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Il bilinguismo garantisce dei benefici sulle funzioni esecutive?

Lo studio condotto dai ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Åbo Akademi, Finlandia, mostra come il bilinguismo sia ovviamente molto utile nella comunicazione tra le persone, eppure esso non sembra aumentare le capacità cognitive legate alle funzioni esecutive come affermato invece dai media.

 

Un nuovo studio, condotto da Lehtonen e dal suo gruppo di ricerca, mostra come alcuni effetti benefici del bilinguismo siano stati sopravvalutati.

La ricercatrice afferma che:

I vantaggi del bilinguismo nelle funzioni esecutive sono stati al centro di una ricerca attiva negli ultimi anni e il tema ha ricevuto molta attenzione non solo nella comunità scientifica ma anche nei media internazionali.

I media hanno spesso diffuso informazioni su come l’acquisizione e l’uso attivo di due lingue favoriscano l’addestramento di alcune funzioni cerebrali: focalizzazione dell’attenzione, soppressione delle interferenze dell’ambiente e flessibilità nello switching (passaggio da un’attività ad un’altra).

Una meta-analisi per indagare la relazione tra bilinguismo e funzioni esecutive

Lo studio condotto dai ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Åbo Akademi, Finlandia, mostra, tuttavia, attraverso una meta analisi, come il bilinguismo sia ovviamente molto utile nella comunicazione tra le persone, in un’epoca di flessibilità e scambi come quella odierna. Eppure, esso non sembra aumentare le capacità cognitive legate alle funzioni esecutive.

Gli studi analizzati sono stati 152, ognuno di essi incentrato sulle prestazioni degli adulti bilingue e monolingue in compiti che misurano diverse aree di funzioni esecutive.

La revisione sistematica ha analizzato studi effettuati in 27 paesi differenti, in cui il bilinguismo assume forme diversificate.

I risultati della revisione mostrano come non siano stati trovati benefici significativi nei soggetti bilingue in qualsiasi sotto-area delle funzioni esecutive.

Lo studio ha inoltre analizzato una serie di fattori di fondo che potrebbero influenzare l’ampiezza dell’eventuale beneficio osservato, tra cui, ad esempio, l’età di acquisizione della seconda lingua, l’età dei partecipanti e la combinazione linguistica.

Anche a fronte di queste variabili (ad esempio differenze tra soggetti bilingue che hanno acquisito la seconda lingua durante l’infanzia o in soggetti bilingue che hanno acquisito la seconda lingua in età adulta) non è emerso alcun vantaggio nelle funzioni esecutive.

Dunque, a disconferma di quanto creduto da molti, i risultati della presente meta-analisi indicano chiaramente come, in una popolazione di adulti sani, il bilinguismo o l’uso attivo di un’altra lingua non migliorano le funzioni esecutive.

Gli unici vantaggi dettati dal passaggio da una lingua all’altra riguardano le competenze linguistiche e di conseguenza le competenze comunicative.

 

La via del ritorno a Sè: immaginazione e Fantasia nel pensiero Junghiano

La psiche crea giorno per giorno la realtà e, a questa attività, Jung afferma che non è possibile dare altro nome che quello di fantasia.

 

La teoria dell’appagamento del desiderio di Freud influenzò per un lungo periodo il suo discepolo Carl Gustav Jung, il quale rimase in particolare colpito dalla scoperta di come queste formazioni “differivano senza dubbio da quelle dei soggetti normali, in quanto coinvolgevano lo stato di veglia nel suo complesso e, in certe occasioni, lo sostituivano completamente, recando a volte un grave danno alla fonction du reél” (Frey-Rohn, 1984).

“L’attività psichica cosciente della paziente si limita a creare sistematicamente appagamenti di desideri, in una certa misura come equivalente di una vita piena di lavoro e di privazioni e delle impressioni deprimenti di un ambiente familiare miserevole. L’attività psichica incoscia, invece è completamente soggetta all’influsso di complessi rimossi contrastanti, da un lato il complesso di nocumento, dall’altro i resti della correzione normale” (Jung, 1914).

L’autore fu il primo, nell’ambito della psicologia medica, a sostenere come il significato delle formazioni psicotiche fosse alla base del successo della terapia. Tali teorizzazioni furono fondamentali nella definizione di un nuovo approccio psicoterapeutico: “si trattava non di respingere le fantasie sistematiche dei dementi, considerandole assurde e bizzarre, ma piuttosto di far nascere nel paziente il sentimento che le sue fantasie avessero un senso, comune a tutti gli esseri umani” (Frey-Rohn, 1984).

L’allontanamento dalle teorie freudiane: formazioni psicotiche, pensiero arcaico e fantasia

Negli anni immediatamente seguenti iniziò il profondo distacco dalle precedenti teorie di eredità freudiana: Jung infatti osservò come la vera natura delle formazioni psicotiche andasse ricondotta non tanto a desideri personali, quanto piuttosto all’esistenza di un senso impersonale (Jung, 1908). Questo fu il primo passo verso quella che sarebbe stata la sua teoria finale, nella quale l’autore, alla ricerca di un più profondo e recondito senso della pazzia, riconoscerà che le formazioni psicotiche, analogamente a quelle normali, sono basate su un fondamento comune a tutti gli esseri umani: “anche le cose più assurde non sono altro che simboli di pensieri, che non solo sono generalmente comprensibili all’uomo, ma che abitano in tutti i cuori umani. Così nel malato di mente scopriamo non qualcosa di nuovo e sconosciuto, ma il sottofondo del nostro stesso essere, la matrice dei problemi vitali attorno ai quali noi tutti lavoriamo” (Jung, 1908).

Un altro elemento di discontinuità della teoria di Freud è rappresentato inoltre dal rifiuto da parte di Jung del termine reminescenze infantili, che fu sostituito con l’accezione di pensiero arcaico: “le basi inconsce dei sogni e delle fantasie sono soltanto in apparenza reminescenze infantili. In realtà si tratta di forme di pensiero primitive o arcaiche basate sugli istinti, che come è naturale si manifestano più nettamente nell’infanzia che in seguito” (Jung, 1912).

L’autore ritrovò motivi senza tempo ed eternamente ricorrenti nei miti, nelle fiabe, nel folclore, che attestavano l’esistenza di simboli comuni a tutta l’umanità e la presenza delle cosiddette immagini primordiali. In questo senso, nella prefazione alla seconda edizione di Trasformazioni e simboli della libido (1912) egli scrisse: [blockquote style=”1″]accanto alle ovvie fonti personali, la fantasia creatrice dispone anche dello spirito primitivo, dimenticato e da lungo tempo sepolto con le sue immagini peculiari palesantisi nelle mitologie di tutti i tempi e di tutti i popoli.[/blockquote]

In particolare Jung osservò come già i bambini possiedono i rudimenti della formazione di miti, e su questa base fondò l’ipotesi della presenza nella psiche di un impulso creativo alla formazione di mitologemi, conclusione che Freud rifiutò sempre. L’autore affermava che “la coscienza umana ha sentito fin dalle sue prime fasi il bisogno di indicare in maniera palpabile, evidente, il dinamismo dell’evento psichico da essa percepito in rapporto al reale” (Jung, 1944).

[blockquote style=”1″]Il mito è l’espressione immaginativa di questo dinamismo rappresentato da sempre nella coscienza. Conoscere la trama di un mito significa avere la visione di un dinamismo che può emergere anche oggi nella sofferenza psichica del singolo (Aite, 1983).[/blockquote]

Verso una nuova teoria dell’immaginazione

La scoperta del significato simbolico della fantasia, fatta durante questo periodo di transizione, fu un risultato che anticipò gli sviluppi futuri e che portò al definitivo distacco dalla teoria dell’appagamento del desiderio sostenuta da Freud. “Il tutto mi investì come una frana, impossibile a trattenere. Solo più tardi mi resi conto dell’urgenza che si celava dietro tutto questo: era l’esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e delle sua visione del mondo. Lungi da me il pensiero di voler diminuire in qualche modo i meriti eccezionali di Freud nel campo dell’indagine della psiche individuale, ma il quadro concettuale nel quale egli costrinse i fenomeni psichici mi appariva insopportabilmente angusto” (Jung, 1912).

Nelle formazioni archetipiche della fantasia Jung individuò anche l’aspetto storico dell’inconscio. “Se tali fenomeni oggettivi e senza tempo non erano in origine parti costitutive dell’Io, dovevano essere ricercati nel materiale dell’inconscio: ne conseguiva un rovesciamento dell’approccio ai fenomeni psichici. Invece di dedurre il significato di una fantasia da materiale già noto come era tipico nella psicologia freudiana, Jung mise a punto un metodo di inchesta sulla formazione fantastica tale da determinare il significato centrale ancora ignoto” (Aite, 1983).

Era necessario comprendere le motivazioni e le strutture di pensiero da un punto di vista più ampio e questo richiese la costruzione di un nuovo metodo che Jung chiamò ermeneutico, in modo da poter garantire un’adeguata comprensione del significato delle formazioni fantastiche.

Il libro che segnò in tal senso il distacco del giovane Jung da Freud fu Trasformazioni e simboli della libido (1912), un testo nato dallo studio delle fantasie prodotte da una giovane donna in fase pre-psicotica, ma incontrata da Jung. Nel primo capitolo del libro l’autore confrontò le due principali modalità del pensiero: “quella diretta, acquisizione preziosa della coscienza, che delimita, chiarisce e si muove secondo concetti verbali ed ha una meta coscia da raggiungere; l’altra quella indiretta, che prende corpo in immagini ed è mossa da moventi inconsci” (Aite, 1983). Questa seconda forma di pensiero è il pensiero fantastico che è presente nei nostri sogni e fantasie, come nei gioche dei bambini, e che ha prodotto i miti e le favole che la tradizione ci tramanda. L’atto dell’immaginare divenne un “pensare e comprendere per immagini”, un pensiero improvviso, un’intuizione di un sentimento che ci orienta in modo diverso e illogico e che va al di là del nostro vedere e sentire il mondo esterno.

[blockquote style=”1″]L’immaginazione è l’attività riproduttiva o creativa dello spirito […] essa può esplicarsi in tutte le forme fondamentali dei processi psichici, nel pensare, nel sentire, nel percepire sensoriale e nell’intuire (Jung, 1948).[/blockquote]

Una nuova forma rispetto all’atteggiamento della coscienza che si differenzia dalla fantasticheria, la quale si configura invece come quella attività combinatoria cosciente che attuiamo quando siamo frustati o abbiamo un bisogno che non riusciamo a soddisfare.

Un elemento fondamentale per comprendere la teoria dell’immaginazione di Jung è l’esperienza del vuoto, di quella mancanza di risposta, che precede e determina il formarsi dell’immaginazione. Questo momento si presenta non solo nella psicopatologia, ma anche in tutte le espressioni della creatività umana.
“Davanti a un problema irrisolto che urge, davanto a uno stato d’animo soverchiante ed inesprimibile a parole, l’attività immaginativa può offrirci lo spunto nella forma di una visione nuova, o di una intuizione, o di una concatenazione di pensieri mai fatta che aprono una prospettiva. E’ qui, nel vuoto, che può emergere la creatività, quel pensare per immagini che ritroviamo in un poeta, in un pittore, in un ricercatore, e in cui tutti ci riconsciamo dato che apre una prospettiva che è di noi tutti” (Aite, 1983).

La fantasia: cosa la caratterizza?

Ciò che caratterizza la fantasia è il fare creativo della psiche. I personaggi che essa mette in scena sono, come sostiene Jung, un “Giano Bifronte”: “indicano il passato, quello che è dietro, ma anche quello che è avanti a noi nel futuro e sono il concretizzarsi in una situazione storica precisa, in un certo individuo, in un certo momento, di uno stato psicologico che, se è legato al passato, ha anche in sè i germi del futuro” (Aite, 1983).
Questo creare che mette insieme (Synballein) passato e futuro è l’attività simbolica specifica della psiche che si esprime per metafore. Questa energia, a seconda della coscienza, può o meno incidere e trasformare l’uomo insieme alla realtà che lo circonda.

[blockquote style=”1″]La psiche crea giorno per giorno la realtà, a questa attività non so dare altro nome che quello di fantasia (Jung, 1948).[/blockquote]

La conclusione alla quale l’autore ci conduce è l’idea che questa attività sia indissolubilmente legata alla nostra storia personale, a chi siamo e a chi diverremo : “Si direbbe che l’uomo, il quale cerca invano la sua esistenza e da ciò trae filosofia, ritrovi solo nell’esperienza della realtà simbolica la via del ritorno a quel mondo in cui egli non si sente straniero”.

La valutazione psicodiagnostica in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

L’ assessment o valutazione psicodiagnostica rappresenta un iter propedeutico all’intervento terapeutico: la raccolta di informazioni e dati orienta il terapeuta, dà origine ad una storia, e crea le condizioni per costruire con il paziente una relazione, un’ alleanza, basata sull’empirismo collaborativo.

 

“Qual è la sua difficoltà?”

Il paziente si rivolge a noi, psicologi e psicoterapeuti, con una domanda, implicita oppure esplicita, ma comunque una richiesta che deve essere, in primo luogo, accolta ed interpretata.

Presso Psicoterapia e Scienze Cognitive, scuola di specializzazione quadriennale in psicoterapia cognitivo comportamentale e centro di psicoterapia, si effettua una esauriente prima fase di inquadramento e valutazione psicodiagnostica, definita assessment, ovvero accertamento del problema.

La fase di assessment è decisiva, in quanto permette, attraverso l’utilizzo di modalità e strumenti specifici, quali ad esempio il colloquio, l’intervista, strumenti self-report (test autosomministrati a crocette), di raccogliere informazioni e prendere decisioni strategicamente orientate e fondamentali  per l’efficacia della fase successiva, il trattamento.

Perché l’ assessment in Psicoterapia?

La valutazione psicodiagnostica rappresenta un iter propedeutico all’intervento: la raccolta di informazioni e dati orienta il terapeuta, dà origine ad una storia, e crea le condizioni per costruire con il paziente una relazione, un’ alleanza, basata sull’empirismo collaborativo.

In generale si parla di situazione di assessment quando ad esempio si valutano dei candidati ad una selezione del personale, si esaminano degli studenti a scuola o all’università per saggiarne la preparazione, o si vedono dei pazienti al fine di stabilirne una diagnosi. Nello specifico, in riferimento alla psicologia e psicoterapia, la funzione principale del processo di assessment è rappresentata dal tentativo di comprendere il paziente e il suo mondo di significati, spiegarsi in che cosa consiste, come può essere nato e come si mantiene il problema che ci viene presentato. Si tratta in altre parole di:

  • Cercare di capire la difficoltà del paziente: la valenza e i significati che essa assume ai suoi occhi nella vita quotidiana e rispetto all’immagine che egli ha di se stesso, delle relazioni con gli altri, del proprio futuro;
  • Cercare di costruire un modello (nel linguaggio professionale) delle modalità di funzionamento del sistema-paziente e delle sue caratteristiche strutturali nel complesso;
  • Tentare di ricostruire i processi, le tappe e i momenti critici dello sviluppo che hanno condotto all’attuale struttura individuale;
  • Comprendere e spiegarsi la funzione che la sintomatologia svolge, al fine di organizzare un progetto di intervento clinico, laddove se ne verificassero le condizioni.

