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I sette geni dell’insonnia: le cause biologiche della mancanza di sonno

Un nuovo studio ha mostrato come anche l’insonnia possa avere una causa genetica. Un team di ricercatori, guidato dai professori Danielle Posthuma, Vrije Universiteit (VU) di Amsterdam e Eus Van Someren, dell’Istituto Olandese di Neuroscienze, avrebbero individuato i fattori genetici della mancanza di sonno.

 

Le cause genetiche dell’insonnia

Molti di noi, ad un certo punto della vita, hanno avuto problemi di insonnia ed è noto quanto sia difficile superarla. Più pensiamo a dormire, più è difficile addormentarsi. L’insonnia è spesso una battaglia con le nostre menti. La National Sleep Foundation la definisce come la difficoltà ad addormentarsi o incapacità di dormire nonostante l’organismo ne abbia il reale bisogno fisiologico.

Ma oltre alla lotta psicologica, ci sono anche cause genetiche?

Un nuovo studio ha mostrato come anche l’insonnia possa avere una causa genetica. Un team di ricercatori, guidato dai professori Danielle Posthuma, Vrije Universiteit (VU) di Amsterdam e Eus Van Someren, dell’Istituto Olandese di Neuroscienze, avrebbero individuato i fattori genetici della mancanza di sonno.

A tal fine, i ricercatori hanno condotto uno studio di associazione genome wide (GWAS), che prevede un’indagine di tutti i geni di diversi individui di una particolare specie per determinare le variazioni geniche tra gli individui in esame. In seguito si tenta di associare le differenze osservate con alcuni tratti particolari, ad esempio un disturbo o una malattia.

I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Genetics, dimostrano che l’insonnia condivide il patrimonio genetico con altri disturbi. In questo studio, gli scienziati hanno eseguito queste analisi genetiche in 113.006 persone, trovando così sette geni.

La più forte associazione genetica con l’insonnia è stata nella “sindrome delle gambe senza riposo”. La sindrome delle gambe senza riposo è caratterizzata dalla impellente necessità di effettuare movimenti frequenti degli arti inferiori. Altre condizioni le cui basi genetiche si sovrappongono a quelle dell’insonnia sono: disturbi d’ansia, depressione e nevroticismo.

Questa è una scoperta interessante, perché questi disturbi tendono ad andare di pari passo con l’insonnia. Ora si può affermare che ciò è dovuto in parte alla base genetica condivisa.

Lo studio ha anche identificato differenze genetiche tra i sessi. Il Prof. Posthuma spiega come sia stata trovata una differenza tra uomini e donne in termini di prevalenza: nel campione studiato, della quale facevano parte principalmente persone di età superiore ai 50 anni, il 33 per cento delle donne ha riferito di soffrire di insonnia, mentre per gli uomini questa percentuale scende al 24 per cento.

 

Ruminazione ed evitamento esperienziale nell’anoressia come fattori di mantenimento: quali strategie terapeutiche adottare?

Una recente concettualizzazione dell’ anoressia nervosa considera le preoccupazioni riguardanti cibo, peso e corpo come una ruminazione specifica del disturbo, focalizzata sul controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporee, piuttosto che un’esperienza di ampio significato emotivo (Park et al. 2011). Questo suggerirebbe che la ruminazione giochi un ruolo importante nel mantenimento dell’anoressia, in quanto l’esclusivo focus mentale su cibo e alimentazione potrebbe associarsi ad un’emotività meno rilevante.

Ruminazione ed evitamento: i fattori di mantenimento dell’anoressia nervosa

L’assenza di trattamenti evidence-based per il trattamento dell’anoressia nervosa in tarda adolescenza ed età adulta è uno dei maggiori problemi nel campo dei disturbi alimentari. Sebbene le terapie familiari abbiano mostrato buoni risultati nel trattamento di giovani adolescenti, questo approccio è solitamente raccomandato per soggetti entro i 17 anni. Alcuni studi identificano la terapia cognitivo comportamentale (CBT) come trattamento utile nel prevenire ricadute tra i soggetti anoressici che hanno raggiunto il normopeso. Tuttavia, alcune ricerche mostrano che la CBT non sia il trattamento di elezione nel trattamento degli individui sottopeso ( Carter et al., 2009; Pike et al., 2003; McIntosh et al., 2005).

Per poter sviluppare trattamenti efficaci sembra indispensabile identificare gli elementi centrali che alimentano e mantengono il disturbo di anoressia nervosa.

La ruminazione è una strategia di evitamento cognitivo che si ritrova in molti disturbi psicologici e psichiatrici. Viene definita come una forma negativa di attenzione focalizzata su di sé, caratterizzata da passività. E’ una modalità di pensare improduttiva, in cui le problematiche presenti vengono analizzate in modo grossolano, globale e catastrofico, che quindi non consente la predisposizione di un piano di risoluzione e azione concreto.
Si rileva con elevata frequenza negli stati depressivi, dove la ruminazione prende la forma di pensieri sulle cause, sui sintomi e sulle conseguenze del proprio stato depressivo, inferendo con l’esperienza diretta di informazioni emotivamente rilevanti e con l’adozione di risposte efficaci.

I criteri diagnostici dell’anoressia nervosa evidenziano il ruolo svolto dalla preoccupazione rispetto al cibo, al peso e alle forme corporee nell’esordio e mantenimento del disturbo. Gli studi comportamentali e di neuroimaging sostengono questo concetto, dimostrando che i soggetti con attuale o trascorsa anoressia nervosa mostrano dei bias attentivi ed un’elevata vigilanza agli stimoli relativi all’alimentazione e al corpo (Brooks et al., 2011; Giel et al., 2011)

Una recente concettualizzazione dell’anoressia nervosa considera le preoccupazioni riguardanti cibo, peso e corpo come una ruminazione specifica del disturbo, focalizzata sul controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporee, piuttosto che un’esperienza di ampio significato emotivo (Park et al. 2011). Questo suggerirebbe che la ruminazione giochi un ruolo importante nel mantenimento dell’anoressia, in quanto l’esclusivo focus mentale su cibo e alimentazione potrebbe associarsi ad un’emotività meno rilevante. Dal momento che i soggetti con anoressia nervosa tendono ad evitare le esperienze emotive e hanno difficoltà nel tollerare le emozioni, l’effetto “collaterale” della ruminazione, che occupa totalmente la loro attività cognitiva, impedendo l’accesso a contenuti emotivi, può agire da rinforzo positivo, mantenendo il disturbo alimentare (Hambrook et al.,2011).

Anche gli altri sintomi dell’anoressia (come i comportamenti di compensazione e l’eccessivo esercizio fisico) vengono visti come elementi facilitanti l’evitamento emozionale, in quanto, da un lato, prevengono l’insorgere di emozioni negative e, dall’altro, riducono l’intensità e la durata delle reazioni emotive.

La mindfulness per il trattamento della ruminazione e dell’evitamento

La controparte adattiva della ruminazione e dell’evitamento esperienziale è la mindfulness, definita come la capacità di entrare in contatto con il momento presente in maniera accettante e non giudicante. Questa modalità alternativa di prestare attenzione alle informazioni relative al corpo e al sé potrebbe essere parte fondamentale del processo di guarigione dall’anoressia nervosa. Già precedenti ricerche mostrano una relazione inversa tra mindfulness e pensieri correlati al disturbo alimentare (Lavender et al., 2011). Si ricorda che le pratiche mindfulness sono state incorporate tra le terapie cognitivo comportamentali di terza generazione, come la Emotion Acceptance Behaviour Therapy (Wildes et al., 2010), la Dialectical Behaviour Therapy (Palmer et al., 2003), e la Mindful Eating o Mindfulness Based Eating Awareness Training (Kristeller et al., 2010).

Il trattamento della ruminazione, considerato parte integrante del processo di trattamento dell’anoressia nervosa, dovrebbe prevedere lo sviluppo di uno stile cognitivo più adattivo e accettante, o una modalità esperienziale della mente, che possa ridurre l’evitamento cognitivo associato con la psicopatologia del disturbo alimentare e implementare tratti mindfulness nel corso del tempo. A sostegno di queste ipotesi, è stato dimostrato che classi di yoga e movimenti mindfully, possono incrementare la mindfulness e ridurre l’evitamento e la psicopatologia del disturbo alimentare (Carei, Breuner, & Fyfe-Johnson, 2007; Rawal et al., 2009; Wildes et al., 2010).

In aggiunta, vi sono iniziali prove di evidenza a sostegno di altri interventi psicoterapeutici di terza generazione, come l’uso della Dialectical Behavior Therapy o dell’Emotion Acceptance Behaviour therapy, che combinano interventi comportamentali standard con tecniche di consapevolezza emotiva al fine di ridurre l’evitamento esperienziale, che potrebbero rivelarsi utili strumenti nel trattamento dell’anoressia nervosa (Palmer et al., 2003;Wildes et al., 2010).

Identità sessuale: definizione e analisi tra natura vs cultura

L’ identità sessuale descrive la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati, ed è l’esito della complessa interazione tra aspetti bio-psico-socio-culturali (Bancroft, 2009). L’ identità sessuale è vista come un costrutto multidimensionale da Shively e De Cecco (1977) come da numerosi altri autori, che ne distinguono quattro componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Giulio Gambino 

 

Già prima della nascita, per molti genitori, il sesso del nascituro, sembra essere il “mistero” più importante da svelare. Si configura con la domanda più gettonata, tipica di qualsivoglia parente, amico, conoscente e perfino sconosciuto, che con aria incuriosita, con fierezza e voce squillante, guarda il pancione e domanda: ma è maschio o femmina?

Fin dal 400 a.C. Platone nel suo Il Convivio s’interrogava sul tema dell’identità e sugli elementi maschili e femminili presenti in ogni essere umano (Turolla, 1953). Esiste un bisogno profondo degli esseri umani di comprendere meglio questa componente della personalità che, a prima vista, può sembrare semplice nella sua divisione polarizzata maschio e femmina, ma che invece, attraverso un esame più profondo e articolato, evidenzia confusione e ambiguità.

L’ identità sessuale

Interrogarsi sull’ identità sessuale vuol dire porsi di fronte alla domanda sul proprio essere maschi o femmine (Batini, 2011).

La sessualità non può essere considerata come un’entità a sé stante, ma va inquadrata nel contesto biopsicosociale della personalità come ha dimostrato la psicoanalisi che, attraverso la scoperta delle sue origini nell’infanzia, ne ha sottolineato da un lato il significato centrale nello sviluppo umano, dall’altro ha dimostrato i rapporti tra disturbi sessuali e sessualità normale (Freud, 1905). Inoltre Freud già nel 1920 teorizzò la presenza di tre ordini di fattori nella sessualità: le caratteristiche sessuali, fisiche e psichiche e il tipo di scelta oggettuale (Freud, 2008).

Le classificazioni più recenti rintracciano nella componente psicologica un elemento interno denominato identità di genere ed un elemento esterno denominato comportamento sessuale. Nell’articolazione di quattro fattori principali si sostanzia la sessualità, tali fattori, detti psicosessuali, sono allo stesso tempo collegati e distinti tra loro: identità sessuale, identità di genere, orientamento sessuale e comportamento sessuale (Giberti & Rossi, 2004).

L’ identità sessuale descrive la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati, ed è l’esito della complessa interazione tra aspetti bio-psico-socio-culturali (Bancroft, 2009).

L’ identità sessuale è vista come un costrutto multidimensionale da Shively e De Cecco (1977) come da numerosi altri autori (Rosario, Schrimshaw, Hunter, & Braun, 2006; Worthington, Navarrom Savoy, & Hampton, 2008) che ne distinguono quattro componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Sesso biologico

Il sesso biologico viene determinato dalle caratteristiche fenotipiche che contraddistinguono la funzione riproduttiva degli individui: organi sessuali interni e esterni e i livelli ormonali, tra maschi e femmine (Giannini Belotti, 1980). Il sesso genotipico ha origine dall’intreccio dei cromosomi XY e XX, dando vita a una femmina o un maschio. Quando i cromosomi dell’embrione non sono specificatamente definiti come maschile o femminile, si parla di intersessualità. È necessario differenziare i soggetti intersessuali dagli ermafroditi che Batini (2011) definisce come “soggetti che possiedono genitali esterni fisiologici sia maschili che femminili” (p. 58).

I cromosomi determinano l’appartenenza biologica al sesso femminile o al sesso maschile: la coesistenza di due cromosomi X dà vita a una femmina, la presenza di un cromosoma X e un cromosoma Y dà vita a uno maschio (Ruspini, 2004).

Il sesso è determinato dall’uomo attraverso gli spermatozoi: gli androspermi, forniti di un cromosoma Y e i gimnospermi, forniti di un cromosoma X (Giannini Belotti, 1980).

Le fasi dello sviluppo del sesso biologico vedono:

La presenza di bipotenza sessuale degli embrioni, fino alla sesta settimana dopo il concepimento.
Dalla settima settimana avviene la diversificazione sessuale causata dalla presenza o assenza del cromosoma Y: se è presente, le gonadi si svilupperanno in testicoli dando origine agli organi sessuali maschili, se è assente, le gonadi si svilupperanno in ovaie originando gli organi sessuali femminili.

Lo sviluppo dei testicoli permetterà la secrezione di ormoni sessuali, in grado di completare lo sviluppo degli organi sessuali interni e esterni e se l’embrione non compirà tale funzione, rimarrà femminile anatomicamente (Ruspini, 2004).

Migeon et all. (2002) elaborano il modello del sesso biologico pensandolo come frutto dell’interrelazione di varie componenti: sesso cromosomico, sesso gonadico, sesso fenotipico, sesso dei genitali esterni, sesso ormonale e sesso cerebrale:

  • Sesso cromosomico: ha origine genetica e consiste nei cromosomi sessuali e geni tramandati dai genitori, determina il genotipo sessuale del feto, 46,XX femmina, 46,XY maschio, o intersessuale.
  • Sesso gonadico: è determinato dalla presenza del gene SRY del cromosoma Y. Le gonadi dapprima bipotenti, tramite l’azione del gene SRY si trasformano in testicoli e se assente come ovaie.
  • Sesso fenotipico: consiste nella presenza o assenza dei caratteri secondari, dei genitali esterni, e l’aspetto esteriore dell’individuo.
  • Sesso dei genitali interni: è determinato dalle gonadi e dai canali a essi collegati. I dotti Mulleriani originano le tube di Falloppio, l’utero e la porzione posteriore della vagina. I dotti di Wolf originano l’epididimo, i vasi deferenti e la vescicola seminale.
  • Sesso ormonale: è determinato dal rilascio di ormoni LH e GnRH dall’ipotalamo che agiscono sulle gonadi. Queste sintetizzano gli ormoni in estrogeni o androgeni, determinando lo sviluppo dei tessuti in femminile o maschile.
  • Sesso cerebrale: consiste nelle differenze anatomiche tra cervello maschile e cervello femminile in merito ai circuiti nervosi, comportamenti, capacità cognitive.

Allen, Richey, Chai & Gorsky (1991), hanno riscontrato che le capacità cognitive potrebbero essere influenzate dal corpo calloso, ovvero un fascio di nervi che collega gli emisferi, in quanto nei due sessi si presenta con forma differente.

Identità di genere

Batini (2011) offre una definizione di identità di genere intendendola come: [blockquote style=”1″]la relazione che un individuo ha con il proprio essere biologico, ovvero a come l’individuo si sente e si percepisce rispetto al proprio sesso biologico, adeguato o inadeguat[/blockquote]o (p. 21).

Il termine identità di genere è stato coniato ed usato nel linguaggio di ogni giorno dal sessuologo John Money et al. (1972) e dallo psicoanalista Robert Stoller (1968).

Stoller lavorava presso l’University of California e le sue ricerche lo portarono verso la formazione di un gruppo di lavoro psicoanalitico sull’identità di genere, dando un sostanziale contributo alla diffusione e all’espansione del termine nella psicoanalisi e nelle scienze sociali. Stoller affronta più attentamente le questioni attinenti a sesso, genere, ruolo e identità, evidenziando la peculiare distinzione tra sesso e genere, dove il sesso fa riferimento alla dimensione corporea, il genere invece lo colloca tra lo psichico e il culturale, in una posizione che potenzialmente non dipende dal sesso biologico ma dalla somma di elementi mascolini e femminini (Stoller, 1968; 1975). Stoller introdusse inoltre il termine identità di genere nucleare e lo considerò come prodotto della relazione bambino-genitore intendendo “il senso che abbiamo nel nostro sesso, di essere maschio nei maschi e di essere femmina nelle femmine” (Stoller, 1979, p.53). L’ identità di genere nucleare la descrisse come una struttura psichica non passibile di cambiamento dopo i 2 o 3 anni e derivata dal sesso in cui i bambini erano stati educati (Stoller, 1964). In seguito aggiunse che mentre l’identità di genere continua a svilupparsi in maniera intensa almeno fino alla fine dell’adolescenza, l’identità di genere nucleare è pienamente raggiunta prima che sia stata raggiunta la fase fallica (Stoller, 1979).

Stoller ha messo in evidenza, attraverso dati osservativi e clinici, che quando gravano aspettative non compatibili delle diverse figure di accudimento sul bambino, questo si sviluppa in un mondo di spinte conflittuali che influenzano il suo ruolo di genere e, in situazioni gravemente patogene, la sua identità di genere (Stoller, 1964).

Money lavorava presso la Johns Hopkins University a Baltimora, Maryland, USA e le sue ricerche erano incentrate prettamente sullo sviluppo psicosessuale dei bambini con anomalie cromosomiche, disturbi endocrini e ambiguità genitali. Money indicava con identità di genereil senso di se stesso, l’unità e la persistenza della propria individualità maschile e femminile intesa come esperienza di percezione sessuata di se stessi e del proprio comportamento” (Money & Ehrhardt, 1972, p.4).

L’identità di genere è uno degli elementi fondamentali del processo di costruzione dell’ identità sessuale e personale, un processo dinamico, malleabile, negoziabile, influenzato dalla cultura d’appartenenza, che determina un modo di vedere se stessi in relazione alla società. L’assegnazione ad una precisa categoria di genere avviene attraverso l’aspetto degli organi sessuali esterni che determinano sin dalla nascita il parametro su cui si basa l’assegnazione al sesso biologico. La categoria sessuale agisce sulla costruzione e sull’apprendimento dell’identità di genere: se il nascituro possiede gli organi sessuali femminili, crescerà come bambina, se possiede gli organi sessuali maschili, crescerà come bambino (Ruspini, 2004). Inoltre altri importanti elementi che determinano l’identità di genere sono i fattori culturali e sociali (Kessler, 1996).

