Lo psicologo nelle organizzazioni: il benessere del singolo per il benessere di tutti
Lo psicologo in azienda contribuisce a rendere l’ambiente lavorativo un contesto sicuro e di scambio proficuo. Il vantaggio non è soltanto per il singolo individuo, indagare il benessere personale dei propri collaboratori è un atto quasi doveroso anche per il benessere aziendale.
Capita spesso che ricercando “psicologo aziendale” tra gli annunci di lavoro le uniche opportunità riguardino soltanto la ricerca e la selezione del personale. Quando si cerca, poi, una descrizione esaustiva delle funzioni principali dello psicologo nelle organizzazioni si incappa in tutto ciò che riguarda il coaching, la formazione, l’engagement, lo sviluppo delle skills personali, ecc.. L’articolo Psicologia del Lavoro: di cosa si occupa lo psicologo in azienda descrive in modo esaustivo i “pilastri” su cui si fonda l’intervento psicologico aziendale.
Tutti aspetti, questi, che sembrano riguardare il potenziamento di risorse e dinamiche (individuali e di gruppo) volte al miglioramento della prestazione lavorativa, alla creazione di un ambiente di lavoro favorevole, allo sviluppo delle relazioni e al perseguimento di obiettivi coerenti con la mission aziendale. Certo, questa prospettiva fa parte del cosiddetto Sviluppo Organizzativo (Krone & Clark, 1072) che ha dato una nuova visione all’organizzazione aziendale e al lavoro non più centrati solo su fatica e dovere ma che ha cominciato a includere tutti quegli aspetti fondamentali che fanno di un’azienda un contesto socialmente attento, attivo e dinamico.
Dagli anni ’70-’80 ad oggi siamo passati, infatti, dalla dimensione operativa e produttiva fronteggiabile con il progresso tecnologico alla necessità di migliorare la qualità della vita lavorativa (Beer & Walton, 1987) e la relazione persona-organizzazione sotto il profilo dell’equità (Sue, 1982). Allo stesso modo è nata l’esigenza di integrare appieno le skills personali con l’obiettivo aziendale e favorire l’azione collettiva (Huffington, Cole, & Brunning, 1997).
Perchè avere uno psicologo in azienda ?
Ma in che termini lo psicologo può e deve essere utile alla sfera individuale del “lavoratore collettivo”? Da un buon IO deriva un miglior NOI. Non soltanto un IO nelle relazioni, un IO interpersonale, ma un IO personale, intimo, che ha bisogno di un suo spazio per poi dare il meglio di sé nel contesto aziendale. La qualità dell’equilibrio psicofisico ha necessariamente ripercussioni sull’ambiente di lavoro (Gruneberg, 1979).
L’intervento dello psicologo in azienda può quindi aiutare a far luce su questi aspetti producendo conoscenza. La soddisfazione lavorativa del singolo è una buona base di partenza per comprenderne i comportamenti e in che modo sono correlati alla performance ma soprattutto al benessere dell’individuo.
Soddisfazione lavorativa: cosa si intende e cosa cerchiamo
Diversi autori si sono interrogati su questo aspetto e ne è derivato che la soddisfazione lavorativa può essere intesa come una reazione affettiva (emozionale) ad una serie di aspetti connessi al lavoro che risulta dal confronto dei risultati reali con quelli desiderati, aspettati, meritati (Cranny, Smith , & Stone, 1992). Tali aspetti includono ad esempio, il tipo di attività svolta e i suoi aspetti intrinseci, la retribuzione, la qualità della vita extra-lavorativa, l’autonomia e la possibilità di gestire il proprio tempo, i tratti di personalità, i valori, e così via…
Senza entrare troppo nel merito di ciascuno di questi elementi, prendiamo in considerazione in che termini la soddisfazione o meno di questi aspetti possa influire sulla performance (per un approfondimento si veda l’articolo La soddisfazione lavorativa: quanto la performance dipende da quanto siamo soddisfatti) e sul benessere personale. Gli studi finora condotti con l’ausilio di strumenti di indagine appositi (questionari) attestano che un lavoratore soddisfatto si impegna maggiormente nella propria attività migliorando di conseguenza la prestazione lavorativa (Schleicher, Watt, & Greguras, 2004). Quando una persona è soddisfatta a livello lavorativo si sente parte del gruppo e dell’organizzazione e vuole impegnarsi per questa perché ne percepisce il valore. Il coinvolgimento personale risulta elevato e ciò significa che alla soddisfazione lavorativa corrisponde anche un appagamento nella vita privata (Avallone & Paplomatas, 2005). Al contrario, in assenza di soddisfazione si palesano tutti quei comportamenti che non solo sono segnale di malessere e, a lungo andare, possono essere dannosi per la salute, ma inficiano anche la performance. L’insofferenza nell’andare al lavoro, l’assenteismo, il pettegolezzo, disturbi psicosomatici di vario genere (sonno, apparato digerente..), lentezza nelle azioni, ecc. sono tutti indicatori che qualcosa nel contesto lavorativo non sta andando nella giusta direzione.
I vantaggi di avere uno psicologo in azienda
Se consideriamo quindi che il posto di lavoro è l’ ambiente in cui passiamo più tempo durante l’ arco della giornata, capiamo bene che andarci con uno spirito sereno o sapere che è presente una figura professionale come lo Psicologo che da supporto e nell’ affrontare le difficoltà e funge da filtro con i vertici aziendali, rende l’ ambiente-lavoro un contesto sicuro e di scambio proficuo. Lo psicologo in azienda supporta i dipendenti nell’affrontare le difficoltà e funge da “filtro” con i vertici aziendali, con l’obiettivo di rendere l’ambiente-lavoro un contesto sicuro e di scambio proficuo.
Vien da sé che il vantaggio non è soltanto del singolo individuo e del suo equilibrio psicofisico. Sensibilizzare un dirigente ad indagare il benessere personale dei suoi collaboratori è un atto quasi doveroso anche per il benessere aziendale. A tal proposito si è sentito parlare di una figura che in America si è già affermata e in Italia sta prendendo piede pian piano: il manager della felicità. Il suo scopo è quello di saper ascoltare, capire i bisogni dei dipendenti, fornire intervalli momentanei alla routine lavorativa.
Il quesito quindi sorge spontaneo: gli psicologi del benessere hanno speranza?
Forse, se la felicità inizia ad essere un trend possiamo sperare che il lavoro diventi per molti un posto felice.
Musica e arti visive a scuola migliorano le capacità cognitive dei bambini
Le ore di musica nelle scuole di tutto il mondo sono state notevolmente ridotte. La mancanza di finanziamenti, dovuta alla crisi economica, fa sì che apprendere a suonare uno strumento diventi un lusso, piuttosto che una base educativa da elargire a tutti gli studenti. E’ una buona mossa per lo sviluppo cognitivo dei bambini?
Artur Jaschke della VU University di Amsterdam, Paesi Bassi, ha condotto uno studio al riguardo e ha affermato che
[blockquote style=”1″]nonostante le indicazioni rispetto agli effetti benefici della musica sulla cognizione, tale disciplina sta scomparendo dai programmi di studio generale[/blockquote]
E’ stato proprio questo il movente che ha spinto il gruppo di ricerca, composto anche dal dottor Henkjan Honing e dal dottor Erik Scherder, a condurre uno studio sugli effetti positivi dell’ educazione musicale sui risultati accademici.
Lo studio: quali sono gli effetti dell’educazione musicale sui bambini?
Lo studio longitudinale, il primo a larga scala condotto ad oggi, ha analizzato gli effetti positivi dell’educazione musicale su 147 bambini frequentanti diverse scuole primarie olandesi.
Le ore di educazione musicale sono state introdotte in base ad un metodo sviluppato dal Ministero della ricerca e dell’istruzione dei Paesi Bassi e ad un centro specializzato nell’educazione artistica, adattandolo al curriculum scolastico regolare: in questo modo tutte le scuole in oggetto hanno seguito il regolare curriculum di studi, introducendo alcune ore di lezione pratiche e teoriche di musicaed arti visive.
Prima dell’introduzione delle ore di lezione artistica (musicale e di arti visive) ed in seguito a 2 anni e mezzo da questa introduzione, i ricercatori hanno valutato le abilità cognitive (tra cui pianificazione, inibizione e abilità di memoria) e le prestazioni scolastiche dei bambini.
È emerso che i bambini che hanno seguito lezioni di musica hanno avuto significativi miglioramenti cognitivi applicabili allo studio, rispetto ai bambini che non hanno seguito tali lezioni. I miglioramenti maggiori sono stati registrati nel ragionamento basato sul linguaggio verbale, nella capacità di pianificazione, nell’organizzazione delle attività e conseguentemente nei risultati scolastici.
Come afferma il dottor Jaschke, i risultati ottenuti suggeriscono
[blockquote style=”1″]che le abilità cognitive sviluppate durante le lezioni di musica possono influenzare le abilità cognitive dei bambini, portando a prestazioni accademiche complessivamente migliori[/blockquote]
Inoltre, le lezioni di arti visive hanno mostrato di apportare un beneficio a livello della memoria visiva e spaziale a breve termine.
I ricercatori si augurano che il proprio studio possa contribuire a sottolineare l’importanza che le lezioni di musica e d’arte ricoprono nello sviluppo della cultura umanistica e generale degli studenti, oltre che nel loro sviluppo cognitivo.
Neurobiologia dell’ingiustizia. Cosa succede nel nostro cervello quando siamo vittime o spettatori di un comportamento ingiusto?
Un gruppo di ricercatori olandesi sì è posto l’obiettivo di indagare i meccanismi psicologici e neurologici che accompagnano le scelte punitive o riparative espresse a seguito di un’ ingiustizia, cercando di dare un contributo ad un tema così profondamente legato all’esperienza umana, ma ancora poco indagato dal punto di vista neurobiologico.
La ricerca si è posta come primo obiettivo quello di riuscire ad individuare i meccanismi neurologici alla base delle decisioni di punire i trasgressori e risarcire le vittime. Sulla scia delle ultime ricerche in materia, che hanno evidenziato come dietro ad un comportamento punitivo non ci sia un processo unitario ma un sistema articolato in diverse sottocomponenti, i ricercatori hanno poi voluto far luce sulla reazione di questo sistema a seguito di un’ ingiustizia a cui si è assistito o che ci ha coinvolti in prima persona.
Il recente interesse per la dimostrata influenza degli ormoni sui processi cognitivi, li ha indotti infine ad esplorare il ruolo dell’ossitocina non solo nelle situazioni in cui si soccorrono le vittime, avendo già altre ricerche individuato il ruolo facilitante di questo ormone nell’ambito di comportamenti prosociali, ma anche nelle circostanze che ci vedono impegnati a punire i trasgressori.
Per raggiungere questi obiettivi, il team di ricerca ha adottato un approccio esplorativo e multi-metodologico: la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’impiego farmacologico di ossitocina e quello che hanno chiamato Justice Game, un racconto con compiti di decision-making.
Il campione di ricerca ha visto coinvolti efficacemente 53 uomini con un’età media di 21 anni, 27 dei quali hanno ricevuto la dose di ossitocina e gli altri un placebo contenente tutti i principi attivi del farmaco ad eccezione del solo neuropeptide.
Il primo obiettivo di riuscire a comprendere meglio i meccanismi neurologici alla base della decisione di punire i trasgressori o di risarcire le loro vittime è stato raggiunto constatando che l’aumento dell’attività dello striato ventrale è correlata più con la decisione di punire chi si è comportato ingiustamente che con la volontà di ricompensare chi si trova svantaggiato. Inoltre la decisione di astenersi da condotte punitive è risultata correlata positivamente con un aumento di attività nella giunzione temporo-parietale, un’area coinvolta nell’empatia e nella capacità di mettersi nei panni altrui.
Il secondo obiettivo intendeva paragonare le ragioni psicologiche e l’attività del cervello ad esse associate, sottostanti la decisione di punire, e quanto severamente farlo, sia che si sia vittime dirette di un comportamento ingiusto sia che esso sia diretto ad un terzo. L’area del cervello dell’insula anteriore è risultata associata alla decisione di punire ma in misura maggiore se chi punisce è chi ha subito direttamente il torto. Nell’esperienza sociale l’insula è risaputo essere coinvolta nel processamento della violazione alle norme, pertanto i ricercatori sono giunti alla conclusione che la volontà di punire possa dipendere da questo tipo di considerazioni che assumono un carattere di maggiore severità nelle vittime piuttosto che negli osservatori.
In quest’ultimo caso i risultati della ricerca hanno invece evidenziato il possibile coinvolgimento di un’altra area cerebrale nelle decisioni punitive, la corteccia prefrontale dorsolaterale, che sommerebbe alle pure considerazioni di giustizia dell’insula anche informazioni addizionali circa le variabili del contesto in cui si verifica l’episodio di violazione delle norme. Così come in ricerche precedenti, anche in questo caso i ricercatori hanno evidenziato il coinvolgimento dell’amigdala in questo tipo di scenario, supportando l’ipotesi che questa regione del cervello codifichi l’arousal emotivo associato con il danno procurato a terzi.
Per quanto riguarda il ruolo dell’ossitocina, essa non è risultata aver alcun ruolo facilitatore, riscontrabile a livello neurologico e comportamentale, nell’ambito dei comportamenti di soccorso alle vittime, disconfermando i risultati di altre ricerche che descrivono il neuropeptide come un generale potenziatore di empatia e decisioni prosociali e altruistiche ma tale dato potrebbe anche dipendere dal ridotto campione di comportamenti positivi esaminati nell’ambito della ricerca.
L’ossitocina invece ha dimostrato di influenzare l’attività cerebrale e il comportamento di chi decideva di agire in senso punitivo: a livello comportamentale l’ossitocina ha aumentato la frequenza di punizioni di lieve entità, diminuendo la volontà di punire duramente sia nelle vittime dirette che negli spettatori.
Benchè la percezione di ingiustizia sia il precursore non solo di discussioni da bar tra amici di vecchia data ma anche di conflitti di larga portata tra culture diverse, ancora poco si sa riguardo a come il cervello elabori l’ ingiustizia e quali sue aree e fattori esterni contribuiscano ai processi decisionali che ne derivano. Questa ricerca offre indubbiamente un prezioso contributo a colmare questa lacuna.
Parlami di Lucy (2018), molto più di un thriller psicologico – Recensione del film
Se il valore di un film si giudica anche dalle possibilità che lascia aperte al contributo soggettivo dello spettatore, Parlami di Lucy lascia certamente la sensazione che l’impegno investito nella sua visione non sia stato uno sforzo infruttuoso.
Parlami di Lucy: più di un semplice thriller psicologico
Definire Parlami di Lucy un thriller psicologico pare per la verità limitante, poiché la struttura narrativa gioca sul continuo scambiarsi e intrecciarsi di livelli del racconto che hanno sì a che vedere con l’incertezza, la suspense, ma forse non si risolvono mai, nemmeno con la svolta finale apparentemente definitiva.
Nella cornice di montagne dure e austere, nel microcosmo di una casa solitaria il cui ambiente umano non si espande mai oltre la stretta natura circostante e l’inizio – o la fine, a seconda che si voglia arrivare o fuggire – della strada sterrata che collega a realtà altre mai veramente descritte, in questa cornice si diceva, il contrasto fra non detto e sottinteso, fra incubo del sonno e incubo della coscienza non giunge mai ad una piena e liberatoria – o deludente, dipende dalle predilezioni dello spettatore – composizione.
