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Io-tu: l’autoriflessività per stare in relazione di coppia

L’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

 

Perché ti sento diverso? Ti vedo in un ruolo? Perché in qualche modo devo capire chi sei tu e attribuirti una categoria prima ancora di conoscerti profondamente? Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

Centrale in questo processo di costruzione relazionale è partire dalla percezione di se stessi, come soggetti e come oggetti. Il Sé come soggetto implica l’uso nel linguaggio dell’Io (“Io ho fatto, ho detto, ho deciso, pensato, amato…”), intendendo in quell’Io un sé conoscitore di se stesso (Aron, 2000), ovvero un sé dotato di coscienza percettiva, intellettiva e autocoscienza, tre livelli di coscienza pre-riflessiva e riflessiva a diverso grado di complessità (Minolli, Coin, 2007, p.97).

Che cos’è l’autoriflessività

L’autoriflessività, infatti, è il gradino più alto di conoscenza di se stessi e non coincide con la semplice riflessione su di sé, che implica un lavoro di tipo meramente cognitivo in cui ci guardiamo come dall’esterno prendendo distanza da ciò che facciamo; bensì l’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Per fare un esempio, la semplice riflessione cognitiva su di sé potrebbe implicare un pensiero del tipo: “Penso di aver agito in questo modo perché ho valutato questa cosa secondo questo mio schema mentale!”; nonostante questo processo metacognitivo sia già molto importante ed elevato, non è sufficiente raggiungere l’autoriflessività, la quale implicherebbe qualcosa che va oltre il pensare al proprio pensiero (metacognizione), piuttosto implica “l’integrazione tra pensiero e sentimento, mente e corpo, modalità osservazionali ed esperienziali” (Aron, 2000, pp.668-669).

Questa capacità si traduce in qualcosa del tipo “questo è quello che so essere vero di me, perché questo è il modo in cui penso e mi sento” (Ringstrom, 2017) e fa parte della costruzione del sé come soggetto. Il sé come oggetto, invece, è reperibile in ciò che definisce il sé in quanto conosciuto da noi stessi, e lo esprimiamo attraverso il Me (“mi piace, mi interessa, ama me….”). E’ l’insieme delle nostre osservazioni su noi stessi nate anche grazie al feedback degli altri.

Percepire se stessi come oggetti implica riconoscersi come esseri umani tra gli esseri umani, come estranei e diversi dagli altri pur riconoscendoci in noi stessi. Come conosciamo noi stessi attraverso esperienze che ci pongono in modo soggettivato o oggettivato, così noi possiamo percepire gli altri come “altro-soggetto” o “altro-oggetto”. I sé come soggetto e come oggetto sono sempre in tensione dialettica ed entrambi nascono non dall’intelletto bensì dall’esperienziale. Se emerge uno squilibrio tra questi due sé non possiamo percepire gli altri in relazione a noi stessi, se non nelle due posizioni assolute e reciprocamente escludenti di oggetto o soggetto assoluto: il sé che è troppo soggettivato, tratta gli altri come oggetti; il sé che è troppo oggettivato, non è in grado di farsi soggetto con agency e pone gli altri al proprio posto.

Nella metafora del servo e del padrone, Hegel (cit. in Minolli, Coin, 2007, pp.98-99) spiega come in realtà nella rigida posizione dialettica può esistere già una interdipendenza ricorsiva di tipo relazionale: il servo ha salva la vita grazie al padrone e il padrone grazie al servo ha ciò di cui ha bisogno. In questo modo la relazione di padronanza si ribalta perché senza il servo il padrone non può più stare, dunque ne è a sua volta schiavo. Padrone e servo sono due parti di ognuno di noi “scisse e delegate” (Minolli, Coin, 2007, p.99) che possono riferirsi alla soggettivazione o oggettivazione sé-altro da sé.

L’interdipendenza psichica nelle relazioni

Comprendendo che in ogni relazione vi è sempre un’interdipendenza psichica che ci porta a coesistere in un dato contesto, cogliamo anche che non vi è servo e padrone, ma la possibilità di essere l’uno o l’altro in ogni momento in riferimento alla dinamica relazionale. Questo è particolarmente veritiero nella relazione amorosa, in cui l’Io e il me si definiscono come soggetto e oggetto amante e amato; parimenti l’altro è vissuto come soggetto-oggetto di amore.

Barthes (1977, p.107-108) propone questo rovesciamento del sentire “Non riesco a capirti” vuol dire: “non saprò mai che cosa pensi veramente di me. Non posso decifrare te perché non so come decifri me” e allo stesso modo può sussistere un pensiero opposto “Anziché voler definire l’altro (“Cos’è mai costui?”), io volgo l’attenzione su me stesso: “Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?” . In questo pensiero sussiste già una dinamica relazionale di tipo ricorsivo, che lega l’Io al Tu e rende evidente il ruolo centrale del legame relazionale (Io-tu) nella costruzione della propria identità relazionale (Sé). Non cogliere questo rovesciamento ricorsivo può determinare il posizionarsi rispetto all’altro in un modo detto “complementarietà reversibile”, in cui si lotta per spingere l’altro nella posizione rigida che desideriamo assuma a livello relazionale: “tu sei solo servo, io sono solo padrone!” o anche “solo io ti amo, tu non mi ami!” . Questa rigidità rompe la ricorsività dialettica e struttura un gioco di forze e ruoli in cui posizionare in modo irreversibile se stessi e l’altro in posizione di soggetti/oggetti: “Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che gli egli mi dà.” (Barthes, 1977, p.108).

Dato che la tendenza a porsi in modo solamente soggettivato o solamente oggettivato è radicata dallo stile relazionale conflittuale respirato fin da piccoli, nella scelta di partner e nelle relazioni adulte significative tendiamo, per coazione a ripetere, a scegliere persone che mantengano quella data posizione per noi assumibile poiché protettiva: se siamo stati o ci sentiamo servi cerchiamo inconsciamente padroni, se siamo stati o ci sentiamo padroni cerchiamo solo servi. Porsi in modo autoriflessivo non significa solo cogliere la propria dimensione rispetto all’altro, né comportarsi in modo da raggiungere un mero ribaltamento nella dimensione esperita (da servo a padrone, e viceversa).

Autoriflessività: la consapevolezza di sè in relazione all’altro

L’autoriflessività non può dunque raggiungersi solo con un processo di immersione emotiva (Ringstrom, 2017). Credere alla logica del “sento dunque sono!” è estremamente confusivo, poiché l’immersione in un’ esperienza è un processo non-riflessivo dove “non esistono interpretazione ma solo fatti” (Wallin, cit. in Ringstrom, 2017, p. 188). La società moderna basa il principio di “conoscenza di se stessi” troppo soventemente sull’immersione, per cui sentimenti, stimoli somatici, rappresentazioni mentali diventano la realtà (Ringstrom, 2017). In questo stato non si è in grado di entrare in intersoggettività, poiché esiste solo un sé soggettivato su cui non vi è peraltro neanche riflessione. Si vive piuttosto in una “realtà iperoggettivata” (Ringstrom, 2017), come “isterica”, dove si è troppo emotivi e paradossalmente estremamente soli poiché chiusi nella logica del “il mio sentire è il tuo sentire. E solo questa è realtà!”. Questo processo definito “equivalenza psichica” da Fonagy, e “(classicamente descritta come pensiero concreto) in cui non possono essere prese in considerazione prospettive alternative alla propria, poiché manca l’esperienza del “come se” e tutto appare come fosse “reale” (Bateman, 2007), ammazza l’empatia e l’alterità, e pone gli altri in una ipocrita posizione di oggetti-doppi del proprio sé, per cui “tu devi sentire come sento io perché ciò che io sento è vero!”.

Allo stesso tempo l’autoriflessività non rimanda a ragionamenti di tipo intellettivo su di sé, ad una mera metacognizione, speculazione intellettuale su chi sono io e come penso e perché. L’autocoscienza o coscienza di sé o autoriflessività implica “una dimensione misteriosa di coglimento di sé. La presenza a se stessi è una presa d’atto, un’accettazione attiva, un ri-conoscimento, un aprire gli occhi su di sé. C’è in questa presenza a se stessi lo stupore della scoperta, l’umiltà di fronte alla propria realtà, la sofferenza dello scarto, la gioia dell’aderire” (Minolli, Coin, 2007, p. 97). Rispetto alla metafora del servo e padrone l’autocoscienza o coscienza di sé è la capacità di cogliersi sia come servo che come padrone in modo dialettico e coesistente. Quindi l’autoriflessività è il superamento della lotta nell’attribuzione a se stesso di una posizione rigida rispetto all’altro ed è piuttosto la presa di consapevolezza di una “presenza a se stessi” che implica un “…essere a contatto, un viversi, un riconoscersi indipendentemente dalle cose, dai contenuti e dai desideri oggettivati ossia dell’oggetto… è qualcosa che porta a comunicare e a riconoscersi in prima persona con il proprio essere quello che si è, come dato da viversi in pienezza” (Minolli, 2007, p. 3, cit. in Minolli, 2009, p. 58).

Apprendimento multimediale: apprendere tramite testo e immagini oppure tramite istruzioni

Le teorie sull’ apprendimento multimediale studiano i processi di elaborazione dell’informazione che si attivano in risposta alla presentazione di uno stesso stimolo in differenti formati, ad esempio testo e immagine.

Chiara Arlanch – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Apprendimento multimediale: il valore delle immagini

Le illustrazioni sono una forma di rappresentazione visiva dalle svariate funzioni, da quella puramente decorativa, a quella rappresentativa dei contenuti del testo, a quella interpretativa. L’immagine è parte integrante del materiale didattico e non dovrebbe essere ignorata e considerata come elemento secondario; ha un notevole impatto e, in generale, nonostante a volte possa anche distrarci, sembra catturare la nostra attenzione e far restare in memoria dei concetti che altrimenti non riusciremmo a memorizzare facilmente.
La multimedialità, intesa come presentazione del materiale in più formati, ad esempio testo e immagini, è stata studiata a lungo, dagli anni Ottanta a oggi e in modo approfondito. I processi di elaborazione dell’informazione, implicati quando viene presentato un duplice formato, sono stati analizzati da varie teorie dell’ apprendimento multimediale.

Per la Teoria della doppia codifica esistono un sistema di codifica verbale e uno non verbale, in cui l’informazione testuale viene codificata solo dal sistema verbale, mentre l’immagine è codificata da entrambi i sistemi; è proprio questa duplice codifica, rispetto a quella singola, che avviene con la presentazione del solo testo, che migliora la memorizzazione e la comprensione del contenuto (Paivio, 1991, cit. da Mammarella, Cornoldi & Pazzaglia, 2005).

Secondo il modello integrativo della comprensione multimediale di Schnotz, processi bottom up, che partono dall’informazione sensoriale, e processi top down, basati sull’informazione pre-esistente in memoria a lungo termine, sono implicati in processi di selezione e di organizzazione dell’informazione. Per Schnotz permane una continua interazione tra il modello mentale, la rappresentazione superficiale del testo e la rappresentazione percettiva della figura (Schnotz, 2002).

Mayer ha affermato invece che esistono due sottosistemi di codifica, distinti in verbale e non verbale. L’informazione inizialmente entra in memoria sensoriale e viene mantenuta in un magazzino sensoriale per brevissimo tempo; poi la memoria di lavoro seleziona l’informazione rilevante, organizzandola in un modello verbale e in un modello visivo. Infine avviene un processo di integrazione, che unisce i due tipi di rappresentazioni, confrontandole anche con la conoscenza già presente in memoria a lungo termine, in un unico modello mentale complessivo, in cui informazioni verbali e visive sono recuperabili simultaneamente (Mayer, 2000, cit. da Mammarella et al., 2005).

L’apprendimento multimediale: il testo illustrato

Il filone di ricerca, che dagli anni Settanta ad oggi, si è occupato di indagare gli effetti delle illustrazioni associate al testo sull’apprendimento, generalmente ipotizza che le immagini migliorino e aumentino la comprensione e la memorizzazione del materiale. Il materiale didattico odierno contiene sempre più spesso immagini, grafici, diagrammi, mappe e questi tipi di rappresentazioni esterne assumono un ruolo fondamentale nell’apprendimento (Schnotz, 2002). Se da una parte vi è un relativo accordo sull’effetto positivo delle immagini, molti autori hanno rilevato però come vi debbano essere delle condizioni affinché l’apprendimento sia effettivamente promosso e non al contrario ostacolato.

Mayer ha individuato alcuni principi dell’ apprendimento multimediale che devono essere osservati per avere prestazioni ottimali. Una presentazione che associa testo e figure favorisce l’apprendimento e il crearsi di un modello mentale integrato, rispetto a una presentazione con solo testo o solo immagini. Vi è maggiore immediatezza se vi è vicinanza spaziale e temporale nella presentazione di testo e immagini, altrimenti può verificarsi una divisione dell’attenzione e un notevole dispendio di risorse cognitive. Il materiale dovrebbe essere il più possibile rilevante e coerente per non sovraccaricare la limitata capacità della memoria di lavoro e per non creare interferenze. Sarebbe più efficace presentare i contenuti in due modalità diverse, coinvolgendo il canale visivo e quello uditivo, senza che le informazioni provengano solo dalla modalità visiva. In letteratura si sottolinea inoltre che sono da evitare inutili ripetizioni dei concetti, poiché si rischia di creare ridondanza non produttiva (Mayer, 1990, cit. da Mammarella et al., 2005). In generale dunque si può affermare che associare le immagini al testo favorisca l’apprendimento, ma nello specifico bisogna tenere conto di queste condizioni, per non intralciare o rallentare il processo di elaborazione dei contenuti.

Le varie immagini possono essere classificate in base alle loro possibili funzioni e scopi. Levin e altri (1987) hanno individuato cinque funzioni:

  1. Un’illustrazione può essere decorativa e rendere il lettore più stimolato a leggere il testo non fornendo tuttavia informazioni rilevanti in aggiunta a quelle date dal testo; per esempio può trattarsi di riproduzioni di oggetti o eventi collegati al contenuto del testo o anche di decorazioni
  2. Le immagini possono avere funzione rappresentativa, attirando l’attenzione su un dato evento, persona, luogo o oggetto perché sia selezionato come rilevante
  3. Può esserci anche una funzione di trasformazione, meno convenzionale delle altre: l’immagine fa ricordare meglio qualche concetto e favorisce la rievocazione
  4. Le illustrazioni possono poi avere funzione organizzativa, facilitando la costruzione di un modello mentale coerente e strutturato ed evidenziando i collegamenti tra i vari elementi, come schemi o diagrammi
  5. Infine, cruciale è la funzione interpretativa esplicativa, che mostra il funzionamento di un sistema in termini di causalità: le illustrazioni esplicative dovrebbero mettere in evidenza gli elementi del sistema, gli stati e le relazioni tra i cambiamenti di stato dei vari elementi

Questi tipi di illustrazioni, oltre a guidare la selezione e l’organizzazione delle informazioni, consentono un processo d’integrazione con le conoscenze già presenti in memoria a lungo termine (Levin, 1987, cit. da Boscolo, 1997). Varie ricerche sono state pubblicate sull’ apprendimento multimediale da testo e immagini, che possono essere raggruppate secondo le funzioni rappresentativa, organizzativa, trasformazionale e interpretativa (Levin, 1987, cit. da Carney & Levin, 2002).

