molinari, 1998).

Gli ambienti ricreati mediante le tecnologie di realtà virtuale possono rappresentare un ulteriore contesto di interazione sociale, attraverso il quale è possibile far rivivere ai pazienti le proprie paure, le proprie difficoltà e far emergere il materiale cognitivo ed emozionale che ne sta alla base.

Tuttavia, in particolare, il principale limite delle applicazioni di realtà virtuale con gli schizofrenici sembra essere la stabilità dell’esame di realtà, che caratterizza la fase acuta della malattia.

Considerazioni e Conclusioni

Se posti a confronto con i tradizionali protocolli, gli ambienti di realtà virtuale mostrano numerosi vantaggi. In primis, sono un ambiente protetto per il paziente, dove è possibile riprodurre ripetutamente la situazione temuta sotto il diretto controllo del terapeuta, che può in qualunque momento modificare o sospendere le caratteristiche dell’ambiente.

La realtà virtuale è un buon strumento, che permette di superare alcuni degli ostacoli diffusi della terapia cognitivo e comportamentale standard, come nel caso dei disturbi fobici, il cui trattamento è soprattutto basato sull’esposizione, permettendo esperienze altrimenti quasi impossibili, se non in modo immaginifico, come recarsi ad un aeroporto e salire su di un aereo, trovare una platea che ascolta. Un aracnofobico, ad esempio, potrà essere gradualmente o meno, immerso in un ambiente pieno di ragni (Deppermann et al., 2016). Nell’agorafobia gli ambienti di realtà virtuale consentono di esporsi gradualmente a situazioni fobiche con un’ottimizzazione del tempo e del costo dell’intervento (Botella, Villa et al., 2006; Vincelli, Riva & Molinari, 2007).

La realtà virtuale risulta efficace anche nel trattamento del disturbo post traumatico da stress (Wiederhold & Wiederhold, 2006; Norrholm et al., 2016; Maples-Keller et al., 2017); nel disturbo ossessivo-compulsivo (Kim et al., 2010); nei disturbi del comportamento alimentare (Riva, Bacchetta et al., 2004); nei disturbi sessuali (Optale et al., 2006); e nel trattamento del dolore (Askay et al., 2009; Hoffman  et  al.  2011).

Gli ambienti virtuali permettono allo psicoterapeuta di controllare attivamente molteplici aspetti degli stimoli presentati, identificare i parametri correlati alla risposta disfunzionale. Tali ambienti garantiscono inoltre la riservatezza e la sicurezza dei pazienti, rappresentando uno stimolo ad intraprendere la terapia stessa (Vincelli & Riva,2007).

Alla luce di quanto riportato, si può concludere affermando che sebbene nel caso delle fobie la realtà virtuale sia stata ampiamente sperimentata, si necessitano ulteriori studi che possano confermare ipotesi e dati già acquisiti. In questo modo si consentirà di creare con la realtà virtuale nuovi, più rapidi ed efficaci protocolli di cura per i casi già ampiamente trattati. In caso di disturbi più gravi come la schizofrenia, sarebbero necessari più studi sperimentali in grado di valutare l’efficacia di un trattamento specifico in realtà virtuale. Partendo da tali dati sarà possibile in futuro integrare alle tecniche riabilitative standard il trattamento in realtà virtuale in modo da ottimizzare tempi, risorse ed efficacia allargando confini e prospettive alla riabilitazione psichiatrica.

Il futuro della medicina è sempre più hi-tech: ad oggi la realtà virtuale viene per lo più sperimentata, ma ci si può aspettare che rientrerà nella prassi medica e diverrà una pratica corrente grazie ai benefici che può apportare ed alla sua accessibilità. Di fatto, se finora uno dei principali ostacoli per la diffusione della cybertherapy erano i costi, oggi è possibile avere un sistema di realtà virtuale immersiva a prezzi molto competitivi.

MindFoodNess: un audiobook che aiuta ad affrontare le difficoltà con il cibo – Recensione

Corpo, cibo ed emozioni. Tre parole che per chi non si piace o ha problemi con il cibo possono rappresentare un vero e proprio incubo. Lo sa bene Emanuel Mian, psicologo psicoterapeuta che da oltre 10 anni si occupa di disturbi alimentari e dell’immagine corporea, autore di MindFoodNessMindFoodNess è un audiobook in tre volumi rivolto a chi ha un rapporto complicato con la propria immagine o con il cibo e che ha difficoltà a gestire la fame nervosa.

 

MindFoodNess: una guida per ritrovare l’equilibrio con il proprio corpo e le proprie emozioni

MindFoodNess non è un audiobook per addetti ai lavori né di auto aiuto per i disturbi alimentari, bensì un insieme di esercizi esperienziali e aforismi che vengono commentati riguardo al loro significato e al loro possibile utilizzo nella vita di tutti i giorni; una guida pratica da ascoltare tutta d’un fiato o per trovare lo strumento più adatto per affrontare e sbloccare un momento difficile con il cibo, le emozioni, il corpo o gli obiettivi che ci si è posti.

MindFoodNess – afferma il dott. Mian – racchiude la filosofia mindfulness e il mindful eating, cioè la consapevolezza del momento presente, della nutrizione, il fitness mentale, la psicologia positiva e tante altre strategie, ma con tre marce in più.

Il volume 1, MIND, affronta le trappole mentali che ci impediscono di raggiungere gli obiettivi o di accorgerci che li abbiamo già superati e offre strumenti per lavorare sulla motivazione nel perseguire uno scopo, sul senso di efficacia e sulla sensazione di sentirsi adeguati.

Il volume 2, FOOD, distingue tra loro le tematiche del cibo, della nutrizione e dell’alimentazione e affronta le cattive abitudini che sono causa del pessimo rapporto con il cibo, il corpo e se stessi. Ampio spazio è dedicato alla gestione della fame nervosa e dei momenti in cui si ha a che fare con il cibo quando ci si trova in compagnia di altre persone.

Il volume 3, NESS, richiama il concetto di stare bene (happiness, fitness, wellness, ma soprattutto skillness) e propone esercizi e aforismi per migliorare la gestione delle emozioni e per imparare ad affrontare al meglio sia la fame nervosa sia eventuali ricadute che potrebbero verificarsi.

MindFoodNess ha il pregio di essere uno strumento semplice e soprattutto pratico e veloce. Gli esercizi proposti prendono spunto dalla pratica mindfulness e dall’Acceptance Commitment Therapy (ACT); si spazia da esercizi di respirazione a esercizi per assaporare e gustare il cibo nel momento presente a esercizi per gestire le emozioni e gli eventi. Gli esercizi si possono praticare comodamente fuori casa, aspetto vantaggioso che permette anche a chi ha una vita frenetica di ritagliarsi un piccolo spazio per allenarsi.

L’audiobook contiene inoltre diversi aforismi, commentati dal Dott. Mian, che possono diventare un mantra con cui affrontare particolari difficoltà o che possono rappresentare importanti spunti di riflessione su se stessi. Ecco alcuni esempi:
– Se ti dici che ce la puoi fare, anche se poi non ci riesci, avrai fatto la cosa giusta: allearti con te stesso.
– O ti ribelli a chi dice che non vali nulla o soccombi pensando che questa sia la realtà delle cose.
– Più controllo cerchi nella tua vita, meno certezze ti sembrerà di aver trovato.
– Da cosa stai scappando oggi?

Con MindFoodNess il dott. Mian, che con la sua voce calma e chiara si lascia piacevolmente ascoltare, ci accompagna a piccoli passi in un percorso progressivo volto a raggiungere una nuova consapevolezza di noi stessi non solo con il corpo, il cibo e le emozioni, ma – afferma – con tutto ciò che ci circonda, con lo scopo di trovare un nuovo equilibrio come esseri umani.

 

Adrian Wells e la Terapia Metacognitiva – Introduzione alla Psicologia

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico e autore di diversi articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi sottostanti i disturbi psicologici, in particolare ansia e depressione; la sua ricerca ha portato alla teorizzazione di modelli e di trattamenti per la cura di questi disturbi e prende il nome di Terapia Metacognitiva (MCT). 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico; è docente di psicologia clinica alla University of Manchester e professore presso la Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Adrian Wells è autore di diversi articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi sottostanti i disturbi psicologici, in particolar modo relativi alla sfera dell’ansia e della depressione. La sua ricerca ha portato alla teorizzazione di modelli e di trattamenti per la cura di questi disturbi e prende il nome di Terapia Metacognitiva (MCT).