Procedure e strumenti della valutazione psicodiagnostica

Spesso i colloqui o le terapie iniziano proprio perché vi è una difficoltà che non si riesce a risolvere. Per questo motivo, la prima cosa da fare è accertare. Il racconto potrà iniziare con la descrizione di alcuni stati d’animo problematici o dolenti, oppure una serie di situazioni spiacevoli in cui ci si è trovati o ancora relazioni problematiche con le proprie figure di riferimento. Trattandosi di problemi di tipo psicologico è bene accompagnare questa prima fase di accertamento e di conoscenza iniziale con accertamenti diagnostici più formalizzati.

Il centro Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova si rifà all’approccio cognitivo comportamentale secondo il quale la valutazione psicodiagnotica non ha tanto l’intento di porre una diagnosi quanto quello di comprendere il funzionamento globale della persona per poterne migliorare la qualità di vita e scegliere le modalità di psicoterapia più efficaci.

E’ infatti fondamentale effettuare un accertamento anche per i pazienti che già conoscono la propria diagnosi. Infatti le diagnosi spesso sono delle etichette che descrivono, ma non sempre spiegano. È importante valutare in un’ottica funzionale – ovvero mettendo a nudo i rapporti causali tra pensieri, emozioni e comportamenti – i fattori specifici che sono alla radice del problema. Due pazienti con la stessa diagnosi possono avere comunque due problemi molto diversi tra loro e aver bisogno di trattamenti differenti.

Gli strumenti principali di cui può avvalersi il terapeuta per portare a termine l’ assessment sono: il colloquio clinico, l’intervista, e test self-report. In aggiunta, possono essere utilizzati numerosi altri strumenti standardizzati come inventari, checklist, schede di osservazione e diari.

Quale durata prevede un assessment?

Solitamente i primi colloqui di assessment (3-5 sedute, della durata di 50 minuti circa) hanno lo scopo di approfondire la conoscenza della persona che si rivolge al professionista.

Vengono dunque raccolte, in primo luogo, le informazioni biografico-anamnestiche, l’anamnesi del problema riportato, eventuali altre situazioni chiave collegate ad esso.

A tale scopo ci si avvale degli strumenti sopra elencati, a discrezione del terapeuta. Il lavoro si conclude con la restituzione al paziente di quanto emerso e la condivisione di un eventuale progetto terapeutico, dopo un’attenta concettualizzazione del caso e la formulazione di un piano terapeutico.

Il Centro clinico e la Scuola di specializzazione Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova danno una forte importanza alla valutazione psicodiagnostica, sia dal punto di vista del colloquio clinico che dal punto di vista della testistica, sia psichiatrica che psicologica che cognitiva. Ciò rappresenta una premessa fondamentale per l’organizzazione del progetto clinico e psicoterapeutico e per l’integrazione tra diverse figure professionali: lo psichiatra, lo psicoterapeuta individuale, l’invio in doppio setting ai gruppi, e così via.

Alleanza e gestione terapeutica del problema

A conclusione della fase di accertamento del problema vi è la concettualizzazione del problema da parte del terapeuta, cui fa seguito la fase di restituzione.

Essa permette la condivisione degli obiettivi terapeutici e rappresenta uno degli elementi fondamentali per promuovere e mantenere la cosiddetta alleanza terapeutica, ovvero la particolare relazione di collaborazione che si stabilisce tra un paziente e il terapeuta.

L’ alleanza rappresenta sia il punto di partenza del lavoro, senza il quale sarebbe difficile il procedere della psicoterapia, sia l’elemento che accompagna i due viaggiatori per tutta la durata del loro viaggio. A questo proposito Linehan (2012) ritiene che “il compito essenziale del terapeuta sia quello di riconoscere e legittimare gli stati mentali, le emozioni e le credenze del paziente”. Questo, nelle prime fasi della terapia, contribuisce alla costruzione di una relazione terapeutica costruttiva e accettante. Un importante punto della terapia cognitiva è la concettualizzazione del problema presentato e la sua restituzione al paziente, momento che precede il “contratto terapeutico” ma che già di per sé è una fase cruciale per creare tra il terapeuta ed il paziente un clima di fiducia ed un’ alleanza basata anche sulla condivisione tra terapeuta e paziente di una teoria del suo funzionamento mentale ancor prima che del suo disturbo.

Clinici di orientamenti diversi concordano che sicurezza e sintonizzazione o meglio una alleanza terapeutica, cioè quel clima di fiducia e collaborazione tipico delle relazioni di aiuto efficaci, sia indispensabile per avviare e mantenere una psicoterapia.

Accertare non è che l’inizio.

Il gusto e l’olfatto – Introduzione alla Psicologia

L’ olfatto e il gusto sono definiti sensi chimici poiché consentono di identificare le molecole odoranti, presenti nell’ambiente esterno, con le quali si entra in contatto respirandole o ingerendole. L’ olfatto e il gusto aiutano a identificare gli elementi esterni connotandoli di un particolare odore o sapore e, per questo, i due sensi sono indispensabili alla sopravvivenza individuale e della specie.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ olfatto, in primis, consente di riconoscere e attribuire odori diversi a un numero di molecole che varia da 1000 a 10.000. Per questo, la sensibilità del sistema olfattivo è tale da rilevare la presenza di un dato odore da una concentrazione di 107 molecole per 1 ml d’aria. Meno discriminativo è il senso del gusto, che riconosce solo cinque sapori fondamentali: acido, amaro, dolce, salato e umami, parola giapponese che indica il sapore gradevole della carne e degli alimenti contenenti glutammato. Quindi, per evocare una determinata sensazione gustativa è necessario avere una concentrazione che varia 1014 a 1020 molecole per 1 ml di soluzione.

Gli stimoli olfattivi e gustativi sono in grado di generare memorie associative che durano a lungo nel tempo, come nel caso di odori o sapori associati a immagini di eventi, persone e luoghi. Ad esempio nell’effetto Garcia, si associa l’odore e il sapore di un cibo a uno stato di malessere. La funzione di tale effetto è evitare in futuro l’ingestione di cibi potenzialmente dannosi per la salute.

Il sistema dell’ olfatto

Le molecole recettrici dei neuroni dell’epitelio olfattivo, proteine integrali di membrana con sette domini transmembranari, si legano a molecole odorose presenti nell’aria inspirata, dopo essersi dissolte nel muco che ricopre l’epitelio olfattivo. Ciascun neurone olfattivo utilizza una sola molecola recettrice, ma ognuna di queste molecole può legarsi a più molecole odorose e a sua volta ciascuna molecola odorosa è in grado di legarsi a più molecole recettrici e quindi a più neuroni olfattivi.

La diversa selettività percettiva dell’ olfatto è attribuibile alla specificità con la quale le molecole odorose attivano combinazioni di neuroni olfattivi, poiché a ogni molecola corrisponde una specifica combinazione.

Da ciascuna narice partono le informazioni olfattive che sono trasportate all’encefalo tramite il primo paio di nervi cranici. Ciascun nervo olfattivo è formato dagli assoni raggruppati in fascicoli, che attraversano la lamina cribrosa dell’etmoide ed entrano nella cavità cranica. Gli assoni dei neuroni che esprimono la stessa molecola recettrice si associano in fascicoli che terminano in zone specifiche del bulbo olfattivo, prima stazione intracranica delle vie olfattive. Il bulbo olfattivo, pertanto, contiene una mappa spaziale nella quale ogni regione corrisponde a una popolazione di neuroni identificati dalla stessa molecola recettrice. Questa mappa è simile in individui diversi e rimane costante nel tempo, malgrado i neuroni olfattivi rinnovino la loro organizzazione in funzione a un codice chimico di riconoscimento cellulare.

Nel bulbo olfattivo, gli assoni di neuroni olfattivi riguardanti la stessa molecola recettrice convergono su uno o due glomeruli fare sinapsi con le cellule mitrali e con quelle a pennacchio, cellule di proiezione deputate a elaborare e a trasmettere le informazioni olfattive ad altri centri cerebrali.

La corteccia olfattiva primaria e secondaria

Gli assoni delle cellule mitrali e delle cellule a pennacchio percorrono il tratto olfattivo proiettando a diverse regioni inferiori dell’encefalo che costituiscono la corteccia olfattiva primaria. L’ olfatto, inoltre, è l’unico sistema di senso le cui proiezioni afferenti primarie raggiungono la corteccia primaria senza passare per il talamo. La corteccia olfattiva primaria (paleocorteccia) fa parte dell’allocorteccia ed è caratterizzata da una struttura tristratificata, più semplice e più primitiva di quella a sei strati tipica della isocorteccia (o neocorteccia). Essa include il tubercolo olfattivo, la corteccia piriforme della regione dell’uncus ippocampale, la corteccia entorinale e il nucleo corticale dell’amigdala. Per la forte convergenza di assoni del tratto olfattivo su singoli neuroni corticali, la mappa spaziale esistente nel bulbo olfattivo non si riproduce nella corteccia olfattiva primaria, che presumibilmente usa un diverso codice combinatorio per la distinzione degli odori.

La corteccia olfattiva primaria proietta a varie altre regioni corticali e a centri sottocorticali. Infatti, l’ippocampo e i nuclei profondi dell’amigdala ricevono proiezioni dirette dalla corteccia olfattiva primaria, destinate all’integrazione di memorie ed emozioni. Altre proiezioni della corteccia olfattiva primaria sono dirette al nucleus accumbens e ai nuclei profondi dell’amigdala e hanno il compito di collegare le informazioni olfattive con i centri del piacere e del dispiacere, della gratificazione e della punizione, che mediano anche a lungo termine le reazioni comportamentali di gradimento o di disgusto agli odori e ai sapori. Tramite l’amigdala, altre proiezioni della corteccia olfattiva primaria raggiungono l’ipotalamo, dove le informazioni olfattive possono interagire con i substrati nervosi primari delle attività endocrine e dei comportamenti alimentari.

Infine, la corteccia olfattiva primaria proietta alla corteccia olfattiva secondaria, che strutturalmente fa parte dell’isocorteccia e ha sede nella parte orbitale del lobo frontale. Le proiezioni dalla corteccia olfattiva primaria raggiungono la corteccia orbitofrontale sia direttamente sia indirettamente, tramite i nuclei profondi dell’amigdala e il nucleo medio-dorsale del talamo. La corteccia orbitofrontale, essendo la sede della convergenza delle informazioni dell’ olfatto e del gusto con quelle di altri sistemi di senso, integra a livello cognitivo la regolazione riflessa e istintiva del comportamento alimentare da parte dell’ipotalamo e di altri centri. Poiché l’organizzazione laterale delle vie olfattive è in buona parte non crociata, le informazioni provenienti da ciascuna narice sono elaborate prevalentemente nei centri corticali e sottocorticali dell’emisfero cerebrale dello stesso lato. Le connessioni fra i bulbi olfattivi e altre regioni olfattive dei due lati sono, peraltro, ampiamente assicurate da connessioni trasversali, e in particolare dalla commessura anteriore.

Il sistema del gusto

Nella bocca sono presenti i bottoni gustativi, capaci di individuare le proprietà chimiche di cibi e bevande e, attraverso una serie di tappe, le comunicano al cervello.

La via nervosa afferente che convoglia le informazioni dalla bocca al cervello è costituita da rami della branca mandibolare del nervo trigemino, ed è quindi del tutto distinta dalle vie afferenti propriamente gustative. Le afferenze trigeminali analizzano la consistenza, le dimensioni, la temperatura e la posizione nella cavità orale del cibo ai fini del controllo della masticazione e della deglutizione.
Sul trigemino sono presenti anche recettori termici e dolorifici attivati da cibi piccanti e da temperature elevate. Le acque minerali gasate con un forte contenuto di anidride carbonica stimolano, oltre ai recettori gustativi per il sapore acido, anche i nocicettori trigeminali.
Le sensazioni gustative pure, basate sui cinque sapori fondamentali, inoltre, segnalano la digeribilità e il valore nutritivo o tossico degli alimenti.

Le aree del gusto

Le sensazioni gustative sono distinte dal sistema nervoso in base all’attivazione di diverse combinazioni di recettori e di fibre afferenti alle aree centrali cerebrali che terminano nella parte rostrale del nucleo del tratto solitario nel bulbo. Da qui partono le proiezioni ascendenti dei neuroni di secondo ordine, destinate a raggiungere la componente parvocellulare del nucleo ventro-postero-mediale del talamo dello stesso lato o, in numero minore, del lato opposto.

Il nucleo talamico ventro-postero-mediale proietta alla corteccia gustativa primaria nella porzione granulare della corteccia dell’insula e del contiguo opercolo frontale. A sua volta, la corteccia gustativa primaria proietta alla corteccia orbitofrontale, direttamente oppure indirettamente, tramite la corteccia gustativa secondaria residente in porzioni disgranulari o agranulari dell’insula. La corteccia orbitofrontale integra le informazioni gustative e olfattive con le informazioni provenienti dai visceri e da tutti gli altri sistemi di senso, contribuendo alla regolazione cognitiva generale del comportamento alimentare. L’organizzazione della via gustativa è prevalentemente non crociata, cosicché disturbi del gusto susseguenti a lesioni encefaliche unilaterali colpiscono soprattutto la metà della lingua appartenente allo stesso lato della lesione.
Le aree gustative corticali ricevono informazioni anche dalla metà controlaterale della lingua, tramite le proiezioni ascendenti crociate e le connessioni fra le cortecce dei due lati assicurate dal corpo calloso.

Esiste una gerarchia a tre livelli dell’organizzazione nervosa che elabora le risposte comportamentali agli stimoli gustativi. Il primo livello è rappresentato dal nucleo del tratto solitario, che tramite risposte riflesse, di accettazione o rigetto, consente una distinzione relativamente grossolana fra sostanze potenzialmente nutrienti e sostanze potenzialmente tossiche. Il secondo livello, rappresentato dal nucleo talamico ventro-postero-laterale, dalla parte parvocellulare e dalla corteccia gustativa primaria, è deputato a una discriminazione fine fra gusti diversi e all’integrazione fra segnali puramente gustativi e segnali provenienti da altre modalità sensoriali, specialmente per mezzo delle afferenze trigeminali dalla bocca. Il terzo livello, rappresentato dalla corteccia gustativa secondaria dell’insula e soprattutto dalla corteccia orbitofrontale, presiede alle funzioni cognitive del gusto e alle interazioni con altri sistemi di senso e di controllo del comportamento.

La corteccia gustativa secondaria dell’insula riceve anche afferenze da altre modalità sensoriali e potrebbe svolgere funzioni che trascendono dalla sola analisi degli stimoli gustativi. La corteccia gustativa secondaria, infatti, riceve anche afferenze visive, da stimoli in cui sono presenti immagini legate a espressioni emotive o in cui è presente del cibo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Aggressività in età infantile: il ruolo delle funzioni esecutive 

Una nuova ricerca pubblicata su Frontiers in Behavioral Neuroscience ha indagato la relazione tra aggressività e funzioni esecutive scoprendo che bambini delle scuole primarie con ridotte capacità esecutive, quali pianificazione e autocontrollo, mostravano maggiore aggressività nel corso dell’infanzia.

Quale relazione esiste tra aggressività e funzioni esecutive?

L’aggressività durante l’infanzia può essere in parte dovuta a una maggiore tendenza alla rabbia nei bambini, ciò che è certo è che tali comportamenti aggressivi generano varie difficoltà non solo ai bambini ma anche alle persone che con essi si rapportano: genitori, fratelli e compagni di classe.

