expand_lessAPRI WIDGET

Un nuovo modello di rete cerebrale potrebbe spiegare le differenze tra lesioni cerebrali

Secondo uno studio pubblicato da PLUS Computational Biology, considerare la rete di attività dell’intero cervello, piuttosto che le singole regioni, potrebbe aiutare a capire perché alcune lesioni cerebrali siano molto più gravi di altre.

 

Cosa accade nel cervello a seguito di lesioni cerebrali

Il cervello umano mostra una vasta gamma di risposte alla lesione, a seconda della sua posizione. Questo è considerato convenzionalmente un risultato del fatto che ogni regione del cervello ha un ruolo funzionale specifico. Tuttavia, c’è sempre più evidenza che le regioni del cervello non funzionano in isolamento, ma come una rete.

Pertanto, per comprendere l’effetto della lesione, dobbiamo cercare non solo le modifiche localizzate, ma le modifiche a livello di rete causate dalla perturbazione delle connessioni di rete.

Gli autori hanno utilizzato una combinazione di tecniche di imaging con tensore di diffusione, che permette di ottenere immagini biomediche anche tridimensionali, e spunti dalla teoria dei grafi per indagare i modelli nell’architettura di rete della materia bianca del cervello e come questi cambiamenti siano dovuti a lesioni.

La teoria dei grafi si occupa di studiare i grafi, che sono oggetti discreti che permettono di schematizzare una grande varietà di situazioni e di processi e spesso di consentirne delle analisi in termini quantitativi e algoritmici.
In particolare negli ultimi anni si sta studiando come i grafi e le loro proprietà possano aiutare nello studio del connettoma umano, ovvero la totalità delle connessioni tra i neuroni del cervello umano.

Il Dr. Raj e i suoi colleghi, basandosi su precedenti lavori, hanno dimostrato che semplici modelli di reti catturano schemi di degenerazione a livello cerebrale e anche modelli normali di attività cerebrale.
Questi schemi possono essere decomposti grazie alle vibrazioni della rete, che possono essere considerate come sottoreti in cui l’attività propagante viene concentrata, non diversamente da come vibra una corda di chitarra.

Gli autori hanno indicato per la prima volta che i più importanti moduli di origine persistono in soggetti sani e in esami di imaging di questi.
Essi modellarono l’effetto delle lesioni cerebrali sui moduli di origine e trovarono che l’influenza di una lesione nelle connessioni di rete è abbastanza sensibile al sito della lesione. I ricercatori hanno identificato percorsi di fibre di materia bianca particolarmente responsabili del flusso di informazioni in tutto il cervello. Hanno trovato che le lesioni che hanno influenzato maggiormente le vibrazioni di rete erano quelli al centro di questi percorsi.

Hanno guardato in particolare un raro disturbo neurodegenerativo dove il corpo calloso, ovvero la connessione primaria tra gli emisferi sinistro e destro del cervello, è assente. I pazienti affetti da questa malattia in genere hanno una migliore attività cerebrale rispetto a quelli a cui è stato rimosso chirurgicamente il corpo calloso.

Se questi risultati possono essere replicati in altri scenari, potrebbe essere possibile prevedere con maggiore precisione come i cambiamenti nella struttura del cervello, siano questi dovuti alla chirurgia o alla progressione di una malattia, possano determinare cambiamenti nella funzione del cervello, consentendo ai medici di adattare meglio il piano di trattamento e i target terapeutici.

Questo studio propone un metodo per raccontare come i cambiamenti nell’architettura strutturale del cervello possono provocare i deficit osservabili che identifichiamo come disturbi neurologici. Speriamo di estendere questi metodi per prevedere come le future perturbazioni al cervello di un paziente, dovute alla progressione di una malattia, possano influenzare la funzione neurologica “, afferma il Dr. Raj.

La disregolazione emotiva e i disturbi di personalità

La disregolazione emotiva è considerata il marchio di fabbrica del disturbo di personalità borderline. La tendenza a perdere il controllo sulle proprie emozioni sembra essere uno dei fattori che predispone queste persone a crisi, atti impulsivi e gesti parasuicidari e suicidari. Le osservazioni cliniche però facevano pensare che, magari a livelli di intensità minori, la disregolazione emotiva potesse essere presente anche in molti altri disturbi di personalità e avere un impatto sulla psicopatologia.

 

La disregolazione emotiva è presente in molti disturbi di personalità

Abbiamo quindi condotto uno studio congiunto tra il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale e l’Istituto Beck, investigando in che modo disregolazione emotiva e disturbi di personalità fossero connesse in 478 pazienti afferenti ai centri. Abbiamo somministrato la DERS per misurare la disregolazione, SCL-90-R per i sintomi psicologici, l’IIP-32 per i problemi interpersonali. La diagnosi di disturbo di personalità è stata effettuata con la SCID-II.

I risultati hanno supportato l’ipotesi. La disregolazione si è manifestata presente nella maggior parte dei disturbi di personalità, anche se era lievemente più marcata nel borderline. L’impatto della disregolazione emotiva sui disturbi di personalità era specifico, non spiegabile dalla presenza di sintomi psicologici e problemi interpersonali. Più specificamente, la disregolazione era capace di predire – in senso statistico, ovvero persone con più disregolazione era più probabile che avessero – tratti di disturbi di personalità paranoide, narcisistico, passivo-aggressivo, depressivo, istrionico, borderline ed evitante. Tra i problemi c’era la difficoltà a controllare gli impulsi, scarsa fiducia nella propria capacità di regolare le emozioni, difficoltà a impegnarsi nel comportamento finalizzato allo scopo e scarsa chiarezza sulle emozioni sperimentate.

Il trattamento della disregolazione emotiva

Con le dovute cautele, legate alla necessità di affrontare alcuni limiti dello studio e replicarlo, è possibile considerare la disregolazione uno dei target del trattamento anche in disturbi di personalità diversi dal borderline. L’idea che andiamo seguendo è che un approccio efficace combini un miglioramento della capacità metacognitiva. Con più consapevolezza di quello che il paziente e gli altri provano, dovrebbe essere più semplice regolare gli affetti. In parallelo può essere necessario fornire strategie di regolazione basate sulla metacognizione, ovvero migliorare la mastery metacognitiva.

Un aspetto che andiamo sviluppando con i colleghi del CTMI Paolo Ottavi, Raffaele Popolo e Giampaolo Salvatore, è di intervenire sui processi di rimuginio che insorgono come risposta del sé alla risposta dell’altro negli schemi interpersonali. Mi spiego con un esempio. Un paziente con disturbo evitante di personalità può essere guidato dal seguente schema interpersonale: “Desidero essere apprezzato, ma se mostro il mio valore l’altro mi critica. A seguito della critica penso che abbia ragione a disprezzarmi e provo tristezza e vergogna”. A questo punto, il paziente non riesce a regolare tristezza e vergogna e inizia a mettere in atto strategie di coping di tipo comportamentale, che vanno dall’evitamento al perfezionismo critico (se miglioro forse verrò apprezzato), e di tipo cognitivo, ovvero forme di pensiero perseverativo, che vanno dalla ruminazione al worry. Aiutare il paziente a) comprendere lo schema, ovvero migliorare la metacognizione sui propri processi di funzionamento b) riconoscere il coping maladattivo e c) fornire modalità di coping più funzionale, dovrebbe contribuire a ridurre la disregolazione emotiva.

Prevaricazione: è il piacere o l’essere popolare che porta a disimpegnarsi moralmente?

La letteratura (es. Caravita & Gini, 2010; Menesini et al., 2003; Gini, 2006; Thornberg & Jungert, 2014) oltre a evidenziare che i prepotenti sono più propensi a mettere in atto i meccanismi di disimpegno morale, e che i meccanismi da essi più utilizzati sono l’attribuzione di colpa alla vittima e la giustificazione morale evidenzia che anche gli altri ruoli di partecipazione al bullismo sono in relazione con il disimpegno morale

Elisa Donghi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Bullismo e prevaricazione: definizione del fenomeno

Sempre più spesso nella nostra società si sente parlare di bullismo. I fatti di cronaca riportano frequentemente episodi di prevaricazione, di soprusi tra coetanei, tra membri del gruppo. Emerge quindi la necessità di chiarire e approfondire il fenomeno del bullismo.

Il primo autore che ha dato una definizione al fenomeno è stato Olweus: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni” (Olweus, 1993; pp. 11-12). Per parlare di bullismo devono essere presenti: l’intenzionalità ossia la volontà di procurare un danno, fisico o psicologico, alla vittima; la reiterazione nel tempo delle azioni negative; e lo squilibrio di potere tra bullo e vittima derivante dalla forza fisica, dal possesso di risorse materiali e/o sociali o da un’asimmetria psicologica (Olweus, 1993). Il bullismo si declina in due tipologie: bullismo diretto e indiretto/relazionale. Quando si parla di bullismo diretto si fa riferimento ad azioni di tipo fisico come calci, pugni, schiaffi, furto o sottrazione di oggetti della vittima (bullismo diretto fisico) e ad azioni di tipo verbale come forme di insulto, derisione, prese in giro e nomignoli (bullismo diretto verbale); mentre si parla di bullismo indiretto/relazionale quando si è in presenza di diffusione di maldicenze, isolamento sociale e manipolazione dei rapporti di amicizia della vittima (Caravita, 2004).

Quando si pensa al prepotente l’immaginario lo prefigura come una figura maschile dotata di elevata aggressività. La letteratura (Olweus, 1993; Fonzi, 1999; Psalti, 2012) ci mostra invece che il fenomeno è diffuso in uguale misura tra maschi e femmine seppure con modalità differenti. I maschi mettono più in atto azioni di bullismo fisico (calci, pugni, aggressioni) e quindi una modalità che risulta più visibile e appariscente; le femmine invece utilizzano forme più sottili, subdole e quindi meno visibili come quelle del bullismo indiretto (diffusione di maldicenze, esclusione sociale); anche se negli ultimi tempi si registra un aumento del bullismo fisico anche tra quest’ultime.

I ruoli assunti da chi è coinvolto nel fenomeno del bullismo

Quando si parla di bullismo non bisogna dimenticare che è un fenomeno di gruppo, relazionale. È all’interno della dimensione di gruppo che il fenomeno si alimenta e si protrae nel tempo. Il bullismo, infatti, non coinvolge solo la diade bullo-vittima, ma come hanno messo in evidenza Salmivalli e colleghi (1996) coinvolge tutti i membri di un gruppo, interessa tutti i rapporti.

Nello specifico sono stati identificati sei ruoli: bullo, colui che mette in atto le prepotenze; aiutante del bullo, più passivo del bullo, lo aiuta materialmente nella messa in atto delle prevaricazioni; sostenitore del bullo, non partecipa in modo attivo alle prepotenze ma le sostiene, mostrando approvazione; vittima, colui che subisce le prevaricazioni, può essere “passiva”, tipologia che rappresenta la maggior parte delle vittime ossia timida, insicura e poco in grado di difendersi o “provocatrice” ossia irritabile, irrequieta, che reagisce alla prevaricazione “provocando” in questo modo il bullo; difensore della vittima, colui che prende posizione a favore di chi subisce prepotenze, sia consolandolo, sia contrastando apertamente i prevaricatori e infine esterno, colui che seppur a conoscenza delle prevaricazioni, non si schiera né a favore del bullo, né della vittima.

Il ruolo del gruppo risulta essere ancora più rilevante, se consideriamo che quando si entra a far parte di un gruppo se ne condividono valori, norme, regole e soprattutto all’interno di esso ognuno si crea il proprio status sociale- posizione che si occupa nel gruppo dei pari. Con il termine status sociale ci riferiamo a due dimensioni, la preferenza sociale che delinea il livello di accettazione e rifiuto da parte dei pari e la popolarità percepita ossia il grado in cui un individuo è ritenuto dai pari influente, visibile, e occupante una posizione di rilievo (Parkhurst & Hopmeier, 1998). Se consideriamo la figura del bullo quest’ultima risulta controversa. Da un lato il prepotente è rifiutato, non piace, gode quindi di un basso livello di preferenza sociale; dall’altro però ha un elevato livello di popolarità percepita, è considerato dal gruppo come influente, visibile e importante.

Il disimpegno morale e il bullismo

Nonostante il bullismo sia un fenomeno relazionale, il bullo trovi sostegno nel gruppo dei pari e venga considerato un modello da imitare, spesso i pari nutrono un atteggiamento negativo verso le prevaricazioni, non le comprendono e le considerano degli atti sbagliati e ingiusti (Caravita, Miragoli, & Di Blasio, 2009). Ci si potrebbe quindi chiedere come fanno il bullo e i suoi sostenitori a compiere le prevaricazioni, a portare a termine un’azione considerata negativa, sbagliata, senza sentirsi in colpa, senza sentire il peso della dissonanza cognitiva tra valori e azioni.

Una spiegazione ci viene fornita da Bandura (1986), il quale oltre a sottolineare che l’aver acquisito principi morali, non implica necessariamente, agire sempre in maniera corretta, ha postulato l’esistenza del “disimpegno morale” ossia di meccanismi, processi, tramite i quali l’individuo si autogiustifica, disattiva parzialmente o totalmente il controllo morale mettendosi al riparo da sentimenti di svalutazione, senso di colpa e vergogna (Bandura, 1996).

Bandura (1986; 1996) ha individuato otto meccanismi di disimpegno morale: alcuni di essi agiscono sulla condotta immorale, rendendola più accettabile tramite il ricorso a principi superiori, giustificazione morale; eufemismi, etichettamento eufemistico; confronto con azioni peggiori, confronto vantaggioso. Altri meccanismi agiscono ridefinendo la responsabilità dell’azione compiuta che viene suddivisa tra più persone, diffusione della responsabilità, o riversata su altri, dislocamento della responsabilità o minimizzando le conseguenze delle azioni, distorsione delle conseguenze. Infine ci sono due meccanismi che si concentrano sul ruolo della vittima, la deumanizzazione della vittima per cui chi subisce viene privato della sua dignità, parificato a un essere inferiore e l’attribuzione di colpa alla vittima per cui la vittima è ritenuta responsabile, colpevole di ciò che le accade, che subisce.

La letteratura (es. Caravita & Gini, 2010; Menesini et al., 2003; Gini, 2006; Thornberg & Jungert, 2014) oltre a evidenziare che i prepotenti sono più propensi a mettere in atto i meccanismi di disimpegno morale, e che i meccanismi da essi più utilizzati sono l’attribuzione di colpa alla vittima e la giustificazione morale evidenzia che anche gli altri ruoli di partecipazione al bullismo sono in relazione con il disimpegno morale. Nello specifico si sono trovate associazioni negative tra disimpegno morale e i ruoli di difensore ed esterno, mentre associazioni positive tra sostenitore, aiutante del bullo e disimpegno morale (Gini, 2006; Obermann, 2011; Thornberg & Jungert, 2014). Altri studi (Garandeau & Cillessen, 2006; Caravita, Salmivalli, & Di Blasio, 2009) hanno evidenziato, inoltre, che coloro che sono percepiti popolari hanno livelli più alti di disimpegno morale, che i prepotenti tramite le azioni negative cercano di mantenere stabile la propria posizione di rilievo nel gruppo e che i meccanismi di disimpegno morale, appresi all’interno del contesto sociale, tendono a diffondersi anche all’interno delle reti amicali (Caravita, Sijtsema, Rambaran, & Gini, 2014)

Se quindi vi è una relazione tra ruoli di partecipazione al bullismo e disimpegno morale, il prepotente utilizza i meccanismi di disimpegno per portare a termine le azioni negative e soprattutto gode da un lato di un’alta popolarità percepita ma dall’altra di una bassa preferenza sociale, ci si potrebbe chiedere, nel momento in cui si mette in atto un’azione di bullismo, ciò che porta a disimpegnarsi nei confronti della vittima (disimpegno morale focale): “È il piacere o l’essere visibile?

Per rispondere a questo quesito si fa riferimento ad un lavoro di ricerca affrontato in una tesi di laurea magistrale (Donghi, E: Il disimpegno morale in rapporto al bullismo: fattori individuali e di contesto. Uno studio su bambini e preadolescenti. Tesi di laurea magistrale non pubblicata, Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore, 2011). Nello studio si è preso in considerazione un campione di 1023 ragazzi (52,6% maschi) appartenenti alle classi quarta e quinta di 6 scuole primarie e alle tre classi (prima, seconda, terza) di 5 scuole secondarie di primo grado di Milano e provincia. Sono stati utilizzati una batteria di strumenti di auto ed etero valutazione, la cui somministrazione è avvenuta in classe, in media per due ore. Gli strumenti impiegati sono stati: Questionario “I miei compagni di classe” (Caravita, Gini & Pozzoli, 2010, non è mai stato pubblicato), Nomina sociometrica sullo status (Cillessen & Mayeux, 2004), Questionario sulla percezione delle regole morali e socio-convenzionali (Caravita et al., 2009), Questionario degli atteggiamenti rispetto al bullismo (Salmivalli et al., 2004; Pozzoli & Gini, 2010), Scala del disimpegno morale (Bandura, Caprara & Pastorelli,1995) e Scala del disimpegno morale focale (Caravita & Gini, 2010).

