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Qual è la traccia molecolare della meditazione e dello yoga? Cambiamenti dell’espressione genica attraverso interventi mente-corpo

Gli interventi mente-corpo producono effetti benefici sia in popolazioni cliniche che sane, tali effetti si riscontrano in tutte le tipologie di intervento, sia in quelle dinamiche con una componente fisica evidente come lo yoga e il Tai Chi, sia in quelle più statiche come la mindfulness, la meditazione e le tecniche di regolazione del respiro.

 

E’ stato dimostrato che gli interventi mente-corpo producono effetti benefici, soprattutto a livello di percezione dello stress, sia in popolazioni cliniche che sane. Tali effetti si riscontrano in tutte le tipologie di intervento, sia in quelle dinamiche con una componente fisica evidente come lo yoga e il Tai Chi, sia in quelle più statiche come la mindfulness, la meditazione e le tecniche di regolazione del respiro.

I benefici psicologici, soprattutto per le popolazioni cliniche, sono molteplici e si manifestano attraverso la riduzione dello stress (Chiesa & Serretti, 2009), della depressione (Piet & Hougaard, 2011), dell’ansia (Strauss, Cavanagh, Oliver & Pettman, 2014) e di patologie mediche croniche (Bohlmeijer, Prenger, Taal & Cuijpers, 2010). A livello neurale, la letteratura suggerisce che questi interventi incrementano la materia grigia delle aree cerebrali coinvolte nell’apprendimento, regolazione delle emozioni, processi autoreferenziali e memoria (Lazar et al., 2005; Vestergaard-Poulsen et al., 2009).

Interventi mente-corpo: gli effetti di yoga e meditazione a livello molecolare

Ma cosa accade a livello molecolare? Ci sono i cambiamenti nell’espressione genica? A questo quesito ha risposto una ricerca pubblicata recentemente su Frontiers in Immunology, la quale ha dimostrato che la meditazione, lo yoga o il Tai Chi non servono solo a rilassarci ma producono “un’inversione” delle reazioni molecolari nel nostro DNA.

Gli autori hanno esaminato una rassegna di studi sul tema, individuandone 18 specifici sulla correlazione tra interventi mente-corpo e cambiamenti molecolari evidenziabili nell’espressione genica. Come risaputo, i geni attivati producono delle proteine che influenzano il funzionamento biologico del corpo, della mente e del sistema immunitario.

Quando esposti ad un evento significativamente stressante, il sistema nervoso simpatico (principalmente implicato nella risposta di “attacco-fuga”) si attiva e produce una molecola detta fattore nucleare kappa B (NF-kB) che modula l’espressione genica. A sua volta, tale molecola determina una produzione di proteine chiamate citochine, che sono alla base dell’infiammazione a livello cellulare. Questo processo è utile in situazioni di pericolo in cui è richiesta una reazione di attacco-fuga, ma se persistente e duraturo può determinare varie patologie tra cui il cancro e disturbi psichiatrici come la depressione.

Chi pratica interventi che agiscono sia sulla mente che sul corpo, come la meditazione e lo yoga, riesce a invertire il processo sopra descritto attraverso l’inibizione del NF-kB e, di conseguenza, del coinvolgimento del sistema nervoso simpatico producendo l’effetto “rilassante” tanto associato a queste pratiche.

Concludendo, nonostante la diversità dei disegni di ricerca, popolazioni e tipologie di interventi indagati nei diversi studi passati in rassegna, i risultati dimostrano che gli interventi mente-corpo producono dei benefici fisici e psichici che originano da cambiamenti biologici a livello dell’espressione genica che coinvolgono il fattore NF-kB.

Ovviamente è fondamentale ampliare i dati di ricerca tenendo sotto controllo anche altre variabili che potrebbero contribuire al risultato emerso, come l’esercizio fisico, l’alimentazione adeguata e la buona qualità del sonno

Le reazioni dei professionisti della salute mentale al suicidio del paziente

Il suicidio di un paziente, oltre ad essere un evento stressante per il terapeuta che lo ha in cura, è stato anche stimato essere un evento piuttosto frequente per i vari professionisti della salute mentale. Si parla appositamente di professionisti della salute mentale in quanto non possiamo fare riferimento solamente a psicologi, psichiatri e psicoterapeuti (anche se in questa sede verranno prese in considerazione le loro reazioni), ma dobbiamo includere anche infermieri, operatori sociali e tutti coloro che in quanto professionisti si trovano a contatto con i pazienti (Farberow, 2005).

Sara Bui, OPEN SCHOOL SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE

 

Abbiamo sottolineato che si tratta di un evento piuttosto frequente, ma in realtà i dati che la letteratura riporta a tal proposito non sono univoci: si passa da una stima del 25% di terapeuti i cui pazienti decidono di suicidarsi (Brown, 1987) ad una del 50-70% (Foley & Kelly, 2007), fino ad arrivare all’80% riferito da Landers e colleghi nel 2010.

Il primo autore a prendere in considerazione le reazioni dei terapeuti di fronte al suicidio di un paziente è stato Litman il quale, nel suo articolo del 1965, spiega le emozioni più comuni provate dai professionisti in questa situazione. Negli anni seguenti viene riconosciuta l’importanza dell’autopsia psicologica (Shneidman, 1969) e si sviluppa negli Stati Uniti anche il Movimento Sopravvissuti al Suicidio promosso dal libro Survivors Suicide Di Cain (1972). L’argomento continua ad avere una buona risonanza non solo in America, ma anche in Europa, nonostante ciò, tuttavia, McIntosh (1996), dopo un’accurata revisione della letteratura, afferma che l’impatto del suicidio del paziente nel terapeuta è ancora un fenomeno poco conosciuto. In seguito vengono pubblicati altri studi (Hendin, Lipshitz, Maltsberger, Pollinger Haas & Wynecoop, 2000; Hendin, Lipshitz, Maltsberger, Pollinger Haas & Wynecoop, 2004) nei quali non solo si analizzano le reazioni e le emozioni esperite dai professionisti ma si indagano anche le differenze in base al genere e agli anni di carriera e quindi anche di esperienza.

Per quanto riguarda le caratteristiche dei pazienti che ricorrono al suicidio, Landers e colleghi (2010) riferiscono che si tratta soprattutto di maschi con un’età compresa tra i 17 e i 30 anni. La diagnosi più comune tra questi pazienti era Depressione Maggiore, ma frequenti anche doppie diagnosi di disturbo mentale con abuso di alcool o sostanze. La maggior parte dei suicidi sono avvenuti per impiccagione, ma frequenti anche i casi di annegamento, ed è stato riportato che i pazienti sono ricorsi al suicidio più frequentemente a casa propria (44%), piuttosto che in ospedale (8%).

Per quanto riguarda le terapie, invece, viene sottolineato che la percentuale più elevata di suicidi è stata commessa da pazienti che avevano abbandonato o terminato un percorso terapeutico, per cui non erano più seguiti da un professionista (Yousaf, Hawthorne & Sedgwick, 2002) , anche se sono stati rilevati casi di pazienti suicidati durante le terapie (Landers et all., 2010).

Le principali reazioni dei professionisti al suicidio di un paziente

Spesso si parla di “sopravvissuti al suicidio” facendo riferimento solamente ai membri della famiglia del suicida o al coniuge, in realtà tale appellativo sottintende tutti gli individui che vengono profondamente colpiti dalla perdita della persona in questione. Dato che i professionisti che hanno in terapia un paziente possono anch’essi rimanere profondamente colpiti dal suicidio dello stesso, si può estendere tale appellativo anche a loro (Jobes, Luoma, Hustead & Mann, 2000).

In linea generale, possiamo affermare che il suicidio di un paziente può avere delle importanti conseguenze per il professionista che lo aveva in cura, sia a livello personale, che professionale (Rothes, Scheerder, Van Audenhove & Hanriques, 2013).
Landers e colleghi (2010) hanno sottolineato che il 97% dei professionisti da loro intervistati aveva dichiarato di aver avuto delle notevoli ripercussioni in seguito all’evento, evidenziando così che si tratta di situazioni da non sottovalutare.

Partendo dal presupposto che “pochi eventi nella pratica clinica generano un senso di fallimento e di colpa come il suicidio di un paziente” (Grad, 1996), possiamo individuare le reazioni a livello personale più comuni nelle seguenti emozioni: shock, rifiuto, confusione e incredulità, le quali sono poi seguite da profonda tristezza e dolore. Possono inoltre essere presenti rabbia, colpa e vergogna. Come sottolineava Miller (1985), la colpa e la vergogna sono emozioni dai confini molto sottili e labili, per cui sono molto difficili da distinguere e si può passare molto velocemente da una all’altra. Tuttavia, la vergogna si presenta quando sperimentiamo il senso di fallimento, di inadeguatezza e vi è quindi anche una diminuzione dell’autostima, mentre la colpa si manifesta quando riteniamo che una nostra azione (o una nostra mancata azione) possa aver provocato un danno ad altri individui. La rabbia, invece, può essere rivolta al paziente stesso, ai familiari, alla polizia o a se stessi (Farberow, 2005).

Per quanto concerne il piano professionale, invece, i professionisti possono esperire un senso di fallimento di responsabilità, perdita dell’autostima, dubbi riguardo le proprie capacità e la propria competenza, paura di essere accusato del suicidio di un paziente e timore di ricevere critiche dai colleghi (Farberow, 2005).

Landers e colleghi (2010), hanno individuato dei fattori che possono contribuire alla maggiore intensità delle reazioni emotive dei professionisti: innanzitutto il fatto che il paziente fosse attualmente in cura o che comunque avesse avuto una recente valutazione da parte del professionista, altro aspetto rilevante riguarda la reazione dei familiari all’evento, il tutto diventa ancora più doloroso e con conseguenze ancora più gravose per il terapeuta nel caso in cui il paziente suicida avesse un bambino. Gli ultimi due fattori esaminati sono l’imprevedibilità del suicidio e le reazioni negative da parte non solo dei familiari, ma anche da parte dello staff medico e dei media.

Una differenza importante nelle reazioni conseguenti al suicidio di un paziente è stata trovata in base al sesso del professionista che lo aveva in cura: nonostante le emozioni provate siano le stesse, è stato evidenziato che le donne le esperiscono in misura maggiore degli uomini (Rothes et all., 2013) e che mettono maggiormente in dubbio le loro competenze professionali rispetto agli uomini, avendo così ripercussioni maggiori sull’autostima (Wurst, Mueller, Petitjean, Euler, Thon, Wiesbeck & Wolfersdorf, 2010).

Inoltre è stato sottolineato che anche gli anni di esperienza influiscono sull’intensità, benché le emozioni provate rimangano le stesse: i professionisti con pochi anni di esperienza, o che addirittura si stanno ancora specializzando, rimangono maggiormente colpiti dal suicidio di un paziente, soprattutto per quanto concerne la perdita di fiducia nelle proprie capacità professionali (Farberow, 2005).

Vari autori (Kayton & Freed, 1967; Grad, Zavasnik & Groleger, 1997; Farberow, 2005) hanno inoltre cercato di capire se il contesto di lavoro (pubblico o privato, singolo o di gruppo) potesse in qualche modo influire sul vissuto dei terapeuti. Kayton et all. (1967), per esempio, hanno trovato che le reazioni dei professionisti che lavorano in ospedale sono le stesse di coloro che vedono i pazienti nel loro studio privato. Sono però interessanti le reazioni degli altri pazienti del reparto: oltre a shock e incredulità, tali pazienti mostravano anche una grande rabbia nei confronti di tutto lo staff medico per non aver protetto e aiutato nel modo migliore il suicida. Altro setting analizzato è stato quello di gruppo, nel quale sono emerse, per il clinico che conduceva il gruppo, le stesse reazioni degli altri contesti. Anche in questo caso, tuttavia, meritano un’analisi le reazioni degli altri membri del gruppo, le quali sono le stesse manifestate dal professionista e l’intensità dipende da quanto tempo il gruppo si era formato; tuttavia le reazioni del terapeuta risultano essere più intense ed hanno quindi anche un ruolo più importante all’interno del setting di gruppo (Farberow, 2005).

Aiutare i professionisti dopo il suicidio di un paziente

Dopo aver analizzato le numerose e importanti conseguenze negative che il suicidio di un paziente può avere nei confronti del professionista che lo aveva in cura, appare ancora più evidente la necessità di non “abbandonare” tali professionisti, e di trovare quindi il modo migliore per aiutarli ad affrontare questa delicata situazione.

Negli Stati Uniti sono stai sviluppati dei protocolli proprio per aiutare i vari professionisti della salute mentale a gestire tali situazioni (Farberow, 2005), tuttavia la maggior parte dei terapeuti afferma di non essere a conoscenza di tali protocolli o, coloro che li conoscono, sostengono che non siano di grande aiuto (Landers et all., 2010).

Molti ospedali e cliniche hanno sviluppato delle procedure riguardo il trattamento e le modalità di gestione dei pazienti con ideazione suicidaria, tali procedure prevedono la valutazione del rischio, un piano di trattamento, vari livelli di osservazione, una documentazione specifica e redatta frequentemente etc., il punto fondamentale però è il fatto che non siano incluse informazioni né sulla probabilità del verificarsi dell’evento, né sull’impatto che il suicidio potrebbe avere a livello sia personale che professionale su tutto lo staff (Farberow, 2005).

Su internet, invece, è possibile per i terapeuti trovare un adeguato aiuto attraverso due website specifici, uno sviluppato dall’American Association of Suicidology nel 1997 e l’altro dalla American Foundation for Suicide Prevention. Il primo ha come obiettivo non solo quello di diffondere la conoscenza e la consapevolezza delle conseguenze del suicidio di un paziente per il professionista che lo aveva in cura, ma anche di fornire il supporto necessario a tali professionisti per affrontare la situazione che stanno vivendo. Nel secondo, invece, vengono spiegate non solamente le reazioni più comuni dei clinici, ma anche in che modo tale evento potrebbe modificare la loro condotta professionale. Viene inoltre affrontata la possibilità di chiedere aiuto ai colleghi, nonché l’esperienza di incontrare i familiari del suicida dopo la morte.

Concludiamo sottolineando che, il fatto di aiutare i professionisti ad affrontare i problemi personali e professionali conseguenti al suicidio di un paziente, può rivelarsi un aiuto non solo per il professionista stesso, ma anche per tutti i futuri pazienti che avranno bisogno di essere presi in carico da un professionista della salute mentale (Farberow, 2005).

Il modello dell’evitamento fobico nella lombalgia cronica

Il modello dell’ evitamento fobico, sviluppato e messo a punto da Vlaeyen e colleghi nel corso degli ultimi anni (2000) spiega, attraverso un approccio cognitivo comportamentale, il motivo per cui alcuni soggetti sviluppano dolore cronico a seguito di un attacco acuto di lombalgia. E’ possibile comprenderne il funzionamento a partire dai concetti di paura ed ansia.

Il modello biopsicosociale che spiega la lombalgia

Episodi di lombalgia acuta vengono stimati con un’incidenza di circa il 70-85% all’interno della popolazione generale. Di questi, dal 5 al 12% si trasformano in dolori cronici. Il dolore lombare è una delle cause più comuni di disabilità e limitazione della vita quotidiana, e viene rilevata come il secondo motivo più frequente di visite specialistiche fisiatriche.

Il modello biomedico tradizionale, focalizzato sulle anomalie strutturali e biomeccaniche sembra non essere sufficiente per spiegare il dolore cronico e le sue conseguenze debilitanti, mentre sta ottenendo maggiori risultati il ricorso ad una spiegazione di tipo biopsicosociale (Waddell, 2004a/b).

Il modello dell’ evitamento fobico per spiegare la lombalgia

Vari studi trasversali indicano una forte associazione tra fattori psicologici e prevalenza di lombalgia, tra cui rientrano ansia, depressione, somatizzazioni, carichi di responsabilità, insoddisfazione lavorativa, immagine del corpo negativa e scarsa autostima (Andersson, 1999).

Tuttavia, uno dei fattori psicologici che ha ricevuto maggior attenzione nel caso della permanenza del dolore cronico è la paura, ed in particolar modo il fenomeno noto come evitamento fobico.