Le Funzioni Esecutive (FE) includono abilità cognitive che permettono al soggetto di raggiungere gli obiettivi prefissati modulando il proprio comportamento al fine di adattarsi alle diverse situazioni.
Studi precedenti avevano dimostrano come il comportamento aggressivo fosse correlato a Funzioni esecutive inferiori; tuttavia, pochi studi hanno esaminato il legame tra queste due componenti nel corso del tempo; inoltre, i vecchi studi non chiarivano le relazioni esistenti tra Funzioni esecutive e i tipi specifici di comportamento aggressivo.

In questo studio, i ricercatori dell’Università di Potsdam in Germania hanno studiato la relazione esistente tra Funzioni esecutive e i diversi tipi di aggressività nell’infanzia allo scopo di comprendere se i deficit di queste funzioni portino ad un comportamento aggressivo negli anni successivi.
Il gruppo di ricerca ha valutato i bambini di una scuola primaria in tre momenti: all’inizio dello studio, circa 1 anno dopo e a distanza di 3 anni. I bambini hanno svolto compiti comportamentali per valutare diversi aspetti delle loro Funzioni esecutive tra cui memoria, capacità di pianificazione e autocontrollo. Agli insegnanti è stato chiesto di registrare la tendenza dei bambini ai diversi tipi di aggressività: fisica, relazionale (esclusione sociale dei pari), reattiva (reazione aggressiva alle provocazioni) e proattiva (reazione aggressiva volontaria, senza provocazioni). I genitori invece dovevano completare un questionario che indagava la facilità con cui i bambini tendevano ad arrabbiarsi.

L’autrice dello studio Helena Rohlf ha affermato “Abbiamo scoperto che la presenza di deficit delle Funzioni esecutive aumenta la possibilità di aggressività fisica e relazionale nel corso degli anni: in particolare una ridotta funzionalità esecutiva all’inizio dello studio è associata ad una maggiore aggressività nell’anno successivo e anche nei tre anni seguenti. Abbiamo osservato anche che i deficit erano correlati nel tempo all’aggressività reattiva, ma non all’aggressività proattiva. La spiegazione di questo legame è rilevabile nella definizione stessa di quest’ultimo tipo di aggressività che viene denominata “aggressività pianificata” per il ruolo centrale delle funzioni esecutive. Perciò bambini deficitari in queste funzioni non sono abili nel comportamento pianificato e deliberato, tipico di questa aggressività, essi mostrano quindi bassi livelli di comportamenti aggressivi proattivi. Inoltre non abbiamo rilevato differenze di genere nel comportamento aggressivo, anche se tale atteggiamento è tipicamente più comune tra i bambini di sesso maschile, i legami tra funzione esecutiva, rabbia e aggressività sembrano essere simili per maschi e femmine”.

I risultati suggeriscono che aiutare i bambini ad aumentare la loro funzione esecutiva e a gestire la rabbia, tramite programmi di allenamento specifici, potrebbe ridurre la loro aggressività. Le direzioni di ricerche future sono volte a condurre ulteriori lavori per osservare l’estendibilità dei risultati anche a bambini con livelli di aggressività molto elevati.

Interazione genitori-figli: la sollecitazione in bambini con Sindrome di Down e Disturbo dello Spettro Autistico

Il presente articolo illustra un lavoro di ricerca il cui obiettivo è la descrizione di come la figura genitoriale interagisce sollecitando il proprio figlio in una condizione di gioco; in particolare il focus d’interesse è l’interazione nello sviluppo atipico, nella fattispecie l’interazione con bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico e da Sindrome di Down.

Alice Santoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Interazione genitori-figli in situazioni di sviluppo atipico: abstract

L’obiettivo del presente lavoro è la descrizione di come la figura genitoriale interagisce sollecitando il proprio figlio in una condizione di gioco. In particolare il nostro focus d’interesse è l’interazione nello sviluppo atipico.

L’ipotesi di partenza è che la patologia dei figli possa modificare significativamente i comportamenti d’interazione innati dei genitori.

Il campione della ricerca è costituito da trenta diadi madre-bambino e dalle altre rispettive diadi padre-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico e 25 diadi madre-bambino e padre-bambino con Sindrome di Down.

La raccolta dati è avvenuta attraverso l’osservazione di videoregistrazioni che ritraevano episodi di gioco sociale. La codifica è avvenuta attraverso lo strumento ObsWin ed uno specifico schema di codifica a nove livelli riportato successivamente in appendice (Child and Family Research,Venuti 1994; Bornestein 1988).

Per codificare i dati ottenuti è stato utilizzato il coefficiente statistico Kappa di Choen e per analizare i risultati il test per campioni indipendenti. Per valutare l’ipotesi di partenza è stato applicato il test di Levene di uguaglianza della varianza.

I risultati emersi confermano l’ipotesi di partenza, le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno infatti ad interferire, talvolta anche in modo significativo, sull’abituale comunicazione genitori-figli.

Interazione genitori figli

L’ interazione genitori-bambini è funzionale alla sopravvivenza. I differenti modi d’interagire consentono di stabilire una prossimità psicologica che funge da rampa di lancio per il futuro sviluppo del piccolo. Il legame assume fondamentale importanza soprattutto nei primi mesi di vita, durante i quali il bambino è maggiormente vulnerabile. La figura di accudimento, sia madre, padre o sostituto significativo, diviene indispensabile per garantire un equilibrato sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale.

Specificità e differenze nella relazione parentale

I modelli d’ interazione padre-bambino e madre-bambino mostrano sia delle differenze sia delle somiglianze nei comportamenti. Secondo alcuni autori le differenze sulle attitudini di cura non andrebbero ricercate nelle difformità sessuali, bensì nelle risposte alle pressioni sociali consolidate. Frodi e Lamb (1978) condussero uno studio di laboratorio nel quale venne indagata la risposta ad alcuni segnali emessi da bambini a loro estranei. Venivano monitorate le risposte elettrofisiologiche di madre e padre durante la visione di alcuni filmati. Lo studiò dimostrò che madre e padre risultavano ugualmente attivi e sensibili ai richiami del neonato e ne conseguivano medesimi comportamennti sociali. Certo esistono anche delle peculiarità; le madri prediligono attività di tipo intellettuale, e assolvono a compiti di cura fisica del bambino. I padri sono principalmente partner di gioco, con proposte che tendono ad essere più vigorose e stimolanti rispetto a quelle materne. Il padre diviene istitutore o modello di abilità e valori con un ruolo strettamente correlato dalla sfera normativa dettata dalla società (Paola Venuti, Francesca Giusti, 1996).

Questi studi dimostrano come le differenze siano riscontrabili a livello qualitativo e come il ruolo assunto dal genitore dipenda dal contesto sociale, dalla rete di relazioni, dalle credenze e dai valori di ciascun individuo.

Interazione e sviluppo-atipico

Le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno ad interferire sull’abituale comunicazione fra genitori-figli, rendendo così incapace il bambino di relazionarsi agli altri attraverso le modalità di relazione tipiche. A seconda della gravità della patologia possono essere presenti disfunzioni gravi, oppure le abilità del piccolo con sviluppo atipico possono essere intaccate solo parzialmente.

Sulla base di ciò è molto interessante comprendere quali strategie alternative vengono messe in atto dai genitori e figli per compensare il deficit. Numerosi studi sembrano sottolinerae che i genitori sono in grado di ricalibrare la loro soglia di rispondenza e attivazione di comportamenti utili, al fine di non deprivare di nulla il bambino. I genitori possono imparare a compensare, per lo meno in parte, le capactà interattive ridotte dei propri figli.

Com’è la relazione tra genitori e figli con Disturbo dello Spettro Autistico?

In letteratura le ricerche focalizzate su questo argomento sono poche poiché l’approfondimento riguardante questo campo d’indagine è recente. I deficit caratteristici dell’ autismo rendono difficoltoso lo scambio interattivo e lo svolgimento del proprio ruolo da parte del genitore. La relazione è influenzata dalle difficoltà presenti nello sviluppo comunicativo, vista la mancanza di reciprocità ed interazione del bambino. Altresì la mancanza della comparsa del gioco simbolico, descritto da Baron Choen (1987) come la capacità da parte del piccolo ad utilizzare oggetti in sostituzione di altri, l’attribuire ad essi caratteristiche non realmente esistenti ed il saper fingere giocando mina lo sviluppo semantico, concettuale e meta-rappresentativo. Il rapporto è compromesso anche dalla scarsa empatia del figlio, che non attiverà le risposte attese dai genitori. Alle classiche modalità messe in atto dai genitori non conseguiranno i comportamenti ideali che caratterizzano un bambino con sviluppo tipico. Tale comportamento va dunque a pregiudicare il corretto adattamento del bambino e produce una sensazione di frustrazione nei genitori. La poca responsività del bambino e la scarsissima apertura sociale modificano il modo in cui s’instaura la relazione conferendo ad essa un senso d’inadeguatezza. Per contrastare il senso di manchevolezza i genitori di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico sembrano avere una maggior tendenza al controllo ed alla direttività, mettendo in atto più tentativi per agganciare l’attenzione del piccolo soprattutto attraverso approcci di tipo fisico (Kasari, Sigman, Mundi, Yiriya, 1988; Lemanek, Stone, Fishel, 1993).

Com’è la relazione tra genitori e figli con Sindrome di Down?

Il legame che s’instaura nei primi anni di vita è segnato dai limiti dettati dal ritardo cognitivo che non permette sempre un legame intimo caratterizzato da sicurezza, in quanto vengono meno i prerequisiti necessari. Sebbene l’interazione dei bambini con Sindrome di Down risulti più ricca rispetto a quella dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, si rivela comunque carente rispetto a quella sviluppata dai bambini con sviluppo tipico. Inoltre sono presenti difficoltà comunicative, intellettive ed attentive (Stefano Vicari, 2007). Tutto ciò rende quindi difficile la creazione e la manipolazione delle idee, nonché l’organizzazione globale del proprio comportamento. A livello indiretto inoltre la poca reattività del bambino crea un ostacolo che non permette ai genitori di giungere ad una chiara interpretazione dell’atteggiamento del figlio. Generalmente i genitori per superare questa sfida reagiscono mettendo in atto un comportamento contraddistinto da un eccessivo coinvolgimento nelle cure del figlio. Talvolta la preoccupazione genitoriale si esprime con atteggiamenti intrusivi che, se esasperati, influiscono negativamente sullo sviluppo psichico del piccolo. Tale frustrazione potrebbe non permettere al bambino di raggiungere il più alto livello delle sue potenzialità. Anche in questo caso, come per i genitori dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, madre e padre di bambini con Sindrome di Down attuano comportamenti contraddistinti da una forte direttività (Jenelik Dominus, Dvorak Gijs, 2009).

L’interazione genitori-figli in casi di sviluppo atipico – Lo studio

Campione, procedura raccolta dati e codifica

Il campione della ricerca è costituito da trenta diadi madre-bambino e dalle altre trenta corrispondenti diadi padre-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico, e da venticinque diadi madre-bambino e padre-bambino con Sindrome di Down. I bambini hanno un’età compresa fra i venti ed i sessanta mesi.

La fase di ricerca si è basata sull’osservazione di videoregistrazioni di diadi madre-bambino e padre-bambino impegnati in episodi di gioco sociale.

Inizialmente, per raggiungere un buon utilizzo e una buona conoscenza del codice (Child and Family Research, Venuti 1994; Bornestein 1988), mi sono concentrata sulla visione di diadi con sviluppo tipico e successivamente con il campione vero e proprio.

Le videoriprese, ciascuna della durata di dieci minuti, avvenivano in situazioni strutturate e con un set di giochi adeguati all’età: un servizio da tè, una palla, un trenino, dei libri illustrati, delle botticelle ad incastro, una bambola, una coperta ed un telefono giocattolo. Per codificare i dati si è utilizzato Obswin poiché permetteva che la codifica avvenisse in tempo reale.

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione genitori-figli - LIVELLI

Imm. 1 – I nove livelli di codifica per l’analisi degli episodi di gioco

Per codificare i dati si è utilizzato il coefficiente statistico di Kappa per garantire accuratezza ed affidabilità statistica alla classificazione.

Analisi dei dati

Per analizzare i dati è stato utilizzato il test per campioni indipendenti che permette, attraverso il confronto tra le medie dei due campioni lineari, di decidere se quest’ultimi provengano da due popolazioni diverse o meno. Per valutare questa ipotesi è necessario applicare il test di Levene di uguaglianza della varianza. Se l’ipotesi che le varianze siano uguali viene rifiutata, il procedimento risulterebbe inadeguato. Nelle successive tabelle (con * saranno indicati i dati significativi) saranno riportate unicamente le frequenze, tralasciando le durate della sollecitazione, in quanto risultano decisamente più  informative le prime. Non veranno valutati i valori della variabile 9, detta anche di default.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE TABELLE DELL’ ANALISI DEI DATI

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab1

Tab. 1 – Frequenze livelli di sollecitazione

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab. 2

Tab. 2 – Frequenze livelli di sollecitazione madri

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.3

Tab. 3 – Frequenze livelli di sollecitazione padri

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.4

Tab. 4 – Frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.5

Tab. 5 – Frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down

Conclusioni

I risultati emersi dallo studio evidenziano come i comportamenti d’interazione innati del genitore possano modificarsi, talvolta anche in modo significativo, a seconda delle differenti necessità dettate dallo sviluppo atipico dei propri figli. Le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno infatti ad interferire sull’abituale comunicazione genitori-figli.

Interessanti risultano inoltre le specificità di genere riguardanti i differenti approcci interattivi di madri e padri. Mettendo a confronto la tabella numero 4 (frequenze livelli di sollecitazioni nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico) e la tabella numero 5 (frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down) è possibile osservare come madri e padri rispettino i consolidati ruoli sociali, differenziando qualitativamente la modalità con le quali si relazionano al piccolo. Esaminando le sollecitazioni che avvengono con frequenza maggiore è possibile notare come i padri cerchino di agganciare l’attenzione del proprio figlio soprattutto attraverso l’utilizzo della variabile numero 3 in entrambi i casi di sviluppo atipico. Allo stesso modo le sollecitazioni che avvengono con maggior frequenza osservando esclusivamente i comportamenti delle madri sono tutte riconducibili alla numero 6. La madre dunque, a differenza del padre, anche nel caso di sviluppo atipico sollecita  maggiormente il piccolo a livello intellettuale piuttosto che ludico.

Dall’ analisi ottenuta dalla comparazione tra i gruppi (tabella 1: frequenze livelli di sollecitazione) sono emerse delle significatività riguardanti la variabile numero 5 e numero 7. La variabile numero 5 viene utilizzata maggiormente nel gruppo di bambini con Sindrome di Down, menre la 7 nel gruppo d bambini con Disturbo dello Spettro Autistico.

Osservando la tabella numero 2 (frequenze livelli di sollecitazione madri) le significatività emerse riguardano la variabile numero 1 e nuovamente la variabile numero 7. Come avveniva nella prima tabella, anche qui, la variabile numero 7 ha frequenza maggiore nel gruppo d bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, mentre la 1 in quello dei bambini con Sindrome di Down.

Confrontando le sollecitazioni dei padri in entrambi i casi di sviluppo atipico (Tabella 3: frequenze livelli di sollecitazione padri) è emersa una significativa differenza a carico della variabile numero 5. Questo livello viene utilizzato maggiormente dai padri di bambini con Sindrome di Down.

Nelle ultime due analisi dove si sono confrontati i comportamenti di entrambi i genitori, ma separatamente per ognuna delle patologie dei figli, è emersa una significativa differenza solo nella tabella 4 (frequenze livelli di sollecitazioni nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico), mentre nessuna nella tabella 5 ( frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down). La significatività riguarda la variabile 6 utilizzata con maggiore intensità da parte dei padri.