Di uno dei più comuni tipi di illustrazioni, quelle rappresentative, si è occupata la ricerca di Adler. Agli studenti è stato richiesto di elaborare illustrazioni rappresentative di un testo riguardanti situazioni d’emergenza. Sono stati loro assegnati quattro diversi tipi di istruzioni: un tipo non esplicito, uno esplicito (per esempio “Quanti oggetti vedi nella figura?”), un tipo in cui era implicata un’elaborazione semantica (per esempio “Come si può collegare l’immagine al testo?”) e un ultimo tipo di istruzione che comprendeva un’elaborazione interrogativa (per esempio “Quali altri oggetti possono essere lanciati in questo modo?”), in quest’ultima condizione è stato individuato un vantaggio significativo (Adler, 1993, cit. da Carney & Levin, 2002).

Anche David si è occupato di illustrazioni rappresentative. Nello specifico, ha condotto alcuni esperimenti per valutare l’efficacia di aggiungere illustrazioni rappresentative a notizie di cronaca riguardanti alcune celebrità. E’ emersa una migliore rievocazione del nome del personaggio famoso nelle condizioni in cui vi era anche l’immagine e il vantaggio era ancora maggiore se le notizie erano concrete rispetto a quelle astratte (David, 1998, cit. da Carney & Levin, 2002).

Nell’esperimento di Rubman e Waters, che hanno ripreso ed esteso ricerche precedenti, ai bambini è stato chiesto di costruire delle illustrazioni dopo aver letto un testo; chi di loro ha costruito l’immagine ha riconosciuto più facilmente degli elementi contraddittori interni al testo e, costruendo l’immagine della scena letta, c’ è stato un maggiore controllo della comprensione (Rubman & Waters, 2000, cit. da Carney & Levin, 2002).

Bartholomé si è occupato di vari tipi di supporto che possono essere dati nel processo di apprendimento, per aiutare la costruzione di un modello mentale. E’ emerso, in sintesi, che la condizione che ha migliorato maggiormente l’apprendimento è stata quella in cui erano affiancate etichette numeriche alle figure associate ai concetti, mentre dare troppo aiuto poteva interferire con l’apprendimento. Bartholomé ha concluso che bisognerebbe dare il minimo supporto necessario all’apprendimento, anche a seconda del tipo di conoscenza che si vuole far acquisire (Bartholomé, 2009).

Le illustrazioni con funzione di trasformazione, che aiutano a memorizzare i contenuti, sono state trattate ad esempio da Dretzke. Dalla sua ricerca è emerso un vantaggio nella rievocazione di elementi concreti nella fascia d’età più giovane (17-29 anni) e intermedia (30-50 anni); è risultato che la presenza di un’immagine chiave ha facilitato l’organizzazione della sequenza da rievocare in tutte e tre le fasce d’età (Dretzke, 1993, cit. da Carney & Levin, 2005).

Il più ampio numero di ricerche sull’ apprendimento multimediale ha riguardato illustrazioni interpretative o esplicative. Importante a tal proposito è stato il contributo di Richard Mayer, che ha tentato di capire cosa possa promuovere meglio la comprensione del funzionamento di un sistema scientifico. Mayer (1990) ha condotto tre esperimenti ed è emerso dai risultati che con le illustrazioni delle parti e dei passaggi c’è stata una migliore rievocazione e un vantaggio nel problem-solving, soprattutto con studenti con basso livello di conoscenza precedente, anche poiché esse favorivano la creazione di un modello mentale integrato.

Reid e Beveridge hanno analizzato al computer per quanto tempo gli studenti si soffermavano sull’immagine e in quale punto del testo spostavano l’attenzione su di essa. E’ risultato che in presenza di tematiche più complesse c’era una prolungata osservazione dell’immagine e che gli studenti con maggiori difficoltà nell’apprendimento osservavano più a lungo la figura (Reid & Beveridge, 1990, cit. da Carney & Levin, 2005).

Anche la ricerca di Florax e Ploetzner (2010) si è occupata di illustrazioni di tipo interpretativo, focalizzandosi sull’effetto di attenzione divisa che può avvenire quando si integrano due formati diversi. Gli autori hanno suddiviso gli studenti, che dovevano apprendere il funzionamento di un sistema biologico, in cinque gruppi. Al primo gruppo è stato presentato un testo continuo; al secondo è stato proposto lo stesso tipo di testo, affiancato da alcuni marcatori che ne sottolineavano delle parti; nel terzo caso il testo presentato era invece segmentato; la quarta condizione prevedeva la presenza di testo segmentato con l’aggiunta di marcatori e infine al quinto gruppo era presentato un formato integrato (contenente il testo diviso in parti, inserito all’interno di didascalie esplicative, affiancate alle varie parti dell’immagine). Dai risultati è emerso che il formato integrato ha favorito l’apprendimento in modo maggiore rispetto alle altre condizioni sperimentali.

L’apprendimento multimediale tramite istruzioni

Nell’ apprendimento multimediale, di un testo illustrato, possono essere usate varie strategie cognitive utili ad indirizzare l’approcciarsi ad esso. Spesso si danno delle istruzioni prima della somministrazione del materiale per ottenere l’effetto desiderato, ovvero ad esempio richiamare l’attenzione del lettore anche sull’immagine, che altrimenti potrebbe essere trascurata o analizzata solo superficialmente. Le istruzioni possono così suggerire al lettore di prestare attenzione a tutti gli aspetti del materiale proposto, anche a quelli figurativi, possono spiegare a chi legge il potenziale effetto facilitatore dell’illustrazione, che svolge molte funzioni positive come, ad esempio, chiarire degli aspetti, esemplificare o raffigurare alcuni elementi, o aiutare la rievocazione.
Molto spesso all’interno dei materiali didattici sono presenti varie istruzioni, di tipo generale per indicare di guardare bene la figura, oppure di tipo specifico per esortare il lettore a prestare attenzione scrupolosamente, ispezionare l’illustrazione in modo da elaborarne e interpretarne i contenuti nel modo più adeguato. Le istruzioni possono inoltre richiedere di eseguire dei compiti, ad esempio sottolineare o evidenziare parti dell’illustrazione, o confrontare tra loro aspetti dell’immagine e del testo, completare degli elementi mancanti, rispondere a delle domande o risolvere dei problemi basandosi sulle informazioni fornite dal materiale figurativo.

La ricerca presente sull’argomento non è molta, ma sta iniziando a diffondersi. Il consigliare solamente al lettore di prestare attenzione anche all’immagine non produce un’ispezione molto più approfondita rispetto a quella che sarebbe stata effettuata senza indicazioni. Da ricerche che riportano un confronto tra attenzione prestata incidentalmente rispetto ad un tipo di attenzione intenzionale, sembra che non vi sia una differenza statisticamente significativa. Più efficace sembra invece essere specificare su cosa in dettaglio focalizzare l’attenzione, come risulta da uno studio di Peeck (1993), in cui studenti universitari dovevano leggere un testo illustrato con o senza istruzioni, o leggere il solo testo. Nella prima delle due condizioni di testo illustrato si richiedeva al lettore di trovare quali informazioni corrispondessero in testo e immagine. Nel secondo caso vi era un tipo di istruzione implicita, che diceva semplicemente di prestare attenzione ai contenuti, senza nominare l’immagine. In una valutazione dell’apprendimento successiva è emerso un vantaggio dato dal primo tipo di istruzione, rispetto a quella implicita, e anche rispetto a chi aveva letto solamente il testo. Nella condizione di istruzione esplicita i partecipanti nominavano più frequentemente degli elementi presenti nell’illustrazione.

Più efficace risulta dunque essere un tipo di istruzione specifica, come emerge dagli studi di Yarbus, in cui viene evidenziato come i movimenti oculari sono indirizzati diversamente a seconda del diverso tipo di istruzione (Yarbus, 1967, cit. da Peeck, 1993). Bernard e Weidenmann hanno inserito nelle istruzioni indicazioni più specifiche, che indicavano cosa cercare nell’immagine, e che hanno facilitato maggiormente l’apprendimento (Bernard & Weidenmann, 1990, cit. da Peeck, 1993). L’effettuare la ricerca in un laboratorio può aumentare inoltre la disponibilità di un soggetto a seguire le istruzioni; ciò può non verificarsi in un ambiente meno strutturato, dove esse possono essere ignorate. Un modo per tenere sotto controllo la tendenza a trascurare le istruzioni potrebbe essere quello di richiedere lo svolgimento di qualche compito, che attesti che le indicazioni siano state seguite, come ad esempio rispondere a delle domande, o sottolineare parti dell’immagine, o produrre nuove illustrazioni che rappresentino i contenuti appena appresi (Peeck, 1993).

Il valore dell’ apprendimento multimediale

Dalla ricerca preesistente è emerso un generale accordo sul fatto che un formato integrato favorisca l’apprendimento piuttosto che ostacolarlo; sono state appunto compiute molte ricerche sull’argomento, che spesso hanno portato risultati a favore dell’utilità di un testo illustrato. Le principali teorie dell’ apprendimento multimediale hanno contribuito in modo incisivo a descrivere i processi di elaborazione alla base dell’apprendimento da formato integrato. Sono state analizzate le varie funzioni che può avere un’immagine, da quella puramente decorativa, a quella rappresentativa, organizzativa, trasformazionale e interpretativa. Sono state inoltre evidenziate le condizioni che consentono un migliore apprendimento come, ad esempio, che l’informazione figurativa sia rilevante, coerente, posta nelle vicinanze del testo, a condizione quindi che non si crei ridondanza.

E’ stato inoltre analizzato il ruolo di varie strategie cognitive, come l’uso di istruzioni didattiche, nell’ apprendimento multimediale. Dalle ricerche precedenti è emerso come esistano istruzioni di vari tipi: esse possono essere più generali, chiedendo al lettore di studiare i contenuti, o di osservare anche la parte figurativa del materiale; possono anche essere più specifiche, evidenziando oltre a ciò l’importanza di integrare le informazioni verbali con quelle figurative, o chiedendo ai partecipanti di svolgere alcuni compiti. Dalla ricerca è emerso che più le istruzioni specificavano come bisognasse analizzare i contenuti, maggiore sarebbe stata la loro efficacia.

Varie sono le implicazioni di tipo pratico che possono derivare in merito a tali considerazioni sull’ apprendimento multimediale: potrebbe essere efficace per l’apprendimento dare istruzioni molto specifiche che, oltre ad esortare a collegare testo e figura, richiedano di svolgere qualche compito. Potrebbe essere opportuno, ad esempio, sollecitare ad individuare la parte di testo a cui l’immagine è riferita, magari sottolineando o evidenziando i passaggi più importanti. Lo studente in questo modo potrebbe tendere sempre meno a trascurare l’immagine; utilizzando questo tipo di istruzione più specifica potrebbero essere promosse un’analisi attiva e un’elaborazione più profonda dei contenuti.
Potrebbe essere utile evidenziare anche agli insegnanti l’importanza di associare sempre più frequentemente al testo le illustrazioni, di dare istruzioni esplicite che raccomandano di integrare e collegare l’informazione testuale e quella figurativa prima di presentare i contenuti. Questo potrebbe avvenire all’interno di corsi di formazione agli insegnanti, soprattutto centrati sull’uso ottimale delle nuove tecnologie, ad esempio le Lavagne Interattive Multimediali (LIM), strumenti potenzialmente molto utili a garantire un’interazione attiva degli studenti con i contenuti multimediali, che permettono un ampio ricorso a risorse di tipo iconico.

Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali (2018) – Recensione del libro di Michael Bader

Eccitazione di Bader propone un nuovo modo di vedere le fantasie sessuali, che mette insieme piacere, sicurezza e trasgressioni.

A Jane piace essere maltrattata da un uomo grosso, rude, privo di interesse per quello che lei prova. Mary gusta il pensare di avere tra le mani un uomo potente e farlo impazzire di desiderio. La tensione che sale all’idea che una donna dagli stivali di pelle lo dominerà, chiamerà Mike: schiavo. Robert, che durante i rapporti con la moglie fantastica di una donna forte che lo lega. Un ragazzo ha bisogno di uno specchio unidirezionale che lo separi dalla donna che si spoglia davanti a lui. Jeff immagina la sua donna presa da un altro mentre lui guarda. I Depeche Mode cantano in Strangelove: “Accetterai il dolore che ti darò? Ancora e ancora. E me lo restituirai?”. Aggiungono: “Farò sorridere il tuo cuore”.

Cosa sono le fantasie sessuali? Qual’è il loro significato?

Le fantasie sessuali, se uno si distrae dal motivo per cui esistono, raccontano di storie spesso orribili, rosso carminio, hanno colori foschi o così forti che feriscono gli occhi. Violenze, umiliazioni, sottomissione e potere, disprezzo e gloria. Niente che la morale, neanche quella sfibrata dei contemporanei, accetti realmente. Non vorremmo frequentare il nostro alter ego delle storie che ci eccitano. Però ne abbiamo terribilmente bisogno. Sono parte di noi ma, esclusi gli esibizionisti, non vogliamo che emergano.

Le interpretazioni sul loro significato sono infinite e nessuna, naturalmente, è definitiva.

Poi arriva Michael Bader, con una psicoanalisi che più cognitiva non si può. E le spiega. Le rende chiare. Comprensibili, alla luce di una teoria che funziona. Si tratta di modi per raggiungere il piacere in condizioni di sicurezza.
Sorpresi? Fantasie di violenza, stupro, frustate, tradimento, sottomissione, asfissia sarebbero fonti di sicurezza? Esatto, Bader dice proprio quello e ha ragione. Ma di che genere?  Della forma che ci è più necessaria. Sicurezza relazionale. Raggiungere il piacere, essere vivi, fiammanti, leggeri, estatici. Per arrivarci è necessaria una condizione. Essere accolti. Gioire certi che l’altro non ci accuserà né rifiuterà, che non sarà disgustato da noi. E ancora: che non lo feriremo, che non saremo meglio di ciò che la vita gli ha dato o si è costruito.
Andiamo a fondo: ci proteggiamo dal senso di colpa e vergogna che striscia nel nostro animo. Vi hanno detto che la nostra società edonistica non ha il più senso del limite? Stupidaggini. Non ce ne liberiamo mai, sono emozioni strutturali. Iniziate a capire ora? Esponendoci al fluire dei sensi, posseduti dall’eccitazione, rischiamo accuse, rifiuti e di ferire l’altro. Ci dovremmo abbandonare a qualcuno che non sappiamo chi è, non ne abbiamo mai davvero la certezza.
Le fantasie sessuali servono a quello: piacere in condizioni di sicurezza. Per afferrare a fondo le idee ci servono le storie che fanno da sfondo al teatro dell’erotismo, la cornice che inquadra bondage, fetish e burlesque e quel vostro film mentale maledettamente preferito.

Eccitazione: alcune fantasie dei protagonisti del libro

Il passato di Bob, il ragazzo dietro lo specchio unidirezionale. Il padre se ne va con una donna più giovane. Bob ha 10 anni. La madre assume il ruolo della martire. Il fratello si ammala. La madre ogni giorno fa miglia a piedi per andare in ospedale. Ostenta sofferenza, sventola dispiacere. Bob esce con gli amici e lei indossa la maschera della delusione: un altro uomo che mi abbandona. Il senso della fantasia voyeuristica oggi: Bob pensa che comportandosi da uomo virile, voglioso, avrebbe ferito simbolicamente la madre come il proprio padre aveva fatto. Mostrando il desiderio offende la donna. E quindi lo specchio unidirezionale: ti osservo senza che tu lo sappia, mi eccito senza farti alcun male. Mi proteggo dal senso di colpa verso mio madre.