Infatti, Ruspini (2004) ritiene che:

[blockquote style=”1″][…] per definire l’essere femminile o l’essere maschile, non è sufficiente l’appartenenza sessuale. La femminilità e la maschilità non sono esclusivamente stabilite dalle caratteristiche fisiche e biologiche, ma rivestono una fondamentale importanza la cultura e l’educazione. La costruzione dell’ identità sessuale si avvia attraverso l’assegnazione ad una precisa categoria sessuale in base all’aspetto dei genitali esterni come maschio o femmina. Tale riconoscimento è la genesi sulla quale andrà ad innestarsi il processo di apprendimento dell’identità di genere[/blockquote] (p. 88).

Il processo di apprendimento dell’identità di genere si attiva ed è determinato sulla base anatomica: ciò avviene mediante la sollecitazioni, imposte dalla cultura, dei comportamenti tipici e caratteristici dei ruoli di maschio e femmina, generando affetti, spinte emotive, e la percezione di appartenere a un genere piuttosto che all’altro. (Ruspini, 2004). I fattori biologici non sono gli unici indicatori che determinano l’appartenenza alla categoria uomo o alla categoria donna, ma esistono anche fattori sociali e culturali che determinano modi di essere tipici del sesso maschile e del sesso femminile. I bambini sin da piccoli vengono incoraggiati ad assumere comportamenti diversi in base al loro sesso biologico: imparano a dialogare, comportarsi e camminare nei modi tipicamente accettati dalla cultura di appartenenza (Lorber, 1994). L’atteggiamento dei genitori deriva dalle percezioni socialmente e culturalmente apprese, regalando giocattoli differenti, quali bambole e trucchi, alle femminucce, e automobili e costruzioni ai maschietti.

I genitori inoltre, tenderanno a spingere i figli verso ogni tipo di attività tipicamente e socialmente adeguata al genere, influendo nel processo di acquisizione dell’identità in quanto dipendente in parte dal ruolo di genere (Ruspini, 2004).

Cohen-Kettenis & Pfaffin (2003) mettono in evidenza il ruolo degli adulti che si pongono in modo differente di fronte ai bambini e alle bambine, incoraggiando e influenzando proporzionalmente le attività tipiche del sesso al quale si appartiene.

Alla fine del primo anno, nella reciproca interazione sociale tra bambino e famiglia, mascolinità e femminilità sembrano ben stabilite. Si osserva che tra il primo e il secondo anno i genitori rinforzino quei comportamenti che considerano opportuni e appropriati al ruolo sessuale del bambino e questo li apprende indipendentemente da qualsiasi motivazione interna. E infine, Lichtenberg (1989) sottolinea che tra i diciotto e i ventiquattro mesi, l’identità di genere è probabilmente stabilita in maniera salda e immutabile e a partire dai tre anni i bambini sviluppano guide interne per seguire il range di comportamenti precedentemente rinforzati.

Ruolo di genere

Volendo fornire una definizione di ruolo di genere, riprendiamo il pensiero di Batini (2011) il quale sostiene che:

[blockquote style=”1″][…] il ruolo di genere consiste nelle aspettative della società rispetto ai comportamenti appropriati di un uomo e una donna, ovvero tutto ciò che un uomo e una donna fa per manifestare nelle relazioni il proprio livello di mascolinità e femminilità[/blockquote] (p. 89).

A partire dall’insieme dei comportamenti e degli atteggiamenti tipici dell’essere uomo o essere donna, si definisce il ruolo di genere. I comportamenti e gli atteggiamenti suddetti strutturano le modalità relazionali e le percezioni delle sensazioni generate negli altri individui. Il processo di apprendimento del ruolo di genere si consolida tra i tre e sette anni, configurandosi come fase in cui bambini e bambine acquisiscono la conoscenza di ciò che è tipicamente maschile e femminile (Batini, 2011).

Come sostiene Priulla (2013):

[blockquote style=”1″]I ruoli sociali hanno retaggi antropologici legati alla biologia umana, alla struttura fisica e alla funzione generatrice femminile come agli ideali patriarcali dalla quale discende la culturale contemporanea. La divisione dei ruoli non avviene coscientemente. […] tutti coloro i quali non rispettano i ruoli sanciti dall’appartenenza al proprio sesso vengono stigmatizzati.[/blockquote] (p.35)

Money (1994) metteva in relazione l’identità di genere con il ruolo di genere affermando che fossero le due facce della stessa medaglia. Secondo il sessuologo il ruolo di genere è “ciò che una persona dice o fa per indicare il suo status di ragazzo o uomo, o di ragazza o donna” (Money, 1994, p.22). Continua affermando che “nel linguaggio teatrale, il ruolo di genere non è semplicemente un pezzo di carta presentato da un attore, ma un ruolo incorporato nell’attore, il quale, trasformato da questo, lo incorpora e lo manifesta attraverso se stesso” (Money, 1994, p.24).

L’identità di un soggetto è definita dal ruolo di genere e da ciò che la società e la cultura d’appartenenza ritiene adeguato per maschi e femmine. La donna è sempre stata considerata nel suo ruolo di madre e di cura della prole, l’uomo dal ruolo professionale e dallo status economico. La società impone, sulla base dei valori culturali, degli atteggiamenti e dei comportamenti adeguati al genere maschile o femminile (Priulla, 2013).

L’individuo che non si stabilizza in base ai ruoli decisi dalla società ed appartenenti al proprio sesso è a rischio stigmatizzazione. Tale rischio si pone in relazione alla cura del proprio corpo, alla modalità con cui il soggetto si relaziona al sesso opposto nonché al proprio orientamento sessuale (Priulla, 2013).

ncora oggi quando si parla di ruolo di genere ci si riferisce a modi, comportamenti e tratti di personalità che la società, la cultura ed il periodo storico ha stabilito come mascolini o femminini (Zucker, 2002).

Money (1972) affermava che l’identità di genere è l’esperienza privata del ruolo di genere mentre il ruolo di genere è l’espressione pubblica dell’identità di genere.

Il ruolo di genere è trattato come un surrogato delle cognizioni sociali che modificano in modo casuale i comportamenti. Tutto questo ha un enorme impatto per gli individui con identità di genere incerte, in quanto ha avuto sostanziali implicazioni a livello del trattamento: se il sesso fosse considerato la base naturale, allora la psicoterapia avrebbe dovuto aiutare i pazienti ad accettare la propria natura; se invece fosse stato considerato il genere come base naturale, allora il trattamento per la riassegnazione del sesso sarebbe stato possibile (Pfafflin, 2011).

Durante lo sviluppo, il bambino acquisisce l’abilità di riconoscere il genere sessuale che si pone come base fondamentale nello sviluppo del ruolo di genere. I bambini pongono in essere i comportamenti sessuali tipici solo dopo aver compreso l’irreversibilità del proprio sesso, che viene denominato costanza di genere (Kohlberg, 1966).

Nell’economia di questo lavoro è utile sottolineare e tenere presente che, a livello squisitamente psicopatologico, il disagio derivante dall’incongruenza tra la propria identità sessuale e il sesso assegnato alla nascita viene indicato con l’espressione: disforia di genere (Steensma, Biemond, Boer, & Cohen-Kettenis, 2011).

La costanza di genere si sviluppa attraverso diverse fasi. Dapprima il bambino comincia a riconoscere il proprio sesso e quello degli altri, poi perviene all’idea che il genere è stabile nel tempo ed infine si rende conto che il genere sessuale è permanente e non dipende da aspetti apparenti o dalle attività che si praticano (Slaby & Frey, 1975).

Weinraub et al. (1984) ha rilevato che gli atteggiamenti del padre verso la madre, influiscono sulle attività scelte dal bambino e nello sviluppo del suo ruolo di genere.

Fagot (1978) non trovò alcuna relazione tra rinforzo da parte del genitore di fronte a comportamenti tipicamente maschili e femminili e la messa in atto di tali in bambini di due anni, ma trovò una forte relazione tra la comprensione delle etichette da parte del bambino e la reazione dei genitori a comportamenti sessuali tipizzati, evidenziando inoltre una relazione tra la comprensione delle etichette di genere da parte del bambino e l’adozione di ruolo di genere. Fagot inoltre affermava che la costruzione dello schema di genere riflette non solo il ruolo inteso come comportamento, ma anche gli aspetti prettamente cognitivi e la sfera affettiva ricevuta dall’ambiente familiare.

Orientamento sessuale

L’orientamento sessuale, scrive Batini (2011):

[…] [blockquote style=”1″]si riferisce all’attrazione affettiva e sessuale da parte di un individuo verso altri individui che possono essere del suo stesso sesso, del sesso opposto o di entrambi. In relazione al proprio orientamento sessuale le persone vengono etichettate come eterosessuali, quando si è attratti dall’altro genere rispetto alla propria identità sessuale, omosessuale, quado si è attratti dallo stesso genere rispetto alla propria identità di genere e infine bisessuale, quando si è attratti da entrambi i generi[/blockquote] (p. 95).

L’American Psychological Association (2008) definisce l’orientamento sessuale come la tendenza stabile a sentirsi attratto dal punto di vista affettivo-emozionale, sentimentale e sessuale verso uno o più sessi. Si individuano, inoltre, orientamenti sessuali diversi dall’eteronormatività sociale, finalizzata alla sopravvivenza della specie attraverso l’atto riproduttivo, ovvero l’omosessualità e la bisessualità.

L’eterosessualità viene considerata normale e generalmente sostenuta dalla cultura dominante, istituzionalizzandola come unico orientamento sessuale socialmente riconosciuto e incoraggiando i giovani a plasmarsi in tale direzione.

Le persone che si sono considerate eterosessuali possono percepire, durante la vita, un cambiamento di rotta sentendosi attratti da individui dello stesso sesso, modificando il proprio orientamento sessuale da etero a omosessuale o bisessuale, se attratti da individui di entrambi i sessi. Quindi, l’orientamento sessuale di ciascun individuo, mutando anche più volte nel corso della vita, si deve considerare come un processo di costruzione dinamico non immutabile che si verifica nel corso di tutta l’esistenza (Ruspini,2004).

L’APA (2008) afferma che sarebbe alquanto semplicistico ridurre orientamento sessuale su un continuum che va dall’eterosessualità all’omosessualità passando per la bisessualità. Sarebbe più corretto considerare l’orientamento sessuale come un costrutto multidimensionale in cui convergono molti fattori: comportamento sessuale, attrazione, fantasie sessuali, preferenze sociali ed emotive, autoidentificazione e stile di vita (Klein, 1993). Questo significa che possono esistere differenze tra le fantasie e i comportamenti o tra innamoramento e attrazione. Graglia (2009) afferma che ci si può eccitare davanti scene omosessuali, ma infine innamorarsi solo di persone dell’altro sesso.

Parlando dei fattori determinanti l’orientamento sessuale non esiste una spiegazione scontata, si deve lasciare il territorio del sesso genetico-biologico-fisiologico per addentrarsi nel territorio del sesso culturale-sociale-storico-linguistico e cioè come ogni cultura, in un determinato momento storico, organizzi e costruisca i significati relativi all’appartenenza al sesso maschile o femminile (Foucault, 1978).

Graglia (2009) prova a concettualizzare l’orientamento sessuale tramite una metafora: “[blockquote style=”1″]l’orientamento sessuale può essere rappresentato come una bussola che indica la direzione sentimentale e erotica; chi è portato verso persone del proprio sesso, come chi è portato verso persone dell’altro sesso, può scegliere se contrastare questa direzione e con quale modalità farlo, se comunicare tale direzione ad altri, ma non può scegliere la specifica direzione della bussola[/blockquote]” (p. 20).

L’orientamento sessuale di gay, lesbiche e bisessuali quando è considerato come deviante, conduce verso il campo delle stereotipie e dei processi di stigmatizzazione. L’ostilità nei confronti di coloro i quali “deviano”, deriva infatti dalle credenze eteronormative che impongono la visione dell’eterosessualità come l’unico atteggiamento accettato e accettabile. La considerazione negativa nei confronti di gay, lesbiche e bisessuali causano la diffusione di miti per nulla fondati e scarsi di verità, come quelli che vedono gli omosessuali solamente giovani o di mezza età, principalmente intenti alla cura della loro bellezza e con redditi elevati, quando in realtà esiste anche una moltitudine di omosessuali anziani, di omosessuali con basso reddito e omosessuali che non curano spasmodicamente la loro bellezza. (Anderson, & Taylor, 2004).

Attualmente vengono distinti specificatamente l’orientamento sessuale e l’ identità sessuale. Quest’ultima viene intesa secondo l’accezione del riconoscimento e internalizzazione del proprio orientamento sessuale, comprendendo quindi vari elementi come l’autoconsapevolezza, l’autoetichettatura, il sentirsi parte di un gruppo e di una cultura, l’accettazione, l’auto-stigmatizzazione, con importanti conseguenze sulla presa di decisione nella formazione di supporto sociale, modelli di ruolo, amicizie e rapporti interpersonali di vario genere (American Psychological Association, 2012; Kinnish, Strassberg & Turner, 2005; Morris, 1997).

L’orientamento sessuale non può dunque essere concepito in maniera lineare, ma più come una mappa personale in cui le dimensioni considerate si compongono in modo del tutto soggettivo (Kinnish, Strassberg, & Turner, 2005; Le Vay, 2015).

Categorizzazione dicotomica del sesso biologico

Nella società Italiana l’ identità sessuale, intesa nella concezione di sesso biologico, è vista come una caratteristica molto importante e basilare per descrivere primariamente ogni essere umano. L’interpretazione che facciamo della realtà si basa non solo sulla percezione che abbiamo di ciò che ci circonda, ma anche sulle categorizzazioni che abbiamo precedentemente generato dell’ambiente (Hampton, 2000).

La mente umana è protesa a cercare scorciatoie per avvicinarsi di più al principio del risparmio energetico, decodifica e classifica i nuovi eventi e le nuove informazioni con categorie mentali prestabilite, culturalmente e socialmente apprese. Ognuno percepisce ciò per cui è preparato o predisposto a percepire. La cosiddetta euristica della disponibilità ci spiega come la nostra mente non tenda a costruire nuove forme mentali per ogni nuova informazione, ma tenda a utilizzare forme mentali già precedentemente esistenti per l’interpretazione e la percezione delle nuove informazioni. Anche l’euristica della rappresentatività aiuta la mente a trovare scorciatoie per classificare eventi, oggetti ed individui, impiegando stereotipi e somiglianze. In altri termini, tendiamo a valutare un nuovo evento sulla base di esempi concreti simili che ci vengono in mente (Kahneman, 2012).

Le categorie, che costituiscono la nostra forma mentis, costruite sulla base delle esperienze pregresse, tendono ad essere piuttosto rigide, poco duttili, poco malleabili e modificabili. Pertanto alcune informazioni contenute in esse, essendo maggiormente radicate nell’individuo, assumono un carattere di assolutezza, con la conseguente perdita di elementi della realtà che contraddicono la realtà stessa. In tal senso, gli studi di Festinger (1957), definivano la dissonanza cognitiva come la tendenza per cui, elementi della realtà che contraddicono un’aspettativa relativa ad uno specifico fenomeno tendono ad essere ignorati, per permettere il mantenimento della rappresentazione del fenomeno stesso.

Una delle categorie più rigide e tendenzialmente più stabili e radicate, è costituita dalla differenziazione binaria maschio/femmina, che istituisce una differenziazione cui facciamo riferimento in modo inconsapevole: cioè siamo sempre in grado di attribuire a quel soggetto un’ identità sessuale, a partire da pochi elementi specifici. Secondo tale paradigma, ad ogni “sesso” corrisponde un certo tipo di caratteristiche morfologiche specifiche, che non sono mai presenti nei fenotipi opposti. Oltre a possedere un corpo specifico, ogni “sesso” possiede un pattern di comportamenti ed atteggiamenti che permettono al resto della società di inserire ogni individuo nelle categorie maschio o femmina (Irigary, 1985; Fausto-Sterling, 1993).

A tal proposito Freud (1905) criticò, già più di cent’anni fa, tale visione, scrivendo che fosse necessario pervenire alla consapevolezza di ciò che è definibile nei termini di maschio e femmina, in quanto appartengono nella scienza ai concetti più confusi, sebbene il contenuto di questi appaia privo di ambiguità all’opinione comune.

Sex and Gender

Gayle Rubin nel 1975 introdusse il termine “genere” chiamandolo Sex-gender system.

Rubin con l’espressione Sex Gender System intendeva “[blockquote style=”1″]l’insieme dei processi, delle modalità di adattamento, di comportamento e di rapporti, con i quali la società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana, organizzando la divisione dei compiti tra uomini e donne, differenziandoli l’uno dell’altro e creando quindi il genere[/blockquote]” (Piccone Stella & Saraceno, 1996, p. 7).

Il saggio di Rubin sottolineava lo squilibrio causato della gerarchia tra i sessi, che conduceva verso prevaricazione, oppressione e violenza delle donne. Già Ann Oakley nel 1972 descrisse un concetto molto simile a quello di Sex-gender system (coniato da Rubin), in cui il sessosi riferirebbe alla diversificazione biologica e anatomica tra maschio e femmina, il concetto di genere sarebbe una questione culturale e quindi di interesse sociale” (Busoni, 2000, p 126).

Nell’ambito del femminismo, della sociologia e della gender e queer theory, si ritiene che non si possa scindere il sesso ed il genere secondo la dicotomia tra le categorie di natura e cultura, ma nonostante questo, il concetto di genere viene considerato maggiormente importante rispetto a quello di sesso, in quanto la divisione sociale viene posta in essere attraverso l’attribuzione di un significato particolare a certe caratteristiche anatomiche (Kessler & McKenna, 1978).

Come afferma Anne Fausto-Sterling (2000) questo non significa sostenere che “[blockquote style=”1″]le persone creano i corpi. […] significa che creano il sistema che li divide, e un sistema con soltanto due corpi non è l’unico possibile[/blockquote]” (pp.286-287).

Se non esistessero, all’interno della società, due categorie di genere distinte, non sarebbe necessario attribuire a determinate caratteristiche anatomiche un significato particolare. Il corpo assume invece un genere, proprio perché nel contesto sociale e culturale occidentale è in vigore una divisione in soli due gruppi. Le caratteristiche del corpo diventano particolari indicativi significativi, poiché vengono interpretati sulla base della divisione sociale esistente tra maschi e femmine, e collegati a preconcetti culturali che riguardano tali categorie. In tal senso la divisione degli individui in gruppi separati sulla base della differenza sessuale, tipica della società occidentale, non è affatto necessaria, immutabile o naturale, ma un prodotto sociale. Tutto questo viene sottolineato dagli studi di Judith Lorber (1993) che afferma che l’attribuzione di un genere alle persone non deriva dalla fisiologia o dagli ormoni, ma da esigenze di ordine sociale. Secondo tali studi non esiste nessuna caratteristica fisica né alcun tratto comportamentale, che appartiene in maniera esclusiva a un solo sesso e che quindi permetta la distinzione precisa tra donne e uomini. Come evidenzia Judith Lorber (1993): “[blockquote style=”1″]In realtà, il materiale corporeo essenziale è lo stesso per femmine e maschi, e, a parte organi e ormoni legati alla procreazione, gli esseri umani femmine e maschi hanno corpi simili[/blockquote]” (pp. 568). Eppure nella nostra società occidentale, abbiamo due sessi e due generi distinguibili perché la nostra società si fonda su due classi di persone, uomini e donne: ogni cosa relativa a una donna è femminile; ogni cosa relativa a un uomo è maschile.

