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Infezione da HIV: effetti psicologici e psicopatologie associate

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. 

Anna Greppi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Infezione HIV e AIDS: uno sguardo al fenomeno

Il virus dell’immunodeficienza umana HIV (HIV, sigla dell’inglese Human Immunodeficiency Virus) è l’agente responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita, AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).

È un retrovirus del genere lentivirus, che da origine a infezioni croniche, che sono scarsamente sensibili alla risposta immunitaria ed evolvono lentamente e progressivamente. Se non trattate, possono avere un esito fatale. In base alle conoscenze attuali, l’ HIV è suddiviso in due ceppi: HIV-1 e HIV-2. Il primo dei due è prevalentemente localizzato in Europa, America e Africa centrale; HIV-2, invece, si trova per lo più in Africa occidentale e Asia e determina una sindrome clinicamente più moderata rispetto al ceppo precedente.

Nel 2012 si stima che circa 35,3 (32,2-38,8) milioni di persone nel mondo vivono con l’ infezione da HIV, numero che risulta essere in costante crescita. Sono calate del 33% le nuove infezioni da HIV rispetto al 2001 – da 3,4 milioni di persone a 2,3 (1,9-2,7) milioni circa-. Per quanto riguarda i bambini, negli ultimi 11 anni le infezioni sono calate del 53% (sono 260mila nel 2012). Si è riscontrata anche una diminuzione del 30% i decessi collegati all’ AIDS rispetto al picco del 2005 – sono 1,6 (1,4-1,9) milioni nel 2012 (Global Report 2013 del Joint United Nations Programme on HIV/AIDS UNAIDS,ONU).

Per quanto riguarda la situazione italiana, nel 2012 risultano esserci circa 94.146 persone affette in Italia da HIV o AIDS, di cui il 70,1% sono maschi e l’84,3% sono di cittadinanza italiana. La modalità di trasmissione più frequente è quella eterosessuale nella percentuale del 37,2%, i Men who have Sex with Men (MSM – uomini che fanno sesso con gli uomini) sono il 27,7%, mentre i consumatori di sostanze per via iniettiva (INU) sono il 28,5% (Raimondi et al., 2013)

Con l’introduzione, nel 1996, in Italia, delle nuove terapie antiretrovirali (HAART- Highly Active Antiretoviral Therapy) è aumentata la sopravvivenza delle persone che vivono con l’ infezione da HIV ed è diminuito il numero dei decessi correlati all’ AIDS, trasformando così l’ infezione da HIV in una malattia cronica.

Il presente articolo si propone di evidenziare gli effetti psicologici e le possibili psicopatologie correlate all’ infezione da HIV, passando in rassegna alcuni studi in questo ambito.

Patologie psichiatriche associate a infezione da HIV

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. Al primo gruppo appartengono mania secondaria, psicosi, delirium e demenza complex. Al secondo reazione acuta da stress, disturbo dell’adattamento e depressione maggiore.

Psicopatologie secondarie all’infezione da HIV

La mania secondaria si presenta con una prevalenza del 1,2% nei sieropositivi e del 4,8% nei soggetti con AIDS. E’ un disturbo psichiatrico che segue ad alterazioni organiche o assunzioni di farmaci, che per essere definito tale deve perdurare per almeno una settimana ed è caratterizzato per la presenza di umore elevato o irritabilità e da almeno due dei seguenti sintomi: iperattività, logorrea, grandiosità, insonnia, distraibilità e alterato giudizio.

Nel paziente HIV possono svilupparsi psicosi funzionali, considerate reazioni a infezioni da HIV, collegate all’azione diretta del virus a livello del SNC (diminuite in era HAART). Per ultimo si può manifestare il Delirium e la Demenza Complex, complicazione tardive della malattia.

Il trattamento d’ elezione per questo tipo di patologie è quello farmacologico, spesso complementare al trattamento dell’intero quadro sintomatologico. Il trattamento psicologico e psicoterapico subentra in questo caso con la funzione di gestione dell’intera malattia.

Patologie generiche tipiche delle malattie gravi e croniche

La malattia cronica viene spesso vissuta come un’esperienza che “esplode” dentro, come una realtà che opprime e fa sentire impotenti. Nascono nell’individuo degli interrogativi nuovi relativi al significato dell’esistenza e a ciò che ha guidato fino a quel momento la vita personale e relazionale del paziente.

In concomitanza l’individuo, divenuto “paziente”, sperimenta l’impatto con le cure. La persona malata inizia quindi a vivere sospesa tra un tempo presente, vissuto come un “non tempo”, e padrone assoluto del suo esistere, e un tempo passato carico di obiettivi, a volte di progetti che spesso non è stato possibile portare a compimento (Borgna, 2000).

Il paziente si trova a fare inevitabilmente i conti con il sentimento del limite dei suoi progetti di vita e ad interrogarsi sulla necessità dei progetti passati, in un confronto critico sui valori che hanno informato la sua esistenza fino a quel momento.

La malattia, dunque, rappresenta un tipo particolare di evento di vita stressante che può mettere seriamente alla prova le capacità di adattamento del singolo individuo.

La reazione adattativa ad una malattia richiede sempre al paziente un lungo lavoro emotivo e fisico, intenso e difficile, e tiene conto di vari elementi quali: tipo e stadio della malattia, ospedalizzazione o altro tipo di assistenza, consapevolezza della malattia, struttura della personalità, meccanismi di difesa e loro livello evolutivo e funzionale.

Per quanto riguarda la sieropositività, all’atto della comunicazione della diagnosi, il paziente può  presentare diverse reazioni psicologiche (Spizzichino, 2008).

Lo shock per la diagnosi ricevuta, si manifesta con agitazione, collera, pensieri ed espressioni di incredulità e pianto. Il paziente può entrate in uno stato confusivo che non aiuta in un momento in cui è necessaria concentrazione per prendere decisioni importanti rispetto alla propria salute. Confusione che tende ad abbassarsi in presenza di una buona comunicazione alla diagnosi e l’offerta ed inizio di un buon percorso psicologico.

Si possono riscontrare rabbia e frustrazione relative al fatto di essersi infettato, per le nuove restrizioni nello stile di vita, per doversi sottoporre sempre alle terapie, per l’incertezza sul futuro, per l’ostilità, il pregiudizio degli altri.

Può manifestarsi il senso di colpa nell’interpretare l’accaduto come una punizione, per i comportamenti a rischio avuti, per la paura di poter infettare gli altri.

E’ spesso presente l’ansia e la paura riguardo alla prognosi incerta e il decorso severo, per gli effetti collaterali legati alla malattia, per la paura del rifiuto sessuale, per la perdita della capacità cognitive, fisiche e lavorative.

Si può presentare poi depressione legata all’idea di dover fare i conti con una malattia cronica, l’impossibilità di guarigione, con i limiti imposti dalla malattia, con un possibile rifiuto sociale La diminuzione dell’autostima, perdita dell’identità e di sicurezza sono altre reazioni spesso riscontrabili all’atto della comunicazione della diagnosi.

Infine, raramente, si possono manifestare disturbi ossessivo compulsivi nella forma di pensieri continui e disturbanti relativi alla morte, il fallimento, la ricerca di nuovi trattamenti, terapisti e medici, controlli ripetuti per sintomi sempre nuovi (Spizzichino, 2008).

Alcune di queste reazioni possono essere transitorie, altre più durature e potranno andare a caratterizzare l’intera vita con il virus. E’ possibile che la vulnerabilità sia legata anche a precedenti esperienze del paziente riguardo a malattie e traumi. Altre variabili che possono determinare il tipo di reazione sono la personalità, il temperamento, la flessibilità, le risorse sociali, famigliari e occupazionali, il sostegno disponibile.

La reazione all’ infezione da HIV e il processo di accettazione

Sono stati individuati alcuni stili di reazione all’ infezione da HIV, ed è stato riscontrato che lo stile adottato è predittivo dell’eventuale successivo benessere psicologico e fisico (Spizzicchino, 2008).

I pazienti che utilizzano lo stile evitante hanno livelli in generale più elevati di preoccupazione riguardo alla salute, ai problemi esistenziali, verso gli amici e verso se stessi. Manifestano notevole depressione, autostima bassa e difficilmente ricevono del sostegno psicologico. I pazienti invece che adottano uno stile attivo-cognitivo costruiscono delle difese mentali e fanno affidamento sul pensiero cognitivo e spesso sviluppano pensieri ossessivi e ruminazione.

Infine gli individui che sono capaci di sviluppare uno stile attivo-comportamentale hanno un migliore tono dell’umore, un minor numero di preoccupazioni, una più alta qualità della vita percepita e livelli di autostima più alta.

L’evoluzione psicologica del paziente con infezione da HIV dovrebbe terminare con la fase di accettazione e adattamento. Tale evoluzione può essere spontanea ma è certamente facilitata da più variabili individuali e ambientali, quali le caratteristiche di personalità del paziente, le caratteristiche socioculturali del paziente e la presenza di un adeguato supporto sociale e in particolare la presenza di persone affettivamente significative

Questa fase è caratterizzata da un abbassamento del livello di tensione emotiva che consente la modificazione dei comportamenti a rischio e alla corretta applicazione alle norme profilattiche. Non è una condizione stabile e dipende dal decorso della malattia.

L’avvento degli antiretrovirali ha apportato delle grandi trasformazioni nella vita delle persone sieropositive. Grazie ai benefici della terapia farmacologica alcune delle persone abituate a convivere con l’incertezza del futuro e con la precarietà della salute e della vita stessa, persone che cercavano si prepararsi alla morte, si trovano a doversi confrontare con i problemi e le situazioni, anche positive, che questa pone. Il trattamento farmacologico nel momento in cui si è dimostrato efficace nel prolungare la sopravvivenza e nel migliorare la qualità della vita ha dato la possibilità di iniziare una seconda vita e ha dato luogo in molti pazienti della sindrome di Lazzaro.

E’ stato dimostrato attraverso l’uso della metodologia dei focus group che la prospettiva delle terapie HAART rende necessario rinegoziare le speranze e le aspettative riguardo al futuro, i ruoli e le identità sociali, le relazioni interpersonali e la qualità della vita. Emergono soprattutto tematiche relative ai rapporti sentimentali (possibilità di diventare genitori, avere l’aspettativa di rimanere abbastanza in vita per poter crescere un figlio) e l’assunzione di nuovi ruoli sociali.

Tutti questi fattori possono rappresentare un motivo di stress o di disturbi mentali (Brashers et al., 1999). Studi successivi sull’impatto psicosociale dell’HAART hanno evidenziato il ruolo centrale della speranza del futuro (Fernandez, 2001) anche se permane nelle interviste incertezza ed ansia circa i benefici sulla salute e quindi sul senso della speranza. In un altro lavoro (Rabkin et al., 2000) si è osservata un’evoluzione positiva dello stato psicologico nei termini di tono dell’umore, speranze e soddisfazione in chi non mostrava un miglioramento con la terapia. Gli autori ipotizzano che la prospettiva di seconda vita porta con sé una serie di difficoltà potenzialmente stressanti per chi vede confermato il miglioramento fisico anche dai numeri (conta dei CD4) rispetto a chi ritiene di avere ancora poco tempo da vivere poiché i parametri continuano a essere poco confortanti.

Non è stata verifica una correlazione diretta tra salute mentale e infezione HIV. Ci sono delle persone che nonostante siano affette da HIV conservano la speranza, sperimentano un maggiore senso di benessere, partecipano più attivamente alla gestione della malattia e si dimostrano in grado di occuparsi della propria salute (Carson et al., 1990). Una ricerca che prevedeva una serie di interviste a donne sieropositive (Siegel & Schirimshaw, 2000) ha evidenziato che , pur riconoscendo le conseguenze negative dell’infezione, molte di loro riferivano che la malattia aveva cambiato le loro vite in modo positivo e riportavano un generale miglioramento della loro vita che si è concretizza in un aumento del numero di relazioni instaurate e coltivate, una maggiore forza percepita, un più alto senso di responsabilità e più capacità di entrare in relazione con altri.

La valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV

E’ centrale attuare un’attenta valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV anche per evitare diagnosi di patologie non presenti, etichettature scorrette, interventi non necessari o risposte standardizzate.

La difficoltà consiste nel fatto che dei sintomi somatici correlati alla presenza del virus e degli effetti collaterali delle terapie richiamano ai disturbi psicologici veri e propri. Le reazioni depressive in questa popolazione si caratterizzano spesso come un senso di disperazione riguardo al futuro o una percezione di mancanza di controllo sul corso della propria vita. I disturbi somatici correlati ad esse (anoressia, insonnia, depressione, disturbi della memoria, sudorazione notturna) sono molto difficili da differenziare dalle manifestazione delle infezioni. Lo stesso si osserva nel caso dei disturbi d’ansia. Questa difficoltà diagnostica in alcuni casi ritarda i percorsi di presa in carico psicologica e psicoterapica.

Altro elemento da tenere in considerazione nella valutazione clinica, è il rischio suicidario. Le  motivazioni possono essere diverse a seconda della fase in cui si trova il paziente. In uno studio con poco meno di 3.000 sieropositivi (Carrico ed al., 2007) si è riscontrato che il 19% di essi ha ideazioni suicidarie nella settimana precedente.

I disturbi più frequenti in pazienti con HIV

I disturbi più frequentemente diagnosticati in persone con infezione da HIV sono i seguenti:

  • Il disturbo acuto da stress può presentarsi in qualunque fase della malattia anche se è più frequente immediatamente dopo la diagnosi o in concomitanza con degli aggravamenti. Il quadro sintomatologico può consistere in rabbia, senso di colpa, paura, diniego e disperazione. Data la variabilità dei sintomi non è possibile reperire dati sulla prevalenza di questo disturbo.
  • Il disturbo dell’adattamento è caratterizzato da ansia, insonnia e depressione e di solito ha un decorso benigno. L’incidenza si attesta intorno al 4-10 % (Lipsitz et al. 1994) e nelle popolazione sieropositiva che si rivolge ai servizi di salute mentale è di circa il 30%.
  • Per quanto riguarda i disturbi depressivi i dati sulle prevalenze sono divergenti in quanto variano tra il 30% e il 61% (Rosenberger et al., 1993; Dew et al., 1997). Nell’ambito dei disturbi di ansia si riscontrano episodi di ansia della durata di un mese o la prevalenza è molto è bassa  se si prendono in considerazione strettamente i criteri del DSM-IV-TR e potrebbe dar conto della disparità dei diversi risultati dei vari studi sul tema (4-73%) (Cohen et al., 2002). Abuso di sostante e alcol sono presenti nella popolazione sieropositiva rispettivamente nella percentuale del 22%-64% e nel 29%-60% e si presentano tendenzialmente in comorbidità con altri disturbi. La variabilità dei tassi di prevalenza dei diversi disturbi può essere messa in relazione con l’eterogeneità metodologica degli studi presi in considerazione ( Spizzichino, 2008).

Secondo la letteratura internazionale le donne sieropositive risultano essere più a rischio per quanto riguarda i disturbi psichiatrici rispetto agli uomini. E’ stato dimostrato che le donne positive presentano più spesso degli uomini ansia, depressione, eccessiva sensibilità, disturbi paranoidi e somatizzazione. E’ stato sottolineato inoltre che  le donne si rivolgono ai servizi sociali per la salute mentale meno degli uomini (Havens et al., 1996).

Sono state fatte varie ipotesi su questa distribuzione. Uno studio (Faithfull, 1997) ha riscontrato tre fattori ulteriormente stressanti per le madri con infezione da HIV quali la difficoltà di rivelare la propria sieropositività ai figli, la paura di infettarli e la possibilità che la malattia infici la capacità di prendersene cura e di crescerli.

In letteratura si riscontra la presenza di almeno un disturbo psicologico nella vita di una persona con HIV in percentuali che vanno dal 38% al 73% di tutti i pazienti che sono stati studiati (Gallego et al, 2000). L’esordio della psicopatologia nella maggior parte dei casi è antecedente alla sieroconversione (Rosenberger et al., 1993). Sono stati identificati dei fattori associati allo sviluppo dei disturbi mentali nelle persone positive quali il supporto sociale scarso, la storia psichiatrica precedente, l’uso di meccanismi quali l’evitamento e il diniego, una rapida progressione dell’infezione ed esperienza di lutto per AIDS.

Uno studio in quattro città degli Stati Uniti, su un campione di 1000 donne HIV, ha messo in luce una relazione tra la sintomatologia depressiva e l’esperienza di sintomi fisici dell’infezione e loro grado di intrusività percepita nella vita dei pazienti (Remien et al., 2006). Il benessere psicologico delle persone positive in terapia antiretrovirale dipende più che dalla situazione in sé da variabili cognitive e comportamentali, quali la soddisfazione riguardo al sostegno sociale, l’idea della punizione relativa alla malattia e il grado di integrazione della malattia nella propria vita e nella percezione di sé (Safren et al, 2002).

Molti lavori hanno analizzato l’associazione tra problemi di salute, strategie di coping e reazioni allo stress durante il decorso di malattie come il cancro, l’artrite reumatoide, l’infarto del miocardio e l’ infezione da HIV. Sono stati riscontrati risultati molto simili tra le diverse patologie. Generalmente le forme di coping evitante sono associate a maggiore stress mentre quelle focalizzate sulle emozioni sono a livelli minori di quest’ultimo. Una posizione attiva e l’attitudine a considerare nel modo più positivo possibile la situazione hanno delle influenze benefiche sul tono dell’umore rispetto alla fuga e all’evitamento.

Nello specifico dell’infezione dell’HIV si è potuta osservare una correlazione positiva tra la percezione di un buono stato di salute e tre stili di coping: il focalizzarsi su altro, il pensiero positivo e la gestione della malattia (Phillips et al. 2001). E’ stato verificato che strategie di coping maladattive da parte di persone sieropositive diminuiscono notevolmente la qualità della vita  relativamente al funzionamento cognitivo, salute mentale e stress legato al lavoro.

In conclusione, dalla rassegna presentata, emerge come la sieropositività sia ancora un problema largamente diffuso, sia nel mondo che sul territorio italiano e di come la scoperta dell’infezione vada ad incidere non solo sulla salute fisica ma anche su quella mentale. Occorre quindi, da parte di tutti gli operatori, che si occupano a vario titolo delle persone sieropositive o malate di AIDS, porre attenzione non solo al livello generale di salute ma anche al benessere psicologico, messo in pericolo dalle conseguenze di una malattia cronica ed a oggi incurabile. Ciò per costruire e implementare percorsi di accompagnamento psicologico e psicoterapico che consentano a questi pazienti di raggiungere il miglior livello di benessere possibile e che si integrino ai percorsi tradizionali di cura previsti per chi soffre di questa patologia.

