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Trattamento integrato per i disturbi di personalità. Un approccio modulare – Recensione

W. John Livesley, Giancarlo Dimaggio e John F. Clarkin in “Trattamento integrato per i disturbi di personalità”, sostengono che i risultati ottenuti fino ad oggi forniscono un’idea solida per lo sviluppo di un approccio transteorico dei disturbi di personalità, che combini i principi e i metodi di tutte le terapie efficaci, per stabilire un modello di trattamento sufficientemente flessibile, da adattarsi alle diverse forme che il disturbo di personalità assume.

 

L’importanza di adottare un trattamento integrato per i disturbi di personalità

Fare il quadro dell’evoluzione delle metodologie di trattamento dei disturbi di personalità significa, in qualche misura, assumere coscienza di un cammino lungo e spesso difficile, di una concezione iniziale alquanto nichilista delle problematiche trattate e delle diverse direzioni che nel corso dell’ultimo secolo gli studi hanno seguito, tracciando rotte spesso lontane e inconciliabili, fino a giungere all’attuale idea di trattamento “integrato” certamente più adatto a un’idea rispettosa della ricchezza e della complessità dell’essere umano.

W. John Livesley, Giancarlo Dimaggio e John F. Clarkin in “Trattamento integrato per i disturbi di personalità”, sostengono che i risultati ottenuti fino ad oggi forniscono un’idea solida per lo sviluppo di un approccio transteorico dei disturbi di personalità, che combini i principi e i metodi di tutte le terapie efficaci, per stabilire un modello di trattamento sufficientemente flessibile, da adattarsi alle diverse forme che il disturbo di personalità assume.

Dagli anni Novanta in poi, una serie numerosa di terapie si è resa disponibile ed è risultata efficace in almeno una valutazione solida dal punto di vista metodologico.

Tuttavia, nessuna si è dimostrata più efficace rispetto alle altre, la maggior parte di esse è stata condotta su piccoli campioni, in genere coinvolgendo pazienti affetti da disturbo borderline di personalità e presentando informazioni ridotte sul follow-up. Ma soprattutto, ciascuna di esse sembra enfatizzare solo una parte degli aspetti psichici compromessi, avendo come focus d’intervento un disturbo categoriale concettualizzato in maniera globale.

Il trattamento integrato sarebbe pertanto una risposta importante a questo impasse, a questo atteggiamento miope, e partirebbe da un assunto teorico fondamentale: individuare le aree di compromissione (sintomi, problemi nella regolazione delle emozioni, problemi di schemi interpersonali e di identità) e la gravità complessiva della disfunzione del paziente ed intervenire tramite un eclettismo di soluzioni estrapolate da tutti i trattamenti efficaci, utilizzandole in maniera mirata per trattare i specifici malfunzionamenti.

Le riflessioni avanzate dagli autori in “Trattamento integrato per i disturbi di personalità” si spingono verso tale direzione, e sposano la necessità di un momento di studio assai vivace in merito alla disciplina in questione.

La concettualizzazione secondo un approccio integrato

Il volume pertanto inizia con la descrizione della struttura concettuale del trattamento. La concettualizzazione si articola in tre parti.
Viene tracciata una distinzione tra le disfunzioni comuni a tutte le forme di disturbo di personalità e le caratteristiche che delineano disturbi differenti. In secondo luogo, la personalità viene concettualizzata come un sistema organizzato non rigido che consta dei seguenti sottosistemi: tratti, processi regolatori, interpersonale e sé.
Prove empiriche dimostrano che i tratti del disturbo di personalità siano organizzati in 4 diversi cluster:

1) ansioso dipendente o disgregazione emotiva;
2) comportamento dissociale;
3) evitamento sociale;
4) compulsività;

Ogni cluster rappresenta la dimensione principale nella quale si innestano le differenze individuali nel disturbo di personalità che devono essere trattate in terapia. Quando i tratti emergono, plasmano lo sviluppo dei sistemi del sé e interpersonale. Concetto fondamentale è considerare i sistemi come delle reti di conoscenza che organizzano l’informazione sul sé e sulle relazioni interpersonali in schemi cognitivi ed emotivi che vengono utilizzati per codificare gli eventi, attribuire significato all’esperienza ed anticipare la realtà. Questi schemi sono il bersaglio principale dell’intervento.

In particolare, le disfunzioni associate al disturbo di personalità comprendono tutti i sistemi di personalità che danno origine a quattro principali aree di compromissione funzionale:
1) sintomi, quali disforia, ansia, caratteristiche dissociative;
2) processi di regolazione e modulazione, che includono una difficoltosa regolazione delle emozioni e degli impulsi, e processi metacognitivi compromessi che portano a problemi di autoriflessività e controllo;
3) problemi interpersonali;
4) disfunzioni del sé e dell’identità.

Il trattamento può essere organizzato come una sequenza in cui le aree maggiormente suscettibili di cambiamento (ad esempio, i sintomi) sono colpite per prime perché questo aumenta la probabilità di un miglioramento precoce durante la terapia.

L’approccio modulare, quindi, pone meno enfasi sulle diagnosi formali del DSM e sull’utilizzo di protocolli di trattamento rigidi e dà maggiore risalto alla valutazione delle capacità funzionali che riguardano le differenti aree ed opera il cambiamento attraverso due tipologie di intervento: moduli generali di intervento che si basano su meccanismi di cambiamento comune (la Struttura, l’Alleanza, la Coerenza, la Validazione, la Motivazione, la Metacognizione); e 2 moduli specifici che interessano specifiche aree disfunzionali.

I moduli generali sono utilizzati durante il trattamento con tutti i pazienti, mentre i moduli specifici variano a seconda dei problemi che sono il focus d’intervento terapeutico in un dato momento della terapia.
Le fasi di cambiamento sono strettamente collegate alle aree disfunzionali e quindi ai moduli specifici di intervento.
La sequenza logica del cambiamento, come suggerito dagli autori, dovrebbe procedere dalla sicurezza del paziente al contenimento delle emozioni distruttive, al funzionamento interpersonale, e infine alla costruzione di un funzionamento del sé che fornisca all’individuo un senso di coinvolgimento e di raggiungimento degli obiettivi.

Pianificazione del trattamento e contratto terapeutico

La seconda parte del volume, “Assessment, pianificazione del trattamento e contratto terapeutico”, riguarda la valutazione, la formulazione, la pianificazione del trattamento e la sottoscrizione del contratto terapeutico. Livesley e Clarkin descrivono con grande lucidità la valutazione diagnostica articolandola in tre stadi, comprendenti gravità, tratti clinicamente rilevanti e le aree della personalità compromesse e ci spiegano come utilizzare queste informazioni per costruire la formulazione del caso e la pianificazione del trattamento.

La costruzione dell’alleanza terapeutica, elemento essenziale di tutte le terapie efficaci, inizia già a partire dall’assessment, anche se questo significa rendere un po’ più lungo il processo di valutazione.
La percezione della relazione da parte del paziente migliora quando il terapeuta è supportivo, collaborante e comprensivo. Il supporto, sostengono gli autori, viene veicolato da un atteggiamento attento, non giudicante, di ascolto e dalla sintonizzazione empatica nei confronti dei sentimenti del paziente.

Viene a questo punto affrontato il tema rilevante dell’integrazione, il cui locus si trova prevalentemente nella mente del terapeuta, il quale la metterà in pratica non appena effettua l’assessment di quel particolare paziente attraverso il riscontro dei seguenti elementi: 1) una concezione di base delle aree disfunzionali del singolo paziente; 2) una visione di come questo paziente possa raggiungere un livello di aggiustamento più efficace; 3) un’idea di come il paziente possa migliorare passo dopo passo nel corso del tempo; 4) interventi terapeutici tarati sui problemi del paziente e sul suo sentirsi pronto al cambiamento; 5) un’idea di cambiamento del terapeuta come percepito dal paziente, e la concezione del paziente di crescita del sé.

I meccanismi di cambiamento in terapia

Nella terza parte del trattamento, “Principi e meccanismi generali di cambiamento”, vengono esplorati aspetti differenti del trattamento del funzionamento metacognitivo compromesso e il ruolo che questi problemi giocano nei disturbi di personalità. La tematica è dapprima affrontata da Bateman e Fonagy e successivamente da Dimaggio, Popolo, Carcione e Salvatore.

E’ il gruppo italiano a fornirci procedure formalizzate passo dopo passo per arricchire le narrazioni dei pazienti ed esplorare i correlati dell’esperienza soggettiva per promuovere la metacognizione. Capita molto spesso, al terapeuta che ha a che fare con i disturbi di personalità, di osservare nella pratica clinica, pazienti con stile intellettualizzante, la cui comunicazione si basa prevalentemente su astrazioni semantiche con ricorso alla memoria autobiografica davvero marginale.

E’ l’analisi dell’episodio narrativo (come viene descritta dagli autori) il metodo più produttivo per accedere agli elementi dell’esperienza soggettiva-emozioni, credenze, piani e previsioni necessari per costruire una comprensione condivisa del funzionamento mentale del paziente.
Infine, nell’ultima parte del volume, denominata “Trattamento dei sintomi e della disregolazione emotiva”, sono elencate le diverse strategie per trattare i diversi aspetti del disturbo di personalità. Questa parte non copre in maniera esaustiva tutte le componenti della personalità ma mette in luce come metodi differenti possano essere utilizzati all’interno di un approccio integrato.

La sezione inizia con l’arduo argomento della gestione delle crisi suicidarie e altri tipi di crisi. Links e Bergmans sviluppano un modello integrato utile a tutti i clinici, partendo dall’assunto che il clinico di fronte ad un paziente con istinti suicidari debba innanzitutto elaborare i segnali di preallarme di rischio “acuto su cronico” e le azioni da intraprendere non appena il rischio aumenta.

Poiché le crisi appaiono collegate a periodi di emozioni intense negative (ad es. la vergogna nel narcisista o nel borderline), la terapia dovrebbe focalizzarsi sul miglioramento delle abilità del paziente di riconoscere, esprimere ed accettare le proprie emozioni. I pazienti saranno, quindi, incoraggiati ad elaborare le emozioni piuttosto che a controllarle. Una strategia importante per i pazienti è sviluppare un metodo personale per ridimensionare la sofferenza emotiva e per comunicare meglio alla propria rete di supporto i propri bisogni durante una crisi.

Dopo il capitolo che affronta la tematica della farmacoterapia integrata con la psicoterapia, Livesley propone una strategia composta da quattro moduli per il trattamento della disregolazione emotiva. Ogni modulo consiste in un set eclettico di interventi che interessano una componente della disregolazione emotiva, con lo scopo di incrementare la comprensione delle emozioni e della natura dell’esperienza emotiva, aumentando la consapevolezza, migliorando l’autoregolazione e incrementando la capacità di elaborare le emozioni.

Di particolare interesse è il capitolo di Ottavi, Passarella, Pasinetti, Salvatore e Dimaggio, interamente dedicato alla mindfulness. Il valore di questa pratica viene qui mostrato nel trattamento delle strategie di coping disfunzionali, quali la ruminazione, il rimuginio, il monitoraggio della minaccia e l’evitamento delle situazioni interpersonali.

Vengono quindi rivisitati i protocolli standard della mindfulness con la raccomandazione che il loro migliore utilizzo sia possibile solo quando il paziente con disturbo di personalità è in grado di percepirsi, di capire i propri stati mentali, di dare loro un nome e di collegarli alla situazione relazionale che li ha generati.

Nel capitolo successivo, viene trattato un argomento solitamente più trascurato: l’ipercontrollo disadattativo. Lynch, Hemple e Clark concettualizzano il problema dell’ipercontrollo come “solitudine emotiva”, cioè come mancanza di connessione con gli altri che è secondaria ai deficit di segnalazione sociale e bassa apertura.

Il successo del trattamento si basa su due assunti: 1)i pazienti con ipercontrollo sono prosociali nonostante spesso appaiano distanti e 2)i pazienti con ipercontrollo hanno bisogno di lasciar andare il continuo tentativo di fare del loro meglio.

I terapeuti che seguono questi pazienti dovrebbero lavorare per prima cosa sull’aumento della sicurezza sociale e la riduzione dell’arousal di difesa prima di incoraggiare i pazienti a sperimentare nuove abilità. Dovrebbero cioè, mirare ai bias biotemperamentali modificando per prima cosa la fisiologia, prima di puntare a modificare pensieri e comportamenti. Un’ampia letteratura mostra come la meditazione, la musica rilassante e la gentilezza amorevole possano sottoregolare gli effetti psicofisiologici delle emozioni negative che attivano i comportamenti di attacco o fuga.

Dopo l’ampia sezione dedicata alla psicopatia, Dimaggio e colleghi discutono le modalità per ampliare le autonarrazioni che giocano un ruolo importante nella comprensione del sé in un contesto interpersonale.

Nel capitolo conclusivo, Salvatore, Popolo e Dimaggio propongono un approccio volto ad integrare la disgiunzione esistente tra diversi stati del sé nei pazienti con un grave disturbo di personalità. La continua riformulazione del caso durante la fase di trattamento permette al paziente di ricostruire la formulazione così che diventi essa stessa base per una narrazione autobiografica.

Il volume si conclude con la splendida conduzione di un interessante caso clinico in cui è possibile vedere l’integrazione tra le diverse strategie d’intervento.

Mentre si apprezza la lettura di questo libro, sembrano risuonare le parole di Italo Calvino quando sosteneva che ogni vita è un’enciclopedia.
Questo volume, il più importante pubblicato finora, restituisce al clinico il diritto a “non eseguire protocolli”, e al paziente la preziosa opportunità di un trattamento “sartoriale”, adattato all’unicità della sua sofferenza.

Avevamo un grande bisogno di un testo che approfondisse gli aspetti fondamentali e sistematici dell’approccio integrato, e che ci consentisse di ripensare a metodi e terapie con una “nuova sensibilità e modernità”. Si tratta di un lavoro profondo, importante, sul quale tutti dovrebbero essere formati, consapevoli della sua immensa validità scientifica ed insostituibile umanità.

 

La soddisfazione lavorativa: quanto la performance dipende da quanto siamo soddisfatti

La job satisfaction è una valutazione sul grado di soddisfazione lavorativa di un dipendente che comprende sia la componente affettiva sia la componente cognitiva (Hulin & Judge, 2003; Weiss & Cropanzano, 1996). Locke (1976) ha definito la soddisfazione lavorativa come “un piacevole o positivo stato emotivo dato da una valutazione del proprio lavoro o delle esperienze lavorative” (p. 1300).

Valentina Costanzo, Open School PTCR 

 

Il rapporto tra la soddisfazione lavorativa e la performance

La soddisfazione lavorativa è una risposta affettiva di un lavoratore che riguarda il suo lavoro all’interno dell’organizzazione, e deriva dai confronti da parte del lavoratore tra i risultati raggiunti e quelli che si aspettava, che voleva, di cui aveva bisogno, che desiderava o che percepiva essere giusti o appropriati (Cranny, Smith & Stone, 1992).

La relazione tra la soddisfazione lavorativa e la performance ha affascinato da decenni i ricercatori e sono state postulate molte spiegazioni teoriche per spiegare questa relazione (Brayfield & Crockett, 1955; Locke, 1976; Schleicher, Watt & Greguras, 2004; Vroom, 1964).

Per esempio, le teorie sociali-cognitive predicono che: a) gli atteggiamenti verso il lavoro dovrebbero influenzare i comportamenti (nella performance lavorativa ad esempio); b) i comportamenti (o le ricompense ricevute dalla performance) danno luogo agli atteggiamenti nei confronti del lavoro (teorie dell’aspettativa di base; Naylor, Pritchard & Ilgen, 1980; Vroom, 1964); c) la soddisfazione lavorativa e la performance sono legate reciprocamente.

Sebbene la letteratura non abbia raggiunto alcuna conclusione riguardo la relazione tra soddisfazione lavorativa e performance, in una rassegna di 221 studi che utilizzano concezioni a scarto temporale, Harrison, Newman, and Roth (2006) hanno rivelato che la prova che supporta la relazione tra soddisfazione lavorativa e performance era più forte della relazione tra performance e soddisfazione in termini di sequenza temporale. Inoltre, Kraus (1995) ha esaminato in maniera meta-analitica la ricerca sull’atteggiamento-comportamento e ha rilevato che gli atteggiamenti predicono significativamente i comportamenti futuri.

E’ molto importante studiare la relazione tra soddisfazione e performance per molteplici motivi. La soddisfazione lavorativa, infatti, è importante per la salute dei lavoratori e per il benessere.

Ajzen and Fishbein (1977) hanno suggerito che le relazioni più forti tra atteggiamento e comportamento sono ottenute quando i costrutti sono combinati dal livello di specificità. I rapporti più forti di atteggiamento-comportamento è probabile che risultino dalla combinazione tra specifici aspetti della soddisfazione lavorativa e specifici aspetti della performance in modo da aumentare la compatibilità.

Porre attenzione alle diverse relazioni tra gli aspetti specifici di queste due dimensioni è importante poiché gli aspetti possono essere legati tra loro in modo opposto e, quindi, mascherare la validità predittiva ad ampia base sull’intera soddisfazione.

La soddisfazione lavorativa come costrutto multidimensionale

La multidimensionalità della job satisfaction è stata dimostrata sia teoricamente sia empiricamente (per esempio Smith, Kendall & Hulin, 1969; Kinicki, McKee-Ryan, Schriesheim & Carson, 2002).

Smith e al. (1969) hanno proposto l’esistenza di diversi aspetti del lavoro che sono d’aiuto ai dipendenti in diversi modi nella valutazione dell’intero lavoro. Hanno proposto cinque aspetti tra cui i lavoratori possono discriminare, e ciò può essere legato in maniera diversa al grado in cui un lavoratore è soddisfatto del suo lavoro. Questi aspetti sono la soddisfazione per lo stipendio, il lavoro, la possibilità di una promozione e i colleghi.

Ajzen (2005) ha affermato che l’atteggiamento predice il comportamento in maniera più forte quando atteggiamenti e comportamenti sono compatibili o combinati su livelli di specificità. Due indicatori possono essere combinati su livelli di specificità quando sono compatibili con l’altro in termini di target, azione, contesto, elementi di tempo (Ajzen & Fishbein, 1977).

La compatibilità del target dell’atteggiamento e il target al quale il comportamento è diretto dipende dall’importanza delle relazioni tra atteggiamento e comportamento (Weigel, Vernon, & Tognacci, 1974). Applicare la teoria dello scambio sociale e considerare il target dell’atteggiamento e del comportamento può essere rilevante per la relazione tra job satisfaction e job performance.

La teoria dello scambio sociale

La teoria dello scambio sociale è stata formulata da Homans ed è stata sviluppata in seguito da Blau. Homans (1950) cerca di mostrare una continuità tra i processi interattivi, i gruppi e le società più vaste partendo dallo studio di concetti più elementari (sentimenti, attività, interazioni ad esempio) fino ad arrivare a concetti più elaborati come ruolo, status e sistema. La ricerca più famosa è stata quella dei “Mayo studies” condotta a Hawthorne, uno stabilimento che produceva apparecchiature tecniche, sotto la guida dello psicologo Elton Mayo negli anni venti. Attraverso gli studi condotti è stato elaborato il concetto di gruppo informale, ovvero quei gruppi che hanno un proprio leader, sono caratterizzati da relazioni di amicizia e simpatia, hanno una propria struttura interna ed uno standard di comportamenti del tutto diverso da quelli dell’organizzazione formale.

Secondo Homans, il gruppo sopravvive soltanto se i suoi componenti danno vita ad un “sistema interno”(ovvero elaborano i propri valori, i propri sentimenti, le proprie norme) e ad un “sistema esterno”, ovvero le reazioni agli stimoli esterni al gruppo. Il gruppo diventa tale nel momento in cui si intrecciano e vengono elaborati gli elementi del sistema interno ed esterno. Il punto centrale della teoria è che lo scambio è alla base di qualsiasi azione, di qualsiasi realtà istituzionale e di qualsiasi configurazione culturale. Inoltre, gli individui agiscono in un determinato modo poiché si aspettano una ricompensa e non per delle prescrizioni della società.

Per Blau (1964), che riprende la teoria di Homans, sono rapporti di scambio solo quelli che alla base hanno l’aspettativa di una ricompensa durante l’interazione. L’aspettativa è definita in termini di attrazione sociale. Durante l’interazione, c’è chi avrà maggiori ricompense da offrire rispetto agli altri e sorge un vero e proprio problema di potere. Coloro che lo detengono devono far in modo di mantenersi all’interno di quanto è stabilito dal gruppo sociale per non perdere la supremazia.

La base specifica per lo scambio può determinare la vastità delle relazioni tra ogni aspetto della soddisfazione e la task e contextual performance. Questo è il motivo teorico per credere che ogni aspetto della soddisfazione possa essere molto bene legato alla task performance e alla contextual performance.

Organ (1990) ha sostenuto che la componente cognitiva della soddisfazione lavorativa sia definita dalle valutazioni dei dipendenti sulla correttezza, che in parte derivano dai confronti. In maniera specifica, ha affermato che “uno in parte è soddisfatto che i risultati o le condizioni siano vicini alla concezione ‘ciò che avrebbero potuto essere’- che possono essere definiti dai processi di confronto sociale, esperienze precedenti o promesse implicite” (Organ, 1990, p. 56). Quindi, sono i processi di paragone sociale che rappresentano gli scambi sociali e influenzano la relazione tra job satisfaction e contextual performance. La teoria dello scambio sociale, oltre ad essere il paradigma teorico dominante nella ricerca sulla contextual performance, può anche spiegare la relazione tra alcuni aspetti della soddisfazione lavorativa e della task performance. In maniera più specifica, se il target dello scambio è avvertito con l’organizzazione, i dipendenti possono porre l’attenzione sullo stipendio, le condizioni di lavoro, le opportunità di avanzamento di carriera. Se i dipendenti sono soddisfatti per la giustizia dello stipendio e le opportunità di promozione, possono lavorare più duramente sui doveri legati al lavoro (ossia i loro ruoli definiti dall’organizzazione o task performance).

