expand_lessAPRI WIDGET

La sofferenza dei caratteri difficili

Le persone con caratteri difficili soffrono molto. Ai caratteri difficili gli psicoterapeuti hanno dato un nome: Disturbi di personalità. La psicoterapia può aiutarli

 

Avere talento e non usarlo. Fermarsi un attimo prima di una prova – chiedere un appuntamento galante, affrontare un esame, un colloquio di lavoro – che appare insormontabile e che se superata aprirebbe la strada verso la realizzazione personale.

Vivere dominati dall’idea di essere senza valore, meritevoli di abbandono. Fare di tutto per evitare di essere lasciati soli: accettare relazioni tossiche con partner che le persone care invocano di lasciare. Ma persistere nella scelta dannosa, con determinazione che dall’esterno appare incomprensibile.

Oscillare tra l’idea di essere un grande, baciato dal destino, destinato alla gloria, preferito dagli dei. Ma covare il sentimento opposto: essere un bluff, destinato ad essere dimenticato, ignorato. Condannato a fallire. E per questo entrare nel mondo con un misto di arroganza – datemi ciò che mi spetta – e vergogna – scopriranno che non valgo niente. E in entrambi i casi ottenere risposte dagli altri che ostacolano la via verso la felicità.

Annusare l’aria intorno. Sentire l’odore di un mondo malevolo. Diffidare di chi ci sta accanto. Essere in guardia, rabbiosi, pronti a scattare al minimo segnale di insulto. Apparire forti, potenti, minacciosi, ma dentro sentirsi una nullità, fango, un tappeto su cui pulirsi i piedi. E chiudersi, proteggersi e poi ancora uscire e contrattaccare. Una lotta senza fine contro nemici che spesso dimorano solo nel teatro dell’immaginazione.

Caratteri difficili: la diffusione dei Disturbi di personalità

Pensateci un attimo. Quante persone conoscete con queste caratteristiche? Il vostro partner che vi chiede continue conferme del vostro amore e non bastano mai? Il vicino litigioso? Il capo arrogante e sprezzante? Un compagno di banco timido, impacciato, imbranato? Oppure… voi stessi?

Sono molte. Fanno parte della comunità a cui apparteniamo. Ci fanno arrabbiare, sono frustranti. Sono l’amico che cerchiamo di convincere a cambiare atteggiamento senza riuscirci, l’amica a cui consigliamo di leggere il libro sulla dipendenza amorosa così lascerà finalmente il fidanzato che la maltratta. E lei lo legge. Ci si ritrova. E non cambia niente.

Sono caratteri difficili: timidi, ipersensibili, sfuggenti, dipendenti, orgogliosi, moralisti, rancorosi, spacconi, chiusi. A volte li capiamo, più spesso no.

Ai caratteri difficili gli psicoterapeuti hanno dato un nome: Disturbi di personalità. Ne abbiamo descritti alcuni. Per amore di scienza: i disturbi evitante, dipendente, narcisista e paranoide. Ce ne sono vari altri. Se ne parla poco. È un errore. Se pensiamo alla sofferenza delle persone, le parole che ci vengono in mente più facilmente sono: ansia e depressione. Se pensiamo a problemi diffusi vengono in mente i disturbi alimentari, l’abuso di sostanze. Ai Disturbi di personalità ci si bada meno. La definizione stessa è poco nota. Invece, proprio queste persone sono più soggette a sperimentare con maggiore facilità e intensità esattamente ansia e depressione. A soffrire di disturbi alimentari, ad abusare di alcool e droghe. A soffrire da cani. E a non sapere come uscire dalla propria sofferenza. Chi sta loro intorno si danna spesso l’anima e paga un prezzo, a volte alto. Ma niente, non cambiano. Ancora una volta: li guardate da fuori e vi sembra che generino dolore inutile agli altri. La realtà è che sono carichi loro stessi di dolori che durano una vita.

La psicoterapia può affrontare questi problemi, purché sia disegnata attorno a loro. E funziona. È difficile, ma terapeuti preparati sono in grado di riconoscere questi problemi e di curarli con successo.

Caratteri difficili: perchè soffrono molto

Sono molti i motivi per cui queste persone persistono nella loro sofferenza e in comportamenti dannosi per sé e gli altri. Qui, ci basti citarne due. Il primo: il loro modo di vedere il mondo è filtrato da occhiali – i clinici li chiamano schemi interpersonali maladattivi – che li porta a leggere i segnali provenienti dagli altri sempre negli stessi modi. Chi pensa di non valere niente sarà convinto che il mancato saluto dell’altro sia necessariamente un segno di disprezzo. Chi diffida interpreterà, al di là di ogni ragionevole dubbio, uno sguardo sfuggente come l’intenzione di nascondere informazione che loro dovrebbero possedere. Intenderà in un sorriso amichevole un segno di scherno. Questi occhiali distorti, Steve Jobs non li avrebbe inventati così, si chiamano schemi. A volte colgono aspetti della realtà. Chi pensa male fa peccato ma… giusto? Più spesso no. Molto più spesso no.

Il secondo motivo: per vivere con gli altri abbiamo bisogno di riconoscere cosa desideriamo, cosa proviamo, cosa ci fa stare bene e cosa male e perché. Dobbiamo capire gli altri, le sfumature del loro animo e sapere come comportarci perché le relazioni scorrano con conflitti e incomprensioni al minimo. Chi soffre di Disturbo di personalità fatica in questo dominio. Il proprio mondo interno gli è spesso oscuro, quello degli altri comprensibile a fatica. La loro azione sociale, di conseguenza è meno efficace, fluida.

La psicoterapia può aiutare questi pazienti a migliorare la conoscenza del proprio animo, di quello degli altri, a cambiare punto di vista prima e il comportamento poi. Spesso i pazienti con Disturbo di personalità arrivano a rasserenarsi, a rompere abitudini tossiche, dannose per sé e per gli altri. Spesso fioriscono: le parti più vive del loro animo vengono alla luce e guidano la strada verso la realizzazione personale, il piacere dell’amicizia, la gioia di un bambino che scopre per la prima volta un pesce saltare fuori da un torrente.

Gli effetti della privazione materna su cervello e capacità cognitive

La privazione materna, anche se breve, nei primi anni di vita, può alterare funzionamento cerebrale e capacità cognitive in età adulta.

 

Secondo uno studio della School of Science IUPUI condotto su animali, se un animale nei primi anni di vita è allontanato dalla madre, anche per un breve periodo, questo può rivelarsi traumatico ed alterare in modo significativo il funzionamento adulto del cervello.

Privazione materna: gli effetti osservati

Lo studio è stato condotto nel laboratorio del professore Christopher Lapish, su giovani ratti. I ratti sono stati allontanati dalle loro madri per 24 ore quando avevano 9 giorni, periodo critico per lo sviluppo del cervello. Dai risultati delle scansioni è emerso che, a differenza degli animali che non erano stati separati dalle madri, i ratti allontanati presentavano anomalie cerebrali comportamentali, oltre che biologiche e fisiologiche, nell’età adulta.

I cervelli dei ratti e degli umani hanno struttura e connettività simili – sostiene Lapish – Comprendere ciò che accade nel cervello di un giovane topo che è stato allontanato da sua madre ci fornisce importanti informazioni su come questo tipo di trauma precoce colpisce il cervello umano in via di sviluppo.

In questo studio abbiamo riscontrato un deficit della memoria, oltre ad una minore comunicazione tra regioni del cervello, negli animali che hanno subito una separazione dalle madri, oltre ad altre alterazioni neurologiche sostiene la co-autrice Sarine Janetsian-Fritz. – Questi sono tutti indizi su come un evento traumatico all’inizio della vita potrebbe aumentare il rischio di una diagnosi psicopatologica in futuro.

Privazione materna e disturbi nell’età adulta

I bambini esposti a stress o separazioni nella prima infanzia, sono a rischio maggiore di malattie mentali e dipendenze nella vita adulta, compresa la schizofrenia sostiene il co-autore Brian F. O’Donnell – Abbiamo identificato cambiamenti duraturi nel cervello e nel comportamento quale risultato di un tipo di stress su un roditore. Quindi sarebbero opportune politiche o interventi che riducano lo stress per i bambini, perché potrebbero diminuire la vulnerabilità ai disturbi emotivi nell’età adulta

 

Indicatori e interventi di miglioramento della qualità di vita e del benessere in pazienti con malattie neuromuscolari

La qualità di vita e il benessere sono spesso limitati negli adulti con malattie neuromuscolari. Questi disturbi sono eterogenei e condividono la proprietà della disabilità fisica connessa alla progressiva debolezza muscolare (Walklet et al., 2016).

Stefania Pedroni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce qualità di vita il modo in cui un individuo si percepisce rispetto ai propri obiettivi e suggerisce che possa essere influenzata dalla salute fisica e psicologica, dall’indipendenza e dalle relazioni con gli altri e con l’ambiente (WHOQoL Group, 1995).

La qualità di vita correlata alla salute è una componente di questo concetto e si riferisce agli aspetti fisici, sociali e psicologici della salute, che sono influenzati dalle credenze, dalle aspettative e dalle esperienze individuali (Testa e Simonson, 1996). Il benessere soggettivo, invece, è stato definito come una valutazione che le persone fanno riguardo alle loro vite, agli eventi che accadono loro e alle circostanze in cui vivono (Diener, 2006).

Ricerche recenti hanno rilevato che adulti con SLA e con un elevato benessere hanno un rischio di mortalità sette volte inferiore rispetto a quelli che soffrono di stress, indipendentemente dalla gravità e dalla durata della malattia (McDonald et al., 1994). Alla luce di questo, è importante riuscire a strutturare interventi che migliorino la qualità di vita e il benessere delle persone con malattie neuromuscolari.

Malattie neuromuscolari e qualità di vita: cosa dicono gli studi in letteratura?

La ricerca di Graham, Weinman e collaboratori (2014) ha evidenziato che i fattori psicosociali sembrano i migliori predittori della qualità di vita negli adulti con malattie neuromuscolari. Questo fa ipotizzare che intervenire su questi fattori potrebbe migliorare la qualità di vita e il benessere in questo gruppo di persone. Gli interventi psicosociali includono le terapie psicologiche, come per esempio la terapia cognitivo-comportamentale, la psicoeducazione e il sostegno tra pari. Tali interventi possono essere forniti in forma individuale e di gruppo.

Walklet e collaboratori (2016) hanno cercato di analizzare l’efficacia degli interventi psicosociali nei pazienti con malattie neuromuscolari, al fine di formulare raccomandazioni su interventi efficaci e sviluppi per la ricerca futura. Per fare questo è stata svolta una rassegna sistematica della letteratura: su 3.136 studi identificati, solo dieci hanno soddisfatto i criteri per l’inclusione nella revisione. Gli studi inclusi comprendevano una serie di interventi: terapia cognitivo-comportamentale (CBT), terapia della dignità, ipnosi, divulgazione espressiva, liste di motivi per essere grati, psicoeducazione di gruppo e riabilitazione psicologicamente informata. Cinque degli interventi sono rivolti a pazienti con SLA, gli altri sono rivolti a pazienti con sindrome post-polio, distrofia muscolare, malattia di Charcot-Marie-Tooth, miastenia grave e distrofia miotonica. Dei dieci studi inclusi nella rassegna, sette hanno riportato un effetto benefico degli interventi psicosociali. Nel complesso, vi sono prove contrastanti sull’efficacia della CBT nel migliorare la qualità di vita, con una moderata evidenza della sua inefficacia in partecipanti gravemente affaticati. Va notato che la CBT è l’unico intervento in cui è stato riscontrato un effetto benefico a sei mesi dopo l’intervento, nonostante questo possa riflettere una scarsità di dati di follow-up a lungo termine in altri studi. Nel breve periodo vi è una moderata evidenza del fatto che la condivisione emotiva migliori il benessere psicologico e una debole evidenza che liste di motivi per essere grati migliorino il benessere soggettivo. L’ipnosi ha mostrato una debole efficacia e un gruppo psicoeducativo sulla fatica migliora solo lievemente la qualità di vita correlata alla salute. Inoltre vi sono deboli prove che suggeriscono che la terapia della dignità non migliori la qualità di vita quotidiana e il benessere spirituale e che una riabilitazione di ampia portata non migliori la qualità di vita globale. In sintesi, secondo questa rassegna, attualmente non ci sarebbero prove sufficienti per sostenere l’uso di interventi psicosociali per migliorare la qualità di vita e il benessere negli adulti con malattie neuromuscolari.

Questa rassegna estende i risultati di una revisione precedente (Gould, Coulson et al., 2015), sintetizzando le attuali conoscenze sull’impatto degli interventi psicosociali sulla qualità di vita e il benessere negli adulti con disturbi neuromuscolari: attualmente non ci sono prove sufficienti per raccomandare tali interventi.

Tuttavia, la qualità metodologica di questi studi potrebbe avere compromesso significativamente i risultati emersi (Walklet et al., 2016). Infatti la maggior parte delle ricerche ha reclutato un piccolo numero di partecipanti, spesso da un’unica fonte. Mentre questo può riflettere la rarità delle malattie neuromuscolari e le difficoltà che hanno i pazienti a impegnarsi in attività di qualunque tipo, il rischio di campionamento parziale pregiudica la generalizzabilità dei risultati. Per quanto riguarda il disegno sperimentale degli studi, nessuno tra quelli inclusi ha utilizzato un controllo attivo e tre non hanno alcuna forma di controllo. Pertanto i risultati potrebbero essere dovuti a effetti di trattamento non specifici. È importante sottolineare che, poiché molti studi non hanno valutato gli esiti a lungo termine degli interventi, non è possibile effettuare inferenze riguardanti gli effetti a lungo termine. Nella maggior parte non vi è stato alcuno studio cieco, ma i partecipanti e i valutatori del risultato erano pienamente consapevoli della domanda di ricerca e delle assegnazioni di gruppo. Un’altra criticità ha riguardato contrastanti definizioni e metodi di valutazione della qualità di vita e del benessere, che hanno impedito un confronto significativo tra gli studi. La qualità della vita correlata alla salute è stata il risultato più comunemente valutato, tuttavia sono state utilizzate molte misure diverse. La principale limitazione dell’attuale revisione è l’eterogeneità tra gli studi inclusi, per cui non è stato possibile eseguire una meta-analisi. Di conseguenza, non si possono trarre inferenze statistiche sull’efficacia.

Tuttavia, poiché nessuno studio ha riportato esiti avversi rispetto all’intervento, si può concludere che i ricercatori dovrebbero procedere allo sviluppo di interventi psicosociali opportunamente progettati. Infatti la scarsità di ricerche di alta qualità e la confusione relativa alla misurazione della qualità della vita e del benessere impediscono un’interpretazione significativa dei risultati.