Il modello dell’ evitamento fobico, sviluppato e messo a punto da Vlaeyen e colleghi nel corso degli ultimi anni (2000) spiega, attraverso un approccio cognitivo comportamentale, il motivo per cui alcuni soggetti sviluppano dolore cronico a seguito di un attacco acuto di lombalgia.
E’ possibile comprenderne il funzionamento a partire dai concetti di paura ed ansia.

La paura è una reazione emotiva a specifici stimoli, giudicati come minacciosi. La paura protegge gli individui dal pericolo e si associa ad una risposta di attacco o fuga (Cannon, 1929). Il comportamento difensivo di fuga riduce i livelli di paura nel breve termine, ma può rafforzare la paura nel lungo periodo. La fuga, infatti, non consente di disconfermare le credenze ansiogene rispetto ad un certo stimolo. Evitando ciò che fa paura, non ci si confronta mai con esso e con i suoi reali effetti e conseguenze. Questo comportamento si associa ad uno stato di ansia e ipervigilanza, che si verifica quando i soggetti si impegnano in una continua “scansione” dell’ambiente in cerca di segnali di minaccia e pericolo.

Applicando queste conoscenze di base al caso del dolore cronico lombare, Vlaeyen e colleghi (2000) definiscono la paura e l’ansia correlate al dolore come la paura che emerge quando uno stimolo viene associato ad un’esperienza di dolore e di minaccia per la salute. Le risposte di ansia e paura comprendono elementi psicofisiologici (ad es. alta reattività e tensione muscolare), comportamentali (reazione di attacco o fuga) e cognitivi (come ad esempio la catastrofizzazione). Esistono varie tipologie di paure ed ansie legate al dolore cronico: la paura del dolore, la paura di svolgere attività che possono associarsi al dolore, la paura di eseguire movimenti che possono provocare dolore, e la paura di incorrere in una nuova lesione.

Il modello dell’ evitamento fobico spiega che il modo in cui viene interpretato il dolore comporta differenti modalità di reazione allo stesso. Quando il dolore acuto viene percepito come non minaccioso, i pazienti hanno maggiori probabilità di proseguire nello svolgimento delle loro attività quotidiane e movimenti, promuovendo implicitamente la guarigione e/o il miglioramento del sintomo. Per contro, i pensieri ansiogeni e le interpretazioni catastrofiche del dolore possono innescare circoli viziosi negativi. Queste credenze possono dar luogo alla paura del dolore ed associarsi a comportamenti di evitamento protettivi, nonché all’aumento della vigilanza sul proprio corpo, al proprio stato di dolore e ai movimenti da svolgere.

Sebbene ciò comporti sollievo nel breve termine, con l’andare del tempo, la sedentarietà e l’auto-limitazione di movimento comportano maggiori gradi di disabilità ed una soglia sempre più bassa di tolleranza al dolore.
Il ruolo dell’intensità del dolore appare ancora non totalmente chiaro. Mentre alcuni studi concludono che l’intensità del dolore non sembra il fattore primario nel provocare il comportamento di evitamento e la disabilità (Vlaeyen et al., 2000), altre ricerche rilevano una considerevole correlazione tra intensità del dolore e grado di evitamento e disabilità (Eccleston et al., 1999).

In linea con tali risultati contrastanti e multisfaccettati, recenti ricerche dimostrano che nel trattamento della lombalgia cronica si riveli maggiormente efficace il ricorso a trattamenti individualizzati e multidisciplinari, in grado di combaciare con le specifiche caratteristiche psico-fisiologiche dei pazienti (Vlaeyen et al., 2005).

Le linee guida internazionali per il trattamento della lombalgia cronica, attualmente prevedono l’uso combinato di farmacoterapia (in prima linea paracetamolo e analgesici oppioidi), terapie fisioterapiche, mobilizzazioni e manipolazioni, strategie di rilassamento e terapie cognitivo comportamentali. (Blodt et al., 2014).

Le risposte di rilassamento possono essere promosse attraverso l’applicazione di pratiche mindfulness e di training autogeno (Kabat-Zinn, 1985; Schultz, 1959).

Attraverso la terapia cognitivo comportamentale, i pazienti vengono incoraggiati a notare i collegamenti tra i loro pensieri e le risposte emotive al dolore, attraverso l’uso di strumenti di automonitoraggio. Le modalità di reazione disfunzionali ed irrazionali vengono discusse attraverso colloqui psicologici. Questo approccio mira ad identificare le distorsioni cognitive presenti nei pazienti, modificarle e sostituirle con pensieri più appropriati e funzionali al ripristino del benessere e dell’aderenza ai programmi fisioterapici.

 

L’intervento dello psicologo tra i banchi di scuola

Lo psicologo scolastico diviene una risorsa e strumento verso una vera e propria trasformazione che comporta il maturare di una diversa forma mentis, cioè di un diverso modo di vedere e affrontare i problemi.

 

Abraham B. Yehoshuna, scrittore e docente di letteratura all’Università di Haifa, ha scritto queste parole in “Lettere ad un insegnante”:

L’importanza dell’insegnamento come figura educativa non dipende dal sistema scolastico bensì dalla capacità dello stesso di risvegliare le coscienze degli alunni riguardo a interrogativi morali.

Queste parole, sono utili per comprendere meglio il significato della presenza dello psicologo scolastico e la valenza del suo operato.

Le relazioni interpersonali tra i banchi di scuola

Il ricordo va a figure che esercitavano con la loro professionalità, passione e competenza, trasmettendo ai loro studenti apprendimenti preziosi e messaggi relazionali, affettivi ed esperienziali che spesso sono rimasti più o meno efficaci per tutta la vita.

Lo spazio della lezione, diveniva un “contenitore” (Bion, 1962) per un apprendimento che non si esauriva in un mero nozionismo ma abbracciava la realtà e la vita di ognuno.

Il periodo scolastico, viene vissuto come periodo formativo non solo nel acquisire nozioni cioè il “sapere accademico” ma una spazio personale dove “imparare a pensare”. In questo spazio, la relazione con l’altro diviene risorsa e strumento irrinunciabile per la costruzione della personalità individuale e per la formazione delle competenze alla socializzazione.

In ogni processo formativo-educativo, l’acquisizione di nuovi contenuti è filtrata dalla relazione con l’altro, che guida e orienta il ragazzo nella sua crescita non solo intellettiva ma anche emotiva-affettiva.

La possibilità di costruire buone relazioni a scuola così in ogni contesto lavorativo, ha alla base processi che richiedono una crescita personale o un lavoro psicologico su se stessi. Queste considerazioni assumo importanza nell’attuale contesto politico-sociale, in quanto la scuola è stata soggetta a numerosi cambiamenti, nel nome dell’autonomia didattica e organizzativa delle singole istituzioni (legge n.59 15/03/1997 ) e la cosiddetta “Buona Scuola” (legge n. 107 14/01/2017 ) che prevede un potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro, nel garantire il diritto allo studio e crescita personale.

La varietà di nuove norme porta sempre più l’attenzione a sviluppare non solo una consapevolezza maggiore della complessità del compito educativo ma anche una grande e consapevole disponibilità al cambiamento, che consenta ad adeguare i propri interventi ai bisogni formativi.

Il ruolo dello psicologo scolastico

Lo psicologo scolastico diviene una risorsa e strumento, per attuare il sostegno e monitoraggio di tale processo, che non si presenta come cambiamento nella gestione a livello legislativo, bensì come una vera e propria trasformazione che comporta il maturare di una diversa forma mentis, cioè di un diverso modo di vedere e affrontare i problemi.

Negli ultimi anni si è registrato un bisogno sempre maggiore da parte della Scuola di interventi di Psicologia Scolastica. Questi interventi sono rappresentati sia dall’offerta di consulenza psicologica individuale per tutte le figure che operano all’interno della scuola: insegnanti, alunni, genitori; sia da attività pensate per il gruppo classe.

L’intervento dello psicologo scolastico è uno strumento che la scuola può usare per sviluppare l’efficienza nel raggiungimento dei propri obiettivi formativi, favorendo la promozione del benessere nel contesto scolastico.

La metodologia più indicata e diffusa è l’educazione socioaffettiva, finalizzata al potenziamento e allo sviluppo delle risorse personali e all’acquisizione delle competenze sociali (Francescato e Putton 1995).

In ambito scolastico fa riferimento a quella parte del processo psicoeducativo che si occupa di atteggiamenti, sentimenti, credenze ed emozioni degli studenti. Esso implica una attenzione allo sviluppo personale e sociale degli allievi e alla promozione della loro autostima, sottolineando l’importanza di offrire sostegno e guida agli studenti, migliorando la conoscenza di sé e del proprio gruppo classe. L’educazione socioaffettiva è un intervento che facilita la comunicazione tra i membri, promuovere comportamenti di collaborazione, solidarietà, mutuo rispetto, riconoscimento ed accettazione delle differenze.

Essa è utilizzata anche per la formazione degli insegnanti, ad esempio attraverso il “metodo Gordon” che si propone di favorire un’efficace relazione tra insegnante e allievo .

Un altro metodo dell’educazione socioaffettiva,  è il “circle time”, usata con gli alunni nelle classi. È un intervento di gruppo, mirato a favorire il rapporto tra i componenti del gruppo classe e la loro conoscenza reciproca.

Le funzioni principali dello psicologo scolastico, mediante l’educazione socioaffettiva, sono:

  • Promuovere il benessere psico-fisico di studenti e insegnanti;
  • Promuovere negli studenti la motivazione allo studio e la fiducia in se stessi;
  • Costruire un momento qualificante per la prevenzione del disagio evolutivo e dell’abbandono scolastico;
  • Favorire il processo di orientamento;
  • Favorire la cooperazione tra scuola e famiglie;
  • Costituire un’opportunità per realizzare le pari opportunità di istruzione.

Generalmente gli interventi proposti nell’ambito della psicologia scolastica possono essere:

  • Sportello di ascolto psicologico con colloqui individuali per ragazzi, insegnanti, e famiglie. Lo sportello di ascolto e’ uno spazio in cui i diversi utenti possono esprimere i loro vissuti in totale libertà; è uno spazio nel quale si propone il colloquio di counselling, ovvero un tipo di intervento psicologico di breve durata rivolto a persone che non presentano gravi situazioni di psicopatologia.
  • Orientamento scolastico. L’obiettivo è relativo alla scelta del percorso scolastico da intraprendere dopo la terza media è spesso vissuto come un problema molto complesso. I ragazzi sono chiamati in questo periodo della loro vita a prendere una decisione importante circa il loro futuro scolastico/professionale. Nella “scelta” entrano in gioco numerosi e diversi fattori esterni o sociali (situazione economica, andamento del mercato del lavoro, influenza della famiglia e dei mass media) e fattori interni o psicologici (interessi, attitudini, motivazione, caratteristiche di personalità) strettamente connessi fra loro. Da ciò, la necessità di offrire ai ragazzi, che si trovano ad affrontare il problema della scelta di un percorso scolastico/professionale, un supporto orientativo finalizzato a fornire loro quegli strumenti cognitivi, emotivi e relazionali che consentono loro di “auto-orientarsi” e quindi di decidere il percorso più adatto per raggiungere le mete scolastiche o professionali che si sono prefissati. L’intervento dello psicologo scolastico prevede l’utilizzo del colloquio e test orientativi che fornisce al ragazzo una più approfondita conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie potenzialità; e accompagnare e sostenere il ragazzo e la famiglia nel processo decisionale di scelta della scuola superiore.
  • Corsi formativi per genitori ed insegnanti relativi a diverse tematiche di natura pedagogica-psicologica, come ad esempio approfondimenti rispetto alle dinamiche psicologiche del preadolescente e dell’adolescente, alla gestione della relazione educativa, agli aspetti comunicativi, ect.

Cannabis: usi ed effetti della droga – Introduzione alla Psicologia

La Cannabis indica o canapa indiana è una pianta erbacea di tipo annuale coltivata in molti Paesi dell’Africa Settentrionale e Centrale, in India, in Oriente, in Messico e in Giamaica. La cannabis è una pianta che mostra diverse varietà: alcune contengono principi attivi che possono alterare lo stato mentale (droga), altre meno.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La Cannabis è nota sia per le fibre che da essa si ottengono, sia per i semi da cui si ricava l’olio, ma, soprattutto per la resina che induce uno stato di eccitazione del sistema nervoso centrale. La coltivazione è limitata da accordi internazionali e nella maggior parte del mondo il possesso e il consumo di questa droga è illegale. L’altezza delle piante è variabile e arriva fino a 5 metri, con escrescenze resinose, angolate, a volte cave, specialmente al di sopra del primo paio di foglie; le foglie basali sono di forma palmata e i fiori sono maschili o femminili.

La cannabis è conosciuta, ai più, soprattutto come droga e per le proprietà psicoattive. Da essa si ricavano principalmente la marijuana, l’hashish e l’olio di hashish. Inoltre, è anche stata utilizzata in diversi campi come quello farmacologico, tessile, bio-edilizia, combustibili, ecc.

Storia

La Cannabis è nata in Asia, probabilmente in Asia Centrale, ed era assunta per inalazione o vaporizzazione a scopi medici, spirituali, religiosi o ricreativi.

Gli Ariani fumavano cannabis e potrebbero essere stati proprio loro a tramandare le sue proprietà ai popoli assiri e indiani, infatti, nei Veda, testi sacri indù, si fa riferimento spesso ad allucinogeni intossicanti.

Un trattato di farmacologia cinese datato 2737 a.C., attribuito all’Imperatore Shen Nung, contiene il primo riferimento all’utilizzo della cannabis come medicina.

Gli Antichi Greci commercializzavano la marijuana con popoli che la mangiavano o inalavano, ma non la consumavano.
La cannabis arriva in Europa centrale, settentrionale e occidentale 500 anni prima della nascita di Cristo, infatti a Berlino è stata ritrovata un’urna contenente foglie e semi di cannabis risalente a circa 2.500 anni fa.

Sempre qualche secolo prima di Cristo, prima dell’avvento dell’Impero Romano, vari popoli europei come i Celti e i Pitti coltivavano e utilizzavano cannabis.

Da allora in poi, in Europa la coltivazione della cannabis divenne di uso comune, perché da essa si ricavavano non solo delle sostanze, ma anche carta e tessuti in canapa. In particolare, la Bibbia di Gutenberg fu il primo libro stampato nel 1453 su carta di canapa e le vele delle caravelle di Cristoforo Colombo erano in canapa.

Nel 1484 in una bolla papale fu vietato l’uso della cannabis ai fedeli, per i sui effetti allucinatori.

Nei secoli successivi, nonostante la condanna della Chiesa, l’utilizzo della cannabis a scopo ricreativo divenne una vera e propria moda tra gli intellettuali, tanto che a Parigi nacque il Club des Hashischins, o Club dei mangiatori di hashish, frequentato da poeti e scrittori del calibro di Victor Hugo, Alexandre Dumas, Charles Baudelaire, Honoré de Balzac e Théophile Gautier.

L’uso della cannabis era diffuso anche in Africa secoli prima della colonizzazione europea. Nel continente nero la cannabis era coltivata, utilizzata come fibra e come medicinale, inalata e a volte venerata in aree differenti che variano dal Sud Africa al Congo e al Marocco.

Nel diciottesimo secolo, la cannabis era diffusissima in Nord America. La maggioranza dei terreni del fondatore degli Stati Uniti, George Washington, erano coltivati a canapa. Anche Thomas Jefferson aveva una grande e remunerativa coltivazione di canapa. Nel 1850 negli Stati Uniti c’erano 8.327 piantagioni di canapa ed erano utilizzate soprattutto per la produzione di fibra. Inoltre, la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti fu stesa su carta di canapa.

In Italia il clima particolarmente favorevole agevolava la coltivazione di questa pianta. Infatti, i contadini italiani producevano Cannabis per due ragioni: cresceva su terreni difficili da coltivare poiché sabbiosi o paludosi, e da essa si ricavavano tessuti e mangime per il bestiame.
Grazie alla qualità delle sue canape, l’Italia divenne il secondo produttore mondiale di canapa ed il primo fornitore della marina britannica. Il tramonto iniziò con la diffusione delle navi a carbone, quando per le zone produttrici di canapa iniziò una lenta agonia, che si protrasse per un secolo costringendo alla ristrutturazione delle colture allora vigenti.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, però, la produzione medioeuropea e mediterranea di Cannabis tornava ad aumentare velocemente, perché le fibre tessili e gli oli sativi diventavano più costosi. In più, esisteva l’esigenza di materie prime contenenti molta cellulosa da cui poter ricavare esplosivi ottenuti producendo nitrocellulosa. Ma il Marijuana Tax Act del 1937 diede il colpo di grazia alla coltivazione della canapa, mettendola al bando negli USA. Si accusò pseudo-scientificamente la cannabis di far diventare le persone violente, riducendole alla pazzia e alla morte. Di riflesso, negli anni seguenti la canapa venne bandita in gran parte del resto del mondo.
Contemporaneamente la DuPont in Francia, però, brevettò il nylon anch’esso ricavato dalla lavorazione della canapa.