La teoria dell’equità

La teoria dell’equità (Adams, 1965) afferma che gli individui confrontano il loro stipendio o le loro opportunità con gli altri colleghi per giungere ad una conclusione sull’equità o la correttezza. Le percezioni di iniquità causano tensioni che motivano l’individuo a ridurla. Per un lavoratore, un modo per ridurre l’iniquità è modificare i propri sforzi. Per esempio, la teoria dell’equità predirebbe che i lavoratori diminuiscono gli sforzi per ridurre l’iniquità poiché sono sottopagati (Adams, 1965; Lord & Hohenfeld, 1979; Werner & Mero, 1999). Perciò c’è un supporto teorico ed empirico molto forte che afferma che c’è una relazione positiva tra soddisfazione con lo stipendio, con le opportunità di carriera e con la task performance. Lo stipendio e le opportunità di carriera sono delle ricompense estrinseche.

Se lo scambio sociale è percepito in termini di relazioni interpersonali sul lavoro invece che con l’organizzazione o il lavoro stesso, i dipendenti possono concentrarsi sulle relazioni con i colleghi e i supervisori. Se i dipendenti risultano soddisfatti del rapporto con i colleghi e i supervisori, possono mettere in atto dei comportamenti prosociali nei loro confronti. E’ molto probabile che la soddisfazione con i colleghi e i supervisori influenzi la contextual performance. Le dimensioni della contextual performance come la lealtà, la civiltà, la cortesia, l’altruismo, sono definite dal proprio rapporto con gli altri.

Inoltre, c’è un’evidenza empirica che supporta il ruolo positivo della correttezza. Le ricerche precedenti hanno riportato che gli individui sono più soddisfatti se hanno la possibilità di prendere parte alle decisioni (Konovsky & Folger, 1987; Lind & Tyler, 1988). Parker et al.(1997) hanno rilevato che la partecipazione è associata ad una maggiore soddisfazione lavorativa e al benessere. La partecipazione è molto importante per moderare gli effetti dello stress anche per i lavoratori negli ospedali (Pozner & Randolph, 1980). I lavoratori è probabile che sentano di avere un senso di controllo della situazione quando possono influenzare le decisioni da prendere.

L’impatto del conflitto lavoro/famiglia sulla soddisfazione lavorativa

Per quanto riguarda la soddisfazione lavorativa, ci sono dei temi che sono frequentemente studiati in letteratura. Mentre la tensione del ruolo, il conflitto, l’ambiguità e lo stress lavorativo hanno un effetto inversamente proporzionale alla soddisfazione (Gellis, 2001; Jayaratne & Chess, 1984; Poulin, 1995), poche ricerche sono state condotte sull’impatto del conflitto lavoro/famiglia (Work-Family Conflict, WFC) sugli operatori del servizio sociale e umano. C’è una letteratura molto limitata sul WFC nel lavoro sociale, ma le ricerche sull’impatto del WFC sui lavoratori delle organizzazioni private stanno aumentando, e questa letteratura afferma che il conflitto lavoro/famiglia ha un impatto sulla soddisfazione lavorativa dei lavoratori delle organizzazioni non-social (Boles, Johnson & Hair, 1997; Williams & Alliger, 1994).

Tra gli infermieri di Hong Kong, i manager, gli operatori sociali, è stato rilevato che il WFC ha un’associazione negativa con la soddisfazione lavorativa (Chiu, 1998). Sembra che coloro che sono pressati dal tempo e che hanno un lavoro che interferisce con la vita familiare abbiano una soddisfazione lavorativa più bassa. Lavorare per troppe ore e lavorare durante le ore che dovrebbero essere dedite agli impegni familiari o sociali (ad esempio assistenza ai bambini, ai più anziani, eventi sociali, ecc.) può portare gli operatori del servizio sociale a vedere il proprio lavoro in un modo meno favorevole. Tutto ciò non riguarda solo questa categoria di lavoratori ma i lavoratori in generale.

In un’indagine condotta dal Radcliffe Public Policy Center, l’82% degli uomini e l’84% delle donne tra i 20 e i 39 anni d’età ha indicato che il tempo per la famiglia è una loro priorità. Infatti, i due terzi ha dichiarato di voler rinunciare ad una parte dello stipendio per poter passare più tempo con la famiglia (Minehan, 2000). Se il tempo da dedicare alla vita privata non è abbastanza possono esserci ripercussioni sulla soddisfazione lavorativa.

Molti studi sullo stress lavorativo e sul burnout hanno aggiunto alcune misure della soddisfazione lavorativa (Koeske et al., 1994). Gli studi nell’area del burnout tra gli operatori sociali indicano che i fattori nell’organizzazione che contribuiscono al burnout includono un basso livello di supporto sociale, autonomia, confusione, sfida, conflitto e depersonalizzazione (Arches, 1991; Koeske & Koeske, 1989; Siefert, Jayaratne, & Chess, 1991; Söderfeldt, Söderfeldt, & Warg, 1995; Um & Harrison, 1998).

L’impatto della leadership sulla soddisfazione lavorativa

Gli studi continuano ad esaminare l’impatto della leadership sulla soddisfazione dei lavoratori (Iaffaldano & Muchinsky, 1985; Ironson et al., 1989). La leadership ha un impatto sulla motivazione, l’organizational commitment, la produttività e la soddisfazione lavorativa. Dato che le ricerche in quest’area sono inconcludenti e contraddittorie, è difficile determinare l’effetto causale tra la soddisfazione lavorativa e caratteristiche della leadership. Tuttavia, gli studi hanno indicato una relazione tra leadership, soddisfazione lavorativa e organizational commitment (Gellis, 2001; Glisson, 1989; Kays, 1993; Malka, 1989; Packard, 1989).

Per i lavoratori sociali, la dimostrazione del supervisore dello stile di leadership trasformazionale con la partecipazione alle prese di decisione era associata alla organizational performance dei dipendenti, al commitment e alla soddisfazione lavorativa (Fuller et al., 1999; Gellis, 2001; Mary, 2005). Gli studi condotti con le agenzie di servizi umani erano basati su specifici ambienti di lavoro, i tipi di lavoro, il carico di lavoro, la clientela. Tuttavia sembra che la leadership sia un fattore chiave all’interno delle organizzazioni e può avere un impatto sulla soddisfazione lavorativa dei dipendenti.

La gelosia sui social media: differenze tra uomini e donne

In un nuovo studio, i ricercatori della Cardiff Metropolitan University del Regno Unito hanno studiato come tra i due sessi la gelosia possa manifestarsi in modo diverso quando uno dei due partner scopre messaggi compromettenti sulle chat dell’altro.

 

Cosa rende gelosi gli uomini e le donne sui social media?

Lo studio ha dimostrato che gli uomini e le donne tendono a preoccuparsi di aspetti diversi: mentre gli uomini diventano più suscettibili di fronte ad una sessualità sospetta, l’ allarmismo femminile coinvolge per lo più fattori emotivi.
Le donne diventano sospettose quando il messaggio incriminante viene da un’altra donna, mentre gli uomini, se è il proprio partner ad aver digitato il messaggio.

I risultati dimostrano che gli uomini e le donne tendono ad avere diversi triggers di gelosia quando hanno tra le mani le prove concrete di un presunto inganno o tradimento da parte del partner.

Per questo studio, a 21 studenti e 23 studentesse sono stati mostrati falsi messaggi di Facebook, testimoniando che i loro partner erano infedeli o dal punto di vista sessuale o nell’essere coinvolti emotivamente da un’altra persona.
Otto brevi messaggi del tipo “Tu devi essere sicuramente la mia anima gemella! Mi sento così connesso a te, anche se non abbiamo dormito insieme” (infedeltà emotiva) oppure” Sei stato/a la migliore avventura di una notte che abbia mai avuto. La scorsa notte è stata incredibile, fuori dal mondo, sesso esplosivo”(Infedeltà sessuale), sono stati mostrati ai partecipanti.

Alcuni dei messaggi ” appena scoperti” venivano presentati come se fossero stati scritti dai propri partner altri come se fossero stati scritti da un’altra donna.

I partecipanti hanno quindi dovuto valutare quanto avrebbero sofferto se avessero scoperto tali messaggi sull’account Facebook del proprio partner, mentre veniva spiato di nascosto.

I ricercatori hanno scoperto che gli uomini provano un senso di sofferenza maggiore quando leggono messaggi che indicano l’infedeltà sessuale, mentre le donne quando leggono messaggi con grande carica emotiva.

Inoltre, le donne mostravano molta più difficoltà ed agitazione quando una potenziale rivale aveva scritto il messaggio incriminante, rispetto a quando era composto dai propri partner.

Per gli uomini, sembrava vero l’opposto – sembravano più sconvolti ad immaginare l’invio di un messaggio da parte del partner, piuttosto che dal leggere un messaggio da parte di una terza persona che rappresentava la prova infallibile dell’infedeltà.
Indipendentemente dal contenuto, però, le donne si mostravano più destabilizzate quando scoprivano l’infedeltà dei propri uomini.

I risultati della ricerca appoggiano le teorie evolutive che gli uomini e le donne hanno reazioni di gelosia diverse e che successivamente dirigono i loro sentimenti di rabbia verso il partner o verso il potenziale rivale.

Lo studio aiuta a far luce sui meccanismi alla base della gelosia e su come si svolge nell’era digitale.

Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini su Trauma e Relazione Pt. 3

Proseguo le mie considerazioni sul dibattito su trauma e relazione. Nel cognitivismo comportamentista che imparai 40 anni fa si parlava ben poco di relazione terapeutica, al contrario del gran parlare che ci si facevano i colleghi psicoanalisti con il transfert, il controtransfert e le relative nevrosi.


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017

Da noi finché non dava fastidio e ci lasciava lavorare serenamente con le nostre tecniche efficaci la si poteva ignorare del tutto con la semplice e banale attenzione a mantenere un clima collaborativo ignorando che sono anche altri i sistemi motivazionali ad attivarsi in una relazione e che semmai la vera cooperazione è un punto di arrivo, quando va di lusso.

Salta agli occhi la somiglianza con la relazione di attaccamento in quanto: la sproporzione di potere e competenza tra i due è evidente, ci si occupa dei bisogni di uno soltanto e -unica tra tutte le altre relazioni profonde adulte- come l’attaccamento, se funziona finisce e lavora a tal fine.

La relazione terapeutica è normata dalle cosiddette regole del setting che, nate sull’esperienza professionale dei primi analisti, si sono poi col tempo gonfiate, articolate complicate per quella strisciante perversione del genere umano che potremmo chiamare “normofilia” che ha la sua massima nefasta espressione nella burocrazia, nei regolamenti attuativi, nelle circolari esplicative, e così via. Non c’è niente da fare è più forte di noi. Sant’Agostino ha detto “ama e fa ciò che vuoi” e schiere  di monaci segaioli si sono messi a predisporre esattamente un grafico con sulle ascisse il tempo mancante al matrimonio e sulle ordinate i centimetri di coscia esplorabili in attesa del gran giorno.

Il proliferare di questa metastasi normativa del setting ha reso la terapia una liturgia accentuandone gli aspetti magici e suggestivi. Mi capitano dei pazienti che si meravigliano di potermi stringere la mano nel salutarci e credono di commettere peccato mortale a prendere una caramella presente sul tavolo. Non dimenticherò facilmente una paziente che si contorceva sulla sedia in quanto aveva saputo che fare pipì nel bagno del terapeuta è un gesto chiaramente aggressivo e che si è convinta alla liberazione dopo che ho argomentato essere certamente peggio una pisciata sull’antica poltrona del mi babbo. Colgo l’occasione per autodenuncirmi ai probi viri della SITCC per aver accompagnato con l’ombrello alla sua macchina l’ultimo paziente della giornata che usciva con me. In passato un Natale accettai persino un panettone fatto in casa senza canditi, ma ero molto giovane: ora mi piacciono pure i canditi.

Allora credo che Sandra abbia ragione quando dice che è riducibile ad un problema di buona educazione, ovviamente non formale ma sostanziale ovvero di assoluto rispetto reciproco. Le stesse regole non valgono forse nel rapporto col vostro meccanico  con il pediatra dei figli o con l’avvocato?

Solo che tutto questo è il minimo sindacale garantito il “ci mancherebbe altro”, poi la relazione  è anche uno strumento terapeutico sia in fase di assessment perché lì vediamo in diretta i modi con cui il paziente si relaziona agli altri e che sono in genere il motivo della sofferenza per cui è li. Purché non ci si dimentichi che quello che viene fuori è il frutto di due patologie: la sua e la nostra.

La teoria prevede che il terapeuta non risponda in modo complementare e rinforzante, come fanno tutti, agli schemi del paziente ma ne evidenzi la disfunzionalità cercando alternative. Così la relazione diventa uno strumento terapeutico.

La relazione terapeutica può essere strumento fondamentale del processo di cambiamento. La strada maestra comunque è l’atteggiamento di fondo  da tenere nei suoi confronti che  definirei  in generale come “percepirlo e trattarlo come non si è mai permesso di essere per consentirglielo”. Credo che questa percezione  di come l’altro avrebbe potuto e forse voluto essere e non è stato sia decisiva e deve essere sincera, poi tutto il resto  segue di conseguenza.

L’importante è procedere con un idea in testa sul cambiamento che si vuole ottenere, il resto viene da sé. Ad esempio se voglio che  aumenti l’autostima l’atteggiamento sarà genericamente validante e incoraggiante. Se voglio che smetta di costringersi ad essere il migliore per essere considerato lo coccolerò quando sta in difficoltà.

Due esempi fuori contesto  dunque più freddi e chiari.

Se voglio  tornare a casa devo rappresentarmi questo desiderio. Poi scegliere l’autobus, la metropolitana, i piedi o il taxi dipenderà dalla distanza, da me in quel preciso giorno, dal tempo e dalle risorse.

Se voglio conquistare un partner, il protocollo non è standard ma  dipende da come è lei/lui –o meglio: da come penso che sia- da come sono le condizioni esterne al momento e da come sono io. L’importante non è avere la ricetta giusta ma un metodo per la correzione degli errori che certamente ci saranno  e in terapia  questo metodo di aggiustamento della mira è la condivisione col paziente.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017

 

Cocaina: assunzione, storia e conseguenze a breve e a lungo termine – Introduzione alla Psicologia

La cocaina è una sostanza psicotropa che funge da stimolante ed eccitante del sistema nervoso centrale, oltre a essere anche un vasocostrittore e un anestetico. Essa può essere assunta per inalazione o per via endovenosa, e storicamente era usata prevalentemente in ambienti intellettuali o elitari. Negli ultimi anni, in occidente, è possibile trovarla anche in strada e tra le classi meno agiate. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La cocaina, o benzoilmetilecgonina, è una sostanza psicotropa che funge da stimolante ed eccitante del sistema nervoso centrale, oltre a essere anche un vasocostrittore e un anestetico. La cocaina è un alcaloide derivato dalle foglie della Erythroxylum coca, nota come coca, pianta derivante e originaria del Perù, della Colombia e della Bolivia. La cocaina, nel tempo ha trovato molti estimatori, compreso Freud, visti i suoi effetti sulle funzioni cognitive. Essa può essere assunta per inalazione o per via andovenosa, e storicamente era usata prevalentemente in ambienti intellettuali o elitari. Negli ultimi anni, in occidente, è possibile trovarla anche in strada e tra le classi meno agiate.

Cocaina: aspetto e assunzione

Dopo la cannabis la cocaina rappresenta la droga più utilizzata. L’estratto delle foglie di coca, meglio noto come cloridrato di cocaina, è la sostanza che si utilizza e commercializza che dà dipendenza ma non tolleranza. La cocaina ha l’aspetto di una polvere bianca e cristallina, per questo può essere chiamata anche neve, e di solito viene sniffata, ovvero inalata attraverso il naso. La cocaina può essere assunte in diversi modi, inalata o iniettata in vena, e ognuno produce effetti diversi e più o meno duraturi.

Storia

L’uso della cocaina ha origini antichissime. Infatti, sono stati ritrovati sacchetti in corda contenenti foglie, fiori e anche una forma masticata di cocaina nei corredi funebri antecedenti al 2500 a.C., venuti alla luce ad Huaca Prieta, sulla costa settentrionale del Perù. Nel 2000 a.C è stata individuata la presenza di cocaina accanto a teschi trapanati nelle tombe peruviane e nei capelli delle mummie cilene. Per capire, però, esattamente quando questa pianta fu divulgata è necessario riferirsi all’origine della parola coca. La parola coca deriva dal termine kuka, nome identificante la pianta di cocaina in lingua quechua. Secondo alcuni, però, la parola coca deriva dal linguaggio di una popolazione indios antecedente l’avvento degli Incas, denominata Aymara, i cui membri erano già in grado di coltivare e usare la pianta. Quindi, in lingua Aymara il termine coca significa semplicemente pianta o albero.

Proprio gli Incas divinizzarono la coca rendendola il perno del loro sistema socio-politico e religioso. In una leggenda si narra che gli Incas presumevano che la pianta di coca avesse origine divina e fu il primo imperatore Manco Capac che la portò dai domini celesti (dio sole) fin sulle sponde del lago Titicaca, per offrirla al suo popolo. Si racconta, inoltre, che i figli del dio sole avessero fatto dono all’uomo (l’imperatore degli Incas) della foglia di coca dopo la creazione dell’Impero, per saziare gli affamati, dare nuovo vigore ai deboli e agli esausti e far dimenticare agli infelici le loro miserie. Lo scopo, ovviamente, era tutt’altro che divino: bisognava ottenere il massimo controllo politico e religioso sulle popolazione dei territori conquistati per questo andavano sottomessi e schiavizzati rendendo al massimo delle loro forze.

Il masticare le foglie della pianta di coca era un rito di iniziazione che rendeva la persona totalmente accettata nell’aristocrazia e ufficialmente appartenente alla religione Incas. Attraverso questa ritualità, l’aristocrazia imponeva un limite al consumo della pianta e, soprattutto, giustificava al resto della popolazione la propria discendenza divina.

In seguito, con l’avvento e la conquista degli spagnoli la pianta di coca fu considerata di origine demoniaca, visti gli effetti sulla psiche, e per questo bandita. Nonostante il Concilio di Lima tentò di ridurre l’uso presso le popolazioni peruviane, cilene e boliviane, alle quali veniva somministrata di nascosto per rendere gli schiavi più produttivi e meno affaticati, la sostanza e la coltivazione erano ormai diffusissime. La cocaina divenne presto monopolio di Stato verso la fine dell’Ottocento e in quegli anni passò in mani di imprese private per essere commercializzata e diffusa.

Amerigo Vespucci per primo descrisse l’uso fatto della coca presso varie popolazioni del Nuovo Mondo. Vespucci raccontava che gli indigeni masticavano le foglie secche o polverizzate della coca mescolate con una piccola quantità di materia alcalina (calce, cenere di diverse piante o di ossa) e da essa si ottenevano strani effetti allucinatori.

La cocaina divenne nota in Europa grazie ai suoi effetti intorno al diciannovesimo secolo. Nel 1884 Sigmund Freud pubblicò il primo degli studi che redasse sulla cocaina, in cui la consigliava quale panacea per una serie di malattie organiche e psichiche, come la depressione e l’isteria e per i suoi effetti afrodisiaci e anestetici.

Carl Koller, oculista amico di Freud, utilizzò la coca come anestetico per gli interventi chirurgici eseguiti agli occhi, e altri la sperimentarono quale forte tranquillante. In ogni caso, lo sperimentare la sostanza su stessi costrinse questi studiosi a gravi forme di dipendenza. Più tardi, il chimico Angelo Mariani realizzò un vino a base di coca che fece clamore tra i cantanti d’opera e i musicisti perché considerato un ottimo rimedio contro il mal di gola e come stimolante e tonico. Da qui, si diede inizio alla produzione di una vasta gamma di prodotti a base di coca che riscossero molto successo, anche a corte.

In Italia, l’impiego di cocaina divenne un’abitudine alla moda negli anni venti.

In America, invece, gli imprenditori giudicarono vantaggioso investire nel mercato dei prodotti a base di cocaina. Infatti, Pemberton lanciò in questo periodo la prima bevanda a base di coca,  la French Wine Coca e durante il proibizionismo la famosa bevanda Coca-Cola realizzata con un estratto non alcolico di foglie di coca, noci e di cola africana, ricca di caffeina, il tutto disciolto in un dolce sciroppo di zucchero. Chiaramente, il consumo frequente di questa sostanza portava a devastanti conseguenze a livello medico e per questo gli organi competenti dovettero prendere le dovute precauzioni. A partire dal 1880, le industrie farmaceutiche resero disponibili grosse quantità di coca che poteva essere utilizzata per via endovenosa o più facilmente aspirata. La pratica dello sniffing fu di gran lunga preferita dai consumatori, perché non lasciava tracce sul corpo e consentiva un impiego personale e privato. Questa modalità di somministrazione contribuì notevolmente alla diffusione dell’uso della cocaina in ogni classe sociale e culturale.

Ben presto, però, in alcuni Stati Americani il commercio e l’uso della cocaina senza prescrizione medica divenne illegale e l’emanazione del Pure Food and Drug Act, del 1906, costrinse i produttori di Coca ad eliminare la cocaina dal mercato e dalla ricetta della ormai nota bevanda.

Riscontri empirici sui rischi dell’uso di cocaina

Nel 1924 cominciarono le pubblicazioni scientifiche in cui si attestavano i rischi dell’utilizzo di questa sostanza tra cui:  fragilità mentale, irritabilità, pensiero paranoide, sospetto, rancore e diffidenze per gli altri, interpretazione falsate della realtà, gelosie infondate. L’opera di Sajous, “Analytic Cyclopaedia of Practical Medicine”, e quella di Lewin “Phantastica. Narotic and stimulating drug, treir use and abuse”, rappresentano dei capisaldi storici circa la valutazione empirica degli effetti negativi della coca. Di conseguenza, divenne bandita e proibita in diversi ambiti. Ma la seconda guerra mondiale portò con sé, però, una recrudescenza del suo uso, poiché in molti tra politici e militari la utilizzarono.

L’ uso sociale della cocaina è proseguito fino ai giorni nostri, coinvolgendo gente di ogni estrazione sociale.

Ai giorni nostri, l’utilizzo della cocaina è diventato molto più comune e continua a esercitare il suo fascino, ottenendo molti consensi.

Tipi di assunzione

La cocaina può essere assunta per masticazione delle foglie. Questa modalità non produce nessun effetto importante sul comportamento e per questo risulta essere legale nei paesi andini. In questo modo, i suoi effetti sono più o meno indistinguibili da quegli prodotti da altri stimolanti, come a esempio la caffeina. L’assorbimento sublinguale della sostanza riesce a diluire e rallentare molto l’assorbimento nel tempo della stessa e, per questo, non produce effetti marcatamente eccitatori.