Esther, donna morigerata, fantastica di essere presa durante la parata del Mardi Gras a New Orleans, dove ballano tutti nudi, più uomini la prendono e un maestro di cerimonie di colore descrive l’atto alla folla. Per Esther è irresistibile. Il passato: un padre, intellettuale europeo che emigra negli Stati Uniti e si trova costretto a vendere antiquariato, per lui un fallimento. La sera torna di malumore a casa. A moglie e figlia non rivolge attenzioni, forse gioisce per il riscatto economico dei figli maschi. La piccola Esther nota lo sguardo del padre, quel disinteresse per la moglie. E quegli occhi non si poggiano su di lei con l’amore che un padre dovrebbe rivolgere alla figlia. Esther riflette, respira disinteresse. Esther deduce: sono disgustosa. La parata di Mardi Gras è il suo riscatto. La folla ha i sensi esaltati tutti per lei. Il presentatore che declama la festa del suo corpo femminile è la cura per la vergogna. Strangelove, in condizioni di estrema sicurezza.

Il trattamento della fobia specifica attraverso lo studio dell’attività cerebrale altrui 

Un team di ricercatori internazionali ha compiuto una nuova ricerca che potrebbe portare allo sviluppo di una nuova forma di trattamento per le fobie specifiche, presto applicabile sui pazienti. 

Trattare la fobia specifica manipolando l’attività cerebrale

Lo studio si basa su recenti esperimenti condotti presso l’Advanced Telecommunications Research Institute International in Giappone. Utilizzando i metodi all’avanguardia presi in prestito dall’intelligenza artificiale, simili agli algoritmi informatici utilizzati per riconoscere i volti dalle immagini, il team è stato in grado di “leggere”, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), le immagini mentali spontanee all’interno del cervello dei partecipanti.

Lo scopo dello studio era quello di rendere meno paurosi gli oggetti fobici manipolando direttamente l’attività cerebrale: una piccola ricompensa monetaria era assegnata ogni qual volta il soggetto ricordava inconsciamente l’oggetto pauroso. In questo modo secondo i ricercatori, l’immagine di un serpente, ad esempio, veniva associato a un sentimento positivo, diventando a lungo andare meno spaventoso e sgradevole.

L’autore principale dello studio Vincent Taschereau-Dumouchel afferma “Sapevamo che l’idea avrebbe funzionato sui soggetti non fobici, la sfida era capire come leggere i pensieri legati agli oggetti spaventosi dalle immagini cerebrali dei pazienti”.

La partecipazione allo studio di soggetti normali (senza alcuna fobia specifica) appare estremamente importante in quanto ai partecipanti non fobici è possibile mostrare molte immagini, potenzialmente spaventose, senza conseguenze particolari e lasciare che l’algoritmo apprenda il modello cerebrale che si attiva. L’applicazione di questa stessa procedura in pazienti fobici però diventa problematica poiché essi provano un estremo disagio nell’osservare le immagini di oggetti temuti.

Il team ha ideato una soluzione innovativa al problema, ovvero quella di inferire gli schemi dell’attività cerebrale dai partecipanti non fobici. Le parole del Professor Hakwan Lau chiariscono meglio il concetto “Se un soggetto ha paura dei serpenti, per decodificare gli schemi della sua attività cerebrale, egli non deve necessariamente osservare l’immagine di un serpente; un altro individuo può, come suo “surrogato”, osservare le immagini fobiche che non suscitano in lui nessuna reazione e sulla base di questa normale attivazione cerebrale, si potrebbe dedurre a livello computazionale quale dovrebbe essere l’attivazione all’interno del cervello fobico alla vista del serpente. Questo è possibile grazie ad un metodo ingegnoso chiamato iperallineamento”.

Sebbene i modelli di attività cerebrale di individui diversi abbiano organizzazioni spaziali diverse, il metodo di iperallineamento può correggere questa discrepanza. I ricercatori hanno dimostrato che, con una grande quantità di dati provenienti da molti “surrogati”, la fobia del paziente può essere ridotta.

I soggetti venivano sottoposti a sessioni di rinforzo neurale precedute e seguite da sessioni di controllo per valutare l’efficienza del trattamento. In particolar modo durante la procedura di rinforzo neurale, utilizzando dei compiti specifici, i ricercatori erano in grado di attivare nel soggetto specifici pattern cerebrali che si era visto essere associati allo stimolo temuto, elicitando così la stessa risposta neurale che si sarebbe attivata alla vista dell’animale pauroso. Lo scopo della sessione era di consentire ai partecipanti di associare la ricompensa monetaria all’attivazione di queste rappresentazioni neurali giungendo così ad un ridimensionamento inconscio della risposta fobica.

Dopo aver partecipato all’intervento i pazienti mostravano una diminuzione della conduttanza cutanea e dell’attività emodinamica dell’amigdala in risposta alle immagini temute suggerendo un’influenza del trial clinico sulle risposte fisiologiche e cerebrali dei soggetti.

Gli scienziati pensano che il metodo possa rappresentare un’innovazione soprattutto per il fatto che questo tipo di procedura appare libera dalle difficoltà che il soggetto riscontra invece nei tradizionali trattamenti psicoterapeutici quali ad esempio, l’esposizione in vivo.

Il team spera che questo protocollo possa ispirare nuovi tipi di trattamento, non solo per la fobia specifica ma anche per altri tipi di disturbi come il disturbo da stress post-traumatico.

Cos’è il colore? Intervista al Professor Riccardo Manzotti, Docente di Filosofia teoretica all’Università IULM di Milano

Il colore: una proprietà degli oggetti? Una frequenza di luce, come pensava Newton? Una sostanza chimica?  “Può sembrare strano – avverte il Professore Riccardo Manzotti – ma oltre 300 anni dopo il testo di Newton (1704) non sappiamo ancora in modo definitivo che cosa sia il colore”.

 

State of Mind (SoM): Facciamo un po’ di chiarezza con l’aiuto di Riccardo Manzotti, docente di Filosofia teoretica all’Università IULM di Milano. Attualmente insegna negli Emirati Arabi, presso l’ateneo di al-Ayn, dove si studiano le nuove tecnologie. Recentemente ha pubblicato per l’editore Arcipelago un saggio intitolato “Psicologia della percezione artistica.

Riccardo Manzotti (RM): Per le neuroscienze, i colori non esistono nel mondo fisico, ma sono creati dal cervello. Il mondo fisico sarebbe, dunque, senza colori. Tuttavia questa posizione si scontra sia con la nostra esperienza quotidiana (che attribuisce i colori alle superfici e alla luce), sia con l’idea, piuttosto attendibile, secondo cui gli animali si siano evoluti per vedere i colori che si trovano nel mondo. Il problema è che, in molti casi, come le illusioni o le allucinazioni, si vedono colori che non esistono. E allora rimane il dubbio che i colori che vediamo siano una forma di allucinazione. In breve, i colori restano in sospeso tra la mente e il mondo fisico e, di conseguenza, non troviamo una soluzione convincente. Si sente il bisogno di un nuovo paradigma che riesca a mettere insieme neuroscienze, filosofia e fisica.

SoM: Come è cambiata l’arte in relazione alla disponibilità dei colori? In passato, pittori come Giotto avevano una tavolozza infinita, come accade oggi con il digitale?  

RM: In realtà, fino all’invenzione dei colori ad olio, la tavolozza degli artisti era molto limitata sia perché si disponeva di pochi pigmenti stabili, sia perché era quasi impossibile mescolarli senza effetti inattesi. I pigmenti colorati erano sostanze chimiche che non andavano mischiate. Medioevo e Rinascimento conoscono pochi colori. Michelangelo dipinge il Tondo Doni con 5-6 tinte di base. Piero della Francesca fa la stessa cosa. Da Giotto a Raffaello nulla cambia: la gamma dei colori è limitatissima.
La prima rivoluzione avviene con l’introduzione dell’olio e, a metà dell’Ottocento, dei pigmenti chimici che consentono la grande esplosione cromatica dell’Impressionismo. Oggi siamo viziati, qualsiasi schermo digitale produce milioni di sfumature. Se da un lato questo favorisce la ricchezza cromatica, dall’altro impedisce di caratterizzare la singola sfumatura. Turner aveva passato anni a cercare una sfumatura appropriata di giallo. Una volta i colori avevano più, come dire, personalità!

SoM: La visione dei colori può essere condizionata dalla cultura? E dal sesso? Uomini e donne vedono gli stessi colori? 

RM: Contrariamente all’idea diffusa secondo cui la cultura cambia il modo in cui vediamo la realtà, nel caso dei colori non ci sono prove certe, anzi l’evidenza empirica sembra suggerire una grande stabilità dell’esperienza cromatica. Anche i miti circa gli eschimesi che vedrebbero più sfumature di bianco, sembrano ingiustificati. Noi e loro vediamo le stesse sfumature di bianco, ma gli eschimesi danno molti più nomi alle varie nuance senza che questo significhi che vedano qualcosa di diverso. L’idea prevalente oggi è che la percezione cromatica – a meno di differenze patologiche come nel caso dei daltonici e dei dicromatici – sia sostanzialmente identica tra le persone, a prescindere dal sesso o dalla cultura. Un’eccezione è rappresentata dal 12% delle donne che hanno un tipo di fotorecettore al colore in più, sono tetracromatiche. E tuttavia non ci sono prove certe del fatto che vedano più colori delle altre persone. Anche questo è un mistero.

SoM: Cos’hanno in comune Newton e i Pink Floyd? Il primo marzo l’album musicale “The dark side of the Moon” ha compiuto 45 anni. In copertina c’è un arcobaleno… 

RM: Newton è responsabile di un famoso errore che è diventato parte della nostra cultura, ovvero l’idea secondo cui nell’arcobaleno ci sarebbero 7 colori principali. In realtà, il grande scienziato, all’apice della sua fama, forzò questo numero per soddisfare le sue simpatie alchimistiche e numerologiche: 7 è un numero molto affascinante. Ci sono 7 note musicali, 7 giorni della settimana, 7 vizi, 7 virtù e così via. Sfortunatamente per lui, però, ci sono solo 6 tinte salienti nell’arcobaleno (3 colori primari e 3 colori secondari), un numero che non dipende dalla fisica, ma dalla fisiologia dell’occhio. Dunque, care maestre, smettiamola di insegnare i sette colori dell’arcobaleno! La cosa divertente è che, nel 1973, quando i Pink Floyd scelsero la copertina del loro album capolavoro, “The Dark Side of the Moon”, decisero per un omaggio al grande scienziato inglese: misero un prisma che divide la luce nei colori dell’arcobaleno. Dato che i Pink Floyd non sbagliano mai, però, misero correttamente 6 colori e non 7. Chissà che cosa ne avrebbe pensato Isaac Newton!

SoM: Oggi si parla molto di AR (realtà aumentata) oltre che di realtà virtuale. Che cosa si potrà fare con i colori?

RM: L’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie consentono di creare mondi virtuali. Tuttavia, ancora una volta, il colore non si dimostra così facile da trattare. Infatti, i sistemi di realtà virtuale e aumentata non sono in grado di farci vedere colori aggiuntivi rispetto ai familiari colori del nostro mondo. Come mai? Nessuno ha mai visto un colore che non esiste nel mondo fisico. Questo suggerirebbe che la posizione delle neuroscienze, secondo cui i colori sono creati dal cervello, sia sbagliata. Infatti, se lo fossero, con la realtà virtuale dovremmo riuscire a creare colori nuovi. Nei prossimi anni vedremo interessanti sviluppi dalla combinazione della intelligenza artificiale con le neuroscienze che metteranno alla prova i modelli esistenti sul colore.

Ragazze interrotte: Il mondo caleidoscopico del Disturbo Borderline di Personalità

Ragazze interrotte è un film che cerca di inquadrare l’esperienza e il vissuto del Disturbo borderline di personalità dandone uno scorcio visivo capace di mettere in evidenza le varie sfumature di questo disturbo e di riflettere su un disagio dai tratti caleidoscopici e multiformi.

Mattia De Franceschi

 

Tono dell’umore appiattito, risposte tangenziali alle domande ricevute e silenzi, lunghi momenti in cui flashback intrusivi emergono e fanno perdere per un istante i confini tra realtà e fantasia. “Come?” risponde Susanna Kaysen, interpretata da Winona Ryder nel film Ragazze interrotte (1999), lasciando intendere di non aver udito per niente la domanda posta dallo psichiatra. La ragazza fatica a rimanere lì, frammenti di ricordi le invadono il suo spazio mentale ed è come se si perdesse in quel ricordo rendendo instabile il contatto con la realtà. La protagonista del film è stata appena portata e ricoverata in una clinica psichiatrica dopo aver tentato il suicidio ingerendo insieme vodka e un flacone di aspirine.

Il film Ragazze interrotte cerca di inquadrare l’esperienza e il vissuto di quanto nel DSM-5 è riportato come Disturbo borderline di personalità e lo fa dandone uno scorcio visivo che permetta di potersi soffermare sulle varie sfumature e riflettere su un disagio dai tratti caleidoscopici e multiformi. Un modo di sentire che è descritto molto bene dalla stessa protagonista che in un’occasione di sconforto riporta “so cosa significa voler morire.. e che sorridere fa male.. e che ci provi ad inserirti ma non ci riesci… e che fai del male al tuo corpo per tentare di uccidere la cosa che hai dentro”.
Il disturbo borderline di personalità è annoverato nel Cluster B dei disturbi di personalità (DSM-5) insieme ai disturbi antisociale, istrionico e narcisistico di personalità. Gli individui con questi disturbi spesso appaiono amplificativi, emotivi o imprevedibili.

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Nello specifico il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da un pattern pervasivo d’instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti. Il soggetto borderline vive una mancata separazione dell’Io dal mondo esterno che comporta il confluire inarrestabile ed esplosivo di emozioni e pensieri senza alcun filtro e possibilità di poterli assimilare in modo funzionale. Tale meccanismo sembra essere dovuto all’incapacità inconscia di distinguere chiaramente tra il Sé, che include il senso d’identità personale, e il mondo esterno (Searles, 1988). Non essendo presente alcun argine che possa dare freno all’ondata emotiva destrutturante, il soggetto si attiva in modi imprevedibili per rispondere a tale condizione e in molti casi mette in atto comportamenti disfunzionali come gesti o minacce suicidarie oppure manifesta impulsività in aree potenzialmente dannose per se stesso come sesso non protetto, abuso di sostanze e guida spericolata.

Fragilità, incertezza e insicurezza tratteggiano il soggetto con disturbo borderline di personalità e la protagonista del film Ragazze interrotte si fa carico di queste angosce e le ripropone in modo più che umano dando voce a un disagio che spesso a parole diventa complicato poter descrivere, un malessere fatto di sofferenza psichica che si riverbera a livello fisico e sociale, una “interruzione” nel normale percorso del proprio essere.
Il Cinema aiuta a utilizzare il punto di vista interno del soggetto, permette di potersi immedesimare e accompagnare la protagonista nel suo percorso di catarsi, di presa di coscienza (o quasi) del proprio malessere e con essa la possibilità di poter forse superare tale condizione. Chissà se alcuni, guardando il film, possano essersi ritrovati in qualche tratto, sfumatura dei soggetti rappresentati e si siano chiesti cosa veramente significhi la dimensione Borderline riconoscendosi nell’ultima riflessione in chiusura del film in cui la protagonista dice “sono mai stata matta? Forse sì. O forse… è matta la vita”.