INQoL: un questionario per la valutazione della qualità di vita in pazienti con malattie neuromuscolari

Un tentativo di omogeneizzare la definizione e la misurazione della qualità di vita di pazienti con malattie neuromuscolari è stato fatto nel Regno Unito, attraverso la costruzione di uno specifico questionario. Sansone e collaboratori (2010) hanno tradotto e validato formalmente la versione italiana di tale strumento, denominato INQoL, che conferma e amplia i risultati ottenuti nel Regno Unito. Il processo di convalida comporta una traduzione formale di InQoL, ma anche una convalida culturale, ottenuta sottoponendo il questionario a un ampio gruppo di pazienti italiani, con una valutazione della sua affidabilità e delle proprietà psicometriche. I risultati preliminari suggeriscono che possa essere una misura più pertinente e pratica della qualità di vita nelle malattie neuromuscolari rispetto alle misure di salute generica.

Il questionario consiste di 45 domande all’interno di 10 sezioni. Quattro sezioni si riferiscono all’impatto dei sintomi della malattia muscolare (debolezza, blocco, dolore e affaticamento). Cinque sezioni considerano l’impatto della malattia muscolare in particolari aree della vita (attività, indipendenza, relazioni, emozioni e immagine corporea). L’ultima sezione esamina il trattamento (effetti e aspettative). I partecipanti rispondono alle domande utilizzando una scala Likert a sette punti che rileva la percezione del grado di impatto di un sintomo o il grado di impatto della malattia muscolare su un aspetto della loro vita. Viene assegnato un punteggio ponderato per ogni sezione: il punteggio finale di ciascuna sezione viene presentato come una percentuale dell’impatto negativo massimo (una percentuale più elevata indica un maggiore impatto dei sintomi o una qualità di vita peggiore). La percezione del trattamento è costituita da due punteggi, che riflettono il bilancio tra gli aspetti positivi e negativi del trattamento attuale e le aspettative per il futuro. In conclusione, INQoL è formato da 45 item, strutturati in 10 scale, che producono 11 punteggi e un punteggio totale.

Considerando alcune scale del questionario (attività, indipendenza, relazioni, emozioni e immagine corporea), lo studio conferma che l’attività e l’indipendenza sembrano influenzare la qualità di vita più delle altre. In particolare, la qualità di vita sembra essere migliore nei pazienti con distrofia miotonica rispetto agli altri gruppi di malattie neuromuscolari considerati nello studio. È noto che tali pazienti hanno una sindrome frontale esecutiva, un’iniziativa ridotta, difficoltà nelle strategie di pianificazione e apatia e gli autori ipotizzano che ciò in parte giustifichi la migliore percezione della qualità di vita rispetto a quella che sarebbe prevista dai limiti oggettivi presenti. La durata della malattia è il parametro che maggiormente influenza la percezione della qualità di vita del paziente e nelle donne la percezione è peggiore rispetto agli uomini. In contrasto con i dati della letteratura in altri disturbi, l’età e l’educazione non sembrano avere un impatto sulla percezione della qualità di vita.

Il questionario, tradotto in italiano e adattato rispetto alla versione originale inglese, è stato testato su un campione ampio e ben caratterizzato di pazienti. Si è perciò dimostrato che possiede buona affidabilità e coerenza interna, soddisfacente validità psicometrica e di gruppo. L’onere previsto è accettabile per i pazienti, risultando quindi pratico per valutare la qualità di vita in adulti con malattie neuromuscolari, confermando e ampliando così i dati ottenuti nel Regno Unito in un campione più piccolo.

Una ricerca recente apre nuove prospettive ed interpretazioni

Una ricerca abbastanza recente, che ha tentato di proporre alcuni modelli teorici di spiegazione della qualità di vita nelle persone con malattie neuromuscolari, è quella di Graham, Simmons e collaboratori (2015). Nel loro studio propongono un modello teorico (Engel, 1977) che suggerisce che la qualità di vita possa dipendere dall’interazione della gravità della malattia con le circostanze in cui l’individuo si trova (contesto) e con alcuni fattori psicologici.

I sintomi causati dai disturbi muscolari possono portare a un contesto difficile. Infatti i pazienti spesso soffrono di debolezza, affaticamento, dolore e deperimento dei muscoli scheletrici e possono sviluppare altre complicazioni come insufficienza respiratoria, disfunzione cardiaca e difficoltà a deglutire. Inoltre possono aver bisogno di assistenza nella mobilità e di adattamenti nelle loro case; le attività professionali, ricreative e sociali potrebbero dover cambiare; le cure mediche, pur offrendo la possibilità di ridurre la gravità della malattia, possono rappresentare un onere aggiuntivo, con frequenti visite agli operatori sanitari. Poiché la maggior parte delle malattie neuromuscolari sono progressive, le sfide nel loro contesto si intensificano nel tempo.

Secondo gli autori, la gestione dei fattori contestuali è probabilmente un importante mediatore dell’impatto della gravità della malattia sulla qualità di vita e sull’umore (Figura 1). La gravità della malattia può influire anche in modo diretto sulla qualità di vita e sull’umore, senza la mediazione del contesto. Ad esempio, è stato teorizzato come una disfunzione autonomica abbia un ruolo diretto nello stress e nell’ansia tra le distrofie muscolari (Sabharwal, 2014). Analogamente, il coinvolgimento del sistema nervoso centrale è stato collegato a manifestazioni psicotiche e depressione che ricorrono nella distrofia muscolare oculo-faringea (Blumen, Bouchard et al., 2009) e all’apatia nella distrofia miotonica (Minnerop, Weber et al., 2011). Sebbene questi fattori diretti offrano delle possibilità di intervento, è importante fornire una spiegazione dell’umore o della qualità di vita che consideri il ruolo del contesto e la capacità di un individuo di gestirlo. È qui che i fattori psicologici diventano importanti.

Malattie Neuromuscolari: indicatori e interventi della qualità di vita

Da un punto di vista psicologico

Un modello cognitivo-comportamentale ben validato della risposta del paziente alla malattia, il Modello di autoregolazione di Leventhal (Leventhal, Nerenz e Steele, 1984), prende in considerazione alcuni di questi fattori psicologici. Esso postula che le avversità vissute da una persona con una malattia muscolare richiedono due strategie di coping: una per gestire i sintomi fisici e la compromissione funzionale e un’altra per regolare il disagio emotivo (Figura 2).

Malattie Neuromuscolari: indicatori e interventi della qualità di vita

Al centro di questo modello ci sono le convinzioni dei pazienti riguardo alle loro malattie, chiamate anche percezioni di malattia. Tali convinzioni includono le conseguenze della malattia, il suo decorso (acuto o cronico, sintomi costanti o ciclici) e il controllo dei sintomi attraverso il trattamento o il comportamento del paziente. Queste percezioni determinano le strategie di coping che è probabile che vengano utilizzate, i cui successi e fallimenti vengono monitorati continuamente dai malati. Ad esempio, se le persone credono di poter controllare la malattia attraverso il proprio comportamento, saranno più propense ad aderire ai trattamenti raccomandati o ai cambiamenti dello stile di vita rispetto a coloro che credono di non avere alcun controllo (Petrie e Weinman, 2012).

Graham, Rose, Hankins e collaboratori (2013) hanno esplorato i profili delle percezioni di malattia in un campione di persone con disturbi muscolari, che non differivano in termini di compromissione funzionale, identificando due gruppi. Il primo gruppo mostrava una qualità di vita significativamente più bassa e un disturbo dell’umore. Il secondo gruppo, invece, mostrava una buona qualità di vita e nessun disturbo dell’umore; inoltre attribuiva meno sintomi al disturbo muscolare e aveva una percezione più accurata del decorso di malattia, riconoscendola come meno ciclica e più cronica. Oltre a ciò, sperimentava minori reazioni emotive con il progredire della malattia.

Cosa spiega la differenza tra i due gruppi? Gli autori riferiscono che le percezioni di malattia del secondo gruppo riflettano un’accettazione realistica della malattia e una certa resilienza ai sintomi. Al contrario, le percezioni di malattia dell’altro gruppo portavano a maggiori reazioni emotive al disturbo muscolare, che aumentavano con l’aumentare dei sintomi, insieme a una visione meno realistica del decorso di malattia. Ulteriori analisi hanno rivelato che il secondo gruppo ha fatto meno ricorso a strategie di coping disfunzionali, come la negazione, il disimpegno comportamentale, l’evitamento emotivo e l’autocolpevolizzazione (Graham, Rose, Hankins et al., 2013). Un esempio di strategia di coping disfunzionale è un dialogo interiore caratterizzato da frasi come “questo non è in realtà un problema” (negazione); “non farò nulla che possa turbarmi, anche se mi interessa davvero fare quella cosa” (disimpegno comportamentale); “devo liberarmi di questo sentimento” (evitamento emotivo); “posso controllare questo, se non ci riesco è perché non ci sto provando abbastanza” (autocolpevolizzazione). Tutti questi metodi hanno in comune il fatto di non permettere alla persona di provare emozioni spiacevoli, un fenomeno definito evitamento esperienziale. Si ritiene che ciò sia dannoso per la qualità di vita perché una persona volta a evitare emozioni spiacevoli, tende a disimpegnarsi dalle attività piacevoli. Pertanto, la strategia di accettazione di emozioni indesiderate può essere un fattore chiave nel contribuire a reazioni funzionali a un disturbo muscolare (Graham, Simmons et al., 2015).

Rispetto al concetto di accettazione, Karademas, Tsagaraki e Lambrou (2009) hanno raccolto alcune definizioni di accettazione della malattia, suggerendo diverse componenti: innanzitutto accettazione implica “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia” (Hayes e Wilson, 1994) e “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici”. Questo non significa arrendersi; piuttosto, significa reindirizzare le energie ai propri valori personali, che vanno oltre la semplice gestione della malattia (Risdon, Eccleston et al., 2003). In altre parole, significa “un ri-orientamento dell’attenzione verso altri aspetti della vita” (McCracken ed Eccleston, 2003). Un’ulteriore componente dell’accettazione è la volontà di affrontare i vissuti difficili, come paura, imbarazzo, dolore e affaticamento, quando ciò consente di prendere parte ad attività gratificanti (McCracken ed Eccleston, 2003).

Lo studio di Ahlström e Sjöden (1996) offre supporto all’importanza dell’accettazione: gli autori hanno infatti riscontrato che un’accettazione “stoica” della distrofia muscolare fosse associata positivamente alla qualità di vita, mentre strategie di coping di non accettazione fossero correlate negativamente con la qualità di vita. Un altro studio (Kratz, Hirsh et al., 2013) ha esaminato i modi di affrontare il dolore cronico: una maggiore accettazione di provare dolore portava a un maggiore coinvolgimento in attività piacevoli ed era associata a una minore depressione e una migliore qualità di vita. Un ulteriore studio ha osservato che la vergogna e la paura di subire discriminazioni avevano una correlazione negativa maggiore con la qualità di vita rispetto alla reale discriminazione vissuta (van der Beek, Bos et al., 2013). Come per il dolore, la capacità di provare emozioni spiacevoli, in questo caso paura o vergogna, permette di avere accesso ad attività piacevoli e quindi aumentare la qualità di vita.

Un altro modello teorico ben consolidato, la teoria della flessibilità della risposta (Sprangers e Schwartz, 1999), concettualizza la qualità di vita come la misura in cui l’esperienza corrisponde alle aspettative e suggerisce che possa essere mantenuta nella malattia cronica, se le persone modificano le loro aspettative. L’introduzione dell’accettazione estende questo modello, aggiungendo il fatto che lo svolgimento di attività piacevoli, permesso dalla capacità di accettare esperienze interiori come il dolore, l’ansia e l’imbarazzo, aiuta anche a mantenere alta la qualità di vita. Immaginando un padre che sviluppa una malattia muscolare e che precedentemente avesse espresso il desiderio di essere un genitore coinvolto, facendo sport con sua figlia, ora che il contesto è cambiato, potrebbe avere necessità di trovare nuovi modi per esprimere questo valore, ad esempio guardando lo sport con la figlia o aiutando la sua squadra. Queste nuove attività potrebbero essere accompagnate da sentimenti comprensibili di perdita, turbamento o persino imbarazzo, ma un’alternativa sarebbe disimpegnarsi da qualsiasi attività così apprezzata, come mezzo per evitare del tutto l’esperienza di tali emozioni spiacevoli. Ci si aspetta che il primo approccio, accettante, dia luogo a una migliore qualità di vita rispetto al secondo, evitante.

I modelli teorici discussi sopra identificano diversi obiettivi per l’intervento psicologico: innanzitutto appare importante acquisire un’efficace autogestione, che implica l’aderenza ai trattamenti disponibili, la modifica del proprio ambiente e cambiamenti nello stile di vita (ad esempio dieta, uso di alcol, sonno). Sebbene ci siano pochi trattamenti che modificano la malattia, vengono spesso prescritti trattamenti aggiuntivi, come terapia fisica o farmaci per la gestione dei sintomi. Tuttavia, l’aderenza a questi trattamenti può essere scarsa (Petrie e Weinman, 2012) e, per esempio, un intervento cognitivo-comportamentale potrebbe aumentarla.

Terapia Cognitivo-Comportamentale con pazienti affetti da malattie neuromuscolari

La terapia cognitivo-comportamentale tradizionale (CBT) potrebbe inoltre essere utile nell’affrontare il disagio emotivo nelle persone con malattie neuromuscolari (Graham, Simmons et al., 2015). Un recente trial controllato randomizzato ha rilevato un impatto benefico della CBT sul disagio emotivo nei pazienti con sclerosi multipla (Moss-Morris, Dennison et al., 2013). Questo intervento permetteva di insegnare ai partecipanti a modificare i pensieri disfunzionali, a usare strategie di regolazione delle emozioni (come il rilassamento) e a gestire il contesto sociale (es. quando dire di no, quando chiedere supporto).

L’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) è una forma di terapia cognitivo-comportamentale che mira a migliorare la capacità di adottare modelli di comportamento in linea con i valori della persona (Hayes, Luoma et al., 2006). Un aspetto essenziale è l’accettazione di esperienze interiori, incluso l’angoscia e l’accettazione di cose che non possono essere cambiate. Altri approcci chiave all’interno dell’ACT includono il potenziamento della motivazione, l’analisi del comportamento (in modo che possano essere esplorate alternative di comportamento), la consapevolezza non giudicante del momento presente e l’imparare a disimpegnarsi dalle valutazioni negative di se stessi o delle proprie circostanze. Nel contesto di un disturbo muscolare, un processo chiave per migliorare l’adattamento potrebbe essere quello di trovare nuovi modi di esprimere i valori personali nonostante i limiti funzionali, pur accettando le limitazioni, i pensieri e i sentimenti negativi. È importante sottolineare che l’obiettivo di ACT non è cercare di far sparire l’angoscia; invece, si tratta di incoraggiare le persone a svolgere attività connesse ai propri valori personali, accettando le difficoltà che si presentano. Tuttavia è possibile che l’angoscia migliori, come conseguenza di questo processo. Le valutazioni degli interventi ACT sulle malattie croniche, compresi i disturbi neurologici, hanno mostrato buoni risultati sulle misure di qualità di vita e dell’umore (Lundgren, Dahl et al., 2006).