A tutt’oggi, è vietata sia la riproduzione che l’uso della cannabis. Inoltre, se necessaria per uso industriale è possibile farlo in alcuni posti attraverso regole molto dettagliate e rigide.

Il principio attivo della cannabis

La cannabis, essendo una pianta, non è dannosa di per sé, ma è l’uso che ne viene fatto che, invece, potrebbe esserlo. Dalla pianta si ricava Il THC, chiamato anche 1 – THC o 9 THC a seconda che si utilizzi una numerazione basata sulla parte terpenica o sul sistema benzopiranico, il principale principio attivo che provoca effetti a livello cerebrale. Inoltre, essa contiene anche i cannabinoli (CBN) e i cannabidioli (CBD), che hanno una trascurabile psicoattività. e costituiscono le resine inattive.

Il contenuto di THC nella droga di buona qualità è nell’ordine di 0,5 – 1% nelle foglie grandi, 1 – 3% nelle foglie piccole, 3 – 7% nei fiori, 5 – 10% nelle brattee, 14 – 25% nella resina ed oltre il 60% nell’olio. Il contenuto di THC tende a diminuire con il tempo, processo accelerato dal calore e dalla luce. Le foglie e la resina di canapa conservate in condizioni normali perdono rapidamente la loro attività e possono diventare completamente inattive dopo 2 anni.

Il THC è più concentrato nella resina che riveste le infiorescenze femminili rispetto alla restante parte di pianta. L’hashish, tipo di sostanza allucinogena, è tratta dalla resina, e ha una maggiore potenza psicoattiva rispetto alla marijuana. La marijuana si ottiene, invece, dalle infiorescenze essiccate delle piante femminili di Cannabis. La presenza di THC dipende sia dalla varietà di pianta sia dal modo in cui è stata coltivata.

Il THC, agisce su recettori specifici che si trovano in zone del cervello che hanno a che fare con funzioni complesse come la formazione di un giudizio, la percezione di piaceri, la capacità di apprendere o di memorizzare ed il movimento. L’effetto prodotto dalla sostanza è, quasi per tutti, una sensazione di piacevolezza che spiega il motivo che induce molte persone a utilizzarla. Tuttavia la sensazione piacevole che deriva dal consumo è collegata ad uno sbilanciamento del funzionamento generale del cervello. Un uso frequente potrebbe provocare una riduzione delle capacità di apprendimento e memorizzazione (Bambico, Katz, Debonnel, Gobbi, 2007). Il THC è poco solubile e quindi tende a depositarsi velocemente in tessuti ricchi di lipidi come il cervello. Per la sua elevata lipofilia passa facilmente sia la barriera ematoencefalica che placentare. Viene quasi completamente metabolizzato in composti inattivi prima di essere eliminato sia con le urine che con le feci.

Le droghe

La droga è ricavata dalle sommità fiorite dei pistilliferi. Se ne possono distinguere due forme: la ganja che è formata da focacce di color brunastro, dall’odore aromatico e di consistenza resinosa. Essa è caratterizzata solo da resina asportata dalle piante facendo camminare nelle coltivazioni uomini vestiti di cuoio, in questo modo la resina si attacca al cuoio e successivamente è agglomerata in blocchetti che formano le focacce di ganja ed è lavorata tra le montagne dell’India. La bang o guaza è derivata dall’infiorescenze e dalle foglie secche riunite insieme in masse irregolari. Si raccoglie nelle pianure dell’India e di alcune località della Persia e si esporta in Europa, ha un odore debole ed è poco resinosa. La prima forma costituisce il cherris o churrus dei fumatori orientali, la seconda l’ ḥashīsh. Il madjoun (maǵūn) degli Arabi o esrar dei Turchi è un ḥashīsh leggermente torrefatto, mescolato col miele; la dawāmeh è una pasta molle, bruna, di sapore e odore piacevoli, preparata con estratto grasso di ḥashīsh, miele e aromi e talvolta cantaridi per renderla afrodisiaca. Azione analoga avrebbe una forma di canapa coltivata negli Stati Uniti e nel Messico e identificata col nome di Cannabis americana.

La resina secreta dalle ghiandole pilifere si ottiene sfregando i fiori e raschiando via un solido amorfo o semi, di colore scuro, che costituisce la resina di canapa (charas). Da quest’ultima si ottiene l’olio di canapa, molto più potente. La droga derivante dalla canapa prende nomi diversi a seconda dell’area geografica di produzione; si utilizzano frequentemente i nomi hashish (Arabia), marijuana (Europa ed USA), kief e dagga (Africa). La quantità di resina prodotta dai fiori di canapa di buona qualità si aggira intorno al 15 – 20%. La quantità prodotta dai vari tipi di piante dipende da vari fattori e determina la qualità dell’attività biologica. In generale, le piante che crescono in climi tropicali producono una quantità di resina maggiore rispetto a quelle che crescono in climi temperati. Le piante di tipi alto utilizzate per la produzione di fibre producono meno resina, rispetto a quelle che crescono in zone tropicali. Infatti, il fattore determinante è la specie a cui appartiene la pianta e, di conseguenza, la resina può contenere elevate quantità di sostanze psicoattive o contenere principalmente sostanze inattive. La qualità di qualsiasi droga di canapa è altamente variabile.

Usi ed effetti della cannabis

La canapa, tra gli antichi, era notissima e sacra, la si considerava come pianta che permetteva l’unione con le divinità in quanto esercitava sulle persone che ne facevano uso uno stato di abbandono accompagnato da un torpore denominato comunemente “il Kif”. Le proprietà medicinali della cannabis sono note fin dall’antichità. Essa è stata usata come ipnotico, anticonvulsivamente, analgesico, ansiolitico e antitussivo. I principali effetti psicotropi riguardano l’instaurazione di uno stato onirico con ideazione sconnessa e incontrollabile, alterazione della percezione spazio – tempo con allucinazioni visive e un senso fisico e psichico di benessere. A dosi elevate si può presentare panico e sdoppiamento della personalità. Non sono riportati casi di intossicazione mortale né la comparsa di grave dipendenza fisica, ma induce tolleranza.

In particolare, la Marijuana è ricavata dalle foglie, dai fiori e dai rametti della pianta che sono sbriciolati; è comunemente definita “erba”, è simile al tè, all’origano o all’erba secca ed è di colore verde grigiastro o marrone verdastro; giunge sul mercato clandestino confezionata in pani avvolti in sacchetti di tela o cellophan. Ha un contenuto in THC di circa il 3%. L’uso regolare può provocare una certa tolleranza che compare rapidamente, ma scompare altrettanto rapidamente alla cessazione dell’uso. Non causa dipendenza fisica e non dà sindrome d’astinenza. E’ quasi sempre fumata poiché il THC risulta più potente se inalato e non se ingerito. Tra gli effetti principali troviamo: cambiamento dell’umore con evidente senso di benessere, aumento dell’autostima, rilassamento, percezione più piacevole degli stimoli, diminuzione del controllo emozionale, comportamento impulsivo, possibili illusioni o allucinazioni visive e uditive.

L’Hashish è strettamente correlato alla marijuana ma più potente. Infatti il suo contenuto in THC va dal 10 al 15%. E’ stato usato per secoli in tutto il mondo e il suo uso è stato descritto da Plinio e da Marco Polo. Gli effetti prodotti sono simili a quelli della marijuana, ma l’intensità ed il tipo di manifestazione varia a seconda della personalità dell’individuo. L’hashish (di cui esistono diversi tipi: “marocchino”, “libanese”, “afghano”, ecc.), è ricavato dalla resina estratta dal polline dei suoi fiori, impastata con grasso animale o miele e assume un aspetto compatto. Esso è preparato per la commercializzazione in polvere o in piccoli blocchi (bastoncini).

L’olio di hashish, invece, è un liquido denso ed oleoso di colore marrone che deriva dalla distillazione delle foglie di cannabis macinate; rispetto alle due droghe precedenti è molto più potente.

In generale, gli effetti dei Cannabinoidi sono: sensazione di benessere e rilassamento, alterazioni dell’apprendimento e della memoria, euforia, sedazione, analgesia senza depressione respiratoria (diversità con gli oppioidi), aumento dell’appetito, bradicardia, vasodilatazione (particolarmente evidente a livello dell’occhio dando i tipici occhi arrossati), riduzione della pressione intraoculare, miorilassante, anticonvulsivante, broncodilatazione, immunosoppressore e antinfiammatorio.

Sia la marijuana sia l’hashish sono droghe che solitamente vengono fumate (lo “spinello” può essere, infatti, facilmente confezionato in maniera artigianale), ma possono essere anche ingerite. Gli effetti di queste sostanze iniziano dopo qualche minuto dall’assunzione e possono protrarsi per 3/4 ore e dipendono dalla concentrazione del THC presente. Se assunte con alcolici sono, ovviamente, molto più pericolose. La marijuana probabilmente è più dannosa per i polmoni dato che uno spinello pare corrisponda a sedici sigarette; l’hashish produce uno stato di rilassamento che potrebbe essere vantaggioso in ambito pre-gara agonistica e modificazione della frequenza cardiaca, senso di rallentamento del tempo e di miglioramento di udito, gusto, tatto e olfatto.

Questi effetti possono variare secondo la quantità di droga consumata, e in base alle circostanze in cui è assunta. Entrambe, dunque, possono alterare le capacità motorie nell’eseguire compiti complessi (es. guidare); interferiscono con il pensiero logico e la memoria. Per questo motivo l’uso regolare da parte di adolescenti è molto preoccupante in quanto può interferire con i processi di apprendimento e di maturazione in termini di sviluppo cognitivo. Inoltre, anche il sistema riproduttivo è coinvolto: in ambito maschile si è riscontrata una diminuzione del numero di cellule spermatiche e della mobilità delle stesse, in quello femminile difficoltà nell’ovulazione. Non si ritiene, però, che la marijuana e l’hashish inducano dipendenza psicologica, tranne quando vengono assunti in grandi dose giornaliere. Studi recenti, hanno rilevato in chi assume costantemente questi tipi di droga, il seguente quadro fisiologico: una alterazione del patrimonio genetico, una riduzione degli ormoni sessuali e una ridotta attività sessuale (De Graaf et al., 2010). Recentemente, sono stati evidenziati risultati di interesse nell’impiego dei principi attivi di questa droga in pazienti con neoplasie, in quanto sembrano contrastare la nausea e il vomito che spesso compaiono a seguito di trattamento chemioterapico antiblastico (Denson, & Earleywine, 2006). È in studio anche l’impiego nella terapia del glaucoma per l’azione riducente la pressione intraoculare (Moore, et al. 2007).

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Attori transgender: possono aiutare a capire chi presenta un disturbo dell’identità di genere

A partire da una serie di scenari comunemente osservati in ambito clinico, è stato dimostrato come attori transgender possano aiutare l’entourage medico a relazionarsi con cure e assistenza più sensibili verso coloro che sentono di appartenere ad un’identità di genere diversa da quella loro assegnata alla nascita. Questa è la principale scoperta di uno studio pubblicato online il 15 giugno nel Journal of Graduate Medical Education.

 

Le difficoltà del personale medico a relazionarsi con persone transgender

Le persone transgender molto spesso sono costrette a subire diverse forme di discriminazione e questo si accompagna a una mancanza di cautela da parte dei servizi sanitari a causa di mancata formazione, esperienze e conoscenza delle esigenze di questi pazienti.

Richard E. Green, direttore del centro per l’educazione alla salute e per i disturbi dell’identità di genere della NYU Langone, ha progettato lo studio dopo una serie di conversazioni con i pazienti transgender che hanno riportato sensazioni di disagio, discriminazione e insensibilità nei contesti sanitari.

Ma cosa accade se il paziente transgender è un attore?

Per studiare il problema, il team di ricerca ha adottato una comune strategia di insegnamento che prevede l’uso del “paziente standardizzato”, una persona addestrata a rappresentare un paziente in una certa situazione medica. Ogni studente svolge un colloquio con il “paziente standardizzato”, cercando di determinare le esigenze mediche della persona, di comunicare le opzioni possibili e di offrire rassicurazione. La nuova ricerca NYU è uno dei primi studi pubblicati che ha avuto la possibilità di utilizzare persone transgender come pazienti standardizzati.

Per questo studio è stata selezionata un’attrice transgender/paziente standardizzato che agiva in un vero e proprio contesto ambulatoriale al fine di valutare 23 tirocinanti di medicina interna sulle loro capacità di comunicare in modo efficace e di creare le condizioni per un certo grado di soddisfazione nel paziente. All’attrice è stato richiesto di riportare feedback verbali e scritti sulle competenze dei tirocinanti.
Nello specifico scenario clinico utilizzato per questo studio, un’attrice transgender stava assumendo un ormone anti-androgeno spironolattone per la riduzione dei connotati maschili, insieme all’assunzione dell’ormone femminile estradiolo.

L’attrice transgender presentava inoltre un quadro clinico caratterizzato da ipertensione e livelli pericolosamente alti di potassio nel sangue. L’attrice/paziente ha poi espresso il desiderio di sottoporsi a orchiectomia, intervento chirurgico per l’asportazione dei testicoli.
Ai tirocinanti è stato richiesto di esplorare e rispettare gli obiettivi di trattamento dell’attrice/paziente, sostenere la paziente nella terapia ormonale per la transizione di genere ed insieme elaborare un piano per il controllo dell’ipertensione e della iperkaliemia.

Inoltre i ricercatori hanno voluto valutare la capacità dei tirocinanti di porre domande definite di “apprendimento”, previste dagli obiettivi della ricerca, che testimoniassero la loro presa di sensibilità nei confronti dell’attrice/paziente, come ad esempio domande relative al pronome preferito dal paziente in associazione alla propria identità di genere, come anche indagare la capacità dei nuovi medici di porre domande circa la sessualità, l’attività sessuale e i rischi associati.

A termine della OSCE (objective structured clinical examination) i tirocinanti sono stati intervistati sul loro grado di preparazione, sulle percezioni relative la simulazione, e sulla capacità di adattamento e cambiamento al singolo e specifico caso.

Il gruppo di ricerca ha sviluppato una serie di items partendo dalle linee guida per il benessere del transgender, considerando la specificità del caso e utilizzando una scala ancorata al comportamento.
Portata a termine la simulazione da parte dei 23 tirocinanti sono stati sintetizzati in percentuale i punteggi relativi le loro capacità di comunicazione e la soddisfazione generale della paziente.

Il punteggio globale di comunicazione (89%) e il punteggio di soddisfazione del paziente (85%) per questo caso specifico che ha visto l’uso della strategia del paziente standardizzato non è stato significativamente diverso da altri 9 casi precedentemente presi in esame (79% punteggio di comunicazione; punteggio di soddisfazione del paziente del 72%; P. .05).

In modo più approfondito è stato dimostrato che meno dei 2/3 dei tirocinanti ha fatto sentire il paziente a proprio agio (61%, 14 di 23) o ha posto direttamente domande sull’identità di genere (61%, 14 di 23).

Molti tirocinanti hanno effettivamente indagato lo status quo del paziente per avere un quadro circa le sue condizioni mediche generali rilevanti per i processi di transizione, (58%, 14 su 24) e hanno riconosciuto lo spironolattone come causa degli altissimi e pericolosi livelli di potassio.

Tuttavia, solo il 25% (6 di 24) ha poi effettivamente discusso di una possibile cura per l’alto potassio e solo il 39% (9 di 23) ha offerto un trattamento per l’ipertensione.

I tirocinanti riportavano di sentirsi preparati per questo caso, nonostante trovassero impegnativo discutere sull’identità del transgender e sugli annessi problemi di salute. I tirocinanti hanno inoltre affermato che i feedback verbali e scritti da parte dell’attrice sono stati loro di grande aiuto.
È stato inoltre affermato dagli stessi medici che questo tipo di formazione con un’attrice transgender li ha aiutati ad abbattere una serie di preconcetti ed essere meglio equipaggiati per la realtà clinica.

