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L’utilizzo del test MMPI-2 nella valutazione della genitorialità

In ambito forense, il MMPI-2 è uno dei test clinici più frequentemente utilizzato, in molti casi giudiziari scelto per fornire informazioni utili sulla personalità dei protagonisti, laddove i fattori psicologici siano ritenuti utili alla soluzione del caso. Così come i test grafici ed i test proiettivi, il MMPI-2 non è stato costruito a scopo peritale, ma rappresenta uno strumento clinico ad esso adattato.

Rachele Recanatini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

MMPI: il questionario di valutazione della personalità

Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) è un questionario di autovalutazione che ha lo scopo di individuare le caratteristiche strutturali della personalità e la presenza di eventuali disturbi psicologici. È costituito da 567 item che comportano risposte dicotomiche, di tipo vero/falso. Può essere facilmente somministrato sia a singoli individui, sia a gruppi di persone, ed il completamento richiede circa un’ora e trenta minuti per gli adulti.

Le domande sono scritte in modo da essere comprese da persone con almeno sei anni di scolarità. Le risposte agli item di ciascuna scala vengono poi annotate e registrate su un foglio di profilo, mentre lo scoring può essere effettuato manualmente o usando programmi computerizzati che lo valorizzano, riducendo gli errori e permettendo un minor dispendio di tempo e di energie da parte del somministratore. Inoltre, l’oggettività dell’assegnazione dei punti assicura attendibilità nell’elaborazione del protocollo dei test, soprattutto utilizzando i code-type per l’interpretazione, elemento particolarmente importante in ambito giuridico.

MMPI-2: la versione aggiornata dell’ MMPI

Il MMPI-2 è la forma aggiornata del MMPI, destinata a persone con più di 18 anni di età. Il test nella sua forma definitiva ha mantenuto le 10 scale cliniche e le scale di validità tradizionali, a cui sono state aggiunte 3 scale di controllo (VRIN, TRIN, F-Back), 15 scale di contenuto ed alcune scale supplementari (Butcher et al., 2001). Le scale, empiricamente valutate, hanno un significato molto chiaro e stabile: un punteggio alto ad una particolare scala clinica viene associato statisticamente a determinate caratteristiche comportamentali, applicate oggettivamente alle persone che si sottopongono al test.

Il questionario fornisce quindi una descrizione valida e chiara delle problematiche, dei sintomi e delle caratteristiche personologiche dell’esaminato, espresse con un linguaggio clinico. I punteggi, inoltre, permettono di prevedere alcuni comportamenti o risposte a diversi approcci trattamentali e riabilitativi. Nello specifico, il questionario è composto da 10 scale cliniche, o scale di base, che coprono le tradizionali categorie psicopatologiche di riferimento: Ipocondria, Depressione, Isteria, Deviazione psicopatica, Mascolinità-Femminilità, Paranoia, Psicastenia, Schizofrenia, Ipomania, Introversione sociale.

I Punteggi T che vanno da 57 a 65 potrebbero indicare semplici aspetti caratteriali, mentre da 76 a 85 si presentano sintomi pervasivi, clinici ed onnipresenti, non situazionali. Il MMPI-2 è uno strumento che analizza tre livelli di validità, attraverso gli indici L (bugia cosciente), F (frequenza di patologia) e K (controllo delle scale inconscio), i quali ci dicono se il questionario risulta valido e quindi se si possa leggere, ancora prima del profilo clinico. Questo aspetto è molto importante in quanto nel MMPI la psicopatologia è valutata da ciò che dice il soggetto, quindi è fondamentale indagarne la validità rispetto all’immagine che la persona ha di sé. In ambito peritale si trovano costantemente MMPI non validi: quando L e K risultano superiori a 65 T ci indicano che l’individuo mente sapendo di mentire o mente per un meccanismo di controllo inconsapevole, effettuando una simulazione o dissimulazione di patologia; nel caso in cui l’indice F superi 85 T, unito alle scale di nevrosi (HS e HY) o di psicosi (PA e SC) superiori a 65 T, indica che il soggetto probabilmente non ha capito la consegna, in quanto sarebbe un paziente eccessivamente grave. Il test è considerato dubbio nel caso in cui, ad esempio, ci troviamo in ambito civile con una elevazione della scala L: la persona potrebbe offrire un’immagine positiva o negativa a seconda di ciò che vorrebbe ottenere, come analizzeremo più in dettaglio in seguito. In ambito peritale il test non si può risomministrare se non a distanza di circa un anno, per questo l’esperto potrà soltanto annotare che le difese risultano troppo elevate. Esistono inoltre le scale addizionali, che facilitano l’interpretazione delle scale di base ed approfondiscono la natura dei vari disturbi, e le scale di contenuto, che permettono di descrivere e predire diverse variabili di personalità.

L’utilizzo dell’ MMPI-2 in ambito forense

In ambito forense, il MMPI-2 è uno dei test clinici più frequentemente utilizzato, in molti casi giudiziari scelto per fornire informazioni utili sulla personalità dei protagonisti, laddove i fattori psicologici siano ritenuti utili alla soluzione del caso. Così come i test grafici ed i test proiettivi, il MMPI-2 non è stato costruito a scopo peritale, ma rappresenta uno strumento clinico ad esso adattato; attualmente sono pochi i professionisti che utilizzano strumenti specifici, i cosiddetti Forensic Assessment Instruments (Gulotta, Villata, 2002).

Il MMPI-2 valuta inoltre un certo numero di “atteggiamenti” di risposta della persona che si sottopone al test: ogni strumento self-report è infatti suscettibile di manipolazioni, siano esse a livello inconsapevole o conscio (Bagby et al., 2006). All’interno di un contesto forense, l’ordinanza del Giudice potrebbe portare un professionista psicologo ad utilizzare il test MMPI-2 durante il ricorso in giudizio per ottenere la collocazione prevalente o l’affidamento dei figli.

L’impiego dell’ MMPI-2 per la valutazione delle competenze genitoriali

L’introduzione della legge 54/20061 (Legge 8 febbraio 2006, n. 54: “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”) ha fornito nuove importanti indicazioni sulla disciplina dei rapporti e delle responsabilità dei genitori con i figli minori in occasione della rottura dell’unità familiare. Sempre più spesso, infatti, le situazioni di separazione conflittuale richiedono valutazioni psicogiuridiche di un esperto che viene chiamato dal Giudice per fornire un contributo tecnico utile, nella tutela del benessere psicofisico dei minori coinvolti, attraverso una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), indagine psicologica prevista dall’articolo 61 del Codice di Procedura Civile.

Il CTU ha il compito di valutare le competenze genitoriali delle parti in causa, allo scopo di rispondere al quesito inerente il miglior regime di affidamento e collocazione dei figli. È lo psicologo quindi che si deve esprimere, in qualità di esperto, riguardo la salute mentale ed emotiva del genitore, valutare i possibili problemi di adattamento e le questioni legate allo sviluppo dei bambini coinvolti. La capacità genitoriale rappresenta sicuramente un concetto molto complesso. I metodi e gli strumenti di valutazione della genitorialità sono molteplici, nell’intento di indagare i fattori individuali, familiari, sociali e dell’ambiente di vita, e le loro reciproche interazioni riguardo al funzionamento genitoriale (Di Blasio, 2005).

Nell’interesse primario del benessere del minore, uno degli aspetti da approfondire è rappresentato dalle caratteristiche personologiche del genitore, che possono essere valutate proprio attraverso la somministrazione del MMPI-2. Nello specifico, studi recenti hanno rilevato che gli strumenti ed i metodi di indagine che utilizza il CTU per la valutazione delle capacità genitoriali sono per il 22% il colloquio individuale, il 17% il colloquio di coppia ed il 16% il MMPI-2, al primo posto tra i test (Gulotta, 2016).

Dato il grande impulso all’utilizzo di questo questionario in alcuni studi è stato suggerito l’utilizzo di scale e di indici di validità sia standard che aggiuntivi per valutare ogni possibile distorsione nelle risposte (Posthuma e Harper, 1998). Come per ogni questionario di personalità, anche il MMPI-2 presenta punti deboli nel caso di somministrazione in ambito giuridico; in particolare, risulta ovvio come la motivazione dell’esaminato abbia effetti sulle risposte agli item, tuttavia questa è la ragione per cui sono state sviluppate le scale di validità: individuare la presenza di elementi motivazionali che possano invalidare il test (Pope et. al, 2006).

A questo punto, sembra corretto chiedersi in che modo siano da considerare tali scale durante lo scoring del questionario: è per questo che le valutazioni di personalità di genitori che si contendono l’affido familiare sono tra le più complesse che lo psicologo si può trovare ad affrontare. Nello specifico, ci sono due ordini di difficoltà: la qualità delle informazioni che si hanno a disposizione, spesso sospetta, e la mancanza di misurazioni appropriate in questo ambito. La sfida più difficile in ambito forense è valutare la credibilità dell’esaminato: il genitore che richiede l’affidamento del figlio potrebbe essere davvero valido e competente o semplicemente molto abile nel mentire.

Il Consulente Tecnico è spesso chiamato ad esprimere il suo parere sulla credibilità del genitore, come richiesto dal Giudice date le sue particolari conoscenze. Il MMPI-2 è il test più impiegato in ambito forense e spesso ci permette di identificare modalità di risposta non valide. Gli autori del test Hathaway e McKinley, infatti, già molti anni fa avevano tenuto in grande considerazione tale aspetto inserendo scale di controllo e di validità. All’interno di una consulenza tecnica in caso di separazione conflittuale, in particolare, i genitori tendono ad avere un atteggiamento difensivo, sostengono l’assenza di problemi e, allo stesso tempo, tendono a fornire informazioni particolarmente negative nei confronti dell’altro. Il professionista deve quindi esplorare attentamente ed approfondire tali questioni, adattando al suo scopo le misurazioni testistiche; i genitori che si sottopongono alla compilazione del MMPI-2 in un contesto valutativo per l’affido, presentano sintomi e comportamenti in modo diverso da chi, ad esempio, richiede la valutazione di un danno.

Risultati scientifici indicano come l’erronea autopresentazione positiva rappresenti un reale e costante problema nella compromissione della validità ai test nella valutazione della genitorialità (Carr et al., 2005). Gli studi condotti sull’argomento evidenziano che i genitori appaiono molto preoccupati per la loro immagine sociale, tendendo a produrre profili particolarmente difensivi, ovvero alti punteggi alle scale L o K (Butcher et al., 2000). La maggioranza dei genitori non raggiunge punteggi patologici alle scale cliniche ma almeno il 20% degli uomini ed il 23.5% delle donne presentano punteggi ben definiti al di sopra di 65 T; le scale che si elevano maggiormente sono la 6, Paranoia, in entrambi i genitori, la 9, Ipomania, per gli uomini e per le donne la scala 4, Deviazione psicopatica. Genitori che ottengono un profilo non difensivo e sincero spesso ammettono di sentirsi sospettosi e pieni di risentimento, dato il contesto di elevata conflittualità genitoriale. Ciò potrebbe causare l’elevazione della scala della Paranoia: in questo caso è importante dare minore rilevanza alle caratteristiche psicopatologiche della scala, ponendo l’accento sull’atteggiamento collaborativo, sulla sincerità e sui particolari vissuti emotivi che il genitore si trova a dover sperimentare (Marzioni, Sardella 2007). La scala L misura la tendenza a manipolare le risposte allo scopo di fornire un’immagine di sé eccessivamente virtuosa e positiva. Un punteggio T particolarmente elevato, sopra 65, evidenzia la mancata accettazione dei propri difetti, debolezze, piccole disonestà, allo scopo di porsi favorevolmente all’esaminatore; potrebbe altresì indicare una autopercezione eccessivamente ingenua ed una forte tendenza ad essere rigidi e moralisti. La scala K rileva lo stile difensivo nei confronti del test, una riluttanza nel fornire delle risposte personali, con punteggi superiori a 55 T in maniera moderata, al di sopra di 70 T marcatamente.

Nel contesto di valutazione genitoriale le scale di validità risultano elevate, ponendo un grave problema per l’interpretazione. Alcuni suggeriscono di considerare un profilo non valido con la scala L superiore a 70 T, dato il particolare contesto (Gitlin, 2005): circa il 90% di genitori che si contende la custodia di un figlio riporta punteggi pari o inferiori a 70 T. La media della scala K è di 59 T, superiore di un decile rispetto alla media standardizzata: ben il 90% dei genitori riporta un punteggio pari o inferiore a 68 T. All’interno del range 59-68 T si trovano persone intimidite, inibite, che mostrano autocontrollo ed efficacia personale. La tendenza a manipolare il test, in questo contesto, viene considerata solo per punteggi superiori a 68 T.

Queste nuove norme invitano a riflettere sull’adeguamento che i professionisti si trovano a dover operare nell’interpretare il MMPI-2 nel contesto di affidamento, per evitare che la grande maggioranza dei genitori appaia molto meno collaborativa di quanto sia in realtà e che una notevole quantità di informazioni vada persa a causa dell’invalidazione del profilo (Marzioni, Sardella 2007). Una forma estremamente manipolatoria della tendenza ad apparire virtuosi viene chiamata “faking good” o profilo dissimulatorio, in cui troviamo le scale L e K significativamente elevate, mentre la scala F al di sotto di 50 T; tali soggetti riportano solitamente profili bassi alle scale cliniche. Il profilo difensivo indica la tendenza a presentarsi in maniera irrealisticamente favorevole, ma meno apertamente rispetto al profilo precedentemente descritto. Le scale L e K sono elevate significativamente ma non in maniera estrema, per cui l’invalidazione del test deve essere indagata con cautela. Le scale cliniche dovrebbero comunque, a mio avviso, essere valutate con attenzione poiché potrebbero riflettere delle problematiche significative, al di sopra di 60 T.

Nel contesto di separazione conflittuale, è stata scoperta una interessante correlazione tra la Sindrome di Alienazione Genitoriale (PAS) e l’elevazione di particolari scale nel MMPI-2: studi scientifici hanno rilevato che i genitori alienanti mostravano punteggi più elevati rispetto alle scale che indicano l’utilizzo di difese primitive, mentre i genitori alienati erano simili al campione di controllo (Gordon et al., 2008). Nello specifico, i risultati indicano che le madri che mostravano comportamenti alienanti ottenevano punteggi significativamente elevati alla scala K e bassi alla scala F (Siegel, Langford, 1998).

Rispetto alla personalità dei genitori che si contendono l’affidamento dei figli, è stato riscontrato nella maggioranza dei casi un particolare codice (3-6/6-3) che rileva un rifiuto dei problemi personali accompagnato da una forte ambizione, un notevole bisogno di controllo, una repressione dei propri impulsi ostili ed aggressivi, ed una rigidità nei giudizi; sono persone che desiderano essere riconosciute socialmente e che spesso manifestano profondi sentimenti di sospettosità nei riguardi dei propri familiari, che non riconoscono la loro rabbia ed hanno scarsa consapevolezza emotiva. Il 12% dei genitori valutati riportano un codice (3-4/4-3) che indica invece un ipercontrollo, in particolare se la scala Pd è più elevata della scala Hy. La caratteristica principale è una intensa e persistente rabbia, una costante richiesta di attenzione ed approvazione, fino ad apparire falsi e disonesti; anche in questo caso è prevista la negazione dei problemi personali. Stessa percentuale per il codice (4-6/6-4) che rileva la presenza di immaturità e narcisismo, in persone passivo-dipendenti che richiedono attenzioni ma si infastidiscono di fronte alle richieste altrui. Spesso tale codice è associato ai conflitti coniugali: eccessiva superbia, astio e gelosia nei confronti dell’altro. I code type descritti sono considerati profondamente negativi rispetto alle capacità genitoriali, in quanto caratterizzati da estrema rigidità, scarso insight e difficoltà relazionali, unite a profonda negazione, emozioni di rabbia, frustrazione ed ostilità. La configurazione maggiormente negativa è determinata dalla correlazione con una elevazione della scala Deviazione psicopatica, che spesso descrive un atteggiamento materno che fornisce una base non sicura, con scarso accudimento e vicinanza affettiva, e della scala Paranoia, qualora si associ ad una forte identificazione con i figli, con estrema severità nel caso in cui le aspettative genitoriali vengano disattese. Tale caratteristica è riscontrata spesso in genitori di bambini che affrontano un trattamento psicologico.

