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Sindrome dell’ X Fragile: grazie alla ricerca potrà essere possibile diagnosticarla in età neonatale

Attraverso risonanza magnetica, è stato possibile dimostrare che i bambini affetti da sindrome dell’ X Fragile a livello neurologico presentano una sostanza bianca meno sviluppata rispetto ai bambini che non sviluppano la condizione. Si è mostrato così che ci sono differenze nel cervello, correlate alla sindrome dell’ X Fragile, riscontrabili molto prima di una diagnosi fatta di solito a tre anni.

 

Per la prima volta, i ricercatori della Scuola di Medicina dell’UNC (University of North Carolina) hanno utilizzato la risonanza magnetica per dimostrare che i bambini affetti da sindrome dell’ X Fragile a livello neurologico presentano una sostanza bianca meno sviluppata rispetto ai bambini che non sviluppano la condizione.

L’imaging di varie sezioni di sostanza bianca da diverse angolazioni può aiutare i ricercatori a concentrarsi sui circuiti cerebrali sottostanti, importanti per la corretta comunicazione neuronale.

Lo studio, pubblicato su JAMA Psychiatry, mostra che ci sono differenze nel cervello, correlate alla sindrome dell’ X Fragile, riscontrabili molto prima di una diagnosi fatta di solito a tre anni.

Finora, gli studi clinici sui farmaci non sono riusciti a dimostrare il cambiamento di trattamento in soggetti con sindrome dell’ X Fragile. Una delle sfide è stata l’identificazione di buone misure di esito del trattamento o di biomarcatori che mostrano risposta all’intervento.

Sindrome dell’ X Fragile: i risvolti dello studio

La sindrome dell’ X Fragile è una malattia genetica rara da ritardo mentale lieve-grave, che può associarsi a disturbi comportamentali e segni fisici caratteristici, ed è la causa ereditaria più comune della disabilità intellettiva nei maschi. I sintomi includono disabilità intellettive, problemi di interazione sociale, linguaggio ritardato, iperattività e comportamenti ripetitivi. Circa un terzo delle persone con sindrome dell’ X Fragile soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo dello spettro autistico.

Una delle cose più eccitanti delle nostre scoperte è che le differenze di sostanza bianca che osserviamo potrebbero essere utilizzate come un indicatore obiettivo per l’efficacia del trattamento – ha detto l’autore co-senior Heather C. Hazlett, PhD, assistente professore di psichiatria presso la UNC School of Medicina.

Per questo studio, Swanson, Hazlett e colleghi hanno utilizzato tecniche di imaging cerebrale in 27 bambini ai quali è stato diagnosticato il disturbo dell’X Fragile, e 73 bambini sani. I ricercatori si sono concentrati su 19 tratti di fibre della materia bianca nel cervello. Le fibre sono fasci di assoni mielinizzati – le lunghe parti di neuroni che si estendono attraverso il cervello o in tutto il sistema nervoso. Questi fasci di assoni collegano varie parti del cervello in modo che i neuroni possano comunicare rapidamente tra loro. Questa comunicazione è essenziale, specialmente per il corretto sviluppo neurologico durante l’infanzia.

L’imaging e l’analisi analitica hanno mostrato differenze significative nello sviluppo di 12 dei 19 tratti di fibra nei neonati con sindrome dell’ X Fragile fin da sei mesi di età. I bambini con X Fragile avevano tratti di fibra significativamente meno sviluppati in varie parti del cervello.

Questi risultati confermano ciò che altri ricercatori hanno dimostrato nei roditori: il ruolo essenziale dell’espressione del gene X fragile sullo sviluppo precoce della materia bianca nei bambini – ha detto il primo co-autore Jason Wolff, PhD, ex postdoctoral fellow presso UNC-Chapel Hill e ora assistente professore di Psicologia dell’Educazione presso l’Università del Minnesota – Il nostro lavoro evidenzia che il circuito della materia bianca è un obiettivo potenzialmente promettente e misurabile per l’intervento precoce, tuttavia, il raggiungimento dell’obiettivo dell’intervento infantile per la X Fragile richiederebbe probabilmente sforzi enormi di screening neonatale.

 

Guarire la frammentazione del Sé – Report dal Workshop con Janina Fisher, 7-8 Aprile 2018

Janina Fisher è una psicoterapeuta molto nota per la sua esperienza clinica e formativa nell’ambito del trauma. Nelle giornate del 7 e 8 Aprile 2018 ha tenuto un workshop, Guarire la frammentazione del sé, in cui ha affrontato il tema della dissociazione, con importanti riferimenti alla teoria dell’attaccamento, alle neuroscienze, alla mindfulness e ovviamente alla psicoterapia sensomotoria.

 

 Janina Fisher è una psicoterapeuta molto nota per la sua esperienza clinica e formativa nell’ambito del trauma. È vicedirettrice del Sensorimotor Psychoterapy Institut e ha lavorato presso il Trauma Center, fondato da Bessel van der Kolk.

In queste due giornate formative la Fisher affronta il tema della dissociazione, con importanti riferimenti alla teoria dell’attaccamento, alle neuroscienze, alla mindfulness e ovviamente alla psicoterapia sensomotoria.

Il workshop prende il via con queste sue parole:

Possiamo dirci guariti nel momento in cui accettiamo noi stessi, ci perdoniamo per quello che è successo arrivando addiritura ad amarci.

Janina Fisher: quando l’attaccamento diventa traumatico

Ma è la qualità dell’ attaccamento da bambini a determinare l’ attaccamento che da adulti abbiamo verso noi stessi, la nostra capacità di consolarci e perdonarci. Ecco perchè Janina Fisher riprende la teoria dell’attaccamento con particolare attenzione agli effetti nocivi sullo sviluppo nervoso di un attaccamento traumatico. I genitori disponibili supportano i figli piccoli nella gestione delle loro emozioni più intense, aiutandoli a sviluppare un’ampia finestra di tolleranza (Siegel, 1999), un range all’interno del quale le diverse intensità di attivazione emotiva e fisiologica possono essere integrate senza interrompere la funzionalità del nostro sistema, permettendoci così di dare un significato alle esperienze integrando le informazioni del nostro mondo interno con quelle provenienti dall’esterno.

Se i genitori invece creano paura perchè abusano o trascurano, il bambino reagirà con impulsività o si paralizzerà restringendo così lo spazio in cui può fare esperienza di emozioni che si sente in grado di poter gestire. Traumi ripetuti o esperienze negative prolungate possono infatti compromettere la nostra capacità di sintonizzarci con il range ottimale di attivazione a favore di modalità di iper o ipo attivazione.

Il fallimento dell’ attaccamento genitoriale interferisce inoltre con l’interiorizzazione di un senso del Sé coerente: rinnegare bisogni che non possono essere soddisfatti o emozioni inaccettabili può essere adattivo ma il prezzo da pagare è l’alienazione dal Sé e la frammentazione.

Accanto così ad una parte che ha bisogno di continuare a funzionare nella quotidianità, c’è una parte emotiva che a sua volta può contare al suo interno diverse parti.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Janina Fisher: Guarire la frammentazione del Sé - Report dal workshop - IMM. 1

Imm. 1 – Strategie difensive delle Parti del Sé (Fisher, 2009)

Janina Fisher: Guarire la frammentazione del Sé- Report dal workshop - IMM.2

Imm. 2 – Le risorse delle Parti (Fisher, 2006)

 

Ognuna di queste parti dissociate strutturalmente si manifestano in reazioni difensive ma una delle cose più importanti da trasmettere ai pazienti è che non si tratta di parti “cattive” poichè ognuna nasconde in sé una risorsa, una sorta di dono di cui hanno bisogno tutti gli esseri umani. Ecco allora che anche la parte che attacca, che può essere quella che induce a gesti autolesivi, è anche quella che potrebbe invece darci coraggio per affrontare le situazioni più difficili.

La maggior parte di noi ignora l’esistenza di queste parti che nel corso della giornata si alternano in modo rapido sul palcoscenico del nostro mondo interno e allora la psicoterapia diventa l’opportunità per ascoltare questa comunità interiore che parla un linguaggio soprattutto di sensazioni e d’impulsi.

La prima giornata del workshop Guarire la frammentazione del Sé si chiude a tal proposito con la visione di un filmato di una terapia di coppia in cui Janina Fisher aiuta i partner a riconoscere proprio il ruolo delle loro parti bambine all’interno della loro relazione.

Guarire la frammentazione del Sé: il blending e unblending

All’avvio della seconda giornata del workshop, Janina Fisher ci parla del blending (fusione) per descrivere cosa accade quando un’emozione prende il sopravvento: il paziente suicidario per esempio spesso si fonde con la parte suicida, si identifica completamente con la disperazione ed è proprio questa identificazione a determinare la patologia. Il paziente deve essere invitato alla curiosità, una parola più volte ripetute da Janina Fisher in queste due giornate dell’incontro Guarire la frammentazione del Sé, per mettere in discussione l’idea che lui effettivamente sia la parte in cui si sente completamente immerso. Il terapeuta deve aiutare il paziente a capire che le emozioni più difficili sono solo emozioni di una o più parti di lui e per stare meglio dovrà imparare a distanziarsene.

Il terapeuta diventa allora un interprete simultaneo per tradurre nel linguaggio delle parti la narrazione del paziente che avviene invece in prima persona (“io faccio sempre degli errori” → “ecco la parte del bambino che pensa di sbagliare sempre”). Questo nuovo linguaggio incrementa la mindfulness, utile per disidentificarsi dal sintomo (“sono un fallimento” → “sta passando in me questo pensiero di fallimento”) in primo luogo perchè il semplice dirsi che una parte di noi è ansiosa, anzichè attribuire alla nostra intera persona questo stato emotivo, porta già ad una dimunizione del livello di ansia, avendo il linguaggio un effetto diretto sul corpo.

L’ unblending (scissione) è proprio questa capacità di notare una parte e disidentificarsi da essa in quanto una delle tante: si può notare un’emozione, una sensazione ed anche un pensiero senza necessariamente identificarsi in esso. Il passo successivo è comunicare empatia per la parte identificata, perché vogliamo che il paziente provi simpatia e desiderio di accudimento verso il bambino coraggioso che si è ribellato alla mamma aggressiva o verso il bambino che taceva per proteggersi dalla possibilità di cadere vittima di abuso.

Quando il paziente ha queste emozioni positive verso le sue parti è il momento buono per “riparare” l’attaccamento, per curare la memoria di una rottura precoce che si nasconde dietro a emozioni di vergogna, paura e tristezza. Se è vero che i ricordi che abbiamo sono codificati nelle reti neuronali e non possono cambiare è anche vero che possiamo creare nuove reti che fanno sì che il ricordo venga inserito in un nuovo percorso, conferendo quindi ad esso un finale diverso.

Lo scopo del lavoro con le parti è proprio questo: accettare quello che di brutto è accaduto ma darsi la possibilità di scrivere un lieto fine, “tenendo il nostro sé bambino nel marsupio del nostro sé adulto”.

Il workshop Guarire la frammentazione del Sé si è concluso dopo due giornate intense, ricche di spunti per migliorare la nostra parte “terapeuta” ma anche per far riflettere sulle nostre altre parti interne.

 

 

La vita segreta della mente (2017) – Recensione del libro di M. Sigman

“Come funziona il nostro cervello quando pensa, sente, decide” è il sottotitolo del lavoro del neuroscienziato argentino M. Sigman, edito da UTET. Una lettura facile e scorrevole per chi vuole guardare da vicino la biologia del cervello e come funziona la mente nella quotidianità.

Il testo scorre in modo semplice e per nulla semplicistico: si leggono esperimenti, prove, risultati e ricerche scientifiche proprio sul funzionamento della mente “quando pensa, sente e decide”. Sigman non si limita a quello dell’adulto, ma si addentra nell’ancora più oscuro e inesplorato cervello dei neonati. Vengono affrontati numerosi temi: come si formano le idee? Come prendiamo le decisioni? Come sogniamo? Come si trasforma il cervello e come noi cambiamo con lui?

Il libro è concepito come un viaggio nella mente, in cui convergono numerosi contributi di psicologia, neurobiologia, cinema, arte, matematica, linguistica, filosofia e tanto altro ancora. Si alternano capisaldi teorici e innovative scoperte, tra citazioni di grandi filosofi e di grandi luminari.

