expand_lessAPRI WIDGET

Vagare con la mente quando guidiamo, quanto è pericoloso?

La disattenzione dei conducenti è un fattore importante per gli incidenti stradali e soprattutto per quanto riguarda gli incidenti mortali. Le fonti più evidenti di distrazione sono esterne, come telefoni o altri dispositivi mobili, ma molti incidenti si verificano senza ovvie distrazioni esterne.
Il vagare con mente o sognare ad occhi aperti è una forma di distrazione, nella quale chi guida inizia a fantasticare e a spostare l’attenzione dalla guida ai propri pensieri.

 

Sognare ad occhi aperti alla guida è molto frequente

In un nuovo studio è stato dimostrato che sognare ad occhi aperti durante la guida è molto comune. I volontari che hanno partecipato a questa ricerca hanno dichiarato che sognare ad occhi aperti si verifica per il 70 per cento del tempo in cui guidano.

Utilizzando misure elettrofisiologiche, i ricercatori hanno affermato di poter identificare i cambiamenti specifici nei modelli cerebrali quando i volontari erano nella fase del “sogno ad occhi aperti”.

La disattenzione dei conducenti è un fattore importante per gli incidenti stradali e soprattutto per quanto riguarda gli incidenti mortali. Le fonti più evidenti di distrazione sono esterne, come telefoni o altri dispositivi mobili, ma molti incidenti si verificano senza ovvie distrazioni esterne.
Il vagare con mente o sognare ad occhi aperti è una forma di distrazione, nella quale chi guida inizia a fantasticare e a spostare l’attenzione dalla guida ai propri pensieri.

Ma per garantire un buon livello di sicurezza, i guidatori dovrebbero rimanere concentrati per poter rispondere rapidamente a eventi imprevisti.

Gli effetti sul cervello della distrazione alla guida

In questo nuovo studio, pubblicato in “Frontiers in human Neuroscience”, i ricercatori hanno chiesto a un gruppo di volontari di utilizzare un simulatore di guida, collegandosi ad un sistema di monitoraggio elettrofisiologico, per misurare l’attività elettrica del loro cervello. Per cinque giorni consecutivi, i volontari hanno avuto il compito di eseguire due simulazioni di guida di 20 minuti lungo un tratto monotono di autostrada diritta ad una velocità costante. Tra i due compiti giornalieri, hanno completato un test scritto per simulare l’effetto di stanchezza mentale di un giorno di lavoro.

Durante l’esperimento, i volontari hanno sentito un allarme a intervalli casuali, e ogni volta che questo allarme suonava dovevano indicare su tablet o su computer se la loro mente fosse stata distratta proprio prima di sentire l’allarme.

Abbiamo scoperto che durante la guida simulata, le menti della gente “vagavano” molto, alcuni per periodi superiori al 70 per cento del tempo totale“, ha detto il dottor Carryl Baldwin della George Mason University, che era coinvolto nello studio.

Lo studio ha scoperto che le menti dei partecipanti erano più propense a fantasticare nel secondo percorso della simulazione, ovvero la strada che portava a casa dopo il lavoro.

Secondo i risultati, in media i guidatori erano consapevoli dei loro sogni ad occhi aperti solo il 65 per cento del tempo.
I ricercatori hanno riferito di poter anche rilevare direttamente il ”fantasticare” dall’attività cerebrale dei volontari.
Siamo stati in grado di individuare i periodi nei quali la mente vagava attraverso distintivi modelli cerebrali elettrofisiologici, alcuni dei quali addirittura indicavano che i conducenti erano probabilmente meno ricettivi agli stimoli esterni”, ha detto Baldwin.
Che cosa significa? La mente è pericolosa, e se è così, possiamo smettere di farlo?

Perdersi nei propri pensieri può essere una parte essenziale dell’esistenza umana ed è inevitabile“, ha detto. “Può essere un modo per ripristinare la mente dopo una lunga giornata in ufficio. Ciò di cui non siamo ancora sicuri è quanto sia pericoloso durante la guida. Abbiamo bisogno di ulteriori ricerche per scoprirlo.”
In termini di miglioramento della sicurezza in futuro, un’opzione potrebbe essere creare sistemi di trasporto autonomi, come autovetture che permettono di “auto-guidarsi, ma che siano anche in grado di ricatturare la nostra attenzione quando necessario”.

Thirteen Reasons Why: i vissuti psicologici dietro al suicidio di Hannah Baker – Recensione della serie

Preceduta dal gran successo ottenuto dal libro, Thirteen reasons why di Jay Asher, con protagonista Hannah Baker, la serie televisiva omonima prodotta da Netflix è stata anticipata da grandi attese. Se le tematiche affrontate sono tutt’altro che leggere, la serie non manca di artifici narrativi degni del migliore giallo.

 

Preceduta dal gran successo ottenuto dal libro, Thirteen reasons why di Jay Asher, la serie televisiva omonima prodotta da Netflix è stata anticipata da grandi attese. L’adattamento dell’opera di Asher mantiene le promesse in termini di popolarità, con più di 11 milioni di mentions dopo appena un mese dal suo rilascio.

Se le tematiche affrontate sono tutt’altro che leggere, bullismo, violenza, discriminazione, abuso di sostanze, la serie non manca di artifici narrativi degni del migliore giallo: suspense, colpi di scena, ironia, il tutto condito con una sapiente regia e fotografia e senza stravolgere la trama originaria del romanzo.

THIRTEEN REASONS WHY – GUARDA IL TRAILER:

https://www.youtube.com/watch?v=kHUe5oBvfHI

Thirteen reasons why – La trama

Hannah Baker è una 16enne studentessa del Liberty High School, da poco arrivata in città. Era, perché fin dai primi minuti sappiamo che la ragazza si è suicidata da pochi giorni, che i suoi compagni sono sconvolti e che l’evento appare inspiegabile. Dopo poco però scopriamo che un senso c’è, che il gesto è stato non solo premeditato ma anche studiato a tavolino: Hannah ha lasciato infatti 7 cassette che, nello svolgersi delle puntate, una per ogni lato della cassetta, ci faranno scoprire dettagli sulla sua vita e sulle sue motivazioni. Ogni lato di ogni cassetta racconta una storia che ha per protagonista lei e un altro personaggio. Le cassette sono numerate perché c’è un ordine nell’ascolto, una escalation nelle motivazioni e nei vissuti, nelle violenze e nella disperazione, un percorso che porta Hannah Baker verso una scelta di non ritorno.

Curiosa la scelta del mezzo con cui Hannah Baker decide di incidere le sue parole, le vecchie musicassette ormai in pensione da anni considerando che la serie è ambientata nel 2017. Questa scelta inusuale, voluta dalla stessa Hannah, si accompagna ad un’altra altrettanto desueta: assieme alle cassette Hannah Baker ha lasciato una mappa cartacea, su cui ha segnato con delle crocette dei punti che nello svolgersi della storia saranno delle tappe esplicative. Questo ritorno al passato, potremmo dire anche questo tocco vintage data l’età della ragazza, ci comunica che c’è un pensiero dietro al gesto, una ricercatezza fin troppo leziosa. Un prendere le distanze dal mondo a cui sente di non appartenere, quello dei suoi coetanei fatto di smartphone e cuffie beats, a cui pure non è estranea. Del resto la vediamo arrotondare con un lavoretto pomeridiano altrettanto vintage, vende infatti pop corn nel cinema della città, il Crestmont, e assieme a lei Clay, altro protagonista della serie e altra figura ‘diversa’ rispetto agli altri.

I vissuti di Hannah Baker – uno sguardo psicologico alla serie

Da spettatore di Thirteen reasons why e si viene catapultati in una sorta di thriller, si vede la serie tutta d’un fiato per i continui colpi di scena inattesi che tengono viva la curiosità. Da psicologo la visione lascia nella mente la eco di una nota stonata. Quello che non convince è proprio tutto quello che dovrebbe andare oltre il romanzo e andare a toccare nel vivo i problemi. Ma è proprio quello che sembra non fare, anzi. Saltando con disinvoltura da un tema all’altro e non toccandone mai uno nel profondo si ha l’impressione che gli accadimenti di Thirteen reasons why siano funzionali solo a mantenere alta la suspense. Inoltre la presenza di personaggi altamente stereotipati non aiuta a rendere il tutto più credibile (il ricco, borioso, viziato, cattivo; il belloccio quarterback che sembra cattivo ma poi scopriamo avere la madre alcolizzata e la figura paterna assente; la perfettina della scuola che nasconde la sua omosessualità; le cheerleader che sono delle ochette alla mercé dei giocatori di football; il bravo e buon ragazzo che muore in un incidente, lo ‘sfigato’ invisibile ma intelligente e sensibile). Si finisce per non prendere sul serio i temi seri e per prendere sul serio gli aspetti futili di qualsiasi teen drama.

Hannah Baker inizialmente attira anche una certa sensazione di fastidio perché sembra sia lei stessa ad esasperare avvenimenti del resto non così drammatici, non così gravi, portando paradossalmente anche noi spettatori a sminuire il suo vissuto. Perché anche di vissuto si tratta, non solo di eventi oggettivamente dannosi.
Quasi del tutto inedita in letteratura questa accentuazione di desiderio di vendetta da parte della vittima, quanto piuttosto di senso di vergogna e colpa che la accompagna, cose che aumentano il rischio di suicidio, come illustrato dalla recente meta analisi di Holt e colleghi (2015).

Hannah vive intensamente quello che le accade e con queste cassette lascia la sua vendetta che sa avrà conseguenze serie, lascia a tutti i coprotagonisti dei racconti un turbinio di sensi di colpa, rimuginio, ansia che si manifestano con abuso di sostanze (alcol e marijuana) e, in altri casi, con meccanismi di rimozione. Ma alla fine tutti capiranno che le loro azioni hanno un peso anche quando le compiono con leggerezza. Il disimpegno morale con condotte di ‘spegnimento’ momentaneo del giudizio morale viene sgretolato quando, ascoltate le cassette, si fanno i conti con i fatti, la realtà.

Senza dubbio si tratta di una serie corale, laddove ogni avvenimento si genera e si evolve in una serie di relazioni e non potrebbe svolgersi altrimenti. Ogni personaggio di Thirteen reason why, anche secondario, concorre a favorire, ostacolare, avallare e in ogni caso prende parte alle azioni, in una vicenda in cui ogni tassello è determinante.

Anche questo sottolineare il concorso di colpe ci ricorda che laddove c’è una vittima di bullismo, c’è qualcuno che è il bullo, ci sono i complici, ci sono gli spettatori, ci sono figure di riferimento assenti o inadeguate a gestire o anche solo a notare la situazione.

L’obiettivo dichiarato della serie è quanto mai ambizioso e mirabile, ovvero puntare i riflettori su un fenomeno ancora troppo sommerso e sfuggevole. Ma anche un po’ pretenzioso, dato che i temi affrontati sono tanti e complessi. Hannah Baker è vittima di cyberbullismo e bullismo, discriminazione sessuale, e, infine, di violenza sessuale. Ma non solo, è vittima anche di una violenza più sottile e meno manifesta, come l’indifferenza dei genitori e la disconferma dello psicologo della scuola nell’unico momento in cui, esasperata, cerca apertamente conforto in una figura adulta di riferimento.

Nota di pregio di Thirteen reason why è il porre l’attenzione al bullismo e in generale ad espressioni di disagio in età evolutiva come fenomeni compositi e complessi, che vanno affrontati su più fronti e più livelli. Non si può prescindere dall’intervento degli adulti, delle figure di riferimento (insegnanti, coach) e dei compagni stessi, ma nemmeno si può eludere un confronto con i ragazzi, con cui lavorare in percorsi di aumento di responsabilità e comprensione delle possibili conseguenze, da cui non possono prescindere percorsi di intervento e prevenzione (Cook et al., 2010). Gli Autori evidenziano come i fattori predittivi possano essere di natura individuale e contestuale, e sulla base di queste riflessioni andrebbero creati modelli di intervento multicomponenziali.

C’è ancora molto da fare, c’è ancora molto da definire e migliorare in termini di interventi e ricerca, ancora molto eterogenea in termini di costrutti indagati e analisi (e.g. Jiménez-Barbero et al., 2016), ma è grazie a prodotti come Thirteen reasons why che si riesce a smuovere anche l’opinione comune su problematiche che sono vicine a noi, più di quanto pensiamo.

 

Comportamenti di sicurezza tra i pazienti con disturbo di panico: una nuova lista per identificarli con maggior precisione

comportamenti di sicurezza sono quei comportamenti agiti in una situazione ansiogena, senza cui l’ ansia aumenterebbe in maniera sostanziale. Pertanto, sebbene si resti nella situazione temuta, in realtà la si sta ancora evitando.

 

Ansia: tra evitamento ed esposizione

La relazione tra ansia ed evitamento fobico ha ricevuto considerevole attenzione negli ultimi quarant’anni. L’evitamento e la fuga possono presentarsi in risposta a pericoli e paura, e a loro volta, tali risposte possono mantenere le credenze fobiche. Per contro, la teoria dell’apprendimento ci insegna che l’esposizione a stimoli fobici comporta la riduzione dell’ ansia. Questo processo è meglio noto come “abituazione”. L’esposizione viene ritenuta un trattamento altamente efficace per i disturbi di panico e fobia sociale.

Tuttavia, in alcuni pazienti fobici, i miglioramenti ottenuti con la sola esposizione sembrano relativamente modesti. Ad esempio, sebbene i soggetti con fobia sociale si trovino ripetutamente esposti a situazioni sociali durante la vita quotidiana, essi non sembrano mostrare una forte riduzione dell’ ansia. Si ipotizza che il fattore di mantenimento dell’ ansia siano i comportamenti di sicurezza, agiti all’interno della situazione ansiogena (Clark et al.2006).

comportamenti di sicurezza sono quei comportamenti agiti in una situazione ansiogena, senza cui l’ ansia aumenterebbe in maniera sostanziale. Pertanto, sebbene si resti nella situazione temuta, in realtà la si sta ancora evitando. Questi comportamenti di sicurezza funzionano come un amuleto. I comportamenti di sicurezza utilizzati spesso dalle persone con attacchi di panico includono: evitare di andare in giro senza i farmaci in borsa (anche se non li prendono mai o raramente); assicurarsi di avere il cellulare con sé quando ci si allontana da casa; stare vicino all’uscita quando si prende un autobus o il treno (Nakano et al.2008).

Salkovskis e colleghi (1991) ritengono che i comportamenti di sicurezza agiti nelle situazioni ansiogene giochino un ruolo importante nel mantenere l’ ansia, nonostante l’esposizione, poiché essi impediscono alle persone di confrontarsi direttamente con la disconferma delle loro credenze catastrofiche ed irrazionali. Per esempio, un soggetto con fobia sociale che evita lo sguardo dell’altro per timore di essere notato e deriso, probabilmente pensa “sono riuscito ad evitare di essere notato e di essere considerato strano, perché ho evitato lo sguardo altrui”. Impegnarsi in comportamenti di sicurezza mette al riparo le persone dalle loro minacce percepite, compromettendo però la possibilità di scoprire quanto siano in realtà improbabili le catastrofi immaginate. Se i pazienti continuano ad usare comportamenti di sicurezza per “prevenire” il danno, il nesso logico con la minaccia percepita si rafforza e l’esposizione agli stimoli fobici finisce per distorcere ulteriormente la credenza.

Comportamenti di sicurezza e disturbo di panico

Poche ricerche si sono occupate di esaminare i comportamenti di sicurezza nel disturbo di panico. Nel caso del panico, l’attacco si manifesta come risultato dell’errata interpretazione delle sensazioni corporee che si accompagnano normalmente all’ ansia, che vengono identificate come pericolose.

Salkovskis e colleghi (1996) elencarono 10 tipici comportamenti di sicurezza e chiesero a più di 100 soggetti con disturbo di panico quanto spesso ricorressero a tali comportamenti quando si sentivano ansiosi. Successivamente, correlando l’uso dei comportamenti di sicurezza con le cognizioni catastrofiche, identificarono diverse ipotetiche associazioni teoriche. Ad esempio, una persona che teme di svenire è probabile che si aggrappi a qualcosa, mentre una persona che teme un attacco di cuore si asterrà dall’esercizio fisico.

I comportamenti di sicurezza possono essere molto subdoli e idiosincratici. Ad esempio, mentre alcuni soggetti che temono le palpitazioni evitano di bere alcolici, altri possono bere per ridurre la loro ansia in pubblico. Per i primi soggetti, evitare l’alcool è un comportamento di sicurezza, mentre per i secondi il consumo di alcool è un comportamento di sicurezza. La personale visione di ciò che è catastrofico determina quale azione sia un comportamento di sicurezza. In maniera simile, alcuni soggetti preferiscono fare shopping in posti affollati, sentendosi più sicuri quando vi sono attorno molte persone disponibili, mentre altre entrano nei negozi soltanto quando vi sono pochissime persone presenti, ad esempio la mattina presto o la sera tardi, poiché possono evitare di essere visti qualora avessero un attacco di panico.

Molti comportamenti di sicurezza non sono immediatamente riconoscibili (si parla di comportamenti “covert”), come l’avere nel portafoglio abbastanza soldi per assicurarsi che siano pronti qualora succeda qualcosa, assicurarsi di portare il telefono cellulare o che qualcun’ altro sia a casa mentre il soggetto è fuori.

Tutti questi comportamenti sono normali nel senso che possono verificarsi quotidianamente nella vita di chiunque, ma è il processo cognitivo del paziente che rende queste azioni dei comportamenti di sicurezza. Per identificare correttamente i comportamenti di sicurezza “covert” sembrano essere necessari ben più di 10 elementi elencati da Salkovskis e colleghi.

Una recente ricerca, svolta da Funayama e colleghi presso l’università di Kyoto, pubblicata nel 2013, ha individuato una lista di 25 comportamenti di sicurezza più frequentemente riportati dai soggetti con disturbo di panico, e li ha correlati con i sintomi ansiosi, le situazioni agorafobiche e le risposte al trattamento di tali soggetti.

A 46 pazienti, partecipanti ad un trattamento cognitivo comportamentale di gruppo per il disturbo di panico, fu consegnata la lista di comportamenti di sicurezza sviluppata dagli autori in base alle esperienze con pazienti con disturbo di panico. La lista conteneva 25 item, a cui i pazienti potevano aggiungere ulteriori comportamenti agiti e non presenti in elenco. La lista comprendeva: portarsi dietro i farmaci, distrazione dell’attenzione, portarsi dietro una bottiglia di plastica, bere acqua, focalizzare l’attenzione su qualcosa, portarsi dietro il cellulare, assicurarsi della posizione delle uscite, cercare di stare assieme a qualcuno, cercare una via di fuga, sedersi vicino alla porta sul treno o in autobus, rimanere fermi, portare soldi extra, aggrapparsi a qualcosa, accovacciarsi, aprire la finestra, muoversi lentamente, chiudere gli occhi, leggere un libro o una rivista, spingere il carrello mentre si fa shopping, muoversi, ascoltare musica dalle cuffie, chiedere aiuto, prendere le medicine prima di uscire, tenersi a qualcuno, controllare i movimenti di braccia e gambe.

Altri comportamenti aggiunti dai soggetti furono: canticchiare a bassa voce, portarsi dietro asciugamani e salviette per le mani, portare dietro carta d’identità e patente, esporsi al vento, incrociare le gambe, bere alcol, evitare alcol, fumare, prendere più vestiti, evitare di mangiare prima di uscire, studiare la via del ritorno e controllare il calendario, guidare da soli, camminare veloci, portarsi dietro un ventaglio, portarsi dietro un piccolo snack, cercare un lavandino, incrociare le braccia, dormire, fare una doccia, evitare gli angoli della stanza, dormire a pancia in giù, guardare la tv, controllare l’agenda del partner, giocare sul cellulare, portarsi dietro un paio di slip, camminare con lo sguardo basso.

Aver dietro i medicinali (n=29), distrarre l’attenzione (n=27), portare una bottiglia di plastica (n=24) e bere acqua (n=23) furono riportati da più della metà dei pazienti. Le più forti correlazioni tra sintomi del panico e comportamenti di sicurezza furono rilevate tra l’evitare i sintomi di derealizzazione ascoltando musica con le cuffie, prevenire le parestesie spingendo il carrello durante lo shopping, evitare il senso di nausea accovacciandosi o restando fermi. L’associazione più forte tra situazioni agorafobiche e comportamenti di sicurezza fu rilevata tra la paura di prendere un autobus o un treno da soli e il bisogno di muoversi. Riuscire a rimanere fermi è indice di risposta positiva al programma di CBT, mentre il cercare di concentrarsi su altro predice una scarsa risposta al trattamento (Funayama et al. 2013).

La ricerca, sebbene limitata, ha posto le basi per lo sviluppo di linee guida nell’identificazione dei comportamenti di sicurezza tra soggetti con disturbo di panico, e potrebbe essere uno strumento d’aiuto ai clinici per fornire trattamenti CBT ancor più individualizzati ed efficaci.

La psicologia di Internet (2017) di Patricia Wallace – Recensione del libro

Patricia Wallace nella sua seconda edizione de La psicologia di Internet racconta come la rivoluzione di Internet sia giunta a influenzare e cambiare le nostre abitudini di comportamento, le regole si comunicazione e i rapporti tra le persone “in modi talvolta curiosi“.

 

Nel 1999 Patricia Wallace – insegnante della Graduate School del Maryland University College studiosa in materia di psicologia delle relazioni e dell’apprendimento – pubblica la prima edizione de Psicologia di Internet. Per dare al lettore un’idea del contesto, nel 1999 Mark Elliot Zuckerberg era studente di liceo e ancora non si sospettava cosa avrebbe mai ideato pochi anni dopo.

Instagram, come molti altri social ora in voga, non era nemmeno allo studio, sarà lanciato infatti undici anni dopo. Le librerie erano ancora principalmente fatte di muri e persone e se ti serviva comprare qualcosa cercavi il negozio più vicino non il pc o la Wi-Fi per un rapido acquisto online.

