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Dal corpo alla mente: a Catania un seminario internazionale sugli approcci bottom-up in psicoterapia – Report dall’evento

Lo scorso 7 Luglio a Catania si è svolto Vulcanica…mente, seminario scientifico internazionale che si svolge ogni anno nella città siciliana e quest’anno incentrato sul rapporto corpo-mente e sulle tecniche psicoterapeutiche che, a partire dai sintomi di natura somatica, dimostrano la loro efficacia sul funzionamento cognitivo.

 

Si è svolto lo scorso 7 Luglio presso la sede della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania Vulcanica…mente, seminario scientifico internazionale che si svolge annualmente a Catania e quest’anno incentrato sul rapporto corpo-mente e sulle tecniche psicoterapeutiche che, a partire dai sintomi di natura somatica, dimostrano la loro efficacia sul funzionamento cognitivo.

L’esigenza da cui è partito il seminario è stata quella di scardinare il luogo comune secondo cui l’approccio cognitivo al funzionamento della mente è da considerarsi intellettualistico, così da relegare in secondo piano le emozioni, e ricordo in proposito l’importanza attribuita da Guidano e Liotti alle emozioni – spiega Tullio Scrimali, Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Catania. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva Aleteia di Enna e organizzatore del seminario – Ecco perché questo seminario riguarda gli approcci bottom-up alla psicoterapia, che attribuiscono rilevanza al corpo nel suo stretto rapporto con la cognizione, come il biofeedback.

Dal corpo alla mente gli approcci bottom-up in psicoterapia - Report dal seminario -Tullio Scrimali

Il Prof. Tullio Schimali durante il seminario “Dal corpo alla mente”

In questa direzione si è mosso l’intervento di Damiana Tomasello, Docente Aleteia, che ha illustrato il ruolo del biofeeback nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione.

Posto che esiste un’associazione forte tra ansia, stress e alimentazione e che lo stato ansioso costituito dalla presentazione del cibo che si ritiene ingrassante inibisce la sua assunzione, l’utilizzo del biofeedback risulta molto utile poiché, aumentando l’autoregolazione emotiva e di fatto abbassando i livelli di ansia, permette l’alimentazione anche dopo la presentazione del cibo temuto, come una merendina. Inoltre è utile avvalersi di telecamere all’interno del setting clinico per fornire una visione più obiettiva di se stessi e facilitare la ristrutturazione cognitiva dell’immagine corporea.

L’intervento terapeutico nei casi di traumi, con l’utilizzo di apposite tecniche come lo Yoga, è stato l’oggetto del workshop tenuto da Cecilia La Rosa del Centro Clinico De Sanctis di Roma.

E’ noto che il trauma porta memorie emotive che si sedimentano nel corpo: basti pensare alle vittime di abuso sessuale che mostrano reazioni fisiche di terrore ed evitamento dei rapporti sessuali. Il corpo si attiva prima, ricorda i traumi del passato prima ancora di raccontare il trauma stesso, per cui è un’utile alleato nel processo di risignificazione mentale dell’esperienza. Da qui l’importanza di un lavoro terapeutico sull’osservazione del corpo: così al paziente si segnalano i movimenti che compie durante il racconto, come l’arretrare quando rievoca uno scippo. E’ prioritario rispetto al racconto provvedere a mettere il paziente in condizioni di “sicurezza nervosa”: qualora l’arousal fosse troppo elevato da impedire il racconto è necessario infatti un trattamento farmacologico per calmare il sistema nervoso autonomo e abilitare le funzioni riflessive e narrative.

Un’attenzione al corpo e ai “segnali” che esso invia, da usare come strumento utile ai fini diagnostici e che ha portato il prof. Scrimali allo sviluppo del MindLAB Set, pensato per operare il monitoraggio di parametri psicofisiologici in ambito psichiatrico e psicologico nel contesto di tecniche di auto-osservazione e psicoeducazione, e all’interno di programmi psicoterapeutici.

Il MindLAB Set è stato ideato e sviluppato per il monitoraggio dell’attività elettrodermica e per fornire un’informazione di ritorno continua al paziente (biofeedback) di tale attività, tramite per esempio informazioni visive sincroniche, relative a quanto sta accadendo nel singolo istante – sottolinea Scrimali – La mia idea è quella di portare le neuroscienze nella stanza di terapia; in quest’ottica è in via di perfezionamento il NeuroLAbset con cui porteremo nella stanza del clinico l’attività elettroencefalografica, in modo da monitorare l’attività del cervello e supportare la diagnosi e l’intervento attraverso le rilevazione dei ritmi cerebrali, come le onde teta, riscontrabili nei casi di psicosi.

Lion: la strada verso casa, un film sull’adozione (2016) – Recensione

Lion è un film che cattura ed emoziona. Gli occhi di Saroo bambino ci raccontano della sua solitudine e del suo smarrimento ma contemporaneamente anche della sua tenacia e della sua voglia di combattere.

 

Titolo originale: Lion – Un film di Garth Davis. Con : Dev Patel, Nicole Kidman, Rooney Mara, David Wenham – Drammatico – Australia, Stati Uniti – 2016

Trama del film Lion

Il film è tratto dall’autobiografia di Saroo Brierley “A long way home”.

Saroo vive in India centrale in condizioni molto povere insieme al fratello maggiore, a una sorella minore e alla madre. Un giorno Saroo chiede di accompagnare suo fratello Guddu al lavoro: viene lasciato per qualche ora su una panchina in una stazione ferroviaria non distante dal villaggio natale e si addormenta. Al risveglio, si ritrova completamente solo: comincia a cercare forsennatamente il fratello e, per sbaglio, sale su un treno che non farà alcuna sosta e lo condurrà a Calcutta, una città lontana circa 1600 km dal suo paese d’origine.

Nella metropoli, il bambino si sente estremamente disorientato, non parla la lingua locale e quindi non riesce a spiegare a nessuno la sua situazione o a fare comprendere da quale posto provenga. Inizia a vivere per strada. Dopo molte peripezie e incontri sbagliati, il suo destino sarà l’orfanotrofio, dove lotterà ancora per sopravvivere. Un giorno all’interno dell’istituto un’assistente sociale gli dichiara che una famiglia australiana lo vorrebbe adottare. Il protagonista parte quindi per Hobart, in Tasmania.

All’età di 25 anni, Saroo vive a Melbourne ed è uno studente universitario. Ma non ha dimenticato la sua famiglia d’origine e attraverso Google Earth inizia la ricerca del suo villaggio natale per ritrovare sua madre e i suoi fratelli.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Motivi di interesse

Il film è diviso in due parti: la prima che racconta delle avventure dell’infanzia di Saroo e di un’India piena di ambivalenze e contradditorietà; la seconda che descrive la scissione interna del protagonista diventato adulto.

Lion è un film che cattura ed emoziona. Gli occhi di Saroo bambino ci raccontano della sua solitudine e del suo smarrimento ma contemporaneamente anche della sua tenacia e della sua voglia di combattere.

La sua biografia si è spezzata: una situazione imprevista l’ha portato via dall’affetto dei suoi familiari da cui si è sempre sentito amato.
Il nome del fratello che il protagonista ripetutamente grida all’interno del treno, rappresenta uno dei momenti più strazianti del film.

Per tutta la prima parte del lungometraggio, Saroo continua ad aggrapparsi alla speranza che suo fratello e sua madre lo troveranno: ma questo non avverrà e piano piano accetterà l’idea di fare spazio a una nuova famiglia che si vuole prendere cura di lui.

Acconsentirà a farsi nuovamente amare da una madre – interpretata da Nicole Kidman – che avrebbe potuto avere figli, ma che invece ha preferito accogliere quei bambini che in un qualche angolo del mondo hanno bisogno di amore. In un momento molto toccante del film, la Kidman con le lacrime agli occhi rivela al protagonista: “Avremmo potuto avere figli nostri. Ma abbiamo scelto di non farlo. Abbiamo scelto te.”

La vita di Saroo nella “nuova” famiglia non sarà sempre facile, soprattutto dopo l’adozione del fratello – proveniente dal medesimo orfanotrofio – che richiederà molte attenzioni e cure da parte dei genitori e nei confronti del quale il protagonista avvertirà sentimenti contrastanti.

Lo sviluppo della pellicola attesta che in una biografia interrotta il richiamo alle origini può riecheggiare intensamente.
Così, dal semplice profumo di un cibo che gli rievoca la sua terra, Saroo comincia a ricordare. E ciò che aveva messo a tacere – seppur inconsapevolmente – riaffiora in modo violento, cambiando inaspettatamente il corso della sua esistenza.
Il giovane decide di ritrovare il suo villaggio attraverso il supporto di Google Earth. La ricerca non si rivela semplice: né da un punto di vista pratico, né da un punto di vista emotivo.

Il ragazzo sta male e si sente in colpa perché dall’altra parte del mondo qualcuno potrebbe ancora cercarlo e contemporaneamente soffre per la famiglia adottiva, perché sente di tradirla andando alla ricerca delle sue origini. Si chiude in se stesso, escludendo tutti gli affetti che lo circondano: dalla fidanzata, alla madre, al padre e al fratello adottivo. Il suo obiettivo diventa un’ossessione: non mangia, non dorme, sente solo di non poter fermarsi: perché capisce di non volere più essere sospeso in un costante stato di incompletezza.

La stessa sospensione che coinvolge lo spettatore per tutta la durata del film, dato che l’identificazione con il protagonista risulterà inevitabile.

La storia di Saroo dimostra che la “famiglia” non risiede solo dove esiste un legame di sangue. La famiglia è il luogo dove si viene accolti, amati, protetti a prescindere da chi ci ha messi al mondo.
Il sentimento di chi si prende cura per una vita di qualcuno, non cambia né si modifica. Quell’amore è per sempre: non ha tempo, non ha colore, non ha patria, non ha confini.

Per questa ragione, la madre adottiva di Saroo non si sente affatto tradita – come il figlio teme – quando le confessa di essere alla ricerca del suo villaggio natale: lei lo comprende e lo sostiene in un percorso che ritiene naturale e lo rassicura sul fatto che lo amerà per sempre.

Lion è un film importante che non può lasciare imperturbati: penetra, emoziona e si insinua nella mente di chi lo guarda sotto forma di quesiti profondi.

Tutte le notti sogno di ritornare da mia madre e di sussurrarle all’orecchio: sono qui”. Saroo ritroverà la strada di casa: la sua biografia potrà finalmente riprendere. E lo spettatore ricominciare a respirare.

Indicazioni di utilizzo

In un’adozione, tacere è più comodo per tutti, ma fa danni. Seppellisce le emozioni, ingigantisce le fantasie. […]I ragazzi non fanno domande. Per estrema lealtà verso il nucleo che li ha accolti o perché il filo del dialogo si è spezzato” (tratto da D.Repubblica.it, 21.04.2014, di Daniela Condorelli)

Il film permette di entrare sia nella prospettiva del genitore adottivo che in quella del figlio adottato. Ci dimostra che non è facile dialogare e affrontare determinate tematiche: le paure e i timori coinvolgono entrambe le parti. Ammettere di voler conoscere e ritrovare le proprie origini da parte del figlio è un passaggio importante e complesso quanto il supporto del genitore che dovrebbe riuscire ad assecondarne, al di là della minaccia del proprio ruolo, il cammino spesso fisiologico.

Coscienza e inconscio tra neuroscienze e cognitivismo

Coscienza e inconscio: Fascino e controversie, sull’onda di una ricerca che da secoli divide e sollecita continuamente nuove domande: la coscienza è da sempre oggetto di studio in molteplici ambiti, dalla filosofia alla psicologia, fino alle neuroscienze e alla scienza cognitiva. Per secoli l’uomo ha cercato di trovare un significato a quella parte di sé più peculiare e a tratti impenetrabile, per secoli esclusa dalle speculazioni scientifiche e infine accolta e studiata con lenti oggi nuove.

Valentina Carnevali, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

“La coscienza è l’ultima e la più tardiva evoluzione della vita organica,
e di conseguenza è ciò che vi è di meno compiuto e più fragile
F. Nietzsche

 

Il concetto di coscienza, spesso riferito a processi e contenuti mentali molto diversi tra loro, allude quindi a realtà apparentemente sfuggenti e difficilmente individuabili. Quando poi si guarda all’altro lato della sua complessità, ovvero la non consapevolezza o, per alcuni, l’inconscio, le controversie aumentano, così come il fascino che tali processi esercitano su studiosi e scienziati da oltre un secolo.

La coscienza tra filosofia e scienza: breve quadro introduttivo

In ambito filosofico il dualismo cartesiano mente/corpo ha relegato a lungo il mentale a una dimensione ontologica, impedendo che divenisse oggetto di studio da parte delle scienze naturali.

L’idea secondo cui l’uomo sarebbe costituito da due sostanze ontologicamente distinte, la rex extensa, ovvero la materia, dotata di estensione spaziale e di cui fanno parte i corpi (quindi anche il cervello) e la rex cogitans, sostanza inestesa dotata dell’attributo del pensiero, ha di fatto rallentato, se non impedito, lo studio della coscienza come fenomeno riducibile a eventi fisici. Nell’opera di Cartesio, infatti, la coscienza non può nascere dalla materia perchè rex extensa e rex cogitans, diverse nella sostanza e regolate da principi differenti, non possono essere ricondotte l’una all’altra, né possono essere spiegate l’una con l’altra. Di conseguenza, nella visione cartesiana e nelle varianti neo-cartesiane, gli stati coscienti della mente non corrispondono agli stati fisici del cervello. I contenuti di coscienza non sono quindi esplorabili con gli strumenti propri delle scienze naturali, ma solo seguendo la metodologia soggettiva dello “sguardo interiore” (cifra interpretativa che di fatto decreta l’impossibilità dello studio scientifico della coscienza).

Le correnti di pensiero filosofico che delegittimano lo studio della coscienza rifiutandone le prerogative causali (epifenomenismo) o addirittura negandone l’esistenza (eliminativismo) contestano poi qualsiasi validità degli studi empirici sull’argomento (Smith-Chuurchland, 1986). Nel materialismo eliminativista il concetto di coscienza viene rifiutato perchè le nostre esperienze fenomeniche (dette anche qualia) non si riferirebbero a una realtà esterna, valutabile oggettivamente, ma sarebbero il prodotto illusorio di resoconti soggettivi (Dennet, 1991). Secondo questa corrente di pensiero, quindi, la ricerca empirica non troverà mai le basi neurali dell’esperienza soggettiva perchè di fatto l’esperienza soggettiva non si riferisce a nessuna realtà sostanziale.

Quando all’inizio del ‘900 il mentalismo cartesiano e il dominio della coscienza si iniziarono a scontrare con fenomeni inconsci quali la grande isteria convulsiva, la fuga dissociativa, l’amnesia psicogena e il disturbo di personalità multiple (che sembravano esibire una natura mentale ma al tempo stesso trascendevano la sfera della consapevolezza), lo sconcerto di filosofi, psicologi e neuroscienziati si delineò con forza. Al fine di riconciliare l’esistenza di fenomeni mentali apparentemente inconsci con una visione coscienzialistica della mente, si misero a punto due strategie (Livingstone-Smith, 1999): alcuni studiosi negarono che si avesse a che fare con fenomeni realmente insconsci, definendoli piuttosto come casi in cui si era verificata una dissociazione o scissione della coscienza (teorie dissociazioniste), mentre altri negarono che i fenomeni in questione fossero autenticamente mentali, descrivendoli come disposizioni neurofisiologiche (teorie disposizioniste).

Anche in epoca moderna lo studio della coscienza non è stato sempre accettato e condiviso dagli studiosi di campi comunque coinvolti nelle ricerche sulla psiche. In ambito psicologico, l’approccio ancora soggettivo del metodo introspettivo proposto dalla Scuola di Wundt (1896) è stato bandito infatti dalla ricerca psicologica con l’avvento del Comportamentismo che, spinto da una necessità estrema di oggettivizzazione degli studi, respinge l’indagine privata di contenuti di coscienza perchè non documentabile e quantificabile con le tecniche proprie degli studi di laboratorio.

Coscienza e neuropsicologia

Tuttavia, anche se bandito dagli studi psicologici per un lungo periodo del secolo scorso, il problema di cosa sia la coscienza ha finito per imporsi in ambito neuropsicologico, in cui la ricerca attenta e sistematica dei disturbi cognitivi provocati dalle lesioni cerebrali ha cominciato a suscitare interesse. A partire dagli anni ’80 del XX secolo la coscienza ha così conquistato una propria dignità scientifica, in particolare all’interno delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia.

In particolare, in questi anni incominciano ad essere studiati e pubblicati casi di pazienti con lesioni cerebrali che presentano dei disturbi di consapevolezza motoria o spaziale apparentemente inspiegabili in base alla nozione di coscienza adottata dal senso comune. Si tratta di soggetti che, nonostante abbiano perso la capacità di movimento di una metà del corpo (emiplegia) o la capacità di percepire e concepire una metà dello spazio esterno (negligenza spaziale), si comportano come se non ne fossero consapevoli (anosognosia) (Berti et al., 2014).

Nel corso dei decenni sono state così portate alla luce numerose patologie della coscienza, quali il blindsight o visione cieca (Weiskrantz, 1986), la emisomatoagnosia (Bisiach, 1999), la sindrome della mano aliena (Biran e Chatterjee, 2004), l’embodiment (Garbarini et al., 2013) e la somatoparafrenia. Ciò che accomuna queste sindromi neuropsicologiche è il fatto di mostrare l’esistenza di disturbi della sfera della coscienza circoscritti all’interno di specifiche dimensioni cognitive (per esempio quella visiva, motoria o corporea), con network neuronali dedicati, rivelando che il concetto di coscienza alla base del sé non è unitario, ma multicomponenziale o modulare. Inizia a emergere così l’idea, in contrasto col senso comune che reputa la coscienza come dotata di una struttura unitaria e indivisibile, di molteplici coscienze distribuite ed emergenti ciascuna all’interno di una diversa funzione cognitiva: una lesione cerebrale circoscritta può quindi danneggiare la consapevolezza relativa a un certo processo senso-motorio, senza intaccare la coscienza per altri processi paralleli e concomitanti. Il senso di sé potrebbe dunque configurarsi proprio come il risultato dell’integrazione di queste diverse “coscienze parziali”.

Una sensazione così radicata della nostra autocoscienza, come il fatto che il nostro corpo è uno e sempre lo stesso, che si muove intenzionalmente in forza di questo senso di unicità e che abita uno spazio soggettivamente percepito come unico, in realtà non ha quindi una struttura unitaria e indivisibile, ma è il risultato di rappresentazioni multiple a livello spaziale e senso-motorio, che possono essere alterate in modo autonomo per effetto di lesioni cerebrali circoscritte. Ecco che dunque i paradigmi della scienza cognitiva dei processi di elaborazione dell’informazione risultano particolarmente indicati per mettere in luce un modello multicomponenziale della mente, che ben si adatta ad essere lesionato in modo circoscritto. Su questo tema si interrogano in un articolo Vittorio Gallese e Francesca Ferri (2014): gli autori discutono la possibilità che alla base dei disturbi dissociativi schizofrenici ci possa essere una alterazione del senso di sé corporeo e agente (predisposizione all’azione), una forma di distacco del sé dalle sue basi corporee somatosensoriali e motorie che porterebbe anche all’impossibilità dell’interazione sociale. Questa ipotesi sarebbe corroborata anche dai dati di diverse ricerche che dimostrano una alterazione delle rappresentazioni somatosensoriali (deficit di riconoscimento di proprie parti del corpo), motorie (deficit nel discriminare se movimenti osservati sono propri o altrui) e dolorifiche (riduzione della percezione dolorifica) nei pazienti schizofrenici.