Ciò che è emerso da questo studio è in linea con la letteratura. Le analisi statistiche che sono state effettuate sono state: la correlazione r di Pearson tra le variabili di disimpegno morale semplice e di disimpegno morale focale. Sono stati calcolati gli indici di correlazione r di Pearson tra disimpegno morale focale e le variabili di: sesso (maschio= 0, femmina= 1; correlazione punto-biseriale), trasgressione morale, moral motivation, atteggiamenti pro-vittima, preferenza sociale, popolarità percepita, ruoli (standardizzati per età) ed atteggiamenti aggregati (gli atteggiamenti condivisi e sostenuti all’interno del gruppo classe. Per ottenerli è stato calcolato il punteggio medio specifico per ogni classe). È stata calcolata, inoltre, la correlazione tra le variabili sopra citate e gli atteggiamenti pro-vittima. Infine i dati sono stati sottoposti alla regressione lineare per blocchi prendendo in esame sia il campione complessivo che i sottocampioni di scuola primaria e secondaria di primo grado. Nelle tre configurazioni è stata considerata come variabile dipendente il disimpegno morale focale mentre come variabili indipendenti: il sesso (maschio= 0, femmina= 1) (blocco 1), la trasgressione morale, i ruoli di bullismo, la moral motivation (blocco 2), la preferenza sociale e la popolarità percepita (blocco 3), i termini di interazione tra status e le variabili di trasgressione morale e moral motivation (blocco 4) infine gli atteggiamenti aggregati di classe (blocco 5).

Da queste analisi risulta che il disimpegno morale focale sia più diffuso tra i maschi se consideriamo il campione nella sua totalità ossia scuola primaria e secondaria di primo grado (beta= -.08 p<.05). Se consideriamo, invece, la distinzione tra scuola primaria e secondaria di primo grado, l’essere maschio e il maggior disimpegno morale focale è significativo solo a livello della scuola primaria (beta= -.15 p< .05). Considerando la relazione tra ruoli di partecipazione al bullismo e disimpegno morale focale emerge che nel campione totale (scuola primaria e secondaria di primo grado) l’essere bullo, il sostenere la prevaricazione, porta a disimpegnarsi maggiormente (beta= .08 p= .05) mentre essere difensore della vittima (beta= -.09 p< .05) ed esterno (beta= -.01 p< .05) è associato a livelli inferiori di disimpegno morale focale.

Una precisazione rispetto al ruolo di esterno ci viene fornita da Obermann (2011). L’autrice ha evidenziato l’esistenza di due tipologie di esterno, l’esterno-colpevole che si sente in colpa per il non schieramento nelle situazioni di bullismo e l’esterno-indifferente che assiste alle prepotenze senza sentirsi responsabile; quest’ultimo forse proprio per mantenere un atteggiamento di indifferenza si disimpegna maggiormente rispetto all’esterno-colpevole e al difensore della vittima. Tornando ai nostri dati, se consideriamo la distinzione tra scuole, emerge che nella scuola primaria, solo il non difendere la vittima porta a un maggiore disimpegno morale focale (beta= -.11 p= .05) mentre nella scuola secondaria di primo grado ciò che porta a disimpegnarsi è l’essere un bullo, sostenere la prevaricazione (beta= .18 p< .05).

E per quanto riguarda lo status sociale, preferenza sociale e popolarità percepita? Se consideriamo il campione nella sua totalità, solo avere un alto livello di popolarità percepita porta a disimpegnarsi (beta= .13 p< .05). Nelle due scuole emerge invece che nella scuola primaria ciò che porta a disimpegnarsi è il non piacere, avere una bassa preferenza sociale (beta= -.13 p< .05) mentre, nella scuola secondaria di primo grado ciò che porta a disimpegnarsi è l’avere un’alta popolarità percepita, l’essere considerato visibile ed influente (beta= .17 p< .05).

Questo studio, quindi, oltre che a confermare la relazione tra disimpegno morale e bullismo (per una rassegna vedi Gini, G., Pozzoli, T., & Hymel, S., 2014) evidenza che il disimpegno morale è un fattore di rischio per il comportamento prepotente e che nella scuola primaria e secondaria di primo grado agiscono fattori diversi: nella scuola primaria ciò che porta a disimpegnarsi, a giustificare la prepotenza, è l’avere una bassa preferenza sociale ossia il non piacere, il non essere accettato dai pari, la non difesa della vittima e l’essere maschio; nella scuola secondaria di primo grado, invece, ciò che porta a disimpegnarsi è l’avere un’alta popolarità percepita ossia il ricoprire una posizione di rilievo, influente e l’essere un bullo, sostenere la prevaricazione.

 

L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione

Mi inserisco anche io nel dibattito iniziato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero e poi proseguito da Farina. Sassaroli, Caselli e Ruggiero sostengono che: “ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinante ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico”. Importanti autori sostengono esattamente il contrario.

di Fabio Monticelli


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017

Norcross, che ha coordinato la task force sulla relazione terapeutica delle divisioni 12 e 29 dell’APA (American Psychological Association Division of Psychotherapy) condotta con studi di meta-analisi (2011), identifica 3 Fattori di efficacia dimostrata in psicoterapia: l’Alleanza terapeutica, il Feedback dei pazienti (il monitoraggio dei vissuti del paziente nella terapia in corso riduce di circa il 50% i drop-out) e l’Empatia del terapeuta (percepita dal paziente). Norcross conclude il suo lungo studio affermando che mantenere il focus dell’attenzione sulla Relazione e sull’Alleanza terapeutica e costruire una relazione terapeutica “su misura” sono tra i pochi dati certi correlati all’esito favorevole della terapia.

L’ alleanza terapeutica

Due importanti meta-analisi dimostrano che l’alleanza terapeutica è uno dei più importanti e forti predittori di buon esito della psicoterapia (Horvath & Symonds, 1991; Martin, Garske & Davis, 2000). La relazione terapeutica e l’alleanza terapeutica rappresentano due fondamentali elementi connessi da un preciso rapporto gerarchico: l’alleanza deve essere considerata uno degli elementi, probabilmente il più importante, che costituiscono la relazione terapeutica (Lingiardi, 2002; Norcross, 2011; Safran, Muran, 2000). L’alleanza terapeutica in ambito cognitivo-evoluzionista è considerata come un fattore dinamico, dimensionale e diadico. Dimensionale perché di intensità mutevole nel tempo -quindi differente dal modo dicotomico (presente o assente) in cui veniva considerato in passato; Dinamico perché mutevole e Diadico perché emerge dall’interazione continua tra terapeuta e paziente: pertanto l’alleanza terapeutica può essere considerata come il risultato dell’atteggiamento del paziente e dell’operato del terapeuta e come tale riflette ed è l’effetto dei loro reciproci contributi. Proprio per questi tre motivi la relazione e l’alleanza vanno monitorate di continuo perché il monitoraggio migliora in maniera significativamente importante gli esiti del trattamento (Lambert, Kenichi, 2011, Hill & Knox, 2009)

Il metodo AIMIT per monitorare la Relazione Terapeutica

Sassaroli, Caselli e Ruggiero aggiungono: “Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variable meno gestibile”. Quindi, giustamente non viene messa in dubbio l’importanza e il ruolo della relazione terapeutica, ma viene sottolineata la difficoltà di gestire e monitorare la relazione e l’alleanza. A questo proposito mi fa piacere segnalare i risultati di una nostra ricerca (Monticelli, Carcione, Pedone, Farina) su un single-case che stiamo ultimando, che ha fornito prove sufficienti a sostenere l’ipotesi di utilizzare il metodo AIMIT (Assessing Interpersonal Motivations in Transcripts, Liotti & Monticelli, 2008) per monitorare l’assetto motivazionale della relazione e il grado di cooperazione tra terapeuta e paziente (suggestiva di alleanza terapeutica perché la cooperazione a nostro avviso crea e mantiene l’alleanza terapeutica) e i suoi momenti di crisi nell’immediatezza della relazione terapeutica (impasse) che creano i presupposti di una relazione di basso profilo terapeutico.

La ricerca da noi condotta evidenzia che nelle fasi di impasse della collaborazione del paziente le sue funzioni metacognitive peggiorano drasticamente; al contrario, tali funzioni aumentano significativamente quando la collaborazione del paziente migliora. Le fasi di non collaborazione del paziente (rappresentate dalle impasse), se rappresentano, riflettono ed emergono dalle fasi di scarso funzionamento metacognitivo del paziente, rappresentano “de facto” la perdita del lavoro congiunto verso gli obiettivi terapeutici concordati.

Proprio perché l’alleanza terapeutica è costituita da tre elementi fondamentali (la condivisione degli obiettivi terapeutici, dei compiti e dal legame affettivo; Bordin, 1979), è possibile sostenere che la perdita prolungata del dialogo terapeutico del paziente finalizzato al raggiungimento degli obiettivi condivisi (segnalato dall’impasse), rappresenti un indicatore sensibile dell’interruzione dell’alleanza, capace di rilevare “moment on moment” e in tempo reale la perdita degli obiettivi terapeutici (goals) e dei metodi più adatti a raggiungerli (tasks), costituiti dal dialogo autoriflessivo o incentrato sugli stati mentali dell’altro o sulla ricerca della mastery (Carcione et al., 2010); in altri termini, poiché nelle fasi di impasse della cooperazione del paziente si perdono due dei tre costituenti dell’alleanza terapeutica è possibile ipotizzare che l’assenza prolungata della cooperazione del pz sia un indiretto indicatore di impasse o di rottura dell’alleanza terapeutica.

L’alleanza terapeutica è un costrutto misurabile su larga scala; lo strumento più utilizzato è rappresentato dalla Working Alliance Inventory (Horvath & Greenburg, 1989), costituito da 36-item, somministrate alla fine di ogni seduta e che adottano la finestra di osservazione dell’intera seduta. Tale strumento misura l’accordo tra terapeuta e paziente sugli obiettivi terapeutici, sui compiti condivisi e sulla qualità affettiva del legame rilevato complessivamente all’interno di una finestra di osservazione dell’intera seduta, dalle diverse prospettive del paziente e separatamente del terapeuta.

Il modello AIMIT, invece, utilizza una finestra di osservazione molto più ristretta e consente la misurazione dell’impianto collaborativo “momento per momento” e in tempo reale.

Gli autori aggiungono: “Una buona relazione è un fatto”. Non credo che sia un fatto. possiamo invece considerarla una condizione necessaria, ma non sufficiente a garantire l’efficacia e utilità del trattamento. Otteniamo una buona relazione anche quando accudiamo il paziente che richiede cura e protezione, ma se questo diventa l’unico obiettivo della diade, la relazione stessa diventa iatrogena perché perde la componente terapeutica. Ad esempio, mi è capitato recentemente di ricevere una signora che ha chiesto una terapia dopo aver interrotto un precedente trattamento perché “eravamo diventate amiche con la precedente terapeuta”: quindi la  pz riferisce una relazione buona -con la precedente terapeuta- ma dotata di scarsa terapeuticità. Quindi, è possibile ipotizzare che ci fosse una buona sintonizzazione interpersonale tra una paziente che richiedeva protezione e una terapeuta che sistematicamente accudiva la paziente. Oppure possiamo ipotizzare un piano paritetico e di condivisione tra paziente terapeuta, ma su temi che non riguardavano gli obiettivi terapeutici. Quindi tale sintonizzazione interpersonale era poco terapeutica perché orientata soltanto su alcuni bisogni della paziente; quindi, non era terapeutica perché non era orientata su altri bisogni più maturi e profondi (cioè il raggiungimento degli obiettivi terapeutici e il miglioramento delle capacità di mentalizzazione).

Sassaroli, Caselli e Ruggiero aggiungono: “Una buona relazione è un fatto. Non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione”.

Rotture e impasse nell’alleanza terapeutica

Invece, c’è bisogno di teorie del disturbo e della cura per una serie di motivi: ad esempio, per capire se è il terapeuta a rovinare la relazione con interventi che turbano la sintonia interpersonale oppure se è il paziente che sta presentando i suoi schemi interpersonali disfunzionali. In quest’ultimo caso, la rottura dell’alleanza non è un contrattempo o un incidente di percorso, né un atto di cattiva educazione, ma spesso è un modo che consente di aprire una finestra sul mondo interpersonale del pz che non può verbalizzare certi schemi interpersonali disfunzionali ma può portarli nella relazione mettendo in atto comportamenti concreti nei confronti del terapeuta come avviene assai frequentemente coi pz gravi. È ampiamente noto che i momenti di rottura dell’alleanza non debbano essere contrastati dal terapeuta, ma considerati come momenti delicati e preziosi nel processo terapeutico in corso. Delicati perché il rischio di un imminente drop out è molto elevato e preziosi perché permettono l’osservazione e l’accesso diretto al mondo interpersonale dei pazienti che, specialmente quando hanno storie traumatiche pregresse, spesso non sono in grado di narrare elementi segregati che non appartengono alla coscienza esplicita.

Inoltre una solida teoria della cura può aiutare il terapeuta a riconoscere tempestivamente le rotture e le impasse dell’alleanza e strutturare interventi per la corretta riparazione di tali fratture. Il riconoscimento tempestivo da parte del terapeuta di queste fasi di impasse o di rottura dell’alleanza rappresenta il principale elemento per impostare un corretto e proficuo lavoro di riparazione della frattura, che consente l’esplorazione e la correzione degli schemi interpersonali disfunzionali del paziente (Safran e Muran, 2000; Safran, Segal, 1990). Come sostenuto da Safran e Muran (2000), la conoscenza delle esperienze passate rappresenta un elemento importante, ma spesso insufficiente per avviare un efficace e concreto processo di cura che può realizzarsi invece solo nell’esperienza diretta della relazione terapeutica.  Tuttavia i momenti di rottura impongono al terapeuta un’attenzione particolare determinata dalla particolare intensità e complessità degli stati emotivi implicati, che devono essere compresi sul piano motivazionale per poter reagire in maniera modulata e efficace. quindi, la conoscenza di più teorie aiuta in maniera considerevole il terapeuta a gestire questi delicati momenti. Hill e Rodhes (1994) sottolineano che spesso il terapeuta ignora o sottovaluta le fasi di rottura dell’alleanza, i momenti di stallo terapeutico o di insoddisfazione del paziente, con risultati spesso irreversibili perché con soggetti con traumi pregressi i margini di tolleranza sono molto ridotti e il rischio di drop out è molto elevato.

Concludendo, vorrei sottolineare che le due affermazioni dei nostri colleghi: 1) “la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile”; 2) “non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione” rappresentano due affermazioni frutto di pregiudizio e preclusive per il paziente: frutto di pregiudizio perché non sostenute da una base scientifica e preclusive perché non consentono al paziente di accedere ad un trattamento che tenga in debita considerazione il ruolo e l’importanza della relazione terapeutica e dell’alleanza terapeutica come strumenti terapeutici di efficacia dimostrata, giacché è ampiamente dimostrato che mantenere il focus dell’attenzione sulla relazione e sull’alleanza terapeutica è uno dei pochi dati certi correlati all’esito favorevole della terapia Norcross (2011).

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017

Alleanza terapeutica - © Lorenzo Recanatini - Alpes Editore
“Alleanza terapeutica” (© Lorenzo Recanatini)

 

Elettroencefalografia (EEG): caratteristiche e modalità di funzionamento – Introduzione alla Psicologia

L’esame di Elettroencefalografia, comunemente chiamato elettroencefalogramma o EEG, non è altro che la misurazione, attraverso l’applicazione di un certo numero di elettrodi sullo scalpo, dell’attività elettrica del cervello, che a sua volta è la somma dell’attività elettrica di ogni singolo neurone. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il voltaggio dell’attività elettrica cerebrale è molto piccolo, e per questo il segnale deve essere amplificato un milione di volte, attraverso l’ausilio di una determinata strumentazione, che lo tradurrà in una traccia scritta, detta elettroencefalogramma, per essere misurato e registrato. Si ottiene, di conseguenza, un tracciato costituito da onde di frequenza e ampiezza diverse, che mostra in quali aree cerebrali è presente una determinata attività.

Quindi, è una tecnica di indagine neurofisiologica funzionale che consente un’esplorazione funzionale, dinamica, in tempo reale, del cervello da cui si ottiene una registrazione grafica continua nel tempo, secondo una precisa distribuzione spaziale dell’attività elettrica, ottenuta dallo scalpo.

Storia

L’ elettroencefalografia fu sviluppata da Hans Berger tra il 1924 ed il 1938 e fu utilizzata per la prima volta alla fine degli anni ’20 alla Friedrich Schiller Universität di Jena.

Berger scoprì che l’attività dei neuroni della corteccia cerebrale è coordinata in modo tale da indurre variazioni del campo elettrico e gli elettrodi, posizionati opportunamente sullo scalpo, registrano eventi di natura elettrica che si verificano nella corteccia sottostante. Quindi, la differenza di potenziale elettrico che si verifica tra aghi posizionati nello scalpo oppure tra due piccoli dischi di metallo (elettrodi) quando essi sono posti a contatto con il cuoio capelluto, corrisponde all’attività elettrica dell’area studiata.

Questa tecnica fu, in seguito, utilizzata per comprendere le diverse fasi del sonno e per rilevare l’attività cerebrale degli animali, scoprendo che anche essi sognano o rallentano la loro attività cerebrale durante la notte.