Internet rappresenta un ambiente completamente nuovo per il comportamento sociale e l’autrice de La psicologia di Internet ha continuato a studiarlo in tutte le sue manifestazioni e prodotti e come ci spiega:

Abbiamo avuto migliaia di anni di evoluzione per prendere confidenza con le interazioni umane in situazioni a faccia a faccia, ma appena due decenni per il mondo online diffuso su larga scala, e ora è il luogo, dove si svolge molta dell’interazione umana, con strumenti del tutto diversi (….) Non solo manca il contatto faccia a faccia, ma c’è anche la distanza fisica, l’incertezza sul pubblico che ci vede e ci ascolta, la percezione dell’anonimato, la mancanza di un feedback immediato e gli strumenti di comunicazione che usiamo si basano principalmente su testo e immagini. Al tempo stesso Internet è un motore senza precedenti di innovazione, connessione e sviluppo umano.


Ricordiamo il significato del termine Internet? Dal punto di vista tecnico è definito come un sistema globale di reti di computer interconnesse, che fanno uso dello stesso protocollo di comunicazione. L’obiettivo del libro La psicologia di Internet è soprattutto fornire un’analisi degli aspetti psicologici di qualunque situazione in relazione a mezzi digitali e ai nuovi ambienti virtuali.

Gli ambienti d’internet cambiano e si evolvono molto rapidamente, per cui non è possibile mantenere uno schema classificatorio fisso. Si può però creare uno schema del genere basato su caratteristiche specifiche che possono influenzare il comportamento umano.

La psicologia di Internet: quali sono gli ambienti internet di maggior uso comune?

Il web: ricordiamo la definizione? World Wide Web è il primo ambiente online, che è stato reso disponibile a milioni di persone. Il web è considerato una fonte d’informazioni molto importante.

La faccia oscura di Internet: il Deep Web e il Dark Web. Il Deep Web è molto più esteso del Web di superficie. La maggior parte del materiale è in database accessibile solo agli utenti che sono in grado di inserire gli opportuni termini di ricerca. Il Dark Web è una sottosezione del Deep Web, in altre parole i siti che sono invisibili ai motori di ricerca che scansionano il Web di superficie e richiedono un’autorizzazione o software dedicati. Spesso queste piattaforme sono sfruttate a sfondo criminale, per evitare la censura, e per commettere atti illeciti.

Un altro ambiente degli utenti della rete è la posta elettronica, memorizziamo gli indirizzi email delle persone che incontriamo più degli indirizzi di casa.

I forum di discussione asincrona sono ambienti che permettono uno scambio continuato, in cui le persone partecipano a discussioni su un argomento. Quest’ultime possono durare poche ore, oppure anche arrivare a durare settimane. I forum di discussione asincrona possono utilizzare piattaforme diverse: indirizzi di posta elettronica e sistemi di bacheca elettronica.

Le piattaforme più amate dai teenagers sono certamente le chat sincrone e di messaggistica istantanea, permettono o di riprodurre una conversazione in tempo reale usando solo parole digitate su una tastiera.

I blog sono siti che sono aggiornati continuamente con nuovo materiale e che permettono ai lettori di esprimere la propria opinione mediante commenti. La maggior parte dei contenuti è informale.

I social network: la vera rivoluzione in materia di rapporti interpersonali; forniscono la possibilità di costruire un proprio profilo e di connettersi con familiari, amici, colleghi e altre persone. I social network permettono di scrivere post su una bacheca centrale, ma anche di inviare messaggi come se fossero normali SMS. Sono social network anche i siti utilizzati per la condivisione di contenuti (YouTube, Flickr, Instagram e Snapchat). Insomma creiamo e manteniamo relazioni umane, attraverso una macchina e senza un umano davanti a noi…o almeno non necessariamente. In particolare Twitter è un social network, dove gli utenti possono scambiarsi messaggi e aggiungere altri contenuti mediali. Ogni utente può accumulare followers (persone che lo seguono) che vede tutti i suoi messaggi di testo. Qui, gli utenti possono seguire chiunque, senza bisogno dell’approvazione della richiesta d’amicizia. La convenzione dell’hashtag facilita la ricerca dei messaggi tramite parole chiave.

I messaggi WhatsApp, simili a Twitter, sono dei brevi che la maggior parte dei destinatari legge non appena arrivano, spesso interrompendo quello che stanno facendo senza nemmeno avere la percezione di essersi distratti.

Internet fa perdere tempo?

Questa domanda è il titolo che Wallace sceglie per il capitolo undicesimo del suo libro La psicologia di Internet. Spesso i ricercatori ci chiedono di misurare per quanto tempo siamo connessi, ma se abbiamo internet al polso, per misurare passi e calorie, e lo smartphone in tasca per i messaggi, la posta elettronica o altro, di fatto, siamo connessi 24 ore su 24 e sette giorni su sette. Certo la connettività ubiquitaria ha molti vantaggi e aumenta la nostra efficacia: posso fare la spesa su un’App mentre sono in metropolitana e sto andando in studio, posso terminare un articolo mentre sto attendendo il treno lavorando in condivisione con il collega che è rimasto in ufficio e molte altre cose ancora.

Effetti collaterali? Forse il mio capo si aspetterà che io risponda a una sua mail la domenica. Vita personale e vita professionale si mescolano ed emergono nuovi obblighi morali e aspettative. Come racconta l’autrice nel libro La psicologia di Internet costruire un equilibrio tra casa e lavoro è divenuto molto più complesso da quando la connettività ubiquitaria è la nostra compagna inseparabile. Saper stabilire i confini diviene importante quanto complicato, lo spazio e il tempo non sono più gli elementi che tracciano il confine.

Nel testo si citano diverse ricerche sull’argomento ad esempio in uno studio longitudinale, i ricercatori hanno studiato coppie newyorkesi per due anni, hanno raccolto dati sulla loro vita di coppia, sui livelli di stress e sull’uso degli strumenti tecnologici. I risultati hanno evidenziato una forte correlazione tra l’uso continuo dello smartphone e un effetto “straripamento”, per cui la vita professionale invadeva pericolosamente la vita domestica, provocando maggiore stress e minore soddisfazione relazionale.

Le caratteristiche della rete creano dipendenza?

Numerose sono le ricerche condotte dagli anni novanta su questo tema e naturalmente con esiti diversi secondo la tipologia del campione. Tuttavia un punto comune da rilevare è che vi sono ambienti virtuali particolarmente affascinanti e irresistibili. Wallace spiega:

Qualsiasi ambiente di Internet può rivelarsi sufficientemente attraente da generare problemi a persone vulnerabili che sono di per sé inclini a comportamenti compulsivi in altri contesti della loro vita. Tuttavia, analizzando più da vicino gli studi che valutano i tassi di prevalenza, si può notare che determinati ambienti ricorrono regolarmente.

Ecco gli ambienti più irresistibili e connessi alla dipendenza: social network; le aste online e i giochi online. L’architettura di questi ultimi è progettata per indurre la persona a giocare ripetutamente. L’autrice descrive gli effetti psicologici ma anche i vantaggi che hanno su chi ne usufruisce, con particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti.

Una dimensione psicologica patognomica collegabile alla dipendenza dalla rete è identificabile mediante l’acronimo inglese FOMO (Fear of Missing Out) coniato negli anni Novanta. Nell’Oxford English Dictionary si legge: “L’ansia che in quel momento possa verificarsi da qualche altra parte un evento interessante o eccitante, frequentemente generata da post visionati su un social medium”.

Insomma sempre connessi per l’ansia di non sapere tutto? Ovvero sperimentare la paura di essere tagliato fuori, questo sentimento è uno degli indici di dipendenza patologica da internet.

Un’ulteriore dimensione psicologica tipica degli ambienti online e della comunicazione virtuale è il grado di anonimato possibile. Quando il livello di consapevolezza di sé è più basso, esso può influenzare il comportamento delle persone. Un’altra variabile modulatrice è la presenza o assenza di un’autorità locale. Il più importante modulatore del comportamento nei diversi ambienti online è lo scopo che anima le persone che li visitano, ma talvolta lo scopo può essere il sentimento di paura dell’essere tagliato fuori. Questa paura può essere così intensa da farci dimenticare le scadenze, confondere le priorità e trascurare le relazioni. I messaggi sul social a volte sostituiscono le interazioni a faccia a faccia, i messaggi vocali creano l’illusione di essere più in relazione, le persone non imparano o disimparano a utilizzare i feedback della comunicazione non verbale, non c’è nessuno da guardare negli occhi e i neuroni specchio non si attivano. La mancanza di reciprocità può essere in relazione anche a comportamenti aggressivi spesso presenti in rete, che l’autrice esamina alla luce degli studi di psicologia dell’aggressività.

La studiosa, in La psicologia di Internet, approfondisce il tema delle dinamiche di gruppo in rete e di alcuni fenomeni sociali che come il conformismo, il confronto d’idee, i conflitti e la collaborazione.

Infine potere agli utenti

In conclusione ricordo l’obiettivo del libro La psicologia di Internet ovvero analizzare l’impatto psicologico che internet ha sull’essere umano. Vi sono effetti potenzialmente dannosi, pertanto sono opportune alcune raccomandazioni in modo particolare a beneficio dei giovani e degli adolescenti.

La rete è una tecnologia molto giovane e in continuo cambiamento che offre potenzialità e numerosi vantaggi. Wallace prende in considerazione l’altruismo, il volontariato e l’uso del Web per campagne di raccolta di fondi e diffusione di gruppi di sostegno.

Studiare la relazione tra essere umani e internet comprende anche lo studio del potere che gli utenti hanno su internet e sugli sviluppi e usi futuri. Non siamo però per forza dipendenti: abbiamo, infatti, la possibilità di influenzare questo strumento.

E poi il futuro? Non posso che essere d’accordo con la prudenza dell’autrice nel formulare previsioni:

Ci sono voluti cent’anni perché i libri arrivassero ad avere un’influenza tanto fondamentale sulla società; e per noi oggi, seicento anni dopo, i libri continuano a essere una parte essenziale delle nostre vite.. Considerando quanto Internet ci abbia sorpreso nei primi decenni della sua esistenza, l’unica previsione sicura è che sono in serbo per noi molte altre sorprese.

Negligenza spaziale unilaterale e anosognosia

Le diverse manifestazioni della negligenza spaziale unilaterale sono intrinsecamente caratterizzate da inconsapevolezza per il deficit, per indicare tale fenomeno si utilizza il termine anosognosia.

Francesca Maria Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La negligenza spaziale unilaterale

L’ eminattenzione spaziale unilaterale, o negligenza spaziale unilaterale (NSU) o neglect, come l’afasia, non è più concepita come un disordine monolitico, ma come una sindrome neuropsicologica “debole” (Ladavas, 2012), ossia frequente associazione di sintomi e segni, determinati da meccanismi patologici distinti benché in parte comuni.

È caratterizzata dall’incapacità di percepire, elaborare e rispondere a stimoli presentati nell’emispazio controlesionale, in assenza di deficit sensoriali elementari (Vallar at al., 2012). In particolare, durante l’attività spontanea o nell’eseguire uno compito specifico, i pazienti negligenti riducono il loro ambito d’azione e non dirigono l’esplorazione verso la metà spaziale controlaterale alla lesione.

In fase acuta il paziente può manifestare una deviazione più o meno completa e irremovibile degli occhi e del capo verso il lato della lesione; qualora lo stato di vigilanza permetta al paziente di entrare in contatto verbale con l’esaminatore, se questo gli si rivolge dal lato sinistro, il paziente risponde verso il lato opposto non negletto (Denes & Pizzamiglio, 1996). Nonostante vi siano prove empiriche a sostegno del fatto che gli stimoli trascurati vengano elaborati a livello non consapevole, i soggetti con negligenza spaziale unilaterale si comportano come se non fossero più in grado né di percepire né di concepire l’esistenza di una parte dello spazio.

La negligenza spaziale unilaterale può interessare lo spazio extra-personale o peripersonale, la parte controlesionale del corpo, ed in questo caso si parla di negligenza personale o emisomatoagnosia, infine il paziente può non utilizzare gli arti controlesionali pur in assenza di paralisi, si parla quindi di negligenza motoria (Vallar & Papagno, 2007). In base al sistema di riferimento può essere riferibile a coordinate di tipo egocentrico, quali il piano medio-sagittale del corpo (NSU egocentrico), oppure “basato o riferito sull’oggetto”, interessandone la prozione controlesionale indipendentemente dalla sua posizione rispetto al piano medio-sagittale (NSU allocetrico).

La negligenza spaziale unilaterale si manifesta quindi con un ampia gamma di sintomi che hanno rilevanza in situazioni e contesti differenti: per esempio il paziente può presentare difficoltà a trovare il cibo nel proprio piatto, a orientarsi in un percorso, a leggere un giornale o a pettinarsi (Carlomagno, 2007).

Sul piano neuroanatomico nella maggioranza dei pazienti la lesione è localizzata nell’emisfero destro e il deficit riguarda la parte sinistra dello spazio (Vallar & Papagno, 2007). L’incidenza accertata di tale sindrome dipende dai test diagnostici utilizzati ma è di oltre il 40% nei cerebrolesi destri e di circa il 20% nei sinistri. La letteratura conferma l’opinione clinica che la negligenza spaziale unilaterale sia associata a un danno della regione parietale, in particolare del lobulo parietale inferiore, o fronto-parietali nel territorio dell’arteria cerebrale media di destra, ma sono riportati casi di negligenza spaziale unilaterale a seguito di lesioni circoscritte ad altre aree cerebrali quali frontale, temporale, strutture sottocorticali come talamo e gangli della base e anche cerebellari (Denes & Pizzamiglio, 1996).

Alcune evidenze suggeriscono che il 43% circa dei pazienti con negligenza spaziale unilaterale recupera spontaneamente nelle due settimane successive alla valutazione in fase acuta (Farné et al., 2004), nel 40% circa dei paziente in fase subacuta e cronica è ancora presente neglect, nel 33% dei paziente la negligenza spaziale unilaterale diventa cronica (Karnath et al., 2011)

La presenza di negligenza spaziale unilaterale è fattore prognostico negativo dopo l’ictus in termini sia di risultato funzionale del recupero che di durata del ricovero ospedaliero; ne consegue che pazienti con ictus che non presentano neglect mostrano un miglior riadattamento al contesto di vita quotidiana (Appelros et al., 2002).

L’ anosognosia nella negligenza spaziale unilaterale

Gainotti (1972) indagò le reazioni emozionali nei pazienti affetti da lesioni cerebrali osservando che soggetti con lesione cerebrale sinistra manifestavano principalmente reazioni catastrofiche ai fallimenti rispetto ai test cognitivi o sintomatologia ansioso-depressiva. Al contrario, riscontrò una reazione emotiva opposta tra i pazienti affetti da una lesione emisferica destra: scarsa consapevolezza delle difficoltà (anosognosia), tendenza a minimizzare, indifferenza rispetto alla malattia o mancanza di reazione emotiva adeguata al deficit (anosodiaforia), creazione di rappresentazioni deliranti circa il lato controlesionale dello spazio corporeo e/o extracorporeo (somatoparafrenia) fino a veri e propri atti di violenza verso tali arti ritenuti “alieni” (misoplegia). Tali reazioni di indifferenza risultarono correlate con la presenza di negligenza spaziale e personale.

Le diverse manifestazioni della negligenza spaziale unilaterale sono intrinsecamente caratterizzate da inconsapevolezza per il deficit: il paziente infatti può non essere consapevole del fatto che la sua prestazione a prove che esaminano la negligenza spaziale extra-personale (lettura, disegno) è scadente (Vallar & Papagno, 2007). Per indicare tale fenomeno si utilizza il termine anosognosia.

In origine riferito alla mancata consapevolezza dell’emiplegia in seguito a ictus cerebrale (Babinski, 1914;1918), fu applicato a differenti condizioni cliniche quali l’emianopsia, i disturbi di memoria, i disturbi del linguaggio e altre condizioni (Jenkinson et al., 2011). L’ anosognosia è descrivibile come la mancanza di consapevolezza (insight) o sottostima di uno specifico deficit sensoriale, percettivo, motorio, o cognitivo causato da una lesione cerebrale, con una frequenza nella popolazione cerebrolesa che varia tra il 7% e il 77% (Dai et al., 2014). Risulta più frequente dopo lesione cerebrale destra, anche se risulta di difficile valutazione nei soggetti cerebrolesi sinistri a causa del possibile concomitante deficit afasico (Jenkinson et al., 2011).

Di solito l’ anosognosia compare in fase acuta o sub-acuta e tende a regredire spontaneamente nei giorni o settimane successive all’evento acuto. Ciononostante la presenza di anosognosia può essere fluttuante nel corso del tempo, e vi sono dati a sostegno di una possibile permanenza anche mesi dopo l’evento acuto. Secondo Vocat & Vuillermier (2010) sarebbe l’interazione di differenti fattori neurologici e neuropsicologici a determinare l’eventuale permanere di anosognosia anche oltre la fase acuta. In particolare una diminuzione dei deficit riguardanti propriocezione, la negligenza spaziale, il disorientamento spazio-temporale pare correlare con la riduzione dell’ anosognosia, mentre il perdurare a livello cronico (a 6 mesi) dell’ anosognosia correlerebbe con il persistere di negligenza spaziale unilaterale, disturbi della memoria, disorientamento spazio-temporale. Inoltre, secondo gli autori, la presenza di anosognosia in forma cronica sembra avere correlati neurali parzialmente differenti rispetto a quelli riscontrati nel caso di anosognosia in fase acuta, suggerendo che alla base dell’insorgenza e del mantenimento dell’ anosognosia vi sia un complesso network di regioni cerebrali responsabili.

Inconsapevolezza e negazione di malattia si possono manifestare in varie condizioni morbose e la loro origine è verosimilmente eterogenea (Denes & Pizzamiglio, 1996).  Nel caso di disordini neurologici quali deterioramento intellettuale, confusione e attenuazione dello stato di vigilanza, inconsapevolezza e negazione di malattia sono parte costitutiva di tali disordini anziché sintomo derivante da disfunzioni accessorie, aspecifiche e pervasive. Tale definizione comprende inoltre fenomeni di negazione di disordini neurologici unilateriali (emiplegia, emianopsia, emianestesia) che hanno un problematico rapporto con la negligenza spaziale unilaterale.

La valutazione dell’ anosognosia nei pazienti con negligenza spaziale unilaterale

Nel caso della negligenza spaziale unilaterale, l’ anosognosia può includere una negazione dell’emiparesi (anosoplegia) e di altri deficit, incluse l’emianestesia, l’emianopsia e/o l’eminattenzione, nell’emispazio visivo oppure tattile o uditivo (Blundo, 2010). A volte può raggiungere un livello di gravità tale per cui il paziente può anche riferire in modo perseverante che gli arti controlaterali non appartengono a lui, talvolta anche attribuendoli a un altro (emisomatoagnosia). Tale patologia si verifica a seguito di lesioni estese dell’emisfero non dominante in sede parietale, frontale e temporale come pure nell’insula e nelle adiacenti regioni sottocorticali.

Sono altresì documentati in letteratura casi di anosognosia senza negligenza spaziale unilaterale e viceversa, a dimostrazione del fatto che rappresentano due processi indipendenti (Jenkinson et al., 2011).

La valutazione dell’ anosognosia per il neglect può essere effettuata clinicamente nel corso del colloquio oppure chiedendo al paziente di valutare la propria capacità di eseguire o meno correttamente un test (ad esempio cancellazione di stimoli target, bisezione di una linea) prima e dopo la sua esecuzione usando una scala Likert (Vallar & Papagno, 2007). La scala di Catherine Bergego (CBS) è basata su una diretta osservazione funzionale del paziente in dieci situazioni reali, quali per esempio rassettarsi capelli e viso, vestirsi o muoversi in carrozzina. Le stesse domande sono proposte ai pazienti e alle persone che li assistono per consentire una stima della anosognosia valutando la differenza tra l’autovalutazione e la valutazione fatta dal terapista (Azouvi et al., 2003).

In letteratura sono state documentate condizioni in cui il paziente è consapevole dei deficit neurologici ma non della negligenza. Inoltre, il fatto che la negligenza spaziale unilaterale possa verificarsi senza deficit neurologici senso-motori (e viceversa) indica che i relativi meccanismi di monitoraggio sono indipendenti.

Nel corso del recupero funzionale, anche aiutato dai trattamenti riabilitativi, il paziente può divenire gradualmente consapevole che “non presta attenzione e non esplora la parte sinistra dello spazio” e mettere in atto conseguenti strategie di compenso (Vallar & Papagno, 2007).

Si è stimato che il 23% circa dei pazienti dopo ictus presentano neglect, il 17% anosognosia e il 9.6% entrambe le sindromi (Appelros et al., 2007). Data la frequente copresenza di negligenza spaziale unilaterale e anosognosia in fase acuta post-ictus, Appelros e collaboratori (2002) hanno osservato come negligenza spaziale unilaterale e anosognosia siano predittori del livello di autonomia nella vita quotidiana (ADL, Activity of Daily Leaving).

Impatto dell’ anosognosia sulla vita del paziente

La presenza di anosognosia a seguito di una lesione cerebrale può impattare sulla percezione individuale della Qualità della Vita (QOL, quality of life): soggetti affetti da schizofrenia con uno scarso insight rispetto alla patologia riferiscono una qualità della vita soggettivamente percepita come migliore rispetto a quanto riportato dei soggetti con buone capacità di insight. Tale rapporto è stato riscontrato anche in pazienti con demenza e lesioni cerebrali di natura traumatica (Appelros et al., 2007).

In linea con tali ipotesi Dai e collaboratori (2014) hanno effettuato uno studio volto a verificare la relazione tra neglect, anosognosia e qualità della vita percepita. Il campione di 60 soggetti con diagnosi di ictus (ischemico ed emorragico) destro e venne suddiviso tre gruppi sperimentali, 20 soggetto “A+N+” che presentavano anosognosia e neglect; 20 soggetti “A-N+” con neglect ma non anosognosia; 20 soggetti “A-N-” senza neglect e anosognosia, quest’ultimi selezionati da un campione omogeneo per caratteristiche demografiche e presenza di emiplegia. Gli strumenti di misura utilizzati comprendevano la valutazione dell’ anosognosia per l’emiplegia secondo la procedura proposta da Bisiach e collaboratori (1986), la valutazione del neglect tramite la Rivermead Behavioral Inattention Test (BITC), l’indagine dalla qualità della vita tramite la Stroke-Specific Quality of Life (SS-QOL), l’analisi dello stato cognitivo per mezzo del Mini Mental State Examination (MMSE). I risultati dimostrarono che i soggetti con anosognosia percepivano una miglior qualità di vita: punteggi più altri al SS-QOL vennero ottenuti dal gruppo “A+N+” e da un gruppo non inserito a causa dell’esiguità del campione e definito “A+N-”, ossia con anosognosia e non neglect.

