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Le competenze dei bambini bilingue nel riconoscimento delle voci

Secondo un nuovo studio i bambini bilingue avrebbero delle capacità in più rispetto ai loro coetanei monolingue.

 

I risultati, pubblicati sulla rivista Bilingualism: Language e Cognition, suggeriscono che la capacità di saper parlare più di una lingua va ben oltre i vantaggi cognitivi.

Secondo la Dottoressa Susannah Levi, i bambini bilingue hanno un vantaggio sui coetanei monolingue quando si tratta di elaborare informazioni sulla voce durante un colloquio. Questo vantaggio si verifica nell’aspetto della percezione del linguaggio: non vengono elaborate solo informazioni linguistiche, ma anche informazioni su chi sta parlando e su come lo sta facendo

Nel suo studio la Dottoressa Levi ha esaminato come i bambini elaborano informazioni mentre una persona parla. Quarantuno bambini hanno partecipato allo studio: 22 bambini monolingue e 19 bambini bilingue. I bambini bilingue parlavano inglese e sono stati quotidianamente esposti ad una seconda lingua (di solito il tedesco). Inoltre, essi sono stati divisi per età in due gruppi: un gruppo di bambini fino ai 9 anni, e un gruppo di bambini dai 10 anni in poi.

Bambini bilingue: la capacità di ascolto e riconoscimento vocale

I bambini hanno compiuto una serie di compiti di ascolto. In un primo compito i bambini, monolingue, dovevano ascoltare una serie di parole in una lingua che conoscevano (inglese, parlato con un accento tedesco) e in un linguaggio sconosciuto (tedesco). Ai bambini fu poi chiesto se le parole che avevano ascoltato provenissero, basandosi su sintomi vocali, dalla stessa persona o da persone diverse.

In un secondo compito, ai bambini fu chiesto di identificare le voci interpretate da personaggi dei cartoni animati. Dopo aver ascoltato i personaggi dire una serie di parole, i bambini hanno successivamente ascoltato una sola parola e hanno in seguito indicato quale dei personaggi avesse parlato. Questi compiti hanno rivelato che i bambini più grandi hanno eseguito i compiti meglio dei bambini più giovani, confermando gli studi precedenti i quali affermano che si migliora con l’età.

La Dottoressa Levi ha anche scoperto che i bambini bilingue eseguono questo tipo di compiti meglio dei bambini monolingue. Quando ascoltavano persone parlare in inglese, i bambini bilingue sapevano discriminare meglio e identificare meglio le voci. Lo studio, continua la Dottoressa, evidenzia i vantaggi del bilinguismo nell’apprendimento e nello sviluppo cognitivo. Altri studi in letteratura dimostrano che i bambini bilingue possono apprendere più conoscenze ascoltando i discorsi, presentano un miglior controllo cognitivo e un maggior grado di concentrazione.

Lo studio fornisce un esempio di quelli che sono i vantaggi del parlare e comprendere più lingue contemporaneamente anche se serviranno ulteriori ricerche per comprenderne i meccanismi sottostanti.

Diabete: la terapia cognitivo-comportamentale riduce la fatica

La fatica è una delle condizioni meno studiate nel diabete. Un gruppo di ricercatori olandese ha valutato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nella riduzione di questo sintomo.

 

Un nuovo studio (Juliane Menting et al, 2017) randomizzato e controllato – pubblicato online da The Lancet Diabetes and Endocrinology – dimostra che la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), erogata sia frontalmente, sia via web, riduce notevolmente la stanchezza nei pazienti con diabete mellito di tipo 1. Questa è una forma di diabete che si manifesta prevalentemente nell’infanzia e nell’adolescenza ed è caratterizzata da una carente produzione di insulina con conseguente iperglicemia.

La stanchezza cronica nei pazienti con diabete: il contributo della terapia cognitivo-comportamentale

Questa ricerca clinica è la prima che ha indagato la fatica nei soggetti affetti da diabete di tipo 1. Menting e colleghi scrivono che buona parte (fino al 40%) dei pazienti affetti da diabete di tipo 1 presenta una forma di stanchezza cronica, definita come un’importante stanchezza che dura almeno da sei mesi (Pouwer F., 2017). L’impiego della terapia cognitivo-comportamentale per curare la stanchezza cronica – basato sull’idea che se la malattia provoca la stanchezza sono tuttavia i fattori cognitivi-comportamentali che mantengono i sintomi – ha dimostrato di essere efficace nei pazienti sofferenti anche di altre malattie croniche.

Menting e il suo team hanno eseguito uno studio controllato randomizzato multicentrico presso un centro medico universitario e quattro grandi ospedali nei Paesi Bassi. I pazienti arruolati nello studio, tra il 6 febbraio 2014 e il 24 marzo 2016, erano di età compresa tra 18 e 70 anni ed erano affetti da diabete mellito di tipo 1 da almeno 1 anno e stanchezza cronica da almeno 6 mesi. I 120 pazienti arruolati sono stati divisi casualmente (tramite computer) in due gruppi. Il primo ha ricevuto per cinque mesi la terapia cognitivo comportamentale (Dia-Fit), mentre il secondo è stato inserito in una lista di attesa. I pazienti del gruppo trattato sono stati sottoposti a 5-8 sedute faccia a faccia con uno psicologo clinico e poi hanno completato 8 moduli via web.

Nel trattamento i pazienti hanno imparato, per esempio, a regolare meglio la loro attività fisica o a ottimizzare il ciclo sonno-veglia o a cambiare le loro idee negative sulla fatica. L’obiettivo del trattamento non è stato quello di imparare a fronteggiare la fatica, ma quello di ridurre effettivamente la stanchezza. Alla fine del trattamento, i punteggi relativi al grado di severità della fatica, nei pazienti del gruppo trattato con psicoterapia cognitivo-comportamentale, erano di 13,8 punti inferiori rispetto al gruppo di controllo (p <0,0001).

Nonostante i risultati promettenti, è necessario proseguire con le ricerche per dimostrare se gli effetti del trattamento possono essere mantenuti nel tempo e per trovare le spiegazioni del suo funzionamento. L’impressione, secondo gli autori, è che la stanchezza sia spesso trascurata a causa del tempo limitato che i medici dedicano a questo sintomo essendo concentrati soprattutto sulla stabilizzazione della glicemia.

Nell’editoriale (2017), che ha accompagnato la pubblicazione dell’articolo, si osserva che alcuni studi hanno suggerito come l’ipoglicemia notturna contribuisca alla stanchezza, ma gli autori non hanno affrontato questo problema nello studio. I risultati del team di Menting devono essere confermati in ulteriori studi, ma quanto è emerso suggerisce che l’affaticamento cronico nel diabete di tipo 1 è suscettibile di trattamento. È una notizia positiva sia per i pazienti, sia per la ricerca futura in questo ambito ancora poco indagato.

I Bisogni educativi speciali. Diagnosi, prevenzione e intervento (2016) – Recensione

I Bisogni Educativi Speciali. Diagnosi, prevenzione e intervento di Monica Pratelli e Francesca Rifiuti è un interessante lavoro in cui si dà spazio, valore e voce a tutti i protagonisti della sempre più complessa realtà scolastica e educativa.

 

Bisogni educativi speciali: l’importanza del rapporto tra scuola e famiglia

Il testo si apre con una ricca testimonianza di temi e riflessioni che vanno dallo sguardo dei più piccoli sul contesto scolastico, all’attenzione dei genitori sui bambini, fino al rapporto tra scuola, famiglia e servizi.

È proposto un ambiente scolastico che, se osservato con attenzione, non manca di rivelarci il modo in cui ciascun alunno occupa il proprio posto in esso, con interesse e curiosità, noia e persino sofferenza, ma anche con desiderio di miglioramento. Il più delle volte, proprio dietro quest’ultimo, si coglie la semplicità delle richieste, che dovute e possibili risultano ancora poco accolte.

Allo stesso modo, anche l’osservazione dell’ambiente familiare ci consente di rilevare quanto i genitori riescano a rispondere, talvolta, con fatica ai bisogni educativi speciali dei bambini. Il tempo del fare tutto e a tutti costi sembra aver occupato il posto di quello della condivisione e del piacere di stare insieme, privandolo di quella qualità in cui si consolida l’interesse per l’apprendimento e si dà importanza al naturale processo di crescita.

Un importante messaggio sulla relazione esistente tra il valore che il bambino attribuisce a se stesso e ciò che gli adulti vedono di lui e gli comunicano direttamente e non, si coglie perfettamente in queste parole di Monica Pratelli e Francesca Rifiuti (2016) “I figli hanno però bisogno di quotidianità, di sentirsi nella mente dei genitori, di percepire che ciò che fanno a scuola è “interessante” agli occhi dei grandi” (p. 21). In esse si condensa l’importanza di perseguire un equilibrio di forze comunicative e comportamentali tra scuola e famiglia per la promozione del benessere non solo individuale, ma anche collettivo.

Più precisamente, quello cui le autrici fanno riferimento, è un impegno corresponsabile portato avanti da parte della scuola e della famiglia nel trasmettere un messaggio positivo ai bambini e nel condividere un ambiente accogliente e capace di comunicare apertamente; la collaborazione con i servizi del territorio e il rispetto reciproco devono, inoltre, guidare il transito verso obiettivi educativi comuni.

Un sistema così organizzato permette un’importantissima attività di screening. A partire dalla scuola d’infanzia, indagando le principali aree dello sviluppo, con quest’attività valutativa è possibile individuare precocemente situazioni a rischio e predisporre programmi d’intervento efficaci.

Durante tali momenti d’indagine, nei quali gli operatori dei servizi dedicano una doverosa attenzione alla “prassi”, è altrettanto importante rivolgere uno sguardo verso quell’intessersi di vissuti, emozioni, desideri e attese, che dal primo colloquio, a quello di restituzione esplodono alla ricerca di uno spazio in cui essere accolti e compresi.

Bisogni educativi speciali: diagnosi e intervento

Proseguendo nella lettura, si viene accompagnati verso la conoscenza delle problematiche che riguardano l’apprendimento, dalla definizione, la valutazione delle competenze di base, alla diagnosi, fino all’intervento.

In quest’ampia sezione, che prende in esame i disturbi della comunicazione e coordinazione, di apprendimento, il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, il funzionamento psicologico in area limite, il disturbo dello spettro autistico e le difficoltà psicologiche e temporanee, prosegue la lettura sistemico-relazionale su cui il libro si fonda. Al clinico è offerto uno sguardo diagnostico nosografico e funzionale di ciascun disturbo, sono segnalati gli strumenti di valutazione e sono fornite indicazioni per il trattamento, individuale e familiare.

Di questi ultimi, si pone in evidenza che la misurazione dell’efficacia non può prescindere dalla considerazione delle relazioni autentiche su cui sono costruiti e il coinvolgimento attivo dei destinatari.

Seguendo questo itinerario è possibile riconoscere una “infinita” personalizzazione d’interventi. In primo piano, è collocata la complessità di ciascuna condizione ed è sostenuto uno sguardo che sia realmente interessato alle risorse, talvolta, trascurate. Si tratta di un’attenzione rivolta ai comportamenti positivi nei bambini con ADHD, al ricorso alla concretezza nei bambini con funzionamento psicologico in area limite, alla valorizzazione “contenuta” degli interessi nei bambini autistici, al doveroso sostegno per i bambini con livelli intellettivi superiori alla media. Quello proposto sembra un ambiente accogliente e comprensivo nei confronti di tutti i bambini, rispettoso delle difficoltà psicologiche e/o fisiche che stanno vivendo.

Un luogo in cui la valorizzazione delle differenze culturali passa attraverso modelli di comportamento inclusivi che per primi gli adulti, insegnanti e genitori, dovrebbero trasmettere ai bambini. Il terreno di un possibile incontro e confronto sulle difficoltà che personalmente provano nel comprendere una cultura molto differente dalla propria e sul modo in cui trasformarle in risorsa.

La scuola in definitiva è un laboratorio per sperimentare, conoscere, crescere” (Pratelli & Rifiuti, 2016, p. 263). Tuttavia, gravano su di essa criticità e resistenze che s’intrecciano con quelle familiari e dei servizi, allontanando quello spirito teso alla collaborazione multi – professionale, auspicabile per il suo rinnovamento.

La sovrapposizione di competenze e la confusione di ruoli, che talvolta si riscontra al suo interno, rendono difficile l’introduzione d’interventi che non siano solo compensativi ma finalizzati a stimolare lo sviluppo di risorse e strategie di apprendimento e dunque realmente efficaci.

Per tale ragione nel testo è fornita una chiara distinzione delle competenze e delle aree d’intervento proprie degli insegnanti, dello psicologo scolastico e del pedagogista clinico. Un’adeguata formazione e una conoscenza profonda del contesto in cui operano, delle caratteristiche, delle progettualità, dei bisogni e delle risorse degli istituti scolastici e del territorio costituiscono elementi indispensabili del loro agire.

Lo psicologo scolastico, impegnato nell’osservazione del gruppo classe, nella gestione delle dinamiche relazionali, comunicative ed emotive, non dovrebbe aderire a richieste di deresponsabilizzazione. Oltre al suo ruolo di supporto e formazione degli insegnanti, deve poter garantire uno spazio di ascolto destinato a genitori e alunni. Il pedagogista clinico, invece, è chiamato a sostenere un punto di vista educativo diretto a valorizzare le potenzialità e le differenze individuali nella programmazione didattica, nell’organizzazione degli ambienti e negli interventi di recupero e di potenziamento.

Il libro termina affidando alla scuola il compito di rinnovarsi, affinché possa essere rinnovato l’interesse nei confronti dell’apprendimento all’interno di uno spazio in cui poter respirare la soddisfazione di essere protagonista di esperienze positive, la dimensione del piacere che connetta alunni e insegnanti e un’attenzione positiva nei confronti dell’errore, proprio per l’importanza che riveste nel processo di apprendimento.

Lo sguardo verso i bambini durante una spiegazione, nel corso di una verifica come incoraggiamento, durante una qualsiasi attività per individuare la possibile difficoltà, per prevenire comportamenti inadeguati, per gratificare…tutto questo ha un grande valore” (Pratelli & Rifiuti, 2016, p. 258).

Il testo così concepito è uno stimolante invito all’esplorazione degli aspetti affettivi e sociali dei bisogni educativi speciali, un po’ troppo spesso trascurati.

 

La riabilitazione psichiatrica a vicolo cieco. Una conseguenza dell’inconsapevolezza sociale collettiva

La riabilitazione psichiatrica è un processo guidato in genere da un’èquipe multiprofessionale, nella quale un ruolo chiave è rivestito dal Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica (TeRP). Questo professionista ha il compito di progettare ed attuare interventi riabilitativi ed educativi in collaborazione con l’èquipe curante e la persona destinataria dell’intervento, al fine di potenziarne il funzionamento personale e sociale.

In cosa consiste la riabilitazione psichiatrica

La riabilitazione psichiatrica è un processo che ha come obiettivo principale la “guarigione sociale” della persona con disabilità psichiatrica. Essa lavora sulla compromissione delle abilità nello svolgere ruoli sociali e mira all’integrazione totale della persona nel contesto sociale di appartenenza a partire dalla riorganizzazione e dal potenziamento delle sue capacità residue.