In conclusione possiamo dire che l’uso del MMPI-2 viene ampliamente citato nelle cause civili di valutazione per l’affidamento dei figli minori e per la limitazione della potestà genitoriale, in cui l’obiettivo è stabilire gli accordi di affido o di visita del genitore nell’interesse dei bambini coinvolti. La valutazione genitoriale tramite il questionario MMPI-2 ci può offrire informazioni preziose, non solo nell’identificare problemi psicologici e comportamentali, ma anche caratteristiche che ci possono suggerire alcune specifiche capacità parentali.

La Cassazione riporta numerosi casi in cui l’affido non è stato riconosciuto a seguito di una serie di test psicologici, incluso il MMPI-2, da cui emergeva un profilo psicologico instabile e patologico di un genitore. Alla luce di quanto emerso, ritengo importante valutare i singoli punteggi delle scale di validità, ma soprattutto integrarli con le informazioni ottenute dall’elevazione delle altre scale, in un contesto di assessment in cui analizzare anche la storia di vita della persona, osservare il suo comportamento durante la somministrazione ed il suo grado di collaborazione complessivo. A mio avviso è fondamentale utilizzare un assessment di tipo collaborativo (Finn, 2009), ricordandosi che la valutazione è richiesta da un genitore e spesso subita in maniera involontaria dall’altro; già dal colloquio iniziale, infatti, lo psicologo riveste un ruolo decisivo nel riconoscere i bisogni dell’esaminato, nel fornire chiare informazioni sul percorso valutativo e nell’indagare le competenze di ciascun genitore.

Cyberbullismo: guida completa per genitori, ragazzi e insegnanti – Recensione

Il libro, scritto da Mauro Berti (Sovrintendente capo della Polizia di Stato e responsabile dell’Ufficio Indagini Pedofilia), Serena Valorzi (Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale esperta in dipendenze da comportamento) e Michele Facci (Psicologo ed esperto in pericoli e potenzialità di internet), delinea in modo chiaro, immediato ed efficace la natura del cyberbullismo, le sue differenze con il bullismo e le implicazioni psicologiche e legali di questo fenomeno sempre più in espansione.

 

Che cos’è il Cyberbullismo? Ha le stesse caratteristiche del bullismo o ci sono delle differenze?

Gli autori sostengono che avere la capacità tecnica di usare uno strumento informatico non significa saperlo usare responsabilmente. Per questo motivo la guida è indirizzata non solo ai genitori e agli insegnanti, ma anche ai ragazzi stessi, al fine di renderli consapevoli delle implicazioni che può avere una navigazione non responsabile, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo dei social network.

Il fenomeno del bullismo

Il fenomeno del bullismo venne studiato da Olweus negli anni ’70, a partire da situazioni problematiche che si erano create nelle scuole scandinave e che in poco tempo si diffusero in tutto il mondo, in particolare nei paesi anglosassoni. Oggi il bullismo viene definito come “Il fenomeno delle prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei soprattutto in ambito scolastico”.

Per parlare di vero bullismo è necessario che i comportamenti siano reiterati nel tempo e che i ruoli di vittima e carnefice siano ben definiti. E’ all’interno di questo contesto che si colloca il cyberbullismo.

Quando si parla di cyberbullismo

Si può parlare di Cyberbullismo quando le azioni nei confronti della vittima avvengono all’interno della rete, come un blog, un sito internet, un social network o ambienti virtuali come WhatsApp. Spesso la vittima non conosce l’identità del suo aggressore, che può nascondersi dietro un nickname o agire in anonimato. Il Cyberbullismo è una forma di violenza, che si manifesta in forme e modalità diverse: minacce e offese occasionali volte a fomentare discussioni (Flaming), utilizzo di comunicazioni illecite e aggressive reiterate nel tempo (Harassment), vere e proprie persecuzioni che limitano lo spazio di libertà della vittima (Cyberstalking), fino all’appropriazione illecita delle credenziali di accesso o di materiale fotografico che permetta all’aggressore di fingersi la vittima, allo scopo di ledere la sua reputazione (Impersonation).

Il furto di identità è considerato a tutti gli effetti un comportamento criminale. La forma più diffusa di cyberbullismo sembra essere il Cyberbashing o Happy slapping, che consiste nell’esercitare violenza sulla vittima da parte di una o più persone, mentre qualcuno sta video-registrando. Il contenuto del filmato viene poi caricato in rete. Anche questo è considerato un comportamento criminale perseguibile penalmente. Da questa breve descrizione ci si rende conto che il cyberbullismo non riguarda solo i giovani ma che è molto diffuso anche nel mondo degli adulti, in particolare in ambito lavorativo. Come dimostrato da una recente ricerca, anche i meno giovani (età media 34 anni) fanno abuso della rete, in particolare dei social network.

Per quanto riguarda i giovani, una ricerca ISTAT del 2014 ha mostrato la veloce diffusione del fenomeno nelle nuove generazioni. Dai dati emerge che il 5,9 % dei ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni che utilizzano il cellulare e/o internet, sono vittime di ripetute azioni vessatorie tramite e-mail, chat, sms o social network. Tra questi, le femmine sono le vittime più frequenti (7,1% contro il 4,6% dei maschi). Le condotte tipiche che caratterizzano il fenomeno sono le continue pressioni psicologiche, aggressioni, molestie, diffamazioni, furti di identità, trattamento illecito di dati personali e detenzione o diffusione di immagini erotiche minorili.

Negli ultimi anni i social network e il canale youtube hanno radicalmente modificato l’approccio al mondo di internet, che una volta veniva utilizzato soprattutto come canale di conoscenza e di approfondimento. Ciò a cui abbiamo assistito è la nascita di un mondo parallelo, che segue leggi proprie della comunicazione umana, che altera i confini della propria identità e stravolge le norme etiche che una volta regolavano la riservatezza e il rispetto della privacy, propria e altrui. Nel mondo dei social network tutto è immediato quanto immutabile, e se non si conoscono i suoi lati oscuri ci si può ritrovare facilmente intrappolati nelle sue dinamiche, nel ruolo di vittima o di carnefice.

Il libro, molto fruibile e divulgativo, contiene gli elementi necessari per un approfondimento generale di un fenomeno dalla crescita inquietante, non solo dal punto di vista psicologico ma anche per quanto riguarda gli elementi giuridico-legali. Infine, vengono proposti spunti di riflessione interessanti sugli aspetti di prevenzione, che possono risultare utili nella pratica educativa quotidiana.

Dopo l’Edipo: un impasse generazionale – Una lettura dell’opera Sette contro Tebe di Eschilo

Antigone nell’ opera Sette contro Tebe rappresenta quel passaggio importante che permette di rompere le eredità transgenerazionali disfunzionali, quella possibilità di creare un invento, al di là dell’oracolo e delle predestinazioni. L’inventum si inscrive nel registro della concepibilità e rimanda al non-ancora e non al già noto (Di Maria, 2000), quindi appartenente alla dimensione del futuro e capace di trasformare le ritualità generazionali; un tradimento se vogliamo, un tradimento che ha dignità di esistere, se ha la funzione di rompere tradizioni così forti da diventare cieche.

Dott.ssa Anna Ruggirello, Dott.ssa Maria Maddalena Viola, dott.ssa Linda Giusino

L’opera di Eschilo ” Sette contro Tebe “

Laio, figlio di Labdaco e discendente di Cadmo, fondatore della città di Tebe, viene accolto dal re Pelope e innamoratosi del figlio Crisippo lo rapisce portandolo a Tebe e abusando di lui. Il giovane Crisippo si uccide per la vergogna e Pelope scaglia una maledizione su Laio: se avesse avuto un figlio sarebbe stato ucciso per mano di questo. La maledizione si abbatte su Laio e sulla sua stirpe e, come racconta il mito, Laio viene ucciso per mano del figlio Edipo che sposa la madre Giocasta e diviene re di Tebe. Da questa unione incestuosa nascono i fratelli Eteocle e Polinice e le figlie Antigone e Ismene.

L’opera Sette contro Tebe di Eschilo narra dei figli di Edipo e della maledizione che portano e che li precede. Eteocle e Polinice si accordano per regnare sulla città di Tebe alternandosi un anno ciascuno ma improvvisamente Eteocle, allo scadere del proprio anno, non vuole più lasciare il regno al fratello Polinice che dichiara guerra alla sua città, alla sua patria, a suo fratello.

Il regista Marco Baliani, che ha diretto l’opera durante il 53° ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, in questa rivisitazione ha voluto porre l’accento sull’oracolo di Apollo che narra di una maledizione che si perpetuerà nel trigenerazionale: se Laio avesse procreato lui e la sua famiglia “avrebbero avuto sfracelli e morti” per almeno 3 generazioni.

I sette contro Tebe, la terza generazione maledetta giunge così al suo compimento: la guerra fratricida tra Eteocle e Polinice.
La scena si presenta spoglia di architetture teatrali e colpisce la presenza di un unico grande albero totemico, simbolo aggregativo della polis e della devozione della città agli Dei. Quello che sarà il campo di battaglia è ricco di piccoli trucioli di sughero con ai margini perimetrali sette blocchi di pietra bianca ad indicare le sette porte che delimitano l’ingresso nella città e che avvolgono tutto lo spazio interno che presto diverrà scenario di una guerra fratricida.

Tebe è dunque una città contesa tra eserciti fratelli, una città angosciata e colpita dagli esiti di una stirpe maledetta che ha peccato di hybris ed è stata punita.

Dall’alto di una casa, dietro la cavea del teatro greco di Siracusa, Eteocle parla alla sua gente paragonando Tebe ad una nave che non può affondare, in una sorta di grande rassicurazione per avere, tra i loro, una schiera di marinai-combattenti valorosi che proteggeranno Tebe e la sua gente. La paura è palpabile dall’inizio dell’opera, lo spettacolo si presenta subito in movimento, di corsa, in continua azione, l’arrivo del messaggero che annuncia l’imminente attacco dell’esercito nemico porta il panico nella popolazione. Eteocle appare come un re amato e preoccupato di rincuorare la popolazione ma anche un re deciso, che ammonisce le donne e la sorella Antigone per gli eccessi di paura che manifestano. Il messaggero annuncia che a ciascuna delle sette porte di Tebe l’esercito nemico assegnerà un guerriero e che alla settima e ultima porta ci sarà Polinice stesso a combattere. Eteocle ascolta il messaggero analizzando attentamente le caratteristiche di ciascun guerriero e scegliendo anch’egli fra i suoi uomini un guerriero all’altezza dello scontro. Su questo punto la tragedia si permea di riti e danze primitivi e aborigeni come primitiva e antica è la sorte maledetta di tale generazione, libertà stilistica già preannunciata dalla scelta dei costumi e delle maschere. Queste ultime, verranno indossate dai guerrieri tebani, e verranno fatte uscire, per essere mostrate al pubblico, da una struttura di bambù che evoca quella dell’uomo vitruviano di Leonardo, in ultime saranno appese su ogni pietra/porta. La struttura vitruviana composta da un cerchio e un quadrato, se letti in chiave simbolica, anche basandosi sulle riletture cristiane della teoria del microcosmo, rimandano allusivamente alla sfera divina quale perfezione di circonferenza, mentre il quadrato al mondo terreno. L’uomo, il valoroso scelto ne I sette contro Tebe, dunque, a metà tra divino e terrestre rappresenterebbe un elemento di raccordo capace di unire i due mondi; ciò farebbe di loro guerrieri eletti, pronti a combattere fieri e lontani dalla paura.

La contrapposizione tra maschile e femminile nell’opera Sette contro Tebe

Il contrasto tra il coro delle vergini tebane, tutto composto di donne, atterrito dalla paura e il re Eteocle, sprezzante della paura delle donne, riportano alla mente lo stereotipo di una fragilità più al femminile che non vale la pena di prendere in considerazione. Eteocle ammonisce così il coro, che cerca di dissuaderlo dalla sua posizione irremovibile, e lo esorta a non strepitare e a non dare consigli in “questioni maschili” come una guerra.

Una contrapposizione fra maschile e femminile ben definita in ruoli e responsabilità; contrapposizione che diventa cieca e inflessibile, e che suscita alcune domande nello spettatore: a cosa in effetti sembra non potercisi sottrarre? Alle ripetizioni dei mandati generazionali? In quale relazione ci si pone nei confronti dell’oracolo? Il vaticinio diventa un fatto assoluto e incommensurabile? I turbamenti di Eteocle potrebbero rappresentare indizi da dover interrogare?

L’impasse generazionale e relazionale

Nel proseguo la figura di Eteocle diviene maggiormente incerta: egli è un uomo solo nella sua decisione, sa che affrontando il fratello in battaglia entrambi troveranno la morte, teme d’altro canto di sfidare gli Dei cambiando il terribile destino che è riservato alla sua stirpe. Qui sembrerebbe dipanarsi quell’impasse generazionale a titolo di questo scritto. L’impasse sarebbe così rappresentato dalla continuità generazionale della maledizione che parrebbe impossibile da spezzare per la presenza di quel divino a cui probabilmente ci si può solo prostrare; ma si tratterebbe anche di un impasse relazionale nella impossibilità di mischiare quel maschile e femminile in una relazione che porti allo sviluppo per il tramite di un’interruzione generazionale non pensabile.

Lo stereotipo tra razionale e irrazionale in Sette contro Tebe

Nella rappresentazione il coro si presenta per nulla compatto e fisso come vuole la tradizione delle tragedie: è fatto, invece, da individui e individualità sempre in movimento. La dimensione di gruppalità presente nel coro spicca come elemento di vitalità, di emozionalità che, tuttavia, non può essere presa in considerazione perché al limite con l’irrazionale. Ecco il dispiegarsi di un secondo stereotipo; nel senso comune, infatti, si è soliti rendere due opposti dicotomici il razionale e l’irrazionale, dove quest’ultimo prende le vesti di istintualità, e come tale non ponderata. Le emozioni, a nostro modo di vedere arricchito di certo di cultura psicologica, rappresentano delle bussole per orientare la nostra attenzione e comprenderne la natura e quel turbinio sperimentato durante lo svolgersi della tragedia, misto di paura, adrenalina, terrore che emerge nelle danze corali de I sette contro Tebe, allertando sulla sorte avversa.

Nel coro spicca la figura di Antigone dominata dall’inquietudine. Ed ecco il presentarsi del turbamento ancora. La sorella di Eteocle si fa simbolo del femmineo con il suo corredo di carnale istinto di pace suggerendo il dolore corale come somma di individuali patimenti. Antigone ha un ruolo chiave nella tragedia, se immaginiamo la maledizione come un modello familiare che si tramanda, Antigone è colei che propone di spezzare la catena riflessiva che perpetua il comportamento adesivo ai modelli dei padri. Antigone esalta il valore del legame familiare, che seppur inquinato, sporco, maledetto può essere salvaguardato; propone di riscrivere il senso di quello che si è abbattuto sulla sua famiglia ma si scontra con l’amaro destino che presto si manifesterà “O dolore: dormirai nello stesso letto del padre”. Ma Antigone è una donna e nel momento in cui gli uomini della città devono partire per la guerra le donne devono tacere, la sua voce diventa un riverbero sterile dinanzi alla cecità indotta dai turbamenti emotivi.