Aneddoti personali e riferimenti bibliografici si articolano contribuendo a spiegare (ergo comprendere) numerosi fenomeni comuni, ma non banali. Sei capitoli per poco più di 250 pagine si aprono con questi interrogativi: “Come pensano i neonati?” “Come nasce la coscienza?” “Come e quanto ci governa l’inconscio?” “Come scegliamo di fidarci?” “Cosa accade durante i sogni?” “Cosa rende il nostro cervello predisposto al cambiamento?” “Come possiamo mettere a frutto ciò che sappiamo sul pensiero per insegnare meglio”?

La mente dei più piccoli: come pensano i neonati?

Dopo aver esplorato vecchie e nuove concezioni di come funziona l’architettura della mente, l’autore chiarisce che il bambino non è un adulto in miniatura, ne una “tabula rasa” dove vengono inscritti apprendimenti e conoscenze, anzi. Il punto di vista di Piaget viene stravolto e viene rivisto un suo esperimento, annoverato tra i più importanti della storia della psicologia ovvero “A non B”.

Nella situazione sperimentale sopra citata, si mostra ad un bambino un oggetto in una posizione (A) e poi l’oggetto viene spostato in un’altra posizione (B). Il bambino continuerà a cercare nella posizione A nonostante veda lo spostamento. Secondo lo studioso francese la cosiddetta “permanenza dell’oggetto” avrebbe previsto un ragionamento che andasse oltre ciò che appare alla superficie dei sensi; pertanto questa facoltà non sarebbe sviluppata nei bambini di pochi mesi. Tuttavia, l’interpretazione attualmente più plausibile, alla luce degli studi odierni, è invece che i bambini (stiamo parlando di bimbi di 10 mesi) sanno che l’oggetto è stato cambiato di posto ma non sono in grado di utilizzare l’informazione, poiché possiedono un controllo volatile delle loro azioni; in altre parole non hanno sviluppato il controllo inibitorio. Sono concezioni copernicane che ribaltano la concezione del neonato e della sua mente, così come resoci dai precedenti studiosi, di cui Sigman riconosce il grande valore.

In seguito vengono affrontati i vari processi cognitivi nella loro genesi e nel loro sviluppo. E’ dimostrato che le capacità cognitive non si sviluppano in modo omogeneo, qualcosa nasce prima, qualcosa si sviluppa con il tempo.

Come si sviluppano i processi cognitivi nella mente del neonato?

Secondo quanto scrive Sigman, l’elaborazione dei concetti appare innata, mentre le funzioni esecutive appaiono appena abbozzate alla nascita.

Anche l’attenzione viene esaminata, tra le tante cose, come maturi molto prima il sistema che permette di orientare l’attenzione verso un nuovo elemento piuttosto che quello che permette di sganciarsene. Questo spiega perché sia così più complesso distogliere volontariamente l’attenzione; allo stesso tempo, spiega perché i bambini riescano a smettere di piangere quando vengono attratti da un altro stimolo nell’ambiente che richiami la loro attenzione.

Altro spazio viene dato al linguaggio a partire dall’idea rivoluzionaria della linguistica di Chomsky e da innumerevoli studi condotti su bambini di appena qualche ora di vita. Anche in questo caso i neonati non sarebbero assolutamente contenitori vuoti da riempire di nozioni, ma nascerebbero con predisposizioni già formate all’apprendimento del linguaggio. Valutando l’intensità di suzione, per esempio, ricercatori hanno notato come un neonato possa discernere tra suoni provenienti da lingue diverse. Il neonato avrebbe infatti un cervello universale per il linguaggio in grado di distinguere le differenze fonologiche di tutte le lingue; è con il tempo che poi si specializza sui fonemi propri della lingua madre.

Il libro prosegue raccontando come l’apprendimento avvenga in un modo assimilabile al processo del correttore automatico del T9 dei nostri smartphone e spiega perché imparare una lingua da adulti ci risulti più difficile. Da grandi diventiamo meno bravi ad ascoltare semplicemente i suoni ma restiamo più attenti ad apprenderne il significato a discapito della musicalità e dei suoni delle parole stesse (meccanismo invece utilizzato proprio dai bambini quando imparano a parlare).

Si susseguono descrizioni dello sviluppo di concetti sempre più complessi dimostrando di volta in volta, con esperimenti brillanti nella loro semplicità, come i bambini possano elaborare concetti astratti e sofisticati come quello di morale, di furto, di buono, cattivo, giusto e sbagliato. I bambini di 6 mesi infatti sono già in grado di inferire intenzioni, desideri bontà e cattiveria arrivando a dimostrare come la nozione di proprietà (in inglese mine) preceda quella di identità (in inglese me).

Come scegliamo? Come diamo fiducia agli altri nelle nostre decisioni?

Tramite racconti storici e scientifici, da Chrurchill a Turing, viene sviscerato il processo decisionale in numerosi suoi aspetti, tenendo di conto del valore dell’azione, del costo del tempo investito, dell’urgenza di rispondere in una chiara ottica neuronale

[blockquote style=”1″]Chi prende decisioni sa molto di più di quanto crede di sapere[/blockquote].

La stessa cosa varrebbe anche prendendo in considerazione tutte quelle scelte che prendiamo “di pancia” (che l’autore riporta con la parola spagnola “corazonada”): l’importanza delle risposte e degli indizi corporei sarebbero importanti messaggi dai quali partire per trarre informazioni dall’ambiente interno ed esterno, molto prima che il livello consapevole entri in funzione, in linea con gli ormai sempre più centrali approcci “bottom up”.  Vengono poi sviscerate le differenze tra decisioni utilitaristiche e deontologiche, tra neurobiologia ed esempi di dilemmi; vengono raccontati esperimenti geniali nella loro semplicità per spiegare meccanismi complessi come la fiducia nell’altro e la generosità.

Perché gli adolescenti sono soggetti a comportamenti più rischiosi?

L’adolescenza è notoriamente uno dei periodi di maggiore rischio e questo potrebbe essere spiegato anche dall’immaturità della corteccia prefrontale (deputata alla valutazione delle conseguenze future e all’inibizione degli impulsi); questo non spiega perché non siano i bambini (con la corteccia ancor più immatura) ad esporsi ai rischi più degli adolescenti.

Gli studi riportano che la percezione del rischio “dipenda” dalla zona cerebrale del “nucleus accumbens” del sistema limbico che corrisponde alla percezione del piacere edonistico e sessuale; studi infatti riportano che in presenza di eccitazione sessuale aumenta la predisposizione a comportamenti rischiosi o ritenuti inaccettabili a mente fredda e pertanto la risposta alla domanda potrebbe proprio unire questi due importanti dati noti: l’adolescenza è la simultaneità tra l’immaturità di sviluppo della corteccia e il consolidato sviluppo del nucleus accumbens che insieme fanno sì che vi sia la ricerca di rischio e piacere in assenza di un completo sviluppo di processi inibitori. Tutto ciò rappresenta un’ulteriore conferma all’ipotesi che lo sviluppo del cervello abbia un andamento tutt’altro che omogeneo.

“Dentro” la mente: come funzionano coscienza, sogni e inconscio?

Anche argomenti come coscienza, sogno, inconscio trovano spazio e un nuovo tentativo di definizione. Si comincia ovviamente da Freud ma si parla del cervello e di come questo sia in grado di osservare e monitorare i suoi stessi processi, di controllarli, inibirli o modificarli in quello che viene chiamato “preludio alla coscienza”.

Nel capitolo “I viaggi della coscienza”, vengono presi in considerazione il sonno e il sogno, con ampio spazio dedicato alle alterazioni indotte da sostanze e su quali meccanismi di funzionamento si poggino le varie droghe, dalla cannabis alla cocaina all’ “ayahuasca”.

Qual’è il limite di età per apprendere? Le neuroscienze come possono aiutarci ad apprendere?

Sigman risponde scientificamente anche a domande interessanti come “C’è una età limite per apprendere? Si nasce talentuosi o si diventa?”. Si può apprendere a tutte le età e le difficoltà di apprendimento tardivo non dipendono da altro se non dal fatto che da grandi abbiamo forse meno tempo e meno motivazione di quanta ne abbiano i bambini.

L’ultima parte viene lasciata a sollecitare domande pratiche: come possono le neuroscienze e le loro sempre più innovative scoperte essere utili all’educazione e all’insegnamento? Va da sé che nell’ambito della dislessia la risposta, per esempio, sia già arrivata. La dislessia infatti non dipende da problematiche legate all’intelligenza o alla motivazione, ma proprio da una specifica difficoltà di regioni del cervello di mettere in connessione la visione con l’udito.

Nell’ultimo capitolo del libro vengono illustrate altre importanti asserzioni, ad esempio: come per apprendere occorra a volte dis-apprendere qualcosa; come il migliore insegnante sia spesso un compagno, alimentando l’importanza della “peer education” e riproponendo l’ipotesi di come questa tendenza ad insegnare possa essere innata.

Il libro è estremamente denso: domande, risposte, strumenti, citazioni, esempi, riferimenti. Quello che stupisce e diverte, è la facilità con cui tutto questo è riportato. Da Harry Potter a John Lennon, da Piaget a Platone passando per numerosi premi Nobel, con il filo conduttore supremo delle neuroscienze, il lettore ha la possibilità di accedere a concetti e questioni per niente banali, in modo intuitivo e semplice. Questo è solo uno dei grandi meriti dell’autore che in questo libro ha brillantemente riportato il lavoro di 20 anni di carriera densa di importanti riconoscimenti.

 

Scuola: l’intelligenza emotiva come prevenzione del disagio di bambini e adolescenti

A scuola, appare evidente il ruolo centrale che i processi affettivi giocano nell’organizzare l’esperienza e il comportamento. La scuola, in un’ottica di prevenzione, ci può aiutare nello sviluppo dell’ intelligenza emotiva.

Luisana D’Alessandro, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DI TRONTO 

 

Il costrutto di intelligenza emotiva

Il concetto di Intelligenza emotiva è stato introdotto da Salovey e Mayer (1990) per descrivere “la capacità che hanno gli individui di monitorare le sensazioni proprie e quelle degli altri, discriminando tra vari tipi di emozione ed usando questa informazione per incanalare pensieri ed azioni”.

Goleman, nel 1995, riprende tale concetto mediante la pubblicazione del suo libro ” Intelligenza emotiva ”; questo termine, secondo Goleman, include l’autocontrollo, l’entusiasmo e la perseveranza, nonché la capacità di auto-monitorarsi.
Questi concetti possono essere insegnati ai bambini, mettendoli nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro (Goleman, 1995).

Si afferma, che la famiglia è il primo contesto in cui apprendiamo gli insegnamenti riguardanti la vita emotiva. L’educazione emozionale opera, non solo attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate al bambino, ma anche attraverso i modelli che gli offrono mostrandogli come gestiscono i loro sentimenti e la propria relazione coniugale. Avere dei genitori intelligenti, sotto il profilo emotivo, è una fonte di beneficio per il bambino.
I bambini che imparano a gestire le proprie emozioni e a controllare i propri istinti tollerano meglio le situazioni stressanti, imparano a comunicare meglio i propri stati emozionali e sono in grado di sviluppare relazioni positive con la famiglia e gli amici e ottengono maggiori successi a scuola.

Intelligenza emotiva: la scuola come contesto di prevenzione

La scuola, in un’ottica di prevenzione, ci può aiutare in questo compito.
In un clima favorevole alla crescita, l’apprendimento è più profondo, procede più rapidamente, in quanto nel processo è investita l’intera persona, con sentimenti e passioni al pari dell’intelletto (Rogers, 1978).

A scuola, appare evidente il ruolo centrale che i processi affettivi giocano nell’organizzare l’esperienza e il comportamento. In ultima analisi, “non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva” (Galimberti, 2001).
L’analfabetismo emozionale rappresenta un fattore di rischio e pericolo per la società. L’esclusione o la marginalizzazione nei programmi scolastici di spazi da destinare alla formazione emozionale, è un indicatore negativo che può spiegare l’impotenza delle istituzioni scolastiche di fronte all’aumento delle difficoltà e del disagio, oltre all’insorgenza di alcuni disturbi fra gli adolescenti e i bambini (Mariani, 2001).