Il concetto di genere nella lingua italiana ha una valenza molto sommaria che potrebbe generare una forte ambiguità. Deriva dal latino “genus”, che rimanda all’ambito semantico del “generare” e riflette una moltitudine di significati. Prendendo in considerazione la definizione che fornisce il Dizionario della Lingua Italiana Treccani (2015),

genere s.m. 1. Nel suo sign. Più ampio, termine indicante una nozione che comprende in sé più specie o rappresenta ciò che è comune a più specie […], In filosofia, categoria di oggetti che hanno in comune proprietà essenziali mentre differiscono per proprietà non essenziali […]. 2. Nel linguaggio com., l’insieme dei caratteri essenziali per cui una cosa è simile ad altre o differisce da altre […] 3. Categoria grammaticale esistente nelle lingue indoeuropee, semitiche e in molte altre famiglie linguistiche, alcune delle quali distinguono tre generi, maschile, femminile e neutro […].

Possiamo facilmente renderci conto che, queste tre definizioni, non ci forniscono un significato unitario e condiviso del termine in questione. La prima non si riferisce a ciò che la nozione di genere vuole trasmetterci, la seconda e la terza riguardano ambiti troppo specifici della lingua italiana e del linguaggio parlato e quindi non utili per descrivere un concetto così importante.

Sherry B. Ortner & Harriet Whitehead (2000) definiscono il genere come “[…] ciò che gli uomini e le donne sono, i tipi di relazioni che si instaurano o si dovrebbero instaurare tra loro” (p. 201). Inoltre affermano che essi non sono solo lo specchio dei dati biologici o le elaborazioni di questi ultimi, ma innanzitutto prodotti delle norme sociali e culturali. Gli autori inoltre evidenziano che la relazione tra sesso e genere non è biunivoca, infatti nella nostra società diamo un’educazione distinta ai due sessi in base alle norme socialmente accettate, che ci forniscono l’idea di come si dovrebbero comportare i ragazzi e le ragazze.

Ciò che la società si aspetta da tutti noi diventa il nostro modo di essere; la nostra identità pone le sue origini sulle caratteristiche attribuite al gruppo al quale facciamo parte (Busoni, 2000). Secondo questa prospettiva il genere è attribuibile a un uomo e a una donna in quanto esseri sociali, inseriti in un contesto normativo e relazionale. Le parole di Mila Busoni (2000) esprimono pienamente tale concetto:

In sintesi, essere uomini non significa avere un sesso maschile, come essere donne non significa avere un sesso femminile. Essere uomini o donne è piuttosto il convergere di senso esperenziale di sé e di percezione del mondo, vale a dire ciò che si è appreso ad essere nelle relazioni sociali, nei rapporti con gli altri (p. 88).

Linda Nicholson (1996) definisce il rapporto stretto tra biologia e socializzazione, che si trova nella prima concezione di genere ereditata dalle teorie femministe degli anni sessanta e settanta, come visione attaccapanni dell’ identità. Il corpo è considerato simile ad un attaccapanni sul quale prendono posto differenti costruzioni socioculturali, come quelli che riguardano personalità e comportamento. La forma propria dell’attaccapanni influisce marginalmente su ciò che viene appreso.

I postulati fin ora esposti ritengono l’ identità sessuale un fenomeno transculturale. Esiste una comunanza biologica prodotta dai dati materiali del corpo, ovvero il pene per determinare l’appartenenza alla categoria dell’uomo e la vagina per determinare l’appartenenza alla categoria della donna. Linda Nicholson (1996) attraverso la sua idea di Fondamentalismo Biologico, afferma che l’ identità sessuale, comune alle varie culture e costruita socialmente, si unisce alla concezione del sesso come distinto dal genere tramite l’idea che le distinzioni naturali fondino e producano l’identità umana.

Gli Stereotipi di genere nell’ identità sessuale

L’ identità sessuale nasce come costrutto che rappresenta un’esigenza di stabilità, di ordine e coerenza, per cercare di strutturare una componente dell’ identità individuale e rassicurare l’individuo attraverso una categorizzazione di sé, nonostante le esperienze siano molto più fluide ed imprevedibili di quanto si possa pensare (Bancroft, 2009; Kinnish, Strassberg & Turner, 2005). La classificazione dicotomica e polarizzata tra omosessualità ed eterosessualità è stata definitivamente superata e surclassata in favore di un criterio moderno che considera come criterio definitore dell’identità, la complessità dell’esperienza soggettiva (Bancroft, 2009; Sandfort, 2005).

Tra gli aspetti più rilevanti del costrutto dell’ identità sessuale è funzionale introdurre il concetto di stereotipo di genere inteso come credenza semplificata che viene applicata a specifiche categorie di persone e rappresenta il nucleo soggettivo del pregiudizio (Pavlova, Wecker, Krombholz, & Sokolov, 2010), ovvero un giudizio di valore assunto a priori che è in grado di dirigere l’azione sotto forma di pratiche più o meno violente ed esplicite di discriminazione (Blair, 2002).

Gli stereotipi di genere influenzano profondamente il pensiero collettivo, riempiendo di contenuti specifici le convinzioni e le idee di un determinato gruppo sociale rispetto a donne e uomini e ai rapporti tra essi (Ruspini, 2004).

Gli stereotipi indirizzano la classificazione di ogni soggetto in classi definite in relazione alla concezione di ciò che è considerata maschile e femminile (Kite & Whitley, 1998). I soggetti che mostrano tratti del sesso opposto vengono definiti gay o lesbiche (McCreary, Newcomb, & Sadava, 1998). Tali soggetti omosessuali sono spesso colpiti da stereotipi negativi (Prati & Pietrantoni, 2009; Smiler, 2004). Da questa prospettiva si evince che coloro che posseggono caratteristiche e comportamenti del sesso opposto non vengono percepiti positivamente, a causa della visione duale che l’eteronormatività impone (Kite & Whitley, 1998). Le convinzioni stereotipiche orientano condotte e comportamenti verso coloro i quali non rispecchiano l’idea culturalmente appresa di uomo/maschilità e donna/femminilità, caratterizzandoli in una maniera non consona e non veritiera che non riflette la realtà, in quanto ogni persona vive il proprio orientamento sessuale in modo diverso e del tutto soggettivo (Sandfort, 2005).

Gli stereotipi hanno uno strano destino; la gente comune si accorge che esistono solo quando sono dirette verso il proprio gruppo di appartenenza e soprattutto se le attribuzioni che propongono hanno valenza negativa (Arcuri & Cardinu, 2011).

Gli stereotipi di genere detengono un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità e delle relazioni sociali e agiscono su alcune componenti dell’ identità sessuale, come l’orientamento ed il ruolo, attribuendo loro caratteristiche di rigidità e stabilità che recenti ricerche hanno invece contraddetto (Diamond & Butterworth, 2008; Sandfort, 2005). La filosofia dello stereotipo di genere vuole che, partendo dalla dimensione dell’identità di genere, si debbano rispettare rigide e specifiche caratteristiche e che chi non vi si adegua sia in qualche modo inferiore o sbagliato. L’ identità sessuale e le sue manifestazioni non sarebbero fisse nel tempo, ma soggette a cambiamenti dovuti a variabili personali individuali, sociali, culturali e situazionali (Dettore & Lambiase, 2011). Gli stereotipi di genere proprio per la loro rigidità condizionano lo sviluppo dell’ identità sessuale di una persona, in quanto ne limitano l’esplorazione e la plasticità nella definizione (Dèttore & Lambiase, 2011; Kinnish, Strassberg, & Turner, 2005).

Gli stereotipi sono definiti da ciò che ciascuno di noi si aspetta da entrambi i sessi, ovvero dalle condotte dei maschi e delle femmine: i maschi non sono timorosi, appaiono forti, impavidi e determinati, le femmine appaiono dolci, timorose e sensibili (Ruspini, 2004).

L’ identità sessuale nelle sue ultime concettualizzazioni sembra quindi non essere considerata come un costrutto stabile, ma piuttosto come un costrutto che si acquisisce nel corso dell’intero sviluppo e per tappe successive subendo molte influenze, e, anche quando stabilita, non è definitivamente cristallizzata, ma può essere soggetta a disforie e successivi riassestamenti (Bancroft, 2009; Diamond, 2008).

Graziella Priulla (2013) afferma che:

le appartenenze di genere sono spesso decodificate attraverso l’utilizzo di stereotipi definendoli come dei processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano una o un gruppo di caratteristiche a una categoria o gruppo, sulla base di una limitata e insufficiente informazione o conoscenza. Inoltre funziona mettendo a fuoco gli aspetti salienti, articolando intorno ad essi tutto il resto e lasciando nell’ombra gli elementi che porterebbero a una disconferma dell’immagine di base (p. 333).

Critiche sulla differenziazione binaria per definire l’ identità sessuale

La condizione di intersessualità, termine usato per descrivere quelle persone i cui cromosomi sessuali e i genitali non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili, sconvolge letteralmente la nostra categoria di differenziazione binaria, inserendo la questione degli stereotipi di genere come elemento centrale rispetto al quale le persone si confrontano per definire la propria identità sessuale. L’ identità sessuale non sempre coincide con il sesso biologico (genetico, ormonale, fenotipico) e con il sesso attribuito. Il termine “genere” è stato utilizzato per la prima volta negli anni cinquanta per distinguere l’ identità sessuale dall’anatomia dei genitali, ovvero per differenziare la categoria anatomo-biologica di appartenenza (sex), dalle categorie psichiche di maschile e femminile (gender), cosi come vengono a “costruirsi” nella cultura sociale e ad articolarsi nei contesti relazionali (Petruccelli, Simonelli, Grassotti & Tripodi, 2014).

Il genere, tipicamente descritto in termini di mascolinità e femminilità, è una costruzione sociale che varia tra le diverse culture e nel tempo (Wood, 1997).

Il genere è per Butler (2004) “un’aspettativa che finisce per produrre proprio il fenomeno atteso” cioè la differenza sessuale (p.19).

Le categorie maschili e femminili si configurano come poli opposti di un continuum tra i quali potrebbero collocarsi una moltitudine di categorie intermedie non socialmente riconosciute (Ruspini, 2004). Esistono, ad esempio, alcune culture in cui il sesso ed il genere non sono sempre nettamente divisi dicotomicamente, come maschio e femmina, oppure come omosessuale ed eterosessuale. In Arizona è presente un popolo nativo americano conosciuto come Navajo. All’ interno di tale popolo, alcuni uomini chiamati Bardaches, vengono categorizzati in un terzo genere, ed è permesso loro di sposare altri uomini. Questo, nella loro società, differentemente dalla cultura occidentale, non è definito omosessualità, uomini donne e Bardaches coesistono all’interno di un’unica cultura (Andersen & Taylor, 2004). Questa terza categoria si riferisce ad individui biologicamente maschi ma che assumono i tipici atteggiamenti e comportamenti del sesso opposto, lavorando e vestendo essenzialmente come delle donne. I Bardache del Nordamerica, i Fa’afafine nel Pacifico ed i Kathoey in Tailandia, sono tutti esempi di diverse categorie di genere che differiscono dalla divisione, categorizzante, dell’occidente. Anche tra gli africani e gli indiani americani esistono società con un terzo genere chiamato donne dal cuore maschile, ossia donne biologicamente femmine ma che assumono condotte ed atteggiamenti stereotipicamente maschili (Lorber, 1994).

Mi sorge una domanda spontanea: perché allora non vedere maschio/femmina, uomo/donna, come poli opposti di un continuum al cui interno poter ‘sistemare’ tutte le varietà tipologiche di identità sessuale, di identità di genere e perché no, anche di orientamenti sessuali? È evidente che molte culture, a noi più remote, hanno adottato molteplici approcci per distinguere le fluidità e la complessità del genere e del sesso biologico, perché questa visione non può esser adottata dalla nostra cultura? Sono comunque del parere che, negli ultimi decenni, si stiano realizzando dei consistenti passi avanti, in quanto la decostruzione dei generi sta allentando le costruzioni binarie, contribuendo a smontare lo stereotipo di un’omosessualità condizionata dal genere, ampliando semmai dimensioni di genere multiple e queer (Lingiardi & Vono 2012).

 

Aspetti neuropsicologici utili nella pratica psicoterapeutica

Quest’articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di avvicinare coloro che lavorano in ambito psicologico e psicoterapeutico ad un tema molto importante. L’obiettivo è quello di diventare più consapevoli del fatto che i processi cognitivi ed affettivi le cui disfunzioni possono condurre in terapia, sono dotati di un substrato neurologico.

Daniela Beltrami – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La psicoterapia può essere definita come una pratica terapeutica della psicologia clinica che si occupa di disturbi psicopatologici. “Terapia cognitivo – comportamentale” si riferisce ad una terapia diretta a modificare i pensieri distorti, le emozioni disfunzionali e i comportamenti disadattivi del paziente, con lo scopo di facilitare la riduzione e l’eliminazione del disagio psicologico. È rivolta a tutto ciò che accade all’interno della mente (memoria, attenzione, ragionamento, ecc.) e alle risposte comportamentali dell’individuo.

Nonostante l’ampio dibattito sul concetto “mente” che ancora vanta una visione triplice (la mente indagabile senza riferimenti alla fisiologia cerebrale; la mente in quanto prodotto del cervello e dunque oggetto di indagine neurofisiologica; la mente come software dell’hardware cervello), è chiaro che una terapia rivolta ai processi cognitivi si dedica sostanzialmente al cervello.

Durante una lezione universitaria ricordo che un professore ci raccontò di un paziente che, dopo diversi mesi di terapia per una sintomatologia depressiva, ricevette una diagnosi di cancro al cervello. Nessuno aveva considerato il sintomo depressivo come spia di una problematica organica.

Quest’articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma di avvicinare coloro che lavorano in ambito psicologico e psicoterapeutico ad un tema molto importante. L’obiettivo è quello di diventare più consapevoli del fatto che i processi cognitivi ed affettivi le cui disfunzioni possono condurre in terapia, sono dotati di un substrato neurologico.

Anatomia e funzioni del cervello

Il cervello è l’organo principale del sistema nervoso centrale. È contenuto nella scatola cranica e suddiviso in rombencefalo (bulbo, ponte e cervelletto), mesencefalo e prosencefalo (diencefalo: talamo e ipotalamo; telencefalo: emisferi cerebrali). I due emisferi sono separati in superficie dalla scissura interemisferica, mentre in profondità sono collegati dalle fibre del corpo calloso, che permette la comunicazione tra le due metà. Sebbene non esista una divisione funzionale netta nonostante la specializzazione delle varie strutture (grazie al ricco dialogo che intercorre tra le diverse aree), spesso ci si rivolge all’emisfero sinistro come alla sede dei processi deduttivi e a quello destro come al sito deputato all’intuizione (Jaoui, 2010).

Esploriamo rapidamente le funzioni di alcune delle strutture più importanti. Ciascun emisfero è suddiviso in quattro lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale):

  • Il lobo frontale (parte anteriore del cervello; aree corticale motoria e pre-motoria) è il luogo in cui sono elaborati i pensieri; esso partecipa ai processi di apprendimento, memoria e linguaggio;
  • Il lobo parietale (parte superiore del cervello, area somestesica primaria, contenitore di stimoli tattili, dolorifici, pressori e termici) controlla la comprensione linguistica, la memoria verbale, le capacità matematiche e visuo-spaziali;
  • Il lobo temporale (parte inferiore degli emisferi; area acustica) elabora affettività, memoria, reazioni e comportamenti istintivi, riconoscimento visivo e percezione uditiva; la parte sinistra è deputata alla comprensione linguistica e alla scelta delle parole, quella destra alla comprensione dell’intonazione del discorso e della sequenza di suoni; coinvolge anche il sistema limbico;
  • Il lobo occipitale, situato posteriormente, è sede dell’integrazione di tutte le informazioni visive, comprese quelle che influenzano postura ed equilibrio.

Lesioni (funzionali o strutturali) o disfunzioni a carico anche solo di una piccola porzione dei lobi si possono ripercuotere ampiamente sul funzionamento cognitivo e/o affettivo.

Negli esseri umani la corteccia è la struttura predominante del cervello ed è sede delle funzioni superiori (Abrahams, 2010). Da essa provengono tutte le afferenze sensitive che sono percepite a livello cosciente e interpretate in base alle esperienze precedenti. Le informazioni provenienti dal mondo esterno sono accolte dalla porzione corticale posteriore tramite le aree sensitive primarie e sono immagazzinate e rese disponibili per il recupero grazie all’attività della fascia mediale (sistema limbico). La corteccia anteriore è molto importante, è deputata all’organizzazione del movimento (aree motorie primarie, supplementari e pre-motorie) e alla pianificazione del comportamento motorio complesso (area prefrontale).

L’area prefrontale è sede delle funzioni esecutive, che coordinano i processi di pianificazione e controllo (organizzazione delle azioni in base a mete e obiettivi, spostamento flessibile dell’attenzione, attivazione di strategie appropriate e inibizione di quelle meno adeguate, astrazione, regolazione delle emozioni, della motivazione e decision making, ecc.). In pazienti con disturbi psichiatrici (ad es. ADHD, schizofrenia e disturbo della condotta), lesioni traumatiche o disfunzioni delle aree prefrontali e dei circuiti cortico-sottocorticali associati, tali abilità possono essere compromesse. Inoltre, sembra che anche la sperimentazione di molteplici traumi psicologici, soprattutto se concentrati nei primi anni di vita, possa aumentare il rischio per lo sviluppo di disfunzioni esecutive, attentive, mnesiche (Bremner et al., 1995) e metacognitive (Myers & Wells, 2015).

Il sistema limbico è costituito da strutture che proiettano all’ipotalamo e alle vie afferenti che partono dalle aree corticali associative parietali e occipitali (funzione percettivo-spaziale) e presiedono al controllo dei movimenti finalizzati, dei comportamenti istintivi e a varie funzioni psichiche come emotività, comportamento, memoria a lungo termine e olfatto. Esso comprende amigdala, ippocampo (formazione delle tracce di memoria a lungo termine e orientamento spaziale tramite mappe cognitive), talamo e ipotalamo (controllo delle reazioni emozionali, di paura e dei ritmi circadiani), bulbo olfattivo (ricezione degli stimoli olfattivi) e fornice (formazione della memoria a lungo termine). L’amigdala riceve afferenze dalle aree temporali, frontali, limbiche (olfattive) e invia ad aree frontali, ippocampo, ipotalamo e troncoencefalo (funzioni vegetative e comportamenti specie-specifici); la somministrazione di alcune sostanze farmacologiche (ad es. benzodiazepine, oppioidi) attenua la risposta emotiva.