La scena fa sentire forte la confusione, lo stato emotivo di una città sotto imminente assedio, grida di guerra, esplosioni tuonanti, cavalli galoppanti, urla, preghiere e gesti ossessivi di paura. Prevale una rappresentazione indiretta della realtà: una drammaturgia dell’invisibile, un combattimento virtuale, dove il nemico è presente nei suoni delle spade che fragorosamente si fanno sentire, negli scoppi di bombe, nei rombi di aerei ed elicotteri, a riecheggiare quell’Apocalipse now del 1979 diretto da Francis Ford Coppola e ancora attuale negli ultimi avvenimenti riguardanti la Siria e i paesi limitrofi.

Antigone: il personaggio in Sette contro Tebe che rompe le eredità transgenerazionali disfunzionali

L’arrivo del messaggero annuncia la morte dei due fratelli e che il nuovo re di Tebe, Creonte, ha deciso di dare sepoltura solo ad Eteocle. Ancora una volta la voce saggia e ribelle di Antigone irrompe nella scena sfidando tale decisione, sfidando le leggi della città e il perpetuarsi del dolore nella sua stirpe e nella sua generazione. Antigone rivendicando la sepoltura per entrambi i figli di Edipo, valorizza ancora una volta il potere del legame affettivo, della relazione: “C’è un potere tremendo nell’essere nati dalle stesse viscere, dalla stessa madre sventurata e dallo stesso padre infelice. …anima mia…il cuore nato da una stessa stirpe ti unisca, viva, ad un morto”. Antigone dunque decide di seppellire anche da sola il fratello Polinice. La tragedia si conclude con il coro che approva la decisione di Antigone e propone anche un corteo per la memoria di Eteocle che ha protetto la città di Cadmo.

Antigone rappresenta quel passaggio importante che permette di rompere le eredità transgenerazionali disfunzionali, quella possibilità di creare un invento, al di là dell’oracolo e delle predestinazioni. L’inventum si inscrive nel registro della concepibilità e rimanda al non-ancora e non al già noto (Di Maria, 2000), quindi appartenente alla dimensione del futuro e capace di trasformare le ritualità generazionali; un tradimento se vogliamo, un tradimento che ha dignità di esistere, se ha la funzione di rompere tradizioni così forti da diventare cieche.

Elaborare il lutto: per andare avanti si deve perdere qualcosa

Nel finale tragico si annida inoltre il tema della possibilità di elaborare il lutto, inteso come elemento psichico necessario affinché i personaggi, la famiglia e poi l’intera polis possano proseguire lungo un cammino evolutivo che metaforicamente sembra rappresentare la condizione umana e soggettiva che troppo spesso rimane incastrata dentro lutti irrisolti e tragedie personali che sembrano assumere il sapore di condanne esistenziali e inesorabili. Con la morte dei due fratelli, e attraverso la presenza di Antigone, figura capace di sostare psichicamente dentro la dimensione di paura, terrore e sofferenza, sembra che si alluda alla possibilità di ritrovare la funzione creativa e di legame, a fronte di un vissuto mortifero che nasce prima nel tabù dell’incesto e che appare riproporsi a livello transgenerazionale nelle sue caratteristiche traumatiche.

Il segreto, il tabù, il trauma, infatti, assumono la funzione simbolica di elementi che congelano e pietrificano dentro un tempo che collassa, perdendo le sue coordinate storico-temporali condannando il soggetto a rimanere prigioniero di un presente eterno, nel quale il nemico è sempre alla porta impendendo dunque la possibilità di muoversi, impendendo tanto l’ingresso quanto l’uscita di elementi psichici e vitali. Pertanto, nel contesto di tale rappresentazione è solo con la morte, solo con il lutto, celebrato attraverso un corteo funebre, che è possibile permettere ai fantasmi psichici di trasformarsi in antenati (Schutzenberger, 2004), e dunque attraverso ciò permettere il superamento del trauma originario; possiamo quindi concludere questo breve saggio, cogliendo nel triste epilogo della tragedia, un elemento vitale e vivificante, ovvero la consapevolezza, seppur dolorosa, che per andare avanti si deve inevitabilmente perdere qualcosa.

Ecstasy: come agisce sul cervello e quali sono i suoi effetti – Introduzione alla Psicologia

L’ ecstasy è una metamfetamina avente attività eccitante ed entactogena ovvero genera empatia ed euforia agevolando le relazioni sociali. Il nome tecnico dell’ ecstasy è 3-4 metilenediossimetamfetamina (MDMA). 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ ecstasy è una sostanza psicoattiva, poiché provoca effetti allucinogeni e stimolanti simili a quelli ottenuti dalle amfetamine. Esistono anche varianti della stessa classe, come l’MDEA (Eve), l’MDA (Love Drug), e l’MBDM (TNT).

Si tratta di un composto semisintetico ottenuto dal safrolo, uno degli olii essenziali presenti nel sassofrasso, nella noce moscata, nella vaniglia, nella radice di acoro, e in diverse altre spezie vegetali. Spesso, oltre al principio attivo, si utilizzano altre sostanze che ne potenziano l’effetto, come anfetamine, cocaina, caffeina, efedrina o farmaci per uso umano o veterinario.

L’ ecstasy, abitualmente, è preparata clandestinamente sotto forma di capsule, polveri e, per lo più, compresse colorate, con nomi e disegni originali in superficie che rappresentano sia il marchio di colui che l’ha preparata sia i differenti effetti.

Questa sostanza è consumata, solitamente, insieme a bevande alcoliche alle quali conferisce un retrogusto amaro. Inoltre, la si può trovare anche sotto forma di polvere e a volte viene sniffata, occasionalmente fumata, ma raramente iniettata.

Gli effetti dell’ ecstasy possono durare ore e consistono nell’ eliminazione dell’ansia, rilassatezza, assenza di fame, di sete e di sonno.

Si sperimenta, innanzitutto, un senso di fervore, seguito da un senso di calma e benessere sociale, spesso accompagnato da un acutizzarsi della percezione dei colori e dei suoni. Provoca, inoltre, un senso di maggiore energia e forza personale, e ha un moderato effetto allucinogeno.

Ecstasy: storia dell’uso

La 3,4-metilenediossimetanfetamina è stata sintetizzata per la prima volta nel 1912 nei laboratori farmacologici tedeschi Merck, che la brevettarono pensando di ricavarne un farmaco antifame, ma la prima guerra mondiale portò le case farmaceutiche a orientare la produzione esclusivamente per fini bellici.

Dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l’MDMA e molte altre sostanze brevettate furono consegnate agli alleati come bottino di guerra. Il brevetto rimase nel dimenticatoio per molti anni, ma nel 1950  l’esercito degli Stati Uniti, in pieno clima di Guerra Fredda, commissionò lo studio di alcune sostanze psicotrope tra cui l’LSD e l’MDMA, per utilizzo militare, nonostante l’avesse utilizzato come siero della verità.

Il composto fino all’inizio del 1970 non venne mai prodotto, finché non suscitò l’interesse del chimico Alexander Shulgin che, scoprendone il potenziale empatico, lo consigliò ad alcuni psicoterapeuti.

A partire dalla fine degli anni ’70, l’Mdma si diffonde negli ambienti della controcultura californiana e statunitense, e contemporaneamente alcuni psichiatri della West Coast cominciano a utilizzarla nel corso delle sedute psicoterapeutiche, nelle terapie di coppia e con pazienti borderline, con difficoltà di comunicazione anche e soprattutto nella interrelazione fra psicoterapeuta e paziente. Erano state sfruttate le caratteristiche di entactogenicità della molecola poiché facilitavano il dialogo e la verbalizzazione. Gli psicoterapeuti californiani portarono avanti un po’ di ricerca, ma in maniera informale, per il timore che, una volta nota come droga di strada, potesse essere sottoposta a restrizioni di carattere giuridico e legislativo.

Fino a tutto il 1984 in America è assolutamente legale l’uso dell’ ecstasy e così comincia a entrare nel giro studentesco e si diffonde in diversi ambiti sociali.

Ben presto, l’ ecstasy si diffonde in Europa, soprattutto nei locali di tendenza frequentati dai giovani.

Il I luglio 1985 in America si interrompe l’uso di Mdma che viene inserita nella categoria delle droghe pericolose.

Il 22 aprile dello stesso anno l’ ecstasy viene messa fuori legge in Svizzera; il 18 luglio in Germania; in Italia nel 1988. Il Dpr 309/90 stabilisce la dose giornaliera: 50 mg, difficile da comprendere realmente poiché dipende da come è stata creata la pastiglia. In Gran Bretagna è stata bandita dal 1977, come tutte le altre anfetamine psichedeliche.

Come l’ ecstasy agisce sul cervello

L’ ecstasy agisce sui circuiti serotoninergici del cervello, aumentandone la produzione. La serotonina è il neurotrasmettitore che, tra le altre cose, controlla l’umore, le emozioni, l’aggressività, il sonno, l’appetito, l’ansia, la memoria e la percezione. I canali lungo i quali viaggia questa sostanza sarebbero il bersaglio principale dell’ ecstasy.

Un uso regolare e cronico della sostanza determinerebbe un effetto neurotossico, ovvero si avrebbe un danno permanentemente a carico della produzione di serotonina. Di conseguenza potrebbero insorgere patologie psichiche come depressione, psicosiattacchi di panico e danni permanenti della memoria.

Gli effetti dell’ ecstasy

L’ ecstasy produce sostanzialmente tre tipi di effetti:

  • Effetti positivi o a breve termine. Dopo aver assunto l’ ecstasy si verifica un aumento delle capacità sensoriali e percettive. Di conseguenza le emozioni, l’intimità e l’affettività, sono amplificate. Si percepiscono, inoltre, euforia, spensieratezza, beatitudine e mancanza di emozioni negative e disinibizione sociale. Gli effetti hanno durata diversa a seconda della sostanza assunta, ma generalmente durano dalle 4-6 ore a 8-12 ore, e iniziano dopo venti-sessanta minuti dall’assunzione.
  • Effetti negativi fisiologici. L’ ecstasy dopo gli effetti positivi genera: nausea, allucinazioni, brividi e sudorazione, aumento della temperatura corporea, tremore, crampi muscolari e offuscamento della vista. Inoltre, genera un aumento della pressione sanguigna e frequenza cardiaca, tachicardia, disidratazione dovuta a intensa sudorazione, crampi e svenimenti dovuti anche all’innalzamento notevole della temperatura corporea (fino a 43 gradi). L’insorgere di problemi cardiaci e/o respiratori e il surriscaldamento eccessivo del corpo possono essere causa di morte, anche in seguito a una sola assunzione.
  • Effetti negativi psicologici. Subito dopo l’assunzione si verifica una perdita della recaptazione di serotonina con conseguente manifestazione di insonnia, perdita di appetito, scarsa concentrazione e riduzione della capacità di giudizio.

È stato dimostrato che l’ ecstasy non solo degenera le terminazioni e diramazioni del sistema nervoso, ma le fa rigenerare in maniera anormale, impedendone la riconnessione con alcune aree del cervello. Il risultato è il manifestarsi di disturbi cognitivi, emotivi, della capacità di apprendimento, della memoria.

Conseguenze derivanti dall’assunzione di ecstasy

L’ ecstasy, come tutte le sostanze stupefacenti, porta a dipendenza e ad assuefazione, ovvero il consumo di dosi sempre maggiori per provare gli effetti piacevoli legati alla funzione psicoattiva della sostanza.

L’overdose di ecstasy può essere fatale, perché l’improvviso innalzamento della temperatura corporea può portare a un arresto cardiaco o a un ictus.

La sospensione brusca dell’assunzione di ecstasy in soggetti che ne fanno uso abitualmente provoca una sintomatologia di tipo astinenziale con cefalea, sudorazione profusa, palpitazioni, vertigini, crampi muscolari, disturbi vasomotori ed effetti spiacevoli, in gergo denominati crasi, rappresentati da ansietà, tremori, irritabilità, disturbi del sonno, affaticamento, depressione e isolamento sociale. L’uso continuativo di ecstasy può portare all’insorgere di stati permanenti di depressione, paranoia, psicosi in genere, distruzione dei muscoli scheletrici, insufficienze renale ed epatica acute.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbi comportamentali nella demenza – Behavioral and Psychological Symptoms in Dementia (BPSD)

I disturbi comportamentali sono spesso identificati con il termine Behavioral and Psychological Symptoms in Dementia (BPSD) e sono definiti come un gruppo eterogeneo di manifestazioni caratterizzate da alterazioni della percezione, del contenuto di pensiero, dell’umore e del comportamento che si osservano frequentemente in pazienti affetti da demenza (IPA Consensus conference; 1996).

Francesca Colli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Nella definizione della patologia dementigena i disturbi comportamentali BPSD risultano rilevanti come i disturbi cognitivi e sono fortemente correlati con il grado di  deficit funzionale che essa comporta (Cerejeira et al.; 2012).

Si è rilevato che la maggior parte dei soggetti affetti da demenza sviluppa un disturbo comportamentale durante la sua storia di malattia (Lyketsos et al.;2000; Hersch et al.; 2007).

Infatti, fin dalle prime descrizioni delle patologie dementigene, i disturbi comportamentali sono stati individuati come sintomi propri di queste condizioni. Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1838) nella definizione di “Demenza senile” rileva che tale problematica è frequentemente accompagnata da disturbi emotivi.

Anche Alzheimer (1907) ha segnalato la presenza di disturbi comportamentali quali paranoia, deliri, allucinazioni e urla nella sua paziente Auguste D.

Solo dal 1980 però i disturbi non cognitivi delle demenze sono stati considerati fondamentali per la valutazione delle sindromi demenziali. Attualmente nel manuale DSM-V, nella diagnosi dei casi di decadimento cognitivo, si valuta la presenza di disturbi comportamentali.

Le determinanti dei disturbi comportamentali della demenza

I BPSD possono essere determinati da una vasta gamma di fattori ambientali, psicologici e neurologici e dall’interazione tra di essi.

L’eziologia di questi disturbi comportamentali può essere varia: alcuni hanno una causa organica importante e diretta, altri sono riconducibili a meccanismi psicologici normalmente osservabili, ma in questi casi fallaci.

Un esempio del primo caso è la presenza di allucinazioni visive nei casi di demenza a corpi di Lewy (LBD) che sembra essere collegata a un danno a livello del nucleo basolaterale dell’amigdala e del paraippocampo ed è correlata con la patologia da alfa-sinucleina a livello della corteccia frontale (Williams et al. 2006).

Un’altra vasta gamma di sintomi invece non può essere riconducibile a un’alterazione organica: la deflessione del tono dell’umore che si osserva in una persona che mostra le prime manifestazioni di perdita della memoria e di alterazione dell’efficienza cognitiva potrebbe essere la normale reazione di un individuo che si rende conto di essere affetto da una patologia grave e che si isola socialmente a causa del disagio che essa comporta.

Un’ipotesi interessante relativa all’eziologia dei disturbi comportamentali nella demenza è stata proposta da Cummings (Cummings; 2003). L’autore definisce differenti classi sintomatologiche a seconda della proteina principalmente coinvolta in ogni forma di demenza: quando la proteina coinvolta è la tau, come ad esempio nella Demenza frontotemporale (FTD), la sintomatologia comportamentale è caratterizzata da disinibizione, apatia e comportamenti compulsivi. In altri casi, in cui vi è una disfunzione dell’alfa-sinucleina, come nel caso della malattia di Parkinson (PD) e della LBD, si rileva una prevalenza di allucinazioni, deliri e disturbi del sonno.

Caratteristiche comuni nei disturbi comportamentali in pazienti con demenza

La prevalenza dei disturbi comportamentali BPSD varia ampiamente nei differenti studi, ma si possono definire alcune caratteristiche comuni.