La speranza per il futuro è quello di inserire l’OCSE all’interno dei piani curriculari dei medici in formazione così da ridurre il gap sostanziale tra conoscenza e capacità di cura di questi particolari pazienti.

Quando una storia finisce: la paura di un mondo nuovo – Le risposte di fluIDsex

Ho paura del mio corpo, ho paura di essere toccata di nuovo. Esco da una relazione decennale, primo e unico amore della mia vita, e ora credo di non essere più capace di relazionarmi con uomini che mi interessano. Mi sento di nuovo l’eterna adolescente: inconsapevole, insicura, timida, impacciata. Come posso mettermi in gioco di nuovo se sono sempre a disagio e non sono capace di lasciarmi andare? Anche solo per un abbraccio o per un innocente saluto, mi irrigidisco e mi chiudo a riccio. Sono pronta a mettermi in gioco? Io sento di sì (Onde Quadre)

 

Cara Onde Quadre,

Uscire dalla casa d’origine per avventurarsi e scoprire il mondo non è una passeggiata: si tratta infatti di lasciare quello spazio “sicuro”, di cui conosciamo leggi e linguaggi, per avvicinarci a un mondo totalmente imprevedibile e sorprendente. Questo spaventa: è innegabile. Ma, nonostante questo, l’infante decide comunque di immergersi nel mondo, iniziando quel processo che lo porterà alla conquista dell’adultità,e divenendo, così, adolescente.

Le rievoca qualcosa? Come un’adolescente goffa e titubante si muove all’interno di un mondo nuovo, infatti, lei sembra avvertire quello spaesamento tipico dall’esplorazione di un mondo che funziona diversamente e che parla una lingua nuova, diversa da quella finora usata con l’ex compagno, funzionale esclusivamente all’interno della vostra particolare coppia. Una lingua nuova, con codici ed espressioni diverse da quella parlata fino ad adesso con il suo compagno, efficace unicamente all’interno della vostra particolare coppia.

Tuttavia questa paura sembra generare in lei un blocco che pare un ostacolo. Come riuscire a superarlo? Probabilmente accettare che la fine dell’unica e più importante storia con un uomo comporti un senso di smarrimento e di oggettive difficoltà a capire il mondo dell’altro e a farsi capire da questo può essere un passo importante. Come anche fermarsi a riflettere su cosa della possibilità di essere toccata da mani nuove la spaventa. Che sia la possibilità di sperimentare nuovamente una sensazione di piacere con un uomo diverso dal suo ex compagno (e quindi più “difficile da prevedere”)? Convinta che i tempi siano maturi dall’energia con cui afferma di sentirsi “pronta”, la invito a riflettere su quale possa davvero essere il rischio del “mettersi in gioco” con un uomo nuovo e su cosa la spaventa tanto da “bloccarla”.

Irene Lisa Gargano

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Come migliorare la propria grafia nell’età digitale

La grafia è regolata dal cervello ed, in particolar modo, dalla memoria motoria. E’ proprio lei ad immagazzinare l’input motorio e rimandare l’output al resto del corpo che, come un meccanismo perfetto, riprende il movimento e, grazie all’allenamento continuo, permette di migliorare la fluidità dello stesso.

“Ogni lettera, basata su cerchi e quadrati, è un microcosmo che riflette la perfezione e la bellezza del macrocosmo”

(tratto da Calligrafia, l’Arte della bella scrittura, E.Pulvirenti)

 

La scrittura ai tempi dell’era digitale

Siamo ufficialmente nell’età del digitale, dove i nostri figli sanno utilizzare uno smartphone e noi comunichiamo con gli audio e i video.
Scriviamo con la penna grafica, prendiamo appunti con l’Ipad, impariamo con le slide, veicoliamo le nostre emozioni e i nostri ricordi grazie ad una tastiera, relegando il compito di memorizzare agli strumenti che oggi abbiamo a disposizione.

Questo semplifica (e velocizza) grandemente il lavoro che ognuno di noi deve svolgere nell’arco della giornata, ma abbiamo lasciato indietro alcune componenti fondamentali.

Mentre i nostri genitori erano quasi costretti all’ora di bella scrittura in cui stanghette, ondine e cerchietti erano all’ordine del giorno, oggi la calligrafia, soprattutto nel sistema scolastico, ha perso il suo ruolo centrale di portatrice di bellezza, di microcosmo estetico da tramandare da insegnante ad alunno, di veicolo di attenzione e concentrazione, di ritmo, di ordine.

La “vecchia scuola” si fondava su presupposti che sarebbero stati scoperti e confermati scientificamente da lì a pochi decenni: l’esercizio continuato, l’allenamento grafico e la costruzione delle lettere a partire dai singoli tratti è un un buon predittore per l’età adulta. In poche parole, chi aveva svolto quell’allenamento grafico durante i primi anni della scuola elementare (ora chiamata scuola primaria) aveva molte più probabilità di sviluppare una bella grafia da adulto.

E’ altresì vero che oggi, questo genere di allenamento grafomotorio, risulterebbe funzionale come predittore di eventuali disturbi dell’apprendimento legati alla grafia tanto per poter intervenire in tempo nel recupero e/o nel potenziamento delle abilità grafiche.

Le componenti della grafia e il ruolo del cervello

Ma di cosa è composta principalmente la scrittura? E che ruolo svolge il cervello, in tutto questo?

La grafia si basa principalmente su tre componenti:
– Coordinazione oculo-manuale
– Motricità fine della mano
– Dinamicità del corpo.

Tutto ciò è regolato dal cervello ed, in particolar modo, dalla memoria motoria. E’ proprio lei ad immagazzinare l’input motorio e rimandare l’output al resto del corpo che, come un meccanismo perfetto, riprende il movimento e, grazie all’allenamento continuo, permette di migliorare la fluidità dello stesso. Sì, perché l’obiettivo principale della grafia è quello di poter creare una parola intera da un unico gesto (al massimo due, nel caso di trattini e puntini!), velocizzando ed economizzando al massimo il lavoro di mente e corpo.

Se siamo rimasti colpiti dalla parola allenamento è perché imparare la grafia (o semplicemente migliorarla) non è così diverso dal prepararsi per una maratona o cominciare a suonare uno strumento: l’ esercizio cosiddetto sensato, ovvero quello dove ci rendiamo conto dei punti di forza e dei punti di debolezza e dove aggiustiamo continuamente il tiro, permette di incrementare la correttezza e la velocità del meccanismo stesso.

Questa è l’unica parola “brutta” che leggerete perché la parola allenamento rimanda sempre ad un’immagine di fatica e privazione, anche se ciò è necessario, soprattutto quando siamo desiderosi di voler migliorare la nostra grafia in età adulta.

La notizia bella è che tutti possono riuscirci.

Sì, perché il nostro cervello è plastico ed, escludendo disturbi neurologici o condizioni particolari, siamo tutti capaci di ottenere miglioramenti.

Basta seguire dei piccoli accorgimenti nelle nostre abitudini quotidiane, come:
– Scrivere il più possibile a mano (es., prendere appunti)
– Utilizzare lo strumento che troviamo più maneggevole (es., penne gel)
– Dedicarsi agli esercizi grafomotori almeno dieci minuti al giorno (su Internet avete ampia scelta)
– Non perdere la speranza, il cambiamento necessita di costanza.

I benefici della scrittura sono molteplici e risaputi: oltre alla capacità di farci rilassare, studi scientifici hanno rivelato che utilizzare la scrittura per prendere appunti aumenta la capacità di memorizzare. Questo perché la scrittura diventa una memoria esterna alla quale potersi affidare per alleggerire il carico cognitivo dell’apprendimento.

E allora prendiamo carta e penna e cominciamo ad allenarci!

La musica come strumento di prevenzione e benessere nella relazione di attaccamento

La musica ha delle potenzialità educative, preventive e terapeutiche che la rendono un interessante strumento in grado di facilitare la comunicazione, la relazione, lo scambio emotivo e affettivo; essa nasconde potenzialità anche per il benessere della relazione di attaccamento tra madre e bambino.

Camilla Bongiovanni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il potere della musica è noto da millenni, ma l’idea di una musicoterapia strutturata emerse soltanto verso la fine degli anni Quaranta, soprattutto per via del gran numero di soldati che tornavano dai campi di battaglia della seconda guerra mondiale con ferite alla testa e lesioni cerebrali traumatiche o «affaticamento da battaglia». Nel caso di molti di questi soldati si scoprì che il loro dolore, la loro sofferenza e perfino – pareva – alcune risposte fisiologiche (frequenza del polso, pressione ematica e simili) potevano essere alleviati o migliorati dalla musica.(Sacks, 2010)

La musica, intesa come forma d’arte fortemente comunicativa e emozionale, ha delle potenzialità educative, preventive e terapeutiche che la rendono un interessante strumento in grado di facilitare la comunicazione, la relazione, lo scambio emotivo e affettivo, la motricità, il linguaggio e, in modo indiretto, il benessere della persona.

In particolare, l’uso della musica e degli elementi musicali, come suono, ritmo, melodia e armonia, in un percorso volto a soddisfare necessità fisiche, emozionali, psicologiche e sociali dei soggetti coinvolti e a sviluppare le funzioni potenziali e residue dell’individuo, migliorando così la sua qualità della vita, si può definire, a prescindere dall’ambito di applicazione, musicoterapia: la musicoterapia è dunque una modalità di approccio alla persona che utilizza il suono e la musicalità come strumento di comunicazione non verbale, per intervenire a livello educativo, preventivo e terapeutico (Postacchini, 1985; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Sacks, 2010).

Il potere benefico della musica: da dove deriva?

Le potenzialità della musica rispetto al benessere fisico, psicologico e sociale dell’uomo si basano sul fatto che quest’ultima veicola un significato emotivo, soggettivo e spesso molto intenso: tramite la musica, è possibile esplicitare, condividere ed elaborare in modo funzionale il proprio vissuto emotivo, entrando così in risonanza emotiva con sé stessi e con l’altro.

L’aspetto prettamente emotivo dell’esperienza musicale, poi, è strettamente connesso a quello fisiologico: l’ascolto di melodie lente e tendenzialmente classiche, comporta una riduzione complessiva del livello di attivazione dell’organismo, in particolar modo della pressione arteriosa, del battito cardiaco, del ritmo respiratorio e della secrezione di corticolo, riduzione che ha degli effetti benefici sul benessere psicofisico dell’organismo, oltre a veicolare vissuti di affettività ed emotività positiva (Shenfield, Trehub, Nakata, 2003; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007).

Infine, la musica può diventare uno strumento molto utile per la stimolazione dello sviluppo neurobiologico delle strutture cerebrali nel bambino oppure dell’adulto, nel caso di lesioni, traumi o danni alle aree corticali e sottocorticali. Infatti, essendo la musica una funzione complessa che coinvolge e stimola ampie reti neurali ed essendo essa accessibile a tutti, a prescindere dalle competenze linguistiche, cognitive e sociali, le esperienze musicali sembrano poter modificare entro certi limiti le connessioni cerebrali e migliorare alcune capacità non prettamente musicali, come la memoria, le competenze simboliche, la coordinazione motoria (Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Sacks, 2010).

Gli effetti della musica sulla relazione di attaccamento

Per quanto riguarda nello specifico la prima infanzia e la relazione di attaccamento, le opportunità che la musica offre rispetto allo sviluppo cognitivo, linguistico e relazionale del bambino e rispetto al funzionamento, al benessere e alla condivisione dell’affettività positiva nella coppia genitore-bambino, sono state ampiamente dimostrate negli ultimi decenni (Postacchini, 1985; Standley, 2002; Tafuri, Villa, 2002; Abad, Edwards, 2004; Schwaiblmair, 2005; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Tafuri, 2007; Shoemark, Dearn, 2008; Edwards, 2011a, 2011b).

La relazione di attaccamento, infatti, si basa sulla regolazione interattiva e reciproca degli stati psicobiologici e, di conseguenza emozionali, di madre e bambino: durante episodi di sintonizzazione reciproca all’interno della diade, la musica e gli scambi ritmici e melodici nella diade possono diventare strumenti fondamentali per il benessere nella coppia madre-bambino, dal momento che stimolano e rinforzano schemi di interazione strutturati, ma flessibili, basati sull’alternanza dei turni e quindi su un consolidato sistema di aspettative reciproche, su cui la sicurezza della relazione di attaccamento può fondarsi (Malloch, 1999; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Tafuri, 2007; Shoemark, Dearn, 2008; Edwards, 2011a, 2011b).

Secondo Edwards (Edward, 2011a), la musicalità comunicativa dello scambio madre-bambino, costruita su un ritmo musicale flessibile, negoziato e condiviso tra i membri della diade, che continuamente modulano tempo, intensità, intonazione e movimento in modo tale da adattarsi al partner, permette al caregiver e all’infante di esprimere e di scambiare con l’altro informazioni sul proprio stato emotivo, rafforzando così il legame e il rispecchiamento reciproco nella diade; la musica può essere nella prima infanzia uno dei principali mezzi di sintonizzazione con l’adulto e di comunicazione, istintivo, implicito, non verbale e, in quanto tale, adeguato al livello di sviluppo linguistico, cognitivo e emotivo del bambino.

This musical experience can offer a supportive holding place for the incomprehensible of their feeling world until it is ready, like the infant’s eventual development of words, to become a story that can be hold. (Edwards, 2011a)

La musica, però, non ha un ruolo soltanto nella sincronia emotiva all’interno della relazione di attaccamento: le esperienze musicali, soprattutto se partano dello scambio tra madre e bambino, stimolano e sostengono lo sviluppo dei processi percettivi, linguistici, cognitivi e di elaborazione e integrazione delle informazioni provenienti dal mondo esterno (Standley, 2002; Tafuri, Villa, 2002; Schwaiblmair, 2005; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007); inoltre, tramite la musica, intesa come rituale e esperienza esclusiva e ripetuta in contesti o in momenti particolari, il bambino ha la possibilità di raggiungere con più facilità e continuità compiti evolutivi cruciali, come la regolazione della nutrizione, del ritmo veglia-sonno, della stimolazione attentiva e affettiva.

A conferma del potenziale ruolo della musica nella prima infanzia e, specificamente, nella relazione di attaccamento, la meta-analisi condotta da Standley e colleghi (Standley, 2002) conferma l’effetto, significativo, globale e unidirezionale della musica sul miglioramento della relazione madre-bambino, oltre che sul benessere di entrambi: ad esempio, dalla ricerca emerge che melodie e suoni ripetitivi e musicali hanno un effetto immediato nel rilassamento del neonato, riducendo il livello di attivazione e di stress e inducendo il sonno e la calma; inoltre, la musica stimola e orienta lo sviluppo linguistico del piccolo, in quanto fornisce gli elementi sonori di base, tra cui non solo i suoni, ma anche la ritmicità e l’intonazione, della lingua madre; continuando, la musica, come esperienza ripetuta, protetta e semplificata, costituisce un meccanismo che permette di mantenere una sorta di equilibrio, durante stimolazioni multimodali e complesse, stimolando e incrementando lo sviluppo neurologico del neonato e promuovendo la tolleranza a stimolazioni sempre più articolate; infine, la musica può offrire ulteriori benefici al neonato e al caregiver, rafforzando il legame emotivo e la sintonia tra i due e creando spazi di affettività positiva.

This meta-analyses on music research with premature infants showed an overall large, significant, consistent effect size of almost a standard deviation. […] Music alone or combined with the human voice would seem to be a valuable resource for enhancing developmental goals and functioning to reduce stress, to provide developmental stimulation during a critical period of growth, to promote bonding with parents, or to facilitate neurologic, communication, and social development. (Standley, 2002)

Emotional Faces Memory Task: il trattamento della depressione attraverso l’uso di un software

Un trattamento possibile per la cura della depressione utilizza la tecnologia Emotional Faces Memory Task (EFMT) che ha determinato una riduzione significativamente maggiore dei sintomi di disturbo depressivo maggiore (DDM)

 

Un trattamento possibile per la cura della depressione utilizza l’ Emotional Faces Memory Task (EFMT), una tecnologia originariamente sviluppata da due ricercatori del Monte Sinai, che ha determinato una riduzione significativamente maggiore dei sintomi di disturbo depressivo maggiore (DDM) rispetto a un gruppo di controllo, secondo i risultati clinici iniziali presentati alla “Convenzione Scientifica annuale della Società di Psichiatria Biologica”, il 19 maggio 2017 a San Diego.

