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Realtà virtuale: nuove frontiere per le patologiche psichiatriche

Realtà Virtuale: nuove frontiere per le patologie psichiatriche

Caterina Fusco (Psichiatra psicoterapeuta cognitivo-comportamentale AslNa2nord), Maddalena Pizziferro (Psicologa psicoterapeuta cognitivo-comportamentale), Antonietta Moccia (Tecnico della riabilitazione psichiatrica), Marianna Di Nunzio (Tecnico della riabilitazione psichiatrica)

 

Abstract

Gli Autori ripercorrono la storia della realtà virtuale partendo dai primi suggestivi esperimenti, risalenti alla prima metà del secolo scorso, fino ai nostri giorni. Vengono messi in evidenza i numerosi e stimolanti campi applicativi che questa nuova scienza oggi offre a chi vuole esperire nuove frontiere di applicazione allargando le possibilità terapeutiche in diversi campi della medicina. Fantascienza o reali possibilità? La cybertherapy appare ora una reale e nuova opportunità in grado di favorire l’apprendimento di tecniche complesse in maniera rapida ed efficace. In questa review gli Autori riportano anche le differenze tra i tipi di realtà virtuale ed infine si soffermano in campo psichiatrico mettendo in evidenza l’opportunità che la realtà virtuale offre ai pazienti:nuovi ed efficaci modelli di terapia per la cura di fobie, ossessioni, disturbi del comportamento alimentare e possibilità di trattamento di sintomi produttivi di pazienti più gravi. In particolare esaminano la possibilità di “sfruttare” la realtà virtuale per velocizzare percorsi riabilitativi per pazienti cronici come l’apprendimento di abilità sociali, messa in discussione dei vissuti deliranti. Il lavoro svolto finora dagli A.A. citati induce a pensare che la realtà virtuale potrebbe essere indubbiamente inserita nei protocolli di trattamento di diversi disturbi psichiatrici e allo stesso tempo suggerisce studi per aprire nuove strade e nuove frontiere a favore delle patologie psichiatriche più complesse.

Definizione di realtà virtuale

Si può definire la realtà virtuale come la simulazione di un ambiente tridimensionale costruito al computer, che può essere esplorato in tempo reale mentre con l’aiuto di particolari dispositivi,è possibile interagire con oggetti contenuti al suo interno e con situazioni come se fossero presenti realmente (Riva, 2005).

La realtà virtuale è definita da Riva (2007) come uno strumento che permette una forma specifica di comunicazione e di presenza. Il soggetto vive l’esperienza di essere presente fisicamente in uno scenario virtuale ed interagisce con esso con sensazioni, emozioni e valutazioni proprie dell’interazione quotidiana col mondo.

Realtà virtuale (virtual reality o VR) vs realtà aumentata (augmented reality o AR)

Per realtà aumentata (AR) si intende la rappresentazione di una realtà alterata in cui, alla normale realtà percepita attraverso i nostri sensi, vengono sovrapposte informazioni sensoriali artificiali/virtuali. Si tratta di un potenziamento percettivo, basato fondamentalmente sulla generazione di contenuti virtuali da parte di un computer e dalla loro sovrapposizione con la realtà.

La realtà virtuale nasce dall’idea di “replicare” la realtà, quanto più accuratamente possibile dal punto di vista visivo, uditivo, tattile e anche olfattivo, per compiere azioni nello spazio virtuale superando limiti fisici, economici e di sicurezza. Il soggetto viene proiettato all’interno di mondi alternativi, catapultato in ogni angolo del mondo vivendo avventure in prima persona.

In sintesi, possiamo dire che la realtà aumentata è basata sul potenziamento dei sensi, mentre quella virtuale sull’alterazione.

La realtà virtuale permette di conoscere il mondo mediante un apprendimento di tipo percettivo-motorio più naturale per l’essere umano, rispetto all’apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo mediato dalla scrittura o dalla tastiera di un computer (Galeazzi, Di Milo, 2011). L’apprendimento motorio prevede una ripetizione ciclica tra percezione e azione: il soggetto osserva i fenomeni, interviene con la propria azione, osserva gli effetti di tale azione in un ciclo basato sull’apprendimento per prove ed errori. In un ambiente di realtà virtuale è possibile conoscere gli oggetti e imparare ad utilizzarli attraverso l’esperienza diretta e in tempo reale delle reazioni alle proprie azioni. Tali aspetti dell’apprendimento esperienziale sono stati studiati in ambito della riabilitazione psichiatrica, dove è necessario che il paziente si riappropri di modalità di esecuzione e controllo di sequenze comportamentali complesse (Wann&Mon-Williams, 1996).

Tipi di realtà virtuale

Un sistema di realtà virtuale è costituito da una serie di strumenti in grado di ottenere informazioni sulle azioni del soggetto (strumenti di input), che vengono integrate e aggiornate in tempo reale dal computer in modo da costruire un mondo tridimensionale dinamico, per essere restituite al soggetto attraverso sofisticati strumenti di fruizione dell’informazione (strumenti di output). In base agli strumenti di output utilizzati è possibile distinguere tre tipi di realtà virtuale:

  • Immersiva: concernente dispositivi sonori, di visualizzazione, di movimento e tattili (casco 3D, guanti e tracciatori sensoriali) che isolano i canali percettivi del soggetto immergendolo in toto, a livello sensoriale, nell’esperienza virtuale che si accinge a compiere. (Melacca, 2016). L’interazione è data da uno o più sensori di posizione (tracker) che rilevano i movimenti del soggetto e li trasmettono al computer, così che questo possa modificare l’immagine tridimensionale in base alla posizione e al punto di vista assunto dal soggetto (Morganti, Riva, 2006).
  • Semi-Immersiva: determinata da stanze fornite di dispositivi e schermi di retro-proiezione surround che riproducono le immagini stereoscopiche del computer e le proiettano sulle pareti, con differenti forme e gradi di convessità, adeguati indici di profondità dell’immagine, dando il cosiddetto effetto tridimensionale (Melacca, 2016).
  • Non Immersiva: determinata da monitor che funge da “finestra” attraverso cui l’utente vede il mondo in 3D; l’interazione con il mondo virtuale può essere effettuata attraverso il mouse, il joystick o altre periferiche come i guanti (Melacca, 2016).

Cenni storici

Sebbene la letteratura tra Ottocento e Novecento sia ricca di riferimenti a mondi “altri” da quello in cui viviamo (Eva Futura di Villiers de l’Isle-Adam 1886),si inizia a parlare di realtà virtuale tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del 1900, quando lo scrittore Stanley Weinbaum pubblica il racconto breve The Pygmalion’s Spectacles, in cui fa riferimento a visori per la realtà virtuale basati su registrazioni olografiche di esperienze in grado di stimolare il senso della vista e dell’udito ed anche il senso del tatto e dell’olfatto.

Il fermento intellettuale nei confronti dei nuovi mondi virtuali troverà negli anni Cinquanta una prima applicazione della realtà virtuale.

Il pioniere della realtà virtuale è stato Morton Heilig, il quale, nel 1957, progetta il Sensorama, una macchina che permetteva di guardare film coinvolgendo tutti i sensi. Non solo erano presenti stimoli visivi e uditivi, ma alla pellicola erano integrati movimenti del sedile, soffi d’aria, profumi e vibrazioni, rendendo l’esperienza di intrattenimento più coinvolgente. La visione futuristica di Heilig non trovò fondi sufficienti per essere sviluppata ed applicata al cinema, così il Sensorama rimase solo un prototipo. Successivamente Heilig lavorò ad una versione portatile, costruendo un visore chiamato Head Mounted Display (HMD), molto simile a quelli in commercio oggi, e nonostante fosse stato brevettato, il progetto restò solo sulla carta.

Nel 1968, Ivan Sutherland crea un visore in grado di far vedere immagini 3D che si sovrappongono a oggetti reali, rendendolo sostanzialmente il primo esempio di realtà aumentata della storia, ma il visore risultò essere pesante per cui doveva essere montato su un braccio collegato al soffitto, e per questo soprannominato “spada di Damocle”.

Nel 1987, Jaron Lanier conia il termine “virtual reality” (VR) e la serie televisiva Star Trek lancia l’Holodeck, dando a milioni di persone un’idea più concreta di come questa tecnologia possa funzionare.

All’inizio degli anni 2000, Palmer Luckey, giovane americano con la passione per la tecnologia, assembla un prototipo di visore e, da quel momento, il settore della realtà virtuale esce dalla nicchia di appassionati. Negli stessi anni continua a svilupparsi la realtà virtuale, che annulla sempre più la percezione dell’ambiente reale, ingannando i sensi e immergendo chi la utilizza in un contesto reale ed irreale contemporaneamente.

Il 2016 è stato definito l’anno della realtà virtuale e il fondatore di facebook, Mark Zuckerberg, afferma che la realtà virtuale sarà la piattaforma del futuro.

Campi applicativi

L’utilizzo delle nuove tecnologie digitali spazia in vasti settori produttivi: dal designer per la progettazione di oggetti, al prototipo di veicoli per le aziende automobilistiche, alle tecniche aeronautiche per la simulazione dei voli, all’ingegneria edile per la resa visiva e l’impatto ambientale delle opere finite, al cinema e intrattenimento in cui i visori a realtà virtuale permetteranno di “entrare” all’interno delle scene e di vedere tutto da una prospettiva differente.

Di recente anche le discipline umanistiche stanno traendo grande beneficio da queste nuove tecniche, basti pensare alle molteplici ricostruzioni virtuali nel campo del patrimonio artistico e culturale o, ad esempio, all’archeologia computazionale per la ricostruzione di monumenti, siti archeologici o città del passato. Le potenzialità della realtà virtuale si rivelano sempre più evidenti ed efficaci, soprattutto in alcune aree avanzate della ricerca scientifica e tecnologica.

Uno degli utilizzi più stimolanti della realtà virtuale è sicuramente l’ambito medico. In medicina la realtà virtuale è utilizzata per l’addestramento del chirurgo, per preparare l’intervento in 3D, eseguire più volte la procedura ed infine utilizzare il modello virtuale come guida durante l’operazione. Il giovane chirurgo potrà così esercitarsi in una tecnica operatoria “operando” virtualmente un paziente, correggere i propri errori e affinare la manualità. I simulatori, dunque, permettono di effettuare un addestramento ripetibile, graduabile alle difficoltà e adattabile alle esigenze dell’allievo.

In campo medico esistono diverse applicazioni della realtà virtuale:

  • nel contesto riabilitativo e di trattamento sia a livello fisico-organico (es. mobilità articolare) che cognitivo-psicologico, con programmi e sessioni volte a recuperare o migliorare i deficit acquisiti e le aree di funzionalità compromesse;
  • in ambito formativo ed educativo: la realtà virtuale potrebbe essere utilizzata nel campo della salute pubblica per simulare il mondo così come viene vissuto da una persona con specifici problemi di salute; ad esempio, mettendo le persone nelle condizioni di esperire come vivono i non vedenti o le persone con invalidità fisica, così da sensibilizzare l’opinione pubblica sulle loro necessità di assistenza.

Uso della realtà virtuale in Psichiatria e riabilitazione psichiatrica

In ambito psichiatrico, la realtà virtuale, sebbene sia uno strumento utilizzato da decenni, non ha ancora avuta la giusta diffusione. Il dott. Albert Rizzo, dell’Institute for Creative Technology della University of Southern California lavora sulla realtà virtuale in ambito psichiatrico da circa vent’anni. Il suo focus è stato finora il disturbo post traumatico da stress molto comune nei soldati veterani. Ricreando situazioni stressanti anche in modo graduale ha evidenziato notevoli potenziali terapeutici della realtà virtuale (Rizzo et al, 2005).

In Italia, l’Istituto Auxologico di Milano, è il primo ospedale al mondo che ha realizzato “Cave”, un sistema integrato che permette di ricostruire la realtà, considerando le sollecitazioni cognitive, uditive e visive. Grazie alla visione 3D stereostopica, legata a un sistema di tracciamento della posizione, è possibile una corretta lettura degli spazi, dei volumi e delle distanze, dando così la netta sensazione di essere immersi all’interno della scena virtuale proiettata sugli schermi. Il “Cave” è costituito da due stanze di 3 metri per 3 metri e mezzo dove ai pazienti vengono fatti indossare, oltre ai visori, anche dei biosensori che rilevano il battito cardiaco e la tensione muscolare. Si va ad intervenire su diverse situazioni della quotidianità, per migliorarle tra cui: dimensione sociale, assertività, gestione del tempo e capacità di chiedere aiuto. In base al tipo di patologia, dipenderà anche il professionista (psicologo, nutrizionista, neurologo) con il quale il paziente dovrà relazionarsi. In base al livello di patologia che si presenta si scelgono gli esercizi più opportuni per il paziente. Così ad esempio, chi soffre di stress, ansia o attacchi di panico, viene proiettato in un ambiente mindfulness (deserto, lago di montagna, cascata) in modo tale che possa rilassarsi (Istituto Auxologico di Milano, 2016).

Nell’ambito della riabilitazione cognitiva, invece, l’Istituto ha sviluppato una soluzione per rallentare il deterioramento cognitivo lieve (chiamato anche mild cognitive impairment) che ha come obiettivo quello di potenziare la memoria con esercizi specifici (Istituto Auxologico di Milano, 2016).

Numerose meta-analisi (Parsons & Rizzo, 2008; Powers & Emmelkamp, 2008) hanno mostrato come:

  • gli ambienti di realtà virtuale sono in grado di evocare le medesime reazioni ed emozioni della situazione vissuta nel mondo reale;
  • il senso di presenza può essere esperito anche in ambienti caratterizzati da un realismo grafico non particolarmente curato;
  • il senso di presenza è fortemente correlato con la possibilità di interagire con le componenti dell’ambiente virtuale, favorendo la concentrazione e il coinvolgimento del paziente;
  • vi è una generalizzazione di attribuzioni e credenze di un paziente dalle esperienze guidate negli ambienti virtuali verso le situazioni dell’ambiente reale.

Considerazioni applicative della realtà virtuale in Psicosi e Riabilitazione Psichiatrica

Sebbene l’utilizzo della realtà virtuale con pazienti schizofrenici sia una pratica piuttosto recente, numerosi studi dimostrano che la realtà virtuale consente, in una situazione controllata, interessanti applicazioni sia per la valutazione che per il trattamento. Essa permette, infatti, di riprodurre situazioni ambientali e sociali che stimolano il soggetto in modo simile al contesto reale; per di più, è possibile modulare l’intensità e la durata dell’esperienza virtuale in base alle esigenze del soggetto (La Barbera et al., 2010). L’utilizzo di questo strumento permette di riprodurre situazioni emotive e sociali, tipiche delle relazioni interpersonali (Kim e et al., 2010).

Così come nel trattamento delle fobie, gli ambienti virtuali consentono di esporre il paziente alle proprie paure persecutorie e di testare le proprie credenze su ciò che viene percepito come minaccioso.

È possibile far apprendere al paziente strategie di coping da adottare in situazioni sociali variegate, qualora si verifichino sintomi psicotici.

È possibile applicare la realtà virtuale nei giochi di ruolo, per stimolare e incrementare le abilità interpersonali dei pazienti, migliorandone le capacità di conversazione e la fiducia in sé stessi (Park et al., 2011). In ambito riabilitativo è possibile ipotizzare l’uso della realtà virtuale per sviluppare la gestione dello stress. La somministrazione guidata dal terapista in realtà virtuale di scene che favoriscono l’induzione della risposta di rilassamento, ha dimostrato effetti positivi (Riva, 1997). Ciò è dovuto prevalentemente agli effetti intrinseci dello strumento di realtà virtuale. La sensazione di presenza reale offerta dalla riproduzione realistica degli ambienti cibernetici e dal coinvolgimento di tutti i canali senso-motori, consente al soggetto in trattamento di vivere l’esperienza virtuale in modo più vivida e realistica di quanto potrebbe fare attraverso la propria immaginazione (Vincelli, Molinari, 1998).

Gli ambienti ricreati mediante le tecnologie di realtà virtuale possono rappresentare un ulteriore contesto di interazione sociale, attraverso il quale è possibile far rivivere ai pazienti le proprie paure, le proprie difficoltà e far emergere il materiale cognitivo ed emozionale che ne sta alla base.

Tuttavia, in particolare, il principale limite delle applicazioni di realtà virtuale con gli schizofrenici sembra essere la stabilità dell’esame di realtà, che caratterizza la fase acuta della malattia.

Considerazioni e Conclusioni

Se posti a confronto con i tradizionali protocolli, gli ambienti di realtà virtuale mostrano numerosi vantaggi. In primis, sono un ambiente protetto per il paziente, dove è possibile riprodurre ripetutamente la situazione temuta sotto il diretto controllo del terapeuta, che può in qualunque momento modificare o sospendere le caratteristiche dell’ambiente.

La realtà virtuale è un buon strumento, che permette di superare alcuni degli ostacoli diffusi della terapia cognitivo e comportamentale standard, come nel caso dei disturbi fobici, il cui trattamento è soprattutto basato sull’esposizione, permettendo esperienze altrimenti quasi impossibili, se non in modo immaginifico, come recarsi ad un aeroporto e salire su di un aereo, trovare una platea che ascolta. Un aracnofobico, ad esempio, potrà essere gradualmente o meno, immerso in un ambiente pieno di ragni (Deppermann et al., 2016). Nell’agorafobia gli ambienti di realtà virtuale consentono di esporsi gradualmente a situazioni fobiche con un’ottimizzazione del tempo e del costo dell’intervento (Botella, Villa et al., 2006; Vincelli, Riva & Molinari, 2007).

La realtà virtuale risulta efficace anche nel trattamento del disturbo post traumatico da stress (Wiederhold & Wiederhold, 2006; Norrholm et al., 2016; Maples-Keller et al., 2017); nel disturbo ossessivo-compulsivo (Kim et al., 2010); nei disturbi del comportamento alimentare (Riva, Bacchetta et al., 2004); nei disturbi sessuali (Optale et al., 2006); e nel trattamento del dolore (Askay et al., 2009; Hoffman  et  al.  2011).

Gli ambienti virtuali permettono allo psicoterapeuta di controllare attivamente molteplici aspetti degli stimoli presentati, identificare i parametri correlati alla risposta disfunzionale. Tali ambienti garantiscono inoltre la riservatezza e la sicurezza dei pazienti, rappresentando uno stimolo ad intraprendere la terapia stessa (Vincelli & Riva,2007).

Alla luce di quanto riportato, si può concludere affermando che sebbene nel caso delle fobie la realtà virtuale sia stata ampiamente sperimentata, si necessitano ulteriori studi che possano confermare ipotesi e dati già acquisiti. In questo modo si consentirà di creare con la realtà virtuale nuovi, più rapidi ed efficaci protocolli di cura per i casi già ampiamente trattati. In caso di disturbi più gravi come la schizofrenia, sarebbero necessari più studi sperimentali in grado di valutare l’efficacia di un trattamento specifico in realtà virtuale. Partendo da tali dati sarà possibile in futuro integrare alle tecniche riabilitative standard il trattamento in realtà virtuale in modo da ottimizzare tempi, risorse ed efficacia allargando confini e prospettive alla riabilitazione psichiatrica.

Il futuro della medicina è sempre più hi-tech: ad oggi la realtà virtuale viene per lo più sperimentata, ma ci si può aspettare che rientrerà nella prassi medica e diverrà una pratica corrente grazie ai benefici che può apportare ed alla sua accessibilità. Di fatto, se finora uno dei principali ostacoli per la diffusione della cybertherapy erano i costi, oggi è possibile avere un sistema di realtà virtuale immersiva a prezzi molto competitivi.

MindFoodNess: un audiobook che aiuta ad affrontare le difficoltà con il cibo – Recensione

Corpo, cibo ed emozioni. Tre parole che per chi non si piace o ha problemi con il cibo possono rappresentare un vero e proprio incubo. Lo sa bene Emanuel Mian, psicologo psicoterapeuta che da oltre 10 anni si occupa di disturbi alimentari e dell’immagine corporea, autore di MindFoodNessMindFoodNess è un audiobook in tre volumi rivolto a chi ha un rapporto complicato con la propria immagine o con il cibo e che ha difficoltà a gestire la fame nervosa.

 

MindFoodNess: una guida per ritrovare l’equilibrio con il proprio corpo e le proprie emozioni

MindFoodNess non è un audiobook per addetti ai lavori né di auto aiuto per i disturbi alimentari, bensì un insieme di esercizi esperienziali e aforismi che vengono commentati riguardo al loro significato e al loro possibile utilizzo nella vita di tutti i giorni; una guida pratica da ascoltare tutta d’un fiato o per trovare lo strumento più adatto per affrontare e sbloccare un momento difficile con il cibo, le emozioni, il corpo o gli obiettivi che ci si è posti.

MindFoodNess – afferma il dott. Mian – racchiude la filosofia mindfulness e il mindful eating, cioè la consapevolezza del momento presente, della nutrizione, il fitness mentale, la psicologia positiva e tante altre strategie, ma con tre marce in più.

Il volume 1, MIND, affronta le trappole mentali che ci impediscono di raggiungere gli obiettivi o di accorgerci che li abbiamo già superati e offre strumenti per lavorare sulla motivazione nel perseguire uno scopo, sul senso di efficacia e sulla sensazione di sentirsi adeguati.

Il volume 2, FOOD, distingue tra loro le tematiche del cibo, della nutrizione e dell’alimentazione e affronta le cattive abitudini che sono causa del pessimo rapporto con il cibo, il corpo e se stessi. Ampio spazio è dedicato alla gestione della fame nervosa e dei momenti in cui si ha a che fare con il cibo quando ci si trova in compagnia di altre persone.

Il volume 3, NESS, richiama il concetto di stare bene (happiness, fitness, wellness, ma soprattutto skillness) e propone esercizi e aforismi per migliorare la gestione delle emozioni e per imparare ad affrontare al meglio sia la fame nervosa sia eventuali ricadute che potrebbero verificarsi.

MindFoodNess ha il pregio di essere uno strumento semplice e soprattutto pratico e veloce. Gli esercizi proposti prendono spunto dalla pratica mindfulness e dall’Acceptance Commitment Therapy (ACT); si spazia da esercizi di respirazione a esercizi per assaporare e gustare il cibo nel momento presente a esercizi per gestire le emozioni e gli eventi. Gli esercizi si possono praticare comodamente fuori casa, aspetto vantaggioso che permette anche a chi ha una vita frenetica di ritagliarsi un piccolo spazio per allenarsi.

L’audiobook contiene inoltre diversi aforismi, commentati dal Dott. Mian, che possono diventare un mantra con cui affrontare particolari difficoltà o che possono rappresentare importanti spunti di riflessione su se stessi. Ecco alcuni esempi:
– Se ti dici che ce la puoi fare, anche se poi non ci riesci, avrai fatto la cosa giusta: allearti con te stesso.
– O ti ribelli a chi dice che non vali nulla o soccombi pensando che questa sia la realtà delle cose.
– Più controllo cerchi nella tua vita, meno certezze ti sembrerà di aver trovato.
– Da cosa stai scappando oggi?

