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Il figlicidio materno: caratteristiche e fattori di rischio

Il figlicidio non è solo un atto di natura patologica e la nostra società non è nuova a queste vicende. Esistono dei fattori di rischio su cui intervenire?

Di Maura Crivellenti

Pubblicato il 29 Lug. 2015

Aggiornato il 06 Set. 2018 12:20

Maura Crivellenti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente.

È il 24 Giugno del 2002 quando Simona decide di portare i suoi due bambini al laghetto, Davide di ventuno giorni e Matteo di quattro anni. Mentre passeggia coi bambini Simona pensa: Io a casa non ci torno…io in quella situazione non ci torno, perché dirà poi Sarei rimasta ancora sola…mio marito non poteva capire niente dei miei desideri. Fa caldo e chiede al più grande se vuole rinfrescarsi un po’. La mamma lo aiuta ad entrare in acqua, poi entra lei con Davide. Il più piccino scivola dalle sue braccia e Simona non fa nulla per trattenerlo. Anche Matteo va a fondo, riemergendo poco dopo privo di sensi. Simona si mette sulla schiena e fa il morto nell’acqua. Mi sono sentita andare via (Pannitteri, 2006).

Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre ci lascia così inermi. Di fronte a fatti come questi la domanda che nasce spontanea in ognuno di noi è: Come può una madre riuscire ad uccidere un figlio? Quali sono i motivi che la spingono a compiere questo orribile gesto?. La risposta che tranquillizza la società di fronte a certi casi è senza dubbio quella di attribuire alle madri una patologia mentale, giustificando il gesto come pazzia, perché non è normale che una madre abbia il desiderio di uccidere il proprio bambino. Attribuire questo gesto alla follia ha uno scopo rassicurante, sia perché funge da spiegazione, sia perché allontana da noi l’ipotesi di poterlo commettere in quanto soggetti sani.

Come scrive McKee (2006), questi fatti evocano nella memoria la nostra infanzia, quando avevamo paura della rabbia dei nostri genitori, domandandoci oggi se le nostre madri possono aver avuto l’intenzione o il solo pensiero di ucciderci in quei momenti, di farci del male o d’abbandonarci; per i genitori, rievocano invece episodi della vita in cui si sono sentiti così arrabbiati nei confronti dei figli tanto che la loro reazione è andata oltre i limiti consueti, accettati, spaventati dalla capacità di tale violenza, mai conosciuta prima.

Nel profondo della mente di padri e madri si insinua un pensiero pericoloso e segreto che riguarda la paura che possano anche loro, prima o poi, commettere un atto impulsivo nei confronti del proprio bambino. A volte, però, la patologia non sta solamente nella persona, ma anche nell’ambiente familiare e nelle sue dinamiche. Lo psichiatra americano First e altri suoi collaboratori (Peccarisi, 2004) hanno parlato di sindrome chiamata Disturbo Relazionale (Relational Disorder), nella quale non è considerato malato il singolo individuo, ma un gruppo di soggetti e la relazione che intercorre tra loro. Può quindi accadere che un soggetto con tale disturbo se osservato da solo non riveli nulla di patologico. È il modo con cui alcune persone interagiscono all’interno di specifiche relazioni che può risultare disturbato, con modalità del tutto simili a quelle che caratterizzano la malattia mentale.

La maternità è un periodo spesso idealizzato, dove il male deve essere allontanato. La collettività dipinge, infatti, il periodo della gestazione, del parto e dei primi periodi di vita del neonato come un periodo idilliaco, come un momento che deve appartenere a tutte le donne, un desiderio innato che non si apprende. Ma si può davvero parlare di istinto materno? In realtà, sarebbe meglio parlare di sentimento materno, in quanto culturalmente e non biologicamente determinato (Merzagora, 2003). Così come tutti i momenti della propria vita, la maternità si caratterizza per la compresenza di spinte aggressive e spinte libidiche, se vogliamo parlare coi termini di Freud. È il giusto equilibrio tra queste due spinte emotive a renderci sani. L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente, che ignorano e minimizzano quanto la neo mamma sta attraversando.