Inoltre, può essere assunta per inalazione della polvere di cocaina, che rappresenta il metodo di gran lunga più diffuso nella società occidentale. La cocaina in polvere viene disposta su una superficie liscia, allineata in strisce, o piste, e aspirata attraverso inalatori o cannucce o banconote arrotolate. Gli effetti sono evidenti e repentini, e durano da 20 minuti circa a qualche ora. La durata dipende dalla quantità e dalla purezza della sostanza assunta, che dipende dalla percentuale di sostanza presente. Non esiste cocaina pura al cento per cento, ma è sempre tagliata con altre sostanze.

Potrebbe essere assunta per inalazione di vapori: la cocaina è depositata su un foglio di alluminio scaldato e, di conseguenza, inalata generalmente tramite una cannuccia. Spesso il braciere di alluminio viene preparato sull’imboccatura di ampolle o bottiglie di vetro (o pvc) che dispongono di un secondo foro in cui inserire la cannuccia o da cui aspirare direttamente il Freebase o il Crack

Per freebase si intende la forma base della cocaina cloridrato, che si ottiene dissolvendo la cocaina in acqua. Una volta sciolta si aggiunge ammoniaca per eliminare i protoni in eccesso. La soluzione così ottenuta si taglia aggiunge della soluzione etere etilico, in quanto il freebase è insolubile in acqua ma altamente solubile nell’etere etilico.

Il Crack si ottiene mischiando le dovute dosi di cocaina cloridrato a una base, come il bicarbonato di sodio. Il crack è spesso usato più del freebase in quanto non si taglia con etere, e per questo meno pericoloso da preparare. Crack e freebase hanno effetti quasi istantanei e molto forti. Causano entrambi alta dipendenza psichica e fisica.

Infine, la cocaina si può sicuramente assumere per via endovenosa tramite iniezione mediante siringa e diluendo la cocaina in soluzione acquosa o per iniezione sottocutanea o intramuscolare. Questa modalità di assunzione consente un assorbimento più lento e quindi una durata maggiore degli effetti, evitando la tossicità di picco. Tuttavia tale modalità di somministrazione può causare necrosi tissutale, sia a causa di sostanze contenute nel preparato somministrato, sia a causa di batteri che possono contaminare la siringa.

Effetti a breve e a lungo termine

Il principio attivo della cocaina fu estratto dalle foglie della coca nel 1860 da parte di uno studente tedesco. Da quel momento la cocaina si utilizzò prima come anestetico e antidepressivo e poi come stimolante.

La cocaina agisce stimolando globalmente tutte le strutture del cervello, aumentando la quantità di neurotrasmettitori che attivano le cellule cerebrali, in particolare la dopamina che agirebbe sui sistemi della gratificazione e della piacevolezza. Gli effetti che ne conseguono sono: euforia, sensazione di benessere, sicurezza e fiducia, aumento dell’energia mentale e fisica, lucidità, resistenza a fatiche e bisogni (sonno, fame, stanchezza), aumento del desiderio sessuale.

Gli effetti della cocaina derivano dalla diversa modalità di assunzione. Effetti rapidi si ottengono se assunta per via  endovenosa o per inalazione, più lenti se aspirata o masticata.

Gli effetti neuropsichiatrici sono:

  • Aumento della reattività fisica e mentale
  • Distorsione cognitiva e delle capacità recettive
  • Sensazione di aumento delle percezioni
  • Riduzione dello stimolo di addormentamento, della fame e della sete
  • Euforia
  • Maggiore socievolezza
  • Infaticabilità
  • Incremento della libido

A livello fisico può portare a vasocostrizione e anestesia locale; induce, inoltre, le cellule dei tessuti ad apoptosi cellulare incontrollata. Se inalata, provoca coaguli, spesso associati a riniti e infiammazioni della mucosa. Mentre, a livello cardiocircolatorio si presentano tachicardia, aumento della contrattilità del ventricolo e della pressione arteriosa, con incremento della produzione di adrenalina ed endotelina e diminuzione di ossido nitrico con possibile vasospasmo delle coronarie.

L’utilizzo prolungato e frequente di cocaina crea una forte dipendenza psichica e fisica, che può manifestarsi con importanti crisi d’astinenza e manifestazioni neuropsichiatriche come irritabilità, sindromi depressive, stati d’ansia, insonnia e paranoia.

L’uso cronico espone, inoltre, a un elevato rischio di aterosclerosi, trombosi da aumento dell’aggregabilità piastrinica, infarto miocardico, ipertensione arteriosa, deficit del sistema immunitario, disfunzione erettile, con calo della libido e oligospermia.

Overdose da cocaina

A dosi maggiori la cocaina può produrre effetti indesiderati che includono tremori, labilità emozionale, irrequietezza, irritabilità, paranoia, panico e comportamento stereotipato e ripetitivo. A dosi ancora più alte può indurre ansia intensa, paranoia, allucinazioni, ipertensione arteriosa, tachicardia, ipereccitabilità ventricolare, ipertermia e depressione respiratoria. Infine nel sovradosaggio la cocaina può causare insufficienza cardiaca acuta, infarto, ictus e convulsioni (Sthal, 1999). L’assunzione cronica determina deperimento organico, sudorazione eccessiva, irrequietezza, irritabilità, tremori, tachicardia, vampate, disidratazione e perforazione del setto nasale (Rigliano, 2004.).

Quindi, nel sovradosaggio la persona mostra agitazione, ostilità, allucinazioni e convulsioni fino al coma, uniti a tachicardia e aumento della temperatura corporea. La morte può sopraggiungere per infarto miocardico acuto o blocco respiratorio conseguente a paralisi muscolare. L’overdose si ottiene nel momenti in cui si assumono dosi sempre maggiori di sostanza, grazie al verificarsi di dipendenza e assuefazione alla stessa.

Conseguenze

La cocaina è un eccitante estremamente potente e per questo chi la assume tende a richiederne sempre di più. La cocaina porta alla dipendenza, ovvero bisogno di aumentare le dosi per poter ottenere lo stesso effetto.

L’astinenza da cocaina provoca depressione, sonnolenza, inquietudine, tremori, dolore ai muscoli e di conseguenza la voglia di consumare di nuovo con il rischio dell’overdose che può portare alla morte per arresto cardiaco, convulsioni o paralisi respiratoria. L’uso prolungato può essere causa di paranoia, allucinazioni e psicosi. La mescolanza con alcool o con altre droghe aumenta i rischi; a esempio proprio l’alcool può stimolare l’aggressività. Se il paziente mostra intossicazione è indispensabile sedarlo somministrando elevate dosi di benzodiazepine, o di neurolettici, solo se persiste sintomatologia psicotica dopo la sedazione.

Per l’astinenza non esistono terapie specifiche: i farmaci impiegati agiscono prevalentemente nel tentare di ridurre il “craving” per la sostanza. Tra questi, i più utilizzati sono gli stabilizzanti d’umore, gli agonisti dopaminergici e gli antidepressivi. Allo scopo di evitare recidive è indispensabile unire alla terapia farmacologica un percorso terapeutico cognitivo-comportamentale. Un certo interesse ha suscitato recentemente l’osservazione che un farmaco anti-epilettico, il “vigabatrin”, tramite blocco del trasporto di dopamina ridurrebbe l’effetto gratificante della somministrazione di cocaina.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

L’innamoramento psicotico in Mal di pietre (2016) – Recensione del film

Mal di Pietre (2016) è un film sulla malattia psichiatrica in età adulta, una patologia trascurata e minimizzata per buona parte del percorso del film dalla maggior parte dei personaggi, ad eccezione dell’insospettabile consorte che con un colpo di scena sorprende lo spettatore e si pone come una figura sufficientemente buona.

 

Trama del film Mal di pietre

La protagonista del film Mal di pietre è Gabrielle, una giovane donna francese sola, emarginata e ossessionata dall’amore perfetto, attraente e al tempo stesso poco seducente, esteticamente adulta e interiormente infantile, in procinto di varcare la soglia dell’età “giusta” per sposarsi e avviare una famiglia. È la madre stessa a sostenere la necessità di una decisione immediata per sistemare la faccenda: Gabrielle non è pazza, ha solamente bisogno di un uomo, senza questo elemento rischia di compromettere il buon nome della famiglia, pertanto deve stabilire se accettare il matrimonio con uno sconosciuto osservato con estrema sospettosità, o entrare al manicomio di Marsiglia.

Di fronte alla possibilità di essere internata, Gabrielle accetta a malincuore di convolare a nozze con il buon partito José, un muratore spagnolo di poche parole, con un lavoro solido e una scarsa attitudine alla passione, un uomo scelto accuratamente dalla madre che spera di risolvere il problema parcheggiando la figlia in una situazione di “contenimento”, con regole coniugali, poche fantasie e molta praticità.

Gabrielle è sognatrice, emotiva, ma anche diffidente, al contrario della madre che si ostina a mantenere un distacco quasi professionale da un problema che necessiterebbe di un equilibrio tra distanza e partecipazione emotiva, la consapevolezza di ciò che l’altro chiede e quello che si può ottenere.

Benché frettolosa, la donna si dirige inconsapevolmente verso la persona adatta per la figlia: José assomiglia ai genitori per il suo atteggiamento apparentemente distaccato, ma dietro questa “armatura” nasconde un reale interesse per quella ragazza bella e disturbata che osserva di nascosto mentre suona il piano. All’inizio, però, lo spagnolo dagli occhi chiari fatica ad esprimere le sue emozioni e il clima famigliare si ripete, così, nel matrimonio che Gabrielle aveva fantasticato diversamente: leggendo Cime Tempestose, immaginando le vicende passionali tra Heathcliff e Catherine, il turbinio di emozioni che trascina i protagonisti l’uno nelle braccia dell’altra, la rappresentazione dell’amore come un gioco di passioni travolgenti si scontra con la realtà costellata di interminabili silenzi e distanze.

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Mal di pietre: gli amori impossibili e i rifiuti vissuti da Gabrielle

L’amore romanzato è preteso e ricercato anche a costo di interpretare massicciamente dettagli insignificanti nell’interazione con l’altro: chiunque le dimostri un minimo gesto di attenzione in un contesto in cui la relazione non può svilupparsi diventa la persona giusta da rincorrere e corteggiare. L’amore impossibile porta alla selezione di uomini impossibili con i quali i contatti sono e saranno ristretti e limitati e il rifiuto è palese: il primo è un uomo sposato che le regala un libro senza alcun secondo fine, il secondo un tenente che un tempo l’avrebbe amata, ma ormai è in fin di vita e si augura soltanto di trovare al più presto una pace eterna. In entrambi i casi gli ostacoli sono insormontabili: non è possibile consolidare un legame con un uomo sposato e disinteressato, e nemmeno con un ragazzo che sta per morire, e per tale ragione non riesce a sperimentare un innamoramento nei suoi riguardi.

Nel film Gabrielle gestisce tre tipi di rifiuti in relazione a tre uomini diversi, l’uomo sposato, il marito e il tenente: il primo avviene con veemenza e disperazione, aggredisce e si abbandona nei campi e nella solitudine, il secondo è un rifiuto più emotivo che fisico, con meccanicità nei gesti e nella seduzione, l’ultimo con deliri e allucinazioni prominenti, in cui passionalità, rabbia e disperazione si susseguono fino a dileguarsi nella graduale presa di coscienza.

Il mal di pietre di Gabrielle e l’incontro con André

All’inizio Gabrielle prova ad instaurare un rapporto con “l’ermetico” José che resta imperturbabile: è gentile e premuroso ma tratta con estrema praticità il problema di salute della moglie che si aggiunge alla malattia mentale. La protagonista è colta dal mal di pietre un’anomalia organica che ostacola la gravidanza, curabile attraverso una terapia lunga e costosa in un ospedale sperduto nelle Alpi Svizzere. È qui, dopo essere stata abbandonata temporaneamente dal marito, che inizia a frequentare assiduamente André, uno dei pochi degenti incapace di muoversi per l’ospedale e quindi bisognoso di attenzioni e cure frequenti: Gabrielle conosce perfettamente le condizioni dell’uomo, ma rifiuta l’idea di non essere corrisposta e di non poter coltivare un amore con lui. La negazione la conduce a sostituire la morte del tenente con la guarigione completa e la sua indifferenza con l’amore salvifico che la porterà lontano dalla quotidianità infelice accanto al marito, il quale asseconda l’illusione psicotica destinata ad infrangersi ben presto fra le onde del mare.

Di fronte al silenzio di André, ormai morto da tempo, la donna non può fare altro che provare la rabbia, disperazione e infine rassegnazione: le lettere spedite ritornano al mittente e in casa dell’amante ci vive l’aiutante che svela il terribile segreto inconfessabile. Il giovane è il testimone della realtà, il primo perturbatore che mette Gabrielle di fronte ai limiti: il tenente non è tornato a trovarla, non ha mai avuto intenzione di soffiarla al marito, né tanto meno di avviare un progetto di vita insieme a lei, non è guarito, è uscito in barella dalla struttura per poi non ripresentarsi più. A questo punto, però, il confronto con i fatti accaduti diventa sopportabile probabilmente perché, con il tempo, la protagonista ha imparato ad assimilare la realtà progressivamente, accettando, infine, il distacco da una figura un tempo idealizzata.

Il personaggio del marito di Gabrielle

C’è da dire, però, che la figura del marito è fondamentale in questo processo di accompagnamento. Infatti in un primo momento José asseconda “strategicamente” e terapeuticamente il delirio della moglie: “lasciarla vivere” significa permetterle di crogiolarsi in una fantasia che all’inizio le procurava una felicità immensa e soddisfaceva il desiderio di essere amata, l’aspettativa di un’esistenza che lui stesso, ermetico, non è riuscito a regalargli, con la certezza che la verità sarebbe sopraggiunta nel tempo, quando le acque si sarebbero calmate. “Strategicamente” perché intuisce il senso di solitudine della moglie e la sensibilità all’abbandono e decide di andarci piano, introducendo la realtà “a piccole dosi”. La perturbazione, in questa vicenda, è quindi nient’altro che un confronto con i fatti che si presentano progressivamente: André non risponde a nessuna delle lettere, non viene a riprenderla, la storia finisce nel silenzio e nonostante gli anni di distacco emotivo e rassegnazione, Gabrielle elabora il lutto definitivamente quando dà senso al rifiuto subìto e a quel silenzio che, nella realtà, era il segno di un evento temuto e intollerabile.

Il confronto con José è così il punto di contatto tra i due coniugi che finalmente si ricongiungono: benché distante, l’uomo dimostra pazienza, rispetto e accettazione, qualità che Gabrielle coglie nel dialogo, nella narrazione del punto di vista esterno alla vicenda, quello di un marito che teme la separazione e il tradimento, comprende la malattia ed è pronto ad accoglierla, seppur con sofferenza. José è quindi sufficientemente buono, resiste alle messe alla prova, alla diffidenza e supera l’esame finale: a differenza degli altri, non è scappato, non ha abbandonato la compagna anche quando avrebbe avuto ogni pretesto e buona ragione, è rimasto, ha capito e si è aperto, svelando i sentimenti nascosti e inespressi. La condivisione è stato l’ultimo passaggio che ha permesso, in sintesi, una maggiore intimità relazionale, trasformando un rapporto meccanico e freddo, in fluido e caldo, sviluppando la possibilità di conoscersi e amarsi.

 

L’epistemologia dei valori nelle terapie di terza generazione

Oggi si parla di valori soprattutto nel contesto di quelle che oggi vengono chiamate “terapie comportamentali di terza generazione” (Hayes 2004), ma a monte di un metodo clinico che fa uso estensivo dei valori come l’ ACT (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012), ci sono una scienza di base e (ancora più a monte) un’epistemologia della scienza.

G. Presti
IESCUM, President elect dell’Association for Contextual Behavior Science

Andrea Compiani
IESCUM, psicoterapeuta docente ASCCO

 

I valori come scelte arbitrarie che guidano le nostre azioni

Partiamo dall’immagine di un mulino sulla riva di un fiume: l’acqua scorre, e fa girare la ruota del mulino. Riflettendo sugli elementi che compongono l’immagine, possiamo ben dire che il fiume giustifichi l’esistenza del mulino: i mulini si devono necessariamente costruire sui corsi d’acqua. Ma non possiamo sostenere l’opposto; cioè non possiamo dire che i fiumi nascono per far girare le ruote dei mulini. I fiumi esistono indipendentemente dai mulini.

Il rapporto che esiste tra il mulino e il fiume può servire da metafora per quello che ha detto Kurt Gödel (1962) sul rapporto che esiste tra sistemi simbolici (linguistici, matematici, ecc.) e sulle assunzioni che si devono usare per crearli. Gödel ci dice che un qualunque sistema simbolico (il mulino della nostra metafora) non può essere usato per esaminare le stesse assunzioni e gli stessi postulati che sono stati usati per crearlo (il fiume). Quanto appena detto ha a che fare con il metodo scientifico, con la psicologia, e anche con i valori. In che modo? Addentriamoci passo passo nella questione.

Gödel ci dice che per creare un sistema di simboli dobbiamo partire con delle premesse arbitrarie, e che non è possibile valutare queste premesse usando lo stesso sistema di simboli al quale hanno dato vita, così come non è possibile comprendere l’esistenza del fiume osservando il movimento della ruota del mulino.

Un concetto del tutto analogo lo ha formulato R. M. Pirsig (2011): a monte delle categorie che usiamo per comprendere il mondo c’è il criterio usato per creare le categorie, che Pirsig chiama “Qualità”. Pirsig arriva a concludere che Qualità non può essere sottoposta a definizione, in quanto si trova a monte del sistema categoriale che sarebbe necessario a definirla. Di fatto per Pirsig la Qualità è il criterio, è la fonte di definizione.

Seppur in modi diversi, sia Gödel che Pirsig ci stanno dicendo che a monte del nostro modo di comprendere e di agire ci sono delle scelte arbitrarie, e che queste scelte sfuggono ad ogni tipo di valutazione oggettiva. Per chi sa già di cosa si tratta, a questo punto il parallelo con i valori diventa abbastanza evidente. Anche i valori sono scelte arbitrarie, cioè non giudicabili razionalmente, che l’individuo usa per orientarsi e dirigere le proprie azioni (Hayes, Strosahl & Wilson 1999).

L’epistemologia dei valori nelle terapie di terza generazione

Come in un frattale, vediamo la stessa struttura “premesse-sistema valutativo” ripetersi su livelli differenti, ma dobbiamo fare molta attenzione a non fare confusione tra questi livelli.

Oggi si parla di valori soprattutto nel contesto di quelle che oggi vengono chiamate “terapie comportamentali di terza generazione” (Hayes 2004), ma a monte di un metodo clinico che fa uso estensivo dei valori come l’ ACT (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012), ci sono una scienza di base e (ancora più a monte) un’epistemologia della scienza.

Il lavoro clinico sui valori (livello di scienza applicata) deriva da una precisa teoria (livello di scienza di base) che è stata a sua volta costruita a partire da alcune premesse (livello epistemologico). Senza questa fondamentale distinzione, il rischio è di scambiare i valori per una delle molte “teorie”, o peggio per una delle molte “tecniche”, che oggi ingombrano i percorsi di formazione degli psicologi e degli psicoterapeuti.
Per comprendere che cosa siano i valori in un clima di chiarezza, proviamo a partire dal livello più alto, ovvero quello epistemologico.

Il fiume epistemologico che alimenta l’ ACT e la teoria da cui nasce si chiama contestualismo funzionale (Moderato & Ziino 1994; Anchisi, Moderato & Pergolizzi 2017;). Gli elementi del contestualismo funzionale che vogliamo evidenziare qui sono soprattutto due: l’oggetto di studio e il criterio di verità.

L’oggetto di studio è il comportamento nel suo contesto. In altre parole ciò che viene preso in considerazione non è un atto isolato, quindi classificato in base alla sua forma (ad esempio, un insulto), ma la relazione di questo atto con il contesto che lo circonda (ad esempio, un insulto dato su un palcoscenico seguendo un copione). Il comportamento viene di fatto definito dalla sua relazione col contesto, e questa relazione è anche conosciuta come funzione.
Il criterio di verità, cioè il metro di giudizio necessario a decidere che cosa comprendere all’interno di una teoria e che cosa no, nel nostro caso è pragmatico e quindi legato a uno scopo: è vero ciò che funziona.

Il secondo livello di cui è necessario parlare per arrivare ai valori è quello della scienza di base, cioè il livello del sistema teorico (di cui B.F. Skinner è stato iniziatore) che nel nostro caso descrive le relazioni tra comportamento e contesto (Chiesa 1992). Tutta la terminologia della tradizione comportamentista, (rinforzatore, operante, stimolo discriminativo, generalizzazione, operazioni motivazionali ecc.) nasce a questo livello. Qui le premesse sono costituite dalla scienza e dal suo metodo, che nel caso della psicologia si traducono nello scopo di prevedere e influenzare il comportamento.

In altre parole, per una teoria psicologica scientifica contestuale, il metro col quale costruire e valutare il proprio sistema di categorie è costituito dalla sua capacità di agire efficacemente sulla realtà che intende studiare; cioè, non si interroga su che cosa esista (l’approccio funzionale è “a-ontologico) ma si interroga su cosa funziona.

È proprio a qui, a livello della scienza di base, che il lavoro di Sidman sulle relazioni di equivalenza (Sidman, 1971) e la nozione di risposta derivata ha fatto sentire i suoi effetti, perché è partendo dai risultati di queste ricerche che è stato possibile formulare una teoria di matrice contestualista e funzionale su cognizione e linguaggio oggi nota come Relational Frame Theory (RFT; Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Presti & Moderato 2014) che ha raccolto e perfezionato il lavoro Skinner sul comportamento verbale (Skinner 1957).

I valori: in cosa consistono e come funzionano?

Ma torniamo alla questione centrale: i valori. Che cosa sono i valori, dal punto di vista dei processi di funzionamento? Che cosa stava accadendo a Viktor Frankl quando decise di non fuggire dal campo di concentramento in cui era prigioniero per assistere i compagni di prigionia, pur sapendo di non avere alcuna possibilità di salvarli? Oppure, che cosa spinse Henry David Thoreau a isolarsi dalla sua comunità per vivere in eremitaggio in riva al lago Walden? O più in generale, che cos’è che spinge le persone a cercare uno scopo per la propria vita e a perseguirlo una volta trovato, anche a carissimo prezzo?