La mancanza di consapevolezza del proprio deficit, così come il disinteresse verso le sue conseguenze, rappresentano un grave ostacolo alla riabilitazione e influenzano quindi la qualità della vita sia del paziente che dei suoi familiari e (Niger, 2014).

L’ anosognosia per la negligenza spaziale unilaterale rappresenta un complicazione di notevole importanza in riabilitazione: a causa della scarsa consapevolezza dei propri deficit i pazienti spesso rifiutano o forniscono scarsi livelli di compliance al trattamento, con un conseguente impatto negativo sul recupero funzionale e in generale a livello prognostico (Jenkinson et al., 2011). Inoltre, come riportato in precedenza il persistere di neglect può esacerbare la gravità della concomitante anosognosia: ne consegue che una riduzione della negligenza spaziale correla con un miglioramento in termini di consapevolezza (Jenkinson et al., 2011).

Tra le varie metodologie riabilitative della negligenza spaziale unilaterale ricordiamo metodi sia di tipo cognitivo (ad esempio addestrare il paziente a prestare attenzione alle informazioni presentate nell’emispazio trascurato), sia di tipo fisiologico (per esempio l’uso degli occhiali prismatici). Inoltre in letteratura sono disponibili prove sufficienti per dare una indicazione a favore del trattamento visuo-esplorativo (strategia top-down), inteso come strategia in cui si insegna esplicitamente al paziente ad orientarsi attivamente ed esplorare l’emicampo negletto (Inzaghi & Algeri, 2010).

Mindfulness e ipnosi per alleviare il dolore acuto in pazienti ospedalizzati

Interventi basati su mindfulness e ipnosi sarebbero in grado di ridurre drasticamente il dolore acuto nei pazienti ospedalizzati, questo secondo la nuova ricerca pubblicata nel Journal of General Internal Medicine.

 

L’efficacia degli interventi di mindfulness e ipnosi nella riduzione del dolore acuto

Lo studio condotto dall’ University of Utah ha avuto l’obiettivo di indagare gli effetti degli interventi di mindfulness e ipnosi sul dolore acuto in pazienti ricoverati in setting ospedaliero.

Dopo aver ricevuto una sola sessione di 15 minuti di uno di questi interventi (mindfulness o ipnosi) i pazienti all’ospedale dell’Università dello Utah a Salt Lake City hanno riportato una immediata riduzione dei livelli di dolore simile a quella che ci si potrebbe aspettare da un antidolorifico oppiaceo.
È stato davvero sorprendente vedere tali risultati significativi dati da una singola sessione di interventi psicologici”, ha detto il dottor Eric Garland, autore principale dello studio e direttore dell’Università degli Utah Center on Mindfulness e Integrative Health Intervention Development.

Data l’attuale epidemia di oppioidi nella nostra nazione, le implicazioni di questo studio sono potenzialmente enormi. Queste brevi terapie di mente-corpo potrebbero essere integrate efficacemente nella cure mediche standard, come terapie aggiunte alla gestione del dolore“.

Lo studio ha coinvolto 244 partecipanti che hanno riportato dolore non gestibile a causa di una malattia o di una procedura chirurgica.
I volontari sono stati assegnati in modo randomizzato a diverse condizioni di trattamento: un intervento basato sulla mindfulness, uno basato sull’ipnosi e una psicoeducazione mirata al trattamento diretto del dolore.

Gli interventi sono stati somministrati da operatori sanitari ospedalieri che avevano completato la formazione di base in ogni tipo di trattamento.
Tutti e tre i metodi di intervento hanno ridotto l’ansia dei pazienti e hanno aumentato i loro sentimenti di rilassamento. Tuttavia, i pazienti che hanno partecipato all’intervento di suggerimento ipnotico e l’intervento di attenzione hanno sperimentato rispettivamente una riduzione del dolore al 29% e al 23%.

I pazienti che hanno ricevuto gli interventi di mindfulness e ipnosi hanno riportato una significativa diminuzione della loro necessità percepita di assumere farmaci oppioidi.

Al contrario, i pazienti che hanno partecipato all’intervento mirato al dolore sperimentavano solo una riduzione del dolore del 9%, senza ridurre la loro necessità di assumere farmaci oppioidi.

Ricerche precedenti suggeriscono che gli interventi di carattere psicologico attuati settimanalmente possono essere un modo efficace per ridurre i sintomi del dolore cronico e diminuire gli abusi di oppioidi prescritti.

Garland e il suo team di ricerca interdisciplinare intendono approfondire le terapie di mindfulness e ipnosi come strumenti non-oppioidi per ridurre il dolore e intendono condurre uno studio nazionale di replicazione in un campione di migliaia di pazienti in più ospedali in tutti gli Stati Uniti.

I potenziali evocati (ERP): in cosa consistono – Introduzione alla Psicologia

I potenziali evocati evento correlati, ERP, rappresentano delle modificazioni riguardanti il segnale derivante dall’elettroencefalografia. Si tratta di variazioni del potenziale elettrico derivanti da uno stimolo visivo, somestesico o uditivo. Essi sono modificazioni dell’attività̀ elettrica cerebrale spontanea scaturente da un evento esterno, stimolazione sensoriale esogena, usato per evocare un fenomeno cognitivo endogeno. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

I potenziali evocati: che cosa sono

I potenziali evocati hanno una dimensione di segnale molto ridotta rispetto all’EEG. Essi sono ricavati estraendo rumore di fondo da una serie di registrazioni da cui si deduce una media del segnale (Averaging). Di conseguenza, al crescere del numero di stimolazioni la morfologia del segnale sarà più̀ definita e darà origine ad un ERP.
Gli ERP si rappresentano attraverso delle onde, ovvero variazioni di voltaggio nel tempo dell’ordine del microVolt e consistono graficamente in una serie di flessi sia positivi che negativi cui seguono dei picchi, anche essi positivi o negativi, in base alla polarità e alla posizione ordinale dell’onda (N1, P2, N2 etc) o alla latenza (in ms, ad esempio P300).

Storia

La prima testimonianza relativa a registrazioni di attività bioelettriche cerebrali risale al 1875, quando Richard Caton pubblicò i risultati dei suoi esperimenti su animali. Successivamente, nel 1924, Hans Berger riuscì ad ottenere la prima registrazione di segnali elettrici cerebrali su un uomo, usando strisce metalliche attaccate allo scalpo del soggetto come elettrodi e un sensibile galvanometro come strumento di registrazione. Berger fu il primo ad osservare i pattern temporali delle onde elettriche cerebrali. Dal 1924 al 1938 egli pose le basi per descrivere la registrazione dei potenziali elettrici cerebrali.
Questi ultimi sono classificabili in tre categorie:
1) attività spontanea;
2) potenziali evocati;
3) eventi bioelettrici provocati da singoli neuroni.

Potenziali evocati: come vengono registrati

I potenziali evocati o risposte evocate, risultano registrati attraverso elettrodi di superficie posizionati sulla testa. Al contrario dell’EEG che descrive l’attività̀ elettrica cerebrale di base, un potenziale evocato consiste in una variazione specifica del segnale bioelettrico conseguente alla stimolazione di una via sensoriale o ad un evento motorio. Un Potenziale Evocato è costituito da oscillazioni del potenziale elettrico e ha una forma d’onda caratterizzata da una serie di punti di flesso positivi o negativi, definite componenti.

Le componenti sono caratterizzate dalla polarità del picco (positivo o negativo), che dipende dalla posizione dell’elettrodo all’interno della distribuzione del campo elettrico superficiale. La distribuzione dei campi superficiali dipende, a sua volta, dall’area corticale attivata, dal suo orientamento rispetto al cuoio capelluto e dalla natura del campo elettrico. Le altre caratteristiche delle componenti sono l’ampiezza, considerata l’espressione del livello di attivazione delle cellule, la latenza, ovvero i millisecondi che si hanno dalla comparsa dello stimolo, in cui minore è l’intervallo, più̀ precoce si ritiene sia la comparsa dello stadio di elaborazione dell’informazione che la componente riflette, e la distribuzione sullo scalpo, sede delle componenti che consente di identificare quale regione corticale è attiva in seguito ad un particolare stimolo.

Ciascuna componente riflette la presenza di potenziali post sinaptici, eccitatori o inibitori, sincroni derivanti da un gruppo di neuroni corticali in grado di generare campi sufficientemente ampi da essere registrati in superficie. La localizzazione delle componenti permette quindi di identificare quale area corticale è attiva in seguito ad un particolare stimolo sperimentale.

I parametri che si analizzano nello studio dei potenziali evocati sono:
• la latenza, distanza temporale tra il momento di applicazione dello stimolo ed il momento di comparsa della componente;
• la topografia, posizione sulla superficie cranica in cui è ottenibile la massima ampiezza della componente;
L’ampiezza, grandezza della deflessione della componente rispetto al livello basale.

I potenziali, dunque, sono registrati mentre sono presentati, a un soggetto, stimoli ripetitivi sperimentali, visivi, uditivi, etc. I tracciati, successivamente, saranno sottoposti a procedure standard di elaborazione e alla scomposizione in epoche, risposte allo stimolo, discrete e sincronizzate con gli eventi stimolanti. I campioni del segnale vengono quindi mediati (averaging), per riuscire a estrarre segnale pulito dal rumore di fondo, tale tecnica costituisce l’essenza di base delle metodiche di elaborazione dei potenziali evocati.

L’averaging rappresenta la risposta media del cervello allo stimolo o all’evento, derivante dalla sommazione di numerose epoche sincronizzate con lo stimolo o con l’evento stesso. In questo modo, l’attività̀ evocata dall’evento si somma algebricamente con l’attività̀ di fondo, la quale, essendo fondamentalmente casuale rispetto all’evento, tende a ridursi o annullarsi; in tal modo, l’attività̀ evocata viene posta in risalto rispetto al rumore di fondo. Pertanto, la risposta media è la risposta evocata, le cui componenti (picchi positivi o negativi) sono riconducibili ai vari stadi di processamento dell’informazione sensoriale o evento-correlata nel cervello.

Dopo aver isolato la risposta evocata, si procede con l’analisi delle sorgenti delle componenti, individuando la loro localizzazione. A tal scopo si sfruttano le variazioni nello spettro di potenza del segnale causate da uno stimolo sensoriale o evento. Il metodo consiste nel calcolo dello spettro dei segnali conseguenti lo stimolo e nel confronto con lo spettro dei segnali antecedenti lo stimolo.

Tipi di segnale

I potenziali evocati si dividono in:
– Stimolo-correlati: essi dipendono dalle caratteristiche fisiche dello stimolo sperimentale applicato.
– Evento-correlati o Event Related Potentials (ERP): derivano dal contesto psicologico, o evento, in cui avviene la stimolazione. Tali potenziali, a differenza di quelli stimolo-correlati, dipendono dal contenuto informativo dello stimolo e compaiono solo quando il soggetto presta attenzione allo stimolo stesso e gli attribuisce un significato.

I segnali ERP sono fondamentali nel campo delle neuroscienze poiché aiutano a comprendere come le funzioni cognitive, e le relative manifestazioni in comportamenti ed esperienze soggettive, siano correlate all’attività̀ cerebrale.
Le componenti che caratterizzano il potenziale evocato sono collegate alle varie funzioni cerebrali e riguardano le funzioni cognitive derivanti dall’attività̀ cerebrale registrata sullo scalpo.

Esse sono rappresentate da sigle, ad esempio:
P1: se presente, ha una latenza di 50 ms dopo l’inizio dello stimolo uditivo o 100 ms dopo lo stimolo visivo. Questa componente viene interpretata come un indicatore neurofisiologico dell’attenzione allo stimolo sensoriale.
N1: si riferisce all’attenzione selettiva rivolta verso uno stimolo e ai processi di pattern recognition. Si presenta tipicamente 100 ms dopo l’inizio dello stimolo visivo e ha la sua massima ampiezza nelle aree fronto-centrali. Esiste anche una N1 uditiva composta da due componenti, una sopra il sito centrale con latenza pari a 100 ms e un’altra sopra il sito posteriore con latenza pari a 165 ms.
P2: legata a diversi task cognitivi, inclusi quelli di attenzione selettiva e memoria a breve termine. E’ presente anche in stimoli uditivi insieme alla N1, ma meno localizzata e risulta sensibile ai parametri fisici dello stimolo, come suono alto o suono basso.
N2: è sensibile alla varianza tra soggetti e può essere soggetta a diverse interpretazioni psicologiche, tra cui la discriminazione dello stimolo. Il picco N170 fa parte del complesso N2 ed è associato al riconoscimento dei volti umani.
P300: è un potenziale positivo che per definizione compare solamente in seguito a stimoli target e deriva principalmente da aree centro-parieto-occipitali mediane.
P300 non riflette una specifica funzione cognitiva, ma è espressione globale dei molteplici processi cerebrali implicati nel mantenimento della memoria di lavoro. La P300 si genera ogni qualvolta il soggetto aggiorna la propria rappresentazione mentale del contesto ambientale nel quale si trova ad operare. La latenza della P300 esprime il tempo impiegato dal soggetto per completare il pieno riconoscimento dello stimolo atteso. L’ampiezza, invece, è funzione inversa della probabilità̀ di comparsa (sia oggettiva che soggettiva) dello stimolo significativo e della quantità di informazione da esso trasmessa al soggetto. In ordine temporale di comparsa, la componente P300 segue la componente N2.
La N400. Rappresenta un indice generale derivante dalla difficoltà di recupero di conoscenze concettuali immagazzinate in relazione a uno stimolo dotato di significato. Essa è stata descritta per la prima volta nel contesto dell’elaborazione di frasi, ma studi recenti dimostrano che può essere elicitata anche da stimoli non linguistici come le immagini dotate di significato.

In diagnostica, i potenziali evocati più frequentemente utilizzati sono quelli somato-sensoriali (indotti da stimolazione elettrica tipicamente del nervo mediano del braccio o del nervo tibiale della gamba), quelli visivi (stimolazione tramite ad esempio un’immagine a scacchiera in movimento su un monitor) e quelli uditivi (stimolazione acustica ad esempio mediante ‘click’ di basso volume applicati tramite una cuffia). I potenziali evocati esaminano l’integrità̀ delle vie di conduzione nervosa periferiche e centrali. La forma e la latenza del potenziale possono rivelare alterazioni delle vie afferenti e permettono di evidenziare un difetto sensoriale, quantificandone anche l’entità̀. Tale metodica risulta ad esempio utile per lo studio delle lesioni sistemiche afferenti del sistema nervoso, causate da patologie croniche degenerative.

Applicazione, vantaggi e svantaggi dei potenziali evocati

Gli ERP rappresentano una tecnica molto adeguata con cui studiare l’attività corticale e non sono invasivi, malgrado mostrino poca risoluzione spaziale; necessitano di numerose prove da cui estrarre il segnale e mostrano artefatti soprattutto dovuti ai movimenti oculari di ammiccamento e allo stato di tensione della mandibola. Per ovviare a tali problemi e individuare l’esatta sede di produzione del segnale elettrico si utilizzano algoritmi matematici per modellizzare le sorgenti intracorticali che sottendono le distribuzioni dei potenziali di superficie.

Gli ERP sono utilizzati nella ricerca per studiare i processi cognitivi normali e patologici, come afasia, dislessia, pazienti con lesioni prefrontali, etc.
Essi, inoltre, sono comuni anche nella pratica clinica per individuare l’integrità funzionale, il livello di compromissione o il grado di maturazione di vie nervose periferiche visive, uditive, somatosensoriali, e delle funzioni cognitive superiori.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La detached mindfulness: strategia anti-ruminazione

Dico spesso ai miei pazienti con problemi di ruminazione che non dobbiamo fare un braccio di ferro con i pensieri, sembra semplice a dirsi ma è molto complicato da mettere in pratica. Ecco che allora è meglio guidare i pazienti verso esperimenti esperienziali con cui possano toccare con mano l’effetto.

La ruminazione, intesa come un’attività della mente che pensa e ripensa spesso alle stesse cose, è caratterizzata dalla pervasività e dalla insistenza. Un’esperienza del genere è difficile da interrompere ed è accompagnata da emozioni di ansia e irrequietezza e da un primo pensiero di partenza la catena si allunga fino a sviluppare dei pensieri che possono essere anche lontani da quello di partenza. A volte hanno la formula “se……allora” costringendo a trovare delle risposte.

La prima osservazione che i pazienti fanno è che proprio non riescono a smettere di ruminare e vanno alla ricerca del tempo e dello spazio opportuno per farlo. Un mio paziente mi disse che aveva comperato una poltrona apposta per mettersi lì a pensare e che aveva tutto un suo rituale per farlo: aspettava che tutti andavano a dormire, per poi prepararsi un tè e sedersi lì per ruminare. Godeva del senso di pienezza e trascorreva molto tempo senza che, ovviamente, se ne accorgesse.

Dare vita e adito al pensiero è un meccanismo di mantenimento che permette al pensiero di esserci con tutta la sua forza senza lasciare spazio ad un’attività cognitiva più razionale e funzionale.

Adrian Wells, con la sua terapia metacognitiva, ci insegna proprio quello da fare per far sì che la mente non ci faccia soccombere sotto questo suo meccanismo; io spesso dico ai miei pazienti che non dobbiamo fare un braccio di ferro con i pensieri, ma lasciare che essi ci siano, che occupino lo spazio mentale che devono per poi osservare che, così come sono arrivati, possano poi lasciarci.

Sembra semplice a dirsi ma è molto complicato da mettere in pratica.

Ecco che allora piuttosto che lasciare che questo resti un concetto astratto è meglio guidare i pazienti verso esperimenti esperienziali con cui possano toccare con mano l’effetto, altrimenti resta così aleatorio ed il paziente va via con l’idea di un qualcosa da fare…ma che non sa bene cosa sia.

Wells ne ha messi a punto diversi di esercizi, alcuni molto simpatici. Io li scelgo secondo le caratteristiche del paziente così è più probabile che riesca a farli anche da solo a casa. Quando si fanno provare in seduta, il terapeuta deve guidare il paziente e magari farlo insieme a lui: lavorare con la nostra mente come speriamo possano fare loro nello stesso momento; sembra che in questo modo la condivisione sia maggiore.

La terapia metacognitiva insegna che non è tanto il contenuto del pensiero che sembra rilevante quanto il modo in cui trattiamo i pensieri; in altri termini non è cosa pensiamo ma come lo facciamo perché quest’ultimo aspetto determina la tonalità emotiva ed il controllo che esercitiamo sulle nostre emozioni. Ecco perché la metacognizione si definisce come “il pensiero applicato al pensiero” (Wells A, 2012).

Applicazione della Detached Mindfulness

Senza entrare nel merito dei dettagli del modello messo appunto da Wells, che ha tanti punti e spunti di riflessione molto interessanti, descriviamo ora cosa si intende per Detached Mindfulness (DM) e come si applica.

La Detached Mindfulness (Wells e Matthews, 1994 ) lavora sul modo in cui ci relazioniamo alle nostre cognizioni rendendoci più flessibili da un punto di vista attentivo e cognitivo. Infatti essa viene descritta come uno stato di coscienza dei propri eventi interni senza sentirsi in obbligo di valutarli, controllarli o reprimerli, senza cioè mettere in atto alcun comportamento in particolare. In questo modo permettiamo al pensiero di occupare lo spazio mentale che deve con la consapevolezza che si tratta solo di un evento mentale. L’obiettivo ultimo, quindi, è cercare di sospendere i processi di rimuginio e ruminazione stando bene attenti dal non considerarla come un tecnica di evitamento né come un’altra strategia maladattiva di controllo (Wells, 2005b).

In questo senso si comprende come l’obiettivo non sia lavorare sul contenuto ma sul processo di relazione con il pensiero.

Nel manuale di Wells del 2012, Terapia metacognitiva dei disturbi di ansia e della depressione, vengono descritti 10 tecniche sulla base dei lavori precedenti, del 2005.

Tra di esse, ad esempio, ritroviamo la tecnica delle libere associazioni. A questa sono molto affezionata perché mi ricorda quando da piccola, durante i viaggi lunghi in macchina, costringevo i miei familiari a dire una parola che veniva in mente loro in seguito a quella precedentemente ascoltata. Ammetto che ogni tanto lo faccio ancora. Nel setting terapeutico chiediamo ai pazienti di osservare il fluire dei pensieri senza fare alcuno sforzo attivo, senza pensare a qualcosa in particolare. In questo modo bisogna solo osservare quello che accade nella propria mente, come un osservatore curioso. Il terapeuta elenca delle parole ed il paziente è istruito a vagare liberamente per ogni stimolo ascoltato. Non c’è nulla da controllare o analizzare. È bello anche apprezzare il fatto che alcune volte può non emergere nulla.

Guidiamo il paziente nell’esercizio e dopo commentiamo le sensazioni che derivano dall’osservare passivamente ciò che accade: secondo Wells, va bene tutto e non ci sono spiegazioni da cercare!!!

Un secondo esperimento è quello della metafora della nuvola. Di solito permetto per qualche minuto al paziente di osservare i pensieri della mente, per poi far sì che i pensieri stessi vengano considerati come nuvole che possono apparire anche nelle giornate più serene, e a volte persistono per molto tempo mentre altre vanno via veloci. Il messaggio che ci si porta a casa è che i pensieri, proprio come le nuvole, occupano lo spazio mentale che devono e poi, con i loro tempi, vanno via.

Un mio paziente ha creato la sua versione personale in cui invece di osservare la nuvola, osserva i palloncini: il figlio, a quanto pare, è un amante dei palloncini ad elio. Invece, una paziente con disturbo ossessivo compulsivo aveva frequenti pensieri di morte: dopo una decina di giorni di training, riusciva da sola a notare il pensiero dispettoso, quello che proprio non voleva lasciarla in pace, volare via come una nuvola. Dai suoi sorrisi, si vedeva il senso di libertà.

Vi sono altri esercizi, alcuni altrettanto interessanti come questi due; ognuno di essi va bene purché sia chiaro il messaggio che contengono. Apprezziamo e rinforziamo anche i piccoli risultati che i nostri pazienti ottengono: sappiamo bene che diventare osservatori di se stessi non è molto semplice oppure quanto può risultare noioso ripetere gli esercizi a casa da soli ma se sviluppiamo in loro un senso di autonomia e di motivazione i risultati non tarderanno ad arrivare.