I cosiddetti momenti bui, come spesso sono definiti nei racconti successivi al fatto dalle mamme che hanno commesso figlicidio, arrivano senza che nessuno se ne accorga. I sentimenti negativi non possono essere espressi o comunicati perché diventare madre deve essere bellissimo.

Il figlicidio: una definizione e classificazione

Comunemente si tende ad associare il figlicidio materno ad una patologia mentale (tenendolo ben differenziato dal figlicidio commesso dai padri, perché assume caratteristiche differenti). Eppure, il figlicidio non è solo un atto di natura patologica, non sempre deriva da una mano dominata da allucinazioni e deliri psicotici e la nostra società non è nuova a queste vicende. Basta ripercorrere brevemente la storia dell’umanità per rendersene conto.

 L’infanticidio o l’esposizione prolungata dei neonati al freddo (inteso come abbandono) erano metodi comunemente utilizzati ed accettati nella Roma e nella Grecia antica. Al pater familias era lasciato pieno diritto di decisione sulla vita o la morte di ogni figlio che nasceva. Le deformazioni, in particolare, erano considerate un peccato e quando un bambino nasceva sfortunato la sua vita era subito troncata. È solo nel 374 d.C. che la legge Romana decreta che l’uccisione di un infante è considerato omicidio (Palermo, 2002). Gli omicidi dei più piccoli però continuarono, perché nel 400 d.C. ancora si credeva che i bambini che non smettevano di piangere fossero posseduti dal demonio, possibile causa scatenante ancora oggi dell’atto omicida (Palermo, 2002). L’infanticidio, quindi, è stato utilizzato spesso come strumento di controllo demografico, dove anche i fattori culturali hanno un grande peso. Basti pensare che nell’infanticidio il sesso del nascituro è importante, soprattutto in determinate culture, come ad esempio la Cina o l’India.

Una definizione dei termini usati dalla letteratura è di fondamentale importanza per essere consapevoli di cosa intendiamo con la parola figlicidio, rispetto alla parola neonaticidio e infanticidio. Il diritto distingue solamente tra infanticidio e omicidio. Si parla di infanticidio, secondo l’articolo 578 c.p., quando l’uccisione del feto avviene durante o dopo il parto, in condizioni di abbandono materiale e morale. Al contrario si parla di omicidio, in particolare nell’articolo 575 c.p., quando un genitore, non necessariamente la madre, uccide il figlio che può essere anche un neonato, ma senza le condizioni previste nell’articolo precedentemente citato, che spesso risultano di difficile individuazione. In questo contesto è possibile applicare inoltre le aggravanti del caso (Bramante, 2005).

La criminologia, rispetto alla giurisprudenza, fa una distinzione sulla base dell’età della vittima. L’uccisione entro le 24 h dalla nascita è chiamata neonaticidio, l’infanticidio va dal primo giorno di vita al compimento del primo anno di età ed infine il termine figlicidio si utilizza per i bambini uccisi dal primo anno di vita in poi. Anche Resnick (1969), uno tra i più importanti studiosi dell’argomento, preferisce distinguere il neonaticidio dal figlicidio propriamente detto, termine che egli utilizza dalle 24 h di vita in poi (Bramante, 2005). Il motivo di questa distinzione sta proprio alla base della motivazione che porta a commettere il neonaticidio rispetto al figlicidio. Nel primo caso la principale motivazione è quella di impedire l’inizio della vita del feto, per lo più non voluto, e l’istaurarsi quindi di un legame affettivo. Nel secondo caso, invece, il rapporto è già iniziato e le motivazioni possono essere di gran lunga più numerose. Questa prima definizione criminologica sull’età funge anche come prima classificazione, ma presenta diverse limitazioni. Infatti una suddivisione che si basa solo sull’età della vittima, non permette di individuare gli eventuali fattori di rischio e di attuare strategie preventive (McKee, 2006).

