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Ascoltare la musica insieme migliora la relazione futura con i propri figli

Secondo un recente studio dell’Università dell’Arizona, i bambini che vivono esperienze musicali condivise con i propri genitori riferiscono di avere rapporti di migliore qualità con loro quando raggiungono la giovane età adulta.

 

I ricercatori hanno scoperto che i giovani adulti che hanno condiviso esperienze musicali con i propri genitori durante l’infanzia, specialmente durante l’adolescenza, riferiscono di avere migliori relazioni con i loro genitori quando entrano nella giovane età adulta.

Il coautore dello studio Jake Harwood, professore e capo del dipartimento di Comunicazione dell’Università dell’Arizona, sostiene che

[blockquote style=”1″]Se hai bambini piccoli e suoni musica con loro, questo ti aiuta ad essere più vicino a loro, e più tardi nella vita ti renderà più vicino a loro. Inoltre, ascoltare della musica insieme ai propri figli adolescenti o condividere esperienze musicali con loro ha un effetto ancora più forte sulla tua relazione futura e sulla percezione del bambino della relazione nell’età adulta.[/blockquote]

Esperienze musicali condivise: lo studio dell’Università dell’Arizona

I ricercatori hanno intervistato un gruppo di giovani adulti, con età media di 21 anni, circa la frequenza con cui hanno trascorso del tempo con i loro genitori, da bambini, in attività come ascoltare musica insieme, assistere a concerti o suonare strumenti musicali. In particolare, veniva chiesto loro di riferire ricordi di esperienze comprese tra gli 8 e 13/14 anni di età. Inoltre, è stato chiesto a ciascun partecipante di esprimere un giudizio circa la propria percezione della qualità attuale della propria relazione con i genitori.

Risultati e Conclusioni

Le esperienze musicali condivise a tutti i livelli di età sono state associate a una migliore percezione della qualità del rapporto genitore-figlio nella giovane età adulta, tuttavia l’effetto è stato più pronunciato per le esperienze musicali condivise che hanno avuto luogo durante l’adolescenza.

Due sono i fattori che possono aiutare a spiegare la relazione tra esperienze musicali condivise e una migliore qualità della relazione: il coordinamento e l’empatia. Questo sembra dovuto al fatto che, se si suona o si ascolta musica con i propri genitori è possibile fare esperienza di attività sincronizzate come ballare o cantare insieme. Attraverso la musica, inoltre, molto emozioni possono essere evocate e questo favorisce lo sviluppo di risposte empatiche.

Le esperienze musicali condivise con i propri figli non devono risultare troppo complesse ed articolate; attività semplici, come ascoltare musica in macchina insieme, possono avere un impatto maggiore rispetto a esperienze musicali più formali.

La ricerca futura dovrebbe esaminare più da vicino le differenze tra esperienze musicali formali e informali e considerare anche come la musica possa influenzare la qualità di altri tipi di relazioni, comprese le relazioni romantiche, ha affermato Wallace.

L’invito ai genitori è dunque quello di aumentare le loro interazioni musicali con i propri figli, specialmente nel periodo adolescenziale.

Ritratti del desiderio: il concetto di desiderio secondo Lacan e Recalcati, due visioni a confronto

Nella prefazione alla seconda edizione di Ritratti del desiderio, Massimo Recalcati apre una riflessione che si pone in contrasto con una certa lettura egemone di Lacan che valorizza il desiderio come godimento a scapito di una visione trascendente del desiderio stesso.

 

Prima di addentrarsi nel disegnare diversi ritratti del desiderio, l’autore cerca di tracciare un percorso caratterizzato dalla dimensione dialettica, e contraddittoria per alcuni versi, tra il desiderio che viene sempre dall’Altro, ma assunto e fatto proprio dal soggetto, e il desiderio d’Altro, del Nuovo, di Altra Cosa. In quest’ultimo senso per lo psicanalista “il desiderio assomiglia ad un esilio permanente, ad un’erranza inquieta che non può mai trovare l’appagamento che pure ricerca affannosamente”.

Solo se si assume la mancanza a essere come condizione dell’esistenza, il desiderio può divenire un’apertura verso la vita, viceversa, il desiderio come godimento è godimento di morte.

Il godimento illimitato, della cultura dominante capitalista, privo di responsabilità, sregolato, compulsivo, soffoca la progettualità, la creatività, l’amore.

Il godimento che rende vivibile la vita, il godimento come effetto del potenziamento della vita non è mai il godimento incestuoso, non è mai il godimento del “tutto”, ma è il godimento che si può raggiungere solo a partire dall’impossibilità dell’incesto, ovvero dall’impossibilità di avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto.

L’elemento comune dei ritratti che traccia Recalcati in Ritratti del desiderio è la forza del desiderio che supera l’Io, che non dà la possibilità di essere governato, non è a disposizione: “L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di un’alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità” e rappresenta per questo una grande possibilità di sganciarsi dalle illusioni narcisistiche dell’Io, dalla sofferenza generata dal suo attaccamento per andare verso un desiderio dell’Altro, un desiderio trascendente.

Desiderio e Bisogno

E’ una prospettiva molto interessante che richiama i contenuti di un articolo pubblicato tempo indietro su questo giornale in cui mettevamo in evidenza le profonde differenze tra desiderio e bisogno (leggi qui). Si sosteneva nell’articolo che il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare può così trasformarsi in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile.

Molte ricerche hanno messo bene in evidenza come il benessere non sia vincolato alla soddisfazione dei desideri, ma piuttosto a una visione eudemonica in cui alcuni bisogni fondamentali siano appagati (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Nella storia evolutiva di ogni individuo l’identità e quindi l’integrazione e la coerenza del sé nasce da esperienze in cui la tolleranza alla frustrazione è conditio sine qua non di un buon adattamento a ciò che ci propone la realtà, spesso matrigna e poco propensa a rispondere alle nostre attese. Le immagini maladattive compaiono proprio quando è presente la ricerca di soddisfazione di un desiderio (May et al., 2004, 2010).

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto dell’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto possibile d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario, quindi, distinguere il desiderio dal bisogno, i bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli indotti e falsi dell’avere, del possesso, dell’avidità, del potere, dell’affermazione (Fromm, 1976). E in Ritratti del desiderio troviamo un’ampia panoramica di questi falsi bisogni indotti.

Il desiderio invidioso, che assume un carattere infantile, si manifesta strutturalmente come desiderio dell’oggetto desiderato dall’altro bambino.

Il desiderio e l’angoscia per la sensazione di essere in balìa del desiderio dell’Altro, di essere ridotti a un oggetto nelle mani del capriccio dell’Altro.

Il desiderio di niente, per cui quello che c’è non è mai sufficiente, non è mai abbastanza e il desiderio si consuma in se stesso.

Il desiderio di godere come diritto al dispendio, al superfluo, all’inutile.

Il desiderio dell’Altrove che trasferisce l’illusione di salvezza sempre su un nuovo oggetto senza però impedire la riproduzione fatale della stessa delusione una volta che l’oggetto viene posseduto.

Il desiderio sessuale che “non è mai la manifestazione di un istinto naturale, ma mostra il carattere tutto culturale, artificiale, strutturalmente perverso-polimorfo direbbe Freud, della sessualità umana”.

Il desiderio amoroso che si rappresenta in una “sfasatura strutturale tra il desiderio maschile – che è desiderio feticistico del pezzo – e quello femminile – che è desiderio amoroso, desiderio che si nutre non di pezzi ma di segni d’amore”.

Il desiderio puro o il desiderio di morte rappresentato dalla figura di Antigone.

Il desiderio dell’analista che nel curare mette in gioco l’amore per il paziente. Un amore per la vita dell’altro che deve essere taciuto, né dichiarato, né agito e diventare così il dono che l’analista offre alle vite che si rivolgono a lui raccontandosi.

Infine, il desiderio dell’Altro come apertura, come legame positivo, come domanda rivolta verso l’Altro.

Il desiderio è domanda di riconoscimento e la sua soddisfazione simbolica è tutta nell’ottenere il riconoscimento di questa domanda. Desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall’Altro, significa voler avere un valore per l’Altro. Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro. Non esiste desiderio senza l’Altro. Il circuito del desiderio passa necessariamente dall’Altro perché il desiderio non può bastare a se stesso.

Nell’ultima parte del libro Ritratti del desiderio, Recalcati traccia le tappe fondamentali del suo incontro con Lacan e ne dipinge un ritratto personale che parte dal problema della propria esistenza sottolineando in modo particolare un’affermazione dello psicoanalista francese: “L’amore è ciò che mantiene convergenti il desiderio e il godimento”.

Psicologia e turismo: qual è la motivazione che ci spinge a viaggiare?

Si sono susseguite diverse teorie che hanno cercato di spiegare come nasce la nostra motivazione ed è possibile avvalersi di alcune di queste per spiegare cosa spinge un individuo a viaggiare.

 

Viaggiare è come innamorarsi: il mondo si fa nuovo” (Jan Myrdal).

 

Respirare l’aria speziata di Marrakech, rinfrescarsi con una sangria in un caldo pomeriggio a Granada, applaudire al tramonto a Santorini… Qualsiasi sia la ragione che ci spinge a viaggiare sappiamo che amiamo farlo. Che sia una breve gita fuori porta o un viaggio lungo settimane, ogni volta che aggiungiamo una bandierina sulla cartina del mondo abbiamo una storia nuova da raccontare. Da quando iniziamo a pensare alla meta siamo mossi da precise motivazioni, consapevoli o meno, che ci spingono a voler evadere, conoscere, esplorare o rilassarci. È difficile pensare a una motivazione univoca poiché ognuno di noi ha dei precisi bisogni da soddisfare e obiettivi da raggiungere.