Il disagio giovanile, rilevabile in ambito scolastico, è inquadrato in “un insieme di comportamenti disfunzionali (scarsa partecipazione, disattenzione, comportamenti prevalenti di rifiuto e di disturbo, cattivo rapporto con i compagni, ma anche assoluta carenza di spirito critico), che non permettono al soggetto di vivere adeguatamente le attività di classe e di apprendere con successo, utilizzando il massimo delle proprie capacità cognitive, affettive e relazionali“. (Mancini e Gabrielli, 1998). La sofferenza psicologica, come evidenziato dalle ricerche in questo settore, può comportare stress, ricollegabile alle prestazioni scolastiche, comportamenti di angoscia e insicurezza, problemi di comunicazione, sintomi di tensione e assunzione di sostanze psico-attive (Baraldi e Turchi, 1990). Tutto ciò può sfociare in fenomeni rilevanti come bullismo, difficoltà d’ apprendimento, deficit di attenzione e iperattività o rifiuto della scuola; tali fenomeni rendono ancora più visibile l’impotenza dei genitori e degli insegnanti.

Goleman, nel suo libro Intelligenza emotiva, riporta l’esperienza di una scuola di San Francisco, con quindici alunni di quinta elementare. In questa scuola viene proposto un programma di alfabetizzazione emotiva; si richiede che “gli insegnanti e gli studenti si concentrino sul tessuto emozionale. La strategia consiste nell’utilizzare come argomento del giorno le tensioni e i traumi presenti nella vita dei bambini. Gli insegnanti parlano di questioni concrete: del dolore di sentirsi esclusi, dell’invidia e dei contrasti che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola” (Goleman, 1995). I programmi di alfabetizzazione emotiva proposti nell’ambito della prevenzione, hanno come obiettivo quello di consentire un’adeguata gestione dei sentimenti. Le finalità dello sviluppo dell’ intelligenza emotiva riguardano pertanto la conoscenza, l’acquisizione e la realizzazione delle competenze emotive relative a cinque aree: Consapevolezza di sé, Autocontrollo, Motivazione, Empatia, Abilità sociali.

Nello specifico:
1. Consapevolezza di sé: conoscere in ogni istante i propri sentimenti e le proprie preferenze e usare questa conoscenza per guidare i processi decisionali; avere una valutazione realistica delle proprie abilità e fiducia in se stessi.
2. Autocontrollo: gestire le proprie emozioni in modo che facilitino il compito in corso invece di interferire; essere coscienziosi e capaci di rimandare le gratificazioni per perseguire i propri obiettivi; saper ben fronteggiare la propria sofferenza emotiva.
3. Motivazione: usare le proprie preferenze più intime per spronare e guidare se stessi al raggiungimento dei propri obiettivi, come pure per aiutarsi a prendere l’iniziativa; essere altamente efficienti e perseverare nonostante insuccessi e frustrazioni.
4. Empatia: percepire i sentimenti degli altri, essere in grado di adottare la loro prospettiva e coltivare fiducia e sintonia emotiva con un’ampia gamma di persone fra loro diverse.
5. Abilità sociali: gestire bene le emozioni nelle relazioni e saper leggere accuratamente le situazioni sociali; interagire fluidamente con gli altri e usare queste capacità per guidarli, per ricomporre dispute, come pure per cooperare e lavorare in equipe.

L’ autoconsapevolezza rappresenta un aspetto centrale per capire la propria vita affettiva e favorire nel bambino tale consapevolezza, determina un consolidamento della capacità di valutare e regolare meglio quello che accade quando si è preda di un’emozione intensa e distruttiva.
Questo nuovo punto di partenza nell’introdurre l’alfabetizzazione nelle scuole fa delle emozioni e della vita sociale vere e proprie materie di insegnamento cosicché questi aspetti tanto rilevanti della vita quotidiana dell’alunno non vengono più considerati come intrusioni non pertinenti né come occasionale materia disciplinare (Goleman, 1995). Le lezioni possono apparire piatte, inadeguate a offrire una soluzione ai problemi che affrontano, ma sono assai significative. L’apprendimento emozionale mette le radici e fruttifica, dando risultati in futuro (Goleman, 1995). In sintesi, il repertorio comportamentale dell’uomo, secondo Goleman, è in buona parte determinato dalle emozioni (Goleman, 1998).

L’esigenza di progettualità, d’altra parte, trova spiegazione e conferma nelle più recenti ricerche psicologiche nell’ambito del disagio che sottolineano la necessità di offrire interventi sistematici di supporto e consulenza ai giovani (Mariani, 2003). Ciò deve avvenire proprio in riferimento alle problematiche della fase “autonoma e prolungata” dell’adolescenza, caratterizzata dall’attivazione di stati emozionali intensi, di sofferenza.

Fondamentale è “essere nella prevenzione” in quanto ci permette di costruire validi e profondi rapporti con i bambini e i giovani, antidoti del disagio.
Sintonizzarsi con gli alunni e con i figli, offrire loro le parole che identificano quello specifico stato emotivo, condividere il significato di ciò che sentono e di conseguenza analizzare le problematiche connesse e le possibili soluzioni è un’azione altamente educativa. Costituisce, infatti, un’occasione di riflessione e di confronto con sé e con l’altro, diminuendo il rischio di perdersi nella “sicurezza” offerta da qualsiasi forma di dipendenza (Mencaroni, 2013).

Se c’è una cosa da considerare, è l’importanza di guardare ai giovani con occhi liberi da ogni pregiudizio culturale, di ascoltarli aprendo la mente e il cuore, perché, se non si propongono valide alternative, “il giovane rabbioso di oggi è destinato a diventare l’uomo solitario e ostile di domani”. (D.Kindlon, M.Thompson, 1999).

E’ indispensabile, infine, riaffermare che “l’alfabetizzazione emozionale può per certi versi apparire come un esercizio banale, o comunque insufficiente a impedire le multiformi manifestazioni del malessere giovanile, ma l’obiettivo finale di formare nell’ambito scolastico esseri umani, in un clima di libertà e dignità, costituisce un traguardo fondamentale per il nostro futuro e per quello della scuola” (Vignati, 2000).

Il diffondersi di esperienze formative centrate sulla crescita emozionale, credo autorizzi la speranza in un futuro nel quale la scuola assumerà il compito educativo prevalente di promuovere qualità e attitudini come l’autocontrollo e la sicurezza di sé, l’esprimere i sentimenti, l’arte di ascoltare e di risolvere i conflitti, di cooperare, e tutte le altre abilità della vita emotiva.

Le anomalie cerebrali correlate all’ADHD sarebbero osservabili già in età prescolare

Lo studio, finanziato dal National Institutes of Health (NIH) americano e pubblicato sul Journal of International Neuropsychological Society, rappresenta il primo esame completo del volume cerebrale dei bambini prescolari con Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività (ADHD) e potrebbe aiutare a determinare nuovi modi per prevedere i bambini più a rischio di sviluppare il disturbo.

 

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività o ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è uno tra i disturbi più comuni diagnosticati durante la prima infanzia. Ad oggi, gli studi di valutazione dello sviluppo cerebrale strutturale nei bambini affetti hanno esaminato soggetti in età scolare, nonostante i sintomi si osservino anche in età prescolare.
Utilizzando la risonanza magnetica (RM) ad alta risoluzione e le misure cognitive e comportamentali, i ricercatori del Kennedy Krieger Institute hanno osservato lo sviluppo cerebrale di 90 bambini di età compresa tra i 4 e i 5 anni. I bambini facenti parte del campione sono stati selezionati con cura per consentire una miglior comprensione dei meccanismi cerebrali associati all’insorgenza del disturbo. Un’ulteriore sfida era rappresentata dalla strumentazione scelta: l’utilizzo della risonanza magnetica con questi bambini è complicato perché richiede l’immobilità per un periodo di tempo relativamente lungo. Per ovviare al problema i piccoli partecipanti sono stati sottoposti a una procedura di desensibilizzazione comportamentale personalizzata in cui si utilizzava uno scanner fittizio per preparare i bambini alle scansioni vere; con queste sessioni di preparazione l’efficienza del trial clinico è stato quasi del 90%.

I risultati indicano che le anomalie a livello della struttura cerebrale possono essere evidenti già nelle prime fasi dello sviluppo, in particolar modo si è osservato che i bambini in età prescolare con ADHD mostrano un volume cerebrale significativamente ridotto in più regioni della corteccia cerebrale, inclusi i lobi frontali, temporali e parietali, regioni tipicamente coinvolte nel controllo cognitivo e comportamentale.
Le evidenze trovate rappresentano la prima fase di uno studio longitudinale che seguirà i bambini fino in adolescenza con l’obiettivo di prevedere i soggetti che svilupperanno con più probabilità il disturbo nel corso degli anni.

Mark Mahone, autore principale dello studio ha affermato: Lo studio conferma che l’ ADHD è una condizione che presenta manifestazioni a livello sia fisico che cognitivo. La nostra aspirazione è quella di riuscire a riconoscere i primi sintomi, cerebrali e comportamentali, maggiormente associati al disturbo e perché no, identificare gli aspetti dello sviluppo precoce che possono condurre a miglioramenti. Comprendere ciò che accade nel cervello può portare a creare interventi mirati e preventivi nei bambini piccoli per ridurre gli esiti negativi o addirittura invertire il corso di questa condizione.

I percorsi clinici della Psicologia – Metodi strumenti e procedure nel SSN (2018) – Recensione del libro a cura di Daniela Rebecchi

Negli ultimi anni in Italia si assiste ad un incremento dei problemi di salute mentale, in particolare dei sintomi di ansia e depressione,  soprattutto nella fascia di età giovanile. Come far fronte al fenomeno?

Sara Sgambati

Questo dato sulla salute mentale indica innanzitutto la necessità di interventi adatti ai bisogni emergenti e specifici delle singole popolazioni di utenti.

“I percorsi clinici della psicologia” rappresenta il continuativo e prezioso lavoro condotto sul campo degli stessi professionisti psicologi-psicoterapeuti dell’AUSL di Modena che hanno contribuito a scrivere il volume. Il libro vuole essere un utile strumento per l’attività clinica svolta con un metodo strutturato, basato su evidenze scientifiche e linee guida, che propone procedure d’intervento validate per i problemi di salute trattati nelle diverse realtà sanitarie. Al suo interno viene descritta la realtà del Servizio di Psicologia dell’Ausl di Modena, attivo da 15 anni, operante in modo trasversale tra i Servizi e tra i Dipartimenti.

Psicologi e psicoterapeuti nel SSN per la salute mentale

Il volume è diviso in tre parti: nella prima è definita la premessa in base alla quale è nato il libro, ovvero il ruolo della Psicologia all’interno del Sistema sanitario Nazionale. In quella centrale viene posta l’attenzione sull’appropriatezza degli interventi e le valutazioni di esito, necessari per un’operatività ed una professionalità che permettano di adeguare le evidenze al contesto operativo. L’ultima è la parte più operativa, ove vengono delineati i percorsi clinici delle diverse problematiche e/o disturbi rilevanti nel contesto sanitario per l’intervento sulla salute mentale.

A questo proposito, sono proposti protocolli operativi specifici dell’età adolescenziale come nel capitolo “Diagnosi e trattamento sugli adolescenti con sintomatologia di tipo depressivo lieve e moderata”, o propri di una particolare fase del ciclo di vita in “Valutazione e trattamento della depressione in gravidanza e nel post-partum”, o ancora di una dipendenza in “Valutazione e trattamento del gioco d’azzardo patologico”.

Inoltre sono approfonditi ambiti specifici di intervento che suggeriscono esperienze quali: interventi di gruppi psicoeducativi per i familiari di pazienti con disturbo borderline della personalità, o specifici dell’ambito ospedaliero come i trattamenti psicologici per pazienti affetti da patologie cardiache, o ancora su un problematica emergente quale il percorso di accompagnamento al cambiamento per uomini autori di violenza di genere in ambito intrafamiliare. Ogni percorso si declina in studi di evidenza e linee guida fino alla valutazione finale dell’intervento, proponendo strumenti tra cui testistiche da poter utilizzare.

Dalla lettura del libro si coglie quanto, grazie ad un’organizzazione e ad un coordinamento dell’attività psicologica, possano divenire operativi degli interventi disciplinari e professionali di comprovata efficacia e scientificità e quanto questi possano integrarsi e raccordarsi con altre discipline e con altri professionisti sui bisogni e sulle richieste dei pazienti e delle loro famiglie. Si coglie il valore aggiunto che i professionisti sono riusciti a realizzare, per una attività psicologica e psicoterapica che si rapporta con le altre discipline, per la progettualità di interventi di prevenzione e cura e soprattutto per offrire risposte ai pazienti e ai loro familiari con attenzione ai benefici e ai costi che questo comporta.