L’attività elettrica della corteccia cerebrale, generata soprattutto dai neuroni corticali, è data dalla somma dei potenziali post-sinaptici sincronizzati con i dendriti dei neuroni corticali.

L’ elettroencefalografia  è, in sostanza, un bioritmo influenzato dall’ambiente esterno e interno del soggetto, che varia nel corso del ciclo nictemerale e si modifica in funzione dell’età. Si relaziona direttamente con il funzionamento dell’encefalo e, quindi, con il comportamento e le modificazioni dello stato di coscienza dell’individuo.

L’ elettroencefalografia restituisce una rappresentazione grafica della registrazione, caratterizzata da onde più o meno alte e ampie, ed è definita elettroencefalogramma (EEG). L’EEG deve sempre essere letto riferendosi all’età, alle condizioni fisiologiche e al grado di vigilanza del soggetto. Esso si registra su carta termica o millimetrata, su monitor collegati ad Hard Disk, CD o DVD, consentendo una visione in tempi successivi del grafico.

Funzionamento dell’ elettroencefalografia

I neuroni corticali sono organizzati in modo da formare colonne a orientamento perpendicolare alla superficie della corteccia cerebrale, di cui costituiscono le unità funzionali elementari. L’EEG è l’espressione e la rilevazione dei processi sinaptici, ovvero potenziali elettrici pre e post sinaptici, derivanti dai dendriti e della neuroglia.

I potenziali rilevati attraverso l’EEG sono associati a correnti, verificatesi all’interno dell’encefalo, che fluiscono perpendicolarmente rispetto allo scalpo.

Con l’elettroencefalografia si rileva l’attività elettrica cerebrale durante la veglia, il sonno, e in particolari condizioni mediche. L’elettroencefalografia consente il monitoraggio nel tempo della funzione cerebrale e può evidenziare anomalie anche in assenza di lesioni strutturali documentabili.

Caratteristiche

L’EEG è costituita da un caschetto in plastica dal quale fuoriescono elettrodi che si applicano sullo scalpo secondo il posizionamento standard chiamato sistema internazionale 10-20, rispettando la distanza tra due punti di repère cranici inion, prominenza alla base dell’osso occipitale, nasion, attaccatura superiore del naso e trago, punta superiore della testa. Si collocano da 10 a 20 elettrodi e una massa, seguendo cinque linee: P1: longitudinale esterna, P2: longitudinale interna destra, centrale, P1: longitudinale esterna, P2: longitudinale interna sinistra.
Gli elettrodi sono posti simmetricamente sulle due metà del capo assumendo diverse combinazioni: bipolare, lineari, trasversali e longitudinali (superiore e inferiore).

La posizione che ogni elettrodo occupa sullo scalpo si identifica attraverso una/due lettere, che permettono di identificare la regione della corteccia esplorata e da un numero.

Onde dell’EEG

L’EEG è caratterizzato da onde, ognuna con diverse peculiarità. L’attività di fondo, ovvero l’andamento di base del tracciato, rappresenta la base da cui si differenzia un certo quadro normale o patologico. L’attività si può presentare in maniera continua, detta ritmo, in maniera occasionale e sporadica, cioè a intervalli di tempo incostanti, in intervalli approssimativamente regolari, costituita da attività periodiche, o in maniera parossistica. I parossismi sono una serie di onde che appaiono e spariscono improvvisamente, nettamente distinte dall’attività di fondo. Il complesso, invece, è un gruppo di due o più onde, chiaramente distinguibili dall’attività di fondo, che può apparire anche in maniera ricorrente. Essi si distinguono in. complessi punta-onda, polipunta-onda, complessi K, combinazione di punte al vertice e di attività sigma che appare in genere nel sonno come risposta a stimoli improvvisi. Mentre, il ritmo sono una serie di onde con una certa costanza nel periodo, l’intervallo di tempo in millisecondi tra l’inizio e la fine di un’onda, nella forma e nella frequenza.

I ritmi possono essere rapidi, ovvero avere una frequenza superiore ai 14 cicli per secondo e un voltaggio basso. Questo ritmo si verifica principalmente nelle regioni rolandiche e prerolandiche. Esistono diversi ritmi rapidi, tra cui il più regolare è il ritmo beta. Esso è distinto in beta lento (13.5-18 c/s) e beta rapido (18.5-30 c/s), e presenta un voltaggio medio di 19 microVolt (8-30 microVolt). Le onde beta si rilevano in un soggetto ad occhi aperti o in stati di allerta. Il Ritmo alfa, invece, è il principale componente del tracciato del soggetto normale adulto a riposo sensoriale. Risulta da oscillazioni di frequenza comprese tra 8 e 12 cicli per secondo, con voltaggio di circa 50 microvolts e di aspetto sinusoidale, per lo più radunati in fusi.

Oltre ai ritmi rapidi esistono anche i ritmi lenti caratterizzati da onde theta che hanno una frequenza tra 4 e 7 cicli per secondo e possono avere voltaggio vario, in genere inferiore all’alfa. La localizzazione preferenziale è temporo-parietale. Nell’adulto, quando si manifestano, indicano la presenza di patologia. Questo ritmo segue la fase Theta durante il sonno, quando cominciano a comparire piccoli treni di onde, dette Sigma a frequenza di 12-14 Hz e tensione elettrica di 5-50 µV, sotto forma di fusi, chiamati così per la loro forma grafica, e grafoelementi detti complessi K. Le onde delta, inoltre, hanno una frequenza tra 0 e 3 cicli al secondo; il voltaggio è variabile e può raggiungere e superare i 200 microvolts. Le onde delta caratterizzano il sonno non R.E.M. detto anche sonno ad onde lente si manifesta dai 20 ai 40 minuti circa dall’inizio dell’addormentamento e si ripete diverse volte durante il sonno. Nei diversi stadi di sonno sono presenti principalmente onde theta e onde delta, a cui si aggiungono picchi di attività alfa e, raramente, di attività beta. Inoltre, si manifestano anche le onde PGO (ponto-genicolo-occipitali), l’attività dell’ippocampo si sincronizza con la comparsa di onde theta.

In condizioni patologiche che interessano direttamente o indirettamente la corteccia cerebrale, l’EEG può presentare onde patologiche come punte, complessi punta-onde, onde delta e theta ecc. Queste anomalie possono essere localizzate, in modo che le alterazioni eegrafiche corrispondano usualmente alla sede della lesione, o diffuse, dove le alterazioni dei centri sottocorticali influenzano l’elettrogenesi corticale.

Utilizzo dell’ elettroencefalografia

L’EEG si utilizza in presenza di epilessia in cui si rilevano onde anomale come punte, punte-onda o per segnalare la presenza di alterazioni che possono indurre il neurologo a chiedere approfondimenti diagnostici come TAC oppure RM per rilevare la presenza di ascessi, calcificazioni, cisti, ematomi, emorragie, infiammazioni, malformazioni oppure tumori del cervello benigni o maligni. Inoltre, è usata nei pazienti comatosi, per accertare lo stato di morte cerebrale, caratterizzato dal tracciato dell’EEG piatto, detto silente, corrispondente ad un potenziale elettrico cerebrale inferiore ai 2 microvolt, per la durata di almeno 30 minuti. Inoltre, è usato in casi di malattie degenerative, alterazioni metaboliche, cefalee, traumi cranici, effetti del consumo di droghe sul funzionamento cerebrale. L’EEG è utilizzato negli studi sul sonno, per poter discriminare tra vari tipi di disturbi come le apnee nel sonno, l’epilessia notturna, le dissonnie (insonnia, ipersonnia, narcolessia) e le parasonnie (bruxismo, enuresi notturna, pavor nocturnus, sonnambulismo).

Tracciato EEG normale e patologico

L’EEG di un soggetto sano, adulto, vigile, in riposo sensoriale, rilassato, con gli occhi chiusi presenta un’attività di fondo in banda alfa che occupa i 2/3 posteriori del capo, regione parieto-temporo-occipitale bilaterale, simmetrica, sincrona e stabile. I ritmi beta si registrano sulle regioni frontali e centrali, i ritmi theta si possono osservare sulle regioni temporali spesso frammisti all’alfa, e si osserva la reattività del ritmo alfa che viene interrotto dall’apertura degli occhi in modo sincrono e asimmetrico sui due emisferi e sostituito bilateralmente da ritmi rapidi.

L’EEG patologico mostra anomalie diffuse sui due emisferi che consistono sia in onde lente sia figure parossistiche, con inizio e fine improvvisi. Questi eventi devono essere interpretati tenendo conto di età, vigilanza, condizioni di registrazione, e del quadro clinico generale. Le anomalie possono essere localizzate o focali, e riflettono un’alterazione cerebrale circoscritta che potrebbe dipendere da una lesione che interessa una struttura profonda, proietta su quella regione della corteccia, o lente e diffuse che possono dipendere da un’anomalia non lesionale nel quadro di un’ encefalopatia diffusa. Mentre le anomalie lente diffuse bilaterali più o meno sincrone sui due emisferi possono dipendere da un’ alterazione lesionale delle strutture centrali profonde che controllano normalmente la modulazione dei ritmi corticali.

L’elettroencefalografia è l’unica tecnica che permette un monitoraggio nel tempo della funzione cerebrale e può evidenziare anomalie anche in assenza di lesioni strutturali documentabili. L’EEG rappresenta un valido strumento d’indagine nelle patologie in grado di modificare ed alterare l’attività elettrica cerebrale.

Una tecnica complementare all’EEG è la magnetoencefalografia (MEG), che permette di misurare le correnti che fluiscono parallelamente allo scalpo e le fluttuazioni del campo magnetico che l’organismo produce. La MEG consente, dunque, di rilevare la funzionalità cerebrale tramite la misura di un campo magnetico generato dall’attività elettrica cerebrale. L’EEG solitamente è eseguita insieme ad altre analisi per orientare e completare al meglio il quadro diagnostico.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Gestire lo stress nello sport: l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale

La corretta gestione dello stress nello sport, soprattutto per atleti di alto livello, rappresenta un elemento fondamentale. Quest’ultima, non solo incide negativamente sulla qualità di vita dell’atleta, ma influisce anche negativamente sulla sua performance. Un interessante studio condotto dalle università di Leeds Beckett e Loughborough dimostra come la CBT possa effettivamente modificare il modo in cui gli atleti di alto livello rispondono allo stress nello sport, e apporti vantaggi significativi in relazione alle loro emozioni e prestazioni.

 

La terapia cognitivo comportamentale per gestire lo stress nello sport

Faye Didymus ha lavorato con quattro giocatrici di hockey di alto livello per un periodo di nove mesi, utilizzando la tecnica della ristrutturazione cognitiva, tipica della CBT. L’obiettivo dello studioso era quello di aiutare le atlete a identificare quali pensieri avessero prima delle competizioni sportive che le mettevano sotto pressione di fronte ad alcuni stimoli e a comprendere la loro risposta emotiva a tali stimoli, al fine di prendere in considerazione alternative più utili e adattive. I risultati ottenuti grazie alla ristrutturazione cognitiva sono stati immediati: gli stimoli che, in un primo momento, erano concepiti come minacce, le giocatrici hanno cominciato a vederli come delle sfide. Tale modificazione comportava un aumento delle emozioni positive e una maggiore soddisfazione riguardo alle loro prestazioni.

In linea con quanto sostenuto dallo studio sopracitato, Didimo, dal Carnegie Institute di ricerca presso Università di Leeds Beckett, sostiene come la ristrutturazione cognitiva possa aiutare le persone a gestire meglio ciò che pensano. L’autore ha anche aggiunto che questa tecnica è particolarmente importante nello sport, dove gli atleti si trovano a svolgere specifiche performance sotto pressione, sia da soli o come parte di una squadra. Infine, Didimo evidenzia come la CBT sia stata anche utilizzata in contesti di salute e di business per migliorare il benessere e le prestazioni degli individui, ma essa venga utilizzata in misura maggiore e da più lungo tempo nei contesti sportivi.

Un altro importante studio è stato condotto in Inghilterra. In questa ricerca, alcuni atleti, dovevano svolgere una selezione per entrare a far parte di un team. I fattori di stress individuati dai giocatori erano relativi alla presenza di osservatori, che avevano il compito di effettuare la selezione, la comunicazione con il coach, problemi con i compagni di squadra, la presenza di molti spettatori, e le decisioni degli arbitri.

I giocatori sono stati valutati, prima di utilizzare la CBT, allo scopo di identificare coloro che presentavano una maggiore probabilità di beneficiare del programma. Ogni giocatore poi ha partecipato a un programma di approfondimento personalizzato di CBT, per essere aiutato a comprendere meglio i propri pensieri di stress, le emozioni associate, e come queste avrebbero potuto essere modificate attraverso la CBT.

Un immediato impatto positivo è stato osservato su tutte le variabili legate allo stress precedentemente individuate. In particolare, i giocatori hanno iniziato a concepire i diversi fattori di stress come delle sfide piuttosto che delle minacce. A seguito di tale cambiamento, le emozioni positive e la soddisfazione relativa alle prestazioni dei giocatori sono aumentate. Quando i giocatori sono stati valutati tre mesi dopo il programma, questi benefici risultavano stabili.

Visto il successo della CBT, il dottor Didimo ritiene che il programma sviluppato dovrebbe ora essere adattato e testato in una serie di sport, e ha aggiunto: “Vorremmo anche integrare le misure oggettive di performance all’interno di prove future e osservare come migliorare le risposte degli individui allo stress possa apportare benefici alla squadra nel suo complesso.”

Io e identità: l’identità diffusa del borderline e l’Io grandioso del narcisista

A giochi conclusi, la sera a luci spente, mi rincuora pensare che Io è tutte quelle parti, un puzzle di quelli che ci giocano i bambini tante volte e alcuni pezzi sono mangiucchiati e non combaciano più e altri sono stati persi, ma l’immagine che ho ricomposto ha ancora senso compiuto. Immagino Daniel Dennett dirmi che ho trovato il mio “centro di gravità narrativa”.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su La lettura del 14 maggio de Il Corriere della Sera, all’interno di una sezione speciale sui pronomi personali

 

Io è un mouse dal filo sconnesso, Io è Dio, Io è il trasformista che ti seduce, Io è appena esploso. Lo hanno smembrato Picasso e Pirandello e Io si è ricomposto in forma di dittatore vanaglorioso.

Quanta illusione c’è dietro quel pronome che ci rassicura sulla nostra identità, una roba da vertigini. Dire: “Io” è come fare una promessa di costanza. Domani mi ritroverai dov’ero oggi e se non mi presento l’accusa sarà di tradimento. Un’ipoteca ben garantita, un invito alla fiducia.

Menzogne. Io è solo la parola che definisce il centro di controllo dell’azione, ma i manovratori sono soggetti a turni. Ora voglio guardare mio figlio giocare a tennis. Chi guida la macchina verso il circolo? Io, il mio amore per il gioco, o l’ambizione che ho respirato in famiglia? Ora preparo la cena per la mia compagna. Chi profuma il tonno fresco di finocchietto selvatico? Il mio amore per i sapori intensi, complessi, evocativi? O la memoria dei giorni in cui temevo di perdere mia madre e mi attaccavo all’odore del ragù tirato per ore? Chi mi spinge a rubare tempo al gioco e spendere ore a studiare per scrivere il prossimo lavoro scientifico? Il mio gusto per la scoperta? O ancora il bisogno di soddisfare quelle ambizioni, trascinato da un motore che non si spegne mai?

A giochi conclusi, la sera a luci spente, mi rincuora pensare che Io è tutte quelle parti, un puzzle di quelli che ci giocano i bambini tante volte e alcuni pezzi sono mangiucchiati e non combaciano più e altri sono stati persi, ma l’immagine che ho ricomposto ha ancora senso compiuto. Immagino Daniel Dennett dirmi che ho trovato il mio “centro di gravità narrativa”.

Nei laboratori di psicoterapia vediamo le malattie dell’Io che segnano i nostri tempi. L’identità che chiamiamo “diffusa”: scomposta, sfibrata. La chiamiamo personalità borderline, ed è un vero caos. Un principio organizzatore è assente e l’azione è guidata da emozioni che scalciano come muli: rabbia, angoscia, tristezza infinita, più rabbia e poi click, si spegne tutto, un vuoto insopportabile, lo sguardo fisso al soffitto bianco. “Un grande amore via l’altro, quello di oggi è più bello, però non ha risposto al telefono e quindi mi sta tradendo, nessun dubbio e allora chi è lui e chi sono… io?”. L’Io borderline è il mouse staccato dalla presa USB.

L’altro simbolo: l’Io grandioso, la maschera del narcisismo. L’uomo che sbatte se stesso in prima pagina, anela alla grande bellezza, lo specchio che rimanda gloria e superiorità sfacciata. Attenzione, l’Io gonfiato è una misera copertura, protettiva quanto una sciarpetta di seta nel vento di novembre di Oslo. Il Dio, dittatore vanaglorioso, non protegge il suo popolo, si inebria solo di una gloria che imbelletta la corrosione del regno.

La soluzione che guida il mio lavoro: la disciplina dell’azione desiderata. Ascoltare il coro che parla dentro di noi e poi dimenticarlo e poi distinguere quella voce che suona più nostra e allora: agire, con perseveranza. Quando spezio il cibo e sento gli odori che si sprigionano dal soffritto sento dire Io con una buona ragione.