La cassetta degli attrezzi adatta per esplorare l’argomento senza tradire le nostre premesse epistemologiche (il contestualismo funzionale) ce la fornisce la Relational Frame Theory (Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Presti & Moderato 2014). Il principale merito della RFT è quello di descrivere con linguaggio operazionale quella straordinaria capacità umana di tradurre il mondo fisico in concetti, per poi interagire con essi prima che col mondo reale, che chiamiamo “pensiero”. Dal punto di vista dei processi, quello che viene descritto dai valori non è altro che un felice e particolarissimo caso di rule following, o come diceva Skinner, di comportamento governato da regole. Diciamo “particolarissimo” perché il comportamento governato da regole è anche uno dei principali processi responsabili della sofferenza psicologica (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012), in quanto rende la condotta dell’individuo impermeabile alle contingenze dirette (Hayes, Brownstein, Zettle, Rosenfarb, & Korn, 1986). Tale comportamento “insensibile” è funzionale in alcuni contesti (ad esempio se dobbiamo evitare di prendere una scossa seguendo l’indicazione sul cartello “chi tocca i fili muore”) e disfuzionale in altri, in cui può favorire il mantenimento di comportamenti maladattivi o autodistruttivi (“non sono abbastanza magra”). In termini tecnici RFT questo tipo di regole viene chiamato “pliance” e sono regole che vengono apprese perché sostenute dal contesto sociale.

Ma al di là e a monte di quello che può essere “il lato oscuro del linguaggio”, dobbiamo anche prendere atto che gli esseri umani possiedono la capacità di usare in modo adattivo i propri pensieri, capacità nata per potersi muovere in un mondo dove le conseguenze dirette del comportamento non sono sempre certe, immediate, percepibili o prive di pericoli (Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Hayes, Strosahl & Wilson 1999). In tali situazioni, incerte e poco definite, i valori diventano una bussola da utilizzare. Senza scendere troppo nei particolari tecnici, dal punto di vista della RFT e della scienza di laboratorio che ne ha ispirato lo studio e la descrizione, i valori sono regole definite “augmenting”, che hanno cioè la proprietà di modificare il significato delle conseguenze di un comportamento.

Da qui scaturisce anche il terzo livello e ultimo livello di analisi al quale vogliamo sottoporre i valori, quello della scienza applicata, che per gli psicologi equivale a dire “metodo clinico”. Ed è solo a questo ulteriore livello che si può cominciare a parlare di Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012) e quindi di valori in sensi stretto.

In cosa consiste l’ ACT

L’ ACT, non dimentichiamolo, è un modello di matrice comportamentista, o più precisamente è analisi clinica del comportamento. Questo significa che tutto ciò che conta è il comportamento nel senso più ampio del termine, che include l’azione ma anche la cognizione e l’affettività, e che lo scopo del clinico è quello di favorire il cambiamento proprio a questo livello.

Ma come orientare il paziente sulla direzione “giusta”? È a questo punto che i valori rivelano la loro utilità. A livello dell’applicazione clinica, i valori rappresentano le qualità che la persona vuole vivere, le cose di cui desidera occuparsi. In altre parole, i valori sono un punto cardinale ideale con il quale dare un orientamento alle azioni. Da ciò deriva che dal punto di vista della persona, un’azione non è mai giusta o sbagliata in sé, ma viene valutata in funzione della direzione che reputa importante per se stessa.

Quanto detto precedentemente per gli assunti di base di una teoria e per la Qualità, vale anche per i valori: essi sono la conseguenza di una libera scelta, e sono non giudicabili in quanto essi stessi sono la fonte del metro di giudizio. Dal punto di vista soggettivo, nella migliore delle ipotesi i valori dovrebbero essere il criterio con il quale le persone danno significato alla propria vita e prendono decisioni. Non è a caso che, come testimoniato dal citatissimo Viktor Frankl (1967) e da molti altri (si veda ad esempio Thoreau, 2005), è quando persegue i propri valori che la persona avverte la propria esistenza arricchirsi di un “senso”.

Quando invece la condotta della persona è asservita ad altri scopi in modo preponderante (ad esempio compiacere gli altri, sperimentare un minor grado di ansia, o allontanare i pensieri intrusivi), ecco che si genera quel senso di blocco, o di perdita di significato, che può portare alla richiesta di un aiuto professionale, o peggio. Quindi i problemi non nascono per colpa dei valori, ma per le condotte che le persone adottano; specularmente, la qualità della vita delle persone non è garantita dai valori (per quanto buoni possano sembrare), ma dalla capacità delle persone di orientare i propri comportamenti verso di essi. In altre parole, quello che veramente conta è l’azione.

Per questa ragione gli autori dell’ ACT dichiarano apertamente che “tutte le tecniche ACT sono subordinate allo scopo ultimo di aiutare la persona a vivere in linea con i propri valori. In tal senso, i classici interventi ACT di accettazione e defusione sono da considerarsi solo secondari”. (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, pag. 205).

Quindi possiamo dire che i valori diventano l’elemento Qualitativo (nel senso inteso da Pirsig) col quale leggere l’andamento della terapia e orientare le azioni del paziente. Quando tutto va bene, i valori sono gli occhiali attraverso i quali la persona, clinico o paziente che sia, guarda e giudica la propria vita. Ci asterremo in questa sede dallo stilare una lista di tecniche o suggerimenti su come esplorare i valori del cliente e aiutarlo ad intraprendere un’azione che vada in quelle direzioni, poiché l’argomento è stato trattato già estesamente in altre sedi (Hayes, Strosahl & Wilson 1999, 2012; Dahl et al. 2009).

Per concludere, possiamo affermare che quando parliamo di valori, non ci riferiamo a una particolare tecnica, e nemmeno a una particolare teoria psicologica; l’ ACT non ha “inventato” i valori, ma ha descritto un processo che accompagna l’essere umano fin dai tempi in cui ha acquisito la capacità di parlare e di pensare. Possiamo dire che grazie ai valori, e grazie al linguaggio di cui i valori sono fatti, gli esseri umani si sono guadagnati la libertà di scegliere, andando al di là delle contingenze immediate, stabilendo per se stessi le regole del gioco e dandosi una direzione, arrivando a perseguire mete ben al di là dell’orizzonte visibile.

Chiudiamo dicendo che i valori descrivono una fondamentale e basilare facoltà di libera scelta, grazie alla quale le persone conferiscono “Qualità”, senso e direzione alla propria vita. Una parte del lavoro della psicoterapia consiste nel restituire alla persona questo senso di direzione, riportandola a contatto con il fiume che alimenta il mulino del suo agire.

Identificato un gene con un ruolo chiave nella depressione

Uno studio recente ha identificato la relazione tra uno specifico gene e la vulnerabilità di soggetti con depressione a fattori stressogeni e alla caduta nella spirale di abbassamento dell’umore, con relative conseguenze nella vita quotidiana.

 

La depressione è una patologia che affligge più di 300 milioni di persone all’anno ed è la seconda causa principale di morte, soprattutto per suicidio, tra i 15 e 29 anni. Ciò avviene perché tale condizione distrugge la qualità di vita sia di chi ne soffre che delle loro famiglie. A determinarne la manifestazione sono non solo fattori ambientali ma anche genetici.

Rispetto a ciò uno studio recente ha identificato la relazione tra uno specifico gene e la vulnerabilità di soggetti con depressione a fattori stressogeni e alla caduta nella spirale di abbassamento dell’umore, con relative conseguenze nella vita quotidiana del paziente. Questa ricerca è stata effettuata dalla scuola di medicina dell’università di Maryland e pubblicata su Journal of Neuroscience (Chandra et al., 2017). Il gene identificato è conosciuto come SIc6a15 e la sua azione sui neuroni implicati nella depressione è stata verificata sia negli umani che negli animali. Infatti, le persone che presentano livelli alterati di questo gene in specifiche regioni cerebrali implicate nella regolazione emotiva sono più vulnerabili alla depressione o ad altre problematiche di natura emotiva correlate allo stress (Kohli et al., 2011).

Gene della depressione: come si comporta a livello cerebrale

Il legame tra questo gene e specifiche popolazioni di neuroni era stata già individuata nel topi (Lobo et al., 2016); in particolare, era stato evidenziato il coinvolgimento dei neuroni D2 del nucleo accumbens, regione alla base del circuito della ricompensa. Quest’ultimo si attiva ogni volta che si vive un’esperienza piacevole, cosa che non avviene nella depressione, caratterizzata dall’incapacità di provare piacere verso qualsiasi tipo di attività (anedonia).

Dunque, nelle condizioni depressive i neuroni del nucleo accumbens non si attivano come dovrebbero, non rilasciando dopamina e, di conseguenza, non attivando il circuito della ricompensa. Ciò è stato studiato prima sui ratti e poi sugli umani. Nel primo caso, i ricercatori avevano dimostrato che i topi suscettibili alla depressione, misurata attraverso la perdita di interesse per il cibo preferito solitamente, presentavano un’attività ridotta del gene SIc6a15 nel nucleo accumbens. Viceversa, quando si aumentava l’attività di tale gene, i topi diventavano più resilienti nel fronteggiare lo stress. Per quanto riguarda gli umani, invece, gli sperimentatori hanno analizzato i cervelli di persone morte per suicidio a causa del disturbo depressivo maggiore riscontrando gli stessi risultati ottenuti sugli animali.

Questi dati dimostrano l’esistenza di una correlazione tra il gene e il comportamento depressivo, anche se non è ancora chiaro come l’ SIc6a15 lavori esattamente nel cervello. Probabilmente esso altera i livelli di neurotrasmettitori cerebrali, cosa che potrebbe rivelarsi utile nel delineare un nuovo trattamento farmacologico ad hoc.

 

Storia naturale della morale umana di Michael Tomasello – Recensione

Per Tomasello, la morale è uno sviluppo del comportamento evolutivo di cooperazione, comportamento presente nelle specie sociali. La morale è tuttavia una forma speciale di cooperazione non praticata da altre specie perché è accompagnata da un senso di obbligazione consapevole e rappresentata concettualmente nella mente.

 

La morale e i comportamenti cooperativi

È stato tradotto in italiano e pubblicato il libro di Michael Tomasello sulla storia della morale umana. Tomasello descrive un modello evoluzionistico del comportamento morale nella specie umana, e lo fa con chiarezza e fascino.

Per Tomasello, la morale è uno sviluppo del comportamento evolutivo di cooperazione, comportamento presente nelle specie sociali. La morale è tuttavia una forma speciale di cooperazione non praticata da altre specie perché è accompagnata da un senso di obbligazione consapevole e rappresentata concettualmente nella mente.

Tomasello considera atti morali quelli che trattano in modo equanime gli interessi dell’individuo e gli interessi degli altri e si chiede che cosa ha indotto la specie umana a passare dalla cooperazione strategica alla morale. Probabilmente sono state dapprima le difficoltà ambientali a spingere i nostri antenati a collaborare tra loro nella ricerca del cibo, sviluppando quelle forme di intenzionalità consapevole e congiunta che hanno dato origine a una prima forma di morale.

Insomma, tutto iniziò quando un cambiamento ecologico costrinse i primi esseri umani a scegliere tra procacciare cibo insieme a un compagno o patire la fame. Questa è la parte di “innocente” e piana dello sviluppo della morale. La componente più conflittuale è emersa in seguito, quando la pressione demografica ha determinato la frammentazione delle popolazioni umane in gruppi definiti, le cui attività hanno richiesto la formazione di un “noi” in grado di esercitare un’intenzionalità collettiva e creando convenzioni e norme che definissero cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Quando i gruppi umani moderni hanno cominciato ad allargarsi, si sono divisi in bande più piccole. Lì è nato il ‘noi’ ma anche un ‘loro’, con senso di simpatia e lealtà per il proprio gruppo e purtroppo di ostilità verso l’estraneo. Il risultato migliore è stato una morale sociale che ci obbliga nei confronti non solo degli altri individui ma anche della comunità nella sua interezza. Il problema però emerge quando questa morale tendenzialmente universale si scontra con i bisogni di altri gruppi umani.

Questo ha generato la distinzione classica tra la morale di simpatia e la moralità di equità o di obbligo, distinzione che dipende dalla distinzione tra le due forme fondamentali della cooperazione – l’altruismo, sacrificarsi per gli altri, e il mutualismo, lavorare per il beneficio reciproco. Gli individui che hanno ottenuto i migliori risultati in queste circostanze sociali sono stati quelli che hanno riconosciuto la propria interdipendenza dagli altri e hanno agito di conseguenza, secondo un tipo di razionalità cooperativa. Per seguire in dettaglio questa affascinante storia, consigliamo il libro di Tomasello.

 

L’ arte secondo la psicoanalisi: le basi teoriche dell’arteterapia

Un qualsiasi prodotto artistico ha sempre suscitato ammirazione e meraviglia nell’uomo, il quale ha, per questo motivo, considerato l’ arte un fenomeno affascinante ma, nello stesso tempo, incomprensibile. 

 

L’ arte secondo Freud

Un qualsiasi prodotto artistico ha sempre suscitato ammirazione e meraviglia nell’uomo, il quale ha, per questo motivo, considerato il processo creativo un fenomeno affascinante ma, nello stesso tempo, incomprensibile. Il primo ad impegnarsi, con rigore scientifico, per trovare una soluzione all’enigma dell’ arte e ad avviare un tipo specifico di studi, è stato il padre stesso della psicoanalisi Sigmund Freud.

Egli ha compreso come la supposta separazione tra conscio ed inconscio, tra normale e patologico, tra umano e divino, sia inesistente. Con lui la creatività, fino a quel momento considerata facoltà di pochi, è divenuta una capacità che potenzialmente ogni individuo possiede.

Egli ha concepito l’ arte essenzialmente come uno dei mezzi più adeguati per affrontare le vicissitudini dell’esistenza, come una sfera posta tra Eros e Thanatos, rappresentante una soddisfazione del desiderio sostitutiva, non ossessiva, non nevrotica: una sorta di passaggio, di via regia verso l’inconscio, come il sogno ma, a differenza del sogno, profondamente creativa.

Approfondendo il rapporto tra sogno ed opera d’ arte, egli ha considerato quest’ultima come un sogno condiviso dall’artista con lo spettatore in cui i desideri insoddisfatti dell’artista divengono le forze propulsive della sua fantasia, la quale ha pertanto lo stesso significato dinamico del sogno e lo può porre in relazione con le nevrosi dello spettatore; l’artista riesce a servirsene in modo integrato, riesce a esprimere e comunicare dei contenuti che saranno poi oggetto di fruizione. Ha sostenuto che il piacere prodotto dal motto di spirito è analogo a quello che si verifica nella fruizione dell’ opera d’ arte e ha ipotizzato l’esistenza di un “piacere preliminare” o “premio di seduzione”. Come il riso nel motto di spirito deriverebbe dal piacere legato alla liberazione delle energie usate per il mantenimento della rimozione, il piacere legato alla fruizione di un opera d’ arte e connesso analogamente ad un compiacimento nel godere impunemente delle proprie pulsioni e desideri inibiti, attraverso un’identificazione con l’artista.

Inoltre Freud ha proposto la tesi che negli artisti vi sia una certa “flessibilità di rimozione” che gli permette di accedere al materiale inconscio più agevolmente di altri, entrandovi in contatto senza essere sommerso, gestendo nel modo migliore la relazione tra gli impulsi dell’Es e l’Io e ha attribuito all’artista la funzione fondamentale di metterci in comunicazione col nostro inconscio “senza rimprovero e senza vergogna”.

Arte e psicoanalisi: i maggiori contributi dopo Freud

I primi a rivolgersi a tali studi, dopo Freud, sono stati Rank e Sachs, i quali hanno inteso soprattutto dimostrare come le opere d’ arte siano espressione mascherata di profondi conflitti infantili dei loro “creatori” e siano essenziali per il superamento di tali conflitti.

Rank e Sachs hanno accordato grande importanza al complesso di Edipo e hanno mirato a sottolineare come l’ arte sia un fenomeno sociale nella sua accezione più ampia. Abraham ha analizzato il rapporto tra sogno e mito.

Bergler, invece, ha definito la creazione artistica non come espressione di desideri infantili, ma come una difesa contro questi desideri e ha posto le radici del conflitto nella fase orale dello sviluppo libidico.

Contributi fondamentali hanno apportato anche Kris e la Klein. Di Kris, il quale ha classificato accuratamente il processo creativo e ha cercato di stabilire le differenze tra l’espressione artistica della personalità normale e quella dello psicotico, è divenuto un classico il concetto di “regressione al servizio dell’Io”, durante il processo della creazione.

Secondo Kris, la creatività è basata sul processo di “regressione al servizio dell’Io”. Grazie alla capacità di allentare e successivamente recuperare il controllo delle componenti cognitivo-affettive irrazionali da parte dell’Io, diviene possibile utilizzare creativamente i contenuti del processo primario, colti attraverso il preconscio. Secondo Kris l’opera non è né espressione (diretta trasposizione di contenuti inconsci) né semplice imitazione, l’artista non rappresenta la natura, né la imita, ma la crea di nuovo, attraverso l’opera egli reinventa la realtà.

La Klein ha spiegato la creatività con la tendenza a riparare e ricreare, dentro e fuori di sé, gli oggetti d’amore, e ha postulato all’origine di essa e delle sublimazioni la posizione depressiva. Analizzando i soggetti dei quadri e un breve scorcio della vita della pittrice Ruth Kjar, la Klein mette in luce come la depressione – probabilmente connessa con una madre interna devastata, che aveva lasciato dentro di lei un terribile spazio vuoto – venisse superata con la ricostruzione nei suoi quadri della figura materna. Per la Klein le angosce della posizione depressiva e il conseguente pressante bisogno di riparare, sono le radici della creatività.

Tra coloro che hanno preso spunto per le loro ricerche dalle tesi della Klein, particolare importanza ha avuto H. Segal per la quale ogni creazione è ri-creazione di un oggetto, un tempo amato ed integro, poi perduto e rovinato, di un mondo interno e di un sé frantumati. La Segal ritiene che il successo dell’artista deriva dall’essere capace di riconoscere ed esprimere le sue fantasie ed ansie depressive. Nell’esprimerle, egli compie un lavoro simile a quello del lutto, in quanto ricrea internamente un mondo armonioso che viene proiettato nella sua opera d’ arte. Il lettore si identifica con l’autore attraverso l’opera rivivendo le sue personali ansie depressive e grazie all’identificazione con l’artista sperimenta un lutto riuscito, ristabilisce i suoi oggetti interni ed il suo mondo interno e si sente perciò reintegrato. Quindi è attraverso la “creazione” che l’artista supera la depressione, ed è mediante l’opera d’ arte che l’artista, rivive le sue ansie depressive, ristabilisce i suoi oggetti interni e si ritrova arricchito.

Diversa è ancora la posizione di J. Chasseguet – Smirgel, il cui interesse è rivolto verso i problemi della forma artistica e dello stile, e verso la funzione dell’atto creativo. Per la Klein l’ arte è vista come un’attività di riparazione, dove per riparazione si intende l’elaborazione e il superamento di una serie di esperienze spiacevoli, in particolare l’assenza e il lutto. L’espressione artistica porterebbe ad una modificazione dell’angoscia e non ad una fuga da essa. La riparazione nasce da una reale preoccupazione per l’oggetto che era amato e integro e la creatività è vista come un tentativo di riparare l’oggetto danneggiato. Nell’esperienza estetica verrebbe rivissuta inconsciamente questa esperienza, come se l’artista indicasse un percorso verso la ricostruzione dell’oggetto perduto e verso il superamento della disperazione iniziale.

Secondo la Smirgel nell’atto creativo non è in questione tanto la riparazione dell’oggetto, ma del soggetto medesimo “la riparazione di sé”, che a partire dai deficit originari, potenzialmente nevrotico-psicotici, recupera la propria integrità attraverso l’opera. In tal modo si libera l’attività creativa dalla dipendenza esterna dall’oggetto e la si impianta sulle risorse autonome della sublimazione. L’artista, attraverso le sue creazioni d’ arte, riuscirebbe a compensare, da solo, il deficit narcisistico subito durante l’infanzia. Solo attraverso l’analisi dell’opera d’arte, frutto, specchio, prodigioso doppio dell’artista, che riflette tutto lo stile psichico del creatore, si potrà accedere alla specificità di essa e, contemporaneamente, alla specificità e unicità del creatore stesso.

Gli studi degli psicoanalisti sull’ arte citati in questo articolo rappresentano le premesse fondamentali per la nascita e lo sviluppo dell’ arteterapia e grazie a questi contributi l’ arteterapia ha avuto un riconoscimento internazionale ed è potuta diventare una precisa metodologia e un preciso strumento di indagine terapeutica.

Essenziali quindi per l’applicazione dell’ arteterapia, risultano, i concetti dell’arte come “via regia verso l’inconscio”, il “piacere preliminare” e ”la flessibilità di rimozione” elaborati da Freud; i concetti di lutto, del dolore per la perdita dell’oggetto amato, sperimentati primariamente nella posizione depressiva, i necessari impulsi riparatori elaborati dalla Klein; il concetto di “regressione al servizio dell’Io” di Kris; il concetto dell’atto creativo come “riparazione di sé” della Chasseguet – Smirgel.

Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini su Trauma e Relazione Pt. 2

Proseguo il ragionamento dell’articolo con cui ero intervenuto nel dibattito su trauma e relazione. Avevo concluso parlando di cosa faccio in terapia e di come io tema che un certo patrimonio clinico si possa perdere, schiacciato sotto il peso di nuovi protocolli e nuovi paradigmi. Qualcosa che precede la scelta della tecnica di intervento ed è una teoria esplicativa complessiva dell’intero caso frutto del ragionamento clinico sul e con quello specifico paziente.