La Terapia Metacognitiva è ascrivibile alla terza ondata di cognitivismo clinico e consiste in un nuovo trattamento psicologico, che pone le sue basi nella terapia cognitiva standard. Adrian Wells ha sottoposto a valutazione il trattamento MCT grazie alla realizzazione di studi scientifici controllati e randomizzati. Attualmente, esistono protocolli di intervento empiricamente riscontrabili su diversi disturbi psicologici.

La Terapia Metacognitiva di Adrian Wells

Secondo Adrian Wells, la Terapia Metacognitiva o MCT verte sull’individuazione di due componenti psicopatologiche: la Sindrome Cognitivo-Affettiva (Cognitive-Attentional Syndrome, CAS) e le metacognizioni.

La Cognitive-Attentional Syndrome o CAS rappresenta una modalità disfunzionale di elaborare le informazioni in ingresso. La CAS comprende sia gli stili di pensiero ripetitivi come il rimuginio e la ruminazione, sia l’ipermonitoraggio attentivo, ovvero focalizzazione dell’attenzione sulle proprie sensazioni corporee o sul giudizio degli altri, sia i comportamenti di rassicurazione o evitamento e tecniche di controllo dei pensieri. La CAS è determinata da credenze riguardanti il pensiero che possono essere inglobate in due categorie: positive, a esempio: “devo preoccuparmi altrimenti non considero abbastanza importante l’accaduto”, e negative, a esempio: “alcuni pensieri sono pericolosi”. In questo modo, l’attenzione si concentra totalmente sulle possibili minacce, non si è capaci di risolvere i problemi e si è immersi in un circolo vizioso da cui scaturisce una emozione negativa. La CAS si attiva, ed è mantenuta, dalle metacognizioni. Le metacognizioni consistono, in soldoni, in pensieri che si effettuano su altri pensieri, ovvero le conoscenze che ognuno possiede sulla propria mente e sui suoi prodotti e funzioni, come emozioni, attenzione, memoria, etc.

L’analisi MetaCognitiva

L’analisi MetaCognitiva o AMC rappresenta la mappa concettuale che permette l’accertamento delle metacognizioni e delle componenti della CAS, in cui si esplora un episodio emozionale specifico. L’asse concettuale prevede l’identificazione di un pensiero iniziale, valutazione o sensazione corporea (A), l’identificazione delle metacognizioni e delle caratteristiche della CAS (M), e le conseguenze emotive (C). Rispetto al modello ABC della terapia cognitiva standard, con l’analisi dell’AMC è possibile identificare le matacognizioni implicite o esplicite con cui il paziente risponde a uno stimolo attivante interno.

Accertamento delle componenti dell’AMC

L’accertamento delle conseguenze o “C” emotive rappresenta un punto fondamentale. Le conseguenze comprendono stati mentali complessi diversi dai semplici stati emotivi. Per questo per agevolare il paziente è possibile attribuire un’etichetta ad ogni stato dopo averlo descritto nel dettaglio.

Nell’ Accertamento degli eventi attivanti interni (A), il terapeuta mira a cercare di identificare, con dovizia di particolare, il primo pensiero o sensazione scatenante l’episodio descritto, che, nell’esperienza individuale, è solitamente percepito come spontaneo. L’accertamento dell’evento attivante interno costituisce l’elemento da cui il terapeuta parte per indagare la CAS e le metacognizioni.

La CAS descrive un peculiare piano di elaborazione delle informazioni, vale a dire un modo di usare il pensiero, l’attenzione e le altre facoltà cognitive. Il terapeuta deve comprendere come il paziente usa tali facoltà cognitive in risposta allo stimolo attivante interno.

Il passaggio successivo è l’accertamento delle metacognizioni (M) che sostengono la CAS. Le metacognizioni possono riguardare: (1) convinzioni esplicite sul significato di A, (2) conoscenze esplicite su utilità e controllabilità delle componenti di CAS, (3) conoscenze implicite che possono essere inferite, ipotizzate e condivise con il paziente.

Secondo la Terapia Metacognitiva o MCT di Adrian Wells, esistono due diverse modalità per elaborare le informazioni:

  • Oggetto: caratterizzato da una fusione dei nostri pensieri con la realtà. In questo caso, i pensieri sono considerati veri, generali e concreti, per questo non sottoponibili a discussione o giudizio;
  • Metacognitivo: i pensieri e le sensazioni sono percepiti come eventi interni separati da sé e dal mondo. Di conseguenza, la relazione con i propri pensieri risulta essere soggettiva, cioè quella di una persona che li osserva come se fossero una componente esterna.

Il trattamento attraverso la Terapia Metacognitiva (MCT)

Nella MCT la sofferenza, dunque non, è data da valutazioni errate che si effettuano sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo che regola l’attività mentale. Quindi, l’errore principale si effettua nel ritenere indispensabile rimuginare sui problemi e non riuscire a smettere di farlo. Queste strategie disadattive creano sofferenza emotiva.

La Terapia Metacognitiva consiste nella rimozione della CAS in relazione ai pensieri e alle metacognizioni che la mantengono. In questo modo, si mettono in discussione le credenze metacognitive rendendole più flessibili e meno correlate alle esperienze emozionali negative.

Rispetto alla terapia cognitiva standard, il modello di Wells pone al centro della teoria non i contenuti dei pensieri, anzi i pensieri non sono considerati molto importanti, ma ciò che conta è la reazione delle persone a quei pensieri. Quindi, per la Terapia Metacognitiva (MCT) non sono gli schemi mentali a determinare un disturbo psicologico, ma le risposte cognitive derivanti da questi schemi, ovvero lo stile di pensiero ripetitivo, astratto e negativo, le strategie di controllo mentale, e le metacognizioni che le mantengono gli schemi.

In sostanza, la MCT agisce sulle modalità che si utilizzano per gestire i pensieri.

Quindi, il principale intervento terapeutico consiste nell’addestramento alla gestione dei pensieri negativi attraverso ad esempio alla cosiddetta detached mindfulness (DM). La DM, si riferisce alla presa di consapevolezza dei pensieri e al riuscire a distinguere un pensiero negativo dalla preoccupazione o rimuginio o ruminaizone che ne consegue. Lo scopo, dunque, è eliminare ogni relazione con il pensiero e percepire se stessi come osservatori esterni del pensiero stesso.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Report dal 18° Congresso Europeo EMDR 30 Giugno – 02 Luglio 2017, Barcellona

Francisca García Guerrero, presidente EMDR Spagna e Isabel Fernandez, presidente EMDR Italia e EMDR Europa aprono il 18° congresso europeo EMDR. La conferenza si intitola “La psicoterapia del ventunesimo secolo” e i temi centrali dei lavori sono i nuovi sviluppi teorici ed applicativi della terapia con EMDR, sempre più diffusa in numerosi Paesi. Più di 900 i partecipanti e 17 Paesi europei e presenti 4 continenti.

 

Il contributo di Dolores Mosquera al Congresso EMDR

Isabel Fernandez conferisce il Premio DAVID SERVAN-SCHREIBER alla personalità che più si è distinta per lavoro clinico e ricerca: Dolores Mosquera, Psicologa, psicoterapeuta, dirige l’Istituto per lo studio del Trauma e disturbi di personalità (INTRA-TP) a La Coruña, Spagna. Terapeuta practitioner e facilitator EMDR Europe.
Viene premiata in virtù della sua esperienza clinica e di insegnamento. Ha pubblicato molti libri e articoli sul trattamento Emdr dei disturbi di personalità, trauma complesso e dissociazione ed è esperta riconosciuta in questo campo. Inoltre collabora in programmi di sostegno alle donne vittime di violenza domestica ed è psicologa della rete nazionale per l’assistenza delle vittime del terrorismo.

Nell’ambito del congresso ha tenuto un workshop sul tema del trattamento del PTSD complesso mediante EMDR.
Mosquera introduce il suo intervento citando uno studio olandese sull’applicazione dell’Emdr standard con soggetti affetti da psicosi secondo il quale ciò è possibile ed efficace senza particolari accorgimenti di stabilizzazione del paziente.
Commentando lo studio Mosquera ritiene che per i casi complessi sia necessaria una stabilizzazione prima di iniziare il trattamento Emdr o comunque occorre prevedere una forma di supporto prima di procedere.