Diventa sempre più urgente il bisogno di trattamenti efficaci per il disturbo depressivo maggiore (DDM) che stiano al passo con la sempre più avanzata comprensione della plasticità neurale fornita dalle neuroscienze cognitive.

L’ Emotional Faces Memory Task per la cura del disturbo depressivo maggiore

L’ Emotional Faces Memory Task è stato progettato per migliorare l’elaborazione delle informazioni emotive e il controllo dei networks cerebrali ad esse collegati, ed è stato presentato come studio sperimentale da Iacoviello et al., nel 2014.

In questo primo lavoro i risultati hanno dimostrato che i partecipanti al training Emotional Faces Memory Task presentavano una riduzione sintomatica di circa il 50% rispetto al gruppo di controllo, con miglioramenti minimi anche nell’attenzione e nella memoria di lavoro.

A fronte di tali risultati il gruppo di ricerca della Icahn School of Medicine del Mount Sinai di New York formato dal Dottorato di Ricerca di Brian Iacoviello, Assistente Professore di Psichiatria, Direttore degli Affari Scientifici per Click Therapeutics e da Dennis S. Charney, MD, Anne e Joel Ehrenkranz, Presidente e Professore di Psichiatria, Neuroscienze e Scienze Farmacologiche, ha proposto che l’ Emotional Faces Memory Task, cioè uno specifico trattamento cognitivo-emozionale fosse proposto ai pazienti tramite un’applicazione sulla piattaforma Click Neurobehavioral Intervention (CNI), piattaforma clinica-validata per il reclutamento del paziente sviluppata da Click Therapeutics ™.

Il meccanismo sottostante il disturbo depressivo maggiore comporta uno squilibrio nell’attività di regioni cerebrali specifiche: gli individui con disturbo depressivo maggiore dimostrano un’iperattività dei sistemi neurali coinvolti nell’elaborazione di emozioni, come l’amigdala, correlata ad una diminuzione dell’attività della corteccia prefrontale. L’amigdala è coinvolta nel riconoscimento di stimoli emozionali salienti in entrata, mentre la corteccia prefrontale, in quanto centro esecutivo del cervello, decide se gli stimoli in arrivo sono o meno degni di nota ed è coinvolta nei processi di regolazione emotiva.

Ai pazienti cui è stato somministrato il trattamento basato su Emotional Faces Memory Task veniva inizialmente richiesto di riconoscere un’emozione attraverso espressioni facciali presentate su uno schermo  e, in una seconda fase, veniva poi chiesto di identificare in termini quantitativi il numero di volti che esprimevano la stessa emozione.

L’obiettivo è quello di cercare di bilanciare l’attività cerebrale nelle regioni cerebrali deputate all’elaborazione delle emozioni, per promuovere un lavoro sincrono tra queste diverse aree cerebrali.

In questa ipotesi di ricerca, la terapia ha ridotto del 42% i sintomi della depressione maggiore nel gruppo sperimentale solo dopo sei settimane, a fronte della riduzione di solo il 15,7% nel gruppo di controllo, a cui veniva chiesto di svolgere un compito simile in assenza di emozioni ma con altre espressioni facciali neutre.

L’obiettivo è quello di regolare l’anormalità di pensiero che vediamo nei pazienti con disturbo depressivo maggiore – ad esempio, la ruminazione – lavorando su queste specifiche aree cerebrali. In tal senso, secondo lo studio le regioni deputate al controllo cognitivo resteranno attive anche mentre il cervello sta elaborando stimoli emozionali salienti, dando all’individuo la capacità di  regolare in modo piu’ adattivo l’attenzione, diminuendo le quote di ruminazione e pensiero perseverante – ha dichiarato il dottor Iacoviello.

Attraverso questa tecnica i pazienti possono impegnarsi nel controllo cognitivo e imparare ad regolare meglio le proprie emozioni .

Porteremo avanti questi risultati incoraggianti – continua Iacoviello – è entusiasmante avere l’opportunità di testare il programma in un grande sistema sanitario come il Monte Sinai.

Il programma in fase sperimentale è ora nelle mani di Click Therapeutics per ulteriori sviluppi, perfezionamenti e conversione in un vero e proprio dispositivo mobile, per ottenere l’approvazione della FDA come indicazione per il trattamento del disturbo depressivo maggiore e fornire una vera applicazione del futuro.

 

Corpo, trauma e dissociazione nell’adulto – Report dal Seminario

“I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico e intervento” è un interessante corso di formazione pratica avanzata proposto dal Centro Clinico Crocetta di Torino, che ha come filo conduttore il concetto di dissociazione traumatica. Il calendario del master è stato ricco di appuntamenti formativi che si sono svolti a partire da gennaio e termineranno a settembre 2017, con due giornate dedicate alla comprensione del rapporto tra disturbi alimentari, trauma e dissociazione.

di Valentina Congedo

Il-trattamento-della-dissociazione-traumatica-Programma-2017Giovanni Tagliavini e Porzia Talluri sono stati i relatori del seminario del 17 giugno “Corpo, trauma e dissociazione nell’adulto: riconoscere e comprendere la dissociazione somatoforme”.

Giovanni Tagliavini, direttore di Area Trauma, si è soffermato sul rapporto tra corpo e mente, sul ruolo del corpo nella salute mentale, sugli effetti che il trauma e la dissociazione hanno sulla fisiologia dell’organismo.

Porzia Talluri, psicoterapeuta, terapista HRV e Neurofeedback, ha aperto il suo intervento con alcuni cenni di neurobiologia evolutiva, descrivendo come si evolvono le strutture e le funzioni cerebrali fin dalla gestazione e l’impatto che può avere il trauma su un sistema nervoso in via di sviluppo. Inoltre, ha illustrato in modo pratico il funzionamento e l’uso del neurofeedback in psicoterapia. L’intera platea è stata invitata a svolgere esercizi di respirazione diaframmatica, per sperimentarne direttamente gli effetti benefici. Ci sono stati  proposti anche esercizi di riattivazione corporea, per stimolare la concentrazione, riappropriarsi del corpo e apprendere strategie per ridurre l’effetto “contagioso” che il trauma e la dissociazione possono avere, in formazione e terapia.

La dott.ssa Talluri ha terminato il suo intervento nella mattinata del 18 giugno, dando avvio alla seconda parte del seminario, dal titolo “Corpo, trauma e dissociazione nell’adulto. Ascoltare, curare e vivere il corpo, attraverso il corpo: neurofeedback, biofeedback, yoga e altri approcci corporei”.

Successivamente, è intervenuta la dott. ssa Stefania Nobili, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale con una formazione specifica nell’uso dello yoga a scopo terapeutico. Ha descritto alcuni elementi di teoria e pratica yogica; oltre a fornire una cornice di riferimento per comprendere l’utilità dello yoga affiancato a una psicoterapia, la dott.ssa Nobili ha proposto un’esperienza diretta, facendo sperimentare ai presenti alcune posizioni finalizzate a ristabilire il contatto con il corpo e a recuperare energie. In ultimo, ha introdotto un protocollo di applicazione dello yoga al trattamento psicologico dei pazienti traumatizzati.

Il ruolo del corpo nella salute mentale

G. Tagliavini ha sottolineato che l’integrazione è la parola d’ordine del lavoro psicologico. La salute mentale ha come presupposto un’elevata capacità di integrazione di un ampio spettro di fenomeni in una stessa personalità.

L’obiettivo principe della psicoterapia è l’integrazione di tre livelli di funzionamento della personalità: pensiero, emozione e corporeità. Solo in questo modo è possibile restituire completezza ed equilibrio all’esperienza individuale (con ricadute positive sull’agire relazionale).

I pensieri hanno la caratteristica di essere multipli; le emozioni, invece, sono binarie, mentre il corpo è sempre unico e affermativo.

Il corpo sempre fa, sta, sa, ricorda e, al suo livello integrativo, distingue e collega. È un’area della personalità che non si può ridurre ad altro, poichè rappresenta la modalità primaria e immediata di fare esperienza, la base dello sviluppo psichico e del suo funzionamento per tutta la vita. Il senso di sè è incarnato nel corpo e le esperienze coscienti sono orientate in relazione al corpo.

Il senso di sè secondo William James

William James scriveva che la peculiarità del corpo è la sua doppia natura di agente senziente e oggetto sentito, due dimensioni opposte eppur connesse dall’unicità del corpo stesso. In altre parole, William James sosteneva che il senso di sè si traduce nelle affermazioni “Io sono un corpo e agisco il mio corpo” e al tempo stesso “io ho un corpo”.

Le dimensioni della corporeità

Le teorie psicologiche attuali sul trauma riprendono queste affermazioni per astrarre le seguenti dimensioni della corporeità lungo le quali si compone la salute mentale:

  • L’ownership, ossia il senso di essere i “titolari’ del proprio corpo. Come sosteneva Cartesio, tendiamo ad identificarci coi nostri pensieri, ma essi dovrebbero farci concludere che possediamo un corpo e che ci identifichiamo con esso.
  • L’agency, ossia il senso di essere i “gestori” del proprio corpo, agenti attivi sulla realtà interna ed esterna.
  • La safety, ossia il senso di sicurezza, che comporta il sentirsi “beneficiari” del proprio corpo. La safety implica la capacità di distinguere tra propriocezione ed enterocezione, la stabilità e la congruenza delle proprie percezioni, la fiducia in esse.

Il trauma e i suoi effetti sul corpo: la dissociazione somatoforme

Un evento traumatico non elaborato divide in pezzi il sistema psichico: la disintegrazione investe sia le risposte immediate all’evento (neurovegetative, emotive, cognitive) che le dinamiche conseguenti (creazione dei ricordi e delle difese).

Il corpo traumatizzato sopravvive applicando una dissociazione primaria, che consiste nell’interruzione di alcune funzioni psichiche; spesso, successivamente, consolida queste difese con una dissociazione secondaria, ossia la divisione in parti indipendenti.

L’impossibilità a integrare ha un effetto perdurante, come se ciascun pezzo si respingesse e si opponesse all’integrazione.

Il senso di ownership, agency e safety sono perduti; ma poichè il corpo è sempre affermativo, sa, ricorda, distingue e collega le esperienze in modo traumatizzato.

Integrazione vs disintegrazione traumatica

Gli effetti sul corpo della dissociazione traumatica

La disintegrazione psichica dovuta al trauma lascia cicatrici più o meno profonde a seconda della gravità e della fase evolutiva in cui esso si verifica.

La più grave è la somatizzazione, che genera un “corpo danneggiato”.

Nelle primissime fasi evolutive, se i bisogni di un infante non vengono riconosciuti, l’attivazione neurobiochimica e comportamentale aumenta. Si verifica un iperarousal e si attivano le difese legate al sistema nervoso simpatico (comportamenti di attaccamento volti a stimolare l’accudimento, attacco, fuga). Se nessuna di queste difese funziona, si verifica un’ipoarousal che segnala l’attivazione del sistema parasimpatico (difese come svenimento, addormentamento, dissociazione, morte apparente).

Gli studi di R. Spitz sui bambini ospedalizzati mostrano gli effetti traumatici di una costante e inesorabile trascuratezza: la depressione anaclitica può diventare vacuità e addirittura generare un danno neurologico irreversibile. Ciò prova che un grave danno non deriva necesssariamente da un abuso o da comportamenti agiti, ma anche da gravi omissioni delle cure di base.

La disregolazione dell’arousal

Un’altra conseguenza del trauma sul corpo è la disregolazione dell’arousal, che genera un “corpo analfabeta”. In questo caso, i due sistemi simpatico e parasimpatico non svolgono la reciproca funzione equilibratrice e la persona non sperimenta il normale ciclo della risposta fisiologica. La neurocezione è difettosa: si verifica l’incapacità a leggere o integrare gli stimoli enterocettivi e esterocettivi (fino a generare confusione tra interno ed esterno).

I due sistemi autonomi possono andare in blocco, restando fermi su un iper o un ipoarousal; si possono verificare “situazioni sospese” episodiche o croniche nel corpo (pensieri, ideazioni o azioni che restano incomplete, si ripetono ed esauriscono psichicamente la persona traumatizzata); può diventare difficoltoso l’apprendimento dall’esperienza (il collegamento di categorie di eventi all’attualizzazione di uno stato corporeo-emotivo).

Il corpo inquietante

Un’ulteriore conseguenza del trauma è la convivenza con un “corpo inquietante”.

I fenomeni dissociativi si espandono lungo un continuum che porta a percepire il rapporto con se stessi e con il mondo esterno da “non reale”, a “non vero”, a “non mio” (che comporta la perdita dell’ownership), fino a “non me”. La persona traumatizzata sente il corpo come non riconosciuto e sperimenta episodi di depersonalizzazione e derealizzazione.

 

Infine, altra conseguenza del trauma sono le riattualizzazioni traumatiche, che si verificano in “un corpo conteso, usato, abusato”, a cui vengono sottratte energie dalla lotta tra le parti dissociative, come ha descritto vividamente Dolores Mosquera nel seminario del 21 e 22 gennaio.

 

Trattare la dissociazione somatoforme in terapia. L’uso del neurofeedback

Il senso di safety, ownership e agency sono le precondizioni per attivare i sistemi motivazionali superiori, come ad esempio quelli sociali. Il paziente, quanto più è gravemente traumatizzato, tanto più baserà la sua vita psichica sull’attivazione dei sistemi di sopravvivenza o quelli di difesa legati ai due sistemi nervosi autonomi.

Le situazioni più compromesse sono quelle in cui si riscontrano sintomi negativi: diagnosticare l’assenza di una funzione psichica attesa (come la capacità di percepire il proprio corpo o l’ambiente), è più difficile. Inoltre, se il disturbo comporta l’uso di difese tipiche dell’attivazione del sistema parasimpatico, il paziente sta peggio rispetto a un altro che utilizza le difese attive.

Anche se il paziente dice di non sentire il corpo, qualcosa in esso sta succedendo; il terapeuta deve aiutarlo a parlare del proprio corpo in modo affermativo.

Gli esami medici rivelano peculiari modificazioni cerebrali nelle persone maltrattate, soprattutto a carico della corteccia orbitofrontale: la parte più danneggiata è quella deputata alle funzioni integrative.

Il lavoro del terapeuta consiste nell’ancorare il pensiero all’emozione, e l’emozione al corpo. L’integrazione a cui tendere deve andare sia in direzione top – down che bottom – up, nella doppia via dai centri di controllo e integrazione superiori, attraverso i circuiti cerebrali delle emozioni, arrivando ai centri più antichi di regolazione fisiologica del sistema nervoso autonomo.

Come ha spiegato Porzia Talluri, l’attivazione del sistema nervoso simpatico e parasimpatico oscilla all’interno di una finestra di tolleranza. Se la persona passa troppo tempo fuori dalla finestra di regolazione (quindi in condizione di disregolazione) la finestra tende a restringersi, attivando un circolo vizioso. La disregolazione porta a irritabilità, alterazione del ritmo sonno-veglia, della fame o dell’evacuazione, cioè delle funzioni di base.

Il trauma, circoscritto o cumulativo, spinge l’individuo al di fuori di questa finestra di tolleranza, innescando gli automatismi difensivi prima del sistema simpatico, poi di quello parasimpatico. Inoltre, genera una paura soverchiante; tale emozione perde la sua funzione utile di segnalazione del pericolo e si tramuta in uno stato di allarme di sottofondo.

IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA - Seminario Dissociazione Traumatica - NeurofeedbackDurante il seminario, la dott.ssa Talluri ha applicato su un volontario un codificatore di funzioni e reazioni corporee. Esso riporta alcuni parametri di reattività fisiologica agli eventi come il battito cardiaco, il ritmo della respirazione, l’umidità della pelle, l’attività muscolare.

Questa registrazione dell’attivazione fisiologica è usata nel neurofeedback. Esso prevede un training che agisce sul respiro, l’unica variabile del funzionamento del sistema nervoso autonomo controllabile dall’individuo. L’armonia tra una corretta respirazione e il ritmo della frequenza cardiaca serve a calmare la paura, ma anche l’innesco degli automatismi fisiologici.