Bio-Neuro Feedback in azienda: un esempio di applicazione

Il Bio-Neuro Feedback è una tecnica messa a punto per controllare i parametri fisiologici della persona e ricondurli a valori più funzionali, allo scopo di raggiungere uno stato fisiologico e psicologico ottimale.

Angela Beatrice Marino – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano 

 

Il Bio-Neuro Feedback combina l’utilizzo di variabili relative ad aspetti fisiologici e ad aspetti neurali, in un primo momento misurati in situazioni di tranquillità e, successivamente, controllati dopo aver sottoposto l’individuo a degli stimoli “stressanti”.

Il Bio-Neuro Feedback: l’utilizzo di feedback fisiologici e neurali

Tale tecnica viene utilizzata in diversi ambiti non clinici, tra i quali ad esempio la psicologia dello sport, per aiutare gli atleti a migliorare le proprie performances, oppure nella psicologia del lavoro, dove si utilizzano dei training basati sui risultati del biofeedback e neurofeedback per aiutare i manager a gestire le proprie reazioni durante gli eventi stressanti, migliorandone le prestazioni lavorative.

Il Bio-Neuro Feedback combina due tecniche differenti: da un lato utilizza il neurofeedback, una metodologia attraverso la quale le informazioni sulle variazioni dell’attività neurale di un individuo vengono fornite all’individuo stesso in tempo reale, permettendogli di autoregolare questa attività (ottenendo così modifiche del comportamento della persona); dall’altro lato il biofeedback fornisce informazioni sui parametri fisiologici dell’individuo quali il ritmo del respiro, la vasodilatazione arteriale, la tensione muscolare, la conduttanza cutanea, la variabilità cardiaca e la temperatura periferica, con lo scopo di monitorarle e ricondurle a valori ottimali.

Per fare ciò, sono stati messi a punto una procedura e degli strumenti utilizzati in sessioni di training rivolte a manager e sportivi, i quali vengono così addestrati a utilizzare questi tipi di feedback per migliorare le proprie performance, sia in campo lavorativo che in campo agonistico.

Il percorso di Bio-Neuro Feedback prevede in prima battuta l’utilizzo di questionari che vanno ad analizzare il livello di stress dell’individuo, rilevando i fattori stressogeni individuali e quelli dipendenti dall’ambiente circostante o dall’organizzazione nella quale l’individuo lavora. Successivamente, la persona viene sottoposta a un assessment individuale delle reazioni fisiologiche e delle attivazioni neurologiche, ponendola dapprima in situazioni “stressanti”  e confrontando successivamente i parametri misurati con quelli rilevati in situazioni di “calma”.

Il Bio-Neuro Feedback per il benessere della persona

Per comprendere a fondo come le procedure di valutazione siano state messe a punto, è fondamentale partire dal presupposto che l’obiettivo è di puntare non solo l’ottimizzazione della performance, ma anche al mantenimento del benessere della persona.

Con il termine “stato di benessere” si intende quanto stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) con la Carta di Ottawa del 21 di Novembre 1986:

La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere.

In tal senso, viene anche sposata la visione sistemica, secondo la quale il benessere dell’individuo dipende dal sistema bio-psico-sociale: bisogna considerare il “sistema individuo” come micro-sistema e l’ambiente circostante (lavoro, famiglia, società) come sistema “macro”. Pertanto, il benessere dell’individuo non dipende solo da quello che accade nel “micro”, ma anche da come il “macro-sistema” circostante interviene su di esso. Per questo motivo l’utilizzo del Bio-Neuro Feedback è focalizzato a ripristinare il benessere, tutelare la salute individuale e il benessere psico-fisico dell’individuo, utilizzando azioni di prevenzione, mantenimento e recupero dello stato di salute; ad esso viene sempre abbinato un intervento sul “sistema ambiente”, attraverso azioni sull’organizzazione e sull’ambiente entro quale l’individuo è inserito.

L’utilizzo del Bio-Neuro Feedback per ridurre lo stress

Altro parametro su il quale ci si pone l’obiettivo di incidere attraverso l’utilizzo del Bio-Neuro Feedback è ciò che viene chiamato il “fenomeno stress”: esso è definito come la risposta psicofisica ad una certa quantità di compiti, pertanto in questi termini è un’attività normale e adattiva.

La reazione di stress è una risposta automatica e primitiva: essa è scatenata da uno stimolo percepito attraverso i canali sensoriali che attivano la reazione di allarme, localizzata a livello dell’amigdala, la zona centrale e più primitiva del cervello, che attraverso l’attivazione dell’asse talamo-ipofisi-surrene, dà il via alla cosiddetta risposta “attacco-fuga”.

Per comprendere come l’individuo vive un determinato stimolo e reagisce ad esso è di fondamentale importanza capire come tale stimolo è percepito ed interpretato dalla mente dell’individuo, attuando tipologie differenti di risposta emotiva e comportamentale. Risposte tipiche di reazione allo stress a livello comportamentale sono, ad esempio, comportamenti di evitamento da una parte, e l’aumento della vigilanza e dell’attivazione mentale dall’altra.

Esistono diverse fasi dello stress:

  1. Una prima fase di allarme, durante la quale si verificano delle alterazioni a carico del sistema nervoso simpatico e modificazioni a livello dei sistemi cardiocircolatorio, ormonale, muscolare e gastrointestinale. Questi meccanismi servono a predisporre l’organismo all’azione.
  2. La seconda fase, detta di resistenza, si verifica quando, superata la prima fase critica, l’organismo si adatta alla nuova situazione, ripristinando livelli di difesa standard. La durata di questa fase è variabile, in quanto dipende da diversi fattori, quali l’intensità dello stress vissuto, le risorse personali e ambientali.
  3. La terza fase di esaurimento è caratterizzata da un livello di difesa molto basso e può portare l’individuo a condizioni di stanchezza o di tensione, di malattia, qualora non sia attivato un meccanismo di recupero o siano ancora in atto le condizioni stressanti.

Alcuni individui sono soggetti a stress continuo, il quale comporta risposte fisiologiche e comportamentali di adattamento croniche, che a lungo andare possono causare affaticamento ed indebolimento generale. In tali condizioni possono insorgere più facilmente malattie, possono essere inficiati i processi di crescita, i processi di ricambio e riparazione cellulare sono deficitari. Alcuni tipici effetti negativi dello stress comportano l’aumento degli ormoni androgeni, causa della caduta dei capelli, dell’aumento dell’acne e dell’amenorrea.

Attraverso un training basato sul Bio-Neuro Feedback, si punta a raggiungere l’ottimizzazione della performance e dello stato di salute dell’individuo, inserito in un determinato contesto professionale o sportivo. Si parte dal presupposto che la prestazione è frutto non solo di talento, competenze, strategie e preparazione, ma ruolo fondamentale rivestono anche il “dialogo interno” della persona, i fattori fisici e biologici. Pertanto, tra quella che viene definita “performance potenziale” e la “performance effettiva”, possono intervenire fattori interni ed esterni all’individuo che, elaborati a livello mentale e psicologico, possono interferire con le prestazioni, influendo sul livello di tale prestazione.

Tutto ciò può causare nell’individuo vissuti personali negativi, quali un diminuito livello di autostima, un dialogo interno poco funzionale, strategie di coping inadeguate, con conseguenze a livello di comportamenti poco funzionali e quindi uno scarso adattamento all’ambiente circostante. La persona soccombe a ciò che viene comunemente definito stress, che inciderà negativamente sul suo livello di benessere generale, alimentando vissuti di inadeguatezza, e tornando ad influire negativamente sulla performance, rinforzando così il circolo vizioso.

L’intervento di training agisce su due fronti: sul fronte dell’individuo si interviene attraverso il monitoraggio del proprio stato psico-fisiologico, cercando di gestirlo riportando i parametri fisiologici entro livelli ottimali, agendo sia secondo una logica bottom-up, dalle sensazioni agli aspetti psicologici, sia in una logica top-down, attraverso la quale si invita l’individuo a “riprendere possesso” delle proprie sensazioni ed emozioni negative, utilizzando il pensiero e il controllo mentale; sul fronte del macro-sistema “organizzazione” entro la quale l’individuo è inserito, si agisce attraverso degli interventi di miglioramento del clima aziendale, quali corsi, workshop e altri interventi sulle risorse umane.

Il lavoro sull’individuo è fondato sull’utilizzo del Neurological e Fisiological training (uso non clinico e terapeutico del Bio e Neuro feedback): esso utilizza delle procedure di “allenamento” che hanno l’obiettivo di insegnare alla persona a spostare l’attenzione dai suoi pensieri intrusivi e dalle sue preoccupazioni, indirizzandosi verso una condizione di maggior presenza, attenzione, concentrazione e vigilanza. Attraverso questo percorso, inoltre, la persona riesce ad aumentare la propria consapevolezza e la comprensione di come le attività del pensiero influenzino la fisiologia, e come la fisiologia influenzi i pensieri.

In dettaglio, il primo step provvede ad effettuare una valutazione di parametri inerenti il sistema nervoso, quali frequenza della respirazione, la dilatazione dei vasi arteriali, la tensione muscolare, la conduttanza cutanea, la variabilità cardiaca e la temperatura periferica; a ciò si uniscono i dati provenienti da una elettroencefalografia qualitativa EGG; tutti questi parametri vengono misurati prima ponendo la persona in condizioni di rilassamento, e poi misurati in condizioni di “stress”, generato sottoponendo l’individuo a prove più o meno impegnative.

Questo percorso di valutazione serve al trainer, ma soprattutto all’individuo, per individuare il suo “profilo” psicofisiologico di base, e come esso si comporta nelle situazioni di stress, individuando le aree di possibile miglioramento e che quindi potranno essere sottoposte ad un training, per aiutare la persona a mantenere un livello di attivazione ottimale al mantenimento del suo benessere e all’ottimizzazione della sua performance.

Il training al quale le persone saranno successivamente sottoposte ha una durata di sei sedute di un’ora mezza e, utilizzando supporti informatici in una veste ludica, si pone obiettivi molto ambiziosi, ma realistici e ben ancorati alla teoria. Infatti, gli esercizi proposti da un lato mirano al riequilibrio di condizioni fisiologiche, attraverso l’uso di tecniche di stampo più comportamentale, come la respirazione, il rilassamento muscolare, che hanno lo scopo di ribilanciare il sistema nervoso simpatico e parasimpatico; dall’altro lato, si utilizzano esercizi incentrati su aspetti cognitivi, che servono a rifocalizzare l’attenzione o a mantenere il focus attentivo in vista di un obiettivo finale.

Dopo circa un mese dall’ultima seduta la persona è invitata a effettuare un ri-Assessment il cui scopo è misurare le eventuali differenze dei valori pre-training e post-training, attraverso i quali si cerca di pervenire a delle spiegazioni quali-quantitative dei cambiamenti avvenuti.

Il Bio-Neuro Feedback in azienda: l’esempio di Arriva Italia

Un esempio di applicazione di questo tipo di progetto con Bio-Neuro Feedback è stato realizzato dalla società Demichelis Mindroom Srl all’interno di Arriva Italia, holding italiana del gruppo Arriva, che gestisce i trasporti pubblici con filiali in tutta Europa e circa 3500 dipendenti in Italia. La popolazione aziendale coinvolta è costituita da 54 manager collocati in 7 differenti sedi del nord Italia. In tale azienda i momenti di sessione individuale (4 incontri totali da 1,5 ore ciascuno) sono stati alternanti da momenti di gruppo finalizzati ad approfondire tematiche specifiche legate allo Stress.

In una prima fase è stato somministrato alle persone il test OSI Occupational Stress Indicator (Cooper, C.,L., Sloan, S.; Williams, S., 2002) utilizzato per la rilevazione ad ampio spettro dello stress psicosociale nelle organizzazioni. Questo strumento è volto a rilevare le caratteristiche personali che possono favorire lo stress, individuando le caratteristiche individuali, quali fattori biografici e le caratteristiche psicologiche, le strategie di coping adottate e gli effetti sull’organizzazione e sull’individuo stesso. I risultati ottenuti sono poi stati messi a confronto con quelli standardizzati.

In ciascuno dei quattro incontri si è, inoltre, proceduto ad applicare il protocollo Bio-Neuro Feedback. I risultati più significativi si sono avuti nella conduttanza cutanea e nella temperatura periferica; tali parametri fisiologici sono identificati come indicatori di stabilità emotiva e di benessere psicofisico, anche per la loro relazione con la vasodilatazione e l’attività cardiorespiratoria. Il training ai manager ha dato risultati molto soddisfacenti in particolare nel controllo dei due parametri sopracitati, attraverso i quali si è potuto incrementare il livello di stabilità emotiva, aiutando le persone ad affrontare più efficacemente le situazioni di stress. La stabilità emotiva, difatti, aiuta a gestire al meglio le risposte automatiche del corpo in risposta a situazioni di stress. Le misurazioni effettuate dopo la terza seduta del trattamento hanno addirittura evidenziato un incremento del 40% della stabilità emotiva per il 38% del campione; per il rimanente 62% si è rilevato un aumento dell’indice di stabilità emotiva di almeno il 20%.

Per quanto riguarda l’indice di benessere psicofisico, per più della metà del gruppo di manager, già al termine della seconda seduta di training, sono stati rilevati dei miglioramenti sui valori del 45% e al termine del terzo incontro un terzo del gruppo aveva evidenziato un miglioramento del 62%. L’intervento ha riscontrato un buon livello di partecipazione e coinvolgimento, un alto livello di interesse e un miglioramento nei parametri fisiologici per la maggior parte dei manager coinvolti, i quali hanno imparato ad osservare i propri parametri fisiologici nei momenti stressanti e hanno compreso come gestire la “fisiologia” dello stress. Inoltre, per l’incremento del benessere organizzativo, sono stati individuati, grazie all’analisi e confronto di casi individuali, azioni da mettere in atto per aumentare il committment individuale nell’azienda e le relazioni interpersonali a vari livelli.

A fronte dei dati emersi in varie applicazioni del Bio-Neuro Feedback, di cui quello sopra riportato è solo un esempio, si può affermare che un protocollo ben studiato di training basato su questa tecnica, può portare significativi risultati nel miglioramento delle performances, nel mantenimento dello stato di benessere e nel far fronte allo stress.

Lo stress dei genitori di bambini con diagnosi di autismo

Le famiglie di bambini autistici duramente colpite dai molteplici deficit dei loro figli vivono stress a livello individuale, coniugale, genitoriale e rispetto alla relazione con altri figli.

Bernardi Laura – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Dai primi approcci che dagli anni ’50 hanno affrontato lo studio dell’impatto della disabilità sulla famiglia, si è andata affermando in letteratura l’idea di un impatto necessariamente negativo della disabilità sulle vite delle famiglie che ha poi guidato la ricerca sull’argomento dando centralità a concetti quali dolore, lutto e tristezza cronica (Kearney e Griffin, 2001). Fino agli anni ‘80 la letteratura in questa prospettiva ha assunto come base la sola dimensione negativa del fenomeno disabilità, sviluppando un’ipotesi di reazione disadattiva allo stress che ha ribadito l’ineluttabilità di una risposta patologica delle famiglie.

Lo stress nelle famiglie di bambini autistici

A questo proposito si trova un’ampia rassegna di studi che indagano i principali eventi della vita dei soggetti autistici e descrivono le reazioni dei familiari. Le famiglie di bambini autistici duramente colpite dai molteplici deficit dei loro figli vivono stress a livello individuale, coniugale, genitoriale e rispetto alla relazione con altri figli (DeMyer, 1979). Sembra che la natura della sindrome autistica renda questa patologia particolarmente stressante per le famiglie rispetto a molti altri tipi di disturbi (Bouma e Scweitzer, 1990; Fisman et al., 1996; 2000; Kasari e Sigman 1997; Sanders e Morgan, 1997). Numerosi studi hanno constatato come, i genitori di figli con disabilità e con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, mostrino elevati livelli di stress rispetto a famiglie con figli con un normale processo di sviluppo (Hastings, Honey  e McConachie 2005; Dumas, 1991; Koegel, 1992; Konstantareas, 1992; Sanders e Morgan, 1997) osservando, in generale, che i padri riportano minori livelli di stress rispetto alle madri (Bristol, 1988; Gray e Golden, 1992; Konstantareas, 1992; Moes, 1992).

Altri studi su famiglie di bambini autistici rilevano un’associazione positiva tra sintomatologia autistica e stress genitoriale (Bebko, Konstantareas e Springer, 1987;  Konstantareas e Homatidis 1989; Szatmari, Archer, Fisman e Steiner, 1994; Kasari e Sigman 1997; Hastings e Johnson 2001). I caregiver stessi riferiscono che i loro figli hanno un temperamento più difficile e riportano, rispetto a caregiver di soggetti normodotati e soggetti con Sindrome di Down, livelli più elevati di stress associati alle caratteristiche del bambino (Dunn, Burbine e Bowers, 2001; Kasari e Sigman, 1997).

