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Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

Anche i paradigmi teorici che considerano la maggior parte delle azioni come governate da impulsi automatici e inconsci riconoscono che la coscienza possa avere una certa influenza tale da interrompere o prevenire azioni fortemente automatizzate (Baumeister, Masicampo & Vohs, 2011). Occorre una premessa: l’impatto di componenti neurochimiche o basate sulla relazione di attaccamento o sul condizionamento comportamentale su risposte automatizzate o coscienti non è escluso. Tuttavia l’interesse principale riguarda il modo in cui processi automatici e coscienti interagiscono nel governare il comportamento.

 

Il controllo cosciente del comportamento

Molte azioni che appaiono fortemente automatizzate possono essere sempre riportate sotto il controllo cosciente nel momento in cui il soggetto diviene consapevole della decisione che sta prendendo. Le emozioni per esempio sono una guida motivazionale che spesso sorge in automatico sulla base di esperienze apprese. Le persone che si rendono conto delle emozioni che stanno provando possono scegliere liberamente se seguire l’impulso verso cui sono guidati oppure no. Un primo punto: il potere determinante delle emozioni sul nostro comportamento è inversamente proporzionale a quanto le persone sono consapevoli di provare un’emozione (Lambie, 2009).

Allo stesso modo anche l’acquisizione di nuove informazioni a livello conscio può ripristinare il controllo del comportamento, favorendo l’interruzione di automatismi. Persone che ricevono un feedback molto negativo su di sé da uno sperimentatore riducono immediatamente il comportamento aggressivo nel momento in cui vengono informate che lo sperimentatore ha letto un profilo sbagliato. Innanzi alla coscienza di informazioni nuove le persone sono capaci di interrompere il proprio comportamento automatizzato (Krieglmeyer et al., 2009). Le istruzioni verbali (comprese a livello conscio) hanno il potere di azzerare l’effetto di apprendimenti condizionati, compresa la loro controparte fisiologica, vale a dire possono placare stati emotivi intensi (Colgan, 1970). Ne deriva che il comportamento governato da automatismi è più facile che rimanga tale e incontrollato qualora l’attenzione dell’individuo sia fissata rigidamente su stimoli congrui al proprio stato emotivo, in quanto ciò può ostacolare la raccolta di nuove informazioni (Malik, Wells & Wittkowski, 2015).

In sintesi, in un qualsiasi momento è possibile esercitare un controllo conscio sul comportamento volto a cambiare, interrompere o intensificare un’azione appresa. Questa operazione di libero arbitrio sembra facilitata da due aspetti:

  1. la consapevolezza che si sta provando uno stato emotivo/impulso all’azione,
  2. l’assenza di una rigida fissazione attentiva su stimoli congruenti all’impulso.

Il controllo degli automatismi

Un altro punto della nostra esplorazione del controllo cosciente del comportamento riguarda quanto spesso riusciamo ad agire volontariamente sui nostri automatismi. Talvolta la frequenza delle situazioni in cui esercitiamo controllo è mascherata alla nostra percezione dall’intensità delle occasioni in cui non la eseguiamo. Immaginiamo una persona permalosa che legge facilmente come offensive le parole degli altri e se ne difende con una reazione aggressiva come risposta appresa. Una descrizione dello stile comportamentale potrebbe catalogare la persona come impulsiva e disregolata, incapace di tollerare la minima frustrazione. Tuttavia la descrizione, come dire estetica, può restare cieca rispetto alla proporzione opposta: quante sono le situazioni in cui si è sentita offesa e ha scelto di non reagire aggressivamente, vale a dire di controllare consciamente il proprio impulso all’azione? Se il rapporto tra stimolo e risposta automatizzata è 100/10 (cinque agiti aggressivi per cento esposizioni all’impulso) rispetto a una proporzione di 4/1, quale potrebbe essere definito come più autoregolato? Ma soprattutto se il nostro disregolato riesce a controllare il 90% degli impulsi, potremmo davvero definirlo impulsivo?

Tuttavia, se ci fermiamo a una prospettiva estetica, potremmo contare cinque risposte aggressive contro una e in modo distorto classificarlo impulsivo. Purtroppo sull’esplorazione di questo punto cieco esiste al momento poca ricerca. Nell’ambito della Psicologia Clinica l’eccessiva attenzione alla descrizione della psicopatologia può portare con sé una scarsa attenzione agli elementi che discriminano un funzionamento patologico da uno non patologico. In sintesi, troppo poco si sa di come funziona la salute mentale.

Non solo esiste la concreta possibilità che in qualsiasi singolo momento nel tempo noi possiamo avere il controllo sul nostro comportamento (vedi articolo precedente), ma che i singoli episodi in cui manifestiamo un comportamento impulsivo vengano considerati come prova di una deficitaria capacità di autocontrollo, piuttosto che un singolo fallimento di autoregolazione che può far da spola ad altrettanti e forse maggiori episodi di autoregolazione efficace.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

La coscienza è una delle caratteristiche che definisce l’essere umano, è la facoltà che conferisce la possibilità di vivere esperienze soggettive e riferite a sé. Si presume che la coscienza abbia un ruolo nel governo del nostro comportamento.

 

Tuttavia, per molti anni, teorici e scienziati hanno sostenuto il ruolo dominante di processi inconsci e automatici nella genesi del comportamento umano. L’assunto che i pensieri consci siano un mero epifenomeno senza alcuna forza causale è stato sostenuto aggressivamente durante l’era comportamentista e anche quella psicoanalitica e risorge ora in un’epoca neuroscientifica facendo leva sugli studi circa l’automaticità del cervello che sembrano minare il concetto di libero arbitrio e considerare il comportamento umano come determinato da componenti neurochimiche piuttosto che genetiche o legate alla storia degli apprendimenti evolutivi.

Dalla metà del secolo scorso il cognitivismo si è innalzato come quasi unico baluardo a difesa del potere della coscienza, assumendo a tratti contorni rigidi e rischiando l’esatto opposto: trascurare l’esistenza di una modalità non pienamente consapevole di elaborare le informazioni.

Insomma, quanto gli aspetti inconsapevoli e consapevoli influiscano sulle nostre scelte è un dibattito tuttora aperto e dopo un periodo in cui la coscienza era tornata in auge i moderni studi neuroscientifici rischiano di oscurarne nuovamente il ruolo. Storia, temperamento e neurochimica determinerebbero il comportamento dell’essere adulto.

L’estremo di questa linea di pensiero risiede nell’affermazione di Bargh (1999):

In definitiva non c’è alcun futuro per il ruolo dei processi consci nella descrizione della mente in termini di forza di volontà e libero arbitrio.

Ma esiste uno spazio della coscienza nel determinare il comportamento umano?

Un riferimento utile per rispondere a questa domanda è la recente rassegna di Baumeister e colleghi (2011) nella quale viene esplorata a fondo la letteratura scientifica rispetto al ruolo dei processi consci nel determinare il comportamento umano. Tuttavia prima di iniziare l’esplorazione è utile precisare alcune questioni centrali.

Due livelli di coscienza

In primo luogo occorre definire di quale coscienza stiamo parlando. La maggior parte degli scienziati riconosce l’esistenza di almeno due se non più livelli di coscienza. Il primo, più basico, corrisponde generalmente a ciò che gli esseri umani condividono con gli altri mammiferi, vale a dire la possibilità di avere esperienza e di provare sensazioni. Il secondo livello è assunto come proprio degli esseri umani e include la capacità di attuare processi decisionali consapevoli complessi.

In secondo luogo occorre liberare il campo da certi fraintendimenti. Per esempio, se ci asteniamo dagli ideologismi, possiamo riconoscere ormai l’esistenza di un rapporto di mutua influenza tra processi consci e inconsci, questo di per sé dovrebbe escludere dal dibattito tutti i modelli teorici che non spiegano né descrivono questa interazione. La causa prossimale del movimento dei muscoli sono i potenziali evocati a livello neurale, che sono processi inconsci. Tuttavia, il fatto che un processo inconscio causi un fenomeno X, questo non annulla la possibilità che X possa essere determinato da un processo conscio. La domanda più utile è se i processi consci giochino un qualsiasi ruolo causale necessario lungo la catena che porta all’azione. Per esempio, molte prospettive anti-coscienza si concentrano su questo punto ed eliminano la possibilità che i processi consci causino il comportamento in modo indiretto, per esempio attraverso attivazione o manipolazione di processi inconsci. È il braccio meccanico della gru che causa il sollevamento del peso o il braccio umano che lo manovra attraverso il telecomando? Sia la causazione diretta che quella indiretta andrebbero tenute in considerazione.

In terzo luogo è altrettanto fallace l’idea diametralmente opposta per cui se un evento cerebrale precede il pensiero conscio, allora il pensiero conscio non è causa del seguente comportamento (Roediger et al., 2008). È difficile considerare che esistano possibili cause che non siano a loro volta causate da altro (Baumeister et al., 2011). Ancora una volta, la questione utile è se il pensiero conscio è un anello vitale nella catena causale piuttosto che un semplice effetto collaterale. Sebbene gli impulsi appresi si generino a livello inconscio, l’esito comportamentale (1) dipende da ciò che accade quando gli impulsi sono contemplati a livello conscio oppure (2) ciò che accade nella coscienza è quasi totalmente ininfluente per la definizione del comportamento e al più agisce come regolatore a posteriori?

Assieme agli studi di Roy Baumeister e dei suoi collaboratori proviamo a fare il punto sul ruolo della coscienza nel definire il comportamento e quindi anche su ciò che è comunemente conosciuto con il nome, quasi mitologico, di forza di volontà o libero arbitrio.

 


Coscienza & Comportamento:

1 – Libero dalla coscienza o libero arbitrio? Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci – Introduzione

2 – Emozioni, attenzione e controllo cosciente delle azioni – Il comportamento umano tra neurochimica e processi cognitivi consci e inconsci

3 – I comportamenti impulsivi e disregolati derivano da una scelta volontaria?

4 – Come le convinzioni sul controllo influenzano il comportamento


Il trauma tra le cause del disturbo ossessivo compulsivo in età evolutiva

Doc in età evolutiva e trauma: Vari studi hanno messo in luce la presenza di un legame tra esposizione a eventi traumatici in età evolutiva e il successivo sviluppo di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) (Huppert et al., 2005).

Di Egidio Marika, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Il DOC in età evolutiva

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è considerato un disturbo cronico e invalidante con alcune caratteristiche cliniche e psicopatologiche peculiari. Il DOC è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e/o compulsioni. Le ossessioni sono pensieri, impulsi, immagini ricorrenti e persistenti, vissuti come intrusivi e indesiderati. Esse causano, nella maggior parte degli individui, ansia o disagio marcati. Il soggetto tenta di ignorarle o sopprimerle o neutralizzarle con altri pensieri o azioni, ossia mettendo in atto le compulsioni.

Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (es. controllare, riordinare, lavarsi le mani) o azioni mentali (es. contare, pregare, ripetere alcune parole) che il soggetto attua in risposta a un’ossessione, secondo regole  ben definite e rigide. Le compulsioni hanno il fine di prevenire o ridurre l’ansia e il disagio, o di prevenire alcuni eventi temuti. Esse non sono collegate in modo realistico con l’evento che devono prevenire oppure sono eccessive rispetto ad esso (APA, 2013).

I sintomi del DOC in età evolutiva  sono simili a quelli riscontrati nel DOC adulto, e i due gruppi di pazienti sono trattati con terapie comportamentali e farmacologiche simili.

L’età di esordio del DOC in età evolutiva si colloca tra i 9 e gli 11 anni e presenta un’incidenza pari al 2-3% della popolazione infantile e adolescenziale (Kessler et al., 2005).

La manifestazione del disturbo può variare nel tempo e nelle circostanze. I sintomi possono accentuarsi in determinati periodi stressanti e modificarsi nella loro manifestazione.

È bene non confondere la sintomatologia ossessiva del bambino con normali comportamenti ripetitivi quali chiedere di ascoltare sempre la stessa fiaba o rivedere più e più volte lo stesso cartone animato. La maggior parte dei bambini infatti attraversa fasi di sviluppo caratterizzate dalla normale presenza di piccoli comportamenti compulsivi e rituali. Questi comportamenti si riscontrano comunemente in bimbi di età compresa tra due e otto anni, e sembrano essere funzionali al bisogno di controllare l’ambiente, gestire paure e ansie e sentirsi rassicurati. Al contrario, i rituali del bambino con Disturbo Ossessivo Compulsivo persistono nel tempo, sono invalidanti, provocano sofferenza, sentimenti di vergogna e portano all’isolamento.

I bambini e gli adolescenti con DOC in genere, hanno un livello di ansia elevato e parallelamente all’aggravarsi della sintomatologia ossessivo-compulsiva sviluppano vissuti depressivi di impotenza e inadeguatezza. Sono perfezionisti, eccessivamente attenti a tutti i dettagli e molto preoccupati di poter fare o dire qualcosa di sbagliato. Tendono a compiacere gli altri. Hanno pochi amici e tendono a evitare le situazioni sociali poiché, a causa del loro bisogno di controllo, faticano a stare con i coetanei, percepiti come imprevedibili e incontrollabili.

In età evolutiva le ossessioni più frequenti sono quelle che riguardano lo sporco e la contaminazione, le ossessioni dubitative (es. il dubbio che porte o finestre siano aperte, il timore di fare qualcosa di sconveniente davanti a tutti), di simmetria (es. il bisogno di verificare che certi oggetti siano disposti in una determinata posizione), di danno (es. timore di eventi catastrofici, della morte o della malattia propria o di una persona cara), di superstizione (es. necessità di rispettare determinate regole autodeterminate per evitare che si verifichi un evento sfortunato o temuto), aggressive (es. paura di poter danneggiare gli altri o se stessi). In adolescenza sono frequenti anche le ossessioni a contenuto religioso o sessuale.

A tali pensieri ossessivi fanno spesso seguito compulsioni di verifica (es. controllare la chiusure di porte, finestre, interruttori della luce, ecc. per evitare di provocare danni a sé e ad altri), di ripetizione (entrare e uscire dalla porta, leggere un testo più volte, cancellare e riscrivere parole finché non si sente di averlo fatto nel modo giusto), di ordine e simmetria relative alla disposizione degli oggetti.

Le possibili cause del DOC in età evolutiva

Come per tanti disturbi, non c’è ancora una letteratura sufficientemente robusta e condivisa sulle cause del DOC; per spiegarne le origini si fa di solito ricorso a teorie di tipo bio-psico-sociale.

Dal punto di vista strettamente psicologico, esistono evidenze del fatto che determinate esperienze e alcune caratteristiche educative contribuiscono alla genesi del disturbo.

A tal proposito, numerose evidenze empiriche e cliniche hanno dimostrato che il timore di colpa e l’elevato senso di responsabilità predicono la tendenza ad avere ossessioni e compulsioni e che la manipolazione della responsabilità influenza l’intensità e la frequenza dei comportamenti ossessivi sia nei pazienti che nei soggetti non clinici.

Anche una forte rigidità morale, di frequente frutto di una educazione particolarmente severa, con grande attenzione alle regole e con punizioni sproporzionate o difficilmente prevedibili, è un elemento generalmente ravvisabile nella storia delle persone che soffrono del DOC; si tratta di aspetti educativi che molto probabilmente favoriscono lo sviluppo di un senso di responsabilità eccessivo e una particolare sensibilità alla colpa.

In genere, i genitori di bambini e/o adolescenti con Disturbo Ossessivo Compulsivo sono soggetti poco capaci di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, appaiono poco spontanei e molto controllati. Hanno aspettative eccessive nei confronti dei figli e standard morali elevati. Danno molta importanza alla performance. Pongono al figlio richieste irrealistiche di maturità e responsabilità. Tendono a utilizzare punizioni quando il bambino non soddisfa le loro aspettative. Promuovono l’autonomia del figlio senza dare l’accoglimento e il sostegno affettivo necessario perché possa  affrontare liberamente nuove esperienze a livello relazionale, scolastico, sportivo e ludico.

A volte anche situazioni stressanti, come l’inizio della scuola, un trasferimento, una bocciatura o la separazione del genitori, possono essere gli eventi scatenanti del disturbo.

Il trauma tra le cause del DOC in età evolutiva

A tal proposito vari studi hanno messo in luce la presenza di un legame tra esposizione a eventi traumatici in età evolutiva e il successivo sviluppo di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (Huppert et al., 2005).

E’ noto che traumi in età evolutiva (fisici, emotivi o sessuali, neglect fisico ed emotivo) sono collegati a specifici cambiamenti neurobiologici e sono associati a una varietà di effetti avversi nel lungo termine, incluso un aumentato rischio di sviluppare patologie psichiatriche (Bierer et al., 2003; Gearon et al., 2003; Haller and Miles, 2004; Kendler et al., 2004; Langeland et al., 2004; Rayworth et al., 2004).

Lochner et al. (2002) hanno valutato l’associazione tra neglect emotivo, abuso fisico, sessuale ed emotivo da un lato, e sintomatologia ossessiva dall’altro, evidenziando una maggior presenza di sintomi ossessivi e compulsivi in adolescenti che avevano subito un trauma psicologico (in particolare neglect emotivo) rispetto a un gruppo di controllo non esposto a eventi traumatici.

Mathewes et al. (2008) confermano i risultati di Lochner et al. (2002) evidenziando una relazione diretta tra neglect, abuso emotivo e sviluppo di sintomatologia ossessivo-compulsiva.

L’abuso fisico, sessuale e altri eventi stressanti e traumatici sono associati a un maggior rischio di sviluppo di questo quadro sintomatologico. Nello specifico, il 6.7% delle vittime di abuso sessuale infantile sviluppa in età evolutiva i sintomi del DOC (APA, 2013).

Gothelf et al. (2004) hanno osservato che i bambini che avevano sviluppato un DOC si erano trovati a vivere un maggior numero di eventi traumatici nell’anno precedente l’esordio del disturbo.
In letteratura si parla di “DOC post traumatico” per definire il fenomeno per cui, a partire dall’esposizione all’evento traumatico, un bambino sviluppa i sintomi del DOC nel momento in cui inizia a tentare di fronteggiare ed evitare i pensieri e le immagini dolorose legate al trauma subito (Gershuny et al., 2002).