Perché l’isolamento sociale aumenta il rischio di malattia?

L’ isolamento sociale comporta conseguenze negative a livello di salute, non solo negli esseri umani ma nella maggior parte delle specie animali. Tra gli effetti iatrogeni si riscontrano l’abbassamento delle difese immunitarie, il decremento della quantità e della qualità del sonno e un aumento sia del rischio di contrarre patologie che di mortalità.

 

L’isolamento sociale e gli effetti sulla salute

Proprio per tali motivi la società gerontologica americana ha definito l’ isolamento sociale un “killer silenzioso”, a fronte del quale sono stati ideati programmi per aiutare le persone, soprattutto anziane, a mantenere contatti con la propria comunità.

Questo fenomeno è in crescita negli anziani dei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, in cui circa la metà della popolazione sopra gli 85 anni vive da sola sperimentando la perdita di opportunità di socializzazione dovute a una minore mobilità.

Ricercatori della scuola Perelman di medicina presso l’università della Pennsylvania (Brown, Strus, & Naidoo, 2017) hanno trovato una possibile spiegazione della correlazione tra isolamento sociale e rischio di malattia. Lo studio di riferimento è stato effettuato su moscerini da frutta, Drosophila melanogaster, nel quale si riscontrava una correlazione tra isolamento sociale e perdita di sonno che comportava uno stress cellulare tale da attivare un meccanismo di difesa chiamato “unfolded protein response” (UPR). Quest’ultimo aiutava a proteggere le cellule dallo stress se attivato per brevi periodi, al contrario un’attivazione cronica determinava un’infiammazione cellulare. Sembra che tale meccanismo fosse collegato a problematiche relative all’età, per cui gli autori hanno ipotizzato che la combinazione di età elevata e isolamento sociale determinasse una doppia battuta d’arresto a livello cellulare e molecolare. Effettivamente in moscerini socialmente isolati i livelli di attivazione dei marker biologici del UPR erano più alti rispetto a quelli di moscerini della stessa età ma integrati in un gruppo.

Tra i marker dell’attivazione del UPR era presente la proteina BIP, un chaperone che assicurava una corretta piegatura delle proteine ​​all’interno delle cellule. Infatti le proteine, dopo essere state sintetizzate come semplici catene di amminoacidi, assumono una forma funzionale spesso complessa.

Questo processo si modificava quando le cellule erano sottoposte a stress, comportando una dannosa scomparsa di proteine ​​complesse.
Dunque uno stress cronico può ostacolare la normale funzionalità cellulare fino alla morte delle cellule stesse.

Ma perché l’ isolamento sociale funge da attivatore del meccanismo UPR? Studi precedenti hanno mostrato due risultati: la mancanza di sonno è correlata all’attivazione del UPR e l’ isolamento sociale induce la perdita di sonno. Di conseguenza, l’ isolamento agisce sul UPR.

Gli autori stanno continuando ad analizzare le connessioni tra i fattori età, sonno, UPR e il loro impatto sul rischio di ammalarsi. Anche se l’età di per sè sembra attivare l’UPR, in realtà questo potrebbe essere dovuto al fatto che all’aumentare dell’età peggiora la qualità del sonno, confermando quanto riscontrato nelle ricerche sopra citate.

Cold War Freud: Psychoanalysis in an Age of Catastrophes (2016) di Dagmar Herzog – Recensione del libro

Dagmar Herzog segue le conseguenze della migrazione degli analisti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare nell’ottica di come il clima della Guerra Fredda influenzi la ricezione di Freud, nel periodo che vede la massima affermazione planetaria della psicoanalisi e, successivamente, l’inizio del suo declino.

 

Come i cambiamenti politici hanno condizionato la psicoanalisi

Probabilmente poche discipline sono state condizionate dagli eventi politici più della psicoanalisi; perlomeno nella loro espansione sul territorio mondiale. La psicoanalisi era fino al 1906 una curiosità per pochi medici ebrei austriaci. Nel 1909 era abbastanza nota per meritare a Freud (e Jung) l’invito per un ciclo di conferenze negli USA.

Dopo il 1918 aveva cominciato ad affermarsi in modo omogeneo, soprattutto in Europa, spinta anche dal successo ottenuto nel curare le nevrosi di guerra. Questa omogeneità venne meno nei decenni successivi, proprio a causa di svolte decisive nella storia politica europea: l’affermazione del nazismo in Germania (e successivamente l’Anschluss, cioè l’annessione dell’Austria al territorio tedesco) da una parte; l’avvento dello stalinismo in URSS dall’altra.

L’Istituto Psicoanalitico di Berlino era diventato il principale centro mondiale di ricerca clinica e formazione degli analisti quando venne subitaneamente chiuso e sostituito dal cosiddetto Istituto Goering. Il cugino del comandante della Luftwaffe era infatti uno psichiatra e a sua volta divenne il referente amministrativo della psicoterapia tedesca sotto il nazismo. La psicoanalisi, teorizzata da un ebreo e praticata soprattutto da ebrei, veniva considerata una “scienza degenerata” e venne di fatto sradicata dal territorio del Reich.

Pressoché tutti gli analisti tedeschi, se volevano salvare la propria identità professionale (e la loro stessa vita, in realtà) furono costretti a emigrare tra il 1933 e il 1934: la stessa sorte toccò ai colleghi austriaci, compreso Freud, nel 1938. In Unione Sovietica, la psicoanalisi aveva inizialmente attirato l’attenzione di un certo numero di validi studiosi, tra i quali il giovane Alexander Lurija. Gruppi di analisti avevano iniziato un’attività sia clinica che di confronto teorico in diverse città, tra le quali Mosca e S. Pietroburgo-Leningrado. Anche Trotzkij riteneva la psicoanalisi compatibile con il marxismo. La sua opinione, del resto, era condivisa anche da diversi marxisti dell’Europa occidentale, tra i quali Wilhelm Reich e tutto il gruppo della Scuola di Francoforte, guidata da Max Horkheimer, Theodor Adorno, Erich Fromm (e in seguito Herbert Marcuse).

Nel corso degli anni trenta, tuttavia, lo stalinismo mise sostanzialmente all’indice la psicoanalisi, considerandola una disciplina borghese. Fu così che Lurija, invece di divenire un analista, finì per passare alla storia come uno dei padri della neuropsicologia.

Dagmar Herzog: la psicoanalisi durante la Guerra Fredda

Dagmar Herzog (2016) segue le conseguenze della migrazione degli analisti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare nell’ottica di come il clima della Guerra Fredda influenzi la ricezione di Freud, nel periodo che vede la massima affermazione planetaria della psicoanalisi e, successivamente, l’inizio del suo declino. Si potrebbe peraltro osservare che le conseguenze dello sradicamento degli psicoanalisti più importanti sono già visibili da prima.

Nel Regno Unito si assiste alla prima svolta politica fondamentale nel movimento psicoanalitico, a seguito del trasferimento di Anna e Sigmund Freud a Londra nel 1938. La polemica tra Anna Freud e Melanie Klein aveva indotto quest’ultima a trasferirsi in Inghilterra già anni prima. Melanie Klein sosteneva la possibilità e l’opportunità di una vera e propria analisi infantile, mentre la figlia di Freud riteneva i procedimenti kleiniani basati sul gioco una sorta di analisi selvaggia. Anna Freud propugnava per i bambini una sorta di educazione ispirata dal pensiero psicoanalitico. La presenza delle due rivali sullo stesso territorio dette origine alla contrapposizione di due gruppi  in forte frizione teorica. Ne nacquero le cosiddette Discussioni controverse, in origine destinate a stabilire chi dovesse assumere la leadership teorica in seno alla British Psychoanalytic Association (King & Steiner, 1991).

Il risultato fu del tutto inaspettato: qualcosa come il “Cuius regio eius religio” della Guerra dei Trent’anni. Nel 1600, le Guerre di Religione si erano concluse senza un vero vincitore e con un compromesso: ogni nazione europea avrebbe osservato la religione del proprio re. Allo stesso modo, nella società inglese e poi nell’International Psychoanalytic Association, non vi sarebbe più stata una teoria unica di riferimento, ma ogni gruppo avrebbe potuto legittimamente espandersi indipendentemente, formando i propri analisti alla luce delle proprie idee. Di fatto i gruppi britannici furono subito tre, perché oltre agli annafreudiani e ai kleiniani si costituì un gruppo di Indipendenti (tra i quali, peraltro, avrebbero militato i più importanti analisti britannici: Winnicott, Fairbairn, Guntrip e Bowlby).

In USA, l’adattamento della psicoanalisi a un ambiente culturale profondamente diverso da quello europeo produsse delle conseguenze profonde. Da una parte i cosiddetti neo-freudiani avevano iniziato un processo di relativizzazione del pensiero di Freud. Per esempio, Erich Fromm (1941) aveva teorizzato il concetto di “carattere sociale”, cioè il principio per cui la personalità può essere fortemente influenzata dalle condizioni storico-sociali nelle quali una persona vive. Karen Horney (1937) aveva sottolineato come le personalità nevrotiche americane presentassero caratteristiche e problemi molto diversi da quelli riscontrati tra i tedeschi. Dall’altra parte anche il mainstream della psicoanalisi stava apportando delle importanti modifiche all’impostazione originaria di Freud.

Heinz Hartmann (1927; 1939), fondatore della Psicologia dell’Io, fin dagli anni viennesi aveva cominciato a porre le basi di una teoria psicoanalitica meno incentrata sulla sessualità e più sull’adattamento. Il radicarsi della Psicologia dell’Io negli USA accentuò sicuramente questa tendenza. Hartmann e la sua scuola si impegnarono nel tentativo di far affermare la teoria freudiana nell’ambiente accademico, cercando di sviluppare la psicoanalisi come una psicologia generale (il che significava, all’inverso, limitare il suo carattere di teoria psicopatologica, volta a evidenziare i lati perversi e nevrotici di ogni essere umano).

Tuttavia, l’affermazione su larga scala della psicoanalisi negli USA passò anche attraverso altri canali, ampiamente analizzati da Dagmar Herzog: uno dei più importanti fu costituito dalla capacità di far accettare la psicoanalisi come una teoria compatibile con la religione cristiana. Vale la pena di segnalare un fatto abbastanza paradossale. Dagmar Herzog segnala come i due epocali discorsi tenuti da Pio XII tra il 1952 e il 1953 sul rapporto tra cristianesimo e psicoterapia furono accolti in America come un’apertura nei confronti della psicoanalisi e probabilmente contribuirono alla sua diffusione. La stessa cosa, però, non avvenne in Europa, e in Italia in particolare, dove prevalse l’interpretazione di Agostino Gemelli (1953), che vide negli stessi discorsi una netta condanna sia di Freud che di Jung. Le posizioni di Gemelli sostanzialmente impedirono ai cattolici italiani di accostarsi alla psicoanalisi fino agli anni sessanta.

Un aspetto abbastanza singolare dell’evoluzione della psicoanalisi durante il periodo della Guerra Fredda e descritto da Dagmar Herzog è l’atteggiamento paradossalmente conservatore, se non reazionario, riguardo al comportamento sessuale. Un tale atteggiamento spinse gli psicoanalisti americani a criticare severamente sia i contributi di Kinsey (et al., 1948; 1953) che quelli di Masters e Johnson (1966), che ciò nonostante contribuirono in maniera fondamentale alla liberazione sessuale. Una pagina particolarmente oscura è stata scritta dagli psicoanalisti americani con la loro resistenza a considerare l’omosessualità come normale (e molte delle resistenze a derubricarla dalle perversioni nel Manuale Diagnostico-Statistico della Malattie Mentali furono dovute agli analisti presenti nella task force del DSM). Il che sembra abbastanza strano, a posteriori, considerando la concezione dell’essere umano come fondamentalmente bisessuale propugnata da Freud.

Forse, però, la storia più singolare raccontata dal libro di Dagmar Herzog è legata a un imprevedibile legame tra i campi di concentramento nazisti e le Guerra del Vietnam. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, i sopravvissuti dei campi di concentramento incontrarono notevoli difficoltà a vedersi riconosciuto un risarcimento per i danni psicologici subiti. Ciò avvenne perché il fatto che la condizione di particolare difficoltà psicologica seguiva generalmente un periodo di apparente riadattamento alla vita sociale. I periti interpretavano questo iato come la prova di un mancato legame tra l’esperienza nei campi e la disperazione successiva. Fu solo quando i reduci dal Vietnam cominciarono a tornare che fu possibile osservare in vivo la dinamica di ciò che infine venne classificato come Disturbo da stress post-traumatico: un periodo, per così dire, di incubazione psicologica, tra evento traumatico e reazione, è caratteristico di questo tipo di disturbo.

La saggezza della lumaca: paranoia e complottismo

Diffidare, sospettare, immaginare trame malevole ai nostri danni. E poi leggere le azioni degli altri come segno di un’intenzione di sottometterci, umiliarci. Starci male, sentirsi come una zanzara spiaccicata e poi ribellarsi, contrattaccare se possibile. L’essenza della paranoia è questa.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su La Lettura de Il Corriere della Sera del 4 giugno 2017

 

Cos’è la paranoia?” chiesi a un perverso discografico. “La paranoia è solo la realtà su una scala più sottile”, mi rispose Philo Gant in Strange Days. Il film mi insegnò un’altra massima: “Il punto non è se sei paranoico… il punto è se sei abbastanza paranoico”.

Diffidare, sospettare, immaginare trame malevole ai nostri danni. E poi leggere le azioni degli altri come segno di un’intenzione di sottometterci, umiliarci. Starci male, sentirsi come una zanzara spiaccicata e poi ribellarsi, contrattaccare se possibile. L’essenza della paranoia è questa. Nasce come un meccanismo protettivo utile, necessario: chi ci garantisce che il sorriso dello straniero che bussa alla porta sia reale e non un’infida maschera? Ma in presenza di una tendenza cronica a sentirsi vulnerabile, diventa un modo di vedere il mondo. Per una lumaca senza guscio il cielo è fatto di tacchi minacciosi. La distanza che separa diffidenza e paranoia è quanto ci percepiamo vulnerabili. Non stupisca che il più grande specialista di tutti i tempi sia stato Stalin. Il potere non lo ha mai reso sicuro, nota Leonardo Tondo in “Qualcuno ce l’ha con me”. Non sono i milioni di omicidi che ha commissionato per paura a colpirmi, ma che abbia preso il suicidio della seconda moglie come un’offesa personale, un’umiliazione pubblica.

Il paranoico soffre. Gli somiglia per diffidenza e attribuzione di cattive intenzioni il complottista, disegnato da Rob Brotherton in “Menti sospettose”, che però non sta male, piuttosto si compiace del suo smascherare trame oscure, contro le quali, naturalmente, può solo proclamare un supponente: “Non mi fanno fesso”. Le lobby dei vaccini, i Savi di Sion, il Nuovo Ordine Mondiale.

Mi concedo una personale forma di complottismo: sono convinto che un élite di plutocrati incompetenti decida le sorti del mondo seduta, una volta all’anno, a un ristorante di una spiaggia di Antigua durante una pantagruelica cena dei cretini.

 

Quei neuroni che aiutano a distinguere la realtà dall’immaginazione

I neuroni della corteccia prefrontale laterale, associati ad un funzionamento atipico nelle psicosi, sembrerebbero essere importanti anche per aiutare le persone a distinguere la realtà dall’ immaginazione così come dimostrato da un recente studio pubblicato nella rivista Nature Communications.

 

I ricercatori hanno dimostrato come il cervello codifichi le informazioni visive provenienti dalla realtà creando un match con le informazioni astratte conservate in memoria.

Il Dr. Julio Martinez-Trujillo principale professore e ricercatore alla University of Western Ontario’s Schulich School of Medicine & Dentistry riferisce quanto segue:

Ora puoi vedere la mia t-shirt, e anche se io mi dovessi spostare al di fuori del tuo campo visivo, fino a quando i tuoi occhi saranno aperti potrai continuare a vedere il colore della mia t-shirt con la mente.

Questo è possibile grazie alle rappresentazioni generate dalla working memory, o memoria di lavoro: si tratta di rappresentazioni immaginarie e non reali ma presenti nella mente.

Queste si oppongono alle rappresentazioni percettive che fotografano gli oggetti presenti nella realtà. L’obiettivo della ricerca è capire se esistono neuroni nel nostro cervello deputati alla distinzione tra ciò che è reale e ciò che fa parte della nostra immaginazione.

Per lo studio ai partecipanti è stato chiesto di svolgere due compiti:

  • Un primo compito in cui veniva richiesto di riportare la direzione del movimento di una nuvola formata da punti che appariva su uno schermo;
  • Un secondo compito in cui dovevano riportare la direzione della nuvola pochi secondi dopo che questa scompariva sulla base del ricordo mnestico dell’immagine.

I ricercatori hanno scoperto che i neuroni nella corteccia prefrontale laterale codificano le informazioni percepite e le informazioni memorizzate secondo combinazioni diverse e con intensità diversa.

In conclusione potremmo aspettarci che esistano neuroni che si attivano contemporaneamente sia per la percezione di un oggetto reale che per la sua memorizzazione; oppure che esistano neuroni deputati esclusivamente alla percezione e altri alla memorizzazione.

Neuroni che distinguono il reale dall’immaginario: implicazioni nel trattamento della schizofrenia

I ricercatori sottolineano che abbiamo neuroni specifici per la percezione, neuroni per la memoria e anche neuroni che lavorano contemporaneamente su entrambe le informazioni.

E’ stato dimostrato che la corteccia prefrontale laterale è disfunzionale in individui con schizofrenia, un grave disturbo mentale caratterizzato da sintomi quali allucinazioni e /o deliri. Tuttavia, fino ad ora i ricercatori non sono stati in grado di identificare la causa di questa disfunzione.

Utilizzando l’apprendimento computazionale secondo un approccio connessionista, il team di ricerca ha sviluppato un algoritmo per sistemi computerizzati che potrebbe essere in grado di leggere il modello dei neuroni che si attivano nella corteccia prefrontale per determinare in modo affidabile se un partecipante sta guardando una nuvola di punti in tempo reale o ricordando ciò che aveva visto prima.

Martinez-Trujillo spera che identificando i neuroni specifici responsabili della distinzione tra realtà e fantasia, si potrebbe essere più in grado di trattare disturbi come la schizofrenia che portano i pazienti a confondere ciò che è reale da ciò che non lo è.