Un primo motivo di stress è la mancanza d’interazione (Dumas, Wolf, Fisman e Cullig,1990; Kasari e  Sigman, 1997). Vera o apparente che sia, questa indifferenza del bambino autistico rivolta ai famigliari, provoca nei genitori sentimenti di rifiuto, d’inutilità e di amore non corrisposto. Kasari et al. (1997) hanno osservato, inoltre, che i caregiver che giudicano i propri figli autistici dal temperamento difficile si impegnano meno nelle interazioni con i bambini. Anche Dumas et al. (1990) hanno rilevato che, nelle famiglie di bambini autistici, le madri non sorridono in risposta al sorriso dei figli così spesso quanto le madri di bambini normali. Nello studio di Gray (1994) l’assenza delle abilità di linguaggio è indicata dalle famiglie di bambini autistici come il fattore maggiormente stressante. È il fallimento nello sviluppo normale del linguaggio a spingere molti genitori a un consulto medico (DeMeyer, 1979).  Tuttavia, per alcuni genitori di questo studio, il deficit di linguaggio del loro bambino rimane una fonte di stress anche dopo la diagnosi. Sebbene molti genitori arrivino ad accettare che la condizione di loro figlio comporti più di un disturbo del linguaggio, il fallimento del bambino nello sviluppo delle abilità linguistiche normali resta uno degli aspetti più frustranti dell’autismo (Gray, 1994).

Baker et al. hanno osservato questa associazione in bambini di età pre-scolare con ritardo nello sviluppo (Baker et al., 2002; 2003). Altri hanno trovato che i comportamenti problema sono per i genitori stressor più importanti della gravità della disabilità (Willoughby r Glidden, 1995; Essex et al., 1999; Hastings, 2002). Purtroppo la relazione tra comportamenti problema e stress genitoriale in soggetti con disturbi dello spettro autistico ha ricevuto scarsa attenzione in letteratura. Uno studio più recente di Lecavalier, Leone e Wiltze (2005), che esamina i correlati dello stress nei caregiver di un ampio campione di bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico, riporta che i comportamenti problema sono i fattori maggiormente associati allo stress rispetto a tutte le altre caratteristiche misurate in bambini e caregiver. Condotte problematiche e assenza di comportamenti prosociali sono i più fortemente legati allo stress (Lecavalier, 2005). I risultati di questo studio rilevano, inoltre, che comportamenti problematici e stress rimangono stabili e si aggravano l’un l’altro nel corso di un anno.

La preoccupazione per il futuro

La famiglia di soggetti affetti da autismo fa fatica o è impossibilitata a svolgere una vita normale e, a causa della natura permanente del disturbo, resta perennemente angosciata dall’incertezza sia per il futuro prossimo del proprio bambino, o addirittura dell’indomani, sia per quello più lontano della vecchiaia e della morte. La terapia che si protrae per tutta l’esistenza e l’assenza di cure implicano che le famiglie si occupino del figlio disabile per molti anni. Decidere dove il proprio figlio autistico vivrà da adulto, è una delle questioni più difficili che le famiglie con bambini autistici devono affrontare. Uno studio recente (Harper A et Al.2013), ha dimostrato che i genitori dei bambini con un disturbo dello spettro autistico sono a maggior rischio di altre coppie di avere livelli di stress più elevato e una minore qualità della vita coniugale. Risulta interessante valutare come un intervento a sostegno del loro lavoro quotidiano di cura del figlio sia stato suggerito come un modo per contribuire ad alleviare lo stress.

Questo studio ha valutato la relazione tra la quantità e la qualità del sostegno alla famiglia e la qualità della vita coniugale, e poi il potenziale di stress in termini complessivi e lo stress della madre o del padre come variabili intermedie. I risultati hanno mostrato che la quantità di sollievo dall’accudimento è stata positivamente correlata alla qualità della vita coniugale sia per i mariti che per le mogli. Questa relazione è stata significativamente correlata alla misura dello stress percepito e al sollievo avvertito da ambedue: marito e moglie. Viceversa, maggiore presa in carico è stata associata ad un aumento dello stress; e maggiore stress è stato associato ad una ridotta qualità della vita coniugale. Inoltre il numero dei bambini con autismo in famiglia è stato associato ad un ulteriore incremento dello stress ed aumenta ogni giorno la riduzione della qualità relazionale.

Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2

In questa seconda parte della nostra risposta a Farina affrontiamo l’ipotesi che tra psicopatologia del trauma e relazione terapeutica come strumento di cura ci sia un rapporto privilegiato, e consideriamo i rischi e vantaggi di questo rapporto.

Sappiamo che questo collegamento è almeno in parte di una forzatura, e che trauma e relazione terapeutica non vanno per forza a braccetto. Sappiamo che ci sono colleghi che sottolineano l’importanza della relazione terapeutica senza pensare che il trauma sia il principale fattore psicopatologico e che ci sono altri colleghi che privilegiano il lavoro sul trauma senza però ritenere che si debba operare soprattutto sulla relazione terapeutica.

Sappiamo infine che relazione terapeutica è un concetto ancor più ampio di quello di trauma, che comprende varie cose, dall’alleanza di lavoro alla relazione spontanea fino alle rotture interpersonali tra paziente e terapista. Insomma, sappiamo che si tratta di una palude immensa la cui analisi dettagliata esula dallo scopo di questo articolo.


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017

Trauma e relazione terapeutica

Prendiamo però in esame il caso speciale in cui tra trauma e relazione terapeutica sia ipotizzato un legame teorico e clinico forte. Un modello traumatico fondato sull’ipotesi del deficit potrebbe proporre che la terapia non possa limitarsi all’individuazione e all’apprendimento di una funzione male utilizzata –come farebbe un terapista cognitivo comportamentale- ma deve riparare  strutture deficitarie o mal-funzionanti. E in questo modello la ricostruzione avverrebbe soprattutto in una  relazione -beninteso una relazione professionalmente terapeutica- e questo perché a sua volta la fase in cui nel passato le funzioni ora deficitarie del paziente avrebbero dovuto svilupparsi fu soprattutto una fase relazionale; insomma una relazione di sicurezza, protezione e contenimento con figure significative per la crescita, una relazione –alla Winnicott, ma anche alla Farina e Liotti (2011)- di cooperazione.

L’apprendimento del buon uso delle funzioni male utilizzate non si realizzerebbe se non è preceduto dalla ricostruzione delle strutture che permettono l’integrazione o comprensione della mente altrui. E dove avverrebbe questa ricostruzione? In una relazione, probabilmente, perché li avrebbero dovute essere costruite nell’infanzia perduta del paziente le impalcature deficitarie, e solo li possono essere ri-costruite.

La terapia come relazione

La terapia come relazione ci dice che siamo dalle parti di Winnicott e di Mitchell più che di Beck ed Ellis. Sicuramente anche in terapia cognitivo-comportamentale il monitoraggio della relazione e gli interventi di riparazione sono previsti, utili, a volte necessari, per mantenere la terapia cognitiva on the track (Waller, 2009). Ed è vero che Farina e Liotti (2011) hanno sempre insistito sul carattere di cooperazione della relazione terapeutica, quasi a evitare un eccessivo appiattimento sul transferale riproporsi in terapia del good enough mothering di Winnicott. Ed è infine vero che Safran e Muran (2000) sottolineano come la relazione sia un’esperienza non solo affettiva ma anche di crescita metacognitiva attraverso fasi drammatiche di rottura e riparazione. E poi, anche uno degli autori di questo articolo ipotizzò a suo tempo che potesse essere utile ricostruire la storia passata dell’apprendimento disfunzionale delle credenze distorte in specifici stili di conoscenza (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Ci sono dati in linea con queste considerazioni, ad esempio Horvath ha trovato una robusta correlazione tra working alliance ed esito della terapia (Horvath & Bedi, 2002; Horvath, Del Re, Flückiger & Symonds, 2011). Anche se poi i suoi effetti sono minori  del previsto (Beutler, 2009), principalmente legati all’accordo su scopi e compiti della terapia più che sul legame relazionale (Webb et al., 2011), specie affiancata al contributo di altri predittori, tra i quali perfino la bistrattata tecnica terapeutica (Lambert & Barley, 2002).

Il paradigma di riferimento

Questi però sono i dati e qui ci preme sottolineare che il problema è anche di paradigma di riferimento e quindi di interpretazione dei dati e, conseguentemente, di chiarezza dell’operare clinico. Partiamo dal presupposto che mantenere una buona relazione sia un dato trasversale e indiscutibile, comune a tutti gli approcci terapeutici. Non abbiamo notizia a oggi di un approccio psicoterapeutico che teorizzi il maltrattamento strategico del paziente. In questo è una competenza di base. Oltre questa competenza di base possiamo identificare due scenari contrapposti sul binario trauma-relazione.

(1) Da un lato una terapia che mira alla ri-costruzione di buone relazioni per riparare meccanismi cognitivi malfunzionanti  (a seguito di esperienze traumatiche) e conseguentemente restituire al paziente il potere di cambiare. L’intervento di cambiamento dei meccanismi cognitivi è posticipato, se necessario, come ultima tappa di un lavoro realizzato in buona parte altrove, ovvero nella relazione e nella costruzione di esperienze emozionali correttive.

(2) Dall’altra parte terapie cognitivo-comportamentali che mirano al cambiamento di scopi, credenze, stili di pensiero e di reazione alla sofferenza emotiva, comprensibilmente sorte per far fronte a un contesto difficile o esigente (e nel 30% dei casi traumatico), là e allora persino utili, ma che non hanno tolto al paziente il potere di cambiare, per quanto possa non esserne pienamente consapevole. L’intervento relazionale, oltre alla competenza di base, diventa uno specifico intervento, se necessario, a favorire un ritorno, certo cooperativo, al processo di cambiamento nella relazione con i propri stati mentali.

Tuttavia, potrebbe forse obiettare un relazionalista, come ci si può aspettare che i pazienti siano in grado utilizzare meglio le loro malcomprese funzioni mentali, se le mura portanti della loro mente cadono a pezzi? I calcinacci della mente ci cadono in testa e questi cognitivisti stanno li a mostrare che si possono manovrare gli interruttori della luce e del gas!

È una posizione legittima, anzi proprio a livello teorico il confronto sui dati si farebbe interessante e florido. Ma per garantire un confronto con un paradigma cognitivo, occorre riconoscere che- almeno in parte- si esce fuori dal paradigma cognitivo. Ripetiamo: nulla di male in questo. Semmai, il rischio che paventiamo è quello di muoversi nel mezzo di un ecletticismo teorico, una miscela di teorie, tecniche e prospettive, talvolta aggregate senza consapevolezza piena della loro diversa prospettiva di riferimento. Questo è anche il rischio che potrebbe condurre a una sovrageneralizzazione del  pur utile concetto del paziente “difficile”, intuizione di Carlo Perris. Naturalmente non neghiamo l’esistenza di una percentuale di pazienti cosiddetti difficili. Tuttavia l’accumulo eclettico di tecniche di diversa origine può ridurre la consapevolezza del professionista su quali siano le basi stesse del proprio paradigma di riferimento.

Senza una visione chiara del proprio paradigma di riferimento (in altri termini della propria unità di analisi) che delinei l’orizzonte, chiunque si troverebbe in maggior difficoltà nel definire obiettivi primari del proprio operare, selezionare strategie adeguate, mantenere il focus attentivo sulla meta del processo terapeutico. Esito finale: confusione e incertezza e passaggio inconsapevole tra un paradigma e un altro (magari non condiviso esplicitamente con il paziente) e tutti i pazienti che diventano difficili, o per meglio dire, si perde la capacità di discriminare gli uni dagli altri.

Questo rischio ci pare concreto a prescindere dalla prospettiva di riferimento: può trasformare la relazione terapeutica in un costrutto vago e astratto, può trasformare l’applicazione di tecniche cognitive in un esercizio sommario e non aderente. Di quest’ultimo aspetto parleremo in un successivo articolo.

In ogni caso, rimaniamo consapevoli che trauma e relazione sono cose diverse. Infatti, a ben vedere, ci pare che negli ultimi tempi la psicotraumatologia stia ottenendo risultati significativi nell’intervento su sintomi associati a trauma, percorrendo una terza strada (Sensorimotor, EMDR) che prevede il recupero di interventi molto strutturati e che però non si fonda sulla forza curativa della relazione terapeutica o sulla gestione consapevole delle funzioni cognitive.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli, Giovanni Maria Ruggiero

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017

Relazione terapeutica vignetta

Una tecnica optogenetica in grado di modificare il comportamento animale

La ricerca mostra la possibilità di utilizzare una tecnica optogenetica per la selezione di cellule target nel cervello adulto in un modello animale.

 

I ricercatori di UW Medicine hanno sviluppato una tecnica per l’inserimento di un gene in specifiche cellule target utilizzato per alterare la funzione dei circuiti cerebrali e modificare i comportamenti in un modello animale. Il metodo ha consentito agli scienziati di capire meglio quali ruoli, determinati tipi di cellule, giocano nel complesso insieme dei circuiti neuronali. La prospettiva futura dei ricercatori è quella di utilizzare tale approccio per sviluppare trattamenti per i disturbi come l’epilessia, che potrebbero divenire curabili mediante l’attivazione di un piccolo gruppo di cellule.

I lavori recenti mostrano che l’approccio può essere usato per alterare la funzione dei circuiti cerebrali e per modificare il comportamento.

Gregory Horwitz, professore di fisiologia e biofisica presso l’Università di Washington School of Medicine di Seattle, ha guidato il team di ricerca. Horwitz afferma che il cervello è costituito da una grande varietà di cellule che svolgono funzioni diverse e sostiene che una delle grandi sfide per le neuroscienze è trovare le giuste modalità per studiare la funzione di specifici tipi di cellule target senza influenzare la funzione di altri tipi di cellule vicine. Lo studio del professore dimostra che tramite questa tecnica optogenetica è possibile selezionare cellule target cerebrali capaci di influenzare il comportamento quasi nell’immediato.

Horowitz e i suoi colleghi del Washington National Primate Research Center di Seattle hanno inserito un gene nelle cellule del cervelletto, coinvolto nell’apprendimento e nel controllo motorio, nel linguaggio, nell’attenzione e in alcune funzioni emotive, come le risposte alla paura o al piacere. Ma la funzione primaria del cervelletto è controllare i movimenti motori e se il suo funzionamento viene compromesso generalmente si va incontro alla perdita di coordinazione. Recenti studi suggeriscono che il cervelletto può essere importante anche nell’apprendimento ed essere probabilmente coinvolto in condizioni come l’autismo e la schizofrenia.

Le cellule selezionate dagli scienziati per lo studio sono chiamate cellule Purkinje. Queste cellule, a cui è stato dato il nome del loro scopritore, l’anatomista ceco Jan Evangelista Purkinje, sono alcuni tra i neuroni più grandi del cervello umano e dotati di un intricato complesso di arborizzazioni dendritiche; sono in grado di elaborare segnali provenienti da centinaia di migliaia di altre cellule cerebrali. La loro caratteristica è quella di essere neuroni inibitori, capaci di regolare i movimenti complessi e coordinati, impedendo l’attuazione di movimenti troppo bruschi.

Il gene inserito, chiamato canalrodopsina-2 (ChR2), codifica per una proteina sensibile alla luce che si inserisce nella membrana della cellula cerebrale. Quando viene esposto alla luce, permette agli ioni – entità molecolari elettricamente cariche – di passare attraverso la membrana. Ciò permette alla cellula cerebrale di attivarsi.

La tecnica optogenetica è comunemente usata per studiare la funzionalità cerebrale nei topi. Ma in questo studio il gene deve essere introdotto nella cellula embrionale del topo. Horwitz afferma:

Questo approccio transgenico si è rivelato prezioso nello studio del cervello. Se deve essere usata per curare la malattia, dobbiamo trovare un modo per introdurre il gene in una fase più tardiva della vita, quando si presentano la maggior parte dei disturbi neurologici.

La sfida per il suo team di ricerca era di cercare di capire come introdurre ChR2 in un tipo specifico di cellule in un animale adulto. Per ottenere questo risultato, hanno utilizzato un virus modificato che trasporta il gene per ChR2 insieme ad un promotore – regione di DNA costituita da specifiche sequenze dette consenso, alla quale si lega la RNA polimerasi per iniziare la trascrizione di un gene, o di più geni segmento.

Il promotore stimola la cellula ad esprimere il gene e a produrre la proteina di membrana ChR2. Per assicurarsi che il gene fosse espresso solo dalle cellule Purkinje, i ricercatori hanno utilizzato un promotore fortemente attivo in tali cellule, chiamate L7 / Pcp2 – proteina 2 delle cellule Purkinje.

Nel loro lavoro, i ricercatori hanno riferito che, iniettando il virus modificato in una piccola area del cervelletto delle scimmie macaco Rhesus, l’espressione selettiva di ChR2 veniva a verificarsi esclusivamente nelle cellule Purkinje. I ricercatori hanno poi dimostrato che esponendo le cellule trattate alla luce, attraverso una fibra ottica, erano in grado di stimolare le cellule ad attivarsi a velocità differente, influenzando anche il controllo motorio degli animali.

Tali risultati dimostrano l’utilità del vettore virale L7-ChR2 nel rivelare i contributi delle cellule Purkinje nel funzionamento del circuito cerebrale e nel comportamento, dimostrando la fattibilità delle manipolazioni genetiche, su un tipo specifico di cellula target, nei primati.