In ricordo di Giovanni Liotti e delle sue lezioni

Una di quelle notizie difficili da accettare, una notizia ricevuta in una chat di gruppo. Una chat con alcune colleghe ex allieve di Studi Cognitivi che, come me, hanno avuto la fortuna di assistere ad alcune lezioni del Prof. Gianni Liotti. Inutile descrivere il dispiacere in cui tutte siamo piombate subito dopo aver ricevuto la notizia, poi il silenzio, un silenzio dovuto.

Tutti noi abbiamo apprezzato le sue lezioni, dettagliate e organizzate nei minimi particolari, per consentire a chiunque lo ascoltasse di capire la sua teoria e gli importanti risvolti a livello clinico. Argomento centrale delle sue lezioni erano il trauma complesso e i sistemi motivazionali, tematiche che il prof Gianni Liotti ha sempre studiato e su cui ha tanto scritto e pubblicato, fino a diventare famoso in tutto il mondo, tanto da farci invidiare siffatta mente da accademici e clinici d’oltreoceano.

Eppure le sue lezioni erano molto di più: erano uno spalancare le porte su piccoli universi di psicologia, una chiave per leggere con mente da clinico il mondo che ci circonda, anche i suoi aspetti più piccoli e apparentemente banali.

Il curriculum del prof Liotti lo precedeva, e chiunque lo abbia incontrato almeno una volta ne capisce il motivo. Eppure, tra le tante nozioni che ci ha trasmesso, ho un ricordo in particolare che credo mi accompagnerà a lungo nella professione: il prof. Liotti spiegava il primo incontro con un paziente traumatizzato, descriveva in che modo una sua paziente si faceva del male per non sentire un dolore più grande, quello del trauma subito in tenera età. Nel sentire la descrizione di quegli agiti autolesionistici, molti degli studenti presenti hanno assunto un’espressione di paura, spaventata. È stato allora che il prof Liotti ha detto:

“non dovreste reagire così dinnanzi a chi vi racconta tanto dolore, bisognerebbe pensare che è una persona che soffre e che quello è l’unico modo che ha per gestire la sofferenza”.

È una frase che forse molti studenti si sentono ripetere dai propri didatti, ma il tono di voce con cui fu detta da Liotti mi ha ricordato l’estrema importanza di non essere giudicante, mai, dinnanzi alla sofferenza altrui. Perché, si sa, il più delle volte se si diventa degli illustri studiosi, si è dei grandi clinici di partenza. E per essere grandi clinici, non si può non essere persone sensibili ed empatiche. La prosodia, l’espressione con cui Liotti ci ha rivolto quelle parole sono state un grande insegnamento di cosa significa essere empatici.

Credo che tutti noi, specializzandi seduti in platea ad ascoltare le sue parole, tenderemo a ricordare le sue lezioni come delle esperienze di grande formazione non solo curriculare. Sebbene ne sia grata, ritengo di aver avuto la sfortuna di assistere a poche lezioni di Liotti, penso ai suoi studenti e ai suoi colleghi più stretti, alla perdita che ciò rappresenterà per loro e che il mio dispiacere non sia che una minima parte della loro più grande tristezza. D’altra parte penso, però, che se un didatta ti colpisce e ti resta dentro anche solo dopo poche lezioni, vale la pena ricordare a tutti che persona speciale fosse.

 

Ed è così che mi piacerebbe ricordarlo. In piedi dietro a una cattedra, a godersi il meritato applauso per la sua grande lezione.

 

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista Gianni Liotti per State of Mind nel 2014:

 

Mind wandering nelle persone con ippocampo danneggiato

Mind wandering: è possibile per le persone che hanno l’ippocampo danneggiato? Le scoperte di una recente ricerca del team guidato da Cornelia McCormick

L’ippocampo è una struttura che si trova in entrambi i lati del cervello, nello specifico nei lobi temporali, vicino alle orecchie. Gioca un ruolo importante nella memoria e nel pensiero riferito al passato e al futuro. Proprio questo ha portato una squadra di ricercatori, guidata da Cornelia McCormick al Wellcome Center for Human Neuroimaging, a chiedersi se le persone con danni ad entrambi gli ippocampi siano ancora capaci di mind wandering, partendo dal presupposto che quando sogniamo ad occhi aperti, spesso si tratta di cose che abbiamo fatto o che intendiamo fare. Inoltre: se questi pazienti riescono a vagabondare con la mente, il contenuto dei loro pensieri è diverso da quello dei pazienti sani?

Mind wandering e ippocampo: come si è svolta la ricerca

I ricercatori hanno seguito 6 pazienti maschi con danno bilaterale dell’ippocampo per due giorni durante le ore diurne, occasionalmente chiedendo loro di riferire a cosa stavano pensando e confrontando le loro descrizioni con quelle ottenute da 12 controlli sani. I pazienti con ippocampo danneggiato vagavano con la mente quanto i controlli sani, ma la forma e il contenuto del loro vagare erano molto diversi.
I ricercatori hanno seguito controlli e pazienti (che avevano lesioni piccole ma altamente specifiche all’ippocampo, causate da una forma di encefalite) mentre stavano frequentando un laboratorio psichiatrico dove per due giorni si sono sottoposti a scansioni cerebrali e altri test. Per venti volte al giorno (della durata di 8 ore), i ricercatori hanno domandato ai partecipanti: “A cosa stavi pensando poco prima che te lo chiedessi?”, le risposte venivano immediatamente trascritte. La domanda veniva posta ai partecipanti durante i periodi tranquilli della giornata in cui il vagabondaggio mentale è più probabile.

I risultati della ricerca: le differenze sulla memoria episodica

Codificando le risposte, i ricercatori hanno trovato tassi estremamente elevati di mind wandering – definito come avere pensieri disimpegnati dal mondo esterno (o percettivamente “disaccoppiato”) – tra i pazienti e i controlli, di circa l’80-90%.
Le risposte dei partecipanti rilevano che i pensieri della mente dei pazienti erano molto diversi dai controlli sani. Mentre il mind-wandering dei controlli era per lo più episodico (su eventi passati e presenti) e consisteva in scene visive, il vagabondaggio mentale dei pazienti era in gran parte semantico (sui fatti) e verbale. “Le piccole lesioni selettive del loro ippocampo hanno drammaticamente influenzato la natura del loro vagabondare mentale”, hanno detto i ricercatori.
Questo contrasto nel mind-wandering tra i pazienti e i controlli è giustificato dai test neuropsicologici che hanno rilevato nei pazienti una memoria episodica alterata, ma normale in tutte le altre sfaccettature mnemoniche, compresi i test della memoria di lavoro; quindi è altamente improbabile che fossero incapaci di ricordare i loro pensieri vagabondi.
Sappiamo dalla ricerca fatta con persone sane che la mente che vaga dipende dall’attività in una rete di regioni del cervello nota come “rete modalità predefinita“, che include l’ippocampo. Inoltre, le persone che segnalano viaggi mentali particolarmente ricchi e dettagliati tendono ad avere una connettività più forte tra i loro ippocampi e altre regioni chiave della rete in modalità predefinita.

Tuttavia, questo nuovo studio è il primo a suggerire con forza che un ippocampo intatto è necessario per un “normale” vagabondaggio mentale che coinvolge il viaggio nel tempo mentale e scene visive vivide. I risultati completano anche altre ricerche che dimostrano che i pazienti con danni dell’ippocampo si sforzano di immaginare il passato e il futuro quando vengono incoraggiati a farlo, rivelando che questa menomazione si estende al contenuto del loro pensiero spontaneo.
 
[blockquote style=”1″]Mostrando che l’ippocampo gioca un ruolo causale in un fenomeno onnipresente come il vagabondaggio mentale, questo studio ridefinisce il suo ruolo tradizionalmente percepito nella memoria episodica, ponendolo al centro nelle nostre esperienze mentali quotidiane[/blockquote]

concludono i ricercatori.

Ricordo di Gianni Liotti

È mancato Gianni Liotti, un amico e un importante esponente nell’ambiente scientifico della terapia cognitivo comportamentale italiana e internazionale.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Gianni Liotti fu socio fondatore della SITCC, la Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale, e portò in Italia un modo innovativo e curioso di tentare di mettere in relazione ciò che veniva dalla ricerca evolutiva, dalle neuroscienze, dagli studi sul funzionamento dell’affettività con il mestiere di psicoterapista in un periodo in cui l’unico paradigma psicoterapeutico accettato era quello della psicoanalisi. Questo tentativo d’integrazione è stato il suo codice più costante e innovativo. Leggere e studiare scienza a tutto tondo e integrare ciò che appariva nuovo e interessante con la clinica e con la costruzione del progetto psicoterapeutico.

Dopo la collaborazione iniziale con Vittorio Guidano che fruttò l’importante libro del 1983, Gianni Liotti sviluppò il suo modello di psicoterapia cognitiva evoluzionista, dapprima delineandone le basi teoriche (1994, 2001) e poi elaborando gli aspetti clinici con i suoi collaboratori (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2014). Le idee di Liotti si basavano sugli studi neuroscientifici di Michael Gazzaniga, Michael Tomasello, Daniel J. Siegel e molti altri. Si tratta del modello della mente relazionale, ovvero della mente come entità che prende vita nell’interazione sociale e interpersonale. Questo modello è anche evoluzionista perché teorizza che è nel passato evolutivo che possiamo trovare alcune delle prove che la cognizione nasca e si sviluppi solo nella dimensione interpersonale della coscienza.

Tra gli esempi di nascita della mente relazionale che Gianni Liotti amava ricordare, c’era frequentemente quello dell’atto primordiale di indicare la preda. Nella notte dei tempi un Homo Sapiens indicò una preda da cacciare a un suo compagno. Quel complesso atto cognitivo che fu riconoscere un animale, indicarlo al compagno e significare, per mezzo di quell’atto, una complessa azione di caccia, cattura e uccisione di una preda -legata a sua volta a sofisticate intenzioni pratiche, sociali e cognitive, come cucinarla, procurare da mangiare al proprio gruppo, ottenere rispetto e onore nella tribù e così via- avvenne soprattutto attraverso un episodio interpersonale: io che indico a te –amico mio- e ti propongo una cosa da fare assieme. Al di fuori di quella interazione non sarebbe possibile alcuna cognizione e non era e non è possibile l’esistenza di una mente. Come è noto, non sempre eravamo d’accordo con le sue idee cliniche ma ci piace ricordarlo così, mentre ci raccontava questa storia antichissima e piena di poesia.

Banksy - Trolley Hunters - 2006
Banksy – Trolley Hunters – 2006

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista Gianni Liotti per State of Mind nel 2014:


 

 

Gianni Liotti - SITCC 2012
Gianni Liotti, Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero durante il congresso SITCC 2012 a Ginevra

La regolazione emotiva: sopprimere le emozioni negative può aiutarci a stare meglio?

Un recente studio sembra suggerire che la regolazione emotiva può influire significativamente sui propri sentimenti e sui propri ricordi emotivi. Tutto ciò potrebbe condurci verso nuove modalità di intervento per la depressione.

 

Un recente studio, pubblicato sulla rivista Neuropsychologia, ha indagato come la regolazione emotiva influisce su sentimenti e ricordi negativi. I risultati ottenuti sembrano suggerire la possibilità di sviluppare nuovi metodi di intervento terapeutico per il trattamento della depressione. Spesso i famigliari di pazienti depressi consigliano loro di evitare di soffermarsi troppo sulle emozioni negative e di “andare oltre”, ma compiere questo passaggio non è così semplice.

Nel presente studio, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi, di cui uno di controllo, da 17 soggetti ciascuno, ed è stata monitorata l’attività cerebrale dei soggetti tramite risonanza magnetica funzionale. Il monitoraggio è avvenuto mentre i partecipanti svolgevano un compito di valutazione dell’immagine. Le immagini, 180 in totale, sono state scelte in base ai contenuti neutrali o appositamente create per suscitare emozioni negative. Al primo gruppo è stato chiesto ai partecipanti di sopprimere volontariamente, attraverso esplicite indicazioni, le emozioni negative insorte durante la valutazione della negatività delle immagini. I partecipanti del secondo gruppo, invece, hanno ricevuto delle indicazioni in grado di suscitare la soppressione non consapevole delle emozioni insorte in seguito alla valutazione della negatività delle immagini.
A distanza di una settimana dalla somministrazione delle immagini, i ricercatori hanno misurato gli effetti a lungo termine delle immagini negative sulla memoria episodica.
In questo modo, sono stati dunque esplorati sia gli effetti immediati, ovvero l’esperienza emotiva, sia gli effetti a lungo termine, ovvero la memoria episodica, della regolazione emotiva.

Regolazione emotiva: è possibile sopprimere le emozioni negative?