Un’architettura neurocomputazionale compatibile col modello modulare della coscienza è quella del Global Workspace Theory – GWT – (Baars, 1997), che introduce anche il concetto di inconscio. In questa architettura il ruolo della coscienza è quello di facilitare lo scambio di informazioni tra processi cognitivi inconsci, specializzati e paralleli. Più recentemente questa teoria è entrata in simbiosi con la neuroscienza cognitiva soprattutto per merito di Dehaene e collaboratori (Dehaene e Naccache, 2011; Deahene e Changeux, 2004; Gaillard et al., 2009). Secondo questi ricercatori, nel cervello sono presenti due spazi computazionali, ognuno caratterizzato da una diversa trama di connettività. Il primo spazio è costituito da sottosistemi di elaborazione ipotizzati dalla GWT, ognuno dei quali è specializzato nel trattare un particolare tipo di informazione (per esempio, nella corteccia occipito-temporale l’elaborazione del colore ha luogo in V4, l’elaborazione del movimento in MT/V5, l’elaborazione dei volti nell’area fusiforme delle facce…). L’operare di questi elaboratori modulari si avvale di connessioni locali limitate di medio raggio. Il secondo spazio è la spazio di lavoro globale neuronale (per cui ora si parla di una Global Neuronal Workspace Theory, GNWT): esso è costituito da neuroni distribuiti, tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, particolarmente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regioni parietali. L’ingresso dell’informazione in questo spazio di lavoro sarebbe il correlato neuronale dell’accesso alla coscienza. Questo modello ha ricevuto una serie di importanti conferme sperimentali. In uno studio fRMI, Dehaene et al. (2006) hanno utilizzato il paradigma del priming di mascheramento per porre a confronto l’elaborazione lessicale inconscia con quella cosciente. Una parola veniva proiettata su uno schermo per poche decine di millisecondi, subito seguita da un’altra immagine (la maschera), che impediva al soggetto di percepire la parola a livello conscio. In genere, la parola diviene cosciente quando l’intervallo tra essa e la maschera è di circa 50 ms. I risultati hanno mostrato che le parole mascherate (inconsce) hanno indotto un’attività locale nelle parti della corteccia visiva deputate al riconoscimento di parole, mentre le parole visibili (coscienti) hanno generato un’intensa attività anche nei lobi parietale e frontale. Dunque, in accordo alla GNWT, l’elaborazione cosciente di informazioni recluta risorse cerebrali fortemente distribuite, mentre l’elaborazione inconscia è più localizzata.

Inconscio cognitivo: processi di elaborazione non consapevoli

Ad oggi le neuroscienze hanno dimostrato pertanto anche l’esistenza di numerosi processi neurali responsabili di stati non accessibili alla coscienza: è questa una prima concettualizzazione dell’ ”inconscio cognitivo”, ovvero quella parte del funzionamento mentale che è inconscia non perchè è stata rimossa (come concettualizzato dalla Teoria Psicoanalitica), ma perchè non è mai stata conosciuta, e quindi non sarà ne potrà mai essere ricordata. Fanno parte di questo inconscio tutti quei processi cognitivi che avvengono in modo “covert” e non raggiungono l’elaborazione corticale consapevole.
Berlin (2011), in una ricca review che indaga il rapporto tra inconscio e relative basi neurali, descrive una grande varietà di stati inconsci riscontrabili a livello cognitivo, tra cui:

  • percezione subliminale, in cui lo stimolo è al di sotto della soglia e quindi troppo debole per produrre l’esperienza cosciente;
  • mascheramento, in cui anche un forte stimolo può inizialmente eccitare le aree visive ma l’interferenza in una fase successiva di elaborazione impedisce l’esperienza cosciente;
  • visione cieca, in cui le vie sottocorticali possono portare alla rappresentazione inconscia di uno stimolo;
  • neglect;
  • rivalità binoculare, in cui uno stimolo presentato ad un occhio inibisce il processamento di uno stimolo presentato all’altro occhio;
  • crowding, in cui i campi di integrazione spaziale nella periferia sono troppo grandi per isolare un singolo oggetto, e così rappresentazioni di proprietà di oggetti diversi interferiscono uno con l’altro (Pelli e Tillman, 2008).

Inoltre, i dati di ricerca mostrano che anche processi motivazionali ed affettivi possono verificarsi al di fuori della consapevolezza, andando a confermare alcune intuizioni di Freud ed evidenziando che l’attività mentale è radicata in sistemi motivazionali ed emozionali filogeneticamente antichi, capaci di influenzare la sviluppo della mente (LeDoux, 1998a; Panksepp, 1988; Pfaff, 1999) e di operare al di fuori della piena consapevolezza.

Una recente review (Custers e Aarts, 2010) raccoglie infatti gli studi che mostrano come anche obiettivi e motivazioni possono operare al di fuori della coscienza (un fenomeno che chiamano “unconscious will”). I risultati evidenziano che in certe circostanze le azioni possono essere iniziate senza che il soggetto sia consapevole dell’obiettivo finale.

Studi sugli aspetti inconsapevoli delle emozioni dimostrano poi che le persone possono sperimentare stati emotivi e agire di conseguenza senza esserne consapevoli (possono quindi provare qualcosa senza sapere che la stanno provando). I dati sperimentali dimostrano infatti che il processamento emotivo ha inizio al di fuori della consapevolezza (Balconi e Lucchiari, 2008; Bunce et al., 1999; LeDoux, 1998a; Phelps et al., 2000; Wiens, 2006). Evidenze circa l’esistenza di una percezione inconscia di volti mascherati sono emerse da studi che si sono avvalsi di report soggettivi (Esteves, Parra, Dimberg, & Öhman, 1994), risposte autonomiche (Morris, Buchel, & Dolan, 2001a) e brain imaging (Whalen et al., 1998). In alcuni studi, ad esempio, i soggetti mostravano una conduttanza cutanea maggiore in risposta a volti spaventosi mascherati (Esteves et al., 1994) e i potenziali evocati dimostravano l’avvenuto processamento di stimoli subliminali (volti spaventosi), sostenendo così l’esistenza di processamenti emotivi al di fuori della consapevolezza (Kiss & Eimer, 2008).

Si ritiene che queste “emozioni inconsce” siano mediate da un circuito sottocorticale che include il collicolo superiore, il pulvinar e l’amigdala (Berman & Wurtz, 2010; Diamond & Hall, 1969; Lyon, Nassi, & Callaway, 2010). Si è osservato inoltre che immagini a valenza attivante (volti spaventati o arrabbiati) determinano un incremento dell’attività dell’amigdala anche quando sono mascherate da altri stimoli, agendo dunque al di fuori della consapevolezza (Morris, Ohman e Dolan, 1998; Whalen et al., 1998).

Le emozioni possono quindi essere anche precognitive: la “rivoluzione emotiva” che si è insinuata nel cognitivismo standard soprattutto in risposta alle difficoltà di trattamento dei “pazienti difficili” (Roth e Fonagy, 2004) ha preso le mosse proprio dalla messa in crisi del grande cardine su cui il cognitivismo nato da Beck ed Ellis si imperniava, ovvero il dominio assoluto delle cognizioni sulle emozioni.

E’ ormai dunque dimostrato che ci siano aspetti delle nostre reazioni emotive non chiari alla coscienza. Inoltre, ricordi e temi di vita dolenti possono nascondersi oltre la soglia della consapevolezza e stimoli contestuali del tempo presente possono farli rivivere. Questa è l’idea chiave di Conway e collaboratori (2004), ricercatori esperti nella memoria autobiografica, e della loro Self-Memory System Theory (Conway&Pleydell-Pearce, 2000).

Questa teoria descrive il sistema di controllo esecutivo centrale non solo come attivatore di strategie cognitive, ma anche come inibitore dell’accesso di informazioni autobiografiche nella coscienza, in quanto pericolose e dolorose. Il sistema associativo, con cui leghiamo stimoli nella nostra memoria a lungo termine (o conoscenza autobiografica) entra poi in gioco in modo significativo: i ricordi o gli stimoli che nella rete associativa si pongono in una posizione di vicinanza al tema dolente vengono marchiati essi stessi come pericolosi e innescano una risposta di inibizione e di evitamento mentale. La Self-Memory System Theory offre così un ponte di discussione tra approcci dinamici e cognitivi su temi di grande importanza clinica, quali l’attività mentale ai limiti della consapevolezza e i meccanismi di difesa. Per alcuni ricercatori, inoltre, questa teoria rappresenta la spiegazione di fondo dell’efficacia di una terapia ad oggi di grande successo: l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Gunter e Bodner, 2009).

Inconscio cognitivo: memorie e rappresentazioni mentali implicite

Alla luce delle numerose evidenze e considerando anche la concettualizzazione di inconscio emergente dalla teoria psicoanalitica (e le successive revisioni in ambito psicodinamico), è possibile sostenere l’esistenza di “molti inconsci”, ciascuno dei quali fa riferimento a processi e cornici teorico-concettuali differenti.

L’inconscio cognitivo, in particolare, non si configura unicamente come un insieme di processi covert e attivazioni neurali, ma è concepito anche come un mondo di rappresentazioni mentali implicite o tacite (cioè non consapevoli) che, se disfunzionali, vanno modificate in psicoterapia. Tali credenze irrazionali sono “transferali” nel senso che si sono create nell’infanzia per dei motivi che nell’età adulta non sussistono più (e per questo il paziente deve imparare a sostituirle con credenze più funzionali). Si può quindi dire che l’inconscio cognitivo sia quella parte di noi anche denominabile “memoria procedurale” o “elaborazione parallela distribuita”.

Più precisamente, a partire dal momento in cui, nell’intersoggettività, iniziamo a sviluppare le nostre capacità linguistiche, la conoscenza che abbiamo di noi stessi e del mondo si ripartisce in due categorie. La prima, che non utilizza il linguaggio, è stata definita implicita, procedurale, tacita o non dichiarativa (“saper come”), mentre la seconda, fondata sul linguaggio, è detta dichiarativa o semantica o esplicita (“sapere che”). Il “sapere come”, base dell’inconscio cognitivo, è costituito da schemi senso-motori ed emozionali che prescindono dal linguaggio.

I processi inconsci operano attraverso processi simultanei, a differenza di quanto avviene invece nella coscienza, che lavora attraverso processi seriali. La coscienza opera quindi una selezione tra le tante informazioni presenti nell’inconscio e questo è il motivo per cui quello che diventa conscio è sempre una parte molto ridotta e forse anche distorta della complessità delle elaborazioni inconsce parallele. Ciò che esce dall’inconscio non è quindi mai uguale a quanto vi era contenuto: i due linguaggi non sono facilmente traducibili l’uno nell’altro, poiché si tratta di codici cognitivi diversi nella loro natura (in quanto alcune rappresentazioni inconsce non sono neppure esprimibili a parole, si pensi ad esempio alla memoria procedurale che regola il movimento). E’ in questo che l’inconscio cognitivo si differenzia nettamente da quello dinamico, poiché quest’ultimo prevede una certa traducibilità dei contenuti mentali rimossi, mentre l’inconscio cognitivo si configura più come una modalità di immagazzinamento nella memoria implicita, poco o per nulla soggetta ad elaborazione verbale.

Pertanto, nella prospettiva cognitiva, ed in particolare in quella cognitivo-evoluzionista, è di gran lunga più interessante studiare i modi in cui alcune attività mentali non riescono ad acquisire la qualità della coscienza anche laddove sarebbe importante che ciò avvenisse, piuttosto che indagare come un contenuto mentale possa essere rimosso nell’inconscio per difesa dall’angoscia (Liotti, 1996a). L’importanza della trasformazione di attività mentali non coscienti in attività coscienti sta soprattutto nel loro divenire comunicabili attraverso il linguaggio, e dunque modulabili e condivisi in una dimensione intersoggettiva (Liotti, 2001). Fra i processi mentali che dovrebbero acquisire la dimensione della coscienza per divenire modulabili, emozioni e affetti sono certamente, anche da un punto di vista clinico, i principali.

Questo inconscio cognitivo procedurale riguarda anche i rapporti interpersonali, ad esempio certi aspetti degli stili di attaccamento. Queste modalità relazionali apprese nell’infanzia, permangono nell’adulto e regolano buona parte della vita quotidiana e del funzionamento affettivo. Alcune emozioni nascono quindi da vulnerabilità sviluppatesi durante la storia evolutiva dell’individuo (sotto forma di genitori dannosi ed esperienze traumatiche), fuori cioè dalla coscienza (Caselli, 2012). Questa maggiore consapevolezza ha messo in scacco sia il cardine cognitivista della maggiore importanza del funzionamento attuale su quello storico-evolutivo, sia l’ideale psicoanalitico di poter incidere terapeuticamente su certi comportamenti, soprattutto in pazienti gravi, col solo strumento dell’interpretazione verbale.

Quando infatti il cognitivismo standard inizia a confrontarsi con il trattamento di pazienti complessi, con disturbi di personalità e gravi deficit sul piano relazionale e metacognitivo, le tecniche fino a quel momento di grande efficacia con pazienti con disturbi d’ansia e depressione hanno incominciato a scricchiolare e si è reso necessario un ampliamento del paradigma, che andasse ad includere anche aspetti apparentemente indipendenti dalla consapevolezza.

La svolta relazionale del cognitivismo in Italia è stata profondamente influenzata dalla Teoria dell’attaccamento di Bowlby. In particolare, l’orientamento cognitivo-evoluzionista ha trovato in questa teoria una base concettuale per spiegare gran parte del funzionamento generale della mente e della psicopatologia, tenendo conto sia degli aspetti più vicini al cognitivismo standard, sia di quegli elementi relazionali e impliciti che la avvicinano a tratti alla matrice psicoanalitica.

Coscienza e inconscio nella prospettiva cognitivo-evoluzionista

L’idea unificante essenziale è che l’uomo possieda, fin dalla nascita, una serie di disposizioni o tendenze innate, definite Sistemi Motivazionali, che non richiedono la coscienza per operare in quanto evolute prima della comparsa della coscienza umana ed esistenti ancora oggi in specie animali prive di autocoscienza. Esse configurano quindi il fondamento innato di una attività mentale inconscia. Le disposizioni innate alla relazione sociale, in particolare, divengono coscienti in forma di esperienze emozionali (il che è congruente con un paradigma di regolazione delle emozioni, e non con quello pulsionale). L’uomo ha dunque diverse disposizioni innate alla relazione, da cui emergono diversi Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) a base innata che operano al di fuori della coscienza. Essi organizzano, una volta attivati, il comportamento sociale e l’esperienza emozionale e rappresentazionale di sè-con-l’altro. Le emozioni sono le prime fasi delle operazioni mentali organizzate dagli SMI che possono conseguire la qualità dell’esperienza cosciente. La conoscenza che si sviluppa a partire da tali disposizioni innate alla relazione è di tipo implicito e non richiede, per il suo funzionamento, né la coscienza né l’autocoscienza.

Le emozioni appaiono nell’esperienza soggettiva prevalentemente come fasi delle operazioni degli SMI; le prime operazioni, riguardanti la regolazione del comportamento interpersonale, sono avvolte nel silenzio del corpo e sono totalmente estranee alla coscienza. Operazioni successive degli SMI raggiungono poi la coscienza in forma di emozioni. Il completamento cognitivo del processo emozionale porta al tipo di esperienza cosciente che Damasio (1999) chiama “conoscenza del sentimento”. Gli SMI sono pertanto attivi ed operano prevalentemente al di fuori della coscienza. Le emozioni, dunque, emergono nella relazione e rimandano ad essa: la coscienza appare quindi come un processo intrinsecamente interpersonale.

Nel modello cognitivo-evoluzionista si suppone che la formazione dei significati personali patogeni discenda dalle memorie implicite formate durante le esperienze di attaccamento precoci e organizzate nei Modelli Operativi Interni (MOI), strutture di conoscenza che da un lato rappresentano l’esperienza di sè-con-l’altro effettuata attraverso ripetute interazioni di attaccamento, dall’altro attribuiscono valore e significato alle emozioni di attaccamento percepite in sé e negli altri.

La memoria delle percezioni di sè-con-l’altro che si susseguono nel tempo durante il primo anno di vita è dunque tacita, non dichiarativa, procedurale, e mette capo alla coscienza nucleare (Damasio, 1999) o primaria (Edelman, 1989), il cui fondamento è di natura emozionale e non implica il linguaggio. La conoscenza relativa alla mente propria e altrui può poi diventare dichiarativa (semantica ed episodica), e mette capo alla coscienza di ordine superiore, che si avvale invece di processi linguistici.

In particolare, la memoria implicita del bambino a partire dai primi giorni di vita sintetizza progressivamente le sequenze interattive in cui la figura di attaccamento risponde alle sue emozioni di attaccamento, organizzandole in rappresentazioni generalizzate delle interazioni e in Modelli Operativi Interni. Quando i MOI relativi all’attaccamento, contenuti nella memoria implicita, si confrontano con le nascenti capacità linguistiche del bambino, iniziano a prendere forma strutture semantiche da cui poi derivano i grandi temi narrativi che caratterizzano i diversi pattern di attaccamento. Tali nuclei di significato, intorno ai quali ruotano i processi organizzativi della conoscenza di sé, possono quindi non essere coscienti.

La dissociazione fra conoscenza semantica e conoscenza episodica, che si sviluppa all’interno della relazione di attaccamento, è alla base degli esiti psicopatologici. Inoltre, il tema semantico intorno a cui si costruisce la conoscenza di sè-con-l’altro predispone a disturbi emozionali in quanto non permette la conoscenza adeguata del significato e del valore (e quindi la regolazione) di alcune classi di emozioni fondamentali, prevalentemente riferite al Sistema Motivazionale dell’Attaccamento. Se ad esempio nessuno risponde (o risponde ma in modo inadeguato) ai segnali emozionali espressi dal bambino nella relazione di attaccamento, questi non potrà che rappresentare, nella conoscenza implicita di sè-con-l’altro, le proprie emozioni come radicalmente inutili, inefficaci o pericolose per il mantenimento della relazione; inoltre non potrà costituire alcuna rappresentazione delle emozioni dell’altro, in quanto l’altro è assente o ambivalente.

Se nel paradigma psicoanalitico sono le difese inconsce ad ostacolare la presa di coscienza delle emozioni, nella concettualizzazione cognitivo-evoluzionista sono dunque l’intersoggettività e l’interazione tra emozioni e cognizioni a giocare un ruolo chiave: le difese appaiono infatti più indirizzate a gestire le conseguenze di drammatiche e infelici esperienze reali di attaccamento. Così ad esempio, nell’attaccamento insicuro evitante, il MOI del bambino contiene una rappresentazione di sé come fastidioso se richiedente attenzioni e cure e dell’altro come indisponibile. Pertanto, ricordi episodici negativi nell’interazione con i genitori, possono essere esclusi dalla coscienza perchè occupata da rappresentazioni semantiche idealizzate dei genitori stessi. L’interdizione del ricordo è così dovuta a pressioni interpersonali più che alla necessità della coscienza di proteggersi dall’angoscia generata da pulsioni inaccettabili. Secondo questa tesi, sviluppata dallo stesso Bowlby, i genitori imponevano al bambino, attraverso le loro parole e sotto la minaccia implicita di abbandono affettivo qualora non le avesse accettate, di attribuire un significato positivo ad un’esperienza che in se stessa era stata emotivamente negativa. L’idealizzazione dei genitori, dunque, non appare come una difesa da pulsioni aggressive verso di loro, ma come effetto del gioco congiunto di pressioni interpersonali e della disposizione innata del bambino a cercare conforto nelle figure di attaccamento. Se ricordi episodici negativi vengono esclusi dalla coscienza perchè questa è occupata ad elaborare significati idealizzanti e irrealistici della relazione con le figure di attaccamento, questi ricordi esclusi costituiscono esempi dell’inconscio cognitivo più che del classico inconscio psicoanalitico (Liotti, 2001).