Le professioni dello psicologo

La psicologia è una scienza che investe un campo estremamente vasto. Durante il percorso di studi in psicologia è possibile acquisire notevoli conoscenze riguardanti non solo le relazioni esistenti tra le diverse aree del cervello, specifici processi cognitivi, le emozioni e il comportamento, ma anche quanto questi processi si manifestino all’interno della popolazione generale o patologica. 

 

La psicologia è una scienza che investe un campo estremamente vasto che spazia dalla biologia alla statistica. Di conseguenza, durante il percorso di studi in psicologia è possibile acquisire notevoli conoscenze riguardanti non solo le relazioni esistenti tra le diverse aree del cervello, specifici processi cognitivi (percezione, attenzione, memoria), le emozioni e il comportamento, ma anche quanto questi processi si manifestino all’interno della popolazione generale o patologica. Le diverse conoscenze apprese, dunque, riguardano ambiti differenti e trovano applicazione in svariati settori lavorativi.

Alcuni profili professionali ricoperti dallo psicologo sono noti a tutti, come per esempio occuparsi del disagio mentale ed emotivo, ma altri sono meno conosciuti.

In molti, infatti, scelgono di intraprendere carriere che non si realizzano nell’ambito del disagio mentale, ma in contesti dissimili tra loro.

Percorso di studi dello psicologo

Il percorso di studi in psicologia consta di due livelli: laurea triennale in scienze e tecniche psicologiche e laurea magistrale con un indirizzo specifico in una determinata area della psicologia.

Colui che consegue una laurea triennale in scienze e tecniche psicologiche, è chiamato “Dottore in tecniche psicologiche per i contesti sociali, organizzativi e del lavoro” o “Dottore in tecniche psicologiche per i servizi alla persona e alla comunità“. Tale figura professionale può svolgere, solo se supervisionato da uno Psicologo senior iscritto alla sezione A dell’albo, la professione nel settore delle tecniche psicologiche per i contesti sociali, organizzativi, del lavoro e della comunità. Un laureato in tecniche psicologiche potrebbe collaborare su un progetto in cui è previsto un intervento psicologico di valutazione cognitiva o riabilitativa, rivolto al singolo o a gruppi, nell’ambito della psicologia dello sviluppo, dell’educazione, in psicologia clinica e della salute.

Colui che consegue la laurea magistrale in psicologia, può operare come psicologo negli ambiti previsti dall’Ordinamento della professione. La professione di psicologo comprende l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, diagnosi, attività di abilitazione, di riabilitazione e di sostegno rivolte a persone, gruppi, organismi sociali e comunità. Inoltre comprende attività di sperimentazione, ricerca e formazione in tale ambito. In particolare l’indirizzo clinico consente una peculiare specializzazione nel settore della salute mentale, diagnosi psicologica e interventi volti all’aiuto. Oltre all’indirizzo clinico, ne esistono altri che permettono di acquisire abilità e compiti specifici in settori dedicati, come il lavoro, la comunità, le scienze cognitive.

Prima di accedere al mondo del lavoro è necessario effettuare un tirocinio abilitante per l’ammissione all’esame di stato che permette l’iscrizione all’apposito albo professionale. Lo psicologo junior dovrà iscriversi all’Albo B, mentre lo psicologo magistrale all’Albo A.

Chi è lo psicologo

Lo psicologo è un professionista che studia i processi mentali, cognitivi, comportamenti e conosce le tecniche e gli strumenti necessari per effettuare un intervento sulla psiche umana e sulle sue manifestazioni. Lo psicologo non è un medico e per questo non prescrive farmaci ma pratica terapie, individuali o di gruppo e applica dei test, attitudinali, di orientamento scolastico e professionale.

Lo psicologo è una figura diversa rispetto allo psicoterapeuta, il quale ha frequentato una scuola di specializzazione in psicoterapia della durata di almeno 4 anni, riconosciuta dal MIUR.

Lo psicoterapeuta, rispetto allo psicologo, è abilitato a svolgere psicoterapia ovvero un percorso di trattamento per i disturbi psicopatologici, utilizzando specifiche tecniche terapeutiche apprese nel percorso di specializzazione che non possono essere applicate dagli psicologi.

Lo psicologo può svolgere le seguenti attività:

  • somministrare test
  • svolgere colloqui a fini diagnostici
  • selezione del personale
  • realizzare attività di orientamento tramite colloqui individuali e di gruppo
  • eseguire attività educative in piccoli gruppi per promuovere abilità psicosociali.

Tali competenze che si acquisiscono attraverso gli esami effettuati durante il corso di laurea e il tirocinio eseguito pre e post lauream, consentono, successivamente, di accedere a diversi settori lavorativi, previa abilitazione alla professione.

Psicologia clinica

Gli psicologi clinici valutano e trattano i disturbi mentali, emotivi e comportamentali che variano dai gravi disturbi legati alla sfera del pensiero ai disturbi d’ansia. Alcuni psicologi clinici lavorano sul singolo soggetto altri si concentrano su famiglia o coppie, gruppi di minoranze etniche o persone anziane. Gli psicologi clinici collaborano con i medici per ottenere terapie di supporto farmacologico o maggiori ragguagli sui problemi fisici cui seguono manifestazioni psicologiche. Lo psicologo clinico espleta le sue funzioni sia in contesti privati, attraverso l’attività libero professionale, sia in strutture pubbliche quali centri di salute mentale, consultori, ospedali.

Come già detto lo psicologo clinico deve essere distinto dallo psicoterapeuta, in particolar modo lo psicologo si occupa di analizzare la richiesta di aiuto che gli si presenta, fornire una consulenza psicologica e/o proporre un percorso di sostegno psicologico in risposta ad una momento critico affrontato dalla persona come sancito dall’Art. 3 del Codice deontologico degli psicologi italiani “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità”.

Psicologia cognitiva o psicologia generale

Gli psicologi cognitivi studiano le funzioni cognitive superiori dell’essere umano come la percezione, il pensiero e la memoria. Gli psicologi cognitivi sono interessati a capire come la mente rappresenta la realtà, le modalità di apprendimento di una serie di nozioni e come il linguaggio è compreso e riprodotto. Gli psicologi cognitivi collaborano con i neuroscienziati per capire cosa avviene a livello cognitivo e quali sono le basi biologiche del disagio mentale. Gli psicologi cognitivi operano principalmente in ambito accademico e di ricerca nelle Università come docenti e ricercatori e in Istituti di Ricerca pubblici e privati.

Psicologia di Comunità

Gli psicologi di comunità lavorano per rafforzare le capacità di persone accomunate da uno stesso disagio psichico.  Aiutano, dunque, ad accedere alle risorse cognitive presentate dalle persone aventi il disagio e a collaborare con gli altri presenti in comunità per migliorare il loro stile di vita. Gli psicologi di comunità facilitano il fronteggiamento di circostanze negative o traumatiche, per sviluppare maggiori capacità di interazione tra gruppi. Esempi di interventi in tale settore comprendono il sostegno alle vittime di una calamità, collaborazione con le scuole per prevenire il bullismo, etc.

Psicologia dello sviluppo o evolutiva

Gli psicologi dello sviluppo studiano lo sviluppo psicologico dell’essere umano durante tutto l’arco della vita. Gli psicologi dello sviluppo lavorano sui bambini e adolescenti e sugli anziani attraverso l’applicazione di tecniche di intervento psicologico e psicodiagnostico che consentono di superare il disagio.

Questa figura può lavorare nell’ambito dei Servizi Sanitari Nazionali, nei servizi territoriali offerti dalle Aziende Sanitarie Locali o nelle Aziende Ospedaliere in particolare nei reparti di Neuropsichiatria Infantile. Lo psicologo dello sviluppo iscritto regolarmente all’albo può lavorare inoltre negli Istituti privati e/o nei centri privati dedicati all’età evolutiva.

Lo psicologo dello sviluppo, regolarmente iscritto all’albo, può dedicarsi alla libera professione non dimenticando però la differenza, in termini di interventi attuabili, con lo psicoterapeuta specializzato in psicoterapia dell’età evolutiva.

Psicologi sperimentali

Gli psicologi sperimentali, che condividono numerose caratteristiche con gli psicologi cognitivi già citati, sono interessati ad una vasta gamma di fenomeni psicologici, come i processi cognitivi, funzioni esecutive, working memory, i comportamenti e gli atteggiamenti. Questi psicologi conducono delle ricerche in equipe sulle funzioni di base del cervello e sui comportamenti individuali messi in atto da animali, neonati, adulti sani, persone con disturbi emotivi, anziani. Alcune ricerche si svolgono in laboratorio dove le condizioni di studio possono essere controllate con attenzione; altre sono effettuate sul campo, come le scuole e gli ospedali, per verificare direttamente come si manifesta un dato comportamento. La maggior parte degli psicologi sperimentali che svolgono il lavoro di ricercatore espletano le loro funzioni in ambito universitario o in istituti privati dove è possibile condurre delle ricerche attraverso appositi strumenti adatti allo scopo.

Psicologia forense

Gli psicologi forensi applicano i principi psicologici alle questioni legali. La loro esperienza è spesso essenziale all’interno del sistema giudiziario. Possono, ad esempio, aiutare un giudice nel decidere quale genitore dovrebbe avere la custodia di un bambino o valutare la competenza mentale di un imputato prima di essere processato. Lo psicologo forense svolge anche valutazioni psicologiche su testimoni o giurie.

Psicologi della Salute

Gli psicologi della salute sono specializzati nell’individuazione di fattori biologici, psicologici e sociali che possano influenzare la salute mentale. Studiano come i pazienti gestiscono la malattia e quali possano essere le modalità più efficaci per controllare il dolore e il benessere in generale. Per questo, sono state sviluppate delle strategie di assistenza sanitaria che favoriscono lo sviluppo emotivo e fisico. Sensibilizzano, inoltre, i tecnici sanitari ai problemi psicologici derivanti dal dolore e dallo stress. Lo psicologo della salute opera in squadra con altri operatori sanitari o da solo per fornire ai pazienti una assistenza sanitaria completa.

Psicologia del lavoro e delle organizzazioni

Gli psicologi del lavoro e delle organizzazioni applicano i principi della psicologia a contesti lavorativi, per migliorare la produttività, la salute dei lavoratori e la qualità della vita lavorativa. Molti sono specialisti delle risorse umane e facilitano la relazione tra l’azienda e il personale, promuovendo la formazione e lo sviluppo. Gli psicologi del lavoro e delle organizzazioni applicano i test e altre procedure per selezionare dipendenti e per promuovere le risorse aziendali. Inoltre, molti psicologi del lavoro e delle organizzazioni svolgono attività di consulenza nella gestione di settori quali la pianificazione strategica in una azienda, la gestione delle risorse o fronteggiamento delle problematiche, per promuovere il cambiamento organizzativo.  La figura dello psicologo del lavoro diventa estremamente importante nei casi di mobbing o di elevato stress-lavoro correlato che possono verificarsi in alcune situazioni. In questi casi è possibile sia svolgere un intervento sul lavoratore “vittima” sia attuare un intervento formativo nei contesti aziendali, coinvolgendo quindi tutto il gruppo di lavoro.

Neuropsicologia

Il neuropsicologo studia la relazione esistente tra i sistemi cerebrali e il comportamento manifesto attraverso la messa in atto di tecniche di neuroimaging, come la tomografia ad emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI), e studi di psicofisica comportamentale. Inoltre, il neuropsicologo valuta e riabilita attraverso l’applicazione di test neurocognitivi il funzionamento cognitivo non solo in caso di lesione cerebrale ma anche in pazienti con malattie neurodegenerative (ad esempio, Alzheimer, Parkinson, etc.) e in caso di “invecchiamento precoce”.

Psicometria

Gli psicologi esperti in statistica o psicometristi utilizzano metodi e tecniche per la progettazione di esperimenti e analisi dei dati. Alcuni sviluppano nuove procedure statistiche, altri creano strategie di ricerca per valutare l’effetto di programmi sociali, educativi e psicologici. Essi, inoltre, sviluppano e valutano modelli matematici promuovendo nuovi metodi volti a migliorare i test psicologici. L’ambito d’occupazione principale è quello della ricerca in ambito Universitario.

Psicologia scolastica

Gli psicologi scolastici sono impegnati nel fornire servizi psicologici completi nelle scuole a bambini, adolescenti e famiglie. Essi valutano e orientano gli studenti su tematiche personali o di gruppo, intervengono su situazioni problematiche anche a livello familiare e gestiscono il personale scolastico attraverso la realizzazione di interventi comportamentali. La maggior parte delle strutture scolastiche impiegano gli psicologi a tempo pieno.

Psicologia sociale

Gli psicologi sociali studiano come la vita mentale di una persona e il comportamento siano modellati dalle interazioni con altre persone. Essi sono interessati a tutti gli aspetti delle relazioni interpersonali, comprese le influenze sia individuali sia di gruppo, migliorandone l’interazione. Inoltre, essi facilitano la comprensione di atteggiamenti sociali dannosi,  come nel caso di pregiudizio, facilitandone il cambiamento. Gli psicologi sociali sono presenti in una varietà di ambienti: istituzioni accademiche, dove svolgono prettamente ricerca sociale, agenzie di pubblicità e società di ricerche di mercato dove studiano gli atteggiamenti, i comportamenti e le preferenze dei consumatori, aziende o enti pubblici, dove aiutano a gestire il conflitto o eventuali disagi.

Psicologia dello sport

Gli psicologi dello sport aiutano gli atleti a focalizzare la loro attenzione sul raggiungimento degli obiettivi da raggiungere, diventando di conseguenza più motivati e capaci di gestire l’ansia e la paura del fallimento che spesso accompagnano l’attività agonistica.  Sono presenti in diversi club calcistici o ambienti sportivi in cui si svolge attività sportiva ad alti livelli di competitività.

Per concludere, sono stati elencati una vasta gamma di profili professionali che lo psicologo potrebbe ricoprire nel mondo del lavoro.

E’ necessario sottolineare che, dopo la laurea, è possibile conseguire un ulteriore diploma di specializzazione – ad esempio in psicoterapia, un master o un dottorato di ricerca, a seconda dei propri obiettivi professionali, che potrebbero ulteriormente implementare le alternative di scelta lavorativa, sia in campo pubblico sia privato, aumentando notevolmente il ventaglio di occasioni possibili da raggiungere in ambito lavorativo.

Dall’ansia al rischio di suicidio: le conseguenze del cyberbullismo sulla salute mentale

La possibilità di accedere ovunque e in qualunque momento con chiunque nel mondo tramite internet e social network ha incrementato un nuovo e preoccupante fenomeno: il cyberbullismo. Nonostante ci siano diverse similitudini con il bullismo tradizionale, gli approcci classici per contrastarlo sembrano inefficaci per il bullismo che si realizza nei mondi virtuali e dei social network.

 

Il cyberbullismo è diventato uno dei maggiori problemi psicosociali sia nei contesti scolastici che nella società in generale; esso è stato posto all’attenzione dell’opinione pubblica, politica e dell’industria della tecnologia per le conseguenze dannose e spesso estreme nei confronti di chi lo subisce.

Si stima che potenzialmente ne siano oggetto circa il 90 % dei giovani appartenenti ai paesi industrializzati, tra i 13 e i 17 anni che hanno ampia disponibilità all’utilizzo di internet con una frequenza giornaliera di accesso alle maggiori piattaforme social (Lenhart et al., 2016).