È emerso come la soppressione esplicita (primo gruppo) sia stata capace di ridurre le valutazioni emotive delle immagini negative. A livello neurale, la soppressione esplicita si mostra con una diminuzione dell’attività nell’amigdala e nel giro frontale inferiore. È stato inoltre registrato come entrambe le forme di soppressione siano associate ad una ridotta connettività funzionale tra amigdala-ippocampo e tra giro frontale inferiore-ippocampo, aree del cervello deputate alla codifica di ricordi emotivi.
Tali risultati permettono un avanzamento nella conoscenza dei meccanismi della soppressione emotiva implicita ed esplicita circa la percezione e la memoria, suggerendo l’impatto che essi hanno sui meccanismi top-down e bottom-up coinvolti nelle interazioni cognizione-emozione.

Inoltre, i risultati dello studio dimostrano come gli effetti immediati (esperienza emotiva) cambiano se la soppressione è esplicita piuttosto che implicita, in base al modo in cui il cervello elabora le immagini. Solo i partecipanti che hanno soppresso esplicitamente le proprie emozioni negative si sono sentiti meglio durante la visualizzazione delle immagini negative.
Gli effetti a lungo termine (memoria episodica), invece, risultano simili sia in un caso che nell’altro. A distanza di una settimana dalla visualizzazione delle immagini, infatti, sia la soppressione esplicita sia quella implicita hanno ridotto la capacità dei partecipanti di ricordare le immagini.

Il presente studio ed i risultati ottenuti forniscono alcune informazioni utili per aiutarci a capire come sia possibile fronteggiare i sintomi della depressione o di altri disturbi dell’umore in quanto “sopprimere le emozioni sembra ridurre i ricordi negativi, sia che lo si faccia consapevolmente o inconsciamente”, sostiene Katsumi.
Eppure, non sempre è possibile per tutti rifarsi alla soppressione esplicita, in quanto è un processo che richiede uno sforzo significativo dal punto di vista cognitivo e spesso le persone in condizioni cliniche non hanno le energie per attingere alle proprie risorse cognitive.

Il comportamento prosociale: come può cambiare in seguito a un trauma cranico

E’ possibile che due veterani di guerra, entrambi con trauma cranico causato da uno sparo, attuino un comportamento prosociale completamente differente tra loro: uno tende a donare il proprio denaro alle entità sociali in cui crede, e l’altro punisce le istituzioni che non lo rappresentano?

 

La risposta a queste differenze comportamentali si basa su aree cerebrali, che dopo essere state danneggiate durante la guerra del Vietnam non funzionano più come dovrebbero. Per chiarire questi meccanismi, un team di neuroscienziati guidati da Oliveira-Souza, autori di una ricerca pubblicata su Brain, hanno studiato il comportamento altruistico – azioni a beneficio degli altri – nei veterani del Vietnam.

Gli effetti del trauma cranico a livello comportamentale

Sappiamo che il trauma cranico può cambiare diversi domini di comportamento, alterando il comportamento sociale o la memoria, ad esempio, a seconda di quali aree del cervello sono state danneggiate. Tuttavia, mappare la relazione tra aree del cervello e comportamento può essere difficile, specialmente per comportamenti complessi come l’ altruismo. I veterani di guerra costituiscono un’opportunità unica per rivelare una relazione causale tra il modo in cui specifiche aree del cervello sono coinvolte nel comportamento prosociale.

Questo studio, che appartiene al filone di un’iniziativa di ricerca avviata durante gli anni ‘80 mirata a studiare le i cambiamenti del cervello nei veterani di guerra, comprendeva 94 veterani di guerra con trauma cranico con penetrazione e 28 del gruppo di controllo coinvolti comunque nei servizi di guerra in Vietnam ma senza lesioni cerebrali.

Tutti i partecipanti venivano sottoposti a un esame del cervello tramite tomografia computerizzata (TC), un metodo non invasivo che consente di indagare i danni cerebrali.

Oltre all’analisi computerizzata, i veterani venivano coinvolti in un compito di decisione altruistica al fine di individuare le loro capacità di ragionamento morale. In questo test, a ciascun partecipante veniva richiesto di donare o punire 30 organizzazioni di beneficenza coinvolte in importanti questioni sociali, come l’aborto e il controllo delle armi.

Ogni decisione (donare o punire) costava $ 1, mentre evitarli comportava risparmiare. Nel compito di decisione, le donazioni e le punizioni sono in genere decisioni altruistiche: comportano l’elargizione dei propri fondi per avvantaggiare terze parti.

Questo test è diverso dagli altri perché ci consente di approfondire le loro intenzioni morali, dal momento che donano o puniscono ciò che ritengono giusto o sbagliato – spiega Ricardo de Oliveira-Souza, neurologo del D’Or-Institute for Reasearch and Education.

Il comportamento prosociale nel cervello

Collegando le prestazioni dei partecipanti al test alle loro lesioni cerebrali, gli scienziati hanno scoperto che i veterani che hanno punito di più hanno mostrato lesioni bilaterali nella corteccia prefrontale dorsomediale. D’altra parte, una minore punizione era associata a lesioni nella corteccia sinistra temporo-insulare e destra perisilviana. Tuttavia, le decisioni di donare a una determinata organizzazione sono state associate a lesioni in altre aree del cervello.

L’aumento delle donazioni era legato a lesioni bilaterali nella corteccia parietale dorsomediale, mentre la diminuzione delle donazioni è stata osservata nei veterani che avevano sofferto danni nelle parti posteriori dell’emisfero destro, tra cui il solco temporale superiore e il giro medio-temporale.

Le nostre scoperte rivelano che abbiamo due distinti circuiti cerebrali che entrano in azione in una situazione morale: uno di loro punisce, l’altro dona – sottolinea Oliveira-Souza.

Precedenti studi hanno evidenziato l’importanza di queste aree cerebrali per determinare il senso di moralità e giustizia nei confronti degli individui o dei gruppi sociali. Secondo gli autori, il presente studio rafforza l’idea che le decisioni altruistiche e il comportamento prosociale emergano da complessi processi cognitivi che entrano in azione durante una decisione morale, ad esempio se si è a favore o contro i diritti civili.

Speriamo che imparando di più sui meccanismi cerebrali del comportamento altruistico e del relativo comportamento prosociale possiamo promuovere i comportamenti sociali positivi che le famiglie desiderano, in particolare nei pazienti in riabilitazione per diverse forme di disturbi neurodegenerativi o lesioni cerebrali – dice Jordan Grafman, Brain Injury Research Program, Shirley Ryan AbilityLab, Chicago, USA.

In futuro, gli autori si aspettano di valutare soggetti giovani e le donne con il compito di decisione altruistica, al fine di indagare la possibile presenza di differenze nei circuiti cerebrali della moralità legati al sesso e all’età.

 

Favorire un’efficace gestione delle emozioni nei bambini

L’acquisizione della capacità di regolazione emotiva in età evolutiva si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche, migliorando la qualità di vita dei bambini.

 

Le emozioni assumono un ruolo centrale nella vita degli esseri umani. Lo stato emotivo determina, in modo sostanziale, lo stato di benessere o malessere delle persone e ne influenza le azioni. Ad esempio, alcuni comportamenti disfunzionali come abbuffate, agiti aggressivi, abuso di sostanze, promiscuità, autolesionismo e disturbi internalizzanti come ansia e depressione, sono generati da un’inefficiente regolazione delle emozioni. Per questo motivo, per i genitori risulta fondamentale aiutare i propri figli ad acquisire abilità di regolazione emotiva efficaci, che incidano positivamente sul loro stato di benessere fisico e psicologico.

L’acquisizione di utili modalità di gestione dei propri stati emotivi in età evolutiva, si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche, migliorando decisamente la qualità della vita dei bambini. Ecco alcuni suggerimenti efficaci:

  • Auto- regolazione emotiva sana: i bambini sono ottimi osservatori e tendono a imitare i comportamenti e le reazioni dei propri genitori. Mantenere un atteggiamento calmo e coerente, evitando, ad esempio, di urlare o assumere atteggiamenti intimidatori, a seguito di determinati comportamenti dei bambini (come non sistemare i giocattoli o sporcare casa), può incidere molto nell’aiutare i propri figli a imparare la regolazione emotiva e l’autocontrollo.
  • Riconoscere e validare le emozioni: è importante che i genitori, e in genere gli adulti, facciano attenzione allo stato emotivo dei bambini. In particolare, un atteggiamento giudicante e poco empatico risulta disfunzionale e può spingere i bambini a reprimere le loro emozioni, in quanto etichettate come “sbagliate”. Al contrario, un atteggiamento empatico degli adulti che riconosce e valida l’esperienza emotiva dei bambini, comunica che tutte le loro emozioni sono importanti e che queste, seppur alcune volte possano risultare scomode, non sono pericolose e possono essere gestite. A seguito di interventi empatici da parte dei genitori, i bambini iniziano ad accettare ed elaborare le proprie emozioni, ottenendo una migliore consapevolezza e controllo emotivo.
    Data l’importanza di questo atteggiamento, fondamentale anche all’interno di setting terapeutici, ritengo sia molto utile riportare l’esempio esposto da O’Brien: sei al parco, ed è ora di partire, quindi dai ai tuoi figli un avvertimento: “Ancora cinque spinte nell’altalena e poi è ora di andare”. A questo punto, i bambini spesso si arrabbiano; quindi, il compito dell’adulto è quello di convalidare i loro sentimenti dicendo: “So che ti stavi divertendo. Dobbiamo andare, ma possiamo tornare un altro giorno o possiamo giocare con i tuoi giocattoli a casa”. In altri casi, se il comportamento dei bambini è pericoloso, si può dire: “So che ti piace, ma non è sicuro. Mi dispiace che tu sia arrabbiato (o triste, o deluso) … “.
  • Limita le loro azioni ma non le loro emozioni: quando i bambini sperimentano un’emozione, ad esempio rabbia, dire loro di calmarsi o punirli non cambierà il fatto che loro si sentano arrabbiati. Al contrario, interventi di questo tipo comunicano al bambino che le sue emozioni sono “cattive” o “sbagliate”, così, quest’ultimo cercherà di reprimerle con conseguenze dannose sul proprio sviluppo. Un approccio decisamente migliore è insegnare loro le abilità per gestire le emozioni.
    Un altro fattore fondamentale è porre una netta distinzione tra le azioni e le emozioni che proviamo. In particolare, è importante insegnare ai propri figli che non possiamo scegliere le nostre emozioni, ma possiamo scegliere il modo in cui ci comportiamo; ad esempio, va bene arrabbiarsi, ma non è giusto colpire gli altri o lanciare gli oggetti.
  • Lascia che ti parlino: un’altra strategia che favorisce un buona regolazione emotiva è incoraggiare il bambino a parlare delle sue esperienze, come eventi accaduti a scuola o in altri contesti, con i pari e con gli adulti. Comunicare, non solo la descrizione dell’evento, ma il modo in cui i bambini si sono sentiti, il loro vissuto interiore e le loro reazioni, favorisce una maggiore elaborazione e organizzazione dell’esperienza, che li aiuta a esprimere e lasciar andare tristezze, paure o rabbia legate all’evento stesso. Questa strategia rappresenta un fattore di protezione, eliminando la possibilità di traumi irrisolti ed emozioni represse che tendono a ripresentarsi in futuro, incidendo negativamente sul benessere.
  • Aiutali a trovare sbocchi emotivi salutari: un’importante strategia che incide positivamente sulla qualità di vita, implica apprendere come incanalare le emozioni negative in modi positivi e costruttivi. Avere uno sbocco emotivo sano, come ballare, suonare uno strumento, dipingere, scrivere o intraprendere uno sport, consente al bambino, non solo di rilasciare qualsiasi emozione repressa, incidendo positivamente sulla loro salute mentale, ma anche di migliorare la propria vita sociale.

Non è possibile decidere che emozioni sperimentare, ma possiamo insegnare ai nostri figli come gestirle, guidandoli verso una modalità di auto- regolazione emotiva, in modo tale che queste non vengano vissute come pericolose, in quanto al di fuori della sfera del controllo. Sperimentare le emozioni in maniera adattiva incide positivamente su uno sviluppo sano del senso del sé, sulla salute mentale e sul benessere sociale.