Una buona ossigenazione permette di essere più presenti e attenti; saper trasformare la respirazione alta “clavicolare”, in respirazione prima toracica, poi diaframmatica è un metodo per tenere sotto controllo l’ansia e gli attacchi di panico; inoltre la respirazione diaframmatica genera un utile massaggio agli organi interni, agendo positivamente sul sistema enterico; può aiutare a ridurre i problemi di insonnia.

Il neurofeedback e l’allenamento alla respirazione rimettono in equilibrio la bilancia tra sistema simpatico, parasimpatico ed enterico; questa abilità di respirare lentamente esercitata diventa una memoria procedurale che il paziente richiama al bisogno; è una capacità che alimenta il senso di autoregolazione del paziente, di ownership, agency e safety del corpo.

In terapia, è necessario cercare ogni opportunità per far vivere al paziente un’esperienza di sicurezza corporea nella prossimità con l’altro, favorendo i processi di autoregolazione anche mediante il recupero dei ricordi positivi; inoltre la terapia rappresenta un’occasione di sperimentare la regolazione interpersonale, tramutandosi in una graduale esperienza di risanamento degli effetti di disintegrazione a opera del trauma e della dissociazione.

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IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA - Seminario a Torino

IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA -


I prossimi appuntamenti del corso di formazione pratica avanzata Il trattamento della dissociazione traumatica Programma 2017 (Scarica PDF)

 

Lo sviluppo del bambino: prime tappe e grandi conquiste. A che gioco giochiamo?

Ogni mamma è presa da mille ansie e paure alla nascita del proprio bambino, mille domande si susseguono, alcune si documentano leggendo libri, riviste, facendo ricerche su internet: nella molteplicità di informazioni che si acquisiscono sarà saltato fuori il nome di Piaget. Ma chi è e cosa ha da dire sui bambini?

 

Ogni mamma è presa da mille ansie e paure alla nascita del proprio bambino! Mille domande si susseguono, alcune si documentano leggendo libri, riviste, facendo ricerche su internet. Come sarà? Cosa posso fare? Mi riconoscerà?

Piaget e le tappe dello sviluppo del bambino

Nella molteplicità di informazioni che si acquisiscono sarà saltato fuori il nome di Piaget. Ma chi è e cosa ha da dire sui bambini?

Piaget è un biologo ed epistemologo francese molto importante per aver descritto minuziosamente le tappe dello sviluppo del bambino dalla nascita all’età adulta.

La sua teoria si fonda su quattro stadi che il bambino attraversa dalla nascita.

Gli stadi, come definiti dallo stesso Piaget, si suddividono in :

  • Stadio senso-motorio da 0 ai 2 anni
  • ​Stadio pre-operatorio dai 2 ai 6 anni
  • ​Stadio operatorio concreto dai  6 ai 12
  • ​Stadio operatorio formale dai 12 anni in poi

Ognuno di questi stadi rappresenta dei traguardi raggiunti e determina nuove conquiste e nuovi obiettivi. Ma nel concreto cosa succede?

Lo stadio senso motorio

Immaginiamo una mamma alle prime armi che si trova a sperimentare i primi sorrisi del bambino verso di lei. Che sta succedendo?

Secondo Piaget il bambino in questa fase è egocentrico, conosce il mondo esterno attraverso due processi fondamentali che sono l’assimilazione, come suggerisce la parole stessa, immagazzina informazioni, un esempio ne è il gioco, e l’accomodamento, quando il bambino adatta i propri schemi ai nuovi dati dell’esperienza.

Il bambino non è ancora capace di distinguere sé stesso dal mondo esterno per cui suoni, persone, cose, si susseguono senza una ragione. Ma via via che le sue funzioni cognitive si svilupperanno tutto inizierà per lui ad avere un senso.

Piaget suddivide lo stadio senso-motorio in altri 6 sottostadi, essendo questo momento per il bambino molto ricco di stimoli e crescita.

  1. riflessi innati (dalla nascita a 1 mese): il bambino non agisce sulla realtà ma aspetta che essa soddisfi i suoi bisogni. In questa fase il bambino manifesta pianto per ottenere qualcosa.
  2. reazioni circolari primarie (dai 2 ai 4 mesi): il bambino scopre di essere “agente” cioè comprende che lui può fare. In questa fase il bambino mostra interesse per gli oggetti. Cerca conferme nello sguardo della madre e pian piano con il suo aiuto inizia a giocare. Molto importante è infatti il ruolo della madre che grazie allo scambio favorisce nel proprio bambino intenzionalità e reciprocità. In questo periodo si vedranno bambini che si succhiano i piedi e mettono in bocca tutto ciò che trovano. È il loro modo di conoscere il mondo. Proporre al bambino oggetti diversi, con diverse consistenze è un modo per fargli scoprire nuove cose.
  3. reazioni circolari secondarie (dai 4 agli 8 mesi): il bambino inizia ad avere assimilato informazioni e utilizza schemi per svolgere un azione. Inizia ad afferrare le cose e si diverte nel vedere il ripetersi di un azione che fa: per esempio prende una pallina e la vede rotolare. Si possono creare situazioni semi-strutturate dove lasciare i bambini liberi da pericoli, con giochi fatti con le cose che si hanno in casa. Per esempio un libro tattile fatto con tessuti diversi, vari materiali che il bambino si diverte a toccare e manipolare iniziando a percepire cose piacevoli e non. Afferrare le cose e si diverte nel vedere il ripetersi di un azione che fa : per esempio prende una pallina e la vede rotolare. Si possono realizzare piccoli percorsi con oggetti di diversa grandezza consistenza. Altro gioco da poter fare è riempire piccoli contenitori con materiali diversi (riso, farina) cosi che il bambino agitandoli impari a distinguere suoni diversi.
  4. coordinazione mezzi-fini (dagli 8 ai 12 mesi): il bambino coordina schemi d’azione più complessi per esempio tira una coperta per avvicinarsi l’orsacchiotto che c’è sopra. In questa fase il bambino inizia a percepire che un oggetto nascosto rimane li anche se lui non lo vede più. Si può giocare con lui a nascondere gli oggetti sotto una coperta e poi scoprirli. Il bambino rende partecipe nel gioco la madre si ha così l’emergere dell’attenzione condivisa. Il bambino prova piacere nel giocare con l’altro. Il gioco del cucù che può sembrare banale serve al bambino per percepire la permanenza dell’oggetto. Si può nascondere la mamma dietro un panno cosi come si può nascondere il bambino per una maggiore percezione di se stesso ed del mondo al di fuori.
  5. reazioni circolari terziarie (12-18 mesi): in questa fase il bambino inizia a risolvere problemi mediante tentativi ed errori per esempio per raggiungere un oggetto utilizzerà diverse strategie fino a trovare quella che gli permetterà di averlo.il bambino inizia ad allontanarsi dalla madre ed esplorare l’ambiente. Iniziano le prime relazioni triadiche. Il bambino pian piano diventa libero nel gioco, indica ciò che gli serve.
  6. comparsa funzione simbolica (dai 18 mesi in poi): il bambino prima di questa età ha una rappresentazione degli oggetti solo attraverso i sensi ora invece è in grado di avere una rappresentazione mentale. Questo  fa si che nel bambino inizi a manifestarsi l’imitazione differita, cioè il bambino vede un comportamento e lo riproduce a distanza di tempo, il linguaggio ed il gioco simbolico. Vediamo a questa età bambini che iniziano a giocare al gioco del “ fare finta”. i bambini iniziano a giocare con ciò che trovano come per esempio mettere in fila sedie per fare un treno, far finta di cucinare, prendersi cura della bambola.

Da qui si passa, secondo Piaget, ad una seconda fase lo stadio pre- operatorio del quale ci occuperemo più avanti.

I giochi da fare con i bambini sono infiniti, bastano semplici materiali e soprattutto voglia di giocare con il proprio bambino. Può essere utile anche dare uno sguardo alle attività della Montessori che si è molto occupata della parte ludica dei bambini.

Esperienza di trattamento psicoterapeutico all’interno della Casa di reclusione di Modena sugli aggressori sessuali

Il fenomeno dei reati sessuali è da sempre presente nella nostra società, cosi come in altre culture più distanti dalla nostra, ma ad oggi tale tipologia di crimine è sicuramente tra quelle che suscitano un maggiore allarme a livello sociale.

Manuela Cammarata – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Il fenomeno dei reati sessuali è da sempre presente nella nostra società, cosi come in altre culture più distanti dalla nostra, ma ad oggi tale tipologia di crimine è sicuramente tra quelle che suscitano un maggiore allarme a livello sociale soprattutto per la ferocia con cui viene commesso e per l’aumentata visibilità, che deriva da una maggior attenzione dei media sull’argomento, che fa percepire all’opinione pubblica un suo crescente aumento. Ad aumentare, poi, la complessità del caso vi è il rapporto che spesso unisce la vittima all’autore del reato stesso, rapporto che molto spesso è di tipo parentale e che pertanto rischia spesso di nascondere l’abuso dietro ad atteggiamenti di omertà e segreto all’interno del nucleo familiare.

Reati sessuali: l’importanza della prevenzione e del recupero

A fronte di questo sempre più frequente dilagarsi di reati sessuali, dunque, vi è la necessità, da un lato, di salvaguardare la vittima e, dall’altro, di applicare non solo delle pene ma anche dei programmi di recupero nei confronti degli aggressori sessuali (sex offenders) in modo da ridurre al minimo il rischio di recidiva futura.  Tuttavia, nonostante il sempre crescente interesse verso questo tema, attualmente sono ancora poche le iniziative volte sia alla prevenzione dei reati sessuali che al sostegno e al recupero degli attori, e con ciò si rischia poi di promuovere e sostenere la cultura della stigmatizzazione e dell’esclusione che, invece di permettere un’adeguata prevenzione dell’abuso e un successivo reinserimento nella società dell’abusante, favorisce e alimenta il reato stesso.

Se molta attenzione, dunque, si dedica, giustamente, alle vittime di reati sessuali, poca invece ne viene concessa, in termini trattamentali e di recupero, all’aggressore sessuale che, una volta condannato, sconta la propria pena presso sezioni protette degli Istituti Penitenziari, con scarse possibilità di adeguato trattamento psicoterapeutico e successivo reinserimento nella società.

Chi sono gli aggressori sessuali?

Ma chi sono gli autori di reato a sfondo sessuale? E quali sono le loro possibilità di recupero?

Autori di reati a sfondo sessuale: art. 609 bis c.p. : violenza sessuale, art. 609-ter c.p. : circostanze aggravanti, art 609 quater c.p. : atti sessuali con minorenne, art 609 quinquies c.p. : corruzione di minorenne,  art. 609 octies c.p. : violenza sessuale di gruppo.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, gli aggressori sessuali non costituiscono una tipologia omogenea di pazienti, in quanto si diversificano per età, classe sociale, storia pregressa, tipo di aggressione, modalità di operare il reato, comportamenti e desideri e/o tendenze sessuali. Tuttavia è riconosciuto in letteratura che, in generale, da un punto di vista clinico è possibile per questi pazienti effettuare una diagnosi psicopatologica; quella più diffusa è legata ai disturbi di personalità classificati nel DSM-IV. Tra questi , in particolare, emergono:

  • Il disturbo antisociale di personalità: caratterizzato da aspetti di ostilità e aggressività; si tratta di personalità inclini ad agire in maniera aggressiva e imprevedibile. Comprende molti dei deficit che gli aggressori sessuali presentano come ad esempio la carenza di empatia e di considerazione dei sentimenti altrui, irresponsabilità, impulsività, relazioni interpersonali povere, abilità sociali ed affettive scarse o insufficienti; (Fernandez, Marshall. 2003), (Covell, Scalora,M. 2002)
  • Il disturbo narcisistico: il quale evidenzia un quadro pervasivo di grandiosità, mancanza di empatia e manipolazione allo scopo di raggiungere la gratificazione immediata dei propri bisogni (tra questi anche quello sessuale);
  • Il disturbo bordeline di personalità: caratterizzato da una modalità pervasiva d’instabilità delle relazioni interpersonali e dell’immagini di sé, allo scopo di evitare costantemente l’abbandono e che porta il soggetto ad una continua ricerca di conferme e considerazione.

Inoltre, nelle biografie degli artefici di reati sessuali, ritroviamo spesso traumi ed episodi di maltrattamenti subiti in età infantile. E’ altresì importante sottolineare, in ogni caso, come non sia del tutto corretto attribuire la causa dei reati sessuali alla presenza costante di componenti patologiche. In numerosi casi, infatti, questi comportamenti sono propri di persone, senza particolari problemi psicologici o comunque con problemi non superiori a quelli della maggior parte delle persone.

Gli aggressori sessuali, pertanto, rappresentano un gruppo eterogeneo, e anche dietro comportamenti simili si incontrano tratti psicopatologici differenti. A complicare lo scenario si aggiunge il fatto che essi presentano spesso parafilie multiple, oppure una comorbilità tra diversi disturbi. (Aubut  1993b), (Dettore, Fuligni  2006), (Marshall, 2007)

Aggressori sessuali e mancanza di empatia

Al di là di questo aspetto poi, ciò che si mette in evidenza in questi pazienti è la loro limitata, o a volte addirittura assente, capacità empatica, capacità cioè di riconosce le emozioni altrui e di assumere una prospettiva diversa rispetto alla propria.

La crescente attenzione al fenomeno relativo ai reati sessuali, pone la società e le istituzioni di fronte alla necessità di promuovere misure legislative volte alla sicurezza sia della società stessa ma soprattutto del singolo, e di promuovere anche interventi mirati sia alla prevenzione del reato che al trattamento degli aggressori sessuali.

Appare ovvio, in questo senso, che il trattamento debba essere rivolto alla riduzione significativa del rischio di recidiva da parte dei sex offenders una volta scontata la propria misura detentiva. Per tale motivazione, il carcere non può e non deve avere una finalità esclusivamente punitiva, ma deve diventare anche una opportunità per accedere ad una riflessione su di sé e sui proprio meccanismi. Tale obiettivo è raggiungibile attraverso una presa in carico del paziente che porti l’autore di reato sessuale a:

  • Un lavoro di presa di coscienza del reato commesso;
  • Un lavoro di acquisizione o rinforzo delle capacità empatiche;
  • Una presa di coscienza delle proprie difficoltà e dei propri limiti;
  • Un lavoro di modificazione delle distorsioni cognitive;
  • L’identificazione delle fantasie sessuali devianti e dei fattori che hanno concorso alla messa in atto dell’abuso;
  • Lo sviluppo di strategie di coping e gestione dello stress più funzionali.

Reati sessuali e interventi per gli aggressori sessuali: l’esperienza della Casa Circondariale di Modena

Nell’ottobre del 2013, in seguito alla richiesta da parte della Direzione della Casa Circondariale di Modena, si sono svolti incontri di coordinamento e programmazione tra il Direttore dell’Istituto, l’area educativa del carcere, il referente del programma carcere del Dipartimento Cure Primarie e il Direttore del servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda USL di Modena per definire un progetto d’intervento per i detenuti autori di reati a sfondo sessuale presenti all’interno dell’Istituto (attualmente presenti 90) che sono stati condannati o sono in attesa di una condanna definitiva.

Opportunamente, si potrebbe pensare che per queste persone l’ambiente penitenziario potrebbe costituire la prima meditata e reale occasione di incontro con figure professionali a valenza terapeutica ed educativa e che ciò potrebbe favorire una presa di contatto, in un momento esistenziale particolare come la detenzione, per l’inizio di un percorso di potenziale cambiamento.

Nello specifico il trattamento ha come obiettivi:

  • Promozione della consapevolezza, motivazione e responsabilità rispetto al proprio agito.
  • Acquisizione di strategie di contrasto nei confronti degli impulsi sessuali patologici.
  • Riconoscimento e prevenzione dei comportamenti a rischio di recidiva.
  • Definizione di percorsi alternativi alla detenzione o fine pena.

Vale la pena osservare come il trattamento degli aggressori sessuali si basa oltre che sulla scelta delle tecniche, anche sul delicato equilibrio tra empatia e distanziamento, che serve ad evitare sia la collusione ma anche il rifiuto. In sintesi una sorta di equilibrio tra pena e trattamento.