Anche nella Teoria dell’attaccamento, dunque, l’inconscio è ampiamente concepito come insieme di rappresentazioni e memorie implicite delle relazioni di attaccamento, e si avvicina molto di più all’inconscio cognitivo, inteso per l’appunto come processi e conoscenze implicite, piuttosto che a quello psicoanalitico, topico o dinamico (Laplanche e Pontalis, 1993; Ellenberger, 1970; Eagle, 1987). L’incontro con la Teoria dell’attaccamento ha determinato dunque il rinnovato interesse dei cognitivisti per le attività mentali inconsce e per la dimensione relazionale dello sviluppo normale e patologico (Liotti, 2011; Semerari, 2000). La Teoria dell’Attaccamento ha così permesso ai cognitivisti di comprendere il ruolo centrale, nella formazione della personalità e nella genesi dei disturbi emotivi, delle strutture di memoria inconscia (implicita) costruite nelle esperienze di attaccamento.

Tale prospettiva ha permesso quindi di allargare il lavoro del terapeuta cognitivista dall’attenzione esclusiva su processi e contenuti cognitivi espliciti, ritenuti i soli responsabili dei disturbi emotivi, all’ampio e complesso fronte delle strutture e dei contenuti impliciti costruiti nelle prime relazioni intersoggettive sotto la spinta delle motivazioni interpersonali innate. Questi contenuti e processi impliciti si rivelano in terapia attraverso modalità espressive non verbali, attivazioni emotive apparentemente improprie o sproporzionate, oppure tramite circolarità interpersonali disadattive che, di regola, coinvolgono anche il terapeuta. L’attenzione alla relazione terapeutica e alla sua modulazione divengono così veri e propri strumenti di cura.

L’innesco del sistema di attaccamento nella relazione terapeutica, infatti, comporta inevitabilmente la riattivazione dei MOI dell’attaccamento, confermati e rafforzati nel corso dello sviluppo che ha seguito la prima infanzia. I MOI influenzano la percezione interpersonale e le vicissitudini dell’elaborazione dell’informazione emozionale, prima che queste divengano coscienti, rendendo difficile per il paziente l’esplorazione di significati alternativi, o la riflessione critica delle proprie aspettative, riattivando le stesse modalità di lettura del mondo apprese nell’infanzia attraverso la relazione con l’altro significativo. Per certi aspetti, dunque, sono da ritenersi la controparte cognitivo-evoluzionista del concetto psicoanalitico di transfert, anche se tra i due vi sono differenze sostanziali (Liotti, 2001): ad esempio, nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, alla base di quanto accade nel transfert, va riconosciuta in prima istanza l’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento, e mai primariamente di quello sessuale o aggressivo. In particolare, l’esistenza di una pulsione primaria distruttiva è negata nella prospettiva cognitivo-evoluzionista.

La prospettiva cognitivo-evoluzionista rientra dunque tra quegli approcci psicoterapeutici di paradigma relazionale (molti di essi proprio di matrice psicoanalitica) che condividono la natura relazionale della mente e del suo sviluppo, la centralità delle dinamiche interpersonali di attaccamento per la comprensione della patologia e il ruolo sovraordinato della relazione terapeutica nel trattamento (Lingiardi et al. 2011; Bromberg, 2008; Liotti, 2011; Liotti e Farina, 2011). All’interno di questa concettualizzazione del funzionamento, quindi, anche l’inconscio, adeguatamente rivisto e depurato da alcuni concetti non sostenuti dalle evidenze sperimentali che nel corso dei decenni si sono imposte sul versante scientifico, è rientrato a far parte della pratica clinica, specie per quanto riguarda proprio la gestione e la modulazione di quei cicli interpersonali tra paziente e terapeuta che, se abilmente direzionati, possono divenire essi stessi potenti strumenti terapeutici.

Il cervelletto può giocare un ruolo importante nella schizofrenia

Secondo un nuovo studio di brain imaging svolto presso l’Università di Oslo in Norvegia, il cervelletto è una delle regioni cerebrali più implicate nella schizofrenia. I risultati mostrano che il volume cerebellare di pazienti affetti da schizofrenia è più piccolo rispetto a soggetti sani.

 

La schizofrenia è un disordine mentale cronico debilitante caratterizzato da sintomi psicotici (positivi) quali deliri, allucinazioni, paranoia e pensieri disordinati, nonché sintomi più sottili (negativi) quali perdita di motivazione o di giudizio, problemi di memoria, movimento rallentato, disinteresse nell’igiene e ritiro sociale.

La funzione del cervelletto nella schizofrenia

Lo studio di brain imaging è stato usato per indagare la funzione del cervelletto nel disturbo schizofrenico e ha importanti implicazioni per la comprensione di questo disordine.

Anche se il cervelletto occupa solo il 20% del cervello umano, detiene circa il 70% di tutti i suoi neuroni. Il cervelletto è da tempo associato al movimento corporeo e al coordinamento e quindi è stato raramente incluso negli studi incentrati sulle basi biologiche dei disturbi mentali.

Per lo studio, i ricercatori hanno valutato le scansioni cerebrali di 2.300 partecipanti provenienti da 14 siti internazionali utilizzando strumenti sofisticati che hanno permesso di analizzare sia il volume che la forma del cervello.

I ricercatori sono stati sorpresi nello  scoprire che il cervelletto è tra le regioni cerebrali implicate e più consistenti nella schizofrenia: i pazienti affetti dal disturbo schizofrenico hanno volumi cerebrali minori rispetto agli individui sani.

I grandi gruppi di dati hanno permesso ai ricercatori di concentrarsi sulle differenze più sottili nel volume del cervello nei pazienti con schizofrenia rispetto ai controlli sani.

È importante sottolineare che le differenze cerebrali che vediamo nella schizofrenia sono generalmente molto sottili. Questo è un motivo per cui i grandi studi collaborativi sono così importanti  – dice Moberget. – Quando abbiamo visto lo stesso schema ripetuto in molti gruppi di pazienti e controlli da diversi paesi, i risultati sono diventati molto più convincenti.Questi risultati mostrano chiaramente che il cervelletto svolge un ruolo importante nella schizofrenia – ha affermato l’autore principale Dr. Torgeir Moberget.

The grief maze game: il gioco per l’elaborazione del lutto

The Grief Maze game è un gioco da tavolo ideato dal dott. S. Pesci per favorire l’elaborazione del lutto in psicoterapia.

 

Come si gioca a The Grief Maze game

Come è specificato nelle istruzioni, il gioco può essere proposto a bambini e ragazzi nel contesto di un percorso terapeutico già avviato, perchè innesca esperienze ad alta intensità emotiva. Anche le attività di gioco suggerite implicano un certo livello di coinvolgimento corporeo tra terapeuta e paziente, tra paziente e un eventuale partner del gioco. Infatti, nello svolgimento del gioco, può essere coinvolta una seconda persona (in genere un familiare stretto), anche lei coinvolta o sopravvissuta al lutto. Perciò il gioco deve svolgersi in un clima di contenimento e sicurezza affettiva, nel pieno rispetto della sensibilità del paziente.

Nel gioco, i partecipanti avanzano lungo un tabellone tirando un dado. Il percorso rappresentato è un dedalo a più vie, che permettono di ritornare sui propri passi, costruire un tragitto personale ed eventualmente ripetere alcune attività. Infatti, il presupposto del gioco è che ci siano molteplici esperienze utili all’elaborazione del lutto.

Il dedalo è composto da caselle di quattro diversi colori. Le caselle compongono un percorso intricato con un’entrata e un’uscita; in corrispondenza dell’uscita, c’è l’immagine archetipica di un vecchio saggio dall’aria gentile.

I quattro colori delle caselle corrispondono a quattro tipologie di carte: esperienze, affermazioni positive, giochi da fare con il terapeuta e giochi da fare con un’altra persona.

Ogni volta che la pedina del bambino (o quella del partner) si ferma su una casella, il terapeuta pesca una carta del colore corrispondente e propone ai giocatori di svolgere un’attività riportata sulla carta, oppure di giocare. Uno dei colori corrisponde ad affermazioni positive e comprensive che il terapeuta, portavoce del vecchio saggio, comunica ai partecipanti per incoraggiarli a proseguire nel doloroso lavoro.

Le esperienze e i giochi, una volta eseguiti, danno diritto a ricevere delle stelline come riconoscimento dell’impegno profuso. Lo scopo del gioco è giungere all’uscita e arrivare dal vecchio saggio con almeno venti stelline.

The Grief Maze game: gli scopi del gioco

Le proposte contenute nelle carte si basano sull’idea che il lutto richieda di trovare un equilibrio tra due “compiti”: un faticoso lavoro di adattamento emotivo e concreto alla perdita, e la capacità di prendere distanza dal dolore e portare avanti la propria quotidianità.

Le esperienze suggerite per il primo compito, ossia l’elaborazione della perdita sono:
– la verbalizzazione dei sentimenti che legavano al defunto, quando era in vita;
– l’espressione dello stato emotivo attuale;
– il ricordo di aneddoti, divertenti o dolorosi, legati al rapporto con il defunto;
– modi per mantenere il legame, ma, al tempo stesso, sciogliere questioni irrisolte con la persona che non c’è più.

Tutto ciò, attraverso l’uso dell’immaginazione, della scrittura e del disegno.

Il secondo compito, ossia la possibilità di prendere le distanze dal proprio dolore, è rafforzato attraverso i giochi da fare con il terapeuta, che aiutano il giovane paziente sia ad esprimere diversi aspetti di sè, sia a ritrovare il piacere nella relazione con l’altro. I giochi da svolgere con l’eventuale partner sopravvissuto alla perdita hanno le stesse funzioni, con in più quella di entrare in contatto emotivo, esprimere il proprio dolore e condividerlo per alleviarlo.

Il gioco è un valido strumento per l’elaborazione del lutto; propone, in modalità ludica, attività espressive e creative utili a rimarginare le ferite aperte da una perdita. Inoltre, poichè si gioca insieme, il percorso elaborativo avviene attraverso la relazione, la comunicazione e la condivisione tra bambino e terapeuta, o tra bambino e adulto significativo. Certamente, non è un gioco adatto a bambini molto piccoli: alcune esperienze suggerite dal gioco richiedono capacità di pensiero e scrittura complesse, ma possono essere accantonate, oppure adattate all’età del paziente.

D’ altra parte, la ricchezza di questo gioco sta nel fatto che queste stesse attività forniscono proficui spunti per il lavoro sul lutto anche con pazienti adulti.

Un nuovo modello di rete cerebrale potrebbe spiegare le differenze tra lesioni cerebrali

Secondo uno studio pubblicato da PLUS Computational Biology, considerare la rete di attività dell’intero cervello, piuttosto che le singole regioni, potrebbe aiutare a capire perché alcune lesioni cerebrali siano molto più gravi di altre.

 

Cosa accade nel cervello a seguito di lesioni cerebrali

Il cervello umano mostra una vasta gamma di risposte alla lesione, a seconda della sua posizione. Questo è considerato convenzionalmente un risultato del fatto che ogni regione del cervello ha un ruolo funzionale specifico. Tuttavia, c’è sempre più evidenza che le regioni del cervello non funzionano in isolamento, ma come una rete.

Pertanto, per comprendere l’effetto della lesione, dobbiamo cercare non solo le modifiche localizzate, ma le modifiche a livello di rete causate dalla perturbazione delle connessioni di rete.

Gli autori hanno utilizzato una combinazione di tecniche di imaging con tensore di diffusione, che permette di ottenere immagini biomediche anche tridimensionali, e spunti dalla teoria dei grafi per indagare i modelli nell’architettura di rete della materia bianca del cervello e come questi cambiamenti siano dovuti a lesioni.

La teoria dei grafi si occupa di studiare i grafi, che sono oggetti discreti che permettono di schematizzare una grande varietà di situazioni e di processi e spesso di consentirne delle analisi in termini quantitativi e algoritmici.
In particolare negli ultimi anni si sta studiando come i grafi e le loro proprietà possano aiutare nello studio del connettoma umano, ovvero la totalità delle connessioni tra i neuroni del cervello umano.

Il Dr. Raj e i suoi colleghi, basandosi su precedenti lavori, hanno dimostrato che semplici modelli di reti catturano schemi di degenerazione a livello cerebrale e anche modelli normali di attività cerebrale.
Questi schemi possono essere decomposti grazie alle vibrazioni della rete, che possono essere considerate come sottoreti in cui l’attività propagante viene concentrata, non diversamente da come vibra una corda di chitarra.

Gli autori hanno indicato per la prima volta che i più importanti moduli di origine persistono in soggetti sani e in esami di imaging di questi.
Essi modellarono l’effetto delle lesioni cerebrali sui moduli di origine e trovarono che l’influenza di una lesione nelle connessioni di rete è abbastanza sensibile al sito della lesione. I ricercatori hanno identificato percorsi di fibre di materia bianca particolarmente responsabili del flusso di informazioni in tutto il cervello. Hanno trovato che le lesioni che hanno influenzato maggiormente le vibrazioni di rete erano quelli al centro di questi percorsi.

Hanno guardato in particolare un raro disturbo neurodegenerativo dove il corpo calloso, ovvero la connessione primaria tra gli emisferi sinistro e destro del cervello, è assente. I pazienti affetti da questa malattia in genere hanno una migliore attività cerebrale rispetto a quelli a cui è stato rimosso chirurgicamente il corpo calloso.

Se questi risultati possono essere replicati in altri scenari, potrebbe essere possibile prevedere con maggiore precisione come i cambiamenti nella struttura del cervello, siano questi dovuti alla chirurgia o alla progressione di una malattia, possano determinare cambiamenti nella funzione del cervello, consentendo ai medici di adattare meglio il piano di trattamento e i target terapeutici.

Questo studio propone un metodo per raccontare come i cambiamenti nell’architettura strutturale del cervello possono provocare i deficit osservabili che identifichiamo come disturbi neurologici. Speriamo di estendere questi metodi per prevedere come le future perturbazioni al cervello di un paziente, dovute alla progressione di una malattia, possano influenzare la funzione neurologica “, afferma il Dr. Raj.

La disregolazione emotiva e i disturbi di personalità

La disregolazione emotiva è considerata il marchio di fabbrica del disturbo di personalità borderline. La tendenza a perdere il controllo sulle proprie emozioni sembra essere uno dei fattori che predispone queste persone a crisi, atti impulsivi e gesti parasuicidari e suicidari. Le osservazioni cliniche però facevano pensare che, magari a livelli di intensità minori, la disregolazione emotiva potesse essere presente anche in molti altri disturbi di personalità e avere un impatto sulla psicopatologia.

 

La disregolazione emotiva è presente in molti disturbi di personalità

Abbiamo quindi condotto uno studio congiunto tra il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale e l’Istituto Beck, investigando in che modo disregolazione emotiva e disturbi di personalità fossero connesse in 478 pazienti afferenti ai centri. Abbiamo somministrato la DERS per misurare la disregolazione, SCL-90-R per i sintomi psicologici, l’IIP-32 per i problemi interpersonali. La diagnosi di disturbo di personalità è stata effettuata con la SCID-II.

I risultati hanno supportato l’ipotesi. La disregolazione si è manifestata presente nella maggior parte dei disturbi di personalità, anche se era lievemente più marcata nel borderline. L’impatto della disregolazione emotiva sui disturbi di personalità era specifico, non spiegabile dalla presenza di sintomi psicologici e problemi interpersonali. Più specificamente, la disregolazione era capace di predire – in senso statistico, ovvero persone con più disregolazione era più probabile che avessero – tratti di disturbi di personalità paranoide, narcisistico, passivo-aggressivo, depressivo, istrionico, borderline ed evitante. Tra i problemi c’era la difficoltà a controllare gli impulsi, scarsa fiducia nella propria capacità di regolare le emozioni, difficoltà a impegnarsi nel comportamento finalizzato allo scopo e scarsa chiarezza sulle emozioni sperimentate.

Il trattamento della disregolazione emotiva

Con le dovute cautele, legate alla necessità di affrontare alcuni limiti dello studio e replicarlo, è possibile considerare la disregolazione uno dei target del trattamento anche in disturbi di personalità diversi dal borderline. L’idea che andiamo seguendo è che un approccio efficace combini un miglioramento della capacità metacognitiva. Con più consapevolezza di quello che il paziente e gli altri provano, dovrebbe essere più semplice regolare gli affetti. In parallelo può essere necessario fornire strategie di regolazione basate sulla metacognizione, ovvero migliorare la mastery metacognitiva.

Un aspetto che andiamo sviluppando con i colleghi del CTMI Paolo Ottavi, Raffaele Popolo e Giampaolo Salvatore, è di intervenire sui processi di rimuginio che insorgono come risposta del sé alla risposta dell’altro negli schemi interpersonali. Mi spiego con un esempio. Un paziente con disturbo evitante di personalità può essere guidato dal seguente schema interpersonale: “Desidero essere apprezzato, ma se mostro il mio valore l’altro mi critica. A seguito della critica penso che abbia ragione a disprezzarmi e provo tristezza e vergogna”. A questo punto, il paziente non riesce a regolare tristezza e vergogna e inizia a mettere in atto strategie di coping di tipo comportamentale, che vanno dall’evitamento al perfezionismo critico (se miglioro forse verrò apprezzato), e di tipo cognitivo, ovvero forme di pensiero perseverativo, che vanno dalla ruminazione al worry. Aiutare il paziente a) comprendere lo schema, ovvero migliorare la metacognizione sui propri processi di funzionamento b) riconoscere il coping maladattivo e c) fornire modalità di coping più funzionale, dovrebbe contribuire a ridurre la disregolazione emotiva.

Prevaricazione: è il piacere o l’essere popolare che porta a disimpegnarsi moralmente?

La letteratura (es. Caravita & Gini, 2010; Menesini et al., 2003; Gini, 2006; Thornberg & Jungert, 2014) oltre a evidenziare che i prepotenti sono più propensi a mettere in atto i meccanismi di disimpegno morale, e che i meccanismi da essi più utilizzati sono l’attribuzione di colpa alla vittima e la giustificazione morale evidenzia che anche gli altri ruoli di partecipazione al bullismo sono in relazione con il disimpegno morale

Elisa Donghi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Bullismo e prevaricazione: definizione del fenomeno

Sempre più spesso nella nostra società si sente parlare di bullismo. I fatti di cronaca riportano frequentemente episodi di prevaricazione, di soprusi tra coetanei, tra membri del gruppo. Emerge quindi la necessità di chiarire e approfondire il fenomeno del bullismo.

Il primo autore che ha dato una definizione al fenomeno è stato Olweus: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni” (Olweus, 1993; pp. 11-12). Per parlare di bullismo devono essere presenti: l’intenzionalità ossia la volontà di procurare un danno, fisico o psicologico, alla vittima; la reiterazione nel tempo delle azioni negative; e lo squilibrio di potere tra bullo e vittima derivante dalla forza fisica, dal possesso di risorse materiali e/o sociali o da un’asimmetria psicologica (Olweus, 1993). Il bullismo si declina in due tipologie: bullismo diretto e indiretto/relazionale. Quando si parla di bullismo diretto si fa riferimento ad azioni di tipo fisico come calci, pugni, schiaffi, furto o sottrazione di oggetti della vittima (bullismo diretto fisico) e ad azioni di tipo verbale come forme di insulto, derisione, prese in giro e nomignoli (bullismo diretto verbale); mentre si parla di bullismo indiretto/relazionale quando si è in presenza di diffusione di maldicenze, isolamento sociale e manipolazione dei rapporti di amicizia della vittima (Caravita, 2004).