In primo luogo il loro decorso non è lineare rispetto all’andamento dei disturbi cognitivi e funzionali della sindrome demenziale, nonostante si osservi un aumento della frequenza e della gravità di essi con il progredire della sindrome dementigena (Lyketsos; 2002).

Inoltre più disturbi comportamentali possono essere presenti contemporaneamente nello stesso individuo.

Sebbene alcuni disturbi comportamentali possano regredire altri BPSD, quali apatia, agitazione, ripetitività e resistenza aggressiva sono cronicamente presenti e in genere persistono fino alla morte.

Inoltre la presenza di BPSD è stata associata a un’evoluzione prognostica peggiore, a decadimento cognitivo maggiormente ingravescente e rapido e a maggiori difficoltà nelle attività della vita quotidiana (Paulsen et al.; 2000).

Quattro tipologie di disturbi comportamentali nella demenza

Nonostante i sintomi neuropsichiatrici dei soggetti con demenza siano molto eterogenei, essi possono essere raggruppati in quattro classi principali (Petrovic et al.; 2007).

La prima tipologia di sintomi riguarda l’alterazione del tono dell’umore: la depressione può essere osservata fin dalle fasi iniziali della patologia e può essere interpretata come reazione comprensibile alla situazione clinica caratterizzata da perdita della forza, della salute, del ruolo e dell’autonomia. Nella persona affetta da patologia dementigena la depressione è spesso accompagnata da importanti stati ansiosi.

Una seconda classe di sintomi comprende manifestazioni di aggressività, disinibizione, irritabilità e agitazione (Chan et al.; 2003).

La disinibizione è tipica delle fasi iniziali della FTD, ma si osserva anche nei soggetti affetti da Alzheimer (AD). Essa consiste nella messa in atto di comportamenti motori e verbali impropri. La consapevolezza dell’inadeguatezza di queste condotte è scarsa (Holm et al; 2007). La disinibizione può anche manifestarsi con condotte impulsive di gioco d’azzardo o di operazioni finanziarie eccessivamente rischiose (Manoochehri et al.; 2012).

L’aggressività è frequente nella demenza: i comportamenti aggressivi sono difficilmente prevedibili ed evitabili. Essa è definita come un comportamento fisico e verbale che ha l’obiettivo di colpire o ferire un altro individuo (Kolanowski et al 1995). Le condotte aggressive nelle patologie demenziali sono messe in atto con grande intensità, ma spesso mancano della corretta sequenza fisica per produrre un effettivo danno nell’altra persona.

L’irritabilità è spesso connessa alle prime fasi della malattia e può essere ricondotta alle sempre maggiori difficoltà che il paziente si trova ad affrontare con il progredire della patologia.

In questa classe di disturbi comportamentali BPSD si possono inserire anche i disturbi del comportamento motori: affaccendamento e wandering.

Il primo termine indica la tendenza dell’individuo affetto da patologia dementigena a continuare a manipolare oggetti diversi, parti del proprio corpo o vestiti. Il comportamento è afinalistico e ripetitivo e solitamente si osserva negli stadi più avanzati della patologia (Boccardi et al.;2007). Il wandering è il continuo girovagare senza una metà precisa: spesso è protratto per molto tempo e a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Un’altra classe sintomatologica di disturbi comportamentali BPSD riguarda le manifestazioni delle psicosi in particolare deliri e allucinazioni. Le allucinazioni, specialmente visive, sono più frequenti nella LBD e sono più rare nell’AD. Il soggetto ritiene vere queste manifestazioni e si sintonizza emotivamente sul contenuto di esse piuttosto che sulla realtà circostante (Boccardi; 2007). Si possono poi rilevare idee deliranti, che non raggiungono mai una strutturazione chiara e sono tipicamente meno complesse di quelle dei pazienti non affetti da sindrome dementigena.

I contenuti dei deliri esprimono spesso delle preoccupazioni comprensibili e sono collegati al tipo di compromissione cognitiva del soggetto. Gli esempi più comuni sono: la convinzione che le altre persone nascondano o rubino alcuni oggetti, la convinzione che il partner sia un impostore (sindrome di Capgras), l’accusa verso i caregiver di abbandono e cospirazione e la credenza che gli altri individui agiscano con fini malevoli o con intenti discriminatori (Tariot et al; 1995).

I deliri sono quindi idee, non corrispondenti alla realtà, che il malato di demenza crea dentro di sé per darsi una spiegazione di ciò che succede attorno a lui, poiché non è in grado di comprendere correttamente la situazione dal punto di vista cognitivo (Boccardi; 2007).

L’ultima classe di disturbi comportamentali della demenza è caratterizzata dai disturbi del ritmo sonno-veglia e dell’appetito.

Nei soggetti affetti da demenza si osserva una disorganizzazione dei regolari ritmi circadiani che regolano il normale alternarsi della condizione di sonno e veglia (Loewestein et al.; 1982). I principali disturbi riportati sono insonnia, ipersonnia, parasonnie, eccessiva attività motoria notturna, apnee notturne e disturbi del ritmo sonno-veglia (Beaulieu-Bonneau et al.;2009). Solitamente la gravità del disturbo del sonno aumenta con il progredire della patologia dementigena (Moe et al.; 1995).

Queste condizioni spesso contribuiscono a peggiorare la qualità di vita dell’individuo (Rongve et al.; 2010).

Il comportamento alimentare nel paziente con demenza

Per quanto riguarda il comportamento alimentare nella patologia dementigena sono state osservate numerose alterazioni tra le quali anoressia, iperfagia, cambiamento di preferenze alimentari, consumo di sostanze non edibili. Questi disturbi sono connessi al decadimento cognitivo e ai correlati organici della patologia demenziale (Frissoni et al.; 1998; Ikeda et al.; 2002). Questa tipologia di disturbi comportamentali BPSD è spesso correlata con lo stadio di gravità della patologia (Taemeeyapradit et al.; 2014).

I soggetti affetti da AD lamentano spesso perdita di appetito e conseguente calo ponderale (Grundman et al.; 1996), nella LBD vengono riportate difficoltà di deglutizione e perdita dell’appetito (Shinigawa et al.; 2009), mentre nella FTD si osserva un aumento dell’appetito con la comparsa di preferenze verso cibi specifici e condotte alimentari ripetitive (Ikeda et al.; 2002).

L’assessment dei disturbi comportamentali nella sindrome dementigena

Esistono numerosi strumenti per la definizione e l’assessment dei disturbi comportamentali nei soggetti con demenza.

La scala Cohen-Mansfield Agitation Inventory (CMAI) permette di individuare i sintomi di agitazione e di stabilirne la frequenza (Cohen-Mansfield; 1996).

L’UCLA Neuropsychiatric Inventory (NPI) (Cummings et al; 1994) indaga la presenza di numerosi BPSD e permette di valutare anche la loro frequenza, la gravità e il distress psicologico dei familiari.

L’utilizzo di scale di misurazione dei disturbi comportamentali BPSD è utile sia nella fase diagnostica e di scelta dei trattamenti terapeutici e riabilitativi, sia per la verifica di tali interventi al fine del monitoraggio o dell’eventuale sospensione di essi.

Legame tra sintomi da attacco di panico e recettori sensibili all’acidosi metabolica

Attacco di panico e acidosi metabolica: Ricercatori dell’Università di Cincinnati hanno riscontrato che, nel comportamento e nella fisiologia legate all’ attacco di panico, svolgono un ruolo cruciale i recettori associati alla morte di cellule T relative al gene 8 (TDAG8). I recettori TDAG8, infatti, sono sensibili ai cambiamenti del pH e sono stati identificati per la prima volta nelle cellule immunitarie del corpo, dove regolano le risposte infiammatorie.

 

Attacco di panico: conseguenza dell’ acidosi metabolica?

Il disturbo da attacco di panico (DAP) è una sindrome caratterizzata da episodi improvvisi e ricorrenti di ansia eccessiva accompagnata da un forte iperarousal (Kessler et al., 2005) con sintomi fisici quali palpitazioni del cuore, sudorazione o raffreddamento, difficoltà a respirare, nausea e dolori al petto. Tale condizione si manifesta solitamente durante l’adolescenza o nella prima età adulta (Beesdo et al., 2010).

Nonostante i progressi ottenuti per diagnosticare e trattare il disturbo, la sua fisiopatologia presenta ancora degli aspetti poco chiari.
Da alcuni studi pre-clinici sono emerse evidenze che attribuiscono l’avvio dell’attacco di panico a una disregolazione dell’equilibrio acido- base presente nel corpo; dunque, esso sarebbe una conseguenza dell’ acidosi metabolica (Vollmer et al., 2015; Wemmie, 2011). Quello che resta da analizzare è quale sia il meccanismo attraverso il quale la rottura dell’equilibrio del pH generi i sintomi fisiologici del panico.

Ricercatori dell’università di Cincinnati hanno riscontrato che, nel comportamento e nella fisiologia legate all’attacco di panico, svolgono un ruolo cruciale i recettori associati alla morte di cellule T relative al gene 8 (TDAG8). I recettori TDAG8, infatti, sono sensibili ai cambiamenti del pH e sono stati identificati per la prima volta nelle cellule immunitarie del corpo, dove regolano le risposte infiammatorie. A livello cerebrale tali recettori sono collocati in cellule immunitarie dette microglia. Sebbene sulla fisiologia del panico sia emersa la potenziale correlazione tra recettori TDAG8 e sintomi del panico, bisogna stabilire se questi recettori abbiano un ruolo significativo tale da dare origine al disturbo da attacco di panico.

A partire da ciò, uno studio pilota successivo si è posto l’obiettivo di indagare se l’espressione dei recettori TDAG8, in adolescenti e giovani adulti, fosse diversa tra due gruppi: campione sperimentale di soggetti con disturbo d’attacco di panico e campione di controllo costituito da soggetti in salute. I risultati hanno dimostrato una correlazione significativa sia tra i recettori TDAG8 e la gravità dei sintomi del disturbo, sia tra gli stessi e la risposta al trattamento con antidepressivi. Potrebbe accadere, dunque, che i pazienti in trattamento presentino una remissione dell’espressione dei TDAG8.

In conclusione, studi futuri dovrebbero analizzare ulteriormente il legame tra i recettori TDAG8 e il disturbo d’attacco di panico per spiegare se e come essi possano predire la risposta positiva al trattamento farmacologico. Inoltre si potrebbe indagare la natura di tali recettori, valutando se l’alterazione del loro funzionamento sia determinata da una variazione genetica o da altri fattori ambientali.

Guarire dalle ferite psicologiche lasciate da un narcisista violento – Le risposte di fluIDsex

Se finisci una storia con un narcisista maligno diagnosticato e violento, come puoi uscire dai traumi fisici e dai graffi nell’anima? (Icara)

 

Cara Icara, ci sono relazioni che finiscono e ci obbligano a fare i conti con tutto il dolore che ci hanno procurato. Se il suo ex era un narcisista maligno posso immaginare quando sia stato complicato gestire il vostro rapporto e quanta sofferenza possa averle arrecato. I narcisisti maligni sono esperti di manipolazione affettiva ed usano ricatti e colpevolizzazioni per mantenere il controllo sul partner e affermare la propria superiorità.

Ma anche se porta ancora i segni dell’accaduto possiamo partire da una considerazione positiva: la sua storia con questa persona è finita. Tutt’altro che scontato in un panorama dove moltissime persone faticano a uscire da relazioni violente.

Ora che una fase negativa è finita si concentri su tutte le cose positive di cui finora non poteva godere, dedichi tempo e attenzioni a sé, si dedichi quelle attenzioni che prima venivano assorbite dal suo partner narcisista. Il percorso di guarigione può essere lungo, ma è più facile se accanto ha delle persone affidabili e premurose; ma se il dolore è ancora forte e pensa che le persone che ha accanto non riescano a capirla valuti la possibilità di vedere un terapeuta.

E chissà che un nuovo incontro non scacci definitivamente i demoni del passato.

 

Mattia Nese  

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Correlazione fra l’uso dello smartphone e performance attentive, mnestiche e cognitive

La tecnologia mobile, fra cui lo smartphone, ha attualmente una diffusione capillare. Che impatto producono le nuove tecnologie sull’attenzione, sulla memoria e sulle performance cognitive dell’individuo? Diverse recenti ricerche hanno indagato le correlazioni che esistono fra questi fattori e l’ uso dello smartphone.

Abstract

L’utilizzo protratto dello smartphone fa decrescere i tempi attentivi, in particolar modo dell’attenzione sostenuta. Riguardo alla memoria, il rapido reperimento delle informazioni, che la tecnologia mobile permette, incide negativamente sulla memoria personale, ovvero sulla capacità di ricordare episodi della propria vita, i luoghi che si sono visitati e le persone che si sono incontrate. Anche in ambito cognitivo, un uso eccessivo dello smartphone inficia le performance cognitive individuali, determinando, per esempio, nel contesto scolastico, performance scadenti negli apprendimenti scolastici.

Keywords: smartphone, attenzione, memoria, prestazioni cognitive.

 

Uso dello smartphone ed effetti sulle performance cognitive

La tecnologia mobile, fra cui lo smartphone, ha attualmente una diffusione capillare. Alcune applicazioni presenti nei telefoni cellulari si sostituiscono all’uomo. In pratica, svolgono alcune delle funzioni tipiche dell’uomo, basti pensare, per esempio, al reperimento di informazioni. Da questo punto di vista, il consultare i motori di ricerca ha preso il posto dello sfogliare voluminose enciclopedie. Che impatto producono le nuove tecnologie sull’attenzione, sulla memoria e sulle prestazioni cognitive dell’individuo? Diverse recenti ricerche hanno indagato le correlazioni che esistono fra i fattori summenzionati e l’uso dello smartphone.

Relativamente all’attenzione, Nikken e Schols (2015) hanno riscontrato che l’uso protratto dello smartphone fa decrescere i tempi attentivi nell’età evolutiva. In altre parole, l’utilizzo del telefono incrementa la disattenzione.

A questo riguardo, è noto da tempo che la distrazione, che l’uso del telefono mobile produce, diviene pericolosa quando si guida. Uno studio di Caird e coll. (2014) ha evidenziato che lo scrivere un messaggio, quando si guida un’auto, rappresenta un evento che frequentemente causa incidenti stradali. Inoltre, anche il solo leggere un messaggio sul proprio telefono, quando si guida, è una condotta estremamente pericolosa e questa è un’abitudine diffusa sia fra la popolazione giovanile che fra gli adulti, come dimostra una recente indagine del Center for Disease Control and Prevention Statunitense (2016).

Quella che subisce gli effetti più negativi dall’uso continuo dello smartphone è l’attenzione sostenuta, come dimostra uno studio di Lee e coll. (2015). L’attenzione sostenuta, in accordo con Csikszentmihalyi, Abuhamdeh e Nakamura (2014), può essere definita come uno stato mentale che permette all’individuo di essere completamente concentrato su quello che sta facendo.

Come si è detto, lo smartphone dà la possibilità di effettuare qualsiasi ricerca e ciò consente in brevissimo tempo di reperire l’informazione desiderata. Se da un lato il rapido accesso a questo enorme database ha incrementato il possesso di informazioni, dall’altro lato, come diversi studi evidenziano (Frith e Kalin, 2015; Özkul e Humphreys, 2015), il rapido reperimento delle informazioni incide negativamente sulla memoria personale, ovvero sulla capacità di ricordare episodi della propria vita, i luoghi che si sono visitati e le persone che si sono incontrate.

Anche in ambito cognitivo, un uso eccessivo dello smartphone inficia le performance cognitive individuali, determinando, per esempio, nel contesto scolastico, performance scadenti negli apprendimenti scolastici (Beland e Murphy, 2014; Lepp e al., 2014).