Con questa scoperta, il prossimo obiettivo dei ricercatori sarà quello di utilizzare diversi promotori per indirizzare altri tipi di cellule coinvolte in differenti comportamenti.

Metacognizione e cambiamento terapeutico nel disturbo borderline di personalità

Dopo vari studi di processo che hanno mostrato come la metacognizione possa aumentare in una terapia di successo, era necessario testare l’ipotesi se la metacognizione predicesse il cambiamento. Abbiamo così condotto uno studio pilota su 10 pazienti Borderline.

 

A partire dalle riflessioni di Semerari e colleghi (1999) la metacognizione, ovvero la capacità di riconoscere i propri stati mentali, quelli degli altri, rifletterci su e regolarli, è stato considerata un possibile predittore di cambiamento.

Da un lato pazienti con migliore metacognizione avrebbero dovuto rispondere meglio alla psicoterapia, dall’altro sarebbe stato necessario aggiustare l’azione terapeutica al livello metacognitivo laddove esso fosse stato carente.

La metacognizione in pazienti Borderline

Dopo vari studi di processo, sia pure in assenza di misure formalizzate di outcome (Carcione et al., 2011; Dimaggio et al., 2009; Semerari et al., 2003; 2005) che hanno mostrato come la metacognizione possa aumentare in una terapia di successo, era necessario testare l’ipotesi se la metacognizione predicesse il cambiamento. Con i colleghi di Losanna, abbiamo condotto uno studio pilota su 10 pazienti Borderline sottoposti ad un trial clinico randomizzato di Good Psychiatric Management (Gunderson & Links). Abbiamo utilizzato la SVAM-R (Carcione et al., 2010) per valutare la metacognizione nella prima e nella penultima delle dieci sedute di cui era composto il trattamento.

Il primo dato è che i pazienti avevano livelli estremamente bassi di metacognizione, quasi a livelli psicotici. Si trattava di pazienti estremamente compromessi, molti dei quali senza lavoro, con situazioni familiare compromesse e spesso in comorbilità con abuso di sostanze. Il secondo dato importante è che il miglioramento nella metacognizione è stato minimo, solo riguardante le abilità di Mastery (capacità di regolazione basata sulla conoscenza mentalistica) di tipo più semplice.

Questo fa pensare che il cambiamento terapeutico non avvenga in tutti i trattamenti nello stesso modo e che trattamenti che non mirano a migliorare le capacità metacognitive oppure promuovono il cambiamento per altre vie, cosa che però naturalmente non si può concludere da questo studio, sono meno efficaci. Riguardo alla capacità di predire il trattamento, solo la capacità di capire la mente degli altri è stata trovata collegata al miglioramento terapeutico. Chi aveva migliore lettura della mente andava incontro a un livello di cambiamento leggermente superiore.

Va detto che sia per quanto riguarda il cambiamento metacognitivo minimo osservato, sia per quanto riguarda la capacità della sola lettura della mente degli altri di predire il cambiamento, che si tratta di un protocollo di sole 10 sedute. Rimane possibile, e ritengo probabile, che in trattamenti di più lunga durata si osservi a maggiore cambiamento nella metacognizione e che l’impatto iniziale delle carenze metacognitive abbia più effetto. È ancora più probabile, e in linea con gli studi che hanno utilizzato misure del concetto simile a quello di metacognizione, ovvero la funzione riflessiva, che terapie volte a migliorare la comprensione e regolazione degli stati mentali, siano più efficaci in questo dominio.

Infezione da HIV: effetti psicologici e psicopatologie associate

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. 

Anna Greppi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Infezione HIV e AIDS: uno sguardo al fenomeno

Il virus dell’immunodeficienza umana HIV (HIV, sigla dell’inglese Human Immunodeficiency Virus) è l’agente responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita, AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).

È un retrovirus del genere lentivirus, che da origine a infezioni croniche, che sono scarsamente sensibili alla risposta immunitaria ed evolvono lentamente e progressivamente. Se non trattate, possono avere un esito fatale. In base alle conoscenze attuali, l’ HIV è suddiviso in due ceppi: HIV-1 e HIV-2. Il primo dei due è prevalentemente localizzato in Europa, America e Africa centrale; HIV-2, invece, si trova per lo più in Africa occidentale e Asia e determina una sindrome clinicamente più moderata rispetto al ceppo precedente.

Nel 2012 si stima che circa 35,3 (32,2-38,8) milioni di persone nel mondo vivono con l’ infezione da HIV, numero che risulta essere in costante crescita. Sono calate del 33% le nuove infezioni da HIV rispetto al 2001 – da 3,4 milioni di persone a 2,3 (1,9-2,7) milioni circa-. Per quanto riguarda i bambini, negli ultimi 11 anni le infezioni sono calate del 53% (sono 260mila nel 2012). Si è riscontrata anche una diminuzione del 30% i decessi collegati all’ AIDS rispetto al picco del 2005 – sono 1,6 (1,4-1,9) milioni nel 2012 (Global Report 2013 del Joint United Nations Programme on HIV/AIDS UNAIDS,ONU).

Per quanto riguarda la situazione italiana, nel 2012 risultano esserci circa 94.146 persone affette in Italia da HIV o AIDS, di cui il 70,1% sono maschi e l’84,3% sono di cittadinanza italiana. La modalità di trasmissione più frequente è quella eterosessuale nella percentuale del 37,2%, i Men who have Sex with Men (MSM – uomini che fanno sesso con gli uomini) sono il 27,7%, mentre i consumatori di sostanze per via iniettiva (INU) sono il 28,5% (Raimondi et al., 2013)

Con l’introduzione, nel 1996, in Italia, delle nuove terapie antiretrovirali (HAART- Highly Active Antiretoviral Therapy) è aumentata la sopravvivenza delle persone che vivono con l’ infezione da HIV ed è diminuito il numero dei decessi correlati all’ AIDS, trasformando così l’ infezione da HIV in una malattia cronica.

Il presente articolo si propone di evidenziare gli effetti psicologici e le possibili psicopatologie correlate all’ infezione da HIV, passando in rassegna alcuni studi in questo ambito.

Patologie psichiatriche associate a infezione da HIV

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. Al primo gruppo appartengono mania secondaria, psicosi, delirium e demenza complex. Al secondo reazione acuta da stress, disturbo dell’adattamento e depressione maggiore.

Psicopatologie secondarie all’infezione da HIV

La mania secondaria si presenta con una prevalenza del 1,2% nei sieropositivi e del 4,8% nei soggetti con AIDS. E’ un disturbo psichiatrico che segue ad alterazioni organiche o assunzioni di farmaci, che per essere definito tale deve perdurare per almeno una settimana ed è caratterizzato per la presenza di umore elevato o irritabilità e da almeno due dei seguenti sintomi: iperattività, logorrea, grandiosità, insonnia, distraibilità e alterato giudizio.

Nel paziente HIV possono svilupparsi psicosi funzionali, considerate reazioni a infezioni da HIV, collegate all’azione diretta del virus a livello del SNC (diminuite in era HAART). Per ultimo si può manifestare il Delirium e la Demenza Complex, complicazione tardive della malattia.

Il trattamento d’ elezione per questo tipo di patologie è quello farmacologico, spesso complementare al trattamento dell’intero quadro sintomatologico. Il trattamento psicologico e psicoterapico subentra in questo caso con la funzione di gestione dell’intera malattia.

Patologie generiche tipiche delle malattie gravi e croniche

La malattia cronica viene spesso vissuta come un’esperienza che “esplode” dentro, come una realtà che opprime e fa sentire impotenti. Nascono nell’individuo degli interrogativi nuovi relativi al significato dell’esistenza e a ciò che ha guidato fino a quel momento la vita personale e relazionale del paziente.

In concomitanza l’individuo, divenuto “paziente”, sperimenta l’impatto con le cure. La persona malata inizia quindi a vivere sospesa tra un tempo presente, vissuto come un “non tempo”, e padrone assoluto del suo esistere, e un tempo passato carico di obiettivi, a volte di progetti che spesso non è stato possibile portare a compimento (Borgna, 2000).

Il paziente si trova a fare inevitabilmente i conti con il sentimento del limite dei suoi progetti di vita e ad interrogarsi sulla necessità dei progetti passati, in un confronto critico sui valori che hanno informato la sua esistenza fino a quel momento.

La malattia, dunque, rappresenta un tipo particolare di evento di vita stressante che può mettere seriamente alla prova le capacità di adattamento del singolo individuo.

La reazione adattativa ad una malattia richiede sempre al paziente un lungo lavoro emotivo e fisico, intenso e difficile, e tiene conto di vari elementi quali: tipo e stadio della malattia, ospedalizzazione o altro tipo di assistenza, consapevolezza della malattia, struttura della personalità, meccanismi di difesa e loro livello evolutivo e funzionale.

Per quanto riguarda la sieropositività, all’atto della comunicazione della diagnosi, il paziente può  presentare diverse reazioni psicologiche (Spizzichino, 2008).

Lo shock per la diagnosi ricevuta, si manifesta con agitazione, collera, pensieri ed espressioni di incredulità e pianto. Il paziente può entrate in uno stato confusivo che non aiuta in un momento in cui è necessaria concentrazione per prendere decisioni importanti rispetto alla propria salute. Confusione che tende ad abbassarsi in presenza di una buona comunicazione alla diagnosi e l’offerta ed inizio di un buon percorso psicologico.

Si possono riscontrare rabbia e frustrazione relative al fatto di essersi infettato, per le nuove restrizioni nello stile di vita, per doversi sottoporre sempre alle terapie, per l’incertezza sul futuro, per l’ostilità, il pregiudizio degli altri.

Può manifestarsi il senso di colpa nell’interpretare l’accaduto come una punizione, per i comportamenti a rischio avuti, per la paura di poter infettare gli altri.

E’ spesso presente l’ansia e la paura riguardo alla prognosi incerta e il decorso severo, per gli effetti collaterali legati alla malattia, per la paura del rifiuto sessuale, per la perdita della capacità cognitive, fisiche e lavorative.

Si può presentare poi depressione legata all’idea di dover fare i conti con una malattia cronica, l’impossibilità di guarigione, con i limiti imposti dalla malattia, con un possibile rifiuto sociale La diminuzione dell’autostima, perdita dell’identità e di sicurezza sono altre reazioni spesso riscontrabili all’atto della comunicazione della diagnosi.

Infine, raramente, si possono manifestare disturbi ossessivo compulsivi nella forma di pensieri continui e disturbanti relativi alla morte, il fallimento, la ricerca di nuovi trattamenti, terapisti e medici, controlli ripetuti per sintomi sempre nuovi (Spizzichino, 2008).

Alcune di queste reazioni possono essere transitorie, altre più durature e potranno andare a caratterizzare l’intera vita con il virus. E’ possibile che la vulnerabilità sia legata anche a precedenti esperienze del paziente riguardo a malattie e traumi. Altre variabili che possono determinare il tipo di reazione sono la personalità, il temperamento, la flessibilità, le risorse sociali, famigliari e occupazionali, il sostegno disponibile.

La reazione all’ infezione da HIV e il processo di accettazione

Sono stati individuati alcuni stili di reazione all’ infezione da HIV, ed è stato riscontrato che lo stile adottato è predittivo dell’eventuale successivo benessere psicologico e fisico (Spizzicchino, 2008).

I pazienti che utilizzano lo stile evitante hanno livelli in generale più elevati di preoccupazione riguardo alla salute, ai problemi esistenziali, verso gli amici e verso se stessi. Manifestano notevole depressione, autostima bassa e difficilmente ricevono del sostegno psicologico. I pazienti invece che adottano uno stile attivo-cognitivo costruiscono delle difese mentali e fanno affidamento sul pensiero cognitivo e spesso sviluppano pensieri ossessivi e ruminazione.

Infine gli individui che sono capaci di sviluppare uno stile attivo-comportamentale hanno un migliore tono dell’umore, un minor numero di preoccupazioni, una più alta qualità della vita percepita e livelli di autostima più alta.

L’evoluzione psicologica del paziente con infezione da HIV dovrebbe terminare con la fase di accettazione e adattamento. Tale evoluzione può essere spontanea ma è certamente facilitata da più variabili individuali e ambientali, quali le caratteristiche di personalità del paziente, le caratteristiche socioculturali del paziente e la presenza di un adeguato supporto sociale e in particolare la presenza di persone affettivamente significative

Questa fase è caratterizzata da un abbassamento del livello di tensione emotiva che consente la modificazione dei comportamenti a rischio e alla corretta applicazione alle norme profilattiche. Non è una condizione stabile e dipende dal decorso della malattia.

L’avvento degli antiretrovirali ha apportato delle grandi trasformazioni nella vita delle persone sieropositive. Grazie ai benefici della terapia farmacologica alcune delle persone abituate a convivere con l’incertezza del futuro e con la precarietà della salute e della vita stessa, persone che cercavano si prepararsi alla morte, si trovano a doversi confrontare con i problemi e le situazioni, anche positive, che questa pone. Il trattamento farmacologico nel momento in cui si è dimostrato efficace nel prolungare la sopravvivenza e nel migliorare la qualità della vita ha dato la possibilità di iniziare una seconda vita e ha dato luogo in molti pazienti della sindrome di Lazzaro.

E’ stato dimostrato attraverso l’uso della metodologia dei focus group che la prospettiva delle terapie HAART rende necessario rinegoziare le speranze e le aspettative riguardo al futuro, i ruoli e le identità sociali, le relazioni interpersonali e la qualità della vita. Emergono soprattutto tematiche relative ai rapporti sentimentali (possibilità di diventare genitori, avere l’aspettativa di rimanere abbastanza in vita per poter crescere un figlio) e l’assunzione di nuovi ruoli sociali.

Tutti questi fattori possono rappresentare un motivo di stress o di disturbi mentali (Brashers et al., 1999). Studi successivi sull’impatto psicosociale dell’HAART hanno evidenziato il ruolo centrale della speranza del futuro (Fernandez, 2001) anche se permane nelle interviste incertezza ed ansia circa i benefici sulla salute e quindi sul senso della speranza. In un altro lavoro (Rabkin et al., 2000) si è osservata un’evoluzione positiva dello stato psicologico nei termini di tono dell’umore, speranze e soddisfazione in chi non mostrava un miglioramento con la terapia. Gli autori ipotizzano che la prospettiva di seconda vita porta con sé una serie di difficoltà potenzialmente stressanti per chi vede confermato il miglioramento fisico anche dai numeri (conta dei CD4) rispetto a chi ritiene di avere ancora poco tempo da vivere poiché i parametri continuano a essere poco confortanti.

Non è stata verifica una correlazione diretta tra salute mentale e infezione HIV. Ci sono delle persone che nonostante siano affette da HIV conservano la speranza, sperimentano un maggiore senso di benessere, partecipano più attivamente alla gestione della malattia e si dimostrano in grado di occuparsi della propria salute (Carson et al., 1990). Una ricerca che prevedeva una serie di interviste a donne sieropositive (Siegel & Schirimshaw, 2000) ha evidenziato che , pur riconoscendo le conseguenze negative dell’infezione, molte di loro riferivano che la malattia aveva cambiato le loro vite in modo positivo e riportavano un generale miglioramento della loro vita che si è concretizza in un aumento del numero di relazioni instaurate e coltivate, una maggiore forza percepita, un più alto senso di responsabilità e più capacità di entrare in relazione con altri.

La valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV

E’ centrale attuare un’attenta valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV anche per evitare diagnosi di patologie non presenti, etichettature scorrette, interventi non necessari o risposte standardizzate.

La difficoltà consiste nel fatto che dei sintomi somatici correlati alla presenza del virus e degli effetti collaterali delle terapie richiamano ai disturbi psicologici veri e propri. Le reazioni depressive in questa popolazione si caratterizzano spesso come un senso di disperazione riguardo al futuro o una percezione di mancanza di controllo sul corso della propria vita. I disturbi somatici correlati ad esse (anoressia, insonnia, depressione, disturbi della memoria, sudorazione notturna) sono molto difficili da differenziare dalle manifestazione delle infezioni. Lo stesso si osserva nel caso dei disturbi d’ansia. Questa difficoltà diagnostica in alcuni casi ritarda i percorsi di presa in carico psicologica e psicoterapica.

Altro elemento da tenere in considerazione nella valutazione clinica, è il rischio suicidario. Le  motivazioni possono essere diverse a seconda della fase in cui si trova il paziente. In uno studio con poco meno di 3.000 sieropositivi (Carrico ed al., 2007) si è riscontrato che il 19% di essi ha ideazioni suicidarie nella settimana precedente.

