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Mindfulness e disturbi del comportamento alimentare: gli effetti terapeutici

Un crescente numero di ricerche suggeriscono che la Mindfulness, intesa come attenzione intenzionale al momento presente in modo non giudicante, possa essere uno strumento di primaria importanza nel trattamento dei Disturbi alimentari.

Francesca Casero, Elisa Covini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Come sottolinea Kabat-Zinn, il fondatore del primo programma di Mindfulness esplicitamente utilizzato per scopi clinici (la Mindfulness based Stress Reduction o MBSR), è curioso notare il fatto che in un mondo che va sempre più veloce, che rende necessaria una sempre maggiore specializzazione a discapito della visione d’insieme, che vede nella produttività il cardine su cui reggersi, pratiche quali la mindfulness che invitano a rallentare, a prendere maggiore contatto con l’esperienza del momento presente e a notare la profonda interconnessione che lega le diverse aree del sapere e della vita, suscitano sempre maggiore interesse. Probabilmente proprio perché il mondo sembra andare sempre più nella direzione opposta alla consapevolezza e sembra non tenere più conto dei ritmi insiti nella natura e nell’uomo stesso, l’utilizzo di pratiche volte a sviluppare la consapevolezza e a riappropriarsi del proprio spazio e dei propri ritmi appare quanto mai necessario. Altrimenti potrebbe arrivare il giorno in cui possiamo avere tutto ciò che vogliamo, ma non avere più né il tempo né la capacità di goderne.” (Chiesa, 2012).

Definizione e applicazioni cliniche della mindfulness

Con il termine Mindfulness, traduzione inglese della parola “Sati” della lingua pali, si intende essenzialmente una “modalità dell’essere, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com’è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente” (Teasdale). Jon Kabat Zinn la descrive come “consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione, momento per momento, nel qui e ora, intenzionalmente e in modo non giudicante, alla propria esperienza”, la quale comprende sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni.

La Mindfulness non è una tecnica ma uno stato attentivo della mente, uno stato di coscienza in cui i pensieri, le emozioni e le azioni vengono liberate dagli abituali e talora automatici schemi di elaborazione che possono attivare e mantenere alcune condizioni disfunzionali, o talvolta patologiche, attuando un progressivo processo di consapevolezza e di decentramento.  «Si possono usare efficacemente delle metafore che aiutano a sviluppare il decentramento, come pensieri che galleggiano sull’acqua o un secchio con dell’acqua agitata, che gradualmente si calma», spiega il dottor Didonna, psicologo e psicoterapeuta, Presidente dell’Istituto Italiano Mindfulness, curatore e autore del libro “Clinical Handbook of Mindfulness” (2009).

Vedi il mondo in maniera diversa. E’ come se tu stessi camminando attraverso una foresta di notte, portando una torcia per illuminare il sentiero. All’improvviso spegni la torcia. Non hai più il fascio di luce puntato sul percorso, ma gradualmente i tuoi occhi si abituano all’oscurità e riesci a vedere tutta la scena. Avevo sempre dato per scontato che le mie emozioni fossero me stessa. Ora invece è come se le stessi osservando mentre nascono e scorrono dentro di me. Ti rendi conto che certe cose che pensavi fossero la tua identità in effetti sono solo esperienze. Sono sensazioni che fluiscono attraverso di te. Inizi a capire che i normali modi di percepire sono solo dei possibili punti di vista fra molti altri. Ci sono altri modi di vedere. Sviluppi quello che i buddisti chiamano l’occhio del principiante, vedi il mondo come lo vede un bambino, consapevole di tutte le cose insieme, senza una selezione e un’interpretazione cosciente».  (Siegel, 2009).

Il concetto di Mindfulness deriva dagli insegnamenti del Buddismo (Meditazione Vipassana), dello Zen e dalle pratiche di meditazione Yoga, ma solo nel corso degli ultimi due decenni questo modello è stato utilizzato come paradigma autonomo in alcune discipline psicoterapeutiche occidentali, in particolare in quella cognitivo-comportamentale.  Fu utilizzata per la prima volta in un contesto sanitario (Dipartimento di Salute dell’Università del Massachusset), nei primi anni ’80, da Jon Kabat Zinn, attraverso un protocollo strutturato della durata di 8 settimane, il Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR).

Attualmente, interventi basati sulla Mindfulness si ritrovano sempre più spesso in setting ospedalieri e ambulatoriali, individuali o di gruppo, e trovano applicazioni cliniche nella prevenzione e la cura di problemi legati allo stress e alle malattie psicosomatiche, nei disturbi d’ansia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nella depressione, nell’abuso di sostanze, nei disturbi alimentari, nelle tendenze suicidarie e nel disturbo borderline, come pure nel caso di disturbi di tipo medico (oncologia, psoriasi, dolore cronico), permettendo lo sviluppo di protocolli e modelli terapeutici validati di provata efficacia tra i quali la Mindfulness-Based Cognitive Therapy, la Dialectical Behaviour Therapy, l’Acceptance and Commitment Therapy e la Compassion Focused Therapy.

La mindfulness nel trattamento dei disturbi alimentari

Anche nell’ambito dei Disturbi alimentari la Mindfulness sta trovando sempre più applicazione come terapia di “terza generazione” ed è inserita in efficaci protocolli di cura quali: Emotion Acceptance Behavior Therapy (Wildes, Ringham, & Marcus, 2010), Dialectical Behaviour Therapy (Linehan, 1993) e Mindfulness Based Eating Awareness Training (MB-EAT, Kristeller & Wolever, 2011), che integra elementi dalla terapia cognitivo comportamentale (TCC) con il protocollo MBSR.

Un crescente numero di ricerche suggeriscono che la Mindfulness, intesa come attenzione intenzionale al momento presente in modo non giudicante, possa essere uno strumento di primaria importanza nel trattamento dei Disturbi alimentari. L’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa e il Disturbo da alimentazione Incontrollata sono infatti accomunati da mancanza di consapevolezza dei propri stati interni, da esperienze di evitamento degli stessi e dal forte desiderio di mantenere un controllo sul comportamento alimentare, sui propri pensieri, emozioni e bisogni/impulsi, i quali vengono, così, evitati e negati.

In questa prospettiva, dunque, tale meccanismo di mantenimento dei sintomi è evidente nel modello della disregolazione emotiva (Linhean, 1993; Telch et al. 2001), in cui il binge eating, la fame emotiva e i comportamenti di compenso rappresenterebbero una modalità di regolazione emotiva disfunzionale che, tuttavia, fungerebbe da rinforzo, permettendo di allontanarsi da esperienze di disagio e sofferenza.

Secondo alcuni studiosi, un meccanismo simile di rinforzo varrebbe anche per il mantenimento di sintomi quali il pensiero dicotomico, l’attenzione eccessiva al controllo del peso e delle forme del corpo e il comportamento restrittivo. Nei Disturbi alimentari, inoltre, si ritrova spesso anche un deficit nel riconoscimento e nella consapevolezza emotiva. Di conseguenza, si ritiene che gli interventi basati sulla mindfulness e sull’accettazione possano avere un effetto positivo nella riduzione dei sintomi, migliorando la capacità di accogliere e gestire adeguatamente emozioni negative, ovvero riducendo i meccanismi di evitamento delle esperienze dolorose, particolarmente significativi nella insorgenza e nel mantenimento dei disturbi alimentari. Maggiore è l’attenzione, la consapevolezza e l’accettazione verso le proprie esperienze, maggiore sembra essere la capacità di sviluppare strategie adeguate di soluzione del disagio e della sofferenza (Katterman et al., 2013). Uno dei processi cognitivi ai quali la minfulness sembrerebbe dovere la sua efficacia è la «disidentificazione», ovvero il distanziamento da pensieri e meccanismi emotivi, cognitivi o comportamentali disfunzionali, che vengono osservati e accettati, ma considerati altro da sé.

Una ricerca diretta da Julien Lacaille, psicologa dell’università canadese McGill in Quebec, ha mostrato come la Mindfulness possa aiutare a ridurre il desiderio irresistibile di alcuni cibi come, ad esempio, la cioccolata (che può divenire una vera e propria dipendenza). Dopo una prima fase di presa di coscienza del proprio desiderio, segue l’accettazione non giudicante che ridimensiona gli eventuali sensi di colpa ed infine il distacco dal proprio desiderio di cioccolata, vedendolo come altro da sé (Lacaille et al., 2014).

Se la mindfulness si è dimostrata efficace nel ridurre il “craving”, la fame emotiva e il binge eating, essa non sembra possa avere un effetto diretto sulla perdita di peso. Sembrerebbe, tuttavia, che tecniche di minfulness focalizzate sull’accettazione dei propri pensieri e stati emotivi e sulla pratica del “Mindful eating” siano efficaci se combinate a strategie comportamentali tradizionali nel raggiungimento di obiettivi ponderali significativi (Forman et al., 2013; Godsey, 2013).

Nell’Anoressia e Bulimia Nervosa, inoltre, la Mindfulness potrebbe rappresentare una qualità della mente molto utile anche alla riduzione del processo cognitivo del rimuginio. Il rimuginio è considerato una strategia cognitiva di evitamento particolarmente presente nell’Anoressia Nervosa, soprattutto nei termini di preoccupazioni ossessive sull’alimentazione, il cibo, il peso, il corpo, giudizi su di sé basati su peso e forma corporea e pensiero dicotomico (cibi sì-cibi no). La mindfulness, in qualità di abilità mentale di osservare i fenomeni cognitivi, fisici ed emotivi in modo non giudicante, rappresenterebbe la controparte del rimuginio e dell’evitamento mentale. In uno studio di Cowdrey et al., (2012) è stata dimostrata l’esistenza di una relazione tra rimuginio su “alimentazione-peso-forma del corpo” e “consapevolezza”. Secondo i risultati di questo studio i soggetti che presentavano buone capacità di “prestare attenzione al momento presente in modo intenzionale e non giudicante”, attuando dunque una disidentificazione dai propri processi cognitivi, avevano minori punteggi di rimuginio su cibo, peso e forme del corpo; viceversa i soggetti con elevata difficoltà ad accettare i propri pensieri negativi avevano maggiori pensieri rimuginanti sull’alimentazione, il peso e le forme del corpo (Albert e al., 2012).

Uno dei primi protocolli basati sulla Minfulness messi a punto nell’ambito dei Disturbi alimentari è il Mindfulness Based Eating Awareness Training (MB EAT, Baer e Kristeller, 2006), un programma d’intervento per la Bulimia Nervosa e il Disturbo da Alimentazione Incontrollata basato sulla meditazione, l’accettazione e la consapevolezza. Esso integra elementi dalla terapia cognitivo comportamentale (TCC) con il protocollo MBSR. Il protocollo prevede 9 sessioni, durante le quali vengono affrontati i temi inerenti alle emozioni, alla possibilità di accettare e gestire alcune emozioni quali la rabbia e il senso di colpa; vengono svolti esercizi di meditazione consapevole sull’alimentazione, sul senso di fame e sazietà, sulla scelta degli alimenti, sulle sensazioni che possono scaturire attraverso il cibo e il gusto; alcuni temi vengono affrontati attraverso la meditazione del perdono e della saggezza. Ciascun incontro prevede una pratica meditativa, la condivisione, la discussione dei temi e l’assegnazione di compiti da svolgere in casa che riguardano per lo più la pratica formale e informale e il pasto consapevole. Gli ultimi incontri sono caratterizzati da una riflessione sulle possibili scivolate e dunque alla prevenzione delle ricadute.

I meccanismi neuropsicologici della mindfulness nei disturbi alimentari

Al fine di descrivere i meccanismi neuropsicologici della mindfulness, Malinowski ha presentato il Liverpool Mindfulness Modell (2013), che descrive minuziosamente cosa accade a livello corticale nelle differenti fasi della meditazione in riferimento per lo più alle funzioni attentive. Il modello fa riferimento a pratiche meditative caratterizzate da specifici processi neuropsicologici (Lutz et al., 2008), quali la modulazione dell’arousal, lo stato di vigilanza, l’orientamento e la selezione degli stimoli. Essi costituiscono 5 differenti ma interattivi networks cerebrali: alerting, orienting, executive, salience, default network.

E’ stato dimostrato che il default network viene attivato involontariamente dalle persone quando la mente è distratta, sogna a occhi aperti, produce pensieri ruminativi sul passato e sul futuro. Durante la pratica meditativa e in particolar modo nella fase di attenzione sostenuta si attivano le aree corticali e cerebrali dell’alerting network mentre quando l’attenzione sostenuta viene meno si attivano le aree raggruppate nel default network.

Le funzioni di monitoraggio dell’attenzione e le aree che costituiscono il salience network garantiscono il riconoscimento di tale condizione di default e dunque di abbandonare lo stato errante (executive network) e di riportare l’attenzione all’oggetto osservato e al momento presente (orienting network).

Gli studi di Luders (Luders et al., 2012) hanno evidenziato come la pratica meditativa possa favorire cambiamenti strutturali a livello corticale. In particolar modo la meditazione può aumentare il numero di girificazioni al livello della corteccia insulare, area particolarmente coinvolta nella regolazione delle emozioni. Studi recenti hanno inoltre evidenziato possibili correlazioni tra disturbi alimentari e alterazioni dell’insula (Franck et al, 2013). In uno studio condotto da Bryan Lask (2011) del Great Ormond Street Children’s Hospital (UK) su un gruppo di 8 donne affette da anoressia nervosa sono state rilevate, attraverso la scansione cerebrale per immagini, anomalie funzionali dell’insula, particolarmente coinvolta nel controllo del proprio corpo, degli stimoli della fame e della consapevolezza enterocettiva (Bryan Lask et al., 2011). Anche per quanto riguarda la bulimia nervosa sono state rilevate in pazienti affette dal tale patologia importanti anomalie morfologiche nel lato sinistro dell’insula antero ventrale. Ovvero, in tutti i soggetti affetti da disturbi dell’alimentazione è stato osservato un aumento del volume della materia grigia della corteccia orbito-frontale mediale e dell’insula (Frank G. et al., 2013). È’ stato dimostrato inoltre che i soggetti con anoressia nervosa presentano una diminuzione della sensitività e della consapevolezza enterocettiva.

Seppur lo stato della ricerca a proposito necessiti di ulteriori approfondimenti, tali studi sembrano supportare il ruolo della mindfulness come strategia terapeutica utile al trattamento dei Disturbi alimentari, facilitando lo sviluppo di un atteggiamento mentale volto alla consapevolezza e di un maggiore senso di padronanza e autoefficacia nei confronti dei propri processi emotivi, cognitivi e di comportamento.

La stimolazione magnetica transcranica (TMS) – Introduzione alla Psicologia

La stimolazione magnetica transcranica, o TMS, è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Introduzione: cos’è la stimolazione magnetica transcranica?

La stimolazione magnetica transcranica, o TMS, è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello.

La stimolazione magnetica transcranica comporta la stimolazione profonda ma non invasiva e indolore del cervello, allo scopo di ottenere risposte in relazione all’area cerebrale stimolata e per modificarne l’eccitabilità e la plasticità.

La stimolazione magnetica transcranica è largamente utilizzata a scopo di ricerca, ma di recente sono stati osservati benefici in ambito clinico, dove è utilizzata per trattare disturbi psichiatrici e neurologici quali la depressione, le allucinazioni, la malattia di Parkinson.

L’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) per essere utilizzata nel trattamento dell’emicrania. Mentre, l’utilizzo della TMS ripetuta (rTMS) è consentito nel trattamento della depressione resistente ad altri trattamenti, sia terapeutici sia farmacologici.

Storia della stimolazione magnetica transcranica

Prima della stimolazione magnetica transcranica si era soliti usare la stimolazione elettrica, attraverso al quale si stimolavano i nervi e i muscoli. La stimolazione elettrica è stata utilizzata per la prima volta nel 1790 da Galvani e Volta. Tramite questa tecnica è possibile rendere le membrane eccitabili: la corrente elettrica iniettata nel corpo tramite superfici o elettrodi impiantati depolarizza le cellule e facilita la comunicazione intracellulare. La stimolazione elettrica si attua, ancora oggi, per misurare la velocità di conduzione dei potenziali di azione dei neuroni e per stimolare i muscoli i cui legami neurali sono stati compromessi e, quindi, se stimolati riescono a produrre contrazioni funzionalmente utili. I parametri tipici di impulso usati per stimolare i nervi superficiali tramite elettrodi di superficie sono di 20mA per 100μsec, e possono raggiungere i 250 volt necessari per guidare la corrente elettrica attraverso la pelle.

Malgrado questa tecnica sia efficace in molte ambiti, la stimolazione elettrica presenta alcuni svantaggi:

  1. può essere dolorosa, poiché durante il passaggio della corrente si avverte una sensazione di fastidio.
  2. è difficile stimolare strutture profonde del cervello umano
  3. parti del cervello mostrano elevata resistenza elettrica, quindi non possono essere trattati adeguatamente.

Di conseguenza, fu ideato un approccio alternativo alla corrente elettrica, pensato per indurre corrente nel corpo utilizzando campi magnetici a tempo variabile. I principi dell’induzione elettromagnetica furono scoperti da Michael Faraday nel 1831 e furono utilizzati per stimolare i nervi e il cervello nel XX secolo.

Questi primi tentativi di stimolazione cerebrale non riuscirono, perché la tecnologia all’epoca disponibile non era in grado di produrre campi magnetici di grandi dimensioni che, al tempo stesso, erano rapidamente mutevoli.

Nel 1976 è stato avviato un progetto nel Regno Unito, presso l’Ospedale Royal Hallamshire e l’Università, con l’obiettivo specifico di stimolare i nervi usando le correnti indotte da impulsi di campo magnetico di breve durata in modo che la risposta elettrofisiologica risultante potesse essere rilevata e consentisse la stimolazione dei nervi periferici.

Nel 1985 Sheffield e il suo gruppo hanno presentato per la prima volta la stimolazione magnetica transcranica. Da allora la TMS si utilizzò sia in ambiti diagnostici sia terapeutici.

La stimolazione magnetica transcranica utilizza un breve ma intenso impulso magnetico per indurre campi elettrici (lesioni), quindi correnti nel corpo, proporzionali al tasso di variazione del campo magnetico.

Se queste correnti sono di adeguata ampiezza, durata e orientamento, allora potranno stimolare le strutture eccitabili con lo stesso meccanismo delle correnti iniettate nel corpo attraverso gli elettrodi impiantati o superficiali. Quindi chiamare questa tecnica “magnetica” non è corretto, poiché il meccanismo su cui si basa è elettrico, ma determina la formazione di un campo magnetico sulla testa del paziente.