In conclusione

Concludendo, si è visto che la qualità di vita risulta ridotta nelle persone con malattie neuromuscolari croniche a esordio in età adulta, come la distrofia facio-scapolo-omerale, la distrofia dei cingoli, la distrofia miotonica e la miosite (Graham, Rose et al., 2011). Le persone con disturbi muscolari ritengono che trovare modi per migliorare la qualità di vita dovrebbe essere una priorità di ricerca (Nierse, Abma et al., 2013).

Graham, Simmons e collaboratori (2015) hanno delineato un modello teorico relativo a come i fattori psicologici influenzino la qualità di vita e l’umore nei pazienti con malattie neuromuscolari. Hanno suggerito diverse aree di intervento e hanno delineato approcci cognitivo-comportamentali (ACT e CBT tradizionale) che possono avere una particolare applicazione nella convivenza con un disturbo muscolare. Ora è fondamentale analizzare l’efficacia di tali interventi psicologici e della gamma di strumenti psicologici disponibili. Infatti, anche in un futuro in cui l’intervento medico potrà trattare direttamente la patologia muscolare, i pazienti possono comunque vivere un’aderenza al trattamento non ottimale o un difficile adattamento.

È importante sottolineare la funzionalità di uno strumento validato in Italia, INQoL, che permette di pianificare studi, utilizzando una definizione e una misurazione di qualità di vita riconosciuta dalla comunità scientifica e ben strutturata. Questo può essere un punto di riferimento da cui partire e tramite cui mettere a confronto studi diversi, poiché indagherebbero lo stesso costrutto.

Nonostante questo importante progresso, sono ancora necessarie ulteriori ricerche sull’efficacia degli interventi psicologici per le malattie neuromuscolari, possibilmente strutturando disegni di ricerca più validi, affidabili e preferibilmente con follow-up a lungo termine, in modo da permettere una maggiore generalizzabilità dei risultati. La ricerca in questo campo si è sviluppata rapidamente negli ultimi anni e, sebbene questi sviluppi siano promettenti, i limiti metodologici sono ancora importanti. Come standard di riferimento, gli studi randomizzati controllati dovrebbero essere prioritari, con disegni in doppio cieco e reclutamento multi-sito. I controlli attivi dovrebbero essere utilizzati per stabilire se gli effetti benefici siano dovuti all’intervento specifico o semplicemente a effetti non specifici associati all’essere parte di un intervento. Si auspica che la ricerca futura si concentri sull’indagare, con metodi strutturati in questo modo, l’influenza degli interventi psicologici sulla qualità di vita delle persone con malattie neuromuscolari.

Il talamo: anatomia e funzioni – Introduzione alla Psicologia

Il talamo è una area cerebrale posta sotto la corteccia. Si tratta, di una sorta di computer interno che garantisce l’apprendimento ricavando, dall’esperienza sensoriale, informazioni che trasforma in impulsi da trasmettere alla corteccia cerebrale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il talamo si trova nel sistema nervoso centrale, esattamente nel diencefalo, ed è posto bilateralmente ai margini del terzo ventricolo.

Anatomia del talamo

Il talamo è in gran parte formato da sostanza grigia e, in minima parte, da sostanza bianca situata nello strato zonale superiore e nelle lamine midollari interna ed esterna. In generale il talamo presenta 4 aree:

  • Superiore, delimitata dalla stria midollare e dal solco opto-striato che lo separano dal nucleo caudato, dal fornice e dal pavimento della cella media del ventricolo laterale;
  • Mediale, la parete laterale del terzo ventricolo;
  • Inferiore, confina con l’ipotalamo tramite interposizione del solco ipotalamico di Monro, che collega i primi due ventricoli con il terzo;
  • Laterale, definita capsula interna che la divide dal nucleo lenticolare.

I nuclei intralaminari, presenti nello spessore della lamina midollare interna del talamo, determinano la formazione del nucleo centro-mediano, del nucleo reticolare posto lungo la superficie laterale e dei nuclei della linea mediana. La lamina midollare esterna separa il nucleo reticolare dal resto della sostanza grigia talamica.

Internamente, il talamo è costituito da addensamenti nucleari che formano una lamina verticale di sostanza bianca avente una forma a “Y”, grazie alla quale è possibile individuare una ripartizione dello stesso in nuclei: anteriori, mediali e laterali.

Nuclei anteriori del talamo

I nuclei anteriori del talamo sono posti all’interno della biforcazione della Y, della lamina midollare interna del talamo e inferiormente al tubercolo talamico anteriore. Essi sono: il nucleo antero-dorsale e il nucleo antero-mediale. Le principali afferenze che giungono a questa area sono costituite dal tratto mammillo-talamico che proietta al nucleo anteromediale e, a sua volta, invia informaizoni al nucleo antero-dorsale. Inoltre, ricevono afferenze colinergiche dal tronco encefalico, che proiettano, di conseguenza, al giro paraippocampico, al giro del cingolo e alla corteccia limbica anteriore. Questi nuclei pare siano coinvolti nell’acquisizione della memoria e nella regolazione dello stato d’allerta e quindi dell’ansia.

Nuclei posteriori del talamo: mediali e laterali

I nuclei mediali del talamo sono composti dal nucleo mediodorsale e da altri sei nuclei collocati sulla linea mediana. I nuclei mediodorsali sono composti da una parte mediale, formata da grandi cellule dette magnocellulari, da una parte dorsolaterale costituita da piccole cellule o parvocellulare, e da un’area aderente alla lamina midollare interna o paralaminare. A questa area afferiscono informazioni olfattive provenienti dalla corteccia piriforme e dall’amigdala. Questa area, a sua volta, invia informazioni al lobo frontale, alla corteccia prefrontale e alle aree imputate alla percezione olfattiva. Una serie di altri fascicoli efferenti da questa area proiettano al giro del cingolo e all’insula. La componente parvocellulare, posizionata posteriormente, è connessa alla corteccia prefrontale, al giro del cingolo e alla corteccia motoria supplementare. Questa parte del talamo si presume sia implicata nei processi cognitivi legati all’occhio e nella percezione del dolore.

Il nucleo laterale del talamo si divide in diverse parti:

  • Dorsale, riceve informazioni dal pretetto e dal collicolo superiore. Questa parte è connessa con le cortecce cingolata, retrosplenica e paraippocampale posteriore, con la corteccia parietale e con il presubiculum della formazione ippocampale;
  • Posteriore, contiguo al nucleo dorsale e al nucleo ventrale posteriore. Si connette con il lobo parietale superiore e le sue afferenze sottocorticali derivano dal collicolo superiore;
  • Caudale, o pulvinar, si trova tra il nucleo genicolato laterale e il nucleo genicolato mediale e si collega con la via visiva extragenicolata;
  • Ventrale anteriore, riceve gli impulsi dall’area motoria soppressoria attraverso il globus pallidus. Quest’area è connessa con il putamen tramite fibre afferenti l’area motrice primaria e secondaria;
  • Ventrale laterale, consente di collegare la corteccia cerebellare alla corteccia cerebrale tramite le fibre cerebello-rubre-talamiche e cerebello-talamiche e proietta fibre alle aree motrice primaria e secondaria.
  • Ventrale posteriore, è formato dal nucleo posterolaterale intercalato alle vie sensitive del lemnisco mediale, del lemnisco spinale, del lemnisco trigeminalee del lemnisco viscerale, delle fibre bulbo-talamiche e dalle fibre gustative.

Questi ultimi due nuclei contengono una rappresentazione topografica completa del corpo e da qui partono le fibre che veicolano informazioni all’area sensoriale primaria.

Inoltre, sono presenti nel talamo dei nuclei intralaminari, che ricevono afferenze dalla corteccia motoria primaria; i nuclei della base e dalla formazione reticolare, e i nuclei parafascicolari che ricevono afferenze dalla corteccia premotoria. Si assume che questi nuclei integrino le informazioni corticali e subcorticali relative al movimento.

Il nucleo reticolato e quelli della linea mediana ricevono, inoltre, afferenze dalla formazione reticolare.

Il corpo genicolato laterale, il nucleo reticolare talamico e il pulvinar sono caratterizzati da specifici schemi di connessione afferente ed efferente che derivano dalla via ottica e inviano fibre alla radiazione ottica. Inoltre, il corpo genicolato mediale riceve dalla via acustica e invia fibre alla radiazione acustica.

Funzioni svolte dal talamo

Da un punto di vista funzionale, il talamo è in grado di aggiunge alla percezione sensoriale l’aspetto emotivo, unisce informazioni motorie, tramite i circuiti pallido-talamo-corticale del sistema extrapiramidale e cerebello-talamo-corticale, al tono muscolare, invia informazioni alla corteccia encefalica e associa dati provenienti da diverse aree corticali.

Il talamo apprende, seleziona e controlla le informazioni in ingresso in relazione a ogni esperienza acquisita. Quindi, i condizionamenti appresi durante l’arco della vita sono memorizzati dal talamo che, successivamente, sulla base di questa informazione riesce a bloccare una serie di impulsi considerati dannosi per l’individuo.

Il talamo, dunque, rappresenta una sorta di sorvegliante presente nel nostro corpo che concorre a decidere quali sono le emozioni e i pensieri consentiti. Il talamo è la struttura cerebrale che entra in funzione quando si considerano adeguate solo le informazioni coerenti con quelle già presenti, perché congrue a quanto appreso durante l’arco di vita. Si creano, di conseguenza, modelli, valori, obiettivi, regole grazie alle quali è possibile regolare e gestire il comportamento messo in atto da ogni persona.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le voci dentro. Storia e scienza del dialogo interiore (2018) di C. Fernyhough – Recensione del libro

Le voci dentro indaga la natura del pensiero umano. Fernyhough ripercorre come l’uomo ha definito e spiegato il pensiero nel corso dei secoli e il punto di vista scientifico attuale.

 

Il pensiero si muove

afferma Charles Fernyhough nel suo saggio dal titolo Le voci dentro e aggiunge:

Il pensiero crea qualcosa dove prima non c’era nulla, senza aver bisogno di alcuna direzione dettata dal mondo esterno. Questo è parte di ciò che ci rende distintamente umani

Le voci dentro: distinzione tra self talk e psicosi

Nel suo saggio Fernyhough si interroga sulla natura del pensiero umano, esaminando come ci si sente ad essere trascinati dalla corrente del proprio flusso di coscienza. Sembra che il linguaggio interiore non sia onnipresente, tuttavia è presente nell’esperienza di molte persone in modo significativo e con ruoli diversi. Il linguaggio interiore, noto anche come self talk ci fornisce una prospettiva su noi stessi che potrebbe essere l’elemento chiave per pensare in modo flessibile e creativo.

Attraverso la descrizione di ricerche scientifiche e grazie ad un variegato numero di riferimenti culturali l’autore di Le voci dentro ci spiega come funzionano le nostre voci interiori, specificando che “sentire le voci” non sempre è sintomo di psicosi, anzi ci mostra come il nostro pensiero può alimentare processi creativi ed evolutivi.

In modo interessante l’autore cerca di modificare le comuni opinioni sugli “uditori di voci”, riportando i casi di scrittori e letterati che per primi hanno trasformato il proprio flusso di coscienza e le proprie voci interiori in opere di fama mondiale. L’Ulisse di Jaimes Joyce e alcuni scritti di Virginia Woolf ad esempio, sono la prova provata che il dialogo interiore è alla base della creatività.

Tutti gli scrittori sentono le voci – disse un autore di fantascienza in un’intervista del 1990 – ma come sono queste voci? Hanno qualcosa in comune con le voci degli “uditori di voci” o delle persone con schizofrenia?

A queste e ad altre interessanti domande Fernyhough cerca di dare una risposta nel corso del suo interessante saggio.

Le voci dentro: dalle voci divine ai processi creativi

Attraverso un susseguirsi di riferimenti culturali, l’autore ci aiuta a capire che le voci che sentiamo nella nostra testa sono le voci della nostra personalità, del nostro genitore interiorizzato e del nostro Io che dialogano tra di loro; per la maggior parte di noi queste voci vengono classificate come pensieri, tranne in casi di forte stress emotivo e fisico. Se tutto ciò è abbastanza comprensibile per noi, pare non lo fosse in modo così chiaro per i nostri antenati, ad esempio nell’Atene del quarto secolo, era abbastanza comune che una voce interiore fosse identificata come “voce divina”. Diversi sono infatti i capitoli di Le voci dentro che l’autore dedica all’esplorazione di questo tema nel passato, passando da Socrate all’Illiade e all’Odissea.

Oltre ai riferimenti culturali, l’autore dedica alcuni capitoli ai pazienti con psicosi e schizofrenia e al modo in cui la psicoterapia può esser di aiuto per dare un senso alle proprie voci e imparare a gestirle. In particolare, secondo l’approccio Hearing Voices Movement, riportato dall’autore, lo scopo è quello di incoraggiare gli uditori di voci a cercare di capire gli eventi di vita dai quali deriva il disagio emotivo che le voci stanno esprimendo.

La domanda che dovremmo porci non è quale sia il tuo problema, ma quale sia la tua storia

Le voci dentro: le allucinazioni potrebbero originare da una dissociazione post-traumatica

In merito a questo aspetto Fernyhough si chiede se alcune esperienze allucinatorie abbiano caratteristiche simili a quelle dei ricordi e ritiene che un approccio alternativo sia vedere se chi sente le voci presenta alcune differenze nel modo di elaborare i ricordi.

Ci sono ormai solide evidenze del fatto che esiste un collegamento tra allucinazioni uditivo-verbali ed esperienze precoci traumatiche, anche se occorre essere prudenti. L’anello mancante nel collegamento tra trauma e voci allucinatorie potrebbe essere il fenomeno psicologico conosciuto come “dissociazione”, e può darsi che la dissociazione descriva un qualcosa che è presente in ognuno di noi che si manifesta in versione estrema in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche.

Concepire le voci all’interno di questa cornice consente di gestire in modo diverso l’esperienza allucinatoria. Se le voci riguardano almeno in parte ciò che è accaduto a qualcuno, allora forniscono anche qualcosa su cui lavorare e offrono una prospettiva di guarigione.

Come può la musica aiutare i pazienti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza?

La musica può essere una strada alternativa per comunicare con pazienti affetti da malattia di Alzheimer, nei quali la memoria linguistica e visiva sono danneggiate precocemente, aiutandoli a ritrovare un contatto con la realtà.

 

I ricercatori della University of Utah Health stanno sviluppando trattamenti basati sulla musica per aiutare ad alleviare l’ansia nei pazienti affetti da demenza. Lo studio, che verrà pubblicato su The Journal of Prevention of Alzheimer’s Disease, ha focalizzato l’attenzione sul funzionamento del Salience Network.

Il Salience Network (SN) è una rete cerebrale che ha lo scopo di rilevare e successivamente elaborare stimoli significativi per l’individuo. Sorprendentemente, questa regione collegata con le strutture limbiche, viene risparmiata dagli effetti della malattia di Alzheimer.