Romantic love e love addiction: dall’amore alla dipendenza

È normale che l’amore preveda, soprattutto nella fase dell’innamoramento, coincidente con l’amore romantico (o Romantic Love), un certo grado di dipendenza dall’altra persona, che consente a due individui di formare un insieme che va oltre la somma delle due singole parti. Possiamo però distinguere un attaccamento sano da una dipendenza problematica, in quanto solo la seconda impedirebbe all’individuo il distacco dal partner, negandogli la libertà e l’individualità, incatenandolo al vincolo di coppia, provocandogli solo sofferenza e sfociando, secondo Guerreschi (2011), nella cosiddetta Love Addiction, la dipendenza affettiva.

Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

A proposito dell’amore

A chi non è mai capitato di parlare dell’amore? Che sia come desiderio, come passione, come affetto, come dolore, di amore si è trattato fin dall’antichità. È stato scritto, cantato e recitato, alcuni sono vissuti e altri sono morti per amore.
La vasta numerosità delle sfaccettature di questo stato sentimentale, se così possiamo definirlo, nonché il suo carattere di vissuto soggettivo, rende molto difficile la formulazione di una definizione che possa racchiuderne tutto il significato.

Maslow (1954), nella sua teoria, inserisce l’amore nel sistema motivazionale che sta alla base dell’azione umana, collocandolo all’interno della categoria dei bisogni d’appartenenza sociale. In questo senso, la necessità dell’individuo, di carattere secondario, di sentirsi parte di un contesto e di avere una vita affettiva e relazionale soddisfacente, si concretizzerebbe anche nella volontà di amare e di sentirsi amato.
Dobbiamo però a Sternberg (1986) il merito di aver elaborato un modello che individua diverse tipologie di amore di coppia, risultanti dalle intersecazioni di tre variabili che costituiscono l’essenza dello stesso. Se nessuna di queste fosse presente, infatti, si parlerebbe di Non Amore. La sua Teoria triangolare dell’amore prevede, quindi, sette modalità di espressione amorosa, risultanti dagli incroci tra Intimità, riferita a sentimenti di confidenza, condivisione e affinità, Passione, che riguarda aspetti più impulsivi come l’attrazione fisica, e Decisione-Impegno, che implica la responsabilità e la volontà di perpetuare la relazione.

L’autore distingue tra:
– Simpatia (solo intimità): connotata da confidenza, calore, tipica dei rapporti di amicizia;
– Infatuazione (solo passione): caratteristica dell’amore a prima vista, con l’idealizzazione dell’altro;
Amore vuoto (solo decisione-impegno): amore stagnante, routinario, senza dialogo. Può essere l’evoluzione di matrimoni che durano da molto tempo dove si resta insieme solo per il vincolo coniugale;
Amore romantico (intimità + passione): rimanda alle grandi storie d’amore letterarie o alle avventure estive, con la presenza di vicinanza e attrazione, ma senza progettualità;
Amore fatuo (passione + impegno): si è travolti dalla passione ma alla base non c’è la conoscenza emotiva profonda. E’ proprio delle relazioni in cui ci si sposa poco dopo essersi conosciuti, sull’onda della sola attrazione;
Amore amicizia (intimità + decisione-impegno): si ritrova nei rapporti di lunga durata, dove la passione si è spenta ma resta la condivisione;
Amore vissuto (intimità + passione + decisione-impegno): è l’amore completo, è difficile farne esperienza e, soprattutto, mantenerlo.

È normale che l’amore preveda, soprattutto nella fase dell’innamoramento, coincidente con l’amore romantico (o Romantic Love), un certo grado di dipendenza dall’altra persona, che consente a due individui di formare un insieme che va oltre la somma delle due singole parti. Possiamo però distinguere un attaccamento sano da una dipendenza problematica, in quanto solo la seconda impedirebbe all’individuo il distacco dal partner, negandogli la libertà e l’individualità, incatenandolo al vincolo di coppia, provocandogli solo sofferenza e sfociando, secondo Guerreschi (2011), nella cosiddetta Love Addiction, la dipendenza affettiva.

Si noti che, in lingua inglese, il termine addiction si riferisce a una condizione generale in cui la dipendenza psicologica spinge alla ricerca dell’oggetto di interesse, senza il quale la vita perderebbe di valore. Reynaud e collaboratori (Reynaud, Karila, Blecha e Benyamina, 2010), definiscono chiaramente le differenze tra amore e dipendenza, intendendo con il termine Love Passion uno stato universale e necessario per gli esseri umani, che implica un attaccamento funzionale agli altri, e con Love Addiction una condizione disadattiva caratterizzata da una necessità e da un desiderio imperiosi dell’altro che si traducono in pattern relazionali problematici, caratterizzati dalla persistente e assidua ricerca di vicinanza, nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative di tale comportamento.

Cos’hanno quindi in comune l’attaccamento sano e la dipendenza disfunzionale? A tal proposito, alcuni autori (Fisher, Xu , Aron e Brown, 2016), descrivono la presenza, in individui in fase di amore romantico, di sintomi caratteristici dei disturbi di dipendenza, tra cui euforia, desiderio, tolleranza, dipendenze emotiva e fisica, ritiro e ricaduta.

Prima di discutere circa le relazioni tra romantic love e love addiction, al fine di una maggiore comprensione delle dinamiche presenti, è tuttavia utile dedicare un po’ di spazio al chiarimento di questi due concetti.

Romantic Love

Xu e collaboratori (Xu, Aron, Brown, Cao, Feng e Weng, 2011) considerano l’amore romantico come parte naturale dell’imperativo biologico della riproduzione umana. Alcuni autori (Gonzaga, Keltner, Londahl e Smith, 2001) ne hanno identificato uno specifico pattern di caratteristiche fisiologiche, psicologiche e comportamentali, che include l’attenzione focalizzata sull’oggetto d’amore, la riorganizzazione delle priorità, un aumento di energia e sensazioni di euforia, sbalzi d’umore, risposte del sistema nervoso simpatico come sudorazione e batticuore, elevato desiderio sessuale e possessività sessuale, pensieri ossessivi sull’altro, desiderio per l’unione emotiva, gesti affiliativi, comportamenti orientati allo scopo e intensa motivazione per ottenere e mantenere il legame. Quando le caratteristiche più dipendenti diventano rigide e pervasive e assumono la connotazione di necessità assolute, il rischio è di cadere nel versante più disfunzionale del legame amoroso, quello relativo alla dipendenza patologica.

Love addiction

Sebbene la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati sperimentali, non rientri tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (American Psychiatric Association, 2013), essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, tra cui si ritrovano la dipendenza da Internet, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da sesso, la dipendenza da sport, lo shopping compulsivo, la dipendenza da lavoro.

Il gruppo di Reynaud (Reynaud, Karila, Blecha e Benyamina, 2010), partendo dalle analogie riscontrate con la dipendenza da sostanze, propone una definizione diagnostica della love addiction, basata sulla durata e sulla frequenza della sofferenza percepita:

“Un modello disadattivo o problematico della relazione d’amore che porta a deterioramento o angoscia clinicamente significativa, come manifestato da tre (o più) dei seguenti criteri (che si verificano in ogni momento, nello stesso periodo di 12 mesi, per i primi cinque criteri):
1. Esistenza di una sindrome da astinenza per l’assenza dell’amato, caratterizzata da significativa sofferenza e un bisogno compulsivo dell’altro;
2. Considerevole quantità di tempo speso per questa relazione (in realtà o nel pensiero);
3. Riduzione di importanti attività sociali, professionali o di svago;
4. Persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la propria relazione;
5. Ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa;
6. Esistenza di difficoltà di attaccamento, come manifestato da uno dei seguenti:
(a) ripetute relazioni amorose esaltate, senza alcun periodo di attaccamento durevole;
(b) ripetute relazioni amorose dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro”.

Stavola e collaboratori (Stavola, Mazzocato, Brambilla, Fiore, 2015), hanno svolto una ricerca sui fattori predisponenti la dipendenza affettiva, partendo dall’ipotesi che essa sia collegata alla presenza di fenomeni di dissociazione e di disregolazione emotiva conseguenti ad un trauma infantile e allo stile di attaccamento insicuro. Gli autori, per indagare le correlazioni tra il disturbo e i costrutti presi in esame, hanno sottoposto una serie di questionari self-report a un gruppo sperimentale di 99 individui, reclutati attraverso G.A.D.A. (Gruppi di AutoAiuto Dipendenza Affettiva), e a un gruppo di controllo di 75 persone: il Childhood Trauma Questionnaire – Short Form (Bernstein e Fink, 1998) per il trauma, il Relationship Questionnaire (Bartholomew e Horowitz, 1991) per l’attaccamento, la Dissociative Experience Scale (Carlson e Putnam, 1993) per la dissociazione e la Difficulties Emotion Regulation Scale (Gratz e Roemer, 2004) per la disregolazione emotiva. I risultati hanno permesso di confermare un modello eziopatogenetico della love addiction che individua, quali fattori predisponenti, la presenza di traumi di abuso emotivo e di negligenza emotiva, gli stili di attaccamento preoccupato e timoroso, la presenza di sintomi dissociativi a livello patologico, la difficoltà, clinicamente significativa, nella regolazione delle emozioni.
Resta ora da indagare quali collegamenti possano esserci tra l’amore romantico e la dipendenza affettiva. Gli studi cerebrali di neuroimmagine, in questo senso, hanno fornito un grosso contributo alla formulazione di preliminari ipotesi.

Romantic Love e Love Addiction: quali relazioni?

Le moderne tecniche di screening cerebrale hanno permesso di individuare e comparare i meccanismi neuronali impegnati nelle esperienze di dipendenza da sostanze, di dipendenza comportamentale e di innamoramento. In generale, dai dati empirici emerge che le sostanze stupefacenti provocano una iperattivazione dell’area tegmentale ventrale (VTA), dello striato ventrale (nucleo accumbens), della corteccia cingolata anteriore (ACC), della corteccia orbitofrontale (OFC), della corteccia prefrontale e dell’insula (Fowler, Volkow, Kassed & Chang, 2007).

Numerosi studi mostrano come le forme di abuso di sostanze attivino i circuiti di ricompensa cerebrale similmente alle altre forme di dipendenza (Cuzen e Stein, 2014). La cosa interessante è che parte di questi percorsi risultano attivati anche in uomini e donne che si collocano in fase di amore romantico, definendosi in questa come felici o come rifiutati. Gli individui che si trovano in questo stato, inoltre, mostrano molte caratteristiche associate ai disturbi da dipendenza, in particolare la focalizzazione (salience) e il desiderio compulsivo (craving) per l’oggetto d’amore. L’implicazione dei sistemi di gratificazione e di piacere, collegata all’innamoramento, è stata indagata da molti studiosi tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) durante l’esposizione dei soggetti a fotografie del loro amato. Xu e collaboratori (Xu, Aron, Brown, Cao, Feng e Weng, 2011), ad esempio, hanno riscontrato l’attivazione di regioni del mesencefalo ricche di dopamina, nelle vicinanze dell’area ventrale tegmentale, e dello striato. Altre ricerche (Ortigue, Bianchi-Demicheli, Hamilton e Grafton, 2007) hanno rilevato, in aggiunta, che il livello di risposta delle regioni deputate è correlato all’intensità della passione percepita, misurata attraverso la The Passionate Love Scale (Hatfield e Sprecher, 1986).

A fronte di questi risultati, Fisher e collaboratori (Fisher, Xu, Aron e Brown, 2016) propongono l’idea che l’amore romantico sia da considerare una forma di dipendenza, positiva se ricambiato, negativa se unilaterale, inappropriato, tossico. Il passaggio a un innamoramento disfunzionale, avverrebbe per la trasformazione del desiderio in bisogno necessario e del piacere in sofferenza. A ciò si accompagnerebbe l’estrema ostinazione nella ricerca e nel mantenimento della relazione, nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative. Essendo il desiderio compulsivo (craving), l’impegno ossessivo, la perseveranza dei comportamenti problematici e la compromissione dei sistemi di controllo di questi, elementi caratteristici delle dipendenze comportamentali (Potenza, 2006), è possibile supporre che la love addiction sia dovuta ad un irrigidimento disfunzionale delle caratteristiche naturali dell’amore romantico.

È comunque necessario tenere presente che nessun evento è circoscritto a se stesso e che qualsiasi manifestazione si insinua in un quadro molto più ampio, composto da fattori biologici, vulnerabilità personale, esperienze evolutive. Lungi dal voler spiegare in modo esaustivo il fenomeno in questione, intendere la dipendenza affettiva come un’evoluzione maladattiva di un naturale legame amoroso offre la possibilità di procedere nella ricerca di strategie di coping adattive, utili agli individui che si trovino in una situazione di rischio, al bivio tra attaccamento sano o addiction.

Dialogo interiore e autocontrollo: parlare a se stessi per regolare le emozioni

Il semplice atto di avere un dialogo interiore, silenzioso, con noi stessi in terza persona, durante un momento di stress, può aiutare ad avere una maggiore regolazione delle proprie emozioni senza uno sforzo mentale aggiuntivo, diversamente da quello che accade quando ci rivolgiamo a noi stessi in prima persona.

 

Parlare a se stessi per autoregolare le emozioni

Un primo obiettivo di una ricerca condotta dai ricercatori di psicologia della Michigan State University (MSU) e della University of Michigan (UM) è stato quello di dimostrare come parlare a se stessi in terza persona, implichi uno sforzo minimo nell’autocontrollo. I risultati della ricerca sono stati pubblicati online su Scientific Reports.

Dire, ad esempio, che un uomo di nome John è sconvolto perché è stato recentemente lasciato dalla fidanzata, implica semplicemente riflettere sui propri sentimenti in terza persona (“Perché è sconvolto John?”). In tal caso, John ha una reazione emotiva minore rispetto a come sarebbe stata se l’avesse affrontata in prima persona (“Perché sono sconvolto?”). Ciò aiuterebbe le persone a guadagnare un po’ di distanza psicologica dalle proprie esperienze e spesso può essere utile per regolare le emozioni.

Gli studi confermano la regolazione emotiva parlando a se stessi in terza persona

La ricerca è stata condotta mediante due studi che hanno rafforzato significativamente questa ipotesi.

Nello studio 1, svolto al Moser’s Clinical Psychophysiology Lab, venivano mostrate ai partecipanti delle immagini, alcune neutre e altre negative, su cui dovevano riflettere in base ai sentimenti generati utilizzando le due diverse condizioni: “self-talk in prima persona” e “self-talk in terza persona”. Durante il compito l’attività neurale della risposta emotiva veniva misurata mediante ERP (potenziale evento-correlato). La reazione scaturita dall’immagine negativa (ad esempio un uomo con una pistola puntata alla testa) correlava con una rapida diminuzione dell’attività cerebrale emotiva dei partecipanti (entro un secondo) quando si riferivano a se stessi in terza persona.

I ricercatori della MSU, inoltre, hanno misurato l’attività cerebrale correlata allo sforzo dei partecipanti e hanno scoperto che l’utilizzo della terza persona richiedeva meno fatica rispetto all’utilizzo della prima. Parlare a se stessi in terza persona sembrerebbe una buona strategia per la regolazione delle proprie emozioni, mentre molte altre forme di regolazione emotiva richiedono un considerevole sforzo e attività di pensiero.

Nello studio 2, guidato dal professore Ethan Kross è stato chiesto ai partecipanti di riflettere sulle proprie esperienze dolorose passate utilizzando sia la prima che la terza persona. Durante il compito, l’attività cerebrale è stata registrata mediante una risonanza magnetica funzionale (fMRI).
Con risultati simili a quelli ottenuti dal primo studio, i partecipanti, utilizzando il dialogo interiore in terza persona, hanno mostrato una minore attività in una specifica regione cerebrale, la corteccia prefrontale mediale, comunemente implicata nella riflessione delle esperienze emozionali dolorose, suggerendo una migliore regolazione emotiva. Inoltre, il self-talk in terza persona non richiedeva impegno cognitivo supplementare diversamente da quello che accade, normalmente, con l’utilizzo del self-talk in prima persona.

In sintesi i risultati suggeriscono che il dialogo interiore in terza persona agevola la capacità di autocontrollo e di regolazione emotiva.
Serviranno ulteriori ricerche per validare i risultati ottenuti. Chiarire ulteriormente il funzionamento di questi processi sarà utile per aiutare le persone ad avere una migliore regolazione delle proprie emozioni nella vita di tutti i giorni.

Terapia sensomotoria: quando il dolore è scritto nella memoria somatica

Per decenni il corpo si è eclissato dagli studi degli psicoterapeuti, soprattutto cognitivisti e psicoanalisti. Facevano parlare i pazienti soprattutto, anche se noi cognitivisti insistevamo anche sugli esercizi comportamentali. Questa sorta di estremismo del verbo non poteva durare a lungo. Il dolore si scrive nella memoria somatica prima ancora che nei ricordi autobiografici, e dal corpo va scacciato.

Articolo uscito su La Lettura del Corriere della Sera del 27 Agosto 2017

 

Pochi anni fa sono relatore a un congresso, tra gli speaker c’è Pat Ogden. Mostra il video di una sua seduta con un signore molto spaventato, il cui sorriso cauto maschera un’allerta primordiale, un atavico: “Stai lontana”. Vive, mi è chiarissimo, in un mondo di predatori. Lei è addossata alla parete di una stanza ampia. Il signore schiena alla parete opposta. Lei, dopo avergli chiesto il permesso, fa un passo. E gli domanda per filo e per segno quali siano le sensazioni corporee. “È ok”. Un altro passo. Ancora ok. Un altro ancora, ci saranno tre metri tra i due. “Ecco, ora non sto tanto bene”. Lei sorride, aspetta un attimo e gli chiede se deve fare un passo indietro. “Sì, meglio di sì”. Quello che vedo mi piace. Con un paziente come quello puoi parlare per mesi della sua difficoltà al contatto e del suo terrore primevo. Perdendo tempo. Invece con quei passi progressivi e negoziati ottieni di riattivare gli schemi: “Sono fragile, l’altro è minaccioso” e scoprire poco per volta che non sono veri. Ma è il corpo che lo avverte. Il terapeuta chieda: “È calata la tensione ora?” e ascolti il “Sì”. In quel momento lo schema è disattivato. Un uomo ha lasciato un mondo di rettili giganti ed è saltato nella realtà.

Neurobiologia del tempo (2017) di A. Benini – Recensione del libro

Nel libro Neurobiologia del tempo, l’autore Arnaldo Benini intende confermare che il tempo è reale, anche se per la fisica è un arcaico, obsoleto e ingannevole arnese mentale.

 

Possiamo congedarci dal tempo? Gli studi sul tempo, cioè su una dimensione fondamentale della vita degli esseri viventi, con sistema nervoso, hanno un aspetto paradossale: da un lato la fisica lo nega come illusione, dall’altro le neuroscienze e la biologia comparata trovano sempre nuovi dati sui meccanismi nervosi del senso del tempo nell’uomo e in molti esseri viventi, anche con sistema nervoso piccolissimo, a conferma della realtà di un evento biologico le cui origini risalgono a sistemi nervosi minuscoli e a età remotissime.

Neurobiologia del tempo intende confermare che il tempo è reale, anche se per la fisica è un arcaico, obsoleto e ingannevole arnese mentale. Nel 1905 il fisico Albert Einstein, infatti, dichiarava che il tempo è relativo alla velocità: più alta la velocità, più lento il tempo. Nel 1908 il matematico Herman Minkowski sosteneva che tempo e spazio erano destinati a diventare ombre, solo la loro unione avrebbe conservato una realtà indipendente. A partire dalla metà del XIX secolo, le scienze del sistema nervoso iniziarono a studiare i meccanismi nervosi che creano e manipolano il tempo. In particolare il medico e fisico Hermann von Helmholtz scoprì l’intervallo che corre fra gli stimoli nervosi e quelli che essi determinano. Intervallo che rappresenta una latenza tra stimolo e percezione del suo effetto, questa latenza è una delle regole dei meccanismi cerebrali, compresi quelli della coscienza, quindi uno dei capisaldi dell’esistenza.

Neurobiologia del tempo: tra tempo biologico e tempo soggettivo

Esiste un tempo che il cervello manipola e distorce prima di trasmetterlo alla coscienza, una parte del tempo è un ‘tempus perdus’ (tempo perduto, oggi si parla di ‘tempo compresso’) perché la coscienza non ne è informata. Il cervello può distorcere il tempo solo perché lo crea. Quindi che cos’è il tempo? Il tempo è formato (e non percepito) da meccanismi nervosi trasmessi geneticamente da una generazione all’altra. Il senso del tempo, la cui rappresentazione è uno degli enigmi della mente, ha tre aspetti: la stima della durata, dell’attesa e dell’ordine di successione degli eventi. Il tempo è creato dal cervello, senza che al suo interno esista un organo centrale e circoscritto del senso del tempo. Per questo il senso del tempo, unico fra le sue sensazioni, è presente come tempo oggettivo e soggettivo (con la componente emotiva) in tutte le esperienze sensoriali. Il tempo non si percepisce come evento del mondo esterno. Il tempo si sente come evento della coscienza di sé e del mondo.

Del senso del tempo sono elementi costitutivi le aree cerebrali della memoria. In particolare l’ippocampo, che è l’organo chiave sia della memoria sia del senso del tempo e dello spazio. Il tempo non è sempre lo stesso tempo. La manipolazione del senso del tempo rende le percezioni più incisive e, nel caso della casualità, più convincenti di quanto sarebbero se la compressione non avvenisse. Complessa ed elusiva, la compressione del tempo è un evento chiave e costante dell’esperienza sensoriale e dei meccanismi cognitivi.

Da oltre un decennio, uno de temi della neurobiologia del tempo è capire in quale degli emisferi cerebrali vengano elaborate prevalentemente le dimensioni emotive e quelle razionali del senso del tempo, poiché non esistono due cervelli uguali, il senso del tempo è diverso da persona a persona. L’organizzazione nervosa dei meccanismi del tempo è complessa e si estende dai lobi prefrontali al cervelletto.