Ma da cosa deriva la motivazione a viaggiare?

Sappiamo che ad oggi l’esperienza turistica non è più la stessa: sono cambiati i trend e il viaggio non è più considerato un lusso (Puggelli & Gatti, 2004; Di Nuovo, 2008). Queste modificazioni socioculturali hanno ridefinito anche il comportamento turistico rendendo più interessante lo studio delle scelte del viaggiatore che risultano a questo punto legate ad aspetti ancor più variegati e personali (valori, di stile di vita, ecc.).

Se pensiamo alla motivazione come all’insieme di processi di attivazione e di orientamento del comportamento verso la realizzazione di un determinato scopo (Feldman, 2008) possiamo cominciare a delineare il viaggio come un’attività da compiere al fine del raggiungimento di un obiettivo personale superiore.

Si sono susseguite diverse teorie che hanno cercato di spiegare questo concetto ed è possibile avvalersi di alcune di queste per spiegare cosa spinge un individuo a viaggiare. Pensiamo a un conoscente che ci ha appena raccontato di avere in programma un viaggio in solitaria in una terra estrema o a un amico che ha sempre la valigia pronta.

Zuckerman (1979) farebbe rientrare i casi appena citati nella categoria di soggetti definibili “sensation seekers”. Questo filone facente parte delle teorie dell’arousal secondo le quali ognuno di noi ha livelli di attività e stimolazione sensoriale che non devono scendere sotto una certa soglia, sostiene che alcune categorie di individui hanno bisogno di ricercare sensazioni e stimolazioni sempre nuove, a volte anche correndo rischi fisici per provarle. Questa ricerca di sensazioni è articolata secondo 4 componenti:

  • la ricerca di brivido e di avventura
  • la ricerca di esperienze nuove
  • la tendenza a liberarsi dalle inibizioni
  • la suscettibilità alla noia

Oltre la motivazione, i bisogni

Nel momento in cui lo scopo da perseguire può essere considerato in ottica di bisogno subentrano altri approcci che aiutano a comprendere la spinta al viaggio. Secondo Murray (1938) i bisogni sono forze interne che organizzano tutte le attività e il comportamento dell’individuo e possono essere suddivisi in bisogni primari, fisiologici, necessari all’organismo come la fame e la sete, e bisogni secondari che vengono acquisiti mediante le esperienze di apprendimento all’interno del contesto di vita come il bisogno di autonomia o di riuscita. Murray, inoltre, considera insieme ai bisogni anche le pressioni, ossia le situazioni ambientali che scatenano i bisogni dell’individuo. È quindi presente una costante associazione tra pressione ambientale e bisogno per cui un soggetto ricerca la soddisfazione di un bisogno date delle circostanze ambientali.

Se è possibile quindi applicare questo approccio al viaggio è altrettanto possibile dedurre che si può essere motivati a partire perché, ad esempio, ci si trova in un periodo particolarmente stressante e si ha il bisogno di “staccare la spina”. Allo stesso modo, un giovane studente fortemente motivato a imparare una lingua straniera potrebbe scegliere di trascorrere soggiorni all’estero per favorire il suo apprendimento della lingua.

Ma non ci si può limitare a una visione “motivazione – azione – soddisfazione” così lineare e statica. Secondo Maslow (1970; 2010), infatti, i bisogni sono classificati secondo una gerarchia piramidale e affinché i bisogni al vertice possano essere soddisfatti è necessario prima appagare quelli alla base. L’autore pone alla base i bisogni fisiologici (cibo, acqua, ecc..); appena sopra i bisogni di sicurezza (ambiente sicuro); al centro della piramide si trovano i bisogni di appartenenza legati alla necessità di donare e ricevere affetto; il penultimo gradino lo guadagnano i bisogni di stima verso sé stessi e l’apice lo si raggiunge con il bisogno di autorealizzazione inteso come uno stato di appagamento raggiunto dalle persone, ognuna a proprio modo, grazie alla realizzazione del proprio potenziale più alto. Il bisogno che motiva al viaggio, quindi, potrebbe essere collocato nei punti più alti della piramide di Maslow e decide di fare la sua comparsa solo a seguito del raggiungimento di obiettivi più “basali” per il soggetto.

Tuttavia questo non basta a spiegare la voglia di partire che ci fa passare ore alla ricerca di un low-cost con gli orari migliori e l’alloggio più conveniente ma vicino ai luoghi di interesse.

Le teorie a tal proposito sono molto più specifiche e, come sostiene Pearce (1993) prevedono una multidimensionalità che rende la motivazione del turista dinamica, in continua evoluzione, sensibile alle influenze sociali, episodica e orientata al futuro.

A ciascuno la sua motivazione per viaggiare

Qualunque sia la ragione che ci spinge a viaggiare pare che ne esista una che accomuna tutti: la ricerca di una “stimolazione ottimale” (Iso-Ahola, 1982). Analogamente a quanto proposto da Zuckerman l’individuo ambisce a uno stato soggettivo ideale che dipende da tratti e predisposizioni personali e da stimoli ambientali. Dietro il desiderio di viaggiare si nascondo quindi bisogni emotivi del momento troppo personali per qualificare in modo oggettivo la motivazione alla vacanza. Non ci può essere un viaggio uguale per tutti. Il modello bidimensionale dell’autore spiega la ricerca della stimolazione ottimale ponendo la scelta della vacanza su un continuum che va dalla ricerca di posti nuovi, nuove esperienze, all’evitamento di condizioni quali ad esempio lo stress e la routine.

Similmente, secondo Crompton (1979) la stimolazione ottimale si raggiunge in questo modo, anzi, in questi sette modi:

  • evadere dal quotidiano percepito ricercando luoghi di vacanza diversi rispetto a quelli quotidiani casa-lavoro
  • esplorare sé stessi ricercando nuove occasioni in ambienti non familiari che ci portano a conoscerci meglio
  • rilassarsi allentando le tensioni psico-fisiche di tutti i giorni
  • ricercare il prestigio nel viaggio come mezzo di promozione sociale
  • regredire attuando comportamenti meno razionali (es.: non avere orari, giocare sulla spiaggia) per sganciarsi dalle costrizioni sociali
  • spingersi verso le relazioni familiari per rafforzarle anche con attività semplici (es.: giocare a carte) a cui non ci si può dedicare solitamente
  • migliorare le relazioni sociali mediante soluzioni turistiche come i villaggi che portano a una disinibizione e favoriscono gli scambi interpersonali

L’autore inoltre ha individuato due forze principali che ci spingono a viaggiare: i fattori di spinta (push) e i fattori di attrazione (pull). I primi sono fattori legati più a scelte socio-psicologiche di tipo emozionale come, ad esempio, il bisogno di relax, di socializzazione, di fare altro e farlo altrove. I secondi, invece, vengono “solleticati” dal bisogno di avventura, di novità e dalla destinazione stessa che quindi deve possedere determinate caratteristiche che vengono vissute come arricchimento personale (ad es.: un viaggio culturale).

Da un viaggiatore “pull” sentiremmo dire che “la parte migliore del viaggio non è la meta ma il percorso per raggiungerla”. Un viaggiatore “push”, invece, difficilmente potrebbe rinunciare al suo braccialetto all inclusive in un resort da sogno che trasuda pace e tranquillità.

A tutti questi aspetti, inoltre, dobbiamo aggiungere una determinante non da poco nella scelta del viaggio: l’età. Le motivazioni turistiche sembrano essere soggette a cambiamenti determinati dalla fascia d’età (Gibson & Yannikis, 2002). Tra i 28 e i 40 anni si può essere più orientati a viaggi studio, culturali e conoscitivi. Tra i 40 e i 50 anni è possibile che il viaggio diventi una sorta di status symbol per dimostrare la posizione sociale raggiunta. Infine, tra i 50 e i 65 anni si potrebbero ricercare più facilmente esperienze di viaggio dal sapore meno avventuroso, in contesti sicuri e il meno stancanti possibile.

Ognuno con la propria ragione, con la miglior compagnia o in solitaria, godendosi il viaggio o sognando la meta, siamo dei piccoli Marco Polo pronti a scrivere il nostro Milione.

Violenza online e cyberbullismo: un’ipotesi neuroscientifica e le prospettive di intervento

Alla luce di una sempre maggior diffusione del fenomeno del cyberbullismo, proponiamo in questo articolo una lettura del fenomeno connessa all’ipotesi neuroscientifica di un’alterazione a livello del sistema di neuroni specchio, che sottenderebbe una compromissione nella responsività empatica. Riteniamo quindi fondamentale la promozione a tutti i livelli di attività che coinvolgano socialmente i ragazzi, che stimolino le loro competenze sociali ed empatiche e che allenino le loro capacità di assunzione della prospettiva altrui, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a queste abilità.

Samantha Baldassarre, Eddy Chiapasco, Gabriella Gandino

 

Cyberbullismo e alterazione del “sistema specchio”

Un fenomeno che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale e nazionale nell’odierna società è quello del cyberbullismo, che può essere definito come l’insieme di azioni aggressive, deliberate e ripetute, attuate da uno o più perpetratori, attraverso strumenti elettronici (ad esempio pc, smartphone e tablet), con l’obiettivo di danneggiare e/o isolare uno o più soggetti che non possono facilmente difendersi (Smith et al., 2008; Hinduja & Patchin, 2009).