Con MindFoodNess il dott. Mian, che con la sua voce calma e chiara si lascia piacevolmente ascoltare, ci accompagna a piccoli passi in un percorso progressivo volto a raggiungere una nuova consapevolezza di noi stessi non solo con il corpo, il cibo e le emozioni, ma – afferma – con tutto ciò che ci circonda, con lo scopo di trovare un nuovo equilibrio come esseri umani.

 

Adrian Wells e la Terapia Metacognitiva – Introduzione alla Psicologia

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico e autore di diversi articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi sottostanti i disturbi psicologici, in particolare ansia e depressione; la sua ricerca ha portato alla teorizzazione di modelli e di trattamenti per la cura di questi disturbi e prende il nome di Terapia Metacognitiva (MCT). 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico; è docente di psicologia clinica alla University of Manchester e professore presso la Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Adrian Wells è autore di diversi articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi sottostanti i disturbi psicologici, in particolar modo relativi alla sfera dell’ansia e della depressione. La sua ricerca ha portato alla teorizzazione di modelli e di trattamenti per la cura di questi disturbi e prende il nome di Terapia Metacognitiva (MCT).

La Terapia Metacognitiva è ascrivibile alla terza ondata di cognitivismo clinico e consiste in un nuovo trattamento psicologico, che pone le sue basi nella terapia cognitiva standard. Adrian Wells ha sottoposto a valutazione il trattamento MCT grazie alla realizzazione di studi scientifici controllati e randomizzati. Attualmente, esistono protocolli di intervento empiricamente riscontrabili su diversi disturbi psicologici.

La Terapia Metacognitiva di Adrian Wells

Secondo Adrian Wells, la Terapia Metacognitiva o MCT verte sull’individuazione di due componenti psicopatologiche: la Sindrome Cognitivo-Affettiva (Cognitive-Attentional Syndrome, CAS) e le metacognizioni.

La Cognitive-Attentional Syndrome o CAS rappresenta una modalità disfunzionale di elaborare le informazioni in ingresso. La CAS comprende sia gli stili di pensiero ripetitivi come il rimuginio e la ruminazione, sia l’ipermonitoraggio attentivo, ovvero focalizzazione dell’attenzione sulle proprie sensazioni corporee o sul giudizio degli altri, sia i comportamenti di rassicurazione o evitamento e tecniche di controllo dei pensieri. La CAS è determinata da credenze riguardanti il pensiero che possono essere inglobate in due categorie: positive, a esempio: “devo preoccuparmi altrimenti non considero abbastanza importante l’accaduto”, e negative, a esempio: “alcuni pensieri sono pericolosi”. In questo modo, l’attenzione si concentra totalmente sulle possibili minacce, non si è capaci di risolvere i problemi e si è immersi in un circolo vizioso da cui scaturisce una emozione negativa. La CAS si attiva, ed è mantenuta, dalle metacognizioni. Le metacognizioni consistono, in soldoni, in pensieri che si effettuano su altri pensieri, ovvero le conoscenze che ognuno possiede sulla propria mente e sui suoi prodotti e funzioni, come emozioni, attenzione, memoria, etc.

L’analisi MetaCognitiva

L’analisi MetaCognitiva o AMC rappresenta la mappa concettuale che permette l’accertamento delle metacognizioni e delle componenti della CAS, in cui si esplora un episodio emozionale specifico. L’asse concettuale prevede l’identificazione di un pensiero iniziale, valutazione o sensazione corporea (A), l’identificazione delle metacognizioni e delle caratteristiche della CAS (M), e le conseguenze emotive (C). Rispetto al modello ABC della terapia cognitiva standard, con l’analisi dell’AMC è possibile identificare le matacognizioni implicite o esplicite con cui il paziente risponde a uno stimolo attivante interno.

Accertamento delle componenti dell’AMC

L’accertamento delle conseguenze o “C” emotive rappresenta un punto fondamentale. Le conseguenze comprendono stati mentali complessi diversi dai semplici stati emotivi. Per questo per agevolare il paziente è possibile attribuire un’etichetta ad ogni stato dopo averlo descritto nel dettaglio.

Nell’ Accertamento degli eventi attivanti interni (A), il terapeuta mira a cercare di identificare, con dovizia di particolare, il primo pensiero o sensazione scatenante l’episodio descritto, che, nell’esperienza individuale, è solitamente percepito come spontaneo. L’accertamento dell’evento attivante interno costituisce l’elemento da cui il terapeuta parte per indagare la CAS e le metacognizioni.

La CAS descrive un peculiare piano di elaborazione delle informazioni, vale a dire un modo di usare il pensiero, l’attenzione e le altre facoltà cognitive. Il terapeuta deve comprendere come il paziente usa tali facoltà cognitive in risposta allo stimolo attivante interno.

Il passaggio successivo è l’accertamento delle metacognizioni (M) che sostengono la CAS. Le metacognizioni possono riguardare: (1) convinzioni esplicite sul significato di A, (2) conoscenze esplicite su utilità e controllabilità delle componenti di CAS, (3) conoscenze implicite che possono essere inferite, ipotizzate e condivise con il paziente.

Secondo la Terapia Metacognitiva o MCT di Adrian Wells, esistono due diverse modalità per elaborare le informazioni:

  • Oggetto: caratterizzato da una fusione dei nostri pensieri con la realtà. In questo caso, i pensieri sono considerati veri, generali e concreti, per questo non sottoponibili a discussione o giudizio;
  • Metacognitivo: i pensieri e le sensazioni sono percepiti come eventi interni separati da sé e dal mondo. Di conseguenza, la relazione con i propri pensieri risulta essere soggettiva, cioè quella di una persona che li osserva come se fossero una componente esterna.

Il trattamento attraverso la Terapia Metacognitiva (MCT)

Nella MCT la sofferenza, dunque non, è data da valutazioni errate che si effettuano sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo che regola l’attività mentale. Quindi, l’errore principale si effettua nel ritenere indispensabile rimuginare sui problemi e non riuscire a smettere di farlo. Queste strategie disadattive creano sofferenza emotiva.

La Terapia Metacognitiva consiste nella rimozione della CAS in relazione ai pensieri e alle metacognizioni che la mantengono. In questo modo, si mettono in discussione le credenze metacognitive rendendole più flessibili e meno correlate alle esperienze emozionali negative.

Rispetto alla terapia cognitiva standard, il modello di Wells pone al centro della teoria non i contenuti dei pensieri, anzi i pensieri non sono considerati molto importanti, ma ciò che conta è la reazione delle persone a quei pensieri. Quindi, per la Terapia Metacognitiva (MCT) non sono gli schemi mentali a determinare un disturbo psicologico, ma le risposte cognitive derivanti da questi schemi, ovvero lo stile di pensiero ripetitivo, astratto e negativo, le strategie di controllo mentale, e le metacognizioni che le mantengono gli schemi.

In sostanza, la MCT agisce sulle modalità che si utilizzano per gestire i pensieri.

Quindi, il principale intervento terapeutico consiste nell’addestramento alla gestione dei pensieri negativi attraverso ad esempio alla cosiddetta detached mindfulness (DM). La DM, si riferisce alla presa di consapevolezza dei pensieri e al riuscire a distinguere un pensiero negativo dalla preoccupazione o rimuginio o ruminaizone che ne consegue. Lo scopo, dunque, è eliminare ogni relazione con il pensiero e percepire se stessi come osservatori esterni del pensiero stesso.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Report dal 18° Congresso Europeo EMDR 30 Giugno – 02 Luglio 2017, Barcellona

Francisca García Guerrero, presidente EMDR Spagna e Isabel Fernandez, presidente EMDR Italia e EMDR Europa aprono il 18° congresso europeo EMDR. La conferenza si intitola “La psicoterapia del ventunesimo secolo” e i temi centrali dei lavori sono i nuovi sviluppi teorici ed applicativi della terapia con EMDR, sempre più diffusa in numerosi Paesi. Più di 900 i partecipanti e 17 Paesi europei e presenti 4 continenti.

 

Il contributo di Dolores Mosquera al Congresso EMDR

Isabel Fernandez conferisce il Premio DAVID SERVAN-SCHREIBER alla personalità che più si è distinta per lavoro clinico e ricerca: Dolores Mosquera, Psicologa, psicoterapeuta, dirige l’Istituto per lo studio del Trauma e disturbi di personalità (INTRA-TP) a La Coruña, Spagna. Terapeuta practitioner e facilitator EMDR Europe.
Viene premiata in virtù della sua esperienza clinica e di insegnamento. Ha pubblicato molti libri e articoli sul trattamento Emdr dei disturbi di personalità, trauma complesso e dissociazione ed è esperta riconosciuta in questo campo. Inoltre collabora in programmi di sostegno alle donne vittime di violenza domestica ed è psicologa della rete nazionale per l’assistenza delle vittime del terrorismo.

Nell’ambito del congresso ha tenuto un workshop sul tema del trattamento del PTSD complesso mediante EMDR.
Mosquera introduce il suo intervento citando uno studio olandese sull’applicazione dell’Emdr standard con soggetti affetti da psicosi secondo il quale ciò è possibile ed efficace senza particolari accorgimenti di stabilizzazione del paziente.
Commentando lo studio Mosquera ritiene che per i casi complessi sia necessaria una stabilizzazione prima di iniziare il trattamento Emdr o comunque occorre prevedere una forma di supporto prima di procedere.

Un’ elevata percentuale di pazienti con PTSD-C presentano anche dissociazione e molti, come indica Mosquera citando la sua vasta esperienza clinica, hanno bisogno di una lunga fase di preparazione per essere pronti a tollerare quello che emergerà durante la fase di desensibilizzazione.
Diverse testimonianze di pazienti indicano che hanno paura della terapia Emdr:
volevano farmi elidere il cervello!
sono stata sopraffatta dei ricordi!

Se la persona non ha un’informazione adattiva alla quale aggrapparsi, spiega la dottoressa Mosquera, continueranno ad emergere solo informazioni negative e dolorose e ciò renderà il lavoro terapeutico molto frustrante sia per il paziente sia per il terapeuta: “non potevano andare da nessuna parte!”

Questo può accadere se il terapeuta non effettua un accurato assessment prima di procedere al trattamento, includendo anche una dettagliata raccolta della storia di vita, che può avvenire ad esempio mediante la linea del tempo.

Mosquera ci rammenta la teoria del Cigno Nero, la metafora esprime il concetto per cui un evento con un forte impatto è una sorpresa per l’osservatore e quindi, una volta accaduto, l’evento viene razionalizzato a posteriori. La teoria è stata sviluppata per spiegare il ruolo sproporzionato di eventi a forte impatto, rari e difficili da prevedere rispetto alle aspettative nell’ambito di storia, scienza, finanza e tecnologia. E’ sufficiente anche un solo paziente con PTSD complesso che necessiti di una preventiva stabilizzazione per dare indicazione a tutti i terapeuti di dedicarsi ad una fase di preparazione del paziente prima di trattarlo con EMDR.

Mosquera conclude dicendo:
Se vogliamo dimostrare che ci sono cigni neri ne basta uno, se vogliamo dimostrare che occorre una fase di preparazione specifica con i pazienti affetti da PTSD complesso, ci basta aver avuto un paziente che ne abbia avuto bisogno”.

Le fasi del trattamento EMDR

Il primo elemento di preparazione al trattamento è la fase di psicoeducazione circa il funzionamento dell’Emdr e del modello dell’informazione adattiva, è bene illustrare quale atteggiamento è più opportuno che il paziente abbia: “non sforzarti di ricordare; al momento giusto saprai cosa ti serve; più ti sforzi più la tua mente lotterà per non farli emergere e tu ti sentirai stanca”.
La psicoeducazione riguarderà anche le manifestazioni della risposta traumatica, in modo da fornire al paziente stesso una chiave di comprensione dei propri sintomi.

Il terapeuta deve iniziare a lavorare sul materiale che ha a disposizione, infatti alcune parti del puzzle sono nascoste e così dobbiamo iniziare a lavorare sui pezzi di cui siamo a conoscenza.

La preparazione procede con alcune tecniche di stabilizzazione (A. Gonzales e D. Mosquera 2012).

Le tecniche suggerite nel presente intervento sono:

  • Uso del protocollo EMDR
  • Installazione del luogo sicuro
  • Esercizi di “grounding” o radicamento corporeo
  • Installazione delle risorse
  • CIPOS – Metodo dell’Installazione Costante dell’Orientamento e della Sicurezza (J.Knipe)
    Dove sei? Nel passato o nel presente”. Ci riferiamo qui alle parti dissociative come indicato dalla teoria della dissociazione strutturale della personalità .(J. Knipe)
  • PAT – Tolleranza dell’emozione positiva (Leeds).

Gli effetti positivi della stabilizzazione permettono di lavorare in sicurezza con questi pazienti.
Essi imparano a prendersi maggiormente cura di sè, a prendere contatto con le sensazioni del corpo, ad ottenere un minimo controllo degli impulsi, a sviluppare la capacità di notare e rimanere in contatto con tutto quello che appare e soprattutto con tutte le emozioni. Fondamentale è guidarli ad imparare a rimanere in una situazione “confortevole” con tutte le emozioni, altrimenti si permettono di stare solo su un’ emozione (ad es. nella rabbia o nella tristezza).

Infine la dottoressa sottolinea un cambiamento importante nel DSM-5, che ha inserito nel disturbo PTSD il sottotipo dissociativo. Ritiene sia fondamentale considerarlo come categoria a sè; con questi pazienti il trattamento richiede molta stabilizzazione rispetto ad altri poichè sono più a rischio di ulteriori esperienze traumatiche e tendono facilmente alla dissociazione come difesa.

L’elaborazione del trauma si colloca in una fase avanzata del trattamento; il terapeuta può accordarsi col sistema psichico del paziente che non lavorerà sui ricordi traumatici fino a quando tutte le parti non saranno pronte.
In accordo con la teoria della dissociazione strutturale della personalità, la psicoterapia si dovrebbe concludere quando è avvenuta l’integrazione tra le parti dissociative e l’ elaborazione adattiva dei ricordi traumatici.

L’intervento della Mosquera è stato arricchito da numerosi esempi clinici e da video di sedute terapeutiche; questo ha permesso all’uditorio di comprendere a pieno le manifestazioni della dissociazione in pazienti con disturbo da stress post traumatico complesso e di capire come intervenire per riportare la persona nel qui ed ora, mediante le tecniche di stabilizzazione.

Il tratto dipendente nel Disturbo di Personalità Borderline e nel Disturbo di Personalità Dipendente

Molteplici e vari sono gli aspetti e gli argomenti legati alla dipendenza: quello di seguito descritto è un tentativo di differenziale del tratto dipendente in due disturbi di personalità, il disturbo dipendente di personalità (DDP) e il disturbo borderline di personalità (DBP).

Nicoletta Carta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il tratto dipendente nel disturbo borderline di personalità

Nel guardare il disturbo borderline di personalità, considereremo come “tratto dipendente” il primo criterio del DSM-V il quale definisce che gli individui con questa diagnosi compiono sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono (DSM-V). E continua:

La percezione del rifiuto e della separazione imminenti, o la perdita di qualche strutturazione esterna, possono portare ad alterazioni profonde dell’immagine di sé, dell’umore, della cognitività e del comportamento. Questi individui sono molto sensibili alle circostanze ambientali. Provano intensi timori di abbandono e rabbia inappropriata anche quando si trovano ad affrontare separazioni reali limitate nel tempo o quando intervengono cambiamenti inevitabili di progetti. Possono credere che questo abbandono implichi che essi sono “cattivi”. Questi timori abbandonici sono associati all’intolleranza a restare soli e alla necessità di avere persone con loro (DSM-V).

Il valore clinico di questo primo criterio, trova le sue radici nella concezione di Masterson e Rinsley (1975), di Gunderson e Singer (1975) e di Adler e Buie (1979), ed è in linea con il pensiero e la ricerca di coloro che ritengono che la problematica dell’attaccamento sia centrale nella costruzione del disturbo borderline di personalità (Bateman, Fonagy, 2004). Come si evince dalle voci bibliografiche riportate, questo criterio si rifà a quella corrente di pensiero psicoanalitico, che ha privilegiato il ruolo della relazione problematica del soggetto borderline con l’oggetto, nell’ottica di un intrinseco valore della relazione e del tentativo di una sua salvaguardia dall’aggressività, suscitata dalla frustrazione o da qualsiasi altra causa.

Inoltre Masterson nell’evidenziare le paure abbandoniche dei pazienti con disturbo borderline di personalità ha individuato le origini di esse in esperienze traumatiche di separazione nell’infanzia. Secondo Young è all’interno del modulo del bambino abbandonato che si ritroverebbe il nucleo di un sé vulnerabile: l’attivazione di schemi di deprivazione emozionale, abbandono e difettività, propri del sé indegno, determinano sentimenti sproporzionati di vulnerabilità (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003).

I cicli interpersonali che caratterizzano il disturbo borderline di personalità sono quello invalidante, quello di allarme ed il protettivo-validante; sono cicli molto complessi, che entrano nella relazione col terapeuta e spesso l’obiettivo terapeutico con un paziente borderline, è quello di riuscire a tenerlo per il maggior tempo possibile nel ciclo protettivo-validante (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003).

Il tratto dipendente nel disturbo dipendente di personalità

Passando ad uno sguardo sul disturbo dipendente di personalità, praticamente tutti i criteri richiamano un’idea di dipendenza. In particolare, per la differenziale col disturbo borderline di personalità, prenderemo in considerazione il quinto, il settimo e l’ottavo criterio. Secondo il criterio 5 del DSM: “il soggetto con disturbo dipendente di personalità può giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto da altri, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli”.

La necessità pervasiva ed eccessiva, delle persone con disturbo dipendente di personalità, di essere accuditi, determina un comportamento sottomesso e dipendente, con timore della separazione. Inoltre la percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente senza l’aiuto degli altri, porta ad un comportamento dipendente e sottomesso che è finalizzato a suscitare protezione. La necessità di queste persone di conservare un legame importante spesso le trattiene in relazioni sbilanciate o distorte, in cui pur di ottenere accudimento sono pronte a sottomettersi a ciò che gli altri vogliono. Inoltre, il soggetto dipendentequando termina una relazione intima, cerca con urgenza un’altra relazione come fonte di accudimento e di supporto” (criterio 7 del DSM V): il rapporto interrotto può essere ad esempio una rottura con un amante o la morte di un caregiver.

Inoltre, la loro convinzione di essere incapaci di funzionare in assenza di una relazione intima li motiva ad attaccarsi rapidamente e indiscriminatamente a un’altra persona. Infine “si preoccupa in modo irrealistico di essere lasciato/a a prendersi cura di sé” (criterio 8 del DSM V). Gli individui con questo disturbo sono spesso preoccupati di essere lasciati soli e si vedono così totalmente dipendenti dal consiglio e dall’aiuto di un’altra persona importante che temono che questa li abbandoni anche quando non ci sono motivi per giustificare tale paura.

Sembrerebbe, secondo alcuni studi condotti sulle interazioni parentali tra madre/padre e bambino, che comportamenti di dipendenza in età adulta sono associati ad uno stile genitoriale che determina e mantiene le rappresentazioni di sé come vulnerabile e inefficace. Costruendo ed interiorizzando tali rappresentazioni di sé, i bambini sperimentano relazioni genitoriali ambivalenti ed intermittenti nella capacità di fornire aiuto e accudimento. Questo atteggiamento induce il bambino a mettere in atto strategie per assicurarsi la vicinanza della figura di riferimento, sviluppando dinamiche di dipendenza, e a temere l’abbandono in qualsiasi momento.

Rispetto ai cicli disfunzionali dei pazienti con disturbo dipendente di personalità, allo scopo di mantenere la presenza e la vicinanza della figura di riferimento, aderiscono costantemente alle aspettative e ai desideri dell’altro. In questa situazione, l’altro si sentirà spinto verso modalità controllanti la relazione, godrà del piacere legato al potere di decidere e di accentrare l’attenzione sui propri bisogni e desideri. Questo atteggiamento mantiene e favorisce nel disturbo dipendente di personalità il comportamento oblativo, almeno finché non percepisce il senso di coercizione.

Il tratto dipendente nei disturbi borderline e dipendente di personalità: somiglianze e differenze

Volendo quindi definire le caratteristiche del tratto dipendente nei due disturbi, è evidente che sia il disturbo dipendente di personalità sia il disturbo borderline sono caratterizzati dal timore di essere abbandonati; tuttavia, l’individuo con disturbo borderline di personalità reagisce all’abbandono con sentimenti di vuoto emotivo, rabbia e richieste, mentre l’individuo con disturbo dipendente di personalità reagisce aumentando le concessioni e la sottomissione, e ricerca urgentemente una relazione sostitutiva per ottenere accudimento e supporto.

Per quanto riguarda i cicli interpersonali (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003) e il funzionamento mentale sotteso, i due disturbi di personalità presentano molte similitudini. E’ possibile osservare alcune caratteristiche per fare una buona diagnosi differenziale, anche se bisogna premettere che è frequente osservare una comorbilità tra i due disturbi. Una rassegna di Morey (1988) riporta una sovrapposizione del 50,8% dei casi. Tali differenze consistono in una serie di singole caratteristiche del funzionamento mentale del modo in cui si compongono nel determinare un “equilibrio disfunzionale”: uno dei problemi concerne la rappresentazione del sé. La connotazione di inadeguato e debole assume tinte molto forti rispetto al sé indegno e vulnerabile del disturbo borderline di personalità, esprimendo il bisogno della relazione per sentire la propria competenza ed autoefficacia, piuttosto che il bisogno di potere e di invulnerabilità.

Una differenza importante tra i due quadri psicopatologici è la maggiore stabilità delle relazioni interpersonali riscontrabili nei soggetti con disturbo dipendente di personalità, laddove le rapide, frequenti ed intense oscillazioni dell’umore e le altrettanto rapide oscillazioni delle rappresentazioni di sé e dell’altro rendono molto più caotiche ed instabili le relazioni interpersonali nel disturbo borderline di personalità. La socievolezza del disturbo dipendente di personalità appare molto più congrua ed aderente al contesto rispetto alla disregolata ricerca delle relazioni propria del borderline.

Un altro elemento di differenziale riguarda il sistema di regolazione delle scelte caratterizzato da ipertrofia nell’uso del contesto interpersonale nel disturbo dipendente di personalità e caoticità nelle regolazioni del disturbo borderline di personalità, che oscilla da espressioni antisociali ad altre narcisistiche ed altre ancora dipendenti.