La stimolazione magnetica transcranica ha il grande vantaggio, rispetto alla stimolazione elettrica, di essere in grado di stimolare il cervello umano e i nervi periferici senza causare dolore. Il cranio non presenta alcuna barriera perché i campi magnetici relativamente bassi (in genere pochi kHz) lo attraversano senza attenuazione. La stimolazione magnetica è sostanzialmente indolore perché la corrente indotta non passa attraverso la pelle, dove si trovano gran parte delle terminazioni nervose della fibra. Inoltre, le correnti indotte dalla stimolazione magnetica sono relativamente diffuse e di conseguenza non si verificano correnti elevate che, al contrario, si hanno nella stimolazione elettrica. Questa mancanza di disagio consente di essere facilmente utilizzata anche su pazienti e volontari per esperimenti scientifici.

Come funziona la stimolazione magnetica transcranica

La stimolazione magnetica transcranica consta di una serie di coil o elettrodi che si posizionano sulla testa. Il coil fornisce energia elettrica che genera un campo magnetico a livello cerebrale per un breve periodo di tempo (lesione transitoria), che inibisce le funzioni cognitive dell’area stimolata.

Il campo magnetico prodotto riesce a oltrepassare lo scalpo e raggiungere l’encefalo e le strutture cerebrali sottostanti inibendone il loro funzionamento.

Il coil si posiziona sul capo in corrispondenza della regione del cervello di interesse. La variazione del campo magnetico (2,5 Tesla di intensità di 200 μs e durata di 1 ms) evoca un flusso di corrente elettrica che interferisce sulla normale attività cerebrale causando una depolarizzazione dei neuroni. Lo stimolo magnetico produce una risposta sonora, simile ad una serie di clic e una sensazione tipo formicolio sulla cuoio capelluto. La depolarizzazione neuronale può portare all’attivazione di gruppi di neuroni sia prossimi che distanti dall’area direttamente stimolata.

La stimolazione dell’area, inoltre, avviene per via transinaptica, ovvero partendo dalle fibre più sottili per poi raggiungere quelle più grosse dei primi strati della corteccia.

Le strutture più profonde possono anche essere stimolate usando bobine relativamente grandi. Tuttavia i campi elettrici indotti sono sempre più alti quando più vicino è la bobina all’area di interesse

I parametri tipici dell’impulso del campo magnetico necessari per depolarizzare dei nervi includono un tempo di innalzamento dell’ordine di 100μsec, un di picco dell’ordine 1 Tesla e l’energia del campo magnetico di diverse centinaia di joule. I circuiti utilizzati per generare gli impulsi del campo magnetico sono di solito basati su un sistema di scarico di condensatori con correnti tipiche della bobina, con un picco nell’intervallo di parecchi chilowatt e tensioni di scarico fino a pochi chilovolt. La tensione relativamente elevata è necessaria per dare il rapido aumento della corrente desiderato nell’induttanza della bobina stimolante.

Aree terapeutiche della stimolazione magnetica transcranica

La stimolazione magnetica transcranica è usata in ambito neuroscientifico per studiare le funzioni sottese da determinate aree cerebrali. Ai soggetti, partecipanti all’esperimento, è chiesto di eseguire un compito cognitivo e contemporaneamente un coil, posizionato su una determinata area cerebrale, inibisce la funzionalità dell’area in oggetto. In questo modo, si registrano le performance ottenute sapendo che saranno deficitarie, a conferma della funzione cognitiva svolta dall’area stimolata.

Inoltre, la stimolazione magnetica transcranica è utilizzata in ambito clinico. Infatti, essa consente, in generale, il miglioramento della circolazione cerebrale e delle funzioni cognitive.

Verso la metà degli anni novanta è stato riscontrato, in modo del tutto accidentale, come pazienti affetti da patologia neurologica che erano sottoposti a TMS ripetitiva (rTMS) a fini diagnostici, e che presentavano associato un disturbo del tono dell’umore, potessero presentare un miglioramento del quadro depressivo. Queste osservazioni hanno dato l’avvio all’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica come trattamento terapeutico in ambito neuropsichiatrico. Infatti, la TMS, se utilizzata in modo ripetitivo ad alte o basse frequenze, appunto definita rTMS, può indurre e modulare i fenomeni di riorganizzazione neuronale, ed è in grado di facilitare o inibire in maniera determinante i circuiti neuronali responsabili di una determinata funzione o di un determinato sintomo. La stimolazione magnetica transcranica, ancora, ha permesso di aumentare le informazioni sulla patofisiologia dell’ADHD. La stimolazione con stimolazione magnetica transcranica del circuito fronto-striato-cerebellare unitamente al training cognitivo consente di ottenere un miglioramento delle capacità cognitive e una riduzione della sintomatologia

La stimolazione magnetica transcranica è usata in Psichiatria per la cura della depressione e di una serie di sintomi legati all’ansia e all’alimentazione (Bersani, Minichino, Enticott, 2013); in Neurologia è utile per la riabilitazione cognitiva post stroke o trauma cranico, cefalea muscolo tensiva, Parkinson e Tinnitus (Acufene) (Rossi, Hallett, Rossini, Pascual-Leone, 2009).

Per i disturbi sopra indicati si utilizzano dei protocolli di somministrazione in cui la stimolazione magnetica transcranica si applica più volte nel tempo in aggiunta alla psicoterapia. In ogni caso, alla lunga sono stati riscontrati effetti collaterali e transitori come le cefalee o le emicranie.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La (meta)cognizione sociale nel disturbo depressivo maggiore: una review sulle basi neurali – Riccione, 2017

La (meta)cognizione sociale nel disturbo depressivo maggiore: una review sulle basi neurali

E. Mellina, S. Righini, F. Turchi – Scuola cognitiva Firenze, Centro Studi Cognitivi Firenze

 

La cognizione sociale comprende diversi domini e processi alla base dell’interazione umana i cui elementi principali sono: la comprensione emotiva; la percezione sociale; la teoria della mente (ToM); lo stile di attribuzione e l’empatia. La ricerca suggerisce come il Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) sia associato a specifiche alterazioni nella cognizione sociale, presenti soprattutto durante le fasi acute di malattia, in particolare per quanto riguarda la comprensione emotiva. Risulta invece più dibattuta la questione riguardante la presenza o la gravità della compromissione delle abilità socio-cognitive durante le fasi interepisodiche del disturbo.

Un complesso network di aree cerebrali implicate in processi cognitivo-affettivi costituisce la base neurale della cognizione sociale in soggetti sani. In questo circuito fondamentali sono i lobi frontali, in particolare la corteccia prefrontale ventro-mediale (vmPFC), area implicata nella regolazione delle emozioni e nella valutazione della ricompensa, la corteccia prefrontale dorso-laterale (dlPFC) e la corteccia orbito-frontale (OFC), coinvolta nei processi cognitivi superiori e nella regolazione emotiva. Inoltre, è stata rilevata una partecipazione della corteccia cingolata anteriore (ACC) nel monitoraggio del conflitto e nell’integrazione dell’informazione per motivare il comportamento, mentre sono specificatamente reclutati nella percezione delle espressioni facciali anche il giro fusiforme ed il solco temporale superiore. Studi recenti di neuroimmagine hanno esaminato uno dei principali domini della cognizione sociale, la comprensione delle emozioni, in pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore, nel tentativo di individuarne il possibile substrato neurobiologico.

In questo lavoro ci siamo proposti di verificare l’attendibilità dell’ipotesi secondo la quale i deficit di comprensione emotiva sarebbero alla base della compromissione della cognizione sociale e del funzionamento interpersonale presente nei pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore, attraverso la selezione e revisione di articoli pubblicati fino a Agosto 2016 indicizzati su PubMed e PsycINFO abbinando alcune parole chiave.

Dall’analisi è emerso come in fase acuta di malattia sia presente un’iperreattività dell’amigdala di fronte a stimoli negativi la quale potrebbe essere associata a bias negativi durante le fasi automatiche dell’elaborazione emotiva, incluso il riconoscimento delle emozioni, specialmente della tristezza. Al contrario, l’iporesponsività dell’amigdala riscontrata in risposta a stimoli positivi potrebbe derivare da un diminuito coinvolgimento di risorse cognitive nell’elaborare tali stimoli (“effetto mood congruent”). Per quanto riguarda la fase eutimica, i soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore in fase di remissione, rispetto ai controlli sani, mostrano un’aumentata attivazione della dlPFC in risposta a facce spaventate. L’aumentato livello di attivazione della regione dorsolaterale prefrontale è stato interpretato come un meccanismo di controllo corticale volto a compensare le alterazioni a carico delle regioni limbiche, compresa l’amigdala. Alcuni autori hanno evidenziato la presenza di una relazione positiva fra la durata dell’eutimia e l’aumento dell’attivazione della dlPFC destra.

Questi risultati supportano l’ipotesi di un’alterazione nel funzionamento nella OFC sinistra e della dlPFC nel rispondere a stimoli emozionali negativi in fase eutimica che potrebbero costituire un marcatore di tratto della patologia o addirittura rappresentare una vera e propria “cicatrice” dovuta ai precedenti episodi depressivi. Il recupero dell’equilibrio eutimico potrebbe inoltre essere associato ad un maggior funzionamento a scopo compensatorio da parte della dlPCF destra. Anche in studi di resting state (situazione in cui i soggetti non svolgevano nessun compito) o con altri paradigmi sono state confermate le anomalie nelle regioni fronto-limbiche, talvolta persistenti anche dopo la remissione sintomatologica. Inoltre, sia soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore che i loro fratelli sani presentano incremento dell’attivazione nel giro mediale frontale sinistro rispetto ai sani, elemento che potrebbe costituire un tratto endofenotipico di vulnerabilità alla patologia. In aggiunta, dagli studi che hanno confrontato pazienti con Disturbo Depressivo Maggiore e pazienti con disturbo bipolare è emerso come le alterazioni neurali riscontrate nei pazienti depressi sembrino riconducibili ad un’attivazione disfunzionale di tipo top down, piuttosto che ad una compromissione principalmente sottocorticale, come invece è stato rilevato nei pazienti bipolari.

Complessivamente dunque, i risultati sopra esposti tendono ad evidenziare nei soggetti depressi la presenza di anomalie neurali, funzionali e strutturali, che si manifestano nelle difficoltà a carico della comprensione emotiva e nella tendenza ad interpretare negativamente eventi a valenza neutra o positiva. Queste compromissioni dei processi mentali, fondamentali nella capacità metacognitiva e nella gestione delle dinamiche interpersonali, sono verosimilmente alla base di una deficitaria cognizione sociale nei soggetti depressi. La propensione a leggere in chiave negativa emozioni ed eventi esterni fin dall’infanzia, probabilmente rappresenta a sua volta un fattore di vulnerabilità capace di incidere negativamente sul decorso di malattia, favorendo l’insorgenza di nuovi episodi in età adulta, come ipotizzato ad esempio da Beck a proposito del concetto di “cognitive vulnerability’’.

 

Le terapie solidali: il racconto di un supervisore sulle terapie solidali offerte dalla Scuola Cognitiva di Firenze

La Scuola Cognitiva di Firenze presso il proprio Centro di Cognitivismo Clinico ha organizzato le “psicoterapie solidali” che hanno delle caratteristiche peculiari per migliorare la formazione professionale degli specializzandi e per consentire l’accesso alla terapia a pazienti bisognosi di aiuto e in cerca di un prodotto serio e ben supervisionato.

 

Si tratta, infatti, di psicoterapie offerte a prezzi agevolati di 25 euro condotte da psicoterapeuti in formazione del terzo e quarto anno e supervisionate ogni settimana dai didatti esperti della Scuola. Oltre alla supervisione obbligatoria settimanale gli studenti devono aggiornare costantemente la cartella clinica di quel singolo paziente, anch’essa monitorata dal didatta e conservata nel Centro in cui vengono inseriti i dati relativi al processo terapeutico ed il diario clinico delle sedute.

Quella appena descritta è la fase della “terapia solidale” in cui sono descritti i compiti del terapeuta in formazione ma precedentemente vi è una fase di assessment iniziale anch’essa molto importante che vede il contributo di altri colleghi già formati. Al paziente che ha contattato il Centro per la “terapia solidale” viene fissato, infatti, un colloquio condotto da un terapeuta esperto della Scuola con lo scopo di valutare la problematica psichica e psicopatologica e se essa possa essere gestita da un terapeuta in formazione. Successivamente viene condotta una valutazione diagnostica, da una equipe di colleghi esperti, che sarà finalizzata ad una relazione in cui verranno raccolti i dati emersi nella prima visita, i risultati della valutazione diagnostica ed un orientamento terapeutico.

Queste appena descritte sono le varie fasi della “terapia solidale” che sono vincolanti alla stessa e verso i quali il terapeuta in formazione deve necessariamente attenersi.

 

La supervisione dei terapeuti in formazione

Poi però c’è la supervisione, settimanale, e descriverne alcuni aspetti è per me molto stimolante essendo uno dei supervisori ormai da qualche mese. Il confronto con le difficoltà che ogni terapeuta in formazione incontra sono tante, come è normale che sia, spesso gestite attraverso un utilizzo delle tecniche in un momento in cui ancora non si ha in testa il problema ed il funzionamento del paziente e su cui è mio obiettivo riflettere insieme al terapeuta in formazione. Il ruolo, cioè, del controllo come strategia per gestire la propria ansia che portiamo nella relazione col paziente e come questo emerga chiaramente riflettendoci insieme, aiutando il terapeuta in formazione a decentrarsi rispetto alla situazione problematica in seduta.

Lo stesso modello cognitivo-comportamentale viene visto come una mappa all’interno della quale inserire i vari elementi che emergono dalle sedute con lo scopo di poter giungere ad una più chiara concettualizzazione del funzionamento del paziente, elemento centrale su cui costruire il progetto terapeutico. Questa maggior attenzione su ciò che sta accadendo in terapia emerge durante la supervisione molto chiaramente quando la scelta di una specifica tecnica è conseguenza di una riflessione sul funzionamento del paziente e non staccata da essa. Tecnica che il terapeuta in formazione impara così ad applicare in un setting clinico e per poterla, in seguito, padroneggiare.

La ricerca della novità nel sesso – Le risposte di FluIDsex

Perché siamo sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo nel sesso? (Lee)

 

Caro Lee,

l’essere umano per indole è alla continua ricerca di stimoli nuovi, diversi da quelli che è solito sperimentare. Quando si parla di sesso, si parla di un atto fisico finalizzato al raggiungimento del piacere.

Il conseguimento del piacere può dunque essere così importante per l’individuo da spingerlo verso una continua ricerca della novità in ambito sessuale? Il piacere ha sicuramente un ruolo centrale per quel che riguarda il mantenimento dell’equilibrio psico-fisico dell’organismo, ci basta pensare che a livello neurobiologico esiste un sistema preposto al controllo della sensazione di piacere. È il sistema dopaminergico che, rilasciando il neurotrasmettitore dopamina in risposta ad uno stimolo di ricompensa, come appunto il sesso, permette di raggiungere un elevato tono dell’umore e conseguente sensazione di benessere.

A volte si tende ad etichettare il “nuovo” nel sesso come il trasgressivo o il proibito, condizionati dagli usi e i costumi della società in cui si è immersi. La ricerca della novità in ambito sessuale è invece un possibile modo che abbiamo per soddisfare curiosità e desideri e per sperimentare uno stato di benessere psicologico e fisico.

 

Valentina Orlandi

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Studio dell’effetto di differenti fattori sulla stima della probabilità

Nei processi decisionali intervengono alcuni fattori di cui non siamo sempre pienamente consci ed ai quali non prestiamo sovente attenzione: l’intenzione dei due esperimenti descritti di seguito è quella di verificare l’esistenza di un effetto in grado di modificare la stima della probabilità nei processi decisionali.

Centonze Simone – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Nei processi decisionali intervengono alcuni fattori di cui non siamo sempre pienamente consci ed ai quali non prestiamo sovente attenzione.

L’intenzione dei due esperimenti descritti di seguito è quella di verificare l’esistenza di un effetto in grado di modificare la percezione di una probabilità nei processi decisionali.

Questo effetto rende le proporzioni presentate con un fattore 1/N, per esempio 1/10, percepibili come più facilmente realizzabili – e quindi più probabili – rispetto ad una proporzione matematicamente equivalente, ma presentata con fattori diversi, per esempio 10/100.

In letteratura è possibile individuare altre indagini volte ad individuare questo effetto, (Pighin S., Savadori L., Barilli E., 2011), ed esse lo identificano e lo battezzano effetto “1 su X”; sono proprio questi studi ad aver costituito il nostro punto di partenza.

I numerosi esperimenti riportati in letteratura mirano a comprendere il perché una proporzione venga percepita diversamente qualora si modifichi il modo in cui essa viene presentata; ciò rende necessario capire cosa succede se la proporzione in esame non viene presentata direttamente e sono i partecipanti stessi ad estrapolarla dalle informazioni che gli vengono fornite.

Stima della probabilità nei processi decisionali: esperimento

L’intenzione principale di questo primo esperimento è quella di verificare l’esistenza dell’effetto “1 su x” in un processo che non prevede la descrizione della probabilità da parte dello sperimentatore; i soggetti dovranno infatti estrapolare tale probabilità in maniera autonoma rispetto alle informazioni fornite loro.

L’esperimento assume le fattezze di una stima di una probabilità presentata ai partecipanti sotto forma di un lancio di dado, lancio il cui esito è legato ad un evento emotivamente carico; nel caso specifico, ottenendo come risultato il numero 1 con un dado a dieci facce o un risultato compreso tra il numero 1 e il numero 10 con un dado a cento facce, a seconda del gruppo sperimentale, il soggetto perde i soldi che altrimenti avrebbe ottenuto per la partecipazione alla ricerca (ciò, ovviamente, risulta essere un evento negativo dal punto di vista emotivo ed economico).

Questo aspetto rende i risultati dell’esperimento paragonabili a quelli emersi da altre ricerche effettuate sullo stesso fattore (Pighin S., Savadori L., Barilli E., 2011).

L’esperimento, nella sua prima parte, è stato svolto per intero nel dipartimento di Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento, ed in particolare all’interno delle strutture di ricerca DiSCoF.