Essendo un fenomeno molto recente, risulta importante effettuare studi scientifici per meglio comprenderne i meccanismi e poter attuare interventi clinici mirati e adeguati. A tal proposito, facendo riferimento alla teoria del “sistema di neuroni specchio” (Rizzolatti et al., 1996) – situato in varie zone cerebrali tra cui la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore, il settore inferiore del giro pre-centrale, il settore posteriore del giro frontale inferiore, un’area anteriore del giro frontale inferiore, il solco temporale superiore e la corteccia pre-motoria dorsale – si vuole proporre un’ipotesi di stampo neuroscientifico, dal momento che suddetto sistema si è dimostrato particolarmente rilevante in ciò che Gallese ha denominato “simulazione incarnata” (Gallese et al., 1996). Quest’ultima è un processo biologico secondo cui quando una persona ne osserva un’altra compiere una determinata azione e/o sperimentare una certa emozione, si attiverebbero in chi osserva non solo le medesime reazioni fisiologiche, ma anche le stesse strutture neuronali (che appunto coincidono con le aree cerebrali del sistema specchio) e, pertanto, tale processo sembra essere alla base della comprensione dei vissuti altrui e in ultima istanza dell’empatia (Gallese et al., 1996; Bracco, 2005). È proprio per via di tale meccanismo di “simulazione incarnata” che quando vediamo un altro individuo soffrire soffriamo un po’ anche noi, perché nel nostro corpo si innescano tutte quelle reazioni viscerali-motorie-neurali che riguardano anche la persona che stiamo osservando.

Ma cosa succede nell’epoca della “rivoluzione digitale” (Cantelmi, Talli, D’Andrea, Del Miglio, 2000), in cui la quotidianità è pervasa dai nuovi strumenti elettronici, che permettono di nascondersi dietro uno schermo e di non vedere direttamente l’altro? Proprio per via del sempre maggior tempo trascorso nel cyberspazio, caratterizzato dalla mancanza di relazioni face-to-face, è possibile che gli adolescenti siano oggi meno abituati ad attivare e ad allenare il loro “sistema specchio”, con la conseguente carenza nel riconoscimento delle emozioni altrui e nell’elicitazione della risposta empatica. Alcuni studiosi, infatti, hanno mostrato che i perpetratori di atti aggressivi online manifestano una minor responsività empatica rispetto ai loro coetanei non cyberbulli (Renati et al., 2012). Sempre la mancanza di un contatto diretto tra cyberbullo e cybervittima sembra essere un elemento importante per spiegare la particolare violenza raggiunta in alcuni casi dalle aggressioni online. Questo aspetto può, infatti, essere letto alla luce del celebre esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità, in cui l’autore aveva notato come all’aumentare della distanza tra insegnante e allievo (che faceva perdere il contatto visivo tra i due), aumentava anche la violenza del soggetto sperimentale che tendeva ad infliggere alla vittima scosse sempre maggiori (Delcuratolo, 2016).

Ipotizziamo dunque che un deficit funzionale a livello empatico possa essere connesso ad una sottostante alterazione neurologica del “sistema di neuroni specchio”.

I più recenti studi neuroscientifici, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze sociali e affettive, hanno, inoltre, evidenziato la plasticità che caratterizza il cervello umano e la sua capacità di trasformarsi non solo durante l’età evolutiva, ma in tutto il ciclo di vita, in presenza di adeguate stimolazioni da parte dell’ambiente sociale (Schore, 2015). Alla luce di tali considerazioni, riteniamo sia necessario promuovere nei ragazzi attività che consentano loro di sviluppare le competenze sociali, di allenare la capacità di assumere la prospettiva altrui e di riconoscere e comprendere le emozioni, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a suddette abilità.

Attività di sviluppo degli aspetti empatici e role-playing formativo

Come possiamo intervenire per aiutare gli adolescenti a migliorare la loro capacità di comprendere i vissuti altrui?

A livello preventivo, in ambito scolastico, sono già presenti in Italia e in Europa molteplici progetti basati sull’informazione e la sensibilizzazione nei confronti del cyberbullismo, che mirano a diffondere la conoscenza del fenomeno, ma tuttavia non esaustive sul piano preventivo. Sarebbe auspicabile che a tali progetti si affiancassero attività pratiche, che coinvolgano in prima persona i giovani e che consentano loro di sviluppare e implementare quelle abilità psicosociali ed empatiche il cui sviluppo non è favorito dall’utilizzo massivo delle nuove tecnologie.

Una tecnica che a questo scopo sembra essere particolarmente efficace è quella del role-playing formativo, o gioco di ruolo, di Jacob Moreno (1961), una pratica di simulazione in gruppo che prevede lo svolgimento da parte dei partecipanti, per un tempo limitato, del ruolo di attori. Ciò che viene richiesto ai soggetti è di rappresentare una scena di vita quotidiana, impersonando alcuni ruoli in interazione tra di loro, mentre altri individui assumono la funzione di osservatori (Masci, 2009). Una volta conclusa la rappresentazione, segue un confronto tra gli attori e gli osservatori circa le dinamiche relazionali emerse e i vissuti esperiti (Masci, 2009).

Questa tecnica offre la possibilità di immedesimarsi in ruoli diversi, sperimentando i disagi e le emozioni tipici di questi ruoli, e stimola l’apprendimento di competenze psicosociali ed empatiche attraverso l’imitazione, l’osservazione del comportamento altrui e la riflessione sui commenti ricevuti rispetto alla propria condotta (Capranico, 1997).

Nella nostra esperienza di lavoro con i ragazzi della scuola secondaria di primo grado, nell’ambito delle attività di prevenzione al cyberbullismo, abbiamo potuto constatare l’efficacia del role-playing. I ragazzi, dovendo mettersi nei panni dei vari personaggi coinvolti in una situazione di cyberbullismo (cyberbullo, cybervittima e bystanders), possono coglierne al meglio le dinamiche emotive e relazionali. Il confronto finale tra il gruppo classe permette loro, inoltre, di acquisire una maggiore consapevolezza sul fenomeno e individuare potenziali vie uscita dalle situazioni più critiche.

Ci auguriamo, pertanto, che i futuri programmi di prevenzione, oltre alla necessaria parte di informazione e sensibilizzazione sull’argomento, dedichino anche particolare attenzione a questo tipo di attività. Riteniamo, altresì, fondamentale il compito educativo dei genitori, i quali dovrebbero porre ai loro figli dei limiti nel tempo di utilizzo dei nuovi strumenti elettronici e promuovere al contempo delle attività alternative che favoriscano la socializzazione dei loro ragazzi, in modo da fornire delle opportunità di relazione face-to-face per sviluppare quelle competenze empatiche che le nuove tecnologie paiono impoverire.

Relazioni famigliari e tra fratelli: come influenzano il successo scolastico?

Le esperienze tra fratelli nel passaggio tra l’infanzia e la prima adolescenza predicono differenze nel successo scolastico, in particolare negli esiti universitari, secondo un recente studio condotto presso la Pennsylvania State University.

 

Lo studio, condotto da Xiaoran Sun, dottorando in Sviluppo Umano e Studi Familiari, e da Susan McHale, professore di demografia presso la Pennsylvania State University e coautore dello studio, illustra come le relazioni tra famigliari influenzino esiti accademici tra fratelli.

Gli autori hanno sviluppato un disegno di ricerca che consentisse di indagare se e come le esperienze tra famigliari, ed in particolare tra fratelli nel passaggio tra l’età infantile e la prima adolescenza, potessero condurre a differenze nel rendimento scolastico. Inoltre hanno voluto verificare se gli studenti, 15 anni dopo le esperienze vissute con i propri famigliari, si fossero laureati o meno.

Lo studio sul rapporto tra relazioni famigliari e successo scolastico: il disegno di ricerca

Proponendosi come un’analisi longitudinale, in una prima fase dello studio sono state raccolte informazioni sulle relazioni famigliari, ed in particolare tra fratelli, in un campione di 152 famiglie. Affinchè le famiglie potessero essere selezionate ed incluse nello studio dovevano essere composte da almeno due figli di età compresa tra i 9 e gli 11 anni.

In media, le famiglie intervistate abitavano in piccole città o in aree rurali della Pennsylvania, appartenevano alla classe media operaia ed erano di origine americana.

Ciò che si è valutato è stato il calore emotivo reciproco tra fratelli ed il tempo da loro impiegato in attività condivise, il calore emotivo e l’affetto che le madri ed i padri mostravano nei confronti di uno piuttosto che dell’altro/degli altri figlio/i ed il tempo trascorso da ciascun genitore con ciascun bambino, nonchè le percezioni di ogni bambino circa l’imparzialità con la quale i genitori si relazionavano a loro rispetto ai loro fratelli.

La seconda fase dello studio, svolta 15 anni dopo la prima raccolta dati, ha visto i ricercatori impegnati nel verificare se i fratelli intervistati nella prima fase si fossero in seguito laureati o meno.