Un precedente lavoro aveva dimostrato l’effetto di un programma musicale personalizzato sull’umore nei pazienti affetti da demenza, alla luce di ciò e, esplicitando lo scopo della ricerca, il professor Jeff Anderson ha dichiarato:

Le persone affette da demenza si trovano di fronte a un mondo sconosciuto che causa disorientamento e ansia. Noi riteniamo che la musica abbia accesso al Salience Netowrk del cervello, che non viene intaccato in questi pazienti. Non ci spingiamo ad affermare che la musica possa essere una cura per la malattia di Alzheimer ma di certo potrebbe rendere i sintomi più gestibili e migliorare la qualità della vita dei pazienti.

Gli effetti della musica su pazienti con Alzehimer: lo studio sperimentale

Per lo svolgimento della ricerca, gli studiosi hanno guidato i partecipanti nella scelta di una playlist di canzoni significative e insegnato a pazienti e caregivers l’utilizzo di un lettore multimediale portatile. Utilizzando poi la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori hanno osservato le imaging cerebrali dei pazienti durante l’ascolto dei brani scelti e in condizioni di controllo.

Ciò che ne è emerso è che la musica sembra attivare il cervello generando comunicazione tra intere regioni cerebrali: nell’ascoltare i brani personali infatti l’area visiva, prefrontale, cerebellare e il Salience Network (SN) hanno mostrato una connettività funzionale significativamente più elevata rispetto a quanto accadeva nelle condizioni di controllo.

Norman Foster, autore senior dello studio e direttore del centro per l’Alzheimer presso l’University of Utah Health ha affermato:

Questa è una prova oggettiva che dimostra come la musica con una valenza personale possa essere una strada alternativa per comunicare con pazienti affetti da malattia di Alzheimer. La memoria linguistica e visiva sono danneggiate precocemente con il progredire del morbo, ma programmi musicali individualizzati possono attivare il cervello specialmente in quei pazienti che perdono il contatto con la realtà.

Nonostante i risultati sicuramente sorprendenti e che aprono ad interessanti prospettive future, è bene considerare alcuni limiti consistenti di questo studio. Innanzitutto, il disegno sperimentale includeva una singola sessione di imaging per ciascun paziente, ciò significa che non è possibile giungere a conclusioni certe circa l’influenza della musica sull’attivazione cerebrale a lungo termine. Inoltre gli autori hanno segnalato l’esigua numerosità dal campione, composto da soli 17 partecipanti. Insomma, quello che è stato fatto è sicuramente un passo importante verso nuove forme di trattamento per pazienti affetti da malattia di Alzheimer, ma è importante non fermarsi qui.

Sulle righe, tra le righe: come il lettore interpreta il testo

Definire il ruolo del lettore nei confronti della letteratura, nel tempo, è sempre stata una questione complicata dalla quale sono sorte diverse teorie.

 

Dai modelli classici, fino ai linguisti ed agli strutturalisti, studiare le funzioni dell’interpretazione, la simbologia e la struttura è stato sempre significativo, perché questo lascia scoprire la posizione del lettore:

  • Saussure, con la sua teoria linguistica, in cui il legame tra significante e significato diventa arbitrario
  • Levi-Strauss, strutturalista, che paragona il cervello umano ad una struttura e ad un sistema in cui ogni fenomeno viene analizzato e separato dal suo background storico di valori
  • Sigmund Freud, che collega i fenomeni (qui il testo) all’inconscio e considera la libertà del lettore nella comprensione e nella produzione di significati
  • Roland Barthes, da scrittore francese edonista, introduce il piacere del testo e i suoi aspetti gioiosi.

Insieme a questi, molti altri ancora hanno fatto passi importanti per rafforzare la posizione del lettore nei confronti di un testo letterario

Leggere: un atto interpretativo

La lettura di un testo (qui una storia) per il lettore è iniziare un viaggio spazio-temporale verso un mondo sconosciuto, che prende forma in base all’intenzione dell’autore, al testo ed alla mente del lettore. In questo viaggio le parole, oltre ad essere significanti, fanno da tramite alle idee.

Quando si legge in una storia la frase di fronte al ponte di legno mi sono allacciato strette le scarpe, il tono predominante deriva dall’immaginazione e dall’interpretazione del lettore dell’“Io”, questo ipotetico “Io” che è una creatura sconosciuta, nata dagli stessi fattori: autore, testo e lettore. Mentre procede con la lettura, il cervello umano non solo attribuisce caratteristiche personali all’“Io”, ma ne ripete anche le parole ad alta voce, facendole risuonare. Lasciando da parte quella classe di lettori che, tendenzialmente, si immedesimano meno nell’opera o quelli che cedono al testo l’assoluta padronanza sul presente, perché sia compreso ed intrepretato, si ha una maggioranza di lettori che, immergendosi nella lettura, per ogni personaggio della storia, immaginano una certa voce da poter distinguere, scelta in base alla descrizione del carattere nel testo e all’interpretazione del lettore stesso. La scelta finale di questa voce spetta al lettore, nonostante essa possa essere descritta, nella storia, come la voce di uno specifico personaggio.

Secondo l’ipotesi di Freud sull’inconscio, questa scelta potrebbe derivare dagli impulsi sessuali. La voce di un personaggio che il lettore ritiene negativo, sicuramente si avvicina alle persone negative ch’egli avrà memorizzato nei propri ricordi. Nel paragrafo…

..ha tirato fuori di colpo la pistola che aveva nascosto sotto il vestito e ha puntato verso il proprietario del negozio e ha detto: «butta sul banco tutti i soldi e l’oro che c’è, altrimenti ti faccio scoppiare la testa!»

il lettore sente una voce nella testa che emerge, forse, dal personaggio di un film o da un’esperienza personale in una atmosfera simile. Nel paragrafo

Io ti amo, capisci? Vorrei che tu fossi mia per sempre ed io tuo

ci si trova di nuovo davanti alla medesima procedura: la voce che sentiamo nella nostra testa proviene da un ricordo o da un desiderio personale, oppure è la voce degli attori di uno spettacolo cinematografico o teatrale che abbiamo in mente. Il lettore, anche durante la lettura di una poesia procede nello stesso modo, aiutandosi con il background personale nella scelta delle voci. Se, invece, si prende in considerazione un testo più pragmatico rispetto al testo letterario, come un libro di filosofia o un articolo scientifico, ci allontaniamo notevolmente dal suddetto viaggio spazio-temporale e dall’immaginazione dei suoni, e ci accontentiamo della nostra stessa voce.

Riflettendo su quest’argomento ed analizzando il lettore dal punto di vista psicologico, a questo riguardo, possiamo dedurre la sua relativa libertà nel mondo del testo che è rimasta largamente distante dalle ideologie prevalenti sulla lingua.

Qui il lettore, al di là di qualunque interpretazione, analisi e piaceri sadistici del testo (indicati da Roland Barthes nel suo libro Il piacere del testo dove usa il termine intermittence), in base al suo gusto personale ed ai ricordi prescelti della sua vita, entra nel mondo del testo e, attribuendo delle voci ai personaggi, lo riproduce e crea il suo mondo immaginario.

Perché la flora batterica influenza il nostro comportamento?

Uno studio di Johnson e Foster dell’Università di Oxford, pubblicato su Nature Reviews Microbiology, offre una nuova prospettiva sulla relazione mente-corpo investigando i legami tra cervello, flora batterica e intestino.

 

Una crescente mole di studi sta documentando gli effetti dei microrganismi intestinali, il cosiddetto microbiota, sul cervello e sul comportamento, tanto da coniare un termine per descrivere questa relazione: asse microbiota-intestino-cervello (Rhee, Pothoulakis & Mayer, 2009).

Per esempio, studi animali hanno mostrato come il trapianto del microbiota fecale, da un ratto ad un altro, possa far sì che i tratti comportamentali del ricevente si accomunino con quelli del donatore (Bercik et al., 2011) o come i Lactobaccilli e Bifidobatteri possano ridurre sintomi ansiosi e depressivi sia negli animali che negli umani (Pinto-Sanchez, Hall et al., 2017).

In particolare è stato evidenziato come la specie dei Lactobacilli possa favorire le interazioni sociali in un gruppo di ratti sottoposto a condizioni stressanti ristabilendo la produzione compromessa di ossitocina (Bharwani, Mian, Surette et al., 2017).

È stato inoltre osservato come la specie dei Bacteroides sembrerebbe in grado di migliorare i comportamenti ripetitivi e ansiosi facilitando la produzione di uno specifico metabolita batterico (Hsiao, McBride, Hsien et al., 2013).

Sulla base di queste evidenze è lecito chiedersi quali siano i meccanismi che consentono al microbiota intestinale di influenzare il sistema nervoso e di conseguenza il comportamento e comprendere le ragioni per cui il microbiota influenza il comportamento dell’organismo ospite.

Manipolazione della flora batterica: uno studio sperimentale

A tal proposito Johnson e Foster, appartenenti la prima al dipartimento di psicologia sperimentale e l’altro a quello di zoologia di Oxford, hanno recentemente affrontato l’argomento suggerendo un’ipotesi evoluzionistica circa la manipolazione del comportamento da parte dei microorganismi batterici sull’organismo ospitante (Johnson & Foster, 2018).

Per spiegare gli effetti sul comportamento, l’ipotesi dei ricercatori prevede che essi si determinino come effetto secondario della manipolazione del microbiota sull’organismo ospitante.

Ogni tipo di manipolazione locale sull’ambiente intestinale da parte dei microorganismi produce degli effetti nel sistema neuro-enterico attraverso la comunicazione tra il sistema enterico e nervoso (Rao & Gershon, 2016). In particolare la flora intestinale sembra essere in grado di modulare la motilità intestinale tramite specifici metaboliti che, a loro volta, influenzano la produzione di serotonina nell’organismo ospitante tramite il nervo vago e i suoi neuroni afferenti (Forsythe & Kunze, 2013).

Alcuni sostengono anche che il microbiota possa influenzare il metabolismo e la disponibilità del precursore della serotonina, il triptofano che passando la barriera ematoencefalica aumenta i segnali serotoninergici nel sistema nervoso centrale (O’Mahony, Clarke, Borre et al., 2015).

Pare che la flora batterica abbia anche un ruolo cruciale nell’attivazione dei precursori della dopamina e della noradrenalina nell’intestino (Asano, Hiramoto et al., 2012).

Il microbiota può determinare degli effetti sull’umore e sul comportamento dell’organismo ospitante non solo tramite le connessioni dell’asse microbiota-intestino-cervello ma anche agendo sul sistema infiammatorio riducendo le risposte infiammatorie. Uno studio animale condotto da De Palma e colleghi (2017) ha evidenziato come un gruppo di topi, a seguito del trapianto di microorganismi fecali provenienti da animali con sindrome dell’intestino irritabile, mostrassero un comportamento ansioso solo quando in loro si attivava una risposta immunitaria.

Conclusioni

La raccolta di questi studi ha messo in luce i meccanismi, tramite i neurotrasmettitori e i collegamenti con il sistema immunitario, che consentono al microbiota di influenzare il comportamento dell’organismo ospitante.

Tuttavia Johnson & Foster (2018) hanno suggerito che queste influenze del microbiota possano essere dovute a quella che loro definiscono la “dipendenza dell’organismo ospitante”, per cui quest’ultimo sviluppa una dipendenza nei confronti del microbiota, dipendenza che occorre all’organismo per rispondere agli stati di malattia e relativi alla nutrizione.

Seguendo questa idea, per i ricercatori (2018) il normale funzionamento fisiologico dell’organismo ospitante dipenderebbe dal microbiota che fornisce all’organismo stesso informazioni circa lo stato relativo alla sua nutrizione, al senso di sazietà e al cibo.

L’organismo necessita di alcune informazioni basilari per poter sopravvivere e molte di queste provengono dall’asse microbioma-intestino-cervello; pertanto qualsiasi alterazione della composizione del microbioma intestinale, come nel caso dell’assunzione di antibiotici o una contaminazione batterica patogena, è associata a dei cambiamenti a livello delle funzioni cerebrali e del comportamento (Johnson & Foster, 2018). Da qui l’idea che alcuni ceppi di probiotici possano essere usati per migliorare e favorire la salute mentale (Wallace & Milev, 2017).

Festa in onore del Prof. Ezio Sanavio

È stata una bella celebrazione quella del 9 maggio in onore di Ezio Sanavio che chiudeva la sua carriera accademica. La festa è avvenuta nell’aula magna “Cesare Musatti” dell’Università di Padova dove il prof. Sanavio ha insegnato fino a quest’anno.

Di fronte alla platea sono sfilati amici e colleghi del professore, ora professori illustri e ora clinici dediti all’artigianato del lavoro sul campo. Tutti hanno raccontato sia ricordi personali, ora commossi e ora divertenti, che i risultati scientifici e clinici di un lavoro pluridecennale. Dagli inizi della psicoterapia cognitiva e comportamentale italiana ai giorni nostri, tutto è stato narrato senza risparmiare nulla.

Abbiamo così appreso che malgrado il grande successo internazionale del Padua Inventory- uno dei pochi questionari non provenienti da un paese anglo-sassone diventati un golden standard dell’accertamento cognitivo comportamentale- il prof. Ezio Sanavio detesta i test e non tiene in gran conto questo che è il suo prodotto scientifico più famoso. Un po’ come Petrarca, se ci perdonate la sorridente ironia di paragonare il prof. Sanavio al grande poeta, che sottovalutava il suo capolavoro, il Canzoniere, a favore di altre opere meno note. E però è bene anche dare ascolto al professore e porre attenzione a questi suoi figli meno noti, prima di tutti il CBA (cognitive behavioural assessment), il pacchetto di valutazione e accertamento cognitivo di cui è così orgoglioso (Sanavio, 2002). Oppure il manuale del 1991, una delle opere più esaustive sulla psicoterapia cognitiva e comportamentale.

Lo raccontano Davide Dettore, Paolo Moderato e Sandra Sassaroli, tra i colleghi più noti a festeggiarlo. Lo raccontano anche le colleghe del suo staff clinico Susanna Pizzo e Silvana Cilia, e infine i suoi allievi più giovani, Davide Coradeschi, o i colleghi clinici come Emilio Franceschina. E anche quelli anziani che hanno condiviso con lui perfino gli anni di università, come Cesare Cornoldi, suo coinquilino negli anni di studio.

Una carriera compiuta insomma, fondamentale nell’introdurre in Italia i concetti prima del funzionalismo comportamentale e poi della terapia cognitiva e comportamentale, attenta a custodire i principi più rigorosi di questo approccio ma anche ad aprirsi alle integrazioni nel senso migliore del termine o ai nuovi sviluppi di scuola processuale.


Sandra Sassaroli intervista il Prof. Ezio Sanavio per State of Mind:

 

Il Coping Power Program per il trattamento multimodale del bambino difficile

Il Coping Power Program (CPP) è un programma di intervento di prevenzione secondaria e trattamento multimodale di comprovata efficacia rivolto alle famiglie e ai bambini di età compresa tra i 7 e i 14 anni per la gestione ed il controllo dell’aggressività, dell’impulsività e della rabbia.