La prima importante revisione della letteratura sul figlicidio è stata fatta dallo psichiatra Philip Resnick nel 1969, il quale trovò 155 riferimenti pubblicati dal 1751 al 1967. Egli sviluppò una classificazione del figlicidio basandosi sulle maggiori motivazioni che possono sottostare all’agito materno, suddividendole in cinque categorie:

  • Figlicidio altruistico, nel tentativo di alleviare una sofferenza immaginata o reale al bambino o nel desiderio di evitare una sofferenza futura.
  • Figlicidio psicotico, comprende quelle madri che uccidono sotto l’influenza di un chiaro e grave disturbo psicopatologico, come una schizofrenia o una psicosi post-partum.
  • Figlicidio del bambino non voluto, quando la madre non lo ha desiderato e il legame non si è mai istaurato.
  • Figlicidio accidentale, è una morte non intenzionale causata dalla negligenza della madre o da un abuso fisico per un’eccessiva punizione.
  • Figlicidio come vendetta verso il coniuge, quando l’impulso omicida è diretto verso il bambino nel tentativo di provocare una sofferenza nel proprio partner, come rivendicazione.

Dalla prima classificazione di Resnick ne sono susseguite molte altre. In tutte queste classificazioni non si notano grandi differenze, cambiano le denominazioni delle categorie ma le definizioni sono per lo più molto simili.

Un’importante innovazione nella stesura di un modello di spiegazione del figlicidio è stato effettuato da Ania Wilczynski, nel 1997. L’autrice decide di proporre una classificazione sulla base di motivi primari e secondari, perché spesso le ragioni che spingono il genitore a questo crimine possono essere ricondotte a diverse categorie. Il motivo primario è quello dominante, ragione o causa del figlicidio; il motivo secondario è una ragione con meno importanza nella spiegazione del figlicidio. Per esempio, una madre che sente delle voci allucinatorie che la esortano a punire il figlio, il quale muore a causa delle eccessive percosse, ha come motivo primario senza dubbio la psicosi mentre come motivo secondario la disciplina. Ovviamente se la psicosi è tenuta sotto controllo con i farmaci le due motivazioni saranno invertite: primaria sarà la disciplina, secondaria sarà la psicosi (McKee, 2006).

Nel 2006 un’ulteriore classificazione è stata presentata da McKee, il quale ha condotto lunghe interviste a madri, adolescenti e adulte, accusate di aver ucciso il proprio figlio. La classificazione elaborata da McKee presenta queste categorie: Madri Distaccate; Madri Abusive/Negligenti; Madri Psicotiche/Depresse; Madri Vendicative; Madri Psicopatiche.

Il figlicidio e le sue caratteristiche

Resnick (1969) ha definito il figlicidio propriamente detto come l’atto omicida attuato dalla madre nei confronti del figlio dal primo giorno di vita in poi. Diversamente dal neonaticidio, la madre che commette figlicidio ha già istaurato, più o meno profondamente, un rapporto con il bambino e di conseguenza anche le motivazioni sottostanti sono differenti. Resnick è dell’opinione che il rischio per un bambino di essere ucciso dai propri genitori diminuisce con l’aumentare della sua età. In altre parole, il bambino è più vulnerabile quando il rapporto madre-figlio non ha ancora raggiunto un legame solido e un solido attaccamento materno. Il figlicidio può essere suddiviso in una serie di tipologie non solo motivazionali, ma anche situazionali in un continnum che va dall’assenza di patologia fino alla patologia più grave (Merzagora, 2003).

La porzione più piccola nei campioni riportati nella letteratura è rappresentata dalla Sindrome o Complesso di Medea, dove l’omicidio del figlio è compiuto per vendetta, e richiama il mito greco di Medea. Il fattore scatenante è la conflittualità con il marito. In altre parole, il bambino è utilizzato come un vero e proprio strumento, al fine di creare sofferenza o di attirare l’attenzione di chi è il vero oggetto di ostilità, spesso acuita prima dell’atto omicida da un ulteriore lite con il marito (Merzagora, 2003).