In particolare tra gli utenti Microsoft a livello mondiale, circa il 37 % dei giovani tra gli 8 e i 17 ha riportato di essere stato vittima di cyberbullismo, mentre il 24 % riferisce di essere stato tra i perpetuatori.

Le conseguenze psicologiche del cyberbullismo

Tre le conseguenze psicologiche legate al cyberbullismo vi sono ansia, depressione e nei casi più estremi il suicidio (Kowalski et al., 2014); è risultato pertanto necessario comprendere approfonditamente il ruolo della vittimizzazione connessa al cyberbullismo per la salute mentale con il fine di offrire un adeguato supporto psicosociale a chi ne viene colpito.

Il cyberbullismo è una nuova e più sottile forma di bullismo, definito come la ripetizione intenzionale di atti aggressivi tra un perpetuatore e una vittima, all’interno di una relazione sbilanciata di potere, tramite tecnologie di comunicazione (Kowalski et al., 2014).

Contrariamente al bullismo tradizionale, “offline” per così dire, quello perpetuato tramite tecnologie è caratterizzato in primo luogo dall’anonimato del perpetuatore in quanto non vi è tra questo e la sua vittima un reale contatto vis-à-vis che renderebbe immediate ed evidenti le conseguenze di un atto aggressivo di bullismo sulla vittima.

L’anonimato del perpetuatore inoltre allarga maggiormente la forbice di potere con la sua vittima; è infatti difficile per questo tipo di bullismo constatare la sopraffazione ad esempio fisica del bullo su un altro e pertanto rispetto a quello reale, il cyberbullismo utilizza altre risorse di potere come ad esempio il numero dei sostenitori online dell’atto offensivo.

In aggiunta, la caratteristica che più contraddistingue il bullismo tramite social network da quello “reale” è il fatto che il primo si estende ad un numero maggiore di persone, dal momento che internet consente di poter interfacciarsi con chiunque in qualunque momento, abbattendo le barriere dello spazio e del tempo (Landoll et al., 2015).

In secondo luogo le conseguenze negative, emotive e comportamentali del cyberbullismo potrebbero persistere in modo significativo nel tempo rispetto a quelle legate al vissuto di un atto di bullismo tradizionale, come suggerito da Wright (2018).

Nel loro studio, Kowalski, Limber & McCord (2018) sottolineano come tra le conseguenze più comuni del cyberbullismo sulla salute mentale vi siano problematiche nella regolazione emotiva, comportamentali, riduzione dell’autostima e uso di sostanze; gli autori inoltre ricordano che il cyberbullismo è correlato a problematiche psicosociali anche se rimane ancora poco chiaro se sia il cyberbullismo da solo a determinarle.

Diverse vittime di cyberbullismo infatti potrebbero aver già manifestato in passato vulnerabilità preesistenti, come depressione, ansia sociale ed esclusione sociale che fungerebbero da fattori di rischio per il cyberbullismo aumentando la probabilità di essere poi bullizzati online.

Fattori protettivi e prevenzione del cyberbullismo

Tuttavia molti studi (Rose, Tynes, 2015) si sono concentrati sui fattori protettivi che possono prevenire l’insorgenza di disturbi psicosociali a seguito di atti di cyberbullismo come la vicinanza della famiglia, il supporto dei gruppi di pari e l’ambiente scolastico oltre che caratteristiche personologiche e il genere.

Studi preliminari (Kowalski, Limber & McCord, 2018) hanno infatti evidenziato nel genere femminile un fattore di rischio per lo sviluppo di sintomi ansiosi e depressivi a seguito di un atto di cyberbullismo, mentre il genere maschile sarebbe più associato al discontrollo comportamentale.

Le strategie di trattamento e prevenzione del cyberbullismo sono efficaci quando sono multilivello, cioè quando combinano insieme approcci focalizzati sull’individuo avendo come target sia i comportamenti online rischiosi sia rivolgendosi alle potenziali preesistenti vulnerabilità.

Tali approcci focalizzati sull’individuo si accompagnano in parallelo a interventi cosiddetti “system-level”, partendo dalla vittimizzazione legata al pregiudizio sociale che haorigine da fattori come il razzismo e la disabilità, fino ad arrivare a interventi su insegnanti e genitori, per la promozione di comportamenti sani soprattutto sulle piattaforme online (Kowalski, Limber & McCord, 2018).

Tuttavia la ricerca che fino ad ora si è concentrata sullo sviluppo di programmi di prevenzione del cyberbullismo mostra da una parte la mancanza di un’adeguata base empirica, dall’altra i trattamenti proposti e basati su protocolli si fondano su una tradizionale letteratura anti-bullismo che risulta poco aggiornata circa le nuove dinamiche della vittimizzazione a seguito di cyberbullismo.

È pertanto necessario partire da evidenze empiriche circa tale fenomeno per valutare quale siano effettivamente le sue conseguenze sulla salute mentale (Pingault & Schoeler, 2017).

A parere di Pingault e Schoeler (2017) ricerche future dovranno chiarire se il cyberbullismo è legato a specifici outcome sulla salute mentale o se al contrario rappresenta un fattore di rischio non specifico tra le categorie diagnostiche psicopatologiche; esse dovranno inoltre identificare i suoi fattori di rischio e comprendere come un vissuto di cyberbullismo possa alterare meccanismi biologici favorenti l’insorgenza di un disturbo psicologico.

Ci sono evidenze infatti che associano il cyberbullismo alla disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (González-Cabrera, Calvete et al., 2017)

Inoltre i ricercatori dovranno focalizzarsi sugli aspetti che contraddistinguono il cyberbullismo da quello più tradizionale, come ad esempio l’ambiente virtuale online, in cui si esperisce la vittimizzazione in quanto è probabile che abbia un impatto sui conseguenti outcome.

Per esempio, un individuo potrebbe essere ad alto rischio nel diventare una vittima di cyberbullismo a seconda del tempo speso sulle piattaforme social: è stato infatti mostrato come una maggiore esposizione online in termini di ore possa aumentare il rischio sia di essere vittimizzati che di perpetuare atti di cyberbullismo (Pingault & Schoeler, 2017).

Altri potenziali rischi potrebbero essere associati alla tipologia di piattaforma social utilizzata, Facebook, piuttosto che Instagram o Twitter, al grado di riservatezza che garantiscono o alle diverse modalità di accesso e uso delle stesse.

Secondo Kowalski, Limber e McCord (2018) un maggiore approfondimento delle aree che la ricerca individua come critiche e favorenti il rischio di essere vittimizzati online potrebbe portare alla realizzazione di programmi di prevenzione e interventi maggiormente adatti al fenomeno del cyberbullismo, riducendo così le conseguenze dannose associate ad esso.

Social media e minori. Un convegno di studi a Palermo – Report dall’evento

Internet e minori: un connubio attualissimo e inevitabile, un’interazione che può provocare o rinforzare disagi evolutivi, o viceversa essere portatrice di evoluzione e opportunità educative.

 

Sul complesso rapporto tra minori e tecnologia si è focalizzato il Convegno “Comunicazione e minori” svoltosi lo scorso 9 marzo presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo.

Psicologi e giuristi sono intervenuti delineando rischi e opportunità del Web, sottolineando quanto lo Stato abbia fatto e debba ancora fare, a livello normativo, per tutelare i minori dagli abusi e dalle violenze perpetrate online, e quanto la terapia psicologica possa essere di supporto per minori e famiglie verso la direzione di un uso consapevole degli strumenti tecnologici.

Il mondo virtuale deve essere analizzato sotto il duplice aspetto dei rischi e dei vantaggi che esso arreca ai minori – spiega Concetta Polizzi, ricercatore in Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Palermo – Se gli effetti deleteri dei media riguardano l’alterazione dello sviluppo affettivo, l’analfabetizzazione emotiva, che si estrinseca in atti di bullismo, e la frammentazione dell’attenzione, un uso adeguato potenzia le abilità cognitive, come la reticolarità del pensiero. Che fare allora per incentivare un uso funzionale dei media e ridurre i rischi di uso maldestro e nocivo? Le linee da seguire riguardano da un lato lo sviluppo di high skills nei minori, come la capacità di autotutela durante la navigazione e la capacità di chiedere aiuto ai genitori in caso di sospetta minaccia, dall’altro un lavoro con i genitori e sulla loro capacità di leggere i bisogni evolutivi del bambino.

Un bambino alla ricerca di risposte identitarie, che ricerca nel web sostegno e riconoscimento, riflesso di un sistema sociale franato nel compito educativo di contenimento e supporto emotivo.

La crisi dell’adolescente di oggi è il riflesso della crisi più generale della società, una società narcisista e individualista, dove crollano i garanti sociali e la figura del padre evapora, come sostiene Recalcati – sottolinea Patrizia Muccioli, Responsabile dell’ambulatorio di psicoterapia dell’età adolescenziale del servizio di Neuropsichiatria infantile dell’ASP di Palermo – Figli del permissivismo educativo e della svalorizzazione del limite, i minori si nutrono del potere della tecnologia, poco tollerando la frustrazione e amplificando l’analfabetismo emotivo, mentre soffrono di una solitudine degli affetti.

Affetti vissuti in maniera disfunzionale, prepotente, poiché la chat è il luogo degli agiti narcisistici, come nel fenomeno del sexting, frutto della sovraesposizione mediatica ed espressione di un corpo snaturato a oggetto di consenso, a cui dare un voto.

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Comunicazione e minori. Convegno di studi a Palermo - Report dall'evento - Imm1

Imm. 1 – Immagine dall’evento “Comunicazione e minori”

 

La realtà virtuale, quindi, come ambiente da cui rifuggire o piuttosto come mezzo da cui partire per progettare una terapia da sovraesposizione mediatica?

Il computer, a dispetto di quanto prima detto, salva il minore da danni maggiori, nella misura in cui, in qualche modo, lo aiuta a costruire una rete sociale, salvando il Suo Sé invisibile, attraverso le amicizie su Facebook, evitando atti definitivi di suicidio – continua Muccioli – Ecco perché la terapia deve allearsi con il PC, a fronte del suo ruolo compensativo di vuoti affettivi, e prevedere altresì metodiche come laboratori creativi, colloqui con i genitori, psicoterapia.

Protezione del minore dai danni di un uso disfunzionale del virtuale, ma altresì promozione di un uso appropriato, moderato, partecipato e consapevole, che miri allo sviluppo di abilità positive, come la reticolarità del pensiero o la sperimentazione creativa di Sé virtuali che non pregiudichino il contatto con la realtà. Protezione, promozione e partecipazione, tre principi su cui si sofferma anche il diritto nei documenti che riguardano il bambino e la sua difesa.

Alla base dei principali documenti a difesa del minore come la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 vi è sia un’esigenza di tutela, ribadita anche nel rapporto con la TV nel 1996, ma anche di partecipazione del minore alle decisioni che lo riguardano, come le regole sull’accesso a Internet – precisa la professoressa Marcella Di Stefano, Professore Ordinario all’Università degli Studi di Messina – L’obiettivo è attuale: l’educazione partecipata a un corretto utilizzo, ribadita da un recente documento datato Dicembre 2017 e adottato dal Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Una visione con cui lo Stato intende il bambino, di tipo propositiva, non squalificante, consapevole dell’importanza del coinvolgimento del minore nel progetto educativo di utilizzo funzionale dei media; una visione che concepisce la realtà virtuale come realtà da demonizzare o contro cui inveire tout court. Ecco allora strutturarsi un progetto più realistico di adesione a una “realtà vera” in cui il virtuale non può più considerarsi opzionale, ma non per questo deve rischiare di agire in maniera indisciplinata, controllando le vite dei minori e determinando dei danni evolutivi a loro volta difficilmente gestibili nell’arco di vita.

Un genitore fantastico! di L. Donodoni – Recensione del libro

Un genitore fantastico è un manuale di Luca Dondoni con un’impostazione cognitivo-comportamentale e si rivolge ai genitori allo scopo di risolvere i problemi quotidiani relativi all’educazione dei figli.

 

Il bambino non vuole fare i compiti? Lascia la camera in completo disordine? Spesso fa perdere la pazienza con capricci esagerati? Come gestire queste situazioni quotidiane e che riguardano la maggior parte delle famiglie? Lo scopo del libro Un genitore fantastico è quello di fornire delle strategie che possano diminuire i comportamenti problematici dei bambini e aumentare quelli positivi e adeguati, quali studiare, tenere la camera in ordine, non litigare o picchiare compagni o fratelli, ecc.

Un genitore fantastico: l’analisi applicata del comportamento

L’impostazione teorica alla quale si fa riferimento è quella dell’analisi applicata del comportamento, che spiega come funziona il comportamento dell’essere umano e come, secondo le teorie dell’apprendimento, sia possibile potenziare e aumentare la frequenza dei comportamenti adattivi e funzionali e diminuire quelli dannosi e disturbanti.

Innanzitutto, l’autore di Un genitore fantastico ci spiega quanto sia importante il linguaggio per spiegare le situazioni problematiche. Utilizzare etichette, aggettivi e un linguaggio vago non consente di comprendere quali siano le reali situazioni che si intendono modificare. Mai etichettare un bambino come “capriccioso”, “timido”, “ribelle”, ecc.; è preferibile descrivere le azioni problematiche e la frequenza con cui si verificano, collocandoli nello specifico nello spazio e nel tempo.

A questo punto ampio spazio viene riservato nel libro alle teorie del comportamento relative a condizionamento classico e condizionamento operante, anche attraverso esempi concreti. L’autore ci spiega come sia importante descrivere le singole situazioni, considerando lo schema seguente: antecedenti – comportamento – conseguenze.

Secondo il condizionamento operante, le conseguenze hanno un effetto sul comportamento e questo spiega perché un rinforzo positivo aumenta la probabilità che quel comportamento si ripeta.

Si parla di rinforzo positivo quando un comportamento è seguito immediatamente da uno stimolo e, come risultato, comportamenti simili capiteranno più frequentemente in futuro. Chiameremo “rinforzatore” lo stimolo che ha determinato questo cambiamento.

Vengono di seguito forniti esempi di rinforzi positivi e quali caratteristiche debbano possedere per essere efficaci.

Il fratello del rinforzo positivo è il rinforzo negativo, che, contrariamente a quanto si possa pensare, non indica una punizione.

Parliamo di rinforzo negativo quando un comportamento produce la cessazione o la riduzione di uno stimolo e, come risultato, abbiamo un aumento di comportamenti simili in futuro.

Anche in questo caso seguono numerosi esempi, tesi a specificare in che modo utilizzare il rinforzo negativo, il quale, se non utilizzato in maniera adeguata, può dare origine a paure ingiustificate.

Altra strategia descritta, facente parte delle teorie dell’apprendimento, è quella dell’estinzione.

Quando un comportamento non è più seguito da rinforzi, diventerà via via meno frequente, fino a sparire del tutto.

Tale strategia è utile per diminuire i capricci dei bambini: quando ad es. piangono o si arrabbiano molto se non gli si compra il gelato o un giocattolo, se si ignora il capriccio e il comportamento problematico, si riduce la sua frequenza e la sua durata. In sostanza, non viene più data attenzione ad un comportamento problematico allo scopo di eliminarlo.

A questo punto del libro Un genitore fantastico, si descrive nel dettaglio come educare attraverso le regole, specificando esempi di regole valide e come esse siano generalmente seguite da conseguenze sia immediate che a lungo termine. Sebbene le conseguenze a lungo termine siano quelle più utili e adattive, se le conseguenze immediate non sono abbastanza soddisfacenti e coinvolgenti è difficile che si segua una regola. Ad esempio un bambino sarà più motivato ad ascoltare una lezione o a fare i compiti se questo comporta delle conseguenze positive nell’immediato (ad es. mangiare un gelato, guardare la tv, ecc).