La riabilitazione psichiatrica è un processo guidato in genere da un’èquipe multiprofessionale, nella quale un ruolo chiave è rivestito dal Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica (TeRP). Questo professionista ha il compito di progettare ed attuare interventi riabilitativi ed educativi in collaborazione con l’èquipe curante e la persona destinataria dell’intervento, al fine di potenziarne il funzionamento personale e sociale.

Per fare ciò si serve di tecniche e strumenti che funzionano solo se associati ad una competenza relazionale di base.

A livello sociale il compito di questo professionista è orientato alla creazione ed al mantenimento di una rete collaborativa con l’esterno. Per esterno ci si riferisce alla cerchia dei familiari e conoscenti dell’utente, ma anche alla realtà sociale più ampia, al fine di mediare l’inserimento della persona che vive l’esperienza della malattia mentale nella società sia a livello ricreativo che lavorativo.

I limiti e le difficoltà di attuazione della riabilitazione psichiatrica

L’inserimento della persona con disabilità psichiatrica nella società risulta di difficile attuazione, soprattutto nel mondo del lavoro. A prescindere dall’attuale crisi che interessa il nostro Paese, ciò avviene da un lato per il timore della persona avente il disagio psichico di frequentare posti “non protetti” lontani dall’atmosfera rassicurante e non giudicante propria delle strutture psichiatriche, dall’altro per la mancanza di prontezza della società che fatica ancora ad aprirsi a questo tipo di disabilità, vuoi per l’assenza di politiche forti, vuoi per la mentalità orientata al profitto più che al processo.

Inoltre, anche se a livello legislativo è ormai da tempo sancita la centralità della persona con disabilità nei percorsi di inserimento lavorativo, nella pratica dei fatti gli esigui inserimenti lavorativi che si concretizzano risultano spersonalizzanti e inadeguati a rinforzare e valorizzare le capacità della persona. Gli utenti vengono spesso inseriti in tirocini o percorsi lavorativi che non sono loro a scegliere e che non tengono conto delle loro potenzialità e vocazioni. Questo sistema che si definisce riabilitativo risulta ad uno sguardo più attento molto disfunzionale, oltre che predisponente alla ricaduta.

Quanto può ritenersi efficace il lavoro riabilitativo effettuato all’interno delle strutture se l’ambiente esterno si trova impreparato ad offrire agli utenti la possibilità di generalizzare le capacità riacquisite dopo un percorso riabilitativo?

È ormai assodato sul piano teorico che la disabilità altro non è se non una condizione di salute che si scontra con un ambiente sfavorevole.
Risulta fondamentale ormai l’addestramento della società alla responsabilità sociale, anche attraverso la sollecitazione delle aziende a munirsi degli strumenti teorici e tecnici per facilitare il processo di inserimento della persona con bisogni speciali al suo interno.

La necessità che sembra emergere è quella di abbattere la convinzione che l’integrazione della persona con disabilità psichiatrica a livello lavorativo sia un optional legato alla filosofia più o meno tollerante delle aziende e dei datori di lavoro. L’accessibilità lavorativa e sociale per le persone con disabilità è un diritto e interessa tutti allo stesso modo, perché come citava il messaggio di sensibilizzazione dell’associazione di volontariato toscana “I care” in un cartellone pubblicitario del 2011: “tutti possiamo diventare disabili, ma ognuno di noi può aiutare”.

La realtà virtuale nella pratica terapeutica: il video dall’esperienza del Forum di Riccione

Nel corso del Forum di Psicoterapia e Ricerca della Scuola di specializzazione Studi Cognitivi, sono state proposte a tutti gli allievi e docenti alcune esperienze di possibili usi nella pratica terapeutica di apparecchiature di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Prof. Gianni Brighetti

 

Nel corso del Forum di Psicoterapia e Ricerca della Scuola di specializzazione Studi Cognitivi tenutosi a Riccione il 5 e 6 Maggio 2017, accanto alle presentazioni di quasi 200 lavori di ricerca condotti dagli allievi delle diverse sedi della Scuola, sono state proposte a tutti gli allievi e docenti alcune esperienze di possibili usi nella pratica terapeutica di apparecchiature di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Negli ultimi anni si è assistito anche nell’ambito della terapia psicologica ad un consistente aumento di sperimentazioni di tecniche immersive virtuali. Nell’ambito della terapia del dolore McSherry et al. (2017); in quello delle fobie, Botella et al.(2017); Lindner et al. (2017); nel trattamento dei disturbi d’ansia, Kampmann et al. (2016); nella Exposure Therapy, unendo realtà virtuale e realtà aumentata Ben-Moussa et al. (2017).

Realtà virtuale nella pratica terapeutica video dall'esperienza del Forum di Riccione

Forum di Riccione – Docenti e allievi provano la realtà virtuale

Come mostra il video, filmato e montato da Mattia Nese, un giovane psicologo che si sta dedicando con impegno e passione al settore delle tecnologie digitali nella psicoterapia, supportato dalla Scuola Studi Cognitivi e con il contributo fondamentale della Società di Ingegneria Touchlabs di Bologna, gli effetti di immersività e di realismo degli scenari presentati sono davvero notevoli.

La Scuola di Studi Cognitivi ha avviato un progetto di ricerca aperto al contributo di tutte le sue sedi nazionali, per la progettazione e la sperimentazione di ambienti virtuali e di realtà aumentata con Avatars, utilizzabili nella pratica di flooding per la gestione e la terapia di disturbi fobici e post traumatici, di riabilitazione attraverso sistemi di Mobile Health, seguendo l’esempio dei progetti del Maudsley Biomedical Research Centre e di ricostruzione della memoria autobiografica a partire dall’anamnesi remota e recente.

 

REALTA’ VIRTUALE E PRATICA TERAPEUTICA – IL VIDEO DALL’ESPERIENZA DEL FORUM DI RICCIONE

https://www.youtube.com/watch?v=GWKgzG2TvnU

La nuova frontiera sull’origine della malattia di Parkinson

Uno studio pre-clinico suggerisce che la malattia di Parkinson potrebbe originare dalle cellule endocrine dell’intestino: la proteina correlata al Parkinson potrebbe diffondersi dall’intestino al sistema nervoso.

 

Malattia di Parkinson: sintomatologia

La malattia di Parkinson è neurodegenerativa e progressiva, causata principalmente da una perdita dell’input dopaminergico dalla sostanza nera (pars compacta) allo striato, con conseguente ipoattivazione dell’area supplementare motoria e dell’area motoria primaria. All’interno dei neuroni residui si osservano inclusioni citoplasmatiche denominate corpi di Lewy e costituiti da α-sinucleina, proteina implicata nella patogenesi della malattia.

Le manifestazioni cliniche sono devastanti, la malattia di Parkinson è caratterizzata dalla presenza di rallentamento motorio (bradicinesia), rigidità muscolare e tremore.

Nella maggior parte dei casi, la malattia di Parkinson si trasmette in forma sporadica, senza che sia possibile identificare correlazioni con particolari eventi, condizioni o alterazioni genetiche. Alcune evidenze cliniche e patologiche mostrano che l’incremento di α-sinucleina avviene prima nel sistema nervoso enterico che in quello centrale.

La possibile connessione tra intestino e cervello per spiegare la malattia di Parkinson

Alcuni recenti studi relativi al Parkinson si sono concentrati sulla connessione intestino-cervello, esaminando i batteri dell’intestino; inoltre, è stato osservato come la separazione del nervo vago, che collega lo stomaco e il cervello, sarebbe in grado di proteggere alcune persone dalla malattia debilitante.

I ricercatori della Duke University hanno identificato un nuovo potenziale meccanismo delle cellule endocrine nell’intestino sia nei topi che negli esseri umani. All’interno di queste cellule si trova l’α-sinucleina; questa proteina è in grado di danneggiare il cervello a causa della sua tendenza ad aggregarsi, formando oligomeri più grandi che creano depositi tipici nei neuroni malati, i cosiddetti corpi di Lewy, sia nei pazienti con malattia di Parkinson che in pazienti con malattia di Alzheimer.

Secondo i risultati pubblicati il 15 giugno nella rivista JCI Insight, i ricercatori della Duke e i collaboratori dell’Università della California di San Francisco ipotizzano che un agente nell’intestino potrebbe interferire con l’α-sinucleina nelle cellule endocrine deformando la proteina. Tale proteina deformata o la sua aggregazione potrebbe quindi diffondersi attraverso il sistema nervoso nel cervello come prione (proteina alterata derivata da proteine normali prodotte dalle cellule), o proteine infettive, in modo simile alla malattia della mucca pazza. Questo dato supporta l’ipotesi che il disturbo neurodegenerativo potrebbe effettivamente originare dall’intestino.

L’ α-sinucleina è la componente principale dei corpi di Lewy o dei depositi proteici tossici che innescano la morte dei neuroni dopaminergici, uccidendoli dall’interno. Gli aggregati proteici si formano quando l’α-sinucleina sviluppa un errato ripiegamento nella sua struttura, normalmente a spirale, rendendola “appiccicosa” e soggetta ad aggregazione.

La domanda che sorge spontanea è: come può una proteina viaggiare dal tubo digerente, dove non ci sono cellule nervose, e arrivare fino al sistema nervoso? I ricercatori della Duke hanno mostrato che, anche se la funzione principale delle cellule endocrine dell’intestino è quella di regolare la digestione, esse hanno anche proprietà nervose.

Piuttosto che utilizzare gli ormoni per comunicare indirettamente con il sistema nervoso, queste cellule endocrine dell’intestino si collegano fisicamente alle cellule nervose, fornendo una via per comunicare con il cervello. I ricercatori hanno dimostrato questo in uno straordinario time-lapse (2015, Journal of Clinical Investigation) in cui una cellula endocrina intestinale viene osservata mediante microscopio in prossimità di un neurone. In poche ore la cellula endocrina si muove verso il neurone, appaiono le fibre tra loro e si stabilisce la connessione. Il video dimostra che le cellule endocrine sono in grado di comportarsi come le cellule nervose; ciò suggerisce che esse sono in grado di comunicare direttamente con il sistema nervoso e quindi con il cervello.

Con la nuova ricerca sull’ α-sinucleina nelle cellule endocrine, Liddle e colleghi ora hanno una spiegazione funzionale di come le proteine malformate possono diffondersi dall’interno dell’intestino al sistema nervoso, utilizzando una cellula non nervosa che agisce però come tale.

I ricercatori intendono raccogliere ed esaminare le cellule endocrine dell’intestino in pazienti Parkinson per osservare se contengono una α-sinucleina misfolded o anormale. Nuove informazioni su questa proteina potrebbero aiutare gli scienziati a sviluppare un biomarker che potrebbe diagnosticare precocemente la malattia di Parkinson.

Ulteriori approfondimenti sull’ α-sinucleina potrebbero essere utili per lo sviluppo di terapie che agiscono direttamente sulla proteina. Gli scienziati sono alla ricerca di trattamenti in grado di impedire che l’α-sinucleina si deformi ma, per ora, lo studio è ancora in una fase iniziale.

Neurodiversità: le variazioni neurali sono un ostacolo o una risorsa?

Negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità. Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. 

Sara Bocchicchio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Neurodiversità: semplice variazione umana o segno di patologia?

Dal 1889, a Sèvres, nei dintorni di Parigi, nei sotterranei del Bureau international des poids et mesures (in italiano, ufficio internazionale dei pesi e delle misure), in una stanza blindata e sotto tre campane di vetro, si trova custodito un cilindro metallico chiamato Grand Kilo. Esso rappresenta lo standard mondiale del chilogrammo e a esso fanno riferimento tutte le bilance dei Paesi che lo impiegano come unità di misura della massa. Per quanto riguarda il cervello umano non esiste uno standard, un prototipo mondiale al quale devono essere confrontati tutti gli altri cervelli umani.

Quindi com’è possibile decidere se il cervello o la mente di un individuo è normale o anormale? Indubbiamente nel mondo psichiatrico esistono molti tentativi di classificazione dei disturbi mentali, ma quando si tratta di condizioni come l’Autismo, il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI, in inglese ADHD), la Dislessia e i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) sembra che vi sia una sostanziale incertezza su quale sia la soglia critica che permette di definire un comportamento con una base neurologica, come una normale variazione umana o come segno di patologia (Armstrong, 2015).

Uno dei motivi di questa ambiguità è l’emergere negli ultimi due decenni di studi che suggeriscono che molti disturbi del cervello o della mente si caratterizzano sia di punti di forza che di debolezza. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, ad esempio, sembrano avere punti di forza legati al lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).

Uno dei risvolti pratici di queste particolari abilità è rappresentato dalla scelta di molte aziende che operano in ambito tecnologico di assumere persone autistiche per mansioni lavorative che richiedono abilità di organizzazione e di sequenziamento come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici (Wang, 2014). Altri studi hanno evidenziato le notevoli abilità visuo-spaziali che possono possedere i dislessici, tra cui la capacità di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) e l’abilità di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008). Queste abilità possono rivelarsi molto vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2012).

I ricercatori hanno osservato che i soggetti con Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) possiedono livelli di creatività e innovazione maggiori rispetto a persone di pari età e scolarità non DDAI (White & Shah, 2011). Esistono, poi, numerose testimonianze di persone che hanno raggiunto un enorme successo; tra i dislessici ricordiamo il celebre Steve Jobs che ha rivoluzionato il mondo della tecnologia e Richard Branson leader del colosso Virgin che ha definito la sua Dislessia “un vantaggio”; per quanto riguarda lo spettro autistico ricordiamo l’attore canadese Dan Aykroyd e la ricercatrice e blogger Michelle Dawson, una delle ricercatrici più importanti nell’ambito dell’autismo; per quanto riguarda il DDAI, infine, ricordiamo il famosissimo attore Jim Carrey e l’imprenditore brasiliano-statunitense David Neeleman fondatore di quattro compagnie aeree.

I vantaggi evolutivi della psicopatologia

Tali punti di forza possono spiegare da un punto di vista evolutivo il motivo per cui questi disturbi siano ancora nel pool genico. Alcuni scienziati suggeriscono che la psicopatologia talvolta può portare con sé specifici vantaggi evolutivi, nel passato, così come nel presente (Brüne et al., 2012).

Le capacità organizzative delle persone con disturbo dello spettro autistico potrebbero essersi rivelate vantaggiose e adatte alla sopravvivenza degli esseri umani preistorici. Come ipotizza in modo provocatorio un attivista appartenente al movimento per i diritti delle persone autistiche al New York Magazine nel 2008: “A realizzare la prima lancia di pietra probabilmente è stato un giovane con autismo ad alto funzionamento e non uno tra quelli con spiccate doti sociali soliti chiacchierare intorno al fuoco” (Solomon, 2008). Allo stesso modo, l’abilità di pensare per immagini e il pensiero tridimensionale evidenziati in alcuni dislessici potrebbero essere stati estremamente utili nelle culture preletterate per la progettazione di strumenti, per tracciare i percorsi di caccia e la costruzione di ripari (Ehardt, 2009).