Quando si pensa al prepotente l’immaginario lo prefigura come una figura maschile dotata di elevata aggressività. La letteratura (Olweus, 1993; Fonzi, 1999; Psalti, 2012) ci mostra invece che il fenomeno è diffuso in uguale misura tra maschi e femmine seppure con modalità differenti. I maschi mettono più in atto azioni di bullismo fisico (calci, pugni, aggressioni) e quindi una modalità che risulta più visibile e appariscente; le femmine invece utilizzano forme più sottili, subdole e quindi meno visibili come quelle del bullismo indiretto (diffusione di maldicenze, esclusione sociale); anche se negli ultimi tempi si registra un aumento del bullismo fisico anche tra quest’ultime.

I ruoli assunti da chi è coinvolto nel fenomeno del bullismo

Quando si parla di bullismo non bisogna dimenticare che è un fenomeno di gruppo, relazionale. È all’interno della dimensione di gruppo che il fenomeno si alimenta e si protrae nel tempo. Il bullismo, infatti, non coinvolge solo la diade bullo-vittima, ma come hanno messo in evidenza Salmivalli e colleghi (1996) coinvolge tutti i membri di un gruppo, interessa tutti i rapporti.

Nello specifico sono stati identificati sei ruoli: bullo, colui che mette in atto le prepotenze; aiutante del bullo, più passivo del bullo, lo aiuta materialmente nella messa in atto delle prevaricazioni; sostenitore del bullo, non partecipa in modo attivo alle prepotenze ma le sostiene, mostrando approvazione; vittima, colui che subisce le prevaricazioni, può essere “passiva”, tipologia che rappresenta la maggior parte delle vittime ossia timida, insicura e poco in grado di difendersi o “provocatrice” ossia irritabile, irrequieta, che reagisce alla prevaricazione “provocando” in questo modo il bullo; difensore della vittima, colui che prende posizione a favore di chi subisce prepotenze, sia consolandolo, sia contrastando apertamente i prevaricatori e infine esterno, colui che seppur a conoscenza delle prevaricazioni, non si schiera né a favore del bullo, né della vittima.

Il ruolo del gruppo risulta essere ancora più rilevante, se consideriamo che quando si entra a far parte di un gruppo se ne condividono valori, norme, regole e soprattutto all’interno di esso ognuno si crea il proprio status sociale- posizione che si occupa nel gruppo dei pari. Con il termine status sociale ci riferiamo a due dimensioni, la preferenza sociale che delinea il livello di accettazione e rifiuto da parte dei pari e la popolarità percepita ossia il grado in cui un individuo è ritenuto dai pari influente, visibile, e occupante una posizione di rilievo (Parkhurst & Hopmeier, 1998). Se consideriamo la figura del bullo quest’ultima risulta controversa. Da un lato il prepotente è rifiutato, non piace, gode quindi di un basso livello di preferenza sociale; dall’altro però ha un elevato livello di popolarità percepita, è considerato dal gruppo come influente, visibile e importante.

Il disimpegno morale e il bullismo

Nonostante il bullismo sia un fenomeno relazionale, il bullo trovi sostegno nel gruppo dei pari e venga considerato un modello da imitare, spesso i pari nutrono un atteggiamento negativo verso le prevaricazioni, non le comprendono e le considerano degli atti sbagliati e ingiusti (Caravita, Miragoli, & Di Blasio, 2009). Ci si potrebbe quindi chiedere come fanno il bullo e i suoi sostenitori a compiere le prevaricazioni, a portare a termine un’azione considerata negativa, sbagliata, senza sentirsi in colpa, senza sentire il peso della dissonanza cognitiva tra valori e azioni.

Una spiegazione ci viene fornita da Bandura (1986), il quale oltre a sottolineare che l’aver acquisito principi morali, non implica necessariamente, agire sempre in maniera corretta, ha postulato l’esistenza del “disimpegno morale” ossia di meccanismi, processi, tramite i quali l’individuo si autogiustifica, disattiva parzialmente o totalmente il controllo morale mettendosi al riparo da sentimenti di svalutazione, senso di colpa e vergogna (Bandura, 1996).

Bandura (1986; 1996) ha individuato otto meccanismi di disimpegno morale: alcuni di essi agiscono sulla condotta immorale, rendendola più accettabile tramite il ricorso a principi superiori, giustificazione morale; eufemismi, etichettamento eufemistico; confronto con azioni peggiori, confronto vantaggioso. Altri meccanismi agiscono ridefinendo la responsabilità dell’azione compiuta che viene suddivisa tra più persone, diffusione della responsabilità, o riversata su altri, dislocamento della responsabilità o minimizzando le conseguenze delle azioni, distorsione delle conseguenze. Infine ci sono due meccanismi che si concentrano sul ruolo della vittima, la deumanizzazione della vittima per cui chi subisce viene privato della sua dignità, parificato a un essere inferiore e l’attribuzione di colpa alla vittima per cui la vittima è ritenuta responsabile, colpevole di ciò che le accade, che subisce.

La letteratura (es. Caravita & Gini, 2010; Menesini et al., 2003; Gini, 2006; Thornberg & Jungert, 2014) oltre a evidenziare che i prepotenti sono più propensi a mettere in atto i meccanismi di disimpegno morale, e che i meccanismi da essi più utilizzati sono l’attribuzione di colpa alla vittima e la giustificazione morale evidenzia che anche gli altri ruoli di partecipazione al bullismo sono in relazione con il disimpegno morale. Nello specifico si sono trovate associazioni negative tra disimpegno morale e i ruoli di difensore ed esterno, mentre associazioni positive tra sostenitore, aiutante del bullo e disimpegno morale (Gini, 2006; Obermann, 2011; Thornberg & Jungert, 2014). Altri studi (Garandeau & Cillessen, 2006; Caravita, Salmivalli, & Di Blasio, 2009) hanno evidenziato, inoltre, che coloro che sono percepiti popolari hanno livelli più alti di disimpegno morale, che i prepotenti tramite le azioni negative cercano di mantenere stabile la propria posizione di rilievo nel gruppo e che i meccanismi di disimpegno morale, appresi all’interno del contesto sociale, tendono a diffondersi anche all’interno delle reti amicali (Caravita, Sijtsema, Rambaran, & Gini, 2014)

Se quindi vi è una relazione tra ruoli di partecipazione al bullismo e disimpegno morale, il prepotente utilizza i meccanismi di disimpegno per portare a termine le azioni negative e soprattutto gode da un lato di un’alta popolarità percepita ma dall’altra di una bassa preferenza sociale, ci si potrebbe chiedere, nel momento in cui si mette in atto un’azione di bullismo, ciò che porta a disimpegnarsi nei confronti della vittima (disimpegno morale focale): “È il piacere o l’essere visibile?

Per rispondere a questo quesito si fa riferimento ad un lavoro di ricerca affrontato in una tesi di laurea magistrale (Donghi, E: Il disimpegno morale in rapporto al bullismo: fattori individuali e di contesto. Uno studio su bambini e preadolescenti. Tesi di laurea magistrale non pubblicata, Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore, 2011). Nello studio si è preso in considerazione un campione di 1023 ragazzi (52,6% maschi) appartenenti alle classi quarta e quinta di 6 scuole primarie e alle tre classi (prima, seconda, terza) di 5 scuole secondarie di primo grado di Milano e provincia. Sono stati utilizzati una batteria di strumenti di auto ed etero valutazione, la cui somministrazione è avvenuta in classe, in media per due ore. Gli strumenti impiegati sono stati: Questionario “I miei compagni di classe” (Caravita, Gini & Pozzoli, 2010, non è mai stato pubblicato), Nomina sociometrica sullo status (Cillessen & Mayeux, 2004), Questionario sulla percezione delle regole morali e socio-convenzionali (Caravita et al., 2009), Questionario degli atteggiamenti rispetto al bullismo (Salmivalli et al., 2004; Pozzoli & Gini, 2010), Scala del disimpegno morale (Bandura, Caprara & Pastorelli,1995) e Scala del disimpegno morale focale (Caravita & Gini, 2010).

Ciò che è emerso da questo studio è in linea con la letteratura. Le analisi statistiche che sono state effettuate sono state: la correlazione r di Pearson tra le variabili di disimpegno morale semplice e di disimpegno morale focale. Sono stati calcolati gli indici di correlazione r di Pearson tra disimpegno morale focale e le variabili di: sesso (maschio= 0, femmina= 1; correlazione punto-biseriale), trasgressione morale, moral motivation, atteggiamenti pro-vittima, preferenza sociale, popolarità percepita, ruoli (standardizzati per età) ed atteggiamenti aggregati (gli atteggiamenti condivisi e sostenuti all’interno del gruppo classe. Per ottenerli è stato calcolato il punteggio medio specifico per ogni classe). È stata calcolata, inoltre, la correlazione tra le variabili sopra citate e gli atteggiamenti pro-vittima. Infine i dati sono stati sottoposti alla regressione lineare per blocchi prendendo in esame sia il campione complessivo che i sottocampioni di scuola primaria e secondaria di primo grado. Nelle tre configurazioni è stata considerata come variabile dipendente il disimpegno morale focale mentre come variabili indipendenti: il sesso (maschio= 0, femmina= 1) (blocco 1), la trasgressione morale, i ruoli di bullismo, la moral motivation (blocco 2), la preferenza sociale e la popolarità percepita (blocco 3), i termini di interazione tra status e le variabili di trasgressione morale e moral motivation (blocco 4) infine gli atteggiamenti aggregati di classe (blocco 5).

Da queste analisi risulta che il disimpegno morale focale sia più diffuso tra i maschi se consideriamo il campione nella sua totalità ossia scuola primaria e secondaria di primo grado (beta= -.08 p<.05). Se consideriamo, invece, la distinzione tra scuola primaria e secondaria di primo grado, l’essere maschio e il maggior disimpegno morale focale è significativo solo a livello della scuola primaria (beta= -.15 p< .05). Considerando la relazione tra ruoli di partecipazione al bullismo e disimpegno morale focale emerge che nel campione totale (scuola primaria e secondaria di primo grado) l’essere bullo, il sostenere la prevaricazione, porta a disimpegnarsi maggiormente (beta= .08 p= .05) mentre essere difensore della vittima (beta= -.09 p< .05) ed esterno (beta= -.01 p< .05) è associato a livelli inferiori di disimpegno morale focale.

Una precisazione rispetto al ruolo di esterno ci viene fornita da Obermann (2011). L’autrice ha evidenziato l’esistenza di due tipologie di esterno, l’esterno-colpevole che si sente in colpa per il non schieramento nelle situazioni di bullismo e l’esterno-indifferente che assiste alle prepotenze senza sentirsi responsabile; quest’ultimo forse proprio per mantenere un atteggiamento di indifferenza si disimpegna maggiormente rispetto all’esterno-colpevole e al difensore della vittima. Tornando ai nostri dati, se consideriamo la distinzione tra scuole, emerge che nella scuola primaria, solo il non difendere la vittima porta a un maggiore disimpegno morale focale (beta= -.11 p= .05) mentre nella scuola secondaria di primo grado ciò che porta a disimpegnarsi è l’essere un bullo, sostenere la prevaricazione (beta= .18 p< .05).

E per quanto riguarda lo status sociale, preferenza sociale e popolarità percepita? Se consideriamo il campione nella sua totalità, solo avere un alto livello di popolarità percepita porta a disimpegnarsi (beta= .13 p< .05). Nelle due scuole emerge invece che nella scuola primaria ciò che porta a disimpegnarsi è il non piacere, avere una bassa preferenza sociale (beta= -.13 p< .05) mentre, nella scuola secondaria di primo grado ciò che porta a disimpegnarsi è l’avere un’alta popolarità percepita, l’essere considerato visibile ed influente (beta= .17 p< .05).

Questo studio, quindi, oltre che a confermare la relazione tra disimpegno morale e bullismo (per una rassegna vedi Gini, G., Pozzoli, T., & Hymel, S., 2014) evidenza che il disimpegno morale è un fattore di rischio per il comportamento prepotente e che nella scuola primaria e secondaria di primo grado agiscono fattori diversi: nella scuola primaria ciò che porta a disimpegnarsi, a giustificare la prepotenza, è l’avere una bassa preferenza sociale ossia il non piacere, il non essere accettato dai pari, la non difesa della vittima e l’essere maschio; nella scuola secondaria di primo grado, invece, ciò che porta a disimpegnarsi è l’avere un’alta popolarità percepita ossia il ricoprire una posizione di rilievo, influente e l’essere un bullo, sostenere la prevaricazione.

 

L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione

Mi inserisco anche io nel dibattito iniziato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero e poi proseguito da Farina. Sassaroli, Caselli e Ruggiero sostengono che: “ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinante ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico”. Importanti autori sostengono esattamente il contrario.

di Fabio Monticelli


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017

Norcross, che ha coordinato la task force sulla relazione terapeutica delle divisioni 12 e 29 dell’APA (American Psychological Association Division of Psychotherapy) condotta con studi di meta-analisi (2011), identifica 3 Fattori di efficacia dimostrata in psicoterapia: l’Alleanza terapeutica, il Feedback dei pazienti (il monitoraggio dei vissuti del paziente nella terapia in corso riduce di circa il 50% i drop-out) e l’Empatia del terapeuta (percepita dal paziente). Norcross conclude il suo lungo studio affermando che mantenere il focus dell’attenzione sulla Relazione e sull’Alleanza terapeutica e costruire una relazione terapeutica “su misura” sono tra i pochi dati certi correlati all’esito favorevole della terapia.

L’ alleanza terapeutica

Due importanti meta-analisi dimostrano che l’alleanza terapeutica è uno dei più importanti e forti predittori di buon esito della psicoterapia (Horvath & Symonds, 1991; Martin, Garske & Davis, 2000). La relazione terapeutica e l’alleanza terapeutica rappresentano due fondamentali elementi connessi da un preciso rapporto gerarchico: l’alleanza deve essere considerata uno degli elementi, probabilmente il più importante, che costituiscono la relazione terapeutica (Lingiardi, 2002; Norcross, 2011; Safran, Muran, 2000). L’alleanza terapeutica in ambito cognitivo-evoluzionista è considerata come un fattore dinamico, dimensionale e diadico. Dimensionale perché di intensità mutevole nel tempo -quindi differente dal modo dicotomico (presente o assente) in cui veniva considerato in passato; Dinamico perché mutevole e Diadico perché emerge dall’interazione continua tra terapeuta e paziente: pertanto l’alleanza terapeutica può essere considerata come il risultato dell’atteggiamento del paziente e dell’operato del terapeuta e come tale riflette ed è l’effetto dei loro reciproci contributi. Proprio per questi tre motivi la relazione e l’alleanza vanno monitorate di continuo perché il monitoraggio migliora in maniera significativamente importante gli esiti del trattamento (Lambert, Kenichi, 2011, Hill & Knox, 2009)

Il metodo AIMIT per monitorare la Relazione Terapeutica

Sassaroli, Caselli e Ruggiero aggiungono: “Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variable meno gestibile”. Quindi, giustamente non viene messa in dubbio l’importanza e il ruolo della relazione terapeutica, ma viene sottolineata la difficoltà di gestire e monitorare la relazione e l’alleanza. A questo proposito mi fa piacere segnalare i risultati di una nostra ricerca (Monticelli, Carcione, Pedone, Farina) su un single-case che stiamo ultimando, che ha fornito prove sufficienti a sostenere l’ipotesi di utilizzare il metodo AIMIT (Assessing Interpersonal Motivations in Transcripts, Liotti & Monticelli, 2008) per monitorare l’assetto motivazionale della relazione e il grado di cooperazione tra terapeuta e paziente (suggestiva di alleanza terapeutica perché la cooperazione a nostro avviso crea e mantiene l’alleanza terapeutica) e i suoi momenti di crisi nell’immediatezza della relazione terapeutica (impasse) che creano i presupposti di una relazione di basso profilo terapeutico.

La ricerca da noi condotta evidenzia che nelle fasi di impasse della collaborazione del paziente le sue funzioni metacognitive peggiorano drasticamente; al contrario, tali funzioni aumentano significativamente quando la collaborazione del paziente migliora. Le fasi di non collaborazione del paziente (rappresentate dalle impasse), se rappresentano, riflettono ed emergono dalle fasi di scarso funzionamento metacognitivo del paziente, rappresentano “de facto” la perdita del lavoro congiunto verso gli obiettivi terapeutici concordati.

Proprio perché l’alleanza terapeutica è costituita da tre elementi fondamentali (la condivisione degli obiettivi terapeutici, dei compiti e dal legame affettivo; Bordin, 1979), è possibile sostenere che la perdita prolungata del dialogo terapeutico del paziente finalizzato al raggiungimento degli obiettivi condivisi (segnalato dall’impasse), rappresenti un indicatore sensibile dell’interruzione dell’alleanza, capace di rilevare “moment on moment” e in tempo reale la perdita degli obiettivi terapeutici (goals) e dei metodi più adatti a raggiungerli (tasks), costituiti dal dialogo autoriflessivo o incentrato sugli stati mentali dell’altro o sulla ricerca della mastery (Carcione et al., 2010); in altri termini, poiché nelle fasi di impasse della cooperazione del paziente si perdono due dei tre costituenti dell’alleanza terapeutica è possibile ipotizzare che l’assenza prolungata della cooperazione del pz sia un indiretto indicatore di impasse o di rottura dell’alleanza terapeutica.

L’alleanza terapeutica è un costrutto misurabile su larga scala; lo strumento più utilizzato è rappresentato dalla Working Alliance Inventory (Horvath & Greenburg, 1989), costituito da 36-item, somministrate alla fine di ogni seduta e che adottano la finestra di osservazione dell’intera seduta. Tale strumento misura l’accordo tra terapeuta e paziente sugli obiettivi terapeutici, sui compiti condivisi e sulla qualità affettiva del legame rilevato complessivamente all’interno di una finestra di osservazione dell’intera seduta, dalle diverse prospettive del paziente e separatamente del terapeuta.

Il modello AIMIT, invece, utilizza una finestra di osservazione molto più ristretta e consente la misurazione dell’impianto collaborativo “momento per momento” e in tempo reale.

Gli autori aggiungono: “Una buona relazione è un fatto”. Non credo che sia un fatto. possiamo invece considerarla una condizione necessaria, ma non sufficiente a garantire l’efficacia e utilità del trattamento. Otteniamo una buona relazione anche quando accudiamo il paziente che richiede cura e protezione, ma se questo diventa l’unico obiettivo della diade, la relazione stessa diventa iatrogena perché perde la componente terapeutica. Ad esempio, mi è capitato recentemente di ricevere una signora che ha chiesto una terapia dopo aver interrotto un precedente trattamento perché “eravamo diventate amiche con la precedente terapeuta”: quindi la  pz riferisce una relazione buona -con la precedente terapeuta- ma dotata di scarsa terapeuticità. Quindi, è possibile ipotizzare che ci fosse una buona sintonizzazione interpersonale tra una paziente che richiedeva protezione e una terapeuta che sistematicamente accudiva la paziente. Oppure possiamo ipotizzare un piano paritetico e di condivisione tra paziente terapeuta, ma su temi che non riguardavano gli obiettivi terapeutici. Quindi tale sintonizzazione interpersonale era poco terapeutica perché orientata soltanto su alcuni bisogni della paziente; quindi, non era terapeutica perché non era orientata su altri bisogni più maturi e profondi (cioè il raggiungimento degli obiettivi terapeutici e il miglioramento delle capacità di mentalizzazione).

Sassaroli, Caselli e Ruggiero aggiungono: “Una buona relazione è un fatto. Non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione”.