Segue la descrizione della token economy, ossia un programma in cui, per ogni comportamento adeguato precedentemente concordato, è possibile ricevere dei gettoni che potranno poi essere scambiati con dei premi veri e propri. Viene descritto nel dettaglio come definire la lista dei comportamenti da premiare e quella dei premi, in modo tale che il programma risulti efficace.

Il libro termina con delle indicazioni concrete su come promuovere e potenziare le abilità sociali e relazionali dei propri figli, ponendosi come esempio e rinforzando i comportamenti positivi.

Un genitore fantastico è un libro semplice, di facile lettura, scritto con un linguaggio alla portata di tutti e ricco di esempi concreti e quotidiani. Un ottimo suggerimento per qualunque genitore.

Le relazioni amorose migliorano la salute dei giovani omosessuali, ma non dei giovani bisessuali – FluIDsex

Per giovani appartenenti a minoranze sessuali e di genere, avere un partner può amplificare le esperienze positive della vita ed essere un sostegno per affrontare quelle difficili. Diversi i risultati tra i gruppi di giovani omosessuali e giovani bisessuali.

 

I giovani appartenenti a minoranze sessuali sperimentano elevati tassi di disagi psicologici. Per questo motivo è importante identificare quali possano essere i fattori protettivi capaci di ridurre il rischio di sofferenza psicologica. A questo proposito, da uno studio condotto dalla Cincinnati University in collaborazione con la Northwestern Medicine University è emerso che le relazioni amorose tra giovani omosessuali possano essere considerate un fattore protettivo.

Nel presente studio sono state indagate le associazioni presenti tra coinvolgimento relazionale e disagio psicologico in un gruppo di giovani appartenenti a minoranze sessuali. Questa ricerca riveste una notevole importanza in quanto studi precedenti hanno evidenziato dati contrastanti rispetto al ruolo che il sostegno di genitori e amici possa avere di fronte agli effetti negativi derivanti da atti di bullismo omofobico nei confronti di ragazzi non eterosessuali.

Le relazioni tra ragazzi omosessuali: lo studio e i risultati

Il presente studio è stato condotto tramite i dati provenienti dal progetto Q-2, ricerca longitudinale condotta su 248 giovani omosessuali, bisessuali e transgender americani di Chicago, di età compresa tra i 16 ed i 20 anni. I dati di questo studio sono stati raccolti otto volte, in un periodo di cinque anni. I partecipanti hanno riferito meno stress psicologico quando erano in una relazione rispetto a quando non lo erano ed il coinvolgimento nelle relazioni ha ridotto l’associazione negativa tra vittimizzazione basata sullo stato di minoranza sessuale e disagio psicologico.

Questi risultati suggeriscono come essere in una relazione romantica possa promuovere la salute mentale per molti giovani appartenenti a minoranze sessuali.

L’autrice principale dello studio, professoressa di Psicologia presso l’Università di Cincinnati ritiene che, in base a questi dati, le domande che la ricerca e gli operatori della salute mentale dovranno porsi per aiutare gli adolescenti omosessuali riguarderanno la facilitazione dell’instaurazione di relazioni romantiche, così che i giovani appartenenti a minoranze sessuali possano avere le stesse esperienze di incontri-romantici che hanno i loro coetanei eterosessuali.

Avere un partner può amplificare le esperienze positive della vita ed essere un sostegno per affrontare quelle difficili, aggiunge Brian Mustanksi, direttore dell’Istituto per la salute ed il benessere delle minoranze sessuali e di genere presso la Scuola di Medicina Feinberg della Northwestern University.

Ulteriori risultati di questo studio riguardano invece il gruppo dei giovani bisessuali, i quali esiti differiscono dal gruppo omosessuale: il coinvolgimento romantico è associato ad un maggiore disagio psicologico. I giovani bisessuali nel momento in cui erano in relazione amorose riportavano il 19% in più di sintomi ansiosi rispetto a quando non erano impegnati.

Una possibile motivazione spiegata da Mustanksi risiede nel fatto che le relazioni delle persone bisessuali nascondono stressor unici rispetto a qualsiasi altro tipo di relazione: gli uomini bisessuali nelle proprie relazioni con donne non riescono a parlare apertamente del proprio orientamento ed in generale sperimentano spesso lo stereotipo che li vede “omosessuali incapaci di accettarsi”, annullando così il riconoscimento del loro orientamento; mentre le donne bisessuali impegnate in relazioni con uomini riferiscono spesso che i proprio partner oltre a dare per scontati incontri sessuali a tre (con un’altra donna), sentono la propria virilità minacciata dalla “mascolinità” della partner.

Per questi motivi, la ricerca sui fattori protettivi per la salute mentale dei giovani bisessuali rimane un terreno ancora da esplorare.

 


 

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Salute mentale: intervenire a scuola per non intervenire domani

I dati di una ricerca condotta su 50.000 bambini confermano che integrare nel sistema scolastico la cura della salute mentale permette di gestire efficacemente problematiche di attenzione, umore, ansia e abuso di sostanze.

Negli Stati Uniti circa il 30-40% dei bambini riceve una diagnosi di disturbo mentale prima dei 14 anni.
Una meta-analisi di 43 studi effettuata dal ricercatore Jonathan Comer e colleghi, del centro per bambini e famiglie della Florida International University, ha mostrato come l’assistenza scolastica sanitaria per la salute mentale sia efficace nel ridurre queste problematiche nei bambini.

I servizi di salute mentale scolastica presentano il vantaggio di ridurre le disparità di accesso a questa tipologia di servizi. Le famiglie accettano maggiormente questa soluzione perrchè integrata nell’ambiente scolastico ed inoltre possono usufruirne i bambini provenienti da contesti minoritari/economicamente svantaggiati, i quali altrimenti rimarrebbero esclusi da questo tipo di servizio, .
Inoltre, come sottolinea l’autore principale, Amanda Sanchez,

[blockquote style=”1″]Il trattamento dei bambini nelle scuole può superare in modo efficace problemi di costi, trasporto e stigmatizzazione che tipicamente limitano l’ampio utilizzo dei servizi di salute mentale[/blockquote].

Salute mentale: i risultati della ricerca su bambini tra i 6 e gli 11 anni

La ricerca ha analizzato 43 studi, i cui risultati sono derivati dai dati di circa 50000 bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, i quali hanno partecipato ad attività di prevenzione e intervento nell’ambito della salute mentale scolastica durante la scuola elementare.
Lo scopo della meta-analisi è stato quello di esaminare l’efficacia complessiva dei servizi di salute mentale scolastica e l’efficacia relativa ai vari modelli di intervento che differivano per format e intensità degli interventi proposti.

I risultati sostengono un’efficacia complessiva dell’assistenza sanitaria mentale scolastica.
Le analisi di follow-up hanno rivelato una particolare efficacia quando i servizi si erano posti come obiettivo gestire i problemi di attenzione, umore, ansia ed abuso di sostanze.
Infine, i trattamenti implementati più volte a settimana hanno mostrato un’efficacia due volte maggiore rispetto ai trattamenti su base settimanale o meno.

Alla luce di questi risultati si ritiene importante avanzare una considerazione realistica: purtroppo attualmente non tutte le istituzioni scolastiche dispongono delle risorse adeguate a questo tipo di intervento.
Gli autori ritengono che una possibile strategia interessante sarebbe quella di formare gli insegnanti affinché vengano sempre più sensibilizzati nell’area della salute mentale per supportare i professionisti nel lavoro di prevenzione e intervento precoce.

 

Fissando il sole (2017), riflettere sui temi della sofferenza esistenziale e sulla paura della morte in psicoterapia

Irvin D. Yalom, psichiatra, professore emerito alla Stanford University e scrittore, in Fissando il sole, come in molte altre sue opere, affronta diversi temi esistenziali perché, a suo parere, rivestono un ruolo importante nel creare sofferenza emotiva negli individui, un ruolo più rilevante di quanto gli venga in genere riconosciuto.

 

Già nel libro Existential Psyhotherapy del 1980 esamina quelli che a suo parere rappresentano dei temi importanti ai fini della psicoterapia: la morte, l’isolamento, il significato della vita e la libertà. In Fissando il sole approfondisce, invece, il tema della paura della morte che si può presentare in modo indiretto ad esempio sotto forma di inquietudine generalizzata, o nascosta dietro altri sintomi, oppure come sentimento cosciente di angoscia e in altri casi ancora come un timore che impedisce la realizzazione personale.

Nell’epigrafe all’inizio del libro è riportata la scritta “Le soleil ni la mort ne se peuvent regarder en face” (Né il sole né la morte si possono guardare fisso) di François de La Rochefoucauld, e tuttavia Yalom commenta:
[blockquote style=”1″]Non raccomanderei a nessuno di fissare il sole, ma fissare la morte è un’altra faccenda. Puntare uno sguardo deciso e risoluto sulla morte è appunto il messaggio di questo libro.[/blockquote]

Il suo intento è trasformare la paura in risorsa. Si tratta di affrontare una realtà ineluttabile per impedire che l’angoscia, rimanendo ‘inascoltata’, ostacoli la realizzazione personale dell’individuo. Ogni capitolo si conclude con una riflessione che ribadisce il vantaggio di ‘fissare il sole’.

Anche in Fissando il sole, così come nelle sue precedenti pubblicazioni, fa spesso riferimento al pensiero dei filosofi greci classici, che ritiene anche oggi attuale e di grande rilevanza. In effetti, i passaggi delle terapie che riporta rivelano quanto Yalom nella pratica clinica prenda spunto dalla filosofia.

Perchè leggere Fissando il sole?

Fissando il sole è rivolto a chiunque non riesce a contrastare l’angoscia della morte. Nel primo capitolo ne viene descritta la struttura, nel settimo capitolo si rivolge invece direttamente agli psicoterapeuti ma nonstante ciò è stato scritto in modo da risultare comprensibile a tutti i lettori.

Nel primo capitolo, Irvin Yalom racconta come, attraverso la sua esperienza professionale, ha avuto modo di osservare che la preoccupazione per la morte ha un andamento oscillante nelle diverse fasi dell’esistenza degli individui, presentandosi in forme diverse in relazione alle caratteristiche di personalità.
[blockquote style=”1″]In questo primo capitolo (dice) mi preme sottolineare che la paura della morte crea problemi che in un primo momento possono non sembrare direttamente connessi con la mortalità. La morte ha una gittata lunga, con un impatto che spesso viene occultato. Anche se l’angoscia della morte può immobilizzare completamente alcuni di noi, spesso questa paura rimane in secondo piano e si esprime attraverso sintomi che sembrano non avere nulla a che fare con la mortalità.[/blockquote]

Il capitolo si conclude con una sorta di augurio che contrasta con i sentimenti che spesso si associano a questo argomento:
[blockquote style=”1″]Pertanto offro questo libro alla lettura con ottimismo. Credo che vi aiuterà a fissare la morte in faccia e, nel farlo, non solo ne ridurrete il terrore, ma arricchirete anche la vostra vita.[/blockquote]

Attraverso lo stile usuale dell’autore, i diversi capitoli si susseguono alternando stralci di storie dei pazienti, considerazioni cliniche e riflessioni personali/autobiografiche. Fa da filo conduttore del libro il pensiero che “la consapevolezza della morte può essere un’esperienza di risveglio, un catalizzatore profondamente utile per cambiamenti importanti della nostra esistenza”.

Riconoscere l’angoscia della morte è titolo del secondo capitolo e, allo stesso tempo, ne sintetizza il contenuto. Attraverso la descrizione di casi clinici, viene mostrato in che modo l’angoscia della morte si può nascondere dietro altre paure, come per esempio quella dell’abbandono, di stare male, ecc. Talvolta può essere necessario un atteggiamento investigativo proprio perché la paura della morte può assumere forme diverse in relazione alla storia personale del soggetto.

Il terzo capitolo è dedicato a descrivere proprio l’esperienza del risveglio. Come esempio, tra gli altri, vengono citati alcuni famosi romanzi come Canto di Natale di Charles Dickens. Il protagonista Ebenezer Scrooge viene visitato nella notte dagli spiriti del Natale (quello passato, quello presente e quello futuro). Sognare come le persone reagiranno alla sua morte porta Scrooge ad avviare un processo di totale trasformazione delle sue abitudini di vita.
Le circostanze che possono sollecitare ‘l’esperienza del risveglio’ sono molteplici, in genere eventi intensi e pressanti come un lutto, una malattia grave, la rottura di una relazione, traumi, ricorrenze come alcuni compleanni (cinquanta, sessanta, ecc), alcuni incubi o sogni eccetera.

Il quarto e il quinto capitolo sono rivolti a illustrare come aiutare gli individui a riconoscere ed affrontare questa paura attraverso alcune idee e il potere della connessione con gli altri.

Nel sesto capitolo, Yalom, secondo il suo stile, racconta la sua personale esperienza in ordine al tema del libro, corredandola di ricordi e cenni autobiografici.

Infine il settimo capitolo è rivolto agli psicoterapeuti. Per Irvin Yalom le scuole di formazione non dedicano uno spazio adeguato alla trattazione dei temi esistenziali. A suo parere gli psicoterapeuti, di frequente, considerano la paura della morte come un timore che copre altre paure, mentre i temi legati al doversi confrontare con la condizione umana sono essi stessi causa di disagio emotivo e di psicopatologia.

L’approccio psicoterapeutico di Irvin Yalom

Si può dire che proprio quest’ultimo è il nucleo dell’approccio proposto da Yalom: riconoscere una maggiore centralità dei temi esistenziali per comprendere le forme che può assumere la sofferenza umana, perché “noi umani siamo le uniche creature per le quali la propria stessa esistenza costituisce un problema.” Pertanto il concetto chiave è l’esistenza…
Per aiutare i pazienti ad affrontare i temi esistenziali, Irvin Yalom utilizza diverse strategie relazionali, pensieri di filosofi, aforismi e alcune idee che ha sperimentato come efficaci nella sua esperienza professionale. Una di queste idee è rappresentata dai ‘cerchi nell’acqua’.
[blockquote style=”1″]L’immagine dei cerchi nell’acqua si riferisce al fatto che ciascuno di noi crea, spesso senza un intento consapevole e senza rendersene conto, dei cerchi concentrici di influssi che a loro volta possono influenzare gli altri per anni, persino per generazioni. Vale a dire che l’effetto che abbiamo sulle altre persone viene a sua volta passato ad altri, proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno continuano a svilupparsi finche non sono più visibili, anche se il movimento persiste a un livello impercettibile.[/blockquote]

Ma non si tratta di lasciare la memoria della propria immagine o il proprio nome, “I cerchi nell’acqua, come li intendo io, si riferiscono invece all’idea di lasciare dietro di sé qualcosa dell’esperienza della propria vita, un qualche tratto, un frammento di saggezza, una guida, una virtù, una consolazione che viene trasmessa ad altri, conosciuti o ignari”.