I disturbi più frequenti in pazienti con HIV

I disturbi più frequentemente diagnosticati in persone con infezione da HIV sono i seguenti:

  • Il disturbo acuto da stress può presentarsi in qualunque fase della malattia anche se è più frequente immediatamente dopo la diagnosi o in concomitanza con degli aggravamenti. Il quadro sintomatologico può consistere in rabbia, senso di colpa, paura, diniego e disperazione. Data la variabilità dei sintomi non è possibile reperire dati sulla prevalenza di questo disturbo.
  • Il disturbo dell’adattamento è caratterizzato da ansia, insonnia e depressione e di solito ha un decorso benigno. L’incidenza si attesta intorno al 4-10 % (Lipsitz et al. 1994) e nelle popolazione sieropositiva che si rivolge ai servizi di salute mentale è di circa il 30%.
  • Per quanto riguarda i disturbi depressivi i dati sulle prevalenze sono divergenti in quanto variano tra il 30% e il 61% (Rosenberger et al., 1993; Dew et al., 1997). Nell’ambito dei disturbi di ansia si riscontrano episodi di ansia della durata di un mese o la prevalenza è molto è bassa  se si prendono in considerazione strettamente i criteri del DSM-IV-TR e potrebbe dar conto della disparità dei diversi risultati dei vari studi sul tema (4-73%) (Cohen et al., 2002). Abuso di sostante e alcol sono presenti nella popolazione sieropositiva rispettivamente nella percentuale del 22%-64% e nel 29%-60% e si presentano tendenzialmente in comorbidità con altri disturbi. La variabilità dei tassi di prevalenza dei diversi disturbi può essere messa in relazione con l’eterogeneità metodologica degli studi presi in considerazione ( Spizzichino, 2008).

Secondo la letteratura internazionale le donne sieropositive risultano essere più a rischio per quanto riguarda i disturbi psichiatrici rispetto agli uomini. E’ stato dimostrato che le donne positive presentano più spesso degli uomini ansia, depressione, eccessiva sensibilità, disturbi paranoidi e somatizzazione. E’ stato sottolineato inoltre che  le donne si rivolgono ai servizi sociali per la salute mentale meno degli uomini (Havens et al., 1996).

Sono state fatte varie ipotesi su questa distribuzione. Uno studio (Faithfull, 1997) ha riscontrato tre fattori ulteriormente stressanti per le madri con infezione da HIV quali la difficoltà di rivelare la propria sieropositività ai figli, la paura di infettarli e la possibilità che la malattia infici la capacità di prendersene cura e di crescerli.

In letteratura si riscontra la presenza di almeno un disturbo psicologico nella vita di una persona con HIV in percentuali che vanno dal 38% al 73% di tutti i pazienti che sono stati studiati (Gallego et al, 2000). L’esordio della psicopatologia nella maggior parte dei casi è antecedente alla sieroconversione (Rosenberger et al., 1993). Sono stati identificati dei fattori associati allo sviluppo dei disturbi mentali nelle persone positive quali il supporto sociale scarso, la storia psichiatrica precedente, l’uso di meccanismi quali l’evitamento e il diniego, una rapida progressione dell’infezione ed esperienza di lutto per AIDS.

Uno studio in quattro città degli Stati Uniti, su un campione di 1000 donne HIV, ha messo in luce una relazione tra la sintomatologia depressiva e l’esperienza di sintomi fisici dell’infezione e loro grado di intrusività percepita nella vita dei pazienti (Remien et al., 2006). Il benessere psicologico delle persone positive in terapia antiretrovirale dipende più che dalla situazione in sé da variabili cognitive e comportamentali, quali la soddisfazione riguardo al sostegno sociale, l’idea della punizione relativa alla malattia e il grado di integrazione della malattia nella propria vita e nella percezione di sé (Safren et al, 2002).

Molti lavori hanno analizzato l’associazione tra problemi di salute, strategie di coping e reazioni allo stress durante il decorso di malattie come il cancro, l’artrite reumatoide, l’infarto del miocardio e l’ infezione da HIV. Sono stati riscontrati risultati molto simili tra le diverse patologie. Generalmente le forme di coping evitante sono associate a maggiore stress mentre quelle focalizzate sulle emozioni sono a livelli minori di quest’ultimo. Una posizione attiva e l’attitudine a considerare nel modo più positivo possibile la situazione hanno delle influenze benefiche sul tono dell’umore rispetto alla fuga e all’evitamento.

Nello specifico dell’infezione dell’HIV si è potuta osservare una correlazione positiva tra la percezione di un buono stato di salute e tre stili di coping: il focalizzarsi su altro, il pensiero positivo e la gestione della malattia (Phillips et al. 2001). E’ stato verificato che strategie di coping maladattive da parte di persone sieropositive diminuiscono notevolmente la qualità della vita  relativamente al funzionamento cognitivo, salute mentale e stress legato al lavoro.

In conclusione, dalla rassegna presentata, emerge come la sieropositività sia ancora un problema largamente diffuso, sia nel mondo che sul territorio italiano e di come la scoperta dell’infezione vada ad incidere non solo sulla salute fisica ma anche su quella mentale. Occorre quindi, da parte di tutti gli operatori, che si occupano a vario titolo delle persone sieropositive o malate di AIDS, porre attenzione non solo al livello generale di salute ma anche al benessere psicologico, messo in pericolo dalle conseguenze di una malattia cronica ed a oggi incurabile. Ciò per costruire e implementare percorsi di accompagnamento psicologico e psicoterapico che consentano a questi pazienti di raggiungere il miglior livello di benessere possibile e che si integrino ai percorsi tradizionali di cura previsti per chi soffre di questa patologia.

Perché l’isolamento sociale aumenta il rischio di malattia?

L’ isolamento sociale comporta conseguenze negative a livello di salute, non solo negli esseri umani ma nella maggior parte delle specie animali. Tra gli effetti iatrogeni si riscontrano l’abbassamento delle difese immunitarie, il decremento della quantità e della qualità del sonno e un aumento sia del rischio di contrarre patologie che di mortalità.

 

L’isolamento sociale e gli effetti sulla salute

Proprio per tali motivi la società gerontologica americana ha definito l’ isolamento sociale un “killer silenzioso”, a fronte del quale sono stati ideati programmi per aiutare le persone, soprattutto anziane, a mantenere contatti con la propria comunità.

Questo fenomeno è in crescita negli anziani dei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, in cui circa la metà della popolazione sopra gli 85 anni vive da sola sperimentando la perdita di opportunità di socializzazione dovute a una minore mobilità.

Ricercatori della scuola Perelman di medicina presso l’università della Pennsylvania (Brown, Strus, & Naidoo, 2017) hanno trovato una possibile spiegazione della correlazione tra isolamento sociale e rischio di malattia. Lo studio di riferimento è stato effettuato su moscerini da frutta, Drosophila melanogaster, nel quale si riscontrava una correlazione tra isolamento sociale e perdita di sonno che comportava uno stress cellulare tale da attivare un meccanismo di difesa chiamato “unfolded protein response” (UPR). Quest’ultimo aiutava a proteggere le cellule dallo stress se attivato per brevi periodi, al contrario un’attivazione cronica determinava un’infiammazione cellulare. Sembra che tale meccanismo fosse collegato a problematiche relative all’età, per cui gli autori hanno ipotizzato che la combinazione di età elevata e isolamento sociale determinasse una doppia battuta d’arresto a livello cellulare e molecolare. Effettivamente in moscerini socialmente isolati i livelli di attivazione dei marker biologici del UPR erano più alti rispetto a quelli di moscerini della stessa età ma integrati in un gruppo.

Tra i marker dell’attivazione del UPR era presente la proteina BIP, un chaperone che assicurava una corretta piegatura delle proteine ​​all’interno delle cellule. Infatti le proteine, dopo essere state sintetizzate come semplici catene di amminoacidi, assumono una forma funzionale spesso complessa.

Questo processo si modificava quando le cellule erano sottoposte a stress, comportando una dannosa scomparsa di proteine ​​complesse.
Dunque uno stress cronico può ostacolare la normale funzionalità cellulare fino alla morte delle cellule stesse.

Ma perché l’ isolamento sociale funge da attivatore del meccanismo UPR? Studi precedenti hanno mostrato due risultati: la mancanza di sonno è correlata all’attivazione del UPR e l’ isolamento sociale induce la perdita di sonno. Di conseguenza, l’ isolamento agisce sul UPR.

Gli autori stanno continuando ad analizzare le connessioni tra i fattori età, sonno, UPR e il loro impatto sul rischio di ammalarsi. Anche se l’età di per sè sembra attivare l’UPR, in realtà questo potrebbe essere dovuto al fatto che all’aumentare dell’età peggiora la qualità del sonno, confermando quanto riscontrato nelle ricerche sopra citate.

Cold War Freud: Psychoanalysis in an Age of Catastrophes (2016) di Dagmar Herzog – Recensione del libro

Dagmar Herzog segue le conseguenze della migrazione degli analisti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare nell’ottica di come il clima della Guerra Fredda influenzi la ricezione di Freud, nel periodo che vede la massima affermazione planetaria della psicoanalisi e, successivamente, l’inizio del suo declino.

 

Come i cambiamenti politici hanno condizionato la psicoanalisi

Probabilmente poche discipline sono state condizionate dagli eventi politici più della psicoanalisi; perlomeno nella loro espansione sul territorio mondiale. La psicoanalisi era fino al 1906 una curiosità per pochi medici ebrei austriaci. Nel 1909 era abbastanza nota per meritare a Freud (e Jung) l’invito per un ciclo di conferenze negli USA.

Dopo il 1918 aveva cominciato ad affermarsi in modo omogeneo, soprattutto in Europa, spinta anche dal successo ottenuto nel curare le nevrosi di guerra. Questa omogeneità venne meno nei decenni successivi, proprio a causa di svolte decisive nella storia politica europea: l’affermazione del nazismo in Germania (e successivamente l’Anschluss, cioè l’annessione dell’Austria al territorio tedesco) da una parte; l’avvento dello stalinismo in URSS dall’altra.

L’Istituto Psicoanalitico di Berlino era diventato il principale centro mondiale di ricerca clinica e formazione degli analisti quando venne subitaneamente chiuso e sostituito dal cosiddetto Istituto Goering. Il cugino del comandante della Luftwaffe era infatti uno psichiatra e a sua volta divenne il referente amministrativo della psicoterapia tedesca sotto il nazismo. La psicoanalisi, teorizzata da un ebreo e praticata soprattutto da ebrei, veniva considerata una “scienza degenerata” e venne di fatto sradicata dal territorio del Reich.

Pressoché tutti gli analisti tedeschi, se volevano salvare la propria identità professionale (e la loro stessa vita, in realtà) furono costretti a emigrare tra il 1933 e il 1934: la stessa sorte toccò ai colleghi austriaci, compreso Freud, nel 1938. In Unione Sovietica, la psicoanalisi aveva inizialmente attirato l’attenzione di un certo numero di validi studiosi, tra i quali il giovane Alexander Lurija. Gruppi di analisti avevano iniziato un’attività sia clinica che di confronto teorico in diverse città, tra le quali Mosca e S. Pietroburgo-Leningrado. Anche Trotzkij riteneva la psicoanalisi compatibile con il marxismo. La sua opinione, del resto, era condivisa anche da diversi marxisti dell’Europa occidentale, tra i quali Wilhelm Reich e tutto il gruppo della Scuola di Francoforte, guidata da Max Horkheimer, Theodor Adorno, Erich Fromm (e in seguito Herbert Marcuse).

Nel corso degli anni trenta, tuttavia, lo stalinismo mise sostanzialmente all’indice la psicoanalisi, considerandola una disciplina borghese. Fu così che Lurija, invece di divenire un analista, finì per passare alla storia come uno dei padri della neuropsicologia.

Dagmar Herzog: la psicoanalisi durante la Guerra Fredda

Dagmar Herzog (2016) segue le conseguenze della migrazione degli analisti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare nell’ottica di come il clima della Guerra Fredda influenzi la ricezione di Freud, nel periodo che vede la massima affermazione planetaria della psicoanalisi e, successivamente, l’inizio del suo declino. Si potrebbe peraltro osservare che le conseguenze dello sradicamento degli psicoanalisti più importanti sono già visibili da prima.

Nel Regno Unito si assiste alla prima svolta politica fondamentale nel movimento psicoanalitico, a seguito del trasferimento di Anna e Sigmund Freud a Londra nel 1938. La polemica tra Anna Freud e Melanie Klein aveva indotto quest’ultima a trasferirsi in Inghilterra già anni prima. Melanie Klein sosteneva la possibilità e l’opportunità di una vera e propria analisi infantile, mentre la figlia di Freud riteneva i procedimenti kleiniani basati sul gioco una sorta di analisi selvaggia. Anna Freud propugnava per i bambini una sorta di educazione ispirata dal pensiero psicoanalitico. La presenza delle due rivali sullo stesso territorio dette origine alla contrapposizione di due gruppi  in forte frizione teorica. Ne nacquero le cosiddette Discussioni controverse, in origine destinate a stabilire chi dovesse assumere la leadership teorica in seno alla British Psychoanalytic Association (King & Steiner, 1991).

Il risultato fu del tutto inaspettato: qualcosa come il “Cuius regio eius religio” della Guerra dei Trent’anni. Nel 1600, le Guerre di Religione si erano concluse senza un vero vincitore e con un compromesso: ogni nazione europea avrebbe osservato la religione del proprio re. Allo stesso modo, nella società inglese e poi nell’International Psychoanalytic Association, non vi sarebbe più stata una teoria unica di riferimento, ma ogni gruppo avrebbe potuto legittimamente espandersi indipendentemente, formando i propri analisti alla luce delle proprie idee. Di fatto i gruppi britannici furono subito tre, perché oltre agli annafreudiani e ai kleiniani si costituì un gruppo di Indipendenti (tra i quali, peraltro, avrebbero militato i più importanti analisti britannici: Winnicott, Fairbairn, Guntrip e Bowlby).

In USA, l’adattamento della psicoanalisi a un ambiente culturale profondamente diverso da quello europeo produsse delle conseguenze profonde. Da una parte i cosiddetti neo-freudiani avevano iniziato un processo di relativizzazione del pensiero di Freud. Per esempio, Erich Fromm (1941) aveva teorizzato il concetto di “carattere sociale”, cioè il principio per cui la personalità può essere fortemente influenzata dalle condizioni storico-sociali nelle quali una persona vive. Karen Horney (1937) aveva sottolineato come le personalità nevrotiche americane presentassero caratteristiche e problemi molto diversi da quelli riscontrati tra i tedeschi. Dall’altra parte anche il mainstream della psicoanalisi stava apportando delle importanti modifiche all’impostazione originaria di Freud.

Heinz Hartmann (1927; 1939), fondatore della Psicologia dell’Io, fin dagli anni viennesi aveva cominciato a porre le basi di una teoria psicoanalitica meno incentrata sulla sessualità e più sull’adattamento. Il radicarsi della Psicologia dell’Io negli USA accentuò sicuramente questa tendenza. Hartmann e la sua scuola si impegnarono nel tentativo di far affermare la teoria freudiana nell’ambiente accademico, cercando di sviluppare la psicoanalisi come una psicologia generale (il che significava, all’inverso, limitare il suo carattere di teoria psicopatologica, volta a evidenziare i lati perversi e nevrotici di ogni essere umano).

Tuttavia, l’affermazione su larga scala della psicoanalisi negli USA passò anche attraverso altri canali, ampiamente analizzati da Dagmar Herzog: uno dei più importanti fu costituito dalla capacità di far accettare la psicoanalisi come una teoria compatibile con la religione cristiana. Vale la pena di segnalare un fatto abbastanza paradossale. Dagmar Herzog segnala come i due epocali discorsi tenuti da Pio XII tra il 1952 e il 1953 sul rapporto tra cristianesimo e psicoterapia furono accolti in America come un’apertura nei confronti della psicoanalisi e probabilmente contribuirono alla sua diffusione. La stessa cosa, però, non avvenne in Europa, e in Italia in particolare, dove prevalse l’interpretazione di Agostino Gemelli (1953), che vide negli stessi discorsi una netta condanna sia di Freud che di Jung. Le posizioni di Gemelli sostanzialmente impedirono ai cattolici italiani di accostarsi alla psicoanalisi fino agli anni sessanta.

Un aspetto abbastanza singolare dell’evoluzione della psicoanalisi durante il periodo della Guerra Fredda e descritto da Dagmar Herzog è l’atteggiamento paradossalmente conservatore, se non reazionario, riguardo al comportamento sessuale. Un tale atteggiamento spinse gli psicoanalisti americani a criticare severamente sia i contributi di Kinsey (et al., 1948; 1953) che quelli di Masters e Johnson (1966), che ciò nonostante contribuirono in maniera fondamentale alla liberazione sessuale. Una pagina particolarmente oscura è stata scritta dagli psicoanalisti americani con la loro resistenza a considerare l’omosessualità come normale (e molte delle resistenze a derubricarla dalle perversioni nel Manuale Diagnostico-Statistico della Malattie Mentali furono dovute agli analisti presenti nella task force del DSM). Il che sembra abbastanza strano, a posteriori, considerando la concezione dell’essere umano come fondamentalmente bisessuale propugnata da Freud.

Forse, però, la storia più singolare raccontata dal libro di Dagmar Herzog è legata a un imprevedibile legame tra i campi di concentramento nazisti e le Guerra del Vietnam. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, i sopravvissuti dei campi di concentramento incontrarono notevoli difficoltà a vedersi riconosciuto un risarcimento per i danni psicologici subiti. Ciò avvenne perché il fatto che la condizione di particolare difficoltà psicologica seguiva generalmente un periodo di apparente riadattamento alla vita sociale. I periti interpretavano questo iato come la prova di un mancato legame tra l’esperienza nei campi e la disperazione successiva. Fu solo quando i reduci dal Vietnam cominciarono a tornare che fu possibile osservare in vivo la dinamica di ciò che infine venne classificato come Disturbo da stress post-traumatico: un periodo, per così dire, di incubazione psicologica, tra evento traumatico e reazione, è caratteristico di questo tipo di disturbo.