Un’ elevata percentuale di pazienti con PTSD-C presentano anche dissociazione e molti, come indica Mosquera citando la sua vasta esperienza clinica, hanno bisogno di una lunga fase di preparazione per essere pronti a tollerare quello che emergerà durante la fase di desensibilizzazione.
Diverse testimonianze di pazienti indicano che hanno paura della terapia Emdr:
volevano farmi elidere il cervello!
sono stata sopraffatta dei ricordi!

Se la persona non ha un’informazione adattiva alla quale aggrapparsi, spiega la dottoressa Mosquera, continueranno ad emergere solo informazioni negative e dolorose e ciò renderà il lavoro terapeutico molto frustrante sia per il paziente sia per il terapeuta: “non potevano andare da nessuna parte!”

Questo può accadere se il terapeuta non effettua un accurato assessment prima di procedere al trattamento, includendo anche una dettagliata raccolta della storia di vita, che può avvenire ad esempio mediante la linea del tempo.

Mosquera ci rammenta la teoria del Cigno Nero, la metafora esprime il concetto per cui un evento con un forte impatto è una sorpresa per l’osservatore e quindi, una volta accaduto, l’evento viene razionalizzato a posteriori. La teoria è stata sviluppata per spiegare il ruolo sproporzionato di eventi a forte impatto, rari e difficili da prevedere rispetto alle aspettative nell’ambito di storia, scienza, finanza e tecnologia. E’ sufficiente anche un solo paziente con PTSD complesso che necessiti di una preventiva stabilizzazione per dare indicazione a tutti i terapeuti di dedicarsi ad una fase di preparazione del paziente prima di trattarlo con EMDR.

Mosquera conclude dicendo:
Se vogliamo dimostrare che ci sono cigni neri ne basta uno, se vogliamo dimostrare che occorre una fase di preparazione specifica con i pazienti affetti da PTSD complesso, ci basta aver avuto un paziente che ne abbia avuto bisogno”.

Le fasi del trattamento EMDR

Il primo elemento di preparazione al trattamento è la fase di psicoeducazione circa il funzionamento dell’Emdr e del modello dell’informazione adattiva, è bene illustrare quale atteggiamento è più opportuno che il paziente abbia: “non sforzarti di ricordare; al momento giusto saprai cosa ti serve; più ti sforzi più la tua mente lotterà per non farli emergere e tu ti sentirai stanca”.
La psicoeducazione riguarderà anche le manifestazioni della risposta traumatica, in modo da fornire al paziente stesso una chiave di comprensione dei propri sintomi.

Il terapeuta deve iniziare a lavorare sul materiale che ha a disposizione, infatti alcune parti del puzzle sono nascoste e così dobbiamo iniziare a lavorare sui pezzi di cui siamo a conoscenza.

La preparazione procede con alcune tecniche di stabilizzazione (A. Gonzales e D. Mosquera 2012).

Le tecniche suggerite nel presente intervento sono:

  • Uso del protocollo EMDR
  • Installazione del luogo sicuro
  • Esercizi di “grounding” o radicamento corporeo
  • Installazione delle risorse
  • CIPOS – Metodo dell’Installazione Costante dell’Orientamento e della Sicurezza (J.Knipe)
    Dove sei? Nel passato o nel presente”. Ci riferiamo qui alle parti dissociative come indicato dalla teoria della dissociazione strutturale della personalità .(J. Knipe)
  • PAT – Tolleranza dell’emozione positiva (Leeds).

Gli effetti positivi della stabilizzazione permettono di lavorare in sicurezza con questi pazienti.
Essi imparano a prendersi maggiormente cura di sè, a prendere contatto con le sensazioni del corpo, ad ottenere un minimo controllo degli impulsi, a sviluppare la capacità di notare e rimanere in contatto con tutto quello che appare e soprattutto con tutte le emozioni. Fondamentale è guidarli ad imparare a rimanere in una situazione “confortevole” con tutte le emozioni, altrimenti si permettono di stare solo su un’ emozione (ad es. nella rabbia o nella tristezza).

Infine la dottoressa sottolinea un cambiamento importante nel DSM-5, che ha inserito nel disturbo PTSD il sottotipo dissociativo. Ritiene sia fondamentale considerarlo come categoria a sè; con questi pazienti il trattamento richiede molta stabilizzazione rispetto ad altri poichè sono più a rischio di ulteriori esperienze traumatiche e tendono facilmente alla dissociazione come difesa.

L’elaborazione del trauma si colloca in una fase avanzata del trattamento; il terapeuta può accordarsi col sistema psichico del paziente che non lavorerà sui ricordi traumatici fino a quando tutte le parti non saranno pronte.
In accordo con la teoria della dissociazione strutturale della personalità, la psicoterapia si dovrebbe concludere quando è avvenuta l’integrazione tra le parti dissociative e l’ elaborazione adattiva dei ricordi traumatici.

L’intervento della Mosquera è stato arricchito da numerosi esempi clinici e da video di sedute terapeutiche; questo ha permesso all’uditorio di comprendere a pieno le manifestazioni della dissociazione in pazienti con disturbo da stress post traumatico complesso e di capire come intervenire per riportare la persona nel qui ed ora, mediante le tecniche di stabilizzazione.

Il tratto dipendente nel Disturbo di Personalità Borderline e nel Disturbo di Personalità Dipendente

Molteplici e vari sono gli aspetti e gli argomenti legati alla dipendenza: quello di seguito descritto è un tentativo di differenziale del tratto dipendente in due disturbi di personalità, il disturbo dipendente di personalità (DDP) e il disturbo borderline di personalità (DBP).

Nicoletta Carta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il tratto dipendente nel disturbo borderline di personalità

Nel guardare il disturbo borderline di personalità, considereremo come “tratto dipendente” il primo criterio del DSM-V il quale definisce che gli individui con questa diagnosi compiono sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono (DSM-V). E continua:

La percezione del rifiuto e della separazione imminenti, o la perdita di qualche strutturazione esterna, possono portare ad alterazioni profonde dell’immagine di sé, dell’umore, della cognitività e del comportamento. Questi individui sono molto sensibili alle circostanze ambientali. Provano intensi timori di abbandono e rabbia inappropriata anche quando si trovano ad affrontare separazioni reali limitate nel tempo o quando intervengono cambiamenti inevitabili di progetti. Possono credere che questo abbandono implichi che essi sono “cattivi”. Questi timori abbandonici sono associati all’intolleranza a restare soli e alla necessità di avere persone con loro (DSM-V).

Il valore clinico di questo primo criterio, trova le sue radici nella concezione di Masterson e Rinsley (1975), di Gunderson e Singer (1975) e di Adler e Buie (1979), ed è in linea con il pensiero e la ricerca di coloro che ritengono che la problematica dell’attaccamento sia centrale nella costruzione del disturbo borderline di personalità (Bateman, Fonagy, 2004). Come si evince dalle voci bibliografiche riportate, questo criterio si rifà a quella corrente di pensiero psicoanalitico, che ha privilegiato il ruolo della relazione problematica del soggetto borderline con l’oggetto, nell’ottica di un intrinseco valore della relazione e del tentativo di una sua salvaguardia dall’aggressività, suscitata dalla frustrazione o da qualsiasi altra causa.

Inoltre Masterson nell’evidenziare le paure abbandoniche dei pazienti con disturbo borderline di personalità ha individuato le origini di esse in esperienze traumatiche di separazione nell’infanzia. Secondo Young è all’interno del modulo del bambino abbandonato che si ritroverebbe il nucleo di un sé vulnerabile: l’attivazione di schemi di deprivazione emozionale, abbandono e difettività, propri del sé indegno, determinano sentimenti sproporzionati di vulnerabilità (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003).

I cicli interpersonali che caratterizzano il disturbo borderline di personalità sono quello invalidante, quello di allarme ed il protettivo-validante; sono cicli molto complessi, che entrano nella relazione col terapeuta e spesso l’obiettivo terapeutico con un paziente borderline, è quello di riuscire a tenerlo per il maggior tempo possibile nel ciclo protettivo-validante (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003).