Metodo

Si sono offerti volontariamente per prendere parte a questo esperimento 60 soggetti (44 femmine, 16 maschi, con età media di 21 anni), la maggior parte dei quali sono studenti della facoltà di Scienze Cognitive.

Ogni soggetto viene assegnato in maniera casuale ad un gruppo sperimentale: il gruppo 1 svolge l’esperimento con un dado a 10 facce, mentre il gruppo 2 con un dado a 100 facce.

Le prime istruzioni fornite ai soggetti sono la seguenti: “Questo è il dado che dovrai lanciare e questi sono i 5 euro che potresti ricevere per la partecipazione a questo esperimento. Per averli dovrai tirare il dado. Se uscirà [il numero 1( se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 1)/ un numero compreso tra 1 e 10 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 2)] non riceverai i 5 euro“.

L’esperimento prosegue con la richiesta esplicita ai partecipanti di stimare la probabilità di perdere i soldi in palio per l’esperimento, prima di lanciare il dado e constatare quindi il reale esito; questa stima della probabilità avviene mediante la marcatura di un punto su un asse di 10 cm.

I soggetti sono tenuti a delimitare il segmento che rappresenta, secondo loro, la probabilità in questione.

Il dato che possiamo ricavare da queste informazioni è la diretta stima della probabilità, prodotta dal soggetto attraverso le informazioni che gli vengono fornite, e la sua analisi numerica.

La misura ricavata è frutto della rilevazione della distanza fra il punto indicato dal soggetto e il margine sinistro – per convenzione adottato come punto zero – della barra che rappresenta il 100% della probabilità.

Dopo aver lanciato il dado ed aver verificato l’esito del proprio lancio, vengono fornite, solamente ai soggetti che non hanno perso i soldi, delle nuove indicazioni inerenti ad una situazione ipotetica: “In questa seconda parte dell’esperimento ti chiedo di fare una scelta ipotetica. Immagina di poter scommettere l’intera somma di 5 euro o solo parte di essa (es.1 Euro, 2 Euro). La scommessa consiste nel tirare di nuovo il dado, se uscirà [il numero 1 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale1)/ un numero compreso tra 1 e 10 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 2)] perderai quanto hai scommesso, se non uscirà [il numero 1 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 1)/ un numero compreso tra 1 e 10 (se il soggetto appartiene al gruppo sperimentale 2)] vincerai il doppio di quello che hai scommesso. Quanto scommetteresti?“.

Dalla risposta al quesito sopra riportato, otteniamo una stima della probabilità indiretta che i soggetti ci forniscono tramite l’intenzione di scommettere una certa quantità di denaro: tanto più elevata sarà questa cifra, tanto meno probabile sarà la percezione del rischio legato alla probabilità di un esito negativo del lancio del dado.

Infine viene richiesto ad ogni partecipante di compilare un questionario: The Berlin numeracy test (Cokely E.T., Galesic M., Schulz E., 2012); gli esiti del questionario forniranno indicazioni sulle abilità numeriche, la capacità di visualizzare vividamente le immagini mentali, e la preferenza nell’utilizzo di un canale immaginativo visivo o immaginativo spaziale-verbale di ogni partecipante.

Sarà poi possibile individuare eventuali correlazioni fra queste caratteristiche dei soggetti e le scelte fatte durante la stima di probabilità.

Risultati

I risultati mostrano che, per quanto concerne la probabilità percepita, non ci sono differenze significative tra la condizione 1 o “1 su 10” (M=17.07±11.43) e la condizione 2 o “10 su 100” (M=19.07±10.57), da cui t(55)= -.686, p=.496 .

Anche per quanto riguarda la misura dell’ipotetica scommessa, intenzione comportamentale, non si ottiene una differenza significativa fra la condizione “1 su 10” (M=3.39±1.27) e la condizione “10 su 100” (M=3.83±1.23) t(44)=- 1.18, p=.245.

E’ possibile che non tutta la popolazione venga influenzata dall’effetto che stiamo indagando. Come evinciamo dalla ricerca di settore, infatti, le capacità numeriche influenzano i processi decisionali quando si opera nel mondo dei numeri (Peters E., Västfjäll D., Mazzocco K. 2006).

Per capire se l’effetto “1 su x” è riscontrabile solamente in una popolazione “sensibile” a questo tipo di errore cognitivo, abbiamo provato a verificare se esiste una correlazione tra le capacità di analisi e utilizzo dei numeri e la stima della probabilità; per fare ciò siamo partiti dai risultati del B.N.T: punteggio medio 1.47, deviazione standard 1.15, posizione mediana 1; in seguito abbiamo suddiviso i partecipanti in due gruppi in funzione del risultato ottenuto nella misura della numeracy, rispetto alla mediana dell’intera popolazione: partecipanti con bassa numeracy e partecipanti con alta numeracy.

I partecipanti che abbiano totalizzato un punteggio di 1 o 0 al Berlin Numeracy Test vengono inclusi nella categoria dei soggetti con bassa numeracy, mentre i partecipanti che abbiano totalizzato, nello stesso test, un punteggio da 2 a 4 risultano fare parte della categoria soggetti con alta numeracy. In questo modo otteniamo una divisione della popolazione in due parti, basata sul punteggio al test della numeracy ed un’ulteriore suddivisione del campione in funzione del gruppo sperimentale; la popolazione è frazionata quindi in quattro sottogruppi.

Partendo da una numerosità di sessanta partecipanti, otteniamo un numero di soggetti per ogni gruppo purtroppo molto ridotto: questo sarà uno dei punti di riflessione nella progettazione dell’esperimento 2.

I dati che otteniamo dall’ulteriore suddivisione della popolazione in funzione del punteggio di numeracy sono i seguenti:

  • Nella categoria con bassa numeracy, composta da 31 soggetti, di cui 15 nella condizione “1 su 10” e 16 nella condizione “10 su 100”, non otteniamo differenza significativa nella probabilità percepita fra condizione “1 su 10″( M=21.93±13.98) e condizione “10 su 100” (M=20.56±12.94), t(29)=.284, p=.778.
  • Non otteniamo differenze statisticamente significative nemmeno nell’intenzione comportamentale, condizione “1 so 10” (M=3.29±1.33), condizione “10 su 100” (M=4.00±1.24), t(26)=-1.47, p=.153 .
  • Nella categoria con alta numeracy, composta da 26 soggetti di cui 14 con condizione “1 su 10” e 12 con la condizione “10 su 100”, è significativa la differenza nella probabilità percepita nella  condizione “1 su 10” (M=11.86±3.80) rispetto alla condizione “10 su 100” (M=17.08±6.32), t(24)=-2.6 p=.016.
  • Probabilmente, tuttavia, questo dato è frutto del caso, giacché il numero di soggetti è troppo basso per fornire alcuna certezza. Se, però, ciò non fosse frutto del caso, nell’esperimento 2 ritroveremmo la presenza di questo effetto; l’intenzione comportamentale nella condizione “1 su 10” (M=3.56±1.24) e nella condizione “10 su 100” (M=3.56±1.24), in questa popolazione non presenta differenza alcuna t(16)=.000 p=1.00 .

Discussione

Contrariamente a quanto ci saremmo aspettati, osservando i dati raccolti si comprende facilmente che non viene riscontrata una differenza significativa nella stima della probabilità nelle due categorie; ne consegue che il fattore di presentazione della probabilità non ha influenzato la capacità di stima dei partecipanti, come invece succede in altri esperimenti, dove la probabilità viene descritta dallo sperimentatore ed il soggetto non deve produrla in maniera autonoma, ma solamente elaborarla per poterla valutare. E’ quindi possibile che l’effetto “1 su x” intervenga solamente nell’interpretazione di un probabilità ma non nella produzione/estrapolazione della stessa.

Progettazione del secondo esperimento

Dopo un’ attenta analisi della procedura sperimentale utilizzata nell’esperimento 1, abbiamo cercato di perfezionare alcuni aspetti che, a nostro avviso, avrebbero potuto impedire all’effetto “1 su x” di farci riscontrare la differenza attesa.

La prima variazione che abbiamo inserito nella seconda indagine è la modifica della scala che i soggetti devono utilizzare per stimare la probabilità; nella prima raccolta dati, infatti, abbiamo fornito ai partecipanti una scala formata unicamente da una barra lunga 10 cm, e, come descritto sopra, i partecipanti dovevano segnare il punto che rappresentava la loro stima della probabilità in esame; nel secondo esperimento la scala da utilizzare è una scala Likert con sette gradi, ognuno dei quali corrisponde un etichetta verbale in grado di definire l’evento in analisi.

Ogni soggetto marca dunque il quadratino corrispondente all’etichetta che secondo lui è più adatta a descrivere l’evento in esame. Il valore che possiamo estrapolare dalla scelta del soggetto è quindi assimilabile alla posizione del quadretto lungo la scala, partendo da un 1 per una valutazione estremamente bassa ed arrivando fino a 7 per una valutazione estremamente alta.

Questa modifica del paradigma sperimentale dovrebbe fare in modo che le persone non cerchino una corrispondenza numerica diretta tra il rapporto possibilità di vincere/numero di facce del dado e la lunghezza sulla scala analogica da dieci centimetri (soluzione frequentemente adottata durante la prima fase di laboratorio dai partecipanti, e favorita dal numero di facce dei dadi scelti per l’esperimento); la scala analogica, per i suoi dieci cm di lunghezza, era infatti direttamente sovrapponibile alla proporzione da stimare.

Per questo stesso motivo era nostra intenzione modificare anche il tipo di dado utilizzato nell’esperimento, optando per un dado a sei facce; opzione poi scartata per due ordini di motivi.

Il primo: l’impossibilità di rapportare l’effetto “1 su 6” in un dado a cento facce, mantenendo numericamente uguale la probabilità da stimare.

Il secondo: utilizzando un dado con un grado di familiarità più elevato per i soggetti, non avremmo potuto escludere dai fattori che influenzano un’eventuale differenza fra le stime di probabilità, quali un effetto di affettività o di familiarità legato alla conoscenza pregressa, esperienza del dado (cose che con un dado a dieci facce risultavano molto meno probabili).

La terza ed ultima variazione che abbiamo predisposto per l’esperimento riguarda l’esito del lancio del dado: nel primo esperimento i partecipanti, qualora ottengano un esito di 1, od un numero compreso tra 1 e 10, a seconda del gruppo sperimentale di appartenenza, incassano un esito negativo, cioè perdono i soldi che avrebbero guadagnato per aver partecipato all’indagine.

Nella seconda parte della ricerca, invece, se i partecipanti ottengono come risultato dal lancio del dado il numero 1 o un numero compreso tra 1 e 10, vincono la possibilità di essere estratti in una lotteria con in palio 150 Euro: ciò rappresenta un evento positivo, non più un evento negativo come avviene per il primo esperimento.

Vista la naturale tendenza, osservata nei partecipanti al primo esperimento, a riflettere in termini di possibilità di vincere i soldi o la ricompensa in palio, dovremmo, con questa variazione, incentivare i partecipanti a pensare, durante la stima della probabilità, a una proporzione del tipo 1 su 10 probabilità di vincere, e non, come succedeva nella prima parte, 9 su 10 di vincere.

Risultati

Dai risultati ottenuti dall’esperimento numero 2 otteniamo che non è riscontrabile una differenza statisticamente significativa fra i gruppi sperimentali “1 su 10” (M=2.59±.746) e “10 su 100” (M=2.67±.735), con un risultato al t test di t(115)=-.579 p=.564.

Il campione è dunque così composto:117 risultati esaminati, 59 in condizione “1 su 10” e 58 in condizione “10 su 100”.

Non è stata riscontrata nessuna differenza significativa nemmeno nell’intenzione comportamentale di scommessa: condizione “1 su 10” (M=4.09±3.50), condizione “10 su 100” (M=3.95±2.86), risultato t test t(117)=.245 p=.807 .

Suddividendo la popolazione come nell’ esperimento 1, in base al risultato ottenuto al B.N.T., e quindi al livello misurato di numercy, otteniamo la spartizione dei soggetti nelle fasce di popolazione con bassa numeracy e popolazione con alta numeracy, da qui procediamo per individuare eventuali differenze nelle due popolazioni; risultati B.N.T. :punteggio medio 1.37, deviazione standard 1.11, posizione mediana 1.

Nel gruppo di soggetti a bassa numeracy non otteniamo differenze significative nella stima della probabilità fra condizione “1 su 10” (M=2.51±.790) e condizione “10 su 100″(M=2.73±), t(70)=-1,12 p=.269 ; nemmeno per quanto riguarda l’intenzione comportamentale nella scommessa condizione “1 su 10” 20(M=4.22±3.58) e condizione “10 su 100” (M=4.33±3.08) presentano differenze  statisticamente significative t(70)=-.145 p=.885 .

Neppure all’interno della popolazione con un’ alta numeracy abbiamo differenze significative fra la condizione “1 su 10” (M=2.75±.639) e la condizione “10 su 100” (M=2.60±.577), t(43)=.826 p=.413 per la stima della probabilità e nemmeno per l’intenzione comportamentale nella scommessa, condizione “1 su 10” (M=3.85±3.42), condizione “10 su 100” (M=3.44±2.52), t(43)=.463 p=.646 .

Discussione

Dai dati si evince che non ci sono differenze significative né nelle stime di probabilità dirette, né in quelle indirette (intenzione comportamentale) dovute all’effetto “1 su X” nella produzione di probabilità. Il risultato ottenuto nel secondo esperimento porta a due possibili conclusioni.

La prima: l’effetto “1 su X” non viene attivato da un processo di produzione della probabilità, come invece avviene per un processo di descrizione.

Questo punto, per essere verificato, richiederebbe un’ulteriore indagine, in cui lo stesso paradigma utilizzato in questa ricerca venisse riformulato in chiave descrittiva, cioè fornendo le probabilità ai partecipanti; se l’effetto “1 su X” fosse riscontrato in questa condizione, allora si potrebbe consolidare la teoria dell’esistenza di tale fattore nell’interpretazione di una probabilità solo se descritta, e non se prodotta, come una tesi attendibile.

La seconda possibile conclusione a cui conducono i risultati della nostra ricerca è che l’effetto in questione non agisce nella nostra ricerca perché il paradigma ne impedisce l’azione; potrebbe darsi che il metodo utilizzato per l’indagine blocchi l’insorgere dell’errore di stima dovuto all’effetto “1 su X”; nello specifico, potrebbe accadere che la domanda posta ai soggetti sia indebitamente riferita alla loro percezione della fortuna di ottenere in quel momento il risultato sperato con il lancio del dado, e, di conseguenza, la risposta che noi assumiamo come stima della probabilità potrebbe essere errata.

In entrambi i casi questo è il punto di partenza per la modifica del paradigma di ricerca, in quanto per ottenere dei risultati certi ed affidabili sarebbe opportuno vagliare entrambe le opportunità suggeriteci dalle conclusioni.

Decision from self description

L’aspetto che, a chi scrive, preme maggiormente sottolineare, è che l’esperimento da Noi proposto chiede ai soggetti di estrapolare la probabilità del verificarsi di un evento definito solamente con termini non direttamente riconducibili a tale probabilità; che essi devono quindi estrapolare attraverso la loro esperienza di utilizzo dei dadi; questo processo si colloca esattamente al centro della differenza fra “decison from experience” e “decision from description”, e può essere definito come un processo di “decision from self- description”, in quanto qui non è lo sperimentatore a definire i termini della proporzione, ma è il soggetto stesso ad estrapolarli dalla situazione che si trova di fronte.

Rientrare in uno schema cognitivo di decisione basato sull’esperienza comporta una stima della probabilità differente di quegli eventi che possiamo definire come rari, mentre se il meccanismo applicato nella decisione si basa sulla descrizione dell’evento, allora assisteremo ad una sovra stima della probabilità di eventi che si possono verificare raramente; nel nostro caso, poiché la decisione si basa su uno stile cognitivo che abbiamo definito di auto descrizione, ovvero, una sorta di posizione mediana fra le due modalità di pensiero, come vengono stimati gli eventi rari come una probabilità di 1 su 10?

In letteratura troviamo numerosissimi esempi di studi che, utilizzando due metodologie differenti, individuano la differenza descrizione-esperienza, ma ancora nessun paradigma è parso in grado a creare una condizione simile a quella descritta nell’esperimento dal quale è partita questa riflessione, ragion per cui non sarebbe corretto affermare che il risultato ottenuto individua un formato di presentazione delle probabilità immune dai vari bias cognitivi degli altri due formati in questione; sicuramente possiamo dire che non sono stati riscontrati elementi di distorsione della probabilità come ratiobias, ma nemmeno l’elemento che ha stimolato la ricerca stessa: l’effetto “1 su x”.

Disturbo da Tic con esordio in età evolutiva: tipologie, eziologia e trattamenti

Il disturbo da tic costituisce uno dei disturbi neuropsichiatrici più frequenti in età evolutiva. Con la denominazione tic si intende tutti quei movimenti stereotipati, a-finalistici, che l’individuo compie senza averne il controllo; i tic possono essere transitori oppure cronici.

Alessandra Epis – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena 

 

I disturbi da tic costituiscono uno dei disturbi neuropsichiatrici più frequenti in età evolutiva, si stima infatti che oltre il 10% della popolazione manifesti dei tic nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza (Verdellen C. et al., 2016).

Il tic è un comportamento convulso e involontario ed è considerato un’anomalia che rientra nei disordini del movimento. Con la denominazione tic si intende tutti quei movimenti stereotipati, a-finalistici, che l’individuo compie senza averne il controllo; i tic possono essere transitori (Disturbo transitorio da Tic) oppure cronici (Disturbo persistente da Tic motori o vocali); si possono manifestare in diversi modi e coinvolgere uno o più elementi corporei: gli occhi, la voce o addirittura il comportamento.

 

Diverse tipologie di tic

I tic motori comprendono per esempio smorfie del viso, movimenti del collo, colpi di tosse, ammiccamenti; fanno parte di questa tipologia anche i tic vocali (emissioni di suoni non voluti) che includono per esempio il raschiarsi la gola e lo sbuffare. Quelli appena elencati sono considerati tic motori e vocali semplici perché coinvolgono solo alcuni elementi corporei e sono costituiti da movimenti brevi.