I risultati dello studio

L’affetto tra i fratelli ha rappresentato un predittore della probabilità che tutti i fratelli raggiungessero lo status di laureati o meno in età adulta (ovvero, entrambi/tutti i fratelli laureati o entrambi/tutti non laureati). È infatti emerso che quanto più l’affetto tra i fratelli era alto, tanto più i fratelli tendevano a seguire un percorso simile: laurearsi entrambi o meno. Quando, invece, l’affetto rilevato in infanzia/prima adolescenza era minore, i fratelli mostravano più spesso esiti di laurea differenti (ovvero, un/alcuni fratello/i laureato/i e l’altro/i no).

Inoltre, sia la percezione che i bambini avevano riportato rispetto all’equità dei loro genitori nel trattamento messo in atto nei loro confronti, sia la differenza nella quantità di tempo che i padri spendevano con i fratelli, sono risultati essere predittori rispetto al loro successo scolastico e al conseguimento del titolo di laurea. Quando vi era una maggiore discrepanza nella quantità di tempo impiegata dai padri con i fratelli o quando questi ultimi sentivano di esser trattati in modo differente dai loro genitori rispetto ad altri fratelli, i risultati rispetto alla laurea tendevano ad esser differenti (ovvero, un/alcuni fratello/i laureato/i e l’altro/i no).

I risultati del presente studio hanno implicazioni sulla genitorialità e sulle dinamiche famigliari.

I genitori devono essere consapevoli di come i fratelli possono influenzarsi a vicenda e monitorare le interazioni dei loro figli – sostiene Xiaoran Sun. Ancora, secondo la professoressa Susan McHale, coautore dello studio – L’educazione dei genitori e i programmi familiari dovrebbero andare oltre l’attenzione ai rapporti tra madre e figlio includendo i padri e studiando le esperienze dei fratelli.

Psicologo in farmacia: sull’onda degli entusiasmi…e dei dubbi!

Che il passaggio dal paradigma biomedico al paradigma biopsicosociale della salute sia stato un grande traguardo per la comunità scientifica è un dato di fatto: pensare alla salute come alla semplice assenza di malattia, così come si pensava in passato, era di fatto un riduzionismo ormai stretto, di cui ci siamo liberati ben volentieri. Oggi infatti l’OMS definisce la salute come “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solamente assenza di malattia o infermità”.

I concetti dunque evolvono, i paradigmi per fortuna cambiano e si trasformano di conseguenza le professioni: l’interfacciarsi di diverse figure professionali nella cura delle persone è la meta da raggiungere, se davvero si ha in mente una cura del paziente a 360 gradi. Tra le figure professionali protagoniste di questo cambiamento, vi è senza dubbio la figura dello psicologo. Emblematica a riguardo è la figura dello psicologo in farmacia.

Psicologo in farmacia: come nasce

Per capire il potenziale del cambiamento e le ragioni che spingono psicologi e farmacisti a collaborare è utile fare riferimento alle attuali disposizioni legislative: con il D.L. 153 del 2009 “le farmacie partecipano alla realizzazione dei programmi di educazione sanitaria e di campagne di prevenzione delle principali patologie a forte impatto sociale”. Dunque la farmacia diviene un punto di riferimento per il territorio, offrendo ai cittadini servizi di facile accesso utili al benessere personale.

Il progetto nasce a Verona nel 2012, diffondendosi poi nelle grandi città del territorio nazionale. Il progetto pilota veronese ha visto collaborare un pool di psicologi che hanno condiviso procedure e protocolli per garantire la diffusione del benessere passando da un luogo, la farmacia per l’appunto, facilmente accessibile a tutti i cittadini. In questo modo, attraverso dei colloqui con i clienti delle farmacie, gli psicologi sono stati in grado di indirizzare chi presentava problematiche alle strutture e ai servizi territoriali più indicati per il trattamento.

Il progetto, come dicevamo, si è successivamente diffuso a macchia d’olio sul territorio italiano e i pionieri di questa esperienza hanno così costituito delle associazioni che tutelano la figura dello psicologo in farmacia. Tra questi Fiorella Palombo Ferretti, oggi presidentessa dell’Associazione Nazionale Psicologi in Farmacia (ANFIP), la quale descrive il suo lavoro come una vera e propria missione, che mira alla “cura di sé”, passando, per l’appunto, attraverso ciò che la stessa definisce “il tempio della salute“, ovvero le farmacie.

In una delle sue prime interviste, la Dott.ssa Palombo Ferretti racconta la sua esperienza: presente inizialmente in farmacia un pomeriggio ogni 15 giorni su appuntamento, svolgeva i colloqui in un locale appositamente adibito, in modo da garantire la privacy dei clienti. I colloqui erano effettuatti su appuntamento prefissato dal personale della farmacia a cui le persone chiedevano di accedere al servizio. Consapevole fin da subito dei rischi per la sua figura professionale, ad esempio un cattivo passaparola, si è fatta sempre forte di una programmazione ben strutturata e specifica. Dimostrarsi una risorsa per i clienti della farmacia, per Fiorella Palombo Ferretti, è stato sempre decisivo:

Dobbiamo ricordare sempre che stiamo “seminando” e se lo facciamo bene,il raccolto ci sarà e sarà buono.

Ed in effetti il raccolto è stato buono: dopo anni di lavoro in farmacia, come psicologa ma anche come progettista di formazione per agevolare e diffondere un lavoro strutturato, arriva la chiamata di FarmaCap che vorrebbe assumerla con un contratto a tempo indeterminato per occuparsi di formazione di dieci psicologi, per altrettante farmacie, presso le quali erano stati aperti dieci presidi socio-sanitari a forte valenza psicosociale.

Pertanto FarmaCap – che gestisce le farmacie comunali di Roma – è una delle protagoniste della promozione della figura dello psicologo in farmacia. E non è l’unica… anche FederFarma da anni promuove la diffusione della figura. Lo stesso Presidente di Federfarma Roma, Vittorio Contarina, sostiene che poter contare sulla figura di uno psicologo in farmacia, è un notevole vantaggio che facilita l’accesso ai servizi di consulenza psicologica. Contarina rimanda inoltre all’importanza dell’offerta di servizi in farmacia: il nucleo centrale dell’attività della farmacia continua a essere la dispensazione professionale del farmaco, alla quale devono essere abbinati servizi direttamente correlati per favorire il corretto uso dei farmaci, l’aderenza alle terapie e la prevenzione. Dunque i servizi aggiuntivi offerti sono un corollario, un di più che agevola i cittadini, perché permette loro un più facile accesso ad altre prestazioni sanitarie. La presenza dello psicologo in farmacia rientrerebbe proprio in quest’ottica, nella tutela della salute delle persone, salute che è insieme fisica e mentale.

Anche alcuni nomi della politica si sono espressi in merito alla questione psicologo in farmacia. E’ il caso di Emilio Carelli, ex direttore di Sky Tg24, oggi parlamentare del Movimento 5 stelle, che nella trasmissione “Il caffé di Federfarma” ha dichiarato che la figura del farmacista dovrebbe rinnovarsi ponendosi come il primo operatore sanitario vicino al cittadino, un primo interlocutore per il territorio e per il malato. Secondo il parlamentare, dunque, le farmacie si configurano come presidi utili a indirizzare il paziente verso soluzioni più mirate di cura della patologia,  attraverso la consulenza di altri professionisti. Aggiunge, inoltre, che è il percorso è stato messo al vaglio dell’Ordine degli Psicologi.

Vediamo proprio la posizione dell’ Ordine degli Psicologi: il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) ha recentemente istituito il gruppo di lavoroPsicologo in farmacia”, costituito da psicologi, da rappresentanti del Ministero della Salute e dell’Ordine dei Farmacisti, insieme per definire quali sono le competenze professionali e le modalità operative dello psicologo all’interno della farmacia. A inizio anno, ad esempio, il CNOP con il patrocinio della Federazione Ordini Farmacisti Italiani ha organizzato il convegnoPsicologia in Farmacia. Un nuovo modello di aiuto” nel quale sono intervenuti rappresentati di aziende farmaceutiche quali Assofarm, Farcom e Farmacap, oltre alla già citata Fiorella Palombo Presidente ANPIF.

A fronte del proliferare del consenso intorno alla figura dello psicologo in farmacia, si sono diffusi su tutto il territorio Italiano, dei percorsi formativi ad hoc, con l’intento di dare a tutti i colleghi interessati, gli strumenti idonei ad operare in farmacia. Si può anche diventare soci di alcune associazioni, dietro il corrispettivo di una quota annuale, che consente agli iscritti di ricevere il materiale identificativo dell’associazione a cui si è iscritti e, su richiesta, il supporto per promuovere i progetti su tutto il territorio nazionale. Infine, solo per i soci, vengono forniti, alle farmacie richiedenti, i nominativi degli psicologi in possesso di adeguata formazione.

Psicologo in farmacia: alcuni dubbi

Ricapitolando: non si può dire che manchi l’entusiasmo relativamente alla figura dello psicologo in farmacia e i presupposti di base, ovvero il puntare a una cura non solo biomedica del paziente, sono anche validi e solidi. Di pari passo però, forse anche a causa di un certo scetticismo che accompagna sempre il nuovo, è lecito anche l’affiorare dei dubbi. In questo caso, mi preme sottolinearlo, vorrei che i dubbi di seguito esposti vengano presi come tali, come domande che necessitano di risposte – tra l’altro domande sorte in conversazioni sostenute con altri colleghi psicologi sull’argomento- e non da interpretare come domande dettate da una vena di polemica.