In conclusione, se la tecnologia mobile incrementa l’accesso alle informazioni di un gran numero di persone, di fatto essa può avere delle ripercussioni negative sull’attenzione, sulla memoria e sulle prestazioni cognitive degli individui (Wilmer e al., 2017).

Determinanti sociali della salute mentale

I determinanti sociali della salute mentale sono costituiti dalle politiche di governance, sociali, macroeconomiche e dai valori culturali e sociali; tali determinanti contribuiscono ad assegnare a ciascun individuo uno status socio-economico, ovvero una posizione all’interno della gerarchia sociale. In base alla posizione sociale ciascuno avrà maggiori o minori probabilità di imbattersi in fattori di rischio e suscettibilità individuale alla malattia.

 

Un gruppo di colleghi psicologi e non, tutti aderenti alla Rete Sostenibilità e Salute, grazie al prezioso supporto di Dors (il Centro Regionale di Documentazione per la Promozione della Salute), hanno da poco tradotto un documento tematico pubblicato dall’OMS nel 2014 che titola “I Determinanti Sociali della Salute Mentale“, introdotto da una prefazione di Marialuisa Menegatto e di Adriano Zamperini.

Come gli aspetti sociali determinano lo stato di salute

Cosa sono i determinanti sociali della salute mentale e quali implicazioni possono avere per il lavoro degli psicologi?

Nel 1948, sotto la guida dello psichiatra George Brock Chisholm, il primo direttore generale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha definito la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità”.

Esattamente cent’anni prima, nel 1848, Rudolph Virchow, inviato dal governo prussiano in Polonia per combattere un’epidemia di tifo constatò che le vere cause del diffondersi di questa fossero la povertà, le condizioni igieniche e la presenza di uno stato autoritario e repressivo. Affermò inoltre che “i progressi della medicina possono prolungare la vita umana, ma i miglioramenti delle condizioni sociali possono ottenere questo risultato più rapidamente ed efficacemente” (Virchow, 1959).

Nello stesso secolo Freud identificò uno dei principali determinanti per l’insorgenza dell’isteria nella cultura patriarcale e nel set di norme e di valori di cui era portatrice (Freud, 1892).

Che cos’hanno in comune questi tre eventi storici, apparentemente senza legame e che costituiscono la cornice semantica all’interno della quale leggere il documento? Utilizzando il modello ecologico di Bronfenbrenner (1977) si potrebbe affermare che tutti pongono l’accento sull’interazione dinamica tra l’individuo e il suo macrosistema.

E’ proprio questa interazione, tra individuo e società, ad essere diventata il fulcro dei numerosissimi studi epidemiologici che costituiscono il background metodologico del documento e in cui viene dimostrato in maniera incontrovertibile, a livello di popolazione, il divario nell’aspettativa di vita, nell’incidenza e nella prevalenza per quasi la maggior parte delle patologie al variare delle condizioni socio-economiche: i poveri trascorrono più tempo delle loro più brevi vite affetti da patologia (Marmot, 2016). Ad esempio, in Glasgow, città nota agli epidemiologi, il divario nell’aspettativa di vita, tra quartieri ricchi e quartieri poveri, ammonta a  28 anni (Hanlon, 2006). Ad uno sguardo più attento, da questi studi emerge un altro dato importante che verrà evidenziato nel documento: entro una certa misura, non sono le condizioni materiali di per sé a determinare gli esiti di salute, quanto la struttura e l’organizzazione della società. A livello nazionale, ad esempio, negli Stati Uniti il reddito nazionale procapite è di un terzo più elevato rispetto a quello Svezia ma negli USA il rischio per un quindicennne di non arrivare al sessantesimo compleanno è il doppio rispetto alla Svezia (13vs7 su 100) e le condizioni di salute sono sensibilmente peggiori (Malik, 2014).

A livello individuale, all’interno di una stessa popolazione, tutti questi studi vengono arricchiti negli anni dall’introduzione del costrutto di gradiente di salute, a cui viene data grande importanza nel documento tradotto. La distribuzione della salute secondo un gradiente indica che per qualsiasi indicatore di status socio-economico considerato (istruzione, reddito, posizione lavorativa) ad ogni posizione sociale corrisponde un livello di salute peggiore di quello della posizione immediatamente superiore (Maciocco, 2014).

L’influenza dei determinanti sociali sulla salute mentale

Questa è l’assunzione alla base del paradigma dei determinanti sociali della salute, successivamente fatto proprio anche dall’epidemiologia psichiatrica che ha portato a rilevare ad esempio che per qualsiasi popolazione esaminata la depressione mostra tassi di prevalenza 1,5/2 volte maggiori in individui appartenenti al gruppo sociale dal reddito inferiore (Patel,  Kleinman,  2003). Come sostiene Saraceno (2016), in base a quanto evidenziato dal proprio studio critico con Levav e Kohn (Saraceno et al., 2005) sulla salute mentale, le persone con status socio economico più basso corrono un rischio relativo di sviluppare schizofrenia 8 volte maggiore rispetto a quelli con status socio-economico più alto (Holzer et al., 1986). Il benessere mentale e psicologico è influenzato non solo da caratteristiche e peculiarità individuali, ma anche dalle circostanze socioeconomiche nelle quali le persone si trovano e dal contesto generale in cui vivono (WHO, 2012).

L’OMS sottolinea nel documento che salute mentale e disturbi mentali non siano termini opposti e che la salute mentale non sia immaginabile come “solamente l’assenza di disturbo mentale”(WHO, 2013). Il documento tuttavia, pur dovendosi avvalere, per necessità metodologiche, della rilevazione quasi esclusiva dei disturbi mentali (sia quelli definiti “comuni” come ansia e depressione che quelli definiti “gravi” come schizofrenia e disturbo bipolare),  sottolinea la presenza di una grande sofferenza che non raggiungerebbe la soglia per essere diagnosticata come disturbo mentale e che colpirebbe una larga parte della popolazione (Murray, 2010).

Affrontare i determinanti sociali dei disturbi mentali comuni e dei disturbi mentali sottosoglia significa ridimensionare il peso dell’individuo nei processi che portano alla sofferenza in favore del rapporto tra l’individuo e il proprio contesto di vita all’interno del quale sono distribuiti e stratificati in maniera diseguale, quei fattori di rischio e di protezione, di carattere materiale, relazionale e simbolico, che predicono gli esiti di salute individuali.

I fattori di rischio e di protezione, intesi come cause che precedono immediatamente gli esiti di salute vengono definiti determinanti prossimali.

Quelle condizioni che determinano una distribuzione differenziale dei fattori di rischio e di protezione, ovvero le cause delle cause, rappresentano i determinanti sociali di salute (o determinanti distali o determinanti strutturali) cioè l’insieme delle condizioni contestuali in cui gli individui nascono, crescono, lavorano, invecchiano e muoiono, influenzate dalle politiche e dalla cultura.

I determinanti sociali della salute mentale sono costituiti dalle politiche di governance, sociali, macroeconomiche e dai valori culturali e sociali; tali determinanti influiscono sui processi di stratificazione della società tramite la distribuzione di opportunità e risorse, contribuendo ad assegnare a ciascun individuo uno status socio-economico, ovvero una posizione all’interno della gerarchia sociale, in base al reddito, l’istruzione, la posizione lavorativa, la classe sociale e il gruppo etnico. In base alla posizione sociale ciascuno avrà maggiori o minori probabilità di imbattersi nei determinanti prossimali (fattori di rischio materiali, psicosociali, comportamenti insalubri, condizioni di suscettibilità individuale alla malattia).

Inoltre, all’interno dei determinanti sociali oltre alle politiche abitative, lavorative e di welfare, che esercitano i loro effetti cumulativi lungo tutto il ciclo di vita, è possibile inserire anche tutti quegli aspetti di contesto quali il grado di fiducia reciproca, la coesione sociale, la discriminazione, il capitale sociale, anch’essi strettamente correlati (Wilkinson, Pickett, 2009) alle disuguaglianze sociali. Tanto più sono inique le politiche di distribuzione delle risorse, maggiori sono le disuguaglianze materiali, simboliche e di potere, minore è la coesione sociale, maggiore l’insorgenza di malattie mentali (Pickett, Wilkinson, 2010).

Depressione, ansia, violenza e razzismo non solo solamente reazioni psicologiche: essi sono anche fenomeni sociali poiché è anche al di fuori del soggetto che essi trovano gli elementi per il loro sviluppo (De Piccoli, 2014). A partire dalla consapevolezza che i fattori di rischio e di protezione agiscono su diversi livelli (l’individuo, la famiglia, la comunità, la struttura sociale e il livello di popolazione), un approccio fondato sui determinanti sociali di salute richiede azioni su molti livelli e su settori differenti (WHO, 2014) con una attenzione particolare agli interventi sulla qualità del contesto (Costa, 2014), tramite azioni di empowerment sul rendimento di questo volti all’attivazione e al coinvolgimento degli attori locali in un’ottica partecipativa.

 

Salute mentale: oltre i fattori di rischio individuali, il ruolo dei determinanti sociali-grafico

Relazione tra determinanti sociali, disuguaglianze ed esiti di salute mentale 

 

L’importanza di agire sul ciclo di vita e sulla trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza

Il contributo dell’approccio dei determinanti sociali della salute mentale proposto dal documento insiste sulla necessità di azioni focalizzate sull’intero ciclo di vita, familiare alla psicologia dello sviluppo con cui condivide anche un’attenzione ad un’ottica intergenerazionale. Le disuguaglianze sociali ed economiche che si tramandano di generazione in generazione, determinano con il tempo, il radicamento delle disuguaglianze relative alla salute mentale (WHO, 2014; Campion, 2013).

Esemplare a questo proposito è la ricerca delle psicologhe dell’infanzia Hart e Risley (2003) le quali hanno calcolato che la differenza, in termini di numero di parole (più avanti si concentreranno anche sulla qualità delle parole), a quattro anni di età tra un bambino proveniente da una famiglia svantaggiata e quello di una famiglia avvantaggiata si aggiri attorno ai trenta milioni. Un bambino nato e cresciuto in una famiglia ricca di media ascolta, a quattro anni, trenta milioni di parole in più rispetto ad un suo coetaneo proveniente da una famiglia povera. Immaginiamo quanto possano allontanarsi le traiettorie di vita dei due bambini, se proviamo ad osservarli a scuola dieci anni dopo, dopo altri dieci anni a lavoro, e a trent’anni dalla nascita, diventati genitori, quando il divario linguistico ereditato nelle prime fasi di vita verrà tramandato alla propria prole.

Adottare un approccio che prenda in considerazione i determinanti sociali lungo il ciclo di vita significa per cui agire anche sulla trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza e agire per migliorare le condizioni di vita quotidiana da prima della nascita, durante la prima infanzia, in età scolare, durante la creazione del nucleo familiare, nel corso dell’età lavorativa e durante la vecchiaia; permette sia di migliorare le condizioni di salute mentale nella popolazione che di ridurre il rischio per quei disturbi mentali associati alle disuguaglianze sociali (WHO, 2014).

Come psicologi, confrontarci con la sofferenza e provare ad agire per contrastarla, ci porta con immediatezza ad attribuirle un senso all’interno di una cornice di significato individuale, che ci permette anche di sperimentare un senso di efficacia relativo alle nostre azioni. Aprirsi ai determinanti sociali della salute mentale, significa, a partire dalle ampie evidenze scientifiche che questa prospettiva ci offre, ricollocare tale sofferenza nella dimensione che le compete ovvero nell’interazione tra l’individuo e il suo ambiente e questo vuol dire essere maggiormente consapevoli che le esperienze di sofferenza si configurano come la sedimentazione, nei corpi e nella mente, di un insieme eterogeneo di esperienze sociali, che attraversano le biografie degli individui e che li legano – gli uni agli altri – in specifici contesti d’azione (Cardano, 2008).

Questo rende la sofferenza e la salute mentale un problema non più meramente tecnico. Non dipende, alle sue origini, da fattori esclusivamente individuali ed ignorare questa inoppugnabile evidenza, equivale a continuare a spegnere il fuoco della sofferenza nell’individuo senza  prevenire gli incendi che la causano, trattare ortopedicamente gli individui per riportarli nelle stesse condizioni ambientali che hanno generato la sofferenza. Però le buone condizioni di vita quotidiana, le cose che realmente contano, sono distribuite in modo disuguale, molto più di quanto sia accettabile, (Marmot, 2016) e il risultato di una distribuzione disuguale delle condizioni della vita è che la salute si distribuisce in modo disuguale (ibidem).

Forti di queste evidenza, in quanto professionisti, dovremmo, in un’ottica preventiva, dare il nostro contributo per la creazione di una società più equa, giusta e meno nociva perché “un mondo più giusto sarebbe un mondo più sano” (WHO, 2008). Questo ci permetterebbe inoltre di riappropriarci, dopo 40 anni, del messaggio di Basaglia, soprendentemente assonante con l’intuizione di Virchow: “La medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su larga scala” (1959).

Buster Keaton: uno dei maestri del cinema muto

Durante la rassegna del Cinema ritrovato 2017 sono state proiettate diverse pellicole di Buster Keaton uno dei maestri dell’epoca muta che è tornato a vivere grazie all’impegno della Cineteca di Bologna e del suo laboratorio “L’Immagine Ritrovata”. Buster Keaton e la sua intera opera cinematografica sono infatti al centro di un progetto di restauro che come obiettivo ha quello di restituire al pubblico di tutto il mondo la possibilità di apprezzare le grandi opere di quest’ultimo.

 

I film Neighbors e The goat di Buster Keaton: la visione pessimistica della vita e la resilienza

Tra i film visti “NEIGHBORS” e “THE GOAT”.

Pochi registi hanno saputo sfruttare “la mise en scène”, Buster Keaton è senz’altro uno di questi. In Neighbors una staccionata e una corda da bucato creano l’intero balletto comico. Keaton nei suoi andirivieni le attraversa, le scavalca, ci passa sotto, sperimentando tutte le forme di movimento che la situazione gli consente.

In “The Goat” sembra, anzi estende, lo stile di Neighbors, il balletto non si svolge più nel cortile ma nella città intera, l’equivoco assume una gravità maggiore.

Le comiche di Keaton hanno tutte una certa peculiarità, rispecchiano la sua visione pessimistica della vita. Keaton ci mostra la situazione di serenità e subito dopo il suo esatto opposto, il rovescio della medaglia, un mondo che è soggetto all’imprevisto. In ogni caso, però, il suo personaggio balla e si muove sulle note della resilienza, riesce sempre a superare le avversità.

La resilienza è la capacità di autoripararsi, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo: esempio intravedere in un fallimento una opportunità di crescita personale e/o un miglioramento delle proprie competenze.

Sebbene nei suoi film la resilienza sia rappresentata dalla continua necessità di uscire fuori da situazioni scomode, ecco invece alcune strategie che possono aiutarci ad attuare questo concetto fuori da un film, nella vita reale:

1) Mantenere un atteggiamento costruttivo
Le persone resilienti riconoscono che per quanto negative possano essere le circostanze, potrebbe sempre andare peggio. Esse non si soffermano su quanto gravi sono i loro problemi e non perdono tempo ed energie a fantasticare quanto potrebbero ulteriormente peggiorare. Infine il fallimento è percepito come una potenziale risorsa costruttiva.

2) Cercare di trarre una “lezione” da ciò che è accaduto
Invece di inventarsi delle scuse o cercare dei capri espiatori per i loro fallimenti, le persone resilienti cercano di imparare da ogni errore, mettendo a fuoco quelle che possono essere potenziali lezioni di vita.