La presenza di eventi traumatici vissuti come incontrollabili nella vita del bambino può innescare, soprattutto in individui predisposti e con alta vulnerabilità genetica, una marcata tendenza a evitare il danno, a sopprimere i pensieri percepiti come pericolosi, a mettere in atto continui tentativi di controllo del proprio corpo, facilitando così l’insorgenza della sintomatologia.

La ricerca clinica ha mostrato l’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nel trattamento di pazienti con DOC (Hofmann et al., 2012). Tuttavia, in coloro che hanno vissuto esperienze traumatiche, oltre alla Terapia Cognitivo Comportamentale è necessario affiancare anche interventi specifici rivolti al trauma. In effetti, gli individui vittime di abuso sessuale durante l’infanzia presentano molto spesso sia PTSD sia DOC, un quadro sintomatologico molto complesso da trattare. Alcuni studi hanno infatti rilevato che i pazienti con DOC e PTSD in comorbilità non tendono a mostrare un miglioramento dei sintomi a seguito di Terapia Cognitivo Comportamentale (effettuata sia con che senza trattamento farmacologico congiunto), a differenza dei pazienti affetti solo da DOC. Lo studio condotto da Gershuny e collaboratori (2002), inoltre, ha mostrato che alcuni pazienti con PTSD e DOC presentavano un iniziale decremento dei sintomi del DOC dopo il protocollo di esposizione con prevenzione della risposta, ma che questo iniziale miglioramento veniva purtroppo seguito da una successiva intensificazione di flashback, incubi e pensieri intrusivi legati al trauma, con successivo incremento delle compulsioni.

Alla luce di tali osservazioni risulta necessario procedere a un accurato assessment del DOC in età evolutiva e alla progettazione, laddove necessario, di interventi che integrino il trattamento del DOC a quello specifico del trauma.

La pazza gioia (2016) di P. Virzì: ritrovare la felicità decostruendo le nostre euristiche – Recensione del film

Ne La Pazza Gioia personaggi agli antipodi, raccontano con sincerità un mondo ai più sconosciuto. Un mondo di donne dimenticate e punite a causa dei propri problemi psichici, con quei terapeuti ed assistenti sociali che quotidianamente combattono con passione e dignità per riuscire ad aiutarle

 

La Pazza Gioia, film del 2016, regia di Paolo Virzì. Protagoniste, un eccezionale Valeria Bruni Tedeschi che interpreta Beatrice Morandini Valdirana, una logorroica squilibrata contessa a suo dire in intimità con i personaggi più influenti e potenti del mondo, in realtà fatta internare dall’ex marito in una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali dove conosce Donatella Morelli, Micaela Ramazzotti, giovane donna, fragile, silenziosa che custodisce un doloroso segreto.

Dal nulla, anche se caratterialmente distanti, le due diverranno incredibilmente amiche, tanto da dar vita ad una fuga dalla comunità e che le condurrà alla disperata ricerca di quella felicità da tempo sfuggita. Personaggi agli antipodi, quelli de La Pazza Gioia, che raccontano con sincerità un mondo ai più sconosciuto. Un mondo di donne dimenticate e punite a causa dei propri problemi psichici, con quei terapeuti ed assistenti sociali che quotidianamente combattono con passione e dignità per riuscire ad aiutarle, a ‘recuperarle’, letteralmente, in modo da poter poi tornare in quella stessa società che le aveva rigettate.

Non volendo trascurare la tematica sociale cosi ben descritta dal regista in una scena del film La Pazza Gioia, Beatrice alla domanda “Ma dove si trova la felicità?” risponde cosi: “Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili

La Pazza Gioia: cos’è la felicità? Dove si trova davvero? Cosa ci rende felici?

La felicità è un sentimento spontaneo, che arriva inaspettato, difficile da definire e quindi anche da cercare volontariamente. Secondo le ricerche dello psicologo Daniel Kahneman è vero che abbiamo serie difficoltà nel pensare cosa ci farà felici in futuro, ma è altrettanto vero che percepiamo con grande facilità il piacere, la soddisfazione e il benessere nel momento in cui li stiamo vivendo.

Siamo in grado di sapere ora quello che ci farà felici in futuro? Se non riusciamo ad avere ben chiaro quello che potrebbe farci felici, difficilmente potremo costruire una vita soddisfacente. Che poi è quello che spesso accade. Ogni giorno ognuno di noi prende un gran numero di decisioni, che ci mettono di fronte a situazioni più o meno piacevoli e nel giudicare e scegliere, siamo raramente razionali e ci lasciamo influenzare dal contesto sociale e culturale. Ricorriamo spesso a meccanismi cognitivi, chiamati euristiche, ragionamenti comodi, automatici e poco dispendiosi, ma che spesso ci portano fuori strada.

Le euristiche ingannevoli e il rischio di allontanarci dalla felicità

Seguendo euristiche ingannevoli, infatti, potremmo convincerci che un certo cambiamento possa avere conseguenze determinanti per la nostra vita, e questa convinzione può diventare motivante portandoci con una valutazione senza fondamento, ad una vera e propria illusione cognitiva.

Due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman (1974) hanno studiato le euristiche concludendo che esse possiedono le seguenti caratteristiche: sono ruotinarie, molto efficienti, poco consapevoli, automatiche e tendono alla semplificazione. Gli autori ne hanno individuate quattro:

  1. Euristica della disponibilità. Secondo la Tversky e Kanheman(1974) la utilizziamo per giudicare la probabilità di un evento. Quando ci troviamo in queste occasioni noi cerchiamo di ricordare esempi. Quindi giudichiamo la probabilità di un evento sulla base della facilità di immaginare esempi, ovvero sulla disponibilità mentale che abbiamo di essi. Perciò se gli esempi ci vengono in mente con facilità concludiamo che la probabilità di quel tipo di eventi è elevata. Da ciò si capisce che questo è un modo per scegliere velocemente.
  2. Euristica della simulazione: ragionamento controfattuale. Consiste nell’immaginare come si sarebbero potuti verificare risultati diversi da quelli che si sono effettivamente verificati. Le euristiche della simulazione accentuano le reazioni emotive positive e negative: se immaginiamo ipotetici svolgimenti diversi più positivi si avrà un peggioramento dello stato emotivo, invece se immaginiamo ipotetici svolgimenti diversi più negativi noteremo un miglioramento dello stato emotivo.
  3. Euristica dell’ancoraggio e dell’aggiustamento. L’opinione espressa da chi parla per primo esercita una notevole influenza e i giudizi successivi non si spostano mai più di tanto da esso. Gli altri interlocutori utilizzano la valutazione del primo come punto di ancoraggio e introducono solo degli aggiustamenti rispetto ad esso. Da tutto ciò si evince che se il primo non è un esperto si può arrivare a decisioni errate.
  4. Euristica della rappresentatività. Le euristiche della rappresentatività sono una scorciatoia di pensiero che consente di ridurre la soluzione di un problema inferenziale a un’operazione di giudizio particolarmente semplice. Le euristiche della rappresentatività inducono a valutare la probabilità di un’ipotesi, in base ad un giudizio di similarità ovvero consistono nella classificazione di un caso sulla base della somiglianza con il caso tipico.

Il pensiero quotidiano, quindi tende ad essere economico, efficiente e poco critico. Costruisce ipotesi e tende a confermarle finché è possibile automatizzarle. Il pensiero critico è disconfermazionalista, faticoso, anti-economico portando le persone ad avere un atteggiamento critico nei confronti dei propri pensieri che possono trasformarsi in vere e proprie distorsioni cognitive delle quali si può diventar prigionieri.

Il personaggio di Beatrice Valdirana, nel film La Pazza Gioia, afferma anche “chi ha mai trovato la felicità in un tramezzino?” ecco, decostruendo certe euristiche ingannevoli, forse sarà possibile anche trovare la felicità, lì, in un semplice buonissimo tramezzino.

 

GUARDA IL TRAILER DEL FILM ‘LA PAZZA GIOIA’:

Il sexting e le sue conseguenze nella coppia

Le ricerche degli ultimi anni hanno scoperto che 8 persone su 10 comunicano tramite sexting. Un gruppo di psicologi sta esaminando le conseguenze positive e negative sull’utilizzo del cellulare impiegato per inviare immagini e messaggi sessualmente espliciti.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Computer in Human Behaviour, ha scoperto che i sexting inviati nei rapporti occasionali tendono ad avere risultati negativi, rispetto ad altre situazioni.

Michelle Drouin, autrice dello studio e collaboratrice presso l’Indiana University-Purdue, sottolinea come gran parte della ricerca si sia dedicata ai modi in cui la tecnologia viene direttamente coinvolta nelle relazioni sentimentali, e il sesso è emerso rapidamente come un tema degno di essere studiato. Oggi, abbiamo a disposizione studi scientifici sul sexting, ma mancano ancora informazioni riguardanti i suoi vantaggi all’interno dei rapporti interpersonali.

Dallo studio emerge che circa il 58% degli studenti universitari invia sex messagges e circa il 62% ha li ricevuti. Gli uomini hanno ammesso di inviare sex messagges prevalentemente a partner occasionali, mentre le donne hanno ammesso di condividere questa esperienza con il loro partner.

Sexting: tra piacere e paura

Sul sexting, la Dottoressa Drouin sostiene che la gente invia messaggi o video sessualmente espliciti al partner con la convinzione che tutto ciò sia divertente o piacevole per chi li riceve. Tuttavia, molte persone si pentono per paura delle conseguenze che potrebbero avere dopo aver inviato immagini sessualmente compromettenti, soprattutto se inviate a partner occasionali o appena conosciuti. La cosa importante per lo studio, è che chi lo fa ammette di avere meno benefici, sia a livello emotivo che sessuale, e più “danni” rispetto a chi invia sexting al proprio partner.

La maggior parte della ricerca sul sexting si concentra sugli adolescenti e sui giovani adulti, ha osservato la Dottoressa Drouin. Quello che non è chiaro è come le coppie percepiscono questi messaggi sessualmente espliciti e come li utilizzano nella coppia.

La comunicazione sessuale è solo una delle tante sfaccettature della vita che è stata colpita dalla tecnologia. Purtroppo, quest’ultima, cambia molto velocemente e studiare i suoi effetti risulta essere problematico. Ciò significa che il campo di studio è sempre vastissimo, e le domande sono sempre molte.

 

L’immagine corporea nell’obesità e l’insoddisfazione per il proprio corpo

Persone con problematiche di obesità riporterebbero grandi livelli di insoddisfazione riguardo la propria immagine corporea (Sarwer, Thompson, Cash, 2005). Quest’ultima si genererebbe a partire dallo specifico contesto in cui questi soggetti sono situati. Oltre alle ovvie complicanze fisiche, anche il contesto sociale assume un ruolo fondamentale. 

Alessandro Zucchetti, Giorgia Cipriano

 

Immagine corporea e schema corporeo: due dimensioni intrecciate

Il concetto di immagine corporea è piuttosto complesso e richiede delle precisazioni preliminari. Le prime definizioni risalgono a Paul Ferdinand Shilder, psicologo austriaco che nel 1935 definisce l’immagine corporea come “l’immagine del corpo che formiamo nella nostra mente, il modo in cui il corpo appare a noi stessi”.

Un altro importante studioso in questo campo, Slade (1988), la definisce come
l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo”.

In questo modo l’immagine corporea diventa un concetto dimensionalmente vario rispetto alla prima definizione di Shilder, in cui componenti percettive, attitudinali, affettive e comportamentali si intrecciano tra di loro.

Più recentemente, Cash (2002) parla dell’immagine corporea come un “insieme di percezioni e atteggiamenti di ciascuno collegati al proprio corpo, tra cui pensieri, convinzioni, sentimenti e comportamenti”. L’autore, seguendo una prospettiva cognitivista, distingue tra body image evalutation e body image investiment (Cash, 2002). Nel primo caso si parla della soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto, che deriverebbe dalla discrepanza o meno tra percezione del proprio corpo e ideali estetici riguardo esso. Nel secondo caso invece si fa riferimento all’importanza psicologica che gli individui danno al proprio aspetto fisico.

Alla luce di ciò, è importante però sottolineare come il concetto di body image venga, in questo modo, considerato in maniera prevalentemente riflessiva, inerente a ciò che il soggetto pensa riguardo a tale concetto. Come si genera dunque tale insieme di immagini? Qual è l’origine affinchè la corporeità possa venire pensata? E’ necessario a questo punto distinguere tra body image e body schema. All’inizio del XX secolo Bonnier (1905) fa di quest’ultimo concetto un rimando alla percezione immediata, spaziale, orientativa del nostro corpo. In tale prospettiva si muoveranno poi gli studi sulla fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty (1945), il quale, accantonando da un lato l’idea del corpo oggetto (korper) e dall’altro il soggettivismo tale per cui la rappresentazione del proprio corpo nascerebbe da una mente osservabile in maniera a sé stante, giunge alla definizione chiasmatica di chair, corpo vissuto, l’essere-sempre-mio del corpo, in cui propriocezione sensoriale e rappresentazione psicologica si confondono in maniera inestricabile.

Secondo Gallagher (2005) body schema origina proprio da quella dimensione propriocettiva, tale per cui l’immagine corporea (body image) sarebbe da pensare come a una appropriazione, un coglimento cognitivo di una dimensione che sarebbe già in atto, già presente. Questa differenza emerge in maniera evidente in particolare in alcune patologie. Secondo l’autore:

Penso che l’immagine corporea coinvolga un livello personale di esperienza del corpo. Normalmente esperisco il corpo come il mio. Esistono però patologie in cui ciò non accade [come] in alcuni casi di anosognosia […]. Il senso di proprietà, o il fallimento di questo senso in una particolare parte del corpo può essere basato su un mancato feedback sensoriale” (Gallagher, 2005. Traduzione mia)
In questa direzione, le rappresentazioni mentali che possiamo avere riguardo al nostro corpo sono generate da un’esperienza incarnata e costantemente agita.

Immagine corporea e obesità

Fatte certe premesse il concetto di body image viene inquadrato come un fatto non esclusivamente psicologico ma in continuità con l’esperienza sensoriale corporea, situazionale, emotiva, in cui i soggetti si trovano a vivere.

Persone con problematiche di obesità riporterebbero grandi livelli di insoddisfazione riguardo la propria immagine corporea (Sarwer, Thompson, Cash, 2005). Quest’ultima si genererebbe a partire dallo specifico contesto in cui questi soggetti sono situati. Oltre alle ovvie complicanze fisiche, anche il contesto sociale assume un ruolo fondamentale. In una società in cui è posta l’enfasi sulla magrezza estrema, su standard di vita lontani dalla quotidianità e dalle reali possibilità di esistenza, vengono ad essere interiorizzati modelli che finiscono quasi con il demonizzare tutto ciò che vi si discosta.

Secondo il Modello Tripartito di Influenza (Thompson et al., 1999; Kerry, van den Berg, Thompson, 2004; in Nerini, Stefanile & Mercurio, 2009) esisterebbero tre fonti primarie nello sviluppo delle problematiche legate all’immagine del proprio corpo: il gruppo dei pari, la famiglia e i mass media. I modelli sociali, lungi dall’essere relegati soltanto all’ambito della comunicazione mediatica (sebbene in questo campo possano trovare la loro sorgente principale) si intrecciano in numerosi altri ambienti sociali, finendo ad influenzare possibilità e aspettative.

Si rende così il terreno fertile a situazioni di diniego, derisione, rifiuto nei riguardi di ciò che il contesto culturale non considera adeguato: nel caso dell’obesità, numerosi studi legano esperienze di discriminazione legate al peso durante l’infanzia ad un aumento dell’insoddisfazione dell’immagine corporea nell’adulto (Jackson, Grilo, Masheb, 2000). Coerentemente con la distinzione tra body image/schema, è sensato ipotizzare che il soggetto viva uno scarto, generalmente piuttosto ampio, tra le richieste di accettabilità da parte del contesto sociale (dalla famiglia alla cultura più in generale) e le condizioni pre-noetiche (Gallagher, 2005) che il soggetto, a causa principalmente del peso ma non solo, si trova a esperire.

Sebbene la distribuzione di obesità tra uomini e donne sia piuttosto simile, le donne sarebbero molto più soggette degli uomini a percepire insoddisfazione nell’ immagine corporea rispetto agli uomini. Le donne con problematiche di obesità riporterebbero da moderato a estremo imbarazzo in situazioni sociali, dal lavoro ai contesti meno formali (Sarwer, Thompson, Cash, 2005).
In questi pazienti è evidente inoltre come un calo del peso si accompagni, solitamente, ad un miglioramento dell’ immagine corporea, e come d’altro canto la situazione opposta ne aumenti l’insoddisfazione (Sarwer, Grossbart, Didie, 2001). Tuttavia, questa situazione non è stata sempre confermata da altri studi (Sarwer, Thompson, Cash, 2005).

E’ interessante constatare che alcuni studi non hanno trovato particolari correlazioni tra l’insoddisfazione dell’  immagine corporea e l’indice di massa corporea (BMI) in donne obese e sovrappeso. D’altro canto non tutte le persone obese sembrano nutrire elevata insoddisfazione nei confronti della propria immagine corporea, dato quello che emerge ad esempio nel confronto tra donne statunitensi caucasiche e afroamericane dove queste ultime risulterebbero possedere immagini corporee meno negative delle prime (Celio, Zabinski, Wifley, 2002).

In un altro studio (Cash, Counts, Huffine, 1990) è emerso come non sempre la perdita di peso si correli a un miglioramento dell’ immagine corporea. Gli autori hanno definito questo fenomeno phantom fat, che sottolineerebbe la necessità di valutare insoddisfazioni riguardo la propria immagine corporea di questi pazienti in maniera più approfondita.

In queste persone il peso risulta possedere un ruolo centrale nel modellamento dell’ immagine corporea, ma non per questo isolabile da altri fattori esperienziali e contestuali.

Variazioni socioculturali

Stice, nel 2002, dimostrò come le variabili socioculturali influenzino la percezione della propria immagine corporea. Nel 2004, con il Modello Tripartito di Influenza, Thompson e colleghi individuarono nei pari, nei genitori e nei mass media la causa dell’influenza che rinforzerebbe l’attuale standard irrealistico di bellezza collegato, alla straordinaria enfasi alla magrezza, influenzando così la percezione distorta della propria immagine corporea.