 

APPENDICE – Guarda qui lo schema di codifica del gioco a nove livelli 

Cosa avviene nel cervello quando muoviamo la testa?

I neuroscienziati del Sainsbury Wellcome Center hanno identificato un circuito nella corteccia visiva primaria del cervello (V1) che integra i segnali del movimento della testa e i segnali di movimento visivo. Lo studio, pubblicato su Neuron, spiega alcuni meccanismi con cui gli input visivi e vestibolari del cervello si sommano per consentire risposte comportamentali appropriate.

 

Il movimento della testa e l’attivazione del cervello

Nella vita quotidiana si muove costantemente la testa per osservare l’ambiente circostante. Per dare un senso alle informazioni che rientrano nello sguardo, è necessario tracciare la posizione della testa; questo si realizza con informazioni che provengono dagli organi di senso vestibolari, che si trovano nell’orecchio interno.

Il team di ricerca ha identificato che nella corteccia visiva primaria (area V1) i segnali vestibolari e i segnali visivi convergono. I segnali vestibolari provengono dalla corteccia retrospleniale, un’area cerebrale pensata per codificare informazioni critiche per la navigazione spaziale nel mondo circostante.

Il direttore associato del Sainsbury Wellcome Centre e direttore del progetto, il professor Troy W. Margrie ha commentato: “Dagli anni ’50 ci siamo concentrati sulla comprensione di come la direzione e la velocità degli stimoli sensoriali siano rappresentati dalla corteccia sensoriale primaria, dimostrando che questo processo corticale dipende dal contesto e coinvolge stimoli interni che segnalano il movimento“.

Per identificare dapprima le aree all’interno della V1 che potrebbero avere accesso ai segnali di testa-movimento, i ricercatori hanno utilizzato sonde di neuropixel all’avanguardia nel cervello di topi, ruotati passivamente. Le registrazioni iniziali sono state effettuate in completa oscurità per garantire che non vi fosse alcun input visivo e i dati hanno mostrato che i neuroni V1 di livello 6 (L6) trasmettono informazioni sul movimento della testa durante la rotazione.

Come avviene l’integrazione dei segnali di testa e di movimento visivo

La seconda parte dello studio, utilizzando registrazioni intracellulari, si è concentrata su quali aspetti del movimento della testa potrebbero essere codificati da tale attività. Lesionando i canali vestibolari e ruotando gli animali a varie velocità, gli autori hanno mostrato che la stragrande maggioranza dei neuroni V1 L6 riceve input sinaptici la cui attività fornisce una stima affidabile della velocità della testa.

Forse l’osservazione più sorprendente è stata la misura in cui questi segnali venivano rappresentati attraverso la rete locale. Anche se si è esplorata solo una piccola frazione dello spazio di stimolo vestibolare, quasi tutte le cellule hanno risposto“, ha osservato il professor Margrie.

Per studiare l’integrazione dei segnali di testa e di movimento visivo nelle singole cellule V1 L6, le registrazioni intracellulari sono state nuovamente ottenute attraverso i topi mentre questi venivano ruotati oltre uno stimolo visivo statico e poi confrontate con i dati delle rotazioni del topo al buio. È stato trovato che i neuroni L6 ricevono un insieme di input distinti da quelli che trasmettono le informazioni di movimento visivo e che questi segnali si sommano linearmente per distinguere il movimento interno da quello esterno e la loro combinazione.

La parte finale dello studio si è concentrata su una potenziale fonte dei segnali di movimento della testa. La corteccia retrospleniale (RSP), un’area del cervello coinvolta nella navigazione spaziale, è stata proposta come probabile candidata a causa della sua connettività monosinaptica con V1 L6 e della sua pertinenza funzionale. Per testare questa teoria, gli pseudovirus sono stati usati per indicare un segnale che permettesse la registrazione ottica degli stimoli di uscita dei neuroni RSP. I dati hanno mostrato che RSP fornisce un percorso plausibile per l’integrazione dei segnali di movimento della testa.

Il professor Margrie ha osservato in conclusione: “Dati i nostri precedenti risultati anatomici e il suo ruolo nell’elaborazione spaziale, l’RSP è stata la nostra prima regione candidata: questi nuovi dati aumentano la possibilità che possano essere trasmessi vari tipi di informazioni spaziali attraverso un locus per la modulazione dipendente dal contesto della segnalazione sensoriale nella corteccia“.

Questa ricerca è stata sostenuta dal British Medical Research Council, Wellcome Trust e The Gatsby Charitable Foundation.

La schema Therapy con i bambini e gli adolescenti (2017) di Loose C., Graaf P., Zarbock G. – Recensione del libro

Nel testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti gli autori usano questa metafora: gli schemi sono atomi che si combinano a formare diverse molecole, i mode. Anche nella terapia con i bambini e gli adolescenti è fondamentale individuare mode, schemi, stili di coping e bisogno primario non soddisfatto.

 

Questo libro è per noi una gioia ma anche una sfida, per la prima volta a livello internazionale, presentiamo l’approccio della Schema Therapy (…) per l’ambito della terapia con bambini e adolescenti.

 

Questo è l’incipit dell’introduzione al testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti, atteso dagli psicologi dell’età evolutiva e dagli psicoterapeuti formati nella Schema Therapy, ideata da Jeffrey Young.

La psicopatologia secondo la Schema Therapy di Jeffrey Young

La Schema Therapy descrive la psicopatologia partendo dai principi fondamentali della psicologia clinica dello sviluppo (Heinrichs & Lohaus, 2011). Nello specifico occorre tenere presente un modello che comprenda l’esame dei seguenti elementi:

  • Fattori di rischio che possono influire o compromettere lo sviluppo emotivo, cognitivo e sociale del bambino fino all’emergere di disturbi psichici. Quali sono questi fattori di rischio? Fattori biografici e culturali del contesto familiare e socio-culturale. Ma anche fattori genetici e di vulnerabilità biologica.
  • Fattori di protezione. Che cosa favorisce lo sviluppo ottimale o cosa riesce a contrastare gli effetti dei fattori di rischio? La disponibilità di almeno una relazione funzionale con un caregiver affettivo è certamente la miglior protezione, oltre alla “robustezza biologica” e ad altri fattori sia personali sia di situazione.

Oltre al modello dei fattori di rischio è da tener presente il modello dei compiti evolutivi (Havinghurst, 1972) e il modello delle dimensioni e costellazioni temperamentali (Herpetz,2008). Nella Schema Therapy fattori di rischio, fattori protettivi, dimensioni temperamentali sono posti in correlazione con i bisogni primari. La frustrazione cronica dei bisogni primari (attaccamento-autonomia-autostima-gioia e divertimento) e del bisogno di coerenza interna, peggiora l’effetto dei fattori di rischio e dirige la psicopatologia. In che modo si sviluppa pertanto la patologia?

La frustrazione cronica dei bisogni e una scarsa coerenza di sé porta alla costruzione di specifici schemi. Essi possono essere definiti come un tentativo, poco funzionale, di soddisfare comunque il bisogno di coerenza ovvero di giungere a un coordinamento di tutti i processi mentali e neuronali per acquisire sicurezza e identità.

Ogniqualvolta un bisogno primario è frustrato si scatenano nel bambino reazioni emotive negative: rabbia, tristezza, paura. Se vissute ripetutamente e con elevata intensità è possibile che il bambino sviluppi un modo stereotipato di comportarsi in reazione a esse.

Abbiamo gli stili di coping o strategie di reazione. Si tratta delle classiche reazioni di allarme tipiche di tutti gli esseri viventi: fight-flight-freeze.

Ovvero con i termini della Schema Therapy:

  1. Stile di coping di iper-compensazione o reazione di attacco o aggressione o fight.
  2. Stile di coping basato su evitamento o reazione di fuga o flight.
  3. Stile di coping della sottomissione e resa o reazione di congelamento o freeze.

Lo schema secondo Jeffrey Young è dunque il risultato di un processo di apprendimento, è inteso come un insieme di ricordi, cognizioni, emozioni e reazioni corporee.

Young ha sviluppato il concetto di mode che definisce così: combinazione di schemi adattivi e maladattivi o di operazioni di schemi che sono attivi contemporaneamente in una persona (Young et al., 2005). Schemi e stili di coping si raggruppano come parti del sé, un modo disfunzionale è una parte del sé che è poco integrata con le altri parti del sé.

La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti: come applicare la Schema Therapy in ogni fase dell’età evolutiva

Nel testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti gli autori usano questa metafora: gli schemi sono atomi che si combinano a formare diverse molecole, i mode.

Anche nella terapia con i bambini e gli adolescenti è fondamentale individuare mode, schemi, stili di coping e bisogno primario non soddisfatto.

Nel testo gli autori illustrano come applicare la Schema Therapy in età evolutiva in ogni fase specifica. Troverete un capitolo per ogni fascia di età dal neonato fino al giovane adulto, nel quale sono descritti i compiti di sviluppo e i principi essenziali della terapia ma anche le tecniche e gli strumenti specifici per ogni età. L’uso dei pupazzi, delle storie, delle metafore e delle carte gioco e del role-play sono strumenti fondamentali dell’approccio con il bambino e l’adolescente; il lettore potrà conoscerli anche attraverso i numerosi casi clinici che gli autori hanno descritto nel manuale.

Volendo fare una sintesi dell’approccio con i bambini è possibile procedere come segue.

La prima tappa è: l’identificazione del mode. Potremmo dire al bambino “dobbiamo creare una squadra, chi sono i giocatori di questa squadra? Quali sono le emozioni che conosci di questa squadra?”.

La seconda fase è accedere al bambino vulnerabile. Un mode che si potrebbe presentare in questa fase è quello del bambino felice, l’altro è il mode del bambino vulnerabile. Al bambino vulnerabile dobbiamo dare tutto perché è il bambino che ha più bisogno di supporto, senza critiche. Ad esempio giocando con le marionette dobbiamo fare in modo che la parte del bambino vulnerabile abbia il pieno sostegno, il nostro obiettivo principale è dare a questa parte del bambino ciò che vuole e capire qual è il bisogno frustrato.

La terza fase riguarda il determinare la funzionalità dei mode del nostro paziente, ovvero riuscire ad individuare tutti i punti di forza e le difficoltà del bambino. Qualunque mode sia, una volta che è compresa la sua funzionalità del mode si procede a riorientare il mode, rafforzando i mode più funzionali e positivi e togliendo così forza alle componenti disfunzionali che determinano comportamenti problematici. Ogni mode ha aspetti funzionali e disfunzionali, ogni mode ha un suo senso, una sua ragion d’essere, non esiste un mode che sia solo sbagliato, bisogna trovare l’alternativa che possa svolgere un lavoro che questo mode non riesce a fare. Ultima fase è il trasferimento di questo nella vita di tutti i giorni, nessuna terapia ha senso senza che abbia un effettivo beneficio nella vita quotidiana.

Peter Graaf dedica uno specifico capitolo di La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti al lavoro con i genitori. Come sempre non è pensabile e non è efficacia fare psicoterapia con i bambini senza coinvolgere i genitori e in molti casi progettare un lavoro specifico con loro.

Nella maggior parte dei casi, spiega l’autore, il coaching dei genitori è una parte irrinunciabile del percorso terapeutico.

In Schema Therapy si usa l’espressione coaching genitoriale per indicare una forma di consulenza sullo sviluppo del bambino e sulla comprensione di come i propri schemi possano colludere con gli schemi dei figli. I genitori sono guidati anche verso l’individuazione dei propri schemi maladattativi, il comportamento problematico del figlio potrà essere visto anche come sintomo derivato dall’esistenza di schemi e mode disfunzionali in famiglia.

Strumenti e tecniche del coaching dei genitori sono la psico educazione, il role-play, la tavola della famiglia, il disegno, gli esercizi immaginativi e le letture specifiche.

E’ possibile un lavoro con i genitori in parallelo con la terapia del bambino ma anche sedute familiari o sedute con il bambino e un singolo genitore.

Gli autori descrivono, inoltre, quali aspetti generali indicano o controindicano il trattamento con quest’approccio.

Schema Therapy in età evolutiva: indicazioni per l’uso

Controindicazioni all’uso della Schema Therapy in età evolutiva:

  • In presenza di sintomi acuti e pericolosi (grave anoressia)
  • In presenza di sintomi psicotici.
  • In presenza di sintomi neurologici o gravi ritardi nello sviluppo.

Indicazioni all’uso della Schema Therapy in età evolutiva:

  • Il bambino non è ancora pronto per la terapia cognitivo comportamentale.
  • Il bambino non riesce a esercitare strategie di autocontrollo.
  • Il bambino tende a evitare emozioni e pensieri legati al comportamento problematico.
  • Il bambino non pensa di avere abbastanza risorse da affrontare le situazioni problematiche e non spera in un miglioramento.

Ho trovato il manuale La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti ricco di strumenti e casi clinici ma anche di un’esaustiva parte teorica esplicativa dei principi della Schema Therapy, pertanto utile a psicologi e psicoterapeuti che lavorano con l’infanzia ma ancora non formati nelle tecniche di J.Young.

 

Aborto e lutto perinatale: il dolore della perdita di un figlio

La perdita di un figlio in gravidanza o nell’immediato post-partum è un evento luttuoso, che comporta una serie di reazioni psicologiche e comportamentali. Spesso il lutto perinatale è un’esperienza traumatica che richiede del tempo per essere elaborata.

 

La perdita di un figlio in gravidanza o nell’immediato post-partum è un evento luttuoso, che comporta una serie di reazioni psicologiche e comportamentali. Si utilizza l’espressione lutto perinatale per indicare la morte di un figlio che avviene tra la ventisettesima settimana di gestazione e i primi 7 giorni di vita del bambino. Gli eventi che comportano la perdita di un figlio nel periodo perinatale sono molteplici e comprendono l’aborto spontaneo, l’interruzione volontaria o terapeutica della gravidanza, la morte intrauterina e la morte subito dopo il parto.

Le fasi del lutto perinatale

Quando si perde una persona cara e, dunque, anche quando viene a mancare un bambino non ancora nato o appena dato alla luce, si attivano diversi vissuti emotivi che caratterizzano le diverse fasi del lutto (Ravaldi, 2009). La prima fase è quella dello shock e della negazione e caratterizza i primi giorni dopo aver ricevuto la notizia della perdita; stordimento, incredulità e negazione sono le emozioni e i vissuti più comuni. Segue la fase della realizzazione, in cui si inizia a prendere consapevolezza della perdita e a prendere contatto con l’esperienza del dolore e può comparire il senso di colpa associato al pensiero che qualcosa poteva essere fatto per evitare la perdita. La terza fase è quella della protesta, in cui compare l’emozione della rabbia, il sentirsi vittime di un’ingiustizia e si possono ricercare delle colpe e responsabilità nei medici, nel contesto ospedaliero, ecc. Segue la fase della disorganizzazione, in cui possono comparire depressione e tendenza all’isolamento e all’evitamento di alcune situazioni legate alla genitorialità; si pensa sia meglio non parlarne e far finta con gli altri che nulla sia successo. Talvolta l’isolamento può essere messo in atto anche nei confronti del partner, soprattutto se i due genitori hanno un modo differente di vivere il dolore. Solo dopo aver attraversato tali fasi ed il dolore associato ad esse è possibile accedere alla fase della riorganizzazione e accettazione, la sofferenza comincia ad attenuarsi, la ricerca della solitudine e l’evitamento si riducono e pian piano si ricomincia a coltivare interessi ed è possibile che ricompaia il desiderio di maternità.