Un altro tipo di figlicidio riguarda quello accidentale, in cui non vi è l’intento di uccidere, ma è l’atto estremo come risultante dell’evoluzione della Sindrome del Bambino Maltrattato, la Batter Child Sindrome, un comportamento impulsivo spesso in risposta al pianto, alle urla o all’applicazione della disciplina. La categoria del figlicidio accidentale è la più grande o la seconda più grande nei campioni studiati in letteratura insieme ad un’altra tipologia di figlicidio caratterizzata da una patologia psichiatrica (McKee, 2006). Le madri che commettono un figlicidio di tipo accidentale hanno spesso un disturbo di personalità, una modesta intelligenza, irritabilità e un’incapacità a mantenere un lavoro stabile (Merzagora, 2003). Sono anche donne che provengono da famiglie numerose e/o che a loro volta sono state più probabilmente vittime di maltrattamenti nella loro infanzia. Queste esperienze possono condurre all’incapacità di sviluppare un sicuro legame di attaccamento nei confronti dei propri figli, fino a portarle nei casi estremi a commettere l’omicidio. Arshad e Anasseril (1984) hanno affermato che esiste una sostanziale differenza tra le madri figlicide e quelle abusanti. Le prime infatti, soffrono di un grave disturbo psichiatrico al momento dell’atto e hanno avuto più frequentemente in passato una malattia mentale, facendo rientrare i figli nei propri deliri. Raramente, inoltre, hanno abusato del figlio prima di ucciderlo e loro stesse hanno meno probabilmente una storia di abuso alle spalle. Al contrario, le madri abusanti hanno una significativa assenza di un disturbo mentale sia al momento della valutazione, sia nel loro passato. Sono spesso però già segnalate ai servizi, sia nel presente come madri abusanti, sia nel passato come vittime di abuso da parte dei propri genitori.

Tra i casi di maltrattamento velato troviamo la Sindrome di Munchausen per Procura, in cui la madre inventa sintomi o segni che il bambino non ha o che lei stessa gli procura somministrandogli farmaci ad esempio, esponendolo di conseguenza ad una serie di accertamenti od operazioni, più o meno invasive, fino a procurargli la morte nei casi estremi (Bramante, 2005). Il comportamento adottato da queste madri è amichevole, collaborante e cordiali e difficilmente portano i medici a pensare di trovarsi di fronte ad una madre maltrattante. Il padre in questi casi è una figura piuttosto debole, ai margini della scena, assente sia fisicamente che emotivamente (Bramante, 2005). La letteratura (Rosen et al. 1984; Bools et al. 1993; Merzagora, 2003) sembra essere concorde nel negare una grave patologia mentale in queste madri, più spesso portatrici di un disturbo di personalità (Borderline, Istrionico, Paranoide) come accade per le altre mamme maltrattanti. Nell’anamnesi si possono poi ritrovare condotte autolesive, utilizzo di sostanze, abusi o maltrattamenti.

Il profilo della madre che commette figlicidio è stato più volte elaborato. L’età media individuata nei studi va dai 25 anni ai 30. Una buona parte presenta un basso quoziente intellettivo, influenzato probabilmente anche dal livello di istruzione più basso. Per quanto riguarda lo stato coniugale la maggioranza di queste donne sono sposate o con una relazione al momento della morte del figlio, ma vivono in una situazione socioeconomica caratterizzata da difficoltà finanziarie. Nella loro infanzia è frequente trovare una storia di abuso, ma è stata rilevata un’alta prevalenza di violenza domestica anche al momento dell’omicidio. Queste madri presentano una percentuale decisamente maggiore di disturbi psichiatrici, sia nell’anamnesi personale che familiare.