Il Partito Democratico alla deriva: l’universalismo ha cozzato con il bisogno di appartenenza degli esclusi

Può la psicologia farci capire qualcosa della deriva in cui si è cacciato il Partito Democratico? Forse sì, se riflettiamo che la missione di quel partito, e della sinistra europea in genere, è un muscolo stirato dal difficile compito di assicurare l’inserimento economico e sociale universalista agli esclusi e senso di appartenenza civile e sociale ai penultimi.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 24/03/2018

 

Qual è il problema? È che l’inserimento degli esclusi corrode il senso di appartenenza dei penultimi -ma anche dei terzultimi e dei quartultimi e sempre più su nella scala sociale fino alle posizioni alte della fascia media- che così reagiscono ricercando un identitarismo chiuso e sospettoso. Finché lo sviluppo economico coniugava innovazione, sicurezza d’impiego e inclusività, la quadratura riusciva. Merito di Keines più che di Marx, ma non sottilizziamo. Ancora prima era stato lo stesso Marx ad assicurare la quadratura, non con una formula economica di successo (il vecchio filosofo non era forte in questo) ma attraverso una profezia palingenetica che seguiva a una analisi spietata dei difetti del capitalismo, anzi delle sue contraddizioni come si diceva in gergo.

Consideriamo ad esempio l’analisi di Paul Mason, pensatore che peraltro si colloca alla sinistra del PD. Il suo lavoro è davvero istruttivo e fa capire con sottigliezza perché il neoliberismo addomesticato di Blair e Clinton adottato dal PD non riesce ad avere l’afflato universalistico che aveva il modello di Keines. Il problema non è però l’analisi ma la genericità delle soluzioni. Anche Mason conclude la sua esplorazione accontentandosi di aver messo in luce le “contraddizioni” della realtà, irrimediabilmente di destra. Il suo essere di sinistra si riduce all’invocazione di un modello universale che accontenti tutti, dimenticando che fare politica è trovare soluzioni parziali che, senza distruggere nessuno, al tempo stesso realisticamente prendano atto che ogni scelta implica comunque una parziale preferenza per alcuni classi sociali e per alcuni bisogni, compresi quelli identitari e di appartenenza, con tanti saluti all’universalismo progressista. Come accontentare il bisogno identitario senza essere un po’ meno universalisti e quindi un po’ meno di sinistra è un mistero a cui nessuno finora ha saputo rispondere, men che meno quella sinistra anti-modernista e pasoliniana che ha preso atto che anche di questo bisogno occorre prendere atto contro l’universalismo spersonalizzante del capitalismo. Non basta: Mason tenta anche di proporre qualche soluzione, tra le cui pieghe, va detto, è facile vedere qualche dettaglio sovranista e identitario sebbene ben celato, dettaglio che fa a pugni col bisogno universale del pensiero progressista.

Orfano della profezia marxista e del generatore keinesiano di benessere, il PD cerca di andare incontro alle classi oppresse ma offre loro un universalismo che cozza con i loro bisogni appena meno profondi di quello di mangiare: ovvero il bisogno di appartenere e di definirsi anche escludendo qualcuno. Atomizzate da un precariato che non offre sicurezze, percosse da una percezione d’irrilevanza culturale, le classi sociali escluse ma non oppresse non sanno che farsene di sogni universali che somigliano troppo a quella vita metropolitana e stilosa e cool che concorre significativamente a farle sentire profondamente sfigate nella loro provincia e o nelle loro periferie, dalle parti del bar del Giambellino, peraltro oggi di proprietà di una famiglia di cinesi. Insomma, non sarebbe un problema economico ma di carenza di appartenenza e di visibilità, ovvero di sfiga.

Chi è invece attratto dall’offerta del PD? Chi condivide il progetto d’individualismo universalista dei meriti e della vita libera dai lacci non tanto del capitalismo (quelli rimangono) ma del conservatorismo, sensibile alle sofferenze dei veri ultimissimi della terra e non dei penultimi (a questi anzi va un certo disgusto): i migranti nei barconi minacciati dal mare, gli abitanti in fuga o impossibilitati alla fuga delle mille terre in guerra, le donne maltrattate e costrette a battere sul ciglio della strada come rifiuti del mondo. Lo è chi è sensibile alle sofferenze altrettanto stringenti delle tante minoranze di genere o razziali e infine alla sofferenza della terra intera, inquinata dall’uomo e dalle sue passioni sanguinarie e carnivore.

Preoccupazioni così universali ed elevate finiscono per trovare un elettorato solo nelle grandi metropoli del mondo occidentale, mentre non attecchiscono nella grande provincia esclusa, lo strapaese incattivito non solo dalla crisi -e a volte non tanto dalla crisi, che pare stia passando- ma soprattutto dal senso di irrilevanza e di disorientamento culturale. Anche queste, si potrebbe dire, sembrano sofferenze non particolarmente incisive, solo diversamente futili dalle preoccupazioni etiche del ceto riflessivo che abita in centro. Intanto però sono sofferenze che contano nel segreto dell’urna. Già qui si è parlato dell’importanza psicologica per i gruppi sociali del senso di appartenenza.

Baumeister e Leary (1995) hanno studiato il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto. Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un aspetto umano che va compreso e controllato, ma non eliminato. Striato da queste opposte tensioni, il PD finisce per privilegiare il versante universalista e cerca di rassicurare i penultimi promettendo sicurezza economica, ma nella maniera che meno piace ai penultimi: attraverso l’impiego precario e non fisso, come lo era invece quello assicurato dai keinesiani anni di vacche grasse.

Un bel problema, perché così facendo il PD finisce per apparentarsi a classi sociali che di sinistra sicuramente hanno la mentalità, ma manco per niente l’estrazione sociale. La sinistra finisce quindi per rappresentare non una classe sociale, ma uno schieramento etico. E il suo progetto non è più politico, ma –di nuovo- etico e prescrittivo. Difficile pensare a qualcosa di meno marxista. Che fare? Direbbe Lenin. Meglio non pensarci troppo, in attesa di un nuovo Keines o, almeno, di un nuovo Marx che riavvii il motore singhiozzante della sinistra. Non solo in Italia.

 

Il quinto principio di Paul Williams (2014) – Recensione del libro

Primo di una trilogia che Paul Williams ha iniziato a comporre nel 2010, “ Il quinto principio ” racconta la storia dell’infanzia del piccolo Paul, dalla nascita alle scuole elementari. Il racconto è inevitabilmente dell’adulto, o meglio di un Paul adulto che guarda al bambino cercando di descriverne i pensieri, le emozioni, le reazioni più intime. Il testo è breve ma fondamentale per ogni lettore o terapeuta che abbia desiderio di capire gli effetti devastanti del trauma infantile sulla mente di un bambino.

 

Mia madre aveva un sesto senso per colpirci quando eravamo spiazzati o
ci sentivamo tranquilli o ci eravamo divertiti lontano da lei. […]
Sembrava che l’obiettivo della aggressioni fosse di umiliarci e noi eravamo umiliati, ma c’era qualcos’altro. Capii che questo qualcos’altro era l’odio per i bisogni e i sentimenti dei bambini […].
A 4 anni capii che non dovevo più chiederle niente e che dovevo rendermi invisibile.
(da “ Il quinto principio ” di Paul Williams, 2014).

 

Il quinto principio: la storia dell’infanzia del piccolo Paul con gli occhi del Paul adulto

Il lavoro terapeutico dell’adulto – e del Paul Williams psicanalista – chiarifica alcuni passaggi del racconto e permette al lettore di mantenere uno sguardo “metacognitivo” sugli eventi raccontati, che certamente il Paul bambino non avrebbe potuto avere. In questo emerge una grande differenza espressiva rispetto a “Feccia”, il secondo romanzo della trilogia, in cui è l’adolescente a parlare direttamente e a bucare il foglio con parole, pensieri ed emozioni poco o quasi per nulla mediati dall’adulto.

Nonostante il maggior distacco, “ Il quinto principio ” riesce con forza a trasmettere il contatto profondo con quel bambino, con i suoi pensieri e con la sua innata capacità di sopravvivere all’impensabile, offrendo alla coscienza del lettore una brusca sveglia rispetto all’urgenza di intervenire precocemente sulle storie di abuso, maltrattamento e trascuratezza infantile, con tutti i mezzi terapeutici a nostra disposizione.

La forza del racconto muove dalle condizioni estreme in cui Paul ha dovuto vivere sin dalla nascita, trovando in piccoli gesti, strategie e fughe quotidiane, soluzioni essenziali alla sua resilienza. Come è ormai noto in letteratura, vivere un contesto perennemente minaccioso genera necessità ed emozioni differenti: un singolo – seppur grave – evento traumatico può infatti innescare paure, immagini intrusive, un senso di perdita e di fallimento tali da limitare la possibilità di esplorare alcuni spazi di vita prima affrontati senza timori. Quando però ci si trova esposti a molti traumi psicologici nel corso dell’infanzia (trauma cumulativo o complesso), la mente deve adattarsi a ripetute condizioni di minaccia alla vita, di grave trascuratezza e di rinuncia a bisogni primari universali: nutrimento, protezione, sicurezza. In queste condizioni, il cervello e la mente devono ri-organizzare completamente le risposte difensive e renderle più complesse, pervasive ed efficaci nell’affrontare un mondo perennemente imprevedibile e oscuro.

Un contesto familiare gravemente maltrattante e trascurante, genera nella mente di un bambino un paradosso senza soluzione o, come qualcuno la definirebbe, “paura senza sbocco” (Liotti, 2005): non posso restare perché potrei morire, non posso andare perché potrei morire.
L’alienazione dagli altri e da sé è dunque l’unico rifugio sicuro.

I principi guida del piccolo Paul

Da questa urgenza di sopravvivere, nascono i principi che Paul Williams descrive e che costituiscono una sintesi eccellente di quello che un terapeuta deve saper riconoscere quando si trova di fronte a storie di abuso e maltrattamento infantile. Alle sue parole la descrizione dei principi guida del piccolo Paul:

La vergogna fu l’origine del mio Primo Principio di vita: Tutto ciò che facevo o dicevo era sbagliato.
Questo Principio era alla base del Secondo, del Terzo e del Quarto,
che elaborai a 4 anni per affrontare le conseguenze del Primo.
Il Secondo Principio diceva: Non credo a quello che dicono. La verità è l’opposto di quel che dicono.
Il Terzo Principio era: La rabbia mi terrà in vita.
Il Quarto Principio era: Se lavorerò il doppio degli altri, sarò in grado di vivere un vita che sarà molto simile a una normale.”

Ogni Principio è necessario alla sopravvivenza, ma allo stesso tempo finisce per creare teorie sul mondo, credenze fisse, pensieri automatici, schemi di comportamento e reazioni emotive che resteranno nell’adulto anche molti anni dopo la fine delle torture emotive compiute dai genitori. Su questi frammenti residui dell’esperienza infantile, il lavoro terapeutico può esercitare il suo profondo potere trasformativo e migliorare il futuro di chi ha combattuto sin da piccolissimo una battaglia impari, ingiusta e non evitabile.

Il Primo principio è la risposta migliore possibile all’umiliazione e alla violenza fisica vissuta con i genitori: se è Paul ad essere sbagliato, se è sua la colpa di tutto, allora può fare qualcosa per essere più bravo e sottrarsi agli insulti e alle percosse. “E’ più facile essere un bambino cattivo con dei genitori buoni, che un bambino buono con dei genitori cattivi” (Jim Knipe, 2018). Nel secondo caso Paul non avrebbe infatti nessuna possibilità di prevedere le loro reazioni, nel primo caso invece resta a lui una piccola illusione di controllo e di speranza nel poter cambiare le cose.

Il Secondo principio descrive il cuore del trauma infantile: il tema di sfiducia verso gli altri è l’elemento più doloroso e persistente nelle vittime di traumi relazionali; ogni essere umano diventa potenziale fonte di pericolo e imprevedibilità, quindi vivere “in trincea” come soldati appare come una valida soluzione per proteggersi, anche rinunciando all’intimità e al calore degli altri, se necessario.

Il Terzo Principio segue in linea diretta il Secondo: la rabbia è un’emozione più tollerabile della tristezza e del dolore dell’abbandono. Nelle vittime di traumatizzazione cronica la vulnerabilità non è un’opzione e non può essere mai mostrata. In quest’ottica non è difficile comprendere come sentirsi arrabbiati, reattivi e pronti a combattere (fight) sia indubbiamente un’emozione più sicura in cui stare, rispetto alla vergogna, alla disperazione, alla colpa, alla solitudine, o persino alla gioia.