Per quanto riguarda lo stato interno del terapeuta che lavora con questo tipo di pazienti, non è difficile notare come tali entità nosografiche evochino stati specifici, dipendenti più dalla patologia che dalle caratteristiche personali del terapeuta. I pazienti dipendenti quasi mai evocano le ferite e le reazioni irritate dei cicli invalidanti o di stati di allarmata urgenza così frequenti nel trattamento dei pazienti Bordeline (G. Dimaggio, A. Semerari, 2003).

Recupero afasico e speech therapy: la correlazione con la plasticità strutturale della via ventrale

La speech therapy è ormai da anni considerata il golden standard nella cura di un disturbo afasico post ictus. Tuttavia quello che sembra complicato capire è quanto venga recuperato a livello neurologico a seguito di tale terapia, dal momento che mentre alcuni pazienti rispondono molto bene, altri presentano uno scarso recupero.

 

I disturbi del linguaggio di tipo afasico sono comuni in condizioni post ictus e possono manifestarsi come difficoltà ad identificare la parola corretta da usare in relazione al contesto (problemi semantici) e/o difficoltà a pronunciare parole (problemi fonemici). La speech therapy è ormai da anni considerata il golden standard nella cura di un disturbo afasico post ictus. Tuttavia quello che sembra complicato capire è quanto venga recuperato a livello neurologico a seguito di tale terapia, dal momento che mentre alcuni pazienti rispondono molto bene, altri presentano uno scarso recupero.

Linguaggio e network cerebrali

La capacità del network deputato al linguaggio di ricostruire se stesso a partire dalle competenze residue, viene definita come plasticità strutturale, ed è direttamente correlata a quanto un paziente possa beneficiare della terapia del linguaggio, come dimostrato in uno studio dei ricercatori della Medical University of South Carolina (MUSC).

Il loro studio supporta il modello del linguaggio a due vie che afferma che le reti cerebrali ventrali sono associate a capacità semantiche e le reti dorsali con abilità fonemiche.

La produzione del discorso prevede la presenza di due fasi: una prima selezione della parola corretta grazie all’associazione semantica, e in un secondo momento la sua pronuncia corretta foneticamente – spiega l’autrice principale dell’articolo Emilie T. McKinnon, candidato al dottorato al Dipartimento di Neurologia della MUSC – La teoria attuale ritiene che differenti parti del cervello sostengano questi due differenti processi. Se così fosse, tali aree deputate al processamento delle diverse informazioni linguistiche dovrebbero essere strettamente connesse, perciò la domanda successiva è: quando una di queste regioni viene selettivamente danneggiata come può la connessione inter- cerebrale essere ripristinata?

I ricercatori hanno osservato nel dettaglio la microstruttura di una di queste connessioni per cercare di comprendere cosa accade quando l’elaborazione linguistica migliora.

Afasia: aspetti semantici e modificazioni strutturali post terapia

Il team ha testato otto pazienti afasici, con un solo episodio di ictus nell’ultimo anno che ha interessato il Fascicolo inferiore longitudinale (ILF). I partecipanti sono stati testati in compiti di denominazione per confronto una settimana prima e una settimana dopo aver ricevuto per tre settimane una terapia del linguaggio intensiva. Inoltre, i partecipanti sono stati sottoposti a quattro sessioni di Risonanza Magnetica (MRI)- due prima della terapia del linguaggio e due dopo.

Soprattutto, i ricercatori hanno potuto usufruire di tecniche di imaging avanzato sensibili ai cambiamenti microstrutturali della materia bianca, rivelando differenze precedentemente non visibili.

La McKinnon spiega:

Abbiamo utilizzato la DKI- Diffusion Kurtosis Imaging- una innovativa tecnica basata su una distribuzione non gaussiana dell’acqua nei sistemi biologici. Dove l’acqua si espande senza ostacoli la curtosi è vicina allo zero, più barriere si incontrano, maggiore sarà il livello di curtosi. Questo dimostra quanto sia complesso l’ambiente, e l’utilizzo di questa tecnica è stato necessario per raccogliere informazioni utili, ad un costo minimo; ha infatti richiesto un aggiustamento di alcune impostazioni della MRI e circa cinque minuti in più sul tempo totale della scansione.

Il team si è focalizzato in particolare sull’ILF, ritrovando come, un segmento definito “collo di bottiglia”, centro di integrazione dell’elaborazione delle informazioni, sia quello maggiormente danneggiato.

I ricercatori hanno trovato una correlazione significativa tra il pre e post terapia e il miglioramento sugli aspetti semantici.

I punteggi dei partecipanti sui test di nomi degli oggetti sono notevolmente migliorati rispetto al baseline (p = 0.002), con pochi errori semantici (p = 0.01) e meno risposte “no” (p = 0.03).

I ricercatori hanno inoltre rilevato che, sebbene il numero di errori semantici prima della terapia fosse correlato all’onere della lesione ILF (r = -0,65, p = 0,07), il recupero semantico non era associato all’entità della lesione (r = 0,19, p = 0,65).

Inoltre, quando il team di ricerca applicava strategie di misurazione più convenzionali, i risultati non erano statisticamente significativi, suggerendo che i metodi tradizionali potrebbero essere meno sensibili ai cambiamenti microstrutturali associati al recupero.

La scoperta sostanziale della ricerca suggerisce che miglioramenti nella curtosi sono legati ai miglioramenti strutturali. Questo è molto importante per comprendere l’andamento delle recidive nei soggetti afasici.

Abbiamo visto che le persone miglioravano perché la loro rete cerebrale diventava strutturalmente più forte, le connessioni residue diventavano quindi più forti in un’area in cui la conoscenza semantica è integrata. Questi cambiamenti non correlavano invece con gli aspetti fonemici – dice Bonilha.

La McKinnon spera che i risultati ottenuti contribuiscano ad orientare le scelte terapeutiche in relazione ai danni cerebrali visibili, ad esempio se si riscontra un forte indebolimento dell’area ventrale, potranno essere raccomandate terapie orientate sull’aspetto semantico.

Inoltre, questa strategia può essere utile in altre condizioni. Ad esempio, altre funzioni del cervello come il controllo motorio sono danneggiate a  seguito di un ictus.

Sarebbe necessario accedere agli stessi cambiamenti microstrutturali per recuperare l’uso della mano – dice McKinnon – Quindi, potremmo ottenere gli stessi risultati con la riabilitazione del controllo motorio deficitario  post-ictuse e, forse, oltre l’ictus, considerare i casi di neurodegenerazione o di danno cerebrale, come la lesione cerebrale traumatica. Se possiamo trovare una relazione tra la struttura e la funzione della rete, allora potremmo utilizzare questa tecnica per valutare il potenziale di recupero e il progresso dei pazienti.

 

 

Ho avuto solo molta fortuna. Biografia intellettuale di Daniel Bovet (2006) di D. Cozzoli – Recensione del libro 

La storia di Daniel Bovet viene raccontata da Daniele Cozzoli, ricercatore romano trapiantato a Barcellona, in una brillante biografia intellettuale. Si tratta della storia di un uomo ma anche di un’epoca della ricerca scientifica.

 

Daniel Bovet vinse il premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1957, dopo essere stato tra i candidati già in almeno altre due occasioni. A lui si devono infatti la scoperta del principio attivo del sulfamide (il primo farmaco batteriostatico), la creazione degli antistaminici (i primi farmaci antiallergici), la sintesi dei curari artificiali, che vennero utilizzati su larga scala come anestetici. Fu infine uno dei padri della psicobiologia, contribuendo largamente alla sua diffusione nel nostro paese, come ricorda anche Alberto Oliverio nella sua commossa prefazione.

La storia di Daniel Bovet viene raccontata da Daniele Cozzoli, ricercatore romano trapiantato a Barcellona, in questa brillante biografia intellettuale. Si tratta della storia di un uomo ma anche di un’epoca della ricerca scientifica, nella quale l’idea di una collaborazione trans-nazionale europea era evidentemente già possibile, anche se senza il sostegno della politica (per voler usare un’espressione eufemistica).

Daniel Bovet e i suoi contributi alla scienza medica

Figlio di uno svizzero e di una francese, Daniel Bovet studiò a Ginevra e ottenne un posto di rilievo all’Istituto Pasteur di Parigi, dove conseguì i suoi primi importanti risultati sugli antimicrobici nel 1936, perfezionando la scoperta di un chimico tedesco, Gehrard Domagk, che a sua volta aveva messo a frutto le idee di un altro scienziato tedesco, Paul Ehrilch. Questi era partito dall’idea che la proprietà di alcuni coloranti, di legarsi solo ad alcune cellule o tessuti (proprietà già utilizzata, per esempio, in microscopia), potesse essere sfruttata per individuare dei composti che attaccassero soltanto gli agenti patogeni estranei all’organismo umano, senza danneggiare l’organismo stesso.

Il programma di ricerca si rivelò estremamente efficace e consentì una collaborazione tra ricerca e industria, prima in Germania e poi in Francia. Fu infatti il legame tra l’Istituo Pasteur e l’industria farmaceutica Rhône-Poulenc a finanziare, tra l’altro, le ricerche di Daniel Bovet. Parallelamente alle ricerche sui sulfamidici, Daniel Bovet ne aveva iniziate altre su farmaci che fossero in grado di contrastare la produzione di istamina negli organismi allergici: nel 1937 la Rhône-Poulenc venne informata che la prima molecola antistaminica era stata sintetizzata: avrebbe assunto il nome commerciale di antergan.

La Seconda guerra mondiale ebbe un effetto abbastanza paradossale sulla competizione tra ricerca farmaceutica francese e tedesca: inizialmente la Bayer avrebbe voluto assorbire le aziende rivali di oltre Reno. Tuttavia, i Tedeschi non occuparono tutta la Francia, per non far collassare l’impero coloniale francese (del che avrebbero beneficiato gli Alleati, piuttosto che la Germania) e similmente decisero di non appropriarsi di tutte le fabbriche francesi (tra le conseguenze vi sarebbe stato l’assorbimento, da parte alleata, delle sussidiarie francesi all’estero). Nacque così un rapporto di collaborazione tra ricerca industriale francese e tedesca, che comprensibilmente diede origine in seguito ad accuse di collaborazionismo nei confronti dei dirigenti francesi degli istituti e delle industrie coinvolti. Tra le persone cadute in disgrazia per questa ragione vi fu Ernest Fourneau, che era stato il nume tutelare di Daniel Bovet all’Istituto Pasteur.

Daniel Bovet in Italia: l’incontro con Domenico Marotta

Daniel Bovet, comprensibilmente in difficoltà, decise di accettare l’offerta di proseguire le sue ricerche in Italia, formulata da Domenico Marotta, che dirigeva l’Istituto Superiore di Sanità. Marotta, in effetti, voleva portare in Italia con Daniel Bovet, già notissimo, anche colei che nel frattempo era diventata sua moglie, Filomena Nitti, e il fratello di lei Federico. Tutti e tre erano ricercatori dell’Istituto Pasteur, ma gli ultimi due erano anche i figli di Francesco Saverio Nitti, il politico liberale. Marotta, quindi, presumibilmente intendeva tanto acquisire tre scienziati di alto livello, quanto ottenere il favore di un uomo che prometteva di svolgere un ruolo importante nella nuova Italia.

La scelta di Marotta non fu indovinata dal punto di vista politico (Nitti non riuscì a costruire un blocco liberale dominante come si prefiggeva) ma risultò straordinariamente felice per le sorti scientifiche dell’Istituto Superiore di Sanità, che attraversò una stagione di clamorosi successi, culminata con il Nobel a Daniel Bovet. Marotta riuscì infatti a portare all’Istituto anche Ernest Boris Chain, inglese, che aveva a sua volta già vinto il Nobel nel 1945 con Alexander Fleming e Howard Forley per gli studi della penicillina. In seguito, per merito di Marotta, arrivò all’Istituto anche Rita Levi Montalcini. Per un certo periodo, quindi, all’Istituto Superiore di Sanità lavoravano fianco a fianco tre persone di tre diverse nazioni europee, che erano state o sarebbero state insignite del Nobel per la medicina.

L’istituzione diventò un centro di ricerca noto e invidiato in tutto il mondo. Daniel Bovet, in particolare, scoprì nel suo laboratorio romano le proprietà “curarizzanti” della succinilcolina, che risulta un anestetico efficace, di effetto breve e di scarsa tossicità. Si trattò, probabilmente, della sua ricerca più importante in campo medico.

Quando l’Istituto era all’apice dei suoi successi, tuttavia, accadde qualcosa che agli occhi di un lettore contemporaneo risulta piuttosto straniante. Un impiegato (ex-repubblichino) che si riteneva ingiustamente licenziato dall’Istituto, consegnò a un deputato comunista documenti che a suo avviso provavano gravi irregolarità amministrative di Marotta e lo indusse a presentare delle interrogazioni parlamentari. “L’Espresso” gridò allo scandalo. Un ricercatore dell’Istituto, tale Giuseppe Penso, pubblicò un pamphlet in cui sosteneva che solo sotto il fascismo l’Istituto aveva svolto il suo giusto ruolo, essendo ora diventato un inutile centro di ricerca pura. Marotta venne accusato dalla magistratura di peculato e falso ideologico. Il risultato fu che l’Istituto si sfaldò, i ricercatori più importanti se ne andarono altrove e il centro di ricerca farmacologica più importante che l’Italia abbia mai ospitato perse definitivamente la propria importanza. Dopo anni di processi e condanne inizialmente gravi, a Marotta venne infine comminata una pena abbastanza lieve da rientrare in un’amnistia ed evitare gli strascichi che un completo ribaltamento della sentenza iniziale avrebbe marcato.

Daniel Bovet su memoria e comportamento

Daniel Bovet divenne nel frattempo professore universitario, a Sassari. Negli anni sessanta, le sue ricerche si concentrano sull’effetto di alcune sostanze chimiche sul comportamento e la memoria. All’interesse per questi argomenti contribuì, tra l’altro, l’amicizia con un altro illustre personaggio di origine ginevrina: Jean Piaget. Daniel Bovet si convinse che il comportamento avesse basi genetiche, la cui influenza poteva essere mediata dall’ambiente. Definì infine il comportamento come un fenotipo, ritenendo che alcuni suoi aspetti potessero essere automatizzati. Anche in questo campo le ricerche di Daniel Bovet risultarono all’avanguardia, aprendo la strada a quelle di James McGaugh all’ UCLA. Nel 1966, Daniel Bovet fu chiamato ad occupare la prima cattedra di Psicobiologia dell’Università di Roma “La Sapienza”, che avrebbe occupato fino alla pensione.

In sintesi, “Ho avuto solo molta fortuna” (il cui titolo felicemente evoca l’understatement di Bovet) è un libro utile, ben documentato, che racconta vicende che attraversano alcuni momenti decisivi della Storia della scienza del Novecento.

Ascoltare i bambini. Psicoterapia delle infanzie negate di Luigi Cancrini – Recensione

Nel libro Ascoltare i bambini Luigi Cancrini guida il lettore in un viaggio nel mondo sommerso e spesso silenzioso dei bambini maltrattati.

 

Il bambino maltrattato: quali sono gli effetti?

Impegnato da anni nella conduzione di terapie o come supervisore presso il Centro di Aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia di Roma, nonché nei Centri Studi di Terapia Familiare e Relazionale da lui fondati in tutta Italia, l’autore mette in luce come le ripetute traumatizzazioni e le relazioni violente possano avere effetti devastanti sulla vita affettiva del bambino, conducendolo il più delle volte allo sviluppo di patologie mentali gravi, come i disturbi di personalità, o alla messa in atto di condotte antisociali permanenti.

Le forme più gravi di maltrattamento, che portano a conseguenze più distruttive, sembrano essere quelle che lui definisce traumi man-made, cioè di derivazione umana, soprattutto quelli che avvengono all’interno del nucleo famigliare in modo ricorrente e perseverativo. In questi casi il caregiver, che dovrebbe assicurare lo sviluppo di un attaccamento sicuro garantendo cura e protezione, si trasforma nel persecutore, minando in modo definitivo la possibilità nel bambino di costruire relazioni di fiducia anche in età adulta.

I possibili approcci terapeutici per il bambino maltrattato

In questo libro Cancrini denuncia una modalità di approccio terapeutico, tanto diffusa quanto dannosa per la cura dei bambini maltrattati, che secondo l’autore si fonda su due illusioni e che viene ben illustrata nel primo capitolo. La prima, chiamata dall’autore Illusione numero uno, nasce dall’idea che per proteggere il bambino sia sufficiente allontanarlo dall’ambiente maltrattante, ritenendo che si possa garantire la sua tutela solo attraverso la sistemazione in famiglie affidatarie o in strutture di accoglienza, non tenendo conto della necessità di fornire supporto specifico per l’elaborazione dei traumi subìti. La seconda modalità, chiamata Illusione numero due, si fonda sul presupposto che sia sufficiente far seguire al bambino un percorso di psicoterapia individuale, senza coinvolgere nel percorso psicoterapeutico la nuova famiglia affidataria o adottiva.

Quest’ultima considerazione è in linea con le attuali teorie dell’attaccamento e del trauma, secondo le quali un fattore di resilienza del bambino e del futuro adulto è l’istaurarsi di un attaccamento sicuro. Da qui nasce l’importanza di coinvolgere il nuovo nucleo familiare nella speranza di rimarginare le ferite e riparare ai danni emotivi e relazionali derivanti dai continui maltrattamenti.

Il contributo più prezioso e interessante del libro si trova nella descrizione dei percorsi terapeutici dei bambini provenienti da situazioni di maltrattamento ripetuto e a rischio, secondo i clinici, di sviluppare gravi disturbi della personalità: antisociale nei casi di Hillary e Michele, borderline nel caso di Diego, paranoide nel caso di Ruggero e Ludwig, schizotipico nel caso di Pamela.

Nel capitolo II conosciamo il caso di Hillary, una bambina di 5 anni allontanata dalla famiglia d’origine per condizioni di vita di estremo degrado ambientale e di trascuratezza affettiva. Nel III capitolo si parla di Diego, un bambino in carico ai servizi da quando aveva due anni e primo di quattro fratelli, figli di genitori violenti. Fa il suo ingresso in comunità a 9 anni. Il protagonista del IV capitolo è Michele, figlio di genitori tossicodipendenti, che viene inviato in comunità all’età di 3 anni per trascuratezza e presunti abusi sessuali subìti dal padre. Nel V capitolo conosciamo Ruggero, allontanato all’età di 7 anni da una famiglia possessiva, coercitiva e violenta, e Ludwig, chiamato anche il piccolo Beethoven, vittima sacrificale delle fantasie onnipotenti di un padre paranoico e alcolista. Infine nel capitolo VI troviamo Pamela, una bambina sognatrice di 7 anni vittima di abusi ripetuti a opera del padre, allontanato 3 anni prima dalla famiglia.

Seppur nella loro unicità, tutti i casi presentati hanno in comune la presenza di gravi esperienze traumatiche, alle quali le vittime hanno potuto sopravvivere mettendo in atto meccanismi di difesa disadattivi basati sulla scissione, evitando così di entrare in contatto con un’angoscia devastante e insostenibile. Il lavoro terapeutico si basa sulla riattivazione di ricordi ed emozioni al fine di dar loro parola, una terapia che ha molto a che fare con l’elaborazione del lutto e che prende spunto dalle teorie di Anna Freud e John Bowlby.

Aldilà degli orientamenti e dei vari approcci psicoterapeutici, è un libro intenso e coinvolgente, a tratti doloroso, che obbliga il lettore a riflettere sul delicato tema dei traumi complessi vissuti in età infantile e sulla necessità di una presa in carico mirata e competente.

Il corpo che parla. Il ruolo del corpo e della sintonizzazione nelle terapie post-razionaliste in età evolutiva

Il panorama degli approcci che si focalizzano sul corpo e sulla sua dimensione neurofisiologica si è notevolmente ampliato negli ultimi anni. In seno alle terapie post razionaliste della cosiddetta “terza ondata” troviamo, tra le altre, la fiorente Sensorimotor, che trae ispirazione da Pat Ogden, l’esperienziale Mindfulness, tra i cui pionieri troviamo Jon Kabat-Zinn e la lungimirante Neurobiologia Interpersonale di Daniel Siegel, dalle quali questo contributo trae ispirazione.

Claudia Filipetta, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La sintonizzazione nella relazione terapeutica

Gli spunti offerti alla ricerca dagli studi sull’attaccamento hanno permesso di declinare il ruolo della sintonizzazione all’interno della relazione terapeutica; l’iniziale comunicazione tra madre e bambino, fatta di reciproche e contingenti interazioni sensomotorie, creano pattern specifici nella creazione di una personalità adulta, facilitando o inibendo le capacità di autoregolazione del bambino. Persino la nostra postura, il nostro modo di muoverci, di relazionarci sarebbero influenzati da tali precoci tentativi, riusciti o falliti che siano, di adattamento (Ogden, P.).

Vale la pena soffermarsi un attimo sull’aggettivo “contingente”: proprio la contingenza sembra essere la chiave di volta nella promozione del cambiamento terapeutico, a prescindere dall’approccio a cui si faccia riferimento, esattamente come nei primi mesi di vita la capacità del caregiver primario di fornire in quel preciso momento una risposta protettiva, sintonizzata emotivamente e pregnante rispetto all’evento stressante, sia in grado di favorire un senso di sicurezza interno stabile e duraturo.

E’ stato dimostrato come un’esperienza deficitaria di amore e attenzioni materne nel neonato non permetta un corretto sviluppo dei nuclei limbici, in particolar modo dell’amigdala destra, che saranno a loro volta responsabili dei futuri comportamenti di attaccamento e della creazione di legami (Shore, A.).
Qualora non vengano rispettati i corretti ritmi di sintonizzazione, Tronick individua nella riparazione e nel recupero del legame interrotto in tempi adeguati l’elemento protettivo rispetto all’insorgenza della psicopatologia.

Affinché il paziente si senta realmente compreso, la sintonizzazione tra i suoi stati mentali e quelli del terapeuta deve essere piena e reciproca non solo sul piano esplicito ma anche a fronte di contenuti difficili e a forte impatto emotivo (Steele, K.).
L’impegno del terapeuta deve essere quello di monitorare l’alleanza che si va costruendo, prestando attenzione al rischio di sollecitare una dipendenza maladattiva, piuttosto che una crescente competenza e autonomia da parte del paziente.

Terapie post razionaliste: dalla sintonizzazione al focus sul corpo

Steven Porges, attraverso la lente della teoria polivagale, va nella stessa direzione, arrivando ad assegnare alla relazionalità la definizione di imperativo biologico: l’interazione con gli altri risponderebbe all’esigenza fisica di co-regolare il proprio stato biologico e comportamentale.

Si noti infatti come pazienti con problemi psichiatrici o educativi presentino difficoltà nel sentirsi “al sicuro” con gli altri, nel mantenere una vicinanza fisica, nell’essere toccati o toccare un’altra persona, in generale nel creare relazioni sociali profonde.