Formazione ad hoc e obblighi di affiliazione
Di fianco all’affermarsi del consenso intorno alla figura dello psicologo in farmacia, sono proliferati eventi formativi pensati per gli interessati. Inoltre, per alcune associazioni è indispensabile iscriversi in modo da poter accedere alle farmacie convenzionate ed esercitare in veste di psicologo in farmacia. I programmi sono più o meno gli stessi: il colloquio psicologico in farmacia, il counselling psicologico, la valutazione neuropsicologica, la psicologia dell’emergenza o anche l’ansia e le tecniche di rilassamento. Determinati strumenti formativi sono preziosi per i neofiti che, alle prime armi, hanno giustamente il desiderio di mettersi in gioco senza rinunciare a un’idonea formazione. Verrebbe da chiedersi però se uno psicologo o anche uno psicoterapeuta esperto debba necessariamente frequentare tali corsi per prestare servizio in farmacia, avendo avuto a che fare con determinate tematiche nel corso di anni di studio e di pratica.

Farmacista counselor?
D’altro canto, contemporaneamente, emergono anche corsi per il farmacista counsellor: che si stia andando incontro a una probabile confusione di ruoli per giustificare un ampliamento del pacchetto dell’offerta formativa?

Chi paga lo psicologo?
Inoltre, sarebbe anche lecito chiedersi quale impatto tutto questo abbia per la figura professionale dello psicologo. Ben più volte è stato ripetuto dai protagonisti della promozione della figura dello psicologo in farmacia come le farmacie non devono trasformarsi in vetrine per altri professionisti (e questo, si sa, dipende anche dall’atteggiamento che ciascun professionista mette in atto in determinati contesti). Sempre gli stessi promotori della figura dello psicologo in farmacia affermano che tali professionisti sono sicuramente da retribuire ma il loro costo non dovrebbe essere a carico della farmacia, quanto piuttosto dei servizi sociali del territorio. Si corre forse il rischio di perdersi nel mare del “chi deve corrispondere quanto” ai professionisti che vogliono promuovere la salute sul territorio, rischiando di sottovalutare la loro figura?

Sarebbe interessante confrontarsi su questi punti, ben accette sono le esperienze di chi magari contro tutte queste perplessità ha dovuto lottarci, per giungere infine a realizzarsi ed essere appagato dal proprio ruolo di psicologo in farmacia.

Il nostro sguardo, è bene ricordarlo, deve sempre mirare al benessere del paziente. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, sarebbe opportuno ogni tanto porsi delle domande anche sul nostro ruolo e sulla nostra professione, conoscere meglio ciò che noi possiamo offrire ai pazienti e quale sia il modo migliore per farlo, confrontarci per trovare delle risposte. Sarebbe opportuno raggiungere il nostro obiettivo senza alcun ostacolo. Perché, si sa, il benessere del paziente dipende, in parte, anche dal benessere del professionista…

Gianni Liotti – Introduzione alla Psicologia

Lo studio dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) permise a Gianni Liotti di proporre una nuova spiegazione della genesi e del mantenimento dei disturbi psicopatologici.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Giovanni Antonio Liotti è nato a Tripoli, in Libia, il 27 marzo 1945. Si è laureato in Medicina a Roma e poi si è specializzato in Psichiatria (1962-1973). Subito dopo la laurea continuò a frequentare l’università in qualità di borsista e poi di ricercatore. I principali interessi di Liotti erano centrati sull’applicazione e integrazione della teoria dell’attaccamento di John Bowlby alla psicoterapia e alla psicopatologia.

Liotti nel 1978 è stato socio fondatore della Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva (SITCC), di cui è stato presidente dal 2000 al 2006.

Nel 1983 scrisse insieme a Vittorio Filippo Guidano il libro “Cognitive processes and emotional desorders“, che fu premiato come il miglior libro dell’anno sulla psicoterapia. Da allora il suo interesse si è focalizzato sullo studio della connessione tra dissociazione psicopatologica e attaccamento disorganizzato e nel 2005 Liotti ha ricevuto il premio Pierre Janet’s Writing Award.

Liotti e i sistemi motivazionali

Liotti fin da subito cercò di unire la ricerca svolta in ambito evolutivo, le neuroscienze, il funzionamento dell’affettività, al mestiere di psicoterapeuta, in un periodo in cui l’unico paradigma psicoterapeutico accettato era quello psicoanalitico. Questo tentativo d’integrazione è stata la sua grande innovazione ed evoluzione, in cui metteva insieme il nuovo, risultati della ricerca, alla clinica per costruire un progetto psicoterapeutico rivoluzionario e innovativo.

Liotti, studiò le emozioni, partendo dalla teoria di autori come Darwin, Ekman, Bowlby, Panksepp e Gilbert. Bowlby e Panksepp, condividono essenzialmente la tesi centrale dell’esistenza di sistemi psicobiologici frutto dell’evoluzione, omologhi negli animali e nell’uomo, che regolano sequenze caratteristiche sia di comportamenti sia di emozioni, in vista del perseguimento di specifici obiettivi adattativi.

La teoria evoluzionistica della motivazione di Liotti tiene in considerazione sia i processi alti sia i processi bassi in un’organizzazione gerarchica tripartita in cui i vari sistemi motivazionali si collocano al livello inferiore, intermedio o superiore in accordo con la loro successiva comparsa nel corso dell’evoluzione. Si delinea, perciò, una ricorsività dell’informazione fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale il livello arcaico, intermedio e il livello superiore evoluzionisticamente più recente.

La gerarchia dei sistemi motivazionali

Il cervello umano ha una struttura evolutiva gerarchica organizzata su tre livelli: rettiliano, limbico e neo-corticale. L’architettura dei sistemi motivazionali segue questa tripartizione, aumentando la propria influenzabilità ambientale col salire di livello gerarchico.

Il livello evolutivamente più arcaico dell’organizzazione motivazionale è connesso all’attività neurale localizzata nel cervello rettiliano, tronco encefalico, nuclei della base. Esso è costituito da sistemi che regolano condotte non-sociali rivolte alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, all’esplorazione dell’ambiente, a definire e controllare un proprio spazio fisico vitale, al procacciamento di cibo, e alla riproduzione sessuale.

Su queste sistemi non-sociali poggiano quelli appartenenti alla storia evolutiva più recente che controllano l’interazione sociale caratteristica dei mammiferi. Questo secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali localizzate nell’area limbica del cervello che comprende l’amigdala e il giro del cingolo. Le condotte sociali messe in atto dai mammiferi rivelano alcune omologie universali: la separazione identifica il sistema motivazionale dell’attaccamento, o richiesta di cura; il contatto corporeo morbido e ripetuto quello dell’accudimento o offerta di cura; i rituali di corteggiamento quello della sessualità; posture e mimiche di sfida e di resa identificano il sistema competitivo di rango o agonistico e, infine, nei mammiferi più evoluti, come i primati, il gioco sociale e l’attenzione congiunta riportano al sistema cooperativo paritetico.

Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è localizzato nella neo-corteccia, riguarda la dimensione cognitiva dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Esso è responsabile di combinazioni e variazioni individuali della loro espressione, in funzione della cultura di appartenenza.

Il sistema dell’intersoggettività, in quanto evoluzionisticamente più recente, esercita una funzione regolatrice sui sistemi sottostanti da cui emerge, mentre un’abnorme attivazione di questi ultimi può condurre a una più o meno protratta dissoluzione della motivazione intersoggettiva.

Ne consegue che nessuna influenza culturale sui contenuti della coscienza può annullare il fondamento evoluzionistico e dunque universale sul quale la coscienza di ordine superiore poggia.

Ne discende che ogni emozione umana presuppone l’intervento dei processi cognitivi superiori dell’uomo: le componenti fisiologiche delle emozioni sono trasformate in emozioni propriamente dette soltanto grazie all’intervento delle regioni neocorticali e “cognitive” del cervello umano.

I sistemi motivazionali interpersonali

I sistemi appartenenti al secondo livello gerarchico sono nell’uomo denominati sistemi motivazionali interpersonali (SMI). I sistemi motivazionali interpersonali sono quindi tendenze universali, biologicamente determinate e selezionate su base evolutiva, la cui espressione nel comportamento presenta variabilità individuali. Essi regolano la condotta in funzione di particolari mete e sono in stretta relazione con l’esperienza emotiva. Le emozioni accompagnano infatti l’azione dei sistemi motivazionali interpersonali e possono esserne considerate indicatori di attività. Quindi, secondo Liotti, ogni specifica esperienza emotiva può essere meglio compresa se rapportata al sistema motivazionale interpersonale entro cui si colloca. Le emozioni sono modalità di funzionamento dei sistemi motivazionali interpersonali e possono essere avvertite dalla coscienza. Quando due persone si incontrano, dunque, il loro scambio intersoggettivo è sempre regolato e motivato dagli SMI che, di conseguenza, si attivano.
 Gli SMI sono sistemi di regolazione fisiologici che, una volta attivati, organizzano il comportamento sociale, interpersonale, oltre che l’esperienza emozionale e la rappresentazione di “sé-con-l’altro”.

Gli SMI di base sono cinque e da ognuno di essi si generano emozioni diverse.

Il sistema dell’attaccamento

Il sistema motivazionale dell’attaccamento è finalizzato all’ottenimento di aiuto e vicinanza protettiva da parte di un’altra persona individuata come idonea. Il sistema si attiva e assume il controllo di emozioni e comportamenti nelle situazioni di dolore, pericolo, percezione di vulnerabilità e solitudine. Quando è attivo regola una serie di emozioni tipicamente percepibili in sequenza: paura da separazione, collera da protesta, tristezza da perdita e, infine, il distacco emozionale. La disattivazione del sistema permette l’attivazione di altri registri motivazionali come quello dell’esplorazione, del gioco cooperativo, della sessualità di coppia.