La Dislessia e i DSA si prestano molto bene per comprendere quanto spesso questi disturbi rappresentino artefatti della società. La Dislessia non è una disabilità, ma una differenza nello stile di apprendimento. Le persone con Dislessia hanno molte difficoltà nell’apprendimento e nell’automatizzazione della lettura, pertanto, faticano nel corso degli studi scolastici in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se pensiamo alle società preletterate, quando il sapere era veicolato soprattutto per via orale, la Dislessia non aveva modo di emergere e soprattutto non rappresentava un ostacolo alla sopravvivenza e alla riuscita personale! Infine, possiamo ipotizzare che i sintomi principali del DDAI, tra cui l’iperattività, la facile distraibilità e l’impulsività, potevano rappresentare tratti estremamente adattativi e funzionali alle società preistoriche nelle quali le abilità di caccia e di ricerca di cibo, la velocità di reazione agli stimoli ambientali minacciosi e l’abilità di muoversi rapidamente potevano contribuire allo sviluppo e alla prosperità della comunità stessa (Jensen et al., 1997).

Neurodiversità: le qualità delle persone neurodiverse

L’insieme di questi studi dovrebbe suggerire un approccio più giudizioso al trattamento di queste particolari condizioni. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di sostituire i termini “disabilità”, “disturbo” o, peggio, “malattia” con il concetto di “diversità” che permette di tenere in considerazione sia i punti di forza che di debolezza, e abbracciando l’idea che queste “variazioni umane” possono essere vantaggiose in sé e per sé (Armstrong, 2015). A tal fine, negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità.

Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. Con questa nuova definizione la sociologa ha voluto evidenziare le attitudini, le qualità e le capacità delle persone neurodiverse con la speranza che le differenze neurologiche venissero riconosciute semplicemente come “variazioni umane”. Richiamando termini positivi, come la biodiversità e la diversità culturale, il suo neologismo ha richiamato l’attenzione sul fatto che un funzionamento cerebrale atipico può portare allo sviluppo di competenze e attitudini insolite. A proposito dei disturbi dello spettro autistico, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008, Judy Singer spiega: “Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali” (Solomon, 2008).

Un modo per capire la neurodiversità è pensare che solo perché un computer non usa Windows come sistema operativo non significa che non funzioni correttamente. Non tutte le caratteristiche atipiche dei ‘sistemi operativi umani’ sono difetti. Il termine neurodiverso si riferisce all’organizzazione strutturale del cervello; un cervello neurodiverso possiede una struttura cerebrale atipica che implica un modo differente di elaborare le informazioni, un modo differente non patologico! Per quanto riguarda i mezzi di stampa, il termine neurodiversità fece la sua prima apparizione nel 1998 grazie ad un articolo del giornalista Harvey Blume pubblicato sulla rivista Wired Hot Wired, nella sezione Atlantic. Blume dichiarò: “la neurodiversità può essere altrettanto cruciale per il genere umano quanto la biodiversità per la vita in generale. Chi può dire quale tipo di cablaggio si rivelerà il migliore in un dato momento? La cibernetica e l’informatica, per esempio, potrebbero favorire un’organizzazione ‘autistica’ della mente“ (Blume, 1998). Assumere questa posizione aiuta a comprendere perché le persone neurodiverse sono spesso disoccupate o demansionate; le aziende sono riluttanti ad assumere lavoratori che guardano, agiscono, e comunicano in modi non-neurotipici, usando una tastiera e software di sintesi vocale per esprimere se stessi, piuttosto che chiacchierare intorno ad una macchinetta del caffè!

Da allora, l’uso del termine neurodiversità ha continuato a crescere anche al di là del movimento per i diritti delle persone autistiche, nell’ambito degli studi sulla disabilità e sulle modalità educative speciali, nell’ambito lavorativo, ma anche in ambito sanitario e nelle istituzioni pubbliche. Questo, tuttavia, è vero se prendiamo in considerazione Paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, mentre in Italia la conoscenza e la diffusione del termine neurodiversità è praticamente nulla!

In questi anni di ricerche il mondo scientifico, mosso dall’esigenza di sostenere queste persone nel corso delle varie tappe di vita, si è soffermato soprattutto sugli aspetti negativi legati a queste condizioni contribuendo a diffondere l’idea che queste persone rappresentino una categoria “debole”, bisognosa di tutele e di sostegno da parte delle istituzioni. Questa visione, tuttavia, rappresenta solo un lato della medaglia. Adottare il concetto di neurodiversità potrebbe contribuire a diffondere un’idea più precisa di queste condizioni che tenga conto sia dei sui punti di forza che di debolezza e favorire, quindi, il successo e la realizzazione personale di queste persone. Essere neurodiversi non rappresenta di per sé un ostacolo al successo personale e professionale. E’ la scarsa comprensione del fenomeno e il mancato sostegno ad impedire la crescita di queste persone e ciò costituisce una perdita netta per l’intera società. E’ solo grazie alla diffusione di una conoscenza più precisa e all’intervento delle nostre istituzioni che potremo considerare queste persone non solo individui da tutelare, ma soprattutto talenti da non sprecare e l’adozione del termine neurodiversità sembra proprio un ottimo punto di partenza!

 

Daniel David: lectio magistralis su Integrative e Multimodal CBT – Report dall’ International Congress of Cognitive Psychotherapy, Romania 2017

Il tema portante del 9° International Congress of Cognitive Psychotherapy a Cluj-Napoca, su cui ha esposto Daniel David, è la ricerca di una unità di fondo tra i molteplici approcci che appartengono all’ormai vasto ombrello di terapie cognitivo comportamentali. Una meta affascinante e comprensibile in un periodo scientifico così confuso per la psicoterapia.

 

Tuttavia, a parere di chi scrive, una meta idealistica e sfuggente, spesso ridotta a un esercizio di diplomazia scientifica entro tavole rotonde i cui partecipanti sembrano, nella sostanza, più interessati a evitare litigi che a compiere un reale movimento in direzione integrativa.

Tuttavia è una meta in cui qualcuno crede fermamente. Tra questi l’organizzatore del congresso Daniel David, che innalza il vessillo dell’integrazione nel corso della sua lezione magistrale. Il suo sforzo è encomiabile sia per il valore che sottende che per l’accuratezza con cui lo descrive. Siamo in un’epoca strana per la psicoterapia scientifica. Molti creano un modello, fanno un paio di studi di efficacia, vedono che è meglio del non far nulla (meno male), lo promuovono in ampia scala con interpretazioni spesso esagerate spingendosi anche oltre i confini dei due piccoli studi di validità. Quando va poi bene si trova un ricercatore importante che si appassiona, trova finanziamenti per un grant più corposo. Ancora una volta si mostra efficace rispetto a nessun intervento o nel migliore dei casi eguaglia interventi che hanno una storia di ricerca consolidata. La promozione viene implementata su scala mondiale.

Naturalmente questa è una esagerazione un po’ distopica. Un’altra prospettiva mentale suggerisce entusiasmo per la costante crescita e sviluppo di una disciplina scientifica e per la maggior vicinanza alla ricerca rispetto al passato da parte di quegli approcci storicamente refrattari alla verifica del dato. Tra questi estremi c’è però un pericolo vero, vale a dire che la proliferazione confonda le acque e ignori l’importanza dei principi empirici di base della terapia cognitivo comportamentale o anche tutti quei modelli che non si ritrovano in questo paradigma. Un rischio possibile, che non è sempre vero. Esistono alcune nuove terapie che sono passate al vaglio dell’efficacia dopo vent’anni di ricerca sui principi teorici, ma sono un’esigua minoranza.

Daniel David: un modello di valutazione delle psicoterapie

Daniel David fa leva su questo punto: ora che la ricerca in psicoterapia sta esplorando in modo massiccio il mondo della evidence-based medicine è importante ricordarsi di dimostrare in modo stabile la validità della base teorica delle diverse psicoterapie. Soprattutto alla luce del dato descritto poco prima da Pim Cuijpers riguardo la depressione: molte terapie si equivalgono senza apportare una forte innovazione.

In sintesi, per Daniel David occorre che terapie e protocolli di intervento si muovano verso fondamento teorico stabile, sia che nel campo della CBT standard, sia in nuovi orizzonti teorici e terapeutici. Per andare in questa direzione Daniel David propone un modello interessante di valutazione delle psicoterapie, in cui la classificazione di qualità non sia basata solo sui dati di esito (come avviene normalmente nelle linee guida internazionali) ma anche sulla solidità scientifica delle teorie di riferimento e quindi degli elementi che mediano il processo di cambiamento.

Così potremmo avere modelli terapeutici, valutati di alta qualità, qualora mostrino solidi dati a supporto della teoria di riferimento e dell’efficacia della tecnologia psicoterapeutica a essa associata. In alternativa, alcuni modelli potrebbero avere numerosi dati di efficacia, ma una teoria non solida nella spiegazione dei suoi meccanismi di azione, oppure ancora una teoria solida ma una tecnologia terapeutica non ancora sviluppata o non ancora all’altezza. Entrambe queste due classificazioni identificherebbero una qualità moderata dell’intero approccio. Ciò non significa che se manca validità teorica un approccio efficace non debba essere usato, ma non sarebbe la prima scelta in caso esistano modelli capaci di soddisfare entrambi i requisiti. Inoltre, la classificazione proposta da Daniel David può avere anche un grande vantaggio su larga scala creando un contesto che orienti ricercatori ed enti finanziatori verso progetti di ricerca che non si limitano alla proliferazione di studi di efficacia ma che favoriscano la copertura di un punto di debolezza di un certo approccio psicoterapeutico.

Si diceva una meta sfuggente, se si pensa di dirigere lo sforzo di fondatori o ambasciatori di un singolo approccio. Ma diventa più realistica a fronte di una proposta contestuale e concreta come quella di Daniel David. Quindi, in bocca al lupo.

Depressione e ricerca: Lectio Magistralis con Pim Cuijpers – Report dall’ International Congress of Cognitive Psychotherapy, Romania 2017

Pochi giorni fa è iniziato il 9° International Congress of Cognitive Psychotherapy a Cluj-Napoca e si è aperto con la lezione magistrale di Pim Cuijpers (VrijeUniversiteit Amsterdam), uno dei ricercatori più influenti negli ultimi dieci anni nel campo della psicologia e della psichiatria (secondo il ranking della Microsoft Academic Search).

 

Pim Cuijpers presenta al suo attivo oltre 500 pubblicazioni scientifiche dedicate principalmente all’analisi dell’efficacia delle psicoterapie nel trattamento dei disturbi depressivi. “Un uomo semplice che guarda i dati”, così ama definirsi. Li guarda bene, i dati. Cerca, devo dire con successo, di liberare il campo da illusioni e convinzioni che spesso si radicano nella mente del clinico o del ricercatore che fatica a districarsi tra l’innumerevole quantità di pubblicazioni e si trova costretto a basarsi su informazioni parziali. Pim Cuijpers invece le informazioni le raccoglie tutte, anche quelle da studi mai pubblicati. Esplora domande di grant, progetti registrati su database internazionali e mai giunti su una rivista scientifica. Insomma, se non tutto, una buona approssimazione del tutto.

Ed è così che Pim Cuijpers riesce a svelare illusioni e tracciare linee di demarcazione. Alcune molto forti: negli ultimi 50 anni, nonostante gli sforzi, non siamo riusciti a portare alcun incremento all’efficacia del trattamento dei disturbi depressivi. Punto. Vien la voglia di andarsene a casa a schiena piegata. Ma ci fermiamo perchè Pim Cuijpers, forse notando il movimento sospetto dei partecipanti, invita ad attendere l’arrivo di un po’ di speranza. Così ci facciamo forza e ascoltiamo ancora.

Pim Cuijpers: l’importanza del rigore nella metodologia di ricerca

La questione infatti è un po’ più complessa. A oggi il proliferare di approcci che hanno abbracciato un paradigma scientifico (evidence-based) sono in costante aumento. Ognuno di questi ha qualche dato di efficacia che viene normalmente utilizzato per sostenerne l’esistenza . Ma un mondo dove tutto vale un poco, si produce moltissima confusione. Quindi la scienza è spinta a pulire il campo aumentando il grado di rigore, stringe il cerchio del metodo scientifico per evidenziare quali sono gli approcci che sopravvivono. Pim Cuijpers è certamente un emissario di questa missione scientifica.

L’aumento del rigore significa considerare errori metodologici, rischio di bias, dati provenienti da ricerche non pubblicate e molto altro ancora. Così viene alla luce che la psicoterapia non è così efficace come pensavamo per i disturbi depressivi. Già nel nostro piccolo avevamo notato qualcosa di simile per i Disturbi d’Ansia (Caselli, Manfredi, Ruggiero, Sassaroli, 2016). Lo è, ma un po’ meno del previsto. Una nota: l’efficacia qui è intesa in termini di percentuale di recovery (guarigione) e riduzione dei sintomi depressivi. In fase acuta del disturbo l’esito è ai livelli di quello raggiunto dalla terapia farmacologica che a sua volta supera il placebo solo di un 15-20%. L’efficacia si abbassa ulteriormente se parliamo del Disturbo Depressivo Persistente, di sindromi sub-cliniche, comorbilità con uso di sostanze e psicoterapia in regime di ricovero. Ma c’è molto altro.

Innanzitutto, in fase acuta, è più efficace una terapia combinata (farmaci e psicoterapia) rispetto ai singoli interventi separati. In secondo luogo, la psicoterapia ha efficacia maggiore rispetto alla terapia farmacologica nella stabilità a lungo termine e riduce il rischio di ricaduta. In questo almeno i risultati sono incoraggianti anche quando sottoposti a un’analisi più rigorosa. Infine, molti fattori trasversali alle diverse psicoterapie non sembrano avere un peso sull’efficacia. Tra questi Pim Cuijpers annovera il numero di sedute, la frequenza, il tempo generale di terapia, il tipo di setting (internet, self-help, contatto diretto). La maggior parte del cambiamento avviene nelle prime sei sessioni di terapia indipendentemente da tutti questi elementi aspecifici, poi tende a non evolversi. Non sappiamo tuttavia se un numero maggiore di sessioni possa favorire la stabilità dei risultati ottenuti, dal momento che ci sono poche ricerche che usano un numero ristretto di sessioni e hanno contemporaneamente un lungo monitoraggio dell’andamento nel tempo.

Qual è la psicoterapia più efficace per la depressione?

Ma quale psicoterapia è più efficace? A oggi nessuna di quelle testate supera le altre. Per inciso, occorre sottolineare che le ricerche di efficacia sulla depressione con un sufficiente rigore metodologico si riferiscono principalmente a terapie che appartengono al mondo cognitivo, comportamentale e della psicoterapia interpersonale. Tuttavia pur essendoci qualche variazione sul tema, nessuna di queste prevale in modo significativo sulle altre e quindi terapia comportamentale (behavioral activation), terapia cognitiva standard (il modello di Beck), terapia cognitivo-comportamentale, terapia interpersonale restano a oggi quelle maggiormente sostenibili e nei fatti promosse a ragion veduta. Altre potrebbero forse eguagliarle, ma non hanno ancora dati sufficienti. Nessuna al momento può dire di averle superate. Ci sono anche dati in favori di approcci diversi ma si attestano sui medesimi livelli di efficacia e risultano ancora sottodimensionati. Per la mole di dati che hanno a loro sostegno Pim Cuijper stima la necessità campioni nell’ordine di 200 individui, perché il confronto possa stabilire una nuova egemonia significativa.