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017

Quando ho di fronte un paziente o più in generale una persona cerco di seguire attraverso la traccia delle sue parole il filo del suo ragionamento. Naturalmente nel farlo anche io ragiono e da questo mio ragionare scaturiscono domande, attenzioni, atteggiamenti che a loro volta influenzano il dipanarsi del filo del ragionamento dell’altro. È questa la famosa relazione terapeutica non solo conforme alle indicazioni di Monsignor della Casa, questo tanto per ripulire il bordo del vaso su cui qualche entusiastico schizzo era pur finito. I fili dei due ragionamenti si intrecciano, si intessono e si influenzano l’un l’altro. Normalmente al termine sono abbastanza in grado di descrivere il ragionamento dell’altro e molto meno il mio perché evidentemente mi do per scontato, mi sembra naturale, ovvio e non ci bado, non è un oggetto esterno ma il soggetto descrittore stesso. Siccome invece è parte fortemente in gioco, a meno che non ci si accontenti di annotare liste di sintomi atti a soddisfare criteri con mentalità da collezionista di figurine attenta solo al “ce l’ho, mi manca” mi sforzo di immaginare di essere un omuncolo seduto sul bordo interno della soffice circonvoluzione frontale sinistra con i piedi che pencolano sopra il corpo calloso e di osservare cosa mi dice il mio cervello mentre cerca di capire cosa diavolo il cervello dell’altro dice a lui. Provo a seguire il ragionamento che faccio.

Indagare il sintomo in psicoterapia

Intanto definisco sintomo un comportamento o una emozione che il soggetto stesso ritiene inadeguato, sgradevole e di cui vorrebbe liberarsi. Insomma rispetto al quale ha sviluppato un problema secondario, come dicevamo un tempo.

Dopo averne indagato la pervasività e le varie forme che assume nei diversi ambiti esistenziali (la gravità) mi chiedo: “a cosa serve? quale risultato vuole ottenere o pericolo scongiurare?” E lo faccio più facilmente se vado a ricostruire in quali circostanze il sintomo è nato (scompenso ed esordio) prima di diventare col tempo un’abitudine automatica.  Continuando ad approfondire questa indagine sulla sua utilità (quello che un tempo si chiamava laddering) cerco di identificare gli scopi disfunzionali e terminali -o antiscopi, come a me piace chiamarli- che organizzano l’esistenza del soggetto.

Il sintomo acquista così significato nel contesto della vicenda esistenziale della persona, dei suoi valori e piani di vita. Fin qui cerco di dare un senso, un significato a ciò che agli stessi occhi del paziente appariva insensato, ascopico, estraneo a sé e come tale fuori dal suo controllo, mentre in realtà si tratta di un’espressione che persegue o salvaguarda qualcosa di molto importante per lui. Il paziente collabora volentieri perché ci si occupa direttamente del sintomo che lo tormenta e perché il capirne il senso lo fa sentire meno matto. Una seconda fase che potremmo dire essere la prova del nove, la verifica della prima,  parte sempre dal sintomo ma per indagare i motivi per cui gli dia tanto fastidio. Insomma le ragioni del problema secondario ognuna delle quali va indagata con la stessa tecnica precedente, il laddering.

Anche in questo caso si arriverà per una via diversa a definire  gli scopi disfunzionali e terminali e gli antiscopi del soggetto, insomma il suo panorama esistenziale, il perché e il come sta al mondo e come mai gli dia fastidio. A questo punto si potrà riconsiderare il sintomo come uno scopo strumentale (strategia) in conflitto con altri scopi strumentali i quali magari perseguono lo stesso scopo o antiscopo terminale, una strategia difettosa che ha complessivamente costi troppo elevati, spesso dallo stesso punto di vista di quegli scopi che cerca di perseguire. Insomma non funziona o, più spesso, non funziona bene ma comunque un po’ funziona e non avendo nulla di meglio non la si può abbandonare. Compreso il senso e l’utilità del sintomo pur continuando ad avvertirne il disagio, tento una operazione di normalizzazione dello stesso che riduca il problema secondario, principale motore da un lato del cambiamento ma anche, dall’altro, della sofferenza  che ha l’effetto dannoso di far percepire la situazione come emergenziale riducendo la disponibilità ad abbandonare gli antichi e sperimentati modi di fare per provarne di alternativi.
Quanto si cambia in terapia?

Ho imparato e insegnato che gli scopi esistenziali che organizzano l’esistenza sono in parte genetici e in parte di origine culturale, familiare ed esperienziale ed il loro cambiamento è opera ardua prefigurando una rivoluzione del paradigma, per dirla con Kuhn, esistenziale e quando ciò avviene siamo di fronte a vere e proprie rare conversioni. Ancorché molto difficili da ottenere, il più delle volte non c’è alcuna richiesta ne volontà di affrontarle. Questo dunque è un livello di cambiamento in cui raramente mi avventuro per incompetenza e timore di tentazioni da guru accontentandomi di una ristrutturazione che elimini la sofferenza con il minimo cambiamento possibile, cosa che mi sembra peraltro una forma di rispetto dell’unicità dell’altro.

Anche le strategie di perseguimento degli scopi o di evitamento degli antiscopi sono apprese, in genere precocemente e nel contesto familiare. Allora faccio notare al paziente come esse si siano dimostrate in passato adattive e addirittura decisive per la sopravvivenza nel contesto di apprendimento della famiglia d’origine, ma oggi in un contesto diverso siano invece disfunzionali e si siano trasformate in sintomi, qualcosa che mette in atto perché ha sempre fatto così, non accorgendosi che se prima funzionava adesso è addirittura controproducente rispetto agli stessi obiettivi per cui si era sviluppato.

La ristrutturazione cognitiva: la parte creativa della terapia

Successivamente inizia la parte per così dire creativa della terapia, la cosiddetta ristrutturazione cognitiva, che per semplicità distinguo in due livelli. Il primo consistente nell’elaborazione di nuove strategie compatibili comunque con i vincoli intrapsichici, interpersonali e contestuali attuali, attaccando solo quelli che rappresentano un rinforzo e un mantenimento del sintomo. Si tratta di  riscoprirle nel proprio patrimonio comportamentale di cui magari in modo pur minoritario e saltuario sono state presenti in passato, oppure copiarle osservando gli altri ed in particolare quelli più vicini al soggetto come aspetto motivazionale, oppure inventarle di sana pianta. Averle identificate non basta, si tratta  di sperimentarle inizialmente in contesti protetti che ne garantiscano il successo e il rinforzo per poi progressivamente generalizzarle e ripeterle finché non sostituiscano i vecchi automatismi.

Dopo aver gattopardescamente cambiato tutto perché nulla cambi mi limito a  provare a perturbare il livello superiore dell’assetto motivazionale auspicando un processo di cambiamento da lasciare avvenire da solo in tempi lunghi e grazie alle esperienze che il soggetto vive che sono i perturbatori più significativi

Lo faccio da un lato cercando di rendere meno assoluti e doveristici gli scopi evidenziando come normalmente non comportino la realizzazione e la felicità di cui li si accredita e dall’altro considerando meno intollerabili e minacciosi gli antiscopi, rendendoli -per quanto sgradevoli-  pensabili e immaginando schemi operativi non per prevenirli ma per viverli qualora vi ci si trovasse.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio

 

Identikit del paziente con alessitimia – Le ricadute sulla relazione terapeutica

I soggetti con alessitimia dimostrano un’attivazione fisiologica alla presenza di emozioni, ma presentano scarse competenze rispetto alla possibilità di riorganizzare l’esperienza corporea vissuta, come se mancassero di una rappresentazione mentale di quanto accaduto.

Chiara Polizzi, Alessandra Rossi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca 

 

Cosa si intende per alessitimia

L’ alessitimia è un costrutto di derivazione psicoanalitica; letteralmente significa “non avere parole per le emozioni”. Il termine alessitimia è stato introdotto agli inizi degli anni settanta da Nemiah e Sifneos (1970) per definire un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici. Si può definire clinicamente l’ alessitimia come la difficoltà sperimentata da un individuo di: 1) identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti; 2) distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche; 3) individuare quali siano le cause che determinano le proprie o le altrui emozioni, con conseguente fatica a utilizzare il linguaggio come veicolo per l’espressione delle emozioni stesse.

Taylor, Bagby e Parker (1997) hanno considerato l’ alessitimia un “disturbo dell’elaborazione degli affetti” che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni.

Secondo gli autori, i soggetti alessitimici dimostrano un’attivazione fisiologica alla presenza di emozioni, ma presentano scarse competenze rispetto alla possibilità di riorganizzare l’esperienza corporea vissuta, come se mancassero di una rappresentazione mentale di quanto accaduto.

L’origine eziopatologica dell’ alessitimia è complessa e multi-fattoriale: si pensa dipenda da un insieme di cause di ordine genetico, neurofisiologico, intrapsichico, da modelli di comunicazione familiare e fattori socioculturali.

I fattori più significativi riguardano appunto le variabili socioculturali (si veda la maggior prevalenza nei maschi e nei ceti svantaggiati, Salminen, 2000), i deficit neurobiologici e le variazioni nell’organizzazione cerebrale (ad esempio una disfunzione dell’emisfero destro o un deficit del trasferimento interemisferico). Inoltre, è stata messa in luce l’influenza critica, estremamente significativa, delle prime esperienze relazionali e di attaccamento madre – bambino (Legrenzi, 1997).

Alessitimia e psicopatologia

La scarsa conoscenza dei propri stati emotivi è uno degli argomenti più studiati in psicologia e psicoterapia: inizialmente, è stata considerata per la sua relazione con disturbi di somatizzazione, dipendenze e PTSD (Taylor et al., 1997), giungendo più recentemente a studi riguardanti l’associazione tra il fenomeno e gli esiti dei trattamenti, lo stile di attaccamento, fattori genetici e correlati neuronali (Taylor & Parker, 2004).

L’ alessitimia appare inoltre associata a variabili che rappresentano il segno distintivo dei disturbi di personalità: 1) difficoltà nelle relazioni interpersonali; 2) sintomi somatici e psicologici; 3) maggior difficoltà nella regolazione degli impulsi. È dunque ragionevole considerare l’ alessitimia come tipica dei soggetti che presentano Disturbi di Personalità (Grabe, Spitzer & Freyberger, 2001).

La letteratura ha osservato come alti livelli di alessitimia siano in relazione con alti livelli di psicopatologia e malessere globale, e con la rappresentazione disfunzionale delle relazioni interpersonali, che risultano dunque complesse e deficitarie (Carcione, Semerari., Lysaker, Dimaggio., Conti, Procacci, et al., 2011): i pazienti alessitimici faticano nell’instaurare rapporti intimi, si mantengono su un piano di superficialità e non possiedono buone abilità di sintonizzazione e mentalizzazione dell’altro. Effettuando un’analisi interna ai 3 Cluster dei disturbi di personalità riconosciuti dal DSM IV, la ricerca sembra trovare evidenti relazioni tra alessitimia e disturbi di personalità in Cluster C.

Una via alternativa nello studio dell’ alessitimia in relazione alla personalità è stata recentemente intrapresa dal gruppo italiano di Dimaggio (Dimaggio, Carcione, Nicolò, Lysaker, Dangerio, Conti et al., 2012): gli autori si sono proposti di esplorare la relazione tra una misura globale di compromissione della personalità, indipendentemente dai Cluster, (ovvero il numero di tratti soddisfatti alla SCID II) e le variabili di alessitimia, gravità sintomatologica e problemi nel funzionamento interpersonale. I dati hanno evidenziato una differenza significativa fra i gruppi (creati in base al numero di criteri SCID soddisfatti), rispetto a tutte le variabili in esame. È risultato tuttavia che le differenze in termini di alessitimia non sono significative al netto della gravità sintomatologica. Una possibile spiegazione può essere che l’ alessitimia non sia un tratto distintivo di maggiore gravità personologica, ma un riflesso di un disagio emotivo intenso, che potrebbe compromettere la capacità di distinguere e comunicare le proprie emozioni.

La presenza di specifici malfunzionamenti metacognitivi nei Disturbi di Personalità, inoltre, ostacolerebbe la costruzione e la comprensione degli stati interni (cognitivi, affettivi, emotivi) propri e altrui (Popolo, Semerari, Carcione, Fiore, Nicolò, Conti, et al., 2010) con la derivazione di evidenti lacune nell’espressione e regolazione delle emozioni altrettanto differenziati. Sarà presumibilmente la natura della compromissione metacognitiva, unitamente alle strategie di mastery, a differenziare qualitativamente le caratteristiche alessitimiche del soggetto (ad esempio, alcuni pazienti potrebbero avere la tendenza a sovraregolare le emozioni inibendole, mentre altri a perdere il controllo su di esse quando le sperimentano, disregolando – Dimaggio, & Semerari, 2003).

Alessitimia e legame di attaccamento: la funzione “contenitiva” del caregiver

Studi osservativi condotti sui neonati nell’interazione con il loro caregiver principale (solitamente la madre), mostrano che nel bambino è rintracciabile un’attività comunicativa centrata sull’espressione delle emozioni (Crugnola, & Baioni, 2002). Se è quindi dimostrata la presenza di emozioni innate di base, espresse fin dall’inizio dal punto di vista comportamentale e fisiologico, l’aspetto soggettivo-esperienziale delle emozioni primarie e le emozioni più complesse (amore, vergogna, invidia, orgoglio, colpa) si sviluppano durante la prima infanzia. Quelli che nel neonato sono stati indifferenziati di soddisfazione o disagio, pian piano si differenziano in una complessa gamma di emozioni specifiche e conoscono una progressiva de-somatizzazione: le acquisizioni, nel secondo anno di vita, della capacità rappresentativa e del linguaggio hanno un impatto fondamentale nello sviluppo della consapevolezza emotiva soggettiva e nella capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello intrapersonale che nelle relazioni con gli altri.

La madre ha, secondo la concezione di Bion (1962), un ruolo di contenitore, cioè ha la funzione di assorbire, contenere, elaborare ed interpretare gli stati affettivi del bambino, soprattutto quelli disturbanti (Taylor et al., 1997); laddove questa funzione di contenitore e regolatore fallisce, il bambino (e poi l’adulto) sviluppa un “contenitore interno difettoso”: le emozioni non sono trasformate in rappresentazioni mentali, ma rimangono a livello di percezioni, sensazioni, impulsi all’azione (di qui l’alto rischio di disturbi psicosomatici).

Tutte queste riflessioni hanno una rilevanza particolare per la definizione del costrutto di alessitimia, in quanto forniscono una concettualizzazione originale e interessante dell’importanza evolutiva delle primissime relazioni di attaccamento, in cui il soggetto impara a regolare non solo il suo funzionamento interpersonale, ma anche quello mentale ed emotivo. Grazie ad un legame di attaccamento sicuro e ad una buona sensibilità, responsività e sintonizzazione del caregiver, il bambino impara ad utilizzare la valutazione cognitiva per modulare gli affetti, e gli affetti per arricchire la cognizione. Quando questo non accade, il bambino diviene deficitario nella regolazione delle proprie emozioni, ma anche nella capacità discriminatoria delle stesse. Sembra che l’ alessitimia sia associata a stili di attaccamento insicuro, in particolare insicuro-distanziante, ma anche a stili preoccupati e timorosi (Montebarocci, Codispoti, Baldaro, & Rossi, 2004). L’attaccamento insicuro è stato associato a una ridotta mentalizzazione, intesa come capacità di leggere e comprendere gli stati mentali propri e altrui, inclusi i sentimenti, le credenze e le intenzioni (Fonagy et al., 2001).

Ricadute terapeutiche nel lavoro con pazieti alessitimici

Dall’osservazione clinica del funzionamento interpersonale di pazienti alessitimici (Grabe, Spitzer, &Freyberger, 2001; Nemiah & Sifneos, 1970; Taylor et al., 1997) e da studi empirici (Guttman & Laporte, 2002; Vanheule, Desmet, Rosseel et al.; Weinryb et al., 1996), sappiamo che i pazienti alessitimici hanno la tendenza verso il conformismo sociale e l’evitamento del conflitto, e tendono ad approcciarsi agli altri in modo non empatico, freddo e distaccato.

Questi pazienti evitano le relazioni strette e, se entrano in relazione, mantengono una posizione dipendente o impersonale, cosicché la relazione si mantiene su un piano di superficialità. Sono state osservate anche relazioni interpersonali caotiche (Sifneos, 1996) e inadeguata differenziazione fra sé e gli altri ( Blaunstein & Tuber, 1998; Taylor et al., 1997). In linea con queste osservazioni la ricerca in ambito di attaccamento indica che l’attaccamento evitante è quello maggiormente tipico di questo gruppo di pazienti (Taylor, 2000; Verhaeghe, 2004) e che tale attaccamento si manifesti anche nella stanza di terapia (Mallinckrodt, King, & Coble, 1998): dal momento che i pazienti alessitimici tendono al ritiro e ad una limitata condivisione dell’esperienza, ci si può aspettare che siano in qualche modo riluttanti nell’ingaggiarsi in una relazione terapeutica.

L’intervento dovrebbe quindi tenere in considerazione sia la scarsa consapevolezza rispetto ai vissuti emotivi in generale, così come le difficoltà nel comunicarli ad altri. Dalle fasi iniziali del percorso psicoterapeutico, pertanto, il terapeuta dovrebbe aiutare i pazienti fortemente alessitimici a distinguere le manifestazioni di arousal al fine di poterle meglio descrivere e sviluppare possibili spiegazioni per le stesse. Una utile strategia per il terapeuta potrebbe essere quella di utilizzare il rispecchiamento degli stati emotive, ancor prima di ipotizzarne possibili cause.

La relazione terapeutica dovrebbe inoltre essere costante oggetto di attento monitoraggio e discussione con questo tipo di pazienti. Ciò potrebbe stimolare la loro capacità di avere in mente la relazione, chiedendosi di volta in volta come ci si sente in relazione, agendo quindi a livello sia esperienziale che rappresentativo.

Il trattamento per l’infertilità e lo stress che sperimentano le coppie

Nonostante le ripetute affermazioni che l’infertilità e lo stress legato ai relativi trattamenti siano situazioni intollerabili per le relazioni di coppia, uno studio che ha coinvolto circa 40.000 donne ha scoperto che il trattamento per l’infertilità, in realtà, non aumenta il rischio di divorzio.

 

Lo stress percepito nel trattamento per l’infertilità può compromettere la stabilità della coppia?

Secondo la Dottoressa Mariana Martins, docente presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Porto (Portogallo), i risultati di tale studio sono rassicuranti per le coppie che stanno vivendo o contemplando l’idea di sottoporsi ad un trattamento per l’infertilità. Capire, infatti, la qualità dei rapporti di chi si sottopone a tali trattamenti è utile per sostenerli durante il percorso.

Questo studio si è basato su dati di donne che si sono sottoposte a vari trattamenti tra il 1994 e il 2009, per un totale di 42.845 pazienti. Lo status coniugale delle partecipanti è stato comparato, per età, con un gruppo di controllo della popolazione generale e seguita similmente in tutto il periodo dello studio.
Durante i 6 anni del follow-up la maggior parte delle coppie ha concepito figli con i loro partner e circa un quinto delle coppie si è separata o hanno divorziato.

Secondo la Dottoressa Martins, i risultati di questo studio non sono del tutto incompatibili con quanto finora è emerso circa lo stress e l’ansia causati dai trattamenti per la fertilità.

I risultati hanno, infatti, provato che i soggetti che hanno una maggiore probabilità di divorziare sono coloro che hanno maggiori difficoltà, rispetto agli altri, nella gestione delle emozioni negative e dello stress. E’ inevitabile che la maggior parte delle coppie sperimenti un certo grado di stress durante il trattamento per l’ infertilità, e l’incertezza dei risultati rende la sintomatologia psicologica simile a molte altre malattie croniche. Secondo la Dottoressa Martins è fondamentale quindi fornire adeguate informazioni, modulare aspettative realistiche circa il trattamento, nonchè fornire supporto psicologico per agevolare la coppia in questo difficile processo.

L’ identità creativa. Psicoanalisi e neuroscienze del pensiero simbolico e metaforico – Recensione del libro

Calamadrei concettualizza l’ identità creativa come proposizione dell’operosità del soggetto nel libero funzionamento della sua mente, la cui creatività, nonostante lavori silenziosamente ed in maniera inconscia, esprime la possibilità della produzione di significati per riconoscere la realtà, sia interiore che esteriore influenzando la costituzione dell’ identità individuale.

 

Sulle tracce dell’ identità creativa tra materialismo scientifico e neuroscienze

enL’idea che, per dimostrare l’esistenza di qualcosa, come non suscettibile di interpretazione, si debba ricorrere all’oggettività che il dato scientifico restituirebbe a valle della procedura scientifica che ne costituisce il metodo attraverso il quale la certezza del dato è incontrovertibile, è un pregiudizio che segna da sempre l’intero percorso dell’evoluzione nella conoscenza delle cose in generale.

Se poi, in particolare, ciò di cui si vuole dimostrare l’esistenza ha a che fare con i fenomeni che popolano l’universo interiore dell’essere umano che per definizione sono autonomi dalla materia e dunque non determinabili come qualcosa, il pregiudizio diventa un assunto sulla base del quale si formula la tesi secondo cui se un fenomeno non può essere indagato dalla prospettiva scientifica non può essere spiegato, quindi non può essere conosciuto, dunque non esiste.

Così per esempio, fin dagli albori del razionalismo scientifico, quando fu il turno di Cartesio di voler dar conto dell’esistenza di ciò che egli definì come la dimensione peculiare di cui l’uomo consiste, si potrebbe ipotizzare che non fu un caso il suo definirla come res cogitans ovvero come cosa pensante. Cosa pensante, dunque, che nonostante intesa come sostanza spirituale, nella misura in cui fu connotata da Cartesio come cosa, e dunque come non poter essere pensata a prescindere dalla materia, divenne il fondamento indubitabile della stessa esistenza. Da questo fondamento Cartesio fa emerge quell’ “IO” dell’uomo inteso come soggetto umano pensante che è l’io, è la mente, è l’anima, è l’intelletto e a partire dal quale è possibile per Cartesio dimostrare l’ autoevidenza esistenziale del suo “cogito ergo sum”.

L’ autoevidenza dell’ esistenza come soggetto pensante, non estendendosi però tout court all’autoevidenza dell’esistenza di ciò che è esterno, e dunque non garantendo l’esistenza della realtà che circonda l’uomo, portò Cartesio, come noto, a dover riconoscere l’esistenza di un’altra sostanza che avesse caratteristiche diverse dalla sostanza spirituale ma che fosse ad essa strettamente congiunta. Tale sostanza, connotata altresì come cosa avendo come caratteristiche quella della divisibilità e dell’estensione che la sostanza spirituale non poteva che rifiutare fu per Cartesio il corpo, ovvero la res- exsensa.