Il contatto visivo e fisico, in particolare quella che Porges definisce “immobilizzazione senza paura”, permettono di favorire il riposo, la capacità di rilassamento, la digestione, consentendo la corretta alternanza dei sistemi simpatico e parasimpatico.

In particolare nei lavori sull’elaborazione del trauma, si nota come il corpo permetta l’accesso diretto a dimensioni altrimenti inaccessibili: basti pensare all’azione inibente di eventi scioccanti sull’area di Broca, deputata alla verbalizzazione (Williams, R.).
Compito del terapeuta è di portare la sua attenzione presente e non giudicante al momento della seduta e ai microcambiamenti che avvengono nel corpo e nell’interazione col paziente, alla sua esperienza interna, permettendogli di dare voce al suo vissuto partendo da elementi percettivi, per poi integrarli alla parte cognitiva (Ogden, P.).

L’obiettivo comune è quello di aumentare la consapevolezza dei propri agiti, dei propri schemi, delle proprie rigidità per incrementare la flessibilità cognitiva.

La pratica della mindfulness tra le terapie post razionaliste persegue fini comuni, con la sua capacità di esperire intenzionalmente il momento presente con un atteggiamento di profonda accettazione e assenza di giudizio e il suo focus sull’interazione reciproca mente-corpo.
Questo nuovo livello di consapevolezza ha delle ricadute neurali in considerevoli aree della corteccia e della parte subcorticale del sistema limbico e del tronco encefalico.

Portando l’attenzione intenzionale sul respiro, piuttosto che sulle sensazioni o percezioni corporee, chi pratica è in grado di riconoscere gli automatismi di pensiero disfunzionali o gli schemi di ideazione negativi a cui è soggetto in condizioni stressanti.

Oltre alla comprovata efficacia degli interventi basati sulla Mindfulness su disturbi psichiatrici e correlati allo stress, è interessante approfondire gli studi di letteratura sul suo potenziale preventivo e promotore di benessere su popolazioni non cliniche, con effetti benefici sull’incremento di benessere percepito, sulla diminuzione dello stress e sull’aumento della capacità attentiva e del suo mantenimento.

Le terapie post razionaliste funzionano anche in età evolutiva?

Studi di efficacia sembrano dimostrare l’adattabilità delle terapie post razionaliste a campioni di bambini e adolescenti (Black, D. S.), fasce d’età in cui i problemi clinici stanno aumentando la loro rilevanza. I metodi fondati sull’accettazione compassionevole e sull’intenzionalità non giudicante sembrano ben sposarsi con l’elevata pressione, lo stress da performance e da relazione a cui sono sottoposti gli studenti nel contesto scolastico.

Gli interventi vanno in questo caso declinati sull’età dei bambini o dei ragazzi, modificando le tempistiche e i contenuti: le sessioni di meditazione saranno più brevi e a cadenza regolare e gli esercizi semplici e comprensibili (Fabbro, F., Muratori, F.).

Susan Keiser Greenland ha predisposto un programma specifico per l’età evolutiva, Inner Kids, composto da attività ludiche e motorie, con l’obiettivo di sviluppare le attitudini di consapevolezza, compassione ed attenzione (Greenland, S. K.).

Grazie alla somministrazione del questionario BRIEF sulle funzioni esecutive ai genitori di un campione di bambini tra i 7 e i 9 anni, si è potuto verificare un incremento nelle dimensioni di metacognizione e regolazione del comportamento a seguito di un training di Mindfulness (Flook, L.).
Studi fatti su difficoltà nella sfera emotiva, hanno evidenziato nei bambini una minore tendenza all’autocritica, un accresciuto atteggiamento di benevola compassione verso di sé e verso gli altri e una minore tendenza alla reattività (Saltzman, A., Goldin, P.).

Le terapie post razionaliste verso nuovi circuiti neurali e visioni di sé

Regina degli approcci a mediazione corporea tra le terapie post razionaliste, la Psicoterapia Sensomotoria si sviluppa in un quadro integrato che include influenze cognitivo-comportamentali, dinamiche, tecniche derivate dall’Hakomi Method e da discipline fisiche come lo yoga e la danza.

Ciò che la distingue dalle altre terapie è la strutturazione di strumenti di osservazione e d’intervento calibrati sul corpo.
Attraverso interventi bottom up o top down, i pazienti sono invitati a prestare attenzione ai propri movimenti, alla propria gestualità o postura e a come essi influenzino in modo evidente la comunicazione verbale, le parole, i contenuti della conversazione.
Modificando alcuni processi somatici, è possibile instillare un nuovo apprendimento, che si riflette in cambiamenti neurali, in differenti significati e, più in generale, in una differente visione di sé (Ogden, P.); si genera un insight e una consapevolezza radicata nella persona, proprio come quando realizziamo che alcune convinzioni che ci bloccano o limitano non ci appartengono in modo indelebile e immodificabile.

In particolare in fase adolescenziale, momento di risveglio puberale e di profonde e repentine trasformazioni fisiche e ormonali, il corpo riveste un ruolo da protagonista: la maggior parte dei ragazzi non apprezza il proprio corpo, o parti di esso, vorrebbe modificarlo, nasconderlo e a volte ci prova attraverso il trucco, l’abbigliamento, il modo di vestirsi, pettinarsi o tatuarsi.
Nel percorso di crescita e trasformazione dall’infanzia all’adolescenza è facile percepire il proprio corpo come un “estraneo” e costruire su questa base un’idea di sé fragile, poco integrata, fondata su convinzioni disfunzionali.
L’età evolutiva è teatro della comparsa di disturbi come ansia, adhd, disturbi alimentari, depressione e autolesionismo, alcuni dei quali ritroveremo in età adulta; senza contare gli aspetti di contesto, come la richiesta di performance sempre maggiori o la presenza di reti sociali ristrette e reti virtuali allargate e di complessa gestione.

In quest’ottica sviluppare una maggiore consapevolezza dei propri movimenti fisici nel qui e ora, riuscire a percepire le proprie sensazioni corporee, provando a collegarle ad emozioni specifiche e a dare loro un nome, in sintesi dare voce al corpo, può essere di grande aiuto nel recupero dei vissuti e delle idee di sé ad essi correlati. In particolare si possono avere ricadute sul piano dell’autostima, sul senso di autoefficacia e su alcune Life Skills cruciali come la gestione delle emozioni e dello stress, l’empatia e la capacità di relazionarsi agli altri in modo efficace.

Tripofobia: una spiegazione evolutiva legata al disgusto

La tripofobia è la condizione di chi prova disgusto, nausea e ansia in risposta a stimoli caratterizzati da forme circolari, come bolle di sapone o buchi di una spugna (Le, Cole, & Wilkins, 2015). L’esistenza di tale fobia è stata riportata solo nel 2013 nella letteratura scientifica (Cole & Wilkins, 2013) e sembra essere correlata ad ansia, distress e disturbo di fobia specifico (Vlok-Barnard & Stein, 2017).

 

La tripofobia: in cosa consiste

Considerata la natura innocua di semplici forme circolari, è poco chiaro come da esse si possa generare una fobia. Una spiegazione iniziale della tripofobia prevedeva che l’avversione alle forme circolari fosse collegata al fatto che esse caratterizzavano animali velenosi come i serpenti o il polipo ad anelli blu. Questa idea derivava dalla constatazione che gli esseri umani hanno la predisposizione ad apprendere paure per stimoli che rappresentano minacce ancestrali di sopravvivenza (Seligman, 1971).

Una ricerca successiva, invece, suggerisce che la tripofobia sia una risposta evolutiva verso una classe di stimoli legati a parassiti o malattie infettive. Dunque, questa tipologia di fobia rappresenterebbe una generalizzazione di una risposta di paura da stimoli effettivamente dannosi ad altri simili ma innocui, cosa che si verifica proprio nelle fobie specifiche e nei disturbi d’ansia (Dymond, Dunsmoor, Vervliet, Roche, & Hermans, 2014).

Tale studio è stato effettuato presso l’università di Kupfer, i cui autori avevano notato che molte malattie infettive (vaiolo, morbillo, rosolia) erano caratterizzate da forme circolari sulla pelle. I partecipanti all’esperimento erano 300 persone con tripofobia (gruppo sperimentale) e 300 studenti universitari sani (gruppo di controllo). Ai soggetti era richiesto di indicare il grado di piacevolezza di 8 immagini relative a parti del corpo infette ( es. segni circolari sul petto e cicatrici) e 8 immagini neutre ma con caratteristiche rilevanti per la tripofobia (es. fori in un muro di mattoni o un baccello di un fiore di loto).

I risultati mostravano che entrambi i gruppi dichiaravano meno piacevoli le immagini relative alle malattie cutanee ma, a differenza degli studenti universitari, i soggetti con tripofobia consideravano estremamente sgradevoli le immagini neutre.

Il disgusto come emozione correlata alla tripofobia

L’emozione associata a tale fobia non era tanto la paura quanto il disgusto, la cui funzione evolutiva è consentire di evitare fonti di potenziali infezioni. Infatti, nella descrizione relativa alle immagini neutre, i tripofobici riportavano esperienze di nausea o correlate al disgusto, con aggiunta di prurito o sensazione di essere infestati da insetti, pur avendo la consapevolezza che ciò non fosse reale.

Concludendo, la tripofobia potrebbe essere un’avversione basata sul disgusto collegato alle forme circolari piuttosto che una semplice “paura dei fori”. Inotre, bisogna considerare che tale ricerca ha come limite la rappresentatività del campione poiché, non essendo ancora stati stabiliti dei criteri per una diagnosi clinica, potrebbero non essere state considerate tutte le caratteristiche di tale condizione.

Mangiare in consapevolezza di Thich Nhat Hanh (2015) – Recensione

Mangiare in consapevolezza. Questo il titolo del volume di Thich Nhat Hanh che apre una serie di riflessioni più ampie in merito alla pratica della presenza mentale in ogni momento della vita quotidiana. In questo testo il maestro zen mostra ancora una volta tutta la sua aura di grande comunicatore arrivando in maniera intuitiva, diretta, spontanea. Mastica il cibo e non le preoccupazioni diventa quasi il manifesto di una modalità differente di alimentarsi che Thich Nhat Hanh presenta attraverso questo testo fatto di paragrafi brevi ma molto incisivi.

 

Prestare consapevolezza ed essere pienamente presenti nel momento dei pasti

L’invito che il maestro propone è quello di provare a mangiare in piena presenza mentale, di condire i cibi con il silenzio per dedicare un tempo che sia quello del nutrimento, nel senso più autentico del termine, lontani dalla distrazione o dagli automatismi. E se ci immaginiamo qualche suggerimento su come poter apprezzare di più i gusti e i sapori del cibo, ebbene stiamo limitando le proposte che questo testo ci offre perché possiamo orientare la nostra consapevolezza sia prima di metterci a tavola (contro quella velocità che ci assale facendoci divorare i cibi e trascurando i gusti) sia dopo (avete mai provato ad osservare il vostro piatto vuoto? Pensare che ciò che c’era prima, adesso è dentro la vostra pancia e vi sta dando un senso di ripienezza e di fame soddisfatta?).

Ma la riflessione di consapevolezza si estende al mondo intero e anche oltre: ogni boccone ha in sé l’universo, il cielo e la terra, il duro lavoro del contadino, la luce solare. Un’attenzione particolare viene rivolta all’ambiente che troppo spesso diamo per scontato, perché in fondo la tutela del nostro mondo, dove un giorno vivranno i nostri figli, dipende anche da noi, dai nostri comportamenti e dalle scelte alimentari.

Così la suggestione continua: seguendo le tradizioni orientali, prendersi cura della propria salute fisica e mentale è considerata una precisa responsabilità nei confronti di antenati e discendenti. E se fossimo assaliti dal dubbio che questi discorsi vertano sui massimi sistemi perché suonano come troppo grandi e astratti, ecco che la seconda parte del testo è corredata di una parte più concreta ed esperienziale attraverso le 5 contemplazioni del cibo: dono della terra, gratitudine, moderazione, riduzione della sofferenza, nutrimento di tutti gli esseri viventi. Si tratta di vere e proprie meditazioni “guidate”, dal reggere una tazza di tè a come lavare i piatti.

L’autore fa anche un accenno alla sofferenza di chi è in lotta con il cibo, vincolato da abitudini disfunzionali e da fatiche emotive. Nonostante non venga mai usata la parola dieta, il messaggio che viene incisivamente sintetizzato, è quello che è possibile stare bene mangiando con presenza mentale: quando mangiamo in consapevolezza consumiamo esattamente ciò che ci serve per mantenere in buona salute il nostro corpo, la nostra mente e la terra.

Il testo recensito sembra che diventi un invito, una laica suggestione che può trasformarsi in una possibilità, in un dono, quello di concedersi di essere presenti a se stessi nell’atto del nutrire il proprio corpo, che poi è anche nutrimento per l’anima.

Lo stadio pre-operatorio : “facciamo finta che?”

Ci accingiamo a esplorare lo stadio pre-operatorio: un mondo nuovo fatto di giochi da solo e con l’altro, giochi di fantasia, di associazioni, giochi con gli altri bambini e con la propria mamma in un universo ricco di stimoli è pieno di allegria.

 

Precedentemente abbiamo analizzato lo stadio senso motorio. Ci accingiamo ora a esplorare insieme al bambino lo stadio pre-operatorio un mondo nuovo fatto di giochi da solo e con l’altro, giochi di fantasia, di associazioni, giochi con gli altri bambini e con la propria mamma in un universo ricco di stimoli e pieno di allegria.

Il bambino ha due anni: iniziano le prime paroline ed ecco che in un batter d’occhio ci si ritrova seduti su una sedia a bere un finto the preparato da loro oppure presi in un campionato di rally tra le sedie della cucina.

Inizia lo stadio pre-operatorio

Piaget definisce questa fase, che va dai 2 ai 6 anni, come stadio pre-operatorio.

Il bambino inizia a maturare,compaiono le paroline e il bambino acquisisce concetti fondamentali per la sua crescita.

Le principali manifestazioni dello stadio pre-operatorio sono l’imitazione differita, il gioco simbolico e la presenza del linguaggio.

Ma cosa vuol dire “imitazione differita”? Basta pensare ad un bambino che assume un comportamento visto dal fratello o altro adulto e lo imita anche dopo diverso tempo ed in assenza del soggetto. Per Piaget questo deriva da una maggiore capacità del bambino di formare rappresentazioni mentali su azioni e comportamenti delle persone intorno a lui.

Il gioco durante lo stadio pre-operatorio

Ora che il bambino ha questa capacità può dedicarsi al gioco simbolico. Per Piaget esso implica la capacità del bambino di agire come se al di fuori del contesto normale e la capacità di utilizzare oggetti in sostituzione di quelli reali per esempio usare una scatola per simulare un telefono oppure un ferro da stiro, oppure una sedia per una macchina. Implica inoltre la capacità del bambino di mettere in scena azioni seguite da altri e l’abilità di collegare schemi di azioni differenti in sequenze tematiche correnti, dare cioè una sequenzialità a quello che sta facendo.

In questo stadio pre-operaorio il bambino grazie all’ indipendenza motoria che via via aumenta sente l’esigenza di trasformare l’oggetto in un compagno di vita, un partner metacognitivo al passo con lui e la sua crescita.

Scrive Piaget:

(…) Dopo aver appreso ad afferrare, dondolare, lanciare, il bambino prima o poi, afferra per il piacere di afferrare, dondola per il gusto di dondolare ecc. in breve egli ripete questo comportamento solo per il piacere di acquisire padronanza di esso e di mostrare il proprio potere di sottomettere la realtà (…) – da Piaget, “La formazione del simbolo nel bambino”, 1945

La capacità di camminare, afferrare e manipolare gli oggetti, prendere e sposare le cose danno al bambino sicurezza e gli permettono di muoversi ed organizzarsi al meglio nel proprio spazio di gioco.

Questo nuovo oggetto d’amore così concepito è reclutato a seconda di alcune caratteristiche salienti per il piccolo prime fra tutte la morbidezza, il colore, la forma.

La maggior parte delle bambine sceglie oggetti che abbiano per lo più una componente riconducibile all’aspetto umano, come ad esempio un peluche, in quanto dopo aver acquisito le capacità linguistiche, iniziano a rapportarsi con l’oggetto anche attraverso il linguaggio e quindi avere di fronte qualcosa che rappresenti un volto rende il tutto più agevole. Tipici dello stadio pre-operatorio sono l’animismo e l’artificialismo: i bambini pensano che anche i corpi immobili come le bambole o gli animali di plastica siano dotati di vita.

Ci sono anche casi in cui i bambini scelgono oggetti non propriamente con sembianze fisiche come macchinine o dinosauri. Acquisendo la capacità di stare da solo con l’oggetto il bambino consolida la fiducia in se stesso e sarà così più disponibile ad affrontare future situazioni che richiedano indipendenza.

A partire dal secondo anno di vita, quando nel bambino va sviluppando l’identità di genere, il gioco si va via via più raffinando e s’iniziano a notare differenze tra maschi e femmine. Il bambino utilizza il gioco come spazio scenico, di esplorazione e di costituzione dell’identità. È in questo scenario che acquista particolare importanza il gioco simbolico in quanto egli può fingersi ciò che non è.

Il bambino gioca ad impersonare ruoli diversi, esplorare luoghi sperimentando le sue diverse emozioni sia proprie che del suo “alter ego”.

Il bambino si finge madre, padre si traveste, accentua caratteristiche per lui interessanti di un determinato soggetto che interpreta. È nello stadio pre-operatorio che il gioco dell’immaginazione si sviluppa e permette alla sua fantasia di “correre” veloce in avventure, personaggi e ambienti diversi. In questa fase si vedono bambine che giocano alla mamma con le bambole, che si prendono cura del loro orsacchiotto, maschietti che fanno le parti del papà oppure insieme che cooperano per la risoluzione di storie fantastiche.

Inventano storie, recitano parti dando libero sfogo alla loro immaginazione o in alcuni casi esprimendo attraverso il gioco ansie, paure e traumi. Con il gioco il bambino è capace di raccontare un avvenimento a cui ha assistito mettendo in mostra anche le sue emozioni.

Il compagno di giochi del bambino viene investito da quest’ultimo di qualità e attributi diversi. Riveste un ruolo importante nella sperimentazione delle proprie paure. Ad esempio a volte vediamo il piccolo che sostiene sia la sua bambola o il suo amico immaginario ad avere paura, e lo rassicura, lo consola. La paura dal bambino è avvertita come qualcosa che dall’esterno penetra all’interno coinvolgendo l’ambiente, lo spazio e anche chi vi è dentro. Il bambino che consola il proprio giocattolo dà un beneficio a se stesso superando le proprie paure.

Il gioco simbolico è in consequenzialità con il gioco sociale. A tre anni i bambini iniziano a frequentare la scuola dell’infanzia ed li che iniziano le relazioni sociali con gli altri e mettono in campo se stessi e le loro capacità: i bambini si sperimentano.

Insieme agli altri sviluppano uguaglianze, differenze di ruolo di genere e d rango. Nel gioco con gli altri bambini è possibile apprendere qual è il ruolo atteso da loro e quali i comportamenti da attivare per essere accettati e approvati.

Il gioco sociale dipende oltre che dalle interazioni con la madre e con gli altri bambini anche dal contesto e dal tipo di giocattoli utilizzati. È molto più facile che si sviluppi nelle scuole dell’infanzia che a casa e man mano che il bambino acquisisce capacità linguistiche la collaborazione con gli altri bambini diventa sempre più articolato.

I bambini mettono in scena giochi di rincorsa, nascondino, scambio di ruoli. Il linguaggio permette loro di fare richieste, scambiarsi battute e cercare consensi. Situazioni queste molto importanti per entrare in contatto con l’universo dei bambini da parte dell’adulto per cercare di leggere e decodificare i desideri, i problemi, che il bambino proietta nel gioco.

Il gioco sociale permette l’assunzione di un ruolo sociale e di una responsabilità differente. Si vedono bambini che organizzano sfilate, the con le amiche, gare di auto o con gli animaletti.

In questa fase ognuno si sente parte del gruppo e tende a escludere i soggetti estranei. Esso fa acquisire una significativa valenza sociale rispetto a quella individuale ed egocentrica; a tale valenza è attribuita la funzione di modellamento nel processo d’interiorizzazione dei valori e delle norme sociali. Il bambino, superata la fase egocentrica, è portato a giocare con gli altri ed in gruppo.

Egli, attraverso questo tipo di gioco, è, pertanto, sottoposto a tutte quelle regole che favoriranno in lui la formazione del senso di responsabilità, di onestà e, soprattutto, di socialità. Il gioco non ha soltanto una funzione di socializzazione, ma ha anche un elevato valore educativo. Esso assolve, a tal proposito, non solo il compito di far sviluppare adeguatamente il linguaggio e di riequilibrare il mondo affettivo e relazionale del bambino, ma anche quello di eliminare o di attenuare le ansie e le paure, di agevolare lo scaricarsi dell’aggressività accumulata ed il processo di apprendimento.

A casa come in altri contesti il gioco è essenziale per il bambino. Nessuno in fin dei conti può dire di no davanti un bambino che ci chiede di giocare “a fare finta di”.

Anche successivamente allo stadio pre-operatorio, ovvero nello stadio operatorio-concreto che analizzeremo più in là, il gioco si riconferma come “ ingrediente” fondamentale per i futuri apprendimenti.

 

Lo psicologo nei Centri di Procreazione Medicalmente Assistita: quali possibilità?

L’espressione Procreazione Medicalmente Assistita si riferisce all’insieme di tecniche chirurgiche, ormonali o farmacologiche, che hanno lo scopo di aiutare gli individui a superare le difficoltà procreative causate dall’ infertilità di uno o entrambi i partner.

Federica Campitiello, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

I vissuti emotivi associati all’ infertilità

Desiderare un figlio e non riuscire a concepirlo rappresenta, di per sé, un momento di impasse nella vita emotiva e relazionale di coppia degli individui. Infatti, se in una ridotta percentuale di casi i soggetti mostrano di adattarsi bene alla circostanza che impedisce loro di procreare, più frequentemente la delusione della possibilità di avere figli genera nei soggetti ansia, depressione, sentimenti di inefficacia e calo dell’autostima. Già nel 1993, da una rassegna di Thiering e Beaurepaire, emerse che la condizione stessa di infertilità e il fatto di sottoporsi al trattamento sono alla base della sintomatologia ansiosa e depressiva delle donne.