Nell’anamnesi familiare non è infrequente trovare una malattia mentale in uno o più familiari della madre, mentre rispetto all’anamnesi personale la letteratura è concorde nel riportare una precedente storia di malattia mentale e di trattamento; infatti, la maggior parte di queste madri era stata antecedentemente ospedalizzata o aveva ricevuto cure psichiatriche in concomitanza al periodo in cui era stato ucciso il bambino. Grande attenzione è stata rivolta alla diagnosi clinica, i disturbi mentali infatti sono individuati in molte review della letteratura. Nonostante le differenze i disturbi più frequenti sono senza dubbio quelli psicotici e quelli dell’umore, oltre a disturbi dell’adattamento, abuso o dipendenza da sostanze e ai disturbi di personalità.

La prevenzione e i fattori di rischio

La prevenzione in casi drammatici come il figlicidio materno riveste un ruolo fondamentale. Cercare di anticipare i comportamenti omicidi o semplicemente gli stati di sofferenza a cui una madre può andare incontro durante la maternità potrebbe salvare la vita di un bambino. Per poter fare prevenzione è necessario sapere innanzi tutto quale comportamento vogliamo evitare e quali sono i segnali premonitori, cioè i fattori di rischio. La letteratura riporta diversi studi in cui si è cercato di fornire un quadro degli aspetti che fanno rientrare una madre in una condizione di rischio e che dovrebbe destare attenzione e allarme sia nella società che nei servizi di salute mentale. I fattori di rischio sono caratteristiche, condizioni, segnali e circostanze ambientali associate a un’elevata probabilità che si manifesti un determinato target. La fonte del rischio può essere individuale, come le caratteristiche demografiche della madre, familiare, cioè legata alle caratteristiche o alle interazioni tra i membri della propria famiglia d’origine, e infine situazionale, associata alle circostanze immediate al fatto. Ovviamente esistono anche dei fattori protettivi, cioè un qualsiasi fattore di rischio mancante, un suo opposto oppure un giusto mezzo tra due estremi di un aspetto.

 Una recente matrice dei fattori di rischio è stata elaborata da McKee, organizzata secondo due dimensioni: il dominio (individuale, familiare, situazionale) e le fasi della maternità (pre-natale, perinatale, primo post-partum, tardo post-partum e tarda infanzia). Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse cause, che potremmo chiamare concause, perché un singolo fattore di rischio non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi. Inoltre, non possiamo considerare i fattori indipendenti tra loro. Più probabilmente i diversi aspetti si intrecciano e si influenzano l’un l’altro, aumentando la complessità del fenomeno. Il figlicidio materno quindi è un fenomeno composito, caratterizzato da un gruppo di madri molto eterogenee tra loro. È possibile che gruppi di madri figlicide che rientrano in categorie differenti (ad es. figlicidio accidentale e figlicidio con patologia psichiatrica) possano avere fattori di rischio molto differenti.

Tra i fattori di rischio individuali che la letteratura riporta troviamo:

  • età della madre inferiore a 16 anni o superiore a 35 anni
  • profilo intellettivo basso o ritardo mentale
  • livello istruzione basso
  • livello socioeconomico basso, impiego con ridotto profitto o non stabile
  • stato medico della madre (malattia terminale, utilizzo di sostanze)
  • diagnosi di depressione, psicosi, abuso o dipendenza da sostanze psicoattive, disturbo di personalità (Paranoide, Antisociale, Narcisistico e Borderline).
  • presenza di un trauma infantile (abuso fisico o sessuale o negligenza, perdita della madre, divorzio dei genitori o violenza domestica)
  • attitudine materna verso il nascituro (ad esempio gravidanza indesiderata).

Tra i fattori di rischio familiari troviamo:

  • madre poco supportava dal punto di vista materiale ed emotivo, che soffre di malattia mentale o abusa di sostanze illegali
  • presenza di un padre abusante o abusa di sostanze illegali o che soffre di malattia mentale
  • instabilità familiare caratterizzata da separazioni, divorzio, violenza, difficoltà finanziarie o trasferimento.

Tra i fattori di rischio situazionali troviamo:

  • assenza del partner oppure presenza di un partner abusante e coercitivo; bassa soddisfazione e adattamento coniugale
  • condizioni di povertà o dipendenza dall’assistenza sociale
  • più figli da accudire da sola e avere gravidanze ravvicinate nel tempo perché a sua volta aumenta il rischio di depressione post partum
  • bambino con temperamento difficile.