Alessandra Bulgarelli, Elisa Lai – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze

 

Il Coping Power Program (CPP) (Lochman e Wells, 2002) è un programma di intervento di prevenzione secondaria e trattamento multimodale di comprovata efficacia (Lochman e Wells, 2004; van de Wiel et al., 2007; Zonnevyelle-Bender et al., 2007) rivolto alle famiglie e ai bambini di età compresa tra i 7 e i 14 anni per la gestione ed il controllo dell’aggressività, dell’impulsività e della rabbia.

Coping Power Program: le basi teoriche

Le basi teoriche del Coping Power Program, di matrice cognitivo-comportamentale e derivato dagli studi sull’eziologia dell’aggressività, sono fondate sul Contextual Social-Cognitive Model (Lochman e Wells, 2002). Tale modello teorico vede l’aggressività del bambino come la risultante diretta e/o indiretta di fattori di rischio ambientale sia sociale che legati al contesto familiare come ad esempio la presenza di conflitti tra i coniugi, depressione nella madre, rifiuto materno, stili educativi eccessivamente permissivi o autoritari, scarso supporto sociale, abuso familiare o extrafamiliare, maltrattamento, contesto urbano o culturale di tipo delinquenziale, basso stato socio economico ecc. (Lochman et al., 2008).

Secondo questo modello i fattori di rischio biologici (fattori genetici, complicanze neonatali, anomalie neurotrasmettitoriali, fattori genetici e temperamentali ecc) conducono allo sviluppo di un disturbo del comportamento dirompente in età evolutiva, esclusivamente se associati ai fattori di rischio ambientali sopracitati.

L’iterazione dei fattori di rischio biologici ed ambientali predispongono lo sviluppo di una modalità di elaborazione dell’informazione sociale distorta e deficitaria che induce il bambino (prevalentemente) a percepire e valutare i segnali sociali interpersonali come ostili e a reagirvi con condotte comportamentali aggressive (Lochman e Dodge, 1994); e inoltre a sviluppare delle strategie di Problem Solving interpersonale scarse ed inefficaci che gli inducono a valutare l’aggressività come l’unica e la più efficace possibilità da utilizzare per la modulazione emotiva e per la regolazione delle relazioni interpersonali (Lochman e Lenhart, 1993; Lochman e Wells, 2003). Più nello specifico tale modello teorico prevede, innanzi alla “situazione problema”, una continua e dinamica interazione reciproca tra:

  1. Lo stile cognitivo di valutazione (Appraisal);
  2. L’attivazione fisiologica indotta (Arousal);
  3. La risposta comportamentale attuata per fronteggiare la situazione (Problem Solving) (Williams et al., 2003).

Partendo dal modello teorico appena descritto gli autori svilupparono nel 1993 l’Anger Coping Program, un programma di gruppo di gestione della rabbia rivolto esclusivamente ai bambini, che è stato recentemente modificato ed ampliato, introducendo anche delle sessioni di gruppo di Parent Training, per originare il Coping Power Program (Lochman e Wells, 2002). Sebbene fosse stato originariamente ideato per l’applicazione al contesto scolastico viene utilizzato, attualmente con ottimi risultati, in numerosi contesti clinici europei (Van de Wiel et al., 2007; Zonnevylle-Bender et al., 2007).

Coping Power Program: la struttura degli interventi

Come già accennato precedentemente il Copig Power Program prevede anche una componente per genitori; il lettore interessato a questa ha a disposizione svariati articoli presenti in letteratura. (Muratori, Polidori, Ruglioni, Manfredi, Milone e Lambruschi, 2010; Muratori, Vaccaro, Farinella, Manfredi, Polidori, Ruglioni, Pezzica e Milone, 2012) e sul manuale CPP (Lochman et al., 2012).

Il Coping Power Program è un trattamento multimodale effettuato in setting di gruppo. Per quanto riguarda la struttura degli interventi con i bambini, il Coping Power Program si propone di sostenere i bambini nel modulare i segnali fisiologici delle emozioni e in particolare della rabbia, nel riconoscere il punto di vista altrui (perspective taking) nell’acquisire strategie per un maggior autocontrollo nel risolvere in modo adeguato situazioni conflittuali attraverso l’apprendimento di abilità sociali e di problem solving. Inoltre è previsto l’utilizzo di contratti comportamentali (chiamati “traguardi”) in cui vengono stabiliti obiettivi minimi scolastici (individuati durante gli incontri con insegnanti) al cui raggiungimento è associato un sistema a premi.

Tra i principali strumenti che vengono impiegati dal Coping Power Program si annoverano l’interazione di ogni partecipante con il gruppo dei pari e il role-playing. In particolar modo, il percorso di trattamento si basa su numerose attività di “provocazione strutturata” in cui i membri del gruppo fungono da attivatori emotivi per il bambino che in quel momento si sta esercitando nell’applicazione, ad esempio, di una tecnica di auto-controllo al fine di incrementare in vivo, durante una situazione in cui il bambino è emotivamente attivato, l’apprendimento delle tecniche di gestione della rabbia.

La componente dedicata ai genitori, invece, è strutturata in incontri di gruppo strutturati in sessioni di Parent Training che hanno l’obiettivo di sviluppare e potenziare le competenze genitoriali relative a diverse aree quali: la promozione dell’organizzazione e delle abilità di studio, la modulazione dello stress genitoriale, l’utilizzo di appropriate pratiche educative, l’incremento della comunicazione famigliare e la progettazione di momenti di condivisione con i figli.

 

Il modello trifasico di Pierre Janet per il trattamento del trauma

A Pierre Janet (1989/1911) si deve l’introduzione del Modello Trifasico: egli infatti, considerato oggi il padre della psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente.

 

Il trattamento delle sindromi trauma-correlate (PTSD, PTSD complesso, Disturbi Dissociativi) vede nel panorama scientifico attuale molti strumenti clinici dedicati e validati scientificamente per lavorare con pazienti che hanno vissuto storie di grave traumatizzazione.

Il nucleo centrale dei disturbi dissociativi è costituito infatti dalla “non realizzazione”, parziale o completa, degli eventi traumatici vissuti. La non realizzazione è più intensa nei casi di grave traumatizzazione avvenuta nell’infanzia, ma può essere molto persistente anche a seguito di eventi di minaccia alla vita vissuti in età adulta.

Questa “non realizzazione” è la principale causa della sintomatologia, poiché da un lato offre una difesa dal dolore, ma allo stesso tempo alimenta la divisione interna (dissociazione) peggiorando la sofferenza psicologica e il funzionamento della persona nella vita quotidiana, sia sul piano personale che relazionale. La cornice di lavoro è molto variabile a seconda della gravità della sintomatologia e dei rischi per il paziente, dunque è necessario rendere il percorso di cura graduale e adeguato alle capacità di elaborazione e di tolleranza emotiva che le persone portano in psicoterapia.

Pierre Janet (1989/1911), padre della moderna psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente. Da allora questo modello, detto Modello Trifasico, è rimasto lo standard di cura per il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso e per i Disturbi Dissociativi (Brown e Fromm, 1986; Courtois, 1999,2008; Herman, 1997; Howell, 2011; International Society for the Study of Trauma and Dissociation-ISSTD, 2011; Loewenstein e Welzant, 2010; van der Hart, 2006).

Modello trifasico

  • Fase 1 del Modello Trifasico: stabilizzazione
    Gli obiettivi terapeutici di questa fase riguardano la riduzione dei sintomi, la stabilizzazione del funzionamento nella vita quotidiana, l’iniziale lavoro di creazione di un’ alleanza terapeutica, l’iniziale lavoro di riconoscimento della parti dissociative e il contenimento delle emozioni soverchianti legate ai ricordi traumatici. La cura di sé, delle relazioni e delle principali attività quotidiane sono centrali in questa fase per aumentare senso di controllo e di autoefficacia nella gestione quotidiana.
  • Fase 2 del Modello Trifasico: elaborazione delle memorie traumatiche
    In questa fase il lavoro terapeutico è centrato sull’elaborazione dei ricordi traumatici, attraverso episodi specifici, immagini, aspetti sensoriali e cognitivi delle esperienze passate. L’integrazione dei ricordi traumatici che di volta in volta la persona riesce a tollerare, verso la soluzione dei legami di attaccamento disfunzionali con gli aggressori e verso la risoluzione delle fobie tra le parti dissociative, al fine di aiutarle ad essere più orientate al presente, riconoscendo i legami ma anche la distanza del passato traumatico rispetto alla vita quotidiana.
  • Fase 3 del Modello Trifasico: intergrazione della personalità e riabilitazione
    Gli obiettivi terapeutici di questa fase sono: rafforzare le risorse, accettare il cambiamento e il lutto per le perdite del passato, costruire relazioni più funzionali e nutritive, sviluppare un senso di sé unificato e costruire le capacità di vivere pienamente la vita quotidiana.

 

Le conseguenze psicologiche e psichiatriche della disoccupazione

Differenti ricerche hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una condizione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità. Inoltre, in condizioni di disoccupazione di lunga durata bisogna dare supporto con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato.

 

Attualmente molte persone in Europa vivono l’esperienza della perdita del lavoro, seguita da un periodo più o meno lungo di disoccupazione. Differenti ricerche negli ultimi anni si sono occupate di evidenziare le correlazioni che esistono fra disoccupazione e benessere personale. Studi epidemiologici svolti in ambito europeo e statunitense hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una situazione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità. Recenti ricerche hanno messo in evidenza che nella disoccupazione di lunga durata non solo bisogna dare supporto con gli ammortizzatori previsti dallo stato sociale, ma anche con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato. Questi interventi, afferenti all’ambito cognitivo – comportamentale, devono incrementare l’autoregolazione emotiva, le abilità comunicazionali e le capacità di coping, ritenuti fondamentali per il mantenimento del benessere nei momenti di difficoltà.

Keywords: recessione, disoccupazione, benessere, patologie mentali, autoregolazione emotiva, abilità comunicazionali, capacità di coping.

Disoccupazione e psicopatologia

Attualmente molte persone in Europa vivono l’esperienza della perdita del lavoro, seguita da un periodo più o meno lungo di disoccupazione. In alcuni paesi dell’Unione Europea la disoccupazione si attesta su valori percentuali abbastanza elevati, raggiungendo altissime percentuali per quel che riguarda la popolazione giovanile, la fascia di età al di sotto dei 25 anni. Differenti ricerche negli ultimi anni hanno evidenziato le correlazioni che esistono fra disoccupazione e benessere personale. Studi epidemiologici svolti in ambito europeo e statunitense hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una situazione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità (Harvey Brenner, 2016). Nello specifico, una disoccupazione di lunga durata è interrelata con un aumento del rischio di malattie cardiache, di ictus, di malattie mentali e incrementa, inoltre, la probabilità di suicidio (Vågerö e Garcy, 2016; Myles e al., 2017; Garcia e al., 2016).

Una condizione di minor introito economico, derivante dalla mancanza di lavoro, di fatto determina un minor ricorso ai percorsi di cura, ovvero il disoccupato di lunga durata sa di non avere le risorse per potersi curare. Questa consapevolezza ha degli effetti negativi sulla salute mentale, determinando sintomi depressivi, disturbi psicosomatici e abuso di alcol e droghe (Stuckler e al., 2009). Inoltre, il più basso livello di entrate, il più delle volte sotto forma di sussidi statali, produce delle ripercussioni a largo raggio sulla famiglia del disoccupato di lunga durata. Specificatamente, i figli dei disoccupati accedono a livelli più bassi d’istruzione e questo ha un riverbero sulla successiva possibilità d’impiego, creando nella prole un incremento della possibilità di divenire a propria volta disoccupati. Infatti, nella perdita del lavoro le prime categorie ad essere colpite sono quelle che presentano una bassa specializzazione, derivante da una minore istruzione (Stuckler e al., 2009).

Disoccupazione e interventi a supporto della salute mentale

Recenti ricerche hanno messo in evidenza che nella disoccupazione di lunga durata non solo bisogna dare supporto con gli ammortizzatori previsti dallo stato sociale, ma anche con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato (Urbanos-Garrido e Lopez-Valcarcel, 2015). A tal riguardo, sono stati sollecitati nelle economie europee più deboli degli interventi di questo tipo con l’obiettivo di preservare il benessere dei disoccupati (Santos e al., 2018). In tale ambito gli uomini appaiono più vulnerabili (Classen e Dunn, 2012): infatti, la condizione maschile di disoccupazione incrementa la disgregazione del nucleo familiare, con frequenti divorzi (Jalovaara, 2002), episodi di violenza domestica (Bowlus e Seitz, 2006) e un maggior numero di suicidi all’interno del nucleo familiare (Milner e al., 2013).

Gli interventi proposti, afferenti all’ambito cognitivo – comportamentale, devono incrementare l’autoregolazione emotiva e le abilità comunicazionali, ritenuti fondamentali per il mantenimento del benessere nei momenti di difficoltà (Creed, Machin e Hicks, 1999). In aggiunta, tali programmi di supporto psicologico devono implementare le capacità di coping di ogni disoccupato: infatti, moltissime ricerche (Blau e al., 2013; Sadeh e Karniol, 2012; Sojo e Guarino, 2011) hanno sottolineato che gli individui che hanno perso il lavoro mantengono più a lungo il loro benessere in funzione delle capacità di coping che posseggono.

In conclusione, gli Stati più colpiti dai processi recessivi in ambito economico, con conseguente incremento del numero dei disoccupati, dovrebbero approntare, oltre che degli ammortizzatori sociali, anche degli interventi terapeutici volti a salvaguardare il benessere dei disoccupati.

Trattamento delle fobie: è possibile utilizzare la tecnica dell’esposizione senza che il paziente ne sia consapevole?

Nonostante l’ esposizione sia la tecnica d’elezione nel trattamento della fobia specifica e di altri sintomi ansiosi, spesso rappresenta per i pazienti un ostacolo troppo grande determinando anche l’interruzione del percorso terapeutico.

 

Un recente studio di Taschereau-Dumouchel, Cortese, Chiba, Knotts e colleghi, apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha testato la possibilità di utilizzare la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e metodi di rinforzo neurale su pazienti, per ridurre l’attivazione psicofisiologia fobica senza la necessità di esporli direttamente nel contesto modificando in modo inconsapevole l’attività neurale.

La terapia basata sull’ esposizione è uno degli approcci più efficaci nel ridurre l’ansia, il panico e i comportamenti di evitamento nei confronti di specifici oggetti, situazioni o contesti, come nel caso della fobia specifica (Craske, 2014).