Sono state effettutate numerose ricerche che valutano le differenze socio culturali sull’ obesità e la percezione dell’ immagine corporea; in particolare lo studio di Lopes de Sousa (2008) ha evidenziato come età, genere, livello socioeconomico e depressione influiscano sulla percezione distorta dell’ immagine corporea negli adolescenti, mentre il livello di scolarità, l’ attività o l’inattività fisica e il successo scolastico non incidano. In un interessante studio di Parker et al. (1995) è risultato come adolescenti femmine americane bianche e afroamericane differiscano in maniera antitetica rispetto alla percezione dell’ immagine corporea: in tal senso emerge come questi ultimi nonostante abbiano un peso nella norma o siano in sovrappeso percepiscano se stesse come più magre rispetto a quello che in realtà sarebbero. D’altro canto adolescenti bianche sembrano percepirsi con un peso maggiore. Se ne può dedurre che l’appartenenza a culture in parte differenti contribuisca a generare differenti percezioni nei confronti della propria immagine corporea. In uno studio più recente (Puoane, Tsolekile, Steyn, 2010) emerge come un terzo del campione di donne afroamericane intervistate (60 soggetti) abbia maggiori preferenze nei confronti di una corporeità più robusta motivata principalmente da un maggiore bisogno di forza fisica e associata ad una maggiore rispettabilità sociale rispetto ad una magrezza eccessiva. D’altro canto l’eccessiva magrezza veniva collegata dai soggetti a problematiche di salute come l’HIV o l’AIDS.

L’argomento resta in ogni caso complesso poiché non tutti gli studi sembrano andare nella stessa direzione (Flynn, Fitzghibbon, 1998) e sono necessari approfondimenti e studi più aggiornati.

Sviluppi futuri

Sosteniamo che il concetto di immagine corporea risulti essere un costrutto di grande valore nell’approfondimento degli aspetti psicologici annessi all’ obesità, che tuttavia richiede di ulteriori studi in direzione soprattutto di una chiarificazione concettuale di un tema così complesso.

 

Umorismo e psicoterapia: la funzione e i benefici dell’umorismo

L’ umorismo in psicoterapia è un fenomeno complesso in quanto coinvolge diversi aspetti: una risposta cognitiva, data dalla comprensione e dall’apprezzamento dell’intento umoristico, una reazione psicologica (la risata) e una risposta emotiva data dal vissuto di divertimento e allegria (Sultanoff, 2003). Affinchè l’utilizzo dello humour abbia esiti positivi, i terapeuti dovrebbero essere consapevoli delle diverse funzioni che svolge e individuare il momento più opportuno per ricorrervi.

Marika Di Egidio, Federica Di Francesco, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Cos’è l’ umorismo e qual è la sua funzione?

Etimologicamente, la parola “umorismo” deriva dal latino ‘humorert-em’ o ‘umorert-rem’ (umidità, liquido), che si avvicina anche al greco ‘yg-ròs’ (bagnato, umido). L’origine del termine sembrerebbe dunque rimandare alla medicina ippocratica che riteneva la personalità e la salute legata ai fluidi corporei, detti “umori”. L’umorismo, peculiarità dell’essere umano, rappresenta la capacità intelligente e sottile di individuare e ritrarre gli aspetti comici della realtà.

L’aspetto della condivisione è fondamentale quando si parla di comicità, infatti si tende a ridere perlopiù insieme agli altri – amici, parenti, familiari, o colleghi che siano –  di eventi e situazioni che spesso non hanno una connotazione umoristica in sé, ma la assumono per le circostanze stesse di condivisione in cui si verificano. Dunque tali eventi e situazioni diventano divertenti per i membri del gruppo in questione, diminuendo le distanze.

Ma cosa è considerato divertente e qual è la funzione dell’umorismo? A partire dall’inizio del scorso secolo, questi interrogativi hanno iniziato a suscitare interesse all’interno della comunità scientifica. Le teorie esplicative al riguardo sono state numerose. Tra le principali è possibile citare la teoria del Sollievo, che attribuisce all’umorismo una funzione liberatoria. Questa teoria, descritta per la prima volta da Freud, afferma che l’umorismo funziona quando uno scherzo o un’osservazione spiritosa serve ad allentare le nostre tensioni sessuali e aggressive represse. L’umorismo fornisce uno sbocco socialmente accettabile per quelle fondamentali pulsioni biologiche che sono presenti in tutti noi.

Un’altra teoria degna di nota è quella della Superiorità, essa sostiene che le situazioni e le osservazioni diventano umoristiche per noi perché finiamo col sentirci migliori quando qualche umiliazione o sfortuna capita ad altri. Questo è il motivo per cui ci sembra divertente vedere una persona che si da arie, scivolare e cadere. Noi non siamo coinvolti in modo negativo perché siamo in una posizione di superiorità. Naturalmente non sarebbe divertente se a cadere fosse un fragile signore anziano.

La teoria dell’Assurdo afferma invece che l’umorismo si verifica quando ci sono conseguenze impreviste in circostanze che sono familiari. Una persona può all’improvviso apparire o comportarsi in un modo inaspettato o diverso dalla norma. Per esempio, se un’automobile va in pezzi all’improvviso la cosa risulta buffa ai bimbi piccoli perché in contrasto con le loro aspettative (Franzini, 2011)

Altri modelli teorici hanno identificato l’umorismo come una strategia di coping o un meccanismo di difesa, intesi come la propensione a mantenere una prospettiva umoristica in circostanze avverse (Lefcourt e Martin, 1986); un’abilità cognitiva, volta a generare, comprendere, riprodurre e ricordare una situazione umoristica (Feingold e Mazzella, 1993); un pattern comportamentale abituale, quale tendenza a ridere frequentemente, a raccontare barzellette, a divertire gli altri e a ridere per gli scherzi altrui (Martin e Lefcourt, 1984); un atteggiamento positivo o divertito nei riguardi dell’umorismo o del mondo (Svebak, 1996); una risposta estetica, quale apprezzamento dell’umorismo e di particolari tipi di materiale umoristico (Ruch e Hehl, 1998); un tratto temperamentale connesso alle emozioni di cui l’allegria abituale costituisce una dimostrazione (Ruch e Kohler, 1998).

Spesso identificato come un costrutto benevolo legato a emozioni e vissuti piacevoli, nell’umorismo è in realtà possibile riscontrare anche una nota di sarcasmo e di ridicolo che attribuiscono a esso un’accezione negativa.

Gli stili umoristici e lo strumento di valutazione dell’umorismo

A tal proposito Martin et al. (2003) distinguono quattro stili umoristici: affiliativo, autorinforzativo, autodenigratorio e aggressivo.
Lo stile affiliativo viene utilizzato per migliorare e facilitare le relazioni con gli altri attraverso l’utilizzo di commenti divertenti, battute spiritose, barzellette e scherzi. Questa dimensione si identifica nel ridere con e non nel ridere di qualcuno.
L’umorismo autorinforzativo è legato alla tendenza ad avere un atteggiamento benevolo verso la vita, mettendo il soggetto nella condizione di riuscire a ridere di se stesso e delle circostanze, cogliendo gli aspetti divertenti della realtà e mantenendo una prospettiva umoristica di fronte a eventi avversi.
Lo stile umoristico autodenigratorio si riferisce all’utilizzo di un umorismo potenzialmente dannoso verso se stessi al fine di ottenere l’approvazione altrui attraverso commenti volti a mettersi in ridicolo per compiacere l’altro.
L’umorismo aggressivo può risultare particolarmente dannoso per le relazioni interpersonali, in quanto legato alla derisione e alla manipolazione dell’altro. L’intento di fondo è quello di danneggiare e sminuire l’altro.

Questi quattro stili umoristici possono essere facilmente valutati mediante lo Humor Styles Questionnaire (HSQ) messo a punto da Martin e colleghi (2003), realizzato sulla base di studi teorici e clinici volti ad indagare la relazione tra l’ umorismo e il benessere. Lo HSQ è stato tradotto e validato in contesti socio-culturali diversi, confermando complessivamente le buone qualità psicometriche e i fattori originari (Chen e Martin, 2007).

L’ umorismo in psicoterapia

I benefici dell’ umorismo sulla salute fisica e mentale sono stati ampiamente confermati, tuttavia vi è una carenza di interesse per lo studio dell’ umorismo in psicoterapia il cui utilizzo è, a tutt’oggi, un argomento controverso. Si ipotizza che lo studio in tale ambito sia rimasto inesplorato perchè i terapeuti sono poco inclini a inserire volontariamente lo humour durante i loro colloqui presupponendo che la psicoterapia sia “questione seria” e non possa includere contenuti frivoli, almeno in modo volontario.

Di contro, recenti ricerche hanno dimostrato l’efficacia dell’ umorismo in psicoterapia e la sua utilità quale elemento facilitatore nella costruzione dell’alleanza terapeutica e in alcune aree specifiche come la valutazione di personalità. Inoltre, diversi studi hanno rilevato come l’ umorismo possa essere inserito nel trattamento di un ampio numero di disturbi, quali, ad esempio, l’ansia, le fobie specifiche, il disturbo ossessivo-compulsivo e la depressione.

L’ umorismo in psicoterapia è un fenomeno complesso in quanto coinvolge diversi aspetti: una risposta cognitiva, data dalla comprensione e dall’apprezzamento dell’intento umoristico, una reazione psicologica (la risata) e una risposta emotiva data dal vissuto di divertimento e allegria (Sultanoff, 2003).
Affinchè l’utilizzo dello humour abbia esiti positivi, i terapeuti dovrebbero essere consapevoli delle diverse funzioni che svolge e individuare il momento più opportuno per ricorrervi.

Louis Franzini (2001) ha individuato diverse funzioni che può assolvere l’ umorismo  in psicoterapia, suggerendo inoltre di inserire lo humour fra le componenti informali del curriculum di ogni psicologo e psicoterapeuta.

In fase di assessment è opportuno che i terapeuti prestino attenzione a ciò che le persone trovano divertente: riuscendo a cogliere quale tipo di umorismo il paziente apprezza sarà possibile farsi un’idea della persona che si ha davanti ed evitare di incorrere in battute infelici. Inoltre, richiamare l’attenzione sull’atteggiamento umoristico (ad esempio, chiedendo perchè ride quando si parla di certi argomenti) rappresenta un metodo per aiutare il paziente ad aumentare la consapevolezza di sè .

L’ umorismo in psicoterapia può essere uno strumento di grande aiuto anche nella costruzione dell’alleanza terapeutica, esso ha un compito importante nella costituzione di una buona empatia, vista la sua funzione di facilitatore sociale che porta ad una maggiore soddisfazione del rapporto, a una maggiore vicinanza e a una risoluzione efficace dei conflitti (Cann et al., 2008). Va sottolineato che la direzione della relazione fra umorismo e alleanza terapeutica è bidirezionale: una maggiore empatia porta ad una maggiore alleanza terapeutica ed un’accresciuta alleanza terapeutica favorisce l’utilizzo dell’umorismo. Inoltre, l’umorismo può essere una strategia utile per favorire una comprensione empatica da parte del terapeuta nei riguardi del paziente (Meyer, 2007).

In fase di intervento l’ umorismo in psicoterapia può facilitare l’apprendimento di prospettive alternative e la riduzione dello stress. L’ umorismo è infatti un’efficace strategia di coping che aiuta a diminuire l’impatto emotivo causato dall’aver vissuto eventi stressanti. Il terapeuta può incoraggiare il paziente a modificare il proprio punto di vista portandolo a “vedere il lato divertente” delle cose, in modo da aiutarlo a regolare le emozioni negative trasformandole in positive.

Va ricordato che l’ umorismo di per sè non è terapeutico: è necessario che venga usato in modo terapeutico. I risultati migliori si ottengono quando i clinici trasmettono empatia e quando gli interventi umoristici vengono impiegati in maniera genuina, comunicando attenzione e sincerità per le preoccupazioni del paziente. D’ altra parte, l’umorismo può non sortire effetti terapeutici, ma arrivare a essere addirittura pericoloso, se non impiegato con criterio.

Uno dei rischi più frequenti nell’utilizzo dell’ umorismo in psicoterapia è che i pazienti non si sentano presi sul serio. Un altro rischio si verifica quando il terapeuta tocca temi importanti in modo divertente, conducendo il paziente all’errata interpretazione che certi argomenti non debbano essere discussi seriamente. Inoltre, secondo Robert Pierce (1994), il terapeuta può mettere in atto tre tipi di umorismo negativo, il cui utilizzo andrebbe, ovviamente, evitato.
1. Commenti umoristici non pertinenti per lo scopo terapeutico. In questo caso il terapeuta cambia totalmente argomento e ne introduce uno non attinente.
2. Uso dell’umorismo in modo difensivo. Viene utilizzato per spostare l’attenzione da temi particolarmente toccanti o personali, sia per se stesso che per il paziente, che il terapeuta non è in grado di affrontare, su altri che ritiene più sicuri.
3. Umorismo utilizzato dal terapeuta per attaccare il paziente. Rientrano in questa categoria i commenti usati per sminuire, prendersi gioco e ridere del paziente. Questo tipo di umorismo può essere vincolato da sentimenti di frustrazione e rabbia, sia consapevole sia inconsapevole.

In conclusione è possibile affermare che l’ umorismo rappresenta un valido aiuto per il terapeuta, uno strumento che, se usato con consapevolezza, consente al clinico di intensificare gli effetti positivi della terapia. Potrebbe essere utile a tal proposito, stimolare nei terapeuti un’attenta riflessione sul tema e esortarli a impiegare l’ umorismo all’interno della relazione terapeutica.

 

Lo stadio operatorio concreto: imparare giocando

Fino ad ora abbiamo esplorato due degli stadi della teoria Piagetiana. Siamo partiti dallo stadio senso motorio che copre l’arco di vita da 0 a 2 anni, passando poi per lo stadio pre-operatorio che va dai 2 ai 6 anni e giungiamo insieme al nostro bambino nella scuola primaria. Siamo nel pieno dello stadio operatorio concreto che va dai 6 ai 12 anni. Tante le novità e tante le abilità acquisite dal bambino in questa fase soprattutto attraverso il gioco. Una fase piena di creatività, di energia di voglia di fare e soprattutto di imparare.

 

La scuola è il momento dell’impegno costante nello studio e delle prime importanti responsabilità per i bambini. Le prime ansie iniziano a manifestarsi e pian piano iniziano le prime domande “ ma sono bravo tanto quanto?”, “ se la maestra mi mette un brutto voto ti arrabbi ?” . I bambini maturano e anche tra di loro inizia ad instaurarsi una relazione diversa.

Lo stadio operatorio concreto: cosa accade nello sviluppo cognitivo del bambino?

Vediamo nello specifico cosa accade nello stadio operatorio concreto e se… si può imparare giocando!
Piaget scrive : “Un’operazione è ciò che trasforma uno stato A in uno stato B, lasciando nel corso della trasformazione almeno una proprietà invariante, e con possibilità di ritornare da B ad A, annullando la trasformazione. Ora si riscontra – e questa volta la diagnosi è facile – che ai livelli preoperatorio la trasformazione è concepita come una modificazione simultanea di tutti i dati, senza nessuna conservazione, il che rende del tutto impossibile il ritorno al punto di partenza senza nuova azione che trasformi nuovamente il tutto (ricreando ciò che è stato distrutto, etc.)…” (Piaget, Inhekder, 1967, pp.137-138).

Nello stadio operatorio concreto, il bambino ammette ora l’esistenza della reversibilità, cioè concepisce l’azione di trasformazione come reversibile.
In questo momento le operazioni mentali si concretizzano e c’e un incontro tra i vari punti di vista. Fondamentale infatti è che le operazioni svolte dai bambini siano concrete cioè visibili a loro. Per esempio compiti di seriazione o classificazioni di oggetti secondo caratteristica vengono svolti con oggetti come gessetti, pennarelli, animali.

Oppure inoltrandoci nel contesto scolastico e nelle prime operazioni logico matematiche di addizione e sottrazione i bambini utilizzano oggetti concreti per poi passare a disegnarli essi stessi ma pur sempre avendo visivamente gli oggetti delle operazioni da compiere.
Nello stadio operatorio concreto, spiega Piaget concetti quali la reversibilità e la conservazione sono tra le acquisizioni logiche più importanti.

Per reversibilità si intende la capacità del bambino di svolgere mentalmente un’ azione inversa, cioè il bambino concepisce che in azione può tornare allo stadio iniziale, mentre per conservazione, intende la capacità del bambino di comprendere ad esempio che due contenitori con uguale capacità ma diversa forma contengano lo stessa quantità di liquido. Questo è uno degli esempi più celebri e più esplicativi di Piaget per descrivere il concetto di conservazione.

L’importanza del gioco nello stadio operatorio concreto

Gli esempi possono esseri diversi e i giochi da poter fare a casa anche. Giocare a classificare gli animali della foresta e quelli domestici, spostare liquidi da un contenitore ad un altro, a rischio di allagare la cucina di quest’ ultimo. Ci si può improvvisare pasticceri e giocare a dolcetti di più e di meno.
Si può giocare con puzzle, memory, giocare con le ombre, riporre oggetti dello stesso colore e della stessa forma.
Addizionare, sottrarre, saltare e contare. Importante è assecondare il momento del bambino e ciò che desidera senza forzarlo nell’imporgli concetti a lui non del tutto chiari.

Oltre a ciò nello stadio operatorio concreto iniziano anche i primi incontri tra bambini a casa, al parco. Come cambia il loro modo di giocare? A scuola si può imparare giocando?
I bambini di oltre 6 anni sono soliti giocare con giochi regolamentati. Questi giochi presuppongono una capacità di socializzazione, ovvero un certo grado di adattamento alla realtà e di tolleranza alle frustrazioni (in questi giochi infatti si deve accettare la sconfitta e non infierire sull’avversario in caso di vittoria). Le regole possono essere tradizionali (quelle tramandate) o frutto di accordi momentanei: l’importanza del loro rispetto è fondamentale per la riuscita di questi giochi.

I giochi di squadra, quali nascondino, ruba bandiera, etc., consentono ai ragazzi di rapportarsi gli uni con gli altri e di stringere amicizie. Nella società moderna, che tende ad organizzare i vari momenti della giornata ed a sacrificare ogni cosa nella competizione per ottenere il massimo dai ragazzi, occorre riconoscere il valore del gioco e assegnare allo stesso gli spazi che necessitano, accanto a quelli dedicati all’istruzione.