Il lutto perinatale come esperienza traumatica per la famiglia

Da questo si deduce che la perdita di un figlio è spesso un’esperienza traumatica che richiede del tempo per essere elaborata e avviene mediante l’attraversamento del dolore emotivo, dell’angoscia e di pensieri disturbanti, dei ricordi e dei flashback associati all’evento. Il livello della sofferenza può essere intenso e la durata variabile.

Essere ascoltate, comprese, validate e contenute emotivamente diventa fondamentale per non sentirsi sole in quest’esperienza di dolore e per poter giungere ad attribuire un senso condiviso all’evento vissuto. Il lutto perinatale comporta l’interruzione della genitorialità e della relazione di attaccamento con il proprio bambino; per questo il processo di rielaborazione può durare da 6 mesi a 2 anni e talvolta purtroppo può trasformarsi in un lutto complicato non elaborato o può comportare l’insorgenza di un disturbo psichico, tra cui la depressione o il disturbo post traumatico da stress.

La ferita può restare aperta anche tutta la vita se non si riesce a darle un significato. Tentare di consolare i genitori in lutto consigliando di riprovarci o ricordando che hanno già altri figli, qualora presenti, non attenua la sofferenza dei genitori che hanno subito la perdita di un figlio; essi hanno bisogno di vivere il proprio dolore per poi giungere gradualmente all’accettazione della perdita. Alcuni riti, quali dare sepoltura al bambino non ancora nato e andare al cimitero possono aiutare ad elaborare tale dolore, a non negarlo e a prendere contatto con l’esperienza vissuta. Il lutto vissuto non deve diventare un tabù, una vergogna, anzi è opportuno che se ne parli e si pianga il bambino perso senza vergogna o pudore.

È importante anche ricordare che alle volte quando avviene un lutto perinatale, vi sono anche fratelli o sorelle che non vedono arrivare il fratellino tanto atteso. Molti genitori pensano che sia pericoloso o dannoso esporre i bambini all’esperienza della morte; per questo tendono ad evitarlo o a minimizzarlo. Questo in realtà impedisce ai bambini di poter vivere e condividere il dolore della perdita con gli adulti e in particolare con i genitori. Si sostiene, invece, che sia importante fornire ai bambini informazioni e spiegazioni semplici e veritiere sull’accaduto, in modo tale che possano anch’essi elaborare e integrare tale esperienza e i vissuti che ne conseguono nell’ambiente protetto e sicuro della famiglia.

Dunque, per elaborare e giungere emotivamente all’accettazione del lutto perinatale è opportuno darsi tempo, vivere il dolore, condividerlo e provare a dargli un senso. Esperienze di supporto psicologico o di gruppi di mutuo-aiuto possono essere una risorsa che può accompagnare la coppia in un processo di elaborazione. Talvolta è possibile ricorrere alle tecniche dell’EMDR  o della terapia senso-motoria per il trattamento dei disturbi post-traumatici che possono eventualmente insorgere dopo l’esperienza traumatica del lutto.

La malattia invisibile. Diagnosi e terapia della fibromialgia – Report Congresso di Palermo

Il 17 marzo si è svolto a Palermo il Congresso di aggiornamento promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e dall’Università degli Studi di Palermo, avente come oggetto di analisi la valutazione diagnostica e il trattamento della fibromialgia.

 

Si è svolto lo scorso 17 marzo a Palermo, nella prestigiosa cornice di Palazzo Steri, il Congresso di aggiornamento promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e dall’Università degli Studi di Palermo ed avente come oggetto di analisi la valutazione diagnostica e il trattamento della fibromialgia, sindrome cronica dolorosa riconosciuta nella sua specificità nosografica solo nel 2010, nell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione mondiale della Sanità.

Un evento innovativo, dal punto di vista di un’informazione scientifica finalizzata a delineare le caratteristiche di una patologia ancora poco nota e a tracciare l’efficacia dei trattamenti neuronali e psicologici attualmente disponibili.

Ad aprire i lavori la lectio magistralis del Professore Massimiliano Oliveri, neurologo e professore ordinario di neuroscienze cognitive all’Università degli Studi di Palermo, che sottolinea la caratteristica neuronale distintiva della fibromialgia nella perdita della capacità di modulazione del dolore.
“Nella fibromialgia i processi inibitori del dolore non risultano adeguatamente funzionanti, con una riduzione del neurotrasmettitore inibitorio GABA, con il risultato che i processi eccitatori prendono il sopravvento, nello specifico l’eccitazione della corteccia motoria – spiega Oliveri – Da tale constatazione scientifica derivano i trattamenti di neuro modulazione più adeguati, che consistono nell’eccitazione delle aree motorie, finalizzata all’attivazione del GABA e della serotonina verso le vie discendenti. Dobbiamo riconoscere due fondamentali sistemi trattamentali: la stimolazione magnetica ad alta frequenza diretta alla corteccia motoria, utile se applicata per un periodo di due settimane, tutti i giorni, benchè il dolore tenda a ricomparire, e la stimolazione elettrica transcranica, i cui risultati di efficacia risultano ancora limitati. È altresì da sottolineare come ai trattamenti di tipo neurologico si debbano affiancare trattamenti psicologici e, se necessario, farmacologici”.

Fibromialgia: quali sono i sintomi

A procedere nella descrizione approfondita dei sintomi specifici della fibromialgia la relazione del Dr. Piercarlo Sarzi Puttini, Professore a contratto in Reumatologia presso l’Università degli Studi di Milano.
“La fibromialgia, con una prevalenza femminile dal 2% all’8%, è una sindrome clinica contraddistinta da un insieme di sintomi eterogenei quali un dolore muscoloscheletrico cronico e diffuso, rigidità, affaticamento cronico, disturbi del sonno, in una percentuale che arriva al 90% dei casi, disturbi della memoria e della concentrazione, ansia, depressione, con generale scadimento della qualità di vita e costi socio-economici diretti e indiretti. Insomma, il cervello del fibromialgico è di venti anni più vecchio rispetto a un cervello di un soggetto sano. Nonostante i progressi nella gestione del dolore, bisogna dire che a oggi il dolore cronico rimane un problema irrisolto in molti Paesi”.

Aspetti cognitivi e strumenti terapeutici

Sugli aspetti cognitivi della fibromialgia, e sugli strumenti terapeutici, si è quindi concentrata la relazione del Dr. Massimiliano Curatolo, psicologo.
“A livello cerebrale nella fibromialgia si riscontra una significativa riduzione del volume encefalico, della dopamina a livello presinaptico e della sostanza grigia – sottolinea Curatolo – Una situazione che si traduce in tutta una serie di deficit cognitivi riassumibili nel concetto di nebulosità mentale, quali difficoltà nell’attenzione, nella memoria, in particolare verbale, spaziale e a lungo termine, rallentamento dei tempi di reazione e alterazione delle funzioni esecutive, che determina deficit nella capacità decisionale. Dal punto di vista dei trattamenti la stimolazione elettrica transcranica permette di ottenere un miglioramento dei sintomi deficitari a carico di memoria e attenzione”.

A concludere le relazioni non poteva mancare la disamina delle componenti affettive della fibromialgia, nella misura in cui la componente ansioso-depressiva è da considerarsi correlato classico della patologia, in una genesi multifattoriale in cui le componenti psicologiche, quali traumi psichici, hanno altresì un ruolo, insieme a componenti di tipo medico, come traumi fisici, incidenti, infezioni.

“Al momento le cause della fibromialgia non sono note, anche se tra le ipotesi multifattoriali più accreditate sono inclusi traumi fisici e psicologici, come lutti. Resta comunque certo che la diagnosi di fibromialgia porta con sé correlati di tipo ansioso e depressivo – spiega la Dr.ssa Sandra Giordano, psicologa – La malattia è devastante e può innescare un drammatico effetto domino che non risparmia il lavoro, la famiglia, la comunità, la vita di coppia e la percezione del futuro. Si tratta di una malattia invisibile: chi ne è affetto non di rado viene definito malato immaginario, benchè la sua sia una sofferenza tangibile, scandita continuamente dalle parole Sto male, in un racconto di sé che la terapia ha il compito di cambiare in maniera più funzionale. Un’azione terapeutica che si scontra con lo scetticismo dei pazienti verso medici e farmaci, infatti non di rado vengono riportati insuccessi e insoddisfazioni per le terapie seguite. Dal punto di vista del trattamento molto importante è il gruppo psicoeducativo, composto da non più di venti pazienti e due terapeuti, e della durata massima di venti sedute, in cui, assegnato un tema, questo viene discusso, con la finalità di contenere le ansie della patologia e di portare a casa con sé informazioni utili. Riguardo invece ai gruppi di mutuo aiuto essi risultano efficaci nella misura in cui permettono la libera circolazione di emozioni e vissuti e la condivisione di esperienze simili, benchè, nel caso della fibromialgia, sia necessario prevedere una terapia individuale, viste le esigenze di visibilità e di richiesta di attenzioni che i pazienti portano. Grazie infine alla psicoterapia di gruppo è favorita la narrazione della storia di vita dei pazienti e la messa in gioco nello psicodramma”.

La fibromialgia, una patologia al confine tra cervello e mente, emozioni e cognizione, che richiede aggiornamento scientifico, sensibilità clinica, multi-professionalità, affinché il lamento somatopsichico di chi soffre non resti relegato a questione di pura immaginazione e isterica richiesta di attenzioni, prolungando le sofferenze di chi ha diritto a un ascolto che cura e a una cura basata sull’ascolto di un paziente che sempre resterà, nell’ottica di un’alleanza terapeuticamente fondata, il massimo esperto dei propri disagi.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale ottiene prove di efficacia in un trial clinico randomizzato

Popolo e Dimaggio (2016) hanno disegnato e manualizzato un approccio breve, 16 sedute, psicoeducazionale ed esperienziale, denominato TMI-Gruppo (TMI-G). L’idea dalla quale tale approccio partiva è che la metacognizione, essendo in buona parte contesto-dipendente, può essere allenata in contesti semi-naturali come il gruppo.

 

Sviluppare modelli di trattamento. Manualizzarli. Verificarli empiricamente. La forza del cognitivismo nel bene e nel male è sempre stata questa. È una mission che ha portato prima a disegnare la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Semerari, Popolo, Carcione e Nicolò, 2007). Poi a manualizzarne le procedure, in particolare per i pazienti con prevalente inibizione comportamentale ed emotiva (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013).

A quel punto siamo passati alla verifica empirica. Una prima serie di casi singoli (Dimaggio et al, 2017) e una multiple baseline case series (Gordon-King, Schweitzer & Dimaggio, 2018) hanno dato preliminari prove di efficacia.

Il passaggio successivo era tentare uno studio randomizzato di efficacia, forti anche degli esiti notevoli di un recente trial in cui i Metacognition Oriented Social Skills Training (disegnati dal nostro Paolo Ottavi) si sono dimostrati nettamente superiori ai Social Skills Training tradizionali (Inchausti et al., 2018).

Insieme (Popolo & Dimaggio, 2016) abbiamo quindi disegnato e manualizzato un approccio breve, 16 sedute, psicoeducazionale ed esperienziale, denominato TMI-Gruppo (TMI-G). L’idea dalla quale partiva è che la metacognizione, essendo in buona parte contesto-dipendente (Semerari, 1999) può essere allenata in contesti semi-naturali come il gruppo. L’idea è che la metacognizione peggiori proprio quando la persona è guidata da scopi personalmente rilevanti ed è guidata da previsioni negative (schemi interpersonali) riguardo al loro raggiungimento. “Desidero essere amato, mi aspetto che l’altro mi rifiuti. Desidero essere apprezzato, mi aspetto che l’altro mi critichi”.

Quindi le persone soffrirebbero a causa dell’attivazione di questi schemi e in quei casi le abilità metacognitive, necessarie per aumentare la possibilità che l’assetto relazionale sia buono, cadono.

Siamo partiti dall’idea che fosse utile:

  1. spiegare ai pazienti quali siano i sistemi motivazionali interpersonali che li guidano, a partire dall’elaborazione fatta dai nostri colleghi italiani (Giovanni Liotti, Giovanni Fassone, Antonella Ivaldi, Benedetto Farina, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Cecilia La Rosa e tanti altri);
  2. che sotto l’attivazione di questi sistemi le persone provano determinati pensieri ed emozioni e si comportano in certi modi.

A partire da questa conoscenza di sfondo, la parte psicoeducazionale del programma, i pazienti erano invitati a raccogliere episodi narrativi specifici problematici durante i quali erano stati guidati da quello scopo/sistema motivazionale (e.g. agonismo, appartenenza, esplorazione).

La metacognizione, come dicevamo, va allenata nei contesti naturali. Questa è la parte esperienziale del programma. I pazienti erano invitati al role-play degli episodi selezionati, volto prima a comprendere gli stati mentali, propri e degli altri, e successivamente a mettere in atto forme più efficaci e adattive di problem-solving guidato da un’ aumentata comprensione metacognitiva della relazione. In altre parole a migliorare la mastery!

TMI-Gruppo: quale efficacia?

A quel punto era il momento di testarne l’efficacia.

Raffaele Popolo insieme a Daniela Rebecchi e ai colleghi del Servizio Psicologia Clinica DSM AUSL di Modena ha condotto un trial randomizzato con gruppo di controllo. 10 pazienti hanno ricevuto 16 sedute di TMI-Gruppo e 10 sono stati in lista d’attesa+treatment as usual (TAU). I risultati sono stati ottimi. Nel gruppo TMI-Gruppo 8 pazienti su 10 hanno completato il programma. Non ci sono stati effetti avversi neanche nei due drop-out (per altro dovuti a motivi di organizzazione). Il gruppo TMI-Gruppo si è dimostrato chiaramente superiore nel migliorare i sintomi e il funzionamento interpersonale dei pazienti rispetto al gruppo di controllo. La magnitudine del cambiamento era ampia. La metacognizione, come previsto, è migliorata in modo significativo nel solo braccio TMI-Gruppo (TMI-G), in particolare per quanto riguarda autoriflessività e mastery. I risultati si sono mantenuti al follow-up (Popolo et al., 2018).

Con questo studio la TMI, in particolare nella forma TMI-G entra a buon diritto nelle terapie per i disturbi di personalità empiricamente supportate, anche se naturalmente il livello di prove empiriche è solo iniziale. Sulla base di una power analysis, abbiamo valutato che è necessario uno studio randomizzato con almeno 20 pazienti per braccio. Di conseguenza è da poco iniziato un nuovo studio randomizzato di efficacia nello stesso sito del precedente.

In parallelo, a Saragozza è in corso uno studio pilota di efficacia (10 pazienti) per valutare la possibilità di replicare i risultati e disseminare l’approccio in altri paesi. In Norvegia è in corso uno studio simile, con la TMI-Gruppo applicata in più unità psichiatriche. È attualmente in corso di approvazione etica e finanziamento un largo studio randomizzato multicentrico internazionale (Spagna come paese di base, Italia, Norvegia, Australia e Scozia).

TMI-G: Riassumendo

È possibile sviluppare in Italia trattamenti soggetti a verifica empirica? Sì. Fatto.

È possibile testarli? Sì, fatto.

È efficace un trattamento per i disturbi di personalità basato sulla comprensione dei propri schemi interpersonali e sul miglioramento della metacognizione? Sembra proprio di sì.

Servono più prove empiriche a supporto della sua efficacia? Sì, le stiamo raccogliendo.