Plasticità

In un breve e divertente video di Smarter Every Day (riportato alla fine del testo), che vi consiglio vivamente di guardare prima di procedere nella lettura, emerge come sia difficile chiedere al nostro cervello di rispondere ad uno stimolo in modo completamente diverso dal solito (ovvero da come ha imparato a rispondere in base ad una serie di esperienze). Un giovane adulto si cimenta nella guida di una bicicletta nella quale è necessario girare il manubrio a destra per andare a sinistra e viceversa. Ogni giorno si allena con costanza e, dopo circa otto mesi di stimolazione ripetuta, “all’improvviso” riesce nell’impresa. Il figlio impiega soltanto due settimane.

Il cervello si modifica costantemente. È stato dimostrato (Paus, 2005a,b) che la densità di sostanza grigia non è legata soltanto ad aspetti ereditari, ma è influenzata dall’esperienza. I circuiti cerebrali cambiano in risposta a diversi fattori (sviluppo, lesioni, apprendimento e memoria; Squire & Kandel, 1999). La plasticità è il modo in cui gli individui creano e modificano le connessioni neurali in risposta alla propria esperienza (Dudai, 2002; Squire & Kandel, 1999); quando uno stimolo è ripetuto per un lungo periodo (da ore a giorni) ad alta frequenza, l’efficacia delle sinapsi aumenta (Dudai, 2002).

Esaminando l’ippocampo di alcuni aspiranti tassisti dopo un training specifico di circa tre anni, ad esempio, è stato recentemente evidenziato (Woollett et al., 2011) un maggior volume della porzione posteriore di tale struttura (deputata alla memoria e all’esplorazione visuo-spaziale) di coloro che avevano ottenuto la licenza. Imparare a memoria la mappa di una grande città produce cambiamenti strutturali nel cervello (Maguire et al., 2006)[3].

Da questi due esempi possiamo trarre alcune considerazioni: l’apprendimento è in grado di produrre cambiamenti strutturali anche nel cervello di individui adulti, sebbene quello dei bambini sia più malleabile e rapido nell’acquisire nuove informazioni; tali cambiamenti sono possibili in seguito ad un allenamento ripetuto e costante nel tempo.

Tramite l’interazione tra processi neurofisiologici cerebrali ed esperienze vissute, la plasticità consente alla mente di formarsi. Le esperienze vissute, di tipo ambientale e interpersonale (in particolar modo quelle precoci), sono fondamentali poiché influenzano il nostro modo di vedere e interpretare il mondo, modificando la struttura cerebrale.

Un’esperienza potrebbe essere emotivamente così forte da lasciare una cicatrice nel tessuto cerebrale

W. James, 1890

 

Tutto ciò che facciamo è il risultato di un apprendimento. Quando facciamo il caffè, guidiamo o reagiamo ad una situazione ridendo o piangendo, stiamo mettendo in atto un processo cognitivo che coinvolge il nostro sistema nervoso centrale il quale, una volta ricevute le informazioni provenienti dall’ambiente, le confronta con quanto già elaborato e le conserva tramite il processo di memorizzazione. Tutto ciò che apprendiamo lascia una traccia, anche quando non ce ne accorgiamo. Agli inizi del XX Claparède, un neuropsichiatra svizzero che era solito stringere la mano ai suoi pazienti, nascose uno spillo nella mano destra e si recò a salutare una paziente amnesica. La mattina successiva la paziente si rifiutò di stringergli la mano, nonostante non ricordasse alcunché (Fabbro, 1996, 1999).

La terapia non è solo una revisione della storia del paziente; è un metodo di insegnamento, un processo di integrazione,un insieme di principi per una organizzazione futura

Cozzolino, 2002

Come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo, la terapia cognitivo – comportamentale si fonda sul presupposto che vi sia una stretta correlazione tra pensieri, emozioni e comportamenti, e che alla base dei disturbi vi siano credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, provocando sofferenza nel soggetto. Tali credenze sono difficili da modificare poiché si basano su meccanismi di mantenimento: grazie alla loro utilità hanno consolidato determinati “sentieri neuronali”.

Psicoterapia e plasticità

Riconoscendo e modificando i pensieri disfunzionali è possibile promuovere cambiamenti a livello emotivo e comportamentale. La psicoterapia stimola la costruzione di punti di vista alternativi, modi nuovi di pensare e di comportarsi, potenzia la capacità di problem solving, di auto-rappresentazione e di regolazione degli stati affettivi, stimolando le aree cerebrali sottostanti (corteccia prefrontale dorsolaterale, mediale e ventrolaterale, corteccia cingolata e insulare, precuneo, amigdala; Frewen et al., 2008). Partendo dal presupposto che le aree del cervello associate con emozioni e memoria sono dotate di grande plasticità (Davidson et al., 2000), possiamo sostenere che gli approcci terapeutici che si basano sullo stimolo di emozioni e memoria mirano direttamente al cambiamento neuronale (Davidson et al., 2000). Tutte le forme di terapia, indipendentemente dall’orientamento terapeutico, sono efficaci nel grado con cui stimolano la crescita e l’integrazione neurale (Cozzolino, 2002).

Dopo essere stata considerata per anni un trattamento “per problemi d’origine psicologica”, con l’avvento delle nuove tecniche di neuroimaging (SPECT, PET, fMRI, ecc.) (Gabbard, 2000), la psicoterapia è ora vista come un trattamento biologico, una terapia del cervello che produce cambiamenti strutturali riscontrabili nel cervello, esattamente come accade per l’apprendimento (Kandel, 2013).

Sembra che la relazione terapeutica sia il predittore più affidabile di cambiamento in psicoterapia (Lambert, 1992; McCabe & Priebe, 2004); più è connotata da fiducia, condivisione e accettazione, più efficace sarà l’intervento (Horvath et al., 2011). Le connessioni interpersonali possono stimolare lo sviluppo dei circuiti cerebrali corticolimbici e orbitofrontali (associati a regolazione emotiva e attivazione corporea; Schore, 2003), tanto da promuovere la terapia a nuova relazione di attaccamento, in grado di migliorare la regolazione emotiva (Siegel, 1999) e ristrutturare la memoria implicita attaccamento-correlata (Amini et al., 1996; Gabbard, 2000). Tale memoria, che contiene le informazioni ottenute dalle interazioni corporee ed emozionali, e riguarda le azioni automatiche e le modalità di comportamento non verbale, ha come substrato neurologico gangli basali, cervelletto e amigdala (Kendel, 1999).

Il terapeuta è dunque chiamato ad accompagnare il paziente nel lungo viaggio del cambiamento, guardandolo cadere dalla bicicletta, aiutandolo a risalire sui pedali, rassicurandolo e ripetendosi con pazienza ed accoglienza, affinché i circuiti neuronali possano modificarsi.

Oltre all’efficacia terapeutica, le relazioni di cura nell’età adulta possono elicitare risposte fisiologiche dalla modificazione del ritmo circadiano al recupero da una malattia (Hofer & Sullivan, 2001).

Senza l’emozione non c’è conoscenza. Possiamo essere consapevoli di qualcosa, ma finché non abbiamo sentito la sua forza, non è nostra

 Bennett, 1897

 

Il ruolo delle emozioni

Come abbiamo appena visto, l’emozione è un concetto centrale dal punto di vista terapeutico e neuropsicologico. Essa può essere definita come una risposta del corpo necessaria e funzionale alla sopravvivenza che deriva dalle strutture più antiche del nostro cervello (LeDoux, 1997), un “processo attraverso cui il cervello determina o computa il valore di uno stimolo” (LeDoux, 2002).

Secondo la teoria di Cannon-Bard (Cannon, 1920; Scachter & Singer, 1962), lo stimolo emotigeno viene inizialmente elaborato dai centri sottocorticali del sistema limbico: l’amigdala riceve l’informazione dai nuclei posteriori del talamo e provoca una prima reazione finalizzata a mettere in allerta l’organismo (aumento o diminuzione della sudorazione e delle pulsazioni cardiache, accelerazione del ritmo respiratorio, ecc.). Contemporaneamente lo stimolo è inviato dal talamo alle cortecce associative, ed è sottoposto ad una elaborazione più lenta e raffinata che porta ad una risposta appropriata all’ambiente.

La gestione emotiva è un punto centrale nel percorso terapeutico. Sembra che etichettare le emozioni negative, ad esempio, produca una maggior attivazione della corteccia prefrontale e una diminuzione dell’attività del sistema limbico e dello stress emotivo (Hariri, Bookheimer, & Mazziotta, 2000; Lieberman, Hariri, Jarcho, Eisenberger, & Bookheimer, 2005); esplorarne il significato può agire sui processi di decision making e modificare i comportamenti maladattivi.

Uno degli effetti più conosciuti delle emozioni negative è l’esposizione elevata ai glucocorticoidi (McEwan et al., 1995). In bassa concentrazione essi aumentano la memoria; in elevata e prolungata concentrazione danneggiano le cellule dell’ippocampo (Sapolsky, 1998). Inoltre, stress ed emozioni negative incidono negativamente sul sistema immunitario (Goleman, 2011; Friedman & Boothby-Kewley, 1987).

Lesioni cerebrali possono comportare disturbi nel riconoscimento e nell’espressione emotiva. I pazienti che hanno subito lesioni frontali (situazione frequente negli incidenti automobilistici), ad esempio, mostrano condizioni eterogenee verosimilmente legate alla specifica area compromessa. In alcuni casi emergono condotte emozionali e sociali non appropriate (es. disinibizione, utilizzo di espressioni colorite, ecc.), in altri casi apatia, abulia, mancanza di spontaneità, incapacità di pianificazione ed espressioni mimiche povere o instabilità ed egocentrismo.

Immaginiamoci la seguente situazione: un paziente con sindrome ansioso-depressiva che ha recentemente avuto un piccolo incidente senza perdita di coscienza o amnesia, con esami neurologici e neuroradiologici negativi, arriva al colloquio. Secondo la compagna “è cambiato, è più irritabile, risponde male ed è spesso depresso”. Prima di procedere con la terapia, è opportuno ricordare che esiste una sindrome denominata “soggettiva post-traumatica”, caratterizzata da una serie di sintomi cognitivi, affettivi e comportamentali che conseguono ad un trauma cranico lieve e persistono nel tempo: irritabilità, ansia, depressione, modificazione della personalità, affaticabilità, disturbi del sonno, della libido o dell’appetito, disturbi mnesici o attentivi.

Nel valutare l’atteggiamento del paziente in terapia, è necessario escludere che vi siano compromissioni dal punto di vista neuropsicologico. Una ridotta capacità di riconoscere o identificarsi con i sentimenti e le necessità altrui, un atteggiamento irriverente, irrispettoso, provocatorio, ad esempio, possono essere sintomi di un disturbo di personalità, come di una disfunzione frontale.

Anche la personalità può modificarsi in seguito a lesioni cerebrali. Nel 1848 un’esplosione accidentale fece schizzare in aria il ferro da pigiatura che Phineas Gage, capocantiere, stava utilizzando. Il ferro attraversò la parte anteriore del suo cranio, provocando un grave trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello. Egli sopravvisse miracolosamente all’incidente: dopo alcuni minuti era in grado di parlare e in circa tre settimane poteva alzarsi dal letto e uscire autonomamente. Era però profondamente cambiato, al punto che gli amici non lo riconoscevano più: burbero, in preda ad alti e bassi, incline alla blasfemia, in continua ricerca di nuovi progetti che poi abbandonava per altri apparentemente più fattibili.

L’immaginazione

Prima di concludere facciamo un piccolo accenno al potente tema dell’immaginazione. Essa è la capacità di vedere oggetti che non possono essere percepiti in un particolare momento (Kosslyn et al., 2001). La cosa interessante è che sembra che i processi immaginativi utilizzino gli stessi substrati neurali di quelli percettivi (Kreiman, et al. 2000): immaginare un animale feroce è come vedere un animale feroce. Per questo motivo, alcune tecniche immaginative sono utilizzate in terapia per il trattamento di condizioni patologiche quali il dolore, la paura, le fobie o l’ansia. Immaginare una realtà diversa permette di formulare e sperimentare alternative al proprio modo di pensare. Un giovane che ritiene di “parlare con un muro” quando tenta l’approccio con i genitori, può immaginare di arrampicarsi, sdraiarsi o disegnare su quel muro (Kopp, 1995) invece di volerlo distruggere con rabbia e delusione.

Non è necessario essere una stanza o una casa per essere stregata. Il cervello ha corridoi che vanno oltre gli spazi materiali

(E. Dickinson)

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Come non avere paura dello spettro del trauma

Diversamente da quanto sostengono Sassaroli e colleghi il problema non è che tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress quanto piuttosto il contrario: il trauma è uno dei maggiori fattori di rischio per tutti i disturbi psichici, indipendentemente dalla specifica diagnosi.

Di Benedetto Farina

 

Il trauma spiega ogni psicopatologia?

Il 25 maggio su State of Mind Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni Ruggiero hanno pubblicato l’articolo “Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)”. Il titolo curiosamente parafraseggia la nota espressione del Manifesto del partito Comunista scritto da Marx ed Engels nel 1847 “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”. Per Sassaroli e colleghi lo spettro che si aggira per il mondo della psicoterapia è il pantraumatismo, specie nel mondo della psicoterapia cognitiva: “Il problema è, come al solito, quando un modello smette di limitarsi a spiegare solo alcuni disturbi e aspira a una spiegazione universale dell’intera sofferenza emotiva”. Come è possibile non essere d’accordo con loro? E’ assurdo e ingenuo pensare che esista un solo meccanismo patogenetico che spieghi tutta la sofferenza psichica.

Il problema però è che i colleghi che hanno scritto l’articolo e sollevato questo condivisibile timore non ci dicono chi è che sostiene tutto questo. Purtroppo nell’articolo non viene citata una sola fonte bibliografica che giustifichi tali timori: non un autore o un articolo dove venga affermato che il trauma spiega tutto.

Viene citato invece il lavoro di Liotti e mio, in cui però abbiamo affermato e descritto tutt’altro. E poiché in questo momento Liotti non può rispondere e rassicurare i colleghi rispetto ai loro timori spettrali cercherò di farlo io. E cosa c’è di meglio per combattere la paura di fantasmi e spettri se non i dati della realtà?

Leggi anche:
(1) Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)
(2) Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina

 

Cosa dicono i dati scientifici

In questo caso la realtà descritta dai dati della ricerca scientifica. Con Sassaroli, Caselli e Ruggiero so che condividiamo la necessità di basare le riflessioni cliniche sui dati della ricerca e non sulle opinioni personali fondate su pregiudizi o peggio sulle paure: per questo citerò le fonti scientificamente più autorevoli e accurate che “circoscrivono” il problema del trauma dello sviluppo (TdS) a circa il 10% della popolazione generale e circa un terzo di quella clinica. Secondo l’ultimo report del National Child Abuse and Neglect Data System del Dipartimento della Salute degli USA (uno dei maggiori osservatori epidemiologici sul trauma infantile): “circa il 10% della popolazione generale negli USA sperimenta una o più forme di abuso o maltrattamento nell’infanzia (…) Circa un terzo prima dei tre anni (…) il 91.7 % degli abusi sono causati da uno o entrambi i genitori”. La forma più comune di trauma infantile (80%) è il neglect, la trascuratezza, l’abuso sessuale “solo” l’8.4% (US Department of Health and Human Services, 2017).

Questi dati spiegano il sottotitolo di un noto volume curato da molti studiosi del trauma infantile: l’epidemia nascosta. Eh già, perché questi dati non solo ci rivelano che il trauma infantile ha la diffusione di un’epidemia, ma anche il fatto che una parte notevole avviene senza cicatrici evidenti e soprattutto in un periodo dell’età in cui non è possibile formare memorie episodiche per cui può non essere riportato nei racconti che il paziente offre al terapeuta, anche al più attento.

I segni del trauma sono però rintracciabili dall’espressione clinica delle sue conseguenze, non conoscerle rischia di confondere il clinico non adeguatamente informato e può condurre a quelle “scorrettezze cliniche” che Sassaroli e colleghi giustamente temono.

Un secondo dato per evitare di avere paura dei fantasmi è che “solo” un terzo di tutti i pazienti che ci chiedono aiuto, indipendentemente dalla diagnosi con cui si presenta il paziente, ha come fattore di rischio il trauma (Green et al 2010). Questo dato importante risponde a un altro dei timori che Sassaroli e colleghi segnalano: “L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta [il trauma n.d.r.] e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress”.

Il trauma come fattore di rischio per tutti i disturbi psichici

Diversamente da quanto sostengono Sassaroli e colleghi il problema non è che tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress quanto piuttosto il contrario: il trauma è uno dei maggiori fattori di rischio per tutti i disturbi psichici, indipendentemente dalla specifica diagnosi. Il trauma dello sviluppo genera una dimensione psicopatologica rivelata dalla presenza di specifici elementi clinici o da dirette prove di storie traumatiche e incide sulla gravità, sulla prognosi e sul trattamento di tutti i disturbi psichici. Un monumentale studio epidemiologico condotto dalla Harvard University su circa 5600 individui e pubblicato nel 2010 su Archives of General Psychiatry dimostrava che il trauma dello sviluppo rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio per circa un terzo dei pazienti adulti e per circa il 44 % della psicopatologia che esordisce durante l’infanzia e l’adolescenza (Green et al., 2010). McCrory e collaboratori, più recentemente, in una rassegna dei dati che provengono dagli studi di neuroimaging hanno confermato che: “Il maltrattamento infantile, incluso quello fisico, emotivo, il neglect, rappresenta verosimilmente il predittore più potente per la bassa qualità della salute psichica durante tutta la vita. Tali eventi di vita negativi incrementano il rischio di una vasta gamma di disturbi psichici durante l’infanzia e la vita adulta” (McCrory et al 2017).

Il TdS non è solo il “il predittore più potente per la bassa qualità della salute psichica” ma lo è anche per le malattie fisiche. Ciò è quanto è stato stabilito dallo studio ACE (Adverse Childhood Experiences) promosso dal Centro per la Prevenzione e Controllo delle Malattie del Dipartimento della Salute degli USA (Felitti 2009): “Lo studio ACE è una delle più vaste sperimentazioni mai condotte sull’associazione tra il maltrattamento infantile e lo stato di salute nella vita adulta (…) I risultati dello studio ACE suggeriscono che queste esperienze sono uno dei maggiori fattori di rischio per le più diffuse malattie, per la mortalità, così come per la bassa qualità della vita negli USA”.

Secondo i dati che provengono dalla letteratura scientifica il trauma non conduce solo al PTSD che è solamente la categoria diagnostica che descrive le conseguenze cliniche dei singoli eventi traumatici (e che non è in grado di descrivere la complessità clinica generata dal TdS), ma genera una dimensione patologica che diffonde in tutti i quadri clinici peggiorandone la prognosi e determinando resistenza a qualsiasi tipo di trattamento (Farina e Liotti 2013).