3) Accettare la propria vulnerabilità
Le persone resilienti non hanno paura di ammettere le proprie debolezze, infatti approfittano dei fallimenti per identificare quali aree di se stessi possano migliorare: proprio questa consapevolezza ed accettazione della propria vulnerabilità favorisce lo sviluppo di strategie di crescita personale.

4) Riconoscere i punti di forza
La resilienza permette di utilizzare il fallimento quale opportunità per riconoscere le nostre qualità positive, ricordandoci ad esempio quali risorse abbiamo utilizzato in passato nei momenti difficili o i nostri punti di forza che ci hanno fatto arrivare dove siamo oggi.

5) Elaborare strategie per migliorare come individui
Non dobbiamo vedere il fallimento come la fine, ma come l’inizio di qualcosa: quando un tentativo di raggiungere un nostro obiettivo inizialmente fallisce, soffermiamoci a considerare come possiamo affrontare la questione in modo diverso la prossima volta.

La resilienza non è una qualità innata e immutabile e chiunque, con volontà ed impegno, può svilupparla e imparare a migliorare a partire dalle proprie battute d’arresto.

Combattere la depressione: stimolazione cerebrale o terapia farmacologica?

Per il trattamento della depressione è stato confrontato il metodo della stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS) con un farmaco, un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina.

 

Un nuovo studio mette in dubbio l’efficacia dei trattamenti per la depressione basati sulla stimolazione cerebrale mediante corrente elettrica a bassa intensità. La tecnica è nota come stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS) ed è stata considerata un’alternativa promettente al trattamento con farmaci antidepressivi.

I ricercatori dell’ospedale universitario di San Paolo (HU-USP) e dell’Istituto di psichiatria dell’ospedale das Clínicas (HC-FMUSP-IP), in Brasile, dimostrano come la tDCS risulti meno efficace dell’escitalopram, un farmaco antidepressivo. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel New England Journal of Medicine.

Antidepressivi o tDCS?

Il gruppo di ricercatori guidato da André Brunoni, professore presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università Medical School di San Paolo e direttore del Servizio di Neuromodulazione, ha reclutato 245 pazienti con depressione e li ha suddivisi in tre gruppi in maniera casuale.

Un gruppo è stato trattato con tDCS più placebo per via orale, il secondo ha ricevuto il trattamento tDCS sham più il trattamento anti-depressivo e il terzo ha ricevuto il trattamento tDCS sham più il placebo orale.

Il trattamento tDCS è stato somministrato in sessioni di 30 minuti per 15 giorni feriali consecutivi, seguiti da sette sessioni settimanali. L’escitalopram è stato somministrato ad una dose di 10 mg al giorno per tre settimane e 20 mg al giorno per altre sette settimane. Il limite inferiore della tDCS rispetto all’ escitalopram è stato definito da un punteggio minimo, almeno il 50% della differenza nei punteggi in soggetti trattati con placebo rispetto a quelli trattati con l’antidepressivo. Il che significa che il tDCS dovrebbe essere efficace almeno nel 50%, tanto quanto l’antidepressivo, ma in questo studio, tale aspettativa, non si è verificata.

I risultati mostrano che il trattamento con tDCS non è più efficace del trattamento con escitalopram, quindi gli autori hanno concluso che la stimolazione transcranica non può essere raccomandata come terapia di prima linea contro la depressione. L’antidepressivo è più facile da somministrare e molto più efficace. D’altra parte, studi precedenti hanno dimostrato che la tDCS è migliore rispetto al placebo.

Secondo lo studio, inoltre, i pazienti che hanno ricevuto il trattamento con tDCS presentavano livelli più elevati di rossore cutaneo, acufene e nervosismo rispetto agli altri due gruppi, e mania di nuova insorgenza, che si è sviluppata in due pazienti di questo gruppo. Mentre, i pazienti che ricevevano escitalopram presentavano sonnolenza e costipazione più frequenti rispetto a quelli degli altri due gruppi.

Depressione: come funziona la tDCS e i rischi delle soluzioni fai-da-te

Si stima che circa il 12% -14% della popolazione mondiale soffre di depressione, e sembrerebbe relativamente facile trovare siti di auto-aiuto con i video che mostrano come somministrare la tDCS a casa.

Il Professore dichiara:

Questi siti che pretendono di dimostrare come stimolare il proprio cervello rappresentano un enorme rischio per i pazienti con depressione. Le soluzioni “fai da te” sono fortemente contro-indicate. Mi aspetto che il nostro studio abbia un impatto su questo fenomeno perché abbiamo dimostrato che ci sono effetti collaterali negativi e che non è così efficace come molti pensano.

Brunoni ha anche sottolineato l’importanza di non confondere la tDCS con altri metodi come la terapia elettroconvulsiva (ECT), che prevede una corrente molto più forte – tipicamente 800 milliampere, o 800 volte la corrente utilizzata nella tDCS – ed è progettata per produrre una scarica controllata. Altre differenze includono il fatto che la ECT fornisce un breve impulso piuttosto che una corrente costante.

Il dispositivo tDCS è uno stimolatore a corrente continua di bassa intensità collegato a due elettrodi di superficie (anodo e catodo). In generale, la tDCS anodica induce la depolarizzazione dei neuroni (attiva) mentre la tDCS catodica favorisce la loro iperpolarizzazione (inibisce). Nei soggetti con depressione, gli elettrodi vengono posizionati sulle loro tempie in modo che la corrente possa attraversare la corteccia prefrontale dorsolaterale (un’area con attività diminuita in tali soggetti). Le persone con depressione mostrano l’ipoattività cerebrale in diverse aree cerebrali, ma soprattutto in questa regione; si pensa che il meccanismo d’azione della stimolazione possa aumentare l’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ma ancora non è stato dimostrato nessun effetto di questo tipo.

Esistono ulteriori tecniche progettate per modificare l’attività elettrica del cervello: la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione transcranica a corrente alternata, la stimolazione profonda del cervello e gli ultrasuoni focalizzati. Di queste, solo la stimolazione magnetica transcranica e la terapia elettroconvulsiva sono attualmente approvate dalla Food and Drug Administration (FDA) per il trattamento della depressione.

 

Fino all’osso (To the bone, 2017): un film sui disturbi alimentari – Recensione

Fino all’osso: 7 storie, 7 personaggi le cui vicende sono legate da un denominatore comune: i disturbi alimentari. Ma la volontà della regista è quella di dare spazio alla protagonista indiscussa del film: Ellen, una ventenne alle prese con un’anoressia nervosa che l’accompagna praticamente da sempre.

 

To the bone, Fino all’osso: la trama

In uno dei mille tentativi (falliti) di cure, Ellen, spinta dalla compagna del padre e dalla sorella, inizia un nuovo cammino, quello in una casa che ospita ragazzi che soffrono di disturbi alimentari. Ed è nella condivisione degli spazi comuni e non solo, che si inizia a formare un gruppo che risulta vincente nelle sue dinamiche di confronto e di supporto. La casa, grande, senza porte e cestini, con i bagni chiusi fino a mezz’ora dopo i pasti (per evitare le condotte di eliminazione), è comunque calda e confortevole, rifugio di sofferenze grandi, baia di sicurezza e protezione.

La visione del disturbo alimentare con un po’ di giusta ironia

La dimensione su cui si articola il film è quella prospettica: non ci si sofferma mai sulle cause del disturbo alimentare e sui sensi di colpa che ne possano derivare, ma la problematica alimentare viene inquadrata nella sua difficoltà ma anche nel suo superamento: si è protagonisti della propria vita fino in fondo, fino all’ultima conta delle calorie ingerite, fino all’ultima corsa che non guarda in faccia la stanchezza e la sopportazione, fino all’ultimo conato che sa di liberazione.

Per non appesantire troppo le vicende che sono comunque di un calibro emotivo importante, la regista utilizza l’ironia e una buona dose di sarcasmo per rappresentare, ad esempio, i momenti di alta tensione legati ai pasti e alla difficilissima “prova-peso” che porta con sé l’incubo di salire sulla bilancia, sentenza di condanna a morte. Qualche parola va spesa per la voce della speranza, affidata all’interpretazione di un bravissimo attore, Keanu Reeves, che nel ruolo del dottor Beckham, urla contro la malattia spesso con un linguaggio anche colorito, spronando ad abbandonare la paura che intimorisce e che non permette di essere se stessi.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM FINO ALL’OSSO:

L’importanza della famiglia quando è presente un disturbo alimentare

Certo il faro è volutamente puntato su Ellen e sui suoi vissuti legati al disturbo alimentare ma soprattutto quando i protagonisti sono così giovani, diventa imprescindibile non integrare i genitori nel percorso di cura. Nel film il padre di Ellen non appare mai: oberato di impegni, è echeggiato come colui che lavora sempre. La mamma di Ellen viene rappresentata con un disturbo di personalità bipolare e anche la compagna del padre sembra avere un’unica preoccupazione, quella di dover trovare una “sistemazione” per Ellen.

Nella riunione familiare che il dottor Beckham chiederà espressamente di fare (sostenendo, a ragione, di essere un pezzo molto importante nel processo di cura), appare una confusione che sembra dare una chiara idea di quale siano state le condizioni di ambivalenza e di disagio in cui ha vissuto la protagonista: nella totale assenza del padre, si accende una confusionaria sfida verbale tra le due opposte fazioni, paterna e materna, che ignorano totalmente i bisogni di Ellen.

Quello di non tenere conto della famiglia è sicuramente una scelta della regista ma se il messaggio voleva essere quello di spiegare che cosa significa vivere un disturbo alimentare, sicuramente un pezzo importante è stato accantonato: i disturbi alimentari sono patologie che coinvolgono l’intero nucleo familiare e non tenerne conto significa non affrontare il problema nella sua interezza e complessità. E nel momento in cui nel film la famiglia esce di scena, il percorso di cura che la giovane protagonista insegue diventa più impervio: il cammino è in salita e la battaglia sarà tutta tra Ellen ed Ellen, nella sfida dei limiti del proprio corpo e nella lotta per l’affermazione della propria identità.

Il ragionamento clinico in psicoterapia – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale. Un sintomo è dunque semplicemente una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Ragionamento clinico – Nr. 23

 

Il ragionamento clinico del terapeuta a partire dal sintomo del paziente

Quando ho di fronte a me un paziente o più in generale una persona cerco di seguire attraverso la traccia delle sue parole il filo del suo ragionamento e nel farlo anche io ragiono e da questo mio ragionare scaturiscono domande, attenzioni, atteggiamenti che a loro volta influenzano il dipanarsi del filo del ragionamento dell’altro. I fili dei due ragionamenti si intrecciano, si intessono e si influenzano l’un l’altro. Normalmente al termine sono abbastanza in grado di descrivere il ragionamento dell’altro, molto meno il mio perchè evidentemente mi do per scontato, mi sembra naturale, ovvio e non ci bado, non è un oggetto esterno ma il soggetto descrittore. Siccome invece è parte fortemente in gioco immagino ora di essere un omuncolo piccino piccino seduto sul bordo interno della soffice circonvoluzione frontale sinistra con i piedi che spencolano sopra il corpo calloso e di osservare cosa mi dice il mio cervello mentre cerca di capire cosa diavolo il cervello dell’altro dice a lui. Dunque provo a seguire il ragionamento che più o meno automaticamente parte di fronte ad un paziente con un sintomo.

Intanto definisco sintomo un comportamento o una emozione che il soggetto stesso ritiene inadeguato, sgradevole e di cui vorrebbe liberarsi (insomma rispetto al quale ha sviluppato un problema secondario).

Dopo averne indagato la pervasività e le varie forme che assume nei diversi ambiti esistenziali (la gravità) mi chiedo:
a cosa serve? quale risultato vuole ottenere o pericolo scongiurare? e ciò lo faccio più facilmente se vado a ricostruire in quali circostanze il sintomo è nato (scompenso ed esordio) prima di diventare col tempo un’abitudine automatica. Continuando ad approfondire questa indagine sulla sua utilità (Laddering) cerco di identificare gli scopi terminali o gli antiscopi che organizzano l’esistenza del soggetto. Il sintomo acquista così significato nel contesto della vicenda esistenziale della persona, dei suoi valori e dei piani di vita. Fin qui cerco di dare un senso, un significato a ciò che agli stessi occhi del paziente appariva insensato, ascopico, estraneo a sè e come tale fuori dal suo controllo mentre si tratta di un’ espressione che persegue o salvaguarda qualcosa di molto importante per lui. Il paziente collabora volentieri perchè ci si occupa direttamente del sintomo che lo tormenta e perchè il capirne il senso lo fa sentire meno matto.

Una seconda fase che potremmo dire essere la prova del 9, la verifica della prima, parte sempre dal sintomo ma per indagare i motivi per cui gli dia tanto fastidio. Insomma le ragioni del secondario ognuna delle quali va indagata con la stessa tecnica precedente (laddering). Anche in questo caso si arriverà per una via diversa a definire gli scopi terminali e gli antiscopi del soggetto, insomma il suo panorama esistenziale, il perchè e il come sta al mondo.

Il sintomo come strategia in conflitto con altri scopi

A questo punto si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale. Un sintomo è dunque semplicemente una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare.

Compreso il senso e l’utilità del sintomo pur continuando ad avvertirne il disagio avviene una operazione di normalizzazione dello stesso che riduce il secondario principale motore da un lato del cambiamento ma anche, dall’altro, della sofferenza che ha l’effetto dannoso di far percepire la situazione come emergenziale riducendo paradossalmente la disponibilità ad abbandonare gli antichi e sperimentati modi di fare per provarne di alternativi.

Gli scopi che organizzano l’esistenza sono in parte genetici in parte di origine culturale, familiare ed esperienziale ed il loro cambiamento è opera ardua prefigurando una rivoluzione del paradigma (per dirla con Khun) esistenziale e quando ciò avviene siamo di fronte a vere e proprie rare conversioni. Ancorchè molto difficile da ottenere, il più delle volte non c’è alcuna richiesta ne volontà di metterli in discussione. Questo dunque è un livello di cambiamento in cui raramente mi avventuro per incompetenza e timore di tentazioni da guru e mi accontento di una ristrutturazione che elimini la sofferenza con il minimo cambiamento possibile (mi sembra peraltro una forma di rispetto dell’unicità dell’altro).

Ma anche le strategie di perseguimento degli scopi o di evitamento degli antiscopi sono apprese, in genere precocemente e nel contesto familiare. Allora faccio notare al paziente come esse si siano dimostrate in passato adattive e addirittura decisive per la sopravvivenza nel contesto di apprendimento che in genere è quello della famiglia d’origine. Gli faccio poi notare come oggi in un contesto diverso siano invece disadattive e si siano trasformate in sintomi, qualcosa che mette in atto perchè ha sempre fatto così non accorgendosi che se prima funzionava adesso è addirittura controproducente rispetto agli stessi obiettivi per cui si era sviluppato.

La ristrutturazione cognitiva

Successivamente inizia la parte per così dire creativa della terapia (la cosiddetta ristrutturazione cognitiva) che per semplicità distinguo in due livelli. Il primo livello consiste nell’elaborazione di nuove strategie compatibili comunque con i vincoli intrapsichici, interpersonali e contestuali attuali, attaccando solo quelli che rappresentano un rinforzo ed un mantenimento del sintomo. Si tratta di riscoprirle nel proprio patrimonio comportamentale in cui magari in modo minoritario e saltuario sono state però presenti nel tempo, copiarle osservando gli altri ed in particolare quelli più vicini al soggetto come aspetto motivazionale oppure inventarle di sana pianta come se si trattasse di un vero e proprio problem solving. Averle identificate non basta e si tratta poi di sperimentarle inizialmente in contesti protetti che ne garantiscano il successo e il rinforzo per poi progressivamente generalizzarle e ripeterle finchè non sostituiscano i vecchi automatismi.