Vorrei sostenere che la schizofrenia non è un disturbo neurochimico di tutto il cervello – ha detto Martinez-Trujillo – È solo un disturbo neurochimico in parti specifiche del cervello

 

L’uso della musica rap in terapia di gruppo con adolescenti aggressivi: la Group Rap Therapy

La Group Rap Therapy (GRT) è una pratica di intervento creata in America che utilizza la musica rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza e all’interno dei gruppi terapeutici penitenziari con giovani arrestati per aggressività.

Di Arianna Ferretti, Luca Pelusi – OPEN SCHOOL , Studi Cognitivi Modena

Introduzione: la musica rap e il mondo degli adolescenti

La terapia di gruppo con gli adolescenti continua ad essere un trattamento molto efficace che predispone i ragazzi all’acquisizione di strategie di problem-solving, alla socializzazione e all’acquisizione di nuove conoscenze in un contesto peer, quindi tra coetanei (DeCarlo,2001). La musica è stata utilizzata in svariati ambiti: per costruire le capacità di resilienza, per prevenire la delinquenza e la devianza giovanile (Dutton, 2000).

Tra tutti i generi musicali il rap è stato più volte scelto come strumento da utilizzare nei gruppi che usano la musica per interventi con adolescenti e giovani adulti. Si tratta di un genere che nasce in un clima urbano del South Bronx, un quartiere di New York intorno agli anni ’70. La popolarità di questa cultura cresce esponenzialmente e molti gruppi distinti da differenti etnie e da un livello socio-economico simile iniziano ad identificarsi con il suo messaggio di fondo, con lo stile e con l’intera cultura Hip-Hop. Inizia, così, ad essere definito come un vero è proprio movimento anticonformista capace di esprimersi attraverso uno strumento molto potente: l’arte.

La musica, il ballo, la moda, il linguaggio e le arti visive portano dentro di sé tutto il mondo valoriale, morale, espressivo, emotivo ed esperienziale appartenente al cuore di questo movimento (Rose, 1994). Il rapper e/o l’MC (Masters of Ceremonies) scandisce versi seguendo un beat, ovvero una specifica successione di note realizzata dal beatmaker attraverso vari metodi e strumentazioni che vengono suonate da un DJ.

Il rap e l’hip-hop sono diventati, pian piano, rilevanti per i terapeuti che utilizzano la musica come strumento di sostegno non solo per la crescente popolarità di questa cultura, ma anche perché il rap è definito come una forma sociale che dà voce alle diverse tipologie di alienazione culturale e politica (Rose, 1994). Alcuni studi che hanno approfondito la relazione tra musica rap e comportamento criminale hanno riscontrato che i testi rap vanno ad influenzare le emozioni ed i sentimenti delle persone senza, tuttavia, portare a condotte problematiche (Gardstrom, 1999). Hadley e Yancy sostengono che la musica rap rappresenti un importante veicolo in grado di mantenere la sanità mentale e che sia diventato un mezzo attraverso il quale i giovani abbiano la possibilità di riconoscersi, di condividere, di interpretare ed elaborare la propria vita (Handley e Yancy, 2011).

La Group Rap Therapy

La Group Rap Therapy (GRT) è una pratica di intervento creata da DeCarlo in America che utilizza la musica rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza e all’interno dei gruppi terapeutici penitenziari con giovani arrestati per aggressività (DeCarlo, 2013).

Il presupposto centrale della Group Rap Therapy è quello di usare la musica come strumento psicologico in grado di sfruttare la sua potenzialità di ridurre l’ansia e alleviare il senso di dolore e paura (Aluende e Ekewenu, 2009). Originariamente la Group Rap Therapy è stata progettata come trattamento di supporto per i carcerati giudicati colpevoli per aggressioni e omicidi con la finalità di sviluppare in loro consapevolezza e successivamente andare a lavorare sulla disfunzionalità dei pensieri connessi all’uso della violenza come unico strumento risolutore di conflitto.

Il terapeuta che conduce questi incontri necessita, pertanto, di quattro caratteristiche essenziali: affidabilità, interattività, competenze culturali e autorevolezza. E’ dunque importante creare un clima altamente interattivo in cui il terapeuta sia in grado di riconoscere il modo in cui la razza, l’etnia, il linguaggio, le credenze, i comportamenti, le emozioni ed altre variabili possano operare nella vita dei partecipanti in relazione al contesto di appartenenza. Altro elemento indispensabile è la fiducia che chi conduce il gruppo deve essere in grado di instaurare con e tra i membri del gruppo stesso. Inoltre, i partecipanti all’attività di Group Rap Therapy mostrano la necessità di percepire l’ambiente di lavoro come abbastanza sicuro così da poter esprimere liberamente le proprie paure, debolezze, preoccupazioni, speranze e sogni. E’ consigliabile un atteggiamento autorevole da parte del terapeuta anziché punitivo, rigido o eccessivamente carico di regole. Saranno la conoscenza e le abilità del terapeuta stesso che porteranno al rispetto delle regole della Group Rap Therapy e ad un clima di benessere e sicurezza, andando ad arginare reazioni eccessive, elementi di disturbo e a regolare l’ansia dei partecipanti (DeCarlo & Hockman 2003).

Il presupposto specifico di questo approccio alla terapia di gruppo è quello di portare i pazienti ad una presa di consapevolezza di quei pensieri irrazionali e disadattivi che sostengono e determinano i loro agiti aggressivi. In questo modo è possibile interrompere la catena pensiero-emozione-comportamento disfunzionale per sostituirla con una maggiormente funzionale (Meichenbaum, 1995). DeCarlo ha scoperto che attraverso l’analisi dei testi delle canzoni rap, in un contesto terapeutico, è possibile sviluppare e raffinare le skills sociali andando a lavorare su frammenti di testo che trattano temi delicati come l’abuso, la violenza sulle donne, la gestione della rabbia, il controllo degli impulsi, il ragionamento, le regole sociali e morali, la responsabilità, l’identità e l’empatia (DeCarlo & Hockman 2003).

Group Rap Therapy: la procedura

Le sedute della Group Rap Therapy hanno generalmente la durata di un’ora con cadenza bisettimanale per sei settimane consecutive.

All’inizio di ogni settimana è prevista una seduta psicoeducativa in cui i pazienti, o il terapeuta, scelgono un topic da trattare, come ad esempio l’uso e/o l’abuso di droghe, l’aggressività, l’identità, e così via. Il gruppo, pertanto, si impegna ad affrontare la tematica scelta cercando di esprimersi con spirito critico in un clima di rispetto e apertura al dialogo.

Successivamente ad ogni partecipante viene chiesto di scegliere quattro canzoni interpretate dai propri rapper preferiti senza porre alcun limite alla selezione dei brani. Viene data una carta sulla quale è riportata una tematica specifica: abuso, gestione degli impulsi, controllo della rabbia e altri temi. A questo punto ognuno di loro ascolta uno scorcio di un brano rap, ininterrottamente, insieme al terapeuta. Infine, ogni membro appartenente al gruppo viene chiamato dal terapeuta per identificare e spiegare come il tema riportato sulla carta a lui assegnata possa essere messo in relazione allo scorcio di canzone ascoltato e infine alla propria esperienza personale (DeCarlo 2013).

Illustrazione di un caso trattato con Group Rap Therapy

Ad un ragazzo, che chiameremo Mike, incarcerato per agiti aggressivi viene data una carta con il tema dell’aggressività e viene selezionata la canzone “Before I Self Destruct” di Curtis Jackson che dice:

            You see Im’m a psycho, a sicko, I’m, crazy

            I said I got my knife, boy, I’ll kill you if you make me

            They wanna see me shot up, locked up then cage me

            I come back bigger, stronger and angry.

Terapeuta: Mike, hai il tema relativo all’aggressività. Puoi dirci quali sono i tuoi pensieri riguardo alla gestione della rabbia? Riesci a metterli in relazione alla canzone che hai appena ascoltato?

Mike: Bene, il cantante dice che è molto arrabbiato. Dice che ha un coltello e che ti ucciderà se provi a fregarlo. Una persona deve essere molto arrabbiata per dire una cosa del genere. Per me, quando dice “Sono tornato più grande, forte e arrabbiato” è come se sfidasse la persona a cui si riferisce nel testo.

Terapeuta: Ok, Mike. Come pensi che l’autore di questo brano gestisca la rabbia che esprime nella canzone?

Mike: So come si sente, so quello che pensa. E’ come se ci fossero troppe cose intorno a te che tu non riesci a controllare. Anche se provi a fare la cosa giusta, sei comunque bersaglio delle persone sbagliate che ti mettono in situazioni scomode e, talvolta, ti portano a fare del male agli altri e tu lo fai sapendo di farlo per proteggere la tua famiglia. Capisci cosa intendo? [tutto il gruppo fa cenno di sì con il capo]

Terapeuta: Quindi, Mike, tu hai detto “So quello che sente”. In che modo sei in grado di gestire la tua rabbia?

Mike: Devi solo cercare di calmarti prima che qualcuno ti faccia scoppiare. E’ come se io sapessi di essere un uomo che si arrabbia facilmente, ma non sono stato in grado di capire quanta rabbia portassi dentro finché non sono stato arrestato e ho avuto tempo per pensare. So che può sembrare strano ma è stato un bene che sia finito in prigione prima di fare dei gesti estremi fino a, magari, uccidere qualcuno. Davvero, dottore, il gruppo mi sta aiutando molto perché ascoltare musica mi tranquillizza per un po’. Quando sei calmo puoi parlare di un sacco di cose.

Discussione del caso

Il caso appena descritto dimostra come, grazie alla Group Rap Therapy, il gruppo sia in grado di riconoscere ed esprimere le proprie esperienze di vita riscontrate all’interno dei lyrics delle canzoni rap utilizzate per l’attività. In questo modo viene facilitata la scoperta di fattori personali che emergono a partire dalla tematica riportata sulla carta assegnata e che vengono, infine, discussi di fronte agli altri membri. Attraverso la condivisione di vissuti simili da parte dei partecipanti al gruppo è possibile lavorare sulle skills sociali producendo, inoltre, un senso di comprensione e sfogo.

Parlando delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti relativi ai cantanti, i partecipanti lavorano con più semplicità sui propri schemi di pensiero che veicolano il corredo emotivo e comportamentale. Il dialogo dimostrativo tra Mike e il terapeuta porta Mike ad un insight: ascoltare musica tranquillizza per un po’.  A tal proposito la relazione tra musica ed emozione è forte e già nota da tempo: ricerche neurobiologiche mostrano il modo in cui la musica vada a provocare risposte emotive di benessere e gratificazione (Mitterschiffhaler, 2007). Secondo Schneck e Berger’s (2006) i processi cognitivi coinvolti nell’ascolto di musica attivano una condizione psicologica di calma che, conseguentemente, rende più recettivi alla Group Rap Therapy. Le canzoni molto ritmate sembrano attivare e inviare informazioni al sistema uditivo e corticale andando, così, ad interagire con il sistema nervoso autonomo, determinando una sensazione di calma e benessere. Inoltre l’attivazione dei sistemi appena citati sembra influenzare positivamente la frequenza cardiaca, la pressione del sangue, la respirazione ed il consumo di ossigeno (Bernardi et al., 2006).

Sistemi e processi di Memoria a Breve Termine fonologica e semantica

Attraverso questa nuova ricerca, i ricercatori sono stati in grado di individuare le diverse aree del cervello coinvolte sia nel mantenimento dell’informazione fonologica che di quella semantica nella memoria a breve termine.

 

I meccanismi della memoria per acquisire nuove informazioni

Secondo un recente studio, quando proviamo a memorizzare nuove informazioni, siamo facilitati nella memorizzazione se queste posseggono qualcosa di significativo piuttosto che tramite un processo di mera ripetizione.

Il Dottor Jed Meltzer, autore principale dello studio e scienziato di neuro-riabilitazione presso l’Istituto di Ricerca di Baycrest di Rotman afferma che nell’apprendimento di nuove informazioni il nostro cervello può attivare due diverse vie per ricordare il materiale per un breve periodo di tempo: una mediante la ripetizione mentale dei suoni delle parole, l’altra mediante l’acceso al significato delle parole. Nonostante entrambe le strategie siano efficaci nel mantenere le informazioni nella memoria a breve termine, concentrarsi sul significato sembrerebbe più efficace nel mantenimento delle informazioni.

Studi precedenti hanno esaminato il ruolo della ripetizione nella creazione di memorie a breve termine, ma i risultati suggeriscono che l’utilizzo del significato della parola aiuti maggiormente a trasferire i ricordi dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Questa scoperta è coerente con le strategie utilizzate dai campioni mondiali di memoria, che creano storie ricche di significato per ricordare informazioni casuali, come l’ordine di un mazzo di carte.

I sistemi della Memoria a Breve Termine fonologica e semantica

Attraverso questa nuova ricerca, i ricercatori sono stati in grado di individuare le diverse aree del cervello coinvolte sia nel mantenimento dell’informazione fonologica che di quella semantica nella memoria a breve termine.

Secondo il Dottor Meltzer, questa constatazione dimostra che esistono meccanismi cerebrali multipli che supportano la memoria a breve termine, sia per le informazioni basate sul suono che per quelle basate sul significato. Ciò potrebbe indurre a pensare che se in pazienti con danni cerebrali conseguenti ad ictus o demenza, è solo uno dei due meccanismi ad interrompersi, queste persone potrebbero imparare a compensare affidandosi alla via alternativa per formare ricordi a breve termine.

Per distinguere l’attività cerebrale coinvolta nel mantenimento dell’informazione fonologica rispetto a quella semantica, è stata effettuata una registrazione magnetoencefalografica durante tre diversi compiti di ripetizione di frasi manipolate sperimentalmente per avere un diverso grado di coinvolgimento delle risorse semantiche. Lo studio ha registrato le onde cerebrali di 25 adulti sani durante l’ascolto di frasi ed elenchi di parole che, dopo un periodo di 5 secondi, dovevano ripetere parola per parola. Dopo la magnetoencefalografia, i partecipanti hanno completato un compito di richiamo dello stimolo target verificando quanto si ricordassero di ogni frase. Attraverso le scansioni cerebrali, i ricercatori hanno identificato l’attività del cervello legata alla memorizzazione attraverso il suono e il significato.

I risultati hanno evidenziato diversi aspetti della memoria a breve termine:
1. Attività oscillatoria in bande di frequenza distinte durante il mantenimento di frasi e di elenchi di parole nella memoria a breve termine.
2. Maggior attivazione della corrente dorsale (via del dove/come) nella prova fonologica e attivazione, seppur più limitata, della corrente ventrale (via del cosa) per il mantenimento dell’informazione semantica
3. I pattern di attivazione base per l’ascolto e il mantenimento della frase, hanno una lateralizzazione emisferica maggiore a sinistra; tuttavia, si è osservata l’attivazione di regioni omologhe nell’emisfero destro. Questi risultati potrebbero suggerire che in assenza di supporto semantico, quando i partecipanti devono impiegare maggiori risorse per riuscire a mantenere gli stimoli in memoria, vengono reclutate aree dell’emisfero destro per portare a termine il compito.
4. La memoria semantica può essere mantenuta per più secondi senza un firing neuronale sostenuto rispetto a quella fonologica. I risultati mostrano che la memoria a breve a termine semantica utilizza un meccanismo sinaptico piuttosto che elettrico a conferma dell’ipotesi di Potter e Lombardi (1990), i quali hanno suggerito una distinzione tra memoria a breve termine fonologica e semantica. Essi propongono che la forma verbale di una frase non possa essere attivamente “memorizzata” semanticamente prima della ripetizione, ma piuttosto “rigenerata” dalle rappresentazioni semantiche attivate precedentemente. I risultati del presente studio sostengono questa ipotesi, suggerendo che forme di memoria a breve termine sinaptica piuttosto che elettrica sembrino influenzare maggiormente le componenti semantiche rispetto a quelle fonologiche.

Grazie a questi risultati il prossimo passo del Dottor Meltzer sarà quello di esplorare tramite la stimolazione cerebrale se è possibile potenziare la memoria a breve termine dei pazienti con ictus. Studi successivi potrebbero indagare quale tipo di memoria a breve termine risponda meglio al trattamento farmacologico o di stimolazione cerebrale valutando il grado di miglioramento ottenuto.

La valutazione dello sviluppo nella prima infanzia: le scale Griffiths III. Report, Roma, 16 e 17 giugno

Monica Rea, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, attivamente impegnata nel percorso di adattamento dello strumento al contesto italiano, dedica due interessanti giornate di formazione per presentare le Griffiths III ai professionisti del settore. La dottoressa le descrive come uno strumento di screening, particolarmente indicato nel primo livello di valutazione dello sviluppo globale del bambino, che permette l’individuazione di un Quoziente di Sviluppo, che rispecchia la somma dei punteggi grezzi individuati nelle diverse sottoscale.

Ilaria Cosimetti, Agnese Pirola

 

Le Scale Griffiths III per la valutazione dello sviluppo nella prima infanzia

Le Scale Griffiths sono note a chiunque si occupi di valutazione dello sviluppo nella prima infanzia poichè da diversi anni sono un punto di riferimento affidabile per discriminare punti di forza e di debolezza nel bambino in età prescolare e fungono da base di partenza per la stesura di programmi di intervento mirati.

A seguito di un lungo lavoro di ristrutturazione delle Griffiths Mental Development Scales (GMDS) da parte dell’Association for Research in Infant and Child Development (A.R.I.C.D.), il panorama testistico si è arricchito della nuova versione di questo prezioso strumento: le scale Griffiths III.

In Italia sono attualmente alle prese con la traduzione dei manuali e dei protocolli di notazione ed è iniziato anche il lavoro di adattamento e di validazione statistica per il contesto nazionale, con la promessa di raggiungere questi obiettivi nel corso del 2018.

Monica Rea, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, attivamente impegnata nel percorso di adattamento dello strumento al contesto italiano, dedica due interessanti giornate di formazione per presentare le Griffiths III ai professionisti del settore.

La dottoressa le descrive come uno strumento di screening, particolarmente indicato nel primo livello di valutazione dello sviluppo globale del bambino, che permette l’individuazione di un Quoziente di Sviluppo, che rispecchia la somma dei punteggi grezzi individuati nelle diverse sottoscale.