Rotture e impasse nell’alleanza terapeutica

Invece, c’è bisogno di teorie del disturbo e della cura per una serie di motivi: ad esempio, per capire se è il terapeuta a rovinare la relazione con interventi che turbano la sintonia interpersonale oppure se è il paziente che sta presentando i suoi schemi interpersonali disfunzionali. In quest’ultimo caso, la rottura dell’alleanza non è un contrattempo o un incidente di percorso, né un atto di cattiva educazione, ma spesso è un modo che consente di aprire una finestra sul mondo interpersonale del pz che non può verbalizzare certi schemi interpersonali disfunzionali ma può portarli nella relazione mettendo in atto comportamenti concreti nei confronti del terapeuta come avviene assai frequentemente coi pz gravi. È ampiamente noto che i momenti di rottura dell’alleanza non debbano essere contrastati dal terapeuta, ma considerati come momenti delicati e preziosi nel processo terapeutico in corso. Delicati perché il rischio di un imminente drop out è molto elevato e preziosi perché permettono l’osservazione e l’accesso diretto al mondo interpersonale dei pazienti che, specialmente quando hanno storie traumatiche pregresse, spesso non sono in grado di narrare elementi segregati che non appartengono alla coscienza esplicita.

Inoltre una solida teoria della cura può aiutare il terapeuta a riconoscere tempestivamente le rotture e le impasse dell’alleanza e strutturare interventi per la corretta riparazione di tali fratture. Il riconoscimento tempestivo da parte del terapeuta di queste fasi di impasse o di rottura dell’alleanza rappresenta il principale elemento per impostare un corretto e proficuo lavoro di riparazione della frattura, che consente l’esplorazione e la correzione degli schemi interpersonali disfunzionali del paziente (Safran e Muran, 2000; Safran, Segal, 1990). Come sostenuto da Safran e Muran (2000), la conoscenza delle esperienze passate rappresenta un elemento importante, ma spesso insufficiente per avviare un efficace e concreto processo di cura che può realizzarsi invece solo nell’esperienza diretta della relazione terapeutica.  Tuttavia i momenti di rottura impongono al terapeuta un’attenzione particolare determinata dalla particolare intensità e complessità degli stati emotivi implicati, che devono essere compresi sul piano motivazionale per poter reagire in maniera modulata e efficace. quindi, la conoscenza di più teorie aiuta in maniera considerevole il terapeuta a gestire questi delicati momenti. Hill e Rodhes (1994) sottolineano che spesso il terapeuta ignora o sottovaluta le fasi di rottura dell’alleanza, i momenti di stallo terapeutico o di insoddisfazione del paziente, con risultati spesso irreversibili perché con soggetti con traumi pregressi i margini di tolleranza sono molto ridotti e il rischio di drop out è molto elevato.

Concludendo, vorrei sottolineare che le due affermazioni dei nostri colleghi: 1) “la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile”; 2) “non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione” rappresentano due affermazioni frutto di pregiudizio e preclusive per il paziente: frutto di pregiudizio perché non sostenute da una base scientifica e preclusive perché non consentono al paziente di accedere ad un trattamento che tenga in debita considerazione il ruolo e l’importanza della relazione terapeutica e dell’alleanza terapeutica come strumenti terapeutici di efficacia dimostrata, giacché è ampiamente dimostrato che mantenere il focus dell’attenzione sulla relazione e sull’alleanza terapeutica è uno dei pochi dati certi correlati all’esito favorevole della terapia Norcross (2011).

 


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  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017

Alleanza terapeutica - © Lorenzo Recanatini - Alpes Editore
“Alleanza terapeutica” (© Lorenzo Recanatini)

 

Elettroencefalografia (EEG): caratteristiche e modalità di funzionamento – Introduzione alla Psicologia

L’esame di Elettroencefalografia, comunemente chiamato elettroencefalogramma o EEG, non è altro che la misurazione, attraverso l’applicazione di un certo numero di elettrodi sullo scalpo, dell’attività elettrica del cervello, che a sua volta è la somma dell’attività elettrica di ogni singolo neurone. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il voltaggio dell’attività elettrica cerebrale è molto piccolo, e per questo il segnale deve essere amplificato un milione di volte, attraverso l’ausilio di una determinata strumentazione, che lo tradurrà in una traccia scritta, detta elettroencefalogramma, per essere misurato e registrato. Si ottiene, di conseguenza, un tracciato costituito da onde di frequenza e ampiezza diverse, che mostra in quali aree cerebrali è presente una determinata attività.

Quindi, è una tecnica di indagine neurofisiologica funzionale che consente un’esplorazione funzionale, dinamica, in tempo reale, del cervello da cui si ottiene una registrazione grafica continua nel tempo, secondo una precisa distribuzione spaziale dell’attività elettrica, ottenuta dallo scalpo.

Storia

L’ elettroencefalografia fu sviluppata da Hans Berger tra il 1924 ed il 1938 e fu utilizzata per la prima volta alla fine degli anni ’20 alla Friedrich Schiller Universität di Jena.

Berger scoprì che l’attività dei neuroni della corteccia cerebrale è coordinata in modo tale da indurre variazioni del campo elettrico e gli elettrodi, posizionati opportunamente sullo scalpo, registrano eventi di natura elettrica che si verificano nella corteccia sottostante. Quindi, la differenza di potenziale elettrico che si verifica tra aghi posizionati nello scalpo oppure tra due piccoli dischi di metallo (elettrodi) quando essi sono posti a contatto con il cuoio capelluto, corrisponde all’attività elettrica dell’area studiata.

Questa tecnica fu, in seguito, utilizzata per comprendere le diverse fasi del sonno e per rilevare l’attività cerebrale degli animali, scoprendo che anche essi sognano o rallentano la loro attività cerebrale durante la notte.

L’attività elettrica della corteccia cerebrale, generata soprattutto dai neuroni corticali, è data dalla somma dei potenziali post-sinaptici sincronizzati con i dendriti dei neuroni corticali.

L’ elettroencefalografia  è, in sostanza, un bioritmo influenzato dall’ambiente esterno e interno del soggetto, che varia nel corso del ciclo nictemerale e si modifica in funzione dell’età. Si relaziona direttamente con il funzionamento dell’encefalo e, quindi, con il comportamento e le modificazioni dello stato di coscienza dell’individuo.

L’ elettroencefalografia restituisce una rappresentazione grafica della registrazione, caratterizzata da onde più o meno alte e ampie, ed è definita elettroencefalogramma (EEG). L’EEG deve sempre essere letto riferendosi all’età, alle condizioni fisiologiche e al grado di vigilanza del soggetto. Esso si registra su carta termica o millimetrata, su monitor collegati ad Hard Disk, CD o DVD, consentendo una visione in tempi successivi del grafico.

Funzionamento dell’ elettroencefalografia

I neuroni corticali sono organizzati in modo da formare colonne a orientamento perpendicolare alla superficie della corteccia cerebrale, di cui costituiscono le unità funzionali elementari. L’EEG è l’espressione e la rilevazione dei processi sinaptici, ovvero potenziali elettrici pre e post sinaptici, derivanti dai dendriti e della neuroglia.

I potenziali rilevati attraverso l’EEG sono associati a correnti, verificatesi all’interno dell’encefalo, che fluiscono perpendicolarmente rispetto allo scalpo.

Con l’elettroencefalografia si rileva l’attività elettrica cerebrale durante la veglia, il sonno, e in particolari condizioni mediche. L’elettroencefalografia consente il monitoraggio nel tempo della funzione cerebrale e può evidenziare anomalie anche in assenza di lesioni strutturali documentabili.

Caratteristiche

L’EEG è costituita da un caschetto in plastica dal quale fuoriescono elettrodi che si applicano sullo scalpo secondo il posizionamento standard chiamato sistema internazionale 10-20, rispettando la distanza tra due punti di repère cranici inion, prominenza alla base dell’osso occipitale, nasion, attaccatura superiore del naso e trago, punta superiore della testa. Si collocano da 10 a 20 elettrodi e una massa, seguendo cinque linee: P1: longitudinale esterna, P2: longitudinale interna destra, centrale, P1: longitudinale esterna, P2: longitudinale interna sinistra.
Gli elettrodi sono posti simmetricamente sulle due metà del capo assumendo diverse combinazioni: bipolare, lineari, trasversali e longitudinali (superiore e inferiore).

La posizione che ogni elettrodo occupa sullo scalpo si identifica attraverso una/due lettere, che permettono di identificare la regione della corteccia esplorata e da un numero.

Onde dell’EEG

L’EEG è caratterizzato da onde, ognuna con diverse peculiarità. L’attività di fondo, ovvero l’andamento di base del tracciato, rappresenta la base da cui si differenzia un certo quadro normale o patologico. L’attività si può presentare in maniera continua, detta ritmo, in maniera occasionale e sporadica, cioè a intervalli di tempo incostanti, in intervalli approssimativamente regolari, costituita da attività periodiche, o in maniera parossistica. I parossismi sono una serie di onde che appaiono e spariscono improvvisamente, nettamente distinte dall’attività di fondo. Il complesso, invece, è un gruppo di due o più onde, chiaramente distinguibili dall’attività di fondo, che può apparire anche in maniera ricorrente. Essi si distinguono in. complessi punta-onda, polipunta-onda, complessi K, combinazione di punte al vertice e di attività sigma che appare in genere nel sonno come risposta a stimoli improvvisi. Mentre, il ritmo sono una serie di onde con una certa costanza nel periodo, l’intervallo di tempo in millisecondi tra l’inizio e la fine di un’onda, nella forma e nella frequenza.

I ritmi possono essere rapidi, ovvero avere una frequenza superiore ai 14 cicli per secondo e un voltaggio basso. Questo ritmo si verifica principalmente nelle regioni rolandiche e prerolandiche. Esistono diversi ritmi rapidi, tra cui il più regolare è il ritmo beta. Esso è distinto in beta lento (13.5-18 c/s) e beta rapido (18.5-30 c/s), e presenta un voltaggio medio di 19 microVolt (8-30 microVolt). Le onde beta si rilevano in un soggetto ad occhi aperti o in stati di allerta. Il Ritmo alfa, invece, è il principale componente del tracciato del soggetto normale adulto a riposo sensoriale. Risulta da oscillazioni di frequenza comprese tra 8 e 12 cicli per secondo, con voltaggio di circa 50 microvolts e di aspetto sinusoidale, per lo più radunati in fusi.

Oltre ai ritmi rapidi esistono anche i ritmi lenti caratterizzati da onde theta che hanno una frequenza tra 4 e 7 cicli per secondo e possono avere voltaggio vario, in genere inferiore all’alfa. La localizzazione preferenziale è temporo-parietale. Nell’adulto, quando si manifestano, indicano la presenza di patologia. Questo ritmo segue la fase Theta durante il sonno, quando cominciano a comparire piccoli treni di onde, dette Sigma a frequenza di 12-14 Hz e tensione elettrica di 5-50 µV, sotto forma di fusi, chiamati così per la loro forma grafica, e grafoelementi detti complessi K. Le onde delta, inoltre, hanno una frequenza tra 0 e 3 cicli al secondo; il voltaggio è variabile e può raggiungere e superare i 200 microvolts. Le onde delta caratterizzano il sonno non R.E.M. detto anche sonno ad onde lente si manifesta dai 20 ai 40 minuti circa dall’inizio dell’addormentamento e si ripete diverse volte durante il sonno. Nei diversi stadi di sonno sono presenti principalmente onde theta e onde delta, a cui si aggiungono picchi di attività alfa e, raramente, di attività beta. Inoltre, si manifestano anche le onde PGO (ponto-genicolo-occipitali), l’attività dell’ippocampo si sincronizza con la comparsa di onde theta.

In condizioni patologiche che interessano direttamente o indirettamente la corteccia cerebrale, l’EEG può presentare onde patologiche come punte, complessi punta-onde, onde delta e theta ecc. Queste anomalie possono essere localizzate, in modo che le alterazioni eegrafiche corrispondano usualmente alla sede della lesione, o diffuse, dove le alterazioni dei centri sottocorticali influenzano l’elettrogenesi corticale.

Utilizzo dell’ elettroencefalografia

L’EEG si utilizza in presenza di epilessia in cui si rilevano onde anomale come punte, punte-onda o per segnalare la presenza di alterazioni che possono indurre il neurologo a chiedere approfondimenti diagnostici come TAC oppure RM per rilevare la presenza di ascessi, calcificazioni, cisti, ematomi, emorragie, infiammazioni, malformazioni oppure tumori del cervello benigni o maligni. Inoltre, è usata nei pazienti comatosi, per accertare lo stato di morte cerebrale, caratterizzato dal tracciato dell’EEG piatto, detto silente, corrispondente ad un potenziale elettrico cerebrale inferiore ai 2 microvolt, per la durata di almeno 30 minuti. Inoltre, è usato in casi di malattie degenerative, alterazioni metaboliche, cefalee, traumi cranici, effetti del consumo di droghe sul funzionamento cerebrale. L’EEG è utilizzato negli studi sul sonno, per poter discriminare tra vari tipi di disturbi come le apnee nel sonno, l’epilessia notturna, le dissonnie (insonnia, ipersonnia, narcolessia) e le parasonnie (bruxismo, enuresi notturna, pavor nocturnus, sonnambulismo).

Tracciato EEG normale e patologico

L’EEG di un soggetto sano, adulto, vigile, in riposo sensoriale, rilassato, con gli occhi chiusi presenta un’attività di fondo in banda alfa che occupa i 2/3 posteriori del capo, regione parieto-temporo-occipitale bilaterale, simmetrica, sincrona e stabile. I ritmi beta si registrano sulle regioni frontali e centrali, i ritmi theta si possono osservare sulle regioni temporali spesso frammisti all’alfa, e si osserva la reattività del ritmo alfa che viene interrotto dall’apertura degli occhi in modo sincrono e asimmetrico sui due emisferi e sostituito bilateralmente da ritmi rapidi.

L’EEG patologico mostra anomalie diffuse sui due emisferi che consistono sia in onde lente sia figure parossistiche, con inizio e fine improvvisi. Questi eventi devono essere interpretati tenendo conto di età, vigilanza, condizioni di registrazione, e del quadro clinico generale. Le anomalie possono essere localizzate o focali, e riflettono un’alterazione cerebrale circoscritta che potrebbe dipendere da una lesione che interessa una struttura profonda, proietta su quella regione della corteccia, o lente e diffuse che possono dipendere da un’anomalia non lesionale nel quadro di un’ encefalopatia diffusa. Mentre le anomalie lente diffuse bilaterali più o meno sincrone sui due emisferi possono dipendere da un’ alterazione lesionale delle strutture centrali profonde che controllano normalmente la modulazione dei ritmi corticali.

L’elettroencefalografia è l’unica tecnica che permette un monitoraggio nel tempo della funzione cerebrale e può evidenziare anomalie anche in assenza di lesioni strutturali documentabili. L’EEG rappresenta un valido strumento d’indagine nelle patologie in grado di modificare ed alterare l’attività elettrica cerebrale.

Una tecnica complementare all’EEG è la magnetoencefalografia (MEG), che permette di misurare le correnti che fluiscono parallelamente allo scalpo e le fluttuazioni del campo magnetico che l’organismo produce. La MEG consente, dunque, di rilevare la funzionalità cerebrale tramite la misura di un campo magnetico generato dall’attività elettrica cerebrale. L’EEG solitamente è eseguita insieme ad altre analisi per orientare e completare al meglio il quadro diagnostico.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Gestire lo stress nello sport: l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale

La corretta gestione dello stress nello sport, soprattutto per atleti di alto livello, rappresenta un elemento fondamentale. Quest’ultima, non solo incide negativamente sulla qualità di vita dell’atleta, ma influisce anche negativamente sulla sua performance. Un interessante studio condotto dalle università di Leeds Beckett e Loughborough dimostra come la CBT possa effettivamente modificare il modo in cui gli atleti di alto livello rispondono allo stress nello sport, e apporti vantaggi significativi in relazione alle loro emozioni e prestazioni.

 

La terapia cognitivo comportamentale per gestire lo stress nello sport

Faye Didymus ha lavorato con quattro giocatrici di hockey di alto livello per un periodo di nove mesi, utilizzando la tecnica della ristrutturazione cognitiva, tipica della CBT. L’obiettivo dello studioso era quello di aiutare le atlete a identificare quali pensieri avessero prima delle competizioni sportive che le mettevano sotto pressione di fronte ad alcuni stimoli e a comprendere la loro risposta emotiva a tali stimoli, al fine di prendere in considerazione alternative più utili e adattive. I risultati ottenuti grazie alla ristrutturazione cognitiva sono stati immediati: gli stimoli che, in un primo momento, erano concepiti come minacce, le giocatrici hanno cominciato a vederli come delle sfide. Tale modificazione comportava un aumento delle emozioni positive e una maggiore soddisfazione riguardo alle loro prestazioni.

In linea con quanto sostenuto dallo studio sopracitato, Didimo, dal Carnegie Institute di ricerca presso Università di Leeds Beckett, sostiene come la ristrutturazione cognitiva possa aiutare le persone a gestire meglio ciò che pensano. L’autore ha anche aggiunto che questa tecnica è particolarmente importante nello sport, dove gli atleti si trovano a svolgere specifiche performance sotto pressione, sia da soli o come parte di una squadra. Infine, Didimo evidenzia come la CBT sia stata anche utilizzata in contesti di salute e di business per migliorare il benessere e le prestazioni degli individui, ma essa venga utilizzata in misura maggiore e da più lungo tempo nei contesti sportivi.

Un altro importante studio è stato condotto in Inghilterra. In questa ricerca, alcuni atleti, dovevano svolgere una selezione per entrare a far parte di un team. I fattori di stress individuati dai giocatori erano relativi alla presenza di osservatori, che avevano il compito di effettuare la selezione, la comunicazione con il coach, problemi con i compagni di squadra, la presenza di molti spettatori, e le decisioni degli arbitri.

I giocatori sono stati valutati, prima di utilizzare la CBT, allo scopo di identificare coloro che presentavano una maggiore probabilità di beneficiare del programma. Ogni giocatore poi ha partecipato a un programma di approfondimento personalizzato di CBT, per essere aiutato a comprendere meglio i propri pensieri di stress, le emozioni associate, e come queste avrebbero potuto essere modificate attraverso la CBT.

Un immediato impatto positivo è stato osservato su tutte le variabili legate allo stress precedentemente individuate. In particolare, i giocatori hanno iniziato a concepire i diversi fattori di stress come delle sfide piuttosto che delle minacce. A seguito di tale cambiamento, le emozioni positive e la soddisfazione relativa alle prestazioni dei giocatori sono aumentate. Quando i giocatori sono stati valutati tre mesi dopo il programma, questi benefici risultavano stabili.

Visto il successo della CBT, il dottor Didimo ritiene che il programma sviluppato dovrebbe ora essere adattato e testato in una serie di sport, e ha aggiunto: “Vorremmo anche integrare le misure oggettive di performance all’interno di prove future e osservare come migliorare le risposte degli individui allo stress possa apportare benefici alla squadra nel suo complesso.”

Io e identità: l’identità diffusa del borderline e l’Io grandioso del narcisista

A giochi conclusi, la sera a luci spente, mi rincuora pensare che Io è tutte quelle parti, un puzzle di quelli che ci giocano i bambini tante volte e alcuni pezzi sono mangiucchiati e non combaciano più e altri sono stati persi, ma l’immagine che ho ricomposto ha ancora senso compiuto. Immagino Daniel Dennett dirmi che ho trovato il mio “centro di gravità narrativa”.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su La lettura del 14 maggio de Il Corriere della Sera, all’interno di una sezione speciale sui pronomi personali

 

Io è un mouse dal filo sconnesso, Io è Dio, Io è il trasformista che ti seduce, Io è appena esploso. Lo hanno smembrato Picasso e Pirandello e Io si è ricomposto in forma di dittatore vanaglorioso.