Dopo aver gattopardescamente cambiato tutto perchè nulla cambi mi limito a provare a perturbare il livello superiore dell’assetto motivazionale auspicando un processo di cambiamento da lasciare avvenire da solo in tempi lunghi e grazie alle esperienze che il soggetto vive che sono i perturbatori più significativi.

Lo faccio da un lato cercando di reputare meno assoluti e doveristici gli scopi evidenziando come normalmente non comportino la realizzazione e la felicità di cui li si accredita e dall’altro considerando meno intollerabili e minacciosi gli antiscopi, sostanzialmente rendendoli per quanto sgradevoli pensabili e immaginando schemi operativi non per prevenirli ma per viverli qualora vi ci si trovasse. Nel frattempo l’omuncolo piccino picciò annoiato del freddo computare dei neuroni corticali si è calato in basso e con la flottiglia di surf della terza ondata tenta di cavalcare i marosi che si spintonano tra l’amigdala e il lobo limbico in attesa di farmacologici soccorsi.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Interventi psicologici per le coppie con problematiche di infertilità

Uno degli interventi principali che si va a svolgere con queste coppie è la consulenza all’interno dei centri di Procreazione Medicalmente assistita. Lo scopo principale del sostegno psicologico alle coppie infertili è quello di assicurarsi che comprendano le implicazioni delle loro scelte di trattamento, che ricevano un adeguato sostegno emotivo e che possano far fronte in modo sano alle conseguenze dell’esperienza dell’ infertilità.

 

L’importanza di interventi di sostegno psicologico per le coppie con problemi di infertilità

Sono svariati i fattori psicosociali che modulano il desiderio di avere un bambino: fattori legati alla personalità, processi socioculturali, dinamiche familiari, fattori economici e processi relazionali di coppia. Quando questo desiderio diventa forte e non viene soddisfatto naturalmente, può generare una ferita narcisistica che può portare a una diminuzione della sicurezza in se stessi. Le conseguenze possono essere sentimenti di disperazione e impotenza, senso di colpa e problematiche di coppia, sessuali e relazionali. Infatti, mentre fino a qualche tempo fa l’ infertilità veniva considerata un problema fisico, oggi è risaputo che le componenti psicologiche giocano un ruolo importante non solo come elemento causale, ma anche come conseguenza dell’iter diagnostico e terapeutico.

La ricerca di una gravidanza può avere diversi esiti: dall’arrivo di un figlio dopo vari tentativi alla decisione di intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita; dalla decisione di perseguire la strada dell’adozione all’accettazione di rimanere una coppia senza figli. Per alcune coppie questo problema potrebbe costituire motivo di separazione. E’ dunque indispensabile un sostegno psicologico che accompagni nella fase decisionale e nell’elaborazione dei vissuti. Non a caso in Italia la legge 40, che regola la normativa in merito alla procreazione medicalmente assistita, indica la necessità di un servizio di sostegno psicologico all’interno dei centri di PMA.

Uno degli interventi principali che si va a svolgere con queste coppie è quindi la consulenza all’interno dei centri di Procreazione Medicalmente assistita. Lo scopo principale del sostegno psicologico alle coppie infertili è quello di assicurarsi che comprendano le implicazioni delle loro scelte di trattamento, che ricevano un adeguato sostegno emotivo e che possano far fronte in modo sano alle conseguenze dell’esperienza dell’ infertilità. Si ritiene, sulla base di numerose ricerche, che un approccio integrato (medico e psicologico) aumenti i risultati positivi, aumenti la soddisfazione del paziente, riduca le reazioni psicologiche negative ed aiuti meglio i pazienti a concludere la loro esperienza (Galhardo A. et al., 2015; McNaughton-Cassill M.E. et al., 2002).

Andiamo a vedere quali sono le maggiori problematiche su cui si va ad operare in questo tipo di interventi.

La gravidanza come esito dei trattamenti di Procreazione medicalmente assistita

Anche se i pazienti hanno molte aspettative positive su come potrebbe essere vivere una gravidanza, in realtà quando questo accade si trovano a confrontarsi con la possibilità di complicazioni, ansie e preoccupazioni, soprattutto per chi ha già vissuto esperienze di aborti spontanei. Alcune donne possono avere un rifiuto della gravidanza per paura di eventi negativi nel corso della stessa. Il fatto che alcune donne non siano felici e serene come vorrebbero può causare in loro anche sensi di colpa e vergogna. Un altro vissuto comune è il dover dimostrare a se stessi e agli altri di essere genitori perfetti.

Gli obiettivi che ci si pone in questi casi sono la normalizzazione della gravidanza, lo sviluppo dell’attaccamento al feto ed essere sostenuti nel diventare genitori. Altri obiettivi importanti sono la riduzione dell’ansia, aiutare la coppia a confrontarsi con le emozioni che stanno vivendo sviluppando un senso di autostima. Nei casi di fecondazione eterologa è necessario anche occuparsi di elaborare e gestire i sentimenti ambivalenti verso il feto.

Le gravidanze multiple

Le coppie che affrontano un percorso di PMA in alcuni casi si trovano a dover decidere se trasferire uno o più embrioni, quindi se avere una gravidanza gemellare (talvolta anche plurigemellare) o meno. Anche in questo caso, spesso per le coppie una gravidanza gemellare sembra la soluzione ideale in quanto consentirebbe di ottenere una “famiglia già fatta”. Tuttavia i futuri genitori hanno bisogno di avere un quadro realistico di cosa significherebbe essere genitori di tre o quattro bambini della stessa età, quindi allo stesso stadio di sviluppo. Vanno sostenuti nella riflessione sull’accudimento pratico, finanziario e domestico, nonché sugli aspetti psicosociali, la stabilità della coppia e le conseguenze per la loro salute mentale. Naturalmente bisogna aiutare la coppia a considerare anche i problemi della scelta opposta, ossia della riduzione fetale: sentimenti di angoscia, stress, paura; senso di colpa e lutto per la perdita di uno o più feti.
L’obiettivo è quello di far fare alla coppia una scelta informata, consapevole e adatta alla loro situazione specifica.

La decisione di interrompere il trattamento

Per alcune coppie il fallimento dei tentativi di PMA può comportare una crisi esistenziale con diverse reazioni emotive anche gravi. La prospettiva di vivere senza un figlio dovrebbe essere affrontata fin dall’inizio del trattamento, tuttavia è necessario riaffrontarla in un momento così delicato. E’ importante che lo psicologo sostenga i pazienti nell’esplorare il significato personale della perdita di un obiettivo fondamentale della loro vita, ma anche che rinforzi le loro risorse e gli aspetti positivi del vivere una vita senza figli.

La sessualità di coppia

La sessualità è una delle principali tematiche che deve essere affrontata con questi pazienti, in quanto in alcuni casi può essere la causa del mancato concepimento (vaginismo, dispareunia, disfunzione erettile, rapporti poco frequenti), mentre in altri casi le problematiche possono essere la conseguenza dell’obiettivo procreativo, che fa perdere di spontaneità l’attività sessuale. I problemi possono essere causati infatti dalla programmazione rigida dei rapporti, dalla presenza psicologica del team medico nell’intimità dei pazienti e dal fatto che i rapporti diventano orientati solo al fine riproduttivo.

Lo psicologo va quindi a valutare se le problematiche sessuali sono primarie o secondarie all’ infertilità, a capire se ci sono psicopatologie che vanno ad influire sulla sessualità (ansia, depressione ecc.), ed aiuta la coppia a ristabilire la sessualità come fonte di piacere e non solo orientata all’avere un figlio.

La prospettiva dell’adozione

Lo scopo del sostegno psicologico in questo caso è creare un ambiente sicuro in cui la coppia possa esprimere i sentimenti di perdita e le reazioni di adattamento ai problemi medici. In seguito si può aiutare la coppia a valutare se desidera o meno avere e crescere un figlio con cui non si ha un legame genetico. Bisogna aiutare la coppia anche a valutare l’impatto che potrebbe avere un nuovo fallimento, considerando che la strada per l’adozione è in molti casi lunga e tortuosa.

Nel caso la coppia decida per l’adozione, va aiutata a non idealizzare eccessivamente il bambino e a non riporre su di lui eccessive aspettative. Se si tratta di infertilità secondaria vanno prese in carico anche le emozioni dei figli già presenti in famiglia, che possono crearsi la fantasia di non essere stati in grado di soddisfare abbastanza i loro genitori.

Altri possibili interventi psicologici per chi affronta le difficoltà dell’ infertilità

Vediamo ora quali altri servizi possono essere attuati nei centri di PMA oltre al sostegno psicologico di coppia.

  • Informazioni psicosociali scritte o videoregistrate: informazioni preliminari da offrire alle coppie su aspetti fisici, emotivi, psicologici e sociali delle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita.
  • Consulenze telefoniche: possono essere usate per chiarire aspetti del trattamento medico e per esprimere cosa sta comportando il trattamento a livello personale.
  • Gruppi di sostegno: lo psicologo fa da organizzatore, conduttore e mediatore. Possono essere strutturati in diversi modi, ad esempio aperti a tutte le problematiche legate all’ infertilità o solo ad una specifica. I gruppi di sostegno hanno diverse funzioni benefiche per i partecipanti: alleviare l’isolamento, fornire sostegno emotivo in tutte le fasi della PMA, ridurre i livelli di ansia, esplorare i propri atteggiamenti rispetto a infertilità, gravidanza, nascita e genitorialità, aumentare l’autostima.

Ci sono vari interventi che possono essere effettuati anche in altri contesti, quali studi privati o all’interno di associazioni che si occupano di nascita e sostegno alla genitorialità.

  • Consulenza individuale, di coppia e gruppi di sostegno: questi servizi sono molto simili nei contenuti a quelli che si possono effettuare nei centri di PMA, con la differenza che cambia il contesto e non si fa parte dell’équipe medica che si occupa della coppia.
  • Spazio informativo per la coppia con problematiche di infertilità e sterilità: utile per informare le coppie sugli aspetti medici, biologici e psicologici dell’ infertilità, nonché per orientare a servizi e cliniche presenti sul territorio.
  • Percorsi di accompagnamento alla PMA: utili per affrontare le emozioni intense e talvolta confuse rispetto alle procedure di PMA, dubbi e perplessità.

 

Il supporto psicologico nel percorso riabilitativo

Alcuni studi mostrano l’efficacia dell’ intervento psicologico durante il trattamento fisioterapico, specialmente per quel che riguarda il riconoscimento delle emozioni presenti nella fase di riabilitazione e l’utilità del sostegno psicologico per il raggiungimento di uno stato di benessere psico-fisico.

Silvia Pomi, Lorena Menta

 

La fisioterapia è una disciplina che si pone una sfida importante, quella di co-costruire con il paziente una via di guarigione. Non è un percorso statico, ma dinamico, che richiede collaborazione e compartecipazione tra fisioterapista e paziente. I costrutti psicologici e gli interventi di sostegno psicologico possono apportare un valido sostegno in tutte quelle situazioni in cui la manifestazione sintomatica va oltre un’evidenza clinica.

Il concetto di salute, così come definito dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità): “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in una assenza di malattia o d’infermità”, implica un’inscindibile unità tra la componente fisica e quella psichica della persona. Di fronte alla malattia appare di primaria importanza tenere conto che questo binomio diventa ancora più evidente e richiede dall’ambito sanitario un approccio globale al paziente.

La vulnerabilità emotiva nella riabilitazione

La vulnerabilità emotiva a cui è esposto il paziente che ha subito un infortunio o che manifesta dolori cronici è un aspetto osservabile da tutti coloro che intervengono nella fase di riabilitazione.

Persone ansiose o predisposte alla depressione appaiono particolarmente suscettibili al dolore; gli stress emotivi possono essere infatti associati ad un aumento di dolore, in quanto viene ad aumentare l’attività dei sistemi biologici responsabili della stimolazione nociva.

Le modificazioni viscerali causate da fattori di ordine emotivo e psicologico a loro volta contribuirebbero nel provocare uno stato di malessere generalizzato. (Drago E., 2017)

Alcuni studi condotti a Londra presso il St. Thomas Hospital da Harding e Williams (2009) mostrano l’efficacia dell’intervento di sostegno psicologico durante il trattamento fisioterapico, specialmente per quel che riguarda il riconoscimento delle emozioni presenti nella fase di riabilitazione e l’utilità del sostegno psicologico per il raggiungimento di uno stato di benessere psico-fisico.

Harding e Williams sostengono che la cosiddetta “intelligenza emotiva” faccia da protagonista nei percorsi di riabilitazione e mettono in luce l’importanza per gli operatori della fisioterapia nel saper dare risposte emozionali adeguate ai propri pazienti. Ciò va a sottolineare come la guarigione oltre ad essere fisica, avvenga in modo parallelo a livello mentale ed emotivo e saper identificare ed esprimere le proprie emozioni durante il trattamento produce un incremento dei benefici. Dare importanza ai vissuti mentali, sentirsi riconosciuti nelle emozioni che si accompagnano alla riabilitazione consentirebbe al paziente di velocizzare il raggiungimento degli obiettivi sul piano organico.

Negli ultimi anni si è assistito a una integrazione sempre maggiore tra le  discipline mediche e psicologiche. L’esperienza della malattia coinvolge infatti la persona in tutti i suoi aspetti fisici, emozionali e relazionali; la disabilità, in particolare, “è un evento destrutturante, che obbliga ad una valutazione della condizione psicologica del paziente e delle sue relazioni, per accompagnare e guidare al meglio le reazioni emotive, per contenere l’angoscia, per individuare e sostenere la parte sana, capace dell’adattamento migliore alla situazione”.

Nell’ambito della riabilitazione fisioterapica si assiste quotidianamente all’esperienza della persona che, divenuta disabile, deve fare i conti con la difficoltà ed a volte l’impossibilità di recuperare un’abilità perduta; in questo caso un progetto riabilitativo globale promuove un percorso per giungere alla costruzione di un nuovo e costruttivo concetto di sé, anche attraverso l’elaborazione dell’evento traumatico, la rimodulazione delle aspettative, delle relazioni, degli affetti e degli interessi, al fine di raggiungere i livelli massimi di autonomia. (Matteucci L., 2005).

Un intervento psicologico adeguato ha un fondamentale ruolo di collegamento ad integrazione dell’atto terapeutico: supporta le modalità di approccio al paziente, le informazioni intorno alla malattia fornite alla famiglia, il linguaggio utilizzato per comunicare le ipotesi diagnostiche, prognostiche e terapeutiche.

In una recente ricerca Australiana di Jackson A.C.; Liang R.; Frydenberg E.; Higgins R.; Murphy B.M (2016) è stato esaminato lo stato attuale dei programmi psico-sociali per genitori di bambini con patologie croniche e quindi con particolari esigenze sanitarie. Lo scopo dei programmi di training ai genitori è quello di assistere le famiglie attraverso il rafforzamento del loro ruolo, migliorare le interazioni genitore-figlio e con il resto della famiglia. Ciò è particolarmente importante per le famiglie di bambini con esigenze di assistenza sanitaria speciale come una patologia cronica. I risultati mostrano positivi miglioramenti a livello familiare in una vasta gamma di aree di funzionamento (salute mentale, genitorialità, comunicazione, problem solving).

Per quanto riguarda gli adulti molti sono gli studi che descrivono la correlazione tra i problemi della sfera psicologica e le problematiche neurologiche (Cieza A.; Anczewska M.; Ayuso-Mateos J.; Baker M.;Bickenbach J.; Chatterji S.; Hartley S.; Leonardi M.; Pitkänen T., 2015). In particolare nelle Sclerosi Multiple un recente studio di Pagnini F.; Bosma C.; Phillip D. e Langer E. (2014) ha messo in luce che interventi di sostegno psicologico hanno un impatto positivo sui sintomi della malattia quali la fatica, il dolore, la vitalità fisica e la qualità del sonno. Nelle SLA le linee guida nazionali parlano della necessità di un supporto psicologico professionale sia per le famiglie che per i pazienti e in particolare l’intervento psicologico attuato al momento della diagnosi.