Questo dualismo sostanziale di mente e corpo se da un lato è stato ed è tutt’ oggi considerato come uno degli aspetti deteriori della filosofia cartesiana, compreso il tentativo di Cartesio di spiegare come attraverso la ghiandola pineale le due sostanze riuscissero a comunicare, dall’altro però ha dato avvio alla prima condizione per lo studio scientifico del corpo umano, in quanto nel riconoscere la sostanzialità al corpo, Cartesio, di fatto, lo svincola dalla concezione tradizionale (aristotelica) nella quale il corpo era considerato non come sostanza ma come organo o strumento della sostanza anima/mente e rendendone di conseguenza lecita l’accessibilità influenzerà notevolmente lo sviluppo degli studi biologici del comportamento.

E’ infatti proprio nella componente materialista delle posizioni di Cartesio e nel suo dualismo di mente e corpo che possono essere rintracciate le origini delle riflessioni su una serie di questioni come quelle del rapporto tra mente e cervello, della natura e dell’architettura cognitiva del soggetto, della capacità rappresentativa della mente umana, del ruolo dell’intenzionalità e coscienza del pensiero, dello statuto della psicologia del senso comune, dei rapporti tra ragione ed emozione, nonché le origini moderne di un’analisi del comportamento in chiave biologica che portate all’estremo inaugurano la teoria del materialismo, per l’appunto, secondo la quale tutti i fenomeni, compresi quelli mentali, sono di tipo materiale e dunque riconducibili alla materia fisica.

Da ciò è conseguito non solo che l’indubitabilità del cogito ergo sum non ha avuto ha più ragion d’essere ma anche che la res cogitans ha smesso di esistere come sostanza in quanto dal punto di vista delle neuroscienze non sarebbe che la risultanza illusoria e meccanica di processi chimici e fisici attraverso i quali alla conoscenza della personalità dell’individuo si giunge attraverso la mera comprensione del funzionamento del cervello.

Ora, però se da un punto di vista meramente biologico-scientifico conoscere la personalità di un individuo equivale dunque a comprendere il funzionamento del cervello secondo il nesso sequenziale neuroni-cervello- personalità-comportamento- attraverso il quale tutto ciò che l’individuo fa non è altro che la conseguenza necessaria della sua neuro-chemio-biologia, da un punto di vista esperenziale, come ci ricorda Vito Mancuso, già Platone sosteneva invece con le parole di Socrate che:

Se uno dicesse che, se non avessi ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare direbbe bene; ma se dicesse che io faccio tutte le cose che faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco sì con la mia intelligenza ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza.

Nella medesima prospettiva anche Marco Aurelio, sottolinea ancora Mancuso, scriveva nei suoi Pensieri:

Ricordati che ciò che muove i fili della tua esistenza è nascosto dentro di te, ed è energia, vita e, se così si può dire, uomo. Non confonderlo mai, quando te lo immagini, con l’involucro che l’avvolge, né con gli organi che gli sono stati modellati intorno. Questi sono come l’ascia che tini in mano, da cui differiscono solo in quanto intimamente aderenti al corpo. Queste parti, infatti, senza la causa che le muove e le controlla, non sono di utilità maggiore della sola spola per la tessitrice, della sola penna per lo scrittore, della sola frusta per l’auriga.

Seguendo queste considerazioni, non si vuole e non si deve negare o anche e solo contestare l’utilità della prospettiva scientifico-biologica ma evidenziarne i limiti, rivendicando una logica di comprensione dei fenomeni tutti che ha il suo cardine nei concetti di relazione e di sistema e grazie alla quale seppur la res cogitans continuerebbe a non poter essere considerata nella sua esistenza come sostanza, ciò che del cogito ergo sum cartesiano può essere ancora perfettamente indubitabile è la possibilità della libera consapevolezza di sé.

Ed è a questa accezione di consapevolezza di sé come libera che, a nostro avviso, può associarsi il significato della locuzione di identità creativa che Calamadrei concettualizza come proposizione dell’operosità del soggetto nel libero funzionamento della sua mente, per l’appunto, la cui creatività, quale caratteristica specifica dell’attività mentale spontanea, nonostante lavori silenziosamente ed in maniera incomprensibile poiché continua a svilupparsi in maniera inconscia, esprime la possibilità della produzione di significati per riconoscere la realtà, sia interiore che esteriore influenzando la costituzione dell’ identità individuale quale essenza della qualità dell’essere la cui sostanza sfugge per l’appunto come sottolinea Calamandrei anche alle neuroscienze.

Queste ultime infatti, seppur inaugurano un nuovo approccio alla comprensione della complessità del funzionamento cerebrale secondo una concettualizzazione di scienza che va nella direzione opposta al confinamento specialistico dello studio del cervello e alla delimitazione del sapere tecnico degli anni passati, attingendo da matematica, fisica, chimica, nanotecnologie, ingegneria, informatica, psicologia, medicina, biologia, filosofia, rimangono però, come ogni altra disciplina scientifica, confinate nell’ambito della metodologia scientifica e dunque impossibilitate intrinsecamente a conoscere le dimensioni psicologiche attraverso le quali l’identità dell’ Io si costituisce e il Sé si struttura e per le quali, come Calamandrei sottolinea, un aiuto maggiore può provenire piuttosto dall’antropologia e dalla storia evolutiva della nostra specie.

Le neuro-scienze, sottolinea ancora Calamandrei, per comprendere il funzionamento cerebrale sono portate infatti a studiare gli eventi a livelli sempre più dettagliati e frammentati tuttavia anche alle neuroscienze non va negata però l’utilità in quanto, come Calamandrei sottolinea, il loro contributo è di fondamentale importanza nella misura in cui le conoscenze acquisite per loro tramite sul funzionamento cerebrale stanno rendendo possibile un ricongiungimento tra la biologia della mente e la teoria psicoanalitica.

Esplorare la creatività: un viaggio transdisciplinare nella profondità dell’attività spontanea della mente dal riduzionismo scientifico alla necessità dell’unitarietà dei saperi

Nell’ottica della logica di comprensione dei fenomeni sopra evidenziata, con un intento finanche troppo esplicito, Calamandrei muove l’impianto del suo libro a partire proprio dal porre in evidenza la necessaria unità dei saperi per quella indispensabile nouvelle alliance, purtroppo oggi sempre più minacciata dalla parcellizzazione e dalla ultraspecializzazione delle conoscenze, su cui ha scritto pagine illuminanti il premio Nobel Ilya Prigogine.

Ed è all’utilizzo di questa concezione di nouvelle alliance che Calamandrei fa propria, che può iscriversi il tratto dell’originalità del suo scritto attraverso il quale Calamandrei, dando infatti anche conto della consapevolezza della differenza tra una scienza puramente speculativa come potrebbe essere definita la psicologia e una scienza applicata come potrebbe essere definita quella delle neuroscienze, può non temere come Freud aveva temuto per le conquiste della biologia, che le evoluzioni delle scoperte e delle conoscenze delle neuroscienze sostituiranno del tutto ciò che la psicologia ha teorizzato.

Con questa consapevolezza Calamandrei propone dunque il suo lavoro invitando il lettore ad interpretarlo come un percorso di integrazione, per l’appunto, nell’ottica della psicoanalisi, necessaria per ottenere una visione d’insieme dei meccanismi psicologici che sono competenze fondamentali alla base della matrice del pensiero, delle sue forme non consapevoli e che si situano in un’area intermedia tra biologia e psicologia nei cui meandri è possibile tracciare una probabile genesi del concetto di creatività la cui spinta vitale è uno degli aspetti cardine del funzionamento mentale. Analizzarla sostiene Calamandrei equivale infatti a descrivere come funziona la mente e delineare quali siano i meccanismi psicologici che sostengono la capacità di comprensione del pensiero cercando di mantenere la visione d’insieme dell’intera costruzione mentale, di come sia andata auto-costruendosi nel corso dei secoli evolvendo dall’antenato australopiteco. Interessante e molto, pertanto, il percorso delineato da Calamandrei che, seguendo un’ottica di tipo evolutivo che traccia una sorta di storia naturale dello sviluppo della mente, attraverso la puntualizzazione scientifica delle tappe evoluzionistiche, giunge alla descrizione di ciò che caratterizza un cervello tipicamente umano e che segna il combinarsi di plasticità e di creatività.

Il percorso di esplicitazione di questo passaggio, comincia dunque dalle nuove conoscenze neuro scientifiche acquisite sul funzionamento cerebrale secondo le quali la variabilità delle risposte che caratterizzano i diversi individui appartenenti ad una specie è un requisito di base della plasticità e creatività, ovvero della capacità di affrontare, con nuove e variabili strategie, situazioni problematiche che si presentano per la prima volta. Dal punto di vista evolutivo, uno dei requisiti all’origine della plasticità è la presenza di una corteccia in grado di fornire risposte non stereotipate o specie-specifiche ma individuali. Un contributo a tale concetto di variabilità, sottolinea Calamandrei, deriva dalle teorie della genetica che, superato il loro orizzonte di staticità, giungono ad affermare che l’influenza genetica è determinante per la psicologia di un individuo ma non nel senso di un’eredità biologia fissa ed inalterabile da cui non possiamo fuggire. Ne consegue che l’attività dei sistemi cerebrali è estremamente plastica e risulta modificabile dall’esperienza.

Come puntualizza Calamandrei, però, per l’organismo non ci sono esperienze diverse, quanto piuttosto differenti aspetti di un’unica esperienza, e dato che ogni sistema è plastico ciascuno apprende ed immagazzina informazioni relative alla stessa esperienza indipendentemente, come se ci fosse cioè una sorta di cultura condivisa all’interno del cervello tra i vari sistemi che sono esposti a circostanze ambientali analoghe. La nostra esperienza attentiva cosciente invece, sottolinea Calamandrei, sembra privilegiare una sola modalità percettiva, quella cioè maggiormente dipendente dai livelli simbolici e alla quale è data maggiore rilevanza costituendo la memoria del proprio vissuto che in quanto tale è estremamente soggettiva. Ciò implica che gli stimoli a cui prestiamo attenzione, quello che noi ricordiamo e quello che per noi risulta importante, vengono accompagnati, insieme all’elaborazione cognitiva, dalla marcatura emotiva. Quest’ultima che può divenire un processo di attivazione generale e diffuso da parte del sistema Reticolare Ascendente, definito “arousal” è quella che guiderà il nostro comportamento verso la situazione che lo stimolo emotivamente attivante necessita. Ciò spiegherebbe la modalità attraverso la quale gli stati emotivi monopolizzano le risorse del cervello e sono cruciali nell’organizzazione dell’attività cerebrale influenzando potentemente il pensiero cosciente, giungendo a poter concludere che il valore che un individuo attribuisce al proprio contenuto emotivo costituisce infatti il valore psicologico del suo vissuto che rappresenta la qualità dell’essere, dei suoi sentimenti, le capacità immaginative che donano il senso che hanno per quell’individuo, le esperienze che sta provando e che sono una possibilità di esperienza unicamente umana, altamente soggettiva e pertanto non generalizzabile.

Ciò conduce Calamandrei a poter affermare che non solo ogni mente deve essere considerata come estremamente individuale e che di conseguenza esista in un suo particolare modo di funzionare ovvero quello specifico di quell’unico soggetto che non può essere generalizzato ma anche che ciascuna mente non è data ma è costruita. Ogni mente cioè, sottolinea Calamandrei, si deve formare e avere coscienza del proprio funzionamento per poter dare una definizione soggettiva ai sentimenti che accompagnano le immagini che sperimenta. Ed è proprio l’acquisizione della propria mente e la coscienza del proprio funzionamento che consente, secondo gli psicoanalisti, di poter ottenere la proprietà di divenire un soggetto ovvero il costituirsi di ciò che gli psicoanalisti chiamano Sé e che nel tempo hanno connotato come soggettivazione. Ciò implica una considerazione di estrema rilevanza che Calmandrei pone in evidenza e secondo la quale il cervello e la mente sono intrinsecamente legati al corpo biologico e l’acquisizione di un senso di soggettivazione psicologica non si limita solamente alle componenti cerebrali, contenute nella scatola cranica, ma è un fenomeno mentale diffuso nel corpo fino alla periferia percettiva.

Di conseguenza, si può considerare, per Calamandrei, come sia proprio il percorso di acquisizione dell’esperienza soggettiva a trasformare le tappe neuronali in un prodotto che acquisisce senso per l’individuo. In questa prospettiva, la creatività, nello stretto rapporto tra parte cognitiva e parte emotiva esprime l’esistenza di logiche diverse alla base della dimensione individuale attraverso le quali la mente filtra il rapporto tra il cervello, i diversi input  sensoriali e le informazioni con le quali processerà la realtà.

In questa direzione è ancora l’alliance tra neuroscienze e psicologia che permette a Calamandrei di raggiungere una prospettiva a partire dalla quale è possibile osservare in un’ottica innovativa i rapporti tra cervello e rappresentazione della realtà. Non è un caso infatti che i capitoli dedicati alla memoria, che come noto costituisce una sorta di luogo simbolico della mente, sviluppano con grande generosità di dettagli il complesso intreccio tra i meccanismi predeterminati e i processi olistici che caratterizzano ogni funzione mentale.

In questo intreccio, lo scarto tra ciò che la prospettiva psicologica non riesce a spiegare come risultato di ciò che è innato e predeterminato e ciò che la prospettiva delle neuroscienze non riesce a spiegare come risultato di ciò che è acquisito, ancora nell’ottica di integrazione dei saperi, viene colmato dal contributo della prospettiva delle teorie antropologiche relative al confronto con i nostri antenati e con la loro produzione artistica. In quest’ultima che si manifesta in forme d’arte nelle quali l’oggetto rappresentato si fonde con la sua rappresentazione e non è concepito ancora come simbolo, può trovare dimora allora lo stato mentale creativo che conterrebbe la totale libertà di espressione dell’uomo che si istituisce in una dimensione simile a quella del funzionamento psichico neonatale e che consente la totale libertà interiore contraddistinta dal suo essere inconscia.

Lo stato mentale creativo all’origine della tessitura della trama dello sviluppo dell’intero apparato psichico

Nel tempo che anticipa la rivoluzione simbolica nella quale le specializzazioni funzionali più raffinate si potranno integrare solamente attraverso il processo esperenziale di maturazione ed apprendimento che è un fenomeno esclusivamente sociale, la mente può configurarsi, seguendo le considerazioni sopra esplicitate, come una tabula rasa dove i livelli superiori di elaborazione ovvero quelli neocorticali dove si trova la cognizione devono ancora formarsi.

È in questo tempo dunque che il contributo creativo percorre strade di riflessione psicologica e di comprensione interiore che sono, per gran parte del loro percorso, inconsce così come è inconscio e dunque lontano dalla nostra consapevolezza il lavoro di elaborazione che Calamandrei definisce come quello di un fiume carsico che si muove nel sottosuolo della mente fino a quando, affiorando in superficie, permette alla coscienza di prendere coscienza del lavoro svolto.

Per comprendere allora l’enigma del contributo della creatività nel costituirsi del Sé, Calamandrei ci invita dunque a considerare l’esistenza di questo stato mentale di base antecedente alla costituzione e fruizione della funzione percettiva ed ancora di più di una funzione rappresentativa e a fare lo sforzo di riuscire a far sostare la nostra riflessione su questi primi momenti vitali. È in questi infatti che emerge il primo aspetto del Sé che costituirà la base funzionale per lo sviluppo dell’intero apparato psichico che si continuerà nel processo di soggettivazione narcisistica e si manterrà anche quando sarà maggiormente coinvolto nel processo di intersoggettività. Tutto ciò conduce Calamandrei a poter affermare inoltre che il Sé non è dunque un risultato del processo di crescita realizzato da un apparato psichico che è costruito e che funziona nello stesso modo in ogni individuo ma che al contrario ogni individuo è il proprio apparato psichico e il proprio funzionamento. Ne consegue che lo sviluppo psichico quindi, può essere complessivamente considerato un processo di auto-creazione nel quale l’intera soggettività, con l’insieme delle sue funzioni e delle sue esperienze, viene coinvolta.

Di conseguenza, la costituzione del Sé, dell’apparato psichico, lo sviluppo delle istanze, le identificazioni, in una parola la soggettivazione può definirsi come un lavoro di trasformazione e di appropriazione soggettiva a partire dalla capacità della mente di informarsi sul proprio funzionamento e di rappresentarsi la propria attività rappresentativa.

Questo modo di procedere del contributo creativo nella misura in cui opera nella quasi totale invisibilità alla coscienza può allora essere associato secondo Calamandrei al modo di procedere dello sviluppo del narcisismo che, nelle indicazioni avanzate da Freud in “Introduzione al Narcisismo”, può essere interpretato come fenomeno strettamente connesso a livello biologico ovvero come un elemento sano costitutivo del Sé e delle basi narcisistiche della personalità che si manifesta prima del concepimento strutturale della mente.

In questa prospettiva e particolarmente nei momenti iniziali della vita, dunque, l’instaurarsi del narcisismo e lo strutturarsi del Sé nella misura in cui possiedono, quindi, una loro storia ed una propria evoluzione autonoma di sviluppo rispetto alle dinamiche che si stabiliscono nei confronti dell’oggetto, si legano allora alla concettualizzazione della creatività, confermando l’ipotesi dell’esistenza di un periodo iniziale di narcisismo presente già nel periodo immediatamente successivo alla nascita e prevalente fino alla metà del primo anno di vita in cui l’attività mentale deve per l’appunto strutturarsi e ancora svilupparsi per avere coscienza del proprio funzionamento.

Narcisismo sano e creatività: elementi primitivi a vantaggio del processo di strutturazione del Sé

Stabilito il nesso tra narcisismo e creatività, l’incedere del libro evolve verso le conquiste cognitive più elevate. Queste ultime nell’orizzonte teorico che vede il narcisismo e la creatività come gli elementi di base, i più primitivi che compaiono al primo accenno di organizzazione mentale e di soggettivazione, si strutturano nei processi di funzionamento mentale più complessi il cui progredire è determinato dall’incontro con l’ambiente e con gli oggetti esterni che, dal punto di vista della psicoanalisi, come tutte le stimolazioni interne ed esterne vengono mediate dal legame con la madre.

A questo legame, Calamndrei dedica particolare considerazione in quanto sarà dalla qualità di questo legame che dipenderà l’evoluzione del rapporto madre-bambino e di conseguenza lo sviluppo del narcisismo sano e quindi della creatività che, nella prospettiva avanzata da Calamandrei, concorrendo a pieno titolo entrambe alla strutturazione del Sé, sono fortemente connesse al concetto di Processo Primario e al concetto di Processo Secondario.

Illuminanti a questo proposito le riflessioni di Calamandrei che fruendo dell’ausilio di svariate teorie psicoanalitiche che si sono occupate dell’elaborazione della relazione madre- bambino, pone particolare rilievo ai modelli operativi affettivo-relazionali inconsapevolmente appresi che costituiranno le modalità interiorizzate ed inconsce utilizzate  come guida per i comportamenti relazionali futuri. Tra queste, quella di Shore, per esempio, riuscendo ad individuare nella regolazione affettiva della madre la garanzia per rendere il bambino un individuo sociale, trova il suo fondamento nel meccanismo del  “cross modal matching” che si realizza, per l’appunto, quando l’affettività della madre è strettamente correlata, durante la costituzione del Sé, con lo stato d’animo del neonato e la sua risposta media ed indirizza verso il significato ogni sensazione che deriva dalla sensorialità. Con questo meccanismo, spiega Calamandrei, la madre infatti, da un lato favorisce la percezione interiore quando indica al neonato la forma dinamica ed emotiva che deve valorizzare, dall’altro favorisce la condivisione e la conferma di ciò che il bambino esperisce inducendo in lui un atto percettivo interiore di spostamento e di correlazione e accompagnando il bambino con la condivisione di una sensazione emotiva gli insegna sa creare significati.

Questo meccanismo, inoltre, spiegherebbe anche il meccanismo psicologico di base dell’identificazione che sottolinea Calamandrei, sembra essere infatti in prima istanza molto vicino a quello percettivo quando porta, per l’appunto alla significazione resa quando due rappresentazioni vengono correlate attraverso un atto di percezione interiore con il quale il concetto di identificazione acquisisce lo stesso significato dell’atto dell’appropriarsi soggettivo e del comprenderne la via elaborativa nella quale si sviluppa poi il meccanismo che forma i simboli. .

L’identificazione, afferma Calamndrei è infatti l’apprendere l’atto stesso, il come fare, è cioè l’impadronirsi del procedimento che correlando due stimoli “grezzi” questi, diventano qualcosa di più, accedendo ad un livello superiore di significato. Se poi, questo “nuovo” significato, puntualizza Calamandrei, viene anche condiviso da qualcuno che esterno a noi, diviene simbolico consentendo al bambino di accedere all’altra faccia della medaglia del processo di significazione che è il Processo Secondario. Pertanto è fondamentale evidenziare per Calamndrei una puntualizzazione che riguarda il fenomeno dell’appropriazione soggettiva. A questo proposito, sostiene Calamandrei, sebbene il fenomeno di appropriazione, vada considerato come un’auto-creazione soggettiva, nella misura in cui si manifesta in questa fase iniziale della vita nella quale si sviluppa contemporaneamente anche l’intersoggettività cioè la relazione con la madre, l’oggetto e la sua mente, non bisogna mai dar troppo per scontato raccomanda Calamandrei  come, fin dall’inizio, l’esperienza del pensiero e la sua costruzione, come anche l’appropriazione del significato, siano una co-creazione del rapporto madre-bambino.