Il tempo non si percepisce, ma si sente. L’esperienza del tempo è creata dal cervello. Il senso del tempo è un evento della coscienza, anche nell’incoscienza del sonno. Il tempo è dunque reale ed è una dimensione essenziale della vita: il libro Neurobiologia del tempo descrive studi e prove della sua esistenza. Attraverso i capitoli l’autore ci permette di comprendere la complessità dei processi nervosi del senso del tempo e il rapporto con lo spazio e con il numero (domini nei quali il cervello codifica e calcola la quantità). Delinea il valore del tempo per la memoria, il linguaggio e la musica. Ci permette di riflettere su cosa accade al senso del tempo in occasione di una lesione cerebrale o di una malattia. Per gli appassionati di scienza Neurobiologia del tempo è un libro da leggere, ricco di approfondimenti in tutte le materie e volto ad andare verso l’unità della comprensione scientifica sull’essere umano.

Nell’ultimo capitolo l’autore afferma ‘la neurobiologia del tempo è certamente uno dei meccanismi fondamentali della coscienza’.  Quindi, non possiamo congedarci dal tempo!

Furcht (1917) di Robert Wiene – Recensione del film

Film psicoanalitico e misterioso, Furcht, dominato da un sentimento di paura, anticipa quella che sarà la corrente cinematografica dell’espressionismo tedesco.

 

Come ogni anno nel mese di giugno, dal 1986 a Bologna, si è svolto il festival del Cinema Ritrovato. Questa rassegna cinematografica ci riporta come una macchina del tempo ad esplorare, scoprire e godere di pellicole di ogni nazionalità ormai scordate ma che comunque portano con sé un valore artistico e non, inestimabile.

Tra i vari film in programmazione ho potuto godere della proiezione del film di Robert Wiene Furcht, uscito per la prima volta nelle sale cinematografiche nel 1917 e accompagnato al piano, nella sala Lumiere a Bologna dal bravissimo Antonio Coppola. Come detto Furcht è firmato Robert Wiene, lo stesso regista della ben più nota pellicola “Il gabinetto del dottor Caligari”, anticipatore della corrente espressionista tedesca.

Furcht: anticipazione dell’espressionismo tedesco

Il protagonista di Furcht, un aristocratico tedesco (Bruno Decarli), ruba un idolo durante un soggiorno a Giava. Il fantasma del sacerdote a cui ha sottratto l’oggetto sacro, però, lo ossessiona e gli profetizza una morte vicina: morirà dopo sette anni di vita e da questa profezia ogni azione è dominata dal turbinio di un ossessione mistica.

Film psicoanalitico e misterioso, Furcht, dominato da un sentimento di paura, anticipa come detto quella che sarà la corrente cinematografica dell’espressionismo tedesco.

In effetti si possono tracciare due linee di approccio tra il rapporto psicologia e cinema espressionista:

  1. quella che fa leva sulle tesi junghiane dell’inconscio collettivo
  2. quella freudiana sul perturbante che si divide ulteriormente in due differenti tipologie per quanto riguarda la settima arte.

La prima è legata al vissuto del singolo individuo e scaturisce dal rapporto che si stabilisce tra lo stimolo esterno (il film) ed il materiale inconscio rimosso. La seconda ha un risvolto collettivo e si manifesta davanti alla percezione che il racconto possa sovrapporsi alla realtà.

Il film Furcht gioca molto sull’angoscia, peculiare caratteristica del perturbante, basti pensare allo stato d’incertezza in cui si trova lo spettatore per tutta la durata del film. Estremamente allegorico, ci si chiede continuamente se il fantasma ci sia realmente o questa proiezione non è altro che il frutto del senso di colpa che avvolge il protagonista e che lo condurrà lentamente alla pazzia.

Inserito nella sezione “100 anni fa”, Furcht apre le piste a quella che sarà la corrente artistica cinematografica forse con maggior correlazione con la psicoanalisi.

Il cervello e la creatività: le basi neurali e molecolari del processo creativo

Quando gli esseri umani sono impegnati con qualsiasi tipo di processo creativo, un gran numero di regioni del cervello quindi si attiverebbe, le stesse che si attivano anche in molti processi cognitivi cosiddetti “ordinari”; la creatività può essere considerata il prodotto di una complessa interazione tra processi cognitivi “ordinari” ed emozione.

Ilaria Biasion – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Ogni atto creativo comporta… una rinnovata innocenza nella nostra percezione,
liberata dalle pressioni del comune pensare.
Arthur Koestler

La creatività

Una delle prime definizioni di creatività è da attribuire a William James, che nel 1890 nei suoi “Principi di psicologia” la definì come “una transizione da un’idea a un’altra, una inedita combinazione di elementi, una acuta capacità associativa e analogica”, promuovendo in tal modo un’idea di creatività caratterizzata da una rivoluzione della solita routine mentale, un uscire dagli schemi del pensiero normale, una generazione di nuovi punti di vista per associazione analogica.

Le definizioni di creatività sono andate sommandosi nel corso degli anni, ma il concetto centrale è rimasto sostanzialmente invariato, si parla di immaginazione, genio, idea, tutti sinonimi per definire una proprietà umana unica e fondamentale. Cartesio citava  “La ragione non è nulla senza l’immaginazione”, Abraham Lincoln diceva “Nella sua grandezza, il genio disdegna le strade battute e cerca regioni ancora inesplorate”, e ancora Victor Hugo “Niente al mondo è così potente quanto un’idea della quale sia giunto il tempo”.

Nonostante il pensiero creativo fosse conosciuto da moltissimi secoli, soltanto agli inizi del 1900 venne studiato ed indagato in modo specifico e, con lo sviluppo della ricerca scientifica, la letteratura sull’argomento si è arricchita di nuovi spunti provenienti da diverse discipline, così il tema della creatività è stato indagato da molti punti di vista.

Parecchi dunque gli studi che nel corso degli anni si sono susseguiti, relativamente ad un concetto complesso e sfaccettato, non facilmente comprensibile, il quale rappresenta un costrutto vasto che è stato ed è fondamentale per il progresso della civiltà umana e per lo sviluppo dei processi di ragionamento (Rex E. Jung, 2013).

La complessità che ruota intorno alla creatività è facilmente evidente, infatti ripercorrendo la storia degli studi in materia, è possibile assistere ad una variazione del concetto a dir poco sorprendente. In breve tempo si è passati dal considerare la creatività una dote innata alla scoperta invece di una possibile acquisizione di tale caratteristica, ma non solo, la creatività originariamente considerata patrimonio esclusivo di pochi eletti, i cosiddetti “geni”, è divenuta oggi patrimonio umanitario generale, sebbene in misura differente. Per molto tempo, inoltre, la creatività è stata assimilata all’intelligenza, negli anni ’70 però, grazie a Paul Torrance (Torrance 1988), furono sviluppati dei test di misurazione del quoziente di intelligenza (QI) e del talento creativo più precisi, i quali portarono alla conclusione che le persone creative possiedono un QI nella media. Oltre un certo limite, quindi, a seconda della disciplina interessata, il quoziente intellettivo non è fondamentale nel scatenare la creatività, esso è necessario ma non sufficiente.

Oggi, la maggior parte dei ricercatori, concordano con la definizione standard della creatività, ovvero quella proposta originariamente da Stein nel 1953, secondo la quale “La creatività richiede sia l’originalità che l’utilità” e riguarda proprio la produzione di un qualcosa di nuovo e di utile.

Gli sforzi per definire la creatività in termini psicologici risalgono però a Guilford (Guilford, 1950), che ha riconosciuto l’idea secondo cui gli aspetti che contraddistinguono il pensiero creativo sono: la fluidità, ovvero la capacità di produrre abbondanti idee, senza riferimento alla loro adeguatezza ai fini della risoluzione del problema; la flessibilità, cioè la capacità di cambiare strategia ideativa, quindi di passare da una successione di idee a un’altra, da uno schema a un altro; l’originalità, che consiste nella capacità di trovare risposte uniche, particolari e insolite; l’elaborazione, ovvero il percorrere fino alla fine una strada ideativa con ricchezza di particolari collegati in maniera sensata tra di loro; la sensibilità ai problemi, vale a dire il selezionare idee e organizzarle in forme nuove, capire cosa non va e cosa può essere perfezionato negli oggetti di uso comune.

Molti autori da allora hanno esteso la tesi secondo cui un atto creativo non è un evento singolo, ma un processo di interazione tra elementi cognitivi ed affettivi. In questa prospettiva, l’atto creativo ha due fasi, una generativa e una esplorativa o valutativa (Finke et al., 1996). Durante il processo generativo, la mente creativa immagina una serie di nuovi modelli mentali come potenziali soluzioni ad un problema, nella fase esplorativa, vengono valutate le diverse opzioni e poi viene selezionata quella migliore.

I primi studiosi della creatività, come Guilford, hanno caratterizzato le due fasi, come pensiero divergente e pensiero convergente (Guilford, 1950), definendo il primo come la capacità di produrre una vasta gamma di associazioni o di arrivare a molte soluzioni in riferimento ad un problema, esso quindi va al di la di ciò che è contenuto nella situazione di partenza, supera la chiusura dei dati del problema, esplora varie direzioni e produce qualcosa di nuovo. Al contrario, il pensiero convergente si riferisce alla capacità di concentrarsi rapidamente sulla migliore soluzione ad una difficoltà, rimane quindi circoscritto all’interno degli schemi del problema.

L’idea dell’esistenza di due fasi del processo creativo è coerente con i risultati della ricerca cognitiva che indica l’esistenza di due modi diversi di pensare, uno associativo e uno analitico (Neisser, 1963; Sloman, 1996). Nella modalità associativa, il pensiero è intuitivo, nella modalità analitica, il pensiero è invece concentrato sull’analisi delle relazioni di causa ed effetto.

Il punto focale, portato alla luce dagli studi, è quindi che la creatività non è una proprietà unica, ma è il risultato della complementarietà tra deduzione e intuizione, tra ragione e immaginazione, tra emozione e riflessione, tra pensiero divergente e pensiero convergente.

Basi neurali della creatività

Nonostante una serie di attività siano state svolte nel campo delle neuroscienze cognitive, recenti ricerche hanno dimostrato che non esiste un quadro coerente e unitario per quanto riguarda le basi neuroanatomiche della creatività.

Alcuni studi sui meccanismi neurali della creatività hanno esaminato il ruolo dell’ asimmetria emisferica (Martindale, 1999). Originariamente la creatività era considerata una funzione dell’emisfero destro, l’idea principale che i creativi utilizzassero soprattutto l’emisfero destro, mentre le persone razionali, meno creative, usassero principalmente l’emisfero sinistro, è stata infatti per lungo tempo al centro delle credenze principali sull’ argomento. Tale teoria, affascinante per la sua linearità, appare oggi semplicistica, a fronte della complessità del cervello.

Studi sul pensiero divergente che hanno utilizzato l’elettroencefalogramma (EEG), per rilevare l’attività elettrica del cervello, non hanno confermato infatti una specifica lateralizzazione destra della creatività. (Dietrich, Kanso. 2010 )

Le tendenze più recenti sono quelle di considerare la non esistenza chiara di una lateralizzazione emisferica per la creatività e l’esistenza di diverse aree cerebrali attivate a seconda della natura del processo creativo in atto. Quando gli esseri umani sono impegnati con qualsiasi tipo di processo creativo, un gran numero di regioni del cervello quindi si attiverebbe. Le stesse regioni cerebrali sono quelle che si attivano anche in molti processi cognitivi cosiddetti “ordinari” (ad esempio, la memoria, l’attenzione, il controllo, il monitoraggio delle prestazioni), pertanto, questi studi suggeriscono come la creatività possa essere considerata il prodotto di una complessa interazione tra processi cognitivi “ordinari” ed emozione.

Altri studi neuroanatomici funzionali, realizzati utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o la tomografia ad emissione di positroni (PET) hanno riportato un coinvolgimento maggiore della corteccia prefrontale (PFC) come substrato neuroanatomico critico per il pensiero divergente (Folley, Park, 2005; Dietrich, Kanso, 2010).

Questi studi di neuroimaging che misurano gli aspetti funzionali del cervello, riportano quindi una costante attivazione della corteccia prefrontale nel cervello di persone coinvolte in compiti di pensiero creativo (Carlsson et al, 2000;. Chavez- Eakle et al., 2007; Fink, Grabner, et al., 2009; Folley & Park, 2005; Gibson et al., 2009). Ciò che dall’analisi degli studi sull’argomento appare meno chiaro è quali siano le aree specifiche della corteccia prefrontale che si attivano in risposta a compiti creativi.

Anche se alcuni studi hanno riportato un’ attivazione prefrontale diffusa (Carlsson et al., 2000;. Folley e Park, 2005;. Gibson et al., 2009; Sieborger et al., 2007), altri invece hanno fatto riferimento a regioni specifiche. Ad esempio, per quanto riguarda la corteccia prefrontale ventro-laterale (BA 47), Goel e Vartanian nel 2005 riportano un’attivazione unilaterale a destra, mentre Chavez-Eakle e collaboratori in una ricerca del 2007 evidenziano un’attivazione prevalente del lato sinistro.

Per quanto riguarda il giro frontale (BA 9) e il polo frontale (BA 10), quattro studi hanno riportato un aumento dell’attività nell’emisfero sinistro (Chavez- Eakle et al., 2007; Goel e Vartanian, 2005; Hansen et al., 2008; Howard-Jones et al., 2005).Ci sono anche ricerche che riferiscono un’ attivazione della corteccia cingolata anteriore sinistra (Howard-Jones et al., 2005), dell’area prefrontale dorso-laterale sinistra (BA 46), e dell’area motoria supplementare (Fink, Grabner et al., 2009).

Infine, un numero di altre strutture cerebrali, sia corticali che sottocorticali pare svolgano un ruolo nel pensiero divergente. Ci sono evidenti riscontri per le aree visive (Howard-Jones et al., 2005; Jung, Segall, et al., 2009), il talamo (Fink, Grabner et al., 2009), lo striato (Blom et al., 2008), l’ippocampo (Fink, Grabner et al., 2009), il giro cingolato anteriore (Fink, Grabner et al., 2009; Howard-Jones et al., 2005), il cervelletto (Chavez-Eakle et al., 2007) e il corpo calloso (Moore et al., 2009). Tuttavia, tali risultati sono dispersivi e pare non siano supportati dalla stragrande maggioranza degli studi.

Da quanto emerso dalla letteratura presa in esame, sembra non esserci un accordo unanime tra i ricercatori su quali siano le precise aree cerebrali coinvolte nel processo creativo.

Rimane abbastanza chiaro, tuttavia, il coinvolgimento della corteccia prefrontale, nonostante non si sia effettivamente ancora chiarita la misura di tale coinvolgimento.

La conclusione è che il pensiero divergente non rappresenta una modalità diversa o separata di pensare, per cui non vi è un insieme specifico di regioni cerebrali coinvolte durante tale processo, piuttosto pare produca un’attivazione ampia e diffusa (Dietrich, 2007). E’ probabile che la ricerca futura identificherà specifiche aree cerebrali per i processi creativi, ma questo sforzo richiederà una maggiore divisione del concetto di creatività in diversi sotto-processi, in quanto la creatività, come costrutto generale e univoco, non pare essere chiaramente localizzabile.

Dopamina: forse la molecola della creatività

Alcuni studi realizzati sui pazienti affetti da malattia di Parkinson sembrano mostrare un ruolo cruciale della dopamina nella creatività. La dopamina è una sostanza chimica coinvolta principalmente nel controllo delle emozioni e degli impulsi e nelle normali funzioni motorie. Questa sostanza, carente nei malati di Parkinson, quando viene innalzata grazie all’effetto dei farmaci dopaminergici produce un aumento della produzione creativa.

Walker e collaboratori nel 2006, hanno riportato un aumento della produttività nel caso di un artista che, con i farmaci dopaminergici, ha incrementato la sua attività di disegno. Analogamente Kulisevsky e collaboratori nel 2009, hanno riferito il caso di un paziente che prima di sperimentare la malattia dipingeva e in seguito ad un aumentato della dose di farmaci dopaminenrgici ha incrementato la sua attività pittorica rispetto al passato.

Quindi, dall’analisi dei casi, potrebbe essere verosimile che gli slanci creativi osservati nei pazienti siano dovuti alla terapia farmacologica, tuttavia quello dell’aumento della creatività non è l’unico fenomeno osservato, pare infatti che una dose eccessiva di farmaci tenda a produrre un’alterazione del controllo degli impulsi (sindrome da disregolazione dopaminergica), per cui i malati di Parkinson iniziano a mostrare comportamenti privi di freni inibitori e tendenti all’ossessività. Quindi la creatività, osservata nelle persone affette da malattia di Parkinson, potrebbe essere solo un sintomo della sindrome da disregolazione dopaminergica (DDS), causata dai farmaci.

Un caso interessante è stato descritto da Scrag e Trimble nel 2001 riguardante un paziente parkinsoniano, il quale iniziò a scrivere poesie di alta qualità durante i primi mesi di assunzione dei farmaci dopaminergici. Tale aumento nella capacità di scrittura potrebbe però, secondo gli studiosi, essere dovuta alla tendenza ossessiva, che causa una sovraesposizione artistica.

Nonostante ciò, non tutti i pazienti parkinsoniani, in seguito ad un aumento della sostanza nel cervello indotta dai farmaci, mostrano una spinta alla produzione artistica, quindi gli effetti della dopamina sulla creatività non sono ancora chiari

De Manzano e collaboratori nel 2010 suggeriscono un importante ruolo del recettore D2 della dopamina nel talamo, il quale pare svolgere un’azione importante sulla creatività negli individui sani. Il talamo ha un’azione importante nel cervello dal momento che funziona come una sorta di filtro cerebrale, che setaccia le informazioni che arrivano nelle aree della corteccia responsabili, tra l’altro, della cognizione e del ragionamento. Secondo gli studi degli autori avere meno recettori D2 nel talamo, dall’effetto inibitorio, comporterebbe un grado minore di filtrazione del segnale e quindi un flusso maggiore di informazioni dal talamo alla corteccia. Le persone molto creative, in base ai test sulle capacità di pensiero divergente, hanno proprio mostrato una minore densità di recettori D2 nel talamo rispetto a chi, dai test, è risultato meno creativo.

Anche se ancora non sono conosciuti gli effetti specifici della dopamina sulla creatività nel cervello sano, la densità dei recettori D2 potrebbe essere la spiegazione circa la vasta gamma di differenze creative che si riscontrano nelle persone.

Stimolare la creatività

La possibilità di apprendere delle tecniche di pensiero creativo, ha preso il via nel 1960 grazie agli studi di Jerome Bruner, il quale sosteneva che i bambini dovessero essere incoraggiati a “trattare un compito come un problema per il quale si possa inventare una risposta, piuttosto che trovarla in un libro o scritta sulla lavagna“(Bruner, 1965)

Da quel momento gli psicologi hanno elaborato programmi di istruzione progettati per promuovere la creatività e l’inventiva in molte discipline e in ogni popolazione di studenti (Scott et al., 2004).

Le tecniche di pensiero creativo, oggi si fondano sulla possibilità di cambiare direzione al pensiero, produrre idee sempre nuove, cambiare i vecchi schemi attraverso processi che consentano di focalizzare l’attenzione, superare i limiti della situazione attuale e creare legami nuovi e diversi che tengano la mente sempre attiva.

Molto spesso risolvere un problema richiede uno sforzo, è faticoso in quanto la confusione che genera in noi può essere forte e difficile da gestire, una delle tecniche che più spesso risulta utile in questo caso e scomporre il problema, focalizzarsi su un aspetto alla volta separando le emozioni dalla logica, la creatività dalle informazioni che abbiamo. Imparare a fermarsi dinnanzi ad un problema e fare una pausa per lasciare libero il pensiero creativo è un’altra possibilità, molto spesso le intuizioni migliori giungono proprio nel momento in cui ci si discosta dal problema. Allo stesso modo, imparare a focalizzare volontariamente l’attenzione è molto utile allo sviluppo del pensiero divergente, imparare a fermarsi su un particolare a cui non si è mai fatto caso, osservare i dettagli di una scena, di un paesaggio, di una vetrina o di un immagine, sviluppa la nostra capacità creativa, portandoci ad incrementare nuove idee o a produrre innovazioni a un qualcosa di già esistente. Anche esercitarsi nel pensare cose impossibili, contraddittorie e illogiche, può servire per dare una scossa al pensiero divergente e offrire spunti per nuove idee. Spingersi oltre il logico, il razionale, il conosciuto, può portare a qualcosa di innovativo, a percorrere nuove direzioni mai esplorate prima

Per quanto riguarda gli esercizi più utili allo sviluppo e all’ implementazione della creatività, quelli che non prevedono un’unica soluzione giusta, sono sicuramente i più utili, quegli esercizi quindi che lasciano al pensiero la possibilità di reagire ad uno stimolo seguendo varie strade. La possibilità di generare nuove idee, di non arrendersi alla prima opportunità di risoluzione di un problema, questa è quella che viene definita apertura, capacità di guardare le cose sempre con occhi diversi senza lasciarsi imbrigliare dagli schemi rigidi di pensiero con cui si è soliti ragionare.

Alcuni di questi esercizi sono ad esempio quelli che richiedono la capacità di trovare nuovi usi ad oggetti comuni, oppure costruire dei disegni a partire dalla presentazione di una forma astratta, inventare una breve storia a partire da alcune parole date, creare delle associazioni casuali, ovvero dimostrare che due oggetti, due parole, due immagini presi casualmente sono simili, o ancora descrivere situazioni ipotetiche, ad esempio immaginare come sarebbe il mondo se l’uomo sapesse volare.

Un altro esercizio utile a facilitare il pensiero creativo è la costruzione di ”mappe mentali”. Data una parola stimolo, si chiede di disegnare o scrivere intorno ad essa tutte le parole che in qualche modo secondo noi sono collegate alla parola data. Per ogni termine trovato poi si può ampliare l’esercizio cercando ulteriori associazioni. In questo modo si ottiene la propria mappa mentale di un termine. Questa tecnica rappresenta un importante strumento di percezione di un problema, e ci consente di trovare immediatamente la relazione tra un’idea centrale e le altre che ruotano attorno ad essa. La percezione di un problema espresso attraverso le mappe mentali, consente una migliore organizzazione dei pensieri e facilita il processo creativo. Il fatto che ogni persona possa produrre dei concetti diversi associati ad una parola data, ci fa capire quanta differenza intersoggettiva possa esistere e quanto la comunicazione sia un processo difficile, infatti il riuscire a farsi capire dal proprio interlocutore è strettamente legato alla capacità di entrare nella sua mappa mentale, se questo non avviene c’è il rischio che quanto compreso sia diverso rispetto a quanto si voleva esprimere.