Quanta illusione c’è dietro quel pronome che ci rassicura sulla nostra identità, una roba da vertigini. Dire: “Io” è come fare una promessa di costanza. Domani mi ritroverai dov’ero oggi e se non mi presento l’accusa sarà di tradimento. Un’ipoteca ben garantita, un invito alla fiducia.

Menzogne. Io è solo la parola che definisce il centro di controllo dell’azione, ma i manovratori sono soggetti a turni. Ora voglio guardare mio figlio giocare a tennis. Chi guida la macchina verso il circolo? Io, il mio amore per il gioco, o l’ambizione che ho respirato in famiglia? Ora preparo la cena per la mia compagna. Chi profuma il tonno fresco di finocchietto selvatico? Il mio amore per i sapori intensi, complessi, evocativi? O la memoria dei giorni in cui temevo di perdere mia madre e mi attaccavo all’odore del ragù tirato per ore? Chi mi spinge a rubare tempo al gioco e spendere ore a studiare per scrivere il prossimo lavoro scientifico? Il mio gusto per la scoperta? O ancora il bisogno di soddisfare quelle ambizioni, trascinato da un motore che non si spegne mai?

A giochi conclusi, la sera a luci spente, mi rincuora pensare che Io è tutte quelle parti, un puzzle di quelli che ci giocano i bambini tante volte e alcuni pezzi sono mangiucchiati e non combaciano più e altri sono stati persi, ma l’immagine che ho ricomposto ha ancora senso compiuto. Immagino Daniel Dennett dirmi che ho trovato il mio “centro di gravità narrativa”.

Nei laboratori di psicoterapia vediamo le malattie dell’Io che segnano i nostri tempi. L’identità che chiamiamo “diffusa”: scomposta, sfibrata. La chiamiamo personalità borderline, ed è un vero caos. Un principio organizzatore è assente e l’azione è guidata da emozioni che scalciano come muli: rabbia, angoscia, tristezza infinita, più rabbia e poi click, si spegne tutto, un vuoto insopportabile, lo sguardo fisso al soffitto bianco. “Un grande amore via l’altro, quello di oggi è più bello, però non ha risposto al telefono e quindi mi sta tradendo, nessun dubbio e allora chi è lui e chi sono… io?”. L’Io borderline è il mouse staccato dalla presa USB.

L’altro simbolo: l’Io grandioso, la maschera del narcisismo. L’uomo che sbatte se stesso in prima pagina, anela alla grande bellezza, lo specchio che rimanda gloria e superiorità sfacciata. Attenzione, l’Io gonfiato è una misera copertura, protettiva quanto una sciarpetta di seta nel vento di novembre di Oslo. Il Dio, dittatore vanaglorioso, non protegge il suo popolo, si inebria solo di una gloria che imbelletta la corrosione del regno.

La soluzione che guida il mio lavoro: la disciplina dell’azione desiderata. Ascoltare il coro che parla dentro di noi e poi dimenticarlo e poi distinguere quella voce che suona più nostra e allora: agire, con perseveranza. Quando spezio il cibo e sento gli odori che si sprigionano dal soffritto sento dire Io con una buona ragione.

Bio-Neuro Feedback in azienda: un esempio di applicazione

Il Bio-Neuro Feedback è una tecnica messa a punto per controllare i parametri fisiologici della persona e ricondurli a valori più funzionali, allo scopo di raggiungere uno stato fisiologico e psicologico ottimale.

Angela Beatrice Marino – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano 

 

Il Bio-Neuro Feedback combina l’utilizzo di variabili relative ad aspetti fisiologici e ad aspetti neurali, in un primo momento misurati in situazioni di tranquillità e, successivamente, controllati dopo aver sottoposto l’individuo a degli stimoli “stressanti”.

Il Bio-Neuro Feedback: l’utilizzo di feedback fisiologici e neurali

Tale tecnica viene utilizzata in diversi ambiti non clinici, tra i quali ad esempio la psicologia dello sport, per aiutare gli atleti a migliorare le proprie performances, oppure nella psicologia del lavoro, dove si utilizzano dei training basati sui risultati del biofeedback e neurofeedback per aiutare i manager a gestire le proprie reazioni durante gli eventi stressanti, migliorandone le prestazioni lavorative.

Il Bio-Neuro Feedback combina due tecniche differenti: da un lato utilizza il neurofeedback, una metodologia attraverso la quale le informazioni sulle variazioni dell’attività neurale di un individuo vengono fornite all’individuo stesso in tempo reale, permettendogli di autoregolare questa attività (ottenendo così modifiche del comportamento della persona); dall’altro lato il biofeedback fornisce informazioni sui parametri fisiologici dell’individuo quali il ritmo del respiro, la vasodilatazione arteriale, la tensione muscolare, la conduttanza cutanea, la variabilità cardiaca e la temperatura periferica, con lo scopo di monitorarle e ricondurle a valori ottimali.

Per fare ciò, sono stati messi a punto una procedura e degli strumenti utilizzati in sessioni di training rivolte a manager e sportivi, i quali vengono così addestrati a utilizzare questi tipi di feedback per migliorare le proprie performance, sia in campo lavorativo che in campo agonistico.

Il percorso di Bio-Neuro Feedback prevede in prima battuta l’utilizzo di questionari che vanno ad analizzare il livello di stress dell’individuo, rilevando i fattori stressogeni individuali e quelli dipendenti dall’ambiente circostante o dall’organizzazione nella quale l’individuo lavora. Successivamente, la persona viene sottoposta a un assessment individuale delle reazioni fisiologiche e delle attivazioni neurologiche, ponendola dapprima in situazioni “stressanti”  e confrontando successivamente i parametri misurati con quelli rilevati in situazioni di “calma”.

Il Bio-Neuro Feedback per il benessere della persona

Per comprendere a fondo come le procedure di valutazione siano state messe a punto, è fondamentale partire dal presupposto che l’obiettivo è di puntare non solo l’ottimizzazione della performance, ma anche al mantenimento del benessere della persona.

Con il termine “stato di benessere” si intende quanto stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) con la Carta di Ottawa del 21 di Novembre 1986:

La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere.

In tal senso, viene anche sposata la visione sistemica, secondo la quale il benessere dell’individuo dipende dal sistema bio-psico-sociale: bisogna considerare il “sistema individuo” come micro-sistema e l’ambiente circostante (lavoro, famiglia, società) come sistema “macro”. Pertanto, il benessere dell’individuo non dipende solo da quello che accade nel “micro”, ma anche da come il “macro-sistema” circostante interviene su di esso. Per questo motivo l’utilizzo del Bio-Neuro Feedback è focalizzato a ripristinare il benessere, tutelare la salute individuale e il benessere psico-fisico dell’individuo, utilizzando azioni di prevenzione, mantenimento e recupero dello stato di salute; ad esso viene sempre abbinato un intervento sul “sistema ambiente”, attraverso azioni sull’organizzazione e sull’ambiente entro quale l’individuo è inserito.

L’utilizzo del Bio-Neuro Feedback per ridurre lo stress

Altro parametro su il quale ci si pone l’obiettivo di incidere attraverso l’utilizzo del Bio-Neuro Feedback è ciò che viene chiamato il “fenomeno stress”: esso è definito come la risposta psicofisica ad una certa quantità di compiti, pertanto in questi termini è un’attività normale e adattiva.

La reazione di stress è una risposta automatica e primitiva: essa è scatenata da uno stimolo percepito attraverso i canali sensoriali che attivano la reazione di allarme, localizzata a livello dell’amigdala, la zona centrale e più primitiva del cervello, che attraverso l’attivazione dell’asse talamo-ipofisi-surrene, dà il via alla cosiddetta risposta “attacco-fuga”.

Per comprendere come l’individuo vive un determinato stimolo e reagisce ad esso è di fondamentale importanza capire come tale stimolo è percepito ed interpretato dalla mente dell’individuo, attuando tipologie differenti di risposta emotiva e comportamentale. Risposte tipiche di reazione allo stress a livello comportamentale sono, ad esempio, comportamenti di evitamento da una parte, e l’aumento della vigilanza e dell’attivazione mentale dall’altra.

Esistono diverse fasi dello stress:

  1. Una prima fase di allarme, durante la quale si verificano delle alterazioni a carico del sistema nervoso simpatico e modificazioni a livello dei sistemi cardiocircolatorio, ormonale, muscolare e gastrointestinale. Questi meccanismi servono a predisporre l’organismo all’azione.
  2. La seconda fase, detta di resistenza, si verifica quando, superata la prima fase critica, l’organismo si adatta alla nuova situazione, ripristinando livelli di difesa standard. La durata di questa fase è variabile, in quanto dipende da diversi fattori, quali l’intensità dello stress vissuto, le risorse personali e ambientali.
  3. La terza fase di esaurimento è caratterizzata da un livello di difesa molto basso e può portare l’individuo a condizioni di stanchezza o di tensione, di malattia, qualora non sia attivato un meccanismo di recupero o siano ancora in atto le condizioni stressanti.

Alcuni individui sono soggetti a stress continuo, il quale comporta risposte fisiologiche e comportamentali di adattamento croniche, che a lungo andare possono causare affaticamento ed indebolimento generale. In tali condizioni possono insorgere più facilmente malattie, possono essere inficiati i processi di crescita, i processi di ricambio e riparazione cellulare sono deficitari. Alcuni tipici effetti negativi dello stress comportano l’aumento degli ormoni androgeni, causa della caduta dei capelli, dell’aumento dell’acne e dell’amenorrea.

Attraverso un training basato sul Bio-Neuro Feedback, si punta a raggiungere l’ottimizzazione della performance e dello stato di salute dell’individuo, inserito in un determinato contesto professionale o sportivo. Si parte dal presupposto che la prestazione è frutto non solo di talento, competenze, strategie e preparazione, ma ruolo fondamentale rivestono anche il “dialogo interno” della persona, i fattori fisici e biologici. Pertanto, tra quella che viene definita “performance potenziale” e la “performance effettiva”, possono intervenire fattori interni ed esterni all’individuo che, elaborati a livello mentale e psicologico, possono interferire con le prestazioni, influendo sul livello di tale prestazione.

Tutto ciò può causare nell’individuo vissuti personali negativi, quali un diminuito livello di autostima, un dialogo interno poco funzionale, strategie di coping inadeguate, con conseguenze a livello di comportamenti poco funzionali e quindi uno scarso adattamento all’ambiente circostante. La persona soccombe a ciò che viene comunemente definito stress, che inciderà negativamente sul suo livello di benessere generale, alimentando vissuti di inadeguatezza, e tornando ad influire negativamente sulla performance, rinforzando così il circolo vizioso.

L’intervento di training agisce su due fronti: sul fronte dell’individuo si interviene attraverso il monitoraggio del proprio stato psico-fisiologico, cercando di gestirlo riportando i parametri fisiologici entro livelli ottimali, agendo sia secondo una logica bottom-up, dalle sensazioni agli aspetti psicologici, sia in una logica top-down, attraverso la quale si invita l’individuo a “riprendere possesso” delle proprie sensazioni ed emozioni negative, utilizzando il pensiero e il controllo mentale; sul fronte del macro-sistema “organizzazione” entro la quale l’individuo è inserito, si agisce attraverso degli interventi di miglioramento del clima aziendale, quali corsi, workshop e altri interventi sulle risorse umane.

Il lavoro sull’individuo è fondato sull’utilizzo del Neurological e Fisiological training (uso non clinico e terapeutico del Bio e Neuro feedback): esso utilizza delle procedure di “allenamento” che hanno l’obiettivo di insegnare alla persona a spostare l’attenzione dai suoi pensieri intrusivi e dalle sue preoccupazioni, indirizzandosi verso una condizione di maggior presenza, attenzione, concentrazione e vigilanza. Attraverso questo percorso, inoltre, la persona riesce ad aumentare la propria consapevolezza e la comprensione di come le attività del pensiero influenzino la fisiologia, e come la fisiologia influenzi i pensieri.

In dettaglio, il primo step provvede ad effettuare una valutazione di parametri inerenti il sistema nervoso, quali frequenza della respirazione, la dilatazione dei vasi arteriali, la tensione muscolare, la conduttanza cutanea, la variabilità cardiaca e la temperatura periferica; a ciò si uniscono i dati provenienti da una elettroencefalografia qualitativa EGG; tutti questi parametri vengono misurati prima ponendo la persona in condizioni di rilassamento, e poi misurati in condizioni di “stress”, generato sottoponendo l’individuo a prove più o meno impegnative.

Questo percorso di valutazione serve al trainer, ma soprattutto all’individuo, per individuare il suo “profilo” psicofisiologico di base, e come esso si comporta nelle situazioni di stress, individuando le aree di possibile miglioramento e che quindi potranno essere sottoposte ad un training, per aiutare la persona a mantenere un livello di attivazione ottimale al mantenimento del suo benessere e all’ottimizzazione della sua performance.

Il training al quale le persone saranno successivamente sottoposte ha una durata di sei sedute di un’ora mezza e, utilizzando supporti informatici in una veste ludica, si pone obiettivi molto ambiziosi, ma realistici e ben ancorati alla teoria. Infatti, gli esercizi proposti da un lato mirano al riequilibrio di condizioni fisiologiche, attraverso l’uso di tecniche di stampo più comportamentale, come la respirazione, il rilassamento muscolare, che hanno lo scopo di ribilanciare il sistema nervoso simpatico e parasimpatico; dall’altro lato, si utilizzano esercizi incentrati su aspetti cognitivi, che servono a rifocalizzare l’attenzione o a mantenere il focus attentivo in vista di un obiettivo finale.

Dopo circa un mese dall’ultima seduta la persona è invitata a effettuare un ri-Assessment il cui scopo è misurare le eventuali differenze dei valori pre-training e post-training, attraverso i quali si cerca di pervenire a delle spiegazioni quali-quantitative dei cambiamenti avvenuti.

Il Bio-Neuro Feedback in azienda: l’esempio di Arriva Italia

Un esempio di applicazione di questo tipo di progetto con Bio-Neuro Feedback è stato realizzato dalla società Demichelis Mindroom Srl all’interno di Arriva Italia, holding italiana del gruppo Arriva, che gestisce i trasporti pubblici con filiali in tutta Europa e circa 3500 dipendenti in Italia. La popolazione aziendale coinvolta è costituita da 54 manager collocati in 7 differenti sedi del nord Italia. In tale azienda i momenti di sessione individuale (4 incontri totali da 1,5 ore ciascuno) sono stati alternanti da momenti di gruppo finalizzati ad approfondire tematiche specifiche legate allo Stress.

In una prima fase è stato somministrato alle persone il test OSI Occupational Stress Indicator (Cooper, C.,L., Sloan, S.; Williams, S., 2002) utilizzato per la rilevazione ad ampio spettro dello stress psicosociale nelle organizzazioni. Questo strumento è volto a rilevare le caratteristiche personali che possono favorire lo stress, individuando le caratteristiche individuali, quali fattori biografici e le caratteristiche psicologiche, le strategie di coping adottate e gli effetti sull’organizzazione e sull’individuo stesso. I risultati ottenuti sono poi stati messi a confronto con quelli standardizzati.

In ciascuno dei quattro incontri si è, inoltre, proceduto ad applicare il protocollo Bio-Neuro Feedback. I risultati più significativi si sono avuti nella conduttanza cutanea e nella temperatura periferica; tali parametri fisiologici sono identificati come indicatori di stabilità emotiva e di benessere psicofisico, anche per la loro relazione con la vasodilatazione e l’attività cardiorespiratoria. Il training ai manager ha dato risultati molto soddisfacenti in particolare nel controllo dei due parametri sopracitati, attraverso i quali si è potuto incrementare il livello di stabilità emotiva, aiutando le persone ad affrontare più efficacemente le situazioni di stress. La stabilità emotiva, difatti, aiuta a gestire al meglio le risposte automatiche del corpo in risposta a situazioni di stress. Le misurazioni effettuate dopo la terza seduta del trattamento hanno addirittura evidenziato un incremento del 40% della stabilità emotiva per il 38% del campione; per il rimanente 62% si è rilevato un aumento dell’indice di stabilità emotiva di almeno il 20%.

Per quanto riguarda l’indice di benessere psicofisico, per più della metà del gruppo di manager, già al termine della seconda seduta di training, sono stati rilevati dei miglioramenti sui valori del 45% e al termine del terzo incontro un terzo del gruppo aveva evidenziato un miglioramento del 62%. L’intervento ha riscontrato un buon livello di partecipazione e coinvolgimento, un alto livello di interesse e un miglioramento nei parametri fisiologici per la maggior parte dei manager coinvolti, i quali hanno imparato ad osservare i propri parametri fisiologici nei momenti stressanti e hanno compreso come gestire la “fisiologia” dello stress. Inoltre, per l’incremento del benessere organizzativo, sono stati individuati, grazie all’analisi e confronto di casi individuali, azioni da mettere in atto per aumentare il committment individuale nell’azienda e le relazioni interpersonali a vari livelli.

A fronte dei dati emersi in varie applicazioni del Bio-Neuro Feedback, di cui quello sopra riportato è solo un esempio, si può affermare che un protocollo ben studiato di training basato su questa tecnica, può portare significativi risultati nel miglioramento delle performances, nel mantenimento dello stato di benessere e nel far fronte allo stress.

Lo stress dei genitori di bambini con diagnosi di autismo

Le famiglie di bambini autistici duramente colpite dai molteplici deficit dei loro figli vivono stress a livello individuale, coniugale, genitoriale e rispetto alla relazione con altri figli.

Bernardi Laura – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Dai primi approcci che dagli anni ’50 hanno affrontato lo studio dell’impatto della disabilità sulla famiglia, si è andata affermando in letteratura l’idea di un impatto necessariamente negativo della disabilità sulle vite delle famiglie che ha poi guidato la ricerca sull’argomento dando centralità a concetti quali dolore, lutto e tristezza cronica (Kearney e Griffin, 2001). Fino agli anni ‘80 la letteratura in questa prospettiva ha assunto come base la sola dimensione negativa del fenomeno disabilità, sviluppando un’ipotesi di reazione disadattiva allo stress che ha ribadito l’ineluttabilità di una risposta patologica delle famiglie.

Lo stress nelle famiglie di bambini autistici

A questo proposito si trova un’ampia rassegna di studi che indagano i principali eventi della vita dei soggetti autistici e descrivono le reazioni dei familiari. Le famiglie di bambini autistici duramente colpite dai molteplici deficit dei loro figli vivono stress a livello individuale, coniugale, genitoriale e rispetto alla relazione con altri figli (DeMyer, 1979). Sembra che la natura della sindrome autistica renda questa patologia particolarmente stressante per le famiglie rispetto a molti altri tipi di disturbi (Bouma e Scweitzer, 1990; Fisman et al., 1996; 2000; Kasari e Sigman 1997; Sanders e Morgan, 1997). Numerosi studi hanno constatato come, i genitori di figli con disabilità e con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, mostrino elevati livelli di stress rispetto a famiglie con figli con un normale processo di sviluppo (Hastings, Honey  e McConachie 2005; Dumas, 1991; Koegel, 1992; Konstantareas, 1992; Sanders e Morgan, 1997) osservando, in generale, che i padri riportano minori livelli di stress rispetto alle madri (Bristol, 1988; Gray e Golden, 1992; Konstantareas, 1992; Moes, 1992).

Altri studi su famiglie di bambini autistici rilevano un’associazione positiva tra sintomatologia autistica e stress genitoriale (Bebko, Konstantareas e Springer, 1987;  Konstantareas e Homatidis 1989; Szatmari, Archer, Fisman e Steiner, 1994; Kasari e Sigman 1997; Hastings e Johnson 2001). I caregiver stessi riferiscono che i loro figli hanno un temperamento più difficile e riportano, rispetto a caregiver di soggetti normodotati e soggetti con Sindrome di Down, livelli più elevati di stress associati alle caratteristiche del bambino (Dunn, Burbine e Bowers, 2001; Kasari e Sigman, 1997).