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM PARLAMI DI LUCY:
Parlamy di Lucy: la trama
Nicole, protagonista del film Parlami di Lucy, madre tormentata da paranoie crescenti e paure reali, ospita in sé la disgregazione di un matrimonio, l’angoscia muta del tradimento sconosciuto, la manipolazione di una figlia ostaggio dei propri silenzi e delle ferite non risolte dagli adulti. Il pericolo incombe e non sempre è chiaro se sia ciò da cui Nicole vuole proteggere la bambina o ciò da cui la donna non riesce a proteggersi. In una spirale che ricorda il giro di vite jamesiano, la protagonista è al centro di eventi inspiegabili o forse spiegabili con una storia di fantasmi, i suoi. Non abbiamo certezza che la linea sottile che separa il reale dal perturbante sia davvero una separazione. Più spesso essa appare la vera chiave di lettura del racconto, quel confine che può essere superato e ripristinato seguendo sensazioni tanto aperte quanto al contrario diviene claustrofobica l’atmosfera narrativa.
Ci sono veramente presenze oscure? È il marito a far cadere accurati semi di follia nella mente della donna per poterla abbandonare impadronendosi della figlia e fuggendo con l’amante? Nicole protegge la bambina dalla malvagità di una trama soprannaturale, da un padre la cui freddezza potrebbe essere spietato calcolo o dolore inesprimibile, oppure non riesce a difenderla da un’altra minaccia che penetra senza poter essere raffigurata?
Forse Nicole, la sua mente fragile e l’incubo che la percorre sono davvero l’unica cosa che vediamo, che ci è raccontata in Parlami di Lucy; forse Lucy, chiusa negli occhi dritti, nella voce marmorea di una solitudine che nessuno riesce a lenire o che nessuno è realmente interessato a guardare, è lo schermo bianco sul quale gli adulti proiettano la sofferenza che si fa incubo.
Ma in quell’incubo è quasi tutto umano, poco o nulla assomiglia all’horror richiamato in alcune scene, poco o nulla rimanda a vissuti diversi da quelli di una tragedia che più sfugge più si consuma.
PARLAMI DI LUCY: LE IMMAGINI DAL BACKSTAGE DEL FILM
Nulla sfugge ai social: una spinta gentile per ricordarlo
Siamo nell’era della privacy assoluta, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato su internet.
La pioggia di dati prodotta da internet è inarrestabile e sta inesorabilmente cambiando le nostre vite, le nostre relazioni, l’amore, la nascita, la morte, la politica e l’economia. Attualmente si parla di una popolazione “data driven”, ovvero “guidata dai dati”, un fiume in piena che noi stessi produciamo.
I rapporti sono mediati da piattaforme, i processi decisionali dai computer più che dai dirigenti. Siamo nell’era della privacy assoluta, in cui si chiede che venga rispettato il diritto alla riservatezza della propria vita privata, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato.
Il 1° gennaio 2004, in Italia, è entrato in vigore il cosiddetto “Testo Unico sulla Privacy”, ovvero il Codice che raccoglie le disposizioni in materia di protezione dei dati personali (Codice in materia di protezione dei dati personali, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196). Il Codice garantisce che il trattamento dei dati si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, assicurando un elevato livello di protezione, nel rispetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed efficacia delle modalità previste per il loro esercizio, ma i comportamenti emessi dalla popolazione risultano essere contrari e incompatibili alla tutela richiesta (Citta & Della Banca, 2003).
I giovani espongono sui social i loro segreti più intimi, perché bisognosi della considerazione sociale di ciò che accade nelle loro vite, condividono fotografie per gioco o per rendere pubblica una relazione d’amore; i genitori inesperti della rete pubblicano foto di minori, installano senza consapevolezza sui propri smartphone applicazioni, allettati dalla parola “gratuita”. I professionisti mettono a rischio i loro contatti di lavoro attraverso lo scambio d’informazioni via e-mail con colleghi e clienti e scansioni di atti. L’uso delle più recenti tecnologie rende i dati sensibili indifesi di fronte ad attacchi esterni e spesso soggetti a incidenti informatici che compromettono il loro recupero. Tra amici o compagni di scuola si fanno strada molestatori e cyberbulli che, convinti di essere protetti dall’anonimato, colpiscono le persone più deboli.
In che modo internet sta ridisegnando la vita delle persone
Luciano Floradi, filosofo nell’Università di Oxford, in un’intervista speciale del TG1 andata in onda il 29 Gennaio 2017, pone l’attenzione sulle modalità attraverso cui internet sta ridisegnando in Italia le nostre vite, personali e pubbliche. Gradualmente, l’introduzione di device mobili nelle nostre vite sta conducendo verso un’identità perennemente “on line”.
La frequenza con cui si è connessi alla “rete delle reti” (internet) sta crescendo progressivamente: in qualsiasi contesto o momento del giorno e della notte, indipendentemente dall’età, si è perennemente on line (ISTAT, 2013). Internet viene utilizzato da fermi o in mobilità, portando l’uomo verso uno sviluppo di relazioni tra macchine più che tra persone, mediante applicazioni di messaggistica istantanea quali WeChat, WhatsApp, ecc..Nel marketing, attualmente, si parla di e-commerce, una forma di commercio i cui prodotti vengono venduti mediante Internet, il quale permette di raggiungere in modo veloce e a basso costo gli acquirenti, ma questa modalità di commercio ha portato a non incontrare neanche più i clienti (Gefen & Straub, 2004). A scuola il bambino viene monitorato in entrata e in uscita mediante il registro elettronico, gli insegnanti utilizzano la LIM (lavagna interattiva multimediale), su cui vengono proiettati contenuti digitali; telecamere appositamente posizionate all’interno delle istituzioni scolastiche monitorano la vita dei ragazzi. A Singapore, webcam e sensori invisibili sono sparsi per tutta la città, registrano e tracciano movimenti e comportamenti su autobus e nella vita quotidiana.
Una traccia rimane ovunque anche se tradisci il tuo partner, tra uomini e oggetti (acquisto di un regalo), tra oggetti e oggetti (es. le camere in hotel sono tutte controllate tramite smartcard). Tasse, proprietà, codici di accesso per visionare parti della propria vita, definiscono il valore professionale e personale dell’individuo.
Secondo alcuni antropologi che studiano i nativi digitali, in aeroporto la presenza di telecamere digitali permette di scansionare i volti, definisce il genere e l’etnia della persona e spesso vengono fermati i soggetti, sulla base di ciò che decide l’algoritmo. Nessuno si lamenta del controllo, viviamo in una società pragmatica, ma quanto siamo consapevoli che il diritto di privacy davanti alle relazioni in rete perde valore?
Anti fragilità vs fragilità delle relazioni reali
L’aver scelto un’identità sempre on line ha reso la popolazione dei nativi digitali più “controllante”: se si perde lo smartphone, grazie al segnale gps è possibile localizzarlo; in un posto in cui il collegamento dei mezzi è scarso, una connessione internet permette di localizzare l’auto più vicina grazie al servizio di car sharing. La Braun Research, società di ricerca di mercato, nel 2016 ha esplorato per conto della Bank of America le tendenze e i comportamenti di utilizzo dello smartphone con un sondaggio telefonico su 1004 persone di età superiore ai 18 anni in possesso di un cellulare. Il 59% dei soggetti intervistati afferma di possedere più di un dispositivo mobile.
L’uso che si fa dello smartphone è legato all’interazione con i propri figli, ottenere indicazioni, prendere appuntamenti, controllare le proprie finanze, prenotare viaggi, fare shopping e ordinare cibo. Questi comportamenti in realtà stanno portando la società in direzione contraria ai principi di anti fragilità (Taleb, 2013) e ciò non stupisce: le relazioni digitali comportano una fragilità nelle relazioni reali. La tecnologia e i dati aiutano a capire chi siamo e orientano l’uomo su dove andare, ancorandolo alla zona di comfort piuttosto cha spingerlo verso la scoperta autonoma dei pro e dei contro. I device digitali, via di accesso alla realtà della rete, dovrebbero essere di supporto e non sostituti.
Oggi il numero degli amici su Facebook è uno degli indicatori più significativi nella vita della persona, con la conseguenza di mettere implicitamente in secondo piano l’effettiva rete di relazioni intessute da un soggetto. Ciò va sommandosi a un altro elemento di fragilità ontologica ossia la mancanza di ridondanza: la quasi esclusività del mezzo digitale toglie di fatto all’individuo l’occasione di sperimentare le implicazioni ripetute della vita reale, le sollecitazioni improvvise ed esterne e non controllabili, necessarie alla crescita e al miglioramento personale. In alcuni casi può accadere che gli aspetti del reale e del virtuale si sovrappongono a tal punto che l’autonomia delle parti necessaria per una socialità anti fragile viene a mancare. In quest’ultimo caso, infatti, il virtuale non supporta il reale ma lo sincretizza diventandone causa di indebolimento: se muore una parte anche l’altra non sussiste. La mancata ridondanza nelle modalità di accesso e di contatto con la dimensione sociale rende il singolo oltremodo fragile. Ed è così che lo smartphone riesce a diventare indispensabile nelle nostre vite che non sono pronte ad affrontare un evento improvviso, un cigno nero (Taleb 2007), che inaspettatamente può far saltare il sistema, cambiando la routine vissuta dall’uomo.
L’era delle “face down people” e delle relazioni “filtrate dalla tecnologia”
La condizione della società contemporanea è descritta dal regista e animatore Steve Cutts, nel nuovo video di Moby & The Void Pacific Choir, nel brano “Are you lost in the world like me?”, uscito il 14 ottobre 2017.
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO
In questo video la coppia Moby-Cutts denuncia la dipendenza umana dagli schermi, con uno sguardo desolante. Le immagini rivelano come la centralità dell’individuo nella propria vita ha ceduto il posto alle relazioni “guidate dai dati”, in cui comportamenti come baciare, abbracciare, sorridere ecc. sono stati sostituiti da emoticon che comunicano sensazioni alterate e talvolta ambigue. Siamo nell’era delle “face down people”, persone che mantengono lo sguardo rivolto verso il basso, sullo schermo del telefono e si muovono immersi nello smartphone.
Wallace (2014) riporta alcuni casi limite. In Cina, due studenti hanno giocato a un gioco online per due giorni consecutivi: poi, una volta usciti di casa, nell’attraversare i binari nella vita reale, senza rendersi conto del cambiamento, sono stati uccisi da un treno che sopraggiungeva. Una giovane coppia in Korea si è occupata della figlia virtuale trascurando quella vera, che infine è morta. L’uso eccessivo di Internet porta progressivamente a difficoltà soprattutto nell’area relazionale dell’individuo, il quale viene assorbito dalla propria esperienza virtuale, rimanendo “agganciato” alla rete (Jamison, 2000).
È possibile pertanto parlare di dipendenza? Jerald J. Block (2008), in un articolo recente sull’American Journal of Psychiatry, afferma che l’Internet Addiction è un particolare tipo di disturbo compulsivo-impulsivo, il quale si manifesta attraverso i seguenti sintomi: desiderio irrefrenabile di connettersi al web (o comunque di stare davanti a un pc, tablet, smartphone) per chattare, giocare, mandare e-mail, frequentare siti porno. Il soggetto privo di internet diventa irritabile, nervoso e agitato e può facilmente cadere in forme di depressione: una vera e propria sindrome da astinenza. L’assuefazione a internet si manifesta nella forma di una progressiva permanenza davanti al pc/tablet sempre più lunga e ininterrotta, e nella ricerca di dispositivi hardware e software sempre più potenti e innovativi. Facebook è basato su un algoritmo simile a quello di Google, dà avvio a chat e relazioni, nelle quali la persona è immersa; l’algoritmo le ordina e le ripropone, tutto ridisegnato dal web. La relazione è filtrata dalla tecnologia. La velocità della chat brucia le relazioni: si crea la relazione prima che realmente avvenga. Le storie sentimentali da private diventano pubbliche.
La tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative indotta dalla diffusione di device e app digitali può essere un fattore di rischio trasversale per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.
Le app finora create (es. WhatsApp che permette di controllare gli accessi di ciascun utente) contribuiscono al sorgere di relazioni perverse, ipercontrollanti, che fanno sorgere nella mente del partner domande del tipo: “Cosa fa? Con chi chatta se non sta scrivendo a me? Come mai è ancora sveglia/o? Perché non mi scrive? Vuole escludermi dalla sua vita?”
Secondo alcune moderne teorie su pensiero e linguaggio, come l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, Strosahl & Wilson, 1999) e la Relational Frame Theory ( Hayes, Barnes-Holmes, & Roche, 2001), le strategie di controllo che avrebbero l’obiettivo di eliminare i disagi personali, hanno un ruolo centrale nell’esasperare la fisiologica sofferenza connessa all’essere umani. La psicopatologia sorgerebbe, quindi, nel momento in cui finalità e desideri di vita significativi a lungo termine, ad esempio persone e valori importanti, vengono sostituiti dall’obiettivo a breve termine di sentirsi bene, apparire bene e di difendere, nell’immediato, il proprio sé concettualizzato. Guidati da questi scopi a breve termine, effimeri per loro natura, i pattern comportamentali si restringono e si allontanano dai reali valori dell’individuo (Hayes et al., 1999).
Quanto affermato nei paragrafi precedenti evidenzia come l’attuale comunità sociale/verbale favorisca, anche attraverso la diffusione di device e app digitali, proprio queste strategie di controllo, che rappresentano una soluzione a brevissimo termine (ad esempio so sempre che cosa sta facendo il mio partner, i miei amici, ecc.) e un grave problema nel medio-lungo termine (l’assenza della possibilità di monitorare costantemente le attività altrui mi fa sentire perso, disorientato, instabile, sopraffatto, e mi spinge ad agire in modo discontrollato e pericoloso per me e per gli altri, ecc.). Questo eccesso di controllo sulle esperienze interne negative viene chiamato evitamento esperienziale e si traduce in tutti quei comportamenti che la persona mette in atto per allontanare da sé emozioni e sensazioni difficili, indipendentemente da quanto questi comportamenti impediscano alla persona di perseguire scopi significativi e gratificanti più ampi.
La ricerca scientifica mostra come la tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative possa essere un fattore di rischio trasversale per la salute psicologica. Solo per citare alcuni dati, le persone con elevato evitamento esperienziale tendono a sviluppare con maggior probabilità i sintomi del disturbo da stress post traumatico dopo un’esperienza traumatica (Marx e Sloan, 2005). La loro qualità di vita nel corso degli studi universitari risulta peggiore (Hayes et al., 2004); presentano un maggior numero di disturbi psicologici e rischiano di commettere più errori in ambito lavorativo (Bond e Bunce, 2003).
La capacità di aprirsi e accettare pensieri e sentimenti difficili, e di impegnarsi in azioni efficaci e di valore, sembra quindi predire il successo in diversi aspetti della vita degli esseri umani. Viceversa, l’evitamento esperienziale costituisce un importante fattore di rischio in termini di salute psicologica (Biglan, Hayes e Pistorello, 2008). In molti modi, quindi, incluso l’utilizzo pervasivo di rete, social e device, la nostra società rischia di creare un terreno fertile per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.
Foto, video, chat sono tutti elementi che lasciano dati sensibili ovunque. La cura dei dati è affidata a internet che, come una grande tribù priva di presenza fisica, opera una condivisione di informazioni. La distanza scompare, e come nelle caverne il corpo rimane nudo: i dati sono allo scoperto. Si tratta di tribù virtuali che condividono i loro corpi sotto forma di dati e quando i singoli componenti si ammalano anche la tribù si ammala perché ogni cosa è condivisa online. Le app sono diventate gradualmente applicazioni capaci di accomunare persone che hanno gli stessi interessi (cene, viaggi..), i “gruppi chiusi” di Facebook e i gruppi WhatsApp stanno creando una forma di tribalismo istantaneo, in cui l’identità dell’individuo si scioglie in quella collettiva: si verifica uno scambio di emozioni forti, di pensieri condivisi e il bisogno di relazione porta a chattare, fare battute, innamorarsi in un mondo virtuale. I comportamenti delle persone appartenenti ai social seguono regole ben precise: c’è un influencer e tutti lo seguono, il cosiddetto capobranco al quale ci si affida nei “like” o in votazioni relative a specifiche tematiche.