In questa co-creazione, l’assenza della fondamentale sintonia affettiva, genererebbe, infatti, come teorizzato da Winnicott e Khan, il sentimento della “separatezza” che rappresenta il fallimento della regolazione degli affetti e viene sperimentato come una lacerazione nel sentimento di continuità nell’esistenza del bambino. In questi termini, la relazione madre bambino costruita con questa sintonia affettiva, rappresenta lo spazio potenziale in cui comincia  l’area dell’esperienza culturale che potrà definirsi sana e non destrutturante per l’adulto solo se la mediazione della madre in questa fase consentirà al bambino di acquisire quella sensazione di sicurezza che gli donerà una predisposizione psicologica all’arricchimento interiore e alla capacità di un’esperienza di condivisione con gli altri di tipo identificativo. Ciò conduce Calamandrei a poter affermare che quando gli investimenti narcisistici sono fluidi ovvero quando sono stati metabolizzati dal bambino in una forma che gli ha concesso l’elaborazione della separazione dalla madre oggetto in termini di autonomia si giunge all’esito favorevole del processo creativo che consisterebbe infatti nella capacità di effettuare un buon passaggio dal Processo Primario al Processo Secondario in modo che il soggetto possa riuscire ad incanalare parte delle energie narcisistiche in modo che non restino patogene e paralizzanti ma al contrario rivolte verso obiettivi creativi socialmente condivisibili.

Sulla differenza tra il pensiero metaforico e il pensiero simbolico: la prospettiva della psicoanalisi

Entrando quindi nel dettaglio dell’analisi del concetto di Processo Primario e del concetto di Processo Secondario che nella costruzione psicoanalitica freudiana definiscono due modalità del processo del pensiero, scrive Calamandrei che il primo concetto, parafrasando Winnicot, coincidendo con la stessa esperienza del vivere conduce all’esplicitazione dell’evoluzione psicologica che avviene nel contesto sociale; il secondo concetto conduce invece all’esplicitazione della costruzione psicologica identitaria del singolo rispetto alla socialità e vedrà l’espansione della creatività nell’area dell’esperienza culturale, con l’acquisizione dei concetti simbolici, con la loro definizione da parte della mente.

In questa prospettiva il Processo Primario si dovrebbe poter considerare, come aveva già teorizzato Freud come una formazione prodotta da eventi naturali spontaneamente e dunque costituito dalla prima esistenza dell’inconscio in cui la parte dell’inconscio che non è stata rimossa è primitiva ed infantile. In questa fase, secondo Freud, ciò che l’uomo esprime attraverso la rappresentazione dell’immagine, infatti, non è che la mera rappresentazione della cosa ovvero la memoria dell’esperienza di una cosa esterna o interna al corpo, accaduta alla sensorialità percettiva, necessariamente inconscia di cui la mente si è poi appropriata.

Nel processo Primario sarebbe dunque presente la modalità del pensiero metaforico che, dal punto di vista della psicoanalisi, rappresenta la capacità cognitiva cerebrale di formare correlazione che espressa attraverso la metafora assume, seguendo le considerazioni di Model riportate da Calamandrei, la funzione fondamentale di interpretare la memoria inconscia delle sensazioni somatiche, proprio perché le memorie emotive formano categorie basate sulla similitudine metaforica. In quest’orizzonte teorico, le metafore si formerebbero quindi, sostiene Calamandrei, proprio nell’interazione tra percezione e motricità e analizzate nella prospettiva che si basa sul concetto di mente incarnata ovvero di mente radicata basilarmente nel corpo, sono rese somiglianti per analogia le cose. Il significato cognitivo delle metafore è dunque strutturale per il pensiero metaforico che è stato per qualche millennio il tipo di pensiero proprio dei cacciatori-raccoglitori fino all’introduzione del linguaggio e ha costituito la fonte della loro immaginazione e creatività. Ciò confermerebbe come sostenuto da Calamandrei, che la competenza qualitativamente più elevata dell’elaborazione cognitiva non sembra essere coinvolta nella creazione primitiva delle immagini, avallando dunque l’esistenza dello stato mentale inconscio in cui opera la creatività.

Pertanto, seguendo ancora le teorizzazioni di Freud si determina un cambiamento qualitativo nel processo di pensiero quando alla sola rappresentazione della cosa nell’immagine, si aggiunge una denominazione ovvero la rappresentazione di parola che consentirebbe il passaggio dal Processo Primario al Processo Secondario. E’ quest’ultimo che per Freud è preconscio, più adulto e civilizzato ad essere caratterizzato dal linguaggio. Ne consegue che la rappresentazione verbale gioca dunque un ruolo importante di associazione significativa che vede nel Processo Secondario lo stabilirsi di un legame che connette le due rappresentazioni “cosa” e “parola” e attraverso il quale la capacità manifestata dalla mente nel produrre questo accoppiamento genera la creazione dell’organizzazione superiore. Nelle teorizzazioni di Freud, è dunque già esplicita la comprensione che nella formazione del Processo Secondario il linguaggio non è un semplice atto di denominazione ma un esprimersi attraverso le parole che si configura come una modalità di pensiero che ha un ruolo essenziale seppur non esclusivo nello sviluppo della funzione simbolica attraverso la quale l’acquisizione dei concetti simbolici che come noto rimanda alla rivoluzione sintattica o come la definisce Calamandrei rivoluzione dello scambio, costituisce anche il presupposto dell’intersoggettività nella misura in cui rappresenta una modalità del linguaggio attraverso la quale il Sé si modella in senso cognitivo rispetto all’interazione con gli altri Sé al fine di una condivisione di significato attribuita all’oggetto a cui il simbolo rimanda. Il simbolo, a differenza della metafora che sostituisce un termine proprio con uno figurato, rimanda a qualsiasi elemento atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile ma capace di evocarla.

Nell’elaborazione del pensiero simbolico, di conseguenza, a differenza dell’elaborazione del pensiero metaforico, l’oggetto perde le sue caratteristiche individuali per trasformarsi in una rappresentazione che contiene tutte le possibili variazioni dell’oggetto. La capacità di trasmissione di tali rappresentazioni generate da un’attività mentale individuale ad altre menti dipende dalla condivisione dell’esperienza che deve essere simile per tutte le menti e che rimanda al concetto di ambiente culturale condiviso. La rappresentazione verbale, quindi, consente di comprendere in maniera cosciente ciò che avviene internamente, rendendosi palese come qualcosa che viene dall’esterno.

Strade di identità creatività oggi: generare e condividere un mondo nell’indistinzione dei limiti tra noi e gli altri percorrendo lo spazio evolutivo del pensiero simbolico e del linguaggio

Come sintetizzato da Calamndrei, dato che il simbolismo è un’acquisizione intersoggettiva che deve quindi essere appresa, il linguaggio è anche lo strumento che dall’esterno plasma la nostra mente e che, fin dai tempi antichi, noi tutti utilizziamo per pensare con noi stessi al modo in cui pensano gli altri. Da questo meccanismo Calamandrei ci invita a poter dedurre che tutto ciò che può determinare la nostra comprensione, anche degli stati emotivi interni, è qualcosa che abbiamo già percepito, che proviene dall’esterno, che è simbolico e sociale, appreso nel rapporto materno prima e riflesso nel rapporto con gli altri poi.

In questa prospettiva si può allora condividere la tesi secondo la quale l’elemento determinante per il progresso della nostra specie è stata la conquista cognitiva di poter mantenere un’intesa tra due persone su di uno stesso obiettivo quale un’unità di intenti o di emozioni e significati e quindi di poter imparare ad utilizzare i simboli, sviluppando il Processo Secondario e poi potersi esprimere compiutamente attraverso il linguaggio. È in questi termini che la teoria psicoanalitica seppur non si è occupata molto della formazione del linguaggio ma solamente del suo aspetto razionale, anche se ha sempre sottolineato il potere evocativo delle parole, in quanto intimamente connesse con il loro essere degli atti senso-motori, ritiene che l’intenzionalità e l’emotività inconscia siano una forma di pensiero che può essere comunicata e percepita, compresa da un’altra persona attraverso una relazione identificativa tale per cui la nicchia ecologica in cui si è sviluppato l’uomo è stata modellata, fin dall’inizio, dalla sua capacità di intenzionalità inconscia condivisa.

In tale relazione, afferma Calamandrei, Il Sé partecipa e modella l’ambiente umano e viene alterato da ciò che percepisce, ma è anche vero che ciò che percepisce è una creazione del Sé. In questo gioco di contaminazione di strutturazione interna ed esterna i cambiamenti psicologici sono sinonimo di crescita solo in persone che hanno la capacità di integrare le nuove esperienze e si sanno modificare. Ne consegue che la costituzione del Sé non è mai definitiva ma costantemente soggetta a cambiamenti per i quali come Calamandrei ha ampiamente argomentato l’interazione con l’ambiente procede attraverso l’attivazione di nuove funzioni o lo sviluppo di nuovi pensieri il cui evolversi dipende da quell’attività mentale spontanea attraverso la quale la mente si auto-costruisce fin dalle prime percezioni, attraverso il processo di appropriazione soggettiva.

Questo potenziale di auto-creazione opera soprattutto durante l ‘acquisizione della metafora prima e del simbolo verbale poi quando cioè trasforma la sensazione corporea in strumento cognitivo per comprendere il mondo circostante. Infatti, se la metafora costituisce la base del pensiero inconscio ed è uno strumento a sostegno del processo di identificazione e soggettivazione, il simbolo costituisce l’emblema della comunicazione umana in quanto, come afferma Calamandrei solo gli uomini comunicano utilizzando simboli e pensare per simboli è dunque ciò che ci rende essenzialmente esseri umani.

Il pensiero simbolico, quindi, emerge insieme con i cambiamenti anatomici del cervello, della società e della comunicazione collettiva agli albori dell’umanità, per evolvere poi compiutamente attraverso la scoperta e l’utilizzo del linguaggio definito nella prospettiva antropologica “pieno” o complesso.

Quando il linguaggio è divenuto “pieno” dal punto di vista psicologico, sostiene Calamandrei, significa che la nostra mente è andata incontro a modificazioni, in quanto ascoltare e capire qualcuno che sta parlando con noi, ci consente di identificarci, di diventare l’altro o piuttosto di lasciare che l’altro diventi per un breve istante parte di noi.

Il linguaggio pertanto, da quando si è sviluppato, è stato l’agente fondamentale dell’articolazione della complessità delle esperienze e dei processi di pensiero, poiché ne ha reso espliciti gli elementi e i nessi, rendendo possibile l’organizzazione strutturale della mente in cui ogni vera creatività si manifesta allora nei cambiamenti interiori e costringe la mente a spingersi oltre i limiti delle proprie possibilità già raggiunte.

Probabilmente, insomma, afferma Calamandrei, senza il linguaggio o qualche altra forma di significazione senso-motoria che strutturasse il processo del pensiero, l’umanità non si sarebbe evoluta oltre il Processo Primario.

Da ciò consegue che il funzionamento mentale, nel suo strutturarsi evolve dalla necessità di creare legami differenzianti dall’esperienza globale primitiva attraverso un conoscere insieme. Ciò implica per Camalmandrei che una caratteristica particolare del nostro cambiamento psicologico e della crescita della mente è dunque il suo manifestarsi sul limite della interazione con gli altri che costituisce lo spazio dove ciò che avviene è già un fenomeno intersoggettivo, in quanto si realizza in una condivisione che implica le identificazioni incrociate che includono anche quella parte di mondo che si costituisce come “non-me” e che esige inevitabilmente, un cambiamento interno per essere integrato.

In quest’ottica, lo spazio dell’esperienza culturale è allora l’area dove si realizza la coscienza di Sé e delle relazioni interpersonali, dove queste vivono attraverso le identificazioni e l’empatia. Pertanto, raggiungere un’ identità creativa afferma Calamadrei significa dunque scambiare emozioni attraverso le identificazioni ed è in questi termini che l’ identità creativa può configurarsi per Calamandrei come il confronto in cui il nostro Sé si integra nello scambio delle identificazioni, si eleva nel livello di comprensione, grazie all’indistinzione dei limiti tra noi e gli altri, quando cioè lasciamo l’opportunità che nell’incontro venga concessa un’occasione per l’attività creativa inconscia.

Concludendo il libro di Calamandrei si potrebbe definire come un lungo viaggio orientato non alla ricerca dei presupposti psicologici e neuro-scientifici della costituzione dell’ identità creativa ma indirizzato all’ esplicitazione degli stessi come assunti a partire dai quali è possibile, seguendo una mappatura ben definita dalle traiettorie delle strade percorse dalla teoria psicoanalitica, dalle conoscenze neuro-scientifiche e dalle teorie prodotte da tutti gli altri contributi disciplinari, giungere ad un comune punto d’arrivo in cui la concettualizzazione della locuzione di identità creativa potrebbe essere considerata come una delle più arcaiche intuizioni dell’umanità in quanto è nell’ accezione creativa che l’identità può configurarsi come l’ unica possibilità di evoluzione per l’essere umano dai tempi in cui può definirsi tale e al contempo come l’unica possibilità di non estinzione per il genere umano oggi a condizione però che se si acquisisca il significato attribuito da Calamandrei alla creatività che nella sua spontaneità e libertà di procedere concede all’ identità la capacità di effettuare un cambiamento ogni volta che è necessario consentendoci di non regredire nello stato dell’indistinto fusionale dal quale con tanta fatica ci siamo evoluti.

Autoipnosi e tumore al seno: insegnare l’autoipnosi migliora la qualità della vita

“Apprendere tecniche di autoipnosi migliora la qualità della vita dei pazienti con diagnosi di tumore al seno. A sostenerlo è un interessante articolo (Forester-Miller, 2017), recentemente pubblicato sull’American Journal of Clinical Hypnosis

 

Le pazienti che ricevono una diagnosi di tumore al seno vengono introdotte in percorsi di terapia con un certo livello di complessità. Spesso si trovano ad affrontare diversi tipi di esami, alcuni dei quali invasivi, visite, consulti, operazioni e trattamenti. Tali trattamenti possono portare a effetti collaterali indesiderati come affaticabilità, ansia, dolore, insonnia, perdita dei capelli, vampate di calore e cambiamenti nel peso, nella funzione sessuale e nei rapporti familiari e sociali che si sommano alle preoccupazioni per il proprio futuro e per la propria salute.

Di fronte a questa situazione e alla prospettiva del percorso di cura, alcune pazienti riportano di sentirsi sopraffatte perché sentono ridursi il grado di controllo sulle loro vite. A fronte di queste reazioni emotive, molte donne sentono il bisogno di tornare a sentirsi attive nel prendersi cura della loro salute psico-fisica.

Autoipnosi: effetti su pazienti con tumore al seno

Diversi studi in passato hanno osservato l’efficacia dell’ ipnosi in campo oncologico: riduzione del dolore, più rapida guarigione delle ferite chirurgiche, riduzione dello stress e miglioramento del benessere motivo, migliore gestione degli effetti collaterali delle terapie). Lo studio di  Forester-Miller, 2017  è particolarmente interessante perché dimostra l’efficacia in particolare dell’ autoipnosi.

23 donne che avevano ricevuto diagnosi di tumore al seno hanno partecipato ad un programma di quattro incontri di formazione all’ autoipnosi in piccoli gruppi (massimo 10 partecipanti)  della durata di 90 minuti ciascuno. Nel corso della formazione, oltre a fornire brevi cenni teorici sulla materia, si è insegnato alle partecipanti a raggiungere lo stato di trance ed ad utilizzare il linguaggio in modo funzionale per se stesse, così da darsi le suggestioni più adatte a favorire il processo di guarigione. Gli effetti dell’intervento con autoipnosi sono stati misurati attraverso un questionario specifico sulla qualità della vita di pazienti affette da tumore al seno.

I risultati, hanno mostrato cambiamenti significativi in diverse misure di qualità della vita. Dopo aver concluso la formazione, le partecipanti si sono sentite meno disturbate dagli effetti collaterali del trattamento, meno spaventate dalla malattia o dalla morte (un pensiero spesso frequente in questa popolazione), più allegre e rilassate. Inoltre hanno riportato di dormire meglio, di godere di più delle attività piacevoli e più in generale di essere più felici nelle vite che vivevano.

Dal punto di vista fisico le partecipanti, dopo l’intervento con autoipnosi, hanno riportato meno episodi di affanno e meno gonfiore insieme a miglioramenti sulla percezione di se stesse come sessualmente attraenti.

Alla luce di tali osservazioni, l’autore supporta l’utilizzo dell’ autoipnosi come strumento per il miglioramento del benessere psicofisico delle donne che attraversano percorsi di cura per il tumore al seno e sottolineano come la brevità dell’intervento e la possibilità di erogarlo a gruppi di pazienti lo rendano una scelta conveniente per le strutture sanitarie.

Tali risultati si aggiungono al crescente volume di ricerca che supporta l’uso dell’ ipnosi e dell’ autoipnosi come metodica per migliorare lo stato di salute psicofisica dei pazienti che hanno ricevuto diagnosi oncologiche, sottolineando quanto le reazioni emotive possano e debbano essere parte integrante della cura.

Non voglio una vita spericolata: differenze individuali nel Personal Need For Structure

Una delle variabili psicologiche che influenza il modo di categorizzare la realtà è il Personal Need for Structure (PNS) teorizzato da Thompson, Naccarato, Parker, & Moskowitz (2001). Secondo gli autori, gli individui con un alto livello di Personal Need for Structure sono costituzionalmente portati a preferire l’ordine, la chiarezza e la definizione nelle situazioni quotidiane, sono poco attratti dalla possibilità di mettere in discussione e cambiare attitudini, pensieri e comportamenti e reagiscono con ansia e fastidio di fronte all’ambiguità e all’imprevedibilità (Thompson et al., 2001).

Giulia Anna Aldi, OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze (SCF)

 

Il bisogno di categorizzare la realtà in strutture mentali ordinate e dotate di senso è una prerogativa fondamentale di ogni essere umano, in quanto siamo incessantemente bombardati da un fuoco incrociato di informazioni provenienti dall’ambiente in cui viviamo, dagli altri e da noi stessi. Se non potessimo elaborare e rappresentare la realtà secondo strutture cognitive dotate di senso ci sarebbe impossibile muoverci all’interno di essa e finiremmo per percepire il mondo come un inimmaginabile, spaventoso e paralizzante caos. Per struttura cognitiva si intende la creazione e l’uso delle rappresentazioni mentali (schemi, prototipi, scripts, atteggiamenti, stereotipi) che sono semplificazioni generalizzate delle esperienze. Sebbene la conoscenza che deriva da queste strutture non possa essere applicata a tutte le situazioni e non sia sempre accurata, essa ci permette di trarre conclusioni su un evento in tempi ragionevolmente brevi e senza spendere un’enorme quantità di energie cognitive nel tentativo (Neuberg & Newsom, 1993).

Esiste una generale tendenza a vivere le situazioni imprevedibili ed incerte come ansiogene e stressanti, in quanto questo tipo di eventi viola l’ancestrale bisogno umano di trovarsi in un ambiente prevedibile e strutturato, che possa favorire l’adattamento e la sopravvivenza dell’individuo (Rietzchel, De Dreu, & Nijstad, 2007). Questa tendenza, però, non è presente in tutti allo stesso modo, ma ci sono differenze individuali sia nella frequenza con cui le persone categorizzano le informazioni in strutture definite, sia nella modalità con cui reagiscono di fronte alla mancanza di chiarezza ed ordine (Neuberg et al., 1993).

Il Personal Need for Structure: descrizione del costrutto e strumento di misura

Una delle variabili psicologiche che influenza il modo di categorizzare la realtà è il Personal Need for Structure (PNS) teorizzato da Thompson, Naccarato, Parker, & Moskowitz (2001). Secondo gli autori, gli individui con un alto livello di Personal Need for Structure sono costituzionalmente portati a preferire l’ordine, la chiarezza e la definizione nelle situazioni quotidiane, sono poco attratti dalla possibilità di mettere in discussione e cambiare attitudini, pensieri e comportamenti e reagiscono con ansia e fastidio di fronte all’ambiguità e all’imprevedibilità (Thompson et al., 2001). Inoltre, questi soggetti si mostrano rigidi, caratterizzati da una tipologia di pensiero del tipo “bianco o nero” che non prende in considerazione sfaccettature troppo complesse e tendono ad evitare informazioni ambigue (Cavazos, Judice-Campbell, & Ditzfeld; 2012).

Il livello di Personal Need For Structure si misura tramite l’omonimo questionario autosomministrato sviluppato dal gruppo di ricerca di Thompson, Neuberg e Naccarato (Naccarato & Parker, 1989; Neuberg et al., 1993; Thompson et al., 2001) e adattato in italiano da Vannucci, Mazzoni e Cartocci (2011). Il questionario è composto da 12 items a cui il soggetto dà un punteggio da 1 (completamente in disaccordo) a 6 (completamente d’accordo); un alto punteggio indica un elevato livello di Personal Need For Structure. Tale costrutto è composto da due fattori, misurati da due sottoscale: il bisogno di struttura (“Need for simple structure”) e la risposta alla mancanza di struttura (“Response to a lack of structure). Il primo fattore riguarda la preferenza verso ciò che è prevedibile, semplice e ben organizzato, per cui individui con alti punteggi in questa sottoscala preferiscono avere una vita strutturata e lineare e si trovano d’accordo con affermazioni tipo:
“Penso che una routine regolare mi metta in grado di godermi maggiormente la vita”; “Sono felice di avere uno stile di vita chiaro e strutturato”; “Mi piace avere una collocazione per tutto e che tutto sia al proprio posto”.

Il fattore “Response to a lack of structure”, invece, descrive la tendenza a reagire con emozioni negative e disagio di fronte alle situazioni imprevedibili e non organizzate. Persone con un alto punteggio in questa scala esprimono accordo per items come: “Non mi piacciono le situazioni incerte”; “Odio cambiare i miei programmi all’ultimo momento”; “Odio stare con persone imprevedibili”; “Mi sento a disagio quando in una situazione le regole non sono chiare”, mentre sono in disaccordo con affermazioni del tipo: “Mi piace l’allegria dovuta al trovarmi in una situazione imprevedibile”.

Personal Need for Structure e processi cognitivi: dalla percezione di categorie illusorie alla formazione di stereotipi

Ma qual è l’utilità di questo costrutto? Una crescente letteratura ha tentato di mettere in relazione il livello di Personal Need for Structure con altre variabili psicologiche, per analizzare quali sono le caratteristiche dei soggetti con alto Personal Need for Structure.