L’ esposizione è una tecnica che consiste nel far entrare in contatto l’individuo con ciò che più teme per consentirgli di esperire gli stati d’ansia e paura, estremamente invalidanti e spiacevoli, che solitamente la situazione elicita e che egli vive come intollerabili. L’obiettivo di tale tecnica, infatti, è quello di dimostrare all’individuo ansioso che è possibile fronteggiare la situazione fobica e sopravvivere a quegli stati psicofisiologici che lo mettono molto a disagio, modificando al contempo le proprie credenze disfunzionali circa l’impossibilità di far fronte a quello stimolo avversivo.

L’ esposizione risulta essere efficace nei confronti dei disturbi d’ansia in quanto consente all’individuo di apprendere che affrontando la sua paura non accadrà nulla di spaventoso, prendendo consapevolezza delle proprie risorse (Craske, 2014).

Lo scopo di tutto questo è ridurre le reazioni di ansia e paura e contrastare i comportamenti di evitamento che i pazienti ritengono essere le uniche soluzioni praticabili per non esperire più quegli stati psicofisiologici così negativi.

Proprio per queste ragioni spesso l’ esposizione si presenta come una sfida non facile da affrontare e molti pazienti, nonostante siano guidati gradualmente da psicoterapeuti, interrompono prematuramente il percorso terapeutico a causa delle prime difficoltà che sorgono: essi infatti sono poco motivati a voler riprovare le sensazioni sgradevoli che gli stimoli avversivi evocano in loro, nonostante siano assolutamente consapevoli, grazie alla psicoeducazione, che questo sia l’unico modo per ridurre l’ansia, la paura e per riappropriarsi della propria esistenza.

Esposizione: è possibile praticarla senza che il soggetto ne sia consapevole?

È possibile dunque esporre il soggetto al proprio stimolo fobico, senza che egli ne sia consapevole, evitando così che abbandoni il percorso di terapia?

Taschereau-Dumouchel e colleghi (2018) hanno voluto testare questa ipotesi utilizzando un metodo chiamato iperallineamento e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per verificare l’efficacia pre e post-trattamento.

Nello specifico, lo scopo dello studio sperimentale, condotto in doppio-cieco in sei sessioni, è stato quello di sviluppare un metodo del tutto inconsapevole in grado di “riprogrammare” le risposte psicofisiologiche elicitate dagli stimoli avversivi bypassando il disagio psicofisiologico causato da un’ esposizione fatta in modo consapevole.

Per lo studio sono stati reclutati 29 partecipanti subclinici e sono state presentate loro più di 3 mila immagini, alcune delle quali emotigene, cioè in grado di elicitare nei soggetti un certo livello di arousal, altre aventi invece una valenza neutra. Ciò ha consentito ai ricercatori di confrontare, iperallineare, tramite risonanza magnetica funzionale, l’attivazione fisiologica legata a specifiche immagini emotigene con specifici pattern cerebrali coinvolti nel processamento di stimoli fobici ed ottenere dei profili legati alla paura relativi a determinate immagini (Taschereau-Dumouchel et al., 2018).

Un passo oltre: cosa succede in pazienti con diagnosi di fobia specifica?

A seguito della costruzione di questi profili “di paura” tramite l’iperallineamento, i ricercatori hanno voluto testare se fosse possibile generalizzare questi profili a pazienti con una diagnosi di fobia specifica e al tempo stesso verificare l’accuratezza dell’iperallineamento.

Per testare tale ipotesi, i ricercatori hanno reclutato 17 pazienti con fobia specifica, in particolare di animali (serpenti ecc.), che sono stati sottoposti a sei sessioni, distribuite in 5 giorni, di cosiddetto “rinforzo neurale” nelle quali i partecipanti osservavano solo le immagini neutre a seguito di un rinforzo monetario.

In queste sessioni di rinforzo, i ricercatori hanno allineato i pattern di attivazione neurale con le medie delle risposte neurali registrate nei soggetti subclinici con le immagini emotigene (Taschereau-Dumouchel et al., 2018). È bene sottolineare che per tutta la durata delle sessioni ai soggetti veniva misurata la conduttanza cutanea come misura fisiologica dell’arousal emotivo.

Dopo le sei sessioni di training, nei pazienti si è osservata una riduzione dell’arousal fisiologico e amigdalico suggerendo una diminuzione generale delle reazioni legate alla paura, senza però che ad essi fossero mai presentate immagini emotigene-avversive (Taschereau-Dumouchel et al., 2018).

Dal momento che lo studio è stato condotto in doppio cieco, nessun partecipante era a conoscenza dell’intento dello studio.

Conclusioni

In conclusione, al di là della complessità della metodologia proposta dallo studio, Taschereau-Dumouchel e colleghi (2018) hanno investigato l’opportunità di utilizzare i recenti sviluppi della risonanza magnetica funzionale per creare un nuovo metodo basato sull’attivazione e sul rinforzo neurale da utilizzare negli approcci psicoterapeutici per i disturbi d’ansia.

Questo studio, per primo, ha evidenziato come le risposte fisiologiche specifiche legate alle paura possono essere ridotte in modo inconsapevole tramite la tecnica dell’iperallineamento senza esporre l’individuo a stimoli fobici.

Preoccupazioni per il peso o la forma del corpo, paura di aumentare di peso, sentirsi grasso e esiti del trattamento in pazienti con anoressia nervosa: uno studio longitudinale

Nel campo dei disturbi dell’ alimentazione la ricerca non ha ancora chiarito se la preoccupazione per l’immagine corporea rappresenti una caratteristica chiave della psicopatologia o più semplicemente un epifenomeno.

Selvaggia Sermattei

 

Infatti, mentre alcuni autori hanno recentemente proposto di considerare l’ anoressia nervosa (AN) come un mero disturbo dell’ immagine corporea, altri ritengono che questa concettualizzazione sia riduttiva e semplicistica rispetto alla natura multifattoriale del problema. Per quanto la revisione della storia del disturbo mostri come la paura del peso sia stata descritta raramente fino al 1930, ad oggi, c’è evidenza in letteratura della relazione fra il timore di aumentare di peso e un più alto livello di psicopatologia nell’ anoressia nervosa e sul ruolo della preoccupazione per l’immagine corporea nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione.

Di fatto, la moderna teoria transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione considera la preoccupazione per l’immagine corporea una caratteristica clinica che deriva direttamente dall’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, cioè dalla psicopatologia specifica e centrale della maggior parte dei disturbi dell’alimentazione. Sulla base di questo presupposto, la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E), derivata dalla teoria stessa e che ha un’efficacia basata sull’evidenza scientifica, mira proprio ad affrontare queste caratteristiche.

Tuttavia, pochi studi, ad oggi, hanno valutato le principali componenti cognitive della preoccupazione per l’immagine corporea (“Preoccupazione per il peso o la forma del corpo”, “Paura di aumentare di peso”, “Sentirsi grassi”) e nessuno studio ha analizzato il loro ruolo nell’influenzare gli esiti a lungo termine in pazienti con disturbo dell’alimentazione trattati con la CBT-E.

Le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea: il ruolo nel mantenimento dei DCA e negli esiti del trattamento

Al fine di fornire ulteriori dati utili al riguardo, l’equipe di ricerca della Casa di Cura Villa Garda ha recentemente effettuato e pubblicato sulla prestigiosa rivista Behaviour Research and Therapy, uno studio con i seguenti obiettivi:

  • Valutare le traiettorie di cambiamento nel tempo delle tre principali componenti della preoccupazione per l’immagine corporea (“Preoccupazione per il peso o la forma del corpo”, “Paura di aumentare di peso” e “Sentirsi grassi”) in pazienti con anoressia nervosa trattati con la CBT-E ospedaliera;
  • Valutare la relazione fra i cambiamenti nel tempo delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea e il cambiamento delle principali misure di esito del trattamento, cioè Indice di Massa Corporea (IMC), psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione (misurata con l’EDE 12.0, in particolare considerando le sottoscale Restrizione Dietetica e Preoccupazione per l’Alimentazione), psicopatologia generale (misurata con il Brief Symptom Inventory) e funzionamento sociale e lavorativo (misurato con la Work and Social Adjustment Scale);
  • Valutare se le tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea (misurate al basale e a fine terapia) possano essere considerate predittrici del cambiamento a lungo termine delle misure di esito della CBT-E.

Il campione è stato reclutato fra i pazienti con diagnosi di Anoressia Nervosa secondo il DSM-IV (ad eccezione del criterio dell’amenorrea) che richiedevano un trattamento presso l’Unità di Riabilitazione Nutrizionale di Villa Garda, che propone una forma di CBT-E adattata per il ricovero della durata di 20 settimane (di cui 13 di ospedalizzazione e 7 di day-hospital). Costituivano criterio di esclusione dallo studio la presenza, in comorbilità con l’AN, di uno stato psicotico acuto o di abuso di sostanze continuativo in atto.

Tutte le valutazioni (sia delle misure di esito della terapia sia delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea, misurate attraverso singoli item dell’EDE) sono state effettuate al momento del ricovero (basale), alla dimissione (fine terapia), a 6 e 12 mesi di follow-up. Il campione è costituito da 66 pazienti con AN, di cui 98% donne, con un’età media di 26.1 anni (DS=5.9) e un IMC al basale di 14.7 kg/m² (DS=2.1). L’84.8% ha concluso il trattamento, tutti i pazienti hanno completato il follow-up a 6 mesi e il 92.9% lo ha concluso a 12 mesi.

I risultati indicano che al basale, le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea correlano con la psicopatologia generica e specifica.

In particolare, la “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo” correla significativamente con i punteggi della psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione (in particolare con la sottoscala dell’EDE “Preoccupazione per l’Alimentazione”), la psicopatologia generale e il funzionamento sociale e lavorativo.

La “Paura di aumentare di peso” correla significativamente con le stesse variabili, e anche con la sottoscala dell’EDE “Restrizione Dietetica”.

Il “Sentirsi grassi” correla positivamente con l’IMC, la Preoccupazione per l’Alimentazione e la psicopatologia generale.

Per quanto riguarda gli esiti del trattamento, i risultati mostrano che tutte le variabili considerate ottengono un miglioramento significativo, con una traiettoria di cambiamento più rapida inizialmente (durante il ricovero) e successivamente più lenta (dopo la fine della terapia).

Quando le tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea sono state considerate come possibili predittori di esito, è stato riscontrato che la “Preoccupazione per il peso o la forma del corpo” predice il cambiamento della preoccupazione per l’Alimentazione, la psicopatologia generale e il funzionamento sociale e lavorativo.

L’analisi dell’associazione tra le traiettorie di cambiamento nel tempo, indica che alla riduzione della “Paura di aumentare di peso” corrisponde una riduzione della Restrizione Dietetica, e viceversa.

Infine, l’analisi di regressione univariata mostra che più bassi punteggi della “Paura di aumentare di peso” al basale predicono un peso salutare sia a 6 che a 12 mesi di follow-up e che più bassi punteggi a fine terapia in tutte e tre le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea predicono un peso salutare (IMC>18.5) a 6 mesi di follow-up.

Nel complesso, questi risultati contribuiscono senza dubbio al miglioramento delle nostre conoscenze sulle diverse componenti della preoccupazione per l’immagine corporea in pazienti con AN e sulla loro interazione con le principali misure di esito della CBT-E ospedaliera.

In particolare, i risultati delle correlazioni al basale che indicano, che una maggiore sensazione di essere grassi è associata ad un peso più alto, fornisce un’informazione aggiuntiva alla comprensione della psicopatologia dell’ Anoressia Nervosa.

Un ulteriore dato importante che lo studio fornisce, riguarda la conferma dell’efficacia della CBT-E ospedaliera nell’ottenere buoni risultati in tutte le misure di esito oltre che una riduzione significativa delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea dal basale ai 12 mesi di follow-up. Questo dato, risulta essere in linea con precedenti studi che avevano indagato la riduzione della distorsione dell’immagine corporea e delle preoccupazioni per il peso e le forme del corpo, ma bisogna considerare che comunque questo è il primo studio ad indagare specificatamente le tre componenti e a provarne la loro significativa riduzione nel tempo. Gli autori ipotizzano che questo risultato sia da attribuire all’efficacia delle procedure che la CBT-E prevede per affrontare le espressioni della psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione. Inoltre, i risultati delle traiettorie di cambiamento delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea, che, se pure con una decelerazione, continuano a migliorare dopo la dimissione, sono in linea con i risultati attesi dalla CBT-E che fornisce strategie utili ad affrontare le preoccupazioni anche dopo la fine della terapia.

Il risultato che indica che una maggior preoccupazione per il peso o la forma del corpo al basale predice un più lento cambiamento nel tempo delle preoccupazioni per l’alimentazione, della psicopatologia generale e della compromissione del funzionamento sociale e lavorativo, se confermato, può indicare che le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo effettivamente, giocano un ruolo importante nella psicopatologia dell’AN e quindi dovrebbero sempre essere valutate e affrontate dai trattamenti.

Ulteriore importanza è da attribuire all’associazione riscontrata fra il miglioramento nel tempo della paura di aumentare di peso e il miglioramento della restrizione dietetica. Infatti, nonostante lo studio non sia in grado di fornire una direzionalità a questa correlazione, gli autori ipotizzano che quest’ultima può essere ridotta direttamente dall’affrontare la restrizione dietetica, dato che la CBT-E affronta direttamente la restrizione dietetica ma non la paura di aumentare di peso.

Infine, il potere predittivo che le tre componenti sembrano avere nella possibilità di ottenere un peso salutare a lungo termine conferma la necessità di monitorare la preoccupazione per l’immagine corporea e suggerisce che le strategie designate ad affrontare queste caratteristiche durante il trattamento dovrebbero essere migliorate per i pazienti con Anoressia Nervosa.

Lo studio pur presentando alcune limitazioni (come la bassa numerosità del campione o la valutazione delle componenti dell’immagine corporea utilizzando un solo item per componente) fornisce senza dubbio un contributo importante alla comprensione dei meccanismi di mantenimento della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione suggerendo che la CBT-E ospedaliera è in grado di produrre una riduzione significativa e duratura della preoccupazione per l’immagine corporea. Inoltre, questi dati forniscono supporto all’ipotesi della preoccupazione per l’immagine corporea come una caratteristica chiave della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione e non come un mero epifenomeno. Gli autori concludono incoraggiando i clinici che si occupano di pazienti con Anoressia Nervosa ad attuare terapie che abbiano come specifico focus di trattamento il miglioramento di questa caratteristica clinica e auspicano che ricerche future possano confermare questi dati e soprattutto far luce sui meccanismi attraverso i quali la preoccupazione per l’immagine corporea si modifica durante il trattamento.

 

L’ insegnante narcisista e le dinamiche dannose con i colleghi e gli alunni

L’ insegnante dai tratti di personalità narcisistica attiva con i colleghi e con gli alunni alcune dinamiche dannose. E’ necessario riconoscerle e supportare gli studenti.

 

I più recenti fatti di cronaca (Gazzetta di Parma; Il resto del Carlino; Il Fatto Quotidiano) occorsi nell’ambito del contesto scolastico hanno acceso ampie discussioni sulle ragioni per cui alcuni studenti si legittimino tanto facilmente ad agire pesanti aggressioni contro il personale docente e l’Istituzione educativa. 