Il libro The Filter Bubble (Pariser, 2011) porta l’attenzione sui principali servizi web, dal motore di ricerca Google alle notifiche degli amici di Facebook e fa notare al lettore come questi hanno la tendenza a offrire all’uomo una visione su misura del mondo, personalizzata in base alle proprie aree di navigazione e interessi, manifesta in maniera diretta o dedotta in automatico dal sistema. Se da un lato tutto ciò rappresenta un vantaggio, dall’altro lato è un rischio. Il rischio, di cui parla il testo, è che l’uomo finisca per chiudersi in una bolla. Una bolla che ha l’effetto di isolare l’uomo dalla società, facendogli perdere la percezione della collettività nel suo insieme, orientandolo verso la costruzione di relazioni personali ideali più che reali. La società, informata solo in apparenza, pian piano si sta chiudendo all’interno di una bolla guidata da algoritmi che difficilmente permettono l’accesso al caos, rischio, incertezza, avventura e disordine, elementi che permettono all’uomo di crescere ed evolversi. Si è fragili e poco resilienti agli shock. La ridefinizione dei contesti e della frequenza di utilizzo dei propri dispositivi mobili potrebbe permettere all’uomo di uscire da questa bolla esponendosi alla realtà che lo circonda, compiendo scelte utili e funzionali per sé e per chi lo circonda.
Una “protesi cognitiva” semplice e veloce per aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online Daniel Kahneman, psicologo Israeliano e Premio Nobel per l’Economia nel 2002, ha messo in luce nel suo lavoro come l’ambiente in cui ci si muove possa esercitare un’importante influenza sulle scelte dell’uomo, che ne sia consapevole o meno (Kahneman, 2012). Un’ipotesi di intervento in tal senso che permetta agli individui di ricordare l’importanza della privacy e la tutela dei propri dati è l’applicazione del nudging, l’insieme di principi basati sulle scienze del comportamento, che spinge gentilmente le persone nel processo decisionale verso scelte coerenti con i propri valori individuali e collettivi. Il nudging lavora sull’ “architettura delle scelte” ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo. Aumenta la probabilità di emissione di un comportamento lavorando sugli antecedenti; influenza un comportamento prevedibile senza utilizzare punizioni o incentivi economici (Sunstein & Tahler, 2008).
Lo studio condotto da Castleman e colleghi (2013) in contesto universitario ha mostrato l’efficacia dei remainder nell’incremento delle iscrizioni. Il remainder è una “protesi” cognitiva che ci ricorda, in momenti specifici, la possibilità di compiere una scelta (ad esempio condividere o meno specifiche informazioni). Esso è utile quando i comportamenti non sono influenzati da un’elevata motivazione, o quando la persona deve processare diverse informazioni e può aumentare la probabilità che essa dimentichi di compiere una determinata azione.
Sarebbe utile e funzionale pertanto inserire come screen del proprio smartphone, pc/tablet un reminder contenente l’immagine di un lucchetto o la dicitura “nulla sfugge ai social” per ricordare alle persone l’esistenza e l’importanza della privacy, per aumentare la consapevolezza che tutto ciò che viene caricato online e reso disponibile alla grande tribù digitale di appartenenza, rimarrà per sempre nel web. Attraverso questo intervento le persone sono orientate verso il compiere o meno una scelta: condividere o no qualunque tipologia di foto, video, conversazione ecc.. in tempo reale. Tale intervento non richiede costi esosi, è semplice e veloce da applicare ma potrebbe aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online, tutelando sé stessi, gli altri e il concetto di privacy.
Quello che la mente dice: l’influenza dei pensieri e il concetto di defusione
L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ha portato l’attenzione sulla fusione col pensiero, e la sua controparte, la defusione. Praticare la defusione significa non lasciarsi agganciare dagli eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà.
Funzionalità dei processi di pensiero
Il pensiero e i suoi processi possono essere considerati tra le funzioni che, in stretta connessione con il linguaggio, consentono all’uomo di sostenere prestazioni altamente intelligenti. Lo sviluppo di alcune aree cerebrali ci ha permesso di evolverci, sviluppare abilità cognitive complesse e diventare abili pensatori. Grazie alla corteccia prefrontale, ad esempio, siamo in grado di generare nuovi comportamenti esplorando diverse alternative, ci è possibile immaginare, valutare le soluzioni possibili per il raggiungimento dei nostri obiettivi. Il nostro cervello opera però non solo manipolando e soppesando esperienze e sensazioni fisiche reali, ma si serve anche di rappresentazioni e astrazioni della realtà, ovvero di concetti che pone al centro dei processi di pensiero e ragionamento (Skoyles, Sagan, 2003). Il diffuso interesse per tali capacità dell’essere umano ha da sempre spinto gli studiosi ad approfondire i meccanismi che sottendono processi quali il prendere decisioni, il problem solving, le attività di valutazione e di giudizio che continuamente mettiamo in atto per muoverci nel mondo.
La fusione col pensiero: quando le credenze corrispondono a realtà
Ma cosa succede quando ci “fondiamo” con i nostri pensieri, immagini mentali, previsioni più o meno pessimistiche? Iniziamo a credere che questi corrispondano alla realtà e guardiamo al mondo attraverso di essi, come attraverso un filtro che altera il modo in cui vediamo le cose. Molti dei significati che emergono da questa fusione coi pensieri non ci aiutano a vivere pienamente, anzi, ci fanno credere che ci sia qualcosa di preoccupante, spaventoso, minaccioso da cui difendersi. Sappiamo che di fronte ad una potenziale minaccia la complessità delle nostre menti ci consente di trovare soluzioni creative, di risolvere problemi, di rispondere agli ostacoli che si frappongono tra noi e i nostri obiettivi.
La mente è una risolutrice di problemi e pertanto tenta anche di proteggerci da ciò che per noi rappresenta un pericolo; tutto ciò è funzionale all’evoluzione e alla sopravvivenza, ma in alcuni casi può generare un’inversione nella direzione della sofferenza psichica. In questi casi la mente propone soluzioni a problemi che non si sono ancora presentati e che probabilmente non si verificheranno mai, risponde a preoccupazioni e dubbi dettati da credenze distorte su se stessi o sugli altri, da previsioni su ciò che di brutto potrebbe accadere, da idee di fallimento o idee negative di altro genere; in sostanza, si tratta di storie che la mente racconta e che portano a costruire soluzioni disfunzionali, evitamenti, rinunce, tentativi di controllo inflessibili e rigidità. Così avviene che a volte ci sentiamo bloccati, quasi fisicamente incapaci di muoverci verso un obiettivo per noi importante. Magari perché giudichiamo le nostre capacità di farcela in maniera brutalmente – e irrealisticamente – critica, magari perché diamo per scontato il fallimento, o ancora perché “prevediamo” un epilogo negativo, sicuri che si realizzerà la peggiore delle ipotesi, trovando giustificazioni al nostro comportamento che siano in linea con tali convinzioni. È in un simile scenario che i pensieri possono talvolta svolgere un ruolo chiave nel produrre situazioni di stallo e sofferenza soggettiva, e non è tanto – o non solo – il loro contenuto a causare dolore o a impedirci di perseguire i nostri scopi, quanto il modo in cui ci rapportiamo ad essi.
Fusione e defusione nell’ Acceptance and Commitment Therapy
A questo proposito, l’approccio cognitivo-comportamentale cosiddetto di terza generazione e, in particolare, l’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT), hanno portato l’attenzione su un concetto particolarmente esplicativo di quanto finora descritto: la fusione, e la sua controparte, la defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle esperienze interiori, quali pensieri o emozioni, e guardare il mondo attraverso le loro lenti; praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà (Polk, Schoendorff, Webster, Olaz, 2016). I concetti di fusione e defusione sono connessi all’idea di base che il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento. Con la pratica della defusione è possibile riconoscere che i pensieri sono appunto parole, storie, discorsi che si presentano nella nostra mente ma che non necessariamente sono veri, possono esserlo ma non dobbiamo credergli automaticamente. Possiamo concedergli tempo e attenzione solo se sono utili, ma nessun pensiero, per quanto doloroso, rappresenta una minaccia reale (Harris, 2010).
Per questo alcune tecniche dell’ Acceptance and Commitment Therapy volte a promuovere la defusione si fondano sull’utilizzo di strategie verbali che consentono alla persona una descrizione della propria esperienza per ciò che è: invece di pensare “io non posso farlo” e rendere questo pensiero una verità assoluta, si può trasformare questa affermazione in “ho il pensiero di non poterlo fare”. L’intero lavoro sul processo di defusione prevede che si vada, parallelamente, ad intervenire sulla capacità della persona di accettare quei pensieri per lei disturbanti.
Come scrive Harris (2010, p.53):
Rapportati ai tuoi pensieri in modo nuovo, così che abbiano un impatto e un’influenza molto minori su di te. […] essi perderanno la capacità di spaventarti, preoccuparti, stressarti o deprimerti. E man mano che imparerai a praticare la defusione dai pensieri inutili, come le convinzioni che ti limitano e l’autocritica feroce, essi avranno molta meno influenza sul tuo comportamento.
La defusione è quindi, nell’ Acceptance and Commitment Therapy, la risposta alla fusione cognitiva. Si tratta in sintesi di un processo nel quale le persone arrivano a sperimentare i pensieri semplicemente come pensieri, eventi passeggeri che non bisogna necessariamente controllare (Dahal, Stewart, Martell, Kaplan, 2013).
Anche se il concetto di defusione è solo uno dei processi previsti dall’ ACT e va quindi inserito e letto in un contesto più ampio e completo, anche osservarlo singolarmente stimola importanti riflessioni. Avvicinarsi alla consapevolezza che i pensieri possano essere visti in questa prospettiva può rappresentare infatti un punto di partenza per la comprensione dei comportamenti e delle forme di sofferenza che sempre più spesso interessano la nostra società. È utile quindi introdurre noi stessi all’idea che anche la mente mente, e che a volte è bene allenarsi a guardare le cose dalla giusta distanza, “giocare” con i pensieri ingombranti trattandoli per quello che sono, parole, perché – citando Shakespeare – “non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale” (Amleto, atto II, scena II).
AlterEgo: un nuovo strumento per riuscire a comunicare senza parlare
Alcuni ricercatori del Massachussetts Istitute of Technology (MIT) hanno sviluppato un sistema, chiamato AlterEgo, in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto di chi lo indossa per rispondere a domande che non sono state esposte esplicitamente tramite verbalizzazione.
Pensa silenziosamente ad una domanda e io ti risponderò.
Questo potrebbe sembrare un trucco magico, in realtà è ciò che promette di fare AlterEgo, un dispositivo in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto per rispondere a domande che sono rimaste silenziose e inespresse nella mente di chi lo indossa. Attenzione, non legge la mente, ma il principio è molto simile.
AlterEgo: come funziona
Kapur e Maes (2018) hanno sviluppato un device computerizzato in grado di “leggere” e poi esprimere ciò che il soggetto verbalizza nella propria mente, senza però che sia espresso a parole. Il sistema, chiamato AlterEgo, è costituito da un apparecchio indossabile che si estende dall’orecchio alla bocca, appoggiato all’osso della mandibola, ed è associato ad un programma computerizzato.
In particolare, l’apparecchio contiene una serie di elettrodi in grado di rilevare i segnali neuromuscolari della mandibola e del volto determinati dalle verbalizzazioni interne che si verificano quando il soggetto pensa a ciò che sta per esternare. Questi segnali neuromuscolari, invisibili all’occhio umano, una volta rilevati vengono trasmessi ad un sistema di machine-learning che è stato progettato per associare specifici segnali a specifiche parole.
AlterEgo inoltre include un paio di cuffiette che trasmettono vibrazioni all’orecchio interno tramite la mandibola: dal momento che tali cuffiette non ostruiscono il canale auricolare, consentono al sistema di trasmettere informazioni a chi lo indossa senza che quest’ultimo sia distratto dalla “conversazione interna” o senza che esse interferiscano con l’esperienza uditiva di chi lo indossa. Il device è così parte di un più generale sistema computazionale che, in aggiunta, permette all’individuo di porre domande non verbalizzate e ricevere, dal computer, risposte silenziose anche a problemi computazionali complessi come è stato osservato in soggetti che utilizzavano AlterEgo durante una partita di scacchi.
[blockquote style=”1″]Lo scopo di tutto è stato quello di costruire un device di accresciuta intelligenza per rispondere ad una nostra domanda: è possibile creare una piattaforma computerizzata che sia più interna, che fonda la macchina artificiale con l’essere umano in una qualche maniera così da ottenere un’estensione della nostra cognizione?[/blockquote]
(Arnav Kapur, laureato al Media Lab del MIT, uno degli sviluppatori del sistema)
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO
Perchè nasce AlterEgo: quali possono essere gli utilizzi possibili
Fondamentalmente non siamo più in grado di vivere senza i nostri cellulari o i nostri apparecchi digitali, tuttavia, al momento, l’utilizzo di questi apparecchi non garantisce il massimo grado di efficienza.
Durante una discussione, per trovare argomenti rilevanti alla conversazione, è necessario prendere il cellulare, immettere la password se necessario, aprire un’applicazione o immettere una keyword per tentare di trovare l’informazione che si sta cercando, il tutto però interrompendo la conversazione con l’altro e costringendo la persona a focalizzare la sua attenzione sull’apparecchio e non più sull’interlocutore.
AlterEgo, secondo i suoi sviluppatori, nasce con l’intento di fornire alle persone un nuovo tipo di esperienza che consenta loro di beneficiare e di accedere in tempo reale, sul momento, alle informazioni migliori da utilizzare in una conversazione tramite un sistema veloce ed intelligente.
L’idea che le verbalizzazioni interne avessero correlati fisici risale agli anni 50 del Novecento, mai fino ad ora era però stata esplorata l’idea di decodificare le verbalizzazioni interne o “subvocalizzazioni” tramite un computer e un algoritmo.
Il primo passaggio è stato quello di determinare quale punti del volto costituissero una fonte dei segnali neuromuscolari più rilevanti, trovando che quattro specifici elettrodi su sedici, appoggiati alla mandibola, fossero in grado di distinguere parole subvocalizzate. Una volta selezionati gli elettrodi sulle porzioni salienti del volto, i ricercatori hanno iniziato a raccogliere dati tramite pochi task computazionali con un vocabolario piuttosto limitato, circa 20 parole (Kapur, Kapur & Maes, 2018). Ad ogni singolo task, i ricercatori del MIT hanno poi associato correlati neurali per trovare correlazioni tra particolari segnali neuromuscolari e specifiche parole.
Ricerche future dovranno raccogliere dati e creare delle applicazioni con un vocabolario molto più ampio e ricercato che possa consentire un giorni di compiere una completa conversazione.
I benefici dei sistemi come AlterEgo
Innanzitutto device simili ad AlterEgo potrebbero consentire di comunicare senza che vi sia il bisogno di verbalizzare e pertanto, secondo gli sviluppatori, permetterebbero di trasmettere informazioni in situazioni e in ambienti con un massiccio inquinamento acustico come ad esempio una cabina di pilotaggio di una portaerei o in fabbriche in cui i lavoratori per protezione indossano già delle protezioni per le orecchie. Un altro loro uso potrebbe riguardare i pazienti che sono stati sottoposti a interventi chirurgici invasivi che hanno compromesso la loro capacità di vocalizzare o comunicare normalmente a causa ad esempio di tumori ossei alla mandibola.