Il lavoro di recupero dei sex offenders svolto presso la Casa Circondariale di Modena inizia con una fase di selezione e valutazione preliminare dei pazienti che nasce dal confronto con gli Educatori dell’Istituto Penitenziario, referenti del caso, e lo Psicologo dell’ASL, formato e competente sul tema, i quali condividono insieme l’idea di un possibile intervento.

A questo primo momento segue poi una fase di assessment individuale svolta dallo psicologo.

In particolare ci sono almeno 3 fattori che devono essere indagati per permettere al detenuto di essere inserito nel percorso di trattamento:

  1. Ammissione, o parziale ammissione, del reato commesso e della propria responsabilità;
  2. Riconoscimento del proprio problema e del proprio disagio;
  3. Volontà di partecipare ad un percorso di trattamento psicoterapeutico.

Successivamente, sempre in questa seconda fase, viene somministrato al paziente del materiale testistico (MMPI-II; MCMI-III; CORE) che permette di ottenere un quadro abbastanza chiaro e coerente del proprio funzionamento e dei tratti che ne caratterizzano la personalità, e che permette quindi di poter valutare l’effettiva trattabilità del paziente stesso.

A questa fase di assessment, dopo un’adesione spontanea al programma che prevede l’accettazione delle condizioni anche in forma scritta, segue poi il trattamento vero e proprio che consiste sia in colloqui individuali con lo psicologo, che permettono al paziente di poter lavorare su aspetti più personali che riguardano il proprio vissuto e la propria storia personale, sia in una terapia di gruppo che permette di poter lavorare invece su aspetti più condivisi. Il lavoro di gruppo con gli aggressori sessuali si svolge con cadenza settimanale e tratta tematiche come prevenzione della recidiva, stili di attaccamento, genitorialità, riconoscimento del concetto di violenza, acquisizione di nuove strategie di coping e gestione dello stress, acquisizione di nuove modalità comunicative più funzionali dei propri bisogni.

Obiettivo fondamentale in tutte queste fasi è che il paziente autore di reati sessuali cominci a  prendere coscienza del reato commesso, questo perché, nella maggior parte dei casi vi è una sottovalutazione o addirittura la negazione del reato stesso da parte dell’aggressore.

Le problematiche relative a questo intervento psicoterapeutico, tuttavia, sono diverse poiché riguardano aspetti clinici che si intrecciano con aspetti di tipo sociale e culturale, spesso difficili da mettere in discussione nel paziente stesso.

È chiaro che un lavoro psicoterapeutico con i sex offenders è necessario ed importante proprio perché l’espiazione della pena intesa come semplice detenzione punitiva non ha alcuna utilità se non si riduce attraverso la propria messa in discussione anche il rischio che il reato venga commesso nuovamente in futuro.

Affinché questo tipo di lavoro svolto abbia dunque significato, una volta scontata la pena (o nel momento in cui vengano concesse le misure alternative previste dall’Ordinamento Penitenziario), sarebbe opportuna una presa in carico da parte dei Servizi Sanitari competenti per Territorio di residenza per la continuità del percorso psicoterapeutico, cosi come avviene per altri tipo di reato o problematiche (es: tossicodipendenza). Tuttavia al momento emergono diverse difficoltà per la presa in carico esterna del paziente presso i Servizi territoriali.

Tra le difficoltà che emergono, maggiormente rappresentativa è quella di una non adeguata preparazione rispetto al tema ed al suo trattamento. Questo probabilmente perché ancora oggi si fatica a riconoscere che il comportamento sessuale aggressivo sia solo uno tra i diversi aspetti della vita del paziente e che tale persona invece, con un adeguato tipo di intervento, possa essere in grado di acquisire nuovi strumenti e nuovi stili di comportamento più funzionali.

In sintesi con questa esperienza si è evidenziato come vi sia ancora oggi:

  • Carenza di una cultura del trattamento per gli autori di reati sessuali e la necessità di interventi di sensibilizzazione in questa direzione;
  • Carenza di strutture e servizi sul territorio che garantiscano la continuità del trattamento e della presa in carico in un tempo successivo all’esecuzione di pena in carcere ed all’intervento trattamentale intra-murario;
  • Carenza di una rete o connessione che permetta la conoscenza reciproca, lo scambio ed il confronto.

In questi due anni e mezzo in quattro occasioni, su circa 30 pazienti trattati, è stato possibile realizzare un invio ed una successiva presa in carico del paziente da parte di un Servizio Sanitario pubblico.

In conclusione, come ci dicono gli stessi dati ufficiali Istat, la maggior parte dei reati sessuali sono reati relazionali. Questo comporta una problematica rispetto alla gestione del fenomeno, che non può solo essere deputata al settore penitenziario, ma che deve coinvolgere i servizi con competenze specifiche in questa direzione.

Deve essere chiaro che gli uomini che entrano nel circuito penitenziario non rimarranno per sempre rinchiusi tra le mura del carcere, così come non lo rimarranno le nostre paure. Un giorno non troppo lontano infatti torneranno ad essere cittadini liberi. La sfida, l’obiettivo è dunque quello di cercare di renderli liberi anche dalle passate azioni violente attraverso una messa in discussione di se stessi in un delicato momento esistenziale com’è la privazione della libertà, perché solo cosi si può evitare il perpetuarsi di una storia già, purtroppo, tristemente nota.

Le persone ansiose si preoccupano del rischio o della perdita?

Ogni giorno tutti noi ci troviamo a dover compiere delle scelte, questo compito, a volte banale, è particolarmente difficile per le persone ansiose, ovvero una fetta di popolazione ormai molto estesa. Capire i processi cognitivi che sottostanno alle patologie di tipo ansioso è importante per poter delineare un trattamento terapeutico cognitivo adeguato.

 

Dalla letteratura si evince che, tra i vari processi cognitivi implicati, anche il decision making è deficitario (Hartley & Phelps,2012). Infatti, le persone ansiose presentano difficoltà nel compiere delle scelte, rinforzando il loro comportamento evitante (Butler & Mathews, 1983; Giorgetta et al., 2012; Maner et al., 2007; Mueller et al., 2010).

Rischio o perdita: Cosa temono le persone ansiose?

Una forte influenza sui processi di decisione è data dall’avversione al rischio o alla perdita, ma negli ansiosi quale dei due fattori ha più peso?

Questo è l’interrogativo a cui ha risposto una ricerca recente effettuata presso l’Istituto di Neuroscienze Cognitive dell’Università di Londra (2017). I partecipanti di questa ricerca erano 25 pazienti con disturbo d’ansia generalizzato e 23 soggetti sani che dovevano svolgere un compito decisionale. Nello specifico, i tipi di scelta da compiere erano due: decisioni guidate dall’avversione al rischio e alla perdita o guidate soltanto dal rischio. Cambiare la formulazione della domanda, per esempio descrivendo un guadagno certo contro uno più alto ma più rischioso, permetteva di separare la preoccupazione dovuta la rischio da quella per la perdita.

I risultati hanno dimostrato che i soggetti ansiosi, a differenza di quelli sani, presentavano livelli di avversione al rischio più alti, cosa che non si verificava per l’avversione alla perdita i cui i livelli risultavano uguali per entrambi i gruppi. Ciò aggiunge e in parte modifica la letteratura relativa ai processi cognitivi alla base dell’ansia secondo cui le persone ansiose, rimuginando eccessivamente sui potenziali esiti negativi, avrebbero dovuto presentare più elevati livelli di avversione alla perdita. Da questo studio, invece, si evince che la difficoltà degli ansiosi sta nel compire scelte rischiose, cosa che condiziona i loro pensieri, comportamenti ed emozioni, oltre a guidare il comportamento di evitamento.

Alla luce di quanto emerso, sarebbe utile indirizzare il trattamento terapeutico cognitivo-comportamentale verso una maggiore tolleranza del rischio piuttosto che su una riduzione della sensibilità agli esiti negativi.

 

 

Terapie solidali supervisionate: alla ricerca dell’identità professionale

Gli specializzandi della Scuola Cognitiva di Firenze (SCF) hanno l’occasione di seguire i loro primi pazienti nell’ambito del Servizio di Terapia Solidale del Centro Clinico della scuola. Accedono a tale servizio quelle persone che presentano un disagio psicologico e che per motivi economici non possono ricorrere a una cura psicologica più accessibile.

Alessia Lucia Bitonti

 

Terapie solidali: un’occasione di crescita personale e professionale

Molti pazienti che si rivolgono al servizio e che decidono di intraprendere un percorso psicoterapeutico vengono affidati agli specializzandi del terzo e del quarto anno della scuola. Gli psicoterapeuti in formazione vengono affiancati e seguiti da supervisori esperti in incontri di gruppo a cadenza settimanale della durata di un’ora e mezza.

Lo studente in formazione è alla ricerca della propria identità professionale e le Terapie Solidali supervisionate sono un ottimo contesto di crescita personale e professionale. Le supervisioni diventano un luogo di confronto rispetto a quelle che sono, nella maggior parte dei casi, le prime esperienze cliniche e a tutto ciò che ruota intorno ad esse.

La psicoterapia cognitivo comportamentale (TCC) è uno specifico orientamento della psicoterapia, di comprovata efficacia, sviluppato da A.T. Beck nei primi anni ’60. E’ un trattamento di breve durata e orientato al presente, teso alla risoluzione di problemi attuali e alla modificazione di pensieri e comportamenti disfunzionali (Beck, 1964; Beck et al., 1979). Nel corso degli anni di studio, apprendiamo le molteplici teorie, i modelli di funzionamento psicopatologico, i protocolli e le tecniche di trattamento che appartengono alla TCC.

All’inizio della nostra formazione pratica impariamo ad utilizzare le tecniche di base e, altrettanto fondamentale, a concettualizzare il caso. Le supervisioni stimolano la riflessione sulla concettualizzazione, personalizzandola maggiormente sul paziente singolo. Inoltre, il repertorio di tecniche padroneggiate è ancora abbastanza limitato, e oltre a ciò, risulta complesso integrare la concettualizzazione con l’applicazione delle tecniche.

Alla luce di queste difficoltà sperimentate, inizialmente ho tentato di ottenere dai supervisori quella che secondo me doveva essere la risposta “perfetta” ai problemi, di concettualizzazione e di intervento, che via via si presentavano in terapia. Questa aspettativa però era eccessivamente rigida. È probabile che non arrivi la soluzione definitiva, quella che ti illumina e risolve tutto. Ciò contribuisce ad incrementare la sensazione di confusione, già grande quando si è alle prime armi! Cosa posso fare? Cosa devo fare? Le domande e i dubbi sono legittimi, ma l’illusione che ci sia una risposta precisa e assoluta li rende di fatto poco risolvibili.

Ma è proprio la riflessione, condivisa in supervisione, sul funzionamento del paziente che ci rende sempre più abili nella formulazione del caso; e parallelamente, la possibilità di mettere in pratica un ventaglio sempre più ampio di tecniche ci permette di padroneggiarle in modo più adeguato.
E’ attraverso questi processi di riflessione, confronto, condivisione e pratica che impariamo ad integrare sempre più abilmente la concettualizzazione all’applicazione delle tecniche, rendendo dunque tale applicazione sempre più flessibile ed efficace.

E’ altresì importante, oltre a tutto ciò, curare in supervisione tutti quegli aspetti relativi alla relazione terapeutica. La pratica clinica permette di esperire con sempre maggiore consapevolezza il proprio personale modo di stare all’interno della relazione, facilitando inoltre la presa di consapevolezza di possibili punti di collusione con il paziente e il superamento di impasse nella terapia. Ogni terapeuta in formazione tenderà a sviluppare le proprie competenze e l’identità professionale, in base a quelle che sono le sue naturali predisposizioni e in base al suo stile di personalità e relazionale.

La supervisione aiuta il terapeuta a rendere più fine e personalizzata la concettualizzazione del caso, sostenendo l’applicazione efficace e non meccanica delle tecniche e a comprendere e affrontare, mediante ragionevoli accorgimenti di good-practice, la riflessione e la discussione con il paziente delle sue difficoltà.

Le supervisioni infine diventano luogo di riflessione, di cambiamento e di crescita personale e professionale, favorendo la consapevolezza del proprio stile relazionale e terapeutico, e supportando l’armonizzazione delle caratteristiche personali e relazionali che andranno a definire l’identità professionale.

 

Sieropositività: “dirlo agli altri” fa bene

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo la sieropositività sono la paura del rifiuto o dell’abbandono, la convinzione che il partner non possa reggere alla notizia, che sia un passo troppo difficile o che sia necessario un tempo maggiore per poter affrontare prima le proprie emozioni. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo.

Essere sieropositivi: la difficoltà di comunicarlo agli altri

Nel panorama internazionale dell’epidemia dell’infezione da HIV, suscitano sempre grande preoccupazione i casi di persone contagiate da partner sessuali che non sono a conoscenza, o conoscendolo non rivelano, del proprio stato sierologico.
Spesso, neppure il matrimonio o la convivenza sono sufficienti a proteggere dall’infezione.
Storie che rivelano quanto la difficoltà di accettare la malattia e il dolore di rivelarla agli altri possono influire negativamente sulla sua gestione.

Numerosi studi hanno mostrato che le persone consapevoli della propria sieropositività tendono a ridurre i comportamenti che potrebbero trasmettere l’infezione ad altri, tuttavia ce ne sono altri i quali suggeriscono che i cambiamenti delle abitudini sono difficili da mantenere e che dopo un certo periodo alcuni tra loro riprenderebbero a porre altri a rischio di contagio.

Dai dati di un ricerca relativa ad un campione di persone sieropositive in terapia negli Stati Uniti, emergeva che il 42% degli uomini omosessuali e bisessuali, il 19% degli uomini eterosessuali e il 17% delle donne riferivano rapporti senza rivelazione del proprio stato sierologico.
Secondo una ricerca più recente su omosessuali sieropositivi, i rapporti sessuali non protetti erano riferiti dal 46.7% di coloro che avevano un partner positivo e dal 15.6% di colori che ne avevano uno negativo. I contatti senza profilattico erano significativamente più frequenti con partner casuali.
Molto spesso il sesso non protetto era associato ad assunzioni di alcool o sostanze d’abuso e all’assenza di comunicazione della sieropositività.

Alcune organizzazioni sanitarie internazionali si sono interrogate se la responsabilità della diffusione del virus da parte di persone consapevoli del proprio stato sierologico non sia da attribuire ai principi di confidenzialità e di consenso informato che vigono in molti paesi, ma sono giunte alla conclusione che sono piuttosto il diniego, lo stigma, il senso di colpa, la discriminazione e le problematiche psicologiche a creare i maggiori ostacoli al contenimento della diffusione dell’infezione.

Massimo, 32 anni, da quando è sieropositivo non ha avuto altre relazioni. Da poco ha conosciuto un ragazzo che gli piace molto, si frequentano, stanno bene insieme. Lui decide di lasciarlo prima di avere rapporti sessuali. “Comunicargli la sieropositività avrebbe comportato l’ennesimo rifiuto nella mia vita, mi riporta alla mia infanzia, ad episodi di abbandono e abuso. Non posso sopportarlo. Preferisco lasciarlo prima. Forse l’unica soluzione per evitare questo dolore è frequentare da adesso in poi solamente sieropositivi come me”.

Cristina, 29 anni. “Ho problemi a dirlo agli altri. Allora vado in giro con spruzzino e disinfettante per pulire dove passo io. Ho paura che per causa mia gli altri possano vivere l’inferno che sto vivendo io.”

Gli aspetti emotivi connessi alla difficoltà di comunicare la sieropositività

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo il proprio stato di salute sono la paura del rifiuto o dell’abbandono, la convinzione che il partner non possa reggere alla notizia, che sia un passo troppo difficile o che sia necessario un tempo maggiore per poter affrontare prima le proprie emozioni. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo. Alcuni studi dimostrano che le donne che non informano il partner utilizzano il profilattico con frequenza e regolarità pari a quelle delle donne che lo fanno, ma sono più a rischio di queste ultime di ripercussioni psicologiche negative (disturbi d’ansia o depressione con istinti suicidari).
La capacità di rivelare è legata al grado in cui la persona ha accettato la diagnosi e comunque è molto più difficile raccontarsi a ridosso di questa. Emerge che tra gli eventi stressanti, la rivelazione della propria sieropositività all’altro è seconda solo al ricevimento della diagnosi ed implica il dover affrontare alcune tematiche tra le quali l’immagine di sé, la sessualità e l’autostima.