Il Quarto principio è una strategia di adattamento ai continui attacchi all’autostima: le doverizzazioni, l’auto-sacrificio, gli standard alti, il perfezionismo, la sottomissione agli altri. Il senso pervasivo di inadeguatezza nelle vittime di trauma può diventare cronico e investire ogni area della vita, facendo accrescere l’idea che il successo e l’accettazione siano possibili solo a condizione di estrema efficienza, competenza e capacità. La paralisi sarebbe inevitabile, dunque il quarto principio nella sua durezza offre a Paul una soluzione per uscire dal guscio e tentare – nonostante tutto – la strada tutta in salita del confronto con gli altri.

E il Quinto principio? ..Lascio alla lettura del testo la soluzione che porterà Paul a capovolgere la sua traiettoria esistenziale e a smantellare un pezzo alla volta la vergogna e il terrore della sua infanzia.

Il (falso) mito del successo secondo la psicologia positiva. Bastano soldi, fama e successo per essere felici?

Nell’epoca moderna il binomio successofelicità è spesso veicolato dai mass media come unico obiettivo del singolo nella collettività. Vi è un’ambigua correlazione tra benessere materiale e benessere soggettivo e spesso questa correlazione è diversa tante quante sono le culture alle quali viene applicata. E’ realmente questo il senso della frenetica corsa quotidiana, da qualche decennio a questa parte? Le persone benestanti sono più felici?

 

La felicità va di pari passo con il benessere materiale?

Benché i confronti tra Paesi del mondo dimostrino una discreta correlazione fra ricchezza nazionale misurata dal prodotto interno lordo e livello di felicità dichiarata dagli abitanti (Inglehart, 1990), questa correlazione non è poi così lineare: giapponesi e tedeschi, per esempio, si dichiarano molto meno felici degli irlandesi, nonostante il PIL dei loro Paesi risulti doppio rispetto a quello dell’ Irlanda.

Rimpicciolendo il focus della nostra lente di osservazione sul micro-sistema, in una recente ricerca longitudinale finanziata dalla Sloan Foundation, condotta con strumenti qualitativi atti a misurare il vissuto quotidiano di 1000 adolescenti americani, i risultati hanno dimostrato una correlazione negativa tra benessere materiale e felicità (Csikszentmihalyi e Schneider, in stampa): i ragazzi degli strati socioeconomici più alti dichiaravano un livello di felicità più basso rispetto ai loro coetanei degli strati più poveri.

Questi risultati possono essere considerati come un dato concreto o le norme della loro classe sociale prescrivono di dichiararsi “meno felici del vero”?

Se D. Kanheman, economista premio Nobel, ha riscontrato che “ricchezza e povertà hanno leggere differenze sull’impatto nella vita delle persone”, è anche vero che, secondo il Financial Times, il 23% delle persone più ricche al mondo “sono ossessionate dal costante stress finanziario”, tanto quanto le persone della media borghesia.
Nonostante le evidenze scientifiche, la maggior parte delle persone continua a credere che i loro problemi sarebbero risolti “se avessero più soldi”. Per quanto sia gratificante essere ricchi e famosi nessuna ricerca conferma il fatto che avere ricompense materiali bastino da sole a rendere le persone felici, per quanto ad esse siano collegate la serenità familiare, le amicizie, il tempo libero (Myers&Diener, 1995).

Qual è il vero segreto della felicità?

Secondo Csikzentmihalyi (2000), il “prerequisito della felicità è coinvolgersi pienamente nella vita. Se le condizioni materiali sono abbondanti tanto meglio ma la mancanza di denaro o di salute non impedisce di trovare l’esperienza del libero flusso (“condizione estatica di totale coinvolgimento emotivo, motivazione e soddisfazione”, ndr) in qualunque circostanza si presenti”. Ad avvalorare la sua teoria, infatti, sembra che i figli delle famiglie più ricche incontrino più difficoltà rispetto ai loro coetanei meno benestanti: tendono ad essere meno partecipi e meno entusiasti, si annoiano di più e si divertono di meno, probabilmente dato dal fatto che passano meno tempo di qualità con i loro genitori (Hunter, 1998).

Diventa difficile dunque, specie per i giovani, distinguere davvero tra ciò che rientra nella loro sfera d’interesse e ciò che è iscritto nel loro status sociale.
E’ per questo che John Locke ammoniva a non confondere la felicità immaginaria da quella reale (“quella del cuore”) e già Platone, 25 secoli fa, scriveva che il compito più urgente al quale siamo chiamati noi educatori, insegnanti, genitori, “adulti significativi” (per parafrasare J. Bowlby) è “insegnare ai giovani a trovare il piacere nelle cose giuste”.
E’ nel cammino e non nella meta che sta la felicità? Ebbene sì.

Nel libro “La trappola della felicità”, Russ Harris, medico e psicoterapeuta, spiega perché il desiderio delle persone di essere ricche e famose è un’arma a doppio taglio, poiché dietro tale desiderio si possono celare molti fattori motivanti.
Una motivazione particolarmente comune è quella di ottenere ammirazione e rispetto da parte degli altri”, spiega Harris (2015). La maggior parte delle persone è convinta che avere soldi, fama e successo sia una scorciatoia per “far colpo sugli altri”, per “essere accettati”, perché siamo troppo spaventati dal far sì che gli altri ci vedano come siamo realmente. Il costo di questo meccanismo è elevatissimo, perché “finiamo di perdere il contatto con le persone che abbiamo intorno e le nostre relazioni mancano di intimità, profondità e apertura”. Siamo letteralmente fusi con la convinzione di “Non valere abbastanza” quindi riteniamo che lo status economico possa renderci “appetibili” per il prossimo, senza dare peso ai valori dei quali siamo portatori, rendendo il nostro percorso più frustrante e deludente di quanto possiamo immaginare.

Il consiglio è di evitare di vivere una vita concentrata sugli obiettivi (“diventare ricco” è un obiettivo) perché, una volta raggiunto quell’obiettivo, questo “non sarà ancora abbastanza”; al contrario, è meglio desiderare di vivere una vita piena, emotivamente ricca, consapevole, soddisfacente, incentrata sui valori “perché i tuoi valori sono sempre a tua disposizione a prescindere dalle circostanza in cui ti trovi”.
Il segreto sta nell’ evidenza scientifica, allora. Meglio trarre maggiore gratificazione dalle esperienze, dalla condivisione di esse, dalla possibilità di poter creare una rete relazionale più ampia, dal processo grazie al quale le persone si mettono in gioco per poter ottenere ciò che desiderano sul piano materiale.

Patologie neurologiche: nuove cure in arrivo senza farmaci?

È possibile trattare le patologie neurologiche con la neuromodulazione delle onde elettriche cerebrali anziché con i farmaci? Una neuroscienziata ha casualmente aperto le porte a interessanti scoperte.

Nel Marzo 2015, Li-Huei Tsai, neuroscienziata presso il Massachussets Institute of Technology a Cambridge, fece involontariamente un’interessante scoperta, lasciando una piccola luce accesa in una gabbietta con alcuni topi da laboratorio.

Ogni giorno, per alcune ore, riponeva in un box illuminato solo da una luce stroboscopica, alcuni topolini modificati in maniera optogenetica per produrre placche β-amiloidi, caratteristica distintiva della malattia dell’Alzheimer.

Una volta dissezionati, Tsai si accorse che quei topolini che erano stati riposti nel box con la luce stroboscopica avevano un livello di placche β-amiloidi significativamente più basso rispetto a quelli che erano nei box ma completamente al buio (Iaccarino, Singer, Martorell et al., 2016).

Per tentare di spiegare tali risultati inaspettati, la ricercatrice e il suo team si concentrarono sulla luce, scoprendo che la luce stroboscopica era di circa 40 Hz e aveva avuto un effetto di modulazione delle onde cerebrali dei topolini innescando in particolare degli effetti biologici che avevano determinato l’eliminazione della produzione delle placche β-amiloidi.

Nonostante questi promettenti risultati siano stati ricavati da modelli animali e siano, per il momento, di difficile replicazione negli esseri umani affetti da patologie neurologiche come l’Alzheimer, essi hanno stuzzicato l’interesse di molti studiosi che da anni stanno cercando di definire il campo delle onde cerebrali e di collegarle in modo robusto alle funzioni cerebrali e ai comportamenti umani disfunzionali o caratterizzanti le patologie neurodegenerative con il fine di trattarli senza l’uso di farmaci (Thompson, 2018).

Come variano le nostre onde cerebrali?

Le oscillazioni delle onde cerebrali sono caratterizzate da una frequenza, ampiezza e origine specifiche. Nonostante molti tipi di onde si osservino in qualsiasi momento dell’attività cerebrale, alcune sembrano dominare durante alcuni comportamenti rispetto ad altre, suggerendo un collegamento:

  • le onde Delta, tra 0.5 e 4 Hz, sono le più lente e sono associate al sonno profondo, senza sogni, le onde Theta, tra 4 e 8 Hz, si osservano a livello della corteccia negli stati meditativi, di sonnolenza o patologici;
  • le onde Alpha, tra 8 e 13 Hz, hanno origine dal lobo occipitale e sono associate agli stati vigili ma con gli occhi chiusi
  • le onde Beta, tra 13 e 32 Hz sono associate invece ai normali stati di consapevolezza vigile e concentrazione
  • le onde Gamma, tra 25 e 140 Hz sono associate alla normale consapevolezza visiva e ai movimenti oculari rapidi durante il sonno (Thompson, 2018)

Come arriviamo ad avere un’esperienza coerente? Cosa accade a livello neuronale?

Molti ricercatori hanno tentato di studiare e utilizzare l’oscillazione di queste onde per influenzare alcune funzioni come ad esempio la percezione consapevole. Randolph Helfrich e colleghi, dell’Università di Berkley, sono riusciti a modulare le onde Gamma con l’aumento o la riduzione, usando una tecnica non invasiva, la stimolazione transcranica a corrente alternata (tACS) e così sono riusciti a influenzare la modalità di una persona di percepire un video con dei punti in movimento (Helfrich, Knepper, Nolte, 2014).

Lo studio delle oscillazioni delle onde fornisce un potenziale meccanismo per comprendere come il cervello crei un’esperienza coerente dalla caotica percezione di innumerevoli stimoli che attivano il sistema sensorimotorio allo stesso momento.

Sembra infatti che la produzione di un’esperienza coerente sia possibile a seguito della sincronizzazione dei neuroni che rispondono tutti allo stesso evento: in particolare le onde cerebrali potrebbero far si che tutte le informazioni rilevanti, collegate all’oggetto percepito, arrivino nelle aree cerebrali preposte al momento giusto (Thompson, 2018).

A parere di Robert Knight, neuroscienziato dell’università di Barkley, la coordinazione di tutti i segnali neurali sarebbe la chiave della percezione.

Come agiscono le onde in alcune patologie neurologiche?

In alcune patologie tuttavia è stata riscontrata una desincronizzazione delle oscillazioni: per esempio nel Parkinson, si osserva un aumento delle onde Beta nelle regioni motorie che determinerebbe l’impoverimento dei movimenti del corpo, aumento che invece non si riscontra nei soggetti non affetti da questa patologia.

Nella malattia dell’Alzheimer si osserva invece una riduzione delle oscillazioni gamma (König, Prichep, Dierks, et al., 2005).

A partire da questi presupposti, una crescente mole di ricerche si sta occupando della modulazione dell’attività cerebrale come possibile trattamento veloce, non invasivo e innovativo per alcune patologie neurologiche, senza l’apporto di farmaci.

Le sfide future: monitorare e manipolare le oscillazioni delle onde nelle patologie neurologiche

La sfida è quella di manipolare in modo efficace le oscillazioni nelle differenti aree cerebrali, utilizzando la luce o i suoni.

Una delle modalità che i ricercatori hanno trovato per monitorare le oscillazioni è il neurofeedback che consente di controllare le proprie onde cerebrali misurate tramite EEG utilizzando cue visivi e uditivi (Marzbani, Marateb & Mansourian, 2016).

In aggiunta al neurofeedback, Phyllis Zee, neurologo alla Northwestern University, e colleghi hanno sviluppato un suono definito “rumore rosa” composto da frequenze che messe insieme richiamano il suono di una cascata, per aiutare gli anziani durante il sonno (Papalambros, Santostasi, Malkani, Zee et al., 2017).

Questo “rumore rosa” eliciterebbe le oscillazioni Delta che caratterizzano il sonno profondo migliorando allo stesso tempo il consolidamento mnestico che si affievolisce con l’avanzare dell’età e che si verifica per l’appunto durante il sonno.