Mariah Carey, meglio un coming out che un pass away
Mariah Carey ha ammesso alla rivista People di soffrire da molti anni di disturbo bipolare II (la forma più attenuata, quella con episodi ipomaniacali invece che maniacali).
Quando mi chiedono che musica mi piace di solito rispondo in modo abbastanza riduzionistico “i cantautori italiani” con riferimenti ai grandi classici della musica d’autore (Guccini, De Andrè, Gaber, Capossela, etc.) o talvolta mi spingo a citare anche Dylan e qualche collega anglofono. In realtà il mio cuore musicale ospita anche singole canzoni che con quel mondo lì non c’entrano proprio niente e tra questi alcuni brani di Laura Pausini (anche questo per certi aspetti è un coming out…) e la canzone When you believe, interpretata magistralmente dalla buonanima di Whitney Huston e da Mariah Carey. La buonanima di Whitney Houston rientra purtroppo in quella lunga e macabra lista di artisti morti degli ultimi anni, che hanno perduto la propria battaglia personale con gravi disturbi psichiatrici o con qualche forma di dipendenza (non solo le classiche droghe, ma anche antidolorifici oppiacei, il cui abuso è diventato recentemente endemico negli Stati Uniti). Di questa sorta di “second wave” di decessi, che ormai compete con il famigerato “club dei 27” e con i martiri del rock di fine anni 60, fanno parte anche Prince, Dolores O’Riordan, Chris Cornell e Chester Bennington.
Di fronte a questa terribile lista di perdite di grandissimi artisti, il coming out di Mariah Carey che ha ammesso alla rivista People di soffrire da molti anni di disturbo bipolare II (la forma più attenuata, quella con gli episodi ipomaniacali invece che maniacali) paradossalmente risuona quasi come una buona notizia. La condivisione pubblica della propria condizione, sicuramente ben ponderata dopo anni di riflessioni, assume un grande significato e denota sicuramente una buona dose di consapevolezza e di capacità di tolleranza della vergogna e del giudizio altrui.
Recentemente ho avuto l’occasione di prendere parte a un corso di psicoeducazione sul disturbo bipolare (Colom e Vieta, 2016), una terapia di gruppo molto strutturata (purtroppo in Italia ancora poco diffusa) che ha la finalità di aiutare il paziente a riconoscere precocemente i sintomi prodromici delle ricadute e di gestire al meglio il disturbo. In uno dei primi incontri c’è proprio un piccolo spazio dedicato a citare bipolari “famosi”, con il messaggio che la malattia non deve essere per forza un limite. In questo senso il coraggioso racconto di Mariah Carey, una delle cantanti più note al mondo con duecento milioni di dischi venduti, rappresenta sicuramente un’iniezione di speranza per le persone affette da questo disturbo. La cantante ha raccontato di soffrire di disturbo bipolare da 17 anni e fa alcuni riferimenti alla sintomatologia degli episodi ipomaniacali come l’insonnia, l’irritabilità e l’iperattività (“Per molto tempo pensavo di avere un grave disturbo del sonno. Ma non era normale insonnia e non stavo sveglia a contare le pecore. Lavoravo, lavoravo e lavoravo… Ero irritabile”). Racconta di come la malattia l’abbia fatta sentire isolata per anni, come ulteriore conferma che il problema dello stigma delle malattie psichiatriche sia ancora una triste realtà anche in paesi apparentemente avanzati come gli Stati Uniti.
Uno dei passaggi sicuramente più pregnanti dell’intervista è quando la cantante dice “Ma mi rifiuto di lasciarmi definire o controllare dalla malattia”, una frase che probabilmente è una delle conquiste di un percorso psicoterapico personale. Speriamo che altri artisti seguano l’esempio di Mariah Carey. Ma soprattutto, lunga vita a Mariah!
Parla, mia paura (2017) – Recensione del libro di Simona Vinci su attacchi di panico e depressione
Cosa sono gli attacchi di panico? Cos’è la depressione? Il racconto autobiografico di Simona Vinci ci parla del suo percorso di lotta e cambiamento.
In “Parla, mia paura” Simona Vinci rende accessibile a tutti un tema difficile da trattare, esponendo le proprie difficoltà attraverso un racconto in prima persona; offre molteplici occasioni di rispecchiamento per chi ha sperimentato o si trova a sperimentare attacchi di panico e stati depressivi.
Ci parla di un fenomeno sempre più in espansione, qualcosa che va oltre i momenti di tristezza, paura, spaesamento, che vanno e vengono. Secondo le stime dell’organizzazione mondiale della sanità, il 4,4% della popolazione mondiale soffre di depressione e il 3,6% di disturbi d’ansia (la “grande famiglia” di cui fa parte anche l’attacco di panico), con una maggiore incidenza sulle donne rispetto agli uomini. In Italiasoffrirebbero di ansia e depressionecirca 7 milioni di persone (nello specifico: il 5% della popolazione soffrirebbe di disturbi d’ansia e il 5,1% di depressione). In pratica ogni 10 persone incontrate almeno una soffre di ansia e depressione, ma nonostante ciò difficilmente ce ne parlerà.
Simona Vinci, nel ripercorrere gli anni della sua vita, ricorda come inizialmente non abbia parlato con nessuno dell’esperienza sconvolgente che stava vivendo con gli attacchi di panico:
[blockquote style=”1″]l’impressione di cadere, di precipitare in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di morire[/blockquote]
Nel momento in cui prese la decisione di chiedere aiuto lo fece con un senso di vergogna, preoccupata che altri lo potessero scoprire. Prima come donna e poi anche come madre, narra di come la sua crescita personale si sia intrecciata con momenti faticosi e dolorosi. Lo fa attraverso una modalità che non risulta autoreferenziale, ma piuttosto di ricerca, includendo il lettore; c’è spazio per la sua storia ma anche per quella di tanti altri che si stanno chiedendo cosa significa soffrire d’ansia e di depressione. Forse, nel tentativo di offrire un senso di vicinanza e di comprensione tipico del automutuoaiuto, l’autrice ci tiene a rimarcare la soggettività che caratterizza le diverse modalità in cui si può vivere questa forma di disagio. Simona Vinci è capace di mettere da parte ogni pregiudizio, anche quello più diffuso nei confronti di chi si affida anche a cure psicofarmacologiche.
Descrive così un cambiamento che passa attraverso la richiesta di aiuto e lo sviluppo di una maggiore consapevolezza rispetto alla propria condizione e alle proprie possibilità. Con grande autenticità non disconosce il ruolo personale nel costruirsi barriere e ostacoli immaginati, ma individua nella narrazione di sè una chiave fondamentale per poter aprire la porta della propria gabbia. Una narrazione che non avviene in solitaria ma che prevede, come in psicoterapia, un interlocutore capace di attivare un ascolto profondo di quel racconto.
L’autrice dedica un intero capitolo, “La stanza dell’analista”, al racconto delle preziose scoperte che avvengono grazie al percorso terapeutico che faticosamente decide di intraprendere, un periodo di trasformazione che riconduce al rapporto con le proprie paure.
Disturbi del comportamento dirompente: tratti calloso-anemozionali e basi neurali
I Disturbi del Comportamento Dirompente, le cui più note espressioni si ritrovano nel Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC), sono patologie con sviluppo precoce che possono evolversi in più gravi disordini comportamentali appartenenti alla sfera della personalità antisociale.
Nello studio dei Disturbi del Comportamento Dirompente sono state considerate diverse variabili che vanno da fattori biologici a quelli più prettamente psicosociali e sono state proposte osservazioni psicologiche e neuroscientifiche in grado di descrivere in parte i meccanismi all’origine delle difficoltà comportamentali riscontrate durante lo sviluppo.
Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC) possono trovarsi in associazione, dal momento che è stato osservata, in modo significativo, la presenza di comportamenti oppositivo-provocatori in giovani che hanno successivamente sviluppato problemi di condotta, tuttavia non ci sono consensi unanime a conferma del fatto che un Disturbo Oppositivo Provocatorio presente durante l’infanzia avrà necessariamente un’evoluzione in un Disturbo della Condotta.
La classificazione del Disturbo Oppositivo Provocatorio
Diversi autori hanno avanzato proposte di classificazione del Disturbo Oppositivo Provocatorio sulla base di aspetti temperamentali e comportamentali che variano da soggetto a soggetto e che possono successivamente presentare manifestazioni problematiche nella condotta. Burke e colleghi (2010) hanno suddiviso il disturbo in due tipologie: il DOP negative affect con facilità ad impermalosirsi, arrabbiarsi e ad essere dispettoso, spesso associato a psicopatologia depressiva, e il DOP opposition con tendenza alla perdita di calma, alla sfida e alla discussione e primariamente associato a problemi di condotta.
Similmente Stringaris e Goodman (2009) hanno proposto tre sottogruppi. Il primo, il DOP irritable, si caratterizza per essere facilmente infastidito, arrabbiato e risentito, e le manifestazioni comportamentali riguardano principalmente scoppi d’ira frequenti; il DOP headstrong, testardo, vìola le regole, discute con gli adulti, infastidisce intenzionalmente gli altri dando spesso loro la colpa delle proprie azioni; infine, il DOP hurtful rivela connotati aggressivi e di insensibilità. É chiaro che tali suddivisioni abbiano carattere per lo più descrittivo, in quanto è possibile che diverse manifestazioni temperamentali e comportamentali si sovrappongano l’una con l’altra creando patterns specifici per ciascun soggetto; ciononostante considerare tali aspetti in modo distinto potrebbe aiutare a comprendere più nel dettaglio il disturbo in tutte le sue varianti psicopatologiche e proporre interventi appositi.
I Disturbi del Comportamento Dirompente e i tratti calloso-anemozionali
Un altro fattore preso in considerazione nello studio dei Disturbi del Comportamento Dirompente riguarda i tratti calloso-anemozionali (callous-unemotional, CU), da sempre considerati elementi cruciali nella psicopatia (Frick, 2008) e caratteristici di quei soggetti, bambini e adolescenti, che mostrano mancanza di senso di colpa, mancanza di empatia e superficialità emotiva, e che possono ritenersi un sottogruppo specifico di Disturbi del Comportamento Dirompente con rischio aumentato di evoluzione in personalità antisociale.
I tratti calloso-anemozionali sono stati presi in esame per comprendere i motivi alla base della disregolazione emotiva che si ritrova in alcuni soggetti con problemi di condotta mentre in altri no, e il ruolo che riveste l’aggressività in tali manifestazioni emotive. L’insensibilità ai vissuti degli altri, l’assenza di senso di colpa e quindi la tendenza alla manipolazione che si ritrova nei soggetti con tratti calloso-anemozionali, conducono all’idea che l’aggressività sia strumentale al raggiungimento dei propri scopi (aggressività proattiva) e dunque è raro assistere a disregolazioni emotive eccessive. Viceversa, individui con problemi nella sfera della condotta che non presentano tratti calloso-anemozionali, mostrano un’aggressività di tipo reattivo che si palesa a seguito di situazioni sociali attivanti (provocazioni, umiliazioni ecc.) ed è stata associata a contesti ambientali sfavorevoli ed a inefficienza nelle cure parentali (Wootton, 1997). La difficoltà nella regolazione emotiva potrebbe trovare origine in una forte suscettibilità a situazioni sociali emotivamente attivanti che si traduce in agiti impulsivi a seguito dei quali il bambino/adolescente, senza tratti calloso-anemozionali, potrebbe provare pentimento.
Disturbi del Comportamento Dirompente: esiste una causa biologica?
Da un punto di vista neuroscientifico, sono stati condotti molti studi che hanno suffragato l’ipotesi di una causa biologica alla base dell’insorgenza del Disturbo Oppositivo Provocatorio e del Disturbo della Condotta.
Sappiamo che il bambino, affinché sviluppi capacità sociali che gli permettano di far parte di un gruppo, deve accrescere la sensibilità agli stimoli-ricompensa che lo spingano a mettere in pratica con maggiore probabilità comportamenti ritenuti socialmente adeguati e, allo stesso tempo, ha la necessità di imparare ad astenersi da comportamenti inappropriati attraverso un’adeguata elaborazione delle conseguenze che certi tipi di comportamento avranno su di sé e sugli altri.
Disturbi del Comportamento Dirompente e sensation seeking
Recenti ricerche forniscono dati a sostegno di una ridotta sensibilità alla ricompensa in soggetti con Disturbi del Comportamento Dirompente (DOP o DC) e ciò potrebbe spiegare il perché tali soggetti ricerchino costantemente sensazioni forti (sensation seeking) attraverso la trasgressione di regole e, in generale, attraverso comportamenti socialmente inadeguati: le normali attività fonte di piacere in soggetti sani (come la condivisione, il gioco ecc.) non produrrebbero il medesimo effetto piacevole rendendo dunque necessaria la ricerca di sensazioni di grado più intenso. La difficoltà nell’elaborazione della ricompensa e il fenomeno di sensation seeking potrebbero trovare origine dalla riduzione dell’attività della corteccia orbitofrontale che è stata riscontrata in soggetti con Disturbo della Condotta, dal momento che questa area è deputata all’elaborazione degli stimoli associati a ricompensa e una sua disfunzione potrebbe favorire la propensione alla frustrazione e conseguenti agiti aggressivi (Blair, 2004).
È stata inoltre osservata una ipoattivazione del sistema autonomo che interessa la frequenza cardiaca a riposo, la quale associata a disfunzioni dei circuiti della ricompensa fornirebbe spiegazioni aggiuntive circa la difficoltà da parte di soggetti con Disturbo della Condotta ad esperire sensazioni piacevoli per attività che soggetti sani giudicano piacevoli e avere quindi una tendenza a comportamenti delinquenziali (fino a vera e propria antisocialità) per far fronte a sensazioni di noia.
L’ emozione di paura
Anche l’inibizione di comportamenti ritenuti socialmente inopportuni riguarda aree cerebrali specifiche, la cui attività è risultata deficitaria in soggetti con Disturbo della Condotta. Un bambino, affinché comprenda l’impatto di alcuni comportamenti verso se stesso e verso gli altri, e quindi impari a valutare in maniera appropriata stimoli negativi, ha bisogno di sviluppare la capacità di prevedere le ripercussioni sfavorevoli a seguito di determinati comportamenti e ciò può essere agevolato da una certa sensibilità all’emozione di paura. L’emozione di paura, come le altre emozioni di base, possiede una forte funzione informativa circa l’ambiente esterno (gli altri, il mondo) e interno (vissuti personali, stati mentali) e come tale può influenzare il modo in cui ci comportiamo e rapportiamo con i nostri simili. Una buona elaborazione della paura è estremamente importante al fine dell’adattamento, in quanto ci preserva da agiti e situazioni che potrebbero minare la nostra sicurezza, sia fisica (pericoli ambientali/situazionali) che psichica (allontanamento/esclusione sociale), rivestendo dunque un ruolo vitale per la sopravvivenza.
A livello neurobiologico, a spiegazione della mancata acquisizione di consapevolezza dei propri agiti socialmente negativi, è stata osservata una riduzione di sostanza grigia nell’amigdala (principale aree di elaborazione della paura) in adolescenti con problemi di condotta con e senza psicopatia, molti dei quali mostravano comorbilità con il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). L’insensibilità all’emozione di paura è causa di aumentato rischio di problemi nella socializzazione, poiché non cogliendo i segnali informativi che fornisce tale emozione, sarà difficile per il bambino o adolescente inibire comportamenti pericolosi. La ridotta capacità di cogliere segnali interni (“questo comportamento è rischioso, potrei farmi male”) ed esterni (“capisco che quel bambino ha paura a causa di un mio comportamento, rischio di essere escluso”) o ancora l’incapacità di prevedere esiti negativi futuri (“questo comportamento potrebbe provocare conseguenza negative per me stesso, meglio non metterlo in atto”), aumenta il rischio di sviluppare gravi problemi di socializzazione che potrebbero incrementare la sensazione di esclusione e una riprovevole immagine di sé (“sono cattivo, nessuno vuole stare con me”).