Esistono quindi molti esercizi utili allo sviluppo di una funzione che è utile all’essere umano in quanto gli consente di superare i limiti che lo condizionano, lo sviluppo creativo è un viaggio che allarga la conoscenza e il sapere di tutti. Ogni cosa può essere guardata da varie angolazioni, tutto sta nell’imparare a vederle.

Acceptance and commitment therapy: uno studio pilota sull’assetto autonomico e le patologie cardiovascolari

É ormai nota in letteratura l’evidenza di una relazione tra malattia cardiovascolare e fattori di rischio psicologici con effetti sulla modulazione del network autonomico sia relativamente all’insorgenza che alla prognosi della cardiopatia ischemica. Scopo della ricerca è di verificare l’efficacia di un intervento di gruppo basato sull’Acceptance and CommitmentTherapy (ACT) nel migliorare alcuni indici di prognosi cardiovascolare e di qualità della vita.

Ciraci et al.

Riassunto dello studio

Metodologia: Sono stati reclutati 18 pazienti tra i 55 e 76 anni con esiti di bypass aortocoronarico. I soggetti sono stati equamente randomizzati in 3 condizioni: il gruppo sperimentale ha ricevuto un training basato sull’ ACT, un gruppo controllo ha seguito incontri psico-educativi, il secondo gruppo controllo non ha seguito alcuna attività. Le variabili cardiovascolari, rilevate tramite Nexfin nelle fasi pre e post trattamento, sono state confrontate con i controlli.

Risultati: Nel gruppo sperimentale si osserva una riduzione percentuale relativa del 12% della frequenza cardiaca media a riposo e un aumento della Heart Rate Variability del 170% rispetto ai valori baseline in associazione ad un riferito miglioramento globale della qualità della vita a fronte di alcuna modificazione significativa di tali variabili nei due gruppi di controllo.

I risultati di questo studio pilota preliminare potrebbero essere indicativi dell’efficacia di un training di gruppo basato sull’ ACT nel miglioramento dell’equilibrio autonomico di pazienti con cardiopatia ischemica, agendo su alcuni indici di prognosi cardiovascolare. L’ampliamento del campione ed ulteriori studi in merito sarebbero necessari al fine di verificare e/o corroborare l’efficacia del trend descritto.

Parole chiave: Acceptance and CommitmentTherapy, ACT, Patologie cardiovascolari, cardiopatia ischemica, Psicoterapia in cardiologia, Prevenzione secondaria, Heart Rate Variability.

Abstract

There is a strong evidence in the literature between coronary heart disease and psychological risk factors with consequent effects on the modulation of the autonomic network regarding both the onset and the prognosis of ischemic disease. The aim of the study is to test the effectiveness of a group intervention based on Acceptance and Commitment Therapy in improving some indices of cardiovascular outcomes and quality of life.
Methodology: We recruited 18 patients aged between 55 and 76 years with coronary heart disease. Equally and randomly assigned to three different conditions: the experimental group received a training based on ACT, a control group followed psycho-educational sessions, and the second control group did not attend any activity. The cardiovascular variables, as detected by Nexfin in pre and post treatment, were compared with controls.
Results: the experimental pilot group shows a reduction of 12% of the average heart rate at rest and increased Heart Rate Variability of 170% compared to baseline in combination with an overall reported improvement in quality of life compared to the two control groups. New studies and increase of groups are needed to verify the effectiveness of these preliminary results.
Keywords: Acceptance and Commitment Therapy, ACT, Cardiovascular Disease, Psychotherapy in cardiology, Cardiac Secondary Prevention, Heart Rate Variability.

Introduzione

Negli ultimi anni, la malattia cardiovascolare costituisce la più importante causa di mortalità e morbilità in Italia e all’estero nella nostra realtà epidemiologica (Ministero della Salute, 2012). La valenza sanitaria e sociale di questi dati risulta ancor più significativa dalla conoscenza ed individuazione dei fattori di rischio, che sono in larga parte prevenibili.

I fattori di rischio cardiovascolari possono essere suddivisi, infatti, in fattori di rischio non modificabili (età, sesso, familiarità per malattie cardiovascolari) e modificabili (ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, diabete, fumo di sigaretta, inattività fisica, aumento dei livelli ematici di trigliceridi, obesità) (Ministero della Salute, 2012). I fattori di rischio modificabili appaiono strettamente correlati allo stile di vita, che risulta, a sua volta, fortemente influenzato da fattori psicologici oltreché psicosociali.

Il legame eziologico e prognostico tra personalità, disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, stress e vari esiti clinici di tipo cardiovascolare correlati con alterazioni del network autonomico, è riconosciuto ampiamente sia in ambito medico che psicologico (Ladwig et al., 2014; Pogosova et al., 2014). In particolare, è stata riscontrata l’esistenza di un’associazione bidirezionale tra i disturbi dell’umore e malattia cardiovascolare e tra i disturbi di ansia ed eziologia e prognosi della malattia coronarica indipendentemente dall’età e da altri fattori di rischio cardiaco (Rozanski, 2014). Altre ricerche hanno riscontrato uno stretto legame tra stili di personalità di tipo A e D e patologie cardiache (Denollet, Schiffer &Spek, 2010). Questi dati supportano la possibilità che tali fattori psicologici, in un gran numero di pazienti, possano non solo essere corresponsabili della comparsa dei disturbi cardiovascolari, ma possano costituire anche un importante fattore di rischio cardiovascolare in fase di prevenzione secondaria e/o terziaria e in termini di aderenza al trattamento farmacologico, alle indicazioni psico-educative e al conseguente impatto sullo stile di vita del paziente.

Numerosi studi dimostrano come un intervento cardio-chirurgico possa portare a sperimentare stati depressivi, aumentando il rischio di mortalità per patologie coronariche (Connerney et al., 2001; Fresure-Smith, Lespèrance, Juneau &Thèroux, 2000). L’insorgenza di tale sintomatologia nel post-intervento, oltre a risentire di variabili di tipo psicologico, potrebbe essere correlata a una riduzione del tono vagale cardiovascolare e un contestuale aumento delle influenze adrenergiche, mediate da deficit del controllo centrale del network autonomico, che comporterebbe una riduzione della flessibilità nella responsività agli stimoli ambientali (Frenneaux, 2004).

Recenti studi epidemiologici nella popolazione generale hanno correlato una minore variabilità della Heart Rate Variability (HRV) con un aumento di incidenza di infarto acuto del miocardio e morti cardiache improvvise. Inoltre, emergono evidenze di associazione tra ridotta Heart Rate Variability e sintomatologia ansiosa e/o depressiva (Sirois&Burg, 2003), che risulterebbe influenzata oltre che dalla frequenza respiratoria e dall’equilibrio fra le influenze della componente simpatica e parasimpatica, anche dagli stati emozionali che possono influenzare il bilanciamento del sistema nervoso autonomo.

Secondo un modello di integrazione neuroviscerale infatti, lo squilibrio del sistema nervoso autonomo sarebbe l’elemento comune di stati emozionali negativi e patologie cardiache ed in particolare l’Heart Rate Variability è stata associata ad alterazioni psicologiche e neurovegetative (Gorman&Sloan, 2000; Honing, 2000; Yeragani et al., 1993). Inoltre, il ruolo dell’ Heart Rate Variability come fattore indipendente di cattiva prognosi, è ormai consolidato: nei pazienti con pregresso infarto, una riduzione dell’Heart Rate Variability è associata ad aumentato rischio di morte aritmica (Lombardi, 2000). Questo fenomeno, la cui fisiopatologia è ancora oggetto di ricerca, probabilmente è dovuto ad una stimolazione delle terminazioni simpatiche nell’area ischemica che innescano dei riflessi cardiaco-cardiaci simpato-vagali (Schwartz et al., 1973).

L’analisi dell’Heart Rate Variability sta assumendo, conseguentemente, sempre maggior rilievo in ambito medico e soprattutto cardiologico, in quanto rappresenta una tecnica per misurare ed esaminare, in modo non invasivo e ripetibile, la regolazione centrale dello stato autonomico, delle correlazioni tra processi psicologici e funzioni fisiologiche, permettendo una stratificazione del rischio cardiovascolare.

Date tali premesse appare significativamente rilevante un intervento di prevenzione secondaria che agisca sulla percezione delle proprie condizioni cliniche, sull’ansia e la depressione correlate all’intervento. Le linee guida che definiscono le attività psicologiche per la riabilitazione della malattia cardiovascolare (Sommaruga et al, 2003) raccomandano la valutazione delle variabili di rischio descritte all’interno dei contesti di degenza in pazienti con differenti problematiche cardiache indicandone anche l’efficacia dei differenti trattamenti. Viene riportato come trattamenti psicoeducativi e di stress management (Donker, 2000; Dusseldorp et al., 1999), e confermato da recenti studi, risultino essere efficaci rispetto ad indicatori prognostici di carattere psicologico e cardiaco associati a monitoraggio medico-farmacologico e training fisico.

Ad oggi dunque nella pratica della riabilitazione cardiologica,il ruolo dei fattori psico-sociali e comportamentali è considerato alla pari degli altri fattori di rischio classici: ciò raccomanda la presenza, in tali contesti, della figura dello psicologo adeguatamente formato e di programmi di intervento multidisciplinari il cui scopo generale è migliorare la qualità di vita del paziente (De Isabella & Majani, 2015; Sommaruga et al., 2003, Biondi-Zoccai et al., 2016).

Negli ultimi quindici anni, viene riportato in letteratura un aumento del numero di trial clinici randomizzati al fine di valutare l’efficacia di interventi di natura psicoterapeutica su una popolazione cardiaca. Diversi studi mostrano effetti positivi sul miglioramento di depressione, ansia, stress, e qualità della vita, con favorevoli incidenze anche sulla mortalità cardiaca e sulla morbilità (Ladwig et al., 2014; Whalley, Thompson & Taylor, 2014). Tali ricerche sono eterogenee sotto il profilo metodologico (modello teorico di riferimento, contenuti, metodo, durata, formazione del trainer, etc.) e non sempre ben articolate sotto il profilo procedurale, il che rende difficile la valutazione dell’efficacia e dell’efficienza degli interventi stessi e di una tipologia di intervento piuttosto che di un’altra.

Le meta-analisi presenti in letteratura sugli interventi psicoterapeutici rivolti a pazienti con malattia cardiovascolare, popolazione per la quale è presente il maggior numero di ricerche cliniche, mostrano un maggiore utilizzo ed efficacia del modello di intervento cognitivo comportamentale, sia sulle variabili psicologiche che cardiache (Biondi-Zoccai et al., 2016; Dickens et al., 2013; Welton, Caldwell, Adamopoulos e Vedhara, 2009): si osservano risultati positivi per ansia, depressione, stress e qualità della vita (Whalley et al., 2011), in aggiunta ad un miglioramento negli indici cardiaci (van Dixhoom& White, 2005).

Recentemente il crescente interesse per gli approcci psicoterapeutici si è esteso anche ai più attuali approcci cognitivo-comportamentali di terza generazione, tra i quali mindfulness e Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ne costituiscono alcune applicazioni (Hayes et al.,2006), impiegati per problematiche di medicina generale (Prevedini et al., 2012) e malattia cardiovascolare. Benchè l’applicazione di interventi basati su questo approccio risulti attualmente ancora esigua, sono osservabili evidenze di efficacia della mindfulness, nel migliorare non solo la qualità di vita ma anche alcuni indici prognostici cardiaci, (Parswani, Sharma&Iyengar, 2013) e dell’ ACT nel favorire la messa in atto di comportamenti protettivi della salute, quali dieta, attività fisica (Goodwin et al., 2012) e conseguentemente nella riduzione dei singoli fattori di rischio quali obesità, fumo, diabete (Prevedini et al., 2011).

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) si colloca, nell’attuale cornice della medicina comportamentale, come un modello di intervento efficace e meritevole di essere sperimentato e applicato in diversi contesti clinici (Prevedini et al., 2011). Secondo il modello dell’ ACT, la sofferenza psicologica e il restringimento del repertorio comportamentale risultano strettamente connessi al tentativo di controllare o reprimere emozioni associate alla propria condizione di malattia cronica (Hayes et al., 2006).

L’obiettivo dell’ ACT è quello di contribuire ad aumentare la flessibilità psicologica, ovvero l’abilità di relazionarsi con i propri pensieri ed emozioni in modo funzionale, non rimanendo intrappolati in essi, comportandosi in modo efficace rispetto a quello che personalmente sentiamo importante con un conseguente miglioramento significativo della qualità della vita (Prevedini, Miselli & Moderato, 2015). La finalità di un trattamento con l’Accepance and Commitment Therapy, rivolto a pazienti che hanno subito un intervento di bypass aorto-coronarico, va nella direzione di un miglioramento della qualità della vita, riducendo i possibili effetti negativi che una condizione di malattia cardiaca potrebbe comportare quali restringimento del repertorio comportamentale, messa in atto di condotte disfunzionali alla propria salute, focalizzazione su pensieri ed emozioni negative.

L’obiettivo che ci si pone in questo studio pilota è la valutazione dell’impatto di un training basato sull’ ACT non solo sulla qualità della vita di pazienti con malattia cardiovascolare sottoposti ad un intervento di bypass aortocoronarico, ma anche sul funzionamento del sistema nervoso autonomo, differenziandosi da quanto già presente in letteratura. Recentemente lo studio pilota di Goodwin et al. (2012) e il protocollo di intervento proposto da Spatola et al., (2014), rivolti entrambi ad una popolazione di pazienti con diagnosi di cardiopatia ischemica, hanno utilizzato il modello dell’ ACT valutandone gli effetti solamente su variabili psicologiche e le ripercussioni sullo stile di vita oltre che sulla qualità di vita (Goodwin et al., 2012; Spatola et al., 2014), non valutando le modificazioni che l’intervento ha avuto sulle variabili cardiache e nel bilancio autonomico dei pazienti.

Alla luce delle considerazioni effettuate, il nostro studio, se pur riferendosi ad un campione esiguo, appare essere il primo studio presente in letteratura in cui ci si propone di verificare sperimentalmente quanto l’attivazione dei processi chiave del modello dell’ ACT (variabili indipendenti) risulti efficace nell’influenzare positivamente l’attività del sistema nervoso autonomo con un effetto anche sul miglioramento riferito della qualità della vita, in pazienti con malattia cardiovascolare, condizione clinica che appare più sensibile sia in termini di eziologia che di prognosi alle variabili psicologiche (Park, Tahk & Bae, 2015). Le variabili dipendenti misurate sono state l’eventuale presenza di una sintomatologia ansiosa e di una sintomatologia depressiva, la percezione del proprio stato di salute generale, la flessibilità psicologica, la valutazione dei domini valoriali e delle azioni congruenti con tali domini, le aspettative e l’impatto della patologia cardiaca sulla qualità di vita, la percezione del funzionamento del proprio cuore e il bilancio autonomico del soggetto.

Metodo

Partecipanti e Procedura

La sperimentazione è uno studio clinico preliminare monocentrico del tipo between-groups. Il campione totale consta di 18 soggetti, maschi, caucasici, con età media compresa tra i 55 e 75 anni, sottoposti a intervento di rivascolarizzazione miocardica chirurgica mediante di bypass aorto-coronarico, ricoverati presso l’Unità Operativa di Prevenzione e Riabilitazione Cardiovascolare ”Don Gnocchi” di Parma. I principi di inclusione prevedono il campionamento di pazienti non affetti da altre patologie organiche/psichiatriche riportate in cartella clinica. I pazienti sono stati distribuiti in modo randomizzato in 3 gruppi differenti ciascuno costituito da 6 componenti:
– Gruppo sperimentale: training basato sull’ ACT
– Gruppo controllo 1: incontri di gruppo a carattere psico-educazionale
– Gruppo controllo 2: nessun tipo di trattamento psicologico e/o educativo

La ricerca si articola secondo le seguenti fasi:

FASE 1. Reclutamento e prima valutazione:
I pazienti che hanno subito un intervento di bypass aorto-coronarico, ricoverati presso il reparto di riabilitazione cardiovascolare, sono stati valutati sotto il profilo clinico e psicologico, come da prassi, durante il periodo di degenza. Dopodiché, verificata l’eleggibilità per il presente studio, regolarmente approvato dal comitato etico, è stato acquisito il consenso informato e i pazienti sono stati inseriti in modo randomizzato all’interno di uno dei tre gruppi di ricerca, proponendo loro la somministrazione degli strumenti psico-diagnostici e valutando il funzionamento fisiologico.

FASE 2. Seconda valutazione pre-trattamento:
I pazienti, contattati telefonicamente una settimana prima dell’inizio del trattamento sono stati invitati a recarsi nel centro di riabilitazione, in un orario compreso tra le 9.00 e le 13.00 di mattina. Ciascun paziente si è sottoposto nuovamente a:
Valutazione fisiologica: misurazione mediante Nexfin® (della durata di 20 minuti, di cui i primi 10 in clinostatismo e i rimanenti 10 in posizione seduta) di diverse variabili inerenti principalmente la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la gittata cardiaca. Durante la misurazione era previsto che l’operatore uscisse dalla stanza per non influenzare in alcun modo il paziente. Si è raccomandato ai pazienti di non variare abitudini alimentari ed evitare condizioni quali fumo o eccessivo consumo di caffè, in grado di interferire con lo studio del sistema nervoso autonomo.
Valutazione psicologica: Somministrazione testistica descritta nella parte relativa agli strumenti

FASE 3 fase sperimentale:
I tre gruppi sono stati sottoposti alle diverse condizioni previste dalla ricerca:
1. Il gruppo sperimentale è stato sottoposto a un intervento basato sul protocollo per l’ ACT (Hayes et al., 2006) strutturato in cinque incontri a cadenza settimanale, della durata di circa 2 ore l’uno.
2. Il gruppo controllo 1 ha seguito cinque sedute psico-educazionali di gruppo appositamente disegnate. Durante ogni incontro sono stati trattati i seguenti argomenti: fattori di rischio cardiovascolare modificabili, stile di vita sano, ruolo di stress, ansia e depressione nella malattia cardiovascolare. È stato trattato un argomento per ogni incontro, con la durata complessiva di circa due ore per incontro.
3. Il gruppo di controllo 2 non ha ricevuto alcun tipo di intervento psicologico o psicoeducazionale.
Tra la seconda e la terza seduta, sono stati somministrati a tutti i pazienti gli stessi otto questionari utilizzati in fase di baseline. Questa valutazione aggiuntiva ha permesso di monitorare il funzionamento emotivo a metà del percorso sperimentale comparandola agli altri due gruppi di controllo.

FASE 4: Raccolta dei dati post-intervento e analisi statistiche.

Alla fine di ogni ciclo, per ognuno dei tre gruppi, sono state rifatte le stesse valutazioni della FASE 2. Tale valutazione è stata eseguita nello stesso periodo della giornata e mantenendo le medesime condizioni della baseline.

Strumenti

Per la valutazione delle variabili cardiovascolari e neurovegetative è stato impiegato il Nexfin, che consente di avere una forma d’onda di pressione in modo non invasivo e continuo, battito per battito. É costituito da due componenti: una cuffia pneumatica in grado di generare una curva di pressione fisiologica e un sistema ottico per la rilevazione del volume delle arterie; è inoltre in grado di fornire una registrazione elettrocardiografica dinamica per un determinato periodo di tempo. Le variabili che un’analisi Nexfin riesce a fornire sono le seguenti: monitoraggio completo dei parametri emodinamici (gittata cardiaca, stroke volume, pressione arteriosa sistolica e diastolica e rispettive deviazioni standard); monitoraggio ECG (frequenza cardiaca, intervallo RR e rispettive deviazioni standard).

Per le variabili psicologiche sono stati utilizzati i seguenti test psicometrici in lingua italiana quali:
– sintomatologia ansiosa: State Trait Anxiety Inventory forma Y-1, Y-2 (Spielberger,Gorsuch&Lushene, 1989) al fine di valutare l’ansia di stato e l’ansia di tratto;
– sintomatologia depressiva: Beck Depression Inventory-II (BDI-II; Ghisi et al., 2006) al fine di valutare la sintomatologia Depressiva.
– percezione del proprio stato di salute generale: Questionario sullo stato di salute SF-36 (Apolone& Mosconi, 1998) al fine di valutare la percezione dello stato di salute generale.
– flessibilità psicologica: Acceptance and Action Questionnaire-II (AAQ-II; Bond et al., 2011; Pennato, Berrocal, Bernini &Rivas, 2013) volto a valutare la flessibilità psicologica.
– valutazione dei domini valoriali e delle azioni congruenti con tali domini: Valued Living Questionnaire (VLQ; Rabitti et al., 2009; Wilson, Sandoz &Kitchens, 2010) finalizzato alla misurazione del processo dei valori e di quello di azione impegnata.

Si sono utilizzati, inoltre, alcuni strumenti self report non validati ai fini di valutare rispettivamente le seguenti variabili: l’impatto della patologia cardiaca sulla qualità di vita, la percezione del funzionamento del proprio cuore:
– Scala di valutazione da 0–10 volta a indagare le aspettative circa l’impatto che l’evento morboso potrà avere sui comportamenti diretti alle proprie aree importanti di vita e una scala di valutazione da 0–10 volta a indagare l’effetto dell’impatto che l’evento morboso ha avuto concretamente su tali comportamenti;
– Scala da 0–10 al fine di indagare la percezione dello stato di funzionamento del cuore.

Trattamento

Il protocollo terapeutico proposto al gruppo sperimentale si è basato sui modelli di protocollo dell’ ACT (Hayes et al., 2006; Previdini et al., 2015) rivolti al trattamento della sintomatologia ansiosa (Eifert et al., 2009) depressiva (Forman et al., 2007) e del dolore cronico (Vowles, Wetherell&Sorrell, 2009) adattandoli alla tipologia clinica dei pazienti. Coerentemente al modello teorico di riferimento, si sono utilizzate tecniche psico-educazionali, esercizi di mindfulness, esercizi esperienziali e metafore (Bond &Hayes, 2002), con la finalità di attivare i processi sottesi alla flessibilità psicologica.

Il protocollo psicoterapeutico ha previsto cinque sedute di due ore ciascuna a cadenza settimanale, condotte all’interno di uno spazio dell’unità operativa di riabilitazione cardiovascolare, appositamente adibito ad accogliere i pazienti. Durante l’iter terapeutico, non vi sono state variazioni né relativamente al setting, né relativamente alla tempistica per fornire ai pazienti una routine e un ambiente che favorisse l’adesione, la familiarità e l’aderenza.