L’equivalenza delle psicoterapie è certamente una questione chiave ritornando alle conclusioni di Pim Cuijpers. In 50 anni la terapia cognitivo comportamentale è ancora il punto di riferimento per il trattamento dei disturbi depressivi, è meno efficace di quello che si pensava, in acuto ha efficacia equivalente alla terapia farmacologica, offre maggior stabilità dei risultati raggiunti nel medio-lungo periodo. Un po’ di delusione e un po’ di speranza. Ma siamo fermi e occorre cambiare qualcosa nel modo in cui ci si approccia alla ricerca in questo settore. Innanzitutto tenere a mente le direzioni in cui si è più deboli (depressione cronica, rischio di ricaduta, area della prevenzione). Secondariamente focalizzarsi sulla comprensione di quale o quali siano le variabili d’oro, i motori principale del disturbo e stabilirne il ruolo empiricamente prima di sviluppare nuovi trattamenti. E infine, iniziare un’opera di semplificazione delle psicoterapie, riducendole agli elementi essenziali che offrono questi risultati nel minor tempo possibile.

La contaminazione disgustosa rende più rispettosi della deontologia

La contaminazione disgustosa rende più rispettosi della deontologia

di Barbara Basile (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva S.r.l., Rome, Italy), Grazia Gualtieri (Guglielmo Marconi University, Rome, Italy) e Francesco Mancini (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva S.r.l., Rome, Italy; Guglielmo Marconi University, Rome, Italy)

 

“La coscienza si sporca” e “ i peccati si lavano”, l’intuizione del senso comune suggerisce una stretta relazione fra colpa e disgusto. In tutte le religioni purezza del corpo e purezza dell’anima sono sovrapposte. Da alcuni anni la ricerca scientifica si è occupata di studiare le relazioni fra questi due domini psicologici, quello del disgusto e quello della morale. Sappiamo che l’induzione della sensazione di essere contaminato da sostanze disgustose (self disgust) implica la tendenza a dare giudizi morali più severi su se stessi e meno severi sugli altri, mentre si ha un effetto opposto se si prova disgusto per qualcuno (Tobia, 2014) e si ha un effetto speculare, se si induce la sensazione di pulizia.

Il disgusto morale

È ben noto che azioni immorali, al pari di sostanze materiali come gli escrementi, possono indurre il cosiddetto disgusto morale. Ad esempio, suscita disgusto indossare la camicia di un pedofilo (Haidt & Graham, 2007). Si conosce il cosiddetto effetto Macbeth: “la minaccia alla propria purezza morale induce il bisogno di lavarsi. Il lavaggio fisico allevia le conseguenze negative dei comportamenti immorali e riduce la minaccia alla propria auto-immagine morale” (Zhong & Liljenquist, 2006). In breve, il senso di colpa aumenta la sensibilità al disgusto e la pulizia fisica implica la purificazione della coscienza.

In realtà, non tutte le ricerche hanno confermato l’esistenza del disgusto morale che per alcuni avrebbe soltanto un valore metaforico, senza le caratteristiche fisiologiche del disgusto, e nemmeno tutte le ricerche hanno confermato l’esistenza dell’effetto Macbeth. Tuttavia la questione appare diversa se si mette in disparte la morale altruistica/umanitaria/consequenzialista, e si considera solo la morale deontologica, cioè quella morale che tiene conto del rispetto delle norme morali a prescindere dalla bontà delle conseguenze per gli esseri umani. Infatti, senso di colpa deontologico e disgusto condividono almeno parte del substrato neurale, le insulae (Basile et al., 2011), l’induzione di senso di colpa deontologico, ma non di quello altruistico/umanitario, implica un netto effetto Macbeth (D’Olimpio e Mancini, 2014), il disgusto morale ha le stesse caratteristiche fisiologiche del disgusto fisico, ma solo nelle persone maggiormente sensibili alla morale deontologica (Ottaviani et al., 2013). Sentirsi contaminati da sostanze disgustose implica un abbassamento del sé nella Social Cognitive Chain of Being (SCCB), similmente, l’induzione di senso di colpa deontologico, ma non di quello altruistico/umanitario. La SCCB rappresenta la tendenza degli esseri umani a organizzare il proprio mondo morale lungo una dimensione verticale, che vede in alto chi merita obbedienza e rispetto, e in basso chi deve obbedienza e rispetto e più in basso ancora chi merita disprezzo (Brandt & Reyna 2011).

Il principio Not play God

Chi appartiene ai ranghi alti dovrebbe essere meno vincolato dal rispetto del principio deontologico basico, Not play God, il contrario dovrebbe accadere a chi appartiene ai ranghi bassi. Il principio Not play God limita il diritto di decidere, ne consegue che nessun essere umano possa decidere liberamente su tutto. Alcune decisioni non rientrano fra i suoi diritti. Questo principio generale poi si declina in una serie di norme che definiscono i diversi sistemi morali. Ad esempio, per alcuni sistemi morali, ma non per tutti, l’individuo non ha il diritto di decidere se vivere o morire, perché questo diritto spetta a Dio o al destino o alla natura, e a lui non è permesso interferire anche se ne ha il potere.

Tuttavia i limiti imposti dal Not play God anche all’interno dello stesso sistema morale, non sono uguali per tutti ma sono più ampi per chi occupa autorevolmente una posizione di responsabilità e si restringono invece per chi è più in basso nella SCCB. Infatti, in una ricerca recente (Pulsinelli, 2017) si è visto che si riconosce un maggior diritto di interferire con il corso degli eventi, e dunque di essere meno vincolato dal Not play God, a chi occupa meritatamente una posizione elevata e in un’altra ricerca, che ha utilizzato il paradigma dell’Ultimatum Game (Mancini e Mancini, 2015), si è visto che l’induzione di senso di colpa deontologico, ma non di quello altruistico/umanitario, implica che ci si riconosca un minor diritto di intervenire, anche quando si tratta di difendere ciò che si reputa giusto. Il paradigma del trolley (Foot, 1967), nella versione switch, ha consentito di raccogliere altri dati sulla relazione tra senso di colpa deontologico e rispetto del Not play God.

In questo specifico paradigma si pone ai partecipanti il seguente dilemma tipo: “Un vagone senza controllo sta procedendo a grande velocità su un binario dove sono bloccati cinque operai che saranno certamente travolti e uccisi, a meno che tu non muovi uno scambio dirottando il vagone su un altro binario dove però un operaio sarà certamente travolto e ucciso. Che cosa devi fare?

La scelta consequenzialista di muovere lo scambio implica salvare cinque persone e farne morire una ma implica anche che si interferisca con un destino già segnato e ci si prenda la responsabilità di decidere chi vive e chi muore, cioè di trasgredire il principio Not play God. La decisione omissiva di non muovere lo scambio ha implicazioni opposte. In effetti, chi decide di muovere lo scambio riporta di aver tenuto presente un principio altruistico/umanitario/consequenzialista, salvare il maggior numero possibile di persone. Chi decide di non muovere lo scambio riporta di aver tenuto presente il principio deontologico basico, Not play God, “non ho il diritto di decidere chi vive e chi muore” (Gangemi e Mancini, 2013). L’induzione di senso di colpa deontologico implica la prevalenza di scelte omissive mentre l’induzione di senso di colpa altruistico/umanitario la prevalenza di scelte consequenzialista (Mancini e Gangemi, 2015).

In breve, il senso di colpa deontologico, ma non quello altruistico, abbassa il sé nella SCCB e di conseguenza rende più sensibili al Not play God e ciò si traduce nella preferenza per scelte omissive.

Il self disgust e le scelte omissive

Se la morale deontologica e il disgusto sono davvero strettamente connessi, allora l’induzione della sensazione di essere contaminati, cioè del self disgust, dovrebbe implicare una preferenza per le scelte omissive simile a quella che si osserva dopo l’induzione di senso di colpa deontologico. Per controllare questa ipotesi abbiamo condotto una ricerca ad hoc. L’ipotesi prevedeva che l’induzione della sensazione di essere disgustosamente contaminati avrebbe implicato una preferenza per le scelte omissive nei dilemmi morali, maggiore di quella che sarebbe conseguita alla induzione di un’emozione opposta di fierezza.

Sono stati reclutati 58 volontari tratti dalla popolazione generale (42 donne, età media 53.5 anni) suddivisi casualmente in due gruppi. Tramite la somministrazione di appositi scenari è stata indotta un’emozione di disgusto fisico, nel gruppo 1, e di fierezza/orgoglio nel secondo gruppo. In seguito, per controllare l’efficacia dell’induzione, è stato chiesto di indicare il tipo e l’intensità di emozione evocata dallo scenario. Quindi, tutti i partecipanti sono stati confrontati con diversi dilemmi, di tipo morale con la stessa struttura del dilemma del trolley nella versione switch (Foot, 1966) e di tipo non-morale che avevano la stessa struttura ma riguardavano domini moralmente neutri (per esempio, una scelta rispetto al vantaggio o meno di acquistare un oggetto). Per ciascun dilemma i partecipanti hanno indicato il tipo di scelta, omissiva o meno, che li avrebbe resi più “a posto con la coscienza”.

I risultati hanno indicato che effettivamente le due induzioni hanno evocato in modo univoco le emozioni prestabilite, con (come atteso) una maggiore intensità dell’emozione di disgusto, rispetto all’induzione di fierezza. Il dato più interessante ha dimostrato che i partecipanti in cui era stata indotta l’emozione di disgusto riportavano un numero significativamente maggiore di scelte omissive nei dilemmi morali, mentre l’effetto inverso si è osservato, a vantaggio delle scelte non-omissive, nei soggetti che provavano orgoglio e fierezza. Non si sono osservate differenze nei dilemmi non morali. In conclusione, nuovamente è confermata la stretta connessione che esiste fra disgusto e morale, ma specificatamente quella deontologica.

 

La ricerca presentata in questo articolo è la tesi di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche L-24, di Grazia Gualtieri, relatore Francesco Mancini, presso la Università Marconi di Roma. Barbara Basile ha realizzato i necessari calcoli statistici.

Il viaggio che i vostri genitori non vorranno lasciarvi fare

L’industria del desiderio non può che considerare un ostacolo ogni autorità regolatrice e inevitabilmente più o meno repressiva. C’è da chiedersi: repressiva? C’è ancora in giro qualche genitore repressivo? No, sono pochi e intimiditi; ma non basta.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 24 giugno 2017

 

“This is the trip your parents don’t want you to take!”, Questo è il viaggio che i vostri genitori non vorranno lasciarvi fare. Oppure “Travel to destinations your mother would rather you stayed away from” Viaggi in posti dai quali vostra madre preferirebbe voi steste lontani. Questi slogan sono sul sito di ‘Young Pioneer Tours’, l’agenzia di viaggi-avventura che fornisce la possibilità a giovani occidentali (e non) di fare una vacanza in Corea del Nord. Di ‘Young Pioneer Tours’ si servì a suo tempo Otto Warmbier, lo sfortunatissimo giovane statunitense che fu arrestato il 2 gennaio 2016 a Pyongyang durante la sua vacanza in quel paese. Fu arrestato per aver rubato un poster e condannato a 15 anni di carcere. Rilasciato quest’anno dopo 17 mesi di detenzione, è tornato a casa in coma e poi è morto, dopo pochi giorni. Una storia triste e inquietante.

Nessun genitore vorrebbe una vacanza del genere per i propri figli, e non c’è nulla di male nell’essere, almeno in questo caso, poco permissivi. Non c’è da meravigliarsi se da tempo la grande industria dell’intrattenimento giovanile e infantile ha deciso che, per invogliare il suo target di giovani clienti a consumare di più, occorresse dichiarare una gentile e ammiccante guerra ai fastidiosi genitori.

L’industria del desiderio non può che considerare un ostacolo ogni autorità regolatrice e inevitabilmente più o meno repressiva. C’è da chiedersi: repressiva? C’è ancora in giro qualche genitore repressivo? No, sono pochi e intimiditi; ma non basta. Non basta non essere repressivi, il problema è che non si è abbastanza permissivi. E così, da quando è emersa tutta questa nuova clientela infantile e giovanile, è tutto un fiorire di sottili incitamenti alla ribellione contro i genitori. È abbastanza disorientante, ad esempio, notare come i cartoni animati, compresa quelli della Disney, abbiano da tempo sdoganato la produzione di rumori corporei: prima i rutti e poi anche le più sonore flatulenze, anche nelle occasioni più ufficiali. Qui, Quo e Qua durante il pranzo di Natale in famiglia ruttano allegramente davanti al resto della famiglia.

I giovani sono diventati soggetti di mercato dalla seconda metà degli anni ’50.  Dapprima diventarono fruitori di musica, una musica tutta loro e differente da quella dei genitori. L’argento vivo del rock’n’roll con tutte le sue allusioni sessuali al posto del romanticismo più ingenuo delle canzoni dei loro genitori, che ascoltavano Frank Sinatra e Alberto Rabagliati. Poi si aggiunsero altri prodotti: i fumetti, ad esempio. Invece i film d’animazione rimasero per alcuni decenni ancora un prodotto controllato e conservatore, in cui non si cercava di stimolare la ribellione. Con il nuovo millennio anche i cartoni sono diventati terreno di alleanza tra ragazzi e industria del divertimento contro i genitori.

Questi eventi contraddicono le semplificazioni sociologiche e politiche che eguagliano sempre potere e oppressione. Il potere economico dell’industria del divertimento non ha alcun interesse nello stimolare abitudini oppressive e conservatrici. Quindi inutile attendersi alleanze naturali tra il capitalismo delle corporation del divertimento e i genitori. Al contrario, il controllo genitoriale va combattuto. La musica rock ha sempre dovuto barcamenarsi tra il ribellismo del suo messaggio e l’oggettiva sua appartenenza al sistema capitalistico. C’è da chiedersi se anche la psicologia, con il suo insistere sugli aspetti negativi dell’educazione poco permissiva del passato, non abbia lavorato per un altro potere, più subdolo e insinuante di quello esercitato dai genitori.

Torniamo a ‘Young Pioneer Tours’. Per quanto possa essere fastidiosa l’autorità del padre e della madre, un sito che subdolamente suggerisce ai propri clienti di farsi una vacanza in un posto che i genitori proibirebbero è probabilmente peggio. Finisce per somigliare al paese dei balocchi che attira Pinocchio e Lucignolo per renderli schiavi. Pinocchio -rileggiamolo!- è una storia horror in cui la Fata Turchina a volte ci raggela con la sua capacità ricattatoria di far sentire colpevole Pinocchio, ma l’Omino di burro che attira i bambini nel suo luogo di delizie per poi trasformali in asini da sfruttare è peggio. E questa agenzia di viaggi ‘Young Pioneer Tours’ che promette viaggi-avventura a giovani desiderosi di avventure è come l’Omino di burro. È il caso di essere d’accordo con il famigerato “dove andremo a finire, signora mia!” Forse qualche volta è il caso di ascoltare ancora i nostri genitori, anche se sono così critici e fastidiosi. E poi le avventure non si comprano nelle agenzie di viaggio. Altrimenti finiamo per avere le pretesa di fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri, come diceva quel tale.

Il Brutto Anatroccolo: il vissuto di diversità e la grazia dell’appartenenza

I nuclei di significato contenuti nella fiaba de Il brutto anatroccolo sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. 