Sara, 37 anni, scopre la sieropositività durante le analisi per la prima gravidanza. “Sono in preda allo sconforto, e dilaniata dalla scelta… comunico adesso la sieropositività al mio compagno o lo faccio alla nascita della bambina?…”

Simona, 46 anni. Viene a ritirare il risultato del test. Quando le comunico la diagnosi di sieropositività è sorridente. “Prima o poi doveva succedere. Anzi meglio così. Sto da 10 anni con il mio compagno sieropositivo. Adesso che lo sono anch’io possiamo condividere proprio tutto. Anche la terapia antiretrovirale e le visite mediche.”

Gli effetti della scoperta della sieropositività sulla relazione di coppia

Starace, nella sua monografia fa luce su alcune dinamiche di coppia confermando che, quando esiste una relazione di coppia, la scoperta della sieropositività determina una destabilizzazione della relazione che, se non conduce alla separazione, necessita di una rielaborazione e di una riformulazione delle dinamiche interne.

Laddove la notizia irrompe all’interno della coppia, fattori come le preoccupazioni circa l’intimità, la difficoltà di parlare di argomenti relativi alla sfera sessuale, il senso di responsabilità, la paura ma al tempo stesso il bisogno di mantenere intatto il piacere di un tempo rischiano di aumentare notevolmente il pericolo della trasmissione.

Inoltre, nonostante la conoscenza odierna delle modalità di trasmissione, spesso all’interno delle coppie consolidate si assiste ad un uso non costante del preservativo, visto come barriera, come distacco, come mancanza di reale e totale intimità con l’altro.

A questo bisogna aggiungere fenomeni diversi come quello dell’abnegazione, dell’accettazione del destino e della malattia dell’altro nel bisogno di dimostrare il proprio amore senza confini.
In queste situazioni, ciò che prevale è il dovere, del partner sieronegativo, di dimostrare all’altro la sua illimitata accettazione attraverso la condivisione dello stesso destino.

A fronte di episodi di sacrificio, si registrano anche casi di coppie che smettono di vivere completamente qualunque forma di sessualità e di scambio intimo, chiudendosi in un mutismo “sessuale” che è distruttivo, che svilisce la coppia, che finisce in taluni casi per distruggere completamente il rapporto.

Dall’altro lato, è dimostrato che ad alti livelli di adattamento coniugale corrispondono migliori livelli di aderenza alle terapie mediche. È emerso, inoltre, che i soggetti in coppia con un partner sieronegativo presentano livelli di aderenza più alti, a sostegno dell’ipotesi secondo cui, spesso, il partner sano – quando non collude con i bisogni di negazione intensa del partner sieropositivo – assume il ruolo di caregiver nella relazione, avvertendo il bisogno di occuparsi dell’altro e di vivere il proprio amore per l’altro come fattore protettivo nei confronti della malattia. La qualità del rapporto di coppia riveste una notevole importanza nell’adattamento psicologico dei due membri all’interno della coppia sierodiscordante per HIV.
D’altro canto, in letteratura è già documentata l’importanza delle relazioni interpersonali per gli esiti clinici a lungo termine e la qualità della vita dei pazienti con malattie croniche quali, ad esempio, il cancro e il diabete.

Allo stato attuale sono pochi gli studi dedicati al ruolo che i fattori relazionali giocano all’interno dei processi decisionali e/o delle strategie comportamentali adottate dalle persone con infezione da HIV in merito a pratiche preventive – ad esempio l’uso del preservativo – che coinvolgono altre persone che condividono col paziente una relazione affettiva stabile. La valutazione di tali elementi potrebbe fare luce sulle difficoltà specifiche sottostanti all’accettazione della convivenza con il virus, al saper riconoscere i propri desideri, al saper mediare con le paure o gli atteggiamenti iperprotettivi del partner, all’attrezzarsi per evitare il contagio senza rinunciare ad una sessualità soddisfacente, al non abbandonare una dimensione progettuale che consenta di vivere con il partner una prospettiva di futuro a lungo termine.

Le sfide per i clinici sono, quindi, molteplici tra cui: incrementare il livello di accettazione, cura e sostegno psicologico per le persone con HIV; creare tra gli individui una maggiore apertura riguardo HIV/AIDS a livello sia familiare che comunitario; promuovere e incoraggiare l’effettuazione del test e la rivelazione dello stato di sieropositività.

La segretezza, lo stigma, il diniego e la discriminazione che circondano l’infezione da HIV possono essere efficacemente contrastati attraverso una maggiore diffusione della rivelazione della sieropositività che rappresenta un importante obiettivo sanitario, ma soprattutto individuale; la rivelazione deve essere volontaria, rispettosa dell’autonomia e della dignità della persona e deve assicurare la giusta confidenzialità.

De Rosa e Marks hanno rilevato che le percentuali di comunicazione crescono con l’aumentare del numero di incontri con lo psicoterapeuta su questo tema.

Nello studio di Maman e colleghi sono stati gli stessi intervistati a sottolineare il ruolo dello psicoterapeuta nella loro decisione di informare altre persone della propria sieropositività.

Le conseguenze positive della rivelazione sono numerose: le persone intervistate hanno citato un aumentato sostegno e una maggiore accettazione, un rafforzamento dei legami con familiari e amici, la riduzione dell’ansia e dei sintomi depressivi, nonché la semplificazione della vita con l’eliminazione dei sotterfugi nella frequentazione dei centri ospedalieri e nell’assunzione della terapia antiretrovirale, con conseguente maggiore aderenza terapeutica.

Contrariamente alle aspettative, si è evidenziato anche che la comunicazione non è associata alla rottura delle relazioni stabili. Ed è interessante constatare che le conseguenze negative temute solo raramente si sono concretizzate nelle storie di coloro che hanno deciso di comunicare la propria sieropositività.

Tuttavia, approcci ed interventi mirati esclusivamente ad incoraggiare le persone con HIV a rivelarsi ai partner sessuali per ridurre la diffusione del contagio nella comunità non sono sufficienti a ridurre la diffusione del virus, ma piuttosto infondono false sicurezze in coloro che sono negativi e non si sono mai sottoposti al test.

Così come l’inserimento troppo precoce dei pazienti in gruppi di mutuo-aiuto incentrati sui benefici dell’aderenza terapeutica e sull’utilità della rivelazione della propria sieropositività agli altri spesso non ha raggiunto gli obiettivi desiderati ma piuttosto ha favorito l’abbandono del gruppo da parte di alcuni pazienti con specifici bisogni.

La terapia metacognitiva interpersonale con i pazienti sieropositivi

Tra le psicoterapie cognitive di ultima generazione la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha la caratteristica di adattare gli interventi terapeutici alle capacità metacognitive del paziente dedicando grande attenzione alla cura della relazione terapeutica usata come fonte di informazioni e come luogo dove sperimentare per prima le modalità adattative di relazione.

La TMI, sviluppata principalmente per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essi associate, è già stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e di riduzione dello stigma e al caso di un paziente sieropositivo con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza terapeutica ai regimi prescritti.

Questa si basa sull’idea che i pazienti sono guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, delle quali molto spesso non sono consapevoli e che mettono in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani e bisogni. A causa di queste aspettative le persone soffrono ancora prima di entrare in relazione con gli altri oppure compiono azioni che da un lato impediranno loro di realizzare tali desideri, dall’altro non indurranno gli altri a rispondere in modo positivo.

Il paziente teme la critica e l’abbandono (stigma interiorizzato) e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto ed utilizza l’evitamento ed il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma e la condizione di segretezza nonché la costante paura della perdita.

Questa formulazione del caso in TMI è un principio di partenza per creare un piano terapeutico che abbia come scopo iniziale il miglioramento della comprensione di sé ed in seguito il cambiamento dei processi cognitivo-affettivi sottostanti il tratto di personalità. La TMI descrive procedure formalizzate passo dopo passo per arricchire le narrazioni dei pazienti e promuovere la metacognizione fino a quando cominceranno a vedere le proprie descrizioni delle relazioni interpersonali come pattern interiorizzati e non più come riflessi della realtà.

Recentemente alcuni studi hanno rilevato un alto tasso di tratti alessitimici (anche per via dello specifico tropismo del virus) e disfunzioni metacognitive nella popolazione HIV-positiva.

Esempi di atti metacognitivi disfunzionali includono: difficoltà nel descrivere i propri stati interni; difficoltà nel riconoscere le emozioni nel volto degli altri; problemi nella comprensione degli eventi interpersonali e difficoltà nel comprendere le motivazioni sottostanti ai comportamenti.

Un elemento chiave della disfunzione metacognitiva è la scarsa differenziazione, cioè la mancanza di consapevolezza che la propria opinione su se stessi e gli altri è solo un punto di vista, che può cambiare quando le cose vengono osservate da un’altra angolazione. In questo caso il paziente è guidato da aspettative stereotipate riguardo a come comportarsi per raggiungere i propri obiettivi, riguardo a come si comporteranno gli altri e a quale sarà il destino dei propri desideri intimi.

In terapia, quindi, il paziente avrà bisogno di essere aiutato a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza può essere parzialmente vera, ma riflette anche un suo schema in cui si sente costantemente rifiutato e danneggiato, uno schema fondato su memorie di figure di riferimento ingiuste ed episodi traumatici.

La TMI si focalizza sulla promozione della metacognizione utilizzando i seguenti passi:
1) promuovere la consapevolezza delle emozioni; 2) comprendere la causalità psicologica, per esempio come le azioni degli altri evochino una credenza che a sua volta suscita un’emozione e come quell’emozione attivi un comportamento; 3) evocare una serie di episodi associati per promuovere una consapevolezza di pattern stabili e di conseguenza riformulare gli schemi; 4) ottenere una differenziazione da pattern di attribuzione di significato presi come specchio della realtà.

Quando comunicare agli altri la sieropositività

Rivelarsi agli altri può essere realizzabile, se il paziente lo desidera, dopo che paziente e terapeuta hanno percorso i passi sopraelencati e raggiunto una conoscenza dei processi cognitivo-affettivi che determinano la sofferenza.

La decisione di raccontarsi è preziosa per la persona sieropositiva e per le persone significative e non deve essere messa in atto con fretta.

Serovich lo definisce un processo di decision-making diviso in sei passaggi che comprende dilemmi, barriere e decisioni per ognuno di essi. Il primo passo consiste nell’incoraggiare i pazienti a fare una ricognizione circa coloro che fanno parte della loro rete familiare e sociale e del tipo di supporto che ciascuno di essi può offrire. Il secondo sta nell’aiutare a valutare la natura della relazione che hanno con le figure individuate. Il terzo passo prevede la determinazione di qualunque circostanza che potrebbe influenzare la rivelazione, per esempio la capacità di alcuni possibili destinatari dell’informazione di mantenere la segretezza in proposito. Il quarto comprende la riflessione per ogni persona presa in considerazione circa le conoscenze e gli atteggiamenti riguardo HIV. Il quinto consiste nello sviscerare le ragioni per cui è importante comunicare ad alcune persone. Infine, il sesto passo include l’inserimento di tutte le persone identificate come potenziali destinatari in tre categorie: coloro da informare per primi, coloro da informare in un secondo momento, coloro per i quali è preferibile aspettare e vedere.

Molto utile, a questo punto del percorso terapeutico, può rivelarsi l’utilizzo di tecniche di Skills Building che aiutano a costruire e rinforzare capacità e strumenti necessari per adottare e mantenere comportamenti coerenti con il proprio desiderio di salute e che proteggano gli altri dal contagio.

Un modello di psicoterapia incentrato sulla relazione terapeutica in HIV e con interventi adattati alle capacità metacognitive dei pazienti sarebbe una pratica sanitaria necessaria a determinare il miglioramento di molteplici outcomes. In particolare, la disponibilità di programmi centrati sul paziente e sulle sue sofferenze relazionali incrementerebbe: 1) l’azione di vigilanza e prevenzione dell’epidemia e dei rischi secondari HIV correlati; 2) l’adesione alle cure mediche ed alle pratiche di cura ad esse correlate; 3) l’utilizzazione ed il mantenimento di una rete di supporto sociale.

L’infezione da HIV ha una declinazione relazionale per eccellenza, in quanto è nell’ambito della relazione sessuale che essa si trasmette e si diffonde. Inoltre è nell’acquisizione e nel mantenimento di comportamenti, da contrattare e gestire necessariamente all’interno di una relazione, che essa si previene e/o si cura. La persona sieropositiva ha una forte necessità di adottare comportamenti che contribuiscano notevolmente alla determinazione della qualità della vita e forniscano la costruzione di nuclei relazionali stabili che svolgono una forte azione di motivazione verso l’accettazione di malattia, l’adozione od il mantenimento di pratiche di sesso sicuro per sé e per gli altri, la gestione e l’aderenza alla terapia” (Starace).

 

Ai miei occhi (2016) di Donna L’ary – Recensione del libro

Ai miei occhi è un libro che parla al cuore e lo fa in una maniera particolare, usando l’ espressione artistica come linguaggio, prediligendo cosi il canale percettivo visivo, e favorendo una comprensione del vissuto interno della protagonista molto più impressionistico che intellettuale.

 

La traduttrice de Ai miei occhi, Marina Pompei, propone con quest’opera al pubblico italiano un lavoro pubblicato in Francia con il titolo appunto À mes yeux: Ai miei occhi. Il testo originale, che viene riportato anche in questa edizione, è una raccolta di tavole che riproducono i quadri dipinti da una giovane artista il cui pseudonimo è Donna L’ary. I quadri sono infatti un “moto terapeutico” che ha permesso a Donna di esprime l’indicibile attraverso la forma artistica. I suoi lavori sono un viaggio attraverso l’angoscia derivante dagli abusi subiti in tenera età ed il percorso che l’ha portata all’elaborazione di tale tragedia.

Ai miei occhi: come il trauma viene vissuto nella mente e nel corpo

Il libro Ai miei occhi si divide in due parti, nella prima sono riportate tutte le tavole con i commenti della sua autrice e nella seconda parte, Marina Pompei ci propone una lettura in chiave analitica e neurofisiologica del trauma che l’abuso lascia nel corpo e nella mente di chi lo subisce.

Le tavole sono di grosso impatto visivo ed hanno un forte potere evocativo circa il mondo interno di questa giovane ragazza. I colori, le forme, i tratti danno vita all’angoscia che diventa quasi tangibile nell’esperienza visiva che il lettore può fare. Osservando i disegni si potrà fare esperienza dei vissuti di rabbia, d’impotenza e dolore della giovane Donna. In alcune tavole la dissociazione dal corpo, che un’esperienza cosi drammatica porta con se, è estremamente evidente e più esplicativa di qualsiasi parola.

Trattandosi d’immagini e non di parole, rimando alla curiosità di chi si avvicinerà a questa lettura tutti i commenti a ciò che queste opere richiamano, lasciando all’intimità delle proprie percezione le conclusioni.

Nella seconda parte di Ai miei occhi la dott.ssa Marina Pompei ci offre un chiaro e fluente commento interpretativo del percorso di Donna L’ary. È molto interessante il lavoro che l’autrice fa attraverso il suo commento, creando un link che partendo dall’analisi delle immagini raffigurate nelle tavole si connette con il vissuto corporeo e il sottostante funzionamento neurofisiologico.

Nell’esposizione vengono affrontati i temi della dissociazione, dell’impotenza e delle conseguenze che queste esperienze generano nel profondo di chi ne è vittima. Nel corso della lettura di Ai miei occhi vengono fatti riferimenti agli approcci psicocorporei che possono essere un valido supporto al processo di “guarigione” analizzando il contributo della vegetoterapia, dell’ EMDR, della psicoterapia sensomotoria e delle tecniche di somatic experiencing. Infine l’opera si conclude con il confronto dell’esperienza di Donna L’ary  con l’opera di Rembrandt Il suicidio di Lucrezia.

Per concludere, il libro Ai miei occhi nella sua brevità ed essenzialità è un modo di entrare nell’esperienza psichica ed emotiva di quelle persone che portano i segni di violenze subite in un’epoca in cui non erano in grado di mentalizzare tali avvenimenti, offrendo così ai terapeuti la possibilità di crearsi un immagine e un’idea del mondo interno di chi spesso si rivolge a loro.

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