Altri tipi di attività ludiche che possono essere presenti sin dai 6 anni e che quindi caratterizzano lo stadio operatorio concreto sono gli hobby. Si tratta di attività intraprese per puro piacere ma che tendono alla realizzazione consapevole di uno scopo. Queste attività possono perseguire la realizzazione dello scopo anche tutta la vita, se le gratificazioni che forniscono crescono col passare del tempo (ad es. gli scacchi o la raccolta dei francobolli). Gli hobby si pongono quindi in una via di mezzo fra il gioco e il lavoro.

Verso i sette – otto anni il bambino acquisisce la facoltà di assumere i punti di vista altrui, di mettersi in qualche modo nei panni degli altri, di svolgere giochi con regole vincolati al rispetto delle stesse.

Quando si trova da solo senza compagni, ad esempio a casa non avendo sorelle o fratelli, mette in atto strategie di gioco diverse per sopperire alla solitudine, alla paura, alla noia. Una di queste strategie è il ricorso all’immaginazione per inventarsi un compagno di giochi, o un aiutante magico. Alcuni di loro investono questa figura di qualità che ad essi mancano, altri lo mettono al loro pari o come subordinati. Via via che il bambino acquisisce fiducia in se stesso, la capacità di star solo senza aver paura e con la crescita, il compagno immaginario tende a lasciare il posto ad amici reali.

Ci possono essere situazioni nelle quali la linea sottile tra “gioco buono” e “gioco cattivo” è molto labile. Per “gioco buono” si intende il gioco libero del bambino, durante il quale egli può esprimersi liberamente e al meglio, dando così modo all’educatore o all’adulto di essere osservatore partecipe e carpire eventuali richieste di aiuto o situazioni problematiche. Per “cattivo” invece s’intende quel gioco, dove si rischia una strumentalizzazione educativa volta a individuare contenuti validi, raccomandati, incentivati dagli adulti, che si tramutano in una sorta di addestramento al gioco centrato sul profitto e sulla prestazione. Queste tecniche sono al loro interno contraddittorie in quanto volte ad una liberazione del corpo nell’atto ludico ma costellate di regole per il raggiungimento di questo obbiettivo e per il suo mantenimento.

Nel momento in cui l’adulto, insegnante o genitore si accosta al bambino per giocare questi diventa incapace di giocare in modo creativo in quanto durante il gioco i bambini non tollerano intrusioni altrui. Spesso educatore e insegnanti si sentono obbligati a far giocare i bambini vivendo anche loro in maniera sbagliata questo compito.

Nel gioco il bambino diventa padrone unico e assoluto della realtà svolgendo un ruolo attivo che consente l’affermazione del proprio sé e delle proprie esigenze di controllo sul mondo.

L’insegnante o l’educatore che scelgono di utilizzare il gioco per il raggiungimento di obbiettivi didattici, educativi e/o terapeutici può avere due tipi di approcci diversi: il primo è quello del fornire regole, tecniche e mettersi a diventare egli stesso un giocatore tra gli altri. Presupposto fondamentale è che per far giocare egli debba saper giocare usando liberamente il proprio sé nell’ambito della relazione comunicativa con l’altro.

Il gioco riveste un ruolo importante nell’apprendimento, in quanto la scuola si configura come luogo di stimolazione dell’atteggiamento ludico e della drammatizzazione.

A scuola l’insegnante si trova di fronte a un interrogativo importante: come inserire il gioco nelle ore dell’attività didattica. Ci sono occasioni in cui egli vuole far giocare  gli alunni ed essi rifiutano ed altre in cui durante lo svolgimento di qualche attività essi trovano il modo ed il tempo di giocare. Il gioco si auto-crea e l’insegnante in classe  può vedere e far finta di nulla o vedere e punire essendo consapevole che comunque l’azione ludica si ripeta. Con esso si libera la propria affettività nei confronti degli altri, delle cose, è un momento di comunicazione. I bambini giocano tra di loro per sperimentare, stabilire relazioni, per provare piacere con gli altri.

A scuola si adopera una distinzione tra  “jocus” e “ludus”: il primo ad indicare un passatempo, il secondo un piacere sfrenato con regole ridotte al minimo. Gli joci sono regolati da regole, tempi, obbiettivi da raggiungere mentre i ludi sono più liberi e meno vincolati.

I modelli pedagogici del gioco

Ci sono vari modelli pedagogici di gioco cui i pedagogisti si rifanno consapevoli che « non potrà mai essere elaborata una teoria generale pedagogica sul gioco».

I tre modelli sono denominati funzionale, occasionale e delegato. Il primo ha come obbiettivo l’imparare più e meglio. Il bambino è gioco con gli insegnanti, gli altri alunni. È ritenuto funzionale perché  si impara giocando. Il secondo modello ovvero quello occasionale, ritiene che il gioco sia importante ma nello stesso tempo “speciale” . è  separato dall’attività didattica ed è regolato in momenti e tempi stabiliti. L’ultimo modello infine sostiene che la scuola non sia il luogo ove giocare in quanto richiede questa attività spazi adeguati  e il bambino deve poter utilizzare la sua fantasia al meglio.

Una delle finalità pedagogiche della scuola resta quella di ridurre al minimo lo sforzo del bambino nell’apprendere. L’insegnante deve rendere affascinante e meravigliose le varie forme di conoscenza, invogliare il bambino alla curiosità: «creatività e apprendimento dovrebbero compenetrarsi».
In questo periodo così lungo e impegnativo i bambini crescono e con loro i pensieri e si accingono pian piano a diventare degli adolescenti in piena tempesta!

Questo lo vedremo più avanti, nello specifico nell’ultima fase dello sviluppo secondo Piaget, ossia lo stadio operatorio formale dai 12 anni in poi.
Per ora giochiamo e divertiamoci con loro. Non esiste miglior apprendimento per i bambini e per gli adulti.

I bambini nel loro chiedere, hanno il potere molto raro di rendere felici due persone in modo opposto : chi si compiace di esaudire il loro ingenuo desiderio ed essi stessi che l’hanno quindi esaudito.

Alzheimer, scoperta rivoluzionaria: origine del morbo legata a depressione e disturbi dell’umore

Lo studio italiano, pubblicato sulla rivista Nature Communications, rivoluziona l’approccio alla demenza di Alzheimer imputandone l’origine all’area tegmentale ventrale, dove viene prodotta la dopamina, neurotrasmettitore coinvolto anche nei disturbi dell’umore.

 

La demenza di Alzheimer

La malattia di Alzheimer (Alzheimer disease – AD) è un disturbo neurologico caratterizzato da sintomi cognitivi e non cognitivi che sono associati ad atrofia cerebrale.

Nel mondo, secondo il World Alzheimer Report 2016 della Federazione Alzheimer’s Disease International (ADI), oltre 47 milioni di persone soffrono di demenza, un numero destinato a salire, a causa dell’invecchiamento della popolazione, a 131 milioni entro il 2050. L’età media dei malati di demenza di Alzheimer è di 78,8 anni, i caregiver impegnati nella loro assistenza ne hanno in media 59. Il morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza senile, oggi in Italia colpisce, 500-600 mila persone, pari al 5% delle persone con più di 60 anni.

Secondo una ricerca Censis-AIMA, il 18% vive da solo con la badante e i costi diretti per l’assistenza superano gli 11 miliardi di euro in Italia di cui il 73% è a carico delle famiglie. Oggi l’unico modo di fare una diagnosi certa di demenza di Alzheimer, ricorda il portale dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), è attraverso l’identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile solo con l’autopsia post-mortem. Nonostante i tanti investimenti in ricerca nel settore, non esistono ancora farmaci in grado di fermare e far regredire la malattia e tutti i trattamenti disponibili puntano a contenerne i sintomi.

Morbo di Alzheimer: la causa nell’area che governa i disturbi dell’umore?

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, la causa della demenza di Alzheimer non va cercata, come svolto finora, nell’area del cervello responsabile della memoria, ma sarebbe dovuta alla morte dei neuroni presenti in una delle zone che governa anche i disturbi dell’umore. La scoperta, tutta italiana, che promette di rivoluzionare l’approccio alla ‘malattia del secolo’, è il risultato di una ricerca coordinata da Marcello D’Amelio, professore di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Lo studio, condotto in collaborazione con la Fondazione IRCCS Santa Lucia e il CNR di Roma, getta una luce nuova su questa patologia che, solo in Italia, colpisce circa 500-600 mila persone. Finora si riteneva che, a causare la demenza di Alzheimer, fosse una degenerazione delle cellule dell’ippocampo, area cerebrale da cui dipendono i meccanismi del ricordo. La nuova ricerca invece, punta l’attenzione sull’area tegmentale ventrale, dove viene prodotta la dopamina, neurotrasmettitore coinvolto anche nei disturbi dell’umore. Come in un effetto domino, la morte di neuroni deputati alla produzione di dopamina provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, con la conseguente perdita dei ricordi.

L’ipotesi è stata confermata in laboratorio, somministrando su modelli animali con Alzheimer, due diverse terapie: una con un amminoacido precursore della dopamina (L-DOPA), l’altra a base di un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, si è registrato il recupero della memoria insieme a un pieno ripristino della motivazione. L’area tegmentale ventrale rilascia dopamina anche nell’area che controlla la gratificazione. Per cui, con la degenerazione dei neuroni dopaminergici, aumenta anche il rischio di andare incontro a una progressiva perdita di iniziativa. Questo spiega perchè la demenza di Alzheimer è accompagnata da un calo nell’interesse per le varie attività della vita, fino alla depressione.

Perdita di memoria e depressione possono essere definite due facce della stessa medaglia. Tuttavia, diversamente da quanto finora ritenuto, i cambiamenti dell’umore non sarebbero conseguenza dell’Alzheimer, ma un segnale del suo inizio. Pur essendo ancora lontana una cura, i risultati suggeriscono che terapie future, tanto per la demenza di Alzheimer che per il morbo di Parkinson, anch’esso causato dalla diminuzione dei neuroni che producono dopamina, potrebbero concentrarsi partendo da questa nuova scoperta.

Manipolazione psicologica: conoscerla per difendersi da essa

La manipolazione psicologica non è solo un processo psicologico, ma è un processo comunicativo (Zimbardo, 2008): un bravo comunicatore è colui che riesce a veicolare messaggi semplici, anche se profondi e sorprendenti, concreti e credibili, facendo leva sui fattori emotivi e con una modalità narrativa facilmente riproducibile.

Andrea Ferrari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

[blockquote style=”1″]Non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità[/blockquote] (Joseph Conrad).

In cosa consiste la manipolazione psicologica

Nel realizzare questa breve guida abbiamo tentato di ampliare i canoni della letteratura psicologica divulgativa, solitamente dominata da articoli che descrivono come possiamo ottenere un maggior benessere personale, cosa influenza le relazioni sentimentali o su come andare d’amore d’accordo con il nostro partner, figli, colleghi di lavoro ecc. Altri articoli, di stampo più specialistico, forniscono informazioni utili ad una platea di professionisti delle discipline psicologiche, aggiornandoli su nuove procedure diagnostiche, tecniche di intervento, studi di efficacia ecc.

D’altra parte, chi ha mai detto che la psicologia è solo una disciplina di aiuto? È probabile che il lettore profano, dinanzi alla parola psicologia, si immagini di calarsi all’interno di uno studio finemente arredato, con il pavimento in legno e le pareti dominate da acquerelli, attestati e un’immensa libreria di noce. La sua immaginazione lo porterà, quindi, su un divano comodo su cui stare seduto, o anche sdraiato, raccontando ciò che gli passa per la testa ad un signore barbuto, intento a prendere appunti.

Oggi vorremmo offrirvi un’immagine molto meno rassicurante, conducendovi all’interno di una stanza polverosa e chiusa a chiave, senza finestre, con la luce spettrale di un neon che illumina il volto del vostro interlocutore, intento a fumarsi una sigaretta mentre il suo sguardo, torvo, non abbandona neanche per un istante i vostri occhi; sa che, presto o tardi, gli direte ciò che vuole sentirsi dire.

Lo studio dei processi di manipolazione, suggestione e influenzamento è un tema caro alla psicologia sociale, che se ne occupa da decenni. La fine della II guerra mondiale costrinse il mondo occidentale a riflettere sui regimi totalitari, sollevando interrogativi inquietanti sul contributo di ciascun individuo nella genesi e nel mantenimento di sistemi politico-sociali basati sulla restrizione delle libertà, sulla violenza e sulla giustificazione dei crimini più atroci.

Milgram (1974) dimostrò in modo magistrale ciò che Hannah Arendt, quasi contemporaneamente, scriveva mentre assisteva al processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme: un uomo qualunque, inserito in un contesto socioculturale favorente, potrebbe diventare uno spietato gerarca nazista.

Milgram individuava nell’obbedienza, e nel timore di contraddire una fonte di autorità i fattori in grado di far compiere un’azione brutale, come somministrare una scarica elettrica ad alto voltaggio ad una persona indifesa. Tuttavia, la descrizione che la Arendt fa di Eichmann evidenzia fattori ancora più inquietanti nella loro meschinità, come il carrierismo e il bisogno di conformarsi ad un sistema gerarchico, oltre ad una incapacità di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Da una parte il timore di contraddire un’autorità, dall’altra il desiderio di esserne complici, indipendentemente dalle implicazioni morali.

Ma fermiamoci qui. Mentre questi esempi riguardano processi di influenzamento, in cui una persona si adegua in modo più o meno cosciente a decisioni imposte, nei processi più francamente manipolativi, la vittima viene soggiogata nel modo di pensare e percepire la realtà, convincendosi di quanto gli viene inculcato.

La manipolazione psicologica in ambito forense

La comprensione dei fenomeni di manipolazione psicologica è particolarmente importante per la psicologia forense, che tra le varie cose si occupa di come le testimonianze giuridiche possano essere influenzate dalle condizioni psicologiche del testimone. Il fenomeno delle false confessioni ne è forse l’esempio più significativo. Pare inoltre che le forze investigative negli USA (ma non solo negli USA) siano facili a confondere la conduzione di un interrogatorio con l’estorsione di una confessione. Va detto che nel sistema giudiziario degli Stati Uniti, la confessione di un imputato assume un valore probatorio decisivo per le sorti di un processo, anche nei casi in cui vi siano scarse evidenze fattuali. Nel 25% dei casi in cui una persona è stata scagionata grazie all’esame del DNA, l’imputazione era avvenuta tramite una falsa confessione (Kassin et al, 2009).

Anche se starete pensando di non essere i tipi da confessare uno stupro o un omicidio che non avete commesso, le ricerche indicano che le persone innocenti sono particolarmente vulnerabili durante gli interrogatori. Secondo Redlich e Meissner (2009) negli Stati Uniti vi sono diverse modalità per condurre un interrogatorio allo scopo di produrre (o estorcere) una confessione, tutte accomunate da tre fasi:
– Isolamento: il sospettato viene detenuto in una piccola stanza e lasciato solo, non gli è permesso di contattare un avvocato di fiducia. Il soggetto trattenuto è così incoraggiato a vivere una condizione psicologica di precarietà, con sentimenti di ansia e insicurezza.
– Confronto: Gli investigatori assumono per principio che la persona che si trovano davanti sia IL colpevole. Quindi, glielo comunicano in modo esplicito, affermano di avere delle prove in mano che consentono di incriminarlo (è utile ricordare che alla polizia è legalmente permesso di mentire), che non gli conviene negare le sue colpe, e che queste comportano gravi conseguenze.
– Minimizzazione: in questa fase chi conduce l’interrogatorio assume un atteggiamento empatico con il sospettato, allo scopo di guadagnare la sua fiducia, gli offre delle giustificazioni per il crimine che (non) ha commesso.

Gli amanti delle serie TV potranno osservare un interrogatorio così descritto nella prima stagione di True Detective, operato da un convincente Matthew McConaughey. E se state pensando che, almeno in Italia, certe cose non accadano, vi invitiamo a leggere questo articolo di Kassin (2012) che dedica particolare attenzione al caso di Amanda Knox, e del delitto di Perugia. Possiamo quindi concludere che gli interrogatori sono un setting ideale per esercitare una manipolazione psicologica.

È interessante osservare come queste modalità di conduzione degli interrogatori sembrano adattarsi al modello circolare dell’abuso di Walker (1979): secondo l’Autrice, la genesi delle violenze domestiche seguirebbe quattro fasi, indicate come
1) Incremento della tensione: la comunicazione tra partner abusante e vittima si interrompe, quest’ultima si sente spaventata e avverte il bisogno di placare la rabbia dell’abusante.
2) Incidente: Il partner abusante manifesta rabbia nei confronti della vittima ed esercita minacce e intimidazioni, si verifica un abuso, a livello verbale, fisico o comportamentale.
3) Riconciliazione: il partner abusante si scusa e si giustifica incolpando la vittima, nega il comportamento di abuso o ne minimizza la gravità;
4) Calma: l’incidente viene “dimenticato”, e non si verificano altri abusi. I partner vivono una “luna di miele” fittizia.

Alla luce delle somiglianze tra i due modelli, non appare azzardato affermare che le false confessioni sono ben più di una tecnica di manipolazione, bensì appaiono come una forma sottile e raffinata di tortura: anche se questo termine non compare mai nei modelli descritti, è evidente che la vittima di questi processi si ritrovi a vivere in uno stato di paura e di sottomissione, con l’impossibilità di chiedere aiuto o uscire dalla relazione. Ne consegue che l’unico modo per cavarsela è acconsentire alle richieste di chi detiene il potere nella relazione.

Un altro fattore che può contribuire ad assoggettare chi subisce un interrogatorio è la mancanza di riposo. Un recente studio di Frenda coll. (2016) ha indagato il ruolo della deprivazione dal sonno impiegando un metodo sperimentale. La variabile dipendente consisteva nell’ammissione di aver compiuto un fatto che non si era commesso, ovvero la produzione di una falsa confessione. II 50% dei soggetti assegnati al gruppo sperimentale, che avevano trascorso una notte in bianco al laboratorio universitario, producevano una falsa confessione, contro il 18% dei soggetti di controllo.