In uno studio successivo (Brighenti, Martinelli et al. 1997) sono stati individuati alcuni fattori in grado di compromettere l’adattamento della donna alla terapia ed aumentarne il disagio, tra questi rientrano il rifiuto della possibilità di adottare, una storia di precedenti cicli falliti, la mancanza di lavoro e l’insoddisfazione per il proprio ruolo domestico. La relazione tra più cicli di trattamento falliti e l’aumento dei livelli di depressione è stato riscontrato anche da Beaurepaire e colleghi (1994), che spiegarono questo risultato come conseguenza dell’acquisizione di una maggiore consapevolezza circa la riduzione nel tempo delle probabilità biologiche di generare un figlio.

Chiaffarino e colleghi (2011) hanno analizzato i livelli di depressione in pazienti sottoposti a IVF (fecondazione in vitro) e ICSI (iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo), da prima dell’inizio del trattamento, fino al test di gravidanza, ed hanno concluso che parte dei pazienti che inizialmente non presentavano sintomi depressivi, li hanno poi sviluppati nel corso del trattamento, in particolare le donne, tra le quali era anche più frequente una comorbilità con sintomi d’ansia. Tra gli uomini i maggiori livelli di depressione sono stati riscontrati nei soggetti con lavoro temporaneo o part-time.

Knoll e colleghi (2009) hanno indagato i livelli di depressione in entrambi i partner nel corso del trattamento, evidenziando che se per gli uomini essi rimanevano stabili, nelle loro partner andavano invece incontro ad un aumento in occasione del prelievo degli ovociti e del trasferimento degli embrioni. In queste stesse fasi e nel giorno del test di gravidanza, Boivin nel 1998 ha rilevato un incremento dei livelli di stress non solo nelle donne, ma anche negli uomini.

L’importanza dello psicologo nei casi di infertilità e di procreazione medicalmente assistita

Questi dati rendono ancora più esplicita la necessità di approcciarsi al fenomeno dell’ infertilità in un’ottica multidisciplinare. La consulenza psicologica è uno strumento fondamentale per coloro che si confrontano con il problema dell’ infertilità. Come emerge da un’analisi recente della letteratura, le coppie sono molto provate a livello psicologico. Oltre alla consultazione medica, dunque, è opportuno inserire anche quella psicologica così da poter valutare non solo la presenza di un eventuale disagio, ma anche offrire un supporto per gestire e/o contenere in maniera efficace il malessere dei pazienti.

La legge n. 40/2004 stabilisce che tutti i centri che si occupano di PMA (procreazione medicalmente assistita) in Italia devono assicurare ai propri pazienti la possibilità di accedere a momenti di consulenza di coppia o supporto psicologico in qualsiasi fase del trattamento, anche quando questo si è concluso, indipendentemente dal risultato. Bisogna fare una distinzione tra consulenza decisionale, di sostegno, genetica e terapeutica. La prima può essere fornita anche dal medico della struttura ed ha lo scopo di accompagnare i pazienti nella comprensione delle opzioni di trattamento tra cui possono scegliere, informandoli di tutte le implicazioni che riguardano loro stessi, i loro famigliari e l’eventuale figlio che nascerà. La consulenza di sostegno è invece finalizzata a supportare i partner in particolari momenti di stress prima, durante e dopo il trattamento, ed anche nel caso in cui non possa essere messo in atto. La consulenza genetica è finalizzata a prevedere il rischio di trasmissione di anomalie genetiche. Infine la consulenza terapeutica ha lo scopo di aiutare i pazienti a moderare le proprie aspettative e a sviluppare strategie di coping che gli permettano di affrontare al meglio le difficoltà del trattamento.

Nel Marzo 2015, la European Society of Human Reproduction and Embriology (ESHRE) ha pubblicato un documento contenente le linee-guida che gli staff dei centri di Procreazione Medicalmente Assistita internazionali dovrebbero seguire per migliorare l’offerta sanitaria ai propri pazienti. Esse sono state sviluppate a partire da un importante lavoro di revisione di tutti i dati disponibili su questo tema da Gennaio 1990 fino ad Aprile 2014. Nella premessa del manuale viene sottolineato che tali indicazioni non vogliono sostituirsi al giudizio clinico del medico e di tutti i componenti dello staff, che di volta in volta dovranno essere in grado di cogliere e valutare le caratteristiche specifiche dei pazienti.

Le linee-guida fanno riferimento a 3 modelli di consulenza psicologica: 1) “Decision Making counseling” , effettuato prima di un possibile trattamento, consentirebbe alle coppie di riflettere e comprendere le implicazioni e i significati che un trattamento può avere per loro, per gli eventuali figli e per le loro famiglie; 2) “Support counseling” finalizzato a fornire sostegno nei momenti di difficoltà e di stress; 3) “Therapeutic counseling” che si pone l’obiettivo di assistere le coppie e aiutarle ad acquisire gli strumenti necessari per affrontare i trattamenti.

Inoltre le linee-guida fanno riferimento ai 3 momenti principali del percorso di Procreazione Medicalmente Assistita, dall’ingresso in clinica alla comunicazione dell’esito della procedura. Per ogni momento devono essere presi in considerazione i bisogni del paziente a livello comportamentale, relazionale, sociale, emotivo e cognitivo. Attualmente, non vi è uniformità negli interventi psicologici eseguiti all’interno dei centri di procreazione medicalmente assistita.

Un tentativo di concettualizzazione sistematizzata del counseling psicologico in tali centri è stato effettuato da Cecotti M. (2004) e da Visigalli R. (2008). Cecotti scrive che il counseling psicologico da effettuare nei centri di procreazione medicalmente assistita si pone come obiettivi quelli di individuare la presenza di fattori psicologici coinvolti nella condizione di infertilità e di verificare eventuali sterilità psicogene e aspetti psicologici antecedenti la diagnosi. Inoltre, ha una finalità anche terapeutica che consiste nel curare ansie che interferiscono con la fertilità, nell’alleviare la sofferenza psichica e nel cercare di leggere i significati che la sterilità assume all’interno di ogni coppia. La Visigalli nel libro “Sterilità e Infertilità di coppia”(2008) , propone una modalità di intervento psicologico che si struttura in due fasi: Una prima fase di preparazione all’intervento psicologico che si articola in un colloquio iniziale, nella somministrazione di test psicologici e un colloquio finale di restituzione; una seconda fase in cui, partendo dalle informazioni raccolte nella prima fase, si struttura come intervento terapeutico specifico che varia sulla base delle caratteristiche, dei bisogni e degli aspetti cruciali di ciascuna coppia. In questo modo è possibile fornire uno spazio in cui poter parlare liberamente del proprio disagio, fornire supporto e contenimento emotivo durante la visita e gli esami, fornire supporto durante la comunicazione della diagnosi e aiutare le coppie a maturare la scelta più appropriata dopo la comunicazione della diagnosi. Nonostante le lacune in termini di omogeneità di intervento nei vari centri di Procreazione Medicalmente Assistita appare evidente, considerate le linee guida e le nuove modifiche legislative, la necessità di implementare la formazione degli psicologi su tali tematiche.

La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”.

Dal nostro punto di vista il dibattito si riduce alla domanda: la relazione terapeutica è il luogo di analisi principale degli accadimenti clinici, il luogo risolutivo dove agire, o è solo una delle possibili variabili in varia misura importanti della terapia? È il bersaglio privilegiato o è una possibile scelta, che può dipendere anche dalle preferenze del terapista e dalla sua formazione? Ovvero dov’è il collo di bottiglia, il bottleneck dove agire?


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017
  10. Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio – 24 Luglio 2017
  11. La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”. – 24 Luglio 2017

La relazione terapeutica è il nocciolo di questo dibattito, o meglio uno dei due corni. In questo articolo lasciamo da parte l’altro corno del dibattito di cui abbiamo già scritto qui, ovvero il possibile rischio dell’instaurazione di un rapporto privilegiato tra teoria relazionale del cambiamento e teoria “traumatistica” della psicopatologia.

Non vogliamo cavarcela con un irenico: tutto è importante e basta un po’ di buon senso. Possiamo concedere l’importanza della relazione entro i termini confermati dalla ricerca empirica –a nostro parere meno ampi di quanto alcuni pensano- ma temiamo che questo non basti a Dimaggio e Monticelli e che non sia questa la vera materia del contendere. Possiamo sbagliarci, ma crediamo che questa materia riguardi appunto il collo di bottiglia, l’individuazione del bersaglio risolutivo della strategia terapeutica. E quindi riguardi anche l’identità personale del terapista, il modo in cui lavora, il modello in cui si riconosce e quello che ha imparato a fare. Con tutto il correlato di forti passioni che accompagna i pensieri identitari.

La relazione terapeutica: il bottleneck della terapia per molti cognitivisti in Italia

Il nostro parere è che almeno dal libro del 1991 di Antonio Semerari intitolato “I processi cognitivi nella relazione terapeutica” una significativa parte del cognitivismo clinico italiano abbia individuato nella relazione terapeutica e nell’intervento interpersonale il risolutivo bottleneck, il collo di bottiglia su cui agire, l’elemento privilegiato e decisivo senza il quale tutto il resto non funziona e che da solo già garantisce la significatività dell’azione terapeutica. E in tale scelta –legittima- esso si sia definito, parzialmente distinguendosi da una tradizione cognitiva differente che questo collo lo cerca altrove: un tempo le credenze cognitive, più recentemente i processi metacognitivi e mai particolarmente la relazione. O meglio: mai identitariamente la relazione.

Non è solo clinica, è anche teoria. Da allora ci pare che dalle nostre parti si sia iniziato a pensare che soprattutto nella relazione interpersonale le operazioni mentali -cognitive e metacognitive- prendano vita e siano attive mentre esse al di fuori della relazione non siano altro che algoritmi inanimati. Si tratta della dimensione interpersonale della coscienza come unica e vera manifestazione della cognizione, senza la quale essa è lettera morta e non spirito vivente e attivo. La migliore esposizione di questo paradigma, accanto a quella di Semerari, la si trova in Giovanni Liotti, nel suo libro del 1994 intitolato significativamente “La Dimensione Interpersonale della Coscienza”.

Riconosciamo che questo paradigma non è solo una teoria ma si basa su vari dati empirici, sia non clinici che clinici: dati non clinici di provenienza evolutiva, evoluzionista e neuro-scientifica e dati clinici provenienti dalle ricerche sul processo terapeutico effettuate nell’ambiente della Society for Psychotherapy Research (SPR), un ambiente nominalmente meta-teorico, ma in realtà dotato di un suo paradigma preciso e di una sua identità distinta da quello del cognitivismo clinico e che è quello dei “fattori comuni”, modello che ha un suo rapporto stretto e simbiotico con il paradigma relazionalista; ma questo lo spiegheremo meglio più avanti.

Il modello neuroscientifico ed evoluzionista della mente

Vediamo prima i dati evolutivi e neuroscientifici. Essi si richiamano agli studi di vari autori, da Michael Gazzaniga (1985) a Michael Tomasello (Tomasello e Call, 1997), da Daniel J. Siegel (2012) a molti altri. Si tratta del modello già menzionato della mente come entità che prende vita soprattutto nell’interazione sociale e interpersonale. Esso non è solo neuroscientifico ma anche evoluzionista perché teorizza che è nel passato evolutivo che possiamo trovare alcune delle prove che la cognizione nasca nella dimensione interpersonale della coscienza. Ad esempio nell’atto primordiale di indicare la preda. Nella notte dei tempi un Homo Sapiens indicò una preda da cacciare a un suo compagno. Quel complesso atto cognitivo che fu riconoscere un animale, indicarlo al compagno e significare, per mezzo di quell’atto, una complessa azione di caccia, cattura e uccisione di una preda -legata a sua volta a sofisticate intenzioni pratiche, sociali e cognitive, come cucinarla, procurare da mangiare al proprio gruppo, ottenere rispetto e onore nella tribù e così via- avvenne soprattutto attraverso un episodio interpersonale: io che indico a te –amico mio- e ti propongo una cosa da fare assieme. Al di fuori di quella interazione non era e non è possibile alcuna cognizione. Al di fuori di quella interazione non era e non è possibile l’esistenza di una mente.

Siamo consapevoli dei nostri limiti e non abbiamo intenzione di discutere con Gazzaniga e Tomasello. È il salto successivo che per noi è discutibile, il passaggio dalle neuroscienze alla clinica: l’idea che questo dimostri che anche in clinica ogni atto terapeutico sia risolutivamente (attenzione all’avverbio: “risolutivamente”, non “anche”) relazionale e interpersonale e in quella sede vada concettualizzato clinicamente e gestito tecnicamente. Ci sono vari teorici che hanno delineato questo passaggio dalle neuroscienze alla clinica, come in Italia Gianni Liotti nel suo “Le Opere della Coscienza” (Liotti, 2001) o all’estero Safran e Muran nel loro “Negotiating the Therapeutic Alliance: A Relational Treatment Guide” (2000) o lo stesso Siegel (Solomon e Siegel, 2003). I casi di Siegel e Liotti sono interessanti perché concatenano teoria intepersonale della mente e centralità della relazione in terapia con specificità di questo paradigma per la clinica del trauma. Di questa specificità, che è la pennellata finale che mette assieme trauma a relazione, però in questo articolo non parleremo.

Dai dati empirici ai salti logici

Naturalmente in questi e altri testi sono riportati vari dati empirici e clinici interessanti che sono oggettivamente a favore della presenza dell’azione della relazione terapeutica in psicoterapia ma che, a nostro parere, non sono conclusivi come argomenti a favore del ruolo assolutamente risolutivo della relazione terapeutica. Ribadiamo: assolutamente risolutivo. Che la relazione abbia un ruolo concomitante lo accettiamo. Dalla concomitanza però in alcuni colleghi si passa alla risolutività della relazione attraverso quelle che sono delle ipotesi stimolanti ma da verificare; prese per garantite espongono al rischio di possibili salti logici.

Queste ipotesi a rischio di salto logico ci paiono essere:

1) l’esemplarità (non solo l’esistenza, si badi bene: l’esemplarità) del cosiddetto “paziente difficile” (Perris e McGorry, 1998), ovvero colui che ha dei gravi deficit relazionali e che quindi non migliora non solo perché particolarmente grave, ma perché ha un problema evolutivo e relazionale che sottende e regge tutto il suo problema cognitivo e che gli impedisce di ingaggiarsi nella terapia; ovviamente sull’esistenza di questo paziente siamo d’accordo, meno lo siamo sulla sua esemplarità;

2) non solo l’utilità di conoscere alcune meccaniche della relazione per riuscire ad cooperare con questo tipo di paziente (anche qui possiamo essere d’accordo, ma le chiamiamo umilmente good practice) ma di nuovo l’esemplarità delle tecniche relazionali, la necessità di agire non anche, ma solo e soprattutto sulla relazione con questo tipo di paziente, perché è il problema relazionale che –ribadiamolo- avrebbe letteralmente impedito alla mente di svilupparsi e quindi solo li si dovrebbe cercare e curare la disfunzione cognitiva. Questi concetti poi spesso si allargano fino all’idea che –almeno secondo alcuni colleghi- in fondo tutti i pazienti siano difficili e che quindi con tutti i pazienti occorra operare sempre e soprattutto a livello interpersonale. Insomma temiamo che il concetto del “paziente difficile” sia stato gonfiato scorrettamente applicandolo all’intera popolazione clinica e utilizzato surrettiziamente per suggerire che la terapia passa soprattutto per la relazione. Vi è poi un altro salto logico, che essendo tutti i pazienti difficili allora sono tutti traumatizzati, a cui dedicheremo un altro articolo.

 

È in base a queste ipotesi che ci pare che per alcuni nostri colleghi –che condividono con noi l’etichetta di terapeuti cognitivi- identifichino il collo di bottiglia con la relazione. Sappiamo che invece la terapia cognitiva ritiene che esso sia altrove. Non perché la terapia cognitiva neghi la relazione, ma perché ipotizza che i fattori risolutivi su cui essa agisce clinicamente si situano a livello delle credenze cognitive (seconda ondata) o dei processi metacognitivi (terza ondata).

Siamo ben coscienti però anche che il modello cognitivo stia affrontando una sua crisi teorica e che ci siano nuovi dati a favore di altri modelli, tra i quali quelli che lavorano sulla relazione. La domanda è: in che misura è vero che i dati a favore dei modelli alternativi andrebbero soprattutto nella direzione della relazione? E in che misura il movimento cognitivo sta reagendo alla crisi investendo sulla variabile della relazione? O forse sta andando altrove? Riflettiamo attentamente: la “terza ondata” è relazionale?

Gli argomenti clinici in parte empiricamente fondati di solito presentati a favore di un modello alternativo non generico ma ben preciso in cui il bottleneck sia la relazione di cui siamo a conoscenza sono due. Ce ne sono sicuramente molti altri, qui discutiamo questi due. Il primo argomento è quello dei “fattori comuni” del grafico a torta di Lambert (1992), argomento di scuola SPR, e il secondo è quello dell’ipotesi del cosiddetto “paziente difficile”. Esploriamoli criticamente assieme.

 

1 – L’argomento dei “fattori comuni”: i rischi di una definizione lassa di relazione terapeutica

Il dato empirico a favore dei “fattori comuni” è solido. Nel 1992 Lambert dimostrò, rappresentando il risultato finale in un ormai famoso grafico a torta, che la percentuale di miglioramento dei pazienti in psicoterapia è attribuibile per il 40% alle risorse proprie del paziente, per il 15% a un effetto placebo, per un altro 15% alle “tecniche” specifiche dei vari orientamenti (cognitivo, psicodinamico, sistemico, e così via) e infine per il 30% ai cosiddetti “fattori comuni”, ovvero empatia (empathy), calore (warmth), accettazione (acceptance), incoraggiamento (encouragement), e così via.

Ora, in che senso questo dato è interpretabile come risultato a favore della “relazione”? Come abbiamo intuito, è possibile farlo sovrapponendo -con qualche forzatura- “fattori comuni” a “intervento relazionale” e “tecnica” a “intervento cognitivo” (ma anche metacognitivo). In questo modo “relazione” batte “intervento specifico cognitivo”: 30% contro 15%.

Ora, questa sovrfattori comuni - Lambert 1992apposizione è discutibile ma può essere in una certa misura scientificamente corretta e perfino stimolante per alcuni motivi, ma in base a questi motivi è talvolta surrettiziamente usata da quei relazionalisti (non tutti) che vogliono vincere facile. Il primo motivo è che nei “fattori comuni” di Lambert è effettivamente possibile intravedere concetti relazionali: empatia, calore, accettazione, incoraggiamento, e così via. In questa forma il dato sul ruolo relativamente maggioritario della relazione è accettabile. Tuttavia c’è un prezzo per questa vittoria perché questo dato non permette il passo successivo, quello che darebbe davvero alla relazione il ruolo di elemento privilegiato e risolutivo in cui agire consapevolmente come terapisti, sul quale investire e scommettere come ricercatori e nel quale addestrarsi intensamente durante il proprio percorso di formazione. Perché?

Perché il dato di Lambert vale per qualunque psicoterapia. Non è affatto a favore di una terapia primariamente relazionale e interpersonale che accolga in sé esplicitamente soprattutto il lavoro sulla relazione terapeutica. Vale anche per un comportamentista che si limita a fare un’analisi funzionale e a prescrivere esercizi di esposizione. Vale anche per uno psicoanalista freudiano che si limita a interpretare le pulsioni. Vale per un terapista REBT (rational emotive behavior therapy) che si limita a lavorare sulla disputa delle credenze irrazionali e non parla e nemmeno pensa mai alla relazione. Insomma, nel dato di Lambert la relazione funziona anche se il terapista non ne fa il bersaglio consapevole del suo agire e non si è formato specificamente su di essa.

La relazione in pratica, senza la teoria

Del caso del terapista REBT che sa usare la relazione senza averla mai teorizzata e senza essersi formato sulla relazione abbiamo un esempio meraviglioso. Lasciatecelo raccontare. Nell’agosto 2013 uno degli autori di questo articolo (n.d.r., Ruggiero) si recò al congresso annuale dell’APA, l’American Association of Psychology, che quell’anno si svolgeva a Honolulu nelle isole Hawaii e assistette a un simposio tra Michael Lambert in persona (proprio lui!) e Stevan Nielsen, di cui Ruggiero è amico stretto; notazione non futile per corroborare le informazioni sullo stile terapeutico di Nielsen che qui riportiamo. Nielsen è un terapista REBT estremamente ortodosso, famigerato per la sua ortodossia perfino all’interno del mondo REBT. Insomma, il diavolo e l’acqua santa. Nielsen nella sua presentazione mostrò un filmato di una sua seduta molto REBT con un giovane studente universitario affetto da depressione, tristezza, apatia, rallentamento e confusione del proprio progetto di vita, insomma non il solito ansiosetto da terapia cognitiva. Egli poi mostrò dei dati empirici in cui dimostrava che lui, Nielsen, riporta sistematicamente da decenni i risultati di efficacia personale tra i migliori (Nielsen sostiene addirittura: migliori senza “tra”) nel servizio di psicoterapia per studenti della Brigham Young University dello Utah dove lavora. Migliori di tutti i suoi colleghi di varissima formazione e riportati con tutti i tipi di pazienti, compresi i disturbi di personalità e altri tipi di pazienti “difficili” (Nielsen, DiGiuseppe, Erekson, Lambert, Pedersen e Williams, 2013).

L’obiettivo di Nielsen era chiaro: caro Lambert ti dimostro che io, che non lavoro esplicitamente sui “fattori comuni” (e quindi in un certo senso non lavoro sulla relazione terapeutica), riporto sempre i risultati migliori -misurati empiricamente con scale di valutazione, sia chiaro!- rispetto a colleghi di tutti gli orientamenti, compresi relazionalisti di varia provenienza (pare che ormai ogni orientamento abbia una sua ala relazionalista, non solo noi cognitivisti).

Come rispose Lambert? Interpretando i dati, naturalmente. Non lo metti nel sacco facilmente, Lambert. Egli disse che i “fattori comuni” sono appunto comuni, sono quegli aspetti presenti in automatico in ogni terapia e che quindi anche Nielsen li aveva usati massicciamente senza farci caso mentre faceva la sua REBT. Tanto è vero che nel filmato Nielsen si era dimostrato estremamente direttivo, spietato con le credenze irrazionali e didattico in stile REBT, ma anche caloroso, accogliente ed empatico, e così via.