Il tratto dipendente nel disturbo dipendente di personalità

Passando ad uno sguardo sul disturbo dipendente di personalità, praticamente tutti i criteri richiamano un’idea di dipendenza. In particolare, per la differenziale col disturbo borderline di personalità, prenderemo in considerazione il quinto, il settimo e l’ottavo criterio. Secondo il criterio 5 del DSM: “il soggetto con disturbo dipendente di personalità può giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto da altri, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli”.

La necessità pervasiva ed eccessiva, delle persone con disturbo dipendente di personalità, di essere accuditi, determina un comportamento sottomesso e dipendente, con timore della separazione. Inoltre la percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente senza l’aiuto degli altri, porta ad un comportamento dipendente e sottomesso che è finalizzato a suscitare protezione. La necessità di queste persone di conservare un legame importante spesso le trattiene in relazioni sbilanciate o distorte, in cui pur di ottenere accudimento sono pronte a sottomettersi a ciò che gli altri vogliono. Inoltre, il soggetto dipendentequando termina una relazione intima, cerca con urgenza un’altra relazione come fonte di accudimento e di supporto” (criterio 7 del DSM V): il rapporto interrotto può essere ad esempio una rottura con un amante o la morte di un caregiver.

Inoltre, la loro convinzione di essere incapaci di funzionare in assenza di una relazione intima li motiva ad attaccarsi rapidamente e indiscriminatamente a un’altra persona. Infine “si preoccupa in modo irrealistico di essere lasciato/a a prendersi cura di sé” (criterio 8 del DSM V). Gli individui con questo disturbo sono spesso preoccupati di essere lasciati soli e si vedono così totalmente dipendenti dal consiglio e dall’aiuto di un’altra persona importante che temono che questa li abbandoni anche quando non ci sono motivi per giustificare tale paura.

Sembrerebbe, secondo alcuni studi condotti sulle interazioni parentali tra madre/padre e bambino, che comportamenti di dipendenza in età adulta sono associati ad uno stile genitoriale che determina e mantiene le rappresentazioni di sé come vulnerabile e inefficace. Costruendo ed interiorizzando tali rappresentazioni di sé, i bambini sperimentano relazioni genitoriali ambivalenti ed intermittenti nella capacità di fornire aiuto e accudimento. Questo atteggiamento induce il bambino a mettere in atto strategie per assicurarsi la vicinanza della figura di riferimento, sviluppando dinamiche di dipendenza, e a temere l’abbandono in qualsiasi momento.

Rispetto ai cicli disfunzionali dei pazienti con disturbo dipendente di personalità, allo scopo di mantenere la presenza e la vicinanza della figura di riferimento, aderiscono costantemente alle aspettative e ai desideri dell’altro. In questa situazione, l’altro si sentirà spinto verso modalità controllanti la relazione, godrà del piacere legato al potere di decidere e di accentrare l’attenzione sui propri bisogni e desideri. Questo atteggiamento mantiene e favorisce nel disturbo dipendente di personalità il comportamento oblativo, almeno finché non percepisce il senso di coercizione.

Il tratto dipendente nei disturbi borderline e dipendente di personalità: somiglianze e differenze

Volendo quindi definire le caratteristiche del tratto dipendente nei due disturbi, è evidente che sia il disturbo dipendente di personalità sia il disturbo borderline sono caratterizzati dal timore di essere abbandonati; tuttavia, l’individuo con disturbo borderline di personalità reagisce all’abbandono con sentimenti di vuoto emotivo, rabbia e richieste, mentre l’individuo con disturbo dipendente di personalità reagisce aumentando le concessioni e la sottomissione, e ricerca urgentemente una relazione sostitutiva per ottenere accudimento e supporto.

Per quanto riguarda i cicli interpersonali (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003) e il funzionamento mentale sotteso, i due disturbi di personalità presentano molte similitudini. E’ possibile osservare alcune caratteristiche per fare una buona diagnosi differenziale, anche se bisogna premettere che è frequente osservare una comorbilità tra i due disturbi. Una rassegna di Morey (1988) riporta una sovrapposizione del 50,8% dei casi. Tali differenze consistono in una serie di singole caratteristiche del funzionamento mentale del modo in cui si compongono nel determinare un “equilibrio disfunzionale”: uno dei problemi concerne la rappresentazione del sé. La connotazione di inadeguato e debole assume tinte molto forti rispetto al sé indegno e vulnerabile del disturbo borderline di personalità, esprimendo il bisogno della relazione per sentire la propria competenza ed autoefficacia, piuttosto che il bisogno di potere e di invulnerabilità.

Una differenza importante tra i due quadri psicopatologici è la maggiore stabilità delle relazioni interpersonali riscontrabili nei soggetti con disturbo dipendente di personalità, laddove le rapide, frequenti ed intense oscillazioni dell’umore e le altrettanto rapide oscillazioni delle rappresentazioni di sé e dell’altro rendono molto più caotiche ed instabili le relazioni interpersonali nel disturbo borderline di personalità. La socievolezza del disturbo dipendente di personalità appare molto più congrua ed aderente al contesto rispetto alla disregolata ricerca delle relazioni propria del borderline.

Un altro elemento di differenziale riguarda il sistema di regolazione delle scelte caratterizzato da ipertrofia nell’uso del contesto interpersonale nel disturbo dipendente di personalità e caoticità nelle regolazioni del disturbo borderline di personalità, che oscilla da espressioni antisociali ad altre narcisistiche ed altre ancora dipendenti.

Per quanto riguarda lo stato interno del terapeuta che lavora con questo tipo di pazienti, non è difficile notare come tali entità nosografiche evochino stati specifici, dipendenti più dalla patologia che dalle caratteristiche personali del terapeuta. I pazienti dipendenti quasi mai evocano le ferite e le reazioni irritate dei cicli invalidanti o di stati di allarmata urgenza così frequenti nel trattamento dei pazienti Bordeline (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003).

Recupero afasico e speech therapy: la correlazione con la plasticità strutturale della via ventrale

La speech therapy è ormai da anni considerata il golden standard nella cura di un disturbo afasico post ictus. Tuttavia quello che sembra complicato capire è quanto venga recuperato a livello neurologico a seguito di tale terapia, dal momento che mentre alcuni pazienti rispondono molto bene, altri presentano uno scarso recupero.

 

I disturbi del linguaggio di tipo afasico sono comuni in condizioni post ictus e possono manifestarsi come difficoltà ad identificare la parola corretta da usare in relazione al contesto (problemi semantici) e/o difficoltà a pronunciare parole (problemi fonemici). La speech therapy è ormai da anni considerata il golden standard nella cura di un disturbo afasico post ictus. Tuttavia quello che sembra complicato capire è quanto venga recuperato a livello neurologico a seguito di tale terapia, dal momento che mentre alcuni pazienti rispondono molto bene, altri presentano uno scarso recupero.

Linguaggio e network cerebrali

La capacità del network deputato al linguaggio di ricostruire se stesso a partire dalle competenze residue, viene definita come plasticità strutturale, ed è direttamente correlata a quanto un paziente possa beneficiare della terapia del linguaggio, come dimostrato in uno studio dei ricercatori della Medical University of South Carolina (MUSC).

Il loro studio supporta il modello del linguaggio a due vie che afferma che le reti cerebrali ventrali sono associate a capacità semantiche e le reti dorsali con abilità fonemiche.

La produzione del discorso prevede la presenza di due fasi: una prima selezione della parola corretta grazie all’associazione semantica, e in un secondo momento la sua pronuncia corretta foneticamente – spiega l’autrice principale dell’articolo Emilie T. McKinnon, candidato al dottorato al Dipartimento di Neurologia della MUSC – La teoria attuale ritiene che differenti parti del cervello sostengano questi due differenti processi. Se così fosse, tali aree deputate al processamento delle diverse informazioni linguistiche dovrebbero essere strettamente connesse, perciò la domanda successiva è: quando una di queste regioni viene selettivamente danneggiata come può la connessione inter- cerebrale essere ripristinata?

I ricercatori hanno osservato nel dettaglio la microstruttura di una di queste connessioni per cercare di comprendere cosa accade quando l’elaborazione linguistica migliora.

Afasia: aspetti semantici e modificazioni strutturali post terapia

Il team ha testato otto pazienti afasici, con un solo episodio di ictus nell’ultimo anno che ha interessato il Fascicolo inferiore longitudinale (ILF). I partecipanti sono stati testati in compiti di denominazione per confronto una settimana prima e una settimana dopo aver ricevuto per tre settimane una terapia del linguaggio intensiva. Inoltre, i partecipanti sono stati sottoposti a quattro sessioni di Risonanza Magnetica (MRI)- due prima della terapia del linguaggio e due dopo.