La metacognizione aumenta nel corso di trattamenti orientati al suo miglioramento? Decisamente sì!

Genitori: quando è necessario richiedere l’aiuto di un esperto?

Come fanno i genitori a valutare se sia necessario o meno l’intervento di un professionista per aiutare il loro figlio/a? E’ possibile iniziare prendendo in considerazione tre parametri: durata, intensità e impatto sullo sviluppo del bambino e sul funzionamento della famiglia. 

 

Come valutare se è necessario rivolgersi ad un professionista per un disagio del proprio figlio

I genitori, anche a causa delle numerose notizie che passano attraverso differenti canali di comunicazione, sono molto preoccupati circa la salute mentale dei propri figli.
Quindi, come fanno i genitori a valutare se sia necessario o meno l’intervento di un professionista per aiutare il loro figlio/a?

E’ possibile iniziare prendendo in considerazione tre parametri:

Durata: il comportamento o i comportamenti considerati, da quanto tempo si verificano? Settimane o mesi?

Intensità: il comportamento target viene messo in atto all’interno di diversi contesti, ad esempio a scuola e a casa, oppure si verifica solo all’interno di un unico luogo? Il comportamento target, ha un andamento costante oppure peggiora nel tempo?

Impatto sullo sviluppo del bambino e sul funzionamento della famiglia: la famiglia sta adattando, o modificando negativamente, le proprie abitudini per adattarsi al comportamento del bambino?

Maggiori saranno la durata, l’intensità e l’impatto generale e più è probabile che i genitori dovranno rivolgersi ad un professionista.

Al di là di queste linee guida, è importante che i genitori siano consapevoli del fatto che:
– Intervenire tempestivamente su un’eventuale disfunzione è importante e può evitare l’aggravarsi della situazione. Esistono trattamenti efficaci che forniscono risultati positivi in tempi brevi.
– Alcuni comportamenti, molto gravi, anche se vengono messi in atto una sola volta, devono essere presi sin da subito in considerazione e i genitori dovrebbero prontamente rivolgersi a un esperto.
– I bambini sperimentano forme di disagio che manifestano in diversi modi in differenti età.

Espressione del disagio nelle diverse età

– Neonati e bambini in età prescolare: anche i bambini piccoli possono diventare depressi o ansiosi. In questa fascia d’età, il disagio viene manifestato soprattutto attraverso un’accentuazione dei capricci o del comportamento irritabile.
Bambini in età scolare: i bambini possono iniziare a manifestare paure o ansie relative alla scuola, come verifiche e interrogazioni, o relative all’interazione con gli altri bambini, ad esempio, i bambini possono avere difficoltà a fare amicizia con i compagni.
– Pre-adolescenti e adolescenti: a questa età, sono diverse le preoccupazioni per i genitori, come il bullismo e cyberbullismo, abuso di alcol e droghe e tutto ciò che concerne la sfera sessuale (ad esempio, la protezione durante i rapporti).

Queste linee guida permettono ai genitori di effettuare una prima valutazione rispetto al fatto che i comportamenti del proprio figlio facciano parte di uno sviluppo normale o se effettivamente richiedano una valutazione attenta da parte di un professionista. Quest’ultimo sarà in grado di stabilire se i comportamenti del bambino, indicati dai genitori, rappresentino:
– Una variante evolutiva: cioè, un comportamento atteso rispetto all’età.
– Un problema: questi comportamenti generano un disagio eccessivo al proprio figlio/a.
– Un disturbo: sono soddisfatti i criteri di una determinata categoria diagnostica.

Prendersi cura dei propri figli, non significa solo fare attenzione all’eventuale espressione di particolari disagi, ma è importante anche tutto ciò che i genitori possono fare di positivo per loro; ad esempio, giocare con i propri bambini, aiutarli a esprimere desideri e preoccupazioni e a coltivare insieme le loro passioni.

I trattamenti non necessari alla nascita. Effetti sul vissuto delle donne e delle famiglie – Report dal Convegno di Palermo

Demedicalizzazione, benessere della donna nel delicatissimo momento del parto e lungo tutto il percorso nascita, considerazione del parto quale evento naturale, fisiologico, in cui la donna detiene un ruolo attivo, partecipato, informato, nell’ottica del contrasto alla violenza ostetrica.
Questo, in sintesi, il messaggio forte del Convegno svoltosi a Palermo “I trattamenti non necessari alla nascita. Effetti sul vissuto delle donne e delle famiglie” in occasione della Festa della Donna e organizzato dall’Ordine degli Ostetrici di Palermo, in collaborazione, tra gli altri, con l’Assessorato alla Salute.

 

Un convegno per sensibilizzare al tema della violenza ostetrica

Questo convegno è pensato per sensibilizzare al tema della violenza ostetrica, in cui un ruolo importante ha l’abuso di medicalizzazione, secondo la definizione ufficiale di violenza ostetrica risalente al 2007. Chi denuncia deve essere attenzionato, al fine di garantire alla donna quel benessere psicologico ottimale per vivere il parto nel miglior modo possibile” apre i lavori Elio Lo Presti, Ostetrico con Funzioni di Coordinamento Area Ostetrica/Ginecologica ASP Palermo e Presidente del Comitato Scientifico del Convegno.

Rispetto alla medicalizzazione del parto segue quindi la dettagliata relazione di Patrizia Quattrocchi, antropologa e ricercatrice, che illustra i paradigmi culturali legati alla nascita, tra cui quello scientifico rappresenta il più diffuso, ma, non per questo, esclusivo.

Il modello biomedico guarda alla nascita come un evento patologico, legato al concetto di rischio/sicurezza. Questo modello riduce lo sguardo sulle possibilità Altre, in cui instaurare un dialogo tra medicina e antropologia – sottolinea Quattrocchi – Se infatti intendiamo il parto come evento medico l’ospedale sarà luogo di eccellenza, ma se la donna è in salute perché standardizzarla come malata in un luogo di cura? Ecco il modello che ispira il parto a domicilio, avviato in Emilia Romagna fin dal 1999, in cui il parto, letto in chiave fisiologica, naturale, è riferito all’ostetrico e il ginecologo interviene solo nelle emergenze. In definitiva concepire il corpo della donna come corpo-macchina, come avviene nell’eccesso di ecografie, è un abuso vero e proprio, una limitazione all’autonomia e alla partecipazione, poiché spersonalizza la donna, la rende passiva, diviene fonte di stress, paura e impotenza per lei e i familiari”. Alta tecnologia che si traduce in basse relazioni umane ed è proprio nella relazione di fiducia che si gioca la riuscita di un parto e la soddisfazione percepita dalla donna e dalla famiglia.

I trattamenti non necessari alla nascita. Effetti sulle donne e le famiglie

In quanto esperta della sua gravidanza, impegnata e responsabile nel processo che darà vita al suo bambino, la donna deve essere coinvolta nel processo del parto, creando intesa e alleanza tra lei e l’équipe medica, attraverso una buona comunicazione e informazione sia con la neomamma che all’interno della stessa équipe – spiega Marco Braghero, docente di educazione fisica e pedagogista – L’assenza di informazione e fiducia determina violenza percepita dalla donna, al punto che la violenza si può definire istituzionale. Esemplificando, se devo adottare una tecnica salvavita, anche se brusca, se ho informato preventivamente la donna sulla possibilità di utilizzo e ho creato prima un rapporto di fiducia con la partoriente, il suo uso non sarà percepito come abuso, come coercizione. Questo è molto importante poiché un parto vissuto negativamente può determinare nella donna la drastica decisione di non avere più figli in futuro”.

Come vivere l’esperienza del parto in maniera positiva e gratificante

Un’informazione sulle tecniche che si affianca a un’attenzione ai vissuti emotivi nel rapporto con il nascituro e che guarda al futuro, al figlio del desiderio.
È importante puntare al dialogo creativo, chiedendo alla partoriente come immagina la gravidanza nei nove mesi, coinvolgere i familiari e prevedere altresì incontri entro il secondo anno, nell’ottica di un dialogo aperto e della continuità assistenziale. Perché il servizio non si esaurisce con il parto, in quanto servizio alla persona” continua Braghero.

Autonomia decisionale, partecipazione, presa di consapevolezza, soddisfazione della neomamma, che si traducono in un’esperienza del parto positiva e gratificante, diritto inalienabile per ogni donna.

Un diritto che comprende diverse modalità come la possibilità di scegliere la presenza del compagno durante il travaglio e le strategie di gestione del dolore, così come la libertà di movimento durante il parto. Un diritto che rappresenta un passaggio di visione, dal parto come pericolo, al parto come gratificazione, un diritto che riconosce il potenziale delle madri nella gestione di un momento fondamentale nella condizione di ogni donna, in grado di condizionare il rapporto con il figlio, il partner, la visione stessa della donna mamma come efficace portatrice di vita e sviluppo.

Realtà virtuale: cos’è e come può essere utilizzata in psicoterapia?

La realtà virtuale è composta da fattori esperienziali e tecnologici in grado di portare ad un cambiamento radicale all’interno dell’esperienza che il soggetto fa di sè. Sempre più le ricerche che guardano ai potenziali sviluppi di tale strumento nel contesto della psicoterapia.

 

Si inizia a parlare di realtà virtuale tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del 1900, quando lo scrittore Stanley Weinbaum pubblica il racconto breve The Pygmalion’s Spectacles, in cui fa riferimento a visori per la realtà virtuale basati su registrazioni olografiche di esperienze in grado di stimolare il senso della vista e dell’udito ed anche il senso del tatto e dell’olfatto.

La storia di questo strumento in ambito medico ha inizio quando, nel 1989, Jaron Lanier coniò il termine ‘Virtual Reality’ e fondò la Prima Compagnia di Ricerca sulla realtà virtuale, la VPL Research. Nel giro di un paio di anni, l’utilizzo di questo mezzo fu esteso al campo della psicologia e furono pubblicati i primi articoli delle ricerche sull’utilizzo della realtà virtuale all’interno dell’assessment e di protocolli di trattamento psicologici (Rothbaum et al. 1995; North, North & Coble, 1997).

Realtà virtuale (virtual reality o VR) vs realtà aumentata (augmented reality o AR)

La realtà virtuale è un aggregato di ausili tecnologici e branche del sapere abbastanza diverse tra loro ed è composta da fattori esperienziali e tecnologici. Relativamente all’aspetto esperienziale, la realtà virtuale rappresenta un cambiamento radicale all’interno dell’esperienza mediale: il soggetto da osservatore di un’azione ne diventa protagonista. Vedere, udire, toccare, manipolare oggetti che non esistono, percorrere spazi senza luogo in compagnia di persone che sono altrove, è quanto sembra proporci tale innovazione tecnologica. Questo processo attivo di interazione con il mondo virtuale produce il senso di presenza, cioè la sensazione di essere nell’ambiente virtuale.

La realtà virtuale (VR) nasce dall’idea di “replicare” la realtà quanto più accuratamente possibile dal punto di vista visivo, uditivo, tattile e anche olfattivo, per compiere azioni nello spazio virtuale superando limiti fisici, economici e di sicurezza. Il soggetto viene proiettato all’interno di mondi alternativi, catapultato in ogni angolo del mondo vivendo avventure in prima persona.

Per realtà aumentata (AR) si intende, invece, la rappresentazione di una realtà alterata in cui, alla normale realtà percepita attraverso i nostri sensi, vengono sovrapposte informazioni sensoriali artificiali/virtuali. Si tratta di un potenziamento percettivo, basato fondamentalmente sulla generazione di contenuti virtuali da parte di un computer e dalla loro sovrapposizione con la realtà.

In sintesi, possiamo dire che la realtà aumentata è basata sul potenziamento dei sensi, mentre la realtà virtuale sull’alterazione.

Diverse esperienze di realtà virtuale

Un sistema di realtà virtuale è costituito da una serie di strumenti in grado di ottenere informazioni sulle azioni del soggetto (strumenti di input), che vengono integrate e aggiornate in tempo reale dal computer in modo da costruire un mondo tridimensionale dinamico, per essere restituite al soggetto attraverso sofisticati strumenti di fruizione dell’informazione (strumenti di output). In base agli strumenti di output utilizzati è possibile distinguere tre tipi di realtà virtuale:

  • Immersiva: concernente dispositivi sonori, di visualizzazione, di movimento e tattili (casco 3D, guanti e tracciatori sensoriali) che isolano i canali percettivi del soggetto immergendolo in toto, a livello sensoriale, nell’esperienza virtuale che si accinge a compiere (Melacca, 2016). L’interazione è data da uno o più sensori di posizione (tracker) che rilevano i movimenti del soggetto e li trasmettono al computer, così che questo possa modificare l’immagine tridimensionale in base alla posizione e al punto di vista assunto dal soggetto (Morganti, Riva, 2006)
  • Semi-Immersiva: determinata da stanze fornite di dispositivi e schermi di retro-proiezione surround che riproducono le immagini stereoscopiche del computer e le proiettano sulle pareti, con differenti forme e gradi di convessità, adeguati indici di profondità dell’immagine, dando il cosiddetto effetto tridimensionale (Melacca, 2016)
  • Non Immersiva: determinata da monitor che funge da “finestra” attraverso cui l’utente vede il mondo in 3D; l’interazione con il mondo virtuale può essere effettuata attraverso il mouse, il joystick o altre periferiche come i guanti (Melacca, 2016)

Come integrare la realtà virtuale in psicoterapia

All’interno di un percorso di psicoterapia, la realtà virtuale può rappresentare un valido strumento di aiuto per terapeuta e paziente. Di particolare interesse è la possibilità che offre al paziente di partecipare attivamente al riconoscimento e alla presa di consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri, in situazione. È questo uno dei vantaggi della realtà virtuale, ma anche il punto di condivisione con la terapia cognitivo-comportamentale: la visione del paziente come attivo costruttore della propria esperienza, e quindi del cambiamento.

Posti a confronto con i tradizionali protocolli terapeutici, gli interventi con ambienti virtuali mostrano numerosi punti a favore. I vantaggi possono essere identificati in tre principali possibilità innovative:

  • Lo psicoterapeuta può realizzare l’assessment in situazione con il paziente, costruendo la gerarchia degli stimoli ansiosi all’interno degli scenari virtuali, per poi pianificare ed effettuare programmi di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’interno di ambienti virtuali protetti (Riva, 2007, 2008)
  • Le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono suscettibili di un ampio controllo da parte del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente, in relazione alla valutazione di tempi e progressi
  • Lo svolgimento delle attività in ambienti virtuali permette al terapeuta di trattare nell’immediato il disputing sulle credenze disfunzionali, più accessibili e vivide durante l’esposizione piuttosto che in un colloquio classico

Applicazioni della realtà virtuale nella psicoterapia

Differenti recensioni e meta-analisi, considerano la realtà virtuale come strumento coadiuvante la psicoterapia basata sull’esposizione, per il trattamento dei molteplici disturbi d’ansia (Riva, 2005; Wiederhold & Wiederhold, 2006). Un ulteriore vantaggio nell’utilizzo di ambienti virtuali con pazienti con disturbi d’ansia è la maggior efficacia anche per quei soggetti con scarse capacità immaginative o che rifiutano l’esposizione in vivo.