Il sistema di accudimento

Il sistema è reciproco a quello dell’attaccamento. Esso porta all’offerta di cura verso un conspecifico, agevolando le possibilità di sostentamento di altri individui all’interno del proprio gruppo. Il sistema è attivato dai segnali di richiesta di conforto e protezione emessi da un altro individuo, a sua volta motivato dal sistema di attaccamento, o da percezione della sua fragilità/condizione di difficoltà. Le emozioni derivanti dall’attivazione di questo sistema sono ansia, compassione, tenerezza protettiva o colpa per il mancato accudimento. Il sistema si disattiva alla cessazione delle condizioni attivanti, quindi alla percezione di segnali di sollievo e sicurezza da parte dell’altro.

Il sistema sessuale di coppia

Il sistema della sessualità è finalizzato alla formazione e al mantenimento della coppia sessuale. Il sistema è attivato da segnali fisiologici interni all’organismo, come variazioni ormonali, più importanti negli animali che nell’uomo, e da segnali comportamentali di corteggiamento emessi da un altro individuo. Emozioni collegate all’attivazione del sistema sono il pudore, la paura del rifiuto e la gelosia; la percezione dell’avvicinarsi della meta invece è collegata all’esperienza emotiva del desiderio e piacere erotico. L’orgasmo pone termine all’attivazione del sistema, che può essere disattivato anche dall’attivazione di altri SMI. All’interno della coppia sessuale può naturalmente verificarsi l’attivazione di altri SMI (attaccamento-accudimento, agonistico, cooperativo) con il conseguente arricchimento di forma e qualità della relazione.

Il sistema agonistico o di Rango

Il sistema agonistico di competizione per il rango è finalizzato alla definizione dei ranghi di potere e di dominanza/sottomissione per regolare all’interno di un gruppo il diritto prioritario di accesso alle risorse. Una volta stabilita la gerarchia all’interno del gruppo, questa rimane presente ed attiva nel tempo, con il vantaggio biologico di eliminare la necessità di continue lotte che potrebbero sfiancare gli individui. La definizione dei ranghi avviene attraverso forme ritualizzate in cui l’aggressività non è primariamente finalizzata a ledere l’antagonista ma ad ottenere da quest’ultimo un segnale di resa. Il sistema agonistico è attivato (a) dalla percezione che una risorsa è limitata e appetibile da più di un membro del gruppo sociale, (b) da segnali di sfida provenienti da un conspecifico, (c) nell’uomo da giudizio, ridicolizzazione, colpevolizzazione e altri segnali di rango. La disattivazione del sistema è determinata dal segnale di resa che comporta il riconoscimento della propria subordinazione al vincitore. Questo sistema può essere disattivato da un altro sistema motivazionale che subentra.

Il sistema cooperativo paritetico

Il sistema cooperativo ha come meta il conseguimento di un obiettivo comune, più facile da raggiungere attraverso un’azione congiunta. Il sistema è attivato appunto dalla percezione che risorse non limitate risultano più accessibili attraverso uno sforzo congiunto di più individui.
 Il sistema è attivato dalla percezione degli altri individui interagenti, in funzione dei fini prefissati e la percezione da parte dei “pari” di segnali di non-minaccia agonistica, come il sorriso. Il sistema può essere disattivato dal raggiungimento dell’obiettivo, dal tradimento della lealtà cooperativa da parte di uno o più interagenti o anche dall’attivazione di altri sistemi motivazionali in forme incompatibili. Quando la meta è vista avvicinata o raggiunta le emozioni collegate all’attivazione del sistema riguardano la gioia da condivisione, la fiducia e l’amore amicale; senso di colpa, sfiducia e risentimento segnalano invece la trasgressione dalle mete proprie del sistema.

Emozioni

Le emozioni giocano un ruolo intermedio fra la percezione della situazione, che attiva un dato sistema motivazionale, e la condotta che mira alla meta del sistema. Le operazioni di regolazione della condotta di ogni SMI sono radicalmente inconsce e le emozioni, dunque, sono le prime fasi nell’attività del sistema che possono essere esperite dalla coscienza. Le emozioni sono parte delle operazioni di un sistema motivazionale, e non hanno di per sé proprietà motivanti se non a livello di causalità prossimale.

Alcune emozioni sembrano attivarsi solo in concomitanza di uno specifico sistema motivazionale e non si manifestano mai durante l’attivazione di altri sistemi interpersonali. Altre emozioni, invece, si possono attivare nell’ambito di più di un sistema motivazionale, all’interno di sequenze emozionali molto diverse tra loro.

L’Analisi degli Indicatore delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti

L’Analisi degli Indicatore delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti (AIMIT) ha lo scopo di valutare le dinamiche motivazionali complesse, che potrebbero avere un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento dei disturbi psicopatologici.

In particolare, consente di individuare gli indicatori che segnalano l’attivazione di un singolo sistema motivazionale o di  identificare segnali di transizione da un sistema motivazionale all’altro.
 Ad ogni sistema motivazionale è associato un codice: At (Attaccamento), Ac (Accudimento), Sex (Sessuale), Ra (Rango), Pa (Cooperazione Paritetica); se il sistema è attivo nella relazione terapeutica del momento si usa Rel (Relazione), se invece il sistema è attivo nella narrazione che però non coinvolge l’interlocutore si usa Nar (Narrazione)

Attaccamento e trauma

Liotti evidenzia come l’attaccamento disorganizzato nel primo anno di vita sia un potente predittore della dissociazione, più di quanto lo siano traumi successivi, avanzando l’ipotesi che l’interazione fra ricordi traumatici e attaccamento disorganizzato possa essere il necessario antecedente della dissociazione patologica.

Secondo Liotti, il possibile meccanismo alla base di ciò sembrerebbe risiedere nella particolare interazione tra due sistemi motivazionali innati frutto dell’evoluzione: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento. Mentre in condizioni ottimali questi due sistemi funzionano in perfetta armonia (il bambino scappa dal pericolo rifugiandosi dalla mamma, ed essendone confortato disinnesca il sistema di difesa), nell’attaccamento disorganizzato la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di pericolo e di conforto, generando nel bambino un terrore senza sbocco.

La teoria polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.

Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento. Queste strategie controllanti funzionano bene finché una sollecitazione troppo intensa del sistema di attaccamento non le faccia collassare, facendo emergere il MOI disorganizzato.

Il sistema di difesa merita particolare attenzione perché è coinvolto in tutte le esperienze traumatiche. Il trauma per definizione comporta sempre una minaccia alla vita o all’incolumità. Una volta attivato dalla percezione di una tale minaccia, il sistema di difesa si manifesta con una sequenza comportamentale descritta con le quattro “F”: Freezing, Flight, Fight, Feigned death. L’attivazione del sistema di difesa inizia con un’immediata e automatica immobilità (freezing, congelamento) comandata dal sistema ortosimpatico e accompagnata da tachicardia e iperpnea oltre che da un incremento del tono muscolare che ha il fine di preparare alla fuga (flight) o alla lotta (fight). La scelta fra la fuga e la lotta avviene durante la fase di congelamento, ed è legata a operazioni cerebrali che si svolgono a livello del tronco encefalico, essa non richiede dunque l’intervento della coscienza di ordine superiore. Si attua una valutazione puramente percettiva, non concettuale, dei rapporti di forza con l’aggressore o predatore. Se tale valutazione è favorevole all’aggredito, al freezing segue l’attacco al predatore, altrimenti la scelta è per la fuga. Se poi la fuga si rivela impossibile, può subentrare una manifestazione estrema, anch’essa automatica, ovvero una variante della sincope vagale nota come finta morte.

Mentre le prime tre fasi dell’attivazione del sistema di difesa sono regolate dal sistema ortosimpatico, la finta morte è regolata da una sezione del nucleo del vago, il nucleo vagale dorsale. L’espressione facciale riflette in modo diretto lo stato polivagale della persona; attraverso un processo di “neurocezione” (si tratta di un processo neurofisiologico) il sistema nervoso valuta il rischio presente nell’ambiente circostante senza consapevolezza e, spesso, indipendentemente da una narrazione cognitiva. In questo quadro, è possibile che la neurocezione del pericolo, in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche, si attivi in modo automatico anche quando non esiste un pericolo “reale”. L’attivazione del nucleo dorsale del vago ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.
 L’importanza per i clinici di conoscere le implicazioni dell’attivazione del nucleo dorsale del vago nelle esperienze traumatiche consiste nel fatto che tale attivazione può spiegare molti sintomi osservabili nei pazienti che soffrono degli esiti di traumi psicologici: i sintomi somatoformi di accasciamento e incertezza motoria, l’ottundimento e il tipico sentimento pervasivo di impotenza personale.