Tale valutazione non solo rispetta la vivace evoluzione tipica di questa fascia di età ma permette di pianificare un intervento mirato o di suggerire ulteriori indagini diagnostiche. Le scale possono essere nuovamente somministrate dopo 6 mesi per un follow-up e dopo un anno con finalità diagnostiche. Mirano insomma a quella fusione tra valutazione e intervento che, soprattutto in età evolutiva, sembra ormai essere l’unica modalità di presa in carico sensata.

Ma quali sono le novità rispetto alla precedente versione?

La nuova batteria è di più facile somministrazione, in quanto ridotta nel numero di item del 36%, la somministrazione più chiara e semplice e i materiali sono stati modernizzati per renderli più accattivanti. Il tempo richiesto per la somministrazione si è ridotto a circa 90 minuti.

Le Griffiths III si sviluppano lungo 5 scale, una in meno rispetto alla versione precedente con due principali novità: le scale Performance (E) e Ragionamento Pratico (F) sono confluite in un’unica Scala A ( Fondamenti dell’apprendimento) e la Scala D (Personale-sociale-emotiva) ambisce ad una valutazione molto più sofisticata che non si accontenta di valutare il solo comportamento adattivo ma mira alla valutazione della capacità di leggere le espressioni emotive, dell’empatia, della teoria della mente, della consapevolezza di sé, della capacità di auto giudizio e di moralità.

Sottoscale dello strumento Griffiths III

Le nuove 5 Sottoscale (immagine tratta dalle slide presentate al corso)

La fascia d’età presa in considerazione (0-6 anni) è più ristretta rispetto allo strumento precedente che era rivolto a due gruppi di età (0-2 e 2-8), ritenendo l’identificazione di possibili disturbi o ritardi nello sviluppo superflua tra i 6 e gli 8 anni.

Durante le due giornate di formazione è stato possibile familiarizzare con il protocollo di registrazione già disponibile in italiano e, attraverso la visione di filmati in cui la dottoressa utilizzava lo strumento con i bambini, sia a sviluppo tipico che atipico, prendere confidenza con le modalità di somministrazione e quindi di scoring.
Rimaniamo in attesa della chiusura dei lavori di taratura italiana, prevista nel 2018, per mandare quindi in pensione le vecchie scale e migliorare la qualità del nostro lavoro con le nuovissime Griffiths III.

La neofobia alimentare: un riflesso psico-fisiologico ancestrale che potrebbe causare carenze nutrizionali?

La neofobia alimentare, ovvero la riluttanza ad ingerire nuovi cibi, è una caratteristica degli animali onnivori, incluso l’essere umano. Il rischio di ingerire risorse alimentari tossiche, consente di approcciare ai nuovi alimenti in maniera cauta e, quando possibile, evitarli in favore di cibi familiari e conosciuti.

 

La neofobia alimentare, ovvero la riluttanza ad ingerire nuovi cibi, è una caratteristica degli animali onnivori, incluso l’essere umano. Questi organismi, esposti al rischio di un ambiente in cui molte risorse alimentari possono essere tossiche, consente di approcciare ai nuovi alimenti in maniera cauta e, quando possibile, evitarli in favore di cibi familiari e conosciuti.

E’ stato quindi suggerito che la neofobia alimentare abbia una funzione protettiva, che agisce tramite comportamenti alimentari di messa in sicurezza (Schulze, 1995). La risposta neofobica non è presente fin dalla nascita, bensì inizia a manifestarsi attorno alla fine del primo anno di vita, per toccare l’apice tra i 2 e i 5 anni. In questo periodo i bambini passano dall’essere totalmente nutriti di latte materno (e protetti a livello alimentare), all’essere esposti ai primi cibi solidi. Sebbene essi vengano selezionati per lo più dai genitori, la rapida crescita e acquisizione di autonomia e motricità, nonché le aumentate occasioni sociali (asilo, feste di compleanno ecc..) rendono ben presto i bambini in grado di esplorare il mondo e pertanto anche in grado di “procurarsi” il cibo da soli (in cucina, dalle mani degli amichetti, o nei barattoli lasciati su tavolini e ripiani ad esempio). Inoltre la neofobia alimentare sembra proteggere le scelte alimentari fintanto che non vengono acquisite alcune regole alimentari base, di cucina e composizione dei cibi, che possono far selezionare come “cibi buoni” gli alimenti che assomigliano e richiamano cibi già noti per le loro caratteristiche.

La neofobia alimentare dovrebbe piano piano ridursi e scomparire spontaneamente durante il proseguimento dell’infanzia. Tuttavia, anche alcuni adulti sembrano mantenere atteggiamenti neofobici nei confronti dei cibi nuovi, con nette preferenze per le pietanze note e familiari, nonostante non ci siano reali motivi per mantenere attivo tale comportamento difensivo.

Ciò fa pensare che un prolungarsi dell’atteggiamento neofobico possa produrre conseguenze nocive per la salute, in quanto meccanismo responsabile di una dieta alimentare poco varia e restrittiva. Scoprire quali fattori influenzano il grado di reazione neofobica può rappresentare un importante elemento per favorire lo sviluppo di un’alimentazione sana e variegata in bambini ed adulti.

Fattori che influenzano la neofobia alimentare

Informazioni indirette ed dirette

E’ stato rilevato che i cibi ben accetti sono solitamente quelli che sembrano buoni al gusto e che sembrano portare benefici all’organismo (due caratteristiche opposte a quelle di disgusto e pericolo che guidano l’evitamento di cibi nuovi). Pertanto, qualsiasi fattore situazionale che induca l’aspettativa di buon gusto e sicurezza di un cibo dovrebbe ridurre la neofobia alimentare. Tuttavia, le ricerche eseguite in questa direzione portano a conclusioni contrastanti.

Uno studio condotto da Pelchat e Pliner (1995) non rilevava incrementi di predisposizione al nuovo assaggio, in un gruppo di studenti a cui veniva mostrato del cibo, in una caffetteria, con indicazioni sulle proprietà nutrizionali benefiche dell’alimento. Per contro, lo stesso Pliner, in una successiva ricerca (McFarlane e Pliner, 1997) mostrava che le informazioni sulle conseguenze positive di un cibo aumentavano la predisposizione all’assaggio del nuovo cibo quando tali informazioni erano giudicante importanti o rilevanti per i soggetti. Inoltre, sembra che il fornire informazioni sia efficace soltanto con alcuni tipi di alimenti, mentre altri ne sono totalmente immuni. Ad esempio, Martins e colleghi (1997) rilevarono un’invariata propensione all’assaggio di nuovi cibi di origine animale.

Più coerenti appaiono invece le ricerche riguardanti il ruolo svolto dalla pura esposizione a cibi nuovi, intesa come reale prova di assaggio. Birch e colleghi si sono a lungo occupati di questo fattore, rilevando la notevole influenza ed effetto positivo di ripetute esposizioni a nuovi alimenti (Birch, 1982; 1987;1998). Questi risultati sono stati interpretati in termini di “sicurezza appresa”, per cui ripetute esposizioni insegnano che l’alimento è sicuro e non produce conseguenze negative.

Solitamente i soggetti anticipano che un cibo nuovo avrà un cattivo gusto. L’esposizione a nuovi cibi gustosi potrebbe aiutarli a modificare le loro aspettative negative nei confronti di altri nuovi cibi, le quali spesso non hanno un reale fondamento. Le esperienze positive con nuovi cibi potrebbero venir generalizzate anche ad altri alimenti, e pertanto produrre una riduzione della tendenza neofobica in maniera globale e duratura.

Influenza sociale

Vari studi sostengono il forte effetto dell’influenza sociale sulle scelte alimentari. I bambini seguono spesso un “modello di riferimento”, finendo per selezionare gli stessi cibi o sviluppare le stesse preferenze. Ma succede lo stesso anche per quanto riguarda i nuovi cibi? In uno studio di Harper e colleghi (1975) i bambini erano più propensi ad accettare un cibo nuovo se lo avevano visto mangiare prima dalla mamma. Hendy e colleghi (2000) hanno invece sondato l’ambiente scolastico, rilevando che i piccoli seguivano l’esempio della maestra, assaggiando nuovi alimenti, soltanto se questa esprimeva in maniera entusiasta commenti sull’alimento, mentre non ne venivano influenzati se il cibo veniva mangiato in silenzio.

Somiglianze familiari nella neofobia alimentare

I genitori giocano un ruolo importante nello sviluppo delle abitudini alimentari dei figli. Vari studi hanno esaminato le somiglianze familiari in termini di preferenze alimentari (Birch, 1980b; Pliner 1983). Tuttavia i risultati mostrano soltanto una modesta relazione tra le preferenze genitoriali e dei bambini, mentre più consistenti sembrano essere le somiglianze di preferenze alimentari tra fratelli. Sembra invece confermato il dato per cui genitori con maggior grado di neofobia alimentare da adulti, scelgono un’alimentazione maggiormente selettiva e abitudinaria per il nucleo familiare, che di conseguenza ne viene influenzato, apprendendo la preferenza per cibi familiari.

Implicazioni cliniche della neofobia alimentare

Effetti sulla salute

Dal momento che il rifiuto di nuovi cibi probabilmente diminuisce la varietà della dieta, ci si aspetta che la neofobia alimentare abbia delle ripercussioni nutrizionali. Uno studio condotto da Galloway e colleghi nel 2003 rilevava una correlazione negativa tra neofobia alimentare e consumo di verdure in bambine di 7 anni. Similmente, Cooke e colleghi, nel 2004, mostravano una correlazione negative tra neofobia e il consumo di frutta e verdura in bambini di età pre-scolare. In entrambi gli studi, il ridotto consumo di vegetali sembrava correlare con carenze vitaminiche.

Trattamento della neofobia alimentare

Visto che in alcuni casi la neofobia alimentare può compromettere un sano introito nutrizionale, predisporre strumenti in grado di ridurla sembra essere una valida alternativa. Conoscere i fattori che influenzano la neofobia diventa quindi essenziale. Sulla base di quanto emerso dalle ricerche citate nei paragrafi precedenti, strategie in grado di ridurre la neofobia alimentare dovrebbero focalizzarsi sul: fornire informazioni positive ed accattivanti sui nuovi alimenti, favorire l’esposizione diretta e ripetuta ai nuovi cibi e presentare i nuovi alimenti in situazioni familiari.

A livello di setting clinico, è possibile trattare la neofobia alimentare come un’altra fobia specifica, combinando pertanto tecniche tradizionalmente usate nei disturbi d’ansia (rilassamento, gerarchia espositiva, desensibilizzazione sistematica, ristrutturazione cognitiva e modelling) con educazione alimentare e nutrizionale. L’idea è quindi quella di esporre gradualmente il soggetto ai cibi temuti, mentre si modella il comportamento alimentare corretto, si sfidano le distorsioni cognitive e si previene l’evitamento (Pliner et al.,1983).

Conclusioni

Sebbene la neofobia alimentare sia chiaramente un riflesso adattivo per la specie, è possibile sostenere che la cultura abbia assunto gran parte della funzione protettiva svolta dalla neofobia. Tranne in rari casi, la cultura impedisce lo scontro con cibi pericolosi e tossici, rimuovendoli dall’ambiente o etichettandoli come nocivi. In un certo senso, la neofobia avrebbe perso un po’ la sua utilità.  E’ stato infatti rilevato che in vari casi, le limitazioni causate dalla neofobia alimentare provocano rischi e carenze nutrizionali. Le ricerche devono ancora chiarire la rilevanza di questo meccanismo, tuttavia può essere vantaggioso sviluppare strategie per ridurlo.

La diagnosi di disortografia evolutiva: in cosa consiste e gli strumenti diagnostici

La disortografia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento della scrittura, in cui il bambino ha difficoltà nel tradurre i suoni in simboli grafici, pur essendo intatti i vari sistemi (cognitivo, sensoriale, neurologico, ecc.) e avendo avuto normali opportunità educative e scolastiche. La disortografia va distinta dalla disgrafia, dove invece sono presenti problemi grafo-motori e dalla disprassia, in cui si evidenziano problemi motori e il soggetto fatica a compiere correttamente gesti coordinati e diretti a un determinato fine.

Patrizia Bagatti, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Dysorthography – Abstract

Dysorthography is a specific scholastic learning disability whose etiology is recognized to be neurodevelopmental. However, the disorder do not derive from patent deficits at sensory, motor or mental level. The disorders also do not derive from injury or a pervasive developmental disorder. Even though the definition of the disorders in the classifications excludes a cultural, social, economic, pedagogic or psychological etiology, this is not to say that such factors do not play a role.

Genetic factors, cognitive functions, psychological structuring and the familial and social systems contribute together to the development of skills in the child. The complementarity of those approaches should enable overall management of the child in cognitive terms and in terms of the child’s relationship with his/her environment.

Diagnosis frequently calls for the skills of various professionals working as a pluri-disciplinary team given the complex nature of the disorders and the frequent existence of associated disorders. The open-care professional networks frequently offer that pluri-disciplinary approach coordinated by a referring physician.

Screening for scholastic learning disabilities can only begin when the children have begun to learn, in other words after the start of primary school class CP (6–7 years). Screening during the obligatory examination at age 6 years is thus most frequently a screening for risk factors for specific learning disabilities. Screening for risk factors (such as spoken language disorders) may also be conducted by the maternal teachers or developmental Psycologists during the examination of infants in nursery school classes PS (3–4 years) or MS (4–5 years). Physicians with training in the field may be requested. During schooling, the network for specialized assistance to children in difficulty (consisting of a psychologist and specialist teachers) contributes to individual identification and screening.

La diagnosi della disortografia

In italiano la computazione di una parola comporta la traduzione della stessa dalla stringa orale a quella scritta, o viceversa. In linea generale, essendo una lingua trasparente, vi è un elevato grado di corrispondenza tra la sequenza di fonemi che compongono una parola e la stringa di lettere che ne caratterizza l’ortografia.

Nonostante ciò la nostra lingua, anche se in misura inferiore ad altre, presenta un discreto numero di stringhe fonologiche potenzialmente ambigue nell’ortografia, cosicché la traduzione fonema- grafema non sempre risulta automatica. Tali eccezioni riguardano le parole omofone non omografe come quelle che iniziano con l’h (es. hanno e anno) o le parole accentate (es. sì e si), o ancora parole precedute dall’articolo apostrofato (es. l’ago, lago).

In questi e altri casi, riferibili ad esempio alla pronuncia di alcune aree linguistiche, la soluzione ortografica corretta è rintracciabile solo analizzando il contesto semantico o sintattico.

Il protocollo generale di valutazione della disortografia è costituito da:
• Colloquio e anamnesi;
• Valutazione psicometrica del livello intellettivo;
• Valutazione psicometrica delle abilità di lettura, scrittura e calcolo, da essa interessate;
• Valutazione delle condizioni scolastiche di insegnamento/apprendimento.

Le valutazioni sopra accennate della disortografia si compongono di parametri costruttivi ed esecutivi; dove i primi includono il tipo di segno usato dal bambino e la relativa quantità, nonché verificare il valore sonoro convenzionale delle lettere che il bambino scrive; mentre per parametri esecutivi si intendono la direzionalità della scrittura, l’organizzazione dello spazio sul foglio e l’orientamento delle lettere nello spazio, oltre all’adeguatezza nell’utilizzo nel corsivo, del maiuscolo, minuscolo, ecc.).

Le prove utilizzate si differenziano in base all’età di valutazione e sono incluse in batterie come la Batteria per la valutazione della scrittura e dell’ortografia in età scolare (1 ^ elem-3^ Media) (Tressoldi e Cornoldi,2000), la Batteria per la valutazione della dislessia e disortografia evolutiva (2^ elem-3^ Media) (Sartori, Job e Tressoldi,1995) e la Batteria per la valutazione della scrittura (1 ^ elem-5^ elem) (Rossi e Malaguti,1998), composte di dettati ortografici, di parole, di non-parole, di parole omofone non omografe, dettati di frasi e autodettato.

La diagnosi di disortografia viene fatta per quei bambini che presentano una scrittura lenta o eccessivamente scorretta, che però non è imputabile a una scarsa velocità del gesto motorio, sempre tenendo presente che l’errore non va considerato in merito a fattori esterni, ambientali o psicologici, che, se presenti, possono essere un fattore accentuante.

La Consensus Conference prescrive di valutare componenti diverse in base alle fasi evolutive: all’inizio dell’alfabetizzazione è necessario valutare i processi di conversione fonema-grafema, mentre durante la scuola primaria le parole intere fino alla presenza di errori di conversione grafema-fonema. Questi in particolare, se riscontrati alla fine della scuola primaria, rappresentano un elemento diagnostico di gravità del disturbo.

Materiale diagnostico e osservativo per la valutazione della disortografia

Per valutare la scrittura si utilizzano prove di dettato (brano e frasi con difficoltà ortografiche), prove di scrittura spontanea (immagini da descrivere o sequenze narrative) e prove di velocità di scrittura. E’ importante rilevare la tipologia di errore, la cui definizione orienta l’intervento successivo.

In classe si potrà intervenire prestando attenzione agli aspetti meta-cognitivi (osservazione con i bambini delle caratteristiche del corsivo, considerazione sulla sua utilità, ricerca settimanale della pagina più bella e perché, caratteristiche di “eleganza”ecc.) e leggibilità di ogni lettera. Altri aspetti da considerare sono quelli ergonomici (disposizione del banco, postura, prensioni delle dita..), analizzabili anche attraverso esercizi grafici preparatori.

Si consiglia di presentare le lettere per famiglie e compiere esercizi per ogni famiglia, sottolineando i collegamenti tra lettere, soprattutto il passaggio dalle lettere con collegamento alto (b -v – o) e i collegamenti tra gruppi di lettere più frequenti (sc, gl, gn). Inoltre verranno presentate le lettere straniere ed eseguito un ripasso finale.

Eventualmente si consiglia l’uso di strumenti specialistici (righe quaderni speciali, penne..).

Una prova velocemente realizzabile per testare la collocazione individuale della competenza grafo-motoria è quella della velocità. Consiste di tre consegne. Nella prima si chiede al bambino di scrivere in modulo continuo (senza staccare la penna dal foglio) e in corsivo, la sillaba le: CeCeCeCeCe… per un minuto. Nella valutazione poi si conta il numero di coppie corrette (in cui siano riconoscibili entrambi i grafemi) e si moltiplica per 2. Nella seconda consegna si chiede al bambino di scrivere la parola uno, in corsivo, per un minuto: uno uno uno… Nella valutazione si conta il numero dei grafemi riconoscibili. Nell’ultima consegna, infine, il bambino viene invitato a scrivere i numeri in ordine, partendo da uno, per un minuto. Si tratta di un compito complesso per la pianificazione richiesta. Nella valutazione poi si conta il numero dei grafemi riconoscibili.