Riflettiamo. D’accordo, caro Lambert, hai vinto tu, ma la materia del contendere con Dimaggio e Monticelli è un’altra. Se i “fattori comuni”, nei quali dovrebbero esserci soprattutto le abilità relazionali, si mettono in azione in automatico in ogni terapista sufficientemente esperto e formato, qualunque sia la sua formazione, tanto è vero che funzionano anche in un modello come la REBT che è famigeratamente disinteressato alla relazione (in realtà limitandosi a non farne il concetto centrale), finiamo per concludere che la relazione è dappertutto e in nessun luogo, e ci si chiede quindi anche in che misura sia controllabile, quanto sia passibile di miglioramenti ottenibili attraverso un suo uso sempre più consapevole e quanto abbia senso una formazione e un modello che privilegino questa abilità che è al tempo stesso sofisticatissima e alla portata di tutti; un po’ come l’esprit de finesse di Pascal: nessuno sa definirlo, ma tutti sanno apprenderlo per mimesi gestuale e sociale, un itinerario complesso ma che non è necessario formalizzare in un percorso di apprendimento scolastico. “Esistono corsi su come usare martelli e scalpelli, invece non esistono corsi su come ciascuno di noi risponda ai propri pazienti”. (Bara, intervento in mailing list SITCC del 19 luglio 2017). Che è poi quel che diciamo anche noi: la didattica della relazione è a rischio di indefinibilità, anche se non arriveremo a sostenere che non sia insegnabile. Lo è, in parte. Semmai temiamo che non sia fruttifero costruirci un intero training intorno e un intero paradigma cognitivo-interpersonale sopra. Attendiamo però un intervento di Bruno Bara più strutturato, sapendo che non è del tutto corretto appiattire il pensiero di un collega a un messaggio di una mailing list, sia pure di una società scientifica.

La relazione terapeutica: un fattore pervasivo ma non risolutivo?

Ora, a noi pare che di questo dato Dimaggio, Monticelli e anche Bara abbiano ben poco di cui rallegrarsi e che, così definita, la relazione rischi di diventare un fattore pervasivo ma non risolutivo della psicoterapia. Lo ribadiamo: pervasivo ma non risolutivo. La relazione può avere inoltre degli aspetti operativi, ma va insegnata senza dimenticare quanto a tratti i suoi aspetti operativi siano rischiosamente ovvi. È in questo senso che la relazione fa sospettare di essere meno promettente di quel che sembra. Il progresso clinico deve puntare su colli di bottiglia che assicurino incrementi di efficacia, non su aspetti così pervasivi e coestensivi –come scrive Inverso- da produrre quelle che sono vittorie scientifiche di Pirro, in cui invece che convincerci che la relazione vada studiata e approfondita si arriva alla conclusione che la relazione è talmente onnipresente che già la stiamo usando –e bene!- anche noi gelidi terapisti non relazionalisti. E una teoria davvero stimolante dovrebbe anch’essa puntare sulla esplorazione di fenomeni strategici che davvero assicurino un incremento di conoscenza pratica e non la produzione di scenari cosmologici onni-comprensivi che descrivono molto e agiscono su poco. Veri si, ma di una verità più ermeneutica che scientifica.

A noi pare che soprattutto Monticelli rischi di finire in questo ultimo scenario. Il tentativo di fissare in variabili controllabili il monumentale modello evoluzionista di Liotti che riallaccia una psicoterapia di oggi all’atto primigenio del cacciatore ancestrale ha prodotto un complesso sistema di misurazione della interazione dei sistemi motivazionali nella relazione clinica, l’AIMIT (Analisi degli Indicatori della Motivazione Interpersonale nei Trascritti) che descrive minuziosamente il processo relazionale della seduta (Liotti e Monticelli, 2008) ma rischia di diventare un indice dell’andamento della terapia che però è troppo dettagliato per essere facilmente maneggevole. Probabilmente è proprio l’anti-tecnicismo di Liotti e Monticelli e il loro puntare tutte le fiches terapeutiche sulla comprensione del paziente che li indirizza a un simile livello di dettaglio. Esagerando consapevolmente evochiamo l’iperbole della proverbiale mappa estesa quanto l’intero territorio che essa rappresenta. Ecco il guaio della co-estensività che tu insegui, caro collega Angelo Inverso. Attenzione allora ad acquisire frettolosamente al proprio campo il dato dei “fattori comuni” di Lambert.

 

La relazione come strumento specifico: rotture e riparazioni, esperienza condivisa, esperienza emozionalmente correttiva e self-disclosure.

Stabilito che appiattire la relazione sui “fattori comuni” ha i suoi vantaggi -vinci facile- e i suoi rischi -il concetto perde di potenza esplicativa e diventa poco promettente- per procedere oltre occorrerebbe mettersi d’accordo su quale sarebbe lo specifico dell’intervento relazionale. Davvero non possiamo più limitarci ai “fattori comuni”, al calore e all’accoglimento di Lambert.

Molti modelli relazionali sono più sofisticati dei “fattori comuni”. Gli interventi specificatamente relazionali sono probabilmente tanti e per discuterli ci vorrebbe un libro. Qui tentiamo solo di delineare meglio una idea che ci siamo fatta noi di un mare fin troppo esteso, appoggiandoci su una delle tante rating scale, in grado di darci definizioni operative. Una delle più dettagliate ci pare essere la Comprehensive Psychotherapeutic Interventions Rating Scale (CPIRS, Trijsburg et al., 2002) che definisce un’ottantina di interventi tra cui 11 interventi di area relazionale:

 

  1. Empatia e accettazione – Comprensione precisa e sensibile delle esperienze e sentimenti del paziente e del loro significato per il paziente. Validazione non giudicante delle esperienze o dei vissuti del paziente.
  2. Coinvolgimento – Il terapeuta accentua l’attenzione a ciò che il paziente dice e cerca la sintonia al fine di raggiungere un’esperienza condivisa.
  3. Collaborazione – Il terapeuta fa uno sforzo per coinvolgere il paziente e mantenere la collaborazione nel processo terapeutico.
  4. Incoraggiamento supportivo – Sottolineare e/o riconoscere i cambiamenti positivi nel paziente o confermare  e approvare i risultati raggiunti o incoraggiare il paziente ad andare avanti in modo che i cambiamenti positivi possano essere raggiunti. Ricapitolazione del lavoro effettuato in rapporto all’agenda, sottolineando i risultati positivi.
  5. Esporre e condividere il razionale della terapia – Spiegare il metodo terapeutico e sottolineare la relazione tra metodo e diminuzione o risoluzione dei problemi del paziente.
  6. Terapeuta come esperto, Guida esplicita, Controllo attivo e Approccio didattico – Comunicare al paziente che il terapeuta conosce i suoi problemi, è in grado di valutarli, e che ha esperienza e competenze sufficienti per aiutare il paziente. Il terapeuta guida la conversazione decidendo in maniera esplicita il contenuto o modificando la direzione, oppure mantenendo un certo contenuto o di messa a fuoco. Interrompe regolarmente il paziente, fa domande o aggiunge qualcosa alla conversazione. Insegna nozioni di psicologia e/o scientifiche che possono aiutare il paziente a capire e gestire il proprio vissuto.
  7. Self-disclosure – Raccontare al paziente un’esperienza personale per normalizzare i suoi vissuti.
  8. Challenging – Sottolineare le aspettative irrealistiche, gli obiettivi extra-terapeutici (es. cambiare gli altri)
  9. Impostare e seguire attivamente l’agenda – Ricordare a inizio seduta il razionale della terapia e il senso degli interventi e dei compiti a casa, assegnando e rivedendo a inizio seduta i compiti a casa.
  10. Auto-monitoraggio – dei propri vissuti verso il paziente, stando attenti ai propri bias interpersonali
  11. Intervento sulla relazione – Collegare la relazione terapeutica allo stile relazionale del paziente

Undici interventi sono tanti. Naturalmente di alcuni si potrebbe esaminare la natura specificamente relazionale di ognuno, ma non è questo il nostro obiettivo. Intendiamo semmai confrontare queste definizioni operative con i modelli teorici di psicoterapia più puramente relazionali che conosciamo al fine di poterli discutere con onestà intellettuale. Citiamo tra i tanti il modello delle rotture e riparazioni di Safran e Muran (2000), adattato da Aspland alla terapia cognitivo-comportamentale standard (Aspland et al, 2008) quello metacognitivo-interpersonale di Semerari e poi di Dimaggio (Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò & Procacci, 2007) o anche la terapia cognitivo-interpersonale sul trauma (torna il trauma!) di Solomon e Siegel (2003) e per certi aspetti la svolta relazionale di Mitchell (1988) nel paradigma psicodinamico.

 

Confrontando le definizioni operative della CPIRS con questi modelli, a spanne ci pare di individuare un’area dei “fattori comuni” alla Lambert che corrisponde agli interventi dall’1 al 5. Quest’area non ci interessa più, la abbiamo già discussa a sufficienza. Seguono altre due grandi aree di intervento più specifico sulla relazione. La prima –più pura- sembra essere costituita da interventi strategici di gestione della relazione stessa, in cui il terapista non cadrebbe nelle trappole relazionali del paziente e, così facendo, mostrerebbe in vivo ed esperienzialmente nuovi schemi al paziente. In tal modo la relazione diventerebbe uno strumento ben distinto dall’analisi verbale esplicita. Dimaggio e Lorenzini ne hanno fornito vari esempi nei loro interventi. Probabilmente l’AIMIT di Liotti e Monticelli al suo meglio vorrebbe essere un indice di questi accadimenti, quando il terapista oppone a stati motivazionali non cooperativi del paziente le proprie attitudini più cooperative. Nella CPIRS ci pare che questa area corrisponda all’intervento 10 e forse in parte all’8.

 

L’altra area –forse più spuria- sembrerebbe consistere in interventi espliciti, in cui si parla e si analizza lo stile relazionale del paziente in varie situazioni ma soprattutto in una ben determinata interazione, che avrebbe il vantaggio di essere dal vivo: quella con il terapista stesso. Nella CPIRS questa area corrisponderebbe all’intervento 11.

Un’osservazione: nel suo intervento il collega Angelo Inverso suggerisce che l’analisi in terapia di schemi interpersonali esterni alla terapia sia in automatico un intervento interpersonale. Non siamo d’accordo. Un intervento relazionale non deve limitarsi a esplorare aspetti relazionali, ma deve configurarsi in una maniera tale per la quale è la relazione l’elemento risolutivo. A nostro parere solo quando si collega la relazione terapeutica allo stile relazionale del paziente l’intervento è specificamente relazionale. E perché? Perché in questo caso sarebbe possibile non solo riformulare cognitivamente ma anche vivere, capire e ristrutturare la disfunzione nell’esperienza interpersonale. La qualità interpersonale risiede –liottianamente- nell’incarnazione della fredda e razionalistica analisi cognitiva in una esperienza relazionale vissuta che però sia gestita consapevolmente a fini terapeutici.

Questo invece non accade in automatico nella eventuale analisi di una relazione esterna alla diade paziente-terapista, solo raccontata e non vissuta. E questa è una risposta a un argomento di Inverso, che pare sostenere che basti parlare in seduta di situazioni interpersonali per effettuare interventi interpersonali. A noi pare semplicistico e ci pare anche un segnale della tendenza dei relazionalisti a usare definizioni che fanno diventare tutto relazionale. Non ci pare sufficiente.

Proseguiamo. Nella CPIRS vediamo in posizione 7 la self-disclosure, intervento particolarmente amato da Dimaggio, che anche noi aggiungiamo al gruppo degli interventi relazionali specifici. In che senso riteniamo che la self-disclosure sia specificatamente relazionale? Perché riteniamo che nella self-disclosure il passaggio decisivo non è tanto la ristrutturazione cognitiva normalizzante, ma l’esperienza interpersonale di condivisione che normalizza sul serio.

Rimangono due interventi, il 6 e il 9. Il 6 definisce un po’ lo stile relazionale del terapista cognitivo, attivo e didattico. Ci pare però più un “fattore comune” sia pure caratteristico dei terapisti cognitivi, ovvero un intervento appartenente più alla good practice che a un paradigma relazionale in cui la relazione esplichi un ruolo risolutivo per il cambiamento terapeutico. Il 9 ci pare un’altra good practice, ovvero un fattore comune che definisce le qualità che consentono al terapeuta di rispettare l’agenda e quindi di eseguire i protocolli. Con buona pace di chi contrappone relazione e protocolli, ma non intendiamo sviluppare anche questa polemica.

Insomma, gli interventi 7, 8, 10 e 11 ci consentono definizioni della relazione più stringenti che vanno al di là della good practice e più applicabili a modelli meno generici dei “fattori comuni” di Lambert. In qualche modo vanno verso l’aspirazione di Semerari e Dimaggio a concatenare insieme teoria evoluzionista interpersonale, teoria della patologia come deficit metacognitivo derivato da una carenza evolutiva relazionale e protocolli terapeutici certamente metacognitivi ma in cui gli interventi metacognitivi espliciti devono la loro operatività e vitalità a interventi specificatamente relazionali e operativi, come l’“esperienza condivisa” nella relazione terapeutica delle carenze interpersonali (Semerari) e ancor più operativamente, la self-disclosure nella shakespeariana interpretazione di Giancarlo Dimaggio.

Una definizione più stretta della relazione che rinuncia ai fattori comuni

Molto bene, ma queste definizioni più stringenti e operative di relazione hanno un prezzo: occorre rinunciare alla facile vittoria conseguita con il lasso concetto di “fattori comuni” alla Lambert, quel 30% di miglioramento prodotto in automatico da ciò che si fa relazionalmente in ogni terapia –comprese le terapie intenzionalmente arelazionali- e andare a dimostrare che lo specifico relazionale del trattamento metacognitivo interpersonale, ovvero l’esperienza condivisa e la self-disclosure e molto altro non solo sono efficaci –ma un semi-trial più o meno randomizzato e più o meno naturalistico ormai non si nega a nessuno, come purtroppo stiamo cominciando un po’ tutti a capire- ma si dimostrino essere significativamente più efficaci degli altri trattamenti e in grado di offrire un reale incremento di efficacia, di competenza e di conoscenza. Questo sarebbe l’argomento conclusivo. Altrimenti, la relazione vince ma solo nei termini annacquati di Lambert. E scopriamo che sappiamo già costruirla anche se non sapevamo di usarla e che tutti i terapeuti sono bravi a gestire la relazione, come nel verdetto di Dodo.

La relazione come tecnica?

Non basta. Se poi la sovrapposizione tra relazione e “fattori comuni” fosse semplicistica e forzata, c’è da chiedersi: ma allora nel grafico a torta di Lambert la relazione dov’è? Nella “tecnica”? La relazione come una “tecnica”, uno strumento da adoperare consapevolmente, con indicatori, protocolli e così via? In questo caso però:

1) la relazione va appunto protocollizzata rigidamente, come pare abbiano fatto Safran e Muran e come pare si stiano sforzando di fare Semerari e Dimaggio, così diventando una tecnica riproducibile e insegnabile e non un’arte da trasmettere in un’esperienza iniziatica, e deve dimostrare di essere superiore a modelli che non pongono al centro la relazione, perché non è affatto vero che tutti i nuovi modelli si siano buttati sulla relazione, anzi! E poi sul ridurre la relazione a una “tecnica” non so quanti relazionalisti siano d’accordo e ancor meno quanti di loro saranno contenti;

2) in questo caso la relazione potrebbe doversi accontentare di una fetta –non tutta- del misero 15% riservato alla “tecnica”; 3) infine l’argomento che la relazione è più importante della tecnica perché 30% dei “fattori comuni” è più del 15% della “tecnica” va a farsi benedire, perché appunto la relazione non sta più nei “fattori comuni”. Oppure si dirà (co-estensivamente, come vuole il collega Inverso) che la relazione comprende sia i “fattori comuni” che la “tecnica”, dato che i “fattori comuni” sono relazione e ogni “tecnica” è sempre relazionale perché ogni atto mentale nasce nella relazione. Così però la definizione di relazione smette di essere operativa con tanti saluti alle innovazioni di Semerari e Dimaggio e di Safran e Muran e vince facile, prendendosi il 45% e magari anche il resto e chiudiamo. Insomma, delle due l’una: o la relazione è co-estensiva coprendo moltissimo e spiegando poco, oppure è operativa, spiega qualcosa ma la smette di pretendere il posto di una egemonia di default e torna a essere un possibile sviluppo tra i tanti, non più obbligatorio ma solo preferenziale.

 

2 – L’argomento del “paziente difficile”

Tuttavia, anche definendo la relazione in maniera più stringente e rinunciando alla fetta del 30% dei “fattori comuni”, vi è un secondo argomento in base al quale la relazione potrebbe reclamare il ruolo di variabile cardine dell’intero cambiamento terapeutico. Ed è una strada che passa per il “paziente difficile” e non per i “fattori comuni”. È una strada differente e più stimolante di quella di Lambert, anche perché se questo “paziente difficile” è appunto difficile, che vantaggio avremmo nell’usare su di esso i “fattori comuni”, ovvero quello che impariamo dappertutto e usiamo in ogni caso, qualunque sia il training che abbiamo scelto? Il paziente difficile vuole degli interventi specifici e non comuni.

L’argomento che sostiene che la relazione è l’elemento risolutivo perché ci sono “pazienti difficili” (Perris e McGorry, 1998) è giustificato in via teorica dall’ipotesi che la scarsa collaborazione in terapia di questi pazienti dipenderebbe da un deficit metacognitivo a base relazionale e che andrebbe compensato lavorando nella relazione interpersonale con il terapista. Ricordate? Solo nella relazione la mente vive e nasce, e quindi solo nella relazione essa si cura. Questa ipotesi sarebbe dimostrata dall’ipotesi che effettivamente i nuovi modelli in grado di far migliorare questi pazienti “difficili” opererebbero tutti soprattutto a livello relazionale. Abbiamo sbattuto il muso sul muro della relazione interpersonale e la relazione terapeutica ci da la scala per scavalcarlo.

 

Ma è così? È proprio vero che i nuovi modelli sono soprattutto relazionali? Stiamo dando per scontato che i nuovi modelli siano tutti e prima di tutto interpersonali e relazionali. Il nostro parere è che non tutti i nuovi modelli raccomandino la relazione come collo di bottiglia operativo. Possono parlare anche intensamente di relazione come good practice, ma da qui a dire che ne facciano l’intervento risolutivo ce ne corre. Noi sosteniamo che la maggior parte dei nuovi modelli possa essere parzialmente interpersonale e relazionale, ma non primariamente.

Prendiamo quindi in considerazione i modelli terapeutici per il “paziente difficile” (non badiamo per ora all’obiezione che in realtà non tutti questi modelli usano questo concetto, obiezione che poi non andrebbe fatta a noi ma a chi usa il “paziente difficile” per propagandare la relazione) e vediamo se questi modelli hanno davvero superato la –supposta- impasse del paziente difficile operando risolutivamente soprattutto a livello relazionale e producendo un incremento di efficacia. Questo è l’argomento decisivo.

La disfunzione dialettica nella DBT di Marsha Linehan

Facciamo alcuni esempi. A noi pare che il modello dialettico comportamentale (ovvero dialectical behavioral therapy, DBT) di Marsha Linehan (1993) agisca su alcuni processi essenzialmente metacognitivi (preferendo chiamarli “dialettici”) in cui la “mente saggia” imparerebbe a gestire la “mente razionale” e la “mente emotiva” non solo cognitivamente ma anche esperienzialmente attraverso un’analisi “dialettica” delle situazioni problematiche e protocolli neo-comportamentali di apprendimento di nuove abilità, le skill, tra cui effettivamente molte sono relazionali. In tal modo la “mente saggia” accetterebbe metacognitivamente e senza giudicare la “mente emotiva”, a differenza di quello che farebbe la “mente razionale”, punitiva e giudicante. È vero che la DBT ha una dimensione interpersonale ma –a nostro parere- questa dimensione è per Linehan importante quanto volete ma non decisiva. Il nocciolo della DBT è la disfunzione “dialettica” ovvero metacognitiva dipendente da un evitamento delle relazioni o una impulsività nei contatti interpersonali; ma si tratta di evitamenti e impulsività prima di tutto comportamentali prodotte da deficit “dialettici”, mentre ci pare manchi l’architettura che collega deficit dialettico a carenze interpersonali e alla teoria interpersonale della mente. O meglio, questo aspetto può esserci, ma non con la ferrea conseguenzialità strutturale che troviamo in Liotti e poi in Semerari e che collega con specifica coerenza il problema interpersonale all’intervento dell’esperienza condivisa e poi della self-disclosure.

Insomma, ci pare che l’architrave del modello Linehan sia primariamente “dialettico” e solo secondariamente interpersonale, e conseguentemente la disfunzione dialettica è trattata con interventi di riaddestramento dialettico, sia esperienziali come le skills training che mentalistiche come le pratiche di addestramento alla consapevolezza mentale che col tempo hanno sempre più assunto il volto della mindfulness. Insomma, crediamo che tutte le raccomandazioni relazionali di Linehan, pur dettagliate, ricadano nella dimensione della good practice e non della relazione come concetto esplicativo e strutturale perché nella DBT le esperienze interpersonali disfunzionali non sono pensate come generative del deficit dialettico ma come campi di manifestazione e di applicazione  dei deficit dialettici stessi.

Il contrario invece avverrebbe in Liotti, Semerari e Dimaggio: l’interpersonale come generativo del metacognitivo. Naturalmente qualcun altro può interpretarla diversamente; abbiamo avuto notizia che Gianni Liotti abbia considerato il modello della Linehan una conferma del suo paradigma interpersonale, ma queste sono interpretazioni di dati empirici, non prove di fatto empiriche.

Altre volte ci è parso di capire che per alcuni di noi uno degli interventi più caratteristici della DBT, l’intervento di validazione, abbia una indubbia dimensione interpersonale importante e che quindi, dato che la DBT funziona, in tal modo si sarebbe dimostrato che la relazione è risolutiva. La nostra domanda è: in che senso la validazione sarebbe interpersonale? Forse perché rassicurerebbe il paziente? Come già scritto prima, ci pare di capire che in termini “dialettici” per Linehan la validazione è un modo in cui il terapista incoraggia la “mente saggia” ad accettare senza giudicare la “mente emotiva”, a differenza di quello che farebbe la “mente razionale”, punitiva e giudicante. In termini più semplici e cognitivi vieux style, a nostro parere si tratta di un intervento di normalizzazione sul secondario. La componente interpersonale c’è, ma ancora una volta non ci pare sia il collo di bottiglia. È una nostra interpretazione anti-relazionale? Certamente. Come è una interpretazione filo-relazionale affermare il contrario.

La MBT di Peter Fonagy

Altro esempio, il modello basato sulla mentalizzazione di Peter Fonagy (Bateman e Fonagy, 2004; 2006) ovvero MBT (mentalization based therapy). Anche qui c’è un processo disfunzionale, la mentalizzazione, processo che avrà pure una sua dimensione interpersonale –come del resto tutto- ma non ci pare sia un processo principalmente interpersonale. La nostra impressione, corroborata non solo dalla lettura dell’opera di Fonagy ma soprattutto dalla partecipazione di uno dei tre autori (n.d.r.: Ruggiero) a due livelli di training sulla mentalizzazione con Fonagy in persona, è che questo modello sia molto focalizzato su una disfunzione di processo e su un meticoloso lavoro di incoraggiamento e addestramento a “mentalizzare”, ovvero a diventare consapevoli della propria attività mentale e della possibilità di padroneggiarla.