I tic motori possono essere anche complessi quando coinvolgono più elementi corporei e sono costituiti da sequenze di movimenti; ne sono un esempio il battere i piedi, effettuare movimenti mimici, saltare, toccare, odorare un oggetto. Anche i tic vocali possono essere complessi o definiti anche tic comportamentali; ne sono un esempio l’ecolalia (la ripetizione come un’eco di frasi parole o suoni sentiti per ultimi) e la coprolalia (comportamento compulsivo patologico che provoca la necessità esplosiva di pronunciare parole o frasi dal contenuto osceno e/o volgare). Oltre a queste principali tipologie esistono anche i tic distonici (movimenti coordinati consecutivi con un fine inesistente ma presunto), i tic sensitivi (scatenati da una stimolazione esterna, frequentemente riscontrato nelle persone con Sindrome di Tourette) e i tic transitori, riscontrabili più frequentemente in età infantile (DSM-5).

I tic persistenti esordiscono in genere tra i 4 e i 7 anni, raggiungono un picco di intensità in pre-adolescenza, per poi attenuarsi e sparire nella maggioranza dei casi in tarda adolescenza o nella prima età adulta (Verdellen C. et al., 2016).

 

L’eziologia del Disturbo da tic

Alcuni soggetti sembrano essere maggiormente predisposti rispetto ad altri a sviluppare il Disturbo da Tic per via di un’alterazione del gene SLTRK1 nel cromosoma 13; tuttavia non è matematico che a predisposizione genetica segua sempre la manifestazione di un tic nervoso. In altri casi vi possono essere disfunzioni cerebrali e del sistema nervoso centrale che incidono su due neurotrasmettitori: la dopamina e la serotonina, coinvolte nei meccanismi cerebrali di movimento volontario e nella regolazione dell’umore.

Tra le cause di un tic nervoso vi possono anche essere disagi psicologici ossessivo-compulsivi che cercano di contrastare l’ansia verso una situazione determinata oppure ancora vi possono essere implicazioni di carattere neurologico riferite principalmente ai gangli della base (formazioni dell’encefalo che svolgono un importante ruolo nel controllo dei movimenti volontari e non ma anche di alcune funzioni cognitive) (Bear et al., 2007).

I tic causati da malattie neurologiche prendono il nome di discinesie (alterazioni di un movimento), queste possono essere una conseguenza di un danno cerebrale alla nascita, di un trauma al capo, dell’uso di farmaci antiemetici oppure di farmaci utilizzati per trattare problemi psichiatrici (Segen J., 2006).

 

La Sindrome di Tourette

Tra le patologie meglio conosciute caratterizzate da movimenti involontari ed esordio nell’infanzia vi è la Sindrome di Tourette (Disturbo neurologico che prende il nome da George Gilles de la Tourette, il neurologo francese che l’ha descritta per primo nel 1885). Questa Sindrome è caratterizzata da tic facciali, movimenti involontari multipli del corpo, ecolalia e coprolalia; la gravità dei tic può variare da lievi a invalidanti ed il 43% dei pazienti presentano alcune comorbilità come il Disturbo da Deficit d’attenzione e iperattività (ADHD) e il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC); queste condizioni sono spesso secondarie al peggioramento del quadro clinico del paziente ed è fondamentale identificarle e trattarle (Du J.C. et al., 2010).

Le cause della sindrome non sono ancora certe, vi sono fattori genetici e ambientali e si ipotizza esservi un metabolismo anormale della dopamina 4 volte più frequente nel maschio.

I tic di questa Sindrome iniziano durante l’infanzia, l’età più comune di insorgenza è tra i cinque e i sette anni e raggiunge la massima severità intorno ai 10 anni (Leckman J.F. et al., 2006).

In adolescenza i tic si riducono o scompaiono in circa un quarto dei bambini; per quasi la metà di essi i tic si riducono ad una forma lieve, per meno di un quarto di loro invece i tic persistono. Gli adulti invece presentano un peggioramento dei tic rispetto all’età pediatrica in percentuale compresa tra il 5% e il 14% (Du J.C. et al., 2010).

La probabilità di trasmettere il disturbo alla prole è del 50% (Zinner S.H., 2000); solo una piccola percentuale di bambini portatori di geni sviluppano sintomi tanto severi da richiedere cure mediche.

Resta dibattuta l’ipotesi autoimmune che prende il nome di PANDAS (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorders Associated with Streptococcal infections) una sindrome neuropsichiatrica infantile innescata da ripetute infezioni da streptococco non adeguatamente curate che presentano diversi sintomi neuropsichiatrici tra i quali: disturbi del movimento, tic vocali, disturbo ossessivo-compulsivo (pandasitalia.it).

A differenza degli altri disturbi del movimento, i tic di Tourette sono sopprimibili per periodi limitati di tempo e sono spesso preceduti da un impulso premonitore non desiderato di cui i bambini sono meno consapevoli.

Alcuni esempi di impulso premonitore possono essere: la sensazione di avere qualcosa in gola o un disagio localizzato nelle spalle, che portano alla necessità di schiarirsi la gola o di alzare le spalle. Il tic può essere sentito come un modo per alleviare questa tensione o sensazione, simile alla sensazione che si ha dopo essersi grattati per un prurito.

Per via di questi impulsi premonitori i tic della Sindrome di Tourette sono descritti come semi-volontari; le descrizioni pubblicate sui tic identificano i fenomeni sensoriali di Tourette come il sintomo principale della sindrome, anche se esse non sono incluse nei criteri diagnostici (Miguel E.C. et al., 2000).

L’intervento psicoeducativo in aggiunta a quello farmacologico è spesso necessario per aiutare il nucleo familiare e il paziente stesso ad affrontare i sintomi della sindrome.

La prognosi è positiva, solo una minoranza di bambini con la sindrome presentano una serie di gravi sintomi che persistono in età adulta; al momento della diagnosi i tic potrebbero essere al livello massimo di gravità e spesso migliorano in seguito. Indipendentemente dai sintomi le persone con la sindrome di Tourette hanno una durata di vita normale, la condizione non è degenerativa, il quoziente intellettivo non viene direttamente intaccato dalla sindrome, vi possono essere però difficoltà d’apprendimento (Singer H.S., 2005).

 

Fattori ambientali nel Disturbo da Tic

Negli ultimi decenni rispetto all’eziologia del Disturbo da Tic sono stati individuati fattori e condizionamenti ambientali come per esempio un’educazione particolarmente repressiva e rigida che possono portare l’individuo a trattenere tutto quello che prova all’interno di sé in una continua sfida di controllo ed a percepire un senso di insicurezza e inadeguatezza (Verdellen C. et al., 2016).

Quando in comorbilità al Disturbo da Tic vi è anche un Disturbo Ossessivo Compulsivo o Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, è fondamentale intervenire anche su questi aspetti con interventi psicologici ed eventualmente farmacologici così da migliorare la qualità della vita del paziente, ridurre l’incidenza del tic e dei danni correlati.

 

Disturbo da Tic: l’ intervento farmacologico

Per il trattamento farmacologico dei tic semplici e complessi vengono utilizzati generalmente tre categorie di psicofarmaci: le benzodiazepine, gli ansiolitici non benzodiazepinici e i neurolettici, ma in alcuni casi possono essere utilizzati anche gli antidepressivi (Porta M., 1996).

I farmaci più efficaci sono i neurolettici classici come l’aloperidolo ma per i loro effetti collaterali a carico del sistema extrapiramidale vengono spesso preferiti i neurolettici di nuova generazione anch’essi antidopaminergici come il risperidone  o la sulpiride.

Il trattamento farmacologico non “guarisce” i tic ma aiuta la persona a controllarli.

 

Disturbo da Tic: l intervento psicologico

I Disturbi da Tic vengono trattati principalmente utilizzando la tecnica dell’esposizione e della prevenzione della risposta con lo scopo di estinguere i pensieri e i rituali che il soggetto mette in atto per contenere l’ansia e di modificare le credenze disfunzionali e le interpretazioni della persona sulle possibili conseguenze che possono essere scatenate dalle situazioni-problema (Verdellen C. et al., 2016).

Dopo che la persona avrà imparato a conoscere e riconoscere i sintomi del disturbo, ne verrà valutata la frequenza e tipologia anche attraverso questionari auto-valutativi e strumenti standardizzati, verrà poi stabilito un ordine gerarchico delle situazioni che scatenano i sintomi ed i comportamenti disfunzionali. Seguirà poi il trattamento che consiste nell’esporre il paziente ad alcune situazioni ansiogene presentate in maniera crescente sia nel setting terapeutico che nel contesto quotidiano e che lo portano a mettere in atto una serie di rituali. L’obiettivo è quello di portare il paziente ad apprendere che l’ansia gradualmente diminuisce anche senza condotte di evitamento e rituali e che le conseguenze che aveva previsto possono anche non verificarsi; questa ristrutturazione delle interpretazioni delle situazioni-problema e delle conseguenze porta ad una modificazione comportamentale.

Nel caso di pazienti con disturbo da tic in età evolutiva è fondamentale il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare con l’obiettivo di favorire la comprensione dei comportamenti del bambino, fornire strategie per la loro gestione e modificazione e porre attenzione sugli atteggiamenti dei componenti familiari in merito al disturbo ed al soggetto stesso. Risulta controproducente sgridare o spazientirsi in seguito alla manifestazione dei tic perché come in un vortice questo aumenta l’ansia e di conseguenza gli stessi tic. Indispensabile risulta anche nel contesto familiare il monitoraggio delle situazioni in cui i tic si manifestano così da poterle prevedere e quando possibile evitare.

Vi sono due principali modelli di terapia comportamentale utilizzati per trattare il Disturbo da Tic: il trattamento HRT (habit reversal therapy) e la tecnica ERP (Exposure and response prevention).

L’Habit Reversal Training, spesso tradotto come addestramento per la regressione delle abitudini disfunzionali, è ad oggi l’intervento considerato più efficace secondo le ricerche internazionali.

Nell’Habit Reversal Training si affronta separatamente ogni tic, prima prendendone coscienza, poi imparando una risposta competitiva che lo previene.

La tecnica ERP: exposure and response prevention utilizzata principalmente nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo ha come target tutti i tic in una volta e prevede il contatto o esposizione graduale o prolungata con lo stimolo o la situazione che generalmente innesca i sintomi e la prevenzione della risposta, ossia l’interruzione dei comportamenti messi in atto dopo il contatto con lo stimolo o la situazione, per un tempo maggiore di quello generalmente tollerato. Sconfiggendo i tic per un significativo periodo di tempo, il bambino può abituarsi alla sgradevole sensazione premonitrice (allarme-tic), che spesso precede un tic e si placa una volta che si manifesta il tic (Verdellen C. et al., 2016).

Una significativa riduzione dei tic è stata osservata sia con l’Exposure and Response Prevention che con l’Habit Reversal Training. Uno studio controllato ha mostrato che non ci sono differenze fra i due metodi (Verdellen et al., 2004). I risultati hanno suggerito che l’Exposure and Response Prevention è più efficace quando sono coinvolti più tic come nella Sindrome di Tourette, quando invece il bambino ha un solo tic o pochi tic diversi, l’ Habit Reversal Training risulta più appropriato. È consigliabile provare l’altro metodo se quello precedentemente utilizzato non ha portato ad una sufficiente riduzione dei tic (Verdellen C. et al., 2016).

Il gruppo e lo stile genitoriale: comportamenti antisociali in adolescenza

Nel corso dell’ adolescenza si formano spesso gruppi di giovani che mettono in atto comportamenti antisociali o trasgressivi, come l’uso di sostanze psicoattive o la guida spericolata, e azioni violente, contro l’autorità o altri giovani.

 

L’ adolescenza è un periodo complesso a causa dei compiti evolutivi da affrontare, come la costruzione dell’immagine corporea, che non si addice più alla corporatura di un bambino, i rapporti che cambiano all’interno della famiglia, le prime relazioni sentimentali e l’inserimento nel gruppo dei pari.

Nel corso dell’ adolescenza si formano spesso gruppi di giovani che mettono in atto comportamenti trasgressivi, come l’uso di sostanze psicoattive o la guida spericolata, e azioni violente, contro l’autorità o altri giovani. Nel mettere in atto comportamenti antisociali e violenti, il gruppo dei pari gioca un ruolo fondamentale.

Adolescenza e comportamenti antisociali: alcuni fattori scatenanti

In particolare, Fritz Redl sostiene che, durante l’ adolescenza, i leader del gruppo, non sono coloro che possiedono abilità sociali particolarmente rilevanti, ma sono adolescenti che hanno un minore senso di colpa rispetto ai coetanei, cosa che consente di mettere in atto determinati comportamenti antisociali o violenti, facendo da apripista per gli altri membri del gruppo (funzione iniziatoria).

Altri due fenomeni rilevanti all’interno del gruppo per la messa in atto di comportamenti antisociali sono la diffusione della responsabilità e della deindividuazione. In particolare, la diffusione della responsabilità si riferisce a un atteggiamento di un individuo, all’interno di un gruppo, che, a seguito di una condotta trasgressiva o violenta, si sente personalmente meno responsabile. Con il termine deindividuazione si intende quel processo per cui un individuo che agisce in gruppo tende a non considerarsi come singolo, ma come un membro del gruppo relativamente anonimo. Tale fenomeno conduce gli individui a considerarsi meno identificabili e meno responsabili per il proprio comportamento.

Comportamenti antisociali in adolescenza: il ruolo della famiglia e dello stile genitoriale

Questi fenomeni giocano un ruolo fondamentale nella messa in atto di comportamenti antisociali. E’ importante evidenziare come, in adolescenza, il legame con il gruppo sia tanto più esclusivo quanto più ci sono problemi in famiglia, in quanto l’adolescente cerca nel gruppo quel tipo di supporto che non riesce a trovare in famiglia.

Per “stile genitoriale” si intende la modalità educativa con cui i genitori svolgono le funzioni genitoriali e, in generale, si rapportano ai propri figli. In particolare, gli stili genitoriali si distinguono in autorevole, permissivo, autoritario, trascurante/rifiutante. Le dimensioni per le quali questi stili si differenziano tra di loro sono il grado di accettazione/supporto e il grado di controllo/richieste.

  • Stile autorevole: è caratterizzato da un’elevata accettazione e da un elevato controllo. Questi genitori hanno ben chiaro il tipo di disciplina da impartire ai propri figli, verso cui si dimostrano rispettosi ed emotivamente supportivi. Lo stile autorevole rappresenta un importante fattore di protezione, non solo per la messa in atto di comportamenti antisociali, ma anche verso l’esordio di psicopatologie.
  • Stile permissivo: è caratterizzato da un’elevata accettazione e da uno scarso controllo. I genitori permissivi sono disponibili e affettuosi nei confronti dei propri figli, ma sono caratterizzati da uno scarso senso di responsabilità circa le decisioni e le condotte dei figli, fornendo loro poche regole o talvolta nessuna.
  • Stile autoritario: è caratterizzato da una bassa accettazione e da un elevato senso di controllo. I genitori autoritari pretendono obbedienza dai propri figli, senza fornire loro alcuna spiegazione. E’ freddo e distaccato nei confronti dei figli, verso cui adotta uno stile punitivo. Vieno sostiene che lo stile autoritario può avere due conseguenze sui figli: può favorire la messa in atto di comportamenti antisociali e trasgressivi oppure può favorire un ruolo di vittimizzazione tipico di coloro che subiscono atti di bullismo.
  • Stile trascurante/rifiutante: è caratterizzato da una scarsa accettazione e da uno scarso controllo. Questi genitori mostrano un totale disimpegno rispetto alla relazione educativa: forniscono ai figli pochi strumenti di comprensione del mondo e non è emotivamente supportivo nei confronti dei propri figli.

Bobic sostiene che le famiglie che rappresentano un fattore di rischio per la messa in atto di condotte antisociali presentino alcune caratteristiche:

  • Un insufficiente controllo educativo, tipico di uno stile trascurante/rifiutante e permissivo. Queste famiglie pongono pochi o nessun limite, per cui i figli tendono a porsi precocemente in maniera conflittuale.
  • Famiglie iperprotettive, in cui i genitori hanno difficoltà a riconoscere la crescente autonomia dei figli.
  • Episodi ricorrenti di violenza domestica nella coppia genitoriale favoriscono una predisposizione alla violenza, che può essere concepita dai figli come una forma accettata di risoluzione dei conflitti interpersonali.

In generale, per scoraggiare la messa in atto di comportamenti antisociali, assumono un ruolo fondamentale gli interventi di prevenzione condotti, non solo all’interno delle scuole, ma anche nei confronti delle famiglie che si configurano come potenzialmente a rischio.

 

I test neuropsicologici per l’individuazione precoce dell’ Alzheimer

Recentemente un nuovo studio condotto dal neuropsicologo Duke Han, professore associato di medicina presso la Keck School of Medicine dell’Università della South California, suggerisce che i test cognitivi siano anche in grado di rilevare i primi segni di Alzheimer in persone ancora asintomatiche.

 

I cambiamenti biologici sottostanti la malattia di Alzheimer

Molto prima che i sintomi della malattia di Alzheimer diventino evidenti ai pazienti e alle loro famiglie, i cambiamenti biologici legati a tale patologia si verificano all’interno del cervello.

Le placche di amiloidi, che sono raggruppamenti di frammenti di proteine, insieme alle proteine note come tau, si formano nel cervello e crescono, arrivando infine a influenzare e intaccare la funzionalità cerebrale.

La proteina chiamata tau presiede all’eliminazione delle sostanze potenzialmente tossiche all’interno dei neuroni. Se non funziona correttamente, alcune proteine dannose restano all’interno della cellula, facendola degenerare e poi morire.

Questi cambiamenti biologici possono essere rilevati all’inizio del corso della malattia di Alzheimer attraverso la tomografia a emissione di positroni (PET) o l’analisi del fluido cerebrospinale.

Recentemente un nuovo studio condotto dal neuropsicologo Duke Han, professore associato di medicina presso la Keck School of Medicine dell’Università della South California suggerisce che i test cognitivi siano anche in grado di rilevare i primi segni di Alzheimer in persone ancora asintomatiche.

I test neuropsicologici possono individuare precocemente l’Alzheimer

Han e i suoi colleghi hanno condotto una meta-analisi di 61 studi per esplorare se i test neuropsicologici possano identificare la malattia di Alzheimer precoce negli adulti oltre i 50 anni con un funzionamento cognitivo normale.

Lo studio – pubblicato su Neuropsychology Review – ha rilevato che le persone con placche amiloidi presentavano prestazioni peggiori nelle prove neuropsicologiche (nello specifico nella funzione cognitiva globale, nella memoria, nella capacità visuospaziale, nella velocità di elaborazione e nelle funzioni esecutive) rispetto a persone che non presentavano placche amiloidi.