Un primo motivo di stress è la mancanza d’interazione (Dumas, Wolf, Fisman e Cullig,1990; Kasari e  Sigman, 1997). Vera o apparente che sia, questa indifferenza del bambino autistico rivolta ai famigliari, provoca nei genitori sentimenti di rifiuto, d’inutilità e di amore non corrisposto. Kasari et al. (1997) hanno osservato, inoltre, che i caregiver che giudicano i propri figli autistici dal temperamento difficile si impegnano meno nelle interazioni con i bambini. Anche Dumas et al. (1990) hanno rilevato che, nelle famiglie di bambini autistici, le madri non sorridono in risposta al sorriso dei figli così spesso quanto le madri di bambini normali. Nello studio di Gray (1994) l’assenza delle abilità di linguaggio è indicata dalle famiglie di bambini autistici come il fattore maggiormente stressante. È il fallimento nello sviluppo normale del linguaggio a spingere molti genitori a un consulto medico (DeMeyer, 1979).  Tuttavia, per alcuni genitori di questo studio, il deficit di linguaggio del loro bambino rimane una fonte di stress anche dopo la diagnosi. Sebbene molti genitori arrivino ad accettare che la condizione di loro figlio comporti più di un disturbo del linguaggio, il fallimento del bambino nello sviluppo delle abilità linguistiche normali resta uno degli aspetti più frustranti dell’autismo (Gray, 1994).

Baker et al. hanno osservato questa associazione in bambini di età pre-scolare con ritardo nello sviluppo (Baker et al., 2002; 2003). Altri hanno trovato che i comportamenti problema sono per i genitori stressor più importanti della gravità della disabilità (Willoughby r Glidden, 1995; Essex et al., 1999; Hastings, 2002). Purtroppo la relazione tra comportamenti problema e stress genitoriale in soggetti con disturbi dello spettro autistico ha ricevuto scarsa attenzione in letteratura. Uno studio più recente di Lecavalier, Leone e Wiltze (2005), che esamina i correlati dello stress nei caregiver di un ampio campione di bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico, riporta che i comportamenti problema sono i fattori maggiormente associati allo stress rispetto a tutte le altre caratteristiche misurate in bambini e caregiver. Condotte problematiche e assenza di comportamenti prosociali sono i più fortemente legati allo stress (Lecavalier, 2005). I risultati di questo studio rilevano, inoltre, che comportamenti problematici e stress rimangono stabili e si aggravano l’un l’altro nel corso di un anno.

La preoccupazione per il futuro

La famiglia di soggetti affetti da autismo fa fatica o è impossibilitata a svolgere una vita normale e, a causa della natura permanente del disturbo, resta perennemente angosciata dall’incertezza sia per il futuro prossimo del proprio bambino, o addirittura dell’indomani, sia per quello più lontano della vecchiaia e della morte. La terapia che si protrae per tutta l’esistenza e l’assenza di cure implicano che le famiglie si occupino del figlio disabile per molti anni. Decidere dove il proprio figlio autistico vivrà da adulto, è una delle questioni più difficili che le famiglie con bambini autistici devono affrontare. Uno studio recente (Harper A et Al.2013), ha dimostrato che i genitori dei bambini con un disturbo dello spettro autistico sono a maggior rischio di altre coppie di avere livelli di stress più elevato e una minore qualità della vita coniugale. Risulta interessante valutare come un intervento a sostegno del loro lavoro quotidiano di cura del figlio sia stato suggerito come un modo per contribuire ad alleviare lo stress.

Questo studio ha valutato la relazione tra la quantità e la qualità del sostegno alla famiglia e la qualità della vita coniugale, e poi il potenziale di stress in termini complessivi e lo stress della madre o del padre come variabili intermedie. I risultati hanno mostrato che la quantità di sollievo dall’accudimento è stata positivamente correlata alla qualità della vita coniugale sia per i mariti che per le mogli. Questa relazione è stata significativamente correlata alla misura dello stress percepito e al sollievo avvertito da ambedue: marito e moglie. Viceversa, maggiore presa in carico è stata associata ad un aumento dello stress; e maggiore stress è stato associato ad una ridotta qualità della vita coniugale. Inoltre il numero dei bambini con autismo in famiglia è stato associato ad un ulteriore incremento dello stress ed aumenta ogni giorno la riduzione della qualità relazionale.

Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2

In questa seconda parte della nostra risposta a Farina affrontiamo l’ipotesi che tra psicopatologia del trauma e relazione terapeutica come strumento di cura ci sia un rapporto privilegiato, e consideriamo i rischi e vantaggi di questo rapporto.

Sappiamo che questo collegamento è almeno in parte di una forzatura, e che trauma e relazione terapeutica non vanno per forza a braccetto. Sappiamo che ci sono colleghi che sottolineano l’importanza della relazione terapeutica senza pensare che il trauma sia il principale fattore psicopatologico e che ci sono altri colleghi che privilegiano il lavoro sul trauma senza però ritenere che si debba operare soprattutto sulla relazione terapeutica.

Sappiamo infine che relazione terapeutica è un concetto ancor più ampio di quello di trauma, che comprende varie cose, dall’alleanza di lavoro alla relazione spontanea fino alle rotture interpersonali tra paziente e terapista. Insomma, sappiamo che si tratta di una palude immensa la cui analisi dettagliata esula dallo scopo di questo articolo.


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017

Trauma e relazione terapeutica

Prendiamo però in esame il caso speciale in cui tra trauma e relazione terapeutica sia ipotizzato un legame teorico e clinico forte. Un modello traumatico fondato sull’ipotesi del deficit potrebbe proporre che la terapia non possa limitarsi all’individuazione e all’apprendimento di una funzione male utilizzata –come farebbe un terapista cognitivo comportamentale- ma deve riparare  strutture deficitarie o mal-funzionanti. E in questo modello la ricostruzione avverrebbe soprattutto in una  relazione -beninteso una relazione professionalmente terapeutica- e questo perché a sua volta la fase in cui nel passato le funzioni ora deficitarie del paziente avrebbero dovuto svilupparsi fu soprattutto una fase relazionale; insomma una relazione di sicurezza, protezione e contenimento con figure significative per la crescita, una relazione –alla Winnicott, ma anche alla Farina e Liotti (2011)- di cooperazione.

L’apprendimento del buon uso delle funzioni male utilizzate non si realizzerebbe se non è preceduto dalla ricostruzione delle strutture che permettono l’integrazione o comprensione della mente altrui. E dove avverrebbe questa ricostruzione? In una relazione, probabilmente, perché li avrebbero dovute essere costruite nell’infanzia perduta del paziente le impalcature deficitarie, e solo li possono essere ri-costruite.

La terapia come relazione

La terapia come relazione ci dice che siamo dalle parti di Winnicott e di Mitchell più che di Beck ed Ellis. Sicuramente anche in terapia cognitivo-comportamentale il monitoraggio della relazione e gli interventi di riparazione sono previsti, utili, a volte necessari, per mantenere la terapia cognitiva on the track (Waller, 2009). Ed è vero che Farina e Liotti (2011) hanno sempre insistito sul carattere di cooperazione della relazione terapeutica, quasi a evitare un eccessivo appiattimento sul transferale riproporsi in terapia del good enough mothering di Winnicott. Ed è infine vero che Safran e Muran (2000) sottolineano come la relazione sia un’esperienza non solo affettiva ma anche di crescita metacognitiva attraverso fasi drammatiche di rottura e riparazione. E poi, anche uno degli autori di questo articolo ipotizzò a suo tempo che potesse essere utile ricostruire la storia passata dell’apprendimento disfunzionale delle credenze distorte in specifici stili di conoscenza (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Ci sono dati in linea con queste considerazioni, ad esempio Horvath ha trovato una robusta correlazione tra working alliance ed esito della terapia (Horvath & Bedi, 2002; Horvath, Del Re, Flückiger & Symonds, 2011). Anche se poi i suoi effetti sono minori  del previsto (Beutler, 2009), principalmente legati all’accordo su scopi e compiti della terapia più che sul legame relazionale (Webb et al., 2011), specie affiancata al contributo di altri predittori, tra i quali perfino la bistrattata tecnica terapeutica (Lambert & Barley, 2002).

Il paradigma di riferimento

Questi però sono i dati e qui ci preme sottolineare che il problema è anche di paradigma di riferimento e quindi di interpretazione dei dati e, conseguentemente, di chiarezza dell’operare clinico. Partiamo dal presupposto che mantenere una buona relazione sia un dato trasversale e indiscutibile, comune a tutti gli approcci terapeutici. Non abbiamo notizia a oggi di un approccio psicoterapeutico che teorizzi il maltrattamento strategico del paziente. In questo è una competenza di base. Oltre questa competenza di base possiamo identificare due scenari contrapposti sul binario trauma-relazione.

(1) Da un lato una terapia che mira alla ri-costruzione di buone relazioni per riparare meccanismi cognitivi malfunzionanti  (a seguito di esperienze traumatiche) e conseguentemente restituire al paziente il potere di cambiare. L’intervento di cambiamento dei meccanismi cognitivi è posticipato, se necessario, come ultima tappa di un lavoro realizzato in buona parte altrove, ovvero nella relazione e nella costruzione di esperienze emozionali correttive.

(2) Dall’altra parte terapie cognitivo-comportamentali che mirano al cambiamento di scopi, credenze, stili di pensiero e di reazione alla sofferenza emotiva, comprensibilmente sorte per far fronte a un contesto difficile o esigente (e nel 30% dei casi traumatico), là e allora persino utili, ma che non hanno tolto al paziente il potere di cambiare, per quanto possa non esserne pienamente consapevole. L’intervento relazionale, oltre alla competenza di base, diventa uno specifico intervento, se necessario, a favorire un ritorno, certo cooperativo, al processo di cambiamento nella relazione con i propri stati mentali.

Tuttavia, potrebbe forse obiettare un relazionalista, come ci si può aspettare che i pazienti siano in grado utilizzare meglio le loro malcomprese funzioni mentali, se le mura portanti della loro mente cadono a pezzi? I calcinacci della mente ci cadono in testa e questi cognitivisti stanno li a mostrare che si possono manovrare gli interruttori della luce e del gas!

È una posizione legittima, anzi proprio a livello teorico il confronto sui dati si farebbe interessante e florido. Ma per garantire un confronto con un paradigma cognitivo, occorre riconoscere che- almeno in parte- si esce fuori dal paradigma cognitivo. Ripetiamo: nulla di male in questo. Semmai, il rischio che paventiamo è quello di muoversi nel mezzo di un ecletticismo teorico, una miscela di teorie, tecniche e prospettive, talvolta aggregate senza consapevolezza piena della loro diversa prospettiva di riferimento. Questo è anche il rischio che potrebbe condurre a una sovrageneralizzazione del  pur utile concetto del paziente “difficile”, intuizione di Carlo Perris. Naturalmente non neghiamo l’esistenza di una percentuale di pazienti cosiddetti difficili. Tuttavia l’accumulo eclettico di tecniche di diversa origine può ridurre la consapevolezza del professionista su quali siano le basi stesse del proprio paradigma di riferimento.

Senza una visione chiara del proprio paradigma di riferimento (in altri termini della propria unità di analisi) che delinei l’orizzonte, chiunque si troverebbe in maggior difficoltà nel definire obiettivi primari del proprio operare, selezionare strategie adeguate, mantenere il focus attentivo sulla meta del processo terapeutico. Esito finale: confusione e incertezza e passaggio inconsapevole tra un paradigma e un altro (magari non condiviso esplicitamente con il paziente) e tutti i pazienti che diventano difficili, o per meglio dire, si perde la capacità di discriminare gli uni dagli altri.

Questo rischio ci pare concreto a prescindere dalla prospettiva di riferimento: può trasformare la relazione terapeutica in un costrutto vago e astratto, può trasformare l’applicazione di tecniche cognitive in un esercizio sommario e non aderente. Di quest’ultimo aspetto parleremo in un successivo articolo.

In ogni caso, rimaniamo consapevoli che trauma e relazione sono cose diverse. Infatti, a ben vedere, ci pare che negli ultimi tempi la psicotraumatologia stia ottenendo risultati significativi nell’intervento su sintomi associati a trauma, percorrendo una terza strada (Sensorimotor, EMDR) che prevede il recupero di interventi molto strutturati e che però non si fonda sulla forza curativa della relazione terapeutica o sulla gestione consapevole delle funzioni cognitive.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli, Giovanni Maria Ruggiero

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017

Relazione terapeutica vignetta

Una tecnica optogenetica in grado di modificare il comportamento animale

La ricerca mostra la possibilità di utilizzare una tecnica optogenetica per la selezione di cellule target nel cervello adulto in un modello animale.

 

I ricercatori di UW Medicine hanno sviluppato una tecnica per l’inserimento di un gene in specifiche cellule target utilizzato per alterare la funzione dei circuiti cerebrali e modificare i comportamenti in un modello animale. Il metodo ha consentito agli scienziati di capire meglio quali ruoli, determinati tipi di cellule, giocano nel complesso insieme dei circuiti neuronali. La prospettiva futura dei ricercatori è quella di utilizzare tale approccio per sviluppare trattamenti per i disturbi come l’epilessia, che potrebbero divenire curabili mediante l’attivazione di un piccolo gruppo di cellule.

I lavori recenti mostrano che l’approccio può essere usato per alterare la funzione dei circuiti cerebrali e per modificare il comportamento.

Gregory Horwitz, professore di fisiologia e biofisica presso l’Università di Washington School of Medicine di Seattle, ha guidato il team di ricerca. Horwitz afferma che il cervello è costituito da una grande varietà di cellule che svolgono funzioni diverse e sostiene che una delle grandi sfide per le neuroscienze è trovare le giuste modalità per studiare la funzione di specifici tipi di cellule target senza influenzare la funzione di altri tipi di cellule vicine. Lo studio del professore dimostra che tramite questa tecnica optogenetica è possibile selezionare cellule target cerebrali capaci di influenzare il comportamento quasi nell’immediato.

Horowitz e i suoi colleghi del Washington National Primate Research Center di Seattle hanno inserito un gene nelle cellule del cervelletto, coinvolto nell’apprendimento e nel controllo motorio, nel linguaggio, nell’attenzione e in alcune funzioni emotive, come le risposte alla paura o al piacere. Ma la funzione primaria del cervelletto è controllare i movimenti motori e se il suo funzionamento viene compromesso generalmente si va incontro alla perdita di coordinazione. Recenti studi suggeriscono che il cervelletto può essere importante anche nell’apprendimento ed essere probabilmente coinvolto in condizioni come l’autismo e la schizofrenia.

Le cellule selezionate dagli scienziati per lo studio sono chiamate cellule Purkinje. Queste cellule, a cui è stato dato il nome del loro scopritore, l’anatomista ceco Jan Evangelista Purkinje, sono alcuni tra i neuroni più grandi del cervello umano e dotati di un intricato complesso di arborizzazioni dendritiche; sono in grado di elaborare segnali provenienti da centinaia di migliaia di altre cellule cerebrali. La loro caratteristica è quella di essere neuroni inibitori, capaci di regolare i movimenti complessi e coordinati, impedendo l’attuazione di movimenti troppo bruschi.

Il gene inserito, chiamato canalrodopsina-2 (ChR2), codifica per una proteina sensibile alla luce che si inserisce nella membrana della cellula cerebrale. Quando viene esposto alla luce, permette agli ioni – entità molecolari elettricamente cariche – di passare attraverso la membrana. Ciò permette alla cellula cerebrale di attivarsi.

La tecnica optogenetica è comunemente usata per studiare la funzionalità cerebrale nei topi. Ma in questo studio il gene deve essere introdotto nella cellula embrionale del topo. Horwitz afferma:

Questo approccio transgenico si è rivelato prezioso nello studio del cervello. Se deve essere usata per curare la malattia, dobbiamo trovare un modo per introdurre il gene in una fase più tardiva della vita, quando si presentano la maggior parte dei disturbi neurologici.

La sfida per il suo team di ricerca era di cercare di capire come introdurre ChR2 in un tipo specifico di cellule in un animale adulto. Per ottenere questo risultato, hanno utilizzato un virus modificato che trasporta il gene per ChR2 insieme ad un promotore – regione di DNA costituita da specifiche sequenze dette consenso, alla quale si lega la RNA polimerasi per iniziare la trascrizione di un gene, o di più geni segmento.

Il promotore stimola la cellula ad esprimere il gene e a produrre la proteina di membrana ChR2. Per assicurarsi che il gene fosse espresso solo dalle cellule Purkinje, i ricercatori hanno utilizzato un promotore fortemente attivo in tali cellule, chiamate L7 / Pcp2 – proteina 2 delle cellule Purkinje.

Nel loro lavoro, i ricercatori hanno riferito che, iniettando il virus modificato in una piccola area del cervelletto delle scimmie macaco Rhesus, l’espressione selettiva di ChR2 veniva a verificarsi esclusivamente nelle cellule Purkinje. I ricercatori hanno poi dimostrato che esponendo le cellule trattate alla luce, attraverso una fibra ottica, erano in grado di stimolare le cellule ad attivarsi a velocità differente, influenzando anche il controllo motorio degli animali.

Tali risultati dimostrano l’utilità del vettore virale L7-ChR2 nel rivelare i contributi delle cellule Purkinje nel funzionamento del circuito cerebrale e nel comportamento, dimostrando la fattibilità delle manipolazioni genetiche, su un tipo specifico di cellula target, nei primati.

Con questa scoperta, il prossimo obiettivo dei ricercatori sarà quello di utilizzare diversi promotori per indirizzare altri tipi di cellule coinvolte in differenti comportamenti.

Metacognizione e cambiamento terapeutico nel disturbo borderline di personalità

Dopo vari studi di processo che hanno mostrato come la metacognizione possa aumentare in una terapia di successo, era necessario testare l’ipotesi se la metacognizione predicesse il cambiamento. Abbiamo così condotto uno studio pilota su 10 pazienti Borderline.

 

A partire dalle riflessioni di Semerari e colleghi (1999) la metacognizione, ovvero la capacità di riconoscere i propri stati mentali, quelli degli altri, rifletterci su e regolarli, è stato considerata un possibile predittore di cambiamento.

Da un lato pazienti con migliore metacognizione avrebbero dovuto rispondere meglio alla psicoterapia, dall’altro sarebbe stato necessario aggiustare l’azione terapeutica al livello metacognitivo laddove esso fosse stato carente.

La metacognizione in pazienti Borderline

Dopo vari studi di processo, sia pure in assenza di misure formalizzate di outcome (Carcione et al., 2011; Dimaggio et al., 2009; Semerari et al., 2003; 2005) che hanno mostrato come la metacognizione possa aumentare in una terapia di successo, era necessario testare l’ipotesi se la metacognizione predicesse il cambiamento. Con i colleghi di Losanna, abbiamo condotto uno studio pilota su 10 pazienti Borderline sottoposti ad un trial clinico randomizzato di Good Psychiatric Management (Gunderson & Links). Abbiamo utilizzato la SVAM-R (Carcione et al., 2010) per valutare la metacognizione nella prima e nella penultima delle dieci sedute di cui era composto il trattamento.

Il primo dato è che i pazienti avevano livelli estremamente bassi di metacognizione, quasi a livelli psicotici. Si trattava di pazienti estremamente compromessi, molti dei quali senza lavoro, con situazioni familiare compromesse e spesso in comorbilità con abuso di sostanze. Il secondo dato importante è che il miglioramento nella metacognizione è stato minimo, solo riguardante le abilità di Mastery (capacità di regolazione basata sulla conoscenza mentalistica) di tipo più semplice.