La fiaba de Il brutto anatroccolo

Il ghiaccio dev’essere rotto e l’anima tolta dal gelo. […] Fate come l’anatroccolo. Andate avanti, datevi da fare. […] In linea di massima ciò che si muove non congela. Muovetevi dunque, non smettete di muovervi.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

La storia del brutto anatroccolo, piccolo cigno nato – per errore – in una comunità di anatre, è una fiaba capace di evocare significati profondi. Nella rilettura di Clarissa Pinkola Estés, lo sfortunato protagonista diviene simbolo delle sofferenze legate alla costruzione di una sana immagine di sé, alle relazioni, alle tante forme di dipendenza declinata al femminile.

Il brutto anatroccolo, vittima innocente di uno scherzo del destino, è destinato a pagare duramente per la sua diversità subendo la derisione, lo scherno, le umiliazioni, fino all’esilio dalla comunità natìa. La stessa madre, che inizialmente tenta di proteggerlo da torti e violenze, finirà per allontanarlo. Nel suo peregrinare alla ricerca di qualcuno che lo accolga, il brutto anatroccolo cercherà riparo presso esseri umani, altri animali e altri luoghi: ogni volta, i suoi sforzi si tradurranno in dolorosi fallimenti. Viaggerà a lungo, rischiando più volte di morire, fino a ritrovarsi, per caso e con notevole stupore, accolto con affetto dai suoi simili, i maestosi cigni.

I significati contenuti nella fiaba

I nuclei di significato contenuti nella fiaba sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. (Pinkola Estés, 1993)

Altro aspetto estremamente significativo è la complessità della figura materna. Una madre che, dapprima, prova a difendere il suo piccolo dagli attacchi, ma finisce per adattarsi al volere del branco. Siamo quindi di fronte ad una madre psichicamente divisa, ambivalente. Da un lato il desiderio di proteggere suo figlio, dall’altro la spinta all’autoconservazione. Nelle culture punitive, puntualizza l’autrice, non è una situazione inusuale per una donna. Si tratti di un figlio reale o simbolico (l’arte, la creatività, gli ideali politici, l’amore) sono tante le donne morte psichicamente e spiritualmente nel tentativo di proteggere il “figlio non autorizzato” dalla società. Talvolta sono state addirittura bruciate, assassinate o impiccate, come punizione per aver sfidato le regole sociali e per aver protetto o occultato la loro “creatura socialmente inaccettabile”.

Non cedete. Troverete la vostra strada. […]  Questo è dunque il lavoro finale della persona in esilio che si ritrova: accettare la propria individualità, l’identità specifica, ma anche accettare la propria bellezza… la forma della propria anima
(C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

E come non soffermarsi sulla costante ricerca di amore nei posti sbagliati? Un comportamento che porta il brutto anatroccolo a rischiare più volte la propria vita, per il semplice fatto di “bussare alle porte sbagliate”. Del resto, “è difficile immaginare come una persona possa riconoscere la porta giusta, se non ne ha ancora mai trovata una” (Pinkola Estés). Riferendosi in particolare al mondo femminile, l’autrice evidenzia l’assonanza con quella straziante ricerca di amore, a volte ripetuta in modo ostinato ed inconsapevole, che comporta l’acuirsi della ferita originaria, anziché lenirla. Una necessità di riempire il vuoto interiore con le cose più disponibili o facilmente reperibili: le “medicine sbagliate” (Pinkola Estes) che per alcune donne sono rappresentate da compagnie pericolose, per altre da eccessi malsani, per altre ancora da quegli amori che non riconoscono né accettano i talenti, le doti, i limiti della propria compagna.

Ulteriore aspetto sostanziale è la condizione di “orfano di madre” che l’anatroccolo si ritroverà a subire. Privo degli adeguati insegnamenti materni, procederà nella sua vita per prove ed errori, poiché il suo istinto non sarà stato affinato e risvegliato da una madre amorevole. Allo stesso modo, la donna orfana di madre apprenderà, secondo l’autrice, provando e compiendo innumerevoli errori, poiché le manca quel medesimo “istinto” che, sebbene insito nella natura, solo una madre amorevole potrebbe risvegliare.

“Se avete tentato di adattarvi a uno stampo e non ci siete riusciti, probabilmente avete avuto fortuna. Potete essere in esilio, ma vi siete protetti l’anima. […] È peggio restare nel luogo cui non si appartiene che vagare sperduti, alla ricerca dell’affinità di cui si ha bisogno. Non è mai un errore cercarla.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

Tra le diverse sottolineature dell’autrice, vi è quella sul valore dell’esilio. L’anatroccolo vaga, rischia la morte, non permane nella comunità a lui ostile, né si adagia: decide di cercare. Qualcosa in lui riesce a temprarsi durante quell’esilio che, sebbene imposto e fortemente doloroso, permetterà all’anatroccolo di riscoprirsi, alla fine, più forte e addirittura molto più bello. Allo stesso modo, come suggerisce la Estés, è preferibile proteggere la propria anima, esiliandosi rispetto a chi non ci accetta, piuttosto che restare in un luogo cui non si appartiene.

A quest’ultimo aspetto si collega naturalmente quello che appare il nucleo vitale della fiaba, la scoperta dello stato di grazia dell’appartenenza: l’approdo finale dell’anatroccolo nella sua comunità naturale sembra rinvigorire tutto il suo essere, colmandolo di nuove energie e di slancio vitale, in una sorta di “riappropriazione del sé” che pone l’animo in una condizione di rinascita, di gioia e di vitalità. Le stesse, sottolinea l’autrice, che si avvertono quando si sperimenta l’appartenenza, la condivisione naturale tra esseri affini. E “non è mai un errore cercarla”, pur nelle condizioni più difficili ed aspre, anche rischiando ciò che si possiede. Perché è valore fondante del nostro stesso Essere e del Vivere pienamente, quel sentire di essere accolti e di appartenere.

Insonnia? Puoi curarla senza sonniferi!

La terapia cognitivo comportamentale per l’ insonnia è un intervento multimodale che unisce diverse tecniche, sia cognitive sia comportamentali, per modificare le idee e le attitudini errate riguardo al sonno. Le varie tecniche, combinate tra loro, hanno lo scopo di insegnare in breve tempo alcune strategie per controllare il proprio sonno, eliminando abitudini e pensieri disfunzionali.

 

Insonnia: definizione e conseguenze

L’insonnia si definisce come:
Difficoltà con l’inizio, la durata, il mantenimento o la qualità del sonno, nonostante siano presenti condizioni adeguate” (International Classification of Sleep Disorders-3, 2014).

Le conseguenze diurne possono essere stress, irritabilità, perdita di concentrazione, e anche rischio di incidenti.

Un terzo degli adulti riporta i sintomi dell’insonnia e per circa il 10% della popolazione è un problema persistente che influenza negativamente le proprie attività quotidiane. L’insonnia è più comune tra le donne, gli anziani, i lavoratori su turni e le persone con disturbi medici e psicologici (dati dell’Associazione Italiana Medicina del Sonno).

L’insonnia spesso è in compresenza con altri disturbi, in particolare di tipo depressivo, oppure secondaria a stati medici generali quali disturbi cardiovascolari, polmonari e gastrointestinali. Che sia o meno il disturbo primario o secondario, l’insonnia cronica è spesso associata ad una serie di condizioni avverse, compresi disturbi dell’umore, difficoltà di concentrazione ed impoverimento della memoria. I soggetti affetti da insonnia spesso lamentano una preoccupazione per gli effetti negativi della deprivazione del sonno sulla loro salute, sull’efficienza lavorativa e sulla qualità della vita in generale.

I modelli cognitivo e comportamentale dell’insonnia

Ma come “funziona”? Quali sono i meccanismi che la causano e la mantengono? Le teorizzazioni riguardanti le cause dell’insonnia sono numerose. A partire dagli anni ‘50 i modelli cognitivi e comportamentali della psicologia sono stati applicati anche all’insonnia.

Il modello cognitivo sostiene che l’iperattivazione mentale, rappresentata dal rimuginio e dall’eccessiva preoccupazione per il mancato sonno, predispone l’individuo all’insonnia, precipita gli episodi acuti e mantiene le forme croniche del disturbo.

Il modello comportamentale invece caratterizza l’insonnia cronica come risultato di abitudini apprese che disturbano il sonno (es fare molti sonnellini diurni o stare nel letto per un tempo prolungato nel tentativo di addormentarsi, il che tende a rendere irregolari i cicli sonno-veglia).

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Su questi meccanismi di pensiero e comportamento agisce la psicoterapia cognitivo comportamentale (cognitive-behavioral therapy, CBT).

Terapia cognitivo comportamentale dell’insonnia

La terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia è un intervento multimodale che unisce diverse tecniche, sia cognitive sia comportamentali, per modificare le idee e le attitudini errate riguardo al sonno. Le varie tecniche, combinate tra loro, hanno lo scopo di insegnare in breve tempo alcune strategie per controllare il proprio sonno, eliminando abitudini e pensieri disfunzionali. Un esempio? L’igiene del sonno consiste in una lista di buone regole riguardo l’orario in cui ci si corica e ci si sveglia, l’areazione e la luminosità della stanza, il numero e la durata dei sonnellini diurni consentiti, ecc. Il controllo dello stimolo prevede che la persona trascorra il tempo in cui è sveglio altrove rispetto alla stanza da letto, per non associare quel luogo, dedicato solo al sonno, a stati di attività, come lo sforzo di addormentarsi. La terapia cognitiva invece affronta i pensieri e le credenze disfunzionali che interferiscono col sonno, come ad esempio le aspettative riguardo al numero di ore totali che si vogliono passare dormendo.
L’efficacia di questo trattamento è ampiamente dimostrato negli studi scientifici, e i progressi che porta sono mantenuti a lungo, anche dopo 2 anni, al contrario delle terapie farmacologiche.

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La CBT per l’insonnia quindi porta miglioramenti significativi nel sonno e in altre misure cliniche su qualità della vita, ed ha un buon rapporto costo-beneficio. La letteratura dimostra che questi cambiamenti sono duraturi e progressivi nel tempo, e non si limitano alla durata della terapia. Nonostante all’inizio richieda un grande investimento di tempo e di sforzo da parte del paziente, la terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia è ben accettata ed è preferita ad approcci farmacologici, come dimostrato dalle alte percentuali di soddisfazione per il trattamento riportate dai pazienti studiati.

Da alcune recenti metanalisi risulta che gli studi più recenti non includono ancora la definizione adottata nel nuovo manuale ICSD 3. Tuttavia, l’efficacia della CBT-I nel miglioramento del sonno, rispetto ad interventi di farmacoterapia ed altri trattamenti, è dimostrata sia per pazienti con sola insonnia primaria (Trauer et al., 2015), sia per soggetti con altri sintomi in comorbidità (Taylor & Pruiksma, 2014). In particolare, è molto interessante notare che in quest’ultimo studio i soggetti analizzati in 16 studi randomizzati (n=571) mostrano miglioramenti nei sintomi psichiatrici in comorbidità, pure se non trattati direttamente.

I parametri analizzati dai diari del sonno, compilati dai pazienti stessi, sono: Wake After Sleep Onset (veglia intrasonno), Total Sleep Time (tempo totale di sonno), Time in Bed (tempo trascorso a letto, non per forza addormentati), Sleep Onset Latency (tempo impiegato per addormentarsi) e %Sleep Efficacy, calcolabile con l’operazione: (TST ÷ tempo a letto) × 100.

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In conclusione, la terapia cognitivo comportamentale è un trattamento promettente per affrontare l’insonnia cronica primaria, e verosimilmente continuerà a portare dei continui miglioramenti assistenziali in ambito clinico. Nonostante questi vantaggi, però, ad oggi questa forma di terapia viene poco applicata in Italia perché necessita di una complessa e specifica preparazione degli operatori clinici. Visti gli innegabili vantaggi, ritengo che bisognerà investire su questo importante aspetto formativo.

Il disturbo da stress post traumatico nella prospettiva della vittimologia: predisposizioni e fattori protettivi

L’eziologia del Disturbo da Stress Post Traumatico e i suoi sintomi sono ben noti. Ma cosa si può dire di chi ne soffre? Diverse sono le variabili che possono spiegare la predisposizione vittimologica del PTSD.

Barbara Brignoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Il Disturbo da Stress Post Traumatico nel DSM V entra a far parte di una categoria diagnostica a sé stante, quella dei Disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti, insieme al Disturbo Reattivo dell’Attaccamento, al Disturbo da Impegno Sociale Disinibito, al Disturbo da Stress Acuto ed al Disturbo dell’Adattamento.

L’insorgenza di questa patologia dipende da moltissimi fattori che incidono in modo più o meno determinante nel momento dell’evento fortemente stressogeno.

L’eziologia del Disturbo da Stress Post Traumatico è ben nota: un evento stressogeno, come il rischio di morte per sé o per persone care, l’assistere a rapine o aggressioni, rischio di perdere la propria incolumità, subire una violenza oppure essere vittima di una catastrofe naturale come un terremoto o un’inondazione.

Inoltre è importante specificare che adulti e bambini sviluppano una sintomatologia diversa: le risorse a disposizione della persona che servono ad affrontare gli eventi stressogeni sono differenti sia qualitativamente sia quantitativamente e di conseguenza anche le ripercussioni di questi eventi sulla persona sono diversi così come lo è la natura della patologia.

Gli esseri umani sono organismi complessi che interagiscono in modo bidirezionale con l’ambiente fisico e sociale in cui sono inseriti. Il comportamento umano è spesso la risultante di complesse variabili a livello individuale, come le cognizioni, sistemi di pensiero che guidano l’azione e l’interpretazione del mondo: gli uomini cercano sempre di spiegare i fenomeni che accadono intorno a loro e reagiscono con risposte emotive specifiche alle varie esperienze.

Proprio queste reazioni emozionali risultano essere fortemente adattive per l’uomo che ha così la possibilità di imparare a distinguere per esempio situazioni più o meno pericolose, piuttosto che più o meno piacevoli e tutto ciò ha un grande significato in ambito evolutivo poiché garantisce la sopravvivenza della specie.

Numerosi studi hanno evidenziato che le persone reagiscono in modo particolare a esperienze particolarmente minacciose: le osservazioni e gli studi compiuti a inizio secolo sui soldati di leva in tempi di guerra, portarono a compiere significativi passi in avanti nella comprensione degli effetti degli stress traumatici a rischio di vita sull’adattamento psicologico.

Verso la fine degli anni ’70 poi la Guerra del Vietnam risvegliò l’interesse degli esperti di sanità mentale, che riconobbero la sindrome come Disturbo da Stress Post Traumatico.

L’American Psychiatric Association (A.P.A.) venne influenzata dagli studi di Horowitz (1975, 1976, 1979) sulla fenomenologia delle reazioni correlate ai traumi: l’autore si ispirava a teorie psicodinamiche e a teorie dell’elaborazione delle informazioni. Horowitz osservò nei soggetti che manifestavano reazioni a stress violenti, fenomeni intensivi e di evitamento.

L’ A.P.A. nel DSM-III (1980) riconosce una sindrome del Disturbo Post Traumatico da Stress nella quale, a seguito di eventi particolarmente traumatici, alcuni soggetti sviluppano fenomeni intrusivi in cui rivivono il trauma, manifestano comportamenti evitanti e presentano un aumentato arousal.

L’attuale versione del DSM-V definisce con precisione i criteri diagnostici per poter individuare un Disturbo da Stress Post Traumatico in un soggetto adulto.