McCrory e colleghi (2017) stanno corredando con numerosi dati di letteratura le loro affermazioni a questo proposito: “I disturbi psichiatrici in coloro che hanno sperimentato maltrattamento infantile tendono a manifestarsi più precocemente, con una sintomatologia più grave (…) e con un aumentato rischio di comorbilità (…) Inoltre un disturbo in chi ha sperimentato maltrattamento infantile tende a essere più persistente, ad avere più ricadute e a rispondere meno agli approcci terapeutici standard.”. Questi sono i dati di realtà che illuminano la nostra attività clinica e ci proteggono contro la paura dei fantasmi.

Le cause che conducono il trauma dello sviluppo a generare resistenza al trattamento sono precise e in buona parte identificate dalle ricerche. E’ buona pratica clinica che lo psicoterapeuta conosca e disinneschi (laddove è possibile) tali processi patogenetici. Il principale di essi è dato dalle difficoltà nella relazione terapeutica e nella costruzione e nel mantenimento dell’alleanza terapeutica (Liotti e Farina, 2011). Relazione terapeutica e alleanza terapeutica sono tutt’altro che concetti “fumosi” e “poco promettenti come strumento terapeutico” come hanno affermato Sassaroli e colleghi.

Essi hanno affermato che “Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire”. Un’enorme e crescente letteratura scientifica, anche in ambito cognitivista, contraddice queste affermazioni che riducono il lavoro con e sulla relazione terapeutica alla “buona educazione” (Semerari 2000, Dimaggio et al 2010, Liotti e Monticelli 2014). La stima che ho dei colleghi Sassaroli, Caselli e Ruggiero mi spinge a invitarli a riconsiderare le loro affermazioni antiscientifiche su un tema così importante. Le difficoltà terapeutiche con i pazienti che hanno subito una qualche forma di trauma dello sviluppo ci impongono invece di conoscere la ricerca empirica e teorica sulla relazione terapeutica ed affinare le capacità e le tecniche che ci permettono di utilizzarla come strumento di lavoro psicoterapico.

A distanza di 170 anni dalla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista possiamo dire che, almeno in Europa, lo spettro del comunismo si è dissolto e che ad avere timore dei comunisti sono rimasti alcuni politici italiani come Berlusconi e Salvini che continuano la loro personale “caccia alle streghe” (Marx e Engels 1847) per accaparrarsi consensi. Spero che Sandra Sassaroli, Giovanni Ruggiero e Gabriele Caselli si possano sentire confortati sul rischio del pantraumatismo già da questi pochi dati e dalle fonti che ho citato. Dati scientifici controllati che affermano il ruolo primario del trauma dello sviluppo nel generare la psicopatologia e quello centrale del lavoro con la relazione terapeutica.

Le competenze dei bambini bilingue nel riconoscimento delle voci

Secondo un nuovo studio i bambini bilingue avrebbero delle capacità in più rispetto ai loro coetanei monolingue.

 

I risultati, pubblicati sulla rivista Bilingualism: Language e Cognition, suggeriscono che la capacità di saper parlare più di una lingua va ben oltre i vantaggi cognitivi.

Secondo la Dottoressa Susannah Levi, i bambini bilingue hanno un vantaggio sui coetanei monolingue quando si tratta di elaborare informazioni sulla voce durante un colloquio. Questo vantaggio si verifica nell’aspetto della percezione del linguaggio: non vengono elaborate solo informazioni linguistiche, ma anche informazioni su chi sta parlando e su come lo sta facendo

Nel suo studio la Dottoressa Levi ha esaminato come i bambini elaborano informazioni mentre una persona parla. Quarantuno bambini hanno partecipato allo studio: 22 bambini monolingue e 19 bambini bilingue. I bambini bilingue parlavano inglese e sono stati quotidianamente esposti ad una seconda lingua (di solito il tedesco). Inoltre, essi sono stati divisi per età in due gruppi: un gruppo di bambini fino ai 9 anni, e un gruppo di bambini dai 10 anni in poi.

Bambini bilingue: la capacità di ascolto e riconoscimento vocale

I bambini hanno compiuto una serie di compiti di ascolto. In un primo compito i bambini, monolingue, dovevano ascoltare una serie di parole in una lingua che conoscevano (inglese, parlato con un accento tedesco) e in un linguaggio sconosciuto (tedesco). Ai bambini fu poi chiesto se le parole che avevano ascoltato provenissero, basandosi su sintomi vocali, dalla stessa persona o da persone diverse.

In un secondo compito, ai bambini fu chiesto di identificare le voci interpretate da personaggi dei cartoni animati. Dopo aver ascoltato i personaggi dire una serie di parole, i bambini hanno successivamente ascoltato una sola parola e hanno in seguito indicato quale dei personaggi avesse parlato. Questi compiti hanno rivelato che i bambini più grandi hanno eseguito i compiti meglio dei bambini più giovani, confermando gli studi precedenti i quali affermano che si migliora con l’età.

La Dottoressa Levi ha anche scoperto che i bambini bilingue eseguono questo tipo di compiti meglio dei bambini monolingue. Quando ascoltavano persone parlare in inglese, i bambini bilingue sapevano discriminare meglio e identificare meglio le voci. Lo studio, continua la Dottoressa, evidenzia i vantaggi del bilinguismo nell’apprendimento e nello sviluppo cognitivo. Altri studi in letteratura dimostrano che i bambini bilingue possono apprendere più conoscenze ascoltando i discorsi, presentano un miglior controllo cognitivo e un maggior grado di concentrazione.

Lo studio fornisce un esempio di quelli che sono i vantaggi del parlare e comprendere più lingue contemporaneamente anche se serviranno ulteriori ricerche per comprenderne i meccanismi sottostanti.

Diabete: la terapia cognitivo-comportamentale riduce la fatica

La fatica è una delle condizioni meno studiate nel diabete. Un gruppo di ricercatori olandese ha valutato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nella riduzione di questo sintomo.

 

Un nuovo studio (Juliane Menting et al, 2017) randomizzato e controllato – pubblicato online da The Lancet Diabetes and Endocrinology – dimostra che la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), erogata sia frontalmente, sia via web, riduce notevolmente la stanchezza nei pazienti con diabete mellito di tipo 1. Questa è una forma di diabete che si manifesta prevalentemente nell’infanzia e nell’adolescenza ed è caratterizzata da una carente produzione di insulina con conseguente iperglicemia.

La stanchezza cronica nei pazienti con diabete: il contributo della terapia cognitivo-comportamentale

Questa ricerca clinica è la prima che ha indagato la fatica nei soggetti affetti da diabete di tipo 1. Menting e colleghi scrivono che buona parte (fino al 40%) dei pazienti affetti da diabete di tipo 1 presenta una forma di stanchezza cronica, definita come un’importante stanchezza che dura almeno da sei mesi (Pouwer F., 2017). L’impiego della terapia cognitivo-comportamentale per curare la stanchezza cronica – basato sull’idea che se la malattia provoca la stanchezza sono tuttavia i fattori cognitivi-comportamentali che mantengono i sintomi – ha dimostrato di essere efficace nei pazienti sofferenti anche di altre malattie croniche.

Menting e il suo team hanno eseguito uno studio controllato randomizzato multicentrico presso un centro medico universitario e quattro grandi ospedali nei Paesi Bassi. I pazienti arruolati nello studio, tra il 6 febbraio 2014 e il 24 marzo 2016, erano di età compresa tra 18 e 70 anni ed erano affetti da diabete mellito di tipo 1 da almeno 1 anno e stanchezza cronica da almeno 6 mesi. I 120 pazienti arruolati sono stati divisi casualmente (tramite computer) in due gruppi. Il primo ha ricevuto per cinque mesi la terapia cognitivo comportamentale (Dia-Fit), mentre il secondo è stato inserito in una lista di attesa. I pazienti del gruppo trattato sono stati sottoposti a 5-8 sedute faccia a faccia con uno psicologo clinico e poi hanno completato 8 moduli via web.

Nel trattamento i pazienti hanno imparato, per esempio, a regolare meglio la loro attività fisica o a ottimizzare il ciclo sonno-veglia o a cambiare le loro idee negative sulla fatica. L’obiettivo del trattamento non è stato quello di imparare a fronteggiare la fatica, ma quello di ridurre effettivamente la stanchezza. Alla fine del trattamento, i punteggi relativi al grado di severità della fatica, nei pazienti del gruppo trattato con psicoterapia cognitivo-comportamentale, erano di 13,8 punti inferiori rispetto al gruppo di controllo (p <0,0001).

Nonostante i risultati promettenti, è necessario proseguire con le ricerche per dimostrare se gli effetti del trattamento possono essere mantenuti nel tempo e per trovare le spiegazioni del suo funzionamento. L’impressione, secondo gli autori, è che la stanchezza sia spesso trascurata a causa del tempo limitato che i medici dedicano a questo sintomo essendo concentrati soprattutto sulla stabilizzazione della glicemia.

Nell’editoriale (2017), che ha accompagnato la pubblicazione dell’articolo, si osserva che alcuni studi hanno suggerito come l’ipoglicemia notturna contribuisca alla stanchezza, ma gli autori non hanno affrontato questo problema nello studio. I risultati del team di Menting devono essere confermati in ulteriori studi, ma quanto è emerso suggerisce che l’affaticamento cronico nel diabete di tipo 1 è suscettibile di trattamento. È una notizia positiva sia per i pazienti, sia per la ricerca futura in questo ambito ancora poco indagato.

I Bisogni educativi speciali. Diagnosi, prevenzione e intervento (2016) – Recensione

I Bisogni Educativi Speciali. Diagnosi, prevenzione e intervento di Monica Pratelli e Francesca Rifiuti è un interessante lavoro in cui si dà spazio, valore e voce a tutti i protagonisti della sempre più complessa realtà scolastica e educativa.

 

Bisogni educativi speciali: l’importanza del rapporto tra scuola e famiglia

Il testo si apre con una ricca testimonianza di temi e riflessioni che vanno dallo sguardo dei più piccoli sul contesto scolastico, all’attenzione dei genitori sui bambini, fino al rapporto tra scuola, famiglia e servizi.

È proposto un ambiente scolastico che, se osservato con attenzione, non manca di rivelarci il modo in cui ciascun alunno occupa il proprio posto in esso, con interesse e curiosità, noia e persino sofferenza, ma anche con desiderio di miglioramento. Il più delle volte, proprio dietro quest’ultimo, si coglie la semplicità delle richieste, che dovute e possibili risultano ancora poco accolte.

Allo stesso modo, anche l’osservazione dell’ambiente familiare ci consente di rilevare quanto i genitori riescano a rispondere, talvolta, con fatica ai bisogni educativi speciali dei bambini. Il tempo del fare tutto e a tutti costi sembra aver occupato il posto di quello della condivisione e del piacere di stare insieme, privandolo di quella qualità in cui si consolida l’interesse per l’apprendimento e si dà importanza al naturale processo di crescita.

Un importante messaggio sulla relazione esistente tra il valore che il bambino attribuisce a se stesso e ciò che gli adulti vedono di lui e gli comunicano direttamente e non, si coglie perfettamente in queste parole di Monica Pratelli e Francesca Rifiuti (2016) “I figli hanno però bisogno di quotidianità, di sentirsi nella mente dei genitori, di percepire che ciò che fanno a scuola è “interessante” agli occhi dei grandi” (p. 21). In esse si condensa l’importanza di perseguire un equilibrio di forze comunicative e comportamentali tra scuola e famiglia per la promozione del benessere non solo individuale, ma anche collettivo.

Più precisamente, quello cui le autrici fanno riferimento, è un impegno corresponsabile portato avanti da parte della scuola e della famiglia nel trasmettere un messaggio positivo ai bambini e nel condividere un ambiente accogliente e capace di comunicare apertamente; la collaborazione con i servizi del territorio e il rispetto reciproco devono, inoltre, guidare il transito verso obiettivi educativi comuni.

Un sistema così organizzato permette un’importantissima attività di screening. A partire dalla scuola d’infanzia, indagando le principali aree dello sviluppo, con quest’attività valutativa è possibile individuare precocemente situazioni a rischio e predisporre programmi d’intervento efficaci.

Durante tali momenti d’indagine, nei quali gli operatori dei servizi dedicano una doverosa attenzione alla “prassi”, è altrettanto importante rivolgere uno sguardo verso quell’intessersi di vissuti, emozioni, desideri e attese, che dal primo colloquio, a quello di restituzione esplodono alla ricerca di uno spazio in cui essere accolti e compresi.

Bisogni educativi speciali: diagnosi e intervento

Proseguendo nella lettura, si viene accompagnati verso la conoscenza delle problematiche che riguardano l’apprendimento, dalla definizione, la valutazione delle competenze di base, alla diagnosi, fino all’intervento.

In quest’ampia sezione, che prende in esame i disturbi della comunicazione e coordinazione, di apprendimento, il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, il funzionamento psicologico in area limite, il disturbo dello spettro autistico e le difficoltà psicologiche e temporanee, prosegue la lettura sistemico-relazionale su cui il libro si fonda. Al clinico è offerto uno sguardo diagnostico nosografico e funzionale di ciascun disturbo, sono segnalati gli strumenti di valutazione e sono fornite indicazioni per il trattamento, individuale e familiare.

Di questi ultimi, si pone in evidenza che la misurazione dell’efficacia non può prescindere dalla considerazione delle relazioni autentiche su cui sono costruiti e il coinvolgimento attivo dei destinatari.

Seguendo questo itinerario è possibile riconoscere una “infinita” personalizzazione d’interventi. In primo piano, è collocata la complessità di ciascuna condizione ed è sostenuto uno sguardo che sia realmente interessato alle risorse, talvolta, trascurate. Si tratta di un’attenzione rivolta ai comportamenti positivi nei bambini con ADHD, al ricorso alla concretezza nei bambini con funzionamento psicologico in area limite, alla valorizzazione “contenuta” degli interessi nei bambini autistici, al doveroso sostegno per i bambini con livelli intellettivi superiori alla media. Quello proposto sembra un ambiente accogliente e comprensivo nei confronti di tutti i bambini, rispettoso delle difficoltà psicologiche e/o fisiche che stanno vivendo.

Un luogo in cui la valorizzazione delle differenze culturali passa attraverso modelli di comportamento inclusivi che per primi gli adulti, insegnanti e genitori, dovrebbero trasmettere ai bambini. Il terreno di un possibile incontro e confronto sulle difficoltà che personalmente provano nel comprendere una cultura molto differente dalla propria e sul modo in cui trasformarle in risorsa.

La scuola in definitiva è un laboratorio per sperimentare, conoscere, crescere” (Pratelli & Rifiuti, 2016, p. 263). Tuttavia, gravano su di essa criticità e resistenze che s’intrecciano con quelle familiari e dei servizi, allontanando quello spirito teso alla collaborazione multi – professionale, auspicabile per il suo rinnovamento.

La sovrapposizione di competenze e la confusione di ruoli, che talvolta si riscontra al suo interno, rendono difficile l’introduzione d’interventi che non siano solo compensativi ma finalizzati a stimolare lo sviluppo di risorse e strategie di apprendimento e dunque realmente efficaci.

Per tale ragione nel testo è fornita una chiara distinzione delle competenze e delle aree d’intervento proprie degli insegnanti, dello psicologo scolastico e del pedagogista clinico. Un’adeguata formazione e una conoscenza profonda del contesto in cui operano, delle caratteristiche, delle progettualità, dei bisogni e delle risorse degli istituti scolastici e del territorio costituiscono elementi indispensabili del loro agire.

Lo psicologo scolastico, impegnato nell’osservazione del gruppo classe, nella gestione delle dinamiche relazionali, comunicative ed emotive, non dovrebbe aderire a richieste di deresponsabilizzazione. Oltre al suo ruolo di supporto e formazione degli insegnanti, deve poter garantire uno spazio di ascolto destinato a genitori e alunni. Il pedagogista clinico, invece, è chiamato a sostenere un punto di vista educativo diretto a valorizzare le potenzialità e le differenze individuali nella programmazione didattica, nell’organizzazione degli ambienti e negli interventi di recupero e di potenziamento.

Il libro termina affidando alla scuola il compito di rinnovarsi, affinché possa essere rinnovato l’interesse nei confronti dell’apprendimento all’interno di uno spazio in cui poter respirare la soddisfazione di essere protagonista di esperienze positive, la dimensione del piacere che connetta alunni e insegnanti e un’attenzione positiva nei confronti dell’errore, proprio per l’importanza che riveste nel processo di apprendimento.

Lo sguardo verso i bambini durante una spiegazione, nel corso di una verifica come incoraggiamento, durante una qualsiasi attività per individuare la possibile difficoltà, per prevenire comportamenti inadeguati, per gratificare…tutto questo ha un grande valore” (Pratelli & Rifiuti, 2016, p. 258).

Il testo così concepito è uno stimolante invito all’esplorazione degli aspetti affettivi e sociali dei bisogni educativi speciali, un po’ troppo spesso trascurati.

 

La riabilitazione psichiatrica a vicolo cieco. Una conseguenza dell’inconsapevolezza sociale collettiva

La riabilitazione psichiatrica è un processo guidato in genere da un’èquipe multiprofessionale, nella quale un ruolo chiave è rivestito dal Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica (TeRP). Questo professionista ha il compito di progettare ed attuare interventi riabilitativi ed educativi in collaborazione con l’èquipe curante e la persona destinataria dell’intervento, al fine di potenziarne il funzionamento personale e sociale.

In cosa consiste la riabilitazione psichiatrica

La riabilitazione psichiatrica è un processo che ha come obiettivo principale la “guarigione sociale” della persona con disabilità psichiatrica. Essa lavora sulla compromissione delle abilità nello svolgere ruoli sociali e mira all’integrazione totale della persona nel contesto sociale di appartenenza a partire dalla riorganizzazione e dal potenziamento delle sue capacità residue.

La riabilitazione psichiatrica è un processo guidato in genere da un’èquipe multiprofessionale, nella quale un ruolo chiave è rivestito dal Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica (TeRP). Questo professionista ha il compito di progettare ed attuare interventi riabilitativi ed educativi in collaborazione con l’èquipe curante e la persona destinataria dell’intervento, al fine di potenziarne il funzionamento personale e sociale.

Per fare ciò si serve di tecniche e strumenti che funzionano solo se associati ad una competenza relazionale di base.

A livello sociale il compito di questo professionista è orientato alla creazione ed al mantenimento di una rete collaborativa con l’esterno. Per esterno ci si riferisce alla cerchia dei familiari e conoscenti dell’utente, ma anche alla realtà sociale più ampia, al fine di mediare l’inserimento della persona che vive l’esperienza della malattia mentale nella società sia a livello ricreativo che lavorativo.