Il ruolo delle funzioni esecutive nei Disturbi del Comportamento Dirompente
Sempre da un punto di vista neuroscientifico, l’inibizione di comportamenti socialmente inopportuni a favore di comportamenti pro-sociali, necessita di un controllo cognitivo che viene attuato attraverso le funzioni esecutive. Le funzioni esecutive sono quei processi mentali quali attenzione, pianificazione, memoria di lavoro, inibizione di risposte inappropriate, flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti ambientali, decison making, il cui compito principale è quello di ottimizzare le risorse mentali ed il comportamento in un ambiente in continuo mutamento.
La porzione cerebrale sede delle funzioni esecutive è la corteccia prefrontale, sebbene esistano moltitudini di interconnessioni neuronali tra aree frontali ed aree sottocorticali coinvolte anch’esse nel controllo inibitorio, decision making e attenzione, oltre che nel circuito della ricompensa. In soggetti con Disturbi del Comportamento Dirompente, in particolare con Disturbo della Condotta è stata trovata una riduzione di sostanza grigia nelle aree prefrontali; in aggiunta, una ipoattivazione nei lobi frontali è stata ripetutamente associata a violenza, nello specifico è stato riscontrato che un danno alla corteccia orbitofrontale porta ad aggressività impulsiva (Brower, 2001).
Disturbi del Comportamento Dirompente: l’importanza dell’ambiente
Come in molti disturbi psicopatologici, i Disturbi del Comportamento Dirompente presentano cause multifattoriali ancora non del tutto chiare e spiegabili. La neurobiologia fornisce una chiave di lettura importante nella comprensione di queste manifestazioni comportamentali invalidanti da un punto di vista sociale e psichico, le quali possono avere una prognosi favorevole se individuate per tempo e trattate con terapie mirate.
Ad esempio, molti studi hanno ipotizzato un ruolo cruciale dell’ambiente nel plasmare i tratti calloso-anemozionali, presupponendo che insensibilità e mancanza di empatia, in associazione ad agiti aggressivi, siano il prodotto di una storia evolutiva caratterizzata da abuso o rifiuto da parte delle figure genitoriali, incapaci di accudire la prole o apertamente maltrattanti. Crescere in un ambiente privo di vicinanza e intimità, rende difficile lo sviluppo di capacità empatiche e abilità sociali; deficit d’empatia in aggiunta a fattori di vulnerabilità biologica vanno così a facilitare l’insorgenza di gravi disturbi comportamentali, i quali a loro volta condurranno il soggetto a una progressiva esclusione sociale, incrementando il rischio di un’evoluzione antisociale.
Un’intervento tempestivo che aiuti l’individuo ad incrementare l’empatia, sostenendolo nello sviluppo di una Teoria della Mente e nell’accrescimento delle abilità sociali, intervenendo inoltre sul contesto e sulle dinamiche familiari, è un passo fondamentale affinché la prognosi risulti favorevole e il bambino/adolescente tragga benefici a livello psicologico e sociale.
Bambini piccoli e attesa: a che età imparano?
Oltre 40 anni dopo il Marshmallow Test, un team di ricercatori polacchi ha compiuto uno studio, che ha testato la capacità di gratificazione differita in bambini piccoli mostrando che le differenze individuali nell’autoregolazione comportamentale sono evidenti già a 18 mesi.
Il Test dei Marshmallow è uno degli esperimenti classici della psicologia del comportamento. Ideato da Walter Mischel, intendeva testare l’abilità di ritardare la gratificazione immediata -per ottenerne una maggiore in seguito- dei bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni; in questo modo è stato introdotto il concetto di gratificazione differita.
L’autrice dello studio Marta Bialecka-Pikul e il suo gruppo di ricerca hanno reclutato 130 piccoli partecipanti di 18 mesi e i loro genitori per replicare l’esperimento di Mischel. I ricercatori hanno seguito la procedura sperimentale originale: un dolcetto era posto su un tavolo di fronte al bambino che, vista la tenera età, sedeva in grembo al genitore a cui era chiesto espressamente di non intervenire in alcun modo; dopo ciò lo sperimentatore abbandonava la stanza per farvi ritorno dopo 60 secondi. La ricerca è stata ripetuta una seconda volta, quando i bambini avevano 24 mesi, aumentando il tempo di attesa a 90 secondi.
Da bambini la resistenza alle tentazioni aumenta con l’età?
I risultati mostrano come a 18 mesi il 23% del campione resisteva alla tentazione mentre invece a 24 mesi la percentuale saliva al 55%. Dalle analisi appare una traiettoria di sviluppo molto chiara: la maggior parte dei bambini che avevano ceduto alla tentazione nella prima fase riuscivano nell’impresa a 24 mesi mostrando di aver acquisito un maggior autocontrollo con l’avanzare del tempo. La tendenza a “retrocedere” invece era rara: solo l’8% infatti di coloro che avevano svolto la prova con successo a 18 mesi fallivano nel re-test.
Un elemento interessante emerge dalla codifica dei video: sono stati rilevati infatti 20 diversi tipi di comportamenti manifestati durante l’attesa tra i quali: osservare il dolce, manipolarlo, parlare del piacere che si proverebbe nel mangiarlo, distrarsi, toccare il proprio corpo o quello del genitore. Gli autori hanno raggruppato questi comportamenti formando 4 categorie principali:
attenzionale e basata sul movimento
comunicativa
focalizzata sulla ricompensa
non specificata (agitarsi e fare rumori).
Tra tutte, la prima categoria era fortemente correlata al successo nel compito in entrambe le fasi sperimentali come hanno affermato gli stessi ricercatori:
[blockquote style=”1″]Guardarsi attorno, focalizzare l’attenzione su altri oggetti o toccare sé stessi si è rivelato essere l’insieme di comportamenti che hanno aiutato maggiormente i bambini durante l’attesa [/blockquote]
Le evidenze emerse suggeriscono che già a 18 mesi i bambini affrontano attivamente il compito, non risultando partecipanti passivi alla procedura ma anzi applicando diversi comportamenti con vari gradi di efficacia. Quello che si è osservato solo nella fase dei 24 mesi è che i piccoli partecipanti mostravano meno attenzione alla ricompensa, attuando gli altri tipi di comportamento ed in particolar modo lo spostamento dell’attenzione.
Gli autori hanno concluso affermando che l’abilità di gratificazione differita nei bambini piccoli è in gran parte dovuta a un insieme di comportamenti attenzionali che vengono utilizzati come strategie di autoregolamentazione, le quali si svilupperebbero proprio durante il secondo anno di vita.
Correlazioni fra quantità e qualità del sonno e performance scolastiche nell’adolescenza
Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano: le ore di sonno diminuiscono ma il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. Questi cambiamenti si ripercuotono sul rendimento scolastico: la diminuzione delle ore di sonno e riposo è correlata a scadenti performance scolastiche.
Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano. Questo è dovuto ad una variazione dei meccanismi neurofisiologici, che regolano il sonno e il ritmo circardiano. Solitamente gli adolescenti vanno più tardi a letto, cambiando le abitudini che avevano nella fanciullezza. In ragione di ciò le ore di sonno diminuiscono con il progredire dell’età, anche se il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. I cambiamenti relativi alla quantità e alla qualità del sonno si ripercuotono sul rendimento scolastico. In pratica, una diminuzione delle ore di sonno e del tempo dedicato al riposo è correlata a delle performance scolastiche scadenti.
Keywords: adolescenza, quantità e qualità del sonno, performance scolastiche.
Sonno: cosa cambia negli adolescenti
Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano. Questo è dovuto ad una variazione dei meccanismi neurofisiologici, che regolano il sonno e il ritmo circardiano (Galvan e al., 2012). Solitamente gli adolescenti vanno più tardi a letto, cambiando le abitudini che avevano nella fanciullezza. In ragione di ciò le ore di sonno diminuiscono con il progredire dell’età, anche se il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. Molti adolescenti riferiscono in ricerche condotte a tale scopo (Spilsbury e al., 2015) che la quantità delle loro ore di sonno non è sufficiente per dare loro la sensazione di aver riposato bene.
L’ adolescenza, inoltre, corrisponde al periodo in cui si comincia la scuola secondaria di secondo grado e questo induce dei cambiamenti di vita che incidono sulle ore di riposo. In pratica, gli adolescenti frequentano degli istituti scolastici che sovente sono ubicati ad una distanza maggiore dalla loro abitazione rispetto alla scuola secondaria di primo grado dei precedenti anni scolastici, per cui per raggiungere la nuova scuola devono alzarsi prima al mattino. Parrallelamente aumenta anche l’impegno e il tempo dedicato ai compiti a casa e ciò sottrae tempo allo spazio riservato all’eventuale riposo pomeridiano.
In aggiunta, gli adolescenti spendono parte del loro tempo ad utilizzare gli strumenti elettronici, in particolare lo smarthphone. Recenti ricerche hanno dimostrato una correlazione significativa fra uso eccessivo dello smarthphone e peggioramento della qualità del sonno (Hysing e al., 2015), con relativi riverberi negativi sulle abituali attività quotidiane.
Qualità del sonno e rendimento scolastico
Per questo motivo, molti ragazzi vivono una condizione di deprivazione del sonno nel corso della settimana, come molti studi hanno messo in evidenza (Boschloo e al., 2013; Sivertsen e al., 2014). Tali variazioni relative alla quantità e alla qualità del sonno si ripercuotono sul rendimento scolastico. Innumerevoli ricerche hanno evidenziato che una diminuzione delle ore di sonno e del tempo dedicato al riposo è correlata a delle performance scolastiche scadenti (Dewald e al., 2010; Perkinson – Gloor e al., 2013).
Nello specifico, gli effetti della mancanza di sonno inficiano le abilità neuropsicologiche degli adolescenti (Jones e harrison, 2001), la loro capacità di autoregolazione (Turnbull e al, 2013) e di autocontrollo (Digdon e Howell, 2008).
In conclusione, si può affermare che esiste una correlazione diretta nel periodo adolescenziale fra quantità e qualità del sonno e performance scolastiche (Nije Bijvank e al., 2017).
La nascita del costrutto della co-ruminazione
La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale, dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici, sintomi esternalizzati, abuso alcolico nelle studentesse universitarie, accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo.
Mara Di Paolo, Open school Studi cognitivi di Bolzano
Il costrutto della co-ruminazione
Il costrutto di co-ruminazione è nato nel 2002 nell’ambito della psicologia scolastica americana, ad opera della dottoressa Amanda J. Rose, per spiegare le differenze di genere negli adolescenti e nei giovani adulti rispetto ai risultati discordanti ottenuti in due filoni di ricerca, uno basato sull’amicizia e l’altro sul coping e il funzionamento emozionale.
Le ricerche sull’amicizia riscontravano, nella condivisione di vissuti emotivi e cognitivi, un processo in grado di favorire forti legami amicali (Camarena, Sargiani, Peterson, 1990, Wei, Russell e Zakalik, 2005), favorenti l’aiuto reciproco e la risoluzione positiva dei conflitti (Asher, Parker eWalker,1996, Greene 2009; Parker e Asher 1993). Al contrario gli studi sul coping e sul funzionamento emozionale mostravano come la ruminazione, ovvero il processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero astratto, ripetitivo e centrato su sensazioni e pensieri negativi fosse la causa di problemi emozionali, sia negli adulti ( Nolen- Hoeksema Morrow e Fredrickson, 1993; Nolen-Hoeksema, Parker e Larson, 1994; Nolen-HOeksema, Wisco e Lyubomirsky, 2008) che negli adolescenti (Hart e Thompson, 1997; Schwartz e Koening, 1996) e bambini (Broderick, 1998).
Questi dati erano confermati da ulteriori ricerche di genere che riscontravano nelle giovani donne e nelle adolescenti femmine, maggiori livelli di ansia e depressione nonostante nel genere femminile prevalessero maggiormente forti rapporti amicali diadici, caratterizzati da più alti livelli di self disclousure (Bhurmester e Furman, 1987; Camerena et.al 1990; Dindia e Allen 1992; Parker e Asher, 1993) rispetto ai giovani maschi che mostravano rapporti amicali basati esclusivamente sulla condivisione di interessi sportivi e una ridotta tendenza a discutere di problemi personali.
Il costrutto di co-ruminazione pertanto, nasceva per spiegare queste differenze di genere negli adolescenti e nei giovani adulti (Rose, 2002), indicando con tale termine quel processo interpersonale consistente in una discussione ossessiva e passiva dei propri problemi personali con un amico fidato (Balsamo, Saggino, et.al 2016). I co-ruminatori condividono frequentemente e ripetutamente con amici intimi, lo stesso o gli stessi problemi personali, speculando sui problemi in termini di cause e potenziali conseguenze e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano.
Gli effetti della co-ruminazione e l’analisi fattoriale del costrutto
La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale ( Calmes, Robertes 2008; et. al), dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici (Balsamo et. Al 2015), sintomi esternalizzati ( Tompkins; Hockett, et. Al 2011), abuso alcolico nelle studentesse universitarie (Ciesla et al. 2011), accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo (Byrd-Craven et.al 2008). Tuttavia, in letteratura diverse ricerche internazionali e nazionali si sono impegnate a considerare la portata di ciascuna caratteristica della co-ruminazione, suggerendo la possibilità dell’esistenza di componenti adattive e maladattive; sembra, infatti, che soprattutto il focalizzarsi sulle emozioni negative, induca un aumento di cortisolo (Byrd-Craven et al., 2008; 2011).
La dottoressa Rose, ha redatto il questionario Co-Rumination Questionnaire (CRQ; Rose, 2002), che comprende 9 aree di contenuto:
1. frequenza di discussione dei problemi;
2. discussione di problemi invece di impegni in altre attività;
3. incoraggiamento a discutere dei problemi dell’amico;
4. incoraggiamento dell’amico a discutere dei propri problemi;
5. discussione ripetitiva dello stesso problema;
6. speculazione sulle cause dei problemi;
7. speculazione sulle conseguenze dei problemi;
8. speculazione su aspetti incompresi del problema;
9. focalizzazione su sentimenti negativi.
La dottoressa Rose, in base a un’analisi fattoriale esplorativa in un campione di studenti universitari, ha concluso che la scala è rappresentata meglio da un fattore piuttosto che dai diversi fattori che identificano le 9 aree di contenuto (Rose, 2002).
Invece nel 2014 Davidson e colleghi con una ricerca su un ampio campione di studenti universitari americani, hanno concluso che risulta adeguata una struttura fattoriale gerarchica triadica di primo ordine, costituita da: rehashing (discussione dettagliata di un problema), mulling (desiderio di discutere continuamente di problemi), encouraging problem talk (la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività), le cui associazioni sono spiegate dal costrutto di secondo ordine della co-ruminazione. In particolare nello studio sopra descritto si sono riscontrate le correlazioni tra il fenomeno di rehashing e sintomi depressivi, l’encouraging problem talk e la distrazione per controllare pensieri sgradevoli. Inoltre, sia il rehashing che il mulling, sono significativamente associati alla ruminazione e alla mancanza di fiducia in se stessi (self-confidence). Tutti e tre i fattori sono associati a livelli alti di worry o rimuginio (Davidson et al., 2014).