La manipolazione psicologica avviene attraverso una buona comunicazione

La manipolazione psicologica non è solo un processo psicologico, ma è un processo comunicativo (Zimbardo, 2008): un bravo comunicatore è colui che riesce a veicolare messaggi semplici, anche se profondi e sorprendenti, concreti e credibili, facendo leva sui fattori emotivi e con una modalità narrativa facilmente riproducibile. A questo proposito può essere molto utile conoscere i sei principi della persuasione sociale illustrati da Robert Cialdini (2009):

1) Reciprocità: o principio del “ti offro un dito per prenderti il braccio”, indica la nostra tendenza a ricambiare un favore che ci viene offerto. Una tecnica di persuasione che sfrutta questo principio è quella dei campioni gratuiti, si fornisce ai clienti una piccola quantità di prodotto con l’ “innocente” intenzione di informare il pubblico, mentre ciò mette in moto l’obbligo di ricambiare il dono.
2) Impegno e coerenza: il bisogno di apparire coerenti con ciò che abbiamo fatto ci induce un cambiamento mentale che supera le pressioni personali e interpersonali nello sforzo di essere coerenti con quell’impegno. Una tattica persuasiva che sfrutta questo principio è la tecnica del “piede nella porta” che consiste nell’ottenere grossi acquisti cominciando con uno piccolo.
3) Riprova sociale: talvolta, nel decidere che cos’è giusto per noi, ci è di aiuto cercare di scoprire cosa gli altri considerano giusto. Ad esempio, tendiamo a considerare più adeguata un’azione quando la fanno anche gli altri. L’impiego dei testimonial nella pubblicità è una delle trasposizioni pratiche di questo principio, un altro esempio sono le risate finte nelle sitcom.
4) Simpatia: di regola preferiamo acconsentire alle richieste delle persone che conosciamo e che ci piacciono, o che percepiamo come simili a noi. I mariti rimasti vittime dei Tupperware party riconosceranno gli effetti drammatici che questo principio, apparentemente così innocuo, ha sulla nostra pazienza.
5) Autorità: o principio del Megadirettore galattico, indica il senso di deferenza verso l’autorità per cui tendiamo a seguire fino all’estremo l’ordine di una persona autorevole (o presunta tale) in un determinato campo. È il motivo per cui si usano i dentisti negli spot sui dentifrici.
6) Scarsità: un prodotto diviene più attraente quando la sua disponibilità è limitata. Questo principio rappresenta inoltre un ottimo deterrente alla procrastinazione: avete mai sentito parlare della “corsa all’ultimo acquisto”? Sulla base di questo principio i venditori usano frequentemente le tattiche del numero limitato, o dell’offerta valida per pochi giorni.

Le caratteristiche di chi compie la manipolazione psicologica

Passiamo infine alla descrizione delle caratteristiche psicologiche del manipolatore: se questa è la carriera che desiderate intraprendere, potrebbe esservi di aiuto possedere di tratti di personalità afferenti alla triade oscura (Furnham et al., 2012; Paulhus & Williams, 2002), ovvero un costrutto impiegato per descrivere una costellazione di tre tratti di personalità:
narcisismo: tratto di personalità che descrive individui che tendono ad apparire ambiziosi, determinati e dominanti nelle relazioni interpersonali, fino ad esibire un senso di superiorità;
– machiavellismo: tratto di personalità che descrive individui con una forte tendenza al cinismo, alla scarsa considerazione per i principi etici e morali, con la tendenza a manipolare gli altri per raggiungere i propri scopi;
psicopatia: è considerato il tratto più maligno della triade oscura, descrive persone caratterizzate da scarsi livelli di empatia, in combinazione ad alti livelli di impulsività e ricerca di eccitazione. Molti di questi individui manifestano condotte francamente antisociali.

Ora che, in questa breve guida, abbiamo illustrato le principali conoscenze teoriche sulla manipolazione psicologica, siamo certi che la vostra fiducia nel genere umano non sia di certo aumentata. Riteniamo però che conoscere questi processi sia il necessario presupposto per potersi difendere, ricordando al lettore di stare in guardia quando il nostro interlocutore ci evoca sensazioni di insicurezza o di franca minaccia, o quando ad un comportamento seduttivo fanno seguito richieste di impegno (economico, affettivo, lavorativo…), alle quali sente di faticare a sottrarsi. Le domande da farsi in questi casi sono “cosa sta tentando di ottenere rivolgendosi a me in questo modo?”, “mi riesce davvero impossibile sottrarmi?”, “ci sono argomentazioni contrarie da opporre?”. Riconoscere il comportamento manipolativo è il primo passo per potersi sottrarre ad esso, con la necessaria fermezza che deriva dalla consapevolezza dei propri diritti che mai, debbono essere calpestati, sia tra le mura di casa, sia nelle aule della giustizia.

Tuttavia, la manipolazione psicologica fa parte della vita, e non vogliamo invitare il lettore a diventare paranoide nel tentativo di difendersi da minacce sconosciute. Tralasciando casi estremi come gli interrogatori di polizia, essere persuasi, ma anche lasciarsi infinocchiare, sono esperienze comuni; per chi ha un’impresa non è raro subire una truffa da un cliente o un fornitore, così come per chi è in cerca dell’amore della vita, non è raro subire il fascino di persone con intenzioni meno nobili. Ma queste esperienze, per quanto spiacevoli, non sono la prova di una sconfitta: possiamo incassare colpi sporadici senza perdere fiducia e positività nell’affrontare la vita, consapevoli che il mondo non è sempre un luogo rassicurante in cui vivere.

 

La neuroinfiammazione: ruolo e funzione nei disturbi psichiatrici

La neuroinfiammazione consiste in una complessa cascata di eventi biologici attraverso la quale, a partire dall’attivazione della microglia, si produce uno stato infiammatorio che persiste oltre la normale durata fisiologica, provocando uno condizione patologica progressiva.

Veronica Aggio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La neuroinfiammazione e le encefaliti

Storicamente, la neuroinfiammazione è stata inizialmente affrontata come argomento di ricerca solo relativamente allo studio delle encefaliti. L’encefalite è definibile come un processo infiammatorio sviluppatosi a livello cerebrale, e può essere classificata in: encefalite primaria, quando l’infezione origina direttamente a livello encefalico, encefalite secondaria, quando invece è una conseguenza di uno stato infiammatorio organico esterno al cervello, ed una encefalite autoimmune, provocata da una risposta anomala del sistema immunitario dell’individuo.

Tra il 1916 e il 1927, subito dopo la prima guerra mondiale, venne riportata una devastante epidemia di “encefalite letargica”, così denominata dal medico von Economo: i sintomi principali che colpivano i soggetti comprendevano i disturbi del sonno, letargia, sindromi extrapiramidali, e disturbi neuropsichiatrici quali il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), disturbi della condotta, catatonia, mutismo e apatia; ancora oggi, seppur molto raramente, vengono riportati dei casi di encefalite letargica che, se non completamente curata, può provocare un parkinsonismo postencefalico permanente. Tali processi infiammatori localizzati a livello cerebrale sono riscontrabili anche nelle patologie neurodegenerative: nel disturbo di Alzheimer, studi clinico-patologici mostrano come l’attivazione della microglia rappresenti un evento patogenico precedente all’estesa perdita neuronale caratteristica del disturbo, rappresentandone quindi un possibile biomarker. Inoltre, l’utilizzo di alcuni farmaci anti-infiammatori sembra possa prevenire e ritardare il rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer.

La neuroinfiammazione e le patologie psichiatriche

Risulta quindi intuitiva l’importanza del ruolo svolto dalla neuroinfiammazione nelle varie patologie inerenti il cervello; anche per questo, negli ultimi decenni, lo studio delle molecole legate alle risposte infiammatorie è stato esteso anche all’ambito psichiatrico. Uno dei primi inisght per lo studio dei fattori infiammatori anche in ambito psichiatrico deriva dalla pubblicazione nel 1988 di un lavoro di Mednick e colleghi, che riporta un aumento del rischio di sviluppo della schizofrenia nei figli delle madri affette dall’influenza epidemica del 1957 in Finlandia. Nel lavoro veniva proposta l’idea che un’infezione virale durante gli ultimi due trimestri di gravidanza potesse aumentare il rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta.

L’analisi retrospettiva di pazienti ricoverati ad Helsinki con diagnosi di schizofrenia, mostrò come molte delle madri dei pazienti, all’epoca in gestazione, avevano contratto o erano state esposte all’influenza epidemica di tipo A2. Successivamente, nel 2007, uno studio danese confermò i dati precedentemente riportati da Mednick, mostrando nuovamente un aumento del rischio per la schizofrenia associato all’influenza della madre durante la gestazione. Oltre agli stati influenzali, è stata riportata un’associazione fra un’ampia varietà di infezioni virali e batteriche contratte dalle madri durante la gestazione (morbillo, varicella-zoster, rosolia etc) ed un aumento del rischio di sviluppo di schizofrenia dei figli.

Partendo quindi dall’analisi del rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta, molti ricercatori hanno spostato l’attenzione all’analisi dei fattori infiammatori nella patogenesi e mantenimento delle patologie psichiatriche.

Da un punto di vista fisiologico, il corpo è dotato di un duplice sistema immunitario, uno innato ed uno adattivo, mentre il cervello non possiede un proprio sistema immunitario specifico. Il primo elemento che protegge meccanicamente (fisicamente, con la propria presenza) ed enzimaticamente il cervello è la barriera ematoencefalica (BBB – brain blood barrier). La BBB lascia passare selettivamente e bidirezionalmente diverse citochine: l’interleuchina 1-α (IL-1 α), IL-1β, IL-1ra, IL-6, fattore di necrosi tumorale (TNF), fattore inibitorio di leucemia (LIF) e diverse adipochine (citochine secrete dal tessuto adiposo). Queste citochine, che fungono da segnalatori di comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e i diversi organi, rivestono un ruolo importante sia nella risposta fisiologica ad uno stato infiammatorio che nei processi neurodegenerativi. Per esempio, il TNF-α può causare uno stato infiammatorio, la morte cellulare inducendone l’apoptosi, e fungere da mediatore per la produzione/rilascio di altre citochine come IL-6, IL-1β e IL-8.

Una seconda forma di protezione del CNS viene fornita dalla microglia, ovvero le cellule immunitarie residenti nel sistema nervoso centrale (CNS), in condizioni normali si presenta in uno stato definito “silente”, caratteristico per la presenza di un piccolo soma e ramificazioni. In questa condizione, lo scopo della microglia è quello di controllare e sorvegliare costantemente l’ambiente circostante per verificare eventuali alterazioni dell’omeostasi cerebrale in seguito a traumi, infezioni, o alterazioni dell’attività neuronale stessa. Se rileva una di queste condizioni, la microglia cambia conformazione e passa ad uno stato “attivo”, assumendo una forma tondeggiante e acquisendo maggior motilità per raggiungere il sito dove è stata riscontrata tale anomalia. Una delle funzioni principali della microglia attivata è quella di regolare la risposta immunitaria del CNS e promuovere delle risposte idonee alla situazione, come il rilascio di citochine pro ed anti infiammatorie. E’ proprio questa risposta infiammatoria a livello cerebrale che viene definita neuroinfiammazione e rappresenta una risposta fisiologica fondamentale atta a difendere e proteggere il CNS. Se, però, tale stato fisiologico si protrae nel tempo in modo incontrollato, può risultare potenzialmente dannoso; ciò è particolarmente evidente nelle patologie neurodegenerative, dove è riscontrabile una condizione di neuroinfiammazione e la microglia risulta essere attivata.

Lo studio della neuroinfiammazione ha fornito risultati interessati in ambito psichiatrico, in particolare rispetto alla schizofrenia, al disturbo bipolare (BD – bipolar disorder) e alla depressione maggiore (MDD – major depressive disorder). Questi tre disturbi rappresentano ad oggi le patologie che comportano una maggiore compromissione e gravità in ambito psichiatrico. La schizofrenia, fra queste, è forse la più conosciuta in assoluto, a causa della sua caratteristica sintomatologia positiva (deliri e allucinazioni), insieme ad un marcato deficit cognitivo e sociale.

Il disturbo bipolare, invece, si caratterizza per un’ alternanza di episodi ipomaniacali (disturbo bipolare I), maniacali o misti (disturbo bipolare II) e depressivi con fasi “depressive”. Infine, la depressione maggiore, ed in particolare la depressione maggiore ricorrente, è definita da un umore deflesso solitamente accompagnato da sentimenti di svalutazione, perdita degli interessi, apatia e anedonia. Partendo da quest’ultimo, gli studi che hanno valutato il ruolo esercitato dalle molecole inerenti l’infiammazione nella MDD hanno più volte riscontrato le due cose come associate: i pazienti affetti da MDD che non hanno mai assunto degli psicofarmaci (drug-naive), mostrano un’alterazione dell’equilibrio fra fattori pro-infiammatori, come IL-1β, IL-2, IL-6, interferone-γ (IFN- γ), TNF ed i fattori anti-infiammatori (IL-4, IL-10). In particolare, in una recentissima review di Ke e collaboratori [2] sul ruolo svolto dalle citochine, ed in particolare dal TNF-α nella MDD, viene riportato come gli elevati livelli dei fattori pro-infiammatori riscontrati nei pazienti possano contribuire alla patogenesi del disturbo; anche gli studi pre-clinici su modelli animali mostrano come, iniettando elevati livelli di citochine pro-infiammatorie, l’animale inizi a mostrare dei sintomi e comportamenti simil-depressivi, dando ancora maggior appoggio alla teoria “macrofagica della depressione”, così come inizialmente definita da Smith, ed oggi riconosciuta come “teoria della depressione basata sulle citochine”.

Altri studi hanno dimostrato come le molecole pro-infiammatorie correlino positivamente con la gravità della sintomatologia depressiva (all’aumentare del numero di molecole pro-infiammatorie, aumenta la gravità dei sintomi). Invece, gli studi inerenti le terapie farmacologiche hanno dimostrato che l’utilizzo di antidepressivi riduce il rilascio di fattori infiammatori circolanti, incrementando anzi il rilascio di antagonisti endogeni delle citochine pro-infiammatorie come IL-10. Di converso, sia le molecole pro-infiammatorie che i fattori di crescita neuronale sono in grado di influenzare la risposta agli psicofarmaci. I pazienti affetti da MDD presentano bassi livelli della neurotrofina BDNF (brain-derived neurotrophic factor): studi recenti mostrano come i pazienti che presentano, alla baseline, livelli maggiori di BDNF rispetto al decremento generale riportato, hanno anche una risposta migliore agli antidepressivi, in particolare agli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina); infine, sembra che gli antidepressivi stessi, siano in grado di aumentare la produzione di BDNF circolante.

I fattori neuroinfiammatori risultano essere correlati anche con il rischio di suicidio, presente in tutte e tre le patologie psichiatriche sopra citate (MDD, BD e schizofrenia). Se comparati con pazienti depressi senza ideazione suicidaria, i pazienti con MDD che nella sintomatologia presentano anche un’ideazione sucidaria hanno dei livelli maggiori di molecole infiammatorie circolanti a livello periferico. Sembra sia oltretutto possibile identificare un profilo distinto di citochine periferiche caratteristico dei pazienti con MDD suicidi rispetto ai pazienti depressi.

Infine, gli stessi fattori che potrebbero essere implicati nella patogenesi e nel mantenimento di queste patologie psichiatriche sembrano avere anche un effetto sulla struttura cerebrale dei pazienti: tra gli studi recenti, uno degli ultimi lavori del gruppo di Benedetti e colleghi ha riportato una relazione fra alcune citochine pro-infiammatorie e gli indici di integrità della sostanza bianca (basati sulla diffusione delle molecole d’acqua nel cervello). In particolare, queste molecole erano associate significativamente con una diminuzione degli indici di integrità della sostanza bianca (anisotropia frazionaria) e con un aumento degli indici di permeabilità della guaina mielinica che riveste l’assone (diffusività radiale e media) in differenti fasci globalmente localizzati.

In conclusione, gli studi che hanno investigato il ruolo svolto dalla neuroinfiammazione hanno dimostrato che esiste un’alterazione generale dei parametri infiammatori nei pazienti affetti dalle principali patologie psichiatriche (MDD, BD e schizofrenia), sia in relazione alla patologia in quanto tale, sia rispetto alla sintomatologia e alle caratteristiche cerebrali strutturali (sostanza bianca e sostanza grigia). Risulta quindi essere di fondamentale importanza l’integrazione fra i dati provenienti dal mondo clinico con quelli più di carattere neuro scientifico e biologico per approfondire ulteriormente il ruolo e gli effetti della neuroinfiammazione in ambito psichiatrico.

 

Life Skills: l’importanza di apprendere empatia e abilità socio-emotive tra i banchi di scuola

Le Life Skills assumono particolare importanza all’interno della psicologia della salute e della prevenzione, in questo contesto, all’interno delle scuole, vengono applicati programmi per i giovani studenti per accrescere autonomia e specifiche capacità individuali e sociali.

 

Le Life Skills diventano un tema di discussione rilevante intorno agli anni 70 e assumono particolare importanza all’interno di una più grande area, rappresentata dalla psicologia della salute e della prevenzione. In questo contesto, all’interno delle scuole, iniziano ad essere applicati dei programmi finalizzati a incrementare nei giovani studenti un maggiore senso di autonomia e ad accrescere anche specifiche capacità individuali e sociali.

A fornire maggiore sostegno, nel 1993, è l’Organizzazione Mondiale della Sanità che pubblica un documento che invita all’insegnamento delle Life skills all’interno del contesto scolastico.

Le Life skills sono state definite dall’ OMS come l’insieme di specifiche abilità personali e sociali che permettono agli individui di far fronte alle sfide, richieste e difficoltà che si presentano nei diversi contesti della vita quotidiana. L’assenza di tali abilità personali e sociali può indurre nelle persone, soprattutto nei giovani, l’instaurarsi di comportamenti a rischio e l’incapacità di fronteggiare efficacemente situazioni di stress quotidiane.

Effetti a lungo termine dei programmi di apprendimento di Life skills

In particolare, nuove ricerche della UBC dell’Università dell’Illinois di Chicago e Loyola University dimostrano come i programmi di apprendimento di Life skills per i giovani non solo migliorano immediatamente la salute mentale, le abilità sociali e gli obiettivi di apprendimento, ma i bambini continuano a mantenere i benefici anche dopo molti anni.

Eva Oberle, assistente di professione presso l’UBC Human Early Learning Partnership nella scuola della popolazione e della sanità pubblica, ha dichiarato:

I programmi di apprendimento socio-emotivo insegnano le abilità di cui i bambini hanno bisogno per avere successo e prosperare nella vita.