I limiti e le difficoltà di attuazione della riabilitazione psichiatrica

L’inserimento della persona con disabilità psichiatrica nella società risulta di difficile attuazione, soprattutto nel mondo del lavoro. A prescindere dall’attuale crisi che interessa il nostro Paese, ciò avviene da un lato per il timore della persona avente il disagio psichico di frequentare posti “non protetti” lontani dall’atmosfera rassicurante e non giudicante propria delle strutture psichiatriche, dall’altro per la mancanza di prontezza della società che fatica ancora ad aprirsi a questo tipo di disabilità, vuoi per l’assenza di politiche forti, vuoi per la mentalità orientata al profitto più che al processo.

Inoltre, anche se a livello legislativo è ormai da tempo sancita la centralità della persona con disabilità nei percorsi di inserimento lavorativo, nella pratica dei fatti gli esigui inserimenti lavorativi che si concretizzano risultano spersonalizzanti e inadeguati a rinforzare e valorizzare le capacità della persona. Gli utenti vengono spesso inseriti in tirocini o percorsi lavorativi che non sono loro a scegliere e che non tengono conto delle loro potenzialità e vocazioni. Questo sistema che si definisce riabilitativo risulta ad uno sguardo più attento molto disfunzionale, oltre che predisponente alla ricaduta.

Quanto può ritenersi efficace il lavoro riabilitativo effettuato all’interno delle strutture se l’ambiente esterno si trova impreparato ad offrire agli utenti la possibilità di generalizzare le capacità riacquisite dopo un percorso riabilitativo?

È ormai assodato sul piano teorico che la disabilità altro non è se non una condizione di salute che si scontra con un ambiente sfavorevole.
Risulta fondamentale ormai l’addestramento della società alla responsabilità sociale, anche attraverso la sollecitazione delle aziende a munirsi degli strumenti teorici e tecnici per facilitare il processo di inserimento della persona con bisogni speciali al suo interno.

La necessità che sembra emergere è quella di abbattere la convinzione che l’integrazione della persona con disabilità psichiatrica a livello lavorativo sia un optional legato alla filosofia più o meno tollerante delle aziende e dei datori di lavoro. L’accessibilità lavorativa e sociale per le persone con disabilità è un diritto e interessa tutti allo stesso modo, perché come citava il messaggio di sensibilizzazione dell’associazione di volontariato toscana “I care” in un cartellone pubblicitario del 2011: “tutti possiamo diventare disabili, ma ognuno di noi può aiutare”.

La realtà virtuale nella pratica terapeutica: il video dall’esperienza del Forum di Riccione

Nel corso del Forum di Psicoterapia e Ricerca della Scuola di specializzazione Studi Cognitivi, sono state proposte a tutti gli allievi e docenti alcune esperienze di possibili usi nella pratica terapeutica di apparecchiature di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Prof. Gianni Brighetti

 

Nel corso del Forum di Psicoterapia e Ricerca della Scuola di specializzazione Studi Cognitivi tenutosi a Riccione il 5 e 6 Maggio 2017, accanto alle presentazioni di quasi 200 lavori di ricerca condotti dagli allievi delle diverse sedi della Scuola, sono state proposte a tutti gli allievi e docenti alcune esperienze di possibili usi nella pratica terapeutica di apparecchiature di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Negli ultimi anni si è assistito anche nell’ambito della terapia psicologica ad un consistente aumento di sperimentazioni di tecniche immersive virtuali. Nell’ambito della terapia del dolore McSherry et al. (2017); in quello delle fobie, Botella et al.(2017); Lindner et al. (2017); nel trattamento dei disturbi d’ansia, Kampmann et al. (2016); nella Exposure Therapy, unendo realtà virtuale e realtà aumentata Ben-Moussa et al. (2017).

Realtà virtuale nella pratica terapeutica video dall'esperienza del Forum di Riccione

Forum di Riccione – Docenti e allievi provano la realtà virtuale

Come mostra il video, filmato e montato da Mattia Nese, un giovane psicologo che si sta dedicando con impegno e passione al settore delle tecnologie digitali nella psicoterapia, supportato dalla Scuola Studi Cognitivi e con il contributo fondamentale della Società di Ingegneria Touchlabs di Bologna, gli effetti di immersività e di realismo degli scenari presentati sono davvero notevoli.

La Scuola di Studi Cognitivi ha avviato un progetto di ricerca aperto al contributo di tutte le sue sedi nazionali, per la progettazione e la sperimentazione di ambienti virtuali e di realtà aumentata con Avatars, utilizzabili nella pratica di flooding per la gestione e la terapia di disturbi fobici e post traumatici, di riabilitazione attraverso sistemi di Mobile Health, seguendo l’esempio dei progetti del Maudsley Biomedical Research Centre e di ricostruzione della memoria autobiografica a partire dall’anamnesi remota e recente.

 

REALTA’ VIRTUALE E PRATICA TERAPEUTICA – IL VIDEO DALL’ESPERIENZA DEL FORUM DI RICCIONE

https://www.youtube.com/watch?v=GWKgzG2TvnU

La nuova frontiera sull’origine della malattia di Parkinson

Uno studio pre-clinico suggerisce che la malattia di Parkinson potrebbe originare dalle cellule endocrine dell’intestino: la proteina correlata al Parkinson potrebbe diffondersi dall’intestino al sistema nervoso.

 

Malattia di Parkinson: sintomatologia

La malattia di Parkinson è neurodegenerativa e progressiva, causata principalmente da una perdita dell’input dopaminergico dalla sostanza nera (pars compacta) allo striato, con conseguente ipoattivazione dell’area supplementare motoria e dell’area motoria primaria. All’interno dei neuroni residui si osservano inclusioni citoplasmatiche denominate corpi di Lewy e costituiti da α-sinucleina, proteina implicata nella patogenesi della malattia.

Le manifestazioni cliniche sono devastanti, la malattia di Parkinson è caratterizzata dalla presenza di rallentamento motorio (bradicinesia), rigidità muscolare e tremore.

Nella maggior parte dei casi, la malattia di Parkinson si trasmette in forma sporadica, senza che sia possibile identificare correlazioni con particolari eventi, condizioni o alterazioni genetiche. Alcune evidenze cliniche e patologiche mostrano che l’incremento di α-sinucleina avviene prima nel sistema nervoso enterico che in quello centrale.

La possibile connessione tra intestino e cervello per spiegare la malattia di Parkinson

Alcuni recenti studi relativi al Parkinson si sono concentrati sulla connessione intestino-cervello, esaminando i batteri dell’intestino; inoltre, è stato osservato come la separazione del nervo vago, che collega lo stomaco e il cervello, sarebbe in grado di proteggere alcune persone dalla malattia debilitante.

I ricercatori della Duke University hanno identificato un nuovo potenziale meccanismo delle cellule endocrine nell’intestino sia nei topi che negli esseri umani. All’interno di queste cellule si trova l’α-sinucleina; questa proteina è in grado di danneggiare il cervello a causa della sua tendenza ad aggregarsi, formando oligomeri più grandi che creano depositi tipici nei neuroni malati, i cosiddetti corpi di Lewy, sia nei pazienti con malattia di Parkinson che in pazienti con malattia di Alzheimer.

Secondo i risultati pubblicati il 15 giugno nella rivista JCI Insight, i ricercatori della Duke e i collaboratori dell’Università della California di San Francisco ipotizzano che un agente nell’intestino potrebbe interferire con l’α-sinucleina nelle cellule endocrine deformando la proteina. Tale proteina deformata o la sua aggregazione potrebbe quindi diffondersi attraverso il sistema nervoso nel cervello come prione (proteina alterata derivata da proteine normali prodotte dalle cellule), o proteine infettive, in modo simile alla malattia della mucca pazza. Questo dato supporta l’ipotesi che il disturbo neurodegenerativo potrebbe effettivamente originare dall’intestino.

L’ α-sinucleina è la componente principale dei corpi di Lewy o dei depositi proteici tossici che innescano la morte dei neuroni dopaminergici, uccidendoli dall’interno. Gli aggregati proteici si formano quando l’α-sinucleina sviluppa un errato ripiegamento nella sua struttura, normalmente a spirale, rendendola “appiccicosa” e soggetta ad aggregazione.

La domanda che sorge spontanea è: come può una proteina viaggiare dal tubo digerente, dove non ci sono cellule nervose, e arrivare fino al sistema nervoso? I ricercatori della Duke hanno mostrato che, anche se la funzione principale delle cellule endocrine dell’intestino è quella di regolare la digestione, esse hanno anche proprietà nervose.

Piuttosto che utilizzare gli ormoni per comunicare indirettamente con il sistema nervoso, queste cellule endocrine dell’intestino si collegano fisicamente alle cellule nervose, fornendo una via per comunicare con il cervello. I ricercatori hanno dimostrato questo in uno straordinario time-lapse (2015, Journal of Clinical Investigation) in cui una cellula endocrina intestinale viene osservata mediante microscopio in prossimità di un neurone. In poche ore la cellula endocrina si muove verso il neurone, appaiono le fibre tra loro e si stabilisce la connessione. Il video dimostra che le cellule endocrine sono in grado di comportarsi come le cellule nervose; ciò suggerisce che esse sono in grado di comunicare direttamente con il sistema nervoso e quindi con il cervello.

Con la nuova ricerca sull’ α-sinucleina nelle cellule endocrine, Liddle e colleghi ora hanno una spiegazione funzionale di come le proteine malformate possono diffondersi dall’interno dell’intestino al sistema nervoso, utilizzando una cellula non nervosa che agisce però come tale.

I ricercatori intendono raccogliere ed esaminare le cellule endocrine dell’intestino in pazienti Parkinson per osservare se contengono una α-sinucleina misfolded o anormale. Nuove informazioni su questa proteina potrebbero aiutare gli scienziati a sviluppare un biomarker che potrebbe diagnosticare precocemente la malattia di Parkinson.

Ulteriori approfondimenti sull’ α-sinucleina potrebbero essere utili per lo sviluppo di terapie che agiscono direttamente sulla proteina. Gli scienziati sono alla ricerca di trattamenti in grado di impedire che l’α-sinucleina si deformi ma, per ora, lo studio è ancora in una fase iniziale.

Neurodiversità: le variazioni neurali sono un ostacolo o una risorsa?

Negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità. Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. 

Sara Bocchicchio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Neurodiversità: semplice variazione umana o segno di patologia?

Dal 1889, a Sèvres, nei dintorni di Parigi, nei sotterranei del Bureau international des poids et mesures (in italiano, ufficio internazionale dei pesi e delle misure), in una stanza blindata e sotto tre campane di vetro, si trova custodito un cilindro metallico chiamato Grand Kilo. Esso rappresenta lo standard mondiale del chilogrammo e a esso fanno riferimento tutte le bilance dei Paesi che lo impiegano come unità di misura della massa. Per quanto riguarda il cervello umano non esiste uno standard, un prototipo mondiale al quale devono essere confrontati tutti gli altri cervelli umani.

Quindi com’è possibile decidere se il cervello o la mente di un individuo è normale o anormale? Indubbiamente nel mondo psichiatrico esistono molti tentativi di classificazione dei disturbi mentali, ma quando si tratta di condizioni come l’Autismo, il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI, in inglese ADHD), la Dislessia e i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) sembra che vi sia una sostanziale incertezza su quale sia la soglia critica che permette di definire un comportamento con una base neurologica, come una normale variazione umana o come segno di patologia (Armstrong, 2015).

Uno dei motivi di questa ambiguità è l’emergere negli ultimi due decenni di studi che suggeriscono che molti disturbi del cervello o della mente si caratterizzano sia di punti di forza che di debolezza. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, ad esempio, sembrano avere punti di forza legati al lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).

Uno dei risvolti pratici di queste particolari abilità è rappresentato dalla scelta di molte aziende che operano in ambito tecnologico di assumere persone autistiche per mansioni lavorative che richiedono abilità di organizzazione e di sequenziamento come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici (Wang, 2014). Altri studi hanno evidenziato le notevoli abilità visuo-spaziali che possono possedere i dislessici, tra cui la capacità di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) e l’abilità di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008). Queste abilità possono rivelarsi molto vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2012).

I ricercatori hanno osservato che i soggetti con Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) possiedono livelli di creatività e innovazione maggiori rispetto a persone di pari età e scolarità non DDAI (White & Shah, 2011). Esistono, poi, numerose testimonianze di persone che hanno raggiunto un enorme successo; tra i dislessici ricordiamo il celebre Steve Jobs che ha rivoluzionato il mondo della tecnologia e Richard Branson leader del colosso Virgin che ha definito la sua Dislessia “un vantaggio”; per quanto riguarda lo spettro autistico ricordiamo l’attore canadese Dan Aykroyd e la ricercatrice e blogger Michelle Dawson, una delle ricercatrici più importanti nell’ambito dell’autismo; per quanto riguarda il DDAI, infine, ricordiamo il famosissimo attore Jim Carrey e l’imprenditore brasiliano-statunitense David Neeleman fondatore di quattro compagnie aeree.

I vantaggi evolutivi della psicopatologia

Tali punti di forza possono spiegare da un punto di vista evolutivo il motivo per cui questi disturbi siano ancora nel pool genico. Alcuni scienziati suggeriscono che la psicopatologia talvolta può portare con sé specifici vantaggi evolutivi, nel passato, così come nel presente (Brüne et al., 2012).

Le capacità organizzative delle persone con disturbo dello spettro autistico potrebbero essersi rivelate vantaggiose e adatte alla sopravvivenza degli esseri umani preistorici. Come ipotizza in modo provocatorio un attivista appartenente al movimento per i diritti delle persone autistiche al New York Magazine nel 2008: “A realizzare la prima lancia di pietra probabilmente è stato un giovane con autismo ad alto funzionamento e non uno tra quelli con spiccate doti sociali soliti chiacchierare intorno al fuoco” (Solomon, 2008). Allo stesso modo, l’abilità di pensare per immagini e il pensiero tridimensionale evidenziati in alcuni dislessici potrebbero essere stati estremamente utili nelle culture preletterate per la progettazione di strumenti, per tracciare i percorsi di caccia e la costruzione di ripari (Ehardt, 2009).

La Dislessia e i DSA si prestano molto bene per comprendere quanto spesso questi disturbi rappresentino artefatti della società. La Dislessia non è una disabilità, ma una differenza nello stile di apprendimento. Le persone con Dislessia hanno molte difficoltà nell’apprendimento e nell’automatizzazione della lettura, pertanto, faticano nel corso degli studi scolastici in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se pensiamo alle società preletterate, quando il sapere era veicolato soprattutto per via orale, la Dislessia non aveva modo di emergere e soprattutto non rappresentava un ostacolo alla sopravvivenza e alla riuscita personale! Infine, possiamo ipotizzare che i sintomi principali del DDAI, tra cui l’iperattività, la facile distraibilità e l’impulsività, potevano rappresentare tratti estremamente adattativi e funzionali alle società preistoriche nelle quali le abilità di caccia e di ricerca di cibo, la velocità di reazione agli stimoli ambientali minacciosi e l’abilità di muoversi rapidamente potevano contribuire allo sviluppo e alla prosperità della comunità stessa (Jensen et al., 1997).

Neurodiversità: le qualità delle persone neurodiverse

L’insieme di questi studi dovrebbe suggerire un approccio più giudizioso al trattamento di queste particolari condizioni. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di sostituire i termini “disabilità”, “disturbo” o, peggio, “malattia” con il concetto di “diversità” che permette di tenere in considerazione sia i punti di forza che di debolezza, e abbracciando l’idea che queste “variazioni umane” possono essere vantaggiose in sé e per sé (Armstrong, 2015). A tal fine, negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità.

Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni. Con questa nuova definizione la sociologa ha voluto evidenziare le attitudini, le qualità e le capacità delle persone neurodiverse con la speranza che le differenze neurologiche venissero riconosciute semplicemente come “variazioni umane”. Richiamando termini positivi, come la biodiversità e la diversità culturale, il suo neologismo ha richiamato l’attenzione sul fatto che un funzionamento cerebrale atipico può portare allo sviluppo di competenze e attitudini insolite. A proposito dei disturbi dello spettro autistico, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008, Judy Singer spiega: “Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali” (Solomon, 2008).

Un modo per capire la neurodiversità è pensare che solo perché un computer non usa Windows come sistema operativo non significa che non funzioni correttamente. Non tutte le caratteristiche atipiche dei ‘sistemi operativi umani’ sono difetti. Il termine neurodiverso si riferisce all’organizzazione strutturale del cervello; un cervello neurodiverso possiede una struttura cerebrale atipica che implica un modo differente di elaborare le informazioni, un modo differente non patologico! Per quanto riguarda i mezzi di stampa, il termine neurodiversità fece la sua prima apparizione nel 1998 grazie ad un articolo del giornalista Harvey Blume pubblicato sulla rivista Wired Hot Wired, nella sezione Atlantic. Blume dichiarò: “la neurodiversità può essere altrettanto cruciale per il genere umano quanto la biodiversità per la vita in generale. Chi può dire quale tipo di cablaggio si rivelerà il migliore in un dato momento? La cibernetica e l’informatica, per esempio, potrebbero favorire un’organizzazione ‘autistica’ della mente“ (Blume, 1998). Assumere questa posizione aiuta a comprendere perché le persone neurodiverse sono spesso disoccupate o demansionate; le aziende sono riluttanti ad assumere lavoratori che guardano, agiscono, e comunicano in modi non-neurotipici, usando una tastiera e software di sintesi vocale per esprimere se stessi, piuttosto che chiacchierare intorno ad una macchinetta del caffè!

Da allora, l’uso del termine neurodiversità ha continuato a crescere anche al di là del movimento per i diritti delle persone autistiche, nell’ambito degli studi sulla disabilità e sulle modalità educative speciali, nell’ambito lavorativo, ma anche in ambito sanitario e nelle istituzioni pubbliche. Questo, tuttavia, è vero se prendiamo in considerazione Paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, mentre in Italia la conoscenza e la diffusione del termine neurodiversità è praticamente nulla!

In questi anni di ricerche il mondo scientifico, mosso dall’esigenza di sostenere queste persone nel corso delle varie tappe di vita, si è soffermato soprattutto sugli aspetti negativi legati a queste condizioni contribuendo a diffondere l’idea che queste persone rappresentino una categoria “debole”, bisognosa di tutele e di sostegno da parte delle istituzioni. Questa visione, tuttavia, rappresenta solo un lato della medaglia. Adottare il concetto di neurodiversità potrebbe contribuire a diffondere un’idea più precisa di queste condizioni che tenga conto sia dei sui punti di forza che di debolezza e favorire, quindi, il successo e la realizzazione personale di queste persone. Essere neurodiversi non rappresenta di per sé un ostacolo al successo personale e professionale. E’ la scarsa comprensione del fenomeno e il mancato sostegno ad impedire la crescita di queste persone e ciò costituisce una perdita netta per l’intera società. E’ solo grazie alla diffusione di una conoscenza più precisa e all’intervento delle nostre istituzioni che potremo considerare queste persone non solo individui da tutelare, ma soprattutto talenti da non sprecare e l’adozione del termine neurodiversità sembra proprio un ottimo punto di partenza!