Analisi statistiche

Le variabili emodinamiche e neurovegetative sono state raggruppate nelle tre aree indagate: frequenza cardiaca, pressione arteriosa, gittata cardiaca. I valori sono stati suddivisi in clinostatismo e ortostatismo e tra valori baseline e misurazioni finali. Con questa suddivisione, ogni paziente è stato studiato per 12 variabili. Uno dei pazienti del gruppo di controllo 2, che si sottoponeva agli incontri psico-educazionali, è uscito dallo studio prima di poter effettuare la valutazione alla fine del ciclo di incontri. Per questo motivo non si è tenuto conto della misurazione di baseline ai fini dell’analisi statistica dei risultati, senza particolari conseguenze sull’esito dell’analisi stessa (Tabella I; Tabella II). Dopo la fase di raccolta dei dati è stato utilizzato Datadesk®, un programma finalizzato alla gestione, all’analisi statistica e alla produzione di grafici.
L’analisi dei dati è stata effettuata per mezzo del software statistico R.

Validazione dei dati e analisi della correlazione tra clinostatismo e ortostatismo

Nella prima fase dell’analisi, si è voluto anzitutto capire se ci fosse qualche correlazione tra le due condizioni in cui sono stati rilevati i parametri fisiologici: clinostatismo e ortostatismo. La correlazione è risultata molto alta, con una media di circa 0,9: per questo motivo si è potuto proseguire l’analisi statistica normalizzando le variabili in clinostatismo con quelle in ortostatismo, valutandone la variazione percentuale tra baseline e valore finale. Durante la valutazione delle curve di dispersione, un valore riferito alla pressione arteriosa sistolica aveva una forte diversità tra clinostatismo/ortostatismo, interferendo con la correlazione. Tale valore poteva pertanto verosimilmente essere definito come ‘’outlier’’. Dopo questa modifica, la correlazione clinostatismo/ortostatismo per la pressione arteriosa sistolica è passata da un valore di 0.75 a 0.93, in linea con quelle riscontrate per le altre variabili. Si è effettuata una riespressione dei dati come differenza fra dopo-trattamento e baseline, il tutto rapportato allo stato di baseline, potendo valutare, in termini percentuali, gli eventuali incrementi e/o decrementi dei valori indipendentemente dal loro valore assoluto di partenza; in questo modo si è potuto procedere ad un’analisi di tipo comparativo.

Analisi dei cambiamenti proporzionali tra i tre gruppi relativamente alle variabili cardiologiche

Le due più importanti variazioni percentuali relative si sono osservate nella media della frequenza cardiaca (riduzione del 12%) e nella variabilità della frequenza cardiaca nel dominio del tempo (aumento del 170 %), espressioni entrambe di attivazione vagale (Figura I, Figura II).
Per quanto riguarda l’intervallo RR si è assistito a un suo incremento percentuale relativo nel gruppo sperimentale rispetto ai due gruppi controllo (Figura III). I dati relativi alla variabilità dell’intervallo RR mostrano un miglioramento nel gruppo sperimentale ma sono caratterizzati da un errore standard elevato e necessitano di un campione più ampio per guadagnare di significatività. Tuttavia, poiché l’intervallo RR è inversamente proporzionale alla frequenza cardiaca, era prevedibile che a una riduzione della frequenza corrispondesse un aumento di tale intervallo.

Figura 1

 

Figura 2

 

Figura 3

Effetti dell’ ACT sulle variabili psicologiche

Data l’esigua numerosità dei partecipanti, non sono state fatte analisi inferenziali sui diversi gruppi.

Analisi descrittive tra i gruppi

Si riportano, di seguito, i grafici più significativi relativi alle variabili psicologiche misurate nelle tre fasi differenti e relativamente ai tre gruppi. Trattandosi di uno studio pilota caratterizzato da una esigua numerosità del campione non è stato possibile evidenziare delle differenze significative né entro i gruppi né tra di essi. Tuttavia, è stato possibile riscontrare un andamento peculiare del gruppo sperimentale rispetto alle differenti fasi di misurazione e agli altri gruppi relativamente agli indici di sintomatologia depressiva valutata mediante Beck Depression Inventory-II e il processo di azione impegnata valutato tramite il Valued Living Questionnaire.

In relazione alla sintomatologia depressiva si osserva un peggioramento della medesima (all’interno di un range di normalità) del gruppo sperimentale nella fase di misurazione effettuata durante il trattamento psicoterapeutico; è possibile notare lo stesso peculiare andamento alle misure del Valued Living Questionnaire, a fronte di un trend caratterizzato da assenza di particolari evidenti variazioni, nelle differenti fasi, degli altri gruppi (Figure IV, V). E’ importante riportare come i valori di baseline del gruppo sperimentale rispetto alle misure del Valued Living Questionnaire siano più elevati rispetto ai due gruppi di controllo, indicando una presumibile maggiore coerenza tra domini valoriali e azioni congruenti.

Per quanto riguarda la sintomatologia ansiosa, la percezione del proprio stato di salute generale, gli indicatori di flessibilità psicologica e le variabili “impatto patologia cardiaca sulla qualità della vita e percezione dello stato di funzionamento del cuore (queste due ultime misurate tramite self report non validati) non si sono riscontrati trend degni di attenzione tra il pre e post trattamento in nessuno dei tre gruppi.

Figura 4

 

Figura 5

Risultati

Il presente lavoro è stato condotto su una coorte di 18 pazienti di età media pari a 62 anni, con esiti recenti di rivascolarizzazione miocardica chirurgica, ricoverati presso il reparto di Prevenzione e Riabilitazione Cardiovascolare Don Gnocchi di Parma. Il campionamento ha tenuto conto di alcuni criteri di esclusione, ovvero di tutte quelle condizioni psichiatriche/organiche che potevano influire ulteriormente sull’assetto neurovegetativo dei pazienti. Da questo studio pilota è emerso che, in fase di prevenzione secondaria, l’utilizzo di un intervento basato sull’ ACT di sole 5 sedute per un totale di circa 10 ore di trattamento potrebbe modificare alcune variabili cardiovascolari come frequenza cardiaca a riposo e Heart Rate Variability. Tali variabili hanno un comprovato e significativo valore prognostico per pazienti con cardiopatia ischemica (Lombardi, 2000) ma sono alterate anche in particolari stati emozionali come condizioni di ansia, stress e depressione (Sirois & Burg, 2003; Yeragani et al., 1993) mostrando un’alterazione dell’assetto autonomico e una riduzione della variabilità della frequenza cardiaca.

All’interno del gruppo sperimentale si è riscontrato un decremento percentuale relativo di circa il 12% della frequenza cardiaca media e nella variabilità della frequenza cardiaca nel dominio temporale (espresso come deviazione standard della frequenza cardiaca media) che è rappresentata da un aumento del 170%. Per quanto riguarda l’intervallo RR, si registra un aumento percentuale relativo al gruppo sperimentale rispetto ai due gruppi di controllo; tuttavia, poiché l’intervallo RR è inversamente proporzionale alla frequenza cardiaca, si prevede che la riduzione della frequenza cardiaca possa corrispondere ad un aumento di tale intervallo. I dati per la variabilità dell’intervallo RR (rappresentati come deviazione standard dell’intervallo RR) mostrano un miglioramento nel gruppo sperimentale, tuttavia, appaiono caratterizzati da un errore standard elevato e richiedono un campione più grande per ottenere un maggiore significato.

Si possono avanzare, infine, delle ipotesi interpretative dei dati psicologici pur in assenza di un’analisi statistica inferenziale. Per quanto concerne la sintomatologia depressiva, nonostante in fase di baseline non fosse stata riscontrata alcuna condizione di psicopatologia è stato possibile osservare un andamento peculiare nel gruppo sperimentale rispetto ai due gruppi di controllo: dalla misurazione effettuata tramite Beck Depression Inventory II, tra la seconda e la terza seduta, si è riscontrato una deflessione del tono dell’umore rispetto alla misurazione in baseline con un miglioramento nella fase di fine trattamento. Si riscontra lo stesso andamento peculiare per quanto riguarda la variabile misurata tramite il Valued Living Questionnaire finalizzato alla valutazione dei domini valoriali e delle azioni congruenti con tali domini. A fine trattamento i risultati, nonostante appaiano simili a quelli della baseline potrebbero risultare qualitativamente diversi poiché caratterizzati da una consapevolezza differente. Non emergono cambiamenti significativi e/o trend caratteristici per le altre variabili psicologiche indagate.

Discussione

Attualmente, appaiono diversi e sempre più in aumento gli studi presenti in letteratura che mostrano come il modello di intervento basato sull’ ACT si dimostri efficace nel promuovere comportamenti sani, migliorando il benessere psicologico in pazienti con patologie fisiche croniche di varia natura (Prevedini et al.,2011; Lundgren, Yardi, Melin & Kies, 2008; Dahl, Wilson, Nilsson, 2004; McCracken, Vowles & Eccleston, 2005). Ad oggi la letteratura mostra l’efficacia di interventi psicoterapeutici, in particolare di natura cognitivo-comportamentale su pazienti con malattia cardiovascolare sia su fattori di rischio psicologico che su indicatori di prognosi cardiovascolare (Biondi-Zoccai et al., 2016).

Questo studio pilota si presenta, all’interno del panorama scientifico, come il primo studio pilota clinico randomizzato rivolto a pazienti con cardiopatia ischemica in cui si dispone di dati non solo rispetto a variabili psicologiche ma anche cardiache conseguentemente ad un training basato sull’ ACT.

Dai risultati preliminari emerge come il gruppo sperimentale abbia evidenziato un trend di miglioramento di alcuni indici prognostici cardiovascolari quali Heart Rate Variability (aumento del 170%), e frequenza cardiaca media (riduzione del 12%), mentre non è stato possibile evidenziare un effetto significativo sulle variabili psicologiche indagate, né entro né tra i gruppi.

Benchè i punteggi ottenuti non siano risultati significativi, presumibilmente anche a causa dell’esiguo numero dei pazienti, è
stato comunque possibile notare, attraverso un’analisi di tipo qualitativo, un andamento peculiare del gruppo sperimentale rispetto agli altri due gruppi di controllo, in particolar modo, relativamente alla sintomatologia depressiva misurata tramite il Beck Depression Inventory-II e all’azione impegnata misurata tramite il Valued Living Questionnaire: durante il corso del trattamento è stato possibile osservare, nel gruppo sperimentale, diversamente dai gruppi di controllo, una lieve deflessione del tono dell’umore rispetto agli altri tempi di misurazione che potrebbe essere associata, nella stessa fase, ad una percezione di maggiore discrepanza tra importanza attribuita ai propri domini valoriali e commitment. Questo peculiare andamento potrebbe presumibilmente essere connesso all’acquisizione di maggiore consapevolezza, durante il percorso terapeutico, della natura delle proprie emozioni e dei propri comportamenti, conseguenti all’attivazione di processi quali accettazione, disponibilità, contatto con i valori, che si ritiene essere uno tra i principali obiettivi del modello dell’ ACT.

I pazienti del gruppo sperimentale hanno inoltre riferito di aver acquisito una maggiore consapevolezza circa i propri fattori di rischio per la salute cardiaca a livello sia comportamentale che di funzionamento cognitivo con l’adozione di comportamenti funzionali a uno stile di vita protettivo per la salute del cuore (dieta, assenza di fumo, attività fisica, aderenza farmacologica, ecc.), peraltro non previsti tra gli indicatori di esito specifici. Le peculiari caratteriste di funzionamento psicologico e comportamentale considerate tra i trigger di un cattivo funzionamento cardiaco riferite dai soggetti sperimentali nel corso degli incontri, e ascrivibili allo stile di personalità di tipo A e D (Molinari et al., 2007), sono state le seguenti: “super-responsabilità”, “sregolatezza”, “timore”, “primeggiare”, “incontentabile”, “rigidità”. La maggior parte di questi sostantivi e verbi riportati, fa riferimento a modalità comportamentali finalizzate alla gestione di pensieri ed emozioni difficili da accettare relativi alla propria condizione di essere umano e alla propria storia di vita: “debole”, “non amabile”, “insicuro”, “vuoto”,” invisibile”, “fallito”. I soggetti consideravano, nello specifico, la modalità di gestione di questi limiti alla base della messa in atto di azioni nocive per la loro salute psicologica e fisica.

Alla luce di ciò è interessante notare come, nonostante non siano stati rilevati indici di patologia ai test preliminari per ansia e depressione, il colloquio clinico ha permesso di mettere in evidenza l’esistenza di un funzionamento psicologico caratterizzato, in particolar modo, da estrema rigidità comportamentale, difficoltà nello sperimentare e riconoscere le proprie emozioni, inflessibilità psicologica, restringimento del repertorio comportamentale, appiattimento affettivo e rimuginio mentale, processi associati spesso alla patologia ansiosa e depressiva che, benchè inizialmente non sia stata posta in evidenza dagli psicometrici, presumibilmente, potrebbe aver avuto un ruolo nella modalità di fronteggiamento della malattia cardiaca.

Ciascuno dei pazienti, nel corso del trattamento, è diventato, dunque, consapevole non solo delle emozioni predominanti che hanno caratterizzato la sua vita ma di come il tentativo di gestirle, soffocarle e l’apparente percezione di controllo sulle medesime lo avesse portato a perdere di vista i principi guida che orientano e guidano ciascuno, durante il percorso della propria esistenza.

Conclusioni: gli effetti dell’ ACT sui pazienti con malattia cardiovascolare

In conclusione, il presente lavoro si pone come il primo studio pilota clinico randomizzato che ha utilizzato un intervento basato sul modello dell’ ACT su pazienti con malattia cardiovascolare, indagandone variabili psicologiche e variabili di prognosi cardiaca, per le quali è emerso un miglioramento nella frequenza cardiaca a riposo, Heart Rate Variability, intervallo RR e rispettiva deviazione standard.

Attualmente, le linee guida relative alle attività psicologiche (Sommaruga et al., 2003) in contesti di riabilitazione cardio-vascolare raccomandano interventi psicoeducativi e di stress management, nonostante nell’ultimo decennio il numero degli studi volti a valutare l’efficacia di interventi psicoterapeutici su problematiche cardiovascolari sia aumentato notevolmente, evidenziando un effetto positivo su variabili psicologiche quali ansia, stress, depressione oltre che sulla mortalità e morbilità cardiovascolare (Whalley et al., 2014).

Tuttavia la proposta di interventi di carattere psicoterapeutico negli ambienti riabilitativi cardiovascolari si rende di difficile applicabilità a causa dei tempi di degenza che non superano spesso le due settimane, in contrasto con la durata degli interventi psicoterapeutici che in alcuni casi hanno richiesto dalle 24 settimane (Huffman et al, 2014) agli 8 mesi (Rollman et al, 2009), con la conseguente difficoltà di ricontattare il paziente dopo la dimissione, e la mancanza di risorse economiche volte a finanziare un trattamento di questo tipo.

Un intervento basato sull’ ACT che consta di solo cinque sedute per un totale di dieci ore di trattamento, peculiare sia per modi che per tempi di somministrazione, potrebbe inserirsi, in modo meno difficoltoso, rispetto ad un percorso psicoterapeutico lungo e dispendioso, all’interno delle dinamiche di un reparto riabilitativo e permetterebbe un’implementazione del piano di prevenzione secondaria e terziaria, con un giovamento per i pazienti anche dal punto di vista neurovegetativo.

È importante sottolineare come i risultati riportati da questo studio pilota sono ancora dei riscontri preliminari e che le prospettive future mirano ad aumentare l’ampiezza del campione in aggiunta a un approfondimento dell’esistenza di una correlazione tra modificazioni psicologiche e modificazioni fisiologiche per le quali, in questa sede, non è stato possibile valutarne un andamento comune. Un altro obiettivo è costituito dalla valutazione in follow-up delle variabili oggetto di indagine al fine di osservare nel tempo l’evoluzione dei risultati ottenuti all’interno di ciascun gruppo e tra gruppi sottoposti a condizioni differenti.

Sarebbe auspicabile, inoltre, il confronto tra l’efficacia di un modello di intervento basato sull’ ACT e altre tipologie di interventi psicoterapeutici in modo da poter verificare l’esistenza di un’ efficacia maggiore di un modello di intervento rispetto ad un altro sugli indici di prognosi cardiaca indagati.

Incertezza ed interdipendenza: il ruolo della performance adattiva nel contesto lavorativo

La performance adattiva acquista crescente rilevanza quando ci riferiamo a fattori come l’avvento della tecnologia, la ridefinizione del lavoro, i cambiamenti della strategia etc. Per ciò che riguarda la sua definizione, anche qui esistono concezioni differenti, ma nonostante ciò la maggior parte dei ricercatori concorda nel sottolinearne gli aspetti che riguardano l’apprendimento e l’applicazione delle nuove conoscenze e competenze alle esigenze di attività che cambiano (Mariani, 2011).

 

Al giorno d’oggi i contesti organizzativi sono soggetti all’influenza di un ambiente che si mostra sempre più complesso e dinamico. La globalizzazione dei mercati, la forte competizione che ne deriva, insieme all’avvento delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione, hanno portato ad una trasformazione veloce e considerevole del mondo del lavoro.

In risposta a questi avvenimenti, le caratteristiche del lavoro sono mutate e così anche i requisiti richiesti, i ruoli ed i profili (Mariani, 2011). Questa situazione fa da cornice al cambiamento del significato che viene dato alla performance lavorativa. Tradizionalmente, la performance lavorativa veniva considerata in termini di competenza con il quale l’individuo porta a termine i compiti accuratamente specificati nella descrizione del lavoro (Murphy e Jackson, 1999). Oggi, il cambiamento della natura del lavoro e delle organizzazioni ha sfidato le tradizionali visioni della performance lavorativa (Ilgen & Pulakos, 1999). Le tendenze attuali, considerano i ruoli lavorativi in contesti organizzativi dinamici, ampliando il concetto di prestazione lavorativa. In altre parole, per ottenere performance efficaci, gli individui e i gruppi di lavoro, così come le stesse organizzazioni, devono adattarsi prontamente ai nuovi compiti, alle richieste lavorative e più in generale al mercato lavorativo. In quest’ottica, lo spostamento del focus va dalla stretta considerazione di compiti specifici e doveri inerenti a posizioni fisse, alla considerazione di un più ampio range di competenze professionali che emergono dai ruoli lavorativi (Sarchielli, 2008 in Mariani 2011).

Nel presente elaborato verranno presentati alcuni contributi alla comprensione delle prestazioni lavorative, in risposta ai mutamenti dei contesti lavorativi. In seguito, verranno prese in considerazione le caratteristiche del contesto lavorativo e successivamente verranno trattati i cambiamenti che si ripercuotono sulle caratteristiche del lavoro. Più avanti, infine, sarà approfondito il costrutto di performance adattiva.

Come cambia il concetto di prestazione lavorativa

In seguito all’aumentare della complessità del lavoro, in letteratura, la prestazione lavorativa viene rappresentata come un punto nevralgico di complessa definizione (Austin e Villaova 1992; Campbell 1990; Murphy e Cleveland 1995; Shmidt e Hunter, 1992). A spiegarne l’importanza troviamo la sua implicazione nei processi che riguardano la gestione delle risorse umane. Per questo motivo, l’attenzione che il costrutto ha ricevuto da parte di ambiti alquanto eterogenei, ha portato l’apparizione di diverse correnti interpretative.

Come affermano Binning e Barrett (1989 in Pini e Mariani, 2014), è possibile leggere le prestazioni lavorative seguendo due correnti: la prima si riferisce alle prestazioni seguendo un approccio più riferito ai comportamenti, mentre la seconda si rifà ai risultati portati a termine. Per sormontare questo dualismo, Viswesvran e Ones (2000), adottano un approccio più inclusivo, concettualizzando la performance lavorativa come un congiunto di azioni, comportamenti e risultati che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi organizzativi.

Successivamente, Motowidlo (2003), sottolinea l’importanza di differenziare i concetti di prestazione, comportamento e risultato. L’esigenza di questa differenziazione nasce dal presupposto che l’insieme di comportamenti eseguiti durante lo svolgimento del proprio lavoro, siano scindibili in comportamenti che non apportano nessun contributo diretto al raggiungimento degli obiettivi organizzativi e comportamenti che sono direttamente collegati a questi ultimi. Motowidlo (2003), dunque, definisce la prestazione lavorativa come il valore atteso dall’organizzazione in seguito ad episodi comportamentali che un individuo mette in atto in un determinato periodo di tempo. In aggiunta, viene effettuata una seconda differenziazione, che separa i comportamenti dai risultati. Come spiegano Motowidlo (2003) e Viswesvaran (2001), infatti, nonostante la distinzione tra comportamenti e risultati non possa essere del tutto netta, è importante poiché tiene conto del grado di controllo sui compiti e dell’influenza che questo può avere sui risultati.

Task e contextual performance

In merito all’aspetto che riguarda le diverse componenti della performance lavorativa, intesa come costrutto multidimensionale, Borman e Motowidlo (1993) effettuano una distinzione tra task performance (la performance riferita al compito) e contextual performance (la performance riferita al contesto). Come spiegano gli autori, la task performance viene definita come l’efficacia con la quale le attività dei lavoratori contribuiscono a quello che viene chiamato “technical core” dell’organizzazione. Quando parliamo di technical core, ci riferiamo a quelle attività che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi organizzativi sia direttamente, per esempio tramite l’implementazione di un processo tecnologico, che indirettamente, ovvero tramite la lavorazione di materiali o la prestazione di servizi (Borman e Motowidlo, 1993). Un esempio in grado di facilitare la comprensione della dimensione della task performance, può esserci dato dall’analisi dell’attività lavorativa di vendita. La task performance, in questo caso, include le conoscenze sul prodotto venduto, la finalizzazione della vendita e la gestione del tempo. Allo stesso modo, i comportamenti inerenti alla task performance per il lavoro svolto da un pompiere, avranno a che vedere con operazioni di salvataggio, come l’applicazione di procedure di estrazione delle persone dalle macerie in seguito ad un terremoto.