Certo, anche Fonagy indulge a una lunga digressione esplicativa sui fattori evolutivi –e quindi interpersonali- che sarebbero alla base del deficit di mentalizzazione. Ma questa montagna interpersonale partorisce un topolino relazionale in terapia. Non ci è parso di vedere nessun intervento primariamente interpersonale e relazionale nella MBT, se non le solite raccomandazioni di good practice peraltro abbastanza avare e meno sviluppate che nella Linehan, raccomandazioni che Fonagy non spaccia per misteriose rivelazioni sapienziali finora trascurate dai terapisti a-relazionali del passato.

Anzi, ci pare che nella MBT addirittura sia raccomandato di evitare di analizzare esplicitamente la relazione terapeutica. Lo si dice con altre parole ovviamente diverse da quelle cognitive: siccome Fonagy è di formazione psicoanalitica, parla di transfert e proibisce di analizzarlo. Naturalmente si potrebbe obiettare che transfert e relazione sono concetti differenti, tenuto conto che il transfert poi è un processo inconscio interiore e pre-relazionale. Accettata questa obiezione occorre concludere che –per quanto ci abbia capito il nostro autore che ha partecipato a due livelli di training- allora di relazione Fonagy semplicemente non se ne occupa un granché.

La Schema Therapy di Jeffrey Young

E poi c’è la Schema Therapy (Young, Klosko e Weishaar, 2003) che usa concetti tra il metacognitivo, l’evolutivo e il relazionale (i “modes”) e teorizza interventi relazionali. In particolare uno, sebbene un po’ spurio, ovvero non puramente relazionale: una sorta di esperienza emozionale correttiva in cui ci pare che il passaggio risolutivo non sia tanto la ristrutturazione cognitiva, ma l’esperienza interpersonale di forte condivisione emotiva. In questo caso siamo disposti a concedere che abbiamo finalmente trovato un modello terapeutico che funziona con un importante aspetto relazionale a cui è attribuito un ruolo risolutivo e non semplicemente di good practice.

Poi la Schema Therapy ha dalla sua anche degli interventi di imagery basati su ricordi interpersonali. Operare però immaginativamente su ricordi interpersonali non è sufficiente a nostro parere a dire che l’aspetto interpersonale sia decisivo. Nell’intervento di imagery l’aspetto curativo è quello esperienziale e immaginativo, non interpersonale.

Ora, dato che la Schema Therapy ha a suo favore forti dati di efficacia -ma li hanno anche Linehan e Fonagy, come ammesso da Arnzt nella sua metanalisi presentata al congresso cognitivo europeo del 2016 a Stoccolma (Arnzt, 2016)- e dato che in essa sembrerebbe esserci un significativo aspetto relazionale, in questo caso e solo in questo caso potremmo dire che questo è un indizio a favore dell’importanza risolutiva dell’aspetto interpersonale in psicoterapia. E se questi dati saranno confermati e daranno definitivamente la palma di intervento migliore alla Schema Therapy rispetto al modello della Linehan, concederemo la vittoria a Dimaggio. Altrimenti siamo davanti a un non definitivo e non conclusivo indizio che si limita che ricordarci che esiste in terapia in aspetto interpersonale  che forse è qualcosa in più dei “fattori comuni” di Lambert almeno con alcuni pazienti -i cosiddetti “pazienti difficili”- da non trascurare e che può concorrere al processo terapeutico.

Affinché il dato diventi conclusivo occorrerebbe però incrociare i dati, dimostrare che senza l’aspetto relazionale dell’esperienza emozionale correttiva  la Schema Therapy non funziona o che quell’aspetto della Schema Therapy garantisce un incremento di efficacia rispetto alle terapie di Fonagy e soprattutto di Linehan. Nulla di così conclusivo emerge dalla metanalisi di Arnoud Arnzt (2016). E poi c’è un’altra obiezione: gli aspetti relazionali e interpersonali della Schema Therapy sono soprattutto del suo primo autore, Jeffrey Young, famigerato e fanatico cultore e divulgatore in inquietanti filmati dell’esperienza emozionale correttiva.  Gli sviluppi successivi, avvenuti grazie a Arnoud Arnzt, ci sembrano più metacognitivi che interpersonali, come ha lui stesso dichiarato al congresso cognitivo (Arnzt, 2016). E infine c’è da notare che le conferme empiriche alla Schema Therapy sono soprattutto opera di Arnzt, a nostro parere personalmente tiepido con la relazione.

I modelli interpersonali

Lasciamo ora da parte questi modelli che mostrano solo alcuni aspetti relazionali e andiamo la dove l’elemento interpersonale è davvero elemento caratterizzante e decisivo. Ne abbiamo già parlato, facciamo una rapida ricapitolazione. Ci vengono in mente il modello delle rotture e riparazioni di Safran e Muran (2000), quello metacognitivo-interpersonale di Semerari e poi di Dimaggio (Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò & Procacci, 2007) in cui l’interpersonale sembra ormai prevalere sul metacognitivo (sarà per questo che Dimaggio ha preso così tanto a cuore –ma non nel senso più benevolo- la nostra battuta sulla “buona educazione”?), i lavori sugli interventi cognitivo-interpersonali di Solomon e Siegel per il paziente traumatizzato (2003) e anche la svolta relazionale di Mitchell (1988) nel paradigma psicodinamico. Alcuni di questi modelli si richiamano a loro volta alla concezione sociale e interpersonale della mente, della coscienza e della cognizione, da Michael Gazzaniga (1985) a Michael Tomasello (Tomasello e Call, 1997) a Daniel Siegel (2012) che abbiamo già citato. Altri a una certa tradizione psicodinamica che risale a Ferenczi. In Italia Liotti (1994, 2001) e Semerari (1991) ci paiono essere stati i tramiti tra neuroscienze, clinica cognitiva e rilettura cognitiva della teoria psicodinamica e quindi ci appaiono come la chiave di volta di tutta questa operazione teorica.

Si tratta di un paradigma complesso e coerente, che connette una teoria a una terapia e in cui gli interventi relazionali sono di gran lunga quelli risolutivi. L’esperienza condivisa di Semerari e la self-disclosure di Dimaggio, i ruoli complementari da gestire in terapia come all’interno di uno psicodramma in Liotti e Monticelli, in cui il terapista deve riuscire a spiazzare il paziente smentendo soprattutto relazionalmente i suoi cicli interpersonali disfunzionali (si noti: cicli interpersonali e non schemi disfunzionali) e in cui l’intervento cognitivo è solo una sorta di stabilizzazione finale, un comando save che ferma il videogioco fino alla sessione successiva e nulla più. Tutto questo fa di queste terapie dei rispettabili modelli primariamente interpersonali e relazionali e un po’ meno cognitivi. Forse sempre di meno.

Efficacia e status empirico dei modelli relazionali di Safran & Muran e di Semerari & Dimaggio

Ora la domanda è: qual è l’efficacia di questi modelli più puramente relazionali? L’efficacia ci sarà, non discutiamo: come abbiamo scritto, ormai tutti dispongono dei dati di efficacia di un semi-trial; ma è superiore a quella dei modelli solo relativamente relazionali? Se davvero la relazione regge e sottende tutto, è plausibile attendersi un incremento di efficacia da chi mette al centro la relazione rispetto a chi la usa più accidentalmente? Tra l’altro ne saremmo felici, pur tra qualche invidia, e i pazienti ancor di più. Altrimenti a che serve tutto questo lavorio clinico e teorico? A produrre un modello che funziona come gli altri, compreso Nielsen con la sua REBT?

A quanto ci risulta nella metanalisi di Arnzt (2016) il golden standard per i disturbi di personalità (e allarghiamolo anche al misterioso “paziente difficile”; egli popola le sale d’attesa dei cognitivisti italiani e però non è stato ancora definito dai manuali diagnostici ed è ignorato da Arnzt, purtroppo) è ancora nelle mani di Marsha Linehan con qualche crescente minaccia da parte della Schema Therapy. Se poi si vuole interpretare questa prevalenza della DBT come un dato a favore, liberissimi. Un po’ più convincente sarebbe avocare al fronte relazionale i successi della Schema Therapy. Noi attendiamo chiari dati di efficacia superiori dei modelli puramente relazionali prima di cambiare casacca.

Ricapitoliamo infine -sia pure frettolosamente- lo status empirico del modello clinico relazionale: un modello neurologico e antropologico che però non garantisce molto a livello clinico; un salto logico discutibile tra “fattori comuni”, “paziente difficile” e centralità della relazione; alcuni dati clinici di efficacia di alcuni modelli terapeutici parzialmente ma non puramente relazionali, dati che però sono indizi della presenza della componente relazionale in terapia –da noi non negata- e non prove sperimentali della decisività conclusiva dell’intervento relazionale e della sua centralità teorica.

Tutto sommato questi dati dimostrano che col paziente difficile occorre andarci più cauti e negoziare continuamente il contratto. Good practice. Potremmo chiamare questa negoziazione “relazione”? Essendo una variabile così lassa, possiamo concederlo. Non ci pare così inevitabile, ma così sia. Come avrete capito, noi preferiamo good practice. Però che tutto questo dimostri che sia proprio quella gestione relazionale del contratto a essere risolutiva per l’eventuale miglioramento ci piacerebbe sapere dove, quando e come sia stato dimostrato.

Insomma, nella nostra visione c’è un gruppo di testa in fuga, costituito da modelli di terapia per il disturbo di personalità e/o “paziente difficile” che agiscono in termini prima di tutto processuali e mentalistici e poi anche –ma non primariamente e nemmeno risolutivamente- relazionali: Fonagy e anche Linehan. Assieme a questi due c’è anche un modello con un forte aspetto relazionale, la Schema Therapy, che effettivamente rivaleggia con il golden standard della Linehan, e questo è il punto di maggior forza del relazionalismo. E infine, purtroppo un po’ più indietro, c’è un gruppo di relazionalisti puri, da Safran e Muran a Semerari e Dimaggio a Solomon e Siegel per finire con il padre nobile Mitchell che mostrano vari gradi di conferma empirica e di efficacia terapeutica, ma al momento non in grado di aspirare al podio. Oppure ci sono, sul podio, ma insieme a Linehan. Quindi niente incremento di efficacia

Insomma, i successi di questo gruppo non bastano a convincerci a diventare relazionalisti. Non ci pare che si sia manifestato il risultato conclusivo: l’isolamento sperimentale e la manipolazione della variabile relazionale in correlazione con un significativo incremento di efficacia terapeutica rispetto agli altri modelli che non isolano in piena purezza teorica e clinica la variabile.

In conclusione

Per concludere, pare che la nostra ormai famosa e sorridente battuta sulla “buona educazione” abbia violato inavvertitamente delle sacralità che non immaginavamo. Nell’ambiente cognitivo che frequentiamo, forse troppo sbilanciato sulla partecipazione ai congressi internazionali, non ci era mai parso di avere incontrato un mondo in cui la centralità della relazione come luogo principale della pratica clinica fosse un assunto indiscutibile. Anche nell’ambiente cognitivo non italiano c’è una svolta, ma è la svolta processualista di Hayes (2004) e di Wells (2008) che è cosa distinta da quella relazionale di altri ambienti. Uno degli equivoci che andrebbero sfatati è la convinzione che la “terza ondata” processualista abbia riavvicinato tra loro cognitivismo italiano e internazionale. Non è così. La metacognizione in Semerari e Dimaggio è un deficit a base evolutiva poggiato sul modello interpersonale e relazionale di Liotti e inoltre su uno strutturalismo che fa capo alla psicologia del sé (di questo parleremo altrove); la metacognizione di Hayes a Wells è una disfunzione di processo mentalistica e non relazionale in cui la componente evolutiva può essere un fattore distale ma non svolge alcun ruolo strutturale e ancor meno causale.

A tal proposito nutriamo qualche preoccupazione sulle conseguenze cliniche e tecniche di questa crescente propensione alla riflessione interpersonale di alcune correnti del cognitivismo clinico italiano. Temiamo che essa possa essere  in relazione con un parziale deterioramento di certe conoscenze cliniche e tecniche standard date troppo facilmente per acquisite una volta per tutte (Ruggiero, Ammendola, Caselli & Sassaroli, 2014). Deterioramento sul quale -a nostro parere- potrebbero fare da ulteriori moltiplicatori i paralleli sviluppi “traumatistici” (passateci il neologismo) paventati nel nostro primo articolo, quello che ha scatenato questo dibattito. In molti autori -ad esempio Solomon e Siegel (2003)- trauma e interazione interpersonale hanno una zona di sovrapposizione clinica e teorica che potrebbe facilitare una adozione poco elaborata di nuove tecniche diverse da quelle relazionali e lontane dalla tradizione cognitiva, ancora più lontane delle tecniche relazionali. Adozione di nuove tecniche non cognitive sempre più massiccia proprio a causa di una certa insoddisfazione per la relazione, che inizia a mostrare i suoi limiti soprattutto clinici.

Tuttavia siamo contenti che sia iniziato questo dibattito perché ci permette di chiarire dei punti che ci stanno a cuore, come quella che ci pare essere una eccessiva tendenza a valutare i pazienti come “difficili”, complessi e traumatizzati, una eccessiva enfasi su aspetti relazionali concepiti come onniesplicativi e onnicomprensivi e il discostamento da competenze più tipiche della terapia cognitiva, che possono –a nostro parere- generare confusione negli allievi e nei pazienti. Per ora chiudiamo qui.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017
  10. Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio – 24 Luglio 2017
  11. La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”. – 24 Luglio 2017

 

Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017

Sassaroli, Caselli e Ruggiero nel loro post in cui vedevano il trauma aggirarsi per il mondo psicoterapeutico allo stesso modo in cui il comunismo gettava ombre sull’Europa, hanno detto un paio di cose sulla relazione terapeutica che il mondo cognitivista italiano non ha, come dire, preso benissimo.

Qui le loro affermazioni.

Giovanni Fassone, Benedetto Farina, Fabio Monticelli, Bruno Bara, Cecilia La Rosa, Tullio Scrimali e altri, e il sottoscritto per primo, hanno contestato, chi in modo più gentile, chi meno (io appartengo alla categoria: “chi meno”) le loro affermazioni.

Vien da dire che se la sono cercata, suvvia, mica si può scrivere che: “Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione”. e poi aspettarsi festeggiamenti. D’altra parte non credo che Sassaroli e colleghi se li aspettassero.

In un post successivo i tre di Studi Cognitivi cercano di argomentare un po’ meglio, diciamo che mirano a un taglio più scientifico nel loro argomentare, con l’intento, immagino, di correggere la grossolanità – mi si perdoni la durezza del termine, ma non riesco a trovarne uno più gentile che traduca il concetto – delle loro affermazioni. Resto dell’idea che definire la relazione terapeutica come “un fatto” e “buona educazione” non siano frasi che si possano trascurare e che se le hanno scritte in quel modo le pensavano in quel modo e le applicano clinicamente di conseguenza. Comunque Sassaroli e colleghi approfondiscono l’argomento qui.

Replico, andando per punti. Gli autori sostengono: “… la ricostruzione [di strutture psichiche non funzionanti a causa di traumi] avverrebbe soprattutto in una  relazione -beninteso una relazione professionalmente terapeutica- e questo perché a sua volta la fase in cui nel passato le funzioni ora deficitarie del paziente avrebbero dovuto svilupparsi fu soprattutto una fase relazionale; insomma una relazione di sicurezza, protezione e contenimento con figure significative per la crescita, una relazione –alla Winnicott, ma anche alla Farina e Liotti (2011)- di cooperazione.”

Tutta qui la descrizione di relazione terapeutica? Così semplicistica? Un riduzionismo che a me imbarazza. Lavorare sulla relazione terapeutica richiede molte più operazioni. Ad esempio: identificare gli schemi interpersonali del paziente. Valutare se li stia applicando al terapeuta. Identificare gli schemi interpersonali del terapeuta. Valutare se li stia applicando al paziente (sì, esatto, succede, i terapeuti, anche cognitivisti, non agiscono mai nella neutralità tecnica). Capire se questo dà informazione che arricchisca la formulazione del caso. Capire se l’applicazione dello schema previene l’applicazione di successo delle tecniche. Decidere in che modo intervenire: farlo notare al paziente? Fare uno svelamento? Modulare la propria reazione da parte del terapeuta per evitare di far danno? Effettuare uno svelamento? Metacomunicare?

In sintesi, lavorare sulla relazione terapeutica non è semplice reparenting. Mi spiego con un esempio. Un paziente sta rimuginando sul proprio senso di inadeguatezza, cosa nella quale crede molto e che lo intristisce. Il nostro bravo terapeuta cognitivista di origine Beckiana o REBT, ma che conosce bene bene Wells, gli sta spiegando cosa è il rimuginio e gli fornisce tecniche per interromperlo. L’idea è che questo lo dovrebbe fare stare bene. Il paziente reagisce male, si arrabbia col terapeuta, si sente svalutato, incompreso, non vuole applicare le tecniche. Succede spesso, vero? Quale può essere la spiegazione? Ne offro una, osservata in tanti pazienti: quella persona viene da uno stile di attaccamento dismissing: quando esprimeva il malessere i genitori lo sottovalutavano e gli dicevano di non pensarci, di non lagnarsi e di essere un bravo ometto. E di solito erano lontani, indisponibili, freddi. Risultato: il paziente leggeva la proposta del terapeuta di liberarsi del rimuginio con un po’ di tecniche come: “Anche il terapeuta non ha voglia di ascoltare il mio dolore e si vuole liberare di me prima possibile”. Questo genera in lui o in lei senso di abbandono e rabbia conseguente. Se il terapeuta non affronta prima questa impasse relazionale, Wells può andare a farsi friggere. Il punto qui non è, non solo, l’esperienza emozionale correttiva. Il terapeuta non deve accudire il paziente per dargli l’affetto che non ha mai avuto. Deve uscire dalla ripetizione dello schema che gli impedisce di essere letto dal paziente in un modo benefico e che permetta l’applicazione di una tecnica. Il terapeuta che ha letto Safran e Muran, che conosce i sistemi motivazionali interpersonali, che è allenato a lavorare sulla regolazione terapeutica sa fare un intervento del genere. Un terapeuta che scrive che la relazione terapeutica è una questione di buona educazione non lo sa fare, e quindi non cura il paziente. Semplice e lineare.

Oppure, caso classico: un paziente è affetto da disturbo ossessivo, con prevalente rimuginio. Può essere sulla salute, su un acufene e via dicendo. La terapeuta lavora sul rimuginio secondo protocollo, mettiamo, in stile Studi Cognitivi (si veda il recente libro di Caselli, Ruggiero e Sassaroli, Rimuginio, per altro scritto con grande chiarezza e ricco di buone dritte cliniche). Il paziente però ha anche un disturbo narcisistico di personalità e, guarda caso, inizia a corteggiare la terapeuta e magari se ne innamora. Ohi, succede! Mica è una roba rara, ho supervisionato almeno tre colleghe nelle ultime settimane che mi hanno portato questo problema. E in tutti e tre i casi ho insistito perché portassero l’innamoramento di transfert, o il tentativo di seduzione se preferiamo, al centro del discorso. E in tutti e tre i casi i pazienti sono stati in grado di essere espliciti in quello che provavano, capire in parte perché lo facevano e trasformare, anche abbastanza rapidamente, una relazione seduttiva in una relazione in cui stimavano la terapeuta. Per fare questa operazione però ho dovuto condividere con le colleghe una teoria sulla regolazione della relazione terapeutica. Che avrebbe fatto un terapeuta ortodosso di Studi Cognitivi che segue il paradigma strettamente cognitivista delineato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero secondo cui non abbiamo bisogno di teorie sulle relazione perché questa è, semplicemente, un fatto? Mi permetto di avanzare un’ipotesi che gli autori naturalmente possono contestare, visto che solo speculando su quello che avrebbero fatto. O avrebbero trascurato il problema invitando il paziente a lavorare sul suo vero problema, quello sintomatico, e non interferire con un corteggiamento inappropriato, e così facendo avrebbero contribuito a mantenere o aggravare il problema e magari causare il drop-out. Oppure avrebbero lavorato sulla relazione terapeutica, ma in modo casuale, visto che affermano che non c’è bisogno di teorie sulla relazione terapeutica, immagino né teorie su perché e percome si formi, né tantomeno teorie sulla tecnica relazionale. In altre parole si sarebbero mossi o secondo buon senso, ovvero non da scienziati, oppure avrebbero preso in prestito teorie di altri perché gli servivano ma senza ammetterlo. Oppure mi sbaglio io a fare tale inferenza, ma nel caso gli autori mi risponderanno.

Ancora: “Farina e Liotti (2011) hanno sempre insistito sul carattere di cooperazione della relazione terapeutica, quasi a evitare un eccessivo appiattimento sul transferale riproporsi in terapia del good enough mothering di Winnicott”. Ma scusate, dopo Winnicott, e a parte un po’ di cenacoli veteropsicoanalitici, c’è qualcuno che pensa che la relazione terapeutica sia tutto fare la madre sufficientemente buona e cooperare? Un paziente può attivare con il terapeuta schemi legati al rango: sottomissione e dominanza, attaccamento in tutte le sue forme disfunzionali, può stare in seduta con la paralisi dell’agency (passività) e fare sentire il terapeuta obbligato ad agire e allo stesso tempo impotente. E per districarsene bisogna fare un assessment attento dello schema e tirarsene fuori e poi trovare il modo di comunicare al paziente che ci sono schemi problematici in atto e non una relazione problematica nella realtà, come dato di fatto incontrovertibile.

Ma, seguendo i timori (forse con aspetti rimuginatori) di Sassaroli, Caselli e Ruggiero: può essere che chi fa questo lavoro non segua i protocolli, è un arruffone, non sia bravo cognitivista aderente al manuale delle Giovani Marmotte di Terza Generazione? Se uno leggere la letteratura non ha ragione di avere questi timori. Safran e Muran hanno descritto procedure dettagliate per regolare la relazione terapeutica e superare le rotture, ed esistono vari studi di task analysis che spiegano come intervenire passo dopo passo, dal riconoscimento della rottura alla sua riparazione, si vedano Aspland et al. 2008 Bennett et al., 2006 Dimaggio et al., 2010).

E si sa il lavoro di riparazione delle rotture è collegato all’outcome, si veda Gersh e colleghi (2017) E accade continuamente anche in CBT nel disturbo borderline, si veda Cash e colleghi (2014). Perché mai allora Sassaroli e co. devono dare un resoconto così caricaturale del lavoro relazionale?

Uso un termine forte come caricaturale a causa di affermazioni come queste, in cui gli autori affermano che chi lavora sui traumi prima mira a ricostruire buone relazioni e poi accadrebbe che: “L’intervento di cambiamento dei meccanismi cognitivi è posticipato, se necessario, come ultima tappa di un lavoro realizzato in buona parte altrove, ovvero nella relazione e nella costruzione di esperienze emozionali correttive.”