I ricercatori hanno mostrato come questa neurostimolazione aumentasse l’ampiezza delle onde Delta e come quest’aumento fosse associato con un miglioramento del 25-30% delle capacità di recupero delle parole apprese la notte precedente (Papalambros, Santostasi, Malkani, Zee et al., 2017).

Tuttavia queste modalità di neuromodulazione presentano delle limitazioni: sono infatti molto facili da apprendere ma necessitano di un tempo piuttosto lungo affinchè sia possibile intravedere i loro effetti sulle persone, effetti che però solitamente risultano di breve durata. Infine attraverso gli esperimenti che utilizzano stimolazioni acustiche o magnetiche è difficile conoscere con precisione quale area cerebrale è stata influenzata nello specifico (Thompson, 2018)

[blockquote style=”1″]Gli studi sulle oscillazioni delle onde cerebrali e la loro neuromodulazione potrebbero aiutare a collegarle con i comportamenti umani e a come il cervello funziona nel suo insieme. Potrebbero in futuro costituire un trattamento efficace non invasivo sostitutivo ai farmaci[/blockquote] (Robert Knight, neuroscienziato cognitivo alla Berkeley University)

Le Nuove Sostanze Psicoattive – Introduzione alla Psicologia

Tra il 1997 e il 2010 sono state identificate più di 150 nuove sostanze psicoattive, tra cui i cannabinoidi sintetici, funzionalmente simili al THC (il principio attivo della cannabis).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Negli ultimi anni sono state diffuse nuove sostanze di origine sintetica o naturale non regolamentari. Esse sono state commercializzate attraverso Internet, gli smart e head shops, come se fossero droghe legali, per questo sono definite anche furbe, e sono sponsorizzate grazie a strategie di marketing sofisticate. Le Nuove Sostanze Psicoattive in alcuni casi, intenzionalmente, non presentano gli elementi da cui sono effettivamente composte allo scopo di poter attrarre sempre maggiori ignari acquirenti. Queste sostanze hanno enorme successo soprattutto tra i giovanissimi, si diffondono rapidamente e sono facilmente reperibili. Inoltre, si rilevano spesso specifici forum o blog dedicati alla discussione sulle varie droghe, dove è possibile ottenere informazioni, consigli, indicazioni e istruzioni per l’uso in maniera rapida e immediata.

Quello delle nuove droghe è un fenomeno iniziato alla fine degli anni ’90, in seguito a delle campagne mediche contro l’ecstasy e le droghe sintetiche da discoteca. Di conseguenza, sono comparse un ventaglio di sostanze che promettevano gli stessi effetti delle pasticche.

Le Nuove Sostanze Psicoattive rappresentano un gruppo molto ampio di molecole principalmente di natura sintetica, caratterizzate da proprietà farmacologiche e tossicologiche particolarmente pericolose per la salute dei consumatori. La comparsa delle Nuove Sostanze Psicoattive negli ultimi anni rappresenta un fenomeno di dimensioni sempre più imponenti e che interessa tutto il mondo, Italia compresa, rappresentando un problema emergente a livello internazionale, tanto che le Nazioni Unite, l’International Narcotics Control Board e l’Unione Europea hanno dedicato grande attenzione a quella che presenta una nuova minaccia per la salute pubblica.

I cannabinoidi sintetici

Tra il 1997 e il 2010 sono state notificate tramite l’Early Warning System europeo, più di 150 nuove sostanze psicoattive, acquistabili tramite online shop. Tra le nuove droghe presentiamo per primi i catinoni o cannabinoidi sintetici.

I cannabinoidi sintetici sono funzionalmente simili al THC, il principio attivo della cannabis, e possono avere effetti allucinogeni, sedativi e depressivi. Si tratta di una serie di composti chimici artificiali che hanno proprietà psicotrope e possono essere nebulizzati, spruzzati sotto forma di gocce finissime, su materiale vegetale usato come eccipiente per poter essere fumati. Altre volte si presentano in forma liquida, adatti per essere inalati per mezzo di sigarette elettroniche o vaporizzatori.

Il nome cannabinoidi è dovuto al fatto che queste sostanze sono simili ai principi attivi contenuti nella marijuana o Cannabis. Per via di questa affinità, i cannabinoidi sintetici sono spesso chiamati anche erba sintetica, e sono considerati alternative alla semplice marijuana. In realtà, si tratta di composti dagli effetti imprevedibili e con un’azione sul cervello molto più potente di quella della normale erba. In alcuni casi i cannabinoidi sintetici, però, possono provocare gravi effetti sul cervello o sull’organismo, che in casi estremi potrebbero diventare anche mortali.

I cannabinoidi sintetici, dunque, sono di diverso tipo e tra essi ricordiamo:

  1. naftoindoli (ad es. JWH-018, JWH-073 e JWH-398)
  2. naftometilindoli
  3. naftoilpirroli
  4. naftilmetilindeni
  5. fenilacetilindoli (come i benzoilindoli, ad es. JWH-250)
  6. cicloesilfenoli (ad es. CP 47,497 e omologhi di CP 47,497)
  7. cannabinoidi classici (ad es. HU-210)

I nomi comunemente usati per i cannabinoidi sintetici sono: Spice, K2, X, Tai high hawaiian haze, Mary joy, Exodus damnation, Ecsess, Devil’s weed, Clockwork orange, Bombay blue extreme, Blue cheese, Black mamba, Annihilation.

I cannabinoidi sintetici agiscono sui recettori cerebrali della cannabis in modo più potente che la cannabis naturale. Essi sono venduti abitualmente miscelati con delle sostanze vegetali come foglie essiccate di damiana, melissa, menta, timo o mescolandoli direttamente alle foglie da fumare, in cui sono presenti differenze estreme di concentrazione fra un campione e l’altro.

L’aspetto finale, dunque, è simile all’erba e per questo possono essere fumati insieme al tabacco oppure direttamente con pipe, bong o chilum oppure possono essere aggiunti a cibo o preparati sotto forma di tè.
Esistono dei liquidi per sigaretta elettronica contenenti cannabinoidi, e per questo possono essere anche inalati.

Le miscele da fumare sono messe in piccoli pacchetti di alluminio, colorate con delle etichette che descrivono il contenuto come incenso o miscela da fumare e portano l’avvertenza “Non adatto al consumo umano”.

Invece, se sono in forma di aromi liquidi sono contenuti in bottigliette di plastica, come avviene per altri prodotti destinati alle sigarette elettroniche.

Per molti anni i mix di cannabinoidi sintetici sono stati venduti negli Stati Uniti nei negozi di accessori per fumatori, nelle stazioni di servizio e attraverso internet. Poiché molte di queste sostanze hanno effetti sul cervello senza apportare alcun beneficio per la salute, le autorità hanno proibito alcune di queste sostanze. Tuttavia, i produttori hanno raggirato la regolamentazione modificando la struttura chimica di questi composti.

La facilità con cui si reperiscono queste sostanze, e la falsa convinzione che si tratti di prodotti naturali e per questo sicuri, ha contribuito alla diffusione e al loro uso tra i giovani. Il fatto che gli esami solitamente usati per rilevare la presenza di stupefacenti difficilmente sono in grado di rilevare queste sostanze ha ulteriormente favorito la loro diffusione.

Effetti causati sul sistema nervoso centrale

Ad oggi sono pochissimi gli studi scientifici sugli effetti di queste sostanze sul cervello umano, ma è noto che alcune di queste molecole formano con i recettori dei legami più forti di quelli del THC e per questo sono più potenti. Per questa ragione, gli effetti sulla salute sono del tutto imprevedibili. Poiché la composizione esatta di queste sostanze è sconosciuta e varia molto da una produzione all’altra, è possibile che gli effetti siano molto diversi da quello che ci si aspetta.

In ogni caso, gli utilizzatori di cannabinoidi sintetici hanno riferito effetti simili a quella della marijuana come:

Tra gli effetti psicotici sono stati segnalati:

I cannabinoidi sintetici possono anche provocare un innalzamento della pressione sanguigna, inibire l’afflusso di sangue al cuore, provocare danni al fegato, indurre convulsioni e, in casi estremi, provocare morte.

Dipendenza e assuefazione

I cannabinoidi sintetici possono dare dipendenza e se il loro consumo fosse interrotto si possono presentare i seguenti sintomi da astinenza:

  • cefalea
  • ansia
  • depressione
  • irritabilità

Non ci sono studi sull’effetto di terapie comportamentali o farmacologiche nel trattamento della dipendenza da questo tipo di sostanze.

La situazione in Europa e in Italia

In Europa, i primi cannabinoidi sintetici sono stati individuati nel 2008 in diverse miscele vegetali, definite “herbal mixture” o “herbal blend”, ed erano vendute come incensi o profumatori ambientali. Si tratta di prodotti denominati Spice e venduti come non adatti all’uomo.

Il prodotto, però, era definito naturale e per questo ingannevole al consumatore, che erroneamente era rassicurato dalla sua falsa natura innocua.

La preoccupazione per i danni provocati dal consumo della Spice ha portato alcune nazioni europee, come Austria, Germania, Francia, Lussemburgo, Polonia, Svezia e Italia, a vietare o controllare la vendita dei prodotti Spice e loro simili. In data 7 Aprile 2010, il Ministro della Salute Italiano ha emanato, d’intesa con il Dipartimento Politiche Antidroga presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, un’Ordinanza che prevede il divieto di fabbricazione, importazione, immissione sul mercato e commercio, anche online, dei prodotti denominati Spice.

Purtroppo per ogni molecola ufficialmente regolamentata, altrettante nuove molecole ne emergono e, ovviamente, non ancora proibite per legge.

In Italia dal 2010 sono stati rilevati 41 casi di intossicazione acuta correlata all’assunzione di prodotti contenenti cannabinoidi sintetici, per i quali è stato necessario l’accesso in pronto soccorso. La maggior parte dei casi sono stati registrati nel Nord Italia e hanno coinvolto soggetti tra i 14 e i 55 anni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Lo stress può contribuire allo sviluppo della Depressione tardiva

È ormai noto che lo stress ossidativo è implicato nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore nei giovani adulti. Un recente studio ha cercato di valutare il suo ruolo anche nello sviluppo di forme di depressione tardiva in soggetti anziani.

 

Lo stress ossidativo è una condizione patologica causata dalla rottura dell’equilibrio fisiologico, in un organismo vivente, fra la produzione e l’eliminazione, da parte dei sistemi di difesa antiossidanti, di sostanze chimiche ossidanti. Lo squilibrio tra i produttori di stress ossidativo e antiossidante può contribuire allo sviluppo della depressione tardiva.

Gli individui con depressione tardiva, cioè sviluppata in età avanzata (LLD), hanno livelli F2-isoprotani più elevati rispetto agli individui di confronto sani, suggerendo un aumento della perossidazione lipidica durante l’episodio depressivo. Livelli più alti di F2-isoprotano sono stati anche correlati a peggiori prestazioni cognitive tra individui LLD.

Era già noto che lo stress ossidativo fosse implicato nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore nei giovani adulti. Tuttavia, ci sono pochi dati a sostegno del suo ruolo negli anziani. Un recente studio è andato proprio verso questa direzione, cercando di valutare se i soggetti con depressione in età avanzata (LLD) presentavano variazioni nella risposta allo stress ossidativo rispetto al gruppo di controllo non depresso. Il team di ricerca ha quindi esplorato i marcatori di stress ossidativo associati a caratteristiche specifiche di LLD, in particolare le prestazioni cognitive e l’età di esordio del disturbo depressivo maggiore in questi individui.

Hanno incluso un campione di 124 individui, 77 con LLD e 47 soggetti non depressi (gruppo di controllo) e misurato i livelli plasmatici di 6 marcatori di stress ossidativo. I risultati indicano che i partecipanti con LLD avevano livelli di 8-isoprostano liberi significativamente più alti (p = 0,003) e attività di glutatione perossidasi inferiore (p = 0,006) rispetto ai controlli. I livelli liberi di 8-isoprostano erano anche significativamente correlati con punteggi peggiori nei compiti iniziali, nella perseveranza (r = -0.24, p = 0.01), concettualizzazione (r = -0.22, p = 0.02) e i punteggi totali (r = -0,21, p = 0,04).

Questo studio fornisce una solida evidenza dello squilibrio tra il danno da stress ossidativo, in particolare la perossidazione lipidica, e le difese antiossidanti come meccanismo correlato alla depressione in età avanzata e il deterioramento cognitivo in questa popolazione. Gli interventi volti a ridurre il danno da stress ossidativo possono avere un potenziale effetto neuroprotettivo per i soggetti di età avanzata.

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