Il maggior rischio per il figlicidio, secondo la letteratura, si ha durante il primo anno di vita del bambino, perciò diventa importante riconoscere i sintomi dei disturbi tipici del post-partum, come la depressione o la psicosi ma anche l’abuso di sostanze, meno tipico ma allo stesso modo molto pericoloso per la possibilità di slatentizzare un disturbo psichiatrico. Quindi diventa necessaria una preparazione anche rispetto ai fattori di rischio dei disturbi puerperali (Craig, 2004).

Gli studi hanno dimostrato che l’aver presentato una depressione precedente al parto è un rischio per lo sviluppo di una depressione post-partum nel periodo del puerperio. Alcune ricerche hanno evidenziato la presenza o l’assenza di pregressi stati psicopatologici al parto e il ruolo del contesto familiare e sociale (Verkerk et al. 2005). Infatti, il funzionamento sociale, insieme alla gravità dei pregressi stati depressivi e al livello di accudimento ricevuto dai genitori durante l’infanzia, sono dei fattori altamente predittivi dell’evoluzione dei disturbi puerperali (King et al. 1997).

Friedman e colleghi (2005) hanno riportato che uno tra i diversi fattori di rischio per i casi di figlicidio-suicidio, in cui la madre oltre a uccidere il figlio si suicida, era un precedente contatto con i servizi di salute mentale, così come i precedenti tentativi di suicidio, confermato anche da studi più recenti (Lysell, 2014). Inoltre, è stato evidenziato che dopo la nascita del primo figlio una condizione depressiva stabile è influenzata dall’abuso di sostanze e da tratti borderline o antisociali di personalità (Lewinsohn et al. 2000).

Grande attenzione è stata data quindi ai disturbi psichiatrici nella ricerca rivolta a individuare i fattori di rischio per il figlicidio. Gli autori tendono a precisare però che sebbene i disturbi psichiatrici siano un fattore di rischio per il figlicidio, la maggioranza delle donne malate non uccide o aggredisce il proprio bambino e alcune delle donne che compiono figlicidio non hanno nessun disturbo (Craig, 2004).

Oltre alla patologia mentale, sono stati citati in letteratura anche altri importanti fattori di rischio, come ad esempio l’eccessiva dipendenza dagli altri e i conflitti presenti all’interno del nucleo familiare. I fattori di rischio per il figlicidio, rispetto a quelli del neonaticidio, offrono maggiori possibilità di prevenzione, attraverso non solo la clinica prenatale, ma anche con follow-up nel post-partum che permettono di seguire i casi ad alto rischio. Diversi interventi sono possibili quando dopo il parto si manifestano sintomi d’ansia e dell’umore.

Sicuramente si può attivare un intervento educativo rivolte alle madri nel tentativo di fornire loro informazioni sulla genitorialità, sulle cure e lo sviluppo del bambino. Si può agire anche all’interno di un supporto empatico o con terapie cognitivo-comportamentali indirizzate sia alle madri che alle coppie di genitori. Ancora ci sono terapie di gruppo pre e post-natali, che aiutano le madri a trovare rassicurazioni nella condivisione delle stesse difficoltà con altre donne, oltre che visite domiciliari, che nei casi di negligenza e di abuso hanno avuto in particolare un grande successo (Olds et al. 1997). Diversi autori hanno esteso questo approccio a tutto il campione di madri figlicide, mentre Overpeck e colleghi (1998) hanno proposto un cross-training per i professionisti della salute per permettergli di individuare la violenza domestica. Ancora molto c’è da fare in questo ambito, perché non bastano solo nuove ricerche che possano ulteriormente confermare i fattori che portano a considerare un caso ad alto rischio, ma è necessaria anche una adeguata formazione professionale per coloro che sono più a diretto contatto con le madri, dai pediatri ai medici di base, così che possano essere messi nella condizione di inviare casi allarmanti a servizi specializzati, in una prospettiva di intervento di rete.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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