Mi chiedo: ma chi lavora così? Personalmente, parlo dalla mia prospettiva di TMI, se c’è un sintomo si parte dal lavoro col sintomo, usando di solito tutto l’armamentario cognitivista appropriato. Poi c’è un intoppo e a quel punto si passa a risolvere l’intoppo relazionale che impedisce il lavoro sulla relazione e poi si torna al sintomo una volta che il problema è, almeno transitoriamente risolto. Ma che per caso i colleghi di matrice cognitivo-evoluzionista (La Rosa, Monticelli, Fassone, Farina per citarne qualcuno che è intervenuto nel dibattito interno alla SITCC) oppure EMDR, si trovano di fronte ossessioni, depressione, gesti autolesivi, sintomi alimentari e dicono ai pazienti: scusi ora riparo un po’ la sua relazione di attaccamento e cerchiamo di diventare tanto tanto amici tra di noi e cooperare, nel frattempo trascuro un po’ i suoi sintomi ma non se ne preoccupi”? Direi proprio di no.

Ma il problema probabilmente è altrove, ed è di livello sociologico. Sassaroli e colleghi lo dichiarano qui: “Ma per garantire un confronto con un paradigma cognitivo, occorre riconoscere che- almeno in parte- si esce fuori dal paradigma cognitivo. Ripetiamo: nulla di male in questo. Semmai, il rischio che paventiamo è quello di muoversi nel mezzo di un ecletticismo teorico, una miscela di teorie, tecniche e prospettive, talvolta aggregate senza consapevolezza piena della loro diversa prospettiva di riferimento”.

Insomma, hanno preoccupazione che i cognitivisti non facciano più i cognitivisti e diventino degli eclettici un po’ arruffoni e poi succede che: “tutti i pazienti… diventano difficili, o per meglio dire, si perde la capacità di discriminare gli uni dagli altri”. Insomma, o si è cognitivisti standard (un po’ Beck e Ellis un po’ Wells) o non si sa fare diagnosi e si vedono disturbi di personalità, traumi e psicosi ovunque. Pensa te a tutti i cognitivisti che fanno la SCID II per valutare la personalità e diagnosticano come affetti da disturbo di personalità quelli che ce l’hanno e da non affetti da disturbo di personalità quelli che non ce l’hanno. Vivranno e lavoreranno in zone schermate dallo sguardo di Sassaroli e colleghi?

A me sembra che la strada seguita da Studi Cognitivi, già tracciata in precedenti post di Sassaroli e Ruggiero in cui si attaccava la, chiamiamola, svolta bottom-up della psicoterapia e questa era stata la mia risposta  – sia di radicarsi al cognitivismo standard, con un tocco di Wells, arroccandosi nella supposta purezza del paradigma e respingendo ciò che ne è fuori. Quello che resta fuori dal loro discorso, in realtà è un qualsivoglia discorso sull’efficacia, sul ruolo dei fattori comuni nel cambiamento, sull’evoluzione dei modelli che prevede influenze reciproche. Ovvero ragionano sulla purezza del modello ma non si confrontano sull’efficacia. Forse è anche per questo che non hanno mai formalizzato un modello strutturato né tantomeno lo hanno testato in un trial randomizzato di efficacia. E quella sarebbe il vero modo di lanciare una sfida intellettuale: noi pensiamo che chi non lavora in chiave strettamente CBT è meno efficace, l’eclettismo peggiora la qualità dell’intervento. E ne siamo talmente convinti che ve lo dimostriamo. Altrimenti, mi chiedo, di che stiamo parlando se poi alla fine gli interventi sono parimenti efficaci o (scommetterei su questo secondo risultato) il trattamento che tiene conto dei fattori relazionali è addirittura più efficace?

Una nota conclusiva. Quanti di noi, da cognitivisti, hanno spesso commentato degli psicoanalisti: certo, dovrebbero farsi un po’ di training per la cura degli attacchi di panico e delle ossessioni, se no i pazienti non gli guariscono. E con quanta ironia e ammiccamento, ci prefiguravamo la loro risposta: “Oh, ma noi siamo psicoanalisti, noi guardiamo all’oro della psicoanalisi, non a questi mezzucci da mestierante, noi curiamo il profondo”. A noi cognitivisti appariva chiara la limitatezza di questa risposta, che alla fine toglieva ai pazienti strumenti utili, o indispensabili al trattamento.

Ora, di fronte alle posizioni di Sassaroli, Caselli e Ruggiero, dovremmo ragionare diversamente? Oppure pensare: “Si arroccano nella supposta purezza del cognitivismo hardcore e trascurano il lavoro su altre dimensioni che tanta letteratura ha mostrato come utili, se non indispensabili, per la riuscita della terapia?”.

Se fossi uno psicoanalista, un terapeuta EMDR, gestalt, sensomotorio li guarderei con un moto di dispiacere: non sanno cosa tolgono ai pazienti. Da cognitivista – sia pure con una connaturata tendenza alla psicoterapia integrata – prendo le distanze.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017

 

Il suono della mente: come creare musica con il pensiero

In un report in Frontiers in Human Neuroscience è stato descritto uno strumento musicale, chiamato Encefalophone, utilizzabile senza mani, controllato dal pensiero. I neurologi che lo hanno ideato, sperano che questo nuovo strumento aiuterà a potenziare e riabilitare i pazienti con disabilità motorie come quelle conseguenti a ictus, lesioni del midollo spinale, amputazione o sclerosi laterale amiotrofica (SLA).

 

Questo dispositivo, chiamato Encefalophone è uno strumento musicale controllato dai pensieri che non necessita di alcun tipo di movimento.

Encefalophone: come funziona

L’ Encefalophone raccoglie i segnali del cervello attraverso una cuffia con elettrodi pre-montati che trasforma segnali specifici in note musicali. L’invenzione è connessa con un sintetizzatore, che consente all’utente di creare musica usando un’ampia varietà di suoni di strumenti musicali.

Il dottor Deuel ha originariamente sviluppato l’ Encefalophone nel suo laboratorio personale, in collaborazione con il dottor Felix Darvas, fisico presso l’Università di Washington. In questo primo report, descrivono lo sviluppo dello strumento, così come i loro studi iniziali che ne dimostrano la semplicità di utilizzo. Questo studio preliminare ha mostrato che un gruppo di 15 adulti sani ha potuto utilizzare lo strumento per ricreare correttamente i toni musicali, senza alcun training precedente. L’ Encefalophone può essere controllato attraverso due tipi indipendenti di segnali EEG: quelli con PDR (ritmo posteriore dominante) associati alla corteccia visiva, in cui i soggetti svolgono il compito ad occhi chiusi, o quelli con ritmo mu, legati al pensiero del movimento.

Il controllo del movimento tramite il pensiero può essere molto utile per i pazienti con disabilità. Allo stato attuale, questo studio dimostra che, almeno per questo piccolo gruppo di soggetti, il controllo tramite la chiusura degli occhi è più preciso rispetto al controllo immaginativo dei movimenti.

L’ Encefalophone si basa su BCI (Brain Computer Interface), interfaccia non invasiva che collega il cervello ad un computer; il dispositivo esterno riceve comandi direttamente dall’elettroencefalografo, che misura l’attività elettrica del cervello. Gli scienziati iniziarono a convertire questi segnali in suoni negli anni Trenta e, successivamente, in musica negli anni Sessanta. Ma questi metodi erano ancora difficili da controllare e non erano facilmente accessibili agli utenti non specializzati.

In collaborazione con il Center for Digital Arts e l’Experimental Media (DXARTS), Deuel ha lavorato su queste ricerche per rendere l’ Encefalophone più versatile e facile da usare.

Il neurologo insieme ai suoi collaboratori sta lavorando con un numero maggiore di persone per verificare quanto gli utenti possano migliorare mediante l’addestramento a questa tecnologia. Inoltre, Deuel prevede di avviare sperimentazioni cliniche dell’ Encefalophone entro la fine di quest’anno per vedere se può essere utile e anche divertente per i pazienti disabili.

La deriva dello psicoterapeuta: possibili errori e inefficacia clinica secondo Glenn Waller

Ad oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) rappresenta la scelta preferibile per il trattamento della stragrande maggioranza dei disturbi (Roth e Fonagy, 1996). Tuttavia questi risultati provengono da trials rigorosi, superiori rispetto al setting clinico nel controllo delle variabili in gioco e nella selezione dei pazienti da esaminare.

Secondo Glenn Waller, oggi a capo del dipartimento di psicologia dell’Università di Sheffield, molte delle problematiche connesse all’efficacia del trattamento sarebbero rintracciabili non nella solidità dei protocolli CBT, bensì nella tendenza del terapeuta a prendere inconsapevolmente le distanze dagli stessi inseguendo una pratica “creativa”. Questo, peraltro, in assenza di evidenze scientifiche che dimostrino che una terapia più elastica sia maggiormente efficace rispetto ai protocolli!

La deriva dello psicoterapeuta

Waller chiama questo deragliamento dai protocolli “deriva” dello psicoterapeuta (therapist drift) e sostiene che generalmente essa sopraggiunge in risposta ad una crisi nella terapia, quando siamo incapaci di pianificare il necessario successivo passo. Ciò che come clinici dobbiamo ricordare è che uno degli aspetti chiave della CBT è insegnare al paziente ad essere il terapeuta di se stesso, quindi noi in primis dobbiamo fornire un buon modello dal quale il paziente impari (ad es., scoraggiare la tendenza a non portare a termine gli homeworks tra una seduta e l’altra). Inoltre, è bene tenere in considerazione il fatto che gli errori in terapia non sono privi di costi per il paziente, ma possono addirittura esacerbare il disturbo o minare la possibilità che il paziente si rivolga nuovamente ad un trattamento di tipo cognitivo-comportamentale (ad es., un paziente con alle spalle un percorso di CBT conclusosi nel fallimento, evidenzierà una minore motivazione al trattamento durante un successivo percorso terapeutico cognitivo-comportamentale).

Prima di tutto, la relazione

Per una buona pratica clinica quanto più scevra di rischi, Waller prescrive come primo passo quello di instaurare una relazione tra terapeuta e paziente che sia collaborativa, empatica e non giudicante. Citando il lavoro di Marsha Linehan (1993), egli afferma che tutti i problemi che sopraggiungono in seduta devono essere affrontati con collaborazione dalla coppia, non con la volontà di trovare un colpevole.

Bias cognitivi del terapeuta

Tra i bias cognitivi più comuni negli psicoterapeuti e responsabili della deriva, Waller rintraccia quello di attribuire a cause esterne il fallimento della terapia; ciò può essere rinforzato dalla tendenza del paziente ad auto-incolparsi. Inoltre, il terapeuta a volte tende a ricercare evidenze che sostengano i suoi preconcetti (ad es., il paziente è motivato al cambiamento o può essere portato ad esserlo) e ad evitare quelle che li invalidano (ad es., il paziente non completa gli homeworks). Questo avviene in quanto il clinico è un essere umano come tutti, vittima degli stessi errori rintracciabili nei suoi pazienti.

Un altro bias cognitivo molto comune dei terapeuti è il pensiero dicotomico (black and white thinking). Ad esempio, il clinico può prendere in considerazione solo alcuni dati nel giudicare il successo della terapia ed ignorarne altri (ad es., la qualità di vita generale del paziente può migliorare, ma se permangono alcuni sintomi chiave del/dei disturbo/i non possiamo parlare di risoluzione dello stesso).

Ancora, è frequente un atteggiamento di tolleranza nei propri confronti da parte dei terapeuti (ad es., “poco importa se il paziente non ha svolto i compiti assegnati, li completerà per la prossima seduta”). Infine, anche il pensiero magico può interferire con le valutazioni del clinico. Pensiamo, ad esempio, ai risultati retest di un questionario self-report per la sintomatologia depressiva che evidenzia il passaggio da un disturbo depressivo maggiore “moderato” a “lieve”; sebbene una situazione del genere conduce innumerevoli volte a parlare di un miglioramento, spesso il cambiamento è circoscritto al punteggio del test, mentre la qualità di vita del paziente pare immutata.

Emozioni delle quali essere consapevoli

Le emozioni, poi, contribuiscono notevolmente alla deriva del terapeuta. Infatti, il clinico può sperimentare ansia riguardo la sua/e prestazione/i, paura per eventuali valutazioni negative da parte del paziente, vergogna per non essere stato in grado di trattarlo adeguatamente e colpa. Essere consapevoli che tali emozioni possono manifestarsi e possono non essere funzionali al raggiungimento dei nostri obiettivi è di primaria importanza. I terapeuti, a causa di queste emozioni, possono evitare il confronto in supervisione e fallire nel considerare ulteriori alternative di trattamento. La chiave per evitare scivoloni professionali in questo ambito è sviluppare una buona consapevolezza dei nostri stati emotivi e dell’influenza che possono avere sul percorso terapeutico.

I comportamenti controproducenti: legati al contesto e di sicurezza

Riguardo i comportamenti del terapeuta, invece, Waller distingue quelli dettati dal contesto di lavoro (context-driver behaviours) e i cosiddetti comportamenti di sicurezza (clinicians’ safety behaviours). Tra i primi annoveriamo quelli conseguenti a uno stato di spossatezza del clinico, dovuti ad un ingente carico di lavoro o ad un contesto di lavoro altamente stressante. E’ importante essere consapevoli del ruolo che la fatica e lo stress hanno sulla qualità del lavoro svolto. E’ perciò buona norma – soprattutto nel caso di terapeuti giovani – evitare di prendere in carico troppi pazienti per volta e non cadere nella trappola di pensarsi l’unico/a in grado (o in dovere) di aiutare un paziente. In aggiunta, un terapeuta esausto è meno incline ad iscriversi a corsi di perfezionamento o formazione, che possono mantenere o incrementare le capacità professionali dello stesso.

Comportamenti di sicurezza

I comportamenti di sicurezza, invece, contribuiscono a far sì che il paziente non proceda nel suo percorso di cambiamento. Spesso, infatti, molti terapeuti procrastinano il momento in cui il paziente deve confrontarsi con le situazioni temute (esposizioni), o le acquisizioni di nuove skills ed esperimenti comportamentali in generale, nel tentativo di evitare che il paziente possa sperimentare nel breve periodo un ulteriore stress, in particolare stati ansiosi o depressivi conseguenti ad un fallimento nei compiti. Questo, come se il paziente dovesse mostrare inequivocabilmente cambiamenti positivi durante ogni step della terapia e in linea con il pensiero che sia meglio non tentare alcun cambiamento piuttosto che incorrere in uno negativo.

Tuttavia, affinché un cambiamento (da una situazione poco gradita o di disagio ad una più tollerabile o soddisfacente) abbia luogo, il paziente deve scardinare i suoi schemi e le sue abitudini, ritrovarsi in una situazione poco confortevole, dove talvolta può sentirsi spaesato, e infine approdare a nuove strategie di coping che, col tempo, struttureranno una più funzionale routine. Tentare perciò di aggirare gli ostacoli terrifici ma necessari di questo percorso, equivale ad istituire uno stallo che se non percepito porterà al fallimento della terapia, se invece notato allora genererà in uno dei due attori un senso di noia e frustrazione.

Gli elementi comportamentali della CBT – il fondamentale “B” nell’acronimo – dovrebbero essere tra i pilastri fondamentali nella formazione di un buon terapeuta che aderisce ai suoi principi, per questo è difficile comprendere come egli possa evitare di proporli subito o sottrarsi dall’invitare il paziente a completare quanto richiesto. Tuttavia, i comportamenti di sicurezza non sono dettati da un mal di pancia nei confronti della CBT classica, ma sembrano finalizzati a proteggere un’immagine del terapeuta deputato a migliorare la qualità di vita del paziente sempre e comunque e ad evitargli ulteriori stati emotivi negativi. Oltre a ciò vi è la paura del giudizio negativo da parte del paziente, che rischia di far sperimentare colpa e vergogna al clinico per non essere stato all’altezza del suo ruolo; per tale motivo Waller etichetta “comportamenti di sicurezza” queste condotte. Questo modo di agire peraltro elicita nel paziente i propri comportamenti di sicurezza – come l’evitamento – e bloccano il percorso terapeutico.

Altre volte è il paziente a non completare quanto richiesto dal buon terapeuta, evidenziando di fatto un pattern di evitamento. Un classico esempio è rappresentato dal paziente che ad ogni seduta si presenta con un nuovo problema – marginalmente connesso agli obiettivi concordati della terapia – di cui vuole assolutamente parlare e che dal suo punto di vista richiede massima priorità e la seduta di fatto si incentra totalmente su quell’argomento. Qui la responsabilità del buon clinico è quella di non rinforzare tale evitamento ma, con autorevolezza, focalizzare l’attenzione della coppia su questo pattern e discuterne, oltre che considerare insieme al paziente pro e contro del cambiamento e dei comportamenti di sicurezza.

Scegliere le terapie migliori in base alle evidenze sperimentali di efficacia

Un’ultima parte dell’articolo Waller la dedica alla tendenza sempre più comune dei terapeuti ad optare per le cosiddette terapie di terza ondata del cognitivismo a scapito della CBT classica. Sebbene siano ormai molti i protocolli efficaci appartenenti a queste terapie pensati per specifici disturbi [Studi di efficacia pubblicati dopo l’articolo di Waller del 2009 – NdR], l’autore sottolinea che può accadere che lo psicoterapeuta aggiunga al suo repertorio parti di protocolli che utilizza in modo idiosincratico applicandoli a patologie altre per le quali invece l’efficacia non e’ stata comprovata in modo specifico. Ciò che raccomanda l’autore, infine, è quello di scegliere con attenzione la terapia migliore per il disturbo rintracciato nel paziente ed evitare di proporre in modo inflessibile una singola terapia.

Conclusioni

Concludendo, gli errori da parte del clinico devono essere messi in conto in terapia, come un equo scotto da pagare in cambio di una sensibilità tutta umana che gli permette di sintonizzarsi con il paziente e di aiutarlo. Tuttavia un bravo terapeuta è tale quando è in grado di riconoscerli (e quando possibile di prevenirli) correttamente e sa come fronteggiarli. Waller ricorda inoltre l’importanza di una costante supervisione, che si svolga in un clima non-giudicante e che permetta al terapeuta di aprirsi e di condividere i suoi stati emotivi.

Dibattito su trauma e relazione: una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso

Intervengo a mia volta sulla questione della relazione terapeutica. Mi pare che i nostri  colleghi non dubitino affatto della rilevanza della relazione terapeutica come fattore di cura. Anzi, essi osservano due cose: “Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire, o una strategia da costruire“. La relazione terapeutica “è anche la variabile meno gestibile“.

di Angelo Inverso


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017

Sorprendentemente sostengo che potrebbero avere ragione sul punto 2, ma l’idea sottesa sembrerebbe essere che il resto lo sia molto di più. Purtroppo per Sassaroli, Caselli e Ruggiero, penso che la relazione sia implicata in ogni singolo passo del processo psicoterapeutico,  sia coestensiva ad esso, in quanto tutta la psicoterapia si svolge all’interno di un processo interpersonale. Qualunque cosa facciamo all’interno di una seduta si tinge del colore della relazione e diventa gestibile con pari difficoltà. Possiamo solo illuderci che non sia così.

Altre variabili della terapia, come ad esempio quali esatte parole diremo, quale esatto momento sceglieremo per proporre un compito, quale sia il livello minimo di ansia che il paziente è in grado di tollerare in certe condizioni, quale metafora è più appropriata, e così via, penso che esse abbiano a loro volta una gestibilità  modesta, ahimè!

E vabbè“, potrebbero replicare i colleghi “noi abbiamo mica detto il contrario, abbiamo sostenuto che essendo la relazione un fatto e non un metodo o una strategia da seguire, possiamo  smettere di occuparci di lei e dare per scontato che essa influirà, bene o male, sull’esito della terapia e andare avanti con tecniche e strategie“.

Non sono sicuro che questa possa essere la loro replica, ma se lo fosse le cose si metterebbero male. Se davvero la relazione è solo un fatto,  allora cosa diremo ai pazienti che arrivano da noi per risolvere, appunto, problemi relazionali? Che le buone relazioni sono un fatto e che non c’è un metodo o una strategia per migliorarle? Che se la loro relazione con i figli, o la moglie, o gli amici, o con se stessi è fonte di pena e di malessere meglio sarebbe lasciar perdere e non occuparsene perché c’è poco da fare e le cose andranno meglio o peggio in base al caso, alla fatalità, all’occasione, ma che non possiamo mica pensare a una strategia o a un metodo o a una qualunque cosa che abbia senso e che il nostro intervento potrà dare?

Penso che l’affermazione dei colleghi possa essere ribaltata: non solo una relazione è un fatto, ma a sua volta ogni fatto è una relazione. Lasciatemi citare il Wittgenstein del Tractatus, proposizioni 2 e 2.1: “(…) Un fatto è il sussistere di stati di cose e uno stato di cose è un nesso  di oggetti. In questa accezione un fatto è una relazione“. Io non credo che i nostri  colleghi siano così ingenui o poco intelligenti. Ho stima per loro e chiedo cosa veramente intendessero dire. Io penso –e spero di non essere il solo a pensarlo- che la relazione sia l’esito di una interazione ripetuta, che ha delle determinanti e/o delle  condizioni generative (se non vogliamo dire causali) e queste determinanti siano i partecipanti alla relazione stessa. Certo, l’esito del processo è un fatto, ma noi non crediamo di poter influire sul fatto che si è prodotto, ma sul processo che si è generato e sulle sue determinanti sì . Ecco perché i colleghi hanno ragione e torto nello stesso tempo.

Il terapeuta e il suo paziente creano una relazione che diviene terapeutica perché il terapeuta immette, più o meno consapevolmente, elementi che la rendono tale. Il nostro contributo, come terapeuti, alla costruzione, mantenimento e ripristino di una buona relazione terapeutica potrà essere più o meno consapevole e ciò che ne verrà fuori sarà più o meno buono, a seconda della nostra qualità relazionale e della nostra perizia. Nella relazione siamo implicati e continuamente operiamo su di essa e il modo in cui lo facciamo è, in una certa misura, nella nostra disponibilità .

Se vogliamo paragonare la psicoterapia ad un farmaco -e lo scrivo a fatica perché non credo alla metafora del farmaco- la relazione non è l’eccipiente del principio attivo ma è essa stessa il principio attivo. Non è un lubrificante ma un agente. E se crediamo sia un placebo, anche questo effetto è parte dell’azione farmacologica.

Per concludere, voglio riportare un episodio. Alla predica della scorsa domenica il prete , tale Don Mauro, ha fatto questa domanda: “di due buoi aggiogati, chi tira di più?” Tutti hanno risposto; “tutti e due uguale“. La risposta è sbagliata: “tira  di piu’ il piu’ forte dei due“. Le tecniche specifiche sono aggiogate alla relazione, qual è il bue  che tira di più? Meditate gente, meditate!

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017

 

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