Per l’analisi generale dei comportamenti e della prestazione di scrittura può essere utilizzata la seguente Check-list:
Alunno ……………………….Data…………………..Classe ………………
• 1 – Scrive lettere in dimensioni troppo grandi.
• 2 – Scrive lettere in dimensioni troppo piccole.
• 3 – Scrive lettere in dimensioni diverse e irregolari.
• 4 – La sua scrittura non si tiene entro i margini della riga.
• 5 – Non rispetta i margini del foglio.
• 6 – Quando scrive a stampatello lascia spazi irregolari fra le lettere.
• 7 – Lascia spazi insufficienti e irregolari fra parola e parola.
• 8 – Il tratto della matita/penna è troppo forte.
• 9 – Il tratto della matita/penna è troppo tenue.
• 10 – Il tratto della matita/penna è a strappi.
• 11 -Il tratto della matita/penna è con altre forme di irregolarità.
• 12 – Scrive senza scorrevolezza
• 13 – La presa della penna/matita non è corretta.
• 14 – Non tiene la mano allineata col foglio e con la spalla.
• 15 – Non guarda ciò che scrive.
• 16 – Non tiene una posizione eretta del corpo e normale della testa.
• 17 – Scrive con le lettere fortemente inclinate a destra.
• 18 – Scrive con le lettere fortemente inclinate a sinistra.
• 19 – Scrive con le lettere irregolarmente inclinate.
• 20 – Non scrive, nel corsivo, le maiuscole più grandi delle maiuscole.
• 21 – Non unisce fluidamente, nel corsivo, le varie lettere di una parola.
• 22 – La forma delle lettere presenta angolature eccessive.
• 23 – La forma delle lettere presenta forme troppo ricurve.
• 24 – La forma delle lettere presenta i tratti iniziali poco leggibili.
• 25 – La forma delle lettere presenta i tratti finali mal segnati.
• 26 – Presenta difficoltà a chiudere le lettere (“a”, “b” , “f ” , ecc.).
• 27 – Presenta cattiva chiusura delle punte superiori (la “l” fatta come una “t”, la “e” fatta come una “i”).
• 28 – Presenta la chiusura non richiesta di tratti (la “i” fatta come una “e”).
• 29 – Rende dritti tratti verso l’alto che dovrebbero essere incurvati (la “n” fatta come la “u”; la “c” come la “i”).
• 30 – Presenta difficoltà nel tratto finale (non portato in su oppure in giù, non reso orizzontale a sinistra).
• 31 – Presenta la parte alta troppo breve (nelle lettere b, d, h, k).
• 32 – Presenta difficoltà nell’incrociare la “t”.
• 33 – Presenta lettere troppo piccole.
• 34 – Presenta chiusura di lettere a curva aperta come c, h, u, w
• 35 – Presenta omissione di parte di una lettera.

Disortografia vs disgrafia e disprassia

Nel diagnosticare una disortografia è importante differenziarla dalla disgrafia, e dalla disprassia.

La disgrafia è un deficit esclusivamente grafico, di riproduzione di segni alfabetici e numerici. Essa può talvolta essere legata ad un disturbo della coordinazione motoria o secondaria ad una lateralizzazione incompleta.

La disgrafia si manifesta all’incirca a partire dalla terza elementare, quando il bambino inizia ad aver automatizzato i gesti di scrittura, che viene personalizzata.

I bambini affetti da disgrafia hanno spesso un’impugnatura scorretta della penna e faticano a organizzare lo spazio sul foglio, lasciando spazi irregolari tra i simboli grafici, le parole, scrivendo in salita o in discesa e non riuscendo a regolare la pressione della mano sul foglio e, frequentemente, invertendo la direzione del gesto.

Altre difficoltà sono presenti:
– nella copia e produzione autonoma di figure geometriche e riproduzione di oggetti o copia di immagini, che risulta carente di particolari;
– nella copia di parole e di frasi;
– inversioni nella scrittura dei grafemi;
– errori attribuibili a una scarsa coordinazione oculo-manuale;
– il ritmo di scrittura è alterato (eccessivamente lento o veloce) e il gesto non è armonico e frequentemente interrotto con una perdita della naturale curvilineità.

La disgrafia è il disturbo specifico dell’apprendimento più difficile da valutare con parametri oggettivi.

L’equipe di Ajuriaguerra ha messo a punto un metodo oggettivo di rilevazione della disgrafia attraverso due scale: la scala D e la scala E. La prima non tiene in considerazione l’età anagrafica del ragazzo perché la disgrafia ha specificità che non sono in relazione con l’evoluzione della scrittura; è composta da 25 items divisi in tre gruppi:
• cattiva distribuzione nello spazio ( 7 items)
• maldestrezza (14 items)
• errori nella forma e nelle proporzioni (5 items).

La gravità del problema viene valutata attraverso un conteggio matematico degli item.
La scala D può essere utilizzata a partire dall’ottavo anno di età del bambino, periodo in cui è possibile fare una diagnosi certa di disgrafia. E’ tuttavia possibile fare una valutazione delle abilità grafomotorie in fase precalligrafica; se si rivelano anomalie è consigliabile intervenire il prima possibile per rieducare la scrittura.
La scala E rileva l’età grafomotoria del bambino, ossia la sua consapevolezza nell’acquisizione di una propria grafia.

La disprassia consiste invece in un deficit nella coordinazione dei gesti automatici e volontari, che può influenzare anche il modo di apprendere di un bambino a scuola.

Secondo il DSM IV la disprassia solitamente rientra nella classificazione dei Disturbi della Coordinazione Motoria, che colpiscono il 6% della popolazione infantile tra i 5 e gli 11 anni, comportando goffaggine, problemi nell’organizzare il lavoro e nel seguire delle istruzioni.

La disprassia è caratterizzata dalla non corretta esecuzione di una sequenza motoria che risulta alterata nei requisiti spaziali e temporali, risultando in un’attività motoria che può essere del tutto inefficace e scorretta, nonostante siano integre le funzioni volitive, la forza muscolare e la coordinazione.

Le ricerche finora condotte suggeriscono che la disprassia sia imputabile a un’ immaturità dello sviluppo neuronale del sistema nervoso centrale. Oltre alla corteccia cerebrale, la parte più diffusa del cervello, sarebbe coinvolto il sistema limbico, in particolare l’ippocampo, responsabile dei processi di memorizzazione ed apprendimento. Un’immaturità del sistema limbico causa reazioni sovra o sotto dimensionate degli stimoli sensoriali, intaccando i livelli di attività di controllo fisico ed emozionale, con conseguenti reazioni quali iperattività e perdita di attenzione.

Essendo un disturbo motorio, la disprassia viene valutata per mezzo di un esame neurologico della struttura anatomica che sostiene l’azione e la sua modalità di esecuzione e di un esame psicomotorio, che valuta il comportamento motorio nei suoi vari aspetti e l’espressione globale della sua personalità in rapporto all’età e ai parametri dello sviluppo psicomotorio. I parametri presi in considerazione sono:
– il rapporto che il bambino ha con sé stesso, con gli oggetti, con lo spazio e con gli altri;
– gli aspetti legati alla motricità;
– il livello di autonomia;
– le competenze relazionali;
– le competenze logico-cognitive.

I videogames possono cambiare il nostro cervello?

Sappiamo che i videogames sono una forma sempre più comune di intrattenimento, e diversi studi evidenziano che tale forma di intrattenimento ha un effetto sul nostro cervello e sul nostro comportamento.

 

I videogiochi stanno diventando sempre più usati anche dagli dagli adulti, l’età media dei giocatori è aumentata ed è stimata intorno ai 35 anni. Molti giocatori giocano su computer o console, ma ne è emersa una nuova tipologia, ovvero quelli casuali, che giocano su smartphone e tablet in momenti vuoti della loro giornata, come il loro viaggio per raggiungere scuole/lavoro di mattina.

Quindi, sappiamo che i videogames sono una forma sempre più comune di intrattenimento, e diversi studi evidenziano che tale forma di intrattenimento ha un effetto sul nostro cervello e sul nostro comportamento.

In particolare alcune ricerche suggeriscono che i videogames possono cambiare le regioni del cervello responsabili dell’attenzione e delle capacità visuospaziali e renderle più efficienti. I ricercatori hanno anche esaminato studi che esplorano le regioni del cervello associate al sistema di ricompensa e come queste sono legate alla dipendenza da videogames.

Gli effetti dei videogames sul cervello

Palaus e collaboratori, in uno studio recentemente pubblicato, hanno voluto approfondire e analizzare le tendenze che erano emerse dalla ricerca riguardo l’effetto dei videogmaes sul nostro cervello e sul nostro comportamento. I ricercatori hanno raccolto i risultati di 116 studi scientifici, di cui 22 che prendevano in considerazione i cambiamenti strutturali nel cervello e 100 che esaminavano i cambiamenti nella funzionalità cerebrale e / o del comportamento.

In generale, da questa review emerge che i videogames possono modificare il funzionamento e anche la struttura del cervello.

Ad esempio, l’uso di videogiochi influenza la nostra attenzione, e alcuni studi hanno rivelato che i giocatori mostrano miglioramenti in diversi tipi di attenzione, come ad esempio nell’attenzione selettiva. In particolare, sembrerebbe che le regioni del cervello coinvolte nell’attenzione lavorano in modo più efficace nei giocatori di videogames e richiedono una minore quota di attivazione per sostenere l’attenzione nei compiti impegnativi.

Ci sono anche evidenze secondo cui i videogiochi possono aumentare la dimensione e l’efficienza delle regioni del cervello implicate nelle competenze visuospaziali. Ad esempio, l’ippocampo destro si è dimostrato più ampio in giocatori di videogames.

Il rovescio della medaglia: videogiochi e dipendenza

Tuttavia dalle ricerche emerge che i videogiochi possono anche portare a forme di dipendenza. In tal senso i ricercatori riscontrato tra diversi studi che vi sarebbero cambiamenti funzionali e strutturali nel sistema di ricompensa neurale nei soggetti dipendenti dal gioco. Questi cambiamenti cerebrali sono fondamentalmente uguali a quelli osservati in altri disturbi da dipendenza.

Tuttavia, la ricerca sugli effetti dei videogames è ancora agli albori.

È probabile che i videogiochi abbiano sia aspetti positivi (su attenzione, capacità visive e motorie) sia aspetti negativi (rischio di dipendenza) ed è essenziale che si comprenda questa complessa dualità – spiega Palaus.

 

Il Trauma e il Corpo. L’intervento che cura – Report del seminario con Kekuni Minton

L’Istituto Gestalt Therapy Kairos ha organizzato, lo scorso 10 e 11 giugno, un seminario incentrato sulla presentazione di come il trauma venga trattato secondo l’approccio della psicoterapia sensomotoria; si tratta di un approccio elaborato da Pat Ogden, che si avvale dell’integrazione di vari contributi, tra cui quello del terapeuta gestaltico Ron Kurtz.

 

Dopo l’apertura dei lavori, effettuata dalla dottoressa Giovanna Silvestri, e l’intervento del vice presidente dell’Enpap Federico Zanon, i direttori della Scuola, il dottor Giovanni Salonia e la dottoressa Valeria Conte, effettuano una relazione volta a mettere in luce l’importanza fondamentale che sia le parole che i processi corporei rivestono in ambito psicoterapeutico; questi ultimi rappresentano la chiave d’accesso ai vissuti più profondi del paziente.

La giornata di studio si va ad inserire nell’attività di confronto tra l’approccio gestaltico ed altri approcci, rispetto alle pratiche terapeutiche; in questo contesto di confronto intellettuale e professionale il dott. Kekuni Minton, didatta del Sensorimotor Psychoterapy Institute, illustra alcuni aspetti del trattamento, soffermandosi su come la psicoterapia sensomotoria vada ad intervenire sulla psiche e sul soma della persona che ha subito un trauma. I lavori del seminario si concludono con una tavola rotonda in cui tutti i relatori rispondono alle domande formulate dai partecipanti e si confrontano vicendevolmente sulle tematiche in esame.

Il trauma secondo la psicoterapia sensomotoria

Il trauma, nella prospettiva della teoria sensomotoria, va ad interferire con la nostra capacità di assimilare nuove informazioni e di creare nuove rappresentazioni della realtà: la persona traumatizzata rimane legata ai ricordi traumatici, che necessitano di essere sottoposti ad un adeguato processo di rielaborazione. Si tratta di un processo molto delicato, dato che implica la riattivazione di memorie traumatiche, le quali possono generare nel paziente un vissuto interno di minaccia: lavorare sull’elaborazione del trauma può essere vissuto come un riproporsi dell’evento traumatico originario, dal cui ricordo doloroso la persona cerca di difendersi.

La psicoterapia sensomotoria lavora non solo con le memorie dichiarative (le memorie esplicite, ossia i ricordi consapevoli che vengono richiamati alla memoria attraverso processi cognitivi e verbali), ma, anche e soprattutto, con le memorie implicite (gli apprendimenti procedurali, cui è possibile avere accesso attraverso processi somatici). In questo quadro viene mutuato da Daniel Siegel il concetto di “integrazione orizzontale”: si integrano i processi cognitivi di attribuzione di significato, attuati dall’emisfero sinistro del cervello, con i processi emotivi, legati alla corporeità e alla regolazione degli affetti, in cui è implicato l’emisfero destro.

Il processo di rielaborazione del trauma con la psicoterapia sensomotoria

La psicoterapia sensomotoria opera in base al presupposto che nel trattamento delle memorie traumatiche il limitarsi al solo parlare con il paziente di quanto accaduto, per favorire un processo di consapevolizzazione, possa rivelarsi controproducente, accentuando i processi di disregolazione emozionale e irrigidendo i meccanismi di difesa che agiscono, in modo automatico ed inconsapevole, a livello corporeo.

Il terapeuta lavora con i vissuti corporei del paziente, oltre che con la storia di vita; si avvale di memorie implicite e cerca, nella fase iniziale del trattamento, di stabilizzare il paziente a livello corporeo, ripristinando il senso di sicurezza personale, minato dal trauma, e un adeguato livello di arousal, ossia di attivazione.

La persona che ha subito un trauma può presentare uno stato di allarme, di eccessiva attivazione (iperarousal), mediato dal sistema nervoso simpatico, oppure una condizione di scarsa attivazione, debolezza, mancanza di energia (ipoarousal), mediata dal sistema nervoso parasimpatico; può verificarsi anche uno stato denominato “freeze” (congelamento), in cui il livello di attivazione è alto (uno stato di iperarousal), ma la reazione osservabile è di immobilità, “difesa di congelamento”, di fronte ad un pericolo imminente. Nella fase iniziale del trattamento il terapeuta cerca di riportare la persona in uno stato di arousal (attivazione) ottimale, denominato “finestra di tolleranza”; il trattamento segue le linee guida postulate già da Pierre Janet nel trattamento del trauma e si struttura in tre fasi: riduzione e stabilizzazione dei sintomi, trattamento delle memorie traumatiche e, infine, reintegrazione della personalità.

La cornice teorica neurobiologica viene mutuata dalla teoria polivagale, elaborata da Stephen Porges, il quale definisce “neurocezione”, la modalità che l’essere umano ha di rapportarsi agli altri e all’ambiente circostante, attuando un processo di interazione, in assenza di pericolo, o mettendo in atto dei meccanismi di difesa (attacco/fuga, o immobilizzazione) in presenza di un pericolo; si tratta di un processo che avviene in modo automatico, al di fuori della coscienza, attraverso circuiti neurali che individuano, nell’ambiente, una situazione di sicurezza, di pericolo o di rischio di vita, determinando una risposta adattativa corrispondente.

Il processo terapeutico viene denominato “bottom up”: mentre nei processi “top down” l’intervento si focalizza in prima battuta sulle funzioni verbali e cognitive, legate alla corteccia frontale, per poi “scendere” ai processi emozionali (sistema limbico) e, infine, ai processi corporei, nella psicoterapia sensomotoria si parte dal “ basso” (bottom), ossia dai vissuti corporei, per poi salire, progressivamente, alla consapevolezza emozionale e alle funzioni verbali e cognitive di attribuzione di senso.

Il verificarsi di un evento traumatico può determinare uno stato di dissociazione strutturale della personalità: una parte del sé della persona è implicata nella vita quotidiana e mette in atto normali condotte di interazione con l’ambiente (condotte di esplorazione, attaccamento, sessualità, regolazione dell’energia etc.), mentre un’altra parte del sé è rimasta “fissata” all’esperienza traumatica e mette in atto condotte di difesa (attacco/fuga, freezing, sottomissione etc.) quando qualcosa, nell’esperienza presente del soggetto, rievoca il trauma; il terapeuta lavora con le parti dissociate, che vanno riportate alla coscienza, e che emergono sia sotto forma di memorie somatiche, che nella relazione terapeutica, attraverso agiti e identificazioni proiettive.

Oltre che con il corpo si lavora, in una fase successiva del percorso, con i vissuti di attaccamento; il terapeuta individua l’esperienza di attaccamento che manca al paziente e la offre, come “esperimento”, per aiutare il paziente a familiarizzare con un vissuto nuovo: relazionarsi con una figura di attaccamento che risponde ai suoi bisogni.

Il trattamento è finalizzato all’acquisizione della capacità, da parte del paziente, di attuare una corretta autoregolazione, di entrare in contatto e in intimità con l’altro e di avere un senso di integrazione del sé.

La famiglia del tossicodipendente: tra terapia e ricerca – Recensione

La famiglia del tossicodipendente: Gli autori considerano il sintomo del giovane tossicomane da eroina in un’ottica trigenerazionale, che mira ad esplorare non solo le componenti insoddisfacenti della relazione coniugale e le sue dirette risultanze nella relazione con i figli, ma anche le problematiche relative al rapporto di ciascuno dei genitori con la propria famiglia d’origine nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.

La famiglia del tossicodipendente: le relazioni di attaccamento tra genitori e figli e i meccanismi di difesa

La prima edizione di questo volume rappresentava uno dei primi manuali completi sulla tossicodipendenza, esaminata nell’intreccio dei diversi fattori che contribuiscono alla sua insorgenza. Il testo presentava una ricerca/intervento che rintracciava alcuni scenari familiari, su tre generazioni, utili nel trattamento degli uomini tossicodipendenti da eroina. L’aggiornamento del volume vent’anni dopo la prima edizione, attraverso numerosi casi clinici che tentano di chiarire le elaborazioni teoriche riconducibili all’orientamento psicodinamico e sistemico-relazionale, ha consentito di approfondire alcune teorizzazioni e procedure sorte in seno alla terapia familiare, alla teoria dell’attaccamento e all’infant research, accogliendo nella propria esperienza clinica nuovi studi, come quelli di Liotti o Lorna Smith Benjamin per esempio.