Adolescenti, società narcisista e famiglia

Gli esperti e la letteratura (Twenge, 2006; Millon e Davis, 2000; Beck e al., 1990; Recalcati, 2013) identificano alternativamente variabili psicologiche, familiari, sociologiche e pedagogiche. Alcuni autori argomentano che l’attuale società sia prevalentemente orientata verso valori di tipo narcisistico ( Lasch, 1978; Recalcati, 2013; Paris, 2014 ), sposando i quali il ragazzo si presenterebbe autocentrato, si attenderebbe un accesso facile alle fonti di piacere ed immediate gratificazioni, pretenderebbe indulgenza, uno sgravio dalle frustrazioni e dalle responsabilità ed esprimerebbe per lo più con il suo comportamento consumistico ed iperconnesso un mancato interesse e rispetto per l’Alterità.

Le principali problematicità dell’adolescente nella società odierna si concentrano intorno al culto del corpo e della visibilità, all’intolleranza per la critica e per il conferimento del limite, alla gestione delle emozioni nella intersoggettività e alla difficoltà di individuazione di una direzione progettuale definita. Tale caratterizzazione socio-psicologica non facilita nel contesto scolastico di scuola secondaria inferiore e superiore l’educazione a dismettere l’onnipotenza, ad ammettere l’esistenza di un Altro e ad accettare la disconferma, l’insuccesso o l’imperfezione.

La posizione dei docenti si fa ancora più difficile allorché la famiglia si ponga in maniera intrusiva e disconfermante come alleata del figlio, impegnata a che non sperimenti sofferenza; in tal caso è facile che vengano rintracciate nell’opera del personale educativo scolastico le cause del disadattamento o della scarsa prestazione filiale, finendo con il rinforzare l’ipersensibilità del ragazzo alla valutazione stessa.

Oggi si sottolinea da più parti quanto sia divenuto arduo il mestiere dell’insegnante al pari di quello del genitore, dal momento che ambedue le figure rivestono lo scomodo ruolo di chi pone un contenimento alla pulsionalità, di chi formula un giudizio, di chi si sforza di inoculare la passione per l’impegno e la progettualità.

L’ insegnante narcisista

Ma cosa accade quando ad essere portatrice di tratti di personalità narcisistica è proprio la figura del docente? Come può avvenire che i tratti di colui che dovrebbe rappresentare un modello e che si pone come potenziale oggetto di emulazione o soggetto ispiratore si traducano nell’impossibilità di apprendere serenamente per il gruppo classe o per alcuni allievi, in una coartazione della creatività, in limitazioni più o meno ampie all’espressione libera del Sé, in un’assunzione di potere inoppugnabile e tirannica o in autolegittimazioni a palesare manifestazioni o contenuti poco congrui con il contesto dell’apprendimento? Come riconoscere l’ insegnante narcisista e quali strategie possono essere suggerite per arginare la sua onnipotenza?

Il contesto educativo inevitabilmente comporta dinamiche di rispecchiamento che possono promuovere o inibire la crescita dell’alunno. Ma il cuore della pedagogia narcisistica vede l’insegnante sperimentare gli studenti non come il centro della propria attività ma come una parte di se stesso: l’oggetto di investimento affettivo sarebbe idealizzato quando lo studente rispecchia in toto il docente ed abbandonato quando egli gli si discosta in qualche modo (C. L. Hess, 2003).

La letteratura più recente mostra come tratti di personalità narcisistica del docente possano pesantemente influenzare gli esiti dell’apprendimento e della formazione educativa dei singoli alunni, come pure il clima vigente nel gruppo-classe ed il successo dell’Istituzione scolastica in cui egli è inserito (Jandaghi G. e al., 2015; Westerman J.W. e al., 2016).

In Narcissism in Management Education, J.Z. Bergman, J.W. Westerman e J.P. Daly, dell’Appalachian State University (2010), riconoscono come tanto nelle organizzazioni professionali, quanto in quelle educative, la grandiosità, la mancanza di empatia, la pretesa di godere di trattamenti di favore e privilegi, combinati con l’autorità derivata dal ricoprire una posizione di potere, possa tradursi nell’operato di individui che più facilmente distruggono l’educazione morale e la motivazione, impegnati come sono a tutelarsi da offese percepite e a denigrare le idee altrui al fine di recuperare il focus su di sé. I narcisisti al potere sperimenterebbero altresì una profonda fallacia nel processo di decision making: essi non tollererebbero facilmente chi dissente e spesso si circonderebbero di adulatori, dipendenti in toto dal pensiero del leader. I narcisisti avrebbero inoltre difficoltà ad integrare nuove conoscenze e ad apprendere dagli errori, nel senso che difficilmente mostrerebbero oggettività di pensiero, prenderebbero in considerazione nuovi dati, o consulterebbero altri portatori di un pensiero critico costruttivo. Imparare dagli errori implica riconoscere che si può migliorare le proprie abilità a partire dal fallimento o dal feedback negativo derivato dall’azione, mentre i leader narcisisti si irrigidiscono e si attestano su posizioni risentite, di fronte alla propria caduta. Le decisioni che prendono sono spesso superficiali, con una scarsa analisi delle condizioni in gioco e senza l’apporto della conoscenza altrui, finendo con il decidere in modo avventato, sull’onda della grandiosità, e delle fantasie di potere e successo illimitato.

L’ insegnante narcisista e le relazioni con i colleghi

E’ ipotizzabile che il maestro o professore narcisista assuma in relazione ai colleghi i seguenti comportamenti (G. Jandaghi e al., 2015; C.L.Hess, 2003; Bergman J.Z. e al., 2010):

  • mostri uno schema pervasivo di grandiosità, fierezza, senso di specialità, preoccupazione per il successo e auto assorbimento, sia esso overt e covert
  • sia dipendente dalle conferme esterne, specialmente di quanti occupino posizioni di rilievo in Dirigenza, preoccupandosi di riceverne attenzioni e attendendosi trattamenti speciali; in alcuni casi il bisogno di conferma ed ammirazione potrebbe essere celato sotto un apparente stacanovismo ed una devozione instancabile al lavoro e alla pratica intellettuale
  • non si accosti interattivamente ad altri colleghi suoi pari per conversazioni informali, fiero della sua identità distinta e superiore, o ne ricerchi la vicinanza solo quando possa trarne gratificazioni o protezione
  • tema il rifiuto relazionale e lo scadimento della propria immagine agli occhi dei superiori e rifugga tutte le occasioni per il timore che accada
  • si mostri particolarmente sensibile alla vergogna indotta da valutazioni critiche e feedback negativi: vulnerabile ad offese, rimostranze ed osservazioni, egli potrebbe attivare in difesa forti attacchi rivolti all’esterno
  • dinanzi a fallimenti o prestazioni inadeguate che lo riguardino, ricorra all’iperrazionalizzazione, allo scopo di giustificare e rendere accettabili i propri comportamenti e individuandone più facilmente la causa in fattori esterni e situazionali; è incapace di assumersi la responsabilità per i propri comportamenti fallimentari o inadeguati
  • mostri una possibile ideazione paranoidea in relazione alla minaccia percepita al senso grandioso di sé, alimentando il sospetto di un qualche abuso o di invidia da parte dei colleghi o delle famiglie, ed attivando meccanismi di difesa proiettivi e autoprotettivi
  • non rispetti gli altrui diritti e sentimenti, inabile ad assumere empaticamente la prospettiva altrui, con il risultato di rendere difficili le relazioni interne al Collegio Docenti, e con la probabilità che palesi atteggiamenti arroganti o di chiusura ostinata
  • asserisca con determinazione e sprezzo che gli altri non hanno il diritto di criticarlo, mentre egli facilmente si autorizza alla critica altrui, non fidandosi, ed aggredendo chi si permetta di domandare in merito alle sue decisioni
  • si attenda impropriamente trattamenti di favore e privilegi dai colleghi del Collegio docenti o dell’Istituto, come l’essere esonerato dalle difficoltà o dai compiti più duri, fino a sottrarsi alle regole che valgono per gli altri e a quanto non risponda al suo interesse o non gli procuri un immediato riscontro; se questo non accade, potrebbe gridare all’ingiustizia e al disordine organizzativo, indignandosi perché non ci si muove in accordo alle sue preferenze e alla sua convenienza
  • induca i colleghi a lavorare al suo posto, cerchi opportunità per sfruttarne le competenze o individui i compiti interni che con più probabilità lo conducono ad una più elevata considerazione sociale, tralasciando le mansioni routinarie
  • non ammetta che i colleghi possano conoscere ciò che egli non sa, sperimentando reazioni emotive negative alla percezione di trovarsi in uno stato di ignoranza e trovando difficoltà ad accettare nuovi punti di vista rispetto al suo schema interpretativo; nel contesto di una riunione con finalità di discussione didattica, il narcisista potrebbe irrigidirsi ed attivare una pesante conflittualità
  • non sappia lavorare in team, essendo sostanzialmente incapace di interdipendenza, più o meno apertamente competitivo e sperimentando invidia per i meriti riconosciuti ai colleghi (Chatterjee e Hambrick, 2007).

L’ insegnante narcisista in relazione con i singoli alunni e il gruppo-classe

In relazione agli studenti è probabile che il professore con tratti di personalità narcisistica (C.L. Hess, 2003)

  • conduca le sue lezioni con energia, avvolto da un’aura di carisma, seduttivo o enfatico nell’uso del linguaggio e della comunicazione non verbale, mentre indulge in fantasie di illimitata ammirazione da parte dei suoi alunni
  • palesi un senso di sé ipertrofico per almeno qualche caratteristica (doti culturali, fisiche, estetiche, curriculum formativo o esperienziale, veicolate come impareggiabili)
  • si ponga come Ideale da emulare acriticamente senza dare spazio all’iniziativa personale e alle idee indipendenti dell’alunno, rinforzando processi di imitazione bieca e passiva e pretendendo la riproduzione esatta delle sue parole
  • non consenta di ampliare la sua eredità di conoscenze in maniera soggettiva o critica, respingendo qualunque giudizio espresso personalmente dall’alunno che non si coniughi con quanto egli crede, impedendo creatività e vitalità dello scambio intellettuale e forzando l’alunno a rispecchiare se stesso
  • si mostri eccessivamente sensibile alle critiche, ai mancati apprendimenti attesi, alla messa in discussione dei suoi imperativi, mostrando disappunto, offesa, azioni di rivalsa, manovre di distacco e disconferma ( negazione del contatto oculare, tensione corporea, rifiuto ) o applicando inaspettatamente l’autoritarismo
  • eserciti sugli alunni considerati suoi subalterni la sua superiorità, facendo il bello e il cattivo tempo sull’onda dei suoi umori, mostrando alternativamente fascinazione e atteggiamenti arroganti e minacciosi
  • disponga verifiche ed organizzazione della didattica secondo i suoi desideri ed esigenze
  • non si mostri empatico di fronte al disagio espresso dal gruppo-classe o dal singolo, fallendo nel considerare, rispettare e comprendere tanto i bisogni emozionali dei suoi studenti quanto i loro punti di vista
  • discrimini per primo, aprendosi alla confidenzialità con coloro che reputa “gli alunni eletti e di successo”, intrattenendo relazioni privilegiate con chi lo renda oggetto di adulazione e dichiarata ammirazione, preferendo gli stessi specie se riflettono abilmente e accuratamente le sue posizioni, se possono restituirgli lustro, se si dimostrano leali o se si schierano dalla sua parte contro presupposti rivali intellettuali (Bergman J.Z. e al., 2010)
  • tema l’indebolimento dei ruoli, che potrebbe consentire all’alunno l’insubordinazione e l’emissione di pareri sfavorevoli o di pettegolezzi sul suo conto
  • non scenda mai dal pulpito delle sue affermazioni, nette, rigide e dicotomiche, che appaiono improntate a saggezza e grande esperienza acquisita, ma si fonderebbero per lo più su un fragile concetto di sé e su un’immatura rappresentazione del mondo
  • formuli aspettative elevate circa l’introiezione immediata dei contenuti espressi agli alunni e si attenda un forte riconoscimento per il bagaglio culturale trasmesso, scoraggiando e demotivando gli studenti meno ambiziosi e meno abili
  • introduca rapporti di forza sbilanciati e ricattatori nella relazione con lo studente o il gruppo-classe, non ammettendo in alcun modo il contraddittorio e sviluppando invidia ed una più intensa svalutazione per l’alunno che mostri aree di maggiore abilità e talento
  • reagisca alle obiezioni e all’occasionalità del proprio non sapere con sdegno, rabbia ed insolenza, restituendo rifiuto e squalifica all’alunno che abbia formulato lo scomodo interrogativo o che più sa (Westerman J.W. e al., 2016)
  • non incoraggi in alcun modo la spontaneità, l’originalità e la creatività, né il senso gioioso di aver raggiunto un’insight o una personale e particolare connessione emotiva con l’argomento, giacché l’insegnante narcisista non permette all’alunno di articolare la propria voce soggettiva.

Suggerimenti di sostegno relazionale agli alunni e di intervento sul docente

Al cospetto di tale configurazione di personalità, l’organico dei docenti potrebbe apprendere nel corso del tempo a trattare il collega con particolare cautela per non suscitarne l’aggressione, lo sprezzo, la vendetta o la chiusura nel mutismo e nell’ignoramento ostinato.

Gli studenti, per “sopravvivere”, potrebbero imparare ad accomodarsi alle pretese del docente e a soddisfare le sue esigenze, anche sopprimendo i propri bisogni e la criticità delle proprie idee, finendo con l’impedire la giusta individuazione del Sé (C. L. Hess, 2003).

In casi più estremi gli studenti più vulnerabili a tendenze idealizzanti potrebbero finire con l’essere coinvolti in una devozione tale all’ insegnante narcisista da accettare una posizione di subordinazione e rinuncia al proprio Sé in cambio di approvazione e conferma.

Come fare allora per sostenere gli alunni nella relazione quotidiana con un docente che ha una siffatta caratterizzazione di personalità? E’ giusto inasprire la regolamentazione in merito al comportamento relazionale e alla prassi consentiti al docente per tutelare gli alunni, o si rischia di accentuarne la rivendicazione entro i limiti di quanto il regolamento consente? E’ utile tentare la carta dell’empatia e dell’avvicinamento da parte dei colleghi o si rischia di far paventare all’ insegnante narcisista una minaccia di interferenza nelle sue mansioni e di espropriazione del suo ruolo? Quanto è utile ai fini della promozione e più in generale della loro formazione educativa incoraggiare gli alunni a fare opposizione all’apprendimento acritico suggerito, per seguitare piuttosto a preservare ed incentivare l’originalità della loro espressione?