Alcuni temi importanti

Un’altra idea che ritorna nelle pagine del libro è un’ affermazione di Otto Rank (allievo di Freud): “Alcuni rifiutano il prestito della vita per evitare di pagare il debito della morte. Un’idea suggestiva che sicuramente rappresenta bene l’atteggiamento di molte persone che sembrano rinunciare a vivere appieno, a realizzare i propri desideri, per paura di ciò che possono perdere o che inevitabilmente perderanno. Un altro tema ricorrente, è l’importanza di realizzare al meglio le proprie potenzialità perché la paura della morte può essere tanto più forte quanto più si è insoddisfatti della propria vita. Quindi per convivere meglio con la consapevolezza della morte è importante vivere appieno e rimuovere gli ostacoli che la persona incontra nella propria realizzazione.

Yalom ha esperienza di conduzione di gruppi di pazienti con malattie gravi, anche terminali e il libro è anche un’occasione per sollecitare chiunque si trovi a vivere questa condizione a cercare di stabilire ‘connessioni’ con gli altri perché sono assolutamente utili ad affrontare la sofferenza. Nel tempo ha avuto modo di osservare che i pazienti possono attuare cambiamenti positivi anche in prossimità della fine della vita, riuscendo quindi ad apportare trasformazioni nelle relazioni e a trovare una forma di serenità.

In considerazione dei temi affrontati è opportuno menzionare la questione religiosa. Yalom chiarisce che pur avendo una visione laica della vita ha sempre avuto cura di non interferire con le posizioni di fede dei suoi pazienti.

Il valore di Fissando il sole per uno Psicoterapeuta

Fissando il sole, pur essendo rivolto a un ampio pubblico, rappresenta una lettura che contiene suggerimenti interessanti anche per gli specialisti. Attraverso lo spunto della paura della morte, Yalom affronta, infatti, argomenti che sono oggetto di molte psicoterapie: la difficoltà a fare scelte, l’insoddisfazione per la propria vita, i rimpianti, solo per citarne alcuni. In merito alla tecnica psicoterapeutica sono interessanti i ripetuti riferimenti a lavorare sul ‘qui ed ora’. In particolare è importante individuare un equivalente dei temi portati dal paziente nell’ambito della relazione terapeutica. Può essere un esempio il racconto di una paziente con problemi di salute che lamenta la mancanza di cura e attenzioni da parte del marito e che Yalom porta ad affrontare – nel qui ed ora – come avverte il suo prendersi cura di lei nell’ambito della terapia stessa. In questo modo fa vedere ‘in diretta’ alla paziente il ruolo che lei svolge, ad esempio non chiedendo nulla o addirittura cercando di ‘coprire’ i propri bisogni, sia nel contesto della terapia che nel rapporto con il marito.

A conferma di come il tema della morte spesso venga eluso, l’autore, nella post fazione, rivela che se in genere quando è impegnato nella stesura di un libro è abituato a fare lunghe conversazioni con colleghi e amici rispetto al lavoro in corso, nel caso di Fissando il sole, non appena rispondeva che il libro avrebbe riguardato il terrore della morte, la conversazione si concludeva e il suo interlocutore passava ad un altro argomento. In effetti, è esperienza abbastanza comune che le persone possono sentirsi a disagio a parlare di un argomento così carico di significati e di fronte al quale gli esseri umani in genere si sentono impotenti.

Nonostante le difficoltà inerenti i contenuti del testo è condivisibile l’opinione dell’autore che i terapeuti dovrebbero essere in grado di affrontare le diverse problematiche connesse ai temi esistenziali e le paure che ne possono scaturire. Per fare questo è utile che loro stessi si familiarizzino con i vissuti che hanno rispetto a questi temi. In questo senso la lettura del libro può essere un’occasione di riflessione non solo per il lavoro con i pazienti, ma anche per considerazioni personali.
Fissando il sole, coerentemente con l’idea portata avanti nel libro, si conclude con una speranza rivolta ai lettori:
[blockquote style=”1″]Non voglio che questo libro sia tetro. Spero invece che, aggrappandoci, aggrappandoci davvero alla nostra condizione umana, alla nostra finitezza, al nostro breve tempo di luce, riusciremo non solo ad assaporare quant’è prezioso ogni momento e il piacere puro e semplice di esistere, ma aumenteranno anche la nostra compassione per noi stessi e per gli altri esseri umani.[/blockquote]

Sempre in anticipo sul suo futuro – In ricordo del Prof. Marcello Cesa Bianchi

E’ venuto a mancare giovedì 15 Marzo, pochi giorni prima del suo 92esimo compleanno, il Prof. Marcello Cesa Bianchi, uno dei padri fondatori della Psicologia italiana.

 

Che il Prof. Marcello Cesa Bianchi si sarebbe distinto nel corso della sua lunga vita, lo si poteva immaginare già nei suoi primi anni di infanzia: appena in quarta elementare, il suo genio e la sua elevata intelligenza lo portano a saltare diversi anni di scuola per frequentare direttamente la prima ginnasio. Ma non è l’unico salto che il suo acume gli consente: dalla seconda liceo passa al primo anno di università. La sua carriera prosegue in questo modo: una costellazione di traguardi e onorificenze, che hanno reso il Prof. Marcello Cesa Bianchi il punto di riferimento per molti psicologi ed esperti del mondo accademico.

La sua attitudine ad anticipare i tempi ha contraddistinto la sua intera vita, non a caso la sua autobiografia – pubblicata nel 2012, all’età di 86 anni – ha titolo “Sempre in anticipo sul mio futuro”.

Laureato con lode in Medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Milano nel 1949, a soli 23 anni, successivamente si specializza, sempre con lode, in Psicologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1951 e in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali all’Università di Pavia nel 1953.

Tra i ruoli di prestigio che il Prof. Marcello Cesa Bianchi ha ricoperto, lo ricordiamo in veste di fondatore e direttore dell’Istituto di Psicologia e delle Scuole di Specializzazione in Psicologia e Psicologia Clinica presso la Facoltà Medica dell’Università degli Studi di Milano, di cui era Professore Emerito. È stato inoltre insignito di diverse lauree honoris causa da vari atenei italiani. Nel maggio 1999 ha ricevuto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano la Laurea Honoris Causa in Psicologia. Nel novembre 2002 gli è stata attribuita dall’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione. Nel maggio 2012 gli è stata assegnata dall’Università degli Studi di Torino la Laurea Honoris Causa in Psicologia. Nel novembre 2015 riceve dalla Libera Università della Terza Età di Carbonia la Laurea Magistralis Honoris Causa per il lavoro svolto nel campo della psicologia dell’invecchiamento.

Coordinatore di progetti di ricerca nazionali ed internazionali, ha firmato più di 70 volumi e 1000 pubblicazioni scientifiche in diverse discipline. Sono rari gli argomenti della Psicologia che non hanno risentito della sua influenza: dalla metodologia psicologica alla psicologia generale, dalla percezione alla psicologia medica, passando per la psicologia della devianza e dell’età evolutiva. Durante gli ultimi anni della sua carriera si è dedicato allo studio e alla ricerca nell’ambito della psicologia dell’invecchiamento e dell’età senile, con un occhio di riguardo alla relazione tra terza età e creatività.

Il suo contributo è tangibile, un patrimonio di grande valore per tutti gli psicologi e i ricercatori, così come ricordato anche dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Riassumere l’intera carriera del Prof. Cesa Bianchi in poche righe non avrebbe reso giustizia alla sua illustre figura, ma le sue lauree honoris causa e la Medaglia d’oro di benemerenza per l’impegno umanitario conferitagli dal comune di Milano nel 1985, sono solo alcuni degli esempi che ci fanno comprendere la grave perdita per il panorama della Psicologia italiana.

Dalla redazione di State of Mind, porgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti al Prof. Mario Cesa Bianchi per gli impagabili contributi che ci ha lasciato e per essere diventato una figura di riferimento che guiderà le carriere di tutti noi psicologi presenti e futuri, un riferimento costante e prezioso…sempre in anticipo sul nostro futuro.

Ermal Meta: rabbia e dolore verso un padre che non ha amato nostra madre

Ermal Meta parla in alcune canzoni del dolore di un figlio che vede il padre non amare la madre, come nel complesso di Ruben. Questo dolore incide sulla schiena delle cicatrici, ma non è tardi per ricominciare. Lì ci si attaccano le ali e si prova a ristabilire in qualche modo la “giustizia degli affetti”.

 

Cosa accomuna i testi di Ermal Meta con il personaggio biblico di Ruben? Ruben, figlio di Giacobbe e Lea, è il giustiziere degli affetti familiari (Accardo, Lorenzini 2014); soffre l’umiliazione della madre come se fosse la sua e fin dal nome che porta gli brucia in petto il malanimo di Giacobbe verso Lea, la mai amata. Ruben è colui che pretende giustizia degli affetti, soffre di sentimenti calpestati, patisce il torto fatto alla madre. L’ingiustizia degli affetti è un danno subìto che non conosce risarcimento. E’ la storia di un abbandono ancor prima che la separazione avvenga. Ci si ritrova costretti da una rabbia ceca a farsi giustizia da soli, senza cercare un impossibile risarcimento, ma solo per punire nell’altro il destino di non essere amati. In Ruben la giustizia degli affetti non è solo l’amore del padre verso la madre, ma anche e soprattutto verso di lui, suo figlio; il padre aveva il dovere di occuparsi di lui e di proteggerlo, perché è l’amore che tiene in vita. Quando ciò non avviene si minaccia la sopravvivenza della specie ed il successo riproduttivo e assistiamo al fallimento del comportamento genitoriale, inteso come una forma speciale di comportamento altruistico.

Il complesso di Ruben nelle canzoni di Ermal Meta

La musica non è né scienza né letteratura eppure ci racconta tante storie. E quando a parlare è il bambino di ieri attraverso la penna dell’uomo di oggi, allora la musica diventa strumento di condivisione profonda. Nel rispetto dei sentimenti di chi ha cantato la propria vita, questo lavoro è ben lontano dal fare interpretazioni cliniche. I brani su cui mi sono soffermata sono “Lettera a mio padre” (Ermal Meta 2014) e “Vietato morire” (Ermal Meta 2017). Passando dall’uno all’altro possiamo trovare un percorso volto a ristabilire in qualche modo la giustizia degli affetti.
Un padre violento, una bestia, uno di quegli uomini che dinanzi a chi non li conosce si mascherano di voce docile e mani bianche, ma che dentro i loro occhi non hanno niente, che uccidono con le parole, colpiscono con i pugni in faccia e lasciano cicatrici e occhi neri.
La violenza domestica è anche violenza psicologica, e quando un bambino è figlio di un non amore, di un amore imperfetto, ecco che è anche vittima dell’ingiustizia degli affetti, un ingiustizia che mette a repentaglio la propria integrità fisica ed emotiva e annienta la vita in nome di un non amore. Nonostante la paura che frantuma i pensieri, il desiderio di un bambino, che potrebbe incarnare la missione rubenica, più che salvare sé stesso, è portare via di là la propria madre, attraverso i cui occhi vede e vive la sofferenza. Nel caso di Ruben la figura paterna è vista come un rivale, un ostacolo al suo progetto di realizzazione della felicità della madre. E per poter salvare un adulto, un bambino diventa grande in un istante.

Come ricominciare, da adulti

Tuttavia anche un non amore è fatto di due parti e allora cosa resta? Da un lato restano le rughe d’espressione, un cognome, la metà del sangue nelle vene e le cicatrici. Dall’altro lato restano le rughe d’espressione, un nome, l’altra metà del sangue nelle vene, le ali e un monito. L’incoraggiamento della mamma al bambino, la base sicura, il faro che protegge, perché si può proteggere anche con le promesse. Promettere e insegnare l’amore da un libro di odio, anche se costa fatica. Difatti il successo del ruolo di madre è assicurato dalla sua capacità di accorrere alle richieste di aiuto del proprio figlio, dalla sua disponibilità a confortarlo attraverso abbracci e carezze, dalla sua prontezza a proteggerlo dai pericoli (Attili 2012).

Ruben è il portabandiera dei non amati. La rabbia di Ruben si iscrive tutta nel sistema motivazionale di attaccamento/accudimento. Tuttavia la consapevolezza dell’inutilità dei suoi sforzi condanna Ruben ad un eterno rancore. Nei testi approfonditi invece sembra esserci una strada diversa.
Se scegli una strada diversa, alla ricerca della sicurezza, un giorno diventi padre e puoi dire di cambiare le stelle, puoi dire che un cazzotto fa male, che una parola a volte ti uccide e che quando sulla schiena hai cicatrici è lì che ci attacchi le ali. Quando non si ha un buon padre bisogna procurarsene uno, diceva Nietzsche; oppure, potremmo dire, bisogna diventarne uno. Puoi dire e far si che i figli si sentano amati, perché se noi non siamo stati amati non è perché eravamo cattivi. In questo modo una mamma non smette di sognare perché la vita che avrai non sarà mai distante dell’amore che dai, ed ogni male è un bene quando serve.
Così, con la pelle dura, si può anche correre con i lupi, perché non c’è più paura e quello che era gigante oggi non si vede, perché non c’è solo la voce del sangue ma anche quella dell’affetto, e questa può salvarti veramente.

LETTERA A MIO PADRE – IL VIDEO DELLA CANZONE:

VIETATO MORIRE – IL VIDEO DELLA CANZONE:

La procreazione medicalmente assistita: le emozioni sottostanti

La procreazione assistita è un trattamento che può suscitare una serie di vissuti sia emotivi che psicologici che coinvolgono la coppia e il singolo futuro genitore. Per questo sarebbe opportuno fornire un servizio di supporto psicologico.

 

La diagnosi di infertilità e la procreazione assistita

La procreazione medicalmente assistita è sempre più oggetto, negli ultimi tempi, di studi e ricerche scientifiche e solleva interessi e questioni di natura medica, psicologica, relazionale ed etica.

Quando si parla di procreazione assistita, la coppia ha già ricevuto una diagnosi di infertilità e le cause possono essere diverse, di natura sia biologica che psicologica. I fattori di rischio più rilevanti e che più frequentemente si associano alla sterilità sono: l’età sempre più alta della coppia che cerca di avere un bambino; le difficoltà economiche e lavorative che inducono a posporre il più possibile una gravidanza; lo stress, il fumo e le abitudini nocive che possono ostacolare l’arrivo di una gravidanza; le abitudini alimentari e i fattori socio-psicologici.

La procreazione assistita: vissuti emotivi e psicologici

La procreazione assistita, per questo motivo, è un trattamento che può suscitare una serie di vissuti sia emotivi che psicologici che coinvolgono la coppia e il singolo futuro genitore. Tale trattamento porta a scontrarsi con il dolore della mancanza di concepimento e della perdita e questo può far vacillare la propria autostima e la propria identità. È proprio per questo che sarebbe opportuno garantire ai partner che vogliono sottoporsi alla procreazione medicalmente assistita anche un servizio di supporto psicologico, allo scopo di accogliere le loro aspettative, i timori, le delusioni e la speranza di diventare genitori, per tutto il percorso.

Dopo vari tentativi falliti, le emozioni che più frequentemente accompagnano il dolore della mancata gravidanza sono il senso di vuoto, la bassa autostima e anche la propria identità femminile (o maschile, nel caso in cui la causa dell’infertilità risieda in un fattore maschile) viene messa a dura prova. Talvolta, può farsi sentire il senso di colpa e ci si rimprovera di aver rimandato troppo o di aver preso la pillola per troppo tempo o di non essersi sottoposte costantemente alle visite mediche. Anche il rapporto di coppia può iniziare a sgretolarsi e ciascuno dei due partner può sentirsi non supportato adeguatamente dall’altro e chiudersi nel silenzio e nell’isolamento; in alcuni casi possono iniziare le recriminazioni verso il partner, in particolare se uno dei due ha rinviato la ricerca di un figlio il più possibile. Talvolta, si oscilla tra la speranza e la disperazione.