I cambiamenti che hanno coinvolto i consumatori di droghe, relativi alla qualità delle sostanze usate e alla loro diffusione capillare, hanno generato un intreccio di problemi non più circoscritti ai servizi per le tossicodipendenze, ma allargati ai consultori per adolescenti, ai servizi sociali, alle scuole e naturalmente agli ambulatori privati, ai quali le famiglie portano richieste di consultazione, a causa di figli tossicodipendenti di ogni età. Il testo attuale si propone anche di allargare l’attenzione ai percorsi familiari delle donne dipendenti dall’eroina, nonché di sottolineare la necessità di non perdere di vista i rischi che corrono i figli dei tossicodipendenti. L’attenzione con cui il libro è stato accolto venti anni fa è stata indirizzata su molteplici aspetti, ma forse quello che ha colpito di più è stata l’efficacia del richiamare sulla scena il padre del giovane tossicodipendente, tradizionalmente periferico nella famiglia e lasciato spesso in disparte anche dai terapeuti.

Gli autori considerano il sintomo del giovane tossicomane da eroina in un’ottica trigenerazionale, che mira ad esplorare non solo le componenti insoddisfacenti della relazione coniugale e le sue dirette risultanze nella relazione con i figli, ma anche le problematiche relative al rapporto di ciascuno dei genitori con la propria famiglia d’origine nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.

I ricercatori nell’analisi del problema della tossicodipendenza, evidenziano: “il meccanismo tipico di tale percorso, attraverso il quale si pongono le basi della scelta tossicomanica, è quello secondo cui entrambe le generazioni, quella dei genitori e quella del figlio tossicodipendente, risultano caratterizzate da un disturbo nella relazione d’attaccamento alle rispettive figure genitoriali (in una sorta di circolo autoperpetuantesi, così come descritto da Fromm-Reichmann,Bowlby, Main, Holmes e molti altri), le cui conseguenze tuttavia vengono poi negate per mezzo di vari meccanismi difensivi, tra i quali occupano un posto centrale l’idealizzazione e la scissione a livello individuale e la minimizzazione a livello familiare.

Gli stadio dello sviluppo della tossicodipendenza e la famiglia del tossicodipendente

Gli autori descrivono minuziosamente gli stadi di sviluppo eziopatogenetico della tossicodipendenza, suddividendolo in 7 stadi:
1° stadio Le famiglie di origine
2° stadio La coppia genitoriale
3° stadio Il rapporto madre-figlio nell’infanzia
4° stadio L’adolescenza
5° stadio Il passaggio al padre
6° stadio L’incontro con le sostanze stupefacenti
7° stadio Le strategie organizzate sul sintomo

In base alla ricerca svolta dagli studiosi circa la famiglia del tossicodipendente, sono stati individuati anche tre sottogruppi di famiglie che presentavano i seguenti aspetti:
-nel primo sottogruppo, che rappresenta la maggioranza delle famiglie, apparentemente c’è un accudimento ineccepibile sul piano formale, mentre è inadeguato su quello sostanziale. Sono presenti esperienze traumatiche non sufficientemente elaborate;
-nel secondo sottogruppo, invece, i genitori risentono delle esperienze deludenti avute con la loro famiglia di origine, ed è presente una strumentalizzazione dei figli da parte dei genitori;
-il terzo sottogruppo riguarda, principalmente, la famiglia del tossicodipendente multiproblematica.

I ricercatori, considerati gli stadi sopra descritti, hanno cercato di mettere in evidenza la possibile esistenza di tre percorsi verso la tossicomania:
-1 percorso : l’abbandono dissimulato;
-2 percorso: l’abbandono misconosciuto;
-3 percorso : l’abbandono agito.

Secondo gli autori, analizzando le differenze tra i tre diversi percorsi eziopatogenetici, “emerge con chiarezza come la caratteristica che meglio qualifica la tossicodipendenza, isolata come comportamento sintomatico a sé stante, sia la componente di abbandono affettivo, in vario grado oggettivabile, sperimentata dal soggetto all’interno del percorso relazionale familiare.”

Relazione tra tossicodipendenza e disturbi di personalità

Interessanti gli approfondimenti sulla comorbidità tra tossicodipendenza e disturbi di personalità riportati nel testo, per sottolineare che l’operatore, quando si trova di fronte a manifestazioni tossicomaniche concomitanti a disturbi psicotici, o a comportamenti antisociali all’interno di un tessuto di marginalità sociale, ha meno problemi a farsi una ragione della presenza della droga. Le tossicodipendenze che risultano invece ascrivibili al percorso 1 (la stragrande maggioranza quindi), invece, suscitano maggiori perplessità, dal momento che i soggetti che presentano il sintomo appaiono spesso affetti unicamente da problemi di droga all’interno di contesti familiari e sociali del tutto “normali”, e non infrequentemente sono addirittura inseriti in ambiti lavorativi o approdati a relazioni affettive extrafamiliari sufficientemente stabili.

Tuttavia ad un’indagine più approfondita, traspare la difficoltà, da parte di questi soggetti, a superare forti conflitti interni relativi all’ambivalenza degli affetti (strutture nevrotiche di personalità) o ad affrontare un processo di integrazione di affetti scissi e contrapposti (strutture di personalità borderline). Tali pazienti, secondo gli autori, tendono a utilizzare la droga con lo scopo autoterapeutico di proteggersi dalla sofferenza che inevitabilmente insorgerebbe nel momento in cui dovessero affrontare la conflittualità nevrotica o integrare le componenti affettive scisse e inconciliabili.

 

Lettere tra C.G. Jung e Victor White, a cura di A. C. Lammers e A. Cunningham – Recensione

L’importanza del dialogo a distanza con Victor White è legata alla sua identità di teologo cattolico, che orienta il contenuto delle lettere sul rapporto tra psicologia e religione, argomento chiave nel percorso teorico junghiano. Se infatti per Freud la religione è illusione, per Jung essa riveste un profondo significato nell’esistenza umana.

 

Negli ultimi anni si è assistito a una sorta di Jung-Renaissance italiana (ma non solo) che ha condotto alla disponibilità nel nostro paese di numerosi volumi ascrivibili allo psicologo svizzero ma non compresi nelle pur abbondanti Opere pubblicate da Bollati Boringhieri. Oltre al Libro rosso, che ha attratto l’attenzione di un pubblico anche non specializzato per la sua singolare componente iconografica, sono stati pubblicati di recente anche i Seminari sullo Zarathustra di Nietzsche (4 voll.) e sui Sogni dei bambini (2 voll.) che affiancano quelli da più tempo disponibili sui Sogni e sullo Yoga Kundalini (tutti editi da Bollati), oltre a quelli sulla Psicologia analitica (il primo tenuto da Jung, nel 1924), sulla Visione, sull’Ombra (editi invece da Magi).

Anche la disponibilità degli epistolari si è allargata: oltre alle fondamentali Lettere tra Freud e Jung, pubblicate negli anni ’70 e mai fuori disponibilità, sono state recentemente ristampate le Lettere di C. G. Jung (3 voll., a vari corrispondenti), ritradotte le Lettere tra Jung e Pauli e infine pubblicate per la prima volta le Lettere tra C. G. Jung e Victor White, oggetto di questa recensione. Certamente non si deve sottovalutare l’importanza della raccolta delle Lettere di C. G. Jung, che contengono spunti e anticipazioni sulle opere edite e specifiche opinioni espresse dallo psicologo svizzero su temi diversi. Peraltro si tratta di un “ritratto realizzato dal pittore di corte” (Lemmers, 2007, p. 39): sia perché sono presenti solo le lettere di Jung e non quelle dei suoi interlocutori, sia perché la prosa junghiana originale è stata modificata dai curatori a fini estetici e non scientifici. La maggior parte delle lettere furono infatti redatte in inglese da Jung, che non era madrelingua, e contengono elementi idiosincratici la cui eliminazione, se rende forse più letterario il risultato, potrebbe comportare anche la perdita di contenuto.

Gli scambi epistolari con Freud, Pauli e White costituiscono invece altrettante occasioni per illuminare da tutti i lati dialoghi con figure culturalmente molto significative del Novecento. Non vale la pena neanche di accennare all’importanza specifica delle lettere scambiate con Freud, che hanno chiarito diversi aspetti prima oscuri del rapporto tra i due. Delle lettere con Wolfgang Pauli, uno dei più importanti fisici della sua generazione, si è già parlato qui su State of Mind.

L’importanza del dialogo a distanza con Victor White è legata alla sua identità di teologo cattolico, che orienta il contenuto delle lettere sul rapporto tra psicologia e religione, argomento chiave nel percorso teorico junghiano. Se infatti per Freud la religione è illusione, per Jung essa riveste un profondo significato nell’esistenza umana. Il fondatore della psicoanalisi sognava un mondo definitivamente affrancato dalle credenze religiose, da lui ritenute un fardello frutto di un tentativo dell’umanità di trovare un sostituto paterno. Il teorico della psicologia analitica, al contrario, ritiene la religione un’esigenza autentica, archetipica, e cerca piuttosto di interpretarne il contenuto in chiave positiva. In ogni caso, secondo Junguna terapia a orientamento puramente biologico non è sufficiente e richiede un completamento spirituale” (Jung, 1952a, p. 288).

In quest’ottica, singolarmente, Jung trovò un interesse relativamente marginale tra i protestanti, pur essendo egli stesso luterano e figlio di un pastore. “I teologi protestanti” scriveva infatti Jung proprio a White, nel 1945, “ancora non hanno deciso se condannarmi in quanto eretico, o sminuirmi definendomi un mistico. Come saprà, gli eretici e i mistici godono entrambi di una pessima reputazione tra i protestanti, perciò ormai il mio caso è senza speranza” (Lammers e Cunningham, 2007, p. 49). Al contrario, le sue opere ricevettero grande attenzione da parte cattolica. Alcuni teologi ritennero che il suo pensiero potesse essere armonizzato con la fede: tra di essi Hugo Rahner (fratello maggiore del più famoso Karl e più volte presente ai convegni di Eranos) e appunto Victor White. Altri invece, soprattutto in Italia, videro subito in Jung un potenziale pericolo per il Cattolicesimo e ne stigmatizzarono il pericolo: esempi famosi di questa tendenza furono Pintacuda (1965) e Gemelli (1953).

White giunse al punto di pubblicare un libro, dedicato a una lettura in chiave teologica della psicologia analitica, dal titolo Dio e l’inconscio, per il quale lo stesso Jung scrisse una prefazione. Jung, peraltro, si dimostra ben cosciente che “la via che conduce a un punto di incontro [tra psicologia e religione] è troppo lunga e anche troppo difficile perché possa sorgere senz’altro un’intesa” (Jung, 1952a, p. 290). White, in effetti, riteneva che la psicologia analitica potesse essere armonizzata con il pensiero neotomista. In questo senso il dialogo era destinato a naufragare fin da principio, soprattutto per la diversità di vedute su una questione della massima importanza sia per la teologia che per la psicologia: il problema della presenza del male nel mondo.

Per il neotomista White, il male non è che privatio boni, assenza del bene, ed è impossibile ricondurne il manifestarsi nel mondo all’intenzione divina. Al contrario, dal punto di vista di Jung il male ha un’identità positiva, sia sul piano umano che su quello divino. Nell’uomo, l’Ombra, la personificazione degli aspetti negativi dell’uomo, riveste un ruolo fondamentale nel processo di individuazione, ovvero in quel percorso che conduce l’essere umano a esprimere tutte le sue potenzialità. In ambito teologico, Jung è talmente lontano dal concepire il male come privatio boni, da proporre persino l’idea che Satana possa costituire il quarto membro della divinità cristiana. Lo psicologo svizzero, infatti, si era convinto che la storia del pensiero occidentale dimostrava l’esigenza (psicologica) di passare da un Dio trinitario a un Dio quaternitario. Il Demonio sembrò allora in un primo tempo a Jung il personaggio più adatto da cooptare tra le Persone divine (Jung, 1942/1948, p. 183 e p. 190). Allorché, tuttavia, la Chiesa decise la proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria Vergine, Jung ritenne che in qualche modo questo passo sancisse la divinità della Madonna (Jung, 1951): la Quaternità era stata ottenuta per un’altra via.

Oltre alla questione del male, un’altra idea junghiana costituì un elemento di forte contrasto con la teologia ufficiale. Jung, infatti, sostenne in Risposta a Giobbe (1952b) che Dio, prima della creazione del mondo, doveva essere sostanzialmente inconscio, e solo attraverso l’uomo avrebbe raggiunto la piena autocoscienza. Il pensiero religioso di Jung si rivelava quindi definitivamente come incompatibile con la teologia classica e lo psicologo svizzero accettò su di sé senza obiezioni l’etichetta di eretico che diversi critici gli affibbiarono, anche se negò vibratamente di poter essere definito uno gnostico (Jung, 1952c, p. 463). Si capisce quindi come i contatti con un cattolico, per quanto aperto, come White dovettero raffreddarsi molto, anche se non si fermarono del tutto fino, in pratica, alla morte del più giovane teologo, nel 1960.

Sembra necessario segnalare una svista nell’edizione italiana, che genera equivoci nella comprensione di alcuni passi delle lettere tradotte. L’opera di Jung Trasformazioni e simboli della libido (Wandlungen und Symbole der Libido, 1912) viene più volte (Lammers e Cunningham, 2007, pp. 51 e nota, 52, 65, 84) menzionata erroneamente con il titolo Psicologia dell’inconscio, (cui corrisponde invece Über die Psychologie der Unbewussten, 1943). L’equivoco è generato dalla circostanza per cui Trasformazioni e simboli della libido è noto in inglese come The Psychology of the Unconscious: A Study of the Tranformations and Symbolisms of the Libido, mentre il titolo inglese del testo tradotto in italiano come Psicologia dell’inconscio è On the Psychology of the Unconscious. In effetti, Trasformazioni e simboli della Libido, nella sua versione originale, non è presente nelle Opere di C. G. Jung, dove invece è tradotta, al volume 5, l’edizione definitiva (Jung, 1952d), dal titolo originale Symbole der Wandlung). Psicologia dell’inconscio è invece collocata nel volume 7. Vale la pena di chiarire tutto ciò al fine di emendare la altrimenti incomprensibile nota 14 a p. 51, in una eventuale seconda edizione del volume delle Lettere tra C. G. Jung e Victor White.

 

Il fenomeno cognitivo del Self-Talk: i benefici del parlare a se stessi

L’abitudine di parlare a se stessi ad alta voce viene definita dagli psicologi come Self-Talk. La ricerca ha dimostrato come questo fenomeno sia in grado di influenzare il comportamento e la cognizione. Ethan Kross, un professore di psicologia presso l’Università del Michigan, sostiene che il Self-Talk è uno strumento utilizzato dalle persone per prendere le distanze dalle esperienze nel momento in cui riflettono sulla propria vita; in più, permetterebbe di osservare gli eventi in maniera più obiettiva.

 

Self-talk: riduce l’ansia e aumenta la motivazione

In particolare sono stati individuati due tipi di Self-Talk:
Self-Talk didattico: le persone parlano a se stesse riguardo a un determinato compito.
Self-Talk motivazionale: le persone parlano a se stesse per auto-motivarsi: “Posso fare questo”. Potrebbe essere banale, ma motivare se stessi ad alta voce può funzionare.

Una ricerca pubblicata da Procedia — Social and Behavioral Sciences ha studiato gli effetti sia del Self-Talk didattico che del Self-Talk motivazionale nel basketball. E’ stato trovato che gli studenti passano la palla più velocemente mentre giocano a basket quando motivavano se stessi attraverso il Self-Talk.

Anche il modo in cui si fa riferimento a se stessi può fare la differenza. Mr. Kross ed i suoi colleghi hanno studiato l’impatto del Self-Talk interno, attraverso cui la persona parla a se stessa nella sua testa, per vedere come questo possa influenzare atteggiamenti e sentimenti. Essi hanno scoperto che quando i soggetti parlano di se stessi in seconda o terza persona, per esempio: “Si può fare questo” o “Jane può fare questo”, invece di “io posso fare questo”, non solo si sentono meno in ansia durante l’esecuzione di un compito, ma riescono a raggiungere un livello di performance migliore. Kross sostiene che questi effetti siano dovuti all’auto-distanziamento: esso avviene attraverso un processo per cui la persona si concentra su di sé, mantenendo un punto di vista distaccato, in terza persona.

Per spiegare perché il mantenimento della distanza psicologica abbia effetti positivi, Kross riporta un esempio: “quando vi è un amico/a che rimugina su un problema, per le persone risulta particolarmente semplice fornire ottimi consigli”. Una delle ragioni principali per cui le persone sono così in grado di fornire consigli agli altri su una determinata questione, è che non sono risucchiate da questi problemi, per cui riescono a mantenere una certa distanza da tali esperienze.

Riguardo al Self-Talk didattico, parlare da soli ad alta voce può accelerare le capacità cognitive in relazione alla risoluzione dei problemi e alle proprie prestazioni. Ad esempio, quando le persone sono alla ricerca di un oggetto, parlare ad alta voce, potrebbe aiutarle a trovarlo più velocemente. Tutto ciò è spiegato dall’ipotesi di feedback, secondo la quale pronunciare e sentire il nome di un oggetto permette di immaginare come esso si presenta, e quindi di individuarlo più velocemente e in maniera più accurata in un dato contesto.

Il fenomeno cognitivo del self-talk

Mr. Lupyan ha voluto verificare l’ipotesi di feedback mediante il Self-Talk. In un esperimento, i soggetti sono stati invitati a cercare una foto di un oggetto specifico, come una banana, tra le 20 immagini di oggetti casuali. In particolare, a un gruppo di soggetti venne chiesto di pronunciare il nome dell’oggetto ad alta voce, mentre all’altro non venne avanzata alcuna richiesta. L’ipotesi dello studio era che pronunciare il nome aiutasse effettivamente la ricerca visiva. Mr. Lupyan e i suoi colleghi hanno scoperto che, quando i soggetti pronunciavano la parola “banana” prima di cercarne la foto, erano in grado di trovare il quadro in maniera più rapida e precisa rispetto a chi non aveva precedentemente pronunciato la parola “banana”.