I seguenti criteri si riferiscono a adulti, adolescenti e bambini di età superiore a 6 anni. […]

A. Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi:

  • Fare esperienza diretta dell’evento traumatico
  • assistere direttamente ad un evento traumatico accaduto ad altri
  • venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto ad un membro della famiglia oppure ad un amico stretto. In caso di morte reale o minaccia di morte di un membro della famiglia o di un amico, l’evento deve essere stato violento o accidentale
  • fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento traumatico

B. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento traumatico, che hanno inizio successivamente all’evento traumatico:

  • Ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento traumatico
  • ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento traumatico
  • reazioni dissociative in cui il soggetto sente o agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando
  • intensa o prolungata sofferenza psicologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico
  • marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico

C. Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, iniziato dopo l’evento traumatico, come evidenziato da uno o entrambi i seguenti criteri:

  • Evitamento o tentativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico
  • evitamento o tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico

D. Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico, iniziate o peggiorate dopo l’evento traumatico come evidenziato da due o più dei seguenti criteri:

  • Incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico (dovuta tipicamente ad amnesia dissociativa e non ad altri fattori come trauma cranico, alcol o droghe)
  • Persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri, o al mondo
  • Persistenti, distorti pensieri relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano l’individuo a dare la colpa a se stesso oppure agli altri
  • Persistente stato emotivo negativo
  • Marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative
  • Sentimenti di distacco o estraneità verso gli altri
  • Persistente incapacità di provare emozioni positive

E. Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico iniziate o peggiorate dopo l’evento traumatico come evidenziato da due o più dei seguenti criteri:

  • Comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti
  • Comportamento spericolato o autodistruttivo
  • Ipervigilanza
  • Esagerate risposte di allarme
  • Problemi di concentrazione
  • Difficoltà relative al sonno

F. La durata delle alterazioni (criteri B, C, D ed E) è superiore ad un mese

G. L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti

H. L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o ad un’altra condizione medica […]

La vittimologia: le predisposizioni vittimogene e la vittima nel contesto del reato e del processo

Viano definisce la vittima dal punto di vista criminologico come “qualsiasi soggetto danneggiato o che abbia subito un torto da altri, che percepisce se stesso come vittima, che condivide l’esperienza con altri cercando aiuto, assistenza e riparazione, che è riconosciuto come vittima e che presumibilmente è assistito da agenzie/strutture pubbliche, private o collettive”.

In questa definizione emergono dunque alcuni aspetti caratterizzanti per lo status di vittima:

  • il danno
  • la consapevolezza
  • la richiesta di aiuto
  • la convalida
  • l’aiuto.

Con il termine “vittimologia” si intende quella disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima del reato, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche, morali, psicologiche, sociali e culturali, delle sue relazioni con l’autore di reato e del ruolo che essa ha assunto nella criminogenesi e nella criminodinamica.

Ci si può occupare della vittima prima ancora che essa diventi o possa diventare tale, prima della commissione del reato stesso, studiando le cosiddette  “predisposizioni vittimogene”; l’obiettivo sarebbe quello di tentare di evitare quelle situazioni di varia natura che possono facilitare il rimanere vittima di azioni criminali altrui o quantomeno di rendere difficile la vita al crimine.

Le predisposizioni vittimogene possono essere distinte in predisposizioni generiche o specifiche a seconda che siano situazioni particolari o generali, che potrebbero riguardare qualsiasi soggetto oppure situazioni nelle quali potrebbero trovarsi solo determinati soggetti per loro caratteristiche particolari.

In base al momento in cui queste predisposizioni si manifestano, si possono distinguere quelle innate da quelle acquisite: le prime sono presenti fin dalla nascita e possono essere ad esempio il sesso, l’etnia, un’infermità mentale o fisica ecc..; le seconde invece sono quelle che si sviluppano nel corso dell’esistenza, quindi i tratti psico-sociali, le infermità sorte dopo la nascita, lo stile e le abitudini di vita, le attività intraprese, le compagnie e gli ambienti frequentati, ecc.

Da un punto di vista temporale si possono distinguere invece le predisposizioni permanenti da quelle temporanee e da quelle passeggere: le prime rimangono fino alla morte, le seconde permangono soltanto per un periodo più o meno lungo di tempo mentre le terze rimangono per un periodo brevissimo e sono legate a circostanze particolari di quel particolare momento.

Esiste poi un’ulteriore classificazione delle varie predisposizioni, divise in biofisiologiche, psicologiche e sociali a seconda della natura delle stesse:

  • predisposizioni bio-fisiologiche: sono quelle predisposizioni legate a fattori fisici individuali come l’età, il sesso, l’etnia e lo stato fisico;
  • predisposizioni psicologiche: sono legate a fattori psicologici del soggetto come gli stati psicopatologici o i tratti del carattere;
  • predisposizioni sociali: sono legate all’ambiente sociale in cui si vive e al proprio ruolo all’interno di esso e comprendono la professione, le condizioni economiche e le situazioni sociali.

In alcune circostanze può manifestarsi in modo molto marcato un rischio vittimogeno, cioè la probabilità concreta che un determinato soggetto rimanga vittima di un reato, tenuto conto di tutte le variabili predisponenti e considerando anche la paura del crimine.

In particolare il Disturbo da Stress Post Traumatico si correla molto facilmente con queste tematiche più di ordine giuridico poiché le vittime di crimini, aggressioni o violenze, risultano molto vulnerabili allo sviluppo di una condizione patologica come può essere una reazione post-traumatica particolarmente marcata.

Diventa dunque fondamentale studiare i fattori che possono aumentare la vulnerabilità di una persona, con lo scopo di prevedere e prevenire eventuali traumi.

Fattori individuali di vulnerabilità nel Disturbo da Stress Post Traumatico e aspetti culturali

È stato notato da diversi teorici che i disturbi del comportamento osservati in animali sottoposti ad eventi avversi incontrollabili ed imprevedibili ricordano il Disturbo da Stress Post Traumatico ed esiste una somiglianza tra il modo di reagire agli stimoli avversi tra animali e uomini: questa caratteristica può far riflettere sull’ipotesi di un’eziologia comune.

Il verificarsi di un evento traumatico genera delle rappresentazioni cognitive degli stimoli dell’evento che sono conservati nella memoria, per via della loro importanza individuale e per la difficoltà di essere facilmente assimilati con altre rappresentazioni già immagazzinate.

Queste cognizioni dell’evento prendono due forme: l’informazione che non è disponibile alla coscienza e l’informazione che può essere recuperata volontariamente.

Le cognizioni dell’evento sono la base dei fenomeni di “ri-esperienza” dell’evento e sono condizionate da aspetti personali e soggettivi dell’individuo.

Le valutazioni dell’evento possono anch’esse prendere due forme: quella di pensieri automatici associati ad una attivazione schematica e a forti stati emozionali, e quella di rivalutazioni che sono pensieri coscienti influenzati dalla divulgazione alle altre persone della rete sociale.

La presenza di cognizioni dell’evento e dei meccanismi di valutazione, può dare origine a stati emozionali, che possono essere oggetto di valutazione da parte del soggetto, il quale può tentare di alleviare il disagio provocato da queste rimuginazioni sul proprio stato emotivo, generando tentativi di coping tra i quali l’evitamento.

Tuttavia un’eccessiva attività di evitamento e di soppressione emozionale può determinare uno stato di anestesia affettiva e di dissociazione tra processi cognitivi ed emozionali.

Un aspetto fondamentale del coping sarà la ricerca di supporto sociale nell’ambiente: il sostegno effettivo o percepito dagli altri membri della rete sociale, può influenzare in modo determinante l’andamento delle cognizioni e degli stati emotivi del soggetto.

Numerose correlazioni sono state identificate tra alcuni fattori di personalità, come per esempio il nevroticismo, e particolari stili di coping: il frequente affidarsi a strategie evitanti o ambivalenti, correlate ad una bassa autostima è spesso collegato a stili di personalità che rimandano ai costrutti patologici del Disturbo Borderline di Personalità.

Anche i fattori culturali ricoprono un ruolo fondamentale nello sviluppo di particolari condizioni patologiche come le reazioni post-traumatiche: il clima socioculturale influenza sia le valutazioni soggettive dell’evento traumatico, sia i giudizi, spesso impropri, di cui può cadere vittima il soggetto traumatizzato.

Gli stili cognitivi e le valutazioni che il soggetto intraprende riguardo alle varie situazioni, sono anch’essi fattori cruciali per spiegare l’eziologia del Disturbo da Stress Post Traumatico.

Un buon modello integrativo deve considerare tutti i possibili fattori e tutti gli elementi definitori che possono incorrere in un disturbo e proporre di conseguenza un progetto di trattamento che comprenda proprio tutti gli aspetti evidenziati, dal supporto sociale, alla personalità, dagli stili cognitivi, ai fattori culturali.

Grazie alle normative stilate dall’OMS e agli studi di ricercatori e psicologi coinvolti in questo ambito operativo, si possono delineare le condizioni ottimali per sviluppare interventi e trattamenti efficaci che considerino sia gli elementi oggettivi globali del trauma, sia tutti gli elementi più intimi e soggettivi che caratterizzano le reazioni post-traumatiche.

Nell’uomo un notevole peso sulle reazioni a stressor è attribuito all’elaborazione cognitiva dell’evento. Da un punto di vista cognitivo infatti secondo i concetti di stress e coping, viene enfatizzato il processo di valutazione dello stimolo, centrale nella comprensione dell’eziologia dei processi post-traumatici.

Un aspetto del processo di valutazione è l’attribuzione della causa.

Locus of control

La comprensione del locus della causa di ciò che è accaduto è fondamentale nell’attribuzione e nella reazione a determinati eventi.

Le attribuzioni di locus possono condurre a specifici stati emozionali, che a loro volta possono generare particolari attività di coping.

Due tipi di autoaccusa sono da prendere in considerazione: l’autoaccusa comportamentale e l’autoaccusa caratteriologica.

L’”autoaccusa comportamentale” si riferisce ad un’attribuzione della causa ad inclinazioni interne, instabili e specifiche mentre il termine “autoaccusa caratteriologica” è stato usato in riferimento ad un’attribuzione della causa ad inclinazioni interne, stabili e globali.

L’autoaccusa caratteriologica è predittiva di una prognosi psicologica sfavorevole e di una riduzione dell’autostima mentre l’autoaccusa comportamentale è stata ipotizzata essere adattiva consentendo al soggetto di sviluppare una sensazione di controllo e la convinzione che esista una risposta in grado di condizionare l’evitabilità dell’ evento in futuro.

Sono state trovate evidenze empiriche a supporto di un’associazione tra l’autoaccusa comportamentale ed una prognosi favorevole per esempio per le vittime di incidenti, di violenze sessuali e per i pazienti oncologici anche se queste evidenze non sembrano poi così determinanti per la prognosi e l’insorgenza del Disturbo da Stress Post Traumatico.

Emerge poi da numerosi studi una compromissione del benessere emozionale associato all’eteroaccusa.

Anche per l’eteroaccusa poi si può effettuare la distinzione tra eteroaccusa comportamentale ed eteroaccusa caratteriologica per esempio nella percezione di un evento come derivante dalla noncuranza di qualcun’altro o al contrario dalla sua malevolenza.

I sopravvissuti a violenze sessuali sono particolarmente inclini a sviluppare reazioni post-traumatiche, a dimostrazione del fatto che attribuzioni di malevolenza generano livelli di disagio più alti rispetto a quelle di noncuranza che al contrario possono risultare adattive in alcune circostanze.

Questi studi dimostrano il complesso ruolo dei processi di attribuzione: è stato suggerito che l’eteroaccusa sia guidata dalla necessità di conservare la propria autostima mentre l’autoaccusa dalla necessità di mantenere il controllo. È quindi spontaneo dedurre che l’eteroaccusa comporta come costo l’incremento della sensazione di un mondo incontrollabile mentre l’autoaccusa ha come prezzo una riduzione consistente dell’autostima.

Il sopravvissuto ha un compito cognitivo da risolvere non indifferente e quelli che meglio si adatteranno saranno coloro che sapranno trovare un giusto equilibrio tra le necessità di autostima e di controllo.

Coping

Gli studi sul ruolo della colpa e della vergogna in psicopatologia suggeriscono che questi due specifici stati emozionali instaurino diversi rapporti con il coping, il quale a sua volta potrebbe influenzare il corso delle reazioni post-traumatiche.

Tangney, Wagner e Gramzow (1992) hanno studiato i diversi effetti che la colpa e la vergogna possono suscitare, individuando due separati gruppi di sintomi: l’oggetto della colpa riguarda una specifica azione commessa e si accompagna al rimorso o rimpianto e una sensazione di tensione che spesso agisce come motivazione per un gesto riparativo, mentre l’oggetto della vergogna riguarda il sé e la cattiva azione viene vissuta come proiezione di un sé negativo, accompagnato da sentimenti di inadeguatezza e impotenza.

Alla vergogna è associato un coping di evitamento mentre alla colpa è associato un coping operativo focalizzato sul problema.

Si pensa quindi che gli specifici stati emozionali della colpa della vergogna portino il soggetto a mettere in atto strategie di coping che ricalcano rispettivamente i fenomeni intrusivi e di evitamento caratteristici del Disturbo da Stress Post Traumatico.

Studi di natura correzionale hanno messo in evidenza come i diversi stili di attribuzione possono costituire un fattore di vulnerabilità individuale significativo.

Personalità e vulnerabilità al Disturbo da Stress Post Traumatico

Il modello proposto da Horowitz nel 1986 enfatizza la natura degli schemi del sé e del mondo preesistenti all’esperienza del trauma che risultano incompatibili con le nuove informazioni traumatiche.

In questo modello esplicativo, il Disturbo da Stress Post Traumatico è visto come una conseguenza del fallimento della capacità dell’individuo di integrare l’informazione traumatica con le consapevolezze su di sé, sul mondo e sulle altre persone consolidate in precedenza.

Il disturbo si manifesta quindi come una conseguenza del blocco di un normale processo di adattamento e di revisione degli schemi cognitivi preesistenti: questi aiutano infatti a selezionare, elaborare ed esplicitare quegli aspetti comportamentali delle relazioni interpersonali, adeguati nelle diverse situazioni interattive.

Beck e Emery (1985) suggeriscono che gli stati d’ansia possono derivare dall’attivazione di “assunti disfunzionali”, cioè di un sottotipo di schemi che spiegano le condizioni che un individuo sente come necessarie per mantenere l’integrità e l’autostima. Queste convinzioni sono disfunzionali proprio perché sono rigide, inflessibili, assolutiste e troppo sommarie e possono costituire un fattore di vulnerabilità allo sviluppo di una condizione patologica.

Jones e Barlow (1990) si soffermano invece sulla “capacità di controllarsi” e su costrutti ansiosi nella determinazione di una reazione da stress: le origini dell’ansia possono risalire anche ad una vulnerabilità biologica allo stress geneticamente trasmessa ma rimangono sempre in primo piano le attribuzioni psicologiche di capacità di controllo e predittività della risposta biologica.

Infatti una condizione di allarme percepita come incontrollabile ed imprevedibile indurrà uno stato generalizzato di iperattivazione, ipervigilanza e attenzione selettiva per paura di un nuovo allarme.