Anche in Italia un gruppo di studio Balsamo, Saggino et al. nel 2015 ha esaminato in un campione italiano non clinico, la struttura fattoriale, l’invarianza fattoriale e la validità della versione italiana del CRQ, confermandone la struttura fattoriale, così com’è stata proposta nello studio americano di Davidson et al. (2014). Lo studio suggerisce sia la possibilità di impiegare lo strumento anche nella popolazione italiana, che l’importanza di esaminare specifiche componenti della co-ruminazione.
Concludendo, future ricerche saranno necessarie per replicare la struttura fattoriale in popolazioni diverse (bambini, adolescenti, anziani), per approfondire la comprensione sullo sviluppo della co-ruminazione e per interpretare le risposte al CRQ. Sarebbe altresì interessante indagare gli effetti delle sottoscale della co-ruminazione sulla sintomatologia ansiosa e depressiva e il meccanismo di funzionamento di queste relazioni ed esaminare come le sottoscale del CRQ siano associate allo sviluppo di sintomi internalizzanti ed esternalizzanti in termini prognostici.
Memoria di lavoro: quali sono i suoi limiti
L’esperienza quotidiana ci mette di fronte al fatto che la nostra capacità di memoria di lavoro è limitata. È impossibile tenere a mente tante cose in una sola volta.
I risultati di un nuovo studio sembrano spiegarci il perché: l’ “accoppiamento”, o sincronia, delle onde cerebrali tra tre regioni chiave del cervello si interrompe in modi specifici quando il carico visivo della memoria di lavoro diventa eccessivo. “Quando si raggiunge la capacità, c’è una perdita di accoppiamento di feedback” ha detto Earl Miller, professore di Neuroscienze presso il Picower Institute for Learning and Memory del Massachusetts Institute of Technology, tra gli autori dello studio. Questa perdita di sincronia significa che le regioni non possono più comunicare tra loro per sostenere la memoria di lavoro.
Scopo dello studio
La capacità massima della memoria di lavoro, ad esempio il numero totale di immagini che una persona può tenere in memoria nello stesso momento, varia da persona a persona, anche se in media corrisponde a circa quattro immagini.
Scopo di questo studio è stato quello di indagare cosa limita la capacità della memoria di lavoro.
Una migliore comprensione di questo aspetto, consentirebbe infatti anche di comprendere meglio la natura limitata del pensiero cosciente e i fattori implicati nelle prestazioni cognitive ottimali. Inoltre, i risultati potrebbero dirci di più su come i disturbi psichiatrici interferiscono con il pensiero. “Gli studi dimostrano che il picco di carico è inferiore negli schizofrenici e in altri pazienti con malattie o disturbi neurologici o psichiatrici rispetto alle persone sane” ha detto Pinotsis, altro autore dello studio. “Quindi, capire i segnali cerebrali al picco di carico può anche aiutarci a capire le origini dei disturbi cognitivi”.
Lo studio: indagine scientifica della memoria di lavoro
Lo studio, pubblicato sulla rivista Cerebral Cortex, si propone come un’analisi statistica dettagliata dei dati ottenuti presso il laboratorio di Earl Miller, ottenuti attraverso la registrazione di soggetti animali mentre erano impegnati in un gioco semplice. Nello specifico, venivano mostrate ai soggetti alcune immagini rispetto alle quali dovevano individuare l’esistenza di una differenza: inizialmente veniva presentato loro un gruppo di quadrati e, dopo la visione di una breve schermata bianca, veniva presentato un nuovo insieme di immagini quasi identico in cui un solo quadrato aveva cambiato colore. Il numero di quadrati coinvolti, quindi il carico di memoria di lavoro di ogni turno, variava in modo tale che a volte il compito superava la capacità di memoria di lavoro degli animali.
Durante lo svolgimento di questo compito, i ricercatori misuravano la frequenza e la tempistica delle onde cerebrali prodotte da gruppi di neuroni in tre regioni che presumibilmente avevano una relazione importante, sebbene ancora sconosciuta, sulla memoria visiva di lavoro: la corteccia prefrontale, i campi frontali dell’occhio e l’area intraparietale laterale.
Obiettivo dei ricercatori era quello di indagare il grado di comunicazione tra queste tre aree in relazione al loro pattern di attivazione in termini di onde cerebrali e di comprendere, in modo specifico, come ciò potesse cambiare quando il carico della memoria di lavoro aumentava al punto di superare il suo livello di capacità massima.
Conclusioni e sviluppi futuri
Usando sofisticate tecniche matematiche, i ricercatori hanno testato decine di varietà di accoppiamenti e sincronizzazioni tra le tre regioni cerebrali sopra indicate, ad alte e basse frequenze.
[blockquote style=”1″]Abbiamo modellato tutte le diverse combinazioni di feedback e segnali feedforward tra le aree e abbiamo aspettato di vedere dove avrebbero portato i dati.[/blockquote]
La struttura “vincente” si è dimostrata quella che meglio si adattava alle prove sperimentali. Da quanto emerso, si potrebbe dunque affermare che queste regioni cerebrali lavorino essenzialmente come un comitato, senza molte gerarchie, allo scopo di mantenere attiva la memoria di lavoro.
[blockquote style=”1″]Al picco del carico di memoria, i segnali cerebrali che mantengono i ricordi e guidano le azioni sulla base di questi ricordi, raggiungono il loro massimo. Al di sopra di questo picco, gli stessi segnali si interrompono.[/blockquote]
Superata la capacità massima della memoria di lavoro, l’accoppiamento della corteccia prefrontale ad altre regioni a bassa frequenza si ferma.
Anche altre ricerche sembrano suggerire che il ruolo della corteccia prefrontale potrebbe essere quello di impiegare onde a bassa frequenza per fornire il feedback che mantiene sincronizzato il sistema di memoria di lavoro. Quando questo segnale viene a mancare, l’intero processo si interrompe e questo permetterebbe di spiegare perché la capacità di memoria di lavoro ha un limite finito.
Già in precedenti studi Miller e i propri collaboratori avevano osservato che l’informazione neurale si degrada con l’aumento del carico della memoria di lavoro, ma non erano stati capaci di individuare in quale momento preciso tale funzione smettesse di funzionare.
Nonostante le importanti conclusioni a cui questo studio ci ha permesso di arrivare rispetto alla nostra conoscenza sulla memoria di lavoro, ancora molti sono gli aspetti che rimangono da indagare. Proprio per questo motivo, il “Miller Lab” è in continuo fermento e nuovi progetti di ricerca sono stati avviati. Sulla base dunque deigli ultimi risultati ottenuti nello studio che vi abbiamo raccontato, il team di ricerca che fa capo a Miller ha avviato un nuovo studio volto ad indagare come le tre regioni cerebrali implicate nei processi di memoria di lavoro interagiscono tra loro quando le informazioni devono essere condivise attraverso il campo visivo.
EMDR: Experimental and clinical notes – Conferenza con il prof. Van den Hout, 12 Aprile 2018
In questi ultimi anni si è avuto un gran parlare di traumi e terapia dei traumi, fatto che ha rinnovato l’attenzione per l’ EMDR, una delle terapie per i traumi. In questo clima merita particolare attenzione la conferenza EMDR: Experimental and clinical notes che il prof. Van den Hout ha tenuto il 12 aprile al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova.
Il sommario della conferenza EMDR: Experimental and clinical notes è sotto-riportato, come fornito dall’autore. Tra l’altro, egli mette in crisi la tesi corrente che l’ EMDR vada considerata uno dei trattamenti d’elezione per il Disturbo da stress post-traumatico, ma solo per uno dei suoi sintomi principali.
Marcel Van den Hout è professore di Psicologia clinica e psicopatologia sperimentale all’Università di Utrecht.
E’ noto per i suoi studi sui disturbi d’ansia e sul disturbo ossessivo e, in particolare, per aver individuato l’effetto paradossale dei controlli ripetuti (che già alcuni hanno denominato ‘effetto Van den Hout’): l’enorme quantità di controlli ossessivi non determina il potenziamento delle tracce mnestiche, come i pazienti potrebbero attendersi, ma decadimento della vividezza dell’immagine mentale, diminuzione della quantità di dettagli ricordati, abbassamento del livello di fiducia nell’accuratezza dell’immagine rievocata.
Recentemente il prof. Van den Hout ha allargato il suo interesse alla rievocazione delle memorie traumatiche, al disturbo post-traumatico da stress e al suo trattamento.
EMDR: Experimental and clinical notes – Abstract della conferenza
Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) was introduced as a treatment for Post- Traumatic Stress Disorder (PTSD). During EMDR sessions patients are asked to recall trauma memories while simultaneously making eye movements. Claims of clinical effectivity met with considerable skepticism from the scientific community. Still, in contrast to many other ‘power therapies’ that are not embedded in the scientific literature, EMDR survived controlled clinical tests and a series of critical meta-analyses show that EMDR ranks among the most effective treatments of PTSD. We wanted to unravel how EMDR yields its positive effects. I will present results from a series of experimental and clinical studies that we carried out from 2010 onwards.
In a nutshell, this is what the data show and suggest:
EMDR can easily be studies in the lab. Its effects are reliable, not due to expectancy or experimenter bias and the effects are not only clear from self-report, but also from objective assessments.
The eye movements in EMDR are more than clinical folklore. They add to the effect of the procedure.
Still, there is nothing special to the eye movements: they can be replaced by any other task that distracts during trauma recall.
In contrast to claims by the founders of EMDR, effects of the procedure have nothing to do with ‘bilateral stimulation’ or promoting ‘interhemispheric communication’. Unilateral stimulation works as well.
During recall, memories become labile and susceptible to change. EMDR exploits this fact by taxing working memory during recall. This affects the nature of the long term trauma memory: it gets less lively and less emotional .
Some elements of EMDR are productive (e.g. distraction during recall), many elements are not productive (e.g. curious ways of ending the sessions) and some elements are counterproductive (e.g. making eye movements during recall of positive memories). The latter stand in worrisome contrast to the principle of non-nocere. (do no harm)
EMDR may be useful for the treatment of flashbacks (as in PTSD) and also for flash forwards (as in some anxiety disorders). The indication of EMDR however seems limited and there is no rational basis for its present proliferation beyond flash backs and flash forwards.
Giovanni Maria Ruggiero intervista il Prof. Marcel Van den Hout durante il Congresso SITCC 2012
Hellblade: l’esperienza della malattia mentale attraverso un videogame?
E’ possibile sperimentare la schizofrenia attraverso un videogame? Accendete la vostra consolle, e accomodatevi nella testa della guerriera Senua, in Hellblade. La Dott.ssa Viola Nicolucci ne ha parlato nella conferenza “Psicologia, Tecnologia e Trasformazione”.
Secondo voi un videogioco può insegnare? Federico Pucci, in un articolo sul sito dell’Ansa, esordisce dicendo:
[blockquote style=”1″]Che il videogioco intrattenga, emozioni, coinvolga, è noto: ma può anche insegnare? [/blockquote]
Ebbene si, un videogioco può anche insegnare. A volte il potere didattico dei videogiochi è per lo più tradizionale, come nel caso dell’ultimo “Assassin’s Creed Origins” in cui, grazie alla modalità Discovery Tour – Antico Egitto, si può usufruire di un’esplorazione interattiva dell’Antico Egitto ai tempi di Cleopatra. Altre volte, dal punto di vista psicologico, un videogioco può allenare una serie di skill, incrementare l’efficacia del processo decisionale, favorire lo svilupparsi dell’intelligenza emotiva o portare alla luce temi sensibili da discutere apertamente quali il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza.
Di esempi, in quest’ultimo caso, ce ne sono diversi. Basti pensare a “Life is Strange”, videogioco prodotto dalla Dontnod e pubblicata dalla Square Enix. Ultimamente però la didattica dei videogiochi ha fatto un interessante passo in avanti. A tal proposito, vorrei cogliere l’occasione per parlarvi del lavoro della Dott.ssa Viola Nicolucci (psicoterapeuta dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte) che ho avuto l’onore di conoscere durante la conferenza “Psicologia, Tecnologia e Trasformazione” tenutasi il 26 gennaio 2018 a Torino. Il tema del suo argomento si focalizzava su Hellblade: l’esperienza della malattia mentale attraverso un videogame. Sperando di non tralasciare nulla cercherò di riportarvi fedelmente i concetti trattati dalla collega, avvalendomi delle risorse offerte dal Web al solo scopo di aiutarmi.
Cos è la Gamification? A cosa serve in un processo di comunicazione?
Prima di iniziare a parlarvi di “Hellblade: Senua’s Sacrifice”, vorrei introdurvi il concetto di “gamification”. Il termine deriva dalla parola “Game”, cioè gioco, anche solo per semplice divertimento. La Gamification, traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni e dai principi alla base del concetto stesso di divertimento, rappresenta uno strumento molto efficace in grado di trasmettere messaggi di vario tipo. Il suo obiettivo è di applicare meccaniche ludiche ad attività che non hanno direttamente a che fare con il gioco; in questo modo è possibile stimolare e consolidare l’interesse attivo da parte degli utenti coinvolti sul messaggio che si vuole comunicare.
Per raggiungere questi obiettivi, il processo di communication design deve essere necessariamente ripensato per introdurre meccaniche e dinamiche di gioco, aggiungendo ai fattori tradizionali altri elementi trainanti (ancora, mutuate dal mondo del “gaming”) che possano attirare e ri-attirare l’interesse e l’attenzione dell’utenza su specifici contenuti.
Come si crea coinvolgimento? Ce lo spiega B.J. Fogg, padre della captologia
Anche in Hellblade le meccaniche e le dinamiche di gioco sono gli strumenti per “gamificare”: l’introduzione di concetti come punti, livelli, missioni e sfide incoraggia gli utenti ad investire il proprio tempo, spingendoli alla partecipazione, al coinvolgimento efficace, nonché aiutandoli a costruire delle relazioni all’interno del gioco. Perché la gamification funzioni sono essenzialmente necessarie due componenti: l’applicazione di dinamiche efficaci e l’uso delle giuste tecnologie. Ed in questo, B. J. Fogg, padre della Captologia (ovvero della scienza che studia i fenomeni che stanno nell’intersezione tra software e hardware da un lato, e i sentimenti e le attitudini umane scatenati dalla persuasione dall’altro) ci può spiegare parecchie cose. Grazie al modello sviluppato da Fogg, è possibile individuare tre fasi fondamentali: 1) fornire una motivazione, 2) fornire degli strumenti per partecipare, 3) offrire uno spunto da cui partire. Eccoli molto sinteticamente:
Fornire una motivazione
Bisogna dare alle persone un motivo per partecipare: il meccanismo del gioco e della sfida è profondamente radicato nella mente umana ed è uno stimolo potentissimo; affinchè funzioni è fondamentale che i giocatori abbiano davanti a loro un premio, una meta, un obiettivo che ne attiri l’attenzione e ne aumenti la determinazione
Fornire degli strumenti per partecipare
Perché la gamification funzioni è necessario che tutti i soggetti coinvolti abbiano a disposizione le stesse possibilità e gli stessi strumenti per andare avanti
Offrire uno spunto da cui partire
Ogni attività di gamification che si rispetti ha bisogno di un momento di avvio che funga da momento zero da cui far partire la sfida. Se tutte le meccaniche del gioco non si attivano in maniera coordinata, il rischio è che i partecipanti perdano rapidamente l’interesse in ciò che stanno facendo.
In Hellblade Senua’s Sacrifice ritroviamo tutte e tre queste fasi. Senza anticiparvi nulla vi inviterei a leggere il prosieguo dell’articolo benchè ci sia ancora un elemento di cui vi voglio parlare: l’avatar. La possibilità di rappresentare visivamente il proprio personaggio sottende alcuni meccanismi motivazionali come un maggior senso di autonomia e un maggior legame di tipo affettivo con il gioco. Diversi studi sull’avatar hanno prodotto interessanti ricerche tra cui l’Effetto Proteus.