Le placche di amiloidi e la patologia tau sono state verificate da analisi PET o analisi del fluido cerebrospinale.
Lo studio ha anche scoperto che le persone con patologia tau o neurodegenerazione peggioravano nei test di memoria rispetto alle persone con placche amiloidi.

I risultati di questo studio sono rilevanti in quanto a livello applicativo aprono riflessioni in merito all’inclusione di test cognitivi e valutazioni di base neuropsicologiche per il monitoraggio e l’individuazione precoce della malattia di Alzheimer.

Curare i casi complessi. Un seminario di studi con il Dr. Antonino Carcione – Palermo, 7 Giugno 2017

Curare i casi complessi: già dal titolo il seminario condotto a Palermo lo scorso 7 giugno dal Dr. Antonino Carcione, psichiatra, psicoterapeuta, fondatore e direttore scientifico del Terzocentro di psicoterapia cognitiva di Roma, si prospettava fonte di spunti operativi per gli addetti ai lavori che si scontrano quotidianamente con richieste di crescente difficoltà in relazione al buon esito degli interventi terapeutici.

 

L’apertura dei lavori, con la disamina di un caso clinico introdotto dal relatore, delinea fin da subito i temi centrali dell’intero intervento formativo: la diagnosi del disturbo borderline di personalità, lo specifico deficit della metacognizione riscontrabile nel disturbo e i principi su cui si fonda la Terapia Metacognitiva Interpersonale (T.M.I.).

Porre una diagnosi di disturbo borderline di personalità significa indagare due aspetti principali: la dimensione dell’identità e la variabile interpersonale – spiega Carcione – La prima dimensione riguarda l’accurata valutazione di se stessi, la capacità di regolare le esperienze emotive e l’auto-direzionalità ovvero la capacità di mettere in moto piani di azione finalizzati a un obiettivo; la seconda riguarda la capacità di interazione con gli altri, la reciprocità sociale. Per diagnosticare il disturbo, secondo il DSM V, le due dimensioni devono essere moderatamente gravi, rendendo il disagio relativamente stabile e pervasivo. Un disturbo invalidante che spesso si associa ad altri disturbi di personalità, e nel 35% dei casi ad almeno un secondo disturbo.

Identità, autodirezionalità e relazioni interpersonali valide: costrutti che introducono al concetto chiave di metacognizione.

Deficit o assenza di metacognizione, ovvero l’abilità di riconoscere i propri stati mentali e riflettere su di essi, conducono a una varietà di problemi interpersonali: per esempio quando si chiede un cambio turno in maniera violenta è facile vedere confermate le aspettative negative di rifiuto. In generale ciò denota un’incapacità di comprendere gli effetti del proprio comportamento sugli altri.

Curare i casi complessi - Report dal Seminario di studi con il Dr. Antonino Carcione

Il Dr. Antonino Carcione durante il Seminario “Curare i casi complessi”

Analizzare la metacognizione attraverso un buon assessment è fondamentale per impostare un buon trattamento considerata anche la correlazione tra metacognizione e gravità della psicopatologia.

La T.M.I., fondandosi sull’idea che le disfunzioni metacognitive ostacolano la capacità di padroneggiare e gestire la sofferenza psicologica e le relazioni interpersonali, si propone come approccio costruito sulla base dell’integrazione di tecniche differenti, con un chiaro focus sui deficit metacognitivi. La terapia si focalizza sul miglioramento della metacognizione attraverso cinque passaggi fondamentali e l’utilizzo di interventi individuali e di gruppo – continua il relatore.

Cinque passaggi che corrispondono, nel loro declinarsi, all’acquisizione o miglioramento delle capacità di riconoscimento, monitoraggio e integrazione dei propri stati mentali, in modo da aumentare il benessere personale e relazionale, in cui la relazione terapeutica funge da “strumento privilegiato” per le emozioni messe in gioco, le stesse che il paziente mette in atto nelle relazioni quotidiane.

La T.M.I. prevede due livelli di intervento: il primo riguarda la regolazione dell’alleanza terapeutica, la cui solidità è a fondamento del successo di ogni terapia, attraverso per esempio l’uso del contratto terapeutico, mentre il secondo riguarda le strategie volte a ridurre le disfunzioni metacognitive – spiega ancora Carcione – Focalizzando l’attenzione sul secondo livello e i cinque passi che lo contraddistinguono, il terapeuta porterà il paziente a riconoscere innanzitutto le emozioni primarie (il come si sente), quindi paziente e terapeuta procederanno con il secondo passo che consiste nell’individuazione degli stati mentali e del passaggio da uno stato all’altro, concentrandosi su cosa determina tale shift. A questo punto ci si muoverà verso il terzo passo, volto a riconoscere la soggettività del proprio punto di vista per giungere alla promozione del decentramento, ovvero ad aumentare la consapevolezza del proprio ruolo nel determinare i processi interpersonali disfunzionali, e in cui il controtransfert gioca un ruolo importante: ciò permetterà di aumentare le probabilità di ricevere risposte positive dagli altri. La finalità ultima della terapia è promuovere un senso di self agency, ovvero il senso di autodeterminazione rispetto alle scelte di vita.

Una finalità importante, che sancisce l’importanza di superare una visione pessimistica delle relazioni umane e del futuro, un fatalismo e una tendenza alla vittimizzazione basati sulla convinzione di vivere in mondo ingrato e pieno di gratuite ingiustizie.

Cosa fare (e cosa evitare) per essere più creativi

Le personalità creative hanno un dono innato o la creatività si può sviluppare? Studi scientifici evidenziano come i creativi siano, in media, persone normali: tutti noi, quindi, possiamo impegnarci per aumentare la nostra creatività. Ecco come.

 

Gli stereotipi più diffusi, alimentati da alcuni personaggi del mondo dell’arte e dello spettacolo, attribuiscono alle personalità creative tratti stravaganti, bizzarri, al limite della patologia. La creatività è quindi spesso accostata alla nevrosi, all’introversione, al disadattamento. È davvero necessario possedere personalità insolite per essere creativi? La risposta, secondo la scienza, è no.

Personalità creative: chi sono davvero i creativi?

Recenti studi condotti sulle personalità creative evidenziano caratteristiche distanti dallo stereotipo comune.

Anzitutto i creativi, pur essendo in genere anticonvenzionali e indipendenti, possiedono personalità generalmente nella norma (Coon, Mitterer, 2016). Ciò che li caratterizza è l’interesse per la realtà simbolica e per i concetti astratti (come bellezza e verità), mentre non sono particolarmente motivati da obiettivi quali fama e successo: la creatività possiede per loro un valore intrinseco (Sternberg, Lubart, 1995). Le persone con personalità creativa, inoltre, coltivano un numero di interessi maggiore rispetto alla media e sono in grado di connettere le proprie conoscenze non solo per mezzo della combinazione di queste, ma anche usando l’immaginazione e la metafora (Riquelme, 2002). Alla numerosità di interessi coltivati corrisponde un elevato grado di apertura mentale, non solo verso le nuove esperienze (compresi gli stati alterati di coscienza, come le esperienze mistiche) ma anche nell’accettare i pensieri irrazionali e nel mettere in discussione quelli precostituiti e le barriere mentali (Ayers, Beaton, Hunt, 1999). Infine, esiste una scarsa correlazione tra l’aumento del quoziente intellettivo e la creatività: a parità di intelligenza, le persone possono essere più o meno creative (Preckel, Holling, Wiese, 2006).

Come appare evidente, le personalità creative possiedono particolari attitudini ma sono tendenzialmente nella norma (per completezza, il discusso rapporto tra creatività e patologia è approfondito in questo articolo). Anche se non diventeremo mai degli artisti, quindi, tutti noi possediamo un potenziale da sviluppare per essere più creativi.

Come potenziare la propria creatività

Secondo Baer (Baer, 1993), la creatività può essere sviluppata impegnandosi a cercare nuovi o insoliti collegamenti tra le idee, attività che può essere ricondotta al processo di sviluppo del pensiero divergente. Il pensiero divergente è caratterizzato da tre elementi:

  • Fluidità – corrisponde al totale dei suggerimenti che riusciamo a immaginare per la risoluzione di un problema
  • Flessibilità – si identifica come la capacità di spaziare, relativamente all’utilizzo di un oggetto, da una gamma di usi possibili (anche fantasiosi) a un’altra
  • Originalità – rappresenta la misura in cui le idee generate possono essere considerate nuove o inconsuete.

In sintesi, se nel pensiero convergente esiste una sola, migliore soluzione a un problema, il pensiero divergente o creativo è aperto alle novità e alle possibilità, senza che una di queste escluda o pregiudichi un’altra (la differenza tra pensiero convergente e divergente è approfondita in questo articolo).

Lo studioso Mihalyi Csikszentmihalyi (1997) ha inoltre messo a punto una serie di suggerimenti volti a incentivare lo sviluppo del pensiero creativo. Tra questi troviamo:

  • Sorprendere e sorprendersi – possibilmente ogni giorno, siamo invitati a riscoprire la capacità di fare sorprese agli altri e trovare qualcosa che possa sorprendere noi stessi
  • Approfondire e appassionarsi – se scopriamo l’interesse per qualcosa, dovremmo perseguirlo e cercare di approfondire l’argomento. Inoltre, dovremmo dedicare più tempo a fare ciò che è in linea con le nostre aspirazioni e meno a quello che non amiamo
  • Impegnarsi e cercare sfide – se intraprendiamo un progetto, dovremmo cercare di portarlo avanti nel miglior modo possibile: è importante fare bene le cose e avere sempre nuovi stimoli
  • Rilassarsi – dedicare il giusto tempo al rilassamento e alla riflessione
  • Aprire la mente, cercando di considerare uno stesso problema dal maggior numero possibile di punti di vista.

Il pensiero creativo è fortemente connesso con la motivazione intrinseca, cioè la voglia di fare qualcosa per il semplice piacere di farlo (può accadere con una passione, ad esempio per la fotografia o per la musica). Ciò significa che, anche in ambito lavorativo, la creatività è più stimolata quando svolgiamo attività che riteniamo interessanti e non quando siamo motivati esclusivamente da fattori estrinseci quali il denaro. Da cosa dovremmo stare alla larga, quindi, per essere più creativi?

I freni della creatività sul lavoro

Come appena introdotto, le personalità creative e la creatività possono essere in alcuni casi inibite. Amabile (Amabile, Hadley, Kramer, 2002) ha individuato alcuni ingredienti deleteri per questa in ambito lavorativo, tra i quali ritroviamo:

  • Il lavoro sotto sorveglianza o sotto pressione (ad esempio, di scadenze troppo ravvicinate)
  • Attività lavorative svolte in presenza di regole stringenti o che limitano fortemente l’autonomia di scelta
  • Lavorare solo per migliorare la valutazione che ne conseguirà
  • Lavorare con l’obiettivo principale di incrementare il proprio reddito.

Soprattutto nei lavori in cui si richiede creatività, è importante quindi che i manager considerino che conoscere e supportare gli interessi, le passioni e le aspirazioni dei propri collaboratori può essere efficace quanto un aumento di stipendio.

Creatività a portata di mente!

Abbiamo visto come le personalità creative siano personalità appassionate, affascinate dai simboli, interessate, aperte: qualità lontane dall’atipicità e dall’eccentricità di solito attribuite dagli stereotipi.

Tutto questo è interessante perché riconosce a tutti la possibilità di essere più creativi. La ricetta è complessa, ma realizzabile: occorrono sorprese (per sé e per gli altri), interessi autentici e coltivati, passioni, sfide costanti, impegno, rilassamento e apertura mentale. Dovremmo inoltre evitare di lavorare sotto pressione, oppressi da troppe regole, con il solo scopo di essere riconosciuti nel nostro valore. Da ultimo, è il caso di ricordare che i soldi non fanno la…creatività!

Riflessioni sulla memoria a partire dalla visione del film Moglie e Marito (2017)

Moglie e Marito è il titolo di un film di Simone Giordano, recentemente nelle sale: la visione del film è un ottima occasione per riflettere sul ruolo della memoria nelle nostre vite.

 

Moglie e Marito è il titolo del film di Simone Giordano, uscito recentemente nelle sale e che vede protagonisti Sofia (Kasia Smutniak) e Andrea (Pierfrancesco Favino), sposati da dieci anni con due figli piccoli. Lui è un neurochirurgo impegnato in una ricerca sperimentale, un macchinario in grado di collegare due cervelli con obiettivo la trasmissione di immagini da una mente all’altra. Lei un opinionista, presentatrice televisiva .

La felicità dei primi anni ha però lasciato posto ad una vita cadenzata da ritmi frenetici, incomprensioni e frustrazioni, tanto che i due non riescono più a comunicare e il film evidenzia la cosa aprendo con i due alla prima, e si fa intendere anche l’ultima, seduta di terapia di coppia. Sarà il progetto di Andrea a smuovere gli animi invece, infatti senza intenzione questo macchinario trasporterà l’uno nei panni dell’altra o meglio, sovrapporrà la memoria di uno sulla memoria dell’altro.

Moglie e Marito: come le esperienze passate modellano il presente

Siamo abituati a pensare, ma soprattutto a considerare la memoria, come un fenomeno che, per realizzarsi, ha bisogno della partecipazione cosciente della nostra mente. In realtà̀, la maggior parte degli avvenimenti, delle esperienze, degli eventi che hanno plasmato la nostra mente sono per lo più inconsci. Le nostre esperienze precoci modellano la mente e ciò̀ che siamo, il nostro modo di comportarci ed in maniera decisiva, le nostre relazioni. Di tutto questo, spesso non siamo in grado di rievocare l’origine, non ne possiamo avere un ricordo consapevole, poiché́ fino a circa due anni di età̀, non si sono ancora sviluppate nel nostro cervello quelle strutture come l’ipotalamo e l’amigdala che presiedono alla formazione dei ricordi coscienti.

La memoria dunque, non è solo la possibilità̀ di ricordare il nostro passato in modo consapevole, ma è anche l’insieme dei processi in base ai quali gli eventi accaduti in un tempo anche molto lontano, influenzano le nostre risposte future.

Gli elementi del nostro passato determinano il nostro modo di leggere ed interpretare la realtà attuale, condizionano le nostre relazioni, si ripercuotono sul presente. A partire dai primissimi momenti della vita, anche quella intrauterina, il nostro cervello è in grado di rispondere alle esperienze, interne ed esterne all’organismo stesso, e di modificare attivamente i collegamenti tra i neuroni cambiandone la struttura. Queste connessioni neuronali rappresentano “l’impalcatura del cervello” e si ritiene siano la base che ci permetterà̀ di ricordare le esperienze. Non solo. Queste connessioni svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo della mente che sarà̀ essenziale per l’evoluzione del cervello stesso il quale, per tutta la vita, continuerà̀ a cambiare e a modificarsi.

Sono dunque le esperienze che generano la complessa rete di connessioni neuronali unica e tipica di ciascun individuo. In questo modo sono le esperienze e la memoria che incameriamo di esse e definiscono ciò̀ che siamo.

La memoria è quindi un insieme di cambiamenti che avvengono all’interno della complessa rete di connessioni neuronali che, quando vengono attivate contemporaneamente, creano legami tra loro di tipo associativo.

L’esperienza cosi intesa provoca l’attivazione di meccanismi genetici che generano nel cervello modificazioni sostanziali della sua rete di connessioni interne, ovvero, la memoria.

In questo senso appare inutile distinguere la “natura” e la “cultura” come responsabili separatamente dello sviluppo del cervello umano; memoria e sviluppo sono due processi sovrapposti, le esperienze contribuiscono a plasmare le strutture cerebrali che, alla nascita, sono presenti ma in via di maturazione. Il patrimonio genetico di cui ogni individuo è dotato, è in parte responsabile di come i neuroni si collegheranno tra loro, ma è altrettanto vero che, attivando i geni, le esperienze determinano ed influenzano il modo in cui queste cellule si assoceranno.

Per tutta la vita noi continuiamo ad imparare ed a ricordare. Per tutta la vita il nostro cervello è in continuo sviluppo.

Le modalità̀ con cui il processo della memoria si attiva, o meglio si attivano questi circuiti neuronali, sono alterazioni biochimiche, segnali chimici quindi, attraverso i quali si rafforzano le associazioni tra neuroni per la registrazione a breve termine delle informazioni. Stessa cosa accade per l’immagazzinamento dei ricordi a lungo termine. Ciò̀ che viene “archiviato” dal cervello e nel cervello, non sono “cose” reali, bensì̀ attivazioni di diversi profili neurali. La memoria non è un’entità̀ statica ma è il risultato di una serie di processi rappresentazionali attivi e dinamici.

Memoria esplicita e memoria implicita

Non possediamo un unico tipo di memoria; sono due sostanzialmente le forme di memoria che possediamo, una memoria implicita ed una memoria esplicita.

La memoria implicita dà vita a delle connessioni neuronali coinvolte nella creazione delle emozioni, nella generazione di risposte comportamentali, di sensazioni somatiche. Si tratta di una forma di memoria presente alla nascita, precoce, non verbale che non è associata all’esperienza soggettiva interna di “ricordare qualcosa”. In questo tipo di memoria, i processi di registrazione non richiedono un’attenzione conscia, non abbiamo la sensazione né la consapevolezza di vivere un’esperienza che trova origine negli avvenimenti del passato. Accade che emozioni, percezioni comportamenti, sensazioni fisiche legate a modelli mentali inconsci, possono condizionare ed influenzare il nostro modo di vivere nell’attuale, influire sulle nostre scelte, determinare le nostre esperienze del presente senza renderci conto di ciò̀ che le ha generate.

L’influenza del nostro passato torna prepotentemente a condizionare il presente senza che il nostro cervello abbia la benché́ minima consapevolezza dei meccanismi impliciti che sottendono la registrazione di ricordi ed esperienze vissute.

Con il trascorrere del tempo e l’accumularsi delle esperienze, il cervello del bambino acquisisce progressivamente la capacità di riconoscere differenze e somiglianze e, attraverso progressive generalizzazioni, la sua mente è in grado di costruire dei “modelli mentali” o “schemi” che serviranno per interpretare il presente e prevedere il futuro. Sulla base di questi schemi, la nostra mente organizza gli eventi attribuendo rapidamente dei significati alle cose che ci accadono.