Alcune ricerche hanno dimostrato che il Personal Need for Structure influenza innanzitutto il modo in cui elaboriamo le informazioni a livello prettamente percettivo (Vannucci et al., 2011; Whitson & Galinsky, 2008). In un interessante esperimento di Vannucci et al. (2011), ad esempio, soggetti con alti livelli di Personal Need for Structure sono stati sottoposti ad un task al computer che consisteva nel cercare di identificare immagini di oggetti la cui nitidezza era stata alterata a vari livelli. I soggetti potevano provare ad identificare subito l’oggetto, oppure dire “non so” e tentare di farlo ad una condizione di minore ambiguità. Immediatamente prima di essere sottoposti al task, tutti i soggetti avevano partecipato ad un altro compito durante il quale i soggetti sperimentali avevano ricevuto feedback del tutto casuali rispetto alla correttezza delle proprie risposte, trovandosi quindi in una situazione percepita come “fuori controllo”; i soggetti di controllo, invece, non avevano ricevuto alcun feedback ed erano stati spronati a dare la risposta più istintiva possibile senza preoccuparsi della sua accuratezza.

I risultati hanno mostrato che i soggetti nella condizione di mancanza di controllo tendevano a tentare identificazioni più precoci rispetto ai controlli, cercando di categorizzare anche gli stimoli più ambigui; le risposte di controlli e soggetti sperimentali, però, non differivano nel livello di accuratezza. In pratica, l’elevato bisogno di struttura spingeva i soggetti con alto Personal Need for Structure che si trovavano in una situazione fuori dal loro controllo a cercare di eliminare l’ambiguità il prima possibile, “costruendo” una percezione illusoria di struttura a partire da uno stimolo che, nella realtà, ne era privo (Vannucci et al., 2011).

Questa modalità di affrontare la realtà creando categorie illusorie sembra presentarsi anche sottoforma di caratteristiche più squisitamente cognitive. In uno studio ormai datato (Smith & Gordon, 1998) i soggetti con più alti punteggi di Personal Need for Structure, rispetto a quelli con punteggi più bassi, riportavano atteggiamenti più negativi nei confronti di persone omosessuali; gli autori hanno spiegato questo dato affermando che il bisogno di semplificazione e categorizzazione gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel mantenimento di stereotipi. Uno studio più recente (Clow & Esses, 2005) ha confermato che i soggetti con alto Personal Need for Structure tendono a sviluppare stereotipi meno accurati di fronte a persone sconosciute e che il fatto di ottenere più informazioni sull’oggetto dello stereotipo non modifica il loro punto di vista.

Coerentemente con questi dati, alti livelli di Personal Need for Structure sembrano correlare positivamente con alta rigidità cognitiva e scarsa adattabilità (Hamtiaux & Houssemand, 2012) e negativamente con apertura mentale (Sarmany-Schuller, 2000; Schaller, Boyd, Yohannes, & O’Brien, 1995) e tolleranza all’ambiguità/incertezza (DeRoma, Martin, & Kessler, 2003).

Personal need for structure e creatività: il disegno degli alieni

In questa cornice, non stupisce scoprire che gli individui con alti livelli di Personal Need for Structure sembrano avere difficoltà nei compiti che richiedono creatività (Thompson et al., 2001); ad esempio, potrebbero avere notevoli difficoltà nel disegnare un alieno, partorendone, dopo molto sforzo, uno poco dettagliato e originale (Rietzchel, Slijkhuis, & Van Yperen, 2014).

Un disastro, quindi? Non sempre. Studi più recenti (Rietzchel et al., 2014; Rietzchel et al., 2007) hanno messo almeno in parte in discussione l’idea che alti livelli di Personal Need for Structure si associno a performance peggiori in compiti creativi. Secondo l’autore, infatti, un alto livello di Personal Need for Structure sarebbe correlato a bassi livelli di creatività solo se accompagnato da alti livelli di un altro costrutto: la paura dell’invalidazione o “Personal Fear of Invalidity” (PFI, Thomson et al., 2001), cioè la paura di prendere una decisione sbagliata e quindi pagarne le conseguenze. Gli individui con alta PFI avrebbero la tendenza a preoccuparsi molto prima di prendere una decisione e ad essere di conseguenza indecisi e titubanti.

Un individuo con alti livelli di Personal Need for Structure e di PFI, messo di fronte ad una situazione ambigua e destrutturata, cadrebbe in contraddizione: da una parte il suo forte desiderio di struttura lo spingerebbe alla ricerca di una soluzione semplice e logica, dall’altra la paura di sbagliare lo costringerebbe a complicare il problema vagliando tutte le soluzioni possibili, in una spirale di ansia che inibirebbe il pensiero creativo. Gli individui con alto Personal Need for Structure ma bassa PFI, invece, strutturerebbero in maniera semplice e veloce il problema e sarebbero più focalizzati sulla ricerca di una soluzione, in quanto questa ridurrebbe lo stato di ambiguità in cui si trovano a disagio; pensando in modo sistematico e non casuale, alla fine produrrebbero più idee, tra le quali probabilmente almeno alcune finirebbero per essere originali (Rietzchel et al., 2007).

Dunque, anche i soggetti con alti livelli di Personal Need for Structure possono essere creativi, a modo loro. Se poi il compito richiesto è altamente strutturato, nel senso che richiede sì la produzione di idee originali, ma la procedura è descritta in modo dettagliato e si sviluppa in modo logico e sequenziale, i soggetti con alto Personal Need for Structure avranno la loro rivincita, dimostrando di essere in grado di disegnare originalissimi alieni (Rietzchel et al., 2014).

Personal Need For Structure: implicazioni cliniche

Fino a questo momento abbiamo detto che i soggetti con alti livelli di Personal Need for Structure funzionano meglio di fronte a situazioni strutturate e di cui percepiscono il controllo, mentre reagiscono con disagio di fronte all’incertezza e all’ambiguità, cercando in tutti i modi di “infilare” la nuova situazione in un “cassetto” vecchio, oppure creandone uno nuovo a tutti i costi, anche se illusorio. Ma cosa succede quando nessuna di queste operazioni è possibile?

La risposta a questa domanda sembra avere importanti implicazioni anche dal punto di vista clinico. Innanzitutto, vari studi hanno evidenziato che esiste un’associazione positiva tra alti punteggi alla sottoscala “Response to a lack of structure” e alti livelli di ansia (Neuberg et al., 1993; Sollár, 2008; Prokopcakova, 2015).

Inoltre, alti livelli di Personal Need for Structure sono risultati associati positivamente ad una mancanza di processi creativi di fronte alla consapevolezza della propria mortalità (Routledge & Juhl, 2012) e negativamente all’ottimismo (Prokopcakova, 2015).

Tenendo conto di questi dati, tale persistente modalità di pensiero rigida e inflessibile, unita alla mancanza di creatività di fronte ai problemi della vita e ad un’elevata intolleranza all’incertezza, potrebbe persino aumentare il rischio di suicidio in soggetti già predisposti; infatti, alti livelli di Personal Need for Structure si sono rivelati predittori di tentativi di suicidio in un campione di ex-offenders affetti da Disturbo da Uso di Sostanze (Majer, Beasley, & Jason, 2015).

A livello terapeutico, perciò, valutare il Personal Need for Structure potrebbe essere utile e doveroso, in modo da poter agire sui processi cognitivi per renderli più flessibili, aiutando il paziente a sviluppare creatività e tolleranza all’incertezza, e a creare nuovi punti di vista su di sè, gli altri e il mondo. Magari anche disegnando bellissimi alieni, perchè no?

Il cervello traumatizzato: come il trauma altera le funzioni cerebrali

Mentre le reazioni al trauma possono variare notevolmente e non tutti svilupperanno disturbi post-traumatici da stress, il trauma può modificare il cervello in maniera prevedibile: tre in particolare sembrano i cambiamenti più importanti in un cervello traumatizzato.

 

Recentemente è stato affrontato su Your Tango, una rivista nazionale di lifestyle, il tema del disturbo da stress post-traumatico (DPTS). Jennifer Sweeton, psicologa clinica ed esperta internazionale di trauma e disturbi d’ansia, sostiene che circa il 50% della popolazione sperimenterà un evento traumatico ad un certo punto della vita. Mentre le reazioni al trauma possono variare notevolmente e non tutti svilupperanno disturbi post-traumatici da stress, il trauma può modificare il cervello in maniera prevedibile.

Trauma e cervello: i cambiamenti nel cervello traumatizzato

Una maggiore consapevolezza, è essenziale per poter richiedere il giusto trattamento per affrontare i sintomi del disturbo da stress post-traumatico. Anzitutto è importante comprendere che un cervello traumatizzato si comporta in modo differente proprio in quanto risultato di eventi traumatici. Infatti, proprio come il cervello cambia in risposta alle esperienze passate con il mondo, può cambiare anche in risposta alla previsione di quelle future. In altre parole, il cervello è plastico e può subire cambiamenti.

Il trauma può alterare il funzionamento cerebrale in molti modi, ma tre dei cambiamenti più importanti nel cervello traumatizzato sembrano verificarsi nelle seguenti aree:

  1. La corteccia prefrontale (PFC);
  2. La corteccia cingolata anteriore (ACC)
  3. L’amigdala

La PFC è la parte anteriore del lobo frontale del cervello. È implicata in diverse attività che includono il pensiero razionale, la risoluzione dei problemi, l’espressione della personalità, la pianificazione, l’empatia e la moderazione della condotta sociale. Quando questa zona del cervello funziona in modo adeguato, siamo in grado di pensare chiaramente, di prendere buone decisioni e di avere una buona essere consapevolezza di noi stessi e degli altri.

L’ACC è la parte della corteccia cerebrale situata nella regione superiore della superficie mediale dei lobi frontali, sopra il corpo calloso. Questa zona è responsabile (in parte) della regolazione delle emozioni. Quando questa regione funziona in modo adeguato, siamo in grado di gestire i pensieri e le emozioni difficili senza esserne totalmente sopraffatti.

Infine, l’amigdala e’ una piccola struttura del cervello che fa parte del sistema limbico ed e’ coinvolta nella gestione delle emozioni, tra cui la paura. Questa zona subcorticale agisce al di fuori della consapevolezza o del controllo cosciente e il suo compito primario è quello di ricevere tutte le informazioni in entrata – tutto ciò che viene visto, sentito, toccato, gli odori e il gusto – e risponde a una domanda: “È una minaccia?” Se rileva la presenza di una minaccia, di un pericolo, attiva la sensazione di paura e ci rende vigili e reattivi.

Il cervello traumatizzato sembra diverso da quello non traumatizzato perché vi sarebbe da una parte scarsa attivazione della corteccia prefrontale e della corteccia cingolata anteriore, e dall’altra un’iperattivazione dell’amigdala.

In altre parole, se si subisce un trauma ed emergono sintomi del disturbo da stress post traumatico, si può verificare stress cronico, esagerate risposte di allarme, ipervigilanza, paura, irritabilità o scoppi di collera. Potrebbero emergere anche difficoltà nel mantenere la calma e difficoltà ad addormentarsi. Il soggetto non si sente al sicuro. Questi sintomi sono plausibilmente correlati a un’iperattivazione dell’amigdala. Allo stesso tempo, gli individui traumatizzati possono avere difficoltà di concentrazione e di attenzione prolungata e, spesso, riportano di non essere in grado di pensare in maniera lucida: sintomi plausibilmente correlati alla scarsa attivazione della corteccia prefrontale nel cervello traumatizzato.

Infine, chi sperimenta i sintomi del disturbo da stress post traumatico a volte lamenta di sentirsi incapace di gestire le proprie emozioni. Questo aspetto rimanda a una disfunzione del sistema di regolazione emotiva.

La Sweeton afferma che:

La miglior cosa da fare nel caso di insorgenza di disturbo post-traumatico da stress è rivolgersi alla psicoterapia, utilizzando metodi evidence-based.

 

La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini sul dibattito Trauma & Relazione

Intervengo a mia volta nel dibattito sul trauma e relazione terapeutica. Gli articoli che mi hanno preceduto sono pieni di preoccupazioni. Stante che non mi turba il sonno, la mia preoccupazione aumenta quanto sento i giovani colleghi in formazione affermare “qui gli ho fatto un po’ di ACT”, “serve proprio della Sensory o dell’EMDR, o almeno una bella imagery with rescripting”…


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017

Mi preoccupo non perché sia contrario per principio, anzi ritengo che  l’uso corretto di tali tecniche di provata efficacia sia proprio quello appunto di tecniche, ma perché vedo il rischio di prescindere da una formulazione del caso coerente. Il rischio è l’assenza di una formulazione complessiva e unitaria del funzionamento del paziente secondo un modello epistemologico che non può mutare per ogni singolo aspetto generando un vestito di Arlecchino di varie ipotesi ad hoc.

In terapia si può fare ciò che si vuole. Più invecchio e più trovo inutili regole e regolette come pure molte liturgiche norme del setting.  Persino gli osannati protocolli iniziano a farmi lo stesso effetto della corazzata Kotiomkin al compianto Fantozzi. Si può fare ciò che si vuole con due limitazioni: che il protocollo sia scelto in base ad una teoria esplicativa del caso e che se ne possa verificare l’efficacia. Insomma bisogna sapere perché si fa una cosa e valutare se funziona (a proposito della relazione terapeutica, credo, Sant’Agostino diceva “ama e fa quello che vuoi”).

A tutto questo si aggiunge il problema del trauma. I riflettori sul trauma li ha certamente accesi la EMDR (per i lettori non addentro alle tecniche di psicoterapia, l’EMDR è una tecnica di stimolazione oculare efficace per i postumi psicologici del trauma e significa “eye movement desensitization reprocessing”) con la sua meticolosità tecnica e i clamorosi risultati nei grandi traumi. Io stesso ho frequentato il primo livello e sono stato contagiato dall’entusiasmo dei neofiti che mi verrebbe da chiamare talvolta adepti, mitigato solo dalla ricorrente immagine intrusiva di un personaggio televisivo della mia generazione, il mago Giucas Casella che chiedeva “a me gli occhi”. Il che non mi aiutava a praticare la stimolazione visiva manuale senza rischiare di ridere, procrastinando così l’accesso al secondo livello e facendomi approdare alle acque per me più navigabili dell’imagery with rescripting.

Sono convinto che l’EMDR col tempo tornerà ad essere  un importantissimo strumento della terapia cognitiva e che  l’innamoramento iniziale si trasformerà  in solido amore, mentre ora sta attraversando lo stesso destino di molte altre geniali intuizioni che si sono succedute nel tempo.

Diffidare da chi ha capito tutto

Le teorie hanno un focus di applicazione rispetto cui sono estremamente euristiche e clinicamente efficaci. Ma tanto più sono belle, eleganti  e innovative, più ce ne innamoriamo e più si tende a forzarne l’applicazione prima in campi limitrofi e poi sempre più lontani sottomettendo i fatti alla teoria per l’affezione che si ha per essa. L’effetto –scusatemi per questa metafora boccaccesca alla quale sono probabilmente da troppo tempo innamorato e che non riesco a non citare un po’ troppo spesso, me ne rendo conto- è da pelle del sacco scrotale dei genitali maschili, pelle che se tirata cede e arriva un po’ ovunque ma  perde la sua originaria utilità e funzione. Questo effetto abbiamo osservato di frequente nel cognitivismo nostrano. L’attaccamento, costrutto utilissimo nello spiegare le relazioni esclusive della primissima infanzia, è stato utilizzato per dar ragione di tutte le molto più complesse relazioni dell’età adulta e talvolta di tutta la psicopatologia. Stessa sorte è toccata alla “metacognizione”, al “rimuginio” , alla “massimizzazione della capacità predittiva”, e così via. Si può dire che non ci sia teorico italiano, forse per la nostra naturale tendenza a creare spiegazioni omnicomprensive e a divertirci con i massimi sistemi e le speculazioni assolute che non abbia nascosta nell’armadio qualche sua colpa omniesplicativa.

Nel mio caso hanno persino generato dei libri di cui sento tardivamente il dovere di chiedere scusa ai lettori e agli alberi abbattuti. Ora rischiamo che la storia si ripeta con l’EMDR, una tecnica che ha mostrato risultati sorprendenti sul disturbo post traumatico da stress facendoci gridare al miracolo e accorrere numerosi ai corsi di formazione nella speranza da un lato di risparmiare fiato e rinforzare i muscoli delle braccia, dall’altro di aiutare i numerosi pazienti che pur comprendendo e condividendo le nostre spiegazioni, continuano a tribolare, facendoci sentire impotenti con la nostra tradizionale attrezzatura.

Quale può essere un utilizzo sensato della tecnica EMDR all’interno di un intervento di terapia cognitiva e comportamentale? Immaginiamo una corretta formulazione del caso. Due, a mio avviso, sono gli aspetti centrali che orientano poi l’intervento. In primo luogo i pensieri disfunzionali (che io chiamo l’antiscopo e qualcun altro stato doloroso o chiamatelo come vi pare) che guida in negativo tutto il comportamento del soggetto, ovvero quello stato mentale composto di percezioni esterne e un pattern di emozioni e valutazioni che il soggetto reputa intollerabile e, ad un certo punto della sua esistenza, ha deciso di non voler sperimentare mai più costi quel che costi e che chiameremo per semplicità “il mostro”.

In secondo luogo le strategie cognitivo comportamentali che il soggetto utilizza  in quella fuga senza fine che informa tutta la sua vita per mettere più distanza possibile, che tuttavia non basta mai, tra sé e il mostro.

Traumatizzato a chi?

È verosimile ipotizzare che “il mostro” sia modellato su una esperienza traumatica, senza dimenticare tuttavia che può essere stato vissuto con tale drammaticità perché preceduto da eventi simili che avevano già sensibilizzato l’individuo. Comunque per questo è già previsto nella stessa tecnica EMDR di cercare di risalire ad esperienze sempre più precoci che abbiano aumentato la vulnerabilità individuale a quel tipo di evento stressante.

Un tempo credevo che  il timore maggiore riguardasse l’ignoto, il non conosciuto (ad esempio, la morte) di fronte al quale non abbiamo capacità predittiva e schemi  per gestirlo. Pensavo che si potesse temere un certo stato non perché lo si è sperimentato drammaticamente, ma semplicemente perché non lo si è mai sperimentato, neppure a piccole dosi ed è dunque del tutto imprevedibile e ingestibile. A partire da questa ipotesi in terapia tradizionalmente sostituivo l’evitamento del mostro che  genera un circolo vizioso (più evito, meno conosco e più temo) con l’esposizione in immaginazione e in vivo (esplorazione) che consente di scoprire che il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge, pur restando piuttosto sgradevole.

Qualora la mancanza di conoscenza fosse la prima causa della psicopatologia pochi sarebbero i margini di utilizzo dell’EMDR. Mentre se il mostro  si è creato per via di un trauma un primo fecondo utilizzo dell’EMDR sarebbe l’identificazione delle origini del “mostro”, e la sua elaborazione con strumenti non esclusivamente consapevoli e corticali.

Mi occupo ora del secondo aspetto, non meno problematico del primo: le strategie disfunzionali e diseconomiche di fuga dal mostro. Sono infatti questi i comportamenti e le emozioni associate che spingono il paziente a chiedere terapia, queste si, al contrario del mostro stesso, consapevoli ed egodistoniche. Le strategie sono sostenute da una serie di credenze che riguardano il mondo e, in particolare il funzionamento del sé,  dell’altro e le regole della relazione. Anche in questo caso si tratta di ricostruirne la storia di apprendimento che si radica in genere nelle vicende d’attaccamento e si conferma poi nelle esperienze relazionali successive. Nella storia di queste primigenie relazioni non è affatto raro trovare vere e proprie esperienze traumatiche magari risalendovi a ritroso da traumi più recenti e accessibili alla memoria ma dello stesso significato.

Cosa è trauma?

Ma a questo punto diventa necessaria una definizione del concetto di trauma che io credo vada inteso in termini dimensionale rifuggendo dalla tentazione categoriale che appare rassicurante e precisa ma genera discontinuità non presenti in natura e la necessità di categorie intermedie, come la comorbilità e/o le categorie residuali e non altrimenti specificate. A me piace considerare “trauma” una esperienza che per l’alto contenuto emotivo e il vissuto di minaccia che induce ad imparare per sempre e non dimenticare, genera in breve tempo una credenza negativa su di sé e/o sugli altri destinata ad auto-confermarsi. Ma questo è ciò che avviene comunemente nel normale ciclo dell’esperienza che modifica via via le aspettative innate, di cui dunque il trauma non è altro che una contrazione spazio-temporale.

Altro termine che va chiarito è “elaborazione del trauma o del ricordo. Credo semplicemente che tutte le credenze centrali o, per dirla con Kuhn, quelle appartenenti al nucleo metafisico, pur generando piani e strategie comportamentali siano schermate da una cintura protettiva che ne impedisce la facile invalidazione per l’utilità che hanno mostrato come salvavita in momenti cruciali e siano spesso inconsapevoli. Tutte le credenze patogene sono state apprese dall’esperienza ed in particolare dall’esperienza relazionale per cui si potrebbe dire che tutte le relazioni siano traumatiche.

Così si finirebbe però per non dire niente e addirittura si suggerirebbe che tutta l’esperienza sia traumatica in quanto induce credenze che nei nostri pazienti si sono poi dimostrate patogene. Se vogliamo mantenere una peculiarità al concetto di trauma dobbiamo caratterizzarlo non come causa di un apprendimento disfunzionale e resistente al cambiamento ma per le modalità di rapidità ed emergenzialità in cui tale apprendimento avviene. Laddove non si trovino tali evidenti eventi  discontinui e puntiformi non credo aggiunga qualcosa al tradizionale operare considerare  traumatica una intera relazione che ha ripetuto nel tempo lo stesso schema fino a stabilizzare una certa visione di sé e dell’altro. Una volta identificate le credenze patogene che sostengono le strategie disfunzionali di fuga e si siano identificate le relazioni in cui tali credenze, un tempo adattive (questo è un aspetto decisivo da sottolineare) hanno avuto origine, il problema resta quello di modificarle e qui qualsiasi tecnica o strumento va bene “basta che funzioni”: discussioni, suggestione, farmaci, nuove esperienze, la relazione terapeutica strategicamente orientata alla invalidazione degli schemi consueti.

Quello che reputo essenziale e irrinunciabile e minacciato dal diffondersi dei protocolli è qualcosa che precede la scelta della tecnica di intervento ed è una teoria esplicativa complessiva dell’intero caso frutto del ragionamento clinico sul e con quello specifico paziente. Si, insomma ricorderete certamente, la psicopatologia spentasi mestamente per mano dei manuali diagnostici DSM e dei protocolli.

Questa teoria tenterò di riassumerla in un prossimo articolo seguendo il corso del mio pensiero quando lavoro.

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017

 

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