L’apprendimento socio-emotivo insegna ai bambini a riconoscere e comprendere le loro emozioni, provare l’empatia, prendere decisioni, costruire e mantenere relazioni sane. Precedenti ricerche hanno dimostrato che l’applicazione di questi programmi di apprendimento di Life skills nelle scuole, non solo migliora i risultati relativi all’apprendimento didattico, ma in più riduce l’ansia e i problemi comportamentali tra gli studenti. Tra i programmi di apprendimento socio-emotivo che vengono spesso applicati troviamo ad esempio il MindUP e Roots of Empathy.

E’ stata condotta una ricerca al fine di valutare se, l’applicazione tali programmi di apprendimento delle Life skills, avesse effettivamente degli effetti positivi sugli individui a distanza di tempo, in quanto gli effetti positivi immediati sono facilmente rilevabili. Questo studio ha analizzato i risultati di 82 diversi programmi che hanno coinvolto più di 97.000 studenti, provenienti dalla scuola materna alla scuola media negli Stati Uniti, in Europa e nel Regno Unito, dove gli effetti sono stati valutati almeno sei mesi dopo la conclusione dei programmi. I ricercatori hanno scoperto che l’apprendimento socio-emotivo ha continuato ad apportare effetti positivi a lungo termine sugli studenti.

In particolare, i risultati evidenziano come gli studenti che hanno partecipato a programmi di apprendimento di Life skills si sono laureati all’università con un tasso superiore dell’11% a quelli che invece non hanno partecipato allo studio. Il tasso di diplomi delle scuole superiori è stato superiore del 6% e i problemi legati all’utilizzo dei farmaci sono stati inferiori del 6% per i partecipanti al programma. Infine, i tassi di arresto sono inferiori del 19% e le diagnosi di disturbi della salute mentale sono inferiori del 13,5% per coloro che hanno preso parte ai programmi.

Oberle ei suoi colleghi hanno anche scoperto che tutti i bambini, indipendentemente da etnia, background socioeconomico o dalla scuola, hanno beneficiato dei programmi.

Oberle afferma che:

L’insegnamento relativo all’apprendimento di abilità socio-emotive nelle scuole è un modo per sostenere i singoli bambini nei loro percorsi di crescita, ed è anche un modo per promuovere migliori risultati della salute pubblica più tardi nella vita.

Oberle e i suoi colleghi sostengono che le scuole siano il luogo ideale per attuare questi interventi di apprendimento di Life skills, perché favoriscono l’inclusione di quasi tutti i bambini, anche quelli considerati a rischio. Infine, Oberle mette in evidenza come, soprattutto durante gli anni della scuola media e prima adolescenza, i giovani si allontanino dalle loro famiglie divenendo sempre più sensibili alle influenze dei gruppi e degli insegnanti. I bambini spendono circa 923 ore in classe ogni anno, e ciò che accade nelle scuole è molto influente sul loro sviluppo.

Adulti con ADHD: come superare le sfide e le difficoltà legate al disturbo

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e dei livelli di attivazione. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità da parte degli adulti con ADHD di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.

 

Le difficoltà che incontrano gli adulti con ADHD

Gli adulti con ADHD spesso si considerano persone improduttive, o ancor peggio, pigre e incompetenti.
Ottenere risultati, soprattutto se legati a compiti noiosi, può sembrare impossibile e chi ci prova spesso ne esce demoralizzato.

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e dei livelli di attivazione. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.

Ma il vero problema del sentirsi incompetenti non è perchè chi ne è affetto è una persona inefficace o inutile; il problema risiede, in realtà, nel non possedere le strategie efficaci.

Questo quanto afferma Roberto Olivardia, psicologo clinico specializzato in individui con ADHD e lui stesso affetto da questo disturbo.
Egli ha suggerito agli adulti con ADHD di pensare a se stessi come “produttori in corso”.

Le strategie che possono essere utili per gli adulti con ADHD

Se dovessimo fare un tour nell’universo dell’ADHD cosa troveremmo? Vediamo quali sono le sfide più ardue per alcuni soggetti intervistati.

Per Roberto Olivardia la sfida più grande nel fare compiti più complessi del normale è la mancanza di motivazione per cose che non sono urgenti o emozionanti.

Ecco perché secondo lui, una strategia utile sarebbe quella di creare un senso di urgenza con dei timer.
Per esempio: egli non ama la falciatura del prato, quindi quando deve farlo imposta un timer di 34 minuti e 32 secondi e cerca di battere quel tempo; questo fornisce una certa stimolazione al compito, come se stesse intraprendendo una gara.

Risulta inoltre utile separare un compito in piccoli passi in modo che questi sembrino gestibili e richiedano poca energia.
Per esempio, quando Olivardia scrive un documento di ricerca, lo scompone in questi passaggi:
1) Carta 2) Assicurarsi che l’inchiostro e la carta siano pronti e la scrivania sia pulita 3) Scrittura della bibliografia 4) Scrivere l’introduzione 5) Scrivere il metodo 6) Scrivere la sezione dei risultati 7) Scrivere la conclusione 8) Leggere la bozza e fare qualsiasi modifica.
Infine, Olivardia ricorda che compiti noiosi o impegnativi sono semplicemente noiosi o impegnativi, “non esiste un modo magico per renderli piacevoli” ricorda inoltre.

Abbiamo visto dunque come la motivazione possa essere una strategia efficace, vediamo ora invece la sfida più grande per Bonnie Mincu, con diagnosi di ADHD e fondatrice della pratica di coaching “Thrive with ADD”.

La strategia più efficace per lei è quella di crearsi degli imprevisti.
Come imprenditrice, ha un’agenda con un programma scandito da scadenze: ciò che aiuta Mincu è infatti creare una scadenza, oltre che stabilire un’ora di partenza del compito che si propone di svolgere; se avvengono poi imprevisti l’importante è stare negli orari stabiliti.
Per esempio, quando deve lavorare ad una pagina web, Mincu si crea una schema nel quale mette a che ora lavorerà ad una determinata pagina, quanto tempo impiegherà e quando finirà.
Altra sfida da affrontare per chi soffre di questa patologia, sono le distrazioni e quanto queste possano deconcentrare.

Per Dana Rayburn, anch’essa affetta da ADHD, la sfida più grande sono appunto le distrazioni quali “Facebook, email, telefonate, messaggi di testo, spettacoli televisivi, libri, familiari e amici”, ha detto Rayburn, che conduce programmi di coaching privati e di gruppo per persone con ADHD.
Per questo ha sviluppato un processo a tre fasi per affrontare le distrazioni. Naturalmente, per prima cosa è importante che ci si accorga che l’attenzione si è defocalizzata. In secondo luogo bisogna controllare le distrazioni ed infine, reindirizzare l’attenzione al compito.

Per le persone con ADHD quindi cosa impedisce di essere produttivi?
Non conoscere il “colpevole” specifico, quindi non riconoscere effettivamente quello che ci sta distraendo, è in realtà il blocco più grande per ottenere dei risultati, ha detto Mincu.
Frequentando le persone con ADHD sente spesso dire : “Per qualunque motivo non ho fatto [il compito]”.
Tuttavia, c’è sempre una ragione, e identificare che ragione o che motivi specifici si sono intromessi nella riuscita del compito possono aiutare a trovare la strategia giusta per superare la sfida.

Per esempio, se ci si sente stressati perché sembra che si abbiano troppe cose da fare, la soluzione è quella di preparare un piano e creare un calendario che aiuta a visualizzare che c’è tempo per tutto ciò che è nell’elenco.

 

Ovviamente, identificare le trappole della produttività potrebbe non essere così semplice. Questo è il momento in cui entra in gioco l’aiuto di un allenatore o di un terapeuta.
È anche importante osservare se stessi. Ogni volta che si tenta di eseguire un’attività, cosa succede? Come ci si sente? Quali pensieri si hanno? Quando si è in grado di completare un’attività, che tipo di compito è? Qual è l’ambiente idoneo per farlo? In altre parole, cosa sembra che possa aiutare a compiere quel compito?

Ottenere le cose quando soffri di ADHD può essere difficile, poiché l’ADHD colpisce tutto, dalla capacità di sostenere l’attenzione alla capacità di priorità.
Ma, come dimostrano alcuni adulti con ADHD, è assolutamente possibile superare i propri ostacoli.
La chiave è identificare le insidie personali e trovare soluzioni ADHD-friendly che funzionino.

Il cliente (2016) di Aristide Tronconi – Recensione del libro

Il romanzo Il cliente affronta il tema dell’ omosessualità che, contemplato attraverso grandi figure storiche, eroi e poeti, evidenzia le grandi contraddizioni e paradossi della società contemporanea che, impaurita dalla diversità, rigetta ciò che non riconosce per tutelarsi.

 

Protagonista de Il cliente è Marco, un uomo sposato di mezz’età. Affetto da dolori alla schiena che pregiudicano attività lavorativa e famigliare. Si affida alle cure di Alessandro, giovane fisioterapista. Il rapporto tra i due è dapprima convenzionale, professionista-cliente, ma a mano a mano che le sedute vanno avanti, dall’ iniziale dialogo formale prendono una piega introspettiva, quasi mimando un percorso di analisi reciproca che porterà ad una intimità maggiore e ad uno scambio di ruoli.

Attraverso una scrittura scorrevole, il romanzo Il cliente con una chiave del tutto realistica affronta il tema dell’ omosessualità che, contemplato attraverso grandi figure storiche, eroi e poeti, evidenzia le grandi contraddizioni e paradossi della società contemporanea, le diverse difficoltà sulla presa di coscienza e accettazione del proprio “io” rapportate all’impreparato mondo che impaurito dalla diversità, rigetta ciò che non riconosce per tutelarsi.

Si rimanda molto ne Il cliente, come detto, al mito greco ma, l’ omosessualità è una tematica per la nostra società del tutto estranea alla naturalezza con cui si descrive nel De Rerum Naturae, citato da Marco. Dalla grecia ai giorni nostri, dalla naturale attrazione, l’ omosessualità è diventata prima “ devianza sessuale” e quindi inserita nel DSM (Diagnostic   and   statistical   manual   of   mental   disorders,   dall’American   Psychiatric  Associatio) e solo nel 1993 viene definito dalla psichiatria come un “orientamento sessuale” non patologico.

Il cliente: omosessualità e omofobia

Il problema principale per le persone omosessuali è l’ omofobia. Il termine omofobia compare nel 1972, nel libro di G. Weinberg “Society and the Healthy Homosexual”. La definizione di omofobia è:

paura irrazionale, l’intolleranza e l’odio perpetrati nei confronti delle persone omosessuali, gay e lesbiche, dalle società “eterosessiste”, che si rifanno a uno schema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di persone non eterosessuali.

La definizione attuale di omofobia è:

un insieme di emozioni e sentimenti quali ansia, disgusto, avversione, rabbia, paura e disagio che gli eterosessuali provano, consapevolmente o inconsapevolmente, nei confronti di gay e lesbiche (Hudson e Rickets, 1980).

Tutto questo si traduce in una grande difficoltà per le persone omosessuali che si ritrovano ad affrontare quotidianamente problematiche sociali e personali dovute all’ omofobia; a volte ciò può comportare difficoltà emotive quali aumento degli evitamenti, ansia, depressione, e difficoltà nel vivere una vita serena.

Come la relazione fra allenatore e giocatore influisce sulle performance sportive dei giovani calciatori

Tutte le squadre di calcio, che gareggiano nella prima divisione inglese, hanno una scuola/accademia, il cui obiettivo è quello di coltivare nuovi talenti da avviare alla carriera calcistica. Queste istituzioni sono aperte a ragazzi di età compresa fra 9 e 21 anni. La qualità della relazione che si crea fra giocatore ed allenatore è estremamente importante in quanto ha dei riverberi di notevole portata sul giovane giocatore. Infatti, essa influisce sul suo benessere, sulle strategie di fronteggiamento degli ostacoli e sulle performance sportive.

 

La percezione del rapporto fra giocatore e allenatore rimane stabile nel tempo ed è correlata al raggiungimento degli obiettivi finali della scuola/accademia. Inoltre, un legame emotivamente forte fra allenatore e giocatore diviene il paradigma fondante di ottime performance sportive del futuro calciatore.

L’importanza della relazione tra allenatore e giocatore

Tutte le squadre di calcio, che gareggiano nella prima divisione inglese, hanno una scuola/accademia, il cui obiettivo è quello di coltivare nuovi talenti da avviare alla carriera calcistica. Queste istituzioni sono aperte a ragazzi di età compresa fra 9 e 21 anni. All’interno di tali scuole, i minori sono suddivisi in tre gruppi, ovvero i principianti, con un’età compresa fra 9 e 11 anni; le giovani promesse, la cui età varia fra 12 e 16 anni; i giovani in procinto di diventare giocatori professionisti, la cui età è fra 17 e 21 anni. I ragazzi delle prime due fasce frequentano contemporaneamente la scuola pubblica, che compete loro per età (primaria – secondaria). I giocatori dell’ultima fascia, dai 18 anni in su, una volta terminato l’obbligo scolastico, si dedicano completamente agli impegni connessi con la frequentazione dell’accademia. Essere un giocatore che proviene dall’accademia di una squadra di prima divisione è considerato il viatico per diventare giocatore professionista di élite (Nicholls e al., 2017).

La qualità della relazione che si crea fra giocatore ed allenatore è estremamente importante in quanto ha dei riverberi di notevole portata sul giovane giocatore. Infatti, essa influisce sul suo benessere (Lafreniere e al., 2011), sulle strategie di fronteggiamento degli ostacoli (Nicholls, 2016) e sulle performance sportive (Jowett e Cockerill, 2003). Esiste un legame diretto fra relazione allenatore – giocatore e qualità delle prestazioni dell’atleta (Mata e Da Silva Gomes, 2013; Vieria e al., 2015).

La relazione tra allenatore e giocatore favorisce il raggiungimento degli obiettivi

Una ricerca inglese (Nicholls e al., 2017) si è posta l’obiettivo di capire se la percezione da parte del giovane giocatore della relazione con l’allenatore cambia nell’arco di un semestre di frequentazione della scuola calcio e se tale relazione influenza il raggiungimento degli obiettivi formativi dell’accademia calcistica.

Alla ricerca hanno partecipato 104 giocatori delle scuole – calcio della premier league inglese. I ragazzi avevano un’età compresa fra 9 e 20 anni, con un’età media di 14 anni, appartenenti a più etnie.
Per valutare il rapporto fra allenatore e giocatore si è utilizzato il Questionario sulla relazione fra atleta e coach (CART – Q) di Jowett e Ntoumanis del 2004. Il questionario è composto da 11 item che misurano la vicinanza, l’impegno reciproco e la complementarità che si crea fra giocatore ed allenatore.

Il raggiungimento degli obiettivi formativi è stato sondato attraverso i 12 item della scala che stima il grado di padronanza nell’ambito delle competenze sportive (A – SAGS), messo a punto da Amiot e al. nel 2004. In questo test il giocatore deve valutare le sue abilità nello sport praticato.
I partecipanti hanno compilato i due questionari per due volte, a distanza di sei mesi una dall’altra.

La ricerca ha stabilito che la qualità della relazione fra giocatore e allenatore rimane stabile nel tempo ed è correlata al raggiungimento degli obiettivi finali della scuola. In altre parole, più la relazione è positiva e più il giocatore ha la percezione di essere in grado di raggiungere gli obiettivi accademici. Il fatto che la relazione fra allenatore e giocatore rimanga stabile nel tempo dimostra che, affinché essa sia foriera di un buon apprendimento, deve essere impostata in maniera efficace e positiva fin dalle prime fasi. Inoltre, una relazione emotivamente forte fra allenatore e giocatore diviene il paradigma fondante di ottime performance sportive del futuro calciatore (Nicholls e al., 2017).

Keywords: scuola calcio, giovane sportivo, allenatore, relazione, performance sportive.

Psiconcologia in adolescenza: il doppio dramma dell’accettazione della malattia e dei cambiamenti corporei

Psiconcologia in adolescenza: La neoplasia o tumore, rappresenta in patologia la formazione di un nuovo tessuto che sostituisce il precedente e che cresce in modo diverso da quello fisiologico. Quando tale malattia, di per sé debilitante ed estenuante per il corpo e la mente, si manifesta o viene scoperta durante la fase adolescenziale, molteplici sono le difficoltà e gli scompensi che possono verificarsi negli adolescenti.

Laura Allamprese

 

I cambiamenti che caratterizzano l’ adolescenza

L’ adolescenza rappresenta di per sé un periodo di vita caratterizzato da profondi cambiamenti. Sia per quanto riguarda l’aspetto corporeo che quello psichico. Il corpo maschile e femminile in questa fase vanno incontro a rapide modifiche, come il cambiamento della voce, la maturazione dell’apparato riproduttivo, la comparsa dei caratteri sessuali secondari, seguito a volte dall’incremento ponderale. In questa fase inoltre si stabilizza l’identità sessuale.

Il periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta, comporta anche degli sconvolgimenti nella vita psichica. I cambiamenti corporei spesso vengono vissuti con disagio e sofferenza, infatti l’immagine corporea non è più quella dell’infanzia ma non ha raggiunto la maturità sufficiente per essere considerata adulta. Secondo Mastrangelo gli adolescenti devono affrontare tre lutti: la perdita del corpo infantile, la perdita del ruolo infantile e la perdita dei genitori dell’infanzia. Il più sofferto di questi lutti è costituito dalla perdita del corpo infantile, in quanto nella società contemporanea non viene data nessuna connotazione sociale agli individui che si trovano in questa fase, che vengono dunque condannati ad una marginalità sociale.

Psiconcologia: quando il tumore genera ulteriori cambiamenti nel corpo

La neoplasia o tumore, rappresenta in patologia la formazione di un nuovo tessuto che sostituisce il precedente e che cresce in modo diverso da quello fisiologico. Quando tale malattia, di per sé debilitante ed estenuante per il corpo e la mente, si manifesta o viene scoperta durante la fase adolescenziale, molteplici sono le difficoltà e gli scompensi che possono verificarsi. Infatti tutti gli stravolgimenti che questa delicata fase della vita comporta, nel caso di patologia organica vanno a sommarsi alle difficoltà di accettazione e adattamento alla malattia e alle cure, a difficoltà relazionali, a problemi di compliance alle terapie, al disagio emotivo dei pazienti lungosopravviventi, al dolore delle malattie in fase terminale e a cure particolari come le chemioterapie ad alte dosi e gli interventi chirurgici mutilanti, rendendo la transizione alla fase adolescenziale ulteriormente più complessa e sofferta.