Secondo quindi gli autori, è presente una doppia matrice di vulnerabilità, biologica e psicologica.

In seguito ai numerosi studi e ricerche effettuate in questo settore, è emerso che tratti di personalità come il nevroticismo possano predisporre -come avviene per lo sviluppo di depressione e di altri disturbi d’ansia- allo sviluppo di un Disturbo da Stress Post Traumatico relativamente grave e duraturo.

È plausibile anche che tratti antisociali possano anche dare origine ad un aumentato rischio di trauma e aumentare pertanto la sensibilità dei soggetti.

Fattori di personalità che influenzano il decorso o l’espressione del disturbo post-traumatico

Esiste una potenziale sovrapposizione tra “personalità” e concetti di coping style così come tra locus of control e stili attributivi e numerose ricerche si sono indirizzate in questo senso.

Per esempio Williams (1989) ha proposto una teoria cognitivo-comportamentale del Disturbo da Stress Post Traumatico cronico, centrata sui fattori che alimentano il disturbo negli individui traumatizzati; è stato suggerito che le attitudini negative agli stati emozionali potrebbero condurre a forti tendenze evitanti che bloccano l’elaborazione dell’informazione del trauma.

Questa teoria si rifà ai concetti di information-monitoring proposti da Miller (1980) ed al modello dei “repressori/sensibilizzatori” di Weinberger, Schwartz e Davidson (1979) per indicare i tipi di personalità vulnerabili al mantenimento di una “disfunzione” cronica mediata dall’ipercontrollo e dall’evitamento.

Il modo di attribuire un significato agli eventi può aggravare la vulnerabilità biologica rendendo gli eventi più stressanti o le risposte di ansia incontrollabili ed imprevedibili.

La personalità può influenzare anche le strategie di coping e facilitare un decorso ed una prognosi favorevoli.

Flach nel 1990 discute il concetto di resilience (capacità di recupero) in relazione alla capacità di sopravvivere ad un trauma. La resilience è definita come la capacità di recupero psicobiologico data dalla giusta miscela di elementi psicologici, biologici ed ambientali che permette agli esseri umani di attraversare periodi di caos associati necessariamente a periodi significativi di stress e cambiare favorevolmente. È quindi un processo interattivo ed è facilitato dalla presenza di alcune caratteristiche di personalità come un’autostima flessibile e la capacità di apprendere dall’esperienza.

Il Disturbo da Stress Post Traumatico si colloca dunque in una prospettiva multifattoriale, che vede l’interfacciarsi di fattori di personalità, stili cognitivi, elementi del contesto; la vittimologia si prefigge proprio l’obiettivo di studiare le complesse interazioni tra i vari fattori in un’ottica preventiva.

Qual è la traccia molecolare della meditazione e dello yoga? Cambiamenti dell’espressione genica attraverso interventi mente-corpo

Gli interventi mente-corpo producono effetti benefici sia in popolazioni cliniche che sane, tali effetti si riscontrano in tutte le tipologie di intervento, sia in quelle dinamiche con una componente fisica evidente come lo yoga e il Tai Chi, sia in quelle più statiche come la mindfulness, la meditazione e le tecniche di regolazione del respiro.

 

E’ stato dimostrato che gli interventi mente-corpo producono effetti benefici, soprattutto a livello di percezione dello stress, sia in popolazioni cliniche che sane. Tali effetti si riscontrano in tutte le tipologie di intervento, sia in quelle dinamiche con una componente fisica evidente come lo yoga e il Tai Chi, sia in quelle più statiche come la mindfulness, la meditazione e le tecniche di regolazione del respiro.

I benefici psicologici, soprattutto per le popolazioni cliniche, sono molteplici e si manifestano attraverso la riduzione dello stress (Chiesa & Serretti, 2009), della depressione (Piet & Hougaard, 2011), dell’ansia (Strauss, Cavanagh, Oliver & Pettman, 2014) e di patologie mediche croniche (Bohlmeijer, Prenger, Taal & Cuijpers, 2010). A livello neurale, la letteratura suggerisce che questi interventi incrementano la materia grigia delle aree cerebrali coinvolte nell’apprendimento, regolazione delle emozioni, processi autoreferenziali e memoria (Lazar et al., 2005; Vestergaard-Poulsen et al., 2009).

Interventi mente-corpo: gli effetti di yoga e meditazione a livello molecolare

Ma cosa accade a livello molecolare? Ci sono i cambiamenti nell’espressione genica? A questo quesito ha risposto una ricerca pubblicata recentemente su Frontiers in Immunology, la quale ha dimostrato che la meditazione, lo yoga o il Tai Chi non servono solo a rilassarci ma producono “un’inversione” delle reazioni molecolari nel nostro DNA.

Gli autori hanno esaminato una rassegna di studi sul tema, individuandone 18 specifici sulla correlazione tra interventi mente-corpo e cambiamenti molecolari evidenziabili nell’espressione genica. Come risaputo, i geni attivati producono delle proteine che influenzano il funzionamento biologico del corpo, della mente e del sistema immunitario.

Quando esposti ad un evento significativamente stressante, il sistema nervoso simpatico (principalmente implicato nella risposta di “attacco-fuga”) si attiva e produce una molecola detta fattore nucleare kappa B (NF-kB) che modula l’espressione genica. A sua volta, tale molecola determina una produzione di proteine chiamate citochine, che sono alla base dell’infiammazione a livello cellulare. Questo processo è utile in situazioni di pericolo in cui è richiesta una reazione di attacco-fuga, ma se persistente e duraturo può determinare varie patologie tra cui il cancro e disturbi psichiatrici come la depressione.

Chi pratica interventi che agiscono sia sulla mente che sul corpo, come la meditazione e lo yoga, riesce a invertire il processo sopra descritto attraverso l’inibizione del NF-kB e, di conseguenza, del coinvolgimento del sistema nervoso simpatico producendo l’effetto “rilassante” tanto associato a queste pratiche.

Concludendo, nonostante la diversità dei disegni di ricerca, popolazioni e tipologie di interventi indagati nei diversi studi passati in rassegna, i risultati dimostrano che gli interventi mente-corpo producono dei benefici fisici e psichici che originano da cambiamenti biologici a livello dell’espressione genica che coinvolgono il fattore NF-kB.

Ovviamente è fondamentale ampliare i dati di ricerca tenendo sotto controllo anche altre variabili che potrebbero contribuire al risultato emerso, come l’esercizio fisico, l’alimentazione adeguata e la buona qualità del sonno

Le reazioni dei professionisti della salute mentale al suicidio del paziente

Il suicidio di un paziente, oltre ad essere un evento stressante per il terapeuta che lo ha in cura, è stato anche stimato essere un evento piuttosto frequente per i vari professionisti della salute mentale. Si parla appositamente di professionisti della salute mentale in quanto non possiamo fare riferimento solamente a psicologi, psichiatri e psicoterapeuti (anche se in questa sede verranno prese in considerazione le loro reazioni), ma dobbiamo includere anche infermieri, operatori sociali e tutti coloro che in quanto professionisti si trovano a contatto con i pazienti (Farberow, 2005).

Sara Bui, OPEN SCHOOL SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE

 

Abbiamo sottolineato che si tratta di un evento piuttosto frequente, ma in realtà i dati che la letteratura riporta a tal proposito non sono univoci: si passa da una stima del 25% di terapeuti i cui pazienti decidono di suicidarsi (Brown, 1987) ad una del 50-70% (Foley & Kelly, 2007), fino ad arrivare all’80% riferito da Landers e colleghi nel 2010.

Il primo autore a prendere in considerazione le reazioni dei terapeuti di fronte al suicidio di un paziente è stato Litman il quale, nel suo articolo del 1965, spiega le emozioni più comuni provate dai professionisti in questa situazione. Negli anni seguenti viene riconosciuta l’importanza dell’autopsia psicologica (Shneidman, 1969) e si sviluppa negli Stati Uniti anche il Movimento Sopravvissuti al Suicidio promosso dal libro Survivors Suicide Di Cain (1972). L’argomento continua ad avere una buona risonanza non solo in America, ma anche in Europa, nonostante ciò, tuttavia, McIntosh (1996), dopo un’accurata revisione della letteratura, afferma che l’impatto del suicidio del paziente nel terapeuta è ancora un fenomeno poco conosciuto. In seguito vengono pubblicati altri studi (Hendin, Lipshitz, Maltsberger, Pollinger Haas & Wynecoop, 2000; Hendin, Lipshitz, Maltsberger, Pollinger Haas & Wynecoop, 2004) nei quali non solo si analizzano le reazioni e le emozioni esperite dai professionisti ma si indagano anche le differenze in base al genere e agli anni di carriera e quindi anche di esperienza.

Per quanto riguarda le caratteristiche dei pazienti che ricorrono al suicidio, Landers e colleghi (2010) riferiscono che si tratta soprattutto di maschi con un’età compresa tra i 17 e i 30 anni. La diagnosi più comune tra questi pazienti era Depressione Maggiore, ma frequenti anche doppie diagnosi di disturbo mentale con abuso di alcool o sostanze. La maggior parte dei suicidi sono avvenuti per impiccagione, ma frequenti anche i casi di annegamento, ed è stato riportato che i pazienti sono ricorsi al suicidio più frequentemente a casa propria (44%), piuttosto che in ospedale (8%).

Per quanto riguarda le terapie, invece, viene sottolineato che la percentuale più elevata di suicidi è stata commessa da pazienti che avevano abbandonato o terminato un percorso terapeutico, per cui non erano più seguiti da un professionista (Yousaf, Hawthorne & Sedgwick, 2002) , anche se sono stati rilevati casi di pazienti suicidati durante le terapie (Landers et all., 2010).

Le principali reazioni dei professionisti al suicidio di un paziente

Spesso si parla di “sopravvissuti al suicidio” facendo riferimento solamente ai membri della famiglia del suicida o al coniuge, in realtà tale appellativo sottintende tutti gli individui che vengono profondamente colpiti dalla perdita della persona in questione. Dato che i professionisti che hanno in terapia un paziente possono anch’essi rimanere profondamente colpiti dal suicidio dello stesso, si può estendere tale appellativo anche a loro (Jobes, Luoma, Hustead & Mann, 2000).

In linea generale, possiamo affermare che il suicidio di un paziente può avere delle importanti conseguenze per il professionista che lo aveva in cura, sia a livello personale, che professionale (Rothes, Scheerder, Van Audenhove & Hanriques, 2013).
Landers e colleghi (2010) hanno sottolineato che il 97% dei professionisti da loro intervistati aveva dichiarato di aver avuto delle notevoli ripercussioni in seguito all’evento, evidenziando così che si tratta di situazioni da non sottovalutare.

Partendo dal presupposto che “pochi eventi nella pratica clinica generano un senso di fallimento e di colpa come il suicidio di un paziente” (Grad, 1996), possiamo individuare le reazioni a livello personale più comuni nelle seguenti emozioni: shock, rifiuto, confusione e incredulità, le quali sono poi seguite da profonda tristezza e dolore. Possono inoltre essere presenti rabbia, colpa e vergogna. Come sottolineava Miller (1985), la colpa e la vergogna sono emozioni dai confini molto sottili e labili, per cui sono molto difficili da distinguere e si può passare molto velocemente da una all’altra. Tuttavia, la vergogna si presenta quando sperimentiamo il senso di fallimento, di inadeguatezza e vi è quindi anche una diminuzione dell’autostima, mentre la colpa si manifesta quando riteniamo che una nostra azione (o una nostra mancata azione) possa aver provocato un danno ad altri individui. La rabbia, invece, può essere rivolta al paziente stesso, ai familiari, alla polizia o a se stessi (Farberow, 2005).

Per quanto concerne il piano professionale, invece, i professionisti possono esperire un senso di fallimento di responsabilità, perdita dell’autostima, dubbi riguardo le proprie capacità e la propria competenza, paura di essere accusato del suicidio di un paziente e timore di ricevere critiche dai colleghi (Farberow, 2005).

Landers e colleghi (2010), hanno individuato dei fattori che possono contribuire alla maggiore intensità delle reazioni emotive dei professionisti: innanzitutto il fatto che il paziente fosse attualmente in cura o che comunque avesse avuto una recente valutazione da parte del professionista, altro aspetto rilevante riguarda la reazione dei familiari all’evento, il tutto diventa ancora più doloroso e con conseguenze ancora più gravose per il terapeuta nel caso in cui il paziente suicida avesse un bambino. Gli ultimi due fattori esaminati sono l’imprevedibilità del suicidio e le reazioni negative da parte non solo dei familiari, ma anche da parte dello staff medico e dei media.

Una differenza importante nelle reazioni conseguenti al suicidio di un paziente è stata trovata in base al sesso del professionista che lo aveva in cura: nonostante le emozioni provate siano le stesse, è stato evidenziato che le donne le esperiscono in misura maggiore degli uomini (Rothes et all., 2013) e che mettono maggiormente in dubbio le loro competenze professionali rispetto agli uomini, avendo così ripercussioni maggiori sull’autostima (Wurst, Mueller, Petitjean, Euler, Thon, Wiesbeck & Wolfersdorf, 2010).

Inoltre è stato sottolineato che anche gli anni di esperienza influiscono sull’intensità, benché le emozioni provate rimangano le stesse: i professionisti con pochi anni di esperienza, o che addirittura si stanno ancora specializzando, rimangono maggiormente colpiti dal suicidio di un paziente, soprattutto per quanto concerne la perdita di fiducia nelle proprie capacità professionali (Farberow, 2005).

Vari autori (Kayton & Freed, 1967; Grad, Zavasnik & Groleger, 1997; Farberow, 2005) hanno inoltre cercato di capire se il contesto di lavoro (pubblico o privato, singolo o di gruppo) potesse in qualche modo influire sul vissuto dei terapeuti. Kayton et all. (1967), per esempio, hanno trovato che le reazioni dei professionisti che lavorano in ospedale sono le stesse di coloro che vedono i pazienti nel loro studio privato. Sono però interessanti le reazioni degli altri pazienti del reparto: oltre a shock e incredulità, tali pazienti mostravano anche una grande rabbia nei confronti di tutto lo staff medico per non aver protetto e aiutato nel modo migliore il suicida. Altro setting analizzato è stato quello di gruppo, nel quale sono emerse, per il clinico che conduceva il gruppo, le stesse reazioni degli altri contesti. Anche in questo caso, tuttavia, meritano un’analisi le reazioni degli altri membri del gruppo, le quali sono le stesse manifestate dal professionista e l’intensità dipende da quanto tempo il gruppo si era formato; tuttavia le reazioni del terapeuta risultano essere più intense ed hanno quindi anche un ruolo più importante all’interno del setting di gruppo (Farberow, 2005).

Aiutare i professionisti dopo il suicidio di un paziente

Dopo aver analizzato le numerose e importanti conseguenze negative che il suicidio di un paziente può avere nei confronti del professionista che lo aveva in cura, appare ancora più evidente la necessità di non “abbandonare” tali professionisti, e di trovare quindi il modo migliore per aiutarli ad affrontare questa delicata situazione.