Questo fa pensare che il cambiamento terapeutico non avvenga in tutti i trattamenti nello stesso modo e che trattamenti che non mirano a migliorare le capacità metacognitive oppure promuovono il cambiamento per altre vie, cosa che però naturalmente non si può concludere da questo studio, sono meno efficaci. Riguardo alla capacità di predire il trattamento, solo la capacità di capire la mente degli altri è stata trovata collegata al miglioramento terapeutico. Chi aveva migliore lettura della mente andava incontro a un livello di cambiamento leggermente superiore.

Va detto che sia per quanto riguarda il cambiamento metacognitivo minimo osservato, sia per quanto riguarda la capacità della sola lettura della mente degli altri di predire il cambiamento, che si tratta di un protocollo di sole 10 sedute. Rimane possibile, e ritengo probabile, che in trattamenti di più lunga durata si osservi a maggiore cambiamento nella metacognizione e che l’impatto iniziale delle carenze metacognitive abbia più effetto. È ancora più probabile, e in linea con gli studi che hanno utilizzato misure del concetto simile a quello di metacognizione, ovvero la funzione riflessiva, che terapie volte a migliorare la comprensione e regolazione degli stati mentali, siano più efficaci in questo dominio.

Infezione da HIV: effetti psicologici e psicopatologie associate

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. 

Anna Greppi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Infezione HIV e AIDS: uno sguardo al fenomeno

Il virus dell’immunodeficienza umana HIV (HIV, sigla dell’inglese Human Immunodeficiency Virus) è l’agente responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita, AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).

È un retrovirus del genere lentivirus, che da origine a infezioni croniche, che sono scarsamente sensibili alla risposta immunitaria ed evolvono lentamente e progressivamente. Se non trattate, possono avere un esito fatale. In base alle conoscenze attuali, l’ HIV è suddiviso in due ceppi: HIV-1 e HIV-2. Il primo dei due è prevalentemente localizzato in Europa, America e Africa centrale; HIV-2, invece, si trova per lo più in Africa occidentale e Asia e determina una sindrome clinicamente più moderata rispetto al ceppo precedente.

Nel 2012 si stima che circa 35,3 (32,2-38,8) milioni di persone nel mondo vivono con l’ infezione da HIV, numero che risulta essere in costante crescita. Sono calate del 33% le nuove infezioni da HIV rispetto al 2001 – da 3,4 milioni di persone a 2,3 (1,9-2,7) milioni circa-. Per quanto riguarda i bambini, negli ultimi 11 anni le infezioni sono calate del 53% (sono 260mila nel 2012). Si è riscontrata anche una diminuzione del 30% i decessi collegati all’ AIDS rispetto al picco del 2005 – sono 1,6 (1,4-1,9) milioni nel 2012 (Global Report 2013 del Joint United Nations Programme on HIV/AIDS UNAIDS,ONU).

Per quanto riguarda la situazione italiana, nel 2012 risultano esserci circa 94.146 persone affette in Italia da HIV o AIDS, di cui il 70,1% sono maschi e l’84,3% sono di cittadinanza italiana. La modalità di trasmissione più frequente è quella eterosessuale nella percentuale del 37,2%, i Men who have Sex with Men (MSM – uomini che fanno sesso con gli uomini) sono il 27,7%, mentre i consumatori di sostanze per via iniettiva (INU) sono il 28,5% (Raimondi et al., 2013)

Con l’introduzione, nel 1996, in Italia, delle nuove terapie antiretrovirali (HAART- Highly Active Antiretoviral Therapy) è aumentata la sopravvivenza delle persone che vivono con l’ infezione da HIV ed è diminuito il numero dei decessi correlati all’ AIDS, trasformando così l’ infezione da HIV in una malattia cronica.

Il presente articolo si propone di evidenziare gli effetti psicologici e le possibili psicopatologie correlate all’ infezione da HIV, passando in rassegna alcuni studi in questo ambito.

Patologie psichiatriche associate a infezione da HIV

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. Al primo gruppo appartengono mania secondaria, psicosi, delirium e demenza complex. Al secondo reazione acuta da stress, disturbo dell’adattamento e depressione maggiore.

Psicopatologie secondarie all’infezione da HIV

La mania secondaria si presenta con una prevalenza del 1,2% nei sieropositivi e del 4,8% nei soggetti con AIDS. E’ un disturbo psichiatrico che segue ad alterazioni organiche o assunzioni di farmaci, che per essere definito tale deve perdurare per almeno una settimana ed è caratterizzato per la presenza di umore elevato o irritabilità e da almeno due dei seguenti sintomi: iperattività, logorrea, grandiosità, insonnia, distraibilità e alterato giudizio.

Nel paziente HIV possono svilupparsi psicosi funzionali, considerate reazioni a infezioni da HIV, collegate all’azione diretta del virus a livello del SNC (diminuite in era HAART). Per ultimo si può manifestare il Delirium e la Demenza Complex, complicazione tardive della malattia.

Il trattamento d’ elezione per questo tipo di patologie è quello farmacologico, spesso complementare al trattamento dell’intero quadro sintomatologico. Il trattamento psicologico e psicoterapico subentra in questo caso con la funzione di gestione dell’intera malattia.

Patologie generiche tipiche delle malattie gravi e croniche

La malattia cronica viene spesso vissuta come un’esperienza che “esplode” dentro, come una realtà che opprime e fa sentire impotenti. Nascono nell’individuo degli interrogativi nuovi relativi al significato dell’esistenza e a ciò che ha guidato fino a quel momento la vita personale e relazionale del paziente.

In concomitanza l’individuo, divenuto “paziente”, sperimenta l’impatto con le cure. La persona malata inizia quindi a vivere sospesa tra un tempo presente, vissuto come un “non tempo”, e padrone assoluto del suo esistere, e un tempo passato carico di obiettivi, a volte di progetti che spesso non è stato possibile portare a compimento (Borgna, 2000).

Il paziente si trova a fare inevitabilmente i conti con il sentimento del limite dei suoi progetti di vita e ad interrogarsi sulla necessità dei progetti passati, in un confronto critico sui valori che hanno informato la sua esistenza fino a quel momento.

La malattia, dunque, rappresenta un tipo particolare di evento di vita stressante che può mettere seriamente alla prova le capacità di adattamento del singolo individuo.

La reazione adattativa ad una malattia richiede sempre al paziente un lungo lavoro emotivo e fisico, intenso e difficile, e tiene conto di vari elementi quali: tipo e stadio della malattia, ospedalizzazione o altro tipo di assistenza, consapevolezza della malattia, struttura della personalità, meccanismi di difesa e loro livello evolutivo e funzionale.

Per quanto riguarda la sieropositività, all’atto della comunicazione della diagnosi, il paziente può  presentare diverse reazioni psicologiche (Spizzichino, 2008).

Lo shock per la diagnosi ricevuta, si manifesta con agitazione, collera, pensieri ed espressioni di incredulità e pianto. Il paziente può entrate in uno stato confusivo che non aiuta in un momento in cui è necessaria concentrazione per prendere decisioni importanti rispetto alla propria salute. Confusione che tende ad abbassarsi in presenza di una buona comunicazione alla diagnosi e l’offerta ed inizio di un buon percorso psicologico.

Si possono riscontrare rabbia e frustrazione relative al fatto di essersi infettato, per le nuove restrizioni nello stile di vita, per doversi sottoporre sempre alle terapie, per l’incertezza sul futuro, per l’ostilità, il pregiudizio degli altri.

Può manifestarsi il senso di colpa nell’interpretare l’accaduto come una punizione, per i comportamenti a rischio avuti, per la paura di poter infettare gli altri.

E’ spesso presente l’ansia e la paura riguardo alla prognosi incerta e il decorso severo, per gli effetti collaterali legati alla malattia, per la paura del rifiuto sessuale, per la perdita della capacità cognitive, fisiche e lavorative.

Si può presentare poi depressione legata all’idea di dover fare i conti con una malattia cronica, l’impossibilità di guarigione, con i limiti imposti dalla malattia, con un possibile rifiuto sociale La diminuzione dell’autostima, perdita dell’identità e di sicurezza sono altre reazioni spesso riscontrabili all’atto della comunicazione della diagnosi.

Infine, raramente, si possono manifestare disturbi ossessivo compulsivi nella forma di pensieri continui e disturbanti relativi alla morte, il fallimento, la ricerca di nuovi trattamenti, terapisti e medici, controlli ripetuti per sintomi sempre nuovi (Spizzichino, 2008).

Alcune di queste reazioni possono essere transitorie, altre più durature e potranno andare a caratterizzare l’intera vita con il virus. E’ possibile che la vulnerabilità sia legata anche a precedenti esperienze del paziente riguardo a malattie e traumi. Altre variabili che possono determinare il tipo di reazione sono la personalità, il temperamento, la flessibilità, le risorse sociali, famigliari e occupazionali, il sostegno disponibile.

La reazione all’ infezione da HIV e il processo di accettazione

Sono stati individuati alcuni stili di reazione all’ infezione da HIV, ed è stato riscontrato che lo stile adottato è predittivo dell’eventuale successivo benessere psicologico e fisico (Spizzicchino, 2008).

I pazienti che utilizzano lo stile evitante hanno livelli in generale più elevati di preoccupazione riguardo alla salute, ai problemi esistenziali, verso gli amici e verso se stessi. Manifestano notevole depressione, autostima bassa e difficilmente ricevono del sostegno psicologico. I pazienti invece che adottano uno stile attivo-cognitivo costruiscono delle difese mentali e fanno affidamento sul pensiero cognitivo e spesso sviluppano pensieri ossessivi e ruminazione.

Infine gli individui che sono capaci di sviluppare uno stile attivo-comportamentale hanno un migliore tono dell’umore, un minor numero di preoccupazioni, una più alta qualità della vita percepita e livelli di autostima più alta.

L’evoluzione psicologica del paziente con infezione da HIV dovrebbe terminare con la fase di accettazione e adattamento. Tale evoluzione può essere spontanea ma è certamente facilitata da più variabili individuali e ambientali, quali le caratteristiche di personalità del paziente, le caratteristiche socioculturali del paziente e la presenza di un adeguato supporto sociale e in particolare la presenza di persone affettivamente significative

Questa fase è caratterizzata da un abbassamento del livello di tensione emotiva che consente la modificazione dei comportamenti a rischio e alla corretta applicazione alle norme profilattiche. Non è una condizione stabile e dipende dal decorso della malattia.

L’avvento degli antiretrovirali ha apportato delle grandi trasformazioni nella vita delle persone sieropositive. Grazie ai benefici della terapia farmacologica alcune delle persone abituate a convivere con l’incertezza del futuro e con la precarietà della salute e della vita stessa, persone che cercavano si prepararsi alla morte, si trovano a doversi confrontare con i problemi e le situazioni, anche positive, che questa pone. Il trattamento farmacologico nel momento in cui si è dimostrato efficace nel prolungare la sopravvivenza e nel migliorare la qualità della vita ha dato la possibilità di iniziare una seconda vita e ha dato luogo in molti pazienti della sindrome di Lazzaro.

E’ stato dimostrato attraverso l’uso della metodologia dei focus group che la prospettiva delle terapie HAART rende necessario rinegoziare le speranze e le aspettative riguardo al futuro, i ruoli e le identità sociali, le relazioni interpersonali e la qualità della vita. Emergono soprattutto tematiche relative ai rapporti sentimentali (possibilità di diventare genitori, avere l’aspettativa di rimanere abbastanza in vita per poter crescere un figlio) e l’assunzione di nuovi ruoli sociali.

Tutti questi fattori possono rappresentare un motivo di stress o di disturbi mentali (Brashers et al., 1999). Studi successivi sull’impatto psicosociale dell’HAART hanno evidenziato il ruolo centrale della speranza del futuro (Fernandez, 2001) anche se permane nelle interviste incertezza ed ansia circa i benefici sulla salute e quindi sul senso della speranza. In un altro lavoro (Rabkin et al., 2000) si è osservata un’evoluzione positiva dello stato psicologico nei termini di tono dell’umore, speranze e soddisfazione in chi non mostrava un miglioramento con la terapia. Gli autori ipotizzano che la prospettiva di seconda vita porta con sé una serie di difficoltà potenzialmente stressanti per chi vede confermato il miglioramento fisico anche dai numeri (conta dei CD4) rispetto a chi ritiene di avere ancora poco tempo da vivere poiché i parametri continuano a essere poco confortanti.

Non è stata verifica una correlazione diretta tra salute mentale e infezione HIV. Ci sono delle persone che nonostante siano affette da HIV conservano la speranza, sperimentano un maggiore senso di benessere, partecipano più attivamente alla gestione della malattia e si dimostrano in grado di occuparsi della propria salute (Carson et al., 1990). Una ricerca che prevedeva una serie di interviste a donne sieropositive (Siegel & Schirimshaw, 2000) ha evidenziato che , pur riconoscendo le conseguenze negative dell’infezione, molte di loro riferivano che la malattia aveva cambiato le loro vite in modo positivo e riportavano un generale miglioramento della loro vita che si è concretizza in un aumento del numero di relazioni instaurate e coltivate, una maggiore forza percepita, un più alto senso di responsabilità e più capacità di entrare in relazione con altri.

La valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV

E’ centrale attuare un’attenta valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV anche per evitare diagnosi di patologie non presenti, etichettature scorrette, interventi non necessari o risposte standardizzate.

La difficoltà consiste nel fatto che dei sintomi somatici correlati alla presenza del virus e degli effetti collaterali delle terapie richiamano ai disturbi psicologici veri e propri. Le reazioni depressive in questa popolazione si caratterizzano spesso come un senso di disperazione riguardo al futuro o una percezione di mancanza di controllo sul corso della propria vita. I disturbi somatici correlati ad esse (anoressia, insonnia, depressione, disturbi della memoria, sudorazione notturna) sono molto difficili da differenziare dalle manifestazione delle infezioni. Lo stesso si osserva nel caso dei disturbi d’ansia. Questa difficoltà diagnostica in alcuni casi ritarda i percorsi di presa in carico psicologica e psicoterapica.

Altro elemento da tenere in considerazione nella valutazione clinica, è il rischio suicidario. Le  motivazioni possono essere diverse a seconda della fase in cui si trova il paziente. In uno studio con poco meno di 3.000 sieropositivi (Carrico ed al., 2007) si è riscontrato che il 19% di essi ha ideazioni suicidarie nella settimana precedente.

I disturbi più frequenti in pazienti con HIV

I disturbi più frequentemente diagnosticati in persone con infezione da HIV sono i seguenti:

  • Il disturbo acuto da stress può presentarsi in qualunque fase della malattia anche se è più frequente immediatamente dopo la diagnosi o in concomitanza con degli aggravamenti. Il quadro sintomatologico può consistere in rabbia, senso di colpa, paura, diniego e disperazione. Data la variabilità dei sintomi non è possibile reperire dati sulla prevalenza di questo disturbo.
  • Il disturbo dell’adattamento è caratterizzato da ansia, insonnia e depressione e di solito ha un decorso benigno. L’incidenza si attesta intorno al 4-10 % (Lipsitz et al. 1994) e nelle popolazione sieropositiva che si rivolge ai servizi di salute mentale è di circa il 30%.
  • Per quanto riguarda i disturbi depressivi i dati sulle prevalenze sono divergenti in quanto variano tra il 30% e il 61% (Rosenberger et al., 1993; Dew et al., 1997). Nell’ambito dei disturbi di ansia si riscontrano episodi di ansia della durata di un mese o la prevalenza è molto è bassa  se si prendono in considerazione strettamente i criteri del DSM-IV-TR e potrebbe dar conto della disparità dei diversi risultati dei vari studi sul tema (4-73%) (Cohen et al., 2002). Abuso di sostante e alcol sono presenti nella popolazione sieropositiva rispettivamente nella percentuale del 22%-64% e nel 29%-60% e si presentano tendenzialmente in comorbidità con altri disturbi. La variabilità dei tassi di prevalenza dei diversi disturbi può essere messa in relazione con l’eterogeneità metodologica degli studi presi in considerazione ( Spizzichino, 2008).

Secondo la letteratura internazionale le donne sieropositive risultano essere più a rischio per quanto riguarda i disturbi psichiatrici rispetto agli uomini. E’ stato dimostrato che le donne positive presentano più spesso degli uomini ansia, depressione, eccessiva sensibilità, disturbi paranoidi e somatizzazione. E’ stato sottolineato inoltre che  le donne si rivolgono ai servizi sociali per la salute mentale meno degli uomini (Havens et al., 1996).

Sono state fatte varie ipotesi su questa distribuzione. Uno studio (Faithfull, 1997) ha riscontrato tre fattori ulteriormente stressanti per le madri con infezione da HIV quali la difficoltà di rivelare la propria sieropositività ai figli, la paura di infettarli e la possibilità che la malattia infici la capacità di prendersene cura e di crescerli.

In letteratura si riscontra la presenza di almeno un disturbo psicologico nella vita di una persona con HIV in percentuali che vanno dal 38% al 73% di tutti i pazienti che sono stati studiati (Gallego et al, 2000). L’esordio della psicopatologia nella maggior parte dei casi è antecedente alla sieroconversione (Rosenberger et al., 1993). Sono stati identificati dei fattori associati allo sviluppo dei disturbi mentali nelle persone positive quali il supporto sociale scarso, la storia psichiatrica precedente, l’uso di meccanismi quali l’evitamento e il diniego, una rapida progressione dell’infezione ed esperienza di lutto per AIDS.

Uno studio in quattro città degli Stati Uniti, su un campione di 1000 donne HIV, ha messo in luce una relazione tra la sintomatologia depressiva e l’esperienza di sintomi fisici dell’infezione e loro grado di intrusività percepita nella vita dei pazienti (Remien et al., 2006). Il benessere psicologico delle persone positive in terapia antiretrovirale dipende più che dalla situazione in sé da variabili cognitive e comportamentali, quali la soddisfazione riguardo al sostegno sociale, l’idea della punizione relativa alla malattia e il grado di integrazione della malattia nella propria vita e nella percezione di sé (Safren et al, 2002).

Molti lavori hanno analizzato l’associazione tra problemi di salute, strategie di coping e reazioni allo stress durante il decorso di malattie come il cancro, l’artrite reumatoide, l’infarto del miocardio e l’ infezione da HIV. Sono stati riscontrati risultati molto simili tra le diverse patologie. Generalmente le forme di coping evitante sono associate a maggiore stress mentre quelle focalizzate sulle emozioni sono a livelli minori di quest’ultimo. Una posizione attiva e l’attitudine a considerare nel modo più positivo possibile la situazione hanno delle influenze benefiche sul tono dell’umore rispetto alla fuga e all’evitamento.

Nello specifico dell’infezione dell’HIV si è potuta osservare una correlazione positiva tra la percezione di un buono stato di salute e tre stili di coping: il focalizzarsi su altro, il pensiero positivo e la gestione della malattia (Phillips et al. 2001). E’ stato verificato che strategie di coping maladattive da parte di persone sieropositive diminuiscono notevolmente la qualità della vita  relativamente al funzionamento cognitivo, salute mentale e stress legato al lavoro.

In conclusione, dalla rassegna presentata, emerge come la sieropositività sia ancora un problema largamente diffuso, sia nel mondo che sul territorio italiano e di come la scoperta dell’infezione vada ad incidere non solo sulla salute fisica ma anche su quella mentale. Occorre quindi, da parte di tutti gli operatori, che si occupano a vario titolo delle persone sieropositive o malate di AIDS, porre attenzione non solo al livello generale di salute ma anche al benessere psicologico, messo in pericolo dalle conseguenze di una malattia cronica ed a oggi incurabile. Ciò per costruire e implementare percorsi di accompagnamento psicologico e psicoterapico che consentano a questi pazienti di raggiungere il miglior livello di benessere possibile e che si integrino ai percorsi tradizionali di cura previsti per chi soffre di questa patologia.

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