La saggezza della lumaca: paranoia e complottismo

Diffidare, sospettare, immaginare trame malevole ai nostri danni. E poi leggere le azioni degli altri come segno di un’intenzione di sottometterci, umiliarci. Starci male, sentirsi come una zanzara spiaccicata e poi ribellarsi, contrattaccare se possibile. L’essenza della paranoia è questa.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su La Lettura de Il Corriere della Sera del 4 giugno 2017

 

Cos’è la paranoia?” chiesi a un perverso discografico. “La paranoia è solo la realtà su una scala più sottile”, mi rispose Philo Gant in Strange Days. Il film mi insegnò un’altra massima: “Il punto non è se sei paranoico… il punto è se sei abbastanza paranoico”.

Diffidare, sospettare, immaginare trame malevole ai nostri danni. E poi leggere le azioni degli altri come segno di un’intenzione di sottometterci, umiliarci. Starci male, sentirsi come una zanzara spiaccicata e poi ribellarsi, contrattaccare se possibile. L’essenza della paranoia è questa. Nasce come un meccanismo protettivo utile, necessario: chi ci garantisce che il sorriso dello straniero che bussa alla porta sia reale e non un’infida maschera? Ma in presenza di una tendenza cronica a sentirsi vulnerabile, diventa un modo di vedere il mondo. Per una lumaca senza guscio il cielo è fatto di tacchi minacciosi. La distanza che separa diffidenza e paranoia è quanto ci percepiamo vulnerabili. Non stupisca che il più grande specialista di tutti i tempi sia stato Stalin. Il potere non lo ha mai reso sicuro, nota Leonardo Tondo in “Qualcuno ce l’ha con me”. Non sono i milioni di omicidi che ha commissionato per paura a colpirmi, ma che abbia preso il suicidio della seconda moglie come un’offesa personale, un’umiliazione pubblica.

Il paranoico soffre. Gli somiglia per diffidenza e attribuzione di cattive intenzioni il complottista, disegnato da Rob Brotherton in “Menti sospettose”, che però non sta male, piuttosto si compiace del suo smascherare trame oscure, contro le quali, naturalmente, può solo proclamare un supponente: “Non mi fanno fesso”. Le lobby dei vaccini, i Savi di Sion, il Nuovo Ordine Mondiale.

Mi concedo una personale forma di complottismo: sono convinto che un élite di plutocrati incompetenti decida le sorti del mondo seduta, una volta all’anno, a un ristorante di una spiaggia di Antigua durante una pantagruelica cena dei cretini.

 

Quei neuroni che aiutano a distinguere la realtà dall’immaginazione

I neuroni della corteccia prefrontale laterale, associati ad un funzionamento atipico nelle psicosi, sembrerebbero essere importanti anche per aiutare le persone a distinguere la realtà dall’ immaginazione così come dimostrato da un recente studio pubblicato nella rivista Nature Communications.

 

I ricercatori hanno dimostrato come il cervello codifichi le informazioni visive provenienti dalla realtà creando un match con le informazioni astratte conservate in memoria.

Il Dr. Julio Martinez-Trujillo principale professore e ricercatore alla University of Western Ontario’s Schulich School of Medicine & Dentistry riferisce quanto segue:

Ora puoi vedere la mia t-shirt, e anche se io mi dovessi spostare al di fuori del tuo campo visivo, fino a quando i tuoi occhi saranno aperti potrai continuare a vedere il colore della mia t-shirt con la mente.

Questo è possibile grazie alle rappresentazioni generate dalla working memory, o memoria di lavoro: si tratta di rappresentazioni immaginarie e non reali ma presenti nella mente.

Queste si oppongono alle rappresentazioni percettive che fotografano gli oggetti presenti nella realtà. L’obiettivo della ricerca è capire se esistono neuroni nel nostro cervello deputati alla distinzione tra ciò che è reale e ciò che fa parte della nostra immaginazione.

Per lo studio ai partecipanti è stato chiesto di svolgere due compiti:

  • Un primo compito in cui veniva richiesto di riportare la direzione del movimento di una nuvola formata da punti che appariva su uno schermo;
  • Un secondo compito in cui dovevano riportare la direzione della nuvola pochi secondi dopo che questa scompariva sulla base del ricordo mnestico dell’immagine.

I ricercatori hanno scoperto che i neuroni nella corteccia prefrontale laterale codificano le informazioni percepite e le informazioni memorizzate secondo combinazioni diverse e con intensità diversa.

In conclusione potremmo aspettarci che esistano neuroni che si attivano contemporaneamente sia per la percezione di un oggetto reale che per la sua memorizzazione; oppure che esistano neuroni deputati esclusivamente alla percezione e altri alla memorizzazione.

Neuroni che distinguono il reale dall’immaginario: implicazioni nel trattamento della schizofrenia

I ricercatori sottolineano che abbiamo neuroni specifici per la percezione, neuroni per la memoria e anche neuroni che lavorano contemporaneamente su entrambe le informazioni.

E’ stato dimostrato che la corteccia prefrontale laterale è disfunzionale in individui con schizofrenia, un grave disturbo mentale caratterizzato da sintomi quali allucinazioni e /o deliri. Tuttavia, fino ad ora i ricercatori non sono stati in grado di identificare la causa di questa disfunzione.

Utilizzando l’apprendimento computazionale secondo un approccio connessionista, il team di ricerca ha sviluppato un algoritmo per sistemi computerizzati che potrebbe essere in grado di leggere il modello dei neuroni che si attivano nella corteccia prefrontale per determinare in modo affidabile se un partecipante sta guardando una nuvola di punti in tempo reale o ricordando ciò che aveva visto prima.

Martinez-Trujillo spera che identificando i neuroni specifici responsabili della distinzione tra realtà e fantasia, si potrebbe essere più in grado di trattare disturbi come la schizofrenia che portano i pazienti a confondere ciò che è reale da ciò che non lo è.

Vorrei sostenere che la schizofrenia non è un disturbo neurochimico di tutto il cervello – ha detto Martinez-Trujillo – È solo un disturbo neurochimico in parti specifiche del cervello

 

L’uso della musica rap in terapia di gruppo con adolescenti aggressivi: la Group Rap Therapy

La Group Rap Therapy (GRT) è una pratica di intervento creata in America che utilizza la musica rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza e all’interno dei gruppi terapeutici penitenziari con giovani arrestati per aggressività.

Di Arianna Ferretti, Luca Pelusi – OPEN SCHOOL , Studi Cognitivi Modena

Introduzione: la musica rap e il mondo degli adolescenti

La terapia di gruppo con gli adolescenti continua ad essere un trattamento molto efficace che predispone i ragazzi all’acquisizione di strategie di problem-solving, alla socializzazione e all’acquisizione di nuove conoscenze in un contesto peer, quindi tra coetanei (DeCarlo,2001). La musica è stata utilizzata in svariati ambiti: per costruire le capacità di resilienza, per prevenire la delinquenza e la devianza giovanile (Dutton, 2000).

Tra tutti i generi musicali il rap è stato più volte scelto come strumento da utilizzare nei gruppi che usano la musica per interventi con adolescenti e giovani adulti. Si tratta di un genere che nasce in un clima urbano del South Bronx, un quartiere di New York intorno agli anni ’70. La popolarità di questa cultura cresce esponenzialmente e molti gruppi distinti da differenti etnie e da un livello socio-economico simile iniziano ad identificarsi con il suo messaggio di fondo, con lo stile e con l’intera cultura Hip-Hop. Inizia, così, ad essere definito come un vero è proprio movimento anticonformista capace di esprimersi attraverso uno strumento molto potente: l’arte.

La musica, il ballo, la moda, il linguaggio e le arti visive portano dentro di sé tutto il mondo valoriale, morale, espressivo, emotivo ed esperienziale appartenente al cuore di questo movimento (Rose, 1994). Il rapper e/o l’MC (Masters of Ceremonies) scandisce versi seguendo un beat, ovvero una specifica successione di note realizzata dal beatmaker attraverso vari metodi e strumentazioni che vengono suonate da un DJ.

Il rap e l’hip-hop sono diventati, pian piano, rilevanti per i terapeuti che utilizzano la musica come strumento di sostegno non solo per la crescente popolarità di questa cultura, ma anche perché il rap è definito come una forma sociale che dà voce alle diverse tipologie di alienazione culturale e politica (Rose, 1994). Alcuni studi che hanno approfondito la relazione tra musica rap e comportamento criminale hanno riscontrato che i testi rap vanno ad influenzare le emozioni ed i sentimenti delle persone senza, tuttavia, portare a condotte problematiche (Gardstrom, 1999). Hadley e Yancy sostengono che la musica rap rappresenti un importante veicolo in grado di mantenere la sanità mentale e che sia diventato un mezzo attraverso il quale i giovani abbiano la possibilità di riconoscersi, di condividere, di interpretare ed elaborare la propria vita (Handley e Yancy, 2011).

La Group Rap Therapy

La Group Rap Therapy (GRT) è una pratica di intervento creata da DeCarlo in America che utilizza la musica rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza e all’interno dei gruppi terapeutici penitenziari con giovani arrestati per aggressività (DeCarlo, 2013).

Il presupposto centrale della Group Rap Therapy è quello di usare la musica come strumento psicologico in grado di sfruttare la sua potenzialità di ridurre l’ansia e alleviare il senso di dolore e paura (Aluende e Ekewenu, 2009). Originariamente la Group Rap Therapy è stata progettata come trattamento di supporto per i carcerati giudicati colpevoli per aggressioni e omicidi con la finalità di sviluppare in loro consapevolezza e successivamente andare a lavorare sulla disfunzionalità dei pensieri connessi all’uso della violenza come unico strumento risolutore di conflitto.

Il terapeuta che conduce questi incontri necessita, pertanto, di quattro caratteristiche essenziali: affidabilità, interattività, competenze culturali e autorevolezza. E’ dunque importante creare un clima altamente interattivo in cui il terapeuta sia in grado di riconoscere il modo in cui la razza, l’etnia, il linguaggio, le credenze, i comportamenti, le emozioni ed altre variabili possano operare nella vita dei partecipanti in relazione al contesto di appartenenza. Altro elemento indispensabile è la fiducia che chi conduce il gruppo deve essere in grado di instaurare con e tra i membri del gruppo stesso. Inoltre, i partecipanti all’attività di Group Rap Therapy mostrano la necessità di percepire l’ambiente di lavoro come abbastanza sicuro così da poter esprimere liberamente le proprie paure, debolezze, preoccupazioni, speranze e sogni. E’ consigliabile un atteggiamento autorevole da parte del terapeuta anziché punitivo, rigido o eccessivamente carico di regole. Saranno la conoscenza e le abilità del terapeuta stesso che porteranno al rispetto delle regole della Group Rap Therapy e ad un clima di benessere e sicurezza, andando ad arginare reazioni eccessive, elementi di disturbo e a regolare l’ansia dei partecipanti (DeCarlo & Hockman 2003).

Il presupposto specifico di questo approccio alla terapia di gruppo è quello di portare i pazienti ad una presa di consapevolezza di quei pensieri irrazionali e disadattivi che sostengono e determinano i loro agiti aggressivi. In questo modo è possibile interrompere la catena pensiero-emozione-comportamento disfunzionale per sostituirla con una maggiormente funzionale (Meichenbaum, 1995). DeCarlo ha scoperto che attraverso l’analisi dei testi delle canzoni rap, in un contesto terapeutico, è possibile sviluppare e raffinare le skills sociali andando a lavorare su frammenti di testo che trattano temi delicati come l’abuso, la violenza sulle donne, la gestione della rabbia, il controllo degli impulsi, il ragionamento, le regole sociali e morali, la responsabilità, l’identità e l’empatia (DeCarlo & Hockman 2003).

Group Rap Therapy: la procedura

Le sedute della Group Rap Therapy hanno generalmente la durata di un’ora con cadenza bisettimanale per sei settimane consecutive.

All’inizio di ogni settimana è prevista una seduta psicoeducativa in cui i pazienti, o il terapeuta, scelgono un topic da trattare, come ad esempio l’uso e/o l’abuso di droghe, l’aggressività, l’identità, e così via. Il gruppo, pertanto, si impegna ad affrontare la tematica scelta cercando di esprimersi con spirito critico in un clima di rispetto e apertura al dialogo.

Successivamente ad ogni partecipante viene chiesto di scegliere quattro canzoni interpretate dai propri rapper preferiti senza porre alcun limite alla selezione dei brani. Viene data una carta sulla quale è riportata una tematica specifica: abuso, gestione degli impulsi, controllo della rabbia e altri temi. A questo punto ognuno di loro ascolta uno scorcio di un brano rap, ininterrottamente, insieme al terapeuta. Infine, ogni membro appartenente al gruppo viene chiamato dal terapeuta per identificare e spiegare come il tema riportato sulla carta a lui assegnata possa essere messo in relazione allo scorcio di canzone ascoltato e infine alla propria esperienza personale (DeCarlo 2013).

Illustrazione di un caso trattato con Group Rap Therapy

Ad un ragazzo, che chiameremo Mike, incarcerato per agiti aggressivi viene data una carta con il tema dell’aggressività e viene selezionata la canzone “Before I Self Destruct” di Curtis Jackson che dice:

            You see Im’m a psycho, a sicko, I’m, crazy

            I said I got my knife, boy, I’ll kill you if you make me

            They wanna see me shot up, locked up then cage me

            I come back bigger, stronger and angry.

Terapeuta: Mike, hai il tema relativo all’aggressività. Puoi dirci quali sono i tuoi pensieri riguardo alla gestione della rabbia? Riesci a metterli in relazione alla canzone che hai appena ascoltato?

Mike: Bene, il cantante dice che è molto arrabbiato. Dice che ha un coltello e che ti ucciderà se provi a fregarlo. Una persona deve essere molto arrabbiata per dire una cosa del genere. Per me, quando dice “Sono tornato più grande, forte e arrabbiato” è come se sfidasse la persona a cui si riferisce nel testo.

Terapeuta: Ok, Mike. Come pensi che l’autore di questo brano gestisca la rabbia che esprime nella canzone?

Mike: So come si sente, so quello che pensa. E’ come se ci fossero troppe cose intorno a te che tu non riesci a controllare. Anche se provi a fare la cosa giusta, sei comunque bersaglio delle persone sbagliate che ti mettono in situazioni scomode e, talvolta, ti portano a fare del male agli altri e tu lo fai sapendo di farlo per proteggere la tua famiglia. Capisci cosa intendo? [tutto il gruppo fa cenno di sì con il capo]

Terapeuta: Quindi, Mike, tu hai detto “So quello che sente”. In che modo sei in grado di gestire la tua rabbia?

Mike: Devi solo cercare di calmarti prima che qualcuno ti faccia scoppiare. E’ come se io sapessi di essere un uomo che si arrabbia facilmente, ma non sono stato in grado di capire quanta rabbia portassi dentro finché non sono stato arrestato e ho avuto tempo per pensare. So che può sembrare strano ma è stato un bene che sia finito in prigione prima di fare dei gesti estremi fino a, magari, uccidere qualcuno. Davvero, dottore, il gruppo mi sta aiutando molto perché ascoltare musica mi tranquillizza per un po’. Quando sei calmo puoi parlare di un sacco di cose.

Discussione del caso

Il caso appena descritto dimostra come, grazie alla Group Rap Therapy, il gruppo sia in grado di riconoscere ed esprimere le proprie esperienze di vita riscontrate all’interno dei lyrics delle canzoni rap utilizzate per l’attività. In questo modo viene facilitata la scoperta di fattori personali che emergono a partire dalla tematica riportata sulla carta assegnata e che vengono, infine, discussi di fronte agli altri membri. Attraverso la condivisione di vissuti simili da parte dei partecipanti al gruppo è possibile lavorare sulle skills sociali producendo, inoltre, un senso di comprensione e sfogo.

Parlando delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti relativi ai cantanti, i partecipanti lavorano con più semplicità sui propri schemi di pensiero che veicolano il corredo emotivo e comportamentale. Il dialogo dimostrativo tra Mike e il terapeuta porta Mike ad un insight: ascoltare musica tranquillizza per un po’.  A tal proposito la relazione tra musica ed emozione è forte e già nota da tempo: ricerche neurobiologiche mostrano il modo in cui la musica vada a provocare risposte emotive di benessere e gratificazione (Mitterschiffhaler, 2007). Secondo Schneck e Berger’s (2006) i processi cognitivi coinvolti nell’ascolto di musica attivano una condizione psicologica di calma che, conseguentemente, rende più recettivi alla Group Rap Therapy. Le canzoni molto ritmate sembrano attivare e inviare informazioni al sistema uditivo e corticale andando, così, ad interagire con il sistema nervoso autonomo, determinando una sensazione di calma e benessere. Inoltre l’attivazione dei sistemi appena citati sembra influenzare positivamente la frequenza cardiaca, la pressione del sangue, la respirazione ed il consumo di ossigeno (Bernardi et al., 2006).

cancel