La possibilità̀ di valutare velocemente le situazioni ed intuire ciò̀ che ci riserva l’immediato futuro, protegge l’individuo e preserva la specie.

In ogni momento il nostro cervello valuta, analizza ed elabora il mondo esterno come anche quello interno al soggetto stesso.

Attraverso la memoria, possiamo “ricapitolare” e ricondurre gli eventi attuali a quelli del passato ed in questo modo provare a classificarli attribuendo loro un significato. Attiviamo i nostri schemi mentali per comprendere le esperienze, la possibilità̀ di prevedere quelli che saranno gli avvenimenti immediatamente successivi, ci permette di reagire con maggiore sollecitudine e, parallelamente, ci aiuta ad organizzare prontamente le risposte più̀ adeguate per affrontare le situazioni.

La capacità di anticipare cosa accadrà̀ in futuro, di prevedere e di fare programmi può̀ essere considerata una componente essenziale della memoria esplicita.

A partire dal secondo anno di vita si sviluppa nel cervello una regione chiamata ippocampo, associata alla formazione di specifici nuovi circuiti neuronali che creano una seconda forma di memoria, quella chiamata “memoria esplicita”. Questa forma di memoria si divide a sua volta in altre due forme denominate “memoria semantica”, che include la conoscenza di parole, dati e simboli, e “memoria autobiografica” che riguarda il senso di sé e del tempo.

Perché́ questa memoria si sviluppi, c’è bisogno che il cervello ed in particolar modo la corteccia prefrontale e l’ippocampo siano arrivati ad una sufficiente maturazione. Questa memoria, inoltre, è ovviamente associata all’esperienza soggettiva interna di “ricordare qualcosa” ed i processi di registrazione degli eventi e delle informazioni richiedono un’attenzione cosciente.

Dimenticare è importante, tanto quanto ricordare… a tale proposito, si racconta che Pico della Mirandola (citato per la sua portentosa memoria, sembra infatti sapesse recitare la divina commedia dall’ultimo verso al contrario) sostenesse di “voler conoscere il segreto per poter dimenticare”.

La possibilità̀ di dimenticare è un aspetto determinante della memoria esplicita, poiché́ se dovessimo ricordare tutte le parole, i fatti, le situazioni, i dati che stimolano la nostra mente ogni secondo della nostra vita, la memoria verrebbe sommersa e le sue funzioni certamente compromesse.

Soltanto le esperienze accompagnate da un coinvolgimento emotivo e che risultano essere significative per il soggetto o di una qualche utilità̀, vengono trattenute e trasferite dalla “memoria di lavoro” (memoria a breve termine) alla memoria a lungo termine come tracce consolidate. Queste informazioni, catalogate come importanti, hanno quindi una buona probabilità̀ di essere richiamate e rievocate nel momento in cui ne dovessimo aver bisogno.

Ecco allora, ancora una volta, che sono le emozioni, questo complesso stato della mente, che tornano protagoniste della nostra vita mentale. Soltanto quando siamo coinvolti in un elevato stato emozionale e la nostra attenzione è massima che possiamo ricordare le informazioni che giungono al nostro cervello.

Il cervello, infatti, valuta in molti modi il significato degli stimoli, pensiamo però che esperienze eccessivamente emozionanti, come per esempio situazioni terrorizzanti, possono stimolare meccanismi contrari e potare ad un’inibizione dei processi di memorizzazione bloccando l’immagazzinamento e la conseguente possibilità̀ di rievocazione del ricordo.

Quando questioni del passato non sono state elaborate e risolte e pertanto rimangono in sospeso nella nostra mente, tenderanno a tornare in modo intrusivo nella nostra vita attuale esercitando un’influenza profondamente disorganizzante sia nella nostra vita interiore come anche nelle nostre relazioni, soprattutto quelle maggiormente significative.

Quando l’individuo diventa adulto senza aver avuto la possibilità̀ di elaborare le esperienze infantili che hanno indotto paura, terrore, stress ed ansia, potrà̀ da questi ricordi essere profondamente condizionato; questi continueranno a riemergere e ad interferire significativamente con la sua vita e compromettere a volte irrimediabilmente, il suo rapporto con gli altri.

Le questioni lasciate in sospeso, mai o quasi mai, perdono la loro valenza emozionale, in particolar modo quelle scaturite da esperienze negative o dolorose.

Le persone che non riescono a chiarire l’origine di determinate reazioni emotive a fronte di specifici loro comportamenti e non possono comprendere, dunque, l’origine di certe loro reazioni, possono restare “imprigionate” in modelli e schemi mentali rigidi e inefficaci.

Quando i nostri ricordi ci rievocano questioni del passato lasciate irrisolte, perdiamo la possibilità̀ scegliere la vita che vogliamo vivere. Possiamo solo sperimentare come il passato torna prepotentemente a condizionare il presente senza che noi riusciamo ad arginarne gli effetti.

Le esperienze del presente sono plasmate dai nostri ricordi ed il nostro futuro compromesso dalla impossibilità di organizzare liberamente le nostre azioni ed i nostri pensieri. La sceneggiatura del film apparentemente può sembrare un piatto riscaldato ma in effetti pone la sua base su qualcosa di reale, la sovrapposizione delle memorie, perché come spiega Andrea alla fine del film “è la memoria che fa di noi ciò che siamo”.

 

Moglie e Marito (Trailer):

 

Abilità di perspective taking nel bambino: il ruolo dei caregivers

Il ruolo dei caregivers/genitori assume particolare importanza nello sviluppo delle competenze interpersonali, poiché essi sono le prime figure di identificazione e i primi modelli di risposta empatica. Vi sono inevitabilmente differenze individuali nello sviluppo del perspective taking che dipendono dalle esperienze vissute e, in particolar modo, dalla relazione tra i genitori/caregivers e il bambino.

Chiara Rabacchi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Il perspective taking: definizione

Per perspective taking si intende l’abilità di comprendere pensieri, credenze, sentimenti e prospettive proprie e altrui (Waldinger, Toth e Gerber, 2001). Tale capacità implica l’essere in grado di distinguere cosa gli individui sanno circa loro stessi in una data situazione (come pensano, sentono e si comportano) e cosa sanno degli altri in quella stessa situazione (Ziv & Frye, 2003).

Adottare il punto di vista di un’altra persona richiede: la capacità di rappresentare se stesso come distinto dagli altri, lo sviluppo di una Teoria della Mente per rendersi conto che gli altri possiedono credenze e pensieri e il riconoscimento esplicito che gli stati mentali e le percezioni altrui potrebbero essere diversi dal proprio. Lo sviluppo di tali abilità di perspective taking appare critico per l’affioramento di competenze sociali positive quali l’empatia, la cooperazione e gli atti di altruismo (Epley & Caruso, 2008).

Verso la fine del primo anno di vita, il bambino inizia a capire che gli altri sono diversi da lui e a vedere i comportamenti altrui come intenzionali. Nel periodo prescolare comincia a comprendere che ogni persona ha le proprie emozioni, i propri desideri e le proprie credenze che influenzano il modo di ragionare e, di conseguenza, i comportamenti; ma il livello più elevato di abilità di perspective taking e le strategie di negoziazione interpersonale più sofisticate continuano a migliorare e a perfezionarsi durante l’adolescenza e nella prima età adulta (Selman, Beardslee, Schultz, Krupa, e Podorefsky, 1986; Albanese & Molina, 2008).

Il progredire verso sempre più sofisticate capacità di perspective taking favorisce, nei bambini, la capacità di riflettere su se stessi e sugli altri portandoli verso una maggiore empatia e contribuendo allo sviluppo di avanzate abilità comunicative e di problem-solving (Selman & Schultz, 1990; Mendelsohn & Straker, 1999).
Nel modello di Selman (1980) la competenza interpersonale è basata sulla capacità di distinguere e integrare il punto di vista proprio e quello altrui. Quando i bambini sviluppano alti livelli di perspective taking sono in grado di adottare strategie di negoziazione interpersonale per risolvere conflitti interpersonali.

Le componenti del perspective taking

Il perspective taking è un costrutto multidimensionale, in quanto comprende diverse componenti: emotiva, cognitiva e percettiva.
Il perspective taking emotivo consiste nel fare inferenze riguardo lo stato affettivo altrui mettendosi nei panni dell’altro e basando le proprie risposte su tali inferenze. Viene inteso come l’abilità di comprendere le emozioni dell’altro e fa riferimento all’essere competenti emotivamente (Denham, 2001; Albanese & Molina, 2008).

Il perspective taking cognitivo è definito come l’abilità di comprendere i pensieri e le credenze altrui (Hinnant & O’Brien, 2007). Questo tipo di perspective taking implica il mettersi nei panni dell’altro cercando di comprendere ciò che l’altra persona percepisce e conosce riguardo un determinato stimolo, incorporando il punto di vista dell’altro nella propria esperienza.
Mentre per perspective taking percettivo si intende la capacità di comprendere che le altre persone, occupando uno spazio diverso dal proprio, vedono le cose da un’altra prospettiva e hanno quindi punti di vista differenti (Flavell, 2004).

Importanza del perspective taking nelle situazioni sociali

Il perspective taking è fondamentale per lo sviluppo della capacità degli individui di interagire in modo significativo con altre persone, e per un funzionamento sociale adeguato.
Il prevedere come comportarsi nelle situazioni sociali è favorito da tale abilità che permette di considerare le azioni degli altri dal loro punto di vista (Tversky & Hard, 2009).

Facendo riferimento alla relazione tra il linguaggio, il perspective taking e la Teoria della Mente, alcuni autori hanno messo in evidenza il fatto che il linguaggio facilita lo sviluppo della capacità di simulare il punto di vista altrui, poiché la conversazione implica un costante scambio di differenti punti di vista e favorisce nell’individuo l’immaginazione dell’assunzione del punto di vista altrui (Harris, 1996; Farrant, Fletcher e Maybery , 2006). Una conversazione ben coordinata richiede infatti di fare predizioni riguardo a cosa l’altro potrà capire, e quando le predizioni sono errate subentrano le riparazioni e i chiarimenti. Inoltre, al fine di interagire in modo efficace con gli altri è necessario essere in grado di riconoscere, comprendere e rispondere in modo coerente alle emozioni altrui, e di regolare l’espressione delle proprie emozioni (Saarni, 2008).

Il ruolo dei caregivers

Il ruolo dei caregivers/genitori assume particolare importanza nello sviluppo delle competenze interpersonali, poiché essi sono le prime figure di identificazione e i primi modelli di risposta empatica. Vi sono inevitabilmente differenze individuali nello sviluppo del perspective taking che dipendono dalle esperienze vissute e, in particolar modo, dalla relazione tra i genitori/caregivers e il bambino.

I caregivers che riconoscono e considerano i sentimenti più intimi, le intenzioni e i pensieri in relazione al comportamento e che si basano su stili disciplinari basati sulla comunicazione e negoziazione piuttosto che punitivi, forniscono ai figli modelli sociali di perspective taking e favoriscono la loro capacità di comprensione interpersonale, mentre i genitori maltrattanti rappresentano una minaccia allo sviluppo di abilità di perspective taking e i loro figli tendono ad essere più a rischio di essere rifiutati dai pari (Bolger & Patterson, 2001). Il contesto familiare di molti bambini che vivono in condizioni di maltrattamento (ad esempio, condizioni di trascuratezza, di maltrattamento fisico) è caratterizzato principalmente dalla mancanza di elementi di supporto, affetto, modelli empatici e modalità adeguate di gestione delle interazioni che sono considerate variabili importanti nello sviluppo di un coerente senso di sé e della capacità di comprendere i sentimenti e le prospettive degli altri (Burack, Flanagan, Peled, Sutton, Zygmuntowicz e Manly, 2006).

Infatti, quei genitori che crescono i loro figli in un contesto non responsivo e violento non riescono a promuovere scambi comunicativi. In questi bambini risulta limitata l’opportunità di formare un attaccamento affettivo con altre figure di riferimento e con i pari, poiché i genitori maltrattanti tendono a isolare le loro famiglie dal resto della società, privando così i figli della possibilità di creare relazioni (Bolger & Patterson, 2001). Date le caratteristiche di tali contesti, i bambini che vi vivono tendono a formare relazioni insicure e conflittuali con i genitori e rischiano di sviluppare in ritardo, rispetto ai coetanei “normotipici”, un appropriato senso di differenziazione tra sé e l’altro (Cicchetti & Carlson, 1989; Waldinger, Toth e Gerber, 2001).

Alcuni studi hanno sottolineato l’importanza dell’uso frequente di termini riferiti a stati mentali che aiuterebbe i bambini a focalizzare l’attenzione su credenze, intenzioni ed emozioni degli altri (Ruffman, Slade e Crowe, 2002). Ovverosia, l’esposizione a termini quali “pensare”, “sentire”, “credere” contribuirebbe a favorire la comprensione del loro significato e di conseguenza l’accesso a concetti astratti e non osservabili riguardanti l’attività mentale delle persone.

L’uso frequente da parte del caregiver di verbi mentali nei dialoghi (ad esempio “Io credo che Anna sia andata alla festa”) porta il bambino a individuare due elementi differenti: uno legato allo stato mentale della persona e l’altro legato alla realtà che si riferisce a tale stato mentale. Perciò, l’esposizione a queste strutture grammaticali permetterebbe al bambino di capire che le persone possono avere concezioni diverse sulla realtà e che alcune di queste possono essere false.

Inoltre, Harris (2005) analizzando aspetti della conversazione adulto-bambino riguardanti l’ambito pragmatico, ha sottolineato come l’atto stesso di conversare sia di fondamentale importanza in quanto consente di comprendere che le altre persone possono avere desideri, credenze e intenzioni talvolta diverse dalle nostre.

Lo studio di Dyer, Shatz e Wellman (2000) ha messo in luce l’importanza dei libri per l’infanzia che rappresentano per i bambini un contesto ricco e significativo per lo sviluppo della comprensione della mente, in quanto contengono termini che fanno riferimento a uno stato mentale: emotivo (triste, felice, preoccupato, dispiaciuto); cognitivo (pensare, conoscere, ricordare); desiderio e volizione (volere, desiderare); obbligo o giudizio morale (dovere, sarebbe meglio).
È proprio la presentazione dei diversi punti di vista ad essere rilevante per la comprensione degli stati mentali e delle emozioni da parte dei bambini.

Conclusioni

Possedere abilità di perspective taking è fondamentale al fine di raggiungere un funzionamento sociale adeguato. Le esperienze vissute da ognuno nel proprio contesto familiare incidono sullo sviluppo di tali abilità. Risulta pertanto importante per i caregivers tenere quanto descritto in considerazione al fine di favorire e promuovere lo sviluppo di tali abilità cognitive, emotive e percettive nei bambini. Nonostante le difficoltà che possono presentare i bambini cresciuti in contesti caratterizzati da disagio psico-sociale, è comunque importante sottolineare che un training appropriato e valutato in base alla specifica situazione consente il verificarsi di miglioramenti e permette di sviluppare quelle capacità che risultano carenti in questi bambini (Mori & Cigala, 2016).

Schofield e Beek (2005) sottolineano che la promozione delle abilità nei bambini di riflettere su se stessi e sugli altri è una dimensione chiave della genitorialità e prevede buoni progressi nel comportamento e nelle relazioni.

Il linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale nello sport

Dato che il nostro comportamento veicola molte informazioni sullo stato emotivo personale, e che esse vengono facilmente comprese dagli altri, è fondamentale, nel contesto sportivo, trarne un vantaggio competitivo. A tal proposito, comportamenti non verbali sottomessi risultano essere molto disfunzionali, poichè possono favorire un incremento della fiducia nell’avversario, con un conseguente aumento della pressione agonistica da parte di quest’ultimo.

 

I livelli della comunicazione

La comunicazione permette alle persone di trasmettere informazioni. Secondo Albert Mehrabian, che nel 1972 ha condotto una ricerca in proposito, essa si articola su tre diversi livelli:
– Verbale: le informazioni vengono trasmesse attraverso le parole. Essa costituisce il 7% della comunicazione.
– Paraverbale: si riferisce agli aspetti legati al tono, ritmo e al volume della voce. Essa costituisce il 38% della comunicazione.
Non verbale: si riferisce ai movimenti non verbali come espressioni del volto, postura, la gestualità ecc.. Essa costituisce il 55% della comunicazione.

Questa ricerca ha messo in evidenza l’importanza della comunicazione non verbale, tale per cui i nostri comportamenti forniscono, senza l’ausilio delle parole, molte informazioni circa il nostro stato interiore.

La comunicazione non verbale assume un valore, forse, ancora più importante in ambito sportivo; dunque è importante essere consapevoli del messaggio che si sta veicolando.

La ricerca

Philip Furley e Geoffrey Schweizer hanno condotto uno studio in cui ai partecipanti, bambini (4-8 anni), pre-adolescenti (9-12 anni) e adulti, sono stati mostrati dei video relativi a competizioni sportive di tennis da tavolo. Questi ultimi erano muti e il risultato delle gare era oscurato. Il compito dei partecipanti alla ricerca era quello di indicare chi, secondo loro, era in svantaggio e di quanto (molto o poco). I risultati della ricerca mostrarono alti livelli di precisione sia nei bambini che nei pre-adolescenti. I giudizi erano ancora più accurati negli adulti. Tale risultato è comprensibile alla luce di una maggiore maturazione che avviene in adolescenza.

Successivamente, nelle stesse condizioni dello studio precedente, i ricercatori hanno mostrato ai partecipanti alcuni video relativi a competizioni di pallamano. Questi ultimi hanno confrontato i giudizi di due diversi gruppi: esperti di pallamano, e non esperti. I ricercatori hanno rilevato che entrambi i gruppi mostravano un alto grado di accuratezza, riuscendo a precisare quale squadra fosse in svantaggio e di quanto, a prescindere dalle conoscenze possedute su tale sport.

Dato che il nostro comportamento veicola molte informazioni sullo stato emotivo personale, e che esse vengono facilmente comprese dagli altri, è fondamentale, nel contesto sportivo, trarne un vantaggio competitivo. A tal proposito, comportamenti non verbali sottomessi risultano essere molto disfunzionali, poichè possono favorire un incremento della fiducia nell’avversario, con un conseguente aumento della pressione agonistica da parte di quest’ultimo.