 

Daniel David: lectio magistralis su Integrative e Multimodal CBT – Report dall’ International Congress of Cognitive Psychotherapy, Romania 2017

Il tema portante del 9° International Congress of Cognitive Psychotherapy a Cluj-Napoca, su cui ha esposto Daniel David, è la ricerca di una unità di fondo tra i molteplici approcci che appartengono all’ormai vasto ombrello di terapie cognitivo comportamentali. Una meta affascinante e comprensibile in un periodo scientifico così confuso per la psicoterapia.

 

Tuttavia, a parere di chi scrive, una meta idealistica e sfuggente, spesso ridotta a un esercizio di diplomazia scientifica entro tavole rotonde i cui partecipanti sembrano, nella sostanza, più interessati a evitare litigi che a compiere un reale movimento in direzione integrativa.

Tuttavia è una meta in cui qualcuno crede fermamente. Tra questi l’organizzatore del congresso Daniel David, che innalza il vessillo dell’integrazione nel corso della sua lezione magistrale. Il suo sforzo è encomiabile sia per il valore che sottende che per l’accuratezza con cui lo descrive. Siamo in un’epoca strana per la psicoterapia scientifica. Molti creano un modello, fanno un paio di studi di efficacia, vedono che è meglio del non far nulla (meno male), lo promuovono in ampia scala con interpretazioni spesso esagerate spingendosi anche oltre i confini dei due piccoli studi di validità. Quando va poi bene si trova un ricercatore importante che si appassiona, trova finanziamenti per un grant più corposo. Ancora una volta si mostra efficace rispetto a nessun intervento o nel migliore dei casi eguaglia interventi che hanno una storia di ricerca consolidata. La promozione viene implementata su scala mondiale.

Naturalmente questa è una esagerazione un po’ distopica. Un’altra prospettiva mentale suggerisce entusiasmo per la costante crescita e sviluppo di una disciplina scientifica e per la maggior vicinanza alla ricerca rispetto al passato da parte di quegli approcci storicamente refrattari alla verifica del dato. Tra questi estremi c’è però un pericolo vero, vale a dire che la proliferazione confonda le acque e ignori l’importanza dei principi empirici di base della terapia cognitivo comportamentale o anche tutti quei modelli che non si ritrovano in questo paradigma. Un rischio possibile, che non è sempre vero. Esistono alcune nuove terapie che sono passate al vaglio dell’efficacia dopo vent’anni di ricerca sui principi teorici, ma sono un’esigua minoranza.

Daniel David: un modello di valutazione delle psicoterapie

Daniel David fa leva su questo punto: ora che la ricerca in psicoterapia sta esplorando in modo massiccio il mondo della evidence-based medicine è importante ricordarsi di dimostrare in modo stabile la validità della base teorica delle diverse psicoterapie. Soprattutto alla luce del dato descritto poco prima da Pim Cuijpers riguardo la depressione: molte terapie si equivalgono senza apportare una forte innovazione.

In sintesi, per Daniel David occorre che terapie e protocolli di intervento si muovano verso fondamento teorico stabile, sia che nel campo della CBT standard, sia in nuovi orizzonti teorici e terapeutici. Per andare in questa direzione Daniel David propone un modello interessante di valutazione delle psicoterapie, in cui la classificazione di qualità non sia basata solo sui dati di esito (come avviene normalmente nelle linee guida internazionali) ma anche sulla solidità scientifica delle teorie di riferimento e quindi degli elementi che mediano il processo di cambiamento.

Così potremmo avere modelli terapeutici, valutati di alta qualità, qualora mostrino solidi dati a supporto della teoria di riferimento e dell’efficacia della tecnologia psicoterapeutica a essa associata. In alternativa, alcuni modelli potrebbero avere numerosi dati di efficacia, ma una teoria non solida nella spiegazione dei suoi meccanismi di azione, oppure ancora una teoria solida ma una tecnologia terapeutica non ancora sviluppata o non ancora all’altezza. Entrambe queste due classificazioni identificherebbero una qualità moderata dell’intero approccio. Ciò non significa che se manca validità teorica un approccio efficace non debba essere usato, ma non sarebbe la prima scelta in caso esistano modelli capaci di soddisfare entrambi i requisiti. Inoltre, la classificazione proposta da Daniel David può avere anche un grande vantaggio su larga scala creando un contesto che orienti ricercatori ed enti finanziatori verso progetti di ricerca che non si limitano alla proliferazione di studi di efficacia ma che favoriscano la copertura di un punto di debolezza di un certo approccio psicoterapeutico.

Si diceva una meta sfuggente, se si pensa di dirigere lo sforzo di fondatori o ambasciatori di un singolo approccio. Ma diventa più realistica a fronte di una proposta contestuale e concreta come quella di Daniel David. Quindi, in bocca al lupo.

Depressione e ricerca: Lectio Magistralis con Pim Cuijpers – Report dall’ International Congress of Cognitive Psychotherapy, Romania 2017

Pochi giorni fa è iniziato il 9° International Congress of Cognitive Psychotherapy a Cluj-Napoca e si è aperto con la lezione magistrale di Pim Cuijpers (VrijeUniversiteit Amsterdam), uno dei ricercatori più influenti negli ultimi dieci anni nel campo della psicologia e della psichiatria (secondo il ranking della Microsoft Academic Search).

 

Pim Cuijpers presenta al suo attivo oltre 500 pubblicazioni scientifiche dedicate principalmente all’analisi dell’efficacia delle psicoterapie nel trattamento dei disturbi depressivi. “Un uomo semplice che guarda i dati”, così ama definirsi. Li guarda bene, i dati. Cerca, devo dire con successo, di liberare il campo da illusioni e convinzioni che spesso si radicano nella mente del clinico o del ricercatore che fatica a districarsi tra l’innumerevole quantità di pubblicazioni e si trova costretto a basarsi su informazioni parziali. Pim Cuijpers invece le informazioni le raccoglie tutte, anche quelle da studi mai pubblicati. Esplora domande di grant, progetti registrati su database internazionali e mai giunti su una rivista scientifica. Insomma, se non tutto, una buona approssimazione del tutto.

Ed è così che Pim Cuijpers riesce a svelare illusioni e tracciare linee di demarcazione. Alcune molto forti: negli ultimi 50 anni, nonostante gli sforzi, non siamo riusciti a portare alcun incremento all’efficacia del trattamento dei disturbi depressivi. Punto. Vien la voglia di andarsene a casa a schiena piegata. Ma ci fermiamo perchè Pim Cuijpers, forse notando il movimento sospetto dei partecipanti, invita ad attendere l’arrivo di un po’ di speranza. Così ci facciamo forza e ascoltiamo ancora.

Pim Cuijpers: l’importanza del rigore nella metodologia di ricerca

La questione infatti è un po’ più complessa. A oggi il proliferare di approcci che hanno abbracciato un paradigma scientifico (evidence-based) sono in costante aumento. Ognuno di questi ha qualche dato di efficacia che viene normalmente utilizzato per sostenerne l’esistenza . Ma un mondo dove tutto vale un poco, si produce moltissima confusione. Quindi la scienza è spinta a pulire il campo aumentando il grado di rigore, stringe il cerchio del metodo scientifico per evidenziare quali sono gli approcci che sopravvivono. Pim Cuijpers è certamente un emissario di questa missione scientifica.

L’aumento del rigore significa considerare errori metodologici, rischio di bias, dati provenienti da ricerche non pubblicate e molto altro ancora. Così viene alla luce che la psicoterapia non è così efficace come pensavamo per i disturbi depressivi. Già nel nostro piccolo avevamo notato qualcosa di simile per i Disturbi d’Ansia (Caselli, Manfredi, Ruggiero, Sassaroli, 2016). Lo è, ma un po’ meno del previsto. Una nota: l’efficacia qui è intesa in termini di percentuale di recovery (guarigione) e riduzione dei sintomi depressivi. In fase acuta del disturbo l’esito è ai livelli di quello raggiunto dalla terapia farmacologica che a sua volta supera il placebo solo di un 15-20%. L’efficacia si abbassa ulteriormente se parliamo del Disturbo Depressivo Persistente, di sindromi sub-cliniche, comorbilità con uso di sostanze e psicoterapia in regime di ricovero. Ma c’è molto altro.

Innanzitutto, in fase acuta, è più efficace una terapia combinata (farmaci e psicoterapia) rispetto ai singoli interventi separati. In secondo luogo, la psicoterapia ha efficacia maggiore rispetto alla terapia farmacologica nella stabilità a lungo termine e riduce il rischio di ricaduta. In questo almeno i risultati sono incoraggianti anche quando sottoposti a un’analisi più rigorosa. Infine, molti fattori trasversali alle diverse psicoterapie non sembrano avere un peso sull’efficacia. Tra questi Pim Cuijpers annovera il numero di sedute, la frequenza, il tempo generale di terapia, il tipo di setting (internet, self-help, contatto diretto). La maggior parte del cambiamento avviene nelle prime sei sessioni di terapia indipendentemente da tutti questi elementi aspecifici, poi tende a non evolversi. Non sappiamo tuttavia se un numero maggiore di sessioni possa favorire la stabilità dei risultati ottenuti, dal momento che ci sono poche ricerche che usano un numero ristretto di sessioni e hanno contemporaneamente un lungo monitoraggio dell’andamento nel tempo.

Qual è la psicoterapia più efficace per la depressione?

Ma quale psicoterapia è più efficace? A oggi nessuna di quelle testate supera le altre. Per inciso, occorre sottolineare che le ricerche di efficacia sulla depressione con un sufficiente rigore metodologico si riferiscono principalmente a terapie che appartengono al mondo cognitivo, comportamentale e della psicoterapia interpersonale. Tuttavia pur essendoci qualche variazione sul tema, nessuna di queste prevale in modo significativo sulle altre e quindi terapia comportamentale (behavioral activation), terapia cognitiva standard (il modello di Beck), terapia cognitivo-comportamentale, terapia interpersonale restano a oggi quelle maggiormente sostenibili e nei fatti promosse a ragion veduta. Altre potrebbero forse eguagliarle, ma non hanno ancora dati sufficienti. Nessuna al momento può dire di averle superate. Ci sono anche dati in favori di approcci diversi ma si attestano sui medesimi livelli di efficacia e risultano ancora sottodimensionati. Per la mole di dati che hanno a loro sostegno Pim Cuijper stima la necessità campioni nell’ordine di 200 individui, perché il confronto possa stabilire una nuova egemonia significativa.

L’equivalenza delle psicoterapie è certamente una questione chiave ritornando alle conclusioni di Pim Cuijpers. In 50 anni la terapia cognitivo comportamentale è ancora il punto di riferimento per il trattamento dei disturbi depressivi, è meno efficace di quello che si pensava, in acuto ha efficacia equivalente alla terapia farmacologica, offre maggior stabilità dei risultati raggiunti nel medio-lungo periodo. Un po’ di delusione e un po’ di speranza. Ma siamo fermi e occorre cambiare qualcosa nel modo in cui ci si approccia alla ricerca in questo settore. Innanzitutto tenere a mente le direzioni in cui si è più deboli (depressione cronica, rischio di ricaduta, area della prevenzione). Secondariamente focalizzarsi sulla comprensione di quale o quali siano le variabili d’oro, i motori principale del disturbo e stabilirne il ruolo empiricamente prima di sviluppare nuovi trattamenti. E infine, iniziare un’opera di semplificazione delle psicoterapie, riducendole agli elementi essenziali che offrono questi risultati nel minor tempo possibile.

La contaminazione disgustosa rende più rispettosi della deontologia

La contaminazione disgustosa rende più rispettosi della deontologia

di Barbara Basile (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva S.r.l., Rome, Italy), Grazia Gualtieri (Guglielmo Marconi University, Rome, Italy) e Francesco Mancini (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva S.r.l., Rome, Italy; Guglielmo Marconi University, Rome, Italy)

 

“La coscienza si sporca” e “ i peccati si lavano”, l’intuizione del senso comune suggerisce una stretta relazione fra colpa e disgusto. In tutte le religioni purezza del corpo e purezza dell’anima sono sovrapposte. Da alcuni anni la ricerca scientifica si è occupata di studiare le relazioni fra questi due domini psicologici, quello del disgusto e quello della morale. Sappiamo che l’induzione della sensazione di essere contaminato da sostanze disgustose (self disgust) implica la tendenza a dare giudizi morali più severi su se stessi e meno severi sugli altri, mentre si ha un effetto opposto se si prova disgusto per qualcuno (Tobia, 2014) e si ha un effetto speculare, se si induce la sensazione di pulizia.

Il disgusto morale

È ben noto che azioni immorali, al pari di sostanze materiali come gli escrementi, possono indurre il cosiddetto disgusto morale. Ad esempio, suscita disgusto indossare la camicia di un pedofilo (Haidt & Graham, 2007). Si conosce il cosiddetto effetto Macbeth: “la minaccia alla propria purezza morale induce il bisogno di lavarsi. Il lavaggio fisico allevia le conseguenze negative dei comportamenti immorali e riduce la minaccia alla propria auto-immagine morale” (Zhong & Liljenquist, 2006). In breve, il senso di colpa aumenta la sensibilità al disgusto e la pulizia fisica implica la purificazione della coscienza.

In realtà, non tutte le ricerche hanno confermato l’esistenza del disgusto morale che per alcuni avrebbe soltanto un valore metaforico, senza le caratteristiche fisiologiche del disgusto, e nemmeno tutte le ricerche hanno confermato l’esistenza dell’effetto Macbeth. Tuttavia la questione appare diversa se si mette in disparte la morale altruistica/umanitaria/consequenzialista, e si considera solo la morale deontologica, cioè quella morale che tiene conto del rispetto delle norme morali a prescindere dalla bontà delle conseguenze per gli esseri umani. Infatti, senso di colpa deontologico e disgusto condividono almeno parte del substrato neurale, le insulae (Basile et al., 2011), l’induzione di senso di colpa deontologico, ma non di quello altruistico/umanitario, implica un netto effetto Macbeth (D’Olimpio e Mancini, 2014), il disgusto morale ha le stesse caratteristiche fisiologiche del disgusto fisico, ma solo nelle persone maggiormente sensibili alla morale deontologica (Ottaviani et al., 2013). Sentirsi contaminati da sostanze disgustose implica un abbassamento del sé nella Social Cognitive Chain of Being (SCCB), similmente, l’induzione di senso di colpa deontologico, ma non di quello altruistico/umanitario. La SCCB rappresenta la tendenza degli esseri umani a organizzare il proprio mondo morale lungo una dimensione verticale, che vede in alto chi merita obbedienza e rispetto, e in basso chi deve obbedienza e rispetto e più in basso ancora chi merita disprezzo (Brandt & Reyna 2011).

Il principio Not play God

Chi appartiene ai ranghi alti dovrebbe essere meno vincolato dal rispetto del principio deontologico basico, Not play God, il contrario dovrebbe accadere a chi appartiene ai ranghi bassi. Il principio Not play God limita il diritto di decidere, ne consegue che nessun essere umano possa decidere liberamente su tutto. Alcune decisioni non rientrano fra i suoi diritti. Questo principio generale poi si declina in una serie di norme che definiscono i diversi sistemi morali. Ad esempio, per alcuni sistemi morali, ma non per tutti, l’individuo non ha il diritto di decidere se vivere o morire, perché questo diritto spetta a Dio o al destino o alla natura, e a lui non è permesso interferire anche se ne ha il potere.

Tuttavia i limiti imposti dal Not play God anche all’interno dello stesso sistema morale, non sono uguali per tutti ma sono più ampi per chi occupa autorevolmente una posizione di responsabilità e si restringono invece per chi è più in basso nella SCCB. Infatti, in una ricerca recente (Pulsinelli, 2017) si è visto che si riconosce un maggior diritto di interferire con il corso degli eventi, e dunque di essere meno vincolato dal Not play God, a chi occupa meritatamente una posizione elevata e in un’altra ricerca, che ha utilizzato il paradigma dell’Ultimatum Game (Mancini e Mancini, 2015), si è visto che l’induzione di senso di colpa deontologico, ma non di quello altruistico/umanitario, implica che ci si riconosca un minor diritto di intervenire, anche quando si tratta di difendere ciò che si reputa giusto. Il paradigma del trolley (Foot, 1967), nella versione switch, ha consentito di raccogliere altri dati sulla relazione tra senso di colpa deontologico e rispetto del Not play God.

In questo specifico paradigma si pone ai partecipanti il seguente dilemma tipo: “Un vagone senza controllo sta procedendo a grande velocità su un binario dove sono bloccati cinque operai che saranno certamente travolti e uccisi, a meno che tu non muovi uno scambio dirottando il vagone su un altro binario dove però un operaio sarà certamente travolto e ucciso. Che cosa devi fare?

La scelta consequenzialista di muovere lo scambio implica salvare cinque persone e farne morire una ma implica anche che si interferisca con un destino già segnato e ci si prenda la responsabilità di decidere chi vive e chi muore, cioè di trasgredire il principio Not play God. La decisione omissiva di non muovere lo scambio ha implicazioni opposte. In effetti, chi decide di muovere lo scambio riporta di aver tenuto presente un principio altruistico/umanitario/consequenzialista, salvare il maggior numero possibile di persone. Chi decide di non muovere lo scambio riporta di aver tenuto presente il principio deontologico basico, Not play God, “non ho il diritto di decidere chi vive e chi muore” (Gangemi e Mancini, 2013). L’induzione di senso di colpa deontologico implica la prevalenza di scelte omissive mentre l’induzione di senso di colpa altruistico/umanitario la prevalenza di scelte consequenzialista (Mancini e Gangemi, 2015).

In breve, il senso di colpa deontologico, ma non quello altruistico, abbassa il sé nella SCCB e di conseguenza rende più sensibili al Not play God e ciò si traduce nella preferenza per scelte omissive.

Il self disgust e le scelte omissive

Se la morale deontologica e il disgusto sono davvero strettamente connessi, allora l’induzione della sensazione di essere contaminati, cioè del self disgust, dovrebbe implicare una preferenza per le scelte omissive simile a quella che si osserva dopo l’induzione di senso di colpa deontologico. Per controllare questa ipotesi abbiamo condotto una ricerca ad hoc. L’ipotesi prevedeva che l’induzione della sensazione di essere disgustosamente contaminati avrebbe implicato una preferenza per le scelte omissive nei dilemmi morali, maggiore di quella che sarebbe conseguita alla induzione di un’emozione opposta di fierezza.