In conclusione l’analisi della letteratura ha sottolineato le connessioni tra problemi psicologici e disabilità sia da parte del paziente che del care-giver e quanto questo possa compromettere il processo di cura e quindi il trattamento riabilitativo.

L’ impatto del sostegno psicologico sul percorso di riabilitazione fisioterapica

In un recente lavoro su professionisti impiegati nell’U.O. di Medicina Riabilitativa e Fisiatria Territoriale dell’area Età Evolutiva del Distretto di Fidenza da diversi anni (6% 3-5 anni di servizio, 32%  5-10 anni, 32% più di 10 anni e il 29% di più di 20 anni), L. Menta ha cercato di indagare, attraverso l’utilizzo di un questionario (costruito prendendo spunto da un sito specializzato sull’argomento e individuando elementi utili su altri questionari esistenti), l’impatto di un sostegno psicologico sul percorso fisioterapico. Lo scopo di questa ricerca è quello di indagare, in modo anonimo: il tipo di organizzazione e quindi il tipo di patologie trattate, l’eventuale necessità, da parte degli operatori, del sostegno psicologico durante il progetto/programma di riabilitazione fisioterapica, il tipo di emozioni esternate dai pazienti e l’influenza di esse sull’esito del trattamento riabilitativo. È stato somministrato a Fisioterapisti e Fisiatri che lavorano con adulti ed età evolutiva. I dati mostrano un’identificazione nella dimissione e nella diagnosi come i due eventi più critici di tutto il percorso dal punto di vista emotivo (in entrambi i casi per il 42% di essi).

Dal progetto è emerso che gli utenti manifestano le loro emozioni durante le sedute riabilitative e durante la fase di valutazione e questo influenza l’esito di esse; la quasi totalità degli operatori (93% degli intervistati), ritiene che sia necessario il supporto psicologico durante il progetto riabilitativo e che questo possa contribuire a una migliore gestione di esso e che il supporto psicologico potrebbe determinare una migliore compliance dei pazienti alle proposte riabilitative.

Ogni condizione di patologia organica, comporta una quota di stress personale e familiare, spesso amplificato dalle strategie con cui si affronta la malattia, e dalle modalità di relazione terapeutica adottate dall’equipe curante.

L’intervento psicologico è mirato a favorire il processo di accettazione e adattamento alla patologia, facilitando la relazione terapeutica con l’equipe curante, sostenendo il paziente sul piano emotivo, promuovendo l’assunzione di responsabilità individuale nel processo decisionale, ma contemporaneamente, sostenendo l’assunzione delle responsabilità di cura da parte dell’equipe. Solo in tal modo si può ottenere una relazione buona, ove esista uno scambio autentico, una reale condivisione delle scelte terapeutiche, pur mantenendo ruoli chiari e definiti: medico, infermiere, paziente. Lo psicologo contribuisce, dunque, alla realizzazione di un modello di cura che comprenda l’ascolto, maggiore attenzione alle esigenze personali e alla sofferenza emotiva del paziente, rendendolo più partecipe al proprio percorso terapeutico. Il lavoro col paziente e i familiari, d’altra parte, oltre ad offrire sostegno, favoriscono la comprensione delle esigenze terapeutiche (e organizzative ), con l’obiettivo di migliorare l’aderenza alle cure e mantenere, per quanto possibile, un’accettabile qualità della vita.

È da considerare inoltre che in Lombardia, si stanno attuando normative in materia e la Giunta Regionale ha inserito, nelle regole di sistema 2014, tra le norme di accreditamento per le strutture riabilitative, la figura dello psicologo come obbligatoria. In particolare, tra i requisiti organizzativi, nel caso delle “Aree Degenza Riabilitazione intensiva ad alta complessità” e “Riabilitazione intensiva” è richiesta la presenza di uno psicologo o un neuropsicologo per almeno 15 ore/settimana ogni 20 posti letto, mentre per area Degenza – “Riabilitazione estensiva”  è richiesta la presenza di uno psicologo o un neuropsicologo per almeno 10 ore/settimana ogni 20 posti letto.”.  (DELIBERAZIONE N° X / 1185 Seduta del 20/12/2013)

Passeggiare con il proprio cane rende felici?

Secondo una nuova ricerca dell’University of Liverpool, chi possiede un cane è anche motivato a passare del tempo con l’animale passeggiando all’aria aperta perché lo fa star bene.

 

Chi possiede un cane in salute trascorre più tempo all’aria aperta

Nello studio, i ricercatori hanno scoperto che chi possiede un cane tende a passare molto più tempo all’aria aperta, a camminare di più e ipotizzano i ricercatori che ciò potrebbe aumentare l’emozione di felicità anche grazie alle interazioni sociali che si instaurano grazie al loro amico a quattro zampe. Questi sentimenti di felicità, tuttavia, sono correlati al fatto che il padrone percepisce il cane come un animale sano e in grado di godere della passeggiata. Viceversa, la percezione di avere un cane pigro o troppo vecchio, ridurrebbe la motivazione ad uscire fuori per camminare.

Il Dottor Carri Westgarth, ricercatore presso l’Università di Liverpool, ha dichiarato che i fattori che motivano e aumentano il desiderio del cane a camminare sono numerosi e complessi, ma sappiamo che possono correlarsi anche a modalità di comportamentali ed emotive dell’uomo.
Circa otto milioni di famiglie del Regno Unito possiedono un cane, quindi per un numero sempre maggiore di persone portare il cane a spasso è un’attività quotidiana. Chi possiede un cane generalmente è più attivo fisicamente rispetto a chi non può godere di tale privilegio.

I benefici di una passeggiata col proprio cane

Se si portasse fuori il cane per almeno 30 minuti al giorno, ogni giorno, si supererebbero facilmente i 150 minuti di attività fisica settimanale (la minima consigliata per promuovere un buono stato di salute).

Il Dottor Westgarth ha aggiunto che è chiaro ed evidente che uscire fuori per camminare soddisfa le esigenze emotive del padrone come anche quelle del proprio cane. Sarebbe importante sensibilizzare maggiormente la popolazione su questo argomento e soprattutto sui benefici sia a livello fisico che emotivo, che si riscontrano nel possedere un cane.

I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria? – Coscienza e comportamento

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

L’abbandono del controllo può derivare da una scelta consapevole?

Un altro aspetto interessante riguarda gli studi su come un comportamento apparentemente incontrollato (impulsivo o disregolato) possa essere l’oggetto di una scelta volontaria. In particolare, ci si riferisce a tutti i comportamenti come il consumo di alcool, sostanze stupefacenti ma anche immersione in attività come l’alimentazione o la sessualità che mostrano una componente gratificante e/o fortemente distraente (Caselli & Spada, 2015).

Molti approcci teorici considerano questi comportamenti come il risultato di una motivazione inconscia, di un apprendimento o frutto di uno sbilanciamento neurochimico di circuiti cerebrali. Tutte queste componenti hanno certamente un ruolo che spesso viene riconosciuto all’interno della vasta gamma di fattori predisponenti o moderatori del comportamento (Robinson & Berridge, 1993) oppure fattori che hanno un impatto diretto sulla decisione individuale. È meno chiaro quanto siano considerati dall’individuo all’interno del processo decisionale e quanto siano vincoli che governano la decisione al di là della volontà. Ma l’abbandono del controllo cosciente può essere una scelta consapevole?

Le sostanze psicoattive come modalità di autoregolazione volontaria per fuggire da stati di coscienza dolorosi

Diverse ricerche e parecchi modelli teorici mostrano come l’abbandono del controllo sia spesso un’attività consapevole guidata dallo scopo di ridurre stati interni di disagio oppure staccare la mente da pensieri fastidiosi e preoccupazioni (funzione autoregolatoria dell’uso di sostanze). Si tratterebbe quindi di abbandonare la coscienza per trovare sollievo e la sostanza sarebbe un mezzo utile anche se non necessario. La riduzione dello stato di coscienza non sembra necessariamente connesso all’atto o alle caratteristiche psicoattive della sostanza. Il picco di riduzione della tensione corporea avviene subito dopo la presa di decisione e prima dell’inizio del consumo della sostanza vero e proprio. Non sono tanto il cibo o l’alcool a ridurre la coscienza e la tensione, ma la scelta di concentrarsi sul cibo o sull’alcool o su un qualsivoglia oggetto desiderato e cercare di raggiungerlo.

Questo rivela come la strategia più comune e rapida per ridurre la coscienza sia restringere il fuoco dell’attenzione sull’immediato presente e su stimoli concreti dell’ambiente (Baumeister, 1990). Quindi è possibile abbandonare il controllo cosciente anche senza l’uso di sostanze psicoattive. Queste possono essere sostituite da attività assorbenti che catturano completamente l’attenzione. L’immersione in simili attività può essere quindi una scelta cosciente per fuggire da stati di coscienza dolorosi (Caselli et al., 2010; Heatherton & Baumeister, 1991; Hull, 1981). Concentrarsi su aspetti concreti è un modo rapido per evitare pensieri astratti, significati elaborati o autovalutazioni o implicazioni a lungo termine. La consapevolezza è ridotta ai movimenti, alle sensazioni del presente e a prefigurazioni desiderate e concrete. Questa prospettiva mentale che abbiamo definito rimuginio desiderante (Caselli & Spada, 2010, 2015) può anticipare il comportamento vero e proprio e nel breve termine essere anche una fonte di riduzione della tensione, una via cognitiva attraente per fuggire da preoccupazioni, minacce e pressioni.

Anche in questo caso i comportamenti apparentemente disregolati, impulsivi (automatici) possono essere modalità di autoregolazione volontaria che mirano a ridurre i livelli di coscienza.

L’alta autoconsapevolezza presente nei binge eaters

Vediamo quello che accade nei binge eaters: persone che tendono ad effettuare frequenti abbuffate. Diversi studi hanno mostrato che il fattore predisponente di maggiore impatto è un’alta tendenza all’autoconsapevolezza (self-consciousness, Heatherton & Baumeister, 1991). L’episodio di binge eating si realizza con maggior frequenza nel momento in cui vi è un calo di consapevolezza in una persona mediamente eccessivamente consapevole. I binge eaters mostrano segni di alta autoconsapevolezza, soprattutto pubblica, vale a dire sono molto attenti al modo in cui possono apparire agli occhi degli altri. Questa forma di costante attenzione all’immagine pubblica è (1) faticosa e (2) aumenta l’esposizione a maggiori pensieri negativi (minacce per l’autostima) e possibili processi ruminativi. L’esito è una maggior vulnerabilità a emozioni negative come ansia e depressione, sia per il più frequente senso di minaccia, sia per la tendenza alla ruminazione, sia per la fatica mentale del controllo.

L’eccesso di autoconsapevolezza (e le sue controparti di ruminazione e controllo; Sassaroli e Ruggiero, 2003) e le sue conseguenze, motivano le persone a scegliere di abbandonare il controllo per (1) uscire dalla fatica dello sforzo autoconsapevole costante, (2) ridurre il malessere che si accompagna alla coscienza dei pensieri negativi e al perseverare della ruminazione mentale (Spada et al., 2015; Caselli & Spada, 2015).

I binge eaters possono cercare di rimuovere pensieri negativi dalla coscienza restringendo il fuoco attentivo. Questo ha una conseguenza principale: la rimozione delle inibizioni. In una condizione in cui la coscienza è tenuta a basso livello, diventa impossibile monitorare in modo adeguato il consumo di cibo e identificare quei segnali (e.g. sazietà, sollievo) che ci dicono che l’obiettivo è stato raggiunto o anche solo prendere in considerazione una serie di altre informazioni che potrebbero influenzare la nostra decisione (es. conseguenze negative a lungo termine come la colpa del giorno dopo). In conclusione è possibile che la perdita di controllo sia un comportamento almeno in parte determinato da un processo consapevole e volontario.

È piuttosto arduo sostenere che le persone siano motivate a danneggiarsi. Forse questa è una delle ragioni che storicamente ha condotto in auge una prospettiva di deficit per cui: le persone si danneggiano perché non hanno la capacità di autocontrollo sufficientemente sviluppata. Dare questa spiegazione dei comportamenti autodistruttivi non significa necessariamente attribuire all’ individuo una volontà inconscia di danneggiarsi. In questo senso due precisazioni sono d’obbligo: (1) la motivazione non è ferirsi o danneggiarsi ma tenere lontano dalla coscienza pensieri negativi, (2) la volontarietà è innanzitutto intesa come volontà di uscire dalla fatica imposta da uno stato di iper-coscienza prima di intenderla come volontà di ferirsi con gli impulsi che emergono una volta che abbandoniamo la coscienza.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


La Mindfulness riduce stress e glicemia nelle donne

Un programma di riduzione dello stress basato sulla consapevolezza (Mindfulness Based Stress Reduction – MBSR) della durata di 8 settimane, non solo riduce lo stress, ma è in grado anche di abbassare la glicemia. È quanto emerge da uno studio curato da Nazia Raja-Khan, della Penn State College of Medicine di Hershey, Pennsylvania (USA) e pubblicato dalla rivista Obesity.

 

Gli effetti benefici della MBSR nel ridurre lo stress e la glicemia

La MBSR, un programma intensivo di formazione guidato da un istruttore, comprende meditazione, consapevolezza del corpo e altre tecniche che aiutano a ridurre l’ansia. È stato sviluppato alcuni decenni fa da John Kabat-Zinn professore presso la University of Massachusetts Medical School per aiutare i pazienti a gestire il dolore durante i trattamenti contro il cancro e altre gravi malattie. Questa tecnica ha dato risultati positivi e ne è stata ipotizzata l’efficacia anche nella riduzione delle malattie cardiache in individui in sovrappeso oppure obesi.

Per valutare questo aspetto, i ricercatori guidati da Nazia Raja-Khan (1) hanno diviso 86 donne, con un indice di massa corporea superiore a 25, in due gruppi: il primo ha ricevuto otto settimane di MBSR, il secondo un programma di educazione sanitaria incentrato sulla dieta e l’esercizio fisico. Entrambi i gruppi sapevano che l’obiettivo principale dello studio era la riduzione dello stress. Dopo 8 e dopo 16 settimane i ricercatori hanno analizzato i cambiamenti dei livelli di stress, dell’umore, della qualità della vita e del sonno. Sono stati anche valutati pressione sanguigna, glicemia, peso e altri parametri.

Dopo otto settimane, il gruppo MSBR presentava un netto miglioramento della consapevolezza e della diminuzione dello stress rispetto al gruppo che ha eseguito dieta ed esercizio fisico. La percezione di stress è rimasta più bassa nel gruppo MBSR anche dopo 16 settimane. Le donne del gruppo MBSR mostravano inoltre riduzione dei livelli di  zucchero nel sangue dopo 8 e 16 settimane mentre le donne del gruppo di educazione sanitaria non mostravano nessun cambiamento del profilo glicemico. Entrambi i gruppi avvertivano nel complesso minore stress psicologico, meno ansia e sonno migliore, ma non si sono registrati diminuzioni dei parametri infiammatori e/o del livello di colesterolo. Inoltre nessuno nei due gruppi aveva perso peso e le risposte all’insulina non apparivano migliorate.

In conclusione, donne con sovrappeso o obesità, dopo MBSR, hanno presentato riduzione significativa dello stress e hanno avuto effetti benefici sulla glicemia. Studi futuri che dimostrano i benefici cardiometabolici a lungo termine del MBSR saranno fondamentali per l’istituzione della MBSR come strumento efficace nella gestione dell’obesità.

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