Gli adolescenti malati quindi devono affrontare i difficili cambiamenti dovuti alla pubertà, osteggiati e resi più complessi dall’insorgenza della malattia.
Per quanto riguarda i cambiamenti fisici e corporei, essi, in caso di malattia sono alterati o interrotti; può infatti verificarsi la perdita dei capelli, la variazione del peso corporeo, la comparsa di cicatrici in seguito agli interventi chirurgici, o la costante presenza del catetere.

Anche il suddetto processo di separazione dalle figure genitoriali è ostacolato dalla tendenza dei genitori di pazienti neoplasici all’ iper-coinvolgimento e all’iperprotettività, che spesso comportano una perdita di autonomia degli adolescenti con tumore, essi non sono indipendenti né dal punto di vista economico né da quello decisionale; essi a volte regrediscono ad una dipendenza totale dalle figure genitoriali.

Invece di andare incontro ad una progressiva maturazione della personalità, ed al conseguimento degli obiettivi di sviluppo, quello che si verifica in tali pazienti è una regressione, con paura della malattia e delle conseguenze dei trattamenti. Inoltre la tipica crisi d’identità adolescenziale si intreccia con il problema di integrare una condizione mentale tipica della giovinezza, ricca di speranze, entusiasmi, desideri e una condizione fisica che necessita di cure come accade nell’età senile. L’adolescente con tumore si trova inoltre costretto a sperimentare anche una serie di problemi sociali, come la mancata frequenza scolastica, le carenti o nulle relazioni con i compagni e amici, la sospensione di attività sportive o ludiche e la ridotta frequenza delle relazioni con eventuali fratelli o sorelle. Insomma , il vissuto di isolamento è alle porte.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che, come ha rilevato Ferrari ( 2010) spesso gli adolescenti stanno in una “ terra di nessuno “ tra il mondo dell’oncologia pediatrica e quella dell’oncologia dell’adulto, dunque si trovano sospesi tra questi due ambiti, dunque, il risultato è che il trend di miglioramento in termini di sopravvivenza documentato negli ultimi anni per i bambini e per i pazienti adulti non si è osservato nei pazienti in questa fascia di età, infatti a parità di condizione clinica, di fatto un adolescente ha minori probabilità di guarigione di un bambino, spesso semplicemente in relazione alla rapidità con cui arriva alla diagnosi, alla qualità della cura, all’arruolamento nei protocolli clinici.

Pertanto il rischio che si determini l’insorgenza di una psicopatologia è piuttosto elevato, e sarebbe dunque fondamentale un’integrazione degli interventi per la salute mentale nell’oncologia dell’adolescente.

Un altro dato interessante e corroborante l’idea di un’integrazione della cura psicologica a quella organica è dato da alcune ricerche di Spiegel e Giese-Davis ( 2002) secondo cui lo stress emotivo della malattia, il modo in cui esso viene gestito, e soprattutto la sua estremizzazione e cronicizzazione potrebbe essere in relazione all’incidenza del cancro e influenzare gli aspetti fisiologici e le capacità di coping. Spiegel infatti pratica la psicoterapia di gruppo con pazienti oncologici, favorendo in tal modo il supporto reciproco tra questi pazienti.

Psiconcologia: l’importanza della compliance e dell’accettazione della malattia e delle cure

La compliance indica l’accettazione delle cure e del trattamento medico consigliato. Nei giovani pazienti spesso le angosce dovute alla malattia si intrecciano con le difficoltà di far fronte alle trasformazioni adolescenziali, ed è frequente che emergano comportamenti di negazione della malattia e di rifiuto delle cure. Il rifiuto delle cure e del trattamento in pazienti neoplasici, non va solitamente interpretato come un sintomo di patologia psichica, ma può rendere necessario il trattamento psicologico qualora dovesse rappresentare un impedimento alle cure mediche.

Nell’ambito della psiconcologia lo psicologo viene interpellato di solito quando il comportamento del paziente interferisce con il piano terapeutico. Tra i problemi più gravi si riscontrano la negazione di malattia, il fatalismo paralizzante, la rabbia incontrollabile e l’ideazione persecutoria. Il trattamento può richiedere un intervento di sostegno per le paure di dolore legate all’intervento o la perdita di controllo e di aumento di vulnerabilità, le perdite riguardano la privazione di un seno o un arto, dei capelli, oppure del lavoro e dei contatti sessuali, o della funzionalità sessuale. I meccanismi difensivi che il paziente adotta a questo punto sono finalizzati all’elaborazione dei vissuti e delle emozioni suscitati dalla malattia. Spesso, come ricorda Ferrari, un limite che si riscontra nel personale sanitario, è considerare che il comportamento dei pazienti sia regolato completamente da meccanismi logico- razionali, ed alcune situazioni vengono considerate inspiegabili. Esistono invece delle specifiche raccomandazioni cliniche quando un paziente adolescente rifiuta un trattamento salvavita che prevedono la valutazione della capacità decisionale, la valutazione delle ragioni del rifiuto e il fondamento di tale rifiuto.

Bisogna tener conto del fatto che spesso gli adolescenti sono più interessati agli effetti collaterali acuti che non alla guarigione a distanza, sebbene con grossi sacrifici.

Spesso in psiconcologia la collaborazione nei pazienti in età evolutiva è compromessa in maniera evidente dall’angoscia; il mondo ospedaliero può apparire inquietante agli occhi dei giovani pazienti e dunque il rifiuto al trattamento può essere causato dalla paura. È perciò fondamentale che l’organizzazione di un reparto di cura di adolescenti malati di tumore sia organizzato con finalità di diminuire lo stress e l’ansia. È dunque necessario che gli adolescenti malati siano curati in luoghi costruiti appositamente per loro. In casi invece estremi di opposizione al trattamento o di insorgenza di malattia psicopatologica è raccomandabile un trattamento psicoterapeutico individuale o di gruppo.

Un altro aspetto importante da considerare nell’ambito della psiconcologia, per quanto riguarda l’adattamento alle vicende difficili come le malattie gravi, riguarda i meccanismi di difesa intesi come strumenti utilizzati dagli individui non solo per fronteggiare l’angoscia derivante da conflitti psichici interni, ma anche come meccanismi per far fronte all’angoscia legata ad aspetti reali, come situazioni che mettono a rischio la vita. Tali difese vanno valutate in base alla loro intensità, flessibilità e al livello di maturità del soggetto e alla possibilità di modificarsi in base alle situazioni. L’impiego elastico delle difese permette infatti di fronteggiare efficacemente l’angoscia. Nello specifico nel caso della malattia l’obbiettivo fondamentale dei meccanismi di difesa è quello di attenuare l’angoscia di morte. Spesso nei pazienti oncologici in età evolutiva si assiste a fasi di regressione a comportamenti tipici di fasi precedenti dello sviluppo. In particolare, durante le tappe più importanti del processo di separazione individuazione è possibile che si verifichi una regressione più intensa e un conflitto tra esigenze di autonomia e bisogni di accudimento. Una regressione eccessiva che si protrae troppo a lungo per effetto di una malattia grave durante la crescita, può rappresentare un problema.

Un aspetto importante su cui negli ultimi anni si è concentrata l’attenzione dei clinici riguarda quelle reazioni del paziente che non consentono l’espressione della sofferenza. Il rischio è che le paure più profonde vengano negate e compaiano come sintomi psicopatologici in momenti successivi.

Trattamento di psiconcologia per gli adolescenti

Le modalità di intervento in psiconcologia e di supporto psicologico nell’adolescente affetto da neoplasia sono differenti rispetto a quelle dei pazienti adulti o dei bambini. Infatti mentre è generalmente l’ammalato a chiedere una cura perché consapevole del suo disagio o perché ritiene che un intervento psicologico potrebbe essere di giovamento, nell’assistenza alle malattie gravi questo accade molto raramente, perché il soggetto di solito non presenta una psicopatologia conclamata, ma adotta modalità di adattamento fisiologico inadeguate o insufficienti che quindi richiedono un intervento di supporto. È in questa fase fondamentale che la proposta di intervento di supporto psicologico venga svolta in modo appropriato ai fini di una buona riuscita dell’alleanza terapeutica, ed è consigliabile che siano i medici a prospettare al giovane paziente oncologico la possibilità di un intervento psicologico. È infatti importante che l’attenzione ai bisogni psicologici sia inserita in un progetto integrato di presa in carico globale del paziente, dove il personale medico collabori attivamente con psicologi e psicoterapeuti, altrimenti c’è il rischio che ad un possibile rifiuto delle cure del corpo si aggiunga il rifiuto per le cure della psiche.

La sensazione di confusione è presente in molti pazienti in seguito all’esordio della malattia e alla diagnosi; l’ascolto e il colloquio con gli operatori può contribuire a ristabilire negli adolescenti in crisi emotiva un concetto di sé stabile e realistico sostenendo un senso di competenza rispetto al funzionamento personale e alle relazioni sociali, affettive e lavorative. Il colloquio può offrire un supporto in un momento di temporanea difficoltà ad integrare un evento o una situazione nei suoi processi di elaborazione di significato. In ospedale la modalità di intervento maggiormente utilizzata è quella supportiva. Tali tipi di intervento hanno l’obiettivo di migliorare l’autostima, la fiducia in se stessi, l’adattamento alla malattia e alle cure, oltre a lavorare per permettere un miglior funzionamento mentale di altre capacità come l’esame di realtà, le relazioni oggettuali, i meccanismi di difesa.

Clerici e colleghi ( 2014) identificano tre aree critiche nell’adattamento psicologico ad una malattia grave, costituite da processi emozionali, risposte cognitive e rappresentazione di sé. Per quanto riguarda le risposte emotive esse possono comportare sensazioni di torpore e ottundimento emotivo e cognitivamente la gamma di pensieri può essere limitata. I pazienti possono sperimentare l’assenza di emozioni positive a causa dell’improvviso irrompere della malattia nella vita, con i suoi effetti limitanti le prospettive del futuro, può riattivarsi una relazione ambivalente con le figure di attaccamento.

Se il corpo è sofferente e mal funzionante a causa della neoplasia o di aspetti derivanti dalle cure, l’adolescente può sperimentare un conflitto tra se stesso e la nuova realtà, avvertendo sensazioni caotiche, di depersonalizzazione e derealizzazione e sensazioni di isolamento.

Si può dunque affermare che l’obiettivo generale della psiconcologia è quello di guidare l’adolescente all’accettazione della patologia organica, sostenendo e promuovendo al contempo il suo sviluppo identitario e la sua maturazione psichica e facilitando il transito ad un’identificazione con la nuova immagine corporea, caratterizzata dai cambiamenti legati alla fase puberale e post puberale e dai cambiamenti imposti dalla malattia. Per fare ciò lo psicoterapeuta che segue un malato oncologico farebbe bene dunque a liberarsi dai suoi vissuti di onnipotenza e ricordarsi che egli può fare molto per il malato, ridimensionando e lenendo la sua angoscia di morte, ma che – chiaramente- la patologia organica non ricade sotto la sua area di competenza. L’intervento psicologico dovrà essere orientato innanzitutto ad affrontare e cercare di risolvere quanto prima l’opposizione del malato al riconoscimento del suo stato ed il rifiuto delle cure.

All’interno della psiconcologia, l’approccio psicoanalitico consiste nella chiarificazione dell’informazione all’interno dell’unità somato-psichica: eliminando le informazioni aberranti originate da misconoscimenti dovuti all’immaturità dell’apparato psichico in formazione, liberando gli accumuli energetici che non hanno trovato modalità fisiologiche di scarica, ridimensionando i vissuti di onnipotenza narcisistici. La scomposizione delle componenti psichiche si completa con una sintesi superiore dei contenuti rappresentazionali-affettivi ( Zangrilli, 2006).

Al di là della paura: la psicologia del terrorismo

Dopo gli avvenimenti del Settembre del 2001 il terrorismo è diventato una minaccia incombente e quotidiana che ha turbato la serenità collettiva. Negli ultimi anni le paure ad esso connesse hanno raggiunto l’apice storico.

Giulia Grigi, Carmine Rescigno – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Dopo gli attentati recenti in Francia, in Belgio e in Inghilterra, l’Europa e il Mondo sono ripiombati nuovamente in un clima di sgomento e di terrore. Il terrorismo è divenuto uno di quei temi con i quali ci ritroviamo a fare i conti quotidianamente, quasi costretti a confrontarci con questa nuova realtà sempre più incalzante.

Terrorismo, adolescenti e internet

Sempre più giovani adolescenti, vengono reclutati tra le fila degli aspiranti attentatori. Dounia Bouzar, antropologa impegnata in Francia in un lavoro di decondizionamento delle menti dei giovani, sedotte da questo ideale, fa notare che soltanto uno stimolo emozionale, e non cognitivo, legato alla ragione può liberare questi giovani dalla chiamata alle armi. La Bouzar avverte i genitori riguardo la necessità di avvertire i propri figli riguardo i pericoli nascosti in Internet, piattaforma per il reclutamento delle nuove giovani leve al servizio della Jihad contro il mondo occidentale.

Il web rappresenta un vero e proprio nodo cruciale nella strategia di ISIS che è fondata principalmente sulla diffusione virale dei propri contenuti online. I social network come Facebook, Youtube, Twitter diventano parte integrante di un marketing del terrore che assume sempre più i toni di una propaganda mondiale, forte soprattutto dell’abile utilizzo da parte degli estremisti della lingua inglese.

Psicologia del terrorismo: cosa accade nella mente di un attentatore

A questo punto nasce spontaneo interrogarsi sulla psicologia del terrorismo, in particolare sulla psicologia della mente di un attentatore.

Innanzitutto quali meccanismi rendono qualcuno un fanatico? Una ipotesi è stata avanzata dagli psicologi sociali Stephen D. Reicher e S. Alexander Haslam (2016), i quali suppongono che in molti casi i terroristi non siano personalità sadiche o psicopatiche come saremmo portati a pensare, bensì persone ordinarie che vengono condizionate da dinamiche di gruppo nel commettere degli atti di efferata atrocità in nome di una percepita giusta causa.

Reicher e Haslam ci spiegano che queste dinamiche tendono ad influenzare anche noi, in quanto le nostre paure e le nostre reazioni esagerate possono produrre dei livelli più elevati di estremismo, dando vita ad un ciclo che è stato denominato “co-radicalizzazione”. Un’altra importante questione ci porta a riflettere e a porci degli interrogativi riguardo al come possono dei terroristi, esseri umani, trattare con tanta crudeltà altri esseri umani, e soprattutto come questo possa risultare fascinoso sui giovani e cosa hanno in mente questi, quando scelgono come obiettivo dei civili innocenti?

Molti potrebbero saltare a conclusioni affrettate, solamente dei sadici o degli psicopatici – individui del tutto diversi da noi – potrebbero indossare un giubbotto imbottito di esplosivo o imbracciare un fucile e fare fuoco all’impazzata. Ma purtroppo questa prospettiva pare errata. Grazie agli esperimenti fatti tra il 60 e il 70 in psicologia sociale siamo venuti a conoscenza che individui sani e senza nessuna particolare psicopatologia erano in grado di poter infliggere senza provare alcuna forma di rimorso danni molto gravi ad altre persone. Questo viene dimostrato nel celeberrimo esperimento tratto dallo studio di Millgram (1978) sull’obbedienza all’autorità che dimostra che il suo campione di soggetti dei test era pronto a infliggere quelle che ritenevano essere delle scariche elettriche letali semplicemente perché questo veniva espressamente chiesto da ricercatori in camice bianco.

Successivamente un altro esperimento di Zimbardo (1972) ha dimostrato che gli studenti a cui veniva assegnato il ruolo di guardie carcerarie erano disposti a infliggere qualsiasi sorta di umiliazione e a commettere ogni genere di abuso sugli studenti che impersonavano i prigionieri. Questi studi appena citati hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani può commettere atti di violenza se si trova in una determinata condizione. E vale lo stesso discorso per i terroristi. Da un punto di vista della psicologia del terrorismo, tutti coloro che aderiscono a gruppi estremisti non sono dei mostri, ma come afferma l’antropologo Scott Atran studioso di questa tipologia di assassini,  ma gente ordinaria. Quello che trasforma una persona in un fanatico, spiega Atran “non è qualche inerente difetto di personalità, ma piuttosto la dinamica trasformatrice della personalità che si stabilisce nel gruppo” a cui appartiene.

Secondo Millgram e Zimbardo lo sviluppo di queste dinamiche di gruppo è correlato con il conformismo, ovvero l’obbedienza ad un leader oppure il sottostare al punto di vista della maggioranza. Numerosi studi che hanno abbracciato la gran parte dell’ultimo mezzo secolo hanno aumentato la nostra comprensione circa il comportamento delle persone all’interno dei gruppi. In particolare, stiamo imparando che la radicalizzazione non avviene dal nulla ma è portata in essere, almeno in parte, da tensioni tra i gruppi che gli estremisti pianificano di creare, sfruttare e provocare. Se si riesce a convincere un numero sufficiente di non-Musulmani a guardare i Musulmani con timore e ostilità, allora i Musulmani che fino a quel momento si erano mantenuti su posizioni moderate potrebbero sentirsi ignorati e prestare orecchio alla chiamata delle voci fondamentaliste.

Allo stesso modo, se si può convincere un numero sufficiente di Musulmani a manifestare ostilità verso gli Occidentali, allora la maggioranza in Occidente potrebbe iniziare a sostenere una leadership più disposta al conflitto. Sebbene spesso pensiamo ai fondamentalisti islamici e agli islamofobi come poli opposti, in realtà le due posizioni sono inestricabilmente interconnesse. E questa consapevolezza comporta che le soluzioni alla piaga del terrore devono riguardare entrambe le parti. Le scoperte di Milgram e Zimbardo hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani potrebbe abusare degli altri. Se si guarda attentamente ai risultati, però, la maggior parte dei soggetti non lo ha fatto (per i risultati dei singoli esperimenti vedi bibliografia).

Identificazione e disidentificazione

Quali sono gli elementi peculiari di coloro che lo hanno fatto? Henry Tajfel e John Turner, sostenevano che il comportamento di un gruppo e l’influenza del suo leader dipendessero da due fattori collegati tra di loro: l’identificazione e la disidentificazione, cioè affinché qualcuno si lasci influenzare dal gruppo ci si deve identificare con i membri del gruppo e al tempo stesso distaccare dagli esterni al gruppo, ritenendo che questi ultimi non abbiano niente a che spartire con sé.