Qual è la malattia mentale di Senua, guerriera di Hellblade?
Trattare un tema così delicato come quello della schizofrenia non è sicuramente un’impresa semplice, e finora l’ha fatto il cinema, non il mondo dei videogame.
Il primo tentativo è “Hellblade: Senua’s Sacrifice“, uscito nell’estate 2017 su PC, PS4 e a breve anche per Xbox One. Il videogioco presenta marcati riferimenti alla mitologia norrena: da protagonisti del gioco vestiamo i panni di Senua, guerriera celtica affetta da una grave forma di schizofrenia, esiliata dal suo villaggio perché ritenuta responsabile di funesti avvenimenti e pestilenze. La mente già fragile della ragazza è ulteriormente penalizzata dalle torture psicologiche indotte dal padre, che fin da piccola la sottopone a dei riti druidici per “liberarla” dalla sua maledizione. Dopo il ritorno dall’esilio Senua vede il suo amato Dillion, l’unico in grado di comprendere i suoi deliri, crocefisso barbaramente dall’attacco dei nordici, come sacrificio agli Dei. Lo shock sarà così forte da aggravare ulteriormente le condizioni di Senua, portandola in un perenne stato di psicosi in cui sente delle voci. Almeno inizialmente, il viaggio di Senua attraverso il fiume dei morti, non sembra essere esplicitamente legato alle sue psicosi. L’obiettivo della protagonista è difatti quello di liberare l’anima del suo adorato riconsegnando la sua testa a Hela, la Dea norrena dei morti e sovrana di Helheim. Il gioco si apre con un avviso piuttosto esplicito: lo sviluppo del titolo è avvenuto con l’ausilio di esperti in psichiatria e la consultazione di pazienti affetti da turbe psichiche.
Quale esperienza si fa in Hellblade?
Avviando la partita, iniziamo finalmente a scivolare lungo un fiume, guidando lentamente una rozza canoa, nei panni della tormentata Senua. Immediatamente giungono alle nostre orecchie un nugolo di sussurri: voci che si accavallano, discutono fra loro, deridono, guidano o rimproverano la protagonista come se noi non ci fossimo. La stessa protagonista parla di sé in terza persona, restituendo un senso di estraneità e scarsa autocoscienza. Il primo guizzo narrativo prende forma quando Senua parla anche con noi, trattandoci proprio come una delle sue tante “voci”. In questo modo entriamo subito nella mente della ragazza, stabilendo un rapporto sempre più intimo e morboso con la sua psiche malata. Nel video presente qui sotto avrete conferma di quanto vi ho detto.
(Hellblade: Senua’s Sacrifice – Intro: Only Voices)
Sentire le voci nella testa di Senua
Le voci di Senua, ottenute sfruttando l’audio 3D binaurale al solo scopo di renderle davvero realistiche, sono la concretizzazione di tutte le sensazioni che le riecheggiano in testa, siano esse un sottile ma avvertibile desiderio di morte, l’entusiasmo per una nuova scoperta, la paura del fallimento o il timore che tutto sia un inganno. Di tanto in tanto Senua sembra parlarci direttamente, raccontarci le sue paure, e testimoniare un desiderio di vendetta alternati ad attimi di abbandono integrale.
In un certo senso, è come se stessimo assistendo a una seduta psichiatrica, registrando con spirito voyeuristico le reazioni di una paziente. E forse il “viaggio” di Senua rappresenta proprio questo: una lunga e faticosa lotta per esorcizzare la sua malattia fatta di visioni, suoni, correlazioni apparentemente impensabili, percezione alterata dei colori e della realtà, fino a momenti in cui la mente si “spegne” e in cui non c’è alcun appiglio cui aggrapparsi.
Quale guerra combattiamo? Dentro o fuori la nostra testa?
Verso la fine dell’avventura, giunta al cospetto di Hela, divinità infernale, descritta come una donna bruciata per metà, Senua rivedrà la propria madre, che fu messa al rogo perché soffriva della stessa forma di psicosi che poi svilupperà anche lei. Tuttavia ci sarebbe da chiedersi, però, se questo momento di catarsi con la figura materna sia stato raggiunto davvero attraverso una sfida fatta di prove e battaglie, oppure se il viaggio della protagonista sia avvenuto solo ed esclusivamente nella sua mente. A un certo punto una delle voci nella testa della ragazza dice chiaramente che “le battaglie più difficili sono quelle combattute nella tua testa”. Potrebbe darsi, allora, che lo strano balletto di fendenti e affondi della protagonista, sia in realtà soltanto immaginato. Molto spesso, durante gli scontri, non si ha un’inquadratura di tutti i nemici che stiamo affrontando. Nel caso in cui un avversario attacchi Senua da un angolo cieco, saranno le voci ad avvertirla – “attenta alle spalle!” -, così che sia possibile eseguire un contrattacco col giusto tempismo. Eppure, se le voci esistono solo nella testa di Senua, e lei non sta vedendo il nemico pronto a colpire, come possiamo esserne informati? L’unica prospettiva plausibile è che tutto esista davvero solo nella sua mente.
Durante la progressione esplorativa del gioco Senua allucina rune luminose, con colori e luci che sono amplificati o attenuati. Attraverso queste rune la protagonista si ritrova a risolvere dei veri e propri puzzle, che implicano l’utilizzo di un aspetto della sua malattia mentale per “vedere le cose in modo diverso”. Tale particolarità si riferisce ad un fenomeno psicologico creativo chiamato apofenia, ed è qualcosa in cui tutti ci impegniamo. Si ritiene però che le persone con disturbi psicotici siano più abili in questo tipo di processo creativo e vi s’impegnino involontariamente più frequentemente. Affine al concetto di apofenia vi è quello di pareidolia. Tuttavia, di questi due aspetti, ve ne riparlerò poi verso la fine.
Perchè non stigmatizzare la malattia mentale
Tra gli extra inclusi in Hellblade: Senua’s Sacrifice è disponibile anche un video da che approfondirà il profilo psicologico della protagonista Senua. Per garantire una rappresentazione accurata, il team ha collaborato con Paul Fletcher, uno psichiatra e professore di Neuroscienze della salute presso l’Università di Cambridge nonché pazienti affetti da turbe psicotiche. Intitolato Hellblade: Senua’s Psychosis, questo video spiega il decorso della malattia, le sintomatiche principali e soprattutto un concetto fuori dalle righe, ovvero che stigmatizzare la malattia mentale non solo è controproducente per i soggetti affetti (che possono essere anche amici o parenti), ma anche dannoso nei confronti della conoscenza stessa, poiché approfondire e cercare di capire una situazione diversa dalla nostra può farci aprire gli occhi su cose che credevamo impossibili. Insomma, uno sprono ad aprire la mente e a vedere la vita in maniera diversa.
Per spiegarvi il concetto di apofenia, mi servirò dei contenuti presi dal sito di Capuano. L’apofenia è la percezione spontanea di connessioni significative tra fenomeni che non hanno alcuna relazione tra loro. Il termine fu coniato dallo psichiatra tedesco Klaus Conrad, che lo descrisse come l’osservazione immotivata di connessioni da una precisa sensazione di anormale significatività. Per Conrad, l’apofenia è parte di un modello evolutivo della schizofrenia che comprende quattro fasi: Trema, Anastrofè, Apofenia (o Apofania) e Apocalisse. Nel vocabolario del suo inventore, dunque, il fenomeno è strettamente collegato a una forma patologica. Oggi, però, si tende a usarlo in maniera più estesa e indipendentemente da condizioni psichiatriche. Capuano continua dicendo che
[blockquote style=”1″]…c’è qualcosa nella nostra mente che fa sì che tendiamo a rinvenire connessioni significative tra eventi fra loro indipendenti[/blockquote]
Questo qualcosa può assumere talvolta una dimensione patologica, come quando qualsiasi correlazione tra eventi è assunta come significativa. Una situazione che si verifica in alcuni casi di schizofrenia e paranoia.
Il concetto di apofenia va tuttavia ben oltre. Esso ci dice che la nostra mente tende naturalmente e normalmente a “mettere insieme” ciò che è separato, ad attribuire significati a cose che non ne hanno. Sono state fornite varie spiegazioni per questo curioso fenomeno. Secondo il neurologo svizzero Peter Brugger, gli esseri umani hanno la tendenza pervasiva a scorgere ordine nelle configurazioni casuali. Non solo, ma la propensione a vedere connessioni tra oggetti o idee senza alcuna relazione apparente tra loro accomuna fortemente la psicosi alla creatività. Apofenia e creatività potrebbero quindi essere viste come due facce della stessa medaglia.
Sappiamo sempre riconoscere l’apofenia?
Con un esperimento realizzato da Naftulin, Ware e Donnelly nel 1973, l’autore ci dimostra un caso concreto in cui si tende a desumere un significato da parole o situazioni che ne sono privi. I tre autori dell’esperimento scrissero un discorso strampalato che aveva ad oggetto la teoria matematica dei giochi applicata all’istruzione medica. Il discorso era pieno di neologismi, frasi insensate e contraddittorie. Un attore, assolutamente incompetente in materia, ebbe l’incarico di pronunciare il discorso di fronte a una platea composta da undici educatori, psicologi e psichiatri ai quali l’oratore era stato presentato come un esperto della materia. La videoregistrazione del discorso fu poi presentata a un gruppo composto da undici psichiatri, psicologi e assistenti sociali e in seguito a un terzo gruppo composto da trentatré educatori e amministratori. Al termine del discorso, a tutti fu chiesto di riempire un questionario per valutare il livello di gradimento di ciò che avevano appena udito. Sorprendentemente, la maggior parte dei partecipanti ai tre gruppi attribuirono un elevato punteggio di soddisfazione all’oratore, sottolineandone le abilità verbali, la conoscenza degli argomenti trattati e la buona disamina degli stessi. Che cosa era successo? Nonostante la loro esperienza, i componenti dei tre gruppi erano stati condizionati più dalla prestazione recitativa dell’attore, dallo stile espositivo e dalle motivazioni e aspettative di apprendere che dal contenuto del discorso stesso. Insomma, un setting adeguato e uno stile accattivante possono dare agli individui l’illusione di aver appreso significati che invece non esistono.
Cos è la pareidolia?
La pareidolia è un processo in cui uno stimolo visivo o sonoro, vago e casuale, viene erroneamente interpretato come una forma riconoscibile. Uno degli esempi più classici è probabilmente quello delle osservazioni delle nuvole. Chi di noi non ha trascorso del tempo a guardare le nuvole provando ad assegnare una forma ad ognuna? Il nostro cervello divide il mondo in schemi e quotidianamente prova a interpretarli in tutto il mondo che ci circonda. Quando proviamo a risolvere un problema, abbiamo bisogno di trovare somiglianze con qualche problema in precedenza risolto e questo ci aiuta perché risparmiamo tempo. La ricerca delle somiglianze (pattern recognition) è anche ciò che ci permette di distinguere i volti, i suoni (voci). La pareidolia è una caratteristica intrinseca dell’evoluzione del nostro cervello e dei centri adibiti al riconoscimento. Noi esseri umani, facciamo fatica a vedere forme casuali, cerchiamo sempre di associare un senso, qualcosa che il nostro cervello riconosce. Dove c’è solo una macchia, un’ombra, vediamo forme, volti e tutto ciò che arriva dalla nostra immaginazione. Le illusioni ottiche dei dipinti di Salvador Dalì o perché no il test delle macchie di Rorscharch, sono due esempi in cui utilizziamo la pareidolia.
Tuttavia, qual è l’origine di questo processo? Le spiegazioni a questo fenomeno sono tante. Per esempio, Jeff Hawkins afferma che sia dovuto al fatto che noi esseri umani abbiamo la tendenza a stabilire degli schemi seguendo le nostre esperienze e le credenze. In pratica, il nostro cervello da un senso a ciò che vediamo dipendendo da ciò che abbiamo vissuto e dalle nostre aspettative. Carl Sagan ci propone al contrario un’altra teoria. Egli Afferma che sia dovuto ad una tecnica ancestrale di sopravvivenza, dato che in passato, distinguere i volti degli amici dai nemici era fondamentale per salvare la vita. Così, il nostro cervello si è andato perfezionando e attualmente sarebbe programmato per identificare volti umani usando pochissimi dettagli. Così potremmo riconoscere una persona a distanza, anche con poca luce.
Nel 2009 uno studio molto interessante appoggia la teoria di Sagan. In questo esperimento si è riscontrato che percepire volti umani in immagini confuse provoca un’attivazione della corteccia ventrale fusiforme, una risposta che si riscontra quando vediamo dei volti reali ma non quando vediamo degli oggetti. Gli scienziati ipotizzano che questa zona si è andata specializzando nel riconoscimento dei volti e agisce in modo praticamente automatico per, in seguito, dare tempo al cervello di percepire se il volto mostra ira e aggressività o se, al contrario, è un volto amico.
Dove troviamo pareidolia e apofenia in Hellblade?
In Hellblade Senua’s Sacrifice dove sono però evidenti la pareidolia e l’apofenia? Se visionerete il video di Youtube che vi ho postato verso la fine, soffermandovi esattamente al minutaggio 8:52 e al minutaggio 13:12, avrete ben chiaro dove appaiono questi due fenomeni di cui vi ho parlato.
Come potrete notare anche voi, in un primo momento, la protagonista riconosce un volto familiare all’interno della cascata dove è presente un volto roccioso. In seguito Senua riesce a trovare una relazione, un collegamento, tra una sua allucinazione visiva e un elemento della realtà. Quanto vi ho detto tuttavia è una mia riflessione personale che potrebbe essere, perché no, per voi alquanto opinabile.
(Hellblade: Senua’s Sacrifice Part 5 | Pareidolia)
Albert Bandura, la teoria dell’apprendimento sociale e il concetto di autoefficacia – Introduzione alla Psicologia
Albert Bandura è uno psicologo contemporaneo specializzato in psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione. Il lavoro teorico e clinico di Bandura è incentrato principalmente sulla teoria dell’apprendimento sociale e sul concetto di autoefficacia.
Albert Bandura è nato ad Alberta, in Canada, nella piccola città di Mundare. Era il più giovane di sei figli, due dei quali morirono in gioventù, uno in un incidente di caccia e un altro per la pandemia influenzale. I genitori di Albert Bandura erano laboriosi e autodidatti; trasferitisi dai paesi dell’est Europa in Canada iniziarono a lavorare presso terzi e poi, dopo aver acquistato una fattoria, coltivarono dei propri terreni.
La sua educazione scolastica, primaria e secondaria, era molto esplorativa e pratica, poiché la scuola che frequentava era guidata da due soli insegnanti e aveva risorse limitate da un punto di vista didattico. Bandura, però, vedeva questo limite come un vantaggio, poiché la sua curiosità gli ha concesso di approfondire concetti e teorie che gli permisero creare le fondamenta della sua conoscenza.
Dopo aver finito la scuola, Albert Bandura si recò allo Yukon per lavorare alla costruzione dell’autostrada dell’Alaska e al suo ritorno a casa, gli è stata offerta la possibilità di stare nella fattoria o continuare a studiare.
Vita professionale
Bandura iniziò l’Università della British Columbia e si appassionò presto alla Psicologia inserendola, inizialmente, nel suo piano di studi come disciplina complementare, ma ben presto divenne il suo principale interesse. Egli si innamorò all’istante di questa materia conseguendo la laurea in soli tre anni e ricevendo anche il premio Bolocan Award per la Psicologia. Ha continuato i suoi studi presso l’Università dello Iowa dove ha conseguito il Master e il dottorato.
L’Università dello Iowa, in quel periodo, era molto nota per le ricerche e i progressi nel campo dell’ apprendimento. Per questo, Albert Bandura, mentre studiava, conobbe Kenneth Spence con cui iniziò a collaborare. Fu inoltre influenzato anche dal pensiero del suo predecessore, Clark Hull, e dagli scritti di Neal Miller e John Dollard.