Lo studio ha rilevato che dire la parola ad alta voce rendeva i soggetti più consapevoli dei tratti fisici della banana, e ciò ha permesso che le caratteristiche del frutto spiccassero tra gli altri oggetti. Vale la pena notare, tuttavia, che questo tipo di Self-Talk non è efficace se non si conoscono i tratti dell’oggetto. In altre parole, se una persona è alla ricerca di una papaia e non ha idea delle sue caratteristiche, il Self-Talk non ha nessun effetto sui processi cognitivi.

In conclusione, dalla letteratura emerge come il Self-Talk si dimostri di grande utilità nell’aiutare le persone a concentrarsi sul loro obiettivo e a rimuovere le distrazioni.

 

La terapia cognitivo comportamentale e la terapia familiare a confronto sulla cura dell’anoressia nei pazienti adolescenti

Con questo articolo si vogliono mettere a confronto due delle principali terapie utilizzate in caso di anoressia in adolescenza che coinvolgono sia il paziente che la famiglia: la terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica ( CBT-e) e la terapia familiare (FBT).

Elisabetta Ballerini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

E’ probabile che lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione nell’ adolescenza e nella prima età adulta sia favorito dall’interazione di fattori biologici e ambientali ma un fattore scatenante in questa età della vita è sicuramente la dieta. I possibili processi che inducono a iniziare una dieta durante l’ adolescenza sono molteplici:

  • L’identità non ancora ben definita e questo porta a giudicare il proprio valore nell’aspetto fisico e nella magrezza;
  • La pubertà porta delle modificazioni corporee che alcune volte sono lontane dal proprio ideale femminile;
  • Varie situazioni stressanti possono minacciare il senso di autocontrollo.

I fattori socio-culturali implicati nello sviluppo dell’ anoressia nell’ adolescenza non sono stati ancora identificati con certezza ma si pensa che un ruolo centrale sia stato giocato dall’ideale di magrezza sviluppatosi negli anni 50 nei paesi occidentali.

Negli ultimi anni inoltre l’industria della dieta ha utilizzato qualsiasi mezzo per favorire il disprezzo sociale nei confronti delle persone affette da obesità e nel favorire lo sviluppo dei disturbi alimentari attraverso slogan in cui solo le persone magre potevano essere felici e non avere problemi.

L’esoridio dell’ anoressia in adolescenza

L’ anoressia nei casi tipici inizia proprio nell’ adolescenza con una marcata perdita di peso che è perseguita seguendo una dieta ferrea e molto ipocalorica, spesso associata ad un’attività fisica eccessiva e compulsiva. Altre persone per dimagrire si inducono il vomito o usano altre forme non salutari di controllo del peso come lassativi e diuretici. In alcuni adolescenti il disturbo è breve ma spesso persiste e richiede trattamenti specialistici e complessi. Sintomi comuni che peggiorano con la perdita di peso sono la depressione, il deficit di concentrazione, la perdita dell’interesse sessuale, l’ossessività e l’isolamento sociale. In generale il 10-20 % delle persone con anoressia sviluppa una condizione che dura tutta la vita.

Gli adolescenti con anoressia nervosa sono più vulnerabili agli effetti della malnutrizione e alla perdita di peso in quanto il loro corpo non è ancora ben sviluppato e questo porta ad un profondo impatto sulla salute fisica e sul funzionamento sociale. E’ importante intervenire subito e efficacemente per evitare effetti a lungo termine.

Anoressia nell’ adoelscenza: il ruolo della famiglia

E’ ampiamente riconosciuto che le cause dei disturbi alimentari sono complesse ma certe teorie enfatizzano il ruolo primario delle interazioni familiari nell’eziopatogenesi di questi disturbi. Particolari stili di interazione tra i membri della famiglia possono rappresentare dei fattori di rischio importanti nell’insorgenza dell’ anoressia nervosa. Molti studi inoltre hanno evidenziato che l’emotività espressa dei familiari può avere un ruolo nel mantenere o aggravare il disturbo alimentare o al contrario favorirne il miglioramento. L’emotività espressa è una misura delle attitudini e dei comportamenti verso un familiare ammalato che include cinque dimensioni:

  • Commenti critici: la critica è considerata un valido sistema educativo, e pertanto utilizzata anche nei confronti dei comportamenti che sono espressione del disturbo;
  • Ostilità: questa reazione al disturbo del proprio figlio non fa altro che intensificare le emozioni negative del familiare con anoressia che spesso reagisce accentuando i comportamenti disfunzionali;
  • Commenti positivi;
  • Calore.

CBT- E e Trattamento Fondato sulla Famiglia a confronto

Con questo articolo si vogliono mettere a confronto due delle principali terapie utilizzate in questo ambito che coinvolgono sia il paziente che la famiglia in quanto in pazienti adolescenti la partecipazione attiva dei genitori è essenziale per favorire il processo di guarigione: la terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica ( CBT-e) e la terapia familiare (FBT).

Il Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family-Based Treatment – FBT) sviluppato negli anni ’90 all’interno del Maudsley Hospital di Londra, costituisce un modello d’intervento che integra diversi aspetti dell’approccio cognitivo-comportamentale con quelli dell’intervento sistemico-relazionale. L’approccio FBT individua nel sostegno alle funzioni genitoriali una priorità clinica imprescindibile per rimettere “in carreggiata” lo sviluppo adolescenziale rimasto incagliato nel disturbo del comportamento alimentare. E’ un trattamento intensivo ambulatoriale che promuove il controllo genitoriale della normalizzazione del peso del figlio adolescente affetto da anoressia nervosa, migliorando allo stesso tempo il funzionamento familiare in relazione allo sviluppo adolescenziale. Dall’inizio della terapia i genitori sono invitati a aiutare il proprio figlio e i terapisti realizzano molteplici obiettivi per aiutare i genitori ad avere successo.

Il Trattamento Fondato sulla Famiglia

Il Trattamento Fondato sulla Famiglia è un trattamento diviso in tre fasi della durata di un anno ed è gestita da due terapeuti: nella prima fase i genitori sono assolti dalla responsabilità di causare il disturbo e la terapia è interamente centrata sui disturbi alimentari e include i pasti in famiglia, questa procedura da la possibilità al terapeuta di vedere direttamente i modelli di interazione familiari durante i pasti. In questa fase il terapeuta dirige la discussione in modo da creare e poi rinforzare una solida alleanza tra genitori e figli per promuovere una ristabilizzazione del peso. La resa del paziente alle richieste di aumentare la sua assunzione di cibo, così come un cambiamento nello stato d’animo della famiglia segnala l’inizio della fase due che prevede nell’adolescente di avere di nuovo il controllo del cibo insieme alla sua famiglia e tutte le questioni che sono state tralasciate per il cibo, ora possono essere affrontate e portate avanti. Inoltre i genitori sono aiutati a trasferire il controllo dell’alimentazione e del peso al figlio con modalità appropriate per l’età.

La fase tre inizia quando l’adolescente ha raggiunto un livello di peso sicuro per la sua salute, il tema centrale di questa fase è di arrivare ad avere un adolescente sano e in cui i disturbi alimentari non sono l’unico argomento di interazione con la famiglia. La fase tre quindi è focalizzata nello stabilire una relazione salutare tra i genitori e l’adolescente.

I terapeuti incoraggiano l’allineamento dei genitori nel processo di ripresa del peso corporeo, incoraggiando a diminuire le critiche verso il paziente e mantenendo una posizione agnostica sulla causa della malattia, in modo che i genitori non si sentono accusati. La realizzazione di queste attività è di fondamentale importanza per interrompere il mantenimento di alcune caratteristiche e promuovere l’aumento di peso.

L’intervento ha dimostrato di produrre una rapida ripresa rispetto alla terapia individuale sia immediatamente sia a cinque anni di follow up. I terapisti sostengono che la chiave di questa terapia sia che i genitori abbiano il controllo sulla rialimentazione dei loro figli assistendoli durante tutto il periodo della terapia.

La Terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica

La terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica (CBT-e) è una potenziale opzione in quanto è un trattamento per pazienti adulti ma ha dimostrato di essere efficace anche con pazienti adolescenti sottopeso. La CBT-e è un trattamento per i pazienti con una psicopatologia di disturbi alimentari a prescindere dalla loro diagnosi. La CBT-e è progettata per produrre un cambiamento duraturo verso la modifica dei meccanismi fondamentali che mantengono la psicopatologia dei disturbi alimentari utilizzando una serie di procedure e strategie comportamentali integrati con una progressiva educazione del paziente e lo sviluppo di un piano personalizzato per evitare possibili ricadute.

Il coinvolgimento dei genitori è periferico e consiste in una singola sessione di valutazione durante le prime due settimane più otto brevi sedute di 15 minuti con il paziente e i genitori subito dopo una seduta individuale con il paziente. Lo scopo della sessione iniziale è di identificare i fattori familiari che possono ostacolare i tentativi del paziente di cambiare mentre le sessioni successive sono dedicate alla soluzione di problemi di attuazione della CBT-e come la pianificazione dei pasti e la condotta dei pasti. Ci possono essere sessioni supplementari se sono presenti difficoltà familiari, crisi familiari, difficoltà estreme durante i pasti o ostilità dei genitori verso l’adolescente.

Tutte le sessioni vengono registrate in modo da controllare le sedute e garantire che il trattamento sia ben strutturato e applicato bene.

Quando questa terapia viene utilizzata nell’ anoressia comprende circa 40 sedute in 40 settimane per permettere il tempo necessario di recuperare il peso. Negli adolescenti questo tempo potrebbe essere più breve rispetto agli adulti in quanto recuperano più velocemente, infatti secondo uno studio il tempo necessario ad un adolescente per raggiungere un BMI di 18,5 è di 15 settimane inferiore rispetto ad un adulto.

La CBT-e è divisa in quattro fasi: nella fase uno si cerca di incoraggiare il paziente a recuperare il peso attraverso un’educazione personalizzata, l’automonitoraggio e affrontando la preoccupazione per il peso, nella fase due è molto importante sottolineare i progressi perché gli adolescenti fanno fatica a evidenziarli e bisogna programmare la fase tre nella quale si affrontano i moduli per l’immagine corporea, la restrizione dietetica e le emozioni, alla fine della fase tre vengono fatti dei passi indietro e analizzati gli stati mentali e l’ultima fase consiste nel concludere bene e cercare di prevenire possibili ricadute e mantenere il peso. Dopo 20 settimane c’è una seduta di follw up per analizzare eventuali progressi o difficoltà.

Per riassumere possiamo sintetizzare che la terapia FBT cerca di responsabilizzare i genitori a gestire i comportamenti che mantengono l’ anoressia dei figli e cerca di promuovere il recupero del peso. I genitori in questo trattamento hanno sviluppato un legame terapeutico molto forte con il terapeuta ed erano d’accordo sui compiti e sugli obiettivi della terapia e secondo alcuni studi questa alleanza è molto più forte rispetto all’alleanza adolescente terapeuta. Però ci sono delle limitazioni, non tutti i terapeuti hanno una buona preparazione e non tutti applicano le stesse procedure, come pesare gli adolescenti o affrontare i pasti in famiglia e avere un dietista che segua l’alimentazione dell’adolescente e questo può gravare sull’esito della terapia.

Invece la CBT-e è centrata sull’adolescente, sul fornire un percorso personalizzato in cui tutti i terapeuti seguono un percorso adattandosi alle necessità dello stato di sviluppo dell’adolescente. La CBT-e usa procedure e strategie cognitivo comportamentali che si adattano bene a questa fascia di età, infatti molti adolescenti non hanno la consapevolezza di avere un disturbo alimentare e per questa ragione sono difficili da ingaggiare e la terapia prevede anche di aiutarli ad affrontare le problematiche associate allo sviluppo psicosociale. Tutti gli adolescenti sono seguiti da un medico, un dietista e un terapeuta che lavorano in equipe per dare la migliore assistenza all’adolescente. Come nella FBT anche nella CBT-e è presente il coinvolgimento dei genitori che non hanno un ruolo primario ma solo di valutare se ci sono fattori familiari che possono ostacolare il cambiamento dell’adolescente e di aiutarli in questo percorso per aiutare al meglio il proprio figlio con anoressia.

Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina

Innanzitutto ringraziamo Benedetto Farina per il suo gentile e documentato intervento.  Benedetto Farina risponde al nostro articolo e ci rassicura riportando correttamente che: “solo un terzo di tutti i pazienti che ci chiedono aiuto, indipendentemente dalla diagnosi con cui si presenta il paziente, ha come fattore di rischio il trauma (Green et al 2010).

Perché ci rassicura? Perché uno dei nostri timori, virgolettato dallo stesso Farina, è che si pensi che: “L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta [il trauma n.d.r.] e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress (da qui in poi PTSD: post-traumatic stress disorder). Non è così, ci dice Farina: il Trauma dello Sviluppo (TdS) colpisce solo circa il 10% della popolazione generale e circa un terzo di quella clinica.

Il resto della risposta ci rassicura un po’ meno. Farina riporta che secondo una rassegna di McCrory e collaboratori: “Il maltrattamento infantile, incluso quello fisico, emotivo, il neglect, rappresenta verosimilmente il predittore più potente per la bassa qualità della salute psichica durante tutta la vita. Tali eventi di vita negativi incrementano il rischio di una vasta gamma di disturbi psichici durante l’infanzia e la vita adulta” (McCrory et al 2017). Inoltre il Trauma dello Sviluppo è il “il predittore più potente per la bassa qualità della salute psichica” e anche per le malattie fisiche, secondo i dati dello studio ACE (Adverse Childhood Experiences) promosso dal Centro per la Prevenzione e Controllo delle Malattie del Dipartimento della Salute degli USA.

[Leggi il resto della discussione: (1) Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – (2) Come non avere paura dello spettro del trauma N.d.R.]

Il trauma dello Sviluppo: fattore di rischio o generatore di patologia?

L’affermazione è supportata da dati, e in sé è indiscutibile. Ma affermare che il TdS sia un potente fattore di rischio per lo sviluppo dei disturbi psicologici non equivale a concludere che questo rappresenti, citando Farina, “un elemento che genera una dimensione patologica” o che “ha un ruolo primario nel generare la psicopatologia”. Gli stessi Autori che cita Farina (McCrory et al., 2017) sono scientificamente molto cauti in merito, anzi sottolineano che uno dei principali dati emersi dal loro studio è che “le alterazioni in specifici aspetti del funzionamento neurocognitivi (legate al TdS) sono presenti anche in assenza di un disturbo psicologico” e che “questi aspetti atipici associati a esperienze di maltrattamento, sono simili a quelle osservate nei disturbi psicologici in cui è presente una storia di maltrattamento”. Cioè, il Trauma dello Sviluppo ha un impatto che aumenta il rischio di, ma non ha il ruolo primario nella genesi della patologia.

Il balzo arbitrario tra un fattore di rischio e generatore di patologia è un fantasma che non ci rassicura del tutto.

Una domanda centrale diverrebbe quindi: quali elementi mediano il rapporto tra TdS e patologia adulta? Qualche linea di ricerca in merito esiste. Da un lato sempre McCrory e colleghi suggeriscono almeno tre elementi: iperfocalizzazione attentiva sulle proprie emozioni o su stimoli minacciosi, ipervigilanza ed evitamento interpersonale, strategie attentive e cognitive che possono essere favorite da un contesto di maltrattamento, oppure svilupparsi anche indipendentemente da questo e che sono a livello prossimale più connesse alla genesi e al mantenimento dei disturbi psicologici. Questa ipotesi è confermata da un recente studio (Huh et al., 2017) che mostra come la relazione tra TdS e severità di sintomi ansiosi e depressivi in età adulta sia significativamente associata allo sviluppo di strategie cognitive maladattive come tendenza a rimuginare, catastrofizzare, criticare sé stessi e gli altri in risposta a eventi stressanti.

Interpretazioni dei dati e paradigmi teorici di riferimento

Ci sono poi un paio di aspetti che non possono essere discussi solo in termini di dati ma che sono anche legati ai presupposti teorici e alle loro conseguenze. Lo ripetiamo: i risultati delle ricerche in sé sono indiscutibili; ma c’è una zona prima dei dati e ce ne è un’altra dopo i dati nelle quali c’è purtroppo anche spazio per interpretazioni. La prima zona è quella della scelta delle definizioni delle variabili misurate dai dati, definizioni che derivano dal paradigma teorico di riferimento; la seconda zona è quella della derivazione delle conseguenze cliniche e pratiche dei risultati, conseguenze che a loro volta dipendono di nuovo dal paradigma teorico di riferimento. Ed è proprio qui che temiamo che spesso tra terapisti cognitivo-comportamentali si parlino linguaggi a volte troppo differenti. Ad esempio, insieme a molti altri, il linguaggio del paradigma cognitivo standard e il linguaggio del nuovo –sebbene antico- paradigma del trauma e della dissociazione.

La definizione di trauma

La definizione di trauma è il primo aspetto in cui si assiste a uno scontro tra paradigmi e non tra ricerche. Cosa intendiamo dire? Ci trova d’accordo sostenere che il trauma, definito come cumulo di eventi vulneranti che preparano il disturbo sia tra i principali fattori predisponenti di psicopatologia. Il concetto è utile, ma riteniamo che in esso ci sia anche  un’unghia di tautologia, quando la definizione di trauma rasenta l’onnicomprensività. Possiamo sbagliarci, ma a nostro parere quando per trauma si intende non solo il grande trauma ma anche il trauma piccolo e cumulativo, il trauma “small t” e non solo “big T” -alludendo a una certa terminologia non propriamente cognitiva- allora diventi più facile concludere che il trauma sia alla base non solo del PTSD, ma di tutta la psicopatologia.

Non basta: anche della patologia organica! Virgolettiamo Farina: “il trauma non conduce solo al PTSD che è solamente la categoria diagnostica che descrive le conseguenze cliniche dei singoli eventi traumatici (e che non è in grado di descrivere la complessità clinica generata dal TdS), ma genera una dimensione patologica che diffonde in tutti i quadri clinici peggiorandone la prognosi e determinando resistenza a qualsiasi tipo di trattamento”.

Sul fatto che in ogni patologia ci siano fattori distali e fattori prossimali, siamo tutti d’accordo. Su dove e come agire, ci si divide. A torto o a ragione, storicamente il cognitivismo, da Ellis e Beck, ha avuto il merito di attirare l’attenzione sui fattori prossimali, sul qui e ora, stornandola dai traumi più o meno passati. Inoltre, e altrettanto storicamente, il cognitivismo clinico ha concepito il disturbo psicologico come una disfunzione trattabile mediante l’accertamento e la volontaria e consapevole ritaratura nel presente della giuntura slogata e malfunzionante e non come la ricrescita di un arto mancante. Può piacere o meno, il cognitivismo lavora su questo collo di bottiglia accessibile alla coscienza.