Hanno trovato conferma di queste dinamiche nel loro lavoro gli studiosi di psicologia sociale S.D. Reicher e A. Haslam (2016), che ha rivisitato i paradigmi di Milgram e Zimbardo. Attraverso un buon numero di studi diversi, abbiamo scoperto consistentemente che, proprio come avevano sostenuto Tajfel e Turner, i soggetti sono disposti ad agire in maniera oppressiva solo a patto di aderire alla causa a cui gli è stato in precedenza chiesto di aderire – e disidentificarsi con coloro a cui devono fare del male. Più ritengono giusta la causa, più giustificano i loro atti come sgradevoli ma necessari.

Questa comprensione – cioè che è l’identità sociale e non la spinta a conformarsi che determina il punto fin cui si è disposti a spingersi – ben si accorda con le scoperte sulle motivazioni dei terroristi. Nel suo libro del 2004 Comprendere i Network del Terrore, lo psichiatra forense Mark Sageman, un ex ufficiale della CIA, sottolinea che i terroristi sono in genere autentici credenti che capiscono esattamente quello che stanno facendo. “I Mujaddin erano killer entusiasti“, fa notare, “non robot che rispondevano semplicemente alle pressioni sociali o alle dinamiche di gruppo“. Sageman non sminuisce l’importanza di leader carismatici come Osama Bin Laden e Abu Bakr Al-\Baghdadi dell’ ISIS, ma ha suggerito che provvedono più a fornire ispirazione che a dirigere le operazioni, impartire ordini o tirare i fili.

In realtà, vi è una scarsa evidenza documentata di marionettisti che orchestrino gli atti terroristici, per quanto il linguaggio dei media spesso lasci intendere il contrario. Il che ci porta al secondo recente sviluppo per quanto riguarda il nostro pensiero sulle dinamiche di gruppo: abbiamo osservato che quando le persone si pongono sotto l’influenza di autorità, malevole o meno, solitamente non assumono atteggiamenti servilistici, ma piuttosto trovano strade uniche e individuali per portare avanti gli obiettivi del gruppo. Dopo che l’esperimento della prigione di Stanford si era concluso, per esempio, una delle guardie più zelanti ha chiesto al prigioniero di cui aveva abusato che cosa avrebbe fatto al suo posto. Il prigioniero replicò: “Non credo che avrei avuto tanta inventiva quanta ne hai avuta tu. Non credo che sarei riuscito ad essere così creativo in quello che facevo. Non sarei riuscito a realizzare un capolavoro come il tuo“. Anche i singoli terroristi tendono ad essere sia autonomi sia creativi, e l’assenza di una struttura gerarchica di comando è ciò che rende il terrorismo così difficile da combattere.

Il ruolo dei leader

Sorge spontanea la domanda sulla strategia impiegata da parte dei leader di queste cellule sul come facciano ad attrarre nuovi seguaci senza impartire ordini diretti. La risposta potrebbe arrivare da scoperte passate che sottolineano il ruolo che i leader giocano nel costruire un senso di identità e scopo condivisi per un gruppo, aiutando i membri a trovare una cornice di riferimento per interpretare le loro esperienze. Rafforzano i loro seguaci stabilendo una causa comune e rafforzano sé stessi nel formarla. In realtà, gli esperimenti di Milgram e Zimbardo sono lezioni autorevoli sul come creare una identità condivisa e poi impiegarla per mobilitare le persone verso fini distruttivi.

Proprio come i due hanno convinto i soggetti dei loro studi a infliggere dolore nel nome del progresso scientifico, così i leader di successo hanno bisogno di far passare l’impresa che hanno in programma per il loro gruppo come onorevole e nobile.

Sia al Qaeda sia l’ISIS sfruttano questa strategia. Una larga parte del fascino che esercitano sui simpatizzanti è dovuta al fatto che promuovono il terrore nel nome di una società migliore, una che si richiama alla comunità pacifica che circondava il profeta Maometto. È cruciale, tuttavia, che la credibilità e influenza dei leader – specialmente quelli che promuovono il conflitto e la violenza – dipenda non solo da ciò che dicono e fanno ma anche dal comportamento dei loro oppositori. Prove di ciò sono emerse dopo una serie di esperimenti condotti da uno studio di Haslam e Ilka Gleibs (2016) che hanno studiato come la gente scelga i propri leader. Una delle scoperte chiave è stata che le persone sono più bendisposte a supportare un leader bellicoso se il loro gruppo si trova in contrasto con un altro gruppo che ha una attitudine belligerante.

Proprio come l’ISIS fomenta i politici radicali in Occidente, così quei politici indirettamente e forse inconsapevolmente fomentano l’ ISIS per ottenere sostegno. Questo scambio è parte di quello che lo studioso delle religioni Douglas Pratt dell’Università di Waikato in Nuova Zelanda ha denominato co-radicalizzazione. E in essa si può individuare il vero potere del terrorismo: può essere utilizzato per provocare altri gruppi affinché considerino il proprio stesso gruppo come pericoloso – il che consolida i seguaci di quei leader che predicano l’inimicizia. Il terrorismo non riguarda tanto il diffondere la paura nello stato di cose vigente, ma nel modificare quello stato di cose seminando sfiducia e ulteriore conflitto.

Nel febbraio 2015 la rivista dell’ISIS Dabiq ha pubblicato un editoriale intitolato “L’ estinzione della zona grigia“. I suoi autori si lamentavano del fatto che molti Musulmani non vedessero l’Occidente come il loro nemico e che molti rifugiati fuggiti da Siria e Afghanistan in realtà vedessero i paesi occidentali come luoghi di opportunità. Invocavano la fine della ‘zona grigia’ di coesistenza costruttiva e la creazione di un mondo nettamente diviso tra Musulmani e non Musulmani, nel quale ciascuno o sta dalla parte dell’ISIS o dalla parte dei kuffar (miscredenti). Inoltre spiegava l’attacco alla sede del magazine francese Charlie Hebdo esattamente in questi termini: “Il tempo era giunto per un nuovo evento – magnificato dalla presenza del Califfato sul palcoscenico globale – per portare nuova divisione nel mondo”.

Sintetizzando, il terrorismo si basa tutto sulla polarizzazione. Si tratta di riconfigurare le relazioni intergruppali in modo che le leadership radicali sembrino offrire la soluzione più sensata per affrontare un mondo di sfide radicali. Da questo punto di vista, il terrorismo è il completo opposto della distruzione insensata. E’ piuttosto una strategia conscia – ed efficace – per attirare seguaci nell’ambito dei leader disposti al conflitto. In questo modo, quando si tratta di capire perché i leader radicali continuino a fomentare il terrorismo, abbiamo bisogno di porre in esame sia le loro azioni sia le nostre reazioni.

La lotta al terrorismo: attenzione alle azioni e alle reazioni

Attualmente le energie adoperate da molti paesi per contrastare il terrorismo, prestano poca attenzione al modo in cui le nostre reazioni vadano a costituire l’antefatto delle loro azioni. Queste iniziative si concentrano esclusivamente sugli individui e si aspettano che qualcosa mini il senso di sé e la determinazione di qualcuno: discriminazione, la perdita di un genitore, il bullismo, un trasferimento, o qualsiasi cosa che lasci la persona confusa, incerta e sola.

Lo psicologo Erik Erikson (1968) ha notato che i giovani con una identità ancora in costruzione sono particolarmente vulnerabili a questo tipo di deragliamento. Di conseguenza diventano facili vittime di gruppi che affermano di offrire una comunità di supporto nel perseguimento di un nobile obiettivo. Questa potrebbe essere una parte importante del processo con il quale le persone vengono attirate all’interno di organizzazioni terroristiche. Una grande quantità di prove indica l’importanza dei legami dei piccoli gruppi e, secondo Atran e Sageman (2010; 2016), i terroristi islamici sono caratteristicamente fondati su piccole associazioni di parenti e amici intimi. Molti gruppi creano legami affettivi centrati su una causa comune: gruppi sportivi, gruppi culturali, gruppi di difesa dell’ambiente. Anche tra le fazioni religiose – inclusi i gruppi islamici – la grande maggioranza offre un senso di comunanza e di significanza senza con ciò promuovere la violenza. Allora perché, nello specifico, alcune persone sono attratte dai pochi gruppi islamici che predicano il confronto violento?

È ipotizzabile che questi gruppi offrano molto di più che la semplice consolazione e supporto. Offrono anche delle narrative adatte alle loro reclute e li aiutano a trarre senso dalle loro esperienze. E in quel caso, bisogna esaminare seriamente le idee che i gruppi islamici militanti promuovono – inclusa la nozione che l’Occidente sia un nemico di sempre che odia tutti i Musulmani. Forse che le nostre reazioni maggioritarie in qualche modo finiscano per supportare le tendenze radicalizzanti nelle comunità islamiche minoritarie? Forse che la polizia, gli insegnanti e altre figure di rilievo facciano sentire i giovani islamici in Occidente esclusi e rigettati – in maniera tale che arrivano a vedere lo stato meno come un protettore e più come il loro avversario? Se è così, in che modo ciò cambia il loro comportamento?

In uno studio attualmente in corso, Reicher in collaborazione con Blackwood e Hopkins hanno condotto una serie di sondaggi individuali e di gruppo all’interno degli aeroporti scozzesi nel 2013. Abbiamo scoperto che la maggior parte degli Scozzesi – islamici e non islamici – hanno un chiaro senso di ‘tornare a casa’ dopo i loro viaggi all’estero. Eppure molti musulmani scozzesi provavano l’esperienza di essere trattati con sospetto ai controlli aeroportuali. Chiedendosi il perché di essere stati perquisiti, il perché di aver risposto a tutte quelle domande e il perché vengano portati in una stanza separata.

Questa esperienza di “misriconoscimento” ovvero di trovarsi in una situazione in cui gli altri dubitano o negano una data identità, ha provocato ira e cinismo verso le autorità. Ha condotto queste persone a prendere le distanze dalla gente dal chiaro aspetto britannico. Per essere chiari, il misriconoscimento non trasforma istantaneamente gente altrimenti moderata in terroristi o estremisti. Nonostante questo, ha iniziato a spostare la bilancia del potere dai leader che dicono: “Collaborate con le autorità; sono vostre amiche”, verso quelli che insistono: “Le autorità sono vostre nemiche.”

I leader delle minoranze radicali usano la violenza e l’odio per provocare le autorità maggioritarie a istituire una cultura di sorveglianza contro i membri dei gruppi minoritari. Questa cultura provoca misriconoscimento, che porta al disimpegno e alla disidentificazione dalla cultura maggioritaria. E questa presa di distanze può rendere gli argomenti dei radicali più difficili da ignorare. In conclusione si potrebbe affermare che da sole le voci delle minoranze radicali non bastano a radicalizzare qualcuno né bastano le esperienze individuali di questo qualcuno. Ciò che è efficace, invece, è il mix delle due cose e la loro caratteristica di rinforzarsi e amplificarsi a vicenda.

I servizi psichiatrici di diagnosi e cura tra criticità e innovazione – Report dal corso di Palermo, 13 luglio 2017

Diagnosi, intervento precoce, in particolare per il contrasto dei comportamenti aggressivi, integrazione di farmacologia e psicoterapia, criticità e strategie di miglioramento dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), reparti psichiatrici attivi negli ospedali generali, affermatisi come la più durevole struttura dei Dipartimenti di Salute Mentale. Questi i temi centrali del corso di aggiornamento tenutosi a Palermo il 13 luglio scorso presso la sezione di psichiatria del Dipartimento di Biomedicina sperimentale e neuroscienze cliniche dell’Università di Palermo, diretto dal professor Daniele La Barbera.

 

I limiti e le innovazioni delle strutture psichiatriche di SPDC

L’idea da cui origina il presente corso è quella di chiarire funzioni proprie, limiti e possibilità di miglioramento dei SPDC, in virtù della presenza di protocolli nazionali comuni, di una vera e propria rete nazionale, soprattutto in relazione ad alcune emergenze riscontrabili nelle acuzie, come i comportamenti aggressivi e suicidari, con risvolti di tipo giuridico-forensi” commenta Antonio Francomano, cultore di materia e docente presso l’Università di Palermo.

Lungo il corso, che si è snodato tra sessioni mattutine e pomeridiane, argomenti cardine sono stati la diagnosi e la cura dell’esordio psicotico, l’individuazione di fattori di rischio, delle terapie farmacologiche e psicoterapeutiche più efficaci, in particolare sul versante della riabilitazione cognitiva, il tutto calibrato all’interno della struttura specifica dell’SPDC.

Riguardo ai fattori di rischio genetico è bene precisare che non esiste un gene della psicosi, piuttosto numerosi geni, ognuno dei quali conferisce un rischio aggiuntivo – spiega Emi Biondi, Responsabile SPDC Ospedali Riuniti di Bergamo e Presidente Coordinamento Nazionale SPDC. Esistono fattori di rischio perinatali come l’ipossia alla nascita, e altresì fattori legati all’uso di stupefacenti (per esempio la cannabis aumenta di tre volte il rischio di sviluppare disturbi psicotici, l’anfetamina è in grado di produrre sintomi positivi come i deliri, mentre l’LSD induce sia sintomatologia positiva che negativa, come l’apatia). Bisogna considerare altresì l’esperienza migratoria, possibile fattore scatenante di episodi psicotici dovuti allo stress”.

Report - I servizi psichiatrici di diagnosi e cura tra criticità e innovazione, Palermo

Si tratta di problematiche di natura cognitiva, affettiva e sociale, patologie invalidanti poiché investono l’ambito cognitivo, emotivo e relazionale da cui l’urgenza di interventi precoci centrati sulla combinazione di terapie psicologiche e di tipo farmacologico.

Ogni episodio di malattia è una sorta di infarto neurologico, ecco perché riuscire a seguire fin da subito gli episodi psicotici è importante per attutirne il decorso. I farmaci sono raccomandati fin dai primi esordi psicotici, soprattutto gli antipsicotici a rilascio prolungato, utili nei casi di scarsa compliance nei pazienti affetti da schizofrenia, in combinazione con interventi di carattere riabilitativo e psicosociale” – continua Biondi.
Interventi di routine, la cui efficacia, anzi la cui stessa praticabilità, si scontra con criticità di carattere organizzativo dei SPDC relative ai cosiddetti ricoveri impropri.

La filosofia dei SPDC è l’accoglienza, garantita dalla presenza di spazi per le attività psico-socio-educative e da un clima di reparto che promuove la riduzione degli agiti violenti. Noi intendiamo i SPDC non solo come spazi di contenimento farmacologico d’urgenza, ma come spazi di ricostruzione, di crescita e di riacquisizione di Sé e delle sue parti, nonché della capacità di stabilire sane relazioni sociali. E’ importante ricordare che la destinazione d’uso di un SPDC è quella di occuparsi dell’emergenza su pazienti bipolari e psicotici. Questa naturale funzione subisce però dei rallentamenti per la presenza in circa il 30% dei casi (almeno cinque su quindici posti letto) di altre tipologie di pazienti come minori o autori di reato – chiarisce Francesco Chimenz, Responsabile SPDC Ospedale di Taormina ASP Messina – Occuparsi di pazienti psicotici e bipolari significa lavorare su due aspetti specifici: da un lato la frequenza dei comportamenti violenti, più elevata nei pazienti bipolari, dall’altra la gestione del rischio suicidario. Sotto il primo aspetto una strategia relazionale molto utile adoperata dall’équipe di un SPDC è il talk down, strategia volta ad abbassare i toni del soggetto che esprime aggressività; nel secondo caso è importante tenere in osservazione il paziente, in seguito a un tentato suicidio, a un mancato suicidio o alla sola ideazione suicidaria, e dopo le dimissioni orientarlo e seguirlo attraverso i presidi territoriali”.

Le strategie più adeguate per la riabilitazione cognitiva nelle strutture di SPDC

Sulla riabilitazione cognitiva presenta infine la sua dettagliata relazione il professor Francomano, argomentando le strategie più idonee, sia sul versante cognitivo che socio-relazionale.

Solo il 27% dei pazienti schizofrenici non presenta problemi di cognitività. In quest’ambito dobbiamo considerare tre domini, ovvero la metacognizione, la consapevolezza delle proprie abilità cognitive, la neurocognitività, l’abilità di percepire e processare le informazioni, e la cognizione sociale, la capacità di percepire e interpretare il comportamento altrui, che implica la percezione delle emozioni altrui e il mettersi nei panni degli altri”.

Ecco che la riabilitazione cognitiva mira alla precocità degli interventi che riducono il deterioramento delle funzioni psichiche di memoria e attenzione e migliorano il funzionamento sociale, aspetto influenzato dalla cognizione, al fine di garantire al paziente con schizofrenia il mantenimento delle relazioni interpersonali e una vita autonoma. “E’ fondamentale una buona diagnosi e un tempestivo intervento. Infatti ciò che si perde nei primi cinque anni di malattia non si recupera più. La diagnosi di una compromissione cognitiva beneficia del Brief assessment of Cognition in Schizofrenia, una batteria di test per lo studio delle principali funzioni cognitive come attenzione, memoria di lavoro, velocità di processamento e funzioni esecutive così come del Global Assessment of Functioning (GAF) per la valutazione generale del funzionamento sociale, occupazionale e psicologico. Riguardo le tecniche di riabilitazione cognitiva da citare è la Cognitive Remediation Therapy (CRT) consistente in un programma di training cognitivo strutturato e costituito da tre moduli elaborati per lo sviluppo di funzioni quali flessibilità cognitiva, memoria di lavoro e pianificazione. L’obiettivo è di indurre la persona a sviluppare strategie proprie per risolvere i problemi, con il supporto di personale addestrato a guidare il soggetto nella formulazione di una risposta adeguata alle richieste dell’ambiente. Importanza assumono poi gli interventi psicoeducazionali, che guidano il soggetto alla miglior comprensione della malattia, al riconoscimento dei segnali precoci di crisi e al contenimento dell’emotività espressa intrafamiliare. Per incidere positivamente sul funzionamento sociale si utilizza infine il Social Skills Training, programma che aiuta a incrementare le abilità nelle relazioni interpersonali al fine di ritardare, o addirittura ridurre, la probabilità di ricaduta nei pazienti schizofrenici”.

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