Il linguaggio del corpo che comunica le emozioni

Ulteriori ricerche hanno dimostrato come vi sia un’influenza bidirezionale tra corpo e mente. In particolare, l’assunzione di determinate posture, espressioni, è in grado di modificare l’umore, rendendolo più positivo o più negativo. Quando le persone sono tristi, o più generalmente hanno un umore negativo, tendono ad assumere posture caratterizzate da spalle curve e chiuse, testa e sguardo verso il basso ed espressioni facciali sottomesse. Al contrario, persone con un umore più positivo tendono ad assumere posture caratterizzate da spalle alte e aperte, testa e sguardo verso l’alto ed espressioni facciali di sicurezza e determinazione.

Un importante studio sulle espressioni facciali è stato svolto da Strack, Martin e Stepper. In questa ricerca il compito dei partecipanti era quello di esprimere il loro parere sull’umorismo di una serie di vignette. Mentre a un gruppo di partecipanti è stato chiesto di svolgere il compito con una penna tra i denti, all’altro gruppo è stato chiesto di svolgerlo con una penna tra le labbra. I ricercatori hanno riportato che i partecipanti che tenevano la penna tra i denti giudicavano le vignette come più divertenti rispetto ai partecipanti che tenevano la penna tra le labbra. Questi risultati portavano i ricercatori a sviluppare l’ipotesi del feedback facciale. In questo caso, le persone con la penna tra i denti sembravano sorridere; al contrario, i partecipanti con la penna tra le labbra sembravano accigliati.

I risultati di questo studio dimostrano, quindi, come non siano solo le emozioni a determinare il linguaggio non verbale, ma quest’ ultimo, a sua volta, sia in grado di influenzare positivamente o negativamente le emozioni della persona.

Suggerimenti:
1. Se durante una gara il risultato non è a vostro favore, è importante riuscire a mascherare il linguaggio del corpo sottomesso, affinché non sia percepibile all’avversario.
2. Non solo durante, ma anche prima della partita è importante assumere una postura di dominanza. Quest’ultima avrà un effetto positivo, non solo a livello mentale, ma avrà anche un importante effetto sull’avversario.

Il ruolo dell’aspettativa terapeutica dei pazienti nei percorsi di cura

L’ aspettativa terapeutica può essere intesa come ciò che il paziente pensa possa accadere a se stesso dopo un ciclo di terapie. Laddove tale aspettativa è positiva, aumenta le probabilità che il soggetto abbia beneficio dal trattamento intrapreso. 

 

L’ aspettativa terapeutica gioca un ruolo importante sia nell’ambito della salute fisica che in quello della salute mentale. L’attesa terapeutica individuale ipoteca i percorsi di cura in molte patologie.

L’aspettativa può essere intesa come una serie di pensieri orientati al futuro, che hanno come nucleo centrale l’accadimento o il non accadimento di un evento specifico o di un’esperienza. Frequentemente, l’ aspettativa terapeutica è collegata alla cognizione che la persona possiede relativa alla malattia di cui soffre. L’ aspettativa terapeutica può avere una valenza positiva o negativa. Laddove è positiva, aumenta le probabilità che il soggetto abbia beneficio da un trattamento intrapreso. Cosa che non succede nel momento in cui il paziente ha un’attesa negativa. In questo caso, si verifica più facilmente che la persona non abbia nessun giovamento dalla terapia e sovente sperimenta gli effetti avversi della cura.

Keywords: aspettativa terapeutica, pazienti, esiti terapeutici.

 

L’ aspettativa terapeutica dei pazienti e gli effetti sul percorso di cura

L’aspettativa dei pazienti nei confronti dei risultati delle prassi terapeutiche è stata oggetto di numerose ricerche negli ultimi anni. Di fatto, l’ aspettativa terapeutica gioca un ruolo importante sia nell’ambito della salute fisica che in quello della salute mentale. L’attesa terapeutica individuale ipoteca i percorsi di cura in molte patologie. A questo riguardo si sono trovate molte correlazioni fra aspettativa e risultati terapeutici in pazienti affetti da malattie cardiache (Habibovic e al., 2014), da ictus (Jones e Riazi, 2011), da cancro (Nestoriuc e al., 2016), da malattie muscoloscheletriche (van den Akker-Scheck e al., 2007), da lesioni dopo incidenti stradali (Murgatroyd e al., 2016) e da obesità (Crane e al., 2016).

I pazienti, che hanno delle aspettative ben delineate, mostrano frequentemente di avere giovamento dai trattamenti medici in numerose patologie (Laferton e al., 2017).

Relativamente al concetto di aspettativa, esso può essere inteso come una serie di pensieri orientati al futuro, che hanno come nucleo centrale l’accadimento o il non accadimento di un evento specifico o di un’esperienza. In altre parole, con il termine di aspettativa, nell’ambito della salute, si può comprendere ciò che il paziente pensa possa accadere a se stesso dopo un ciclo di terapie.

Secondo le teorie dell’apprendimento sociale (Bandura, 1997), l’ attesa terapeutica può avere due morfologie, ovvero essere orientata verso l’esterno, come quella provata da un paziente verso una terapia proposta da un medico; oppure orientata verso l’interno. In questo caso, l’ aspettativa terapeutica è fondata sulla percezione dell’autoefficacia da parte dell’individuo. In pratica, l’aspettativa verso un percorso terapeutico è basata sull’aspetto volitivo, ossia quanto il soggetto è in grado di portare a termine positivamente delle terapie intraprese o dei cambiamenti suggeriti nello stile di vita.

Frequentemente, l’ aspettativa terapeutica è collegata alla cognizione che la persona possiede relativa alla malattia di cui soffre. La percezione della patologia dipende da una serie di costrutti che il paziente struttura su di essa, ovvero che cosa l’ha causata, la sua durata, le conseguenze sulle condizioni di vita, la sintomatologia attribuibile al quadro clinico, come la malattia può essere curata attraverso i comportamenti del paziente stesso o dai trattamenti medici (Laferton e al., 2017). Oltre a questi fattori, sull’ aspettativa terapeutica intervengono altre variabili, come, ad esempio, la modalità di somministrazione del farmaco. A questo riguardo, un individuo si aspetta che un analgesico sia più efficace quando è somministrato per via intramuscolare piuttosto che quando viene assunto per via orale (de Craen e al., 2000). Altra caratteristica dell’ aspettativa terapeutica è rappresentata dalla sua forza. In altri termini, più essa è forte e più può influenzare positivamente o negativamente i reali risultati di cura (Laferton e al., 2017).

L’ aspettativa terapeutica può avere una valenza positiva o negativa. Laddove è positiva, aumenta le probabilità che il soggetto abbia beneficio da un trattamento intrapreso. Cosa che non succede nel momento in cui il paziente ha un’attesa negativa. In questo caso, si verifica più facilmente che la persona non abbia nessun giovamento dalla terapia e sovente sperimenta gli effetti avversi della cura (Colloca e Finnis, 2010).

Un sistema di emergenza inconscio: attivazione dell’amigdala per stimoli non coscientemente percepiti

Non sempre riusciamo ad avere il pieno controllo a livello percettivo delle nostre emozioni, come nel caso della paura: Joseph LeDoux scoprì che l’ amigdala aveva il ruolo fondamentale di sistema di allarme del cervello per far fronte all’emergenza. 

 

La percezione cosciente delle emozioni è una delle principali caratteristiche che contraddistingue l’essere umano dall’animale. Mentre gli animali provano le emozioni in modo più istintivo, l’uomo ha sviluppato dei circuiti neuronali che permettono di riconoscere le emozioni consapevolmente; questo meccanismo è funzionale a livello biologico perché consente di effettuare un piano d’azione in base alla situazione posta davanti.

Tuttavia non sempre riusciamo ad avere il pieno controllo a livello percettivo delle nostre emozioni. Vi è mai capitato di provare paura scambiando, in un primo momento, un cordone, un cavo o una fune per un serpente? Perché questo accade?

Nonostante ci manchino le informazioni necessarie per riconoscere visivamente uno stimolo, il nostro corpo agisce prima della nostra mente. Questi automatismi sono fondamentali per la sopravvivenza dell’essere umano, perché permettono di reagire velocemente a una situazione potenzialmente minacciosa.

Il ruolo dell’ amigdala nella paura

L’ amigdala è un raggruppamento di diversi nuclei localizzati in profondità dei lobi temporali degli emisferi cerebrali e connessi reciprocamente con l’ipotalamo, l’ippocampo e il talamo. E’ la regione cerebrale più strettamente connessa alle emozioni, essa è formata da nuclei del complesso basolaterale, un nucleo centrale e la stria terminale.

Il principale destinatario delle afferenze sensoriali che raggiungono l’ amigdala è il complesso basolaterale (nuclei basolaterali); questi ricevono informazioni che provengono da due fonti: i nuclei sensoriali del talamo e le aree sensoriali primarie della corteccia cerebrale.

Dal complesso basolaterale le informazioni vengono trasmesse al nucleo centrale, che è la principale zona efferente dell’ amigdala. Il nucleo centrale proietta all’ipotalamo laterale e alle regioni del tronco dell’encefalo che regolano le risposte del sistema nervoso autonomo agli stimoli con valenza emozionale. Tramite queste connessioni la stimolazione elettrica del nucleo centrale provoca aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della frequenza del respiro, al pari di quanto si osserva nel condizionamento della paura.

La paura è uno stato emozionale che si attiva per motivare l’organismo a fronteggiare eventi che lo minacciano (Öhman, 2000).

Il neurobiologo Joseph LeDoux, studiando l’anatomia cerebrale attraverso tecniche di neuro-formazione di immagini, scoprì che l’ amigdala aveva il ruolo fondamentale di sistema di allarme del cervello in grado di padroneggiare, nell’arco di una frazione di secondo, il lobo prefrontale (in cui ha sede la razionalità) per far fronte all’emergenza. Secondo la teoria di LeDoux, i nostri organi di senso (vista, udito, olfatto..) ricevono dall’ambiente informazioni che segnalano la presenza o la possibilità di un pericolo: ad esempio un serpente o qualcosa che gli assomiglia. Tali informazioni raggiungono l’ amigdala attraverso percorsi diretti provenienti dal talamo (strada bassa) e da percorsi che vanno dal talamo alla corteccia e dalla corteccia all’ amigdala (strada alta). La via talamo-amigdala è più breve e il sistema di trasmissione è più veloce. La strada bassa, non sfruttando l’elaborazione corticale fornisce all’ amigdala solo una rappresentazione rozza ed imprecisa dello stimolo, innescando così una risposta meramente emotiva e consentendo al cervello di cominciare a rispondere al possibile pericolo.

Questo percorso consente di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di sapere esattamente cosa siano. Come ricorda LeDoux, da un punto di vista della sopravvivenza, è meglio reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero, che non reagirvi affatto.

Tuttavia LeDoux ci avvisa che questo secondo circuito non funziona sempre correttamente: considerato che le connessioni neurali di ritorno, dalla corteccia all’ amigdala, sono molto meno sviluppate di quelle di andata, dall’ amigdala alla corteccia, è maggiore l’influenza dell’ amigdala sulla corteccia che non il contrario e, pertanto, spesso stentiamo a controllare razionalmente le nostre emozioni. L’interpretazione emotiva precede quella cognitiva-razionale: di fronte a una minaccia quindi, il primo ad avere paura è sempre il nostro corpo, non la nostra mente.

Per capire le dinamiche dell’attivazione della paura nel cervello umano, Carlsson et al. (2004)  hanno reclutato partecipanti che avevano paura di serpenti o ragni (non entrambi), per uno studio con la PET attraverso stimoli nascosti.

Durante le scansioni, i soggetti venivano esposti a ripetute presentazioni di immagini di ragni, serpenti o funghi che erano efficacemente o non efficacemente mascherati. In confronto a una condizione di controllo, dove i funghi erano efficacemente mascherati, l’ amigdala sinistra si attivava sia per stimoli spaventosi (es. serpenti), sia per stimoli paura– rilevanti ma non paurosi specifici (es. ragni). Questo implica che l’ amigdala inizialmente risponde all’impulso di potenziale minaccia invece che allo stimolo pauroso specificatamente definito.

Se il tempo di esposizione veniva prolungato, a tal punto da permettere una percezione conscia dello stimolo, nella condizione non mascherata si osservava una forte attivazione bilaterale dell’ amigdala allo stimolo spaventoso (serpente), mentre nella condizione di esposizione a uno stimolo paura-rilevante non spaventoso (chi ha paura di serpenti ed è esposto a ragni) non si notava alcuna attivazione significativa.

In supporto all’ipotesi di LeDoux (1996,2000), Morris et al. (1999) hanno esaminato un paziente con lesioni alla corteccia visiva primaria, per testare se l’ amigdala può essere attivata indipendentemente dalla corteccia, come postulato nel concetto di “via bassa” proposto da LeDoux.

Il paziente esaminato da Morris et al. (2001) non riportava sensazioni visive per oggetti presentati nell’area danneggiata. Tuttavia mostrava un’affidabile attivazione nell’ amigdala destra a facce spaventose presentate nel campo corticale cieco, un’analisi suggeriva che questa attivazione inconscia era mediata dal collicolo superiore e dal pulvinar. La visione cieca (“blindsight”) può essere mediata da una percorso visivo parallelo attraverso il collicolo superiore e il pulvinar, nucleo del talamo (Weiskrantz, 1986).

Una lesione che interessi a tutto spessore l’area visiva primaria (o V1 o area 17) può causare il prodursi, nella nostra specie e negli altri primati, di una zona di cecità assoluta detta scotoma (dal greco σχότος = oscurità). Essa può essere circoscritta come una macula del campo visivo, ignorata dal soggetto, o interessare tutta l’area striata di un emisfero, dando luogo ad emianopsia, oppure estendersi alla corteccia occipitale di entrambi gli emisferi, determinando la completa perdita della visione.

E’ possibile che la cecità causata da queste lesioni, pur essendo assoluta per la coscienza della persona colpita, consenta prestazioni superiori in compiti che richiedono il controllo visivo rispetto a quelle che avrebbe un non vedente per altre cause.

Nonostante queste lesioni, pazienti con “blindsight” presentano abilità residue nel rilevare stimoli visivi, suggerendo che l’informazione può essere ancora processata, anche se in maniera non cosciente. Morris et al. (2001) hanno usato la risonanza magnetica funzionale per dimostrare l’ attivazione aumentata dell’ amigdala in risposta a volti emozionalmente espressivi in un paziente con visione cieca.

Per concludere, grazie alle evidenze riportate dagli esperimenti in letteratura, si fa sempre più concreta l’ipotesi di un’ amigdala che si attiva per stimoli emozionalmente salienti al di fuori dell’attenzione cosciente. Conferme importanti provengono non solo da studi di laboratorio ma anche da pazienti con lesioni all’ amigdala e soprattutto  da pazienti con “blindsight”, che hanno dimostrato, nonostante una lesione alla corteccia visiva, di rispondere fisiologicamente a stimoli minacciosi presentati nell’emicampo visivo cieco. E’ rassicurante pensare che l’uomo, sebbene sia l’essere cosciente e pensante per antonomasia, conservi dei meccanismi istintivi primitivi per far fronte a delle minacce. Anche se molto spesso è possibile che lo stimolo non sia realmente pericoloso, non dobbiamo smettere di ascoltare il nostro corpo per non rischiare di perdere questi automatismi.

Perché come afferma il neuroscienziato LeDoux: “meglio trattare un bastone come un serpente, che accorgersi troppo tardi che il bastone in realtà è un serpente”.

Ricerca sull’uso di videogiochi violenti e adattamento psicosociale in età evolutiva

Una fruizione elevata di videogames violenti rappresenta un fattore di rischio che non deve essere sottovalutato a livello educativo e che richiede il coinvolgimento dei giovani in un percorso di responsabilizzazione sull’uso dei videogiochi, onde evitare di accentuare quelle aree risultate significative (problemi di pensiero e socializzazione, area del ritiro, comportamenti aggressivi e delinquenziali) che possono compromettere lo sviluppo psico-fisico di ogni ragazzo.

Davide Clerici, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

I dati relativi all’utilizzo dei videogames

Il videogioco è in breve tempo diventato una delle attività ricreative preferite dai bambini e dai ragazzi italiani di diverse generazioni, al punto che l’opinione pubblica spesso si è chiesta quali siano gli effetti educativi e, soprattutto, quelli diseducativi di un passatempo elettronico, specialmente se i contenuti sono a carattere violento.

Preoccupazioni sull’esposizione al mezzo videoludico sono maggiormente giustificate quando l’utilizzo di queste tecnologie si protrae fino a creare una sorta di dipendenza, dove il soggetto pone in atto comportamenti d’isolamento, passività fisica e psichica, estraniamento e perdita di contatto con la realtà.

Per altri aspetti, tuttavia, i videogiochi vengono considerati come un’occasione di esercizio e sviluppo di alcune capacità di pensiero, quali il problem solving, la coordinazione intermodale e sinestetica, la flessibilità cognitiva. Sono, in sintesi, amplificatori delle capacità motorie, percettive e cognitive, nonché occasioni per incrementare le proprie conoscenze “scolastiche”.

Secondo dati ISTAT (2005), ISFE (2010) e ricerche AESVI (2005,2012), la percentuale dei ragazzi videogiocatori è in costante aumento, con una crescita esponenziale anche per quanto riguarda l’avvicinamento del mondo femminile ad un campo che è per la maggior parte maschile, arrivando negli ultimi anni a raggiungere quasi la medesima percentuale.

Ricerche Eurispes (2013) evidenziano come siano aumentati i giochi da appartamento, mentre siano diminuite le occasioni di socializzazione spontanea, specialmente nella preadolescenza.

Gli effetti dell’esposizione a videogames violenti sull’adattamento psicosociale

Appare quindi interessante studiare le dinamiche che portano all’utilizzo dei videogiochi, verificando nel contempo se sia possibile identificare le dinamiche evolutive che contraddistinguono in modo particolare gli utilizzatori abituali di videogames violenti rispetto a quelli di videogiochi non violenti, e determinare quali aspetti vengono inficiati in caso di soggetti con dipendenza a livello tresholder o patologica.

La letteratura internazionale ha studiato l’effetto dell’esposizione ai videogiochi dai contenuti violenti, rilevando come i ragazzi che utilizzano maggiormente questa tipologia di videogiochi tendano a mettere in atto maggiori comportamenti aggressivi (Anderson, Gentile, Buckley, 2007). I dati di ricerca sembrerebbero configurare una correlazione diretta tra uso di videogames e comportamenti aggressivi, tuttavia vi è la necessità di considerare in modo più approfondito le interazioni tra l’utilizzo di videogames e gli altri aspetti di carattere ambientale/sociale.