La centralità della relazione terapeutica e del sistema paritetico collaborativo

Questa teorizzazione ha una ricaduta di primaria importanza nella relazione terapeutica con pazienti traumatizzati: un terapeuta troppo accudente potrebbe far emergere i modelli operativi interni disorganizzati, con la fobia dell’attaccamento e la fobia della perdita di attaccamento, favorendo processi dissociativi. Un migliore assetto relazionale è invece garantito, secondo la teoria di Liotti, da una posizione collaborativa, paritetica, fra terapeuta e paziente. La costruzione e la riparazione dell’alleanza terapeutica ancora una volta, sembra essere uno dei principali strumenti del trattamento, soprattutto per pazienti pesantemente traumatizzati.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

6° Convegno Internazionale Autismi. Benessere e sostenibilità – Report dall’evento di Rimini, 4 e 5 Maggio

Anche quest’anno Centro Studi Erickson risponde senza deludere alla richiesta di aggiornamento continuo da parte di chi si occupa di autismo organizzando il 6° Convegno Internazionale Autismi: due intense giornate formative con il contributo di oltre cento esperti di fama mondiale che hanno presentato le ultime novità in tema di diagnosi e trattamento nel pieno rispetto delle più recenti evidenze scientifiche.

 

Rendere giustizia alla complessità ed alla specificità dei temi trattati in poche righe è un’impresa impossibile motivo per cui mi limiterò a descrivere sommariamente i principali temi trattati dai professionisti che ho avuto il piacere di ascoltare.

Autismo: le dimensioni messe in evidenza da ciascun relatore

La giornata di venerdì si apre con una plenaria destinata a tutti i partecipanti in cui Hilde De Clerq (Linguista, Docente e Formatrice, Bruxelles) mette l’accento sulla necessità di un approccio etico all’ autismo, il che implica una conoscenza “dall’interno” come prerequisito essenziale per un programma terapeutico che miri ad una qualità soddisfacente e come garanzia di un contesto educativo che rispetti maggiormente la neurodiversità.

Segue l’intervento di Erica Salomone (Research Fellow, Dipartimento di psicologia, Università di Torino) sul tema dell’apprendimento nell’ autismo. La dottoressa ci spiega come alcune caratteristiche che risultano deficitarie nel primo periodo di sviluppo di un autistico possono ridurre le occasioni di apprendimento sociale e ritardare così l’acquisizione di alcune importanti competenze. Si tratta di aspetti importantissimi e presenti fin dalla nascita in un bambino neurotipico come l’attenzione verso la novità, l’orientamento sociale, la reciprocità sociale ed emotiva, la capacità di imitazione e l’attenzione congiunta.

Promuovere fin da subito un ambiente che tenga in preziosa considerazione lo stile cognitivo del bambino autistico, negli aspetti di limite ma anche di risorsa, è così di cruciale importanza per impostare qualsiasi intervento educativo.

Salomone ci illustra inoltre i risultati di alcune ricerche e chiude l’intervento con la descrizione del programma CST (Caregiver Skills Training) per i caregiver di bambini con disturbi dello sviluppo dai 2 ai 9 anni, attivo in 33 paesi nel mondo a livello sperimentale: un programma che mira ad essere efficace e sostenibile.

La prima sessione plenaria si chiude con l’intervento di Serafino Corti (Direttore Dipartimento delle Disabilità, Fondazione Sospiro Onlus e Università Cattolica di Brescia) che affronta il tema della qualità di vita in una prospettiva Life Span.

Autismo nell’arco di vita

Corti ci invita a riflettere circa le scarse opportunità di inclusione sociale e lavorativa delle persone con autismo e la conseguente necessità di sostegni “generalizzati” per tutto l’arco della vita e nei diversi contesti, con gravi ricadute in termini di stress a carico del sistema familiare che si vede impoverito di risorse di natura economica, relazionale e di salute.

L’età adulta è di fatto un’età complessa dal punto di vista degli aiuti erogati dallo stato, con un decremento delle opportunità di sviluppo individuale e di inclusione a fronte però di nuove sfide nell’ambito del progetto di vita: vita indipendente, inserimento lavorativo e ridefinizione della qualità dei sostegni.

L’invito è dunque all’accettazione aperta, che non è rassegnazione, per garantire una vita piena di senso, un’accettazione che si muova verso il riconoscimento del valore della persona, avendo in mente traguardi coerenti e veri perché un obiettivo eticamente sostenibile deve essere sfidante e al contempo credibile. È necessario inoltre lavorare molto di più sui sostegni indiretti, sui contesti di vita, non solo perché eticamente corretto ma perché significa avere risultati più grandi e più sostenibili anche dal punto di vista economico.

La sessione si chiude dunque con una raccomandazione che pervaderà i contributi di molti altri colleghi: un richiamo ad una maggior responsabilità sociale nei confronti di una minoranza che prima ancora di chiedere aiuto chiede di essere accettata e rispettata nella sua diversità.

Apprendimento di una nuova lingua: è più importante la produzione o la comprensione?

Nell’ apprendimento di una lingua straniera vengono prediletti esercizi che allenano la comprensione, con prove di ascolto e attività carta-matita. 
Una nuova ricerca dimostra che, seppur questo tipo di formazione dia agli studenti il giusto input linguistico, appare estremamente importante parlare la lingua per impararla al meglio.

 

I ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison, in uno studio pubblicato su Psychological Science, hanno confrontato gli effetti degli esercizi di comprensione e produzione nell’ apprendimento di una lingua straniera.

La ricerca nasce dalla presenza di dati discordanti riguardo l’argomento.

Le stesse autrici affermano:

Alcuni dati riguardanti la memoria di lavoro indicano che la produzione del linguaggio fornisce una forte esperienza di apprendimento, allo stesso tempo però la letteratura sull’ apprendimento delle lingue sottolinea, in modo schiacciante, l’importanza della comprensione nell’ apprendimento di un nuovo idioma.

Lo studio

L’ipotesi che le autrici dello studio, Elise Hopman e Maryellen MacDonald, hanno cercato di verificare è stata quella secondo cui l’esercitarsi nell’espressione e nella produzione di frasi in una lingua straniera possa aumentare la capacità degli studenti anche nella sua comprensione.

I partecipanti che hanno preso parte alla ricerca sono stati suddivisi in due gruppi e a ciascuno di essi è stato poi insegnato un linguaggio artificiale. Il gruppo sperimentale denominato “di produzione” parlava liberamente e riceveva feedback immediati riguardanti il vocabolario e la grammatica mentre il gruppo di controllo chiamato “di comprensione” era sottoposto ad una tipica serie di esercizi di ascolto. Entrambi i gruppi hanno poi completato dei test per valutare le loro capacità lessicali e grammaticali.

I risultati hanno mostrato che il gruppo sperimentale otteneva punteggi migliori in entrambi i test, anche analizzando le performance dei singoli studenti. I ricercatori per valutare l’ apprendimento avvenuto hanno tenuto conto di diversi fattori tra cui: accuratezza e velocità di comprensione, apprendimento lessicale, relazioni grammaticali semplici e complesse.

È da sottolineare inoltre che il gruppo che praticava il parlato superava il gruppo di ascolto anche in compiti che erano quasi identici a quelli presentati a quest’ultimo gruppo durante la sessione di apprendimento.

Conclusioni

Le autrici suggeriscono che la spiegazione dei risultati potrebbe risiedere nel fatto che la produzione linguistica richiede l’integrazione contemporanea di più funzioni cognitive. Affidarsi alla memoria di lavoro durante la produzione di un discorso potrebbe aumentare il “legame” tra grammatica e vocabolario, aumentando così la connessione tra questi elementi linguistici. Secondo le autrici e alla luce dei risultati ottenuti, tutto questo processo non si verificherebbe nel caso della sola comprensione.

Per concludere, si può affermare che le evidenze trovate presentano importanti implicazioni per l’apprendimento delle nuove lingue. Nella maggior parte dei casi infatti l’insegnamento della lingua straniera sottostima l’importanza della produzione e questo appare un grave errore stando a quanto affermato dalle studiose:

Esporre spontaneamente quanto appreso e ricevere feedback immediati sull’output prodotto rende l’apprendimento di una nuova lingua un’esperienza incredibilmente più forte rispetto alla sola comprensione orale.

Tre concetti trasversali in psicoterapia

In un crocevia di idee, modelli, tecniche e approcci, che oggi caratterizzano il contesto psicoterapeutico, è più che mai importante mantere l’attenzione su alcuni concetti fondamentali che ci consentano di selezionare e proporre scopi e interventi efficaci ai nostri pazienti.

 

Viviamo in un periodo storico in cui la scienza psicoterapeutica è florida e produce continuamente nuove idee, modelli, tecniche e approcci. Questa rappresenta una ricchezza, a maggior ragione se accompagnata da una prospettiva scientifica. Tuttavia, come in tutti i periodi di grande crescita, nasconde rischi che occorre comprendere e imparare a regolare, specie quando i professionisti si aprono a numerose potenziali specializzazioni che spesso risultano difficili da integrare. Ad esempio, ogni approccio o modello tende a presentare se stesso come “il migliore” e ancora (purtroppo) poco interesse c’è nell’esplorare sinergie ma ancor di più possibili interazioni deleterie tra diversi modelli.

Non possiamo dire con certezza che l’associazione di diverse tecniche o modelli non abbia alcun impatto deleterio sul percorso di terapia. Così come due farmaci potenzialmente utili possono avere interazioni indesiderate, così anche due approcci con diversi modelli di riferimento possono incorrere nello stesso problema. Quindi la mescolanza eclettica di approcci differenti, seppur individualmente di una certa utilità, trascura una serie di rischi.