Soprattutto, i ricercatori hanno potuto usufruire di tecniche di imaging avanzato sensibili ai cambiamenti microstrutturali della materia bianca, rivelando differenze precedentemente non visibili.

La McKinnon spiega:

Abbiamo utilizzato la DKI- Diffusion Kurtosis Imaging- una innovativa tecnica basata su una distribuzione non gaussiana dell’acqua nei sistemi biologici. Dove l’acqua si espande senza ostacoli la curtosi è vicina allo zero, più barriere si incontrano, maggiore sarà il livello di curtosi. Questo dimostra quanto sia complesso l’ambiente, e l’utilizzo di questa tecnica è stato necessario per raccogliere informazioni utili, ad un costo minimo; ha infatti richiesto un aggiustamento di alcune impostazioni della MRI e circa cinque minuti in più sul tempo totale della scansione.

Il team si è focalizzato in particolare sull’ILF, ritrovando come, un segmento definito “collo di bottiglia”, centro di integrazione dell’elaborazione delle informazioni, sia quello maggiormente danneggiato.

I ricercatori hanno trovato una correlazione significativa tra il pre e post terapia e il miglioramento sugli aspetti semantici.

I punteggi dei partecipanti sui test di nomi degli oggetti sono notevolmente migliorati rispetto al baseline (p = 0.002), con pochi errori semantici (p = 0.01) e meno risposte “no” (p = 0.03).

I ricercatori hanno inoltre rilevato che, sebbene il numero di errori semantici prima della terapia fosse correlato all’onere della lesione ILF (r = -0,65, p = 0,07), il recupero semantico non era associato all’entità della lesione (r = 0,19, p = 0,65).

Inoltre, quando il team di ricerca applicava strategie di misurazione più convenzionali, i risultati non erano statisticamente significativi, suggerendo che i metodi tradizionali potrebbero essere meno sensibili ai cambiamenti microstrutturali associati al recupero.

La scoperta sostanziale della ricerca suggerisce che miglioramenti nella curtosi sono legati ai miglioramenti strutturali. Questo è molto importante per comprendere l’andamento delle recidive nei soggetti afasici.

Abbiamo visto che le persone miglioravano perché la loro rete cerebrale diventava strutturalmente più forte, le connessioni residue diventavano quindi più forti in un’area in cui la conoscenza semantica è integrata. Questi cambiamenti non correlavano invece con gli aspetti fonemici – dice Bonilha.

La McKinnon spera che i risultati ottenuti contribuiscano ad orientare le scelte terapeutiche in relazione ai danni cerebrali visibili, ad esempio se si riscontra un forte indebolimento dell’area ventrale, potranno essere raccomandate terapie orientate sull’aspetto semantico.

Inoltre, questa strategia può essere utile in altre condizioni. Ad esempio, altre funzioni del cervello come il controllo motorio sono danneggiate a  seguito di un ictus.

Sarebbe necessario accedere agli stessi cambiamenti microstrutturali per recuperare l’uso della mano – dice McKinnon – Quindi, potremmo ottenere gli stessi risultati con la riabilitazione del controllo motorio deficitario  post-ictuse e, forse, oltre l’ictus, considerare i casi di neurodegenerazione o di danno cerebrale, come la lesione cerebrale traumatica. Se possiamo trovare una relazione tra la struttura e la funzione della rete, allora potremmo utilizzare questa tecnica per valutare il potenziale di recupero e il progresso dei pazienti.

 

 

Ho avuto solo molta fortuna. Biografia intellettuale di Daniel Bovet (2006) di D. Cozzoli – Recensione del libro 

La storia di Daniel Bovet viene raccontata da Daniele Cozzoli, ricercatore romano trapiantato a Barcellona, in una brillante biografia intellettuale. Si tratta della storia di un uomo ma anche di un’epoca della ricerca scientifica.

 

Daniel Bovet vinse il premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1957, dopo essere stato tra i candidati già in almeno altre due occasioni. A lui si devono infatti la scoperta del principio attivo del sulfamide (il primo farmaco batteriostatico), la creazione degli antistaminici (i primi farmaci antiallergici), la sintesi dei curari artificiali, che vennero utilizzati su larga scala come anestetici. Fu infine uno dei padri della psicobiologia, contribuendo largamente alla sua diffusione nel nostro paese, come ricorda anche Alberto Oliverio nella sua commossa prefazione.

La storia di Daniel Bovet viene raccontata da Daniele Cozzoli, ricercatore romano trapiantato a Barcellona, in questa brillante biografia intellettuale. Si tratta della storia di un uomo ma anche di un’epoca della ricerca scientifica, nella quale l’idea di una collaborazione trans-nazionale europea era evidentemente già possibile, anche se senza il sostegno della politica (per voler usare un’espressione eufemistica).

Daniel Bovet e i suoi contributi alla scienza medica

Figlio di uno svizzero e di una francese, Daniel Bovet studiò a Ginevra e ottenne un posto di rilievo all’Istituto Pasteur di Parigi, dove conseguì i suoi primi importanti risultati sugli antimicrobici nel 1936, perfezionando la scoperta di un chimico tedesco, Gehrard Domagk, che a sua volta aveva messo a frutto le idee di un altro scienziato tedesco, Paul Ehrilch. Questi era partito dall’idea che la proprietà di alcuni coloranti, di legarsi solo ad alcune cellule o tessuti (proprietà già utilizzata, per esempio, in microscopia), potesse essere sfruttata per individuare dei composti che attaccassero soltanto gli agenti patogeni estranei all’organismo umano, senza danneggiare l’organismo stesso.

Il programma di ricerca si rivelò estremamente efficace e consentì una collaborazione tra ricerca e industria, prima in Germania e poi in Francia. Fu infatti il legame tra l’Istituo Pasteur e l’industria farmaceutica Rhône-Poulenc a finanziare, tra l’altro, le ricerche di Daniel Bovet. Parallelamente alle ricerche sui sulfamidici, Daniel Bovet ne aveva iniziate altre su farmaci che fossero in grado di contrastare la produzione di istamina negli organismi allergici: nel 1937 la Rhône-Poulenc venne informata che la prima molecola antistaminica era stata sintetizzata: avrebbe assunto il nome commerciale di antergan.

La Seconda guerra mondiale ebbe un effetto abbastanza paradossale sulla competizione tra ricerca farmaceutica francese e tedesca: inizialmente la Bayer avrebbe voluto assorbire le aziende rivali di oltre Reno. Tuttavia, i Tedeschi non occuparono tutta la Francia, per non far collassare l’impero coloniale francese (del che avrebbero beneficiato gli Alleati, piuttosto che la Germania) e similmente decisero di non appropriarsi di tutte le fabbriche francesi (tra le conseguenze vi sarebbe stato l’assorbimento, da parte alleata, delle sussidiarie francesi all’estero). Nacque così un rapporto di collaborazione tra ricerca industriale francese e tedesca, che comprensibilmente diede origine in seguito ad accuse di collaborazionismo nei confronti dei dirigenti francesi degli istituti e delle industrie coinvolti. Tra le persone cadute in disgrazia per questa ragione vi fu Ernest Fourneau, che era stato il nume tutelare di Daniel Bovet all’Istituto Pasteur.

Daniel Bovet in Italia: l’incontro con Domenico Marotta

Daniel Bovet, comprensibilmente in difficoltà, decise di accettare l’offerta di proseguire le sue ricerche in Italia, formulata da Domenico Marotta, che dirigeva l’Istituto Superiore di Sanità. Marotta, in effetti, voleva portare in Italia con Daniel Bovet, già notissimo, anche colei che nel frattempo era diventata sua moglie, Filomena Nitti, e il fratello di lei Federico. Tutti e tre erano ricercatori dell’Istituto Pasteur, ma gli ultimi due erano anche i figli di Francesco Saverio Nitti, il politico liberale. Marotta, quindi, presumibilmente intendeva tanto acquisire tre scienziati di alto livello, quanto ottenere il favore di un uomo che prometteva di svolgere un ruolo importante nella nuova Italia.