Negli Stati Uniti sono stai sviluppati dei protocolli proprio per aiutare i vari professionisti della salute mentale a gestire tali situazioni (Farberow, 2005), tuttavia la maggior parte dei terapeuti afferma di non essere a conoscenza di tali protocolli o, coloro che li conoscono, sostengono che non siano di grande aiuto (Landers et all., 2010).

Molti ospedali e cliniche hanno sviluppato delle procedure riguardo il trattamento e le modalità di gestione dei pazienti con ideazione suicidaria, tali procedure prevedono la valutazione del rischio, un piano di trattamento, vari livelli di osservazione, una documentazione specifica e redatta frequentemente etc., il punto fondamentale però è il fatto che non siano incluse informazioni né sulla probabilità del verificarsi dell’evento, né sull’impatto che il suicidio potrebbe avere a livello sia personale che professionale su tutto lo staff (Farberow, 2005).

Su internet, invece, è possibile per i terapeuti trovare un adeguato aiuto attraverso due website specifici, uno sviluppato dall’American Association of Suicidology nel 1997 e l’altro dalla American Foundation for Suicide Prevention. Il primo ha come obiettivo non solo quello di diffondere la conoscenza e la consapevolezza delle conseguenze del suicidio di un paziente per il professionista che lo aveva in cura, ma anche di fornire il supporto necessario a tali professionisti per affrontare la situazione che stanno vivendo. Nel secondo, invece, vengono spiegate non solamente le reazioni più comuni dei clinici, ma anche in che modo tale evento potrebbe modificare la loro condotta professionale. Viene inoltre affrontata la possibilità di chiedere aiuto ai colleghi, nonché l’esperienza di incontrare i familiari del suicida dopo la morte.

Concludiamo sottolineando che, il fatto di aiutare i professionisti ad affrontare i problemi personali e professionali conseguenti al suicidio di un paziente, può rivelarsi un aiuto non solo per il professionista stesso, ma anche per tutti i futuri pazienti che avranno bisogno di essere presi in carico da un professionista della salute mentale (Farberow, 2005).

Il modello dell’evitamento fobico nella lombalgia cronica

Il modello dell’ evitamento fobico, sviluppato e messo a punto da Vlaeyen e colleghi nel corso degli ultimi anni (2000) spiega, attraverso un approccio cognitivo comportamentale, il motivo per cui alcuni soggetti sviluppano dolore cronico a seguito di un attacco acuto di lombalgia. E’ possibile comprenderne il funzionamento a partire dai concetti di paura ed ansia.

Il modello biopsicosociale che spiega la lombalgia

Episodi di lombalgia acuta vengono stimati con un’incidenza di circa il 70-85% all’interno della popolazione generale. Di questi, dal 5 al 12% si trasformano in dolori cronici. Il dolore lombare è una delle cause più comuni di disabilità e limitazione della vita quotidiana, e viene rilevata come il secondo motivo più frequente di visite specialistiche fisiatriche.

Il modello biomedico tradizionale, focalizzato sulle anomalie strutturali e biomeccaniche sembra non essere sufficiente per spiegare il dolore cronico e le sue conseguenze debilitanti, mentre sta ottenendo maggiori risultati il ricorso ad una spiegazione di tipo biopsicosociale (Waddell, 2004a/b).

Il modello dell’ evitamento fobico per spiegare la lombalgia

Vari studi trasversali indicano una forte associazione tra fattori psicologici e prevalenza di lombalgia, tra cui rientrano ansia, depressione, somatizzazioni, carichi di responsabilità, insoddisfazione lavorativa, immagine del corpo negativa e scarsa autostima (Andersson, 1999).

Tuttavia, uno dei fattori psicologici che ha ricevuto maggior attenzione nel caso della permanenza del dolore cronico è la paura, ed in particolar modo il fenomeno noto come evitamento fobico.

Il modello dell’ evitamento fobico, sviluppato e messo a punto da Vlaeyen e colleghi nel corso degli ultimi anni (2000) spiega, attraverso un approccio cognitivo comportamentale, il motivo per cui alcuni soggetti sviluppano dolore cronico a seguito di un attacco acuto di lombalgia.
E’ possibile comprenderne il funzionamento a partire dai concetti di paura ed ansia.

La paura è una reazione emotiva a specifici stimoli, giudicati come minacciosi. La paura protegge gli individui dal pericolo e si associa ad una risposta di attacco o fuga (Cannon, 1929). Il comportamento difensivo di fuga riduce i livelli di paura nel breve termine, ma può rafforzare la paura nel lungo periodo. La fuga, infatti, non consente di disconfermare le credenze ansiogene rispetto ad un certo stimolo. Evitando ciò che fa paura, non ci si confronta mai con esso e con i suoi reali effetti e conseguenze. Questo comportamento si associa ad uno stato di ansia e ipervigilanza, che si verifica quando i soggetti si impegnano in una continua “scansione” dell’ambiente in cerca di segnali di minaccia e pericolo.

Applicando queste conoscenze di base al caso del dolore cronico lombare, Vlaeyen e colleghi (2000) definiscono la paura e l’ansia correlate al dolore come la paura che emerge quando uno stimolo viene associato ad un’esperienza di dolore e di minaccia per la salute. Le risposte di ansia e paura comprendono elementi psicofisiologici (ad es. alta reattività e tensione muscolare), comportamentali (reazione di attacco o fuga) e cognitivi (come ad esempio la catastrofizzazione). Esistono varie tipologie di paure ed ansie legate al dolore cronico: la paura del dolore, la paura di svolgere attività che possono associarsi al dolore, la paura di eseguire movimenti che possono provocare dolore, e la paura di incorrere in una nuova lesione.

Il modello dell’ evitamento fobico spiega che il modo in cui viene interpretato il dolore comporta differenti modalità di reazione allo stesso. Quando il dolore acuto viene percepito come non minaccioso, i pazienti hanno maggiori probabilità di proseguire nello svolgimento delle loro attività quotidiane e movimenti, promuovendo implicitamente la guarigione e/o il miglioramento del sintomo. Per contro, i pensieri ansiogeni e le interpretazioni catastrofiche del dolore possono innescare circoli viziosi negativi. Queste credenze possono dar luogo alla paura del dolore ed associarsi a comportamenti di evitamento protettivi, nonché all’aumento della vigilanza sul proprio corpo, al proprio stato di dolore e ai movimenti da svolgere.

Sebbene ciò comporti sollievo nel breve termine, con l’andare del tempo, la sedentarietà e l’auto-limitazione di movimento comportano maggiori gradi di disabilità ed una soglia sempre più bassa di tolleranza al dolore.
Il ruolo dell’intensità del dolore appare ancora non totalmente chiaro. Mentre alcuni studi concludono che l’intensità del dolore non sembra il fattore primario nel provocare il comportamento di evitamento e la disabilità (Vlaeyen et al., 2000), altre ricerche rilevano una considerevole correlazione tra intensità del dolore e grado di evitamento e disabilità (Eccleston et al., 1999).

In linea con tali risultati contrastanti e multisfaccettati, recenti ricerche dimostrano che nel trattamento della lombalgia cronica si riveli maggiormente efficace il ricorso a trattamenti individualizzati e multidisciplinari, in grado di combaciare con le specifiche caratteristiche psico-fisiologiche dei pazienti (Vlaeyen et al., 2005).

Le linee guida internazionali per il trattamento della lombalgia cronica, attualmente prevedono l’uso combinato di farmacoterapia (in prima linea paracetamolo e analgesici oppioidi), terapie fisioterapiche, mobilizzazioni e manipolazioni, strategie di rilassamento e terapie cognitivo comportamentali. (Blodt et al., 2014).

Le risposte di rilassamento possono essere promosse attraverso l’applicazione di pratiche mindfulness e di training autogeno (Kabat-Zinn, 1985; Schultz, 1959).

Attraverso la terapia cognitivo comportamentale, i pazienti vengono incoraggiati a notare i collegamenti tra i loro pensieri e le risposte emotive al dolore, attraverso l’uso di strumenti di automonitoraggio. Le modalità di reazione disfunzionali ed irrazionali vengono discusse attraverso colloqui psicologici. Questo approccio mira ad identificare le distorsioni cognitive presenti nei pazienti, modificarle e sostituirle con pensieri più appropriati e funzionali al ripristino del benessere e dell’aderenza ai programmi fisioterapici.

 

L’intervento dello psicologo tra i banchi di scuola

Lo psicologo scolastico diviene una risorsa e strumento verso una vera e propria trasformazione che comporta il maturare di una diversa forma mentis, cioè di un diverso modo di vedere e affrontare i problemi.

 

Abraham B. Yehoshuna, scrittore e docente di letteratura all’Università di Haifa, ha scritto queste parole in “Lettere ad un insegnante”:

L’importanza dell’insegnamento come figura educativa non dipende dal sistema scolastico bensì dalla capacità dello stesso di risvegliare le coscienze degli alunni riguardo a interrogativi morali.

Queste parole, sono utili per comprendere meglio il significato della presenza dello psicologo scolastico e la valenza del suo operato.

Le relazioni interpersonali tra i banchi di scuola

Il ricordo va a figure che esercitavano con la loro professionalità, passione e competenza, trasmettendo ai loro studenti apprendimenti preziosi e messaggi relazionali, affettivi ed esperienziali che spesso sono rimasti più o meno efficaci per tutta la vita.

Lo spazio della lezione, diveniva un “contenitore” (Bion, 1962) per un apprendimento che non si esauriva in un mero nozionismo ma abbracciava la realtà e la vita di ognuno.

Il periodo scolastico, viene vissuto come periodo formativo non solo nel acquisire nozioni cioè il “sapere accademico” ma una spazio personale dove “imparare a pensare”. In questo spazio, la relazione con l’altro diviene risorsa e strumento irrinunciabile per la costruzione della personalità individuale e per la formazione delle competenze alla socializzazione.

In ogni processo formativo-educativo, l’acquisizione di nuovi contenuti è filtrata dalla relazione con l’altro, che guida e orienta il ragazzo nella sua crescita non solo intellettiva ma anche emotiva-affettiva.

La possibilità di costruire buone relazioni a scuola così in ogni contesto lavorativo, ha alla base processi che richiedono una crescita personale o un lavoro psicologico su se stessi. Queste considerazioni assumo importanza nell’attuale contesto politico-sociale, in quanto la scuola è stata soggetta a numerosi cambiamenti, nel nome dell’autonomia didattica e organizzativa delle singole istituzioni (legge n.59 15/03/1997 ) e la cosiddetta “Buona Scuola” (legge n. 107 14/01/2017 ) che prevede un potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro, nel garantire il diritto allo studio e crescita personale.

La varietà di nuove norme porta sempre più l’attenzione a sviluppare non solo una consapevolezza maggiore della complessità del compito educativo ma anche una grande e consapevole disponibilità al cambiamento, che consenta ad adeguare i propri interventi ai bisogni formativi.

Il ruolo dello psicologo scolastico

Lo psicologo scolastico diviene una risorsa e strumento, per attuare il sostegno e monitoraggio di tale processo, che non si presenta come cambiamento nella gestione a livello legislativo, bensì come una vera e propria trasformazione che comporta il maturare di una diversa forma mentis, cioè di un diverso modo di vedere e affrontare i problemi.

Negli ultimi anni si è registrato un bisogno sempre maggiore da parte della Scuola di interventi di Psicologia Scolastica. Questi interventi sono rappresentati sia dall’offerta di consulenza psicologica individuale per tutte le figure che operano all’interno della scuola: insegnanti, alunni, genitori; sia da attività pensate per il gruppo classe.

L’intervento dello psicologo scolastico è uno strumento che la scuola può usare per sviluppare l’efficienza nel raggiungimento dei propri obiettivi formativi, favorendo la promozione del benessere nel contesto scolastico.

La metodologia più indicata e diffusa è l’educazione socioaffettiva, finalizzata al potenziamento e allo sviluppo delle risorse personali e all’acquisizione delle competenze sociali (Francescato e Putton 1995).

In ambito scolastico fa riferimento a quella parte del processo psicoeducativo che si occupa di atteggiamenti, sentimenti, credenze ed emozioni degli studenti. Esso implica una attenzione allo sviluppo personale e sociale degli allievi e alla promozione della loro autostima, sottolineando l’importanza di offrire sostegno e guida agli studenti, migliorando la conoscenza di sé e del proprio gruppo classe. L’educazione socioaffettiva è un intervento che facilita la comunicazione tra i membri, promuovere comportamenti di collaborazione, solidarietà, mutuo rispetto, riconoscimento ed accettazione delle differenze.

Essa è utilizzata anche per la formazione degli insegnanti, ad esempio attraverso il “metodo Gordon” che si propone di favorire un’efficace relazione tra insegnante e allievo .

Un altro metodo dell’educazione socioaffettiva,  è il “circle time”, usata con gli alunni nelle classi. È un intervento di gruppo, mirato a favorire il rapporto tra i componenti del gruppo classe e la loro conoscenza reciproca.

Le funzioni principali dello psicologo scolastico, mediante l’educazione socioaffettiva, sono:

  • Promuovere il benessere psico-fisico di studenti e insegnanti;
  • Promuovere negli studenti la motivazione allo studio e la fiducia in se stessi;
  • Costruire un momento qualificante per la prevenzione del disagio evolutivo e dell’abbandono scolastico;
  • Favorire il processo di orientamento;
  • Favorire la cooperazione tra scuola e famiglie;
  • Costituire un’opportunità per realizzare le pari opportunità di istruzione.

Generalmente gli interventi proposti nell’ambito della psicologia scolastica possono essere:

  • Sportello di ascolto psicologico con colloqui individuali per ragazzi, insegnanti, e famiglie. Lo sportello di ascolto e’ uno spazio in cui i diversi utenti possono esprimere i loro vissuti in totale libertà; è uno spazio nel quale si propone il colloquio di counselling, ovvero un tipo di intervento psicologico di breve durata rivolto a persone che non presentano gravi situazioni di psicopatologia.
  • Orientamento scolastico. L’obiettivo è relativo alla scelta del percorso scolastico da intraprendere dopo la terza media è spesso vissuto come un problema molto complesso. I ragazzi sono chiamati in questo periodo della loro vita a prendere una decisione importante circa il loro futuro scolastico/professionale. Nella “scelta” entrano in gioco numerosi e diversi fattori esterni o sociali (situazione economica, andamento del mercato del lavoro, influenza della famiglia e dei mass media) e fattori interni o psicologici (interessi, attitudini, motivazione, caratteristiche di personalità) strettamente connessi fra loro. Da ciò, la necessità di offrire ai ragazzi, che si trovano ad affrontare il problema della scelta di un percorso scolastico/professionale, un supporto orientativo finalizzato a fornire loro quegli strumenti cognitivi, emotivi e relazionali che consentono loro di “auto-orientarsi” e quindi di decidere il percorso più adatto per raggiungere le mete scolastiche o professionali che si sono prefissati. L’intervento dello psicologo scolastico prevede l’utilizzo del colloquio e test orientativi che fornisce al ragazzo una più approfondita conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie potenzialità; e accompagnare e sostenere il ragazzo e la famiglia nel processo decisionale di scelta della scuola superiore.
  • Corsi formativi per genitori ed insegnanti relativi a diverse tematiche di natura pedagogica-psicologica, come ad esempio approfondimenti rispetto alle dinamiche psicologiche del preadolescente e dell’adolescente, alla gestione della relazione educativa, agli aspetti comunicativi, ect.
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