Anderson e Bushman (2001), hanno potuto confermare l’ipotesi di una relazione positiva tra l’esposizione a videogames violenti e alti livelli di aggressività nei bambini e negli adulti giovani, nei maschi e nelle femmine. Interessante è il Modello Generale dell’aggressività, G.A.M. (Anderson & Bushman, 2002 ; Anderson & Carnagey, 2004) basato su parecchi precedenti modelli dell’aggressività umana (ad es. Anderson, Anderson, & Deuser, 1996; Anderson, Deuser, & De Neve, 1995; Bandura,1971,1973; Berkowitz,1993; Crick & Dodge,1994; Geen, 1990; Huesmann,1986; Lindsay & Anderson, 2000; Zillmann, 1983; Anderson, Gentile, Buckley 2007). Essi propongono un utile schema per comprendere i processi che causano l’aumento dell’aggressività in seguito all’esposizione a media violenti. Si cerca quindi di dare una risposta alla domanda: perché l’esposizione ai videogames violenti aumenta l’aggressività? Gli autori danno molta importanza alle strutture di conoscenza collegate all’aggressività (ad es. script, schemi) che vengono prima apprese e poi applicate nella produzione di un comportamento aggressivo. Le variabili input situazionali (ad es. una recente esposizione a videogames violenti) influenzano il comportamento aggressivo attraverso il loro impatto sull’attuale stato interno dell’individuo, rappresentato da variabili cognitive, affettive e di arousal (attivazione fisiologica).

Questo impatto si manifesta mostrando che i videogames violenti aumentano l’aggressività insegnando agli osservatori come aggredire, innescando cognizioni aggressive (inclusi script aggressivi precedentemente appresi e schemi percettivi aggressivi), aumentando l’arousal, o creando uno stato affettivo aggressivo.

Anche gli effetti a lungo termine coinvolgono i processi di apprendimento. Dall’infanzia si sviluppano vari tipi di strutture di conoscenza funzionali alla percezione, interpretazione, valutazione e risposta agli eventi nell’ambiente fisico e sociale. Il loro sviluppo è promosso dalle osservazioni di tutti i giorni e dalle interazioni con le altre persone, reali (come in famiglia) e immaginate (come nei media). Ogni episodio di violenza è essenzialmente un’occasione in più di apprendimento. Mentre si formano, queste strutture di conoscenza diventano più complesse, differenziate e difficili da cambiare.

Secondo la teoria GAM, gli effetti a lungo termine dell’esposizione ai videogames violenti derivano soprattutto dallo sviluppo e dalla eventuale automatizzazione delle strutture di conoscenza aggressive come gli schemi percettivi, aspettative sociali e script comportamentali.

Tutte queste variabili condizionano lo stato psichico della persona, facendone variare le cognizioni, affetti e arousal, finendo per influenzarsi a vicenda e interagendo con i processi decisionali che determinano diverse tipologie di outcomes, azioni riflessive o azioni impulsive (Anderson, Bushman, 2002). Queste azioni sono il risultato di processi decisionali condizionati da processi di appraisal e reappraisal e determinano le caratteristiche dell’incontro con l’altro: l’azione finale diverrà parte dell’input per un episodio successivo.

Una ricerca sull’utilizzo dei videogames violenti in un campione di pre-adolescenti

La ricerca effettuata da Clerici (2013) vuole approfondire le modalità abituali di utilizzo del videogioco in un campione normativo di pre-adolescenti delle scuole primarie di secondo grado per vagliare la conoscenza di alcune variabili connesse alla pratica del videogiocare. Il campione effettivo sul quale si basa la ricerca è composto da 100 soggetti frequentanti varie scuole medie inferiori di Milano, di età compresa tra i 10 e i 15 anni (età media=12,34; DS=1.08). Nel 44% dei casi i partecipanti sono di sesso femminile (N=44), e nel rimanente 56% (N=56) sono di sesso maschile. L’età media per le femmine si assesta a 12,3 (DS=0,97); mentre per i maschi è pari a 12,2 (DS=1,155).

Sono state formulate 5 ipotesi differenti sulla base delle letteratura e articoli scientifici (Anderson, Gentile, Buckely, 2007, Chambers Ascione 1986, Anderson e Ford 1987 ; Parker e Asher, 1987 ; Shuttle 1988, Cooper Mackie 1986, Irwin Gross 1995):
1) Si ipotizza che i bambini che, dalla scheda di rivelazione sui videogiochi, risultano essere utilizzatori di videogames violenti e/o utilizzatori sopra la media in termini di tempo mostrano una qualità delle relazioni interpersonali (TEST TRI) più negativa, estesa ad ogni ambito di vita, rispetto ai bambini che non fanno lo stesso utilizzo dei videogiochi.
2) Si ipotizza che i bambini utilizzatori di videogiochi violenti e sopra la media ottengano punteggi più elevati al test AFV di aggressività fisica e verbale rispetto ai bambini che non li utilizzano.
3) Si ipotizza inoltre che i bambini facciano registrare un punteggio più elevato nella scala CBCL (Child Behavior Checklist), sia per la scala di comportamento aggressivo/verbale, che in quella di esternalizzazione.
4) Si vuole verificare se anche nel campione preso in esame, il fattore tempo causi significatività importanti tra i vari ambiti indagati. Si indagano specialmente le aree di ritiro e attaccamento.
5) I bambini che utilizzano Videogiochi violenti e con tempo superiore alla media, registrano strategie di coping caratterizzate da evitamento e distrazione.

In base ai dati raccolti mediante la scheda di rilevazione sulle consuetudini d’uso dei videogiochi, i partecipanti sono stati divisi in “utilizzatori di videogiochi violenti” (N= 43) e “Utilizzatori di videogiochi non violenti (N= 53). Per quanto riguarda la media oraria, si è preso come cut-off l’ora di gioco (N=24 per chi gioca meno di un’ora; N=76 per chi supera l’ora di gioco). Per quanto riguarda la dipendenza, si è tenuto conto delle diverse fasce riscontrate col VGA.

1) Per quanto riguarda il solo contenuto violento, gli utilizzatori di videogiochi violenti mostrano di avere, rispetto ai non utilizzatori di videogames violenti, reazioni più negative in tutte le sottoscale, tranne che con i coetanei maschili, ma non vi è presente nessun livello di significatività. L’ipotesi è quindi solo parzialmente confermata; infatti, seppur le medie dei “videogiocatori violenti” siano più basse dei coetanei che non usufruiscono di quel determinato genere, non fa registrare livelli significativi. Nelle stesse analisi per differenza di genere, l’unico livello di significatività emerso è quello riguardante il rapporto con le femmine. È interessante notare come l’unica sottoscala nella quale i giocatori violenti abbiano fatto registrare un punteggio maggiore, sia quella del rapporto con i maschi. Questo si può spiegare per come la pre-adolescenza viene vista dalla maggior parte dei ragazzi, dove è il gruppo dei pari a fornire il gruppo di maggior sostegno e informazioni per quanto riguarda lo sviluppo delle conoscenze del ragazzo e sono proprio i maschi ad usare maggiormente i videogames, specialmente quelli a carattere violento poiché più “divertenti” e “di moda” presso questa fascia di popolazione.
2) L’ipotesi due è ampiamente confermata dalla letteratura. Questi dati forniscono una conferma che l’utilizzo di videogames violenti sia effettivamente connesso a punteggi più elevati nella scala AFV di aggressività fisica e verbale.
3) L’ipotesi tre è confermata solo in parte. Infatti si nota come i videogiocatori di titoli violenti facciano registrare livelli più alti nelle sottoscale di comportamento delinquenziale, comportamento aggressivo ed esternalizzazione, con valore di significatività per quanto riguarda il comportamento aggressivo.
4) Collegandosi all’ipotesi precedente, bisogna sottolineare come vi sia una significatività per quanto riguarda le aree del ritiro e dei problemi di attaccamento; a questi due dati si possono aggiungere e correlare le significatività che emergono dalla dimensione temporale dell’utilizzo sui problemi di socializzazione e della relazione disfunzionale genitore-figlio. Questi elementi confermano anche le ipotesi che un attaccamento insicuro o relazioni disfunzionali all’interno della famiglia possano provocare un “ritiro” verso il mondo videoludico da parte dei ragazzi, vedendolo come una fonte sicura , in un rapporto bidirezionale.
A questo punto però, riguardo alla scala di ritiro e internalizzazione, bisogna fare ulteriori ipotesi. Infatti si possono analizzare sia sotto l’ottica della natura solitaria, improntata a creare una sorta di “amicizia elettronica” col medium che va a sostituirsi ai pari impedendo cosi lo sviluppo di abilità interpersonali funzionali, sia nell’ottica che oramai tutti i medium elettronici presentano una connessione internet per essere costantemente connessi alla propria rete di amici, reali o meno, sulla rete virtuale e intraprendere con essi varie attività.
5) L’ipotesi per la quale i bambini che prediligono l’uso di videogames violenti mettano in atto maggiori strategie di coping di evitamento e/o distrazione non è stata confermata.

Questi risultati forniscono una conferma che l’utilizzo di videogames violenti sia effettivamente connesso con un più alto punteggio di problemi di comportamento delinquenziale ed aggressività fisica e verbale, oltre che far registrare punteggi più elevati nella scala di esternalizzazione, così come emerso in letteratura. Inoltre, i dati evidenziano come un tempo di utilizzo dei videogames maggiore alla media sembra essere strettamente associato a problemi di violenza e aggressività e dipendenza, oltre che ad eventuali problemi sociali ed essere una causa di stress maggiore per i genitori.

Da questi dati emerge inoltre come anche altri aspetti dell’ambiente di vita dei bambini, quali la qualità della relazione con i genitori e l’insieme delle relazioni interpersonali, siano strettamente connessi con un uso preferenziale per quei videogames violenti. Le relazioni col nucleo famigliare sono viste in maniera disfunzionale dagli stessi genitori.

Alla luce di quanto detto finora, una fruizione elevata di videogames violenti rappresenta un fattore di rischio che non deve essere sottovalutato a livello educativo e che richiede il coinvolgimento dei giovani in un percorso di responsabilizzazione dell’uso sui videogiochi, onde evitare di accentuare quelle aree risultate significative (problemi di pensiero e socializzazione, area del ritiro, comportamenti aggressivi e delinquenziali) che possono compromettere lo sviluppo psico-fisico di ogni ragazzo. Bisognerebbe però coinvolgere gli stessi genitori, in quanto si è notato come proprio i problemi di attaccamento e la relazione disfunzionale genitori-figlio sia significativo di un aumento delle aree problematiche sopra citate.

Si consiglia quindi ai genitori di acquisire l’abitudine di vagliare attentamente i contenuti e le caratteristiche dei videogiochi acquistati per il figlio, grazie anche alle indicazioni fornite dal PEGI, senza cedere alle pressioni dei ragazzi che richiedono il videogioco più recente e diffuso tra i compagni, cercando, tra i tanti titoli offerti dal mercato, quei videogiochi capaci di sviluppare nel bambino varie abilità importanti per il suo sviluppo emotivo-affettivo ed evitare quelli nocivi. Dato che però il mondo giovanile, soprattutto quello dei pre-adolescenti, è fortemente discriminatorio, anche all’interno dello stesso gruppo, verso quei soggetti che non sono ritenuti “alla moda”, non è tanto utile e adattivo vietare il videogioco in sé, ma spiegare al ragazzo quello che accade all’interno del mondo virtuale, in un percorso di crescita e di separazione tra le due realtà presenti.

Di maggiore importanza, assume invece, il tempo di utilizzo dei videogames, che deve essere monitorato dai genitori e negoziato con i figli se la loro età lo permette. I videogames non devono costituire l’attività prevalente nella gestione del tempo libero di bambini e ragazzi ma un’esperienza circoscritta, i cui confini sono stabiliti. Se non si riesce ad ottenere ciò, si rischia di andare incontro ad una patologia di dipendenza non tanto verso il videogioco in sé, ma verso il medium videoludico, che può variare tra console, pc, tablet,…

La dipendenza videoludica non causa un aumento di aggressività (il titolo giocato può variare di giorno in giorno a seconda di variabili di gradimento personali e sociali), ma va ad inficiare aree della sfera famigliare; abbiamo, infatti, nelle scale compilate dai genitori, alti livelli di stress totale percepito, ma soprattutto vedono il proprio figlio come “bambino difficile”. Questo perché la pre-adolescenza è un periodo di completa transizione sia per i figli che per i genitori; si cambiano completamente le dinamiche relazioni all’interno della famiglia, con i figli portati maggiormente a confrontarsi col gruppo dei pari piuttosto che tra le mura domestiche. A questo dobbiamo aggiungere come una dipendenza verso il medium elettronico porta il ragazzo a passarvi la maggior parte del tempo, togliendo cosi spazio allo studio e andando ad influenzare la propria carriera scolastica. Questo fattore può essere altra fonte di stress all’interno delle mura domestiche, oltre che portare i ragazzi patologici a registrare maggiori livelli nelle aree d’internalizzazione e di ansia/depressione.

Il ruolo dei genitori risulta anche in quest’aera quindi molto importante, non tanto ponendo restrizioni drastiche al figlio, ma facendo con lui un percorso sull’utilizzo corretto dei media elettronici, attraverso negoziazioni sul tempo (dalla analisi i ragazzi considerati patologici attraverso il VGA passano davanti allo schermo un’ora in più rispetto al campione non patologico al giorno) e sulle attività da svolgere.

Questa dipendenza porta a modificare le abitudini reali, portando i ragazzi patologici ad usare la strategia di coping di richiesta d’aiuto più di tutte le altre, tralasciando quella attiva e di evitamento. La tecnica di richiesta d’aiuto è una delle più funzionali ed usata nel mondo virtuale, bisogna far sì che il ragazzo però non confonda, come già scritto in precedenza, le due realtà; riuscendo a trovare di volta in volta la strategia più adeguata.

Sorridere induce il rilascio di ormoni del buon umore e promuove le relazioni sociali

Un nuovo studio ha rivelato l’influenza che il sorriso ha sul cervello, aiutando a spiegare come anche la risata sociale giochi un ruolo importante nelle relazioni interpersonali.

 

Anche nei momenti più difficili, la risata ha il potere di tenere vicine le persone. Un nuovo studio ha rivelato  l’influenza che il sorriso ha sul cervello, aiutando a spiegare come anche una risata banale giochi un ruolo così importante nelle relazioni sociali.

Un gruppo di ricercatori dalla Finlandia e dal Regno Unito hanno scoperto che la risata sociale è un trigger per il rilascio di endorfine – spesso chiamate “ormoni del buon umore” – nelle regioni cerebrali responsabili di arousal e delle emozioni. Le endorfine sono peptidi che interagiscono con i recettori oppioidi nel cervello per aiutare ad alleviare il dolore e generare sensazioni di piacere.

Inoltre, lo studio ha rivelato che la maggior parte dei recettori oppioidi presenti nelle regioni cerebrali associati alle  emozioni, sono quelli maggiormente coinvolti nella risata sociale.

I nostri risultati evidenziano che il rilascio di endorfina indotto da risate sociali potrebbe avere un ruolo importante nella formazione, nel rafforzamento e nel mantenimento dei legami sociali tra gli esseri umani – afferma il co-autore dello studio, Prof. Lauri Nummenmaa, del Centro PET di Turku dell’Università di Turku in Finlandia.

I ricercatori hanno recentemente riportato i loro risultati nel The Journal of Neuroscience.

La risata sociale ha incrementato il rilascio di endorfine

l Prof. Nummenmaa e colleghi hanno selezionato 12 uomini sani per il loro studio. Ai partecipanti è stato iniettato  un composto radioattivo che aderiva ai recettori oppioidi nel cervello. Utilizzando la tomografia ad emissione di positroni (PET), i ricercatori sono stati quindi in grado di monitorare il rilascio di endorfine e di altri peptidi che si legano ai recettori degli oppioidi.

I partecipanti sono stati sottoposti a scansioni PET due volte. La prima scansione è stata condotta dopo che ciascun partecipante aveva trascorso 30 minuti da solo in una stanza; la seconda scansione dopo aver trascorso 30 minuti a guardare videoclip dei loro amici intimi.

I ricercatori hanno scoperto che la condizione di risata sociale ha portato ad un significativo aumento del rilascio di endorfina nel talamo, nel nucleo caudato e nelle regioni dell’insula anteriore, regioni cerebrali che svolgono un ruolo importante nell’arousal e nella sensibilizzazione emotiva.

Inoltre, il gruppo di ricercatori ha scoperto che i partecipanti con un maggior numero di recettori oppioidi nella corteccia del cingolo e in quella  orbitofrontale del cervello, mostrano una più alta probabilità di ridere in risposta ai video clip degli amici.

La corteccia cingolare è coinvolta nella trasformazione e formazione di emozioni, mentre la corteccia orbitofrontale è coinvolta in un certo numero di processi legati all’emozione.

Le endorfine potrebbero promuovere sentimenti gruppali

I ricercatori affermano che i loro risultati indicano che il rilascio di endorfine scatenato dalla risata potrebbe svolgere un ruolo nel legame sociale.

Gli effetti piacevoli e calmanti del rilascio endorfinico potrebbero offrire senso di sicurezza e promuovere sentimenti gruppali – afferma il prof. Nummenmaa – Il rapporto tra la densità dei recettori oppioidi e il tasso di risate suggerisce anche che il sistema oppioidale possa essere alla base delle differenze individuali nella socialità.

Il co-autore dello studio Prof. Robin Dunbar, dell’Università di Oxford del Regno Unito, aggiunge che i risultati evidenziano l’importanza della comunicazione diretta a voce nel legame sociale.

Altri primati mantengono i contatti sociali attraverso la cura reciproca, che induce anche liberazione di endorfina, ma questo richiede tempi prolungati. Poiché la risata sociale porta a una risposta chimica simile nel cervello, ciò consente una significativa espansione delle reti sociali umane: la risata è altamente contagiosa e la risposta dell’endorfina può quindi facilmente diffondersi attraverso grandi gruppi che si trovano a ridere insieme.

Sicuramente ulteriori ricerche sugli effetti della risata sociale saranno necessarie per confermare questi risultati, ma lo studio suggerisce un buon consiglio: trascorrete un week-end di risate con gli amici!

 

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