La scelta di Marotta non fu indovinata dal punto di vista politico (Nitti non riuscì a costruire un blocco liberale dominante come si prefiggeva) ma risultò straordinariamente felice per le sorti scientifiche dell’Istituto Superiore di Sanità, che attraversò una stagione di clamorosi successi, culminata con il Nobel a Daniel Bovet. Marotta riuscì infatti a portare all’Istituto anche Ernest Boris Chain, inglese, che aveva a sua volta già vinto il Nobel nel 1945 con Alexander Fleming e Howard Forley per gli studi della penicillina. In seguito, per merito di Marotta, arrivò all’Istituto anche Rita Levi Montalcini. Per un certo periodo, quindi, all’Istituto Superiore di Sanità lavoravano fianco a fianco tre persone di tre diverse nazioni europee, che erano state o sarebbero state insignite del Nobel per la medicina.

L’istituzione diventò un centro di ricerca noto e invidiato in tutto il mondo. Daniel Bovet, in particolare, scoprì nel suo laboratorio romano le proprietà “curarizzanti” della succinilcolina, che risulta un anestetico efficace, di effetto breve e di scarsa tossicità. Si trattò, probabilmente, della sua ricerca più importante in campo medico.

Quando l’Istituto era all’apice dei suoi successi, tuttavia, accadde qualcosa che agli occhi di un lettore contemporaneo risulta piuttosto straniante. Un impiegato (ex-repubblichino) che si riteneva ingiustamente licenziato dall’Istituto, consegnò a un deputato comunista documenti che a suo avviso provavano gravi irregolarità amministrative di Marotta e lo indusse a presentare delle interrogazioni parlamentari. “L’Espresso” gridò allo scandalo. Un ricercatore dell’Istituto, tale Giuseppe Penso, pubblicò un pamphlet in cui sosteneva che solo sotto il fascismo l’Istituto aveva svolto il suo giusto ruolo, essendo ora diventato un inutile centro di ricerca pura. Marotta venne accusato dalla magistratura di peculato e falso ideologico. Il risultato fu che l’Istituto si sfaldò, i ricercatori più importanti se ne andarono altrove e il centro di ricerca farmacologica più importante che l’Italia abbia mai ospitato perse definitivamente la propria importanza. Dopo anni di processi e condanne inizialmente gravi, a Marotta venne infine comminata una pena abbastanza lieve da rientrare in un’amnistia ed evitare gli strascichi che un completo ribaltamento della sentenza iniziale avrebbe marcato.

Daniel Bovet su memoria e comportamento

Daniel Bovet divenne nel frattempo professore universitario, a Sassari. Negli anni sessanta, le sue ricerche si concentrano sull’effetto di alcune sostanze chimiche sul comportamento e la memoria. All’interesse per questi argomenti contribuì, tra l’altro, l’amicizia con un altro illustre personaggio di origine ginevrina: Jean Piaget. Daniel Bovet si convinse che il comportamento avesse basi genetiche, la cui influenza poteva essere mediata dall’ambiente. Definì infine il comportamento come un fenotipo, ritenendo che alcuni suoi aspetti potessero essere automatizzati. Anche in questo campo le ricerche di Daniel Bovet risultarono all’avanguardia, aprendo la strada a quelle di James McGaugh all’ UCLA. Nel 1966, Daniel Bovet fu chiamato ad occupare la prima cattedra di Psicobiologia dell’Università di Roma “La Sapienza”, che avrebbe occupato fino alla pensione.

In sintesi, “Ho avuto solo molta fortuna” (il cui titolo felicemente evoca l’understatement di Bovet) è un libro utile, ben documentato, che racconta vicende che attraversano alcuni momenti decisivi della Storia della scienza del Novecento.

Ascoltare i bambini. Psicoterapia delle infanzie negate di Luigi Cancrini – Recensione

Nel libro Ascoltare i bambini Luigi Cancrini guida il lettore in un viaggio nel mondo sommerso e spesso silenzioso dei bambini maltrattati.

 

Il bambino maltrattato: quali sono gli effetti?

Impegnato da anni nella conduzione di terapie o come supervisore presso il Centro di Aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia di Roma, nonché nei Centri Studi di Terapia Familiare e Relazionale da lui fondati in tutta Italia, l’autore mette in luce come le ripetute traumatizzazioni e le relazioni violente possano avere effetti devastanti sulla vita affettiva del bambino, conducendolo il più delle volte allo sviluppo di patologie mentali gravi, come i disturbi di personalità, o alla messa in atto di condotte antisociali permanenti.

Le forme più gravi di maltrattamento, che portano a conseguenze più distruttive, sembrano essere quelle che lui definisce traumi man-made, cioè di derivazione umana, soprattutto quelli che avvengono all’interno del nucleo famigliare in modo ricorrente e perseverativo. In questi casi il caregiver, che dovrebbe assicurare lo sviluppo di un attaccamento sicuro garantendo cura e protezione, si trasforma nel persecutore, minando in modo definitivo la possibilità nel bambino di costruire relazioni di fiducia anche in età adulta.

I possibili approcci terapeutici per il bambino maltrattato

In questo libro Cancrini denuncia una modalità di approccio terapeutico, tanto diffusa quanto dannosa per la cura dei bambini maltrattati, che secondo l’autore si fonda su due illusioni e che viene ben illustrata nel primo capitolo. La prima, chiamata dall’autore Illusione numero uno, nasce dall’idea che per proteggere il bambino sia sufficiente allontanarlo dall’ambiente maltrattante, ritenendo che si possa garantire la sua tutela solo attraverso la sistemazione in famiglie affidatarie o in strutture di accoglienza, non tenendo conto della necessità di fornire supporto specifico per l’elaborazione dei traumi subìti. La seconda modalità, chiamata Illusione numero due, si fonda sul presupposto che sia sufficiente far seguire al bambino un percorso di psicoterapia individuale, senza coinvolgere nel percorso psicoterapeutico la nuova famiglia affidataria o adottiva.

Quest’ultima considerazione è in linea con le attuali teorie dell’attaccamento e del trauma, secondo le quali un fattore di resilienza del bambino e del futuro adulto è l’istaurarsi di un attaccamento sicuro. Da qui nasce l’importanza di coinvolgere il nuovo nucleo familiare nella speranza di rimarginare le ferite e riparare ai danni emotivi e relazionali derivanti dai continui maltrattamenti.

Il contributo più prezioso e interessante del libro si trova nella descrizione dei percorsi terapeutici dei bambini provenienti da situazioni di maltrattamento ripetuto e a rischio, secondo i clinici, di sviluppare gravi disturbi della personalità: antisociale nei casi di Hillary e Michele, borderline nel caso di Diego, paranoide nel caso di Ruggero e Ludwig, schizotipico nel caso di Pamela.

Nel capitolo II conosciamo il caso di Hillary, una bambina di 5 anni allontanata dalla famiglia d’origine per condizioni di vita di estremo degrado ambientale e di trascuratezza affettiva. Nel III capitolo si parla di Diego, un bambino in carico ai servizi da quando aveva due anni e primo di quattro fratelli, figli di genitori violenti. Fa il suo ingresso in comunità a 9 anni. Il protagonista del IV capitolo è Michele, figlio di genitori tossicodipendenti, che viene inviato in comunità all’età di 3 anni per trascuratezza e presunti abusi sessuali subìti dal padre. Nel V capitolo conosciamo Ruggero, allontanato all’età di 7 anni da una famiglia possessiva, coercitiva e violenta, e Ludwig, chiamato anche il piccolo Beethoven, vittima sacrificale delle fantasie onnipotenti di un padre paranoico e alcolista. Infine nel capitolo VI troviamo Pamela, una bambina sognatrice di 7 anni vittima di abusi ripetuti a opera del padre, allontanato 3 anni prima dalla famiglia.

Seppur nella loro unicità, tutti i casi presentati hanno in comune la presenza di gravi esperienze traumatiche, alle quali le vittime hanno potuto sopravvivere mettendo in atto meccanismi di difesa disadattivi basati sulla scissione, evitando così di entrare in contatto con un’angoscia devastante e insostenibile. Il lavoro terapeutico si basa sulla riattivazione di ricordi ed emozioni al fine di dar loro parola, una terapia che ha molto a che fare con l’elaborazione del lutto e che prende spunto dalle teorie di Anna Freud e John Bowlby.