Sono stati reclutati 58 volontari tratti dalla popolazione generale (42 donne, età media 53.5 anni) suddivisi casualmente in due gruppi. Tramite la somministrazione di appositi scenari è stata indotta un’emozione di disgusto fisico, nel gruppo 1, e di fierezza/orgoglio nel secondo gruppo. In seguito, per controllare l’efficacia dell’induzione, è stato chiesto di indicare il tipo e l’intensità di emozione evocata dallo scenario. Quindi, tutti i partecipanti sono stati confrontati con diversi dilemmi, di tipo morale con la stessa struttura del dilemma del trolley nella versione switch (Foot, 1966) e di tipo non-morale che avevano la stessa struttura ma riguardavano domini moralmente neutri (per esempio, una scelta rispetto al vantaggio o meno di acquistare un oggetto). Per ciascun dilemma i partecipanti hanno indicato il tipo di scelta, omissiva o meno, che li avrebbe resi più “a posto con la coscienza”.

I risultati hanno indicato che effettivamente le due induzioni hanno evocato in modo univoco le emozioni prestabilite, con (come atteso) una maggiore intensità dell’emozione di disgusto, rispetto all’induzione di fierezza. Il dato più interessante ha dimostrato che i partecipanti in cui era stata indotta l’emozione di disgusto riportavano un numero significativamente maggiore di scelte omissive nei dilemmi morali, mentre l’effetto inverso si è osservato, a vantaggio delle scelte non-omissive, nei soggetti che provavano orgoglio e fierezza. Non si sono osservate differenze nei dilemmi non morali. In conclusione, nuovamente è confermata la stretta connessione che esiste fra disgusto e morale, ma specificatamente quella deontologica.

 

La ricerca presentata in questo articolo è la tesi di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche L-24, di Grazia Gualtieri, relatore Francesco Mancini, presso la Università Marconi di Roma. Barbara Basile ha realizzato i necessari calcoli statistici.

Il viaggio che i vostri genitori non vorranno lasciarvi fare

L’industria del desiderio non può che considerare un ostacolo ogni autorità regolatrice e inevitabilmente più o meno repressiva. C’è da chiedersi: repressiva? C’è ancora in giro qualche genitore repressivo? No, sono pochi e intimiditi; ma non basta.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 24 giugno 2017

 

“This is the trip your parents don’t want you to take!”, Questo è il viaggio che i vostri genitori non vorranno lasciarvi fare. Oppure “Travel to destinations your mother would rather you stayed away from” Viaggi in posti dai quali vostra madre preferirebbe voi steste lontani. Questi slogan sono sul sito di ‘Young Pioneer Tours’, l’agenzia di viaggi-avventura che fornisce la possibilità a giovani occidentali (e non) di fare una vacanza in Corea del Nord. Di ‘Young Pioneer Tours’ si servì a suo tempo Otto Warmbier, lo sfortunatissimo giovane statunitense che fu arrestato il 2 gennaio 2016 a Pyongyang durante la sua vacanza in quel paese. Fu arrestato per aver rubato un poster e condannato a 15 anni di carcere. Rilasciato quest’anno dopo 17 mesi di detenzione, è tornato a casa in coma e poi è morto, dopo pochi giorni. Una storia triste e inquietante.

Nessun genitore vorrebbe una vacanza del genere per i propri figli, e non c’è nulla di male nell’essere, almeno in questo caso, poco permissivi. Non c’è da meravigliarsi se da tempo la grande industria dell’intrattenimento giovanile e infantile ha deciso che, per invogliare il suo target di giovani clienti a consumare di più, occorresse dichiarare una gentile e ammiccante guerra ai fastidiosi genitori.

L’industria del desiderio non può che considerare un ostacolo ogni autorità regolatrice e inevitabilmente più o meno repressiva. C’è da chiedersi: repressiva? C’è ancora in giro qualche genitore repressivo? No, sono pochi e intimiditi; ma non basta. Non basta non essere repressivi, il problema è che non si è abbastanza permissivi. E così, da quando è emersa tutta questa nuova clientela infantile e giovanile, è tutto un fiorire di sottili incitamenti alla ribellione contro i genitori. È abbastanza disorientante, ad esempio, notare come i cartoni animati, compresa quelli della Disney, abbiano da tempo sdoganato la produzione di rumori corporei: prima i rutti e poi anche le più sonore flatulenze, anche nelle occasioni più ufficiali. Qui, Quo e Qua durante il pranzo di Natale in famiglia ruttano allegramente davanti al resto della famiglia.

I giovani sono diventati soggetti di mercato dalla seconda metà degli anni ’50.  Dapprima diventarono fruitori di musica, una musica tutta loro e differente da quella dei genitori. L’argento vivo del rock’n’roll con tutte le sue allusioni sessuali al posto del romanticismo più ingenuo delle canzoni dei loro genitori, che ascoltavano Frank Sinatra e Alberto Rabagliati. Poi si aggiunsero altri prodotti: i fumetti, ad esempio. Invece i film d’animazione rimasero per alcuni decenni ancora un prodotto controllato e conservatore, in cui non si cercava di stimolare la ribellione. Con il nuovo millennio anche i cartoni sono diventati terreno di alleanza tra ragazzi e industria del divertimento contro i genitori.

Questi eventi contraddicono le semplificazioni sociologiche e politiche che eguagliano sempre potere e oppressione. Il potere economico dell’industria del divertimento non ha alcun interesse nello stimolare abitudini oppressive e conservatrici. Quindi inutile attendersi alleanze naturali tra il capitalismo delle corporation del divertimento e i genitori. Al contrario, il controllo genitoriale va combattuto. La musica rock ha sempre dovuto barcamenarsi tra il ribellismo del suo messaggio e l’oggettiva sua appartenenza al sistema capitalistico. C’è da chiedersi se anche la psicologia, con il suo insistere sugli aspetti negativi dell’educazione poco permissiva del passato, non abbia lavorato per un altro potere, più subdolo e insinuante di quello esercitato dai genitori.

Torniamo a ‘Young Pioneer Tours’. Per quanto possa essere fastidiosa l’autorità del padre e della madre, un sito che subdolamente suggerisce ai propri clienti di farsi una vacanza in un posto che i genitori proibirebbero è probabilmente peggio. Finisce per somigliare al paese dei balocchi che attira Pinocchio e Lucignolo per renderli schiavi. Pinocchio -rileggiamolo!- è una storia horror in cui la Fata Turchina a volte ci raggela con la sua capacità ricattatoria di far sentire colpevole Pinocchio, ma l’Omino di burro che attira i bambini nel suo luogo di delizie per poi trasformali in asini da sfruttare è peggio. E questa agenzia di viaggi ‘Young Pioneer Tours’ che promette viaggi-avventura a giovani desiderosi di avventure è come l’Omino di burro. È il caso di essere d’accordo con il famigerato “dove andremo a finire, signora mia!” Forse qualche volta è il caso di ascoltare ancora i nostri genitori, anche se sono così critici e fastidiosi. E poi le avventure non si comprano nelle agenzie di viaggio. Altrimenti finiamo per avere le pretesa di fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri, come diceva quel tale.

Il Brutto Anatroccolo: il vissuto di diversità e la grazia dell’appartenenza

I nuclei di significato contenuti nella fiaba de Il brutto anatroccolo sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. 

La fiaba de Il brutto anatroccolo

Il ghiaccio dev’essere rotto e l’anima tolta dal gelo. […] Fate come l’anatroccolo. Andate avanti, datevi da fare. […] In linea di massima ciò che si muove non congela. Muovetevi dunque, non smettete di muovervi.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

La storia del brutto anatroccolo, piccolo cigno nato – per errore – in una comunità di anatre, è una fiaba capace di evocare significati profondi. Nella rilettura di Clarissa Pinkola Estés, lo sfortunato protagonista diviene simbolo delle sofferenze legate alla costruzione di una sana immagine di sé, alle relazioni, alle tante forme di dipendenza declinata al femminile.

Il brutto anatroccolo, vittima innocente di uno scherzo del destino, è destinato a pagare duramente per la sua diversità subendo la derisione, lo scherno, le umiliazioni, fino all’esilio dalla comunità natìa. La stessa madre, che inizialmente tenta di proteggerlo da torti e violenze, finirà per allontanarlo. Nel suo peregrinare alla ricerca di qualcuno che lo accolga, il brutto anatroccolo cercherà riparo presso esseri umani, altri animali e altri luoghi: ogni volta, i suoi sforzi si tradurranno in dolorosi fallimenti. Viaggerà a lungo, rischiando più volte di morire, fino a ritrovarsi, per caso e con notevole stupore, accolto con affetto dai suoi simili, i maestosi cigni.

I significati contenuti nella fiaba

I nuclei di significato contenuti nella fiaba sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. (Pinkola Estés, 1993)

Altro aspetto estremamente significativo è la complessità della figura materna. Una madre che, dapprima, prova a difendere il suo piccolo dagli attacchi, ma finisce per adattarsi al volere del branco. Siamo quindi di fronte ad una madre psichicamente divisa, ambivalente. Da un lato il desiderio di proteggere suo figlio, dall’altro la spinta all’autoconservazione. Nelle culture punitive, puntualizza l’autrice, non è una situazione inusuale per una donna. Si tratti di un figlio reale o simbolico (l’arte, la creatività, gli ideali politici, l’amore) sono tante le donne morte psichicamente e spiritualmente nel tentativo di proteggere il “figlio non autorizzato” dalla società. Talvolta sono state addirittura bruciate, assassinate o impiccate, come punizione per aver sfidato le regole sociali e per aver protetto o occultato la loro “creatura socialmente inaccettabile”.

Non cedete. Troverete la vostra strada. […]  Questo è dunque il lavoro finale della persona in esilio che si ritrova: accettare la propria individualità, l’identità specifica, ma anche accettare la propria bellezza… la forma della propria anima
(C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

E come non soffermarsi sulla costante ricerca di amore nei posti sbagliati? Un comportamento che porta il brutto anatroccolo a rischiare più volte la propria vita, per il semplice fatto di “bussare alle porte sbagliate”. Del resto, “è difficile immaginare come una persona possa riconoscere la porta giusta, se non ne ha ancora mai trovata una” (Pinkola Estés). Riferendosi in particolare al mondo femminile, l’autrice evidenzia l’assonanza con quella straziante ricerca di amore, a volte ripetuta in modo ostinato ed inconsapevole, che comporta l’acuirsi della ferita originaria, anziché lenirla. Una necessità di riempire il vuoto interiore con le cose più disponibili o facilmente reperibili: le “medicine sbagliate” (Pinkola Estes) che per alcune donne sono rappresentate da compagnie pericolose, per altre da eccessi malsani, per altre ancora da quegli amori che non riconoscono né accettano i talenti, le doti, i limiti della propria compagna.

Ulteriore aspetto sostanziale è la condizione di “orfano di madre” che l’anatroccolo si ritroverà a subire. Privo degli adeguati insegnamenti materni, procederà nella sua vita per prove ed errori, poiché il suo istinto non sarà stato affinato e risvegliato da una madre amorevole. Allo stesso modo, la donna orfana di madre apprenderà, secondo l’autrice, provando e compiendo innumerevoli errori, poiché le manca quel medesimo “istinto” che, sebbene insito nella natura, solo una madre amorevole potrebbe risvegliare.

“Se avete tentato di adattarvi a uno stampo e non ci siete riusciti, probabilmente avete avuto fortuna. Potete essere in esilio, ma vi siete protetti l’anima. […] È peggio restare nel luogo cui non si appartiene che vagare sperduti, alla ricerca dell’affinità di cui si ha bisogno. Non è mai un errore cercarla.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

Tra le diverse sottolineature dell’autrice, vi è quella sul valore dell’esilio. L’anatroccolo vaga, rischia la morte, non permane nella comunità a lui ostile, né si adagia: decide di cercare. Qualcosa in lui riesce a temprarsi durante quell’esilio che, sebbene imposto e fortemente doloroso, permetterà all’anatroccolo di riscoprirsi, alla fine, più forte e addirittura molto più bello. Allo stesso modo, come suggerisce la Estés, è preferibile proteggere la propria anima, esiliandosi rispetto a chi non ci accetta, piuttosto che restare in un luogo cui non si appartiene.

A quest’ultimo aspetto si collega naturalmente quello che appare il nucleo vitale della fiaba, la scoperta dello stato di grazia dell’appartenenza: l’approdo finale dell’anatroccolo nella sua comunità naturale sembra rinvigorire tutto il suo essere, colmandolo di nuove energie e di slancio vitale, in una sorta di “riappropriazione del sé” che pone l’animo in una condizione di rinascita, di gioia e di vitalità. Le stesse, sottolinea l’autrice, che si avvertono quando si sperimenta l’appartenenza, la condivisione naturale tra esseri affini. E “non è mai un errore cercarla”, pur nelle condizioni più difficili ed aspre, anche rischiando ciò che si possiede. Perché è valore fondante del nostro stesso Essere e del Vivere pienamente, quel sentire di essere accolti e di appartenere.

Insonnia? Puoi curarla senza sonniferi!

La terapia cognitivo comportamentale per l’ insonnia è un intervento multimodale che unisce diverse tecniche, sia cognitive sia comportamentali, per modificare le idee e le attitudini errate riguardo al sonno. Le varie tecniche, combinate tra loro, hanno lo scopo di insegnare in breve tempo alcune strategie per controllare il proprio sonno, eliminando abitudini e pensieri disfunzionali.

 

Insonnia: definizione e conseguenze

L’insonnia si definisce come:
Difficoltà con l’inizio, la durata, il mantenimento o la qualità del sonno, nonostante siano presenti condizioni adeguate” (International Classification of Sleep Disorders-3, 2014).

Le conseguenze diurne possono essere stress, irritabilità, perdita di concentrazione, e anche rischio di incidenti.

Un terzo degli adulti riporta i sintomi dell’insonnia e per circa il 10% della popolazione è un problema persistente che influenza negativamente le proprie attività quotidiane. L’insonnia è più comune tra le donne, gli anziani, i lavoratori su turni e le persone con disturbi medici e psicologici (dati dell’Associazione Italiana Medicina del Sonno).

L’insonnia spesso è in compresenza con altri disturbi, in particolare di tipo depressivo, oppure secondaria a stati medici generali quali disturbi cardiovascolari, polmonari e gastrointestinali. Che sia o meno il disturbo primario o secondario, l’insonnia cronica è spesso associata ad una serie di condizioni avverse, compresi disturbi dell’umore, difficoltà di concentrazione ed impoverimento della memoria. I soggetti affetti da insonnia spesso lamentano una preoccupazione per gli effetti negativi della deprivazione del sonno sulla loro salute, sull’efficienza lavorativa e sulla qualità della vita in generale.

I modelli cognitivo e comportamentale dell’insonnia

Ma come “funziona”? Quali sono i meccanismi che la causano e la mantengono? Le teorizzazioni riguardanti le cause dell’insonnia sono numerose. A partire dagli anni ‘50 i modelli cognitivi e comportamentali della psicologia sono stati applicati anche all’insonnia.

Il modello cognitivo sostiene che l’iperattivazione mentale, rappresentata dal rimuginio e dall’eccessiva preoccupazione per il mancato sonno, predispone l’individuo all’insonnia, precipita gli episodi acuti e mantiene le forme croniche del disturbo.

Il modello comportamentale invece caratterizza l’insonnia cronica come risultato di abitudini apprese che disturbano il sonno (es fare molti sonnellini diurni o stare nel letto per un tempo prolungato nel tentativo di addormentarsi, il che tende a rendere irregolari i cicli sonno-veglia).

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Su questi meccanismi di pensiero e comportamento agisce la psicoterapia cognitivo comportamentale (cognitive-behavioral therapy, CBT).

Terapia cognitivo comportamentale dell’insonnia

La terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia è un intervento multimodale che unisce diverse tecniche, sia cognitive sia comportamentali, per modificare le idee e le attitudini errate riguardo al sonno. Le varie tecniche, combinate tra loro, hanno lo scopo di insegnare in breve tempo alcune strategie per controllare il proprio sonno, eliminando abitudini e pensieri disfunzionali. Un esempio? L’igiene del sonno consiste in una lista di buone regole riguardo l’orario in cui ci si corica e ci si sveglia, l’areazione e la luminosità della stanza, il numero e la durata dei sonnellini diurni consentiti, ecc. Il controllo dello stimolo prevede che la persona trascorra il tempo in cui è sveglio altrove rispetto alla stanza da letto, per non associare quel luogo, dedicato solo al sonno, a stati di attività, come lo sforzo di addormentarsi. La terapia cognitiva invece affronta i pensieri e le credenze disfunzionali che interferiscono col sonno, come ad esempio le aspettative riguardo al numero di ore totali che si vogliono passare dormendo.
L’efficacia di questo trattamento è ampiamente dimostrato negli studi scientifici, e i progressi che porta sono mantenuti a lungo, anche dopo 2 anni, al contrario delle terapie farmacologiche.

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La CBT per l’insonnia quindi porta miglioramenti significativi nel sonno e in altre misure cliniche su qualità della vita, ed ha un buon rapporto costo-beneficio. La letteratura dimostra che questi cambiamenti sono duraturi e progressivi nel tempo, e non si limitano alla durata della terapia. Nonostante all’inizio richieda un grande investimento di tempo e di sforzo da parte del paziente, la terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia è ben accettata ed è preferita ad approcci farmacologici, come dimostrato dalle alte percentuali di soddisfazione per il trattamento riportate dai pazienti studiati.

Da alcune recenti metanalisi risulta che gli studi più recenti non includono ancora la definizione adottata nel nuovo manuale ICSD 3. Tuttavia, l’efficacia della CBT-I nel miglioramento del sonno, rispetto ad interventi di farmacoterapia ed altri trattamenti, è dimostrata sia per pazienti con sola insonnia primaria (Trauer et al., 2015), sia per soggetti con altri sintomi in comorbidità (Taylor & Pruiksma, 2014). In particolare, è molto interessante notare che in quest’ultimo studio i soggetti analizzati in 16 studi randomizzati (n=571) mostrano miglioramenti nei sintomi psichiatrici in comorbidità, pure se non trattati direttamente.

I parametri analizzati dai diari del sonno, compilati dai pazienti stessi, sono: Wake After Sleep Onset (veglia intrasonno), Total Sleep Time (tempo totale di sonno), Time in Bed (tempo trascorso a letto, non per forza addormentati), Sleep Onset Latency (tempo impiegato per addormentarsi) e %Sleep Efficacy, calcolabile con l’operazione: (TST ÷ tempo a letto) × 100.

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In conclusione, la terapia cognitivo comportamentale è un trattamento promettente per affrontare l’insonnia cronica primaria, e verosimilmente continuerà a portare dei continui miglioramenti assistenziali in ambito clinico. Nonostante questi vantaggi, però, ad oggi questa forma di terapia viene poco applicata in Italia perché necessita di una complessa e specifica preparazione degli operatori clinici. Visti gli innegabili vantaggi, ritengo che bisognerà investire su questo importante aspetto formativo.

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