Nel caso dei disturbi fobici, il cui trattamento è basato sull’esposizione, l’utilizzo della realtà virtuale consente di fare esperienze altrimenti quasi impossibili, se non in modo immaginifico, come recarsi ad un aeroporto e salire su di un aereo, trovare una platea che ascolta, essere gradualmente immerso in un ambiente pieno di ragni, avvicinarsi senza rischio alcuno al parapetto di un balcone. Lo psicoterapeuta può ricostruire, con il paziente, una gerarchia degli stimoli critici che sono alla base del disturbo in esame e pianificare un programma di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’esperienza di tali condizioni. La tecnica rimanda al Flooding cognitivo-comportamentale ma in chiave tecnologica. La terapia mediata dalla realtà virtuale desensibilizza il soggetto dalle sue ansie, abituandolo progressivamente ad emozioni che può provare a gestire attraverso un approccio differente. Inoltre, le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono interamente sotto il controllo del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente. Il terapeuta, in questo modo, ricopre il ruolo di mediatore tra mondo reale e virtuale.

La realtà virtuale è stata introdotta anche per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress. Il dott. Albert Rizzo, dell’Institute for Creative Technology della University of Southern California, ha lavorato sul disturbo post-traumatico da stress, comune nei soldati veterani, applicando la CBT e la VR, ricreando situazioni stressanti in modo graduale (Rizzo et al, 2005). La simulazione è basata sull’idea di restituire al paziente tutte le emozioni che hanno provocato il trauma, ma questa volta al sicuro nello studio del terapeuta. La differenza con le altre tecniche utilizzate fino ad ora è la possibilità di immergersi nell’esperienza passata e di poterlo fare gradualmente, escludendo qualsiasi cosa il paziente non voglia ancora affrontare.

L’applicazione della realtà virtuale per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nasce con i lavori di Clark et al. (1998) in cui si è proposta una esposizione vicaria agli stimoli ansiogeni (spesso legati alle contaminazioni) con prevenzione del rituale compulsivo. Un recente studio ha proposto di utilizzare ambienti virtuali selezionati come stimoli di riferimento per ottenere una valutazione e formulare una misura interattiva dei comportamenti di controllo compulsivi (Kim et al., 2010).

A partire dagli anni ’90, per quanto riguarda i disturbi del comportamento alimentare, in aggiunta al trattamento farmacologico e alle tecniche cognitive si affiancava l’utilizzo della realtà virtuale (Riva, Bacchetta, Cesa et al. 2004). La realtà virtuale è considerata un possibile strumento per la modifica di un’immagine corporea negativa (Riva, 2011). Tramite gli ambienti virtuali è possibile, infatti, porre a confronto due immagini corporee: quella reale, ottenuta dalla misurazione oggettiva del corpo del paziente, e quella che il soggetto percepisce, derivante cioè da come il paziente si vede (Riva, Bacchetta, Baruffi, et al., 2002).

Sebbene l’utilizzo della realtà virtuale con pazienti affetti da schizofrenia sia una pratica piuttosto recente, alcuni studi dimostrano che essa consente, in una situazione controllata, interessanti applicazioni sia per la valutazione che per il trattamento. Questo strumento permette, infatti, di riprodurre situazioni ambientali e sociali che stimolano il soggetto in modo simile al contesto reale; per di più, è possibile modulare l’intensità e la durata dell’esperienza virtuale in base alle esigenze del soggetto (La Barbera et al., 2010) e di riprodurre situazioni emotive e sociali, tipiche delle relazioni interpersonali (Kim et al., 2010). Gli ambienti virtuali, così come nel trattamento delle fobie, consentono di esporre il paziente alle proprie paure persecutorie e di testare le proprie credenze su ciò che viene percepito come minaccioso.
Un altro utilizzo può essere quello di far apprendere le strategie di coping da adottare in situazioni sociali variegate, qualora si verifichino sintomi psicotici. Per esempio, la realtà virtuale è stata applicata anche nei giochi di ruolo per stimolare le abilità interpersonali di questi pazienti, migliorandone le capacità di conversazione e la fiducia in se stessi (Park et al., 2011). Tuttavia, il principale limite delle applicazioni virtuali con i pazienti affetti da patologie gravi sembra essere la stabilità dell’esame di realtà, che caratterizza la fase acuta della malattia.

Ancora, nell’ambito, ad esempio, della gestione dello stress, la meditazione guidata dal terapeuta in realtà virtuale di scene che inducono la risposta di rilassamento ha ottenuto effetti positivi (Riva, 1997). La riproduzione realistica degli ambienti cibernetici, il coinvolgimento dei vari canali senso-motori e la sensazione di immersione che ne deriva consentono al soggetto in trattamento un’esperienza più vivida di quanto potrebbe fare attraverso la propria immaginazione (Vincelli & Molinari, 1998).

Conclusioni e limiti

Le possibilità di applicazione di questo strumento ed i possibili sviluppi futuri sono davvero entusiasmanti, tuttavia, il ritmo incalzante con cui i sistemi di realtà virtuale si sviluppano, aumentando di volta in volta il loro grado di accessibilità, portano con sé la necessità di riflettere in modo cosciente ed etico rispetto ai possibili cattivi usi che se ne possa fare alla luce del fatto che i soggetti manifestano reazioni molto intense gli ambienti simulati.
Wiederhold B. e Wiederhold M. in un articolo del 2003 A New Approach: Using Virtual Realty Psychotherapy in Panic Disorder With Agoraphobia hanno approfondito il fatto che alcune categorie di pazienti possono non essere idonee alle psicoterapie condotte mediante realtà virtuale, in particolare persone affette da gravi patologie cardiache, tossicodipendenti, persone affette da epilessia e persone con problematiche riguardanti la percezione della realtà, pensiamo ad esempio a psicotici che hanno già di per sé un senso della realtà compromesso. In questo caso, introdurre la realtà virtuale sarebbe controproducente, nonché dannoso per il paziente.

Assertività: perché non riusciamo a “dire no”? Perché a volte reagiamo con rabbia ad una richiesta? Perché temiamo di chiedere chiarimenti?

L’assertività è la competenza del “saper dire di no” e del “saper far valere i propri diritti”. Ci facilita la vita al lavoro, in famiglia, nelle relazioni amicali. Perché allora può essere difficile usarla?

Comportarsi in modo assertivo significa posizionarsi a metà su una linea immaginaria: ad un estremo troviamo l’aggressività, al polo opposto la passività (o remissività). Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri, decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono.
Il comportamento aggressivo è tipico di chi per perseguire la propria gratificazione si afferma con violenza, minimizzando, calpestando o disconoscendo il valore altrui. Così facendo non considera i punti di vista diversi dal proprio e pensa di non essere mai nel torto. L’aggressivo attribuisce i  fallimenti alle circostanze o agli altri; svaluta l’altro, si mostra rigido sulle sue posizioni.
Talvolta, una reazione aggressiva e densa di rabbia può essere un malriuscito tentativo di non farsi mettere i piedi in testa, se tendiamo a comportarci solitamente da remissivi.

Una condotta passiva invece porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali alla ricerca del compiacimento altrui. La risposta risulta essere inadeguata poiché generata da frustrazione, insicurezza, senso di colpa, ansia.

Tale comportamento può essere mantenuto da un dialogo interno disfunzionale che incide sulla paura di irritare gli altri, sulla paura di essere rifiutati o sul sentirsi responsabili dei sentimenti altrui, fino ad ipotizzarsi responsabili delle sofferenze altrui per aver ferito l’interlocutore con le proprie parole, non aver ricambiato i sentimenti o aver disatteso le sue aspettative, pervenendo difficilmente alle cause della sofferenza nel comportamento altrui.

Assertività: è più facile in coppia, al lavoro o in famiglia?

Ognuno di noi riesce ad essere assertivo in modo diverso nelle diverse aree della sua vita: c’è chi non riesce a rispondere bene alla suocera, c’è chi non riesce a gestire richieste e comunicazioni scomode con i figli. Comportarsi in modo assertivo è una conseguenza ed un indice dello stile di comunicativo, ma anche del tipo di rapporto in cui ci troviamo, compreso quello di coppia: quando uno dei 2 “dice sempre si”, si adegua ai desideri e gusti dell’altro quasi come i suoi non esistessero, forse ci troviamo di fronte ad un rapporto di dipendenza affettiva.

Talvolta essere assertivi significa anche confrontarsi e discutere partendo da opinioni diverse. Alcuni di noi ne hanno paura, come chi in famiglia tende a “colludere” ovvero inganna se stesso e gli altri incarnando delle fantasie che non corrispondono alla realtà e ricoprendo un ruolo fisso, in cui si resta però intrappolati. Non c’è quindi possibilità di esprimere se stessi, nè di cambiare idea; non ci si pone in maniera chiara nei confronti dell’altro: in una parola, ci si comporta in modo anassertivo: non ha e non da fiducia.

Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, alcuni recenti studi mostrano come stili comunicativi rispettosi siano alla base dei rapporti che intratteniamo al lavoro; se gli stili comunicativi sono aggressivi o oltraggiosi, ci sta male anche chi assiste, pur non essendo coinvolto in prima persona e specialmente se donna.

Assertività fa rima con.. autostima!

Abbiamo visto come e dove possiamo esprimerci in modo assertivo, ma da cosa dipende il nostro livello di assertività? Quali componenti la influenzano o vengono influenzate da essa? Il livello di autostima sembra essere direttamente proporzionale al livello di assertività che si riesce a mettere in gioco nei confronti degli attori sociali con i quali ci si relaziona. Essere capaci di dar valore ai propri bisogni ed esprimerli in maniera adeguata senza lasciarsi invadere dalle necessità e dalle opinioni dell’altro o senza il bisogno di imporli a tutti i costi, ci permette di percepirci come persone consapevoli e integre, piene di valore e centratura.

Di seguito, alcuni esempi tratti dal cinema di comportamenti assertivi, passivi e aggressivi.

SINCERITA’, FIDUCIA E ASSERTIVITA’ – WILL SMISTH IN “LA RICERCA DELLA FELICITA'”

INSICUREZZA E PASSIVITA’ – HUGH GRANT IN “4 MATRIMONI E UN FUNERALE”

RABBIA E AGGRESSIVITA’ – LEONARDO DI CAPRIO IN “REVOLUTIONARY ROAD”

Perché ascoltiamo una canzone che ci piace così tante volte?

Quali sono le proprietà delle canzoni che spingono alcune persone ad ascoltarle ripetutamente più e più volte? Un nuovo articolo su Psychology of Music cerca di capirne le ragioni.

 

Perché non ci stanchiamo mai di ascoltare le nostre canzoni preferite: ecco la risposta

Nell’autunno del 2018, il gruppo di ricerca guidato da Frederick Conrad dell’Università del Michigan ha chiesto a 204 soggetti, per lo più trentenni, quale canzone stessero “ascoltando più spesso in quei giorni”. I partecipanti hanno menzionato principalmente canzoni pop e rock, ma anche rap, country, jazz e reggae, con solo 11 brani selezionati da più di un ascoltatore (i più citati erano Get Lucky, Royals e Blurred Lines, che erano tutti successi nell’anno del sondaggio).

L’ottantasei per cento dei partecipanti ascoltava la canzone preferita almeno una volta alla settimana e quasi la metà lo faceva ogni giorno. Il sessanta per cento ha detto che ascoltavano la canzone per almeno due volte consecutive.
I partecipanti sono stati poi invitati a spiegare l’effetto che aveva la canzone prescelta durante il suo ascolto, le descrizioni hanno suggerito che le canzoni fossero suddivise in tre categorie. Oltre i due terzi erano canzoni allegre ed energiche (“Mi fa sentire Pompato! Eccitato! Pronto a ballare, cantare e amare! “). Riguardo questa tipologia di canzone, quasi la metà delle persone riferiva di battere i piedi, battere le mani o tamburellare le dita durante l’ascolto. Le altre categorie erano rispettivamente “canzoni calme e rilassate” (“Mi fa sentire a mio agio, calmo, e mi aiuta a mettere le cose in prospettiva“) e “Canzoni malinconiche agrodolci” (“Mi fa sentire triste, malinconico, e mi piace ascoltarla e cantarla“). Le canzoni agrodolci sono state ascoltate ripetutamente in modo più frequente rispetto agli altri tipi di canzone: in media 790 volte, contro 515 per canzoni tranquille e 175 per canzoni felici.

Secondo la teoria classica della curva di Wundt uno stimolo piacevole diventa più piacevole con la familiarità fino a raggiungere un effetto soffitto e “cadere”, ovvero diventare non più piacevole o indifferente, come accade con le canzoni su una radio a pesante rotazione. Questo modello spiega come nonostante la mancanza di sorpresa ogni volta che si ascolta la canzone preferita, la gente riascolta queste canzoni molte volte senza stancarsi mai. Infine, hanno scoperto che più volte si ascolta la canzone preferita, più gli ascoltatori la possono sentire “visceralmente”.

L’affetto delle persone per le canzoni che ascoltano volontariamente a ritmi elevati non sembra diminuire, contrariamente a ciò che accade per le canzoni la cui esposizione è forzata, come nel caso delle hit parade.

In arrivo i nuovi Webinars dell’Ordine Psicologi Lombardia – Marzo, Aprile e Maggio 2018

In arrivo i nuovi Webinars organizzati dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia: quattro appuntamenti per informarsi ed aggiornarsi su diverse tematiche. I seminari saranno trasmessi online, permettendo a tutti i colleghi di partecipare direttamente da casa e in un orario che interferisca il meno possibile con il lavoro.

 

Mercoledì 28 Marzo 2018, ore 20.45:

La “Battered Husband Syndrome”: il caso degli uomini maltrattati. L’esperienza di Ankyra, l’unica struttura milanese ad accogliere uomini vittime di violenza.

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - ankyra

L’ Intimate Partner Violence, o violenza domestica, si manifesta con comportamenti aggressivi e coercitivi che possono provocare danni fisici, abuso psicologico, violenza sessuale, isolamento sociale, stalking, intimidazione e minacce perpetrati da un offender che è o è stato in relazione intima con la vittima e la cui finalità è il controllo sull’altro.

E’ fuori dubbio – e l’ampia letteratura ne dà riscontro – che la donna sia la prima vittima di violenza domestica eppure prende sempre più corpo la casistica degli uomini soggetti a maltrattamenti fisici e psicologici, tanto che la letteratura ha coniato l’espressione “battered husband syndrome”.

In una serie di ricerche sulla vittimizzazione maschile, Reid et al. (2008) riscontrano che la violenza psicologica ricorre più frequentemente rispetto alla fisica e risulta più duratura.

Fra le violenze psicologiche rientrano le minacce di uccidersi, di distruggere le cose dell’altro, di denunciarlo con false accuse, le false denunce di abuso nei confronti dei figli al fine di averne la custodia in caso di separazione, le false denunce di stalking e la cosiddetta alienazione parentale.

Ad aggravare la situazione concorrono la vergogna che impedisce a molti uomini di denunciare e la tendenza culturale a sottostimare il fenomeno.

L’associazione Ankyra è l’unica a Milano ad accogliere le vittime di violenza domestica indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’età; grazie all’esperienza dell’associazione approfondiremo il loro modello di lavoro, la normative di riferimento, i dati sul fenomeno e alcune delle situazioni di violenza sugli uomini affrontate.