Aldilà degli orientamenti e dei vari approcci psicoterapeutici, è un libro intenso e coinvolgente, a tratti doloroso, che obbliga il lettore a riflettere sul delicato tema dei traumi complessi vissuti in età infantile e sulla necessità di una presa in carico mirata e competente.

Il corpo che parla. Il ruolo del corpo e della sintonizzazione nelle terapie post-razionaliste in età evolutiva

Il panorama degli approcci che si focalizzano sul corpo e sulla sua dimensione neurofisiologica si è notevolmente ampliato negli ultimi anni. In seno alle terapie post razionaliste della cosiddetta “terza ondata” troviamo, tra le altre, la fiorente Sensorimotor, che trae ispirazione da Pat Ogden, l’esperienziale Mindfulness, tra i cui pionieri troviamo Jon Kabat-Zinn e la lungimirante Neurobiologia Interpersonale di Daniel Siegel, dalle quali questo contributo trae ispirazione.

Claudia Filipetta, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La sintonizzazione nella relazione terapeutica

Gli spunti offerti alla ricerca dagli studi sull’attaccamento hanno permesso di declinare il ruolo della sintonizzazione all’interno della relazione terapeutica; l’iniziale comunicazione tra madre e bambino, fatta di reciproche e contingenti interazioni sensomotorie, creano pattern specifici nella creazione di una personalità adulta, facilitando o inibendo le capacità di autoregolazione del bambino. Persino la nostra postura, il nostro modo di muoverci, di relazionarci sarebbero influenzati da tali precoci tentativi, riusciti o falliti che siano, di adattamento (Ogden, P.).

Vale la pena soffermarsi un attimo sull’aggettivo “contingente”: proprio la contingenza sembra essere la chiave di volta nella promozione del cambiamento terapeutico, a prescindere dall’approccio a cui si faccia riferimento, esattamente come nei primi mesi di vita la capacità del caregiver primario di fornire in quel preciso momento una risposta protettiva, sintonizzata emotivamente e pregnante rispetto all’evento stressante, sia in grado di favorire un senso di sicurezza interno stabile e duraturo.

E’ stato dimostrato come un’esperienza deficitaria di amore e attenzioni materne nel neonato non permetta un corretto sviluppo dei nuclei limbici, in particolar modo dell’amigdala destra, che saranno a loro volta responsabili dei futuri comportamenti di attaccamento e della creazione di legami (Shore, A.).
Qualora non vengano rispettati i corretti ritmi di sintonizzazione, Tronick individua nella riparazione e nel recupero del legame interrotto in tempi adeguati l’elemento protettivo rispetto all’insorgenza della psicopatologia.

Affinché il paziente si senta realmente compreso, la sintonizzazione tra i suoi stati mentali e quelli del terapeuta deve essere piena e reciproca non solo sul piano esplicito ma anche a fronte di contenuti difficili e a forte impatto emotivo (Steele, K.).
L’impegno del terapeuta deve essere quello di monitorare l’alleanza che si va costruendo, prestando attenzione al rischio di sollecitare una dipendenza maladattiva, piuttosto che una crescente competenza e autonomia da parte del paziente.

Terapie post razionaliste: dalla sintonizzazione al focus sul corpo

Steven Porges, attraverso la lente della teoria polivagale, va nella stessa direzione, arrivando ad assegnare alla relazionalità la definizione di imperativo biologico: l’interazione con gli altri risponderebbe all’esigenza fisica di co-regolare il proprio stato biologico e comportamentale.

Si noti infatti come pazienti con problemi psichiatrici o educativi presentino difficoltà nel sentirsi “al sicuro” con gli altri, nel mantenere una vicinanza fisica, nell’essere toccati o toccare un’altra persona, in generale nel creare relazioni sociali profonde.

Il contatto visivo e fisico, in particolare quella che Porges definisce “immobilizzazione senza paura”, permettono di favorire il riposo, la capacità di rilassamento, la digestione, consentendo la corretta alternanza dei sistemi simpatico e parasimpatico.

In particolare nei lavori sull’elaborazione del trauma, si nota come il corpo permetta l’accesso diretto a dimensioni altrimenti inaccessibili: basti pensare all’azione inibente di eventi scioccanti sull’area di Broca, deputata alla verbalizzazione (Williams, R.).
Compito del terapeuta è di portare la sua attenzione presente e non giudicante al momento della seduta e ai microcambiamenti che avvengono nel corpo e nell’interazione col paziente, alla sua esperienza interna, permettendogli di dare voce al suo vissuto partendo da elementi percettivi, per poi integrarli alla parte cognitiva (Ogden, P.).

L’obiettivo comune è quello di aumentare la consapevolezza dei propri agiti, dei propri schemi, delle proprie rigidità per incrementare la flessibilità cognitiva.

La pratica della mindfulness tra le terapie post razionaliste persegue fini comuni, con la sua capacità di esperire intenzionalmente il momento presente con un atteggiamento di profonda accettazione e assenza di giudizio e il suo focus sull’interazione reciproca mente-corpo.
Questo nuovo livello di consapevolezza ha delle ricadute neurali in considerevoli aree della corteccia e della parte subcorticale del sistema limbico e del tronco encefalico.

Portando l’attenzione intenzionale sul respiro, piuttosto che sulle sensazioni o percezioni corporee, chi pratica è in grado di riconoscere gli automatismi di pensiero disfunzionali o gli schemi di ideazione negativi a cui è soggetto in condizioni stressanti.

Oltre alla comprovata efficacia degli interventi basati sulla Mindfulness su disturbi psichiatrici e correlati allo stress, è interessante approfondire gli studi di letteratura sul suo potenziale preventivo e promotore di benessere su popolazioni non cliniche, con effetti benefici sull’incremento di benessere percepito, sulla diminuzione dello stress e sull’aumento della capacità attentiva e del suo mantenimento.

Le terapie post razionaliste funzionano anche in età evolutiva?

Studi di efficacia sembrano dimostrare l’adattabilità delle terapie post razionaliste a campioni di bambini e adolescenti (Black, D. S.), fasce d’età in cui i problemi clinici stanno aumentando la loro rilevanza. I metodi fondati sull’accettazione compassionevole e sull’intenzionalità non giudicante sembrano ben sposarsi con l’elevata pressione, lo stress da performance e da relazione a cui sono sottoposti gli studenti nel contesto scolastico.

Gli interventi vanno in questo caso declinati sull’età dei bambini o dei ragazzi, modificando le tempistiche e i contenuti: le sessioni di meditazione saranno più brevi e a cadenza regolare e gli esercizi semplici e comprensibili (Fabbro, F., Muratori, F.).

Susan Keiser Greenland ha predisposto un programma specifico per l’età evolutiva, Inner Kids, composto da attività ludiche e motorie, con l’obiettivo di sviluppare le attitudini di consapevolezza, compassione ed attenzione (Greenland, S. K.).

Grazie alla somministrazione del questionario BRIEF sulle funzioni esecutive ai genitori di un campione di bambini tra i 7 e i 9 anni, si è potuto verificare un incremento nelle dimensioni di metacognizione e regolazione del comportamento a seguito di un training di Mindfulness (Flook, L.).
Studi fatti su difficoltà nella sfera emotiva, hanno evidenziato nei bambini una minore tendenza all’autocritica, un accresciuto atteggiamento di benevola compassione verso di sé e verso gli altri e una minore tendenza alla reattività (Saltzman, A., Goldin, P.).

Le terapie post razionaliste verso nuovi circuiti neurali e visioni di sé

Regina degli approcci a mediazione corporea tra le terapie post razionaliste, la Psicoterapia Sensomotoria si sviluppa in un quadro integrato che include influenze cognitivo-comportamentali, dinamiche, tecniche derivate dall’Hakomi Method e da discipline fisiche come lo yoga e la danza.

Ciò che la distingue dalle altre terapie è la strutturazione di strumenti di osservazione e d’intervento calibrati sul corpo.
Attraverso interventi bottom up o top down, i pazienti sono invitati a prestare attenzione ai propri movimenti, alla propria gestualità o postura e a come essi influenzino in modo evidente la comunicazione verbale, le parole, i contenuti della conversazione.
Modificando alcuni processi somatici, è possibile instillare un nuovo apprendimento, che si riflette in cambiamenti neurali, in differenti significati e, più in generale, in una differente visione di sé (Ogden, P.); si genera un insight e una consapevolezza radicata nella persona, proprio come quando realizziamo che alcune convinzioni che ci bloccano o limitano non ci appartengono in modo indelebile e immodificabile.