Dall’altro lato, il dominio della contexual performance, espande il costrutto della performance lavorativa, includendo una varietà di comportamenti non specifici del lavoro (Borman e modowildo, 1993), che quindi non fanno formalmente parte del ruolo lavorativo in sé (Conway, 1999). Pertanto, a differenza delle attività legate al compito, che vengono di norma esplicitate nella job description e variano considerevolmente rispetto al tipo di ruolo, le attività contestuali non sempre sono riportate nella job description e tendono ad essere più simili quando effettuiamo comparazioni tra diversi lavori (Borman e Motowidlo (1993). La contextual performance, si riferisce a quelle attività che supportano il contesto organizzativo, sociale e psicologico, catalizzando così, i processi e le attività legate ai compiti (Borman e Motowidlo, 1997).

Successivamente, Viswesvran e Ones (2000), approfondiscono un’area di comportamenti affine al concetto di contextual performance: i comportamenti di cittadinanza organizzativa. Questi comportamenti, vennero indagati originariamente da Smith, Organ e Near (1983; 1988) e si riferiscono a dimensioni come l’altruismo e la tendenza a conformarsi alle regole. Così come la prestazione legata al contesto, anche i comportamenti di cittadinanza organizzativa vengono descritti con accezione discrezionale.

Fino ad ora, abbiamo parlato di comportamenti sul lavoro con valenza positiva. Le dimensioni presentate precedentemente, infatti, posseggono un certo grado di desiderabilità. Tuttavia, alcune condotte risultano essere negative per l’organizzazione. Ne fanno parte i “comportamenti controproducenti”, che vengono descritti da Sackett e DeVore (2001 in Mariani 2011) come qualsiasi comportamento intenzionale da pare di un membro dell’organizzazione, che sia considerato da quest’ultima come contrario ai suoi interessi legittimi.

Assistiamo, dunque, ad una graduale assunzione del ruolo lavorativo come componente strettamente interconnessa con la totalità del sistema organizzativo. Questo passaggio ad una concezione del ruolo lavorativo come parte integrante di un sistema interconnesso con l’ambiente, ha portato i recenti approcci a concentrarsi sull’intero insieme di comportamenti che contribuiscono all’efficacia dei risultati organizzativi. Il primo aspetto da sottolineare in questa tendenza, è senza dubbio la rilevanza che sta assumendo, non solo il modo di svolgere un determinato compito, ma anche il modo in cui l’individuo regola l’insieme di comportamenti legato al contesto in cui il compito viene svolto.

In relazione a quanto appena detto, uno studio di Griffin, Neal e Neale (2000)1 , mostra come la percezione dell’efficacia della performance dei controllori del traffico aereo, da parte dei supervisori, sia influenzata dalla contextual performance. L’aspetto interessante dello studio risiede nella rilevanza dei comportamenti legati al contesto, anche per ruoli strettamente tecnici. Lo studio riflette un primo interesse degli autori per quello che è l’ambiente sociale in cui si manifesta la prestazione. Diversi anni dopo, infatti, Griffin, Neal e Parker (2007), riprendono il concetto di ambiente organizzativo, concentrandosi su alcune condizioni attuali del mondo del lavoro, che hanno caratterizzato il consequenziale cambiamento dei ruoli lavorativi.

Nei prossimi paragrafi verranno presentati alcuni contribuiti che forniscono una chiave di lettura dell’evoluzione del contesto lavorativo e l’impatto che ha avuto sullo studio della performance lavorativa.

Incertezza ed interdipendenza nelle organizzazioni: la performance adattiva

L’interdipendenza e l’incertezza negli ambienti lavorativi, sono questioni che hanno acquisito una certa consistenza nelle organizzazioni (Burns e Stalker, 1961; Perrow, 1967; Thompson, 1967 in Griffin, Neal e Parker, 2007). L’interesse verso i temi riguardanti le caratteristiche dell’ambiente, nasce proprio dall’esigenza di incorporare i fattori del contesto organizzativo, in modo tale da avere una comprensione più ampia, in grado di spiegare e valutare la prestazione lavorativa degli individui. Pertanto, con l’intento di fornire delle linee guida per leggere adeguatamente la performance in seno ai cambiamenti che caratterizzano l’ambiente organizzativo, alcuni autori si sono concentrati sul modo in cui, essi stessi, dirigono il cambiamento della natura dei ruoli lavorativi.

Nel 2007 Griffin, Neal e Parker, mettono a punto un modello di performance, focalizzandosi su due aspetti importanti degli odierni contesti lavorativi: l’incertezza e l’interdipendenza. Tali condizioni, sono scaturite dalla competizione che caratterizza i mercati, dai cambiamenti tecnologici e dalla maggiore attenzione diretta alle esigenze dei clienti (Burns e Stakler, 1961). Riprendendo la distinzione strutturale effettuata da Borman e Motowidlo (1993), è evidente che la task e la contextual performance siano concepite come due dimensioni distinte e separate. Tuttavia, nonostante la contextual performance sia definita convenzionalmente come un insieme di comportamenti discrezionali, numerose ricerche ne riconoscono l’importanza per il raggiungimento dei risultati organizzativi (Griffin, Neal e Neale, 2000). Seguendo questa linea, Griffin, Neal e Parker (2007) si concentrano sul modo in cui l’interdipendenza nei contesti organizzativi, mette in risalto il valore dei comportamenti mirati a costruire e mantenere il contesto sociale.

Basandosi sulla teoria del ruolo (Kats e Kahn, 1978), gli autori descrivono l’organizzazione come un sistema di comportamenti interdipendenti. Secondo loro, di fatti, i comportamenti mirati a costruire e mantenere il contesto sociale organizzativo, assumono valore quando i sistemi che compongono un’organizzazione si configurano come interdipendenti. Quando parliamo di interdipendenza, ci riferiamo alla cooperazione delle varie componenti del sistema organizzativo, che lavorano insieme per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi (Cummings e Blumberg, 1987). Nei sistemi interdipendenti, il comportamento dell’individuo ha un impatto non solo sull’efficacia dell’individuo stesso, ma anche sull’efficacia dei gruppi, dei team e dell’organizzazione stessa (Murphy & Jckson, 1999). Seguendo questo approccio, è possibile notare che quando le attività del ruolo lavorativo sono interdipendenti dagli altri ruoli, il collegamento tra l’efficacia e i comportamenti acquisisce una certa complessità (Griffin, 2007). Per esempio, aiutare un collega membro del proprio team, non contribuirebbe direttamente all’efficacia dell’individuo che mette in atto quel comportamento, ma potrebbe contribuire all’efficacia dell’intero team.

Mettendo da parte per un momento il concetto di interdipendenza, ci concentriamo adesso su un altro aspetto che caratterizza i contesti lavorativi odierni: l’incertezza.
Nel loro studio, gli autori affrontano il bisogno di fronteggiare situazioni d’incertezza nelle organizzazioni (Burns & Stalker, 1961; Perrow, 1967; Thompson, 1967). L’incertezza, viene definita da Kats e Khan (1978) come una caratteristica del contesto organizzativo, che si contraddistingue per la poca prevedibilità degli input, dei processi o degli output dei sistemi lavorativi (Wall, Cordery & Clegg, 2001). Ma quali sono le ripercussioni che questi cambiamenti hanno sui ruoli lavorativi? Se prima, essere consapevoli dei requisiti richiesti dai ruoli lavorativi fosse pressoché di norma, al giorno d’oggi i ruoli sono connotati da una grande flessibilità (Sarchielli, 2008). In questo caso, come spiegano Griffin e collegi, (2007), i ruoli lavorativi emergono dinamicamente in risposta alle esigenze del contesto. L’incertezza nei contesti organizzativi plasma i comportamenti che vengono valutati durante lo svolgimento del lavoro, determinandone il grado di formalizzazione. Gli individui, infatti, per fronteggiare situazioni nuove, mettono in atto a loro volta, dei nuovi comportamenti.

Il modello presentato dagli autori, propone la categorizzazione di tre tipi di comportamenti: abilità messe in atto, adattamento e proattività. Questa prima distinzione, risponde al bisogno di fare chiarezza circa il carattere multidimensionale della performance adattiva lavorativa. In aggiunta, vengono presentati tre livelli, che vedono l’individuo come attore organizzativo, rispettivamente inserito in differenti contesti. I livelli che vengono presi in considerazione sono: il contesto individuale, gruppale ed organizzativo.

Tuttavia, nonostante la peculiarità del modello consista nella possibilità di identificare 9 sottodimensioni distinte ed integrate in un unico costrutto di prestazione di ruolo (Pini e Mariani, 2014), in questo elaborato ci concentreremo solo su quello della performance adattiva.

La performance adattiva secondo il modello di Griffin, Neal e Parker

Uno dei primi tentativi di descrivere quella che viene intesa performance adattiva è da ricondursi ad Allworth e Hesketh (1999 in Mariani 2011) che si riferivano ai comportamenti di fronteggiamento dei cambiamenti e al trasferimento dell’apprendimento ad altri.

La performance adattiva acquista crescente rilevanza quando ci riferiamo a fattori come l’avvento della tecnologia, la ridefinizione del lavoro, i cambiamenti della strategia etc. Per ciò che riguarda la sua definizione, anche qui esistono concezioni differenti, ma nonostante ciò la maggior parte dei ricercatori concorda nel sottolinearne gli aspetti che riguardano l’apprendimento e l’applicazione delle nuove conoscenze e competenze alle esigenze di attività che cambiano (Mariani, 2011). Per sottolineare la centralità dell’adattamento dell’individuo all’ambiente, Griffin, Neal e Parker (2007), parlano di adattamento in un’ottica di fronteggiamento dell’incertezza che influenza i ruoli lavorativi. Questa emergente dimensione della performance adattiva, viene descritta tenendo conto dei tre livelli contestuali nei quali l’individuo può trovarsi:

  • L’adattamento a livello individuale, riflette il grado in cui gli individui affrontano, rispondono e supportano i cambiamenti che fanno parte del loro ruolo lavorativo.
  • L’adattamento a livello gruppale, riflette il grado in cui gli individui fronteggiano, rispondono e supportano i cambiamenti che interessano i loro ruoli all’interno di un gruppo.
  • L’adattamento a livello organizzativo, riflette il grado in cui gli individui fronteggiano, rispondono e supportano i cambiamenti che gravano sui loro ruoli, in qualità di membri di un’organizzazione.

Come spiega Pulakos (2000), l’adattamento individuale fa capo alla necessità di avere a che fare con situazioni lavorative incerte, dettate ad esempio dai cambiamenti tecnologici. Nell’epoca attuale, d’altronde, gli individui sono tenuti a fronteggiare la repentina evoluzione delle tecnologie necessarie per svolgere i compiti lavorativi. Così come per il singolo individuo che si trova ad affrontare cambiamenti nei loro compiti individuali, l’incertezza del contesto impatta anche sull’individuo in qualità di membro del team e dell’organizzazione. I team, infatti, sono chiamati ad adattarsi non solo ai cambiamenti esterni, ma anche a quelli dei singoli individui che li compongono (Kozlowski, Gully, Nason e Smith 1999) e allo stesso tempo, ai cambiamenti che interessano l’organizzazione in sé, come ad esempio cambiamenti di strategie.

In questo quadro, è importante riprendere il concetto di interdipendenza che caratterizza tutti i sistemi dell’organizzazione. Come spiegano Griffin, Neal e Parker (2007), i processi attraverso i quali i cambiamenti organizzativi sono scaturiti da cambiamenti all’interno dei ruoli oppure a livello del team. E ancora, i cambiamenti a livello organizzativo, potrebbero ripercuotersi sui ruoli individuali, portando i lavoratori a svolgere nuovi compiti tecnici, per i quali è necessario l’utilizzo di una determinata nuova tecnologia.

La performance adattiva secondo il modello di analisi integrata di Mariani

Con l’intento di chiarificare la molteplicità di fattori individuali ed ambientali che incidono sulla performance, Mariani (2011) presenta un modello integrato di performance, a partire da un ampliamento del modello di Leplat e Cuny (1984). La prima sostanziale differenza tra il modello originale e quello proposto da Mariani, è il focus che viene posto, non più sui comportamenti e sulle attività, bensì sulle prestazioni. Così come per il modello di Griffin, Neal e Parker (2007), anche qui si tiene in considerazione, non solo l’influenza esercitata dall’ambiente organizzativo a vari livelli, ma anche l’interconnessione tra questi ultimi. Con l’ausilio di questo modello, è possibile leggere la performance adattiva come funzione di tre elementi: gli aspetti di base, i comportamenti e i risultati, considerati da un punto di vista individuale, situazionale e di ruolo.

Gli aspetti di base del modello della performance adattiva si posizionano al primo livello ed includono:

  • Variabili individuali: le abilità mentali, la self-efficacy, la flessibilità cognitiva e tutte quelle caratteristiche delle personalità come l’apertura all’esperienza, l’empatia, la tolleranza e l’autocontrollo.
  • Variabili contestuali: il clima organizzativo, gli stili di leadership, il feedback, il supporto e l’identificazione nell’organizzazione, l’apprendimento di gruppo e la giustizia organizzativa. Inoltre, viene identificata la dimensione relativa ai ritmi di lavoro in relazione alle richieste lavorative (variabilità temporale) e la giustizia organizzativa dell’espressione dell’equità percepita dai lavoratori sul rapporto costi/risultati.
  • Ruolo: si riferisce agli obiettivi inerenti al profilo lavorativo, alle norme a cui attenersi e ai valori in termini di identificazione della persona nella mansione ricoperta.

Al secondo livello del modello della performance adattiva troviamo dunque i comportamenti e i vari fattori d’influenza che agiscono sugli stessi:

  • Caratteristiche individuali del lavoratore: gli atteggiamenti, le motivazioni e i valori
  • Caratteristiche della situazione: come il clima organizzativo nell’espressione della percezione di equità nelle procedure lavorative.

Infine, al terzo livello della performance adattiva, troviamo i risultati e le conseguenze per l’individuo e l’organizzazione. Un aspetto interessante della rivisitazione del modello, risiede proprio nel prendere in considerazione, non solo le conseguenze dal punto di vista del lavoratore, ma anche dal punto di vista dell’organizzazione. In questo quadro, le conseguenze per l’individuo possono riferirsi ai ritorni economici, alla soddisfazione ed al prestigio, mentre quelle per l’organizzazione fanno capo ai risultati, ovvero la qualità e la quantità delle pratiche che un dipendente amministrativo ha evaso.

Chiaramente, è necessario non dimenticare che le conseguenze possono avere doppia valenza, tanto positiva, quanto negativa (Mariani, 2011).
Come è possibile notare, nell’ampliamento del modello di Leplat e Cuny (1984) proposto da Mariani (2011), viene largamente espresso il carattere interdipendente dei livelli e delle varie componenti dell’organizzazione. Di fatti, le caratteristiche personali e situazionali, così come anche i ruoli, vengono influenzati dagli stessi comportamenti. Ad esempio, durante lo svolgimento di determinate attività, il lavoratore svilupperà ulteriormente le sue competenze legate al ruolo in una prospettiva di ampliamento delle skills professionali e di adattamento al cambiamento. Ed allo stesso modo, i risultati e conseguenze scaturite dai comportamenti, andranno ad influenzare gli altri livelli.

Conclusioni

Alla luce di quanto detto fino ad ora, è doveroso riconoscere che, da vent’anni a questa parte, sono stati fatti notevoli progressi orientati alla comprensione della natura della performance lavorativa. In questo elaborato sono stati presentati alcuni dei contributi che riguardano lo sviluppo di nuovi costrutti, in risposta all’incertezza ed all’interdipendenza dell’ambiente lavorativo.

L’influenza esercitata dall’ambiente rappresenta al giorno d’oggi un fattore da tenere in stretta considerazione quando si parla di performance lavorativa. Come affermano Griffin, Neal e Parker (2007), la performance adattiva assume rilevanza quando i requisiti del ruolo non possono essere formalizzati a causa dell’incertezza del contesto.

Ci dirigiamo, così, verso ruoli lavorativi sempre più dinamici e flessibili, che richiedono una serie di nuove competenze, in grado di far emergere dinamicamente i ruoli, a partire dalla loro interdipendenza con l’ambiente.

L’intento di questo lavoro, è stato quello di mettere in luce la crescente complessità del contesto e dei ruoli lavorativi, presentando due modelli in grado di fare chiarezza sul modo in cui, nuovi tipi di performance assumono rilevanza in un’ottica di gestione e valorizzazione del capitale intellettuale.

In conclusione, come sottolineano i contribuiti scientifici, gli avanzamenti nella comprensione della performance adattiva, rappresentano un sostanziale punto di partenza verso studi più approfonditi, in grado di catturare aspetti che spiegano e predicono la prestazione lavorativa.

La sindrome del bluff – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Mi riferisco con questo termine ad una particolare costellazione di comportamenti e vissuti, alcuni dei quali riconosciuti come sintomatici ed altri intesi semplicemente come caratteristiche di personalità talvolta persino rinforzate dall’ambiente che hanno il loro nucleo profondo in un sentimento di inadeguatezza, incapacità, indegnità, insufficienza che potremmo sintetizzare in una parola come “difetto”.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La sindrome del bluff  (Nr. 22)

 

La sindrome del bluff e l’idea di sè come indegno e difettoso

Il soggetto sente di essere fatto male nella sua essenza, storto, difettato appunto. Questo sentimento nucleare persiste nonostante il soggetto possa avere e anche riconoscersi moltissimi successi in tutti i campi sia prestazionali che relazionali. Per spiegare questa apparente incongruenza il soggetto elabora la teoria del bluff per cui i successi sono attribuiti all’errore valutativo degli altri o a fattori esterni come il caso o la buona sorte. In realtà più semplicemente i due domini, quello dell’essere e quello del fare, non si influenzano reciprocamente e possono seguire traiettorie completamente diverse.

In realtà questo è vero solo in parte nel senso che mentre i successi non modificano il vissuto del difetto, gli insuccessi, anche minimi vengono presi in considerazione e lo confermano: sembra quindi che ci sia una intenzionalità a mantenere l’idea di sé come difettoso che viene difesa e rinforzata a tutti i costi. L’origine di tale vissuto è da ricercare in esperienze relazionali molto precoci ed è spesso costruita su vissuti corporei di debolezza verso forza, malattia verso salute, bruttezza verso bellezza che solo più tardi saranno riferiti agli aspetti di personalità. Le idee circa noi stessi sono state originariamente idee sul nostro corpo che rivendica così il primato nella costruzione dell’identità.

Il soggetto cerca sin da piccolo di compensare questo vissuto difettuale cercando successi in ambito prestazionale e specializzandosi in ciò può ottenere davvero grandi risultati.
Altrettanto può ricercare e ottenere grandi successi in ambito relazionale e per ottenere riconoscimenti essere completamente dedito agli altri o diventare un seduttore seriale.
Insomma si configura un quadro di narcisismo che galleggia senza modificarlo minimamente sul vissuto abissale del difetto.
Tanto è brillante e disponibile per relazioni superficiali tanto teme e fugge una intimità profonda immaginandola come lo smascheramento del bluff, per cui oscilla tra avvicinamenti e allontanamenti in quanto il bisogno che ha dell’altro è pari solo alla paura che gli incute. Paradossalmente a volte si lega a persone che lo criticano o lo disprezzano perché avverte che hanno colto la sua vera natura e possono stargli accanto nonostante essa: solo coloro gli appaiono interlocutori autorevoli e sinceri.

Cosa fare?

Probabilmente alcune delle più recenti tecniche terapeutiche (EMDR, mindfulness, sensomotoria) possono favorire una diversa rielaborazione delle esperienze precoci che hanno generato il vissuto del difetto. Altre possibili strade non sono mirate a modificare quel vissuto ma a limitarne le conseguenze dannose ed in particolare si può:
– rinunciare: evitare che il soggetto sia schiavo del riconoscimento altrui avendo consapevolezza che, tranne una momentanea soddisfazione, non cambierà nulla;
– “come se”: rivalutare costantemente l’oggettività dei suoi risultati prestazionali e professionali e rapportarsi con gli altri come se fosse davvero come appare e trattarsi scegliendo per sé cose di valore come se fosse davvero come appare.
– accettazione: non tentare di cambiare il vissuto difettuale attraverso l’inefficiente strategia della prestazione ma farne il centro della propria identità accomunando se stesso e l’umanità in una comprensione compassionevole e inesigente.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Dormire o fare sesso? I comportamenti della Drosophila, il moscerino della frutta

Scegliere tra fare sesso o dormire rappresenta un problema comportamentale e decisionale per molte specie, tra le quali troviamo la mosca della frutta.

 

Scegliere tra fare sesso o il dolce dormire rappresenta un problema comportamentale e decisionale per molte specie, tra le quali vi troviamo la mosca della frutta. Un team di ricercatori hanno rilevato che, nella specie Drosophila sia i maschi che le femmine devono affrontare questa problematica.

Secondo Michael Nitabach, professore di fisiologia cellulare e molecolare e professore di genetica alla Yale University, un organismo può svolgere un solo compito alla volta. Quello che si è scoperto in questo studio è l’esistenza di una connessione neuronale che regola l’interazione tra il corteggiamento (e desiderio sessuale) e il sonno.

Il Dottor Nitabach, in collaborazione con gli scienziati della Janelia Research Campus della Howard Hughes Medical Institute, della Sotheast University in Cina e University of San Diego, ha indagato l’ attività neuronale coinvolta in entrambi i comportamenti ed ha scoperto che i maschi della drosophila deprivati del sonno mostrano meno interesse nel corteggiamento, mentre tale deprivazione nelle femmine non ha nessun effetto sul comportamento sessuale.

Gli scienziati affermano che il comportamento degli esemplari maschili è facilmente spiegato come un comportamento adattivo: dormire piuttosto che fare sesso, ovviamente, non è un buon modo per tramandare i propri geni. Quindi, si chiedevano i ricercatori, perché le femmine sono più ricettive rispetto ai maschi anche durante il sonno?

Secondo il Dottor Nitabach, le femmine non possono permettersi di essere stanche perché tutto è nelle loro mani (o grembo) per contribuire a mandare avanti il “corredo genetico”. Oltre ad identificare questo pattern comportamentale tra la sessualità e il sonno, il team di ricerca ha anche rilevato quelli che sono i sottostanti collegamenti funzionali tra i centri neurali che mediano il desiderio sessuale e il sonno nella Drosophila.

Il Dottor Nitabach ha detto che gli esseri umani potrebbero avere un meccanismo molto simile, ma questo è tutto ancora da riscontrare.

cancel