Malgrado non siano state ancora individuate risorse efficaci per la salvaguardia del sé entro una simile relazione educatore-discente, si ritiene importante restituire sempre al gruppo-classe che l’autenticità e la libertà dei suoi membri non può essere spenta o dismessa in nome di un giudizio o di una norma proposte come incontestabili, pena l’accentuazione di un clima competitivo, di obbligazione alla performance, di chiusura mentale che non favorisce la crescita, il senso ludico, né la passione per il sapere. Il Consiglio di Classe e il sostegno della famiglia in questo senso sono da ritenersi fondamentali, dal momento che la voce di più figure educative in questo caso contiene la potenzialità di introdurre flessibilità, discutibilità e criticità nel dinamismo di una relazione che esclude in ogni caso tolleranza, apertura, riflessività e dinamismo del pensiero.

G. Jandaghi, S. F.Kozekanan e A. Pirannejad, al Farabi Campus all’Università di Teheran (2015) confermano come i tratti di personalità narcisistica dei professori giochino un ruolo siginificativo nel condizionare l’apprendimento e la performance accademica degli studenti e raccomandano di provvedere a procedure di selezione accurate dei membri di facoltà. Si ritiene che l’Istituzione scolastica dovrebbe condurre test psicologici anche dopo l’assunzione, per la rilevazione degli insegnanti dai tratti narcisistici; inoltre dovrebbe monitorare costantemente la qualità della relazione intrattenuta dal docente con i suoi allievi ed attivare risorse interne di consulenza e sostegno psicologico, tanto per gli alunni quanto per il personale docente.

Una nuova strada per raggiungere la ristrutturazione cognitiva. Il valore del corpo in un viaggio “Dal basso in alto (e ritorno)”

Il corpo ha il vecchio vizio di ritornare al centro della scena, non lo ferma nessuno. Neanche gli psicoterapeuti.

 

Per decenni cognitivisti e psicoanalisti hanno curato i pazienti parlandoci. Con stili completamente diversi, certo, e guidati da teorie che spesso confliggevano. Ma, incosciamente e non senza una certa ironia, guidati dalla stessa dimenticanza: il corpo. Sì, lo osservavano, ci riflettevano su, ma alla fine non ci facevano niente. Giusto i comportamentisti, loro sì, lo muovevano, ma guidati da una teoria improponibile in cui la mente non contava niente.

La storia della psicoterapia è buffa. Mentre cognitivisti e psicoanalisti uniti negligevano il corpo, altre scuole se ne occupavano, soprattutto gestalt, analisi reichiana e bioenergetica. Lo hanno fatto guidati da teoria che, ahimé, li hanno tagliati fuori dal dibattito scientifico, facendoli diventare dei cugini bizzarri delle psicoterapie serie, da guardare con un misto di simpatia e imbarazzo.

Il corpo ha il vecchio vizio di ritornare al centro della scena, non lo ferma nessuno. Neanche gli psicoterapeuti.

Cognitivisti e psicoanalisti iniziano a rendersi conto che i loro, più o meno volontari, taboo al contatto fisico, al lavoro attraverso il corpo, non avevano senso. Con quanti pazienti la sola parola era inefficace? Lo sentivamo noi terapeuti che la nostra azione era insufficiente e che a un certo punto con i pazienti stavamo facendo chiacchiere sapendo che erano inefficaci.

Succede qualcosa. Non credo ci sia una storia precisa da scrivere. Succedono una serie di cose. Patricia Ogden riprende, non sempre col dovuto armamentario di citazioni, gli esercizi dei nostri cugini imbarazzanti. Fritz Perls e Alexander Lowen tornano ad essere nominati. Si crea una roba nuova, la chiamano psicoterapia senso-motoria. Si basa sulla teoria del trauma, dello sviluppo, dell’attaccamento, del funzionamento somato-sensoriale a partire da Porges, Bowlby, Damasio, Panksepp. Ridà dignità scientifica al lavoro sul corpo.

Jon Kabat-Zinn porta Buddha in occidente, lo porta tra gli scienziati della psicoterapia. Lascia da parte il ragionamento cosciente, il chiaccherio della mente. Osserva il corpo che pulsa, si tende e distende e soprattutto, respira. Arriva la mindfulness, un nuovo approccio alla sensorialità che permette di osservare i pensieri incarnati e lasciarli scorrere via.

Riesplode Janet e la psicotraumatologia, e van der Kolk scrive quel capolavoro de Il corpo accusa il colpo. Il corpo. Di nuovo. Le credenze patogene fanno male, d’accordo. Ma le reazioni viscerali che seguono a traumi relazionali, cavolo, quelle fanno male anche di più, e non se ne vanno solo ragionando.

Succede qualcosa. Gli allievi delle scuole di psicoterapia, tantissimi dalle scuole cognitive, si iscrivono ai corsi di formazione in psicoterapia sensomotoria e di EMDR, un altro approccio che cerca di passare attraverso un’elaborazione non cognitivamente mediata delle reazioni viscerali che seguono ad un trauma. E questi corsi si riempiono.

Significa che il mondo della psicoterapia è cambiato. I cognitivisti in particolare sentono il bisogno di integrare questo armamentario di tecniche, antico e nuovo allo stesso tempo, nella loro pratica.

Dal basso in alto (e ritorno…) di Cecilia La Rosa, Antonio Onofri e i loro colleghi si colloca in questo momento storico. In un razionale che parte da Janet, Liotti, Bowlby e tutta la psicotraumatologia, gli autori in una cornice di terapia cognitiva descrivono le pratiche sul corpo e sulla regolazione dell’attività mentale (come nell’EMDR) e spiegano come le si possano attuare.

Era un libro necessario. Ve lo immaginate un libro di terapia cognitiva solo 10 anni fa con un paragrafo che si chiamasse: “Assessment mediante il Body Scan guidato?”. Io no.

Qui c’è, a pagina 143. Il terapeuta chiede: “Che cosa accade ora nel suo corpo? In quale parte del corpo? Dove lo nota in particolare? Da cosa lo capisce? Quanto è estesa la sensazione? Quanto è profonda? Che forma ha? Che tipo di sensazione è? Che caratteristiche ha?”

Un assessment del genere rivoluziona il trattamento. Se noi, con La Rosa e Onofri, andiamo a esplorare le cognizioni connesse a particolari stati del corpo, allontaniamo i pazienti dall’idea che soffrano a causa della realtà. Li avviciniamo all’idea invece che in determinati stati somatici hanno determinate convinzioni e che cambiando lo stato somatico, magari attraverso esercizi mirati, cambi il contenuto della cognizione. I pazienti arrivano a qualcosa che alla fine è la ristrutturazione cognitiva, ma lo fanno da un’altra strada. Dal basso verso l’alto. E ritorno.

Ascoltare la musica insieme migliora la relazione futura con i propri figli

Secondo un recente studio dell’Università dell’Arizona, i bambini che vivono esperienze musicali condivise con i propri genitori riferiscono di avere rapporti di migliore qualità con loro quando raggiungono la giovane età adulta.

 

I ricercatori hanno scoperto che i giovani adulti che hanno condiviso esperienze musicali con i propri genitori durante l’infanzia, specialmente durante l’adolescenza, riferiscono di avere migliori relazioni con i loro genitori quando entrano nella giovane età adulta.

Il coautore dello studio Jake Harwood, professore e capo del dipartimento di Comunicazione dell’Università dell’Arizona, sostiene che

[blockquote style=”1″]Se hai bambini piccoli e suoni musica con loro, questo ti aiuta ad essere più vicino a loro, e più tardi nella vita ti renderà più vicino a loro. Inoltre, ascoltare della musica insieme ai propri figli adolescenti o condividere esperienze musicali con loro ha un effetto ancora più forte sulla tua relazione futura e sulla percezione del bambino della relazione nell’età adulta.[/blockquote]

Esperienze musicali condivise: lo studio dell’Università dell’Arizona

I ricercatori hanno intervistato un gruppo di giovani adulti, con età media di 21 anni, circa la frequenza con cui hanno trascorso del tempo con i loro genitori, da bambini, in attività come ascoltare musica insieme, assistere a concerti o suonare strumenti musicali. In particolare, veniva chiesto loro di riferire ricordi di esperienze comprese tra gli 8 e 13/14 anni di età. Inoltre, è stato chiesto a ciascun partecipante di esprimere un giudizio circa la propria percezione della qualità attuale della propria relazione con i genitori.

Risultati e Conclusioni

Le esperienze musicali condivise a tutti i livelli di età sono state associate a una migliore percezione della qualità del rapporto genitore-figlio nella giovane età adulta, tuttavia l’effetto è stato più pronunciato per le esperienze musicali condivise che hanno avuto luogo durante l’adolescenza.

Due sono i fattori che possono aiutare a spiegare la relazione tra esperienze musicali condivise e una migliore qualità della relazione: il coordinamento e l’empatia. Questo sembra dovuto al fatto che, se si suona o si ascolta musica con i propri genitori è possibile fare esperienza di attività sincronizzate come ballare o cantare insieme. Attraverso la musica, inoltre, molto emozioni possono essere evocate e questo favorisce lo sviluppo di risposte empatiche.

Le esperienze musicali condivise con i propri figli non devono risultare troppo complesse ed articolate; attività semplici, come ascoltare musica in macchina insieme, possono avere un impatto maggiore rispetto a esperienze musicali più formali.

La ricerca futura dovrebbe esaminare più da vicino le differenze tra esperienze musicali formali e informali e considerare anche come la musica possa influenzare la qualità di altri tipi di relazioni, comprese le relazioni romantiche, ha affermato Wallace.

L’invito ai genitori è dunque quello di aumentare le loro interazioni musicali con i propri figli, specialmente nel periodo adolescenziale.

Ritratti del desiderio: il concetto di desiderio secondo Lacan e Recalcati, due visioni a confronto

Nella prefazione alla seconda edizione di Ritratti del desiderio, Massimo Recalcati apre una riflessione che si pone in contrasto con una certa lettura egemone di Lacan che valorizza il desiderio come godimento a scapito di una visione trascendente del desiderio stesso.

 

Prima di addentrarsi nel disegnare diversi ritratti del desiderio, l’autore cerca di tracciare un percorso caratterizzato dalla dimensione dialettica, e contraddittoria per alcuni versi, tra il desiderio che viene sempre dall’Altro, ma assunto e fatto proprio dal soggetto, e il desiderio d’Altro, del Nuovo, di Altra Cosa. In quest’ultimo senso per lo psicanalista “il desiderio assomiglia ad un esilio permanente, ad un’erranza inquieta che non può mai trovare l’appagamento che pure ricerca affannosamente”.

Solo se si assume la mancanza a essere come condizione dell’esistenza, il desiderio può divenire un’apertura verso la vita, viceversa, il desiderio come godimento è godimento di morte.

Il godimento illimitato, della cultura dominante capitalista, privo di responsabilità, sregolato, compulsivo, soffoca la progettualità, la creatività, l’amore.

Il godimento che rende vivibile la vita, il godimento come effetto del potenziamento della vita non è mai il godimento incestuoso, non è mai il godimento del “tutto”, ma è il godimento che si può raggiungere solo a partire dall’impossibilità dell’incesto, ovvero dall’impossibilità di avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto.

L’elemento comune dei ritratti che traccia Recalcati in Ritratti del desiderio è la forza del desiderio che supera l’Io, che non dà la possibilità di essere governato, non è a disposizione: “L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di un’alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità” e rappresenta per questo una grande possibilità di sganciarsi dalle illusioni narcisistiche dell’Io, dalla sofferenza generata dal suo attaccamento per andare verso un desiderio dell’Altro, un desiderio trascendente.

Desiderio e Bisogno

E’ una prospettiva molto interessante che richiama i contenuti di un articolo pubblicato tempo indietro su questo giornale in cui mettevamo in evidenza le profonde differenze tra desiderio e bisogno (leggi qui). Si sosteneva nell’articolo che il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare può così trasformarsi in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile.

Molte ricerche hanno messo bene in evidenza come il benessere non sia vincolato alla soddisfazione dei desideri, ma piuttosto a una visione eudemonica in cui alcuni bisogni fondamentali siano appagati (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Nella storia evolutiva di ogni individuo l’identità e quindi l’integrazione e la coerenza del sé nasce da esperienze in cui la tolleranza alla frustrazione è conditio sine qua non di un buon adattamento a ciò che ci propone la realtà, spesso matrigna e poco propensa a rispondere alle nostre attese. Le immagini maladattive compaiono proprio quando è presente la ricerca di soddisfazione di un desiderio (May et al., 2004, 2010).

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto dell’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto possibile d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario, quindi, distinguere il desiderio dal bisogno, i bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli indotti e falsi dell’avere, del possesso, dell’avidità, del potere, dell’affermazione (Fromm, 1976). E in Ritratti del desiderio troviamo un’ampia panoramica di questi falsi bisogni indotti.

Il desiderio invidioso, che assume un carattere infantile, si manifesta strutturalmente come desiderio dell’oggetto desiderato dall’altro bambino.

Il desiderio e l’angoscia per la sensazione di essere in balìa del desiderio dell’Altro, di essere ridotti a un oggetto nelle mani del capriccio dell’Altro.

Il desiderio di niente, per cui quello che c’è non è mai sufficiente, non è mai abbastanza e il desiderio si consuma in se stesso.

Il desiderio di godere come diritto al dispendio, al superfluo, all’inutile.

Il desiderio dell’Altrove che trasferisce l’illusione di salvezza sempre su un nuovo oggetto senza però impedire la riproduzione fatale della stessa delusione una volta che l’oggetto viene posseduto.

Il desiderio sessuale che “non è mai la manifestazione di un istinto naturale, ma mostra il carattere tutto culturale, artificiale, strutturalmente perverso-polimorfo direbbe Freud, della sessualità umana”.

Il desiderio amoroso che si rappresenta in una “sfasatura strutturale tra il desiderio maschile – che è desiderio feticistico del pezzo – e quello femminile – che è desiderio amoroso, desiderio che si nutre non di pezzi ma di segni d’amore”.

Il desiderio puro o il desiderio di morte rappresentato dalla figura di Antigone.

Il desiderio dell’analista che nel curare mette in gioco l’amore per il paziente. Un amore per la vita dell’altro che deve essere taciuto, né dichiarato, né agito e diventare così il dono che l’analista offre alle vite che si rivolgono a lui raccontandosi.

Infine, il desiderio dell’Altro come apertura, come legame positivo, come domanda rivolta verso l’Altro.

Il desiderio è domanda di riconoscimento e la sua soddisfazione simbolica è tutta nell’ottenere il riconoscimento di questa domanda. Desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall’Altro, significa voler avere un valore per l’Altro. Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro. Non esiste desiderio senza l’Altro. Il circuito del desiderio passa necessariamente dall’Altro perché il desiderio non può bastare a se stesso.

Nell’ultima parte del libro Ritratti del desiderio, Recalcati traccia le tappe fondamentali del suo incontro con Lacan e ne dipinge un ritratto personale che parte dal problema della propria esistenza sottolineando in modo particolare un’affermazione dello psicoanalista francese: “L’amore è ciò che mantiene convergenti il desiderio e il godimento”.

cancel