In particolare in fase adolescenziale, momento di risveglio puberale e di profonde e repentine trasformazioni fisiche e ormonali, il corpo riveste un ruolo da protagonista: la maggior parte dei ragazzi non apprezza il proprio corpo, o parti di esso, vorrebbe modificarlo, nasconderlo e a volte ci prova attraverso il trucco, l’abbigliamento, il modo di vestirsi, pettinarsi o tatuarsi.
Nel percorso di crescita e trasformazione dall’infanzia all’adolescenza è facile percepire il proprio corpo come un “estraneo” e costruire su questa base un’idea di sé fragile, poco integrata, fondata su convinzioni disfunzionali.
L’età evolutiva è teatro della comparsa di disturbi come ansia, adhd, disturbi alimentari, depressione e autolesionismo, alcuni dei quali ritroveremo in età adulta; senza contare gli aspetti di contesto, come la richiesta di performance sempre maggiori o la presenza di reti sociali ristrette e reti virtuali allargate e di complessa gestione.

In quest’ottica sviluppare una maggiore consapevolezza dei propri movimenti fisici nel qui e ora, riuscire a percepire le proprie sensazioni corporee, provando a collegarle ad emozioni specifiche e a dare loro un nome, in sintesi dare voce al corpo, può essere di grande aiuto nel recupero dei vissuti e delle idee di sé ad essi correlati. In particolare si possono avere ricadute sul piano dell’autostima, sul senso di autoefficacia e su alcune Life Skills cruciali come la gestione delle emozioni e dello stress, l’empatia e la capacità di relazionarsi agli altri in modo efficace.

Tripofobia: una spiegazione evolutiva legata al disgusto

La tripofobia è la condizione di chi prova disgusto, nausea e ansia in risposta a stimoli caratterizzati da forme circolari, come bolle di sapone o buchi di una spugna (Le, Cole, & Wilkins, 2015). L’esistenza di tale fobia è stata riportata solo nel 2013 nella letteratura scientifica (Cole & Wilkins, 2013) e sembra essere correlata ad ansia, distress e disturbo di fobia specifico (Vlok-Barnard & Stein, 2017).

 

La tripofobia: in cosa consiste

Considerata la natura innocua di semplici forme circolari, è poco chiaro come da esse si possa generare una fobia. Una spiegazione iniziale della tripofobia prevedeva che l’avversione alle forme circolari fosse collegata al fatto che esse caratterizzavano animali velenosi come i serpenti o il polipo ad anelli blu. Questa idea derivava dalla constatazione che gli esseri umani hanno la predisposizione ad apprendere paure per stimoli che rappresentano minacce ancestrali di sopravvivenza (Seligman, 1971).

Una ricerca successiva, invece, suggerisce che la tripofobia sia una risposta evolutiva verso una classe di stimoli legati a parassiti o malattie infettive. Dunque, questa tipologia di fobia rappresenterebbe una generalizzazione di una risposta di paura da stimoli effettivamente dannosi ad altri simili ma innocui, cosa che si verifica proprio nelle fobie specifiche e nei disturbi d’ansia (Dymond, Dunsmoor, Vervliet, Roche, & Hermans, 2014).

Tale studio è stato effettuato presso l’università di Kupfer, i cui autori avevano notato che molte malattie infettive (vaiolo, morbillo, rosolia) erano caratterizzate da forme circolari sulla pelle. I partecipanti all’esperimento erano 300 persone con tripofobia (gruppo sperimentale) e 300 studenti universitari sani (gruppo di controllo). Ai soggetti era richiesto di indicare il grado di piacevolezza di 8 immagini relative a parti del corpo infette ( es. segni circolari sul petto e cicatrici) e 8 immagini neutre ma con caratteristiche rilevanti per la tripofobia (es. fori in un muro di mattoni o un baccello di un fiore di loto).

I risultati mostravano che entrambi i gruppi dichiaravano meno piacevoli le immagini relative alle malattie cutanee ma, a differenza degli studenti universitari, i soggetti con tripofobia consideravano estremamente sgradevoli le immagini neutre.

Il disgusto come emozione correlata alla tripofobia

L’emozione associata a tale fobia non era tanto la paura quanto il disgusto, la cui funzione evolutiva è consentire di evitare fonti di potenziali infezioni. Infatti, nella descrizione relativa alle immagini neutre, i tripofobici riportavano esperienze di nausea o correlate al disgusto, con aggiunta di prurito o sensazione di essere infestati da insetti, pur avendo la consapevolezza che ciò non fosse reale.

Concludendo, la tripofobia potrebbe essere un’avversione basata sul disgusto collegato alle forme circolari piuttosto che una semplice “paura dei fori”. Inotre, bisogna considerare che tale ricerca ha come limite la rappresentatività del campione poiché, non essendo ancora stati stabiliti dei criteri per una diagnosi clinica, potrebbero non essere state considerate tutte le caratteristiche di tale condizione.

Mangiare in consapevolezza di Thich Nhat Hanh (2015) – Recensione

Mangiare in consapevolezza. Questo il titolo del volume di Thich Nhat Hanh che apre una serie di riflessioni più ampie in merito alla pratica della presenza mentale in ogni momento della vita quotidiana. In questo testo il maestro zen mostra ancora una volta tutta la sua aura di grande comunicatore arrivando in maniera intuitiva, diretta, spontanea. Mastica il cibo e non le preoccupazioni diventa quasi il manifesto di una modalità differente di alimentarsi che Thich Nhat Hanh presenta attraverso questo testo fatto di paragrafi brevi ma molto incisivi.

 

Prestare consapevolezza ed essere pienamente presenti nel momento dei pasti

L’invito che il maestro propone è quello di provare a mangiare in piena presenza mentale, di condire i cibi con il silenzio per dedicare un tempo che sia quello del nutrimento, nel senso più autentico del termine, lontani dalla distrazione o dagli automatismi. E se ci immaginiamo qualche suggerimento su come poter apprezzare di più i gusti e i sapori del cibo, ebbene stiamo limitando le proposte che questo testo ci offre perché possiamo orientare la nostra consapevolezza sia prima di metterci a tavola (contro quella velocità che ci assale facendoci divorare i cibi e trascurando i gusti) sia dopo (avete mai provato ad osservare il vostro piatto vuoto? Pensare che ciò che c’era prima, adesso è dentro la vostra pancia e vi sta dando un senso di ripienezza e di fame soddisfatta?).

Ma la riflessione di consapevolezza si estende al mondo intero e anche oltre: ogni boccone ha in sé l’universo, il cielo e la terra, il duro lavoro del contadino, la luce solare. Un’attenzione particolare viene rivolta all’ambiente che troppo spesso diamo per scontato, perché in fondo la tutela del nostro mondo, dove un giorno vivranno i nostri figli, dipende anche da noi, dai nostri comportamenti e dalle scelte alimentari.

Così la suggestione continua: seguendo le tradizioni orientali, prendersi cura della propria salute fisica e mentale è considerata una precisa responsabilità nei confronti di antenati e discendenti. E se fossimo assaliti dal dubbio che questi discorsi vertano sui massimi sistemi perché suonano come troppo grandi e astratti, ecco che la seconda parte del testo è corredata di una parte più concreta ed esperienziale attraverso le 5 contemplazioni del cibo: dono della terra, gratitudine, moderazione, riduzione della sofferenza, nutrimento di tutti gli esseri viventi. Si tratta di vere e proprie meditazioni “guidate”, dal reggere una tazza di tè a come lavare i piatti.

L’autore fa anche un accenno alla sofferenza di chi è in lotta con il cibo, vincolato da abitudini disfunzionali e da fatiche emotive. Nonostante non venga mai usata la parola dieta, il messaggio che viene incisivamente sintetizzato, è quello che è possibile stare bene mangiando con presenza mentale: quando mangiamo in consapevolezza consumiamo esattamente ciò che ci serve per mantenere in buona salute il nostro corpo, la nostra mente e la terra.

Il testo recensito sembra che diventi un invito, una laica suggestione che può trasformarsi in una possibilità, in un dono, quello di concedersi di essere presenti a se stessi nell’atto del nutrire il proprio corpo, che poi è anche nutrimento per l’anima.

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