Bandura iniziò a svolgere esperimenti in cui si usavano immagini, e a livello teorico si appassionò al determinismo reciproco e alla rappresentazione. Di conseguenza, sviluppò una serie di competenze teoriche e analitiche che lo indussero a formulare una nuova cornice teorica volta alla valutazione del processo mentale.
Albert Bandura svolse un breve internato al Wichita Kansas Guidance Center e alla fine iniziò a insegnare alla Stanford University nel 1953, dove lavora ancora oggi.
Bandura, da subito, cercò di studiare come la teoria dell’apprendimento si potesse applicare ai fenomeni clinici ed effettuò un tentativo di concettualizzare tali fenomeni per consentirne la verifica sperimentale.
Durante questi anni a Iowa, incontrò Virginia Varns, un’istruttrice della scuola per infermieri, che successivamente sposò e dalla loro unione nacquero due bambine.
Dopo aver conseguito il Dottorato all’Università dello Iowa, si trasferì a Standford, dove iniziò ad occuparsi dello studio dei processi interattivi in psicoterapia e dei modelli familiari che generano comportamenti aggressivi nei bambini. I risultati del suo studio fornirono molte prove a supporto della teoria del modellamento, secondo la quale l’apprendimento avviene attraverso l’osservazione altrui, considerata centrale nello sviluppo della personalità di ciascun individuo. Tali evidenze vennero diffuse da AlbertBandura attraverso la pubblicazione di due libri: Adolescent Aggression (1959) e Social Learning and Personality Development (1963).
Il libro del 1986 Social Foundations of Thought and Action rappresenta, inoltre, il tentativo di sviluppare una teoria in grado di spiegare e chiarire tutti gli aspetti delle capacità umane, passaggio fondamentale, secondo Bandura, per comprendere lo sviluppo della personalità e il cambiamento terapeutico.
Teoria dell’apprendimento sociale
Bandura iniziò la ricerca concentrandosi sulla motivazione umana, l’azione e il pensiero e ha lavorato con Richard Walters per esplorare l’ aggressione sociale. Il loro studio ha sottolineato l’impatto dei comportamenti di modellizzazione e ha dato il via alla ricerca nell’area dell’apprendimento osservazionale.
Il suo studio più noto è l’esperimento chiamato bambola Bobo, dal nome commerciale del pupazzo gonfiabile usato.
Negli esperimenti erano coinvolti bambini, sia femmine sia maschi, di età compresa tra i 3 e i 6 anni, che, in un primo momento, erano seduti in una sala giochi all’interno della quale erano presenti: un adulto, vari giocattoli, tra cui una mazza, e Bobo. Succede che, in alcuni casi, l’adulto gioca per qualche minuto e ignora il pupazzo, in altri invece, prende quasi subito Bobo a martellate, molto veementi; in altri, l’adulto aggressivo, di volta in volta, è anche premiato o sgridato o lasciato senza conseguenze.
In un secondo tempo, il bambino è condotto in un’altra stanza, dove ci sono diversi giochi. Dopo due minuti, i giocattoli gli sono sottratti, dicendo che sono riservati ad altri bambini, e successivamente è riportato nella prima sala. A questo punto il bambino, che aveva assistito all’aggressione di Bobo da parte dell’adulto, manifesta un gioco di tipo aggressivo, conseguenza della sottrazione precedente dei giocattoli, e in particolare agisce la sua rabbia attraverso gesti ed espressioni verbali violente nei confronti del pupazzo Bobo, in misura assai superiore a quella espressa dai soggetti che non avevano assistito alla violenza da parte dell’adulto. Inoltre, è stato osservato che il comportamento aggressivo è molto più intenso nei maschi che nelle femmine e non emerge nessun effetto particolare, sull’espressione di aggressività nei bambini, in relazione al fatto che l’adulto sia stato o meno premiato o sgridato.
I risultati, dunque, mostrano che non si impara solo in base al meccanismo del premio e della punizione, come sostiene il comportamentismo, bensì anche per via dell’apprendimento osservativo o apprendimento vicario.
Albert Bandura si discostò dalla concezione comportamentista di apprendimento, in cui si associava l’ apprendimento all’esperienza diretta, dimostrando come dei nuovi comportamenti possano essere appresi mediante la semplice osservazione dei comportamenti altrui.
L’ apprendimento, dunque, per Bandura si basava sull’imitazione, resa possibile grazie al rinforzo vicario, per cui le conseguenze relative al comportamento messo in atto dal modello, ricompense o punizioni, hanno i medesimi effetti sull’osservatore. Inoltre, Albert Bandura coniò il termine modellamento, ovvero la modalità di apprendimento che entra in gioco quando il comportamento di un organismo, che assume la funzione di modello, influenza il comportamento di colui che lo osserva.
Bandura ha sottolineato che i bambini imparano in un ambiente sociale e spesso imitano il comportamento degli altri, questo processo è noto come teoria dell’apprendimento sociale.
Albert Bandura ha sviluppato la sua teoria cognitiva sociale da una visione olistica della cognizione umana in relazione alla consapevolezza e influenza sociale. Ha sottolineato che il comportamento è guidato da una combinazione di pulsioni, spunti, risposte e ricompense. Ad esempio, un bambino potrebbe mangiare cioccolatini e rafforzare questo desiderio se il genitore risponde allo stesso bambino mangiando anch’egli cioccolatini contemporaneamente.
Bandura analizzò anche le variabili che sono coinvolte nel processo di apprendimento, chiamando in causa i fattori cognitivi, da cui dedusse che le aspettative proprie e altrui sulle prestazioni esercitano un’influenza molto forte sui comportamenti, sulla valutazione di effetti e risultati e sui processi di apprendimento. A seconda se il successo o il fallimento siano attribuiti a cause interne o esterne, controllabili o incontrollabili, le reazioni affettive e cognitive che conseguono a tali risultati potrebbero variare.
La teoria dell’agire morale
La teoria dell’agire morale è una propaggine della sua teoria cognitiva sociale. Il comportamento morale è un prodotto dell’autoregolamentazione attivata in un contesto sociale. Bandura sostiene che le persone possono agire in modo umano o inumano. Il comportamento inumano diventa possibile quando una persona può giustificarlo. Questa giustificazione comporta una sorta di ristrutturazione cognitiva, che segue uno schema specifico. Il linguaggio igienizzante, che rimuove il peso della crudeltà da un’azione, è un componente chiave. Ad esempio, se il genocidio fosse visto come una normale conseguenza della pulizia di una razza sarebbe, dunque, eliminato l’aspetto fondante, ovvero la crudeltà di tale comportamento. Quindi, è come se si verificasse una sorta di giustificazione morale in cui si minimizza il danno causato all’altro e si sposta la responsabilità su un’altra persona o su un intero gruppo. Incolpare o disumanizzare la vittima è spesso un ingrediente chiave nelle azioni brutali volte a rendere moralmente accettabile qualcosa che non lo è affatto.
L’autoefficacia
Dalla teoria dell’apprendimento sociale, Albert Bandura estrapola il costrutto di autoefficacia (self – efficacy) che coniuga i principi del comportamentismo con quelli della deviazione cognitiva, ovvero l’individuo è capace di simbolizzare o di vicariare l’esperienza diretta, facendo previsioni su se stesso che gli consentono di autoregolarsi. Nello specifico, gli studi sull’efficacia percepita hanno contribuito a porre in rilievo le capacità di autoriflessione e di autoregolazione della mente umana.
La capacità di autoriflessione consente alla persona di analizzare le proprie esperienze, di riflettere sui propri processi di pensiero, di generare nuove capacità di pensiero e di azione.
La capacità di autoregolazione consente di dirigere e di motivare se stessi mediante obiettivi e incentivi, in base a standard interni, restando autonomi rispetto a ogni altro fattore esterno.
Il senso di efficacia personale, o autoefficacia percepita, è il prodotto di un sistema autoreferenziale e autoregolato che guida e dirige il comportamento, orienta il rapporto della persona con l’ambiente e pone le condizioni per lo sviluppo di nuove esperienze e capacità.
Quindi, con autoefficacia si intende la convinzione di poter avere successo o di fallire in una prestazione. A una bassa credenza di auto-efficacia corrispondono spesso comportamenti di evitamento, basse prestazioni o insuccesso, mentre la persona con alta auto-efficacia hanno buone possibilità di ottenere risultati soddisfacenti. Quindi, chi è convinto di riuscire in un obiettivo ottiene prestazioni superiori rispetto a chi, oggettivamente più capace, ma consapevole di non riuscire perché si auto-valuta negativamente.
Per questo, le persone che credono di poter superare un problema, fisico o mentale, sono più propense a farlo e sicuramente saranno in grado di raggiungere e portare a termine gli obiettivi che si prefiggono.
Albert Bandura è autore di molti libri e ha vinto numerosi premi, tra cui il Grawemeyer Award in Psychology nel 2008; inoltre, nell’elenco delle figure più influenti della psicologia moderna è al quarto posto dopo Skinner, Freud e Piaget.
La CBT è efficace nei pazienti con malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT)?
Come migliorare la qualità della vita nei pazienti affetti da malattia di Charcot-Marie-Tooth? La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), secondo alcuni recenti studi, è una soluzione che può offrire benessere a queste persone.
Ilaria Zeoli – Open School di San Benedetto del Tronto
La sindrome di Charcot-Marie-Tooth (CMT) è caratterizzata da una scarsa funzionalità dell’assone o della mielina, sostanza protettiva dello stimolo nervoso (Kagiava A. et al 2018). Questa mancanza causa atrofia muscolare e debolezza dei muscoli dei piedi, delle gambe e delle mani, perdita sensoriale, perdita dei riflessi, piedi cavi e scoliosi. Ma ci sono casi, seppur rari, che presentano anche una disfunzione del sistema nervoso centrale (SNC) associata a disartria, disfagia, atassia e persino afasia e sonnolenza (Johnson NE. et al 2014).
E’ una sindrome rara, una patologia a carattere autosomico dominante, con polineuropatia sensitivo-motoria dovuta all’alterazione dei geni, alcuni dei quali ancora non noti. I primi a parlarne furono Jean-Martin Charcot, Pierre Marie, e Howard Henry Tooth da cui la patologia trae il suo nome. Da poco si sta studiando cosa può offrire la CBTalle persone affette da questa sindrome.
Quali sono i tipi di malattia di Charcot-Marie-Tooth? Quali sono i sintomi? Quando compaiono?
La diagnosi medica della malattia di Charcot-Marie-Tooth viene effettuata attraverso l’esame l’elettroneurografico, che permette di misurare la velocità di conduzione nervosa e l’ampiezza del potenziale motorio e sensitivo (Yanjuan Geng, et al, 2014 ). La CMT più comune è quella di tipo 1 (CMT1) che interessa l’80% della casistica accertata (Arnold A. et al, 2005). La CMT può fare la sua comparsa tra i 10 e 20 anni ed è caratterizzata da deformità articolare a carico dei piedi, delle ginocchia, delle anche e della colonna vertebrale, che con il passare tempo sono causa di dolore nel paziente.
In altri casi la comparsa della patologia avviene in una fase più tardiva, durante l’età adulta, anche se già nell’età scolare le prestazioni motorie di chi ne è affetto risultano carenti. I segni più evidenti sono goffaggine nel cammino, tendenza ad inciampare per difficoltà alla dorsiflessione del piede, crampi ai polpacci. Con il passare del tempo il paziente tende anche a sollevare le ginocchia più del normale per evitare d’inciampare, tanto che il cammino viene paragonato a quello di un cavallo; per questo in tali circostanze si parla anche di deambulazione steppante (Louwerens JWK . 2018 ). Con il tempo ci può essere una diffusione al livello dei muscoli delle cosce, uno scarso controllo del ginocchio e frequenti cadute, fino a determinare il ricorso alla sedia a rotelle.
La malattia si estende in fase più tardiva alla mani. L’indebolimento è lieve e non determina un deficit funzionale, ma solo difficoltà ad abbottonare e sbottonare gli indumenti, ad usare chiusure lampo, quindi difficoltà nei gesti più minuti che richiedono una forza mirata e maggiore.
Malattia di Charcot-Marie-Tooth: comorbilità psichiatriche più frequenti
Chi è affetto da una forma più grave della patologia può avere una comorbilità con le patologie psichiatriche a causa di una qualità di vita restrittiva e compromessa (Rubinsztein JS et al., 1998). Studi più recenti sembrano confermare questa tesi. Pazienti con CMT presentano un rischio più elevato di sviluppare disturbi psichiatrici, in particolare la depressione, perché tali soggetti sembrano essere più suscettibili alle alterazioni della qualità della vita, che possono essere drammaticamente influenzate da limitazioni fisiche. Esiste, inoltre, una notevole correlazione tra i disturbi del sonno e la CMT.
Tuttavia una critica dei succitati studi consta nella diversità degli strumenti impiegati per valutare le variabili dipendenti e indipendenti. Pertanto, studi futuri dovranno mettere in campo metodologie omogenee per confermare statisticamente l’evidenza clinica (Cordeiro JL et al., 2014).
Come si cura la malattia di Charcot-Marie-Tooth? Quale può essere l’apporto della CBT?
Non essendo ancora disponibile una cura medica risolutiva, l’unica terapia in grado di migliorare le prestazioni funzionali (es. deambulazione, prensione) è il trattamento riabilitativo e psicoterapeutico. In particolare, un intervento riabilitativo importante è l’attività sportiva, uno strumento prezioso che porta ad abbattere le differenze sulla propria autonomia per le persone con difficoltà motoria. L’allenamento aerobico ha determinato, infatti, cambiamenti favorevoli in alcune misure di forza e attività funzionali: studi hanno rilevato cambiamenti positivi nella flessibilità della caviglia, nell’equilibrio, nell’agilità e nella mobilità (Sautreuil P et al, 2017). Ci sono, altresì, timori che l’esercizio fisico possa causare una debolezza da superlavoro (OW), caratterizzata da un progressivo indebolimento muscolare dovuto proprio all’esercizio fisico, al lavoro o alle attività quotidiane nelle persone con malattia da CMT (Giuseppe Vita et al, 2016). La maggior parte degli autori, comunque, incoraggia l’attività fisica nei pazienti CMT, ma raccomanda esercizi che non comportano un eccessivo sforzo del proprio potenziale (Knak KL et al, 2017).
Grande attenzione nel mondo scientifico viene suscitata dagli effetti della Psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT). La CBT aiuta a individuare i pensieri automatici e le credenze che ognuno di noi ha sulla realtà; in persone con una qualità di vita limitata, le emozioni negative sono spesso percepite dal soggetto come sintomi; la CBT può correggere i pensieri responsabili delle emozioni negative e favorisce l’integrazione con altri pensieri più funzionali al benessere della persona (Montano A., 2008). Essa è considerata l’unico intervento il cui effetto ha portato beneficio a sei mesi; non ci sono dati di follow-up che dimostrano un beneficio per tempi più lunghi. Attualmente non esistono prove circa i benefici con altri interventi psicosociali negli adulti con disturbi neuromuscolari. Sebbene alcuni abbiano cercato di valutare gli effetti di interventi psicosociali su disturbi neuromuscolari, i risultati e i benefici emersi sono quasi esclusivamente a breve termine.
I disturbi neuromuscolari in età adulta sono in aumento e anche per questo si rendono necessari risultati più chiari e definiti (Elaine Walklet et al, 2016). Apportare benefici fisici, psicologici e sociali alle persone affette da CMT può tradursi in un miglioramento della loro qualità di vita e in costi sanitari ridotti per la società.