I continui fallimenti possono generare delusione, frustrazione e rabbia e questo può compromettere l’efficacia delle tecniche della procreazione medicalmente assistita. Da questo, si comprende come sia assolutamente fondamentale elaborare tali vissuti ed emozioni negative sia individualmente che nella coppia, al fine non solo di raggiungere un maggiore equilibrio psicologico personale, ma anche per non comprometterne del tutto l’esito. Qualora la procreazione sia eterologa la situazione si complica e nella coppia possono emergere emozioni conflittuali e ambivalenti, che è opportuno condividere ed esplicitare.

Il periodo di attesa dell’esito della  procreazione assistita si carica di ansie e preoccupazioni e spesso si ricercano continue rassicurazioni dal medico ed evidenze fisiche del fatto che tutto proceda bene. Se l’esito è positivo, la gioia iniziale si accompagna comunque spesso a tensioni, nel timore che da un momento all’altro la speranza possa spegnersi e proseguono ancora i controlli medici e i tentativi di essere rassicurati. Qualora l’esito sia negativo, il dolore si fa più forte, ricompaiono il senso di fallimento personale, il vuoto interiore, la frustrazione, la rabbia.

Adottare un approccio multidisciplinare e accogliere la coppia anche psicologicamente durante il percorso di procreazione medicalmente assistita diventa una risorsa fondamentale per sostenere i partner nell’affrontare le difficoltà, le fatiche, le tensioni e le delusioni affinché nessuna donna e nessuna coppia possano sentirsi soli nel gestire un’altalena di emozioni ambivalenti.

Perdite di memoria: normale invecchiamento o Alzheimer?

Invecchiando, non è raro sperimentare “momenti di vecchiaia“, in cui dimentichiamo dove abbiamo parcheggiato la macchina o chiamiamo i nostri bambini con nomi sbagliati. E potremmo chiederci: questi ricordi sono una parte normale dell’ invecchiamento o segnalano le prime fasi di un disturbo grave come il morbo di Alzheimer?

 

I ricercatori di Irvine, dell’Università della California, hanno tuttavia scoperto che la risonanza magnetica funzionale ad alta risoluzione del cervello può essere utilizzata per mostrare alcune delle cause alla base delle differenze inerenti le competenze mnemoniche tra adulti anziani e adulti più giovani. Lo studio, pubblicato sulla rivista Neuron, ha coinvolto 20 giovani adulti (dai 18 ai 31 anni) e 20 adulti anziani cognitivamente sani (dai 64 agli 89 anni). Ai partecipanti veniva chiesto di eseguire due tipi di attività durante la scansione fMRI, un’attività di memoria di oggetti e un’attività di memoria di posizione. Poiché l’fMRI esamina le dinamiche del flusso sanguigno nel cervello, i ricercatori sono stati in grado di determinare quali parti del cervello i soggetti stavano usando per ciascuna attività.

Nel primo compito, venivano fatte vedere ai partecipanti delle immagini di oggetti di uso quotidiano e, successivamente, veniva chiesto di distinguerle dalle nuove immagini.

Alcune immagini erano identiche a quelle viste prima, alcune erano nuove e altre erano simili alle precedenti – potremmo aver cambiato il colore o le dimensioni – ha detto Michael Yassa, direttore del Centro per la Neurobiologia dell’apprendimento e della memoria e autore senior dello studio – Chiamiamo questi oggetti delicati le “esche”. E abbiamo scoperto che il conflitto mnemonico avveniva maggiormente negli anziani: sono molto più propensi dei giovani a pensare di aver già visto quelle “esche”.

Il secondo compito era quasi lo stesso ma veniva richiesto ai soggetti di determinare se la posizione degli oggetti fosse stata alterata. Qui, gli adulti più anziani sono andati molto meglio rispetto al compito precedente.

Questo suggerisce che non tutta la memoria cambia allo stesso modo dell’invecchiamento – sostiene l’autore principale Zachariah Reagh, che ha partecipato allo studio come studente laureato presso l’UCI ed ora è un borsista postdottorato alla UC Davis – La memoria degli oggetti è molto più vulnerabile di quella spaziale, o posizione, memoria – almeno nelle prime fasi.

Altre ricerche hanno dimostrato che i problemi con la memoria spaziale e la navigazione si manifestano in maniera individuale verso la malattia di Alzheimer.

È importante sottolineare che, esaminando il cervello dei soggetti sottoposti a questi test, gli scienziati sono stati in grado di stabilire un meccanismo cerebrale per tale deficit nella memoria degli oggetti. Hanno scoperto che era collegato a una perdita di segnalazione in una parte del cervello chiamata corteccia entorinale anterolaterale. Questa area è già nota per mediare la comunicazione tra l’ippocampo, in cui le informazioni vengono prima codificate e il resto della neocorteccia, che svolge un ruolo nell’archiviazione a lungo termine. È anche un’area gravemente colpita nelle persone con malattia di Alzheimer.

La perdita del segnale fMRI significa che c’è meno flusso di sangue nella regione, ma crediamo che la base di questa perdita dipenda dal fatto che l’integrità strutturale di quella parte del cervello sta cambiando – ha detto Yassa – Una delle cose che sappiamo della malattia di Alzheimer è che questa regione del cervello è una delle prime ad esibire un segno chiave della malattia, la deposizione di grovigli neurofibrillari.

Al contrario, i ricercatori non hanno rilevato differenze legate all’età in un’altra area del cervello collegata alla memoria: la corteccia entorinale posteromiale. Hanno dimostrato che questa regione ha un ruolo nella memoria spaziale, che non era significativamente compromessa nei soggetti più anziani.

Questo suggerisce che il processo di invecchiamento del cervello è selettivo – dice Yassa – I nostri risultati non sono un riflesso dell’invecchiamento cerebrale generale, ma piuttosto di specifici cambiamenti neurali che sono collegati a problemi specifici nella memoria dell’oggetto e non nello spazio.

Per determinare se questo tipo di scansione fMRI potrebbe alla fine essere utilizzato come strumento per la diagnosi precoce, i ricercatori prevedono di espandere il loro lavoro a un campione di 150 adulti più anziani che saranno seguiti nel tempo. Condurranno anche tomografia a emissione di positroni, o PET, scansioni per cercare la patologia provocate della placche amiloidi e della proteina tau.

Ci auguriamo che questi esaurienti test di imaging e cognitivi ci consentiranno di capire se i deficit che abbiamo visto nel presente studio sono indicativi di ciò che verrà in seguito in alcuni di questi individui – ha detto Yassa

I nostri risultati, così come risultati simili da altri laboratori, indicano la necessità di compiti e paradigmi progettati con cura che possano rivelare diverse funzioni in aree chiave del cervello e diverse vulnerabilità al processo di invecchiamento – ha aggiunto Reagh.

 

La formulazione condivisa del caso come alleanza terapeutica in terapia cognitiva

Qualche mese fa eravamo in compagnia di due colleghi comportamentisti e a uno dei due scapparono le parole “alleanza terapeutica” e “relazione terapeutica”. Prontamente l’altro lo corresse, dicendo che era preferibile utilizzare “formulazione del caso”. La puntualizzazione del secondo collega potrebbe sembrare una pedantesca difesa identitaria. Oppure no. Vediamo perché.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Le terapie cognitive comportamentali hanno sempre intrattenuto con i concetti di alleanza e relazione terapeutica un rapporto pragmatico, preferendo chiamarle spesso con altri nomi più operativi (Bruch, 1998, 2015). Tra questi, il termine più significativo e coerente con il paradigma cognitivo-comportamentale è quello di “formulazione del caso” oppure -sottolineando maggiormente gli aspetti di relazione terapeutica e alleanza terapeutica– di “formulazione condivisa del caso”. Oggi questo strumento è ormai  ampiamente praticato nel campo delle terapie comportamentali e cognitive (Eells, 2007, 2009; Sturmey, 2008, 2009).

La formulazione del caso comportamentista di Monte Shapiro

In realtà il termine “formulazione del caso” è stato definitivamente introdotto solo nel 1985 grazie a Turkat (1985, 1986), ma esso era presente nel lavoro della maggior parte dei pionieri delle terapie cognitive e comportamentali: ad esempio in Monte B. Shapiro (1955, 1957) (Shapiro & Nelson, 1955), Lazarus (1960), Meyer (1960), Wolpe (1960) e Yates (1960). Tra tutti spicca il contributo di Meyer. Perché? Perché negli altri autori, e in particolare in Shapiro, la formulazione del caso non conteneva in sé alcun elemento di accordo e condivisione con il paziente, ovvero –volendo usare una terminologia psicodinamica- la formulazione era relazionalmente vuota e non portava a un’alleanza di lavoro. Shapiro realizzava la formulazione del caso dapprima intervistando i pazienti per ottenere una descrizione precisa del loro comportamento problematico. Successivamente, sulla base di modelli teorici di apprendimento si formulavano delle previsioni sulle reazioni comportamentali dei pazienti a determinati stimoli, previsioni che erano testate in esperimenti clinici e che portavano infine alla formulazione di un piano terapeutico fatto di ripetuti esperimenti comportamentali. Insomma, Shapiro otteneva dati dal paziente ma non li riformulava al paziente, non cercava il suo assenso ne gli chiedeva di utilizzare la formulazione come base per un lavoro comune. Un simile metodo poteva effettivamente esporsi all’accusa, fatta varie volte ai comportamentisti, di trattare i pazienti come cani ammaestrati.

La formulazione del caso condivisa con il paziente di Victor Meyer

Completamente diverso l’approccio di Victor Meyer (1975). Il suo intenso impegno clinico con i pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo gli consentì di comprendere il ruolo cruciale dell’intervista col paziente come esperienza individuale. Era critico nei confronti di schemi standardizzati come ad esempio quello di Kanfer e Saslow (1969). Secondo Meyer, invece di aderire rigidamente a uno schema, i terapeuti devono essere incoraggiati a sviluppare ipotesi sulla natura del problema e a discuterli e condividerli con il paziente (Meyer, 1975, p. 22). In altre parole, Meyer pone l’enfasi sulla comprensione e sulla condivisione del problema del paziente, spiegandogli la logica, cercando la cooperazione e quindi costruendo la risoluzione e la motivazione per il programma di trattamento. È chiara quindi la stretta relazione tra approccio di Meyer e relazione terapeutica, però da un punto di vista rigorosamente cognitivo e comportamentale che nulla deve al modello psicodinamico, come spesso accade nei modelli integrati cognitivo-interpersonali (Meyer e Liddell, 1975, p. 237).

Insomma, Meyer condivideva la formulazione del caso con il paziente. Dopo aver raccolto i dati sulle situazioni problematiche del paziente, egli formulava il caso nei suoi termini di antecedenti, risposte comportamentali e conseguenze e lo proponeva al paziente, discutendolo con lui. Questa discussione non era una trasmissione unidirezionale di informazioni dal clinico al paziente, ma avveniva su un piano paritario ed entrava a far parte del contesto terapeutico. La condivisione delle informazioni con il paziente diventa quindi essa stessa parte della modificazione ambientale e comportamentale perseguita dal clinico comportamentale per ottenere il cambiamento terapeutico. Questa modificazione, però non avveniva all’insaputa del paziente, ma coinvolgendolo, ovvero coinvolgendo i suoi stati mentali. È chiaro che, in tal modo, si agisce non solo in maniera esterna sulle reazioni comportamentali ma in maniera condivisa, alleata e relazionale. Esprimendoci nel linguaggio comportamentale, si agisce sui rule-governed behaviors.

Formulazione condivisa del caso vs relazione terapeutica

Si potrebbe obiettare: se è così, perché non adottare i termini di “alleanza terapeutica” e di “relazione terapeutica”? Perché ostinarsi su un termine più pragmatico e operativo come “formulazione condivisa del caso”? “Formulazione condivisa del caso” non è solo un termine tradizionale da usare distrattamente per abitudine ma fornisce informazioni pratiche sulla concezione cognitiva e comportamentale dell’alleanza terapeutica.

Invece “relazione terapeutica” è un termine estremamente ampio. I suoi difetti sono due: un rischio di vaghezza e di genericità, poiché “relazione” può indicare qualunque evento interpersonale che accade tra paziente e terapista; il secondo è la possibilità che in fondo esso non sia un termine neutro ma che invece esso sia più adatto a indicare le componenti più ambigue della relazione, meno sensibili al controllo volontario e meno accessibili all’alleanza esplicita. Insomma, la “relazione terapeutica” non è l’alleanza terapeutica.

Alleanze e sabotaggi: i presupposti teorici che orientano le terapie

Non si tratta di una differenza solo tecnica ma teorica: la formulazione del caso di tradizione comportamentale parte dal presupposto che l’alleanza è sempre possibile e che essa si stipuli a partire dai suoi aspetti pratici e operativi, appunto la condivisione della formulazione. In altri paradigmi, come forse in alcune forme di terapia psicodinamica, si parte dal presupposto che il paziente tendenzialmente saboti la terapia e che il lavoro terapeutico consista proprio nella analisi e nella gestione relazionale di questo sabotaggio, che è interiore ma che si manifesta soprattutto nella relazione. Seguendo questo paradigma, la concettualizzazione del caso non è mai davvero onestamente condivisibile da parte del paziente e la sua formulazione esplicita è sempre un inganno. Una rassegna esaustiva di questo paradigma si può trovare nel bel libro “I sabotatori interni” di Francesco Gazzillo (2012).

In una versione meno estrema il paziente non sabota la terapia e non inganna il terapista, ma comunque non ha, almeno inizialmente, le capacità relazionali per riuscire a eseguire un’alleanza soddisfacente. Il paziente è ritenuto un tipo difficile, ma non è un ingannatore. In questo caso il lavoro terapeutico non consisterebbe nel gestire i sabotaggi e gli inganni del paziente, ma le sue mancanze e i suoi deficit costruendo un compenso emotivo che andrebbe a coprire un deficit relazionale di base. Si tratta effettivamente di una teoria del deficit. Quello che colpisce è che in entrambi i casi il terapista lavorerebbe soprattutto nella relazione e la utilizza in una maniera non condivisa –o almeno non completamente condivisa- con il paziente, ovvero senza comunicare del tutto il senso del suo lavoro. Tutto accade prima nella relazione e nella costruzione dell’alleanza. Nella formulazione comportamentale condivisa del caso e quindi dell’alleanza terapeutica, invece, tutto inizia con la stipulazione onesta del patto terapeutico.

Inoltre ci sembra innegabile che una visione che privilegia la relazione prima dell’alleanza rischierebbe di scivolare in una relazione non paritaria tra un soggetto che agisce in modo implicito sulla relazione da una posizione di supremazia di esperto conoscitore della relazione che non spiega e condivide del tutto cosa sta facendo e a quale scopo.

Naturalmente è innegabile che esistano pazienti che sabotano la terapia o con i quali occorre effettuare un lavoro più di supporto che di vera terapia, in attesa che si creino le condizioni per effettuare il lavoro terapeutico. E comunque nel nostro approccio anche questo aspetto può essere onestamente esplicitato. L’aspetto dirimente è considerare questo lavoro preparatorio o semmai necessario in casi speciali con pazienti molto sofferenti con gravi deficit di mentalizzazione, oppure il vero centro di ogni terapia. Si tratta di visioni della mente, dell’uomo e del mondo differenti.

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