Relatori

Dott.ssa Patrizia Montalenti: Responsabile Accoglienza Centro Antiviolenza Donne Milano, Vice Presidente Volontaria del Centro Antiviolenza Ankyra

Avv. Veronica Coppola: Avvocato Cassazionista, Consulente legale volontaria Centro Antiviolenza Ankyra

Come partecipare?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo mercoledì 28 marzo alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/4674237623738604289 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per problemi o informazioni scrivere a [email protected]

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Mercoledì 11 aprile 2018, ore 20.45

Il ritiro sociale in adolescenza: inquadramento del fenomeno e trattamento

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - lancini

Il ritiro sociale è una delle più significative manifestazioni del disagio adolescenziale odierno. Il fenomeno degli Hikikomori, nato e diffusosi in Giappone, si è sviluppato, con caratteristiche proprie, anche in Italia. Infatti, un numero sempre crescente di adolescenti, prevalentemente maschi, si ritira prima dalle scene scolastiche e poi dalle scene sociali, in una sorta di autoreclusione volontaria domiciliare. Il crollo dell’ideale infantile di fronte alle trasformazioni del corpo e allo sguardo di ritorno dei coetanei spinge alcuni adolescenti a ritirarsi severamente, non accedendo ad alcuna forma di mediazione con il mondo. Altri, invece, individuano in internet l’unica possibilità di accesso al sapere (ricerca di informazioni), di simbolizzazione (avatar e giochi di ruolo) e di relazione con gli altri (contatto mediato da chat e cuffie con microfono nel corso delle sessioni di battaglie virtuali). La rivoluzione digitale ha dunque promosso spazi creativi, ambienti espressivi e relazionali, all’interno dei quali gli adolescenti non solo sperimentano nuove possibilità di realizzazione del Sé individuale e sociale, ma si rifugiano in occasione di gravi crisi evolutive, in una sorta di auto ricovero che, contemporaneamente, esprime il disagio e un primo tentativo di risolverlo. A partire dall’esperienza maturata nel corso di oltre un decennio con questa forma di espressione della crisi evolutiva, l’intervento intende inquadrare la psicodinamica del ritiro sociale e presentare le strategie cliniche che guidano la presa in carico dell’adolescente ritirato, in una prospettiva evolutiva.

Relatore

Dott. Matteo Lancini: Psicologo e psicoterapeuta. Presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e dell’AGIPPsA (Associazione Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza). E’ docente di “Clinica dell’adolescente e del giovane adulto” presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca. All’interno del Minotauro è direttore del Master “Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza”, coordina la Sezione Adolescenti del Centro di consultazione e psicoterapia e insegna nella Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto. E’ autore di numerose pubblicazioni sull’adolescenza, le più recenti: Adolescenti navigati. Come sostenere la crescita dei nativi digitali. (Erickson, 2015). Abbiamo bisogno di genitori autorevoli. Aiutare gli adolescenti a diventare adulti (Mondadori, 2017).

Come partecipare?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo mercoledì 11 aprile alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/5711216727254126081 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Mercoledì 18 aprile 2018, ore 21

Sette: analisi psicologica dei meccanismi di affiliazione e affrancamento

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - Tinelli

Nel nostro paese i gruppi a carattere settario sono circa 500, con migliaia di adepti, ma una stima esatta è impossibile. E in mancanza di numeri ufficiali, il fenomeno continua a crescere, mentre per chi vuole uscirne la strada è sempre più difficile.

Il seminario si propone di affrontare le modalità con cui i gruppi settari fanno proseliti e creano acquiescenza. Attraverso un percorso teoricamente documentato e esemplificativo saranno spiegati i principi del controllo mentale e tutte le sue fasi e componenti, ma saranno anche analizzate le fasi che portano all’abbandono del gruppo e le conseguenze psicologiche che simili appartenenze hanno sugli individui, durante e dopo l’esperienza. La lezione prevede anche la presentazione di alcuni casi concreti, tra i più noti in Italia e all’estero.

Relatore

Dott.ssa Lorita Tinelli: psicologa e psicoterapeuta, ha conseguito il perfezionamento in Criminologia Giudiziaria e Penitenziaria presso l’Università di Bari e quello di Mediazione Familiare, Sociale e Penale. E’ docente nel Corso di Alta Formazione Ricorrente in Crimonologia Generale Applicata e Penitenziaria dell’Università di Bari e dal 1999 svolge consulenze presso diversi Tribunali d’Italia, in qualità di CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) o CTP (Consulente Tecnico di Parte).

Nel giugno 1999, insieme ad altri studiosi, ho fondato il CeSAP, di cui è stata presidente sino al 2015 e attualmente vice-presidente.

Dal 2011 è International Affiliate dell’American Psychological Association (APA)

Dal 2015 Psicologa presso l’Unità di Prevenzione e Analisi Criminologica di Roma.

Come partecipare?

Il webinar si terrà mercoledì 18 aprile 2018 dalle 21 alle 22,30.

Se volete partecipare iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/8482630342831693825 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Mercoledì 30 Maggio 2018, ore 21

Lo psicologo come mental coach per lo sviluppo degli atleti

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - cei

Gli atleti sono sempre più consapevoli della necessità di sviluppare, sostenere e ottimizzare le qualità psicologiche necessarie per fornire prestazioni adeguate al loro livello di competenza sportiva. La preparazione psicologica o mental coaching rappresenta, oggi, quell’insieme di modelli teorici e tecniche psicologiche, basati sull’evidenza scientifica prodotta in psicologia dello sport, che permette di costruire programmi di allenamento mentale specifici e rivolti a soddisfare le diverse richieste delle singole discipline sportive, adeguandosi ai bisogni altrettanto specifici dei singoli atleti. Scopo di questo webinar è di illustrare le possibilità offerte allo psicologo dal mental coaching, descrivere le abilità psicologiche di base e quelle avanzate, proporre un sistema di valutazione psicologica dell’atleta, descrivere programmi di allenamento dell’attenzione e di gestione dello stress competitivo e ambientale.

Relatore

Prof. Alberto Cei: svolge la propria attività, in Italia e all’estero (Cipro, India, Iran, Malta) come consulente per l’alta prestazione (ha partecipato alle ultime 6 Olimpiadi estive, gli atleti seguiti hanno vinto 12 medaglie olimpiche, ha lavorato con atleti di 26 sport e per le più importanti multinazionali). Si interessa di etica come fattore alla base delle prestazioni eccellenti ed è autore del libro I Signori dei tranelli (2012). È docente di “Coaching” all’Università di Tor Vergata, Roma, di “Psicologia dello Sport” e “Psicologia Applicata al Calcio” all’Università Telematica San Raffaele, Roma e di “Psicologia” alla Scuola dello Sport del Coni. Autore di 15 libri di psicologia della performance (fra cui Mental training, 1987; Psicologia dello sport, 1998; Coaching alle nuove sfide, 2004; Affrontare lo stress, 2009; Allenarsi per vincere, 2015). E’ editorial manager della rivista International Journal of Sport Psychology (http://www.ijsp-online.com) e direttore della rivista Movimento. Web: http://www.ceiconsulting.it Blog: http://www.albertocei.com

Come partecipare?

Se volete partecipare iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/6660875914053844481 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Io-tu: l’autoriflessività per stare in relazione di coppia

L’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

 

Perché ti sento diverso? Ti vedo in un ruolo? Perché in qualche modo devo capire chi sei tu e attribuirti una categoria prima ancora di conoscerti profondamente? Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

Centrale in questo processo di costruzione relazionale è partire dalla percezione di se stessi, come soggetti e come oggetti. Il Sé come soggetto implica l’uso nel linguaggio dell’Io (“Io ho fatto, ho detto, ho deciso, pensato, amato…”), intendendo in quell’Io un sé conoscitore di se stesso (Aron, 2000), ovvero un sé dotato di coscienza percettiva, intellettiva e autocoscienza, tre livelli di coscienza pre-riflessiva e riflessiva a diverso grado di complessità (Minolli, Coin, 2007, p.97).

Che cos’è l’autoriflessività

L’autoriflessività, infatti, è il gradino più alto di conoscenza di se stessi e non coincide con la semplice riflessione su di sé, che implica un lavoro di tipo meramente cognitivo in cui ci guardiamo come dall’esterno prendendo distanza da ciò che facciamo; bensì l’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Per fare un esempio, la semplice riflessione cognitiva su di sé potrebbe implicare un pensiero del tipo: “Penso di aver agito in questo modo perché ho valutato questa cosa secondo questo mio schema mentale!”; nonostante questo processo metacognitivo sia già molto importante ed elevato, non è sufficiente raggiungere l’autoriflessività, la quale implicherebbe qualcosa che va oltre il pensare al proprio pensiero (metacognizione), piuttosto implica “l’integrazione tra pensiero e sentimento, mente e corpo, modalità osservazionali ed esperienziali” (Aron, 2000, pp.668-669).

Questa capacità si traduce in qualcosa del tipo “questo è quello che so essere vero di me, perché questo è il modo in cui penso e mi sento” (Ringstrom, 2017) e fa parte della costruzione del sé come soggetto. Il sé come oggetto, invece, è reperibile in ciò che definisce il sé in quanto conosciuto da noi stessi, e lo esprimiamo attraverso il Me (“mi piace, mi interessa, ama me….”). E’ l’insieme delle nostre osservazioni su noi stessi nate anche grazie al feedback degli altri.

Percepire se stessi come oggetti implica riconoscersi come esseri umani tra gli esseri umani, come estranei e diversi dagli altri pur riconoscendoci in noi stessi. Come conosciamo noi stessi attraverso esperienze che ci pongono in modo soggettivato o oggettivato, così noi possiamo percepire gli altri come “altro-soggetto” o “altro-oggetto”. I sé come soggetto e come oggetto sono sempre in tensione dialettica ed entrambi nascono non dall’intelletto bensì dall’esperienziale. Se emerge uno squilibrio tra questi due sé non possiamo percepire gli altri in relazione a noi stessi, se non nelle due posizioni assolute e reciprocamente escludenti di oggetto o soggetto assoluto: il sé che è troppo soggettivato, tratta gli altri come oggetti; il sé che è troppo oggettivato, non è in grado di farsi soggetto con agency e pone gli altri al proprio posto.

Nella metafora del servo e del padrone, Hegel (cit. in Minolli, Coin, 2007, pp.98-99) spiega come in realtà nella rigida posizione dialettica può esistere già una interdipendenza ricorsiva di tipo relazionale: il servo ha salva la vita grazie al padrone e il padrone grazie al servo ha ciò di cui ha bisogno. In questo modo la relazione di padronanza si ribalta perché senza il servo il padrone non può più stare, dunque ne è a sua volta schiavo. Padrone e servo sono due parti di ognuno di noi “scisse e delegate” (Minolli, Coin, 2007, p.99) che possono riferirsi alla soggettivazione o oggettivazione sé-altro da sé.

L’interdipendenza psichica nelle relazioni

Comprendendo che in ogni relazione vi è sempre un’interdipendenza psichica che ci porta a coesistere in un dato contesto, cogliamo anche che non vi è servo e padrone, ma la possibilità di essere l’uno o l’altro in ogni momento in riferimento alla dinamica relazionale. Questo è particolarmente veritiero nella relazione amorosa, in cui l’Io e il me si definiscono come soggetto e oggetto amante e amato; parimenti l’altro è vissuto come soggetto-oggetto di amore.

Barthes (1977, p.107-108) propone questo rovesciamento del sentire “Non riesco a capirti” vuol dire: “non saprò mai che cosa pensi veramente di me. Non posso decifrare te perché non so come decifri me” e allo stesso modo può sussistere un pensiero opposto “Anziché voler definire l’altro (“Cos’è mai costui?”), io volgo l’attenzione su me stesso: “Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?” . In questo pensiero sussiste già una dinamica relazionale di tipo ricorsivo, che lega l’Io al Tu e rende evidente il ruolo centrale del legame relazionale (Io-tu) nella costruzione della propria identità relazionale (Sé). Non cogliere questo rovesciamento ricorsivo può determinare il posizionarsi rispetto all’altro in un modo detto “complementarietà reversibile”, in cui si lotta per spingere l’altro nella posizione rigida che desideriamo assuma a livello relazionale: “tu sei solo servo, io sono solo padrone!” o anche “solo io ti amo, tu non mi ami!” . Questa rigidità rompe la ricorsività dialettica e struttura un gioco di forze e ruoli in cui posizionare in modo irreversibile se stessi e l’altro in posizione di soggetti/oggetti: “Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che gli egli mi dà.” (Barthes, 1977, p.108).

Dato che la tendenza a porsi in modo solamente soggettivato o solamente oggettivato è radicata dallo stile relazionale conflittuale respirato fin da piccoli, nella scelta di partner e nelle relazioni adulte significative tendiamo, per coazione a ripetere, a scegliere persone che mantengano quella data posizione per noi assumibile poiché protettiva: se siamo stati o ci sentiamo servi cerchiamo inconsciamente padroni, se siamo stati o ci sentiamo padroni cerchiamo solo servi. Porsi in modo autoriflessivo non significa solo cogliere la propria dimensione rispetto all’altro, né comportarsi in modo da raggiungere un mero ribaltamento nella dimensione esperita (da servo a padrone, e viceversa).

Autoriflessività: la consapevolezza di sè in relazione all’altro

L’autoriflessività non può dunque raggiungersi solo con un processo di immersione emotiva (Ringstrom, 2017). Credere alla logica del “sento dunque sono!” è estremamente confusivo, poiché l’immersione in un’ esperienza è un processo non-riflessivo dove “non esistono interpretazione ma solo fatti” (Wallin, cit. in Ringstrom, 2017, p. 188). La società moderna basa il principio di “conoscenza di se stessi” troppo soventemente sull’immersione, per cui sentimenti, stimoli somatici, rappresentazioni mentali diventano la realtà (Ringstrom, 2017). In questo stato non si è in grado di entrare in intersoggettività, poiché esiste solo un sé soggettivato su cui non vi è peraltro neanche riflessione. Si vive piuttosto in una “realtà iperoggettivata” (Ringstrom, 2017), come “isterica”, dove si è troppo emotivi e paradossalmente estremamente soli poiché chiusi nella logica del “il mio sentire è il tuo sentire. E solo questa è realtà!”. Questo processo definito “equivalenza psichica” da Fonagy, e “(classicamente descritta come pensiero concreto) in cui non possono essere prese in considerazione prospettive alternative alla propria, poiché manca l’esperienza del “come se” e tutto appare come fosse “reale” (Bateman, 2007), ammazza l’empatia e l’alterità, e pone gli altri in una ipocrita posizione di oggetti-doppi del proprio sé, per cui “tu devi sentire come sento io perché ciò che io sento è vero!”.

Allo stesso tempo l’autoriflessività non rimanda a ragionamenti di tipo intellettivo su di sé, ad una mera metacognizione, speculazione intellettuale su chi sono io e come penso e perché. L’autocoscienza o coscienza di sé o autoriflessività implica “una dimensione misteriosa di coglimento di sé. La presenza a se stessi è una presa d’atto, un’accettazione attiva, un ri-conoscimento, un aprire gli occhi su di sé. C’è in questa presenza a se stessi lo stupore della scoperta, l’umiltà di fronte alla propria realtà, la sofferenza dello scarto, la gioia dell’aderire” (Minolli, Coin, 2007, p. 97). Rispetto alla metafora del servo e padrone l’autocoscienza o coscienza di sé è la capacità di cogliersi sia come servo che come padrone in modo dialettico e coesistente. Quindi l’autoriflessività è il superamento della lotta nell’attribuzione a se stesso di una posizione rigida rispetto all’altro ed è piuttosto la presa di consapevolezza di una “presenza a se stessi” che implica un “…essere a contatto, un viversi, un riconoscersi indipendentemente dalle cose, dai contenuti e dai desideri oggettivati ossia dell’oggetto… è qualcosa che porta a comunicare e a riconoscersi in prima persona con il proprio essere quello che si è, come dato da viversi in pienezza” (Minolli, 2007, p. 3, cit. in Minolli, 2009, p. 58).

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