Il paradigma psicotraumatologico

A noi pare invece che il paradigma psicotraumatologico concepisca il disturbo non come una disfunzione ma come un deficit. Non si tratta di una funzione male utilizzata ma una struttura danneggiata. Lunghe crepe attraversano le pareti e le volte della costruzione e spaccano subdolamente i muri e i tetti della mente, mentre non ci sono interruttori della luce lasciati accesi che dovrebbero essere spenti o usci lasciati aperti e che andrebbero chiusi. Non è quindi un paradigma funzionalista ma strutturalista: non ci sono funzioni male utilizzate, ma strutture quasi distrutte (appunto). E ci pare sia un paradigma fortemente evolutivo. La struttura è crepata perché a suo tempo non fu costruita bene durante la fase di sviluppo. Quindi ci sono pezzi interi che mancano e che vanno ricostruiti.

Non è un caso –pensiamo- che stiano emergendo nuovi protocolli particolarmente adatti al trattamento del trauma. Facciamo però attenzione: tra questi protocolli più adatti al trauma, quelli che paiono avere sempre più successo (almeno secondo la nostra personale impressione) tra i colleghi, sono in alcuni casi ancora una volta protocolli estranei alla tradizione cognitiva. Sono protocolli che non agiscono sulla gestione consapevole delle funzioni, ma sono, sia pure in misura più moderata rispetto alle tecniche relazionali, più focalizzati sulla ricostruzione inconsapevole, corporea, esperienziale, delle strutture deficitarie, come nel caso della sensorimotor therapy e dell’EMDR.

E poi, accanto a questi interventi esperienziali, vi sono poi gli interventi relazionali. Di questo argomento, ancora più complesso e delicato di quello del trauma, scriveremo in un articolo successivo.

La terza ondata del cognitivismo

Nel frattempo, come si sa, anche il cognitivismo clinico è stato investito da una svolta, la cosiddetta “terza ondata”. Eppure vi è una differenza. La terza ondata non comprende teorie del deficit o modelli strutturalisti. Nella ACT (Acceptance and Committment Therapy) e nella MCT (MetaCognitive Therapy) si parla di funzioni da usare differentemente, non di impalcature danneggiate, traumatizzate, e da ricostruire. Anzi, i modelli di terza ondata sono ancora più accentuatamente funzionalisti del cognitivismo standard, inficiato da qualche residuo strutturalista, come ad esempio il concetto di sè.

Tuttavia, non vogliamo essere troppo agonistici, per usare un termine evoluzionista. Tutte queste innovazioni possono essere fruttuose, se usate bene. Ma consigliamo che queste tecniche vengano usate dopo che si sia diventati esperti nelle tecniche standard. Temiamo invece che questo interesse psicotraumatologico stia favorendo l’imponente adozione da parte di schiere di terapisti cognitivi di modelli non cognitivi. Rischio accentuato laddove il concetto di trauma abbia avuto un tale allargamento delle sue applicazioni da dimostrarsi adattabile a qualsiasi essere umano.

L’esito più infausto è l’eclettismo tecnico di elementi cognitivi e non cognitivi avvolto così profondamente nella bandiera dell’integrazione da occultare allo stesso professionista una visione chiara e consapevole del nodo teorico che guida il suo operare. La conoscenza e l’approfondimento in Italia delle tecniche cognitive rischia così di confondersi ulteriormente con il crescente successo dei nuovi modelli corporei, esperienziali e immaginativi. Non sappiamo quanto davvero ci convenga segare il ramo su cui siamo seduti e su cui è seduta a oggi la più stabile e consolidata ricerca di efficacia. E questo ramo è ancora la CBT di Beck.

John Bowlby e la teoria dell’attaccamento – Introduzione alla Psicologia

La teoria dell’attaccamento nasce in seguito ad attente e ripetute osservazioni effettuate nei confronti dei bambini, più in generale dei mammiferi, durante i primi anni di vita; il più grande sostenitore e studioso di questa teoria è stato John Bowlby, considerato un tra i più grandi psicoanalisti del ventesimo secolo.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

John Bowlby sosteneva che: “l’ attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba” (Bolwby, 1982). La teoria dell’attaccamento, inserita nell’ottica sistemica, etologica ed evoluzionista, propone un nuovo modello psicopatologico in grado di dare indicazioni generali su come la personalità di un individuo cominci ad organizzarsi fin dai primi anni di vita. La teoria dell’attaccamento fornisce un valido supporto per lo studio di fenomeni legati a storie infantili di gravi abusi e trascuratezza, correlate con lo sviluppo di un ampio spettro di disturbi di personalità, sintomi dissociativi, disturbi d’ansia, depressione e abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti.

La vita di John Bowlby

John Bolwby nasce a Londra il 26 febbraio del 1907. Suo padre, il generale maggiore Sir Anthony Bowlby, era un medico chirurgo e nominato chirurgo reale di re Edoardo VII. John Bolwby durante la carriera universitaria vinse diversi premi e conseguì la laurea prima in scienze precliniche e poi in psicologia.

Successivamente, John Bowlby iniziò a lavorare in una scuola all’avanguardia per bambini, dove entrò in contatto con bambini disturbati, le cui difficoltà derivavano dalla loro infanzia infelice e frammentata. Contemporaneamente, incontrò John Alford, il quale consigliò a John Bowlby di recarsi a Londra per seguire il training in psicoanalisi.

Nell’autunno del 1920 John Bowlby tornò a Londra seguendo il suggerimento di Alford e nel 1933, terminati gli studi medici presso la University College Hospital, frequentò il tirocinio in psichiatria; nel 1936 fu assegnato alla Child Guidance Clinic di Londra fino al 1940, anno in cui diventò psichiatra dell’esercito britannico. Dopo la guerra, John Bowlby fu nominato vice direttore di Jock Sutherland della prestigiosa Tavistock Clinic di Londra, con lo specifico compito di sviluppare un dipartimento infantile.

Nel 1950, su incarico ricevuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, elaborò uno studio sulla salute mentale dei bambini orfani o privati della loro famiglia d’origine.

John Bowlby ha dedicato gli anni dal 1964 al 1979 alla stesura della sua imponente trilogia: Attaccamento (1969), Separazione (1973) e Perdita (1980). Egli ricoprì molte cariche prestigiose e importanti posti di consulenza, ricevette molte onorificenze a livello mondiale. Andò in pensione dal National Health Service e dal Medical Research Council nel 1972, rimanendo però alla Tavistock Clinic.

Nel 1980 fu professore all’University College of London e le sue conferenze furono trascritte e raccolte in libri come, “Costituzione e rottura dei legamenti affettivi” e in “Una base sicura”. Sempre mentalmente e fisicamente attivo, all’età di settantanni iniziò la psicobiografia di Darwin, da lui sempre ammirato, pubblicata pochi mesi prima della sua morte. Il suo ottantesimo compleanno fu celebrato a Londra con una conferenza alla quale parteciparono in moltissimi. Tre anni dopo ebbe un ictus mentre si trovava nella sua cità Skye con la famiglia.

Pochi giorni dopo, il 2 settembre 1990, John Bowlby morì. Fu seppellito a Trumpan, in un piccolo cimitero vicino a Waternish, luogo selvaggio dove spesso faceva lunghissime passeggiate; era stato egli stesso a chiedere di essere sepolto in quel posto.

La teoria dell’Attaccamento

Il comportamento di attaccamento si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra persona, figura di attaccamento, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Secondo John Bowlby prendere in braccio il proprio piccolo che piange è la risposta più adeguata, da parte della madre, ad un segnale di disagio espresso dal bambino.

John Bowlby, rifiutò il modello di sviluppo di Freud secondo il quale il bambino avanza dalla fase orale a quella anale per giungere a quella genitale, e affermò che il legame madre-bambino non si basa solo sulla necessità di nutrimento del piccolo, ma sul riconoscimento delle emozioni. John Bowlby intuì che l’ attaccamento riveste un ruolo centrale nelle relazioni tra gli esseri umani, dalla nascita alla morte. Egli dimostrò come lo sviluppo armonioso della personalità di un individuo dipenda principalmente da un adeguato attaccamento alla figura materna o un suo sostituto.

John Bowlby formulò la teoria dell’attaccamento dopo aver letto i lavori etologici di Konrad Lorenz e Nikolaas Tinbergen. Difatti, tale teoria prende spunto dagli studi etologici sull’imprinting e dagli esperimenti di Harlow con i macachi Rhesus fornendo a John Bowlby il fondamento scientifico che egli riteneva necessario per evolvere dalla impronta psicoanalitica. Secondo la teoria di Lorenz i piccoli di anatroccolo, privati della figura materna naturale, seguivano un essere umano o qualsiasi altro oggetto, nei confronti del quale sviluppavano un forte legame che andava oltre la semplice richiesta di nutrizione, dato che questo tipo di animale si nutre autonomamente di insetti. Harlow, a sua volta, aveva dimostrato come, in una serie di esperimenti, i piccoli di scimmia venivano messi a confronto con una madre fantoccio, fatta di freddo metallo, alla quale era attaccato un biberon e con un’altra madre fantoccio senza biberon, ma coperta di una stoffa morbida, spugnosa e pelosa. Le piccole scimmie mostrarono una chiara preferenza per la madre di stoffa passando fino a diciotto ore al giorno attaccate ad essa, come avrebbero fatto con le loro madri reali.

John Bowlby identifica quattro fasi attraverso le quali si sviluppa il legame di attaccamento:

  • Dalla nascita alle otto-dodici settimane: il bambino non è in grado di discriminare le persone che lo circondano nonostante riesca a riconoscere, attraverso l’odore e la voce, la propria madre. Successivamente, il bambino riuscirà a mettere in atto modi di relazionarsi sempre più selettivi, soprattutto con la figura materna;
  • Sesto – settimo mese: il bambino è maggiormente discriminante nei confronti della persone con le quali entra in contatto;
  • Dal nono mese: l’ attaccamento con la figura di attaccamento diventa stabile e visibile, richiama l’attenzione della figura di riferimento e la usa come base per esplorare l’ambiente, ricercando sempre  protezione e consensi.
  • Il comportamento di attaccamento si mantiene stabile fino ai tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto essendo, però, sempre in compagnia di figure di riferimento secondarie, ed avere la certezza che la figura di riferimento faccia sempre e presto ritorno.

John Bowlby riteneva che l’ attaccamento si sviluppasse attraverso alcune fasi, e che possa essere di tipo sicuro, quando il bambino sente di avere dalla figura di riferimento protezione, senso di sicurezza, affetto; di tipo insicuro quando il bambino nel rapporto con la figura di attaccamento prevalgono instabilità, eccessiva prudenza, eccessiva dipendenza, paura dell’abbandono.

Una base sicura

Il concetto di base sicura è stato elaborato da John Bowlby nel 1969, osservando il comportamento dei macachi e quello dei bambini nei primi mesi in cui notò la presenza di schemi di comportamento identici. In particolare, verificò come la madre, e la relazione con lei, fornisce al bambino la base sicura dalla quale può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno. Quando il bambino avverte qualche minaccia da parte del mondo esterno, cessa l’esplorazione per raggiungere prontamente la madre per poter ricevere conforto e sicurezza.

Per John Bowlby i legami emotivamente sicuri hanno un valore fondamentale per la sopravvivenza. Egli sottolinea anche che il conflitto è una dimensione ordinaria della condizione umana e che la malattia psichica è data dall’incapacità di affrontare efficacemente i conflitti.

Mary Ainsworth ideò nei tardi anni ’60 un valido strumento di indagine, la Strange Situation, per classificare i tre pattern di base, riscontrabili in bambini di età prescolare. La Ainsworth dall’osservazione di gruppi di bambini che si ricongiungevano alla madre, dopo essere stati separati, distinse quanto segue: un primo gruppo manifestava sentimenti positivi verso la madre, un secondo mostrava relazioni marcatamente ambivalenti ed un terzo intratteneva con la madre relazioni non espressive, indifferenti o ostili.

Indagare l’attaccamento nei bambini: la Strange Situation

La strange situation si concretizza in venti minuti di osservazione in cui si trovano in una stanza il bambino, la mamma e un estraneo. In quella occasione si possono osservare i diversi comportamenti e le reazioni emotive del bambino in presenza della madre, al momento della separazione da questa ed in compagnia di un estraneo.

Da qui si dedussero diversi stili di attaccamento: sicuro, insicuro ansioso ambivalente e insicuro evitante (e in un secondo momento anche lo stile disorganizzato).

Lo stile di attaccamento che un bambino svilupperà dalla nascita in poi dipende in grande misura dal modo in cui i genitori, o altre figure parentali, interagiscono e da cui si svilupperà uno dei seguenti stili di attaccamento:

  • Stile Sicuro: il bambino si fida e si affida al supporto della figura di attaccamento, sia in condizioni normali sia di pericolo. In questo modo, il bambino si sente libero di poter esplorare il mondo. Tale stile è determinato dalla presenza di una figura sensibile ai segnali del bambino, disponibile e pronta a concedergli protezione nel momento in cui il bambino lo richiede.I tratti che caratterizzano questo stile sono: sicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di essere amabile, capacità di sopportare distacchi prolungati, nessun timore di abbandono, fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri. L’emozione predominante è la gioia.
  • Stile Insicuro Evitante: questo stile è caratterizzato dalla convinzione del bambino che, alla richiesta d’aiuto, non solo non incontrerà la disponibilità della figura di attaccamento, ma addirittura verrà rifiutato. Così facendo, il bambino costruisce le proprie esperienze facendo esclusivo affidamento su se stesso, senza il sostegno degli altri, ricercando l’autosufficienza anche sul piano emotivo, con la possibilità di arrivare a costruire un falso Sé. Questo stile deriva da una figura di attaccamento che respinge costantemente il figlio ogni volta che le si avvicina per la ricerca di conforto o protezione. I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere amato, percezione del distacco come “prevedibile”, tendenza all’evitamento della relazione per convinzione del rifiuto, apparente esclusiva fiducia in se stessi e nessuna richiesta di aiuto. Le emozioni predominanti sono tristezza e dolore.
  • Stile Insicuro Ansioso Ambivalente: il bambino non ha la certezza che la figura di attaccamento sia disponibile a rispondere ad una richiesta d’aiuto. Per questo motivo l’esplorazione del mondo è esitante, ansiosa e il bambino sperimenta alla separazione angoscia. Questo stile è promosso da una figura d’attaccamento che è disponibile in alcune occasioni ma non in altre e da frequenti separazioni, se non addirittura da minacce di abbandono, usate come mezzo coercitivo. I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere amabile, incapacità di sopportare distacchi prolungati, ansia di abbandono, sfiducia nelle proprie capacità e fiducia nelle capacità degli altri.

Dalle osservazioni derivanti della Strange Situation è emerso che alcuni bambini manifestavano comportamenti non riconducibili a nessuno dei tre pattern descritti. Di conseguenza, è stato definito un quarto stile di attaccamento da parte di Main e Salomon: disorientato/disorganizzato.

  • Stile Disorientato/Disorganizzato: il bambino si mostra disorientato/disorganizzato, ovvero manifesta ansia, pianto, si butta sul pavimento o porta le mani alla bocca con le spalle curve, gira in tondo, manifesta comportamenti stereotipati, e assume espressioni simili alla trance in risposta alla separazione dalla figura di attaccamento. Sono anche da considerarsi casi di attaccamento disorganizzato quelli in cui i bambini si muovono verso la figura di attaccamento con la testa girata in altra direzione, in modo da evitarne lo sguardo.

Tutti i bambini sviluppano entro i primi 8 mesi di vita uno stile di attaccamento, che si completa entro il loro secondo anno. L’indicatore per eccellenza che il legame di attaccamento è stabilito, si identifica nell’angoscia da separazione. Possono verificarsi attaccamenti multipli, che nel corso dello sviluppo sono suscettibili di variazioni.
Non è chiaro quando avvenga esattamente il passaggio dall’ attaccamento genitoriale a quello tra i pari. Nell’adolescenza, però, l’ attaccamento attraversa un periodo di transizione. L’adolescente si allontana intenzionale dalla relazione con i genitori e familiari, per costruire relazioni nuove con coetanei, relazioni amicali e amorose.

I Modelli Operativi Interni

I Modelli Operativi Interni sono rappresentazioni mentali che, secondo John Bowlby, si costruiscono nel corso dell’interazione col proprio ambiente. Essi consentono di valutare e analizzare le diverse alternative possibili, scegliendo quella ritenuta migliore per affrontare le difficoltà che si verificano. Quindi permettono al bambino, e poi all’adulto, di prevedere il comportamento dell’altro guidando le risposte, soprattutto in situazioni di ansia o di bisogno.

Lo sviluppo dei Modelli Operativi Interni utilizza come cornice teorica lo sviluppo senso-motorio di Jean Piaget, riferendosi, principalmente, ai processi di assimilazione e di accomodamento, tipici delle prime fasi dello sviluppo del bambino. Gli schemi interiorizzati del bambino, nei primi anni di vita, possono continuamente essere ridefiniti sulla base dei cambiamenti della realtà esterna e della relazione con la figura di attaccamento che muta con il tempo e con lo sviluppo.

 

 

Per John Bowlby è importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata, poiché da questo deriva un buono sviluppo della persona. Se si manifestassero in età adulta stati di angoscia e depressione, è possibile possano derivare da periodi in cui la persona ha fatto esperienza infantile di angoscia e distacco dalla figura di riferimento. Quindi, il modello di attaccamento, sviluppatosi durante i primi anni di vita, deriva dalla relazione con la figura di riferimento e influenzerà la relazione con la stessa anche durante l’infanzia. Successivamente, diviene un aspetto su cui si fonda l’assetto personologico adulto e influenzerà le relazioni e i rapporti futuri.

La separazione precoce dalla figura di riferimento, evento traumatico per un bambino, può avere diverse ripercussioni sulla vita dell’individuo a seconda della durata e del periodo in cui si verifica la separazione.

La separazione dalla figura di riferimento si snoda, secondo John Bowlby, in tre momenti: la protesta per la separazione, la disperazione dovuta all’assenza della figura e il distacco finale. La separazione può risultare meno dolorosa se vi sono alcune circostanze favorevoli come la presenza di figure sostitutive o di un ambiente accogliente.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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