Secondo il nostro parere, ciò spinge verso alcune direzioni necessarie per la ricerca in psicoterapia:

  1. occorre esplorare l’interazione tra diversi approcci e tecniche e possibili controindicazioni
  2. occorre ritornare a un’analisi accurata dei mediatori della sofferenza patologica e del processo di cambiamento, cioè verso la validazione scientifica delle teorie prima che delle terapie
  3. occorre costruire modelli di formulazione e progettazione condivisa del percorso terapeutico che possano orientare il professionista a prendere decisioni in modo informato nella gestione della terapia di un paziente

Queste direzioni possono regolare a ragion veduta la selezione e la conseguente proposta di scopi e interventi per i pazienti anche in aggiunta all’inquadramento diagnostico.

In queste direzioni ci sono almeno tre concetti che ci pare utile considerare.

1 – Sequenza

Il primo è sequenza, vale a dire l’ordine con cui vengono proposti gli interventi durante una psicoterapia. Cambiare tecnica, obiettivo o addirittura modello di riferimento ha un impatto significativo e non sempre controllabile a priori. Dal nostro punto di vista è una questione da affrontare con un buon grado di cautela. Iniziare un intervento basato su EMDR all’inizio o in fase avanzata del percorso di terapia può cambiarne l’impatto o no? Dedicare uno spazio alla narrazione della storia di vita e a comprendere le origine storiche della sofferenza è un passo utile e/o necessario? Lo è sempre o solo in alcuni casi? Non abbiamo risposte certe a ciascuna di queste domande perché i confronti di questi tipo a livello della ricerca scientifica scarseggiano e ci tocca talvolta limitarci all’esperienza del clinico più esperto. Tuttavia qualcosa si comincia a sapere. Ad esempio, sappiamo che può essere efficace sviluppare una terapia a partire dai contenuti, ad esempio discutere su schemi interpersonali, per spostarla in un secondo tempo su processi e credenze metacognitive, come la riduzione del rimuginio su problematiche interpersonali.

Alcune ricerche ci dicono che la direzione opposta può invece essere controindicata e potenzialmente dannosa per il paziente (Gkika & Wells, 2015). La ragione ipotizzata è che trasmettere due messaggi in contrapposizione tra loro, analizzare i propri schemi e abbandonare l’analisi di sé, possa generare confusione, blocchi o addirittura peggiori lo stato sintomatologico del paziente. Un’altra cosa che sappiamo è che il grado di complessità e il numero di diversi interventi che vengono utilizzati in terapia possono avere un effetto negativo sull’esito della terapia stessa (Cougle, 2012). Una buona meta per il professionista è garantire il maggior grado di parsimonia. In primo luogo, l’uso di molteplici tecniche aumenta il rischio di messaggi confusivi. Secondariamente, aumenta il carico cognitivo per il paziente, che viene spinto a molteplici sforzi di apprendimento piuttosto che verso la graduale generalizzazione e stabilizzazione dello stesso apprendimento.

Infine, l’uso di molte tecniche richiede più tempo con conseguente prolungamento del percorso terapeutico. La future direzioni della ricerca in psicoterapia dovranno mettere al centro la necessità di parsimonia a vantaggio sia dei terapeuti in formazione che dei pazienti. Conseguentemente, la decisione di inserire un nuovo approccio o un nuovo intervento all’interno della terapia diventa un passaggio delicato e la sua attuazione dovrebbe richiedere di valutare se (1) effettivamente non esiste la possibilità di proseguire con il medesimo approccio e (2) quali sono le implicazioni del cambiamento di intervento in corso d’opera.

2 – Condivisione

E poi naturalmente questo cambiamento va condiviso a fondo. E veniamo al nostro secondo concetto: condivisione, un altro elemento centrale, spesso chiamato in causa, non sempre colto nelle sue implicazioni concrete. In una professione in cui due persone collaborano a un progetto, ma uno solo è l’esperto della materia, diventa chiaro come ottenere un consenso ‘consapevolmente’ informato sia un passaggio eticamente fondamentale. A maggior ragione innanzi a un periodo come questo dove abbiamo molteplici derive teoriche e tecniche in ascesa, molte con diversi gradi di supporto scientifico. Il paziente si trova nella condizione di affidarsi alla cieca sulla base della simpatia o del feeling realizzato con il terapeuta durante il primo incontro, che può dipendere da qualità intellettuali, dialettiche, seduttive del terapeuta e non sempre e solo dalla solidità dell’approccio che propone.

Scopo non è certo condannare le personalità carismatiche né tanto meno negare la libertà di affidarsi al professionista con cui ci sente più a proprio agio. Ma è sul professionista che cade la responsabilità di mettere il paziente nella condizione migliore per fornire un consenso informato. La condivisione non è quindi solo una restituzione del funzionamento secondo il proprio modello di riferimento ma è anche una trasmissione di informazioni su quale potrebbe essere lo scopo, quali i tempi previsti, quali le tecniche proposte per raggiungerlo, cosa sappiamo sul modo in cui operano e quali potrebbero essere eventuali percorsi alternativi.

È importante nell’area cognitivo-comportamentale condividere necessità e metodo con cui verranno messe in discussione certe convinzioni che alimentano la sofferenza del paziente. È altrettanto importante nell’area relazionalista condividere con il paziente che certi interventi sulla relazione con il terapeuta o certe condivisioni del terapeuta sui propri vissuti personali non sono solo buona educazione e neanche un improprio avvicinamento relazionale ma hanno un preciso intento terapeutico.

3 – Razionale o Logica

La condivisione si applica quindi al razionale di ogni intervento, intesa come la ragione o la logica che guida le nostre proposte al paziente. Questo è il nostro terzo concetto. Il razionale costruisce la cornice che guida l’elaborazione delle esperienze che avvengono in terapia e permette sia la possibilità di condividere un contratto terapeutico, sia la possibilità di usare l’esperienza della terapia in una direzione coerente con il modello che viene proposto. Non neghiamo che un certo grado di serendipità (cerco qualcosa ma trovo qualcos’altro di altrettanto o più utile) possa accompagnare ogni nuova esperienza di vita, ivi compreso ciò che accade in terapia, tuttavia pensiamo che il clinico non possa scommettere sulla serendipità. A maggior ragione visto che sappiamo che la condivisione del razionale non solo è etica, ma rappresenta essa stessa un elemento fondante la tecnica.

Alcuni studi recenti (Caselli, Gemelli, Spada & Wells, 2017) e meno recenti (Wells & Fisher, 2005) mostrano come la stessa identica esperienza di esposizione, porti a effetti molto diversi sul paziente in base al razionale con cui viene introdotta. La cornice informativa che viene fornita al paziente modella ciò che il paziente elabora di una esperienza, suggerendo anche un ruolo potente e in buona parte inevitabile o comunque attivo dei processi cognitivi di ordine superiore cosiddetti top-down. Secondo noi anche questo dato traccia alcune importanti linee. Se il razionale non viene condiviso, il paziente è sottoposto a un intervento a cui non può dare consenso ‘consapevolmente’ informato. Se il razionale non viene condiviso, si ha meno controllo sulla modalità con cui la tecnica agisce e ci si affida maggiormente alla serendipità.

Tre concetti trasversali in psicoterapia

Questi tre concetti hanno per noi un respiro trasversale rispetto a specifici modelli di terapia. Crediamo che in futuro, questi e altri, dovrebbero diventare una base per lo sviluppo e la definizione di come opera uno psicoterapeuta. Definizioni concettuali maggiormente accurate e trasmesse nei corsi di formazione potrebbero già da sole aiutare molto i futuri professionisti a evitare derive eclettiche o artigianali, i futuri formatori a non basare l’insegnamento esclusivamente su narrazioni aneddotiche delle proprie terapie, i futuri pazienti a ricevere terapie più comprensibili, condivise ed efficienti.

Nuove frontiere nella cura del trauma 2018. L’elaborazione dei ricordi traumatici – Report del convegno di Venezia

Ormai giunto alla VII Edizione, il Corso Internazionale Nuove Frontiere nella cura del Trauma è il luogo di incontro di molti traumatologi italiani che seguono dal 2012 una formazione specifica sulla clinica dei Disturbi dissociativi e del Trauma Complesso.

Il gruppo segue dal 2012 questa alta formazione – da 3 anni promossa da Area Trauma fondata da Giovanni Tagliavini e Paola Boldrini – avvalendosi della presenza di formatori autorevoli nel campo del trauma e della dissociazione, come Bessel van der Kolk, Janina Fisher, Suzette Boon, Khaty Steele, Dolores Mosquera, Annabel Gonzalez, Gianni Liotti, Benedetto Farina.

Per le giornate dal 29 aprile all’1 maggio 2018, la cornice teorica di riferimento è sempre quella della Dissociazione Strutturale, mentre la struttura dei trattamenti proposti negli anni ha da sempre seguito quella del Modello Trifasico, già proposto da Pierre Janet (1898-1911) e da allora rimasto lo standard di cura più riconosciuto in Psicotraumatologia per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso e dei Disturbi Dissociativi (in Steele, Boon, van der Hart 2018).

Trauma, dissociazione ed elaborazione delle memorie traumatiche

Dopo il lavoro degli anni precedenti sulla stabilizzazione, sulla elaborazione delle fobie dissociative e sull’importanza di ottimizzare la regolazione affettiva (Fase 1), il lavoro del gruppo “veneziano” si è concentrato quest’anno sulla Fase 2 del trattamento: l’elaborazione delle memorie traumatiche. Le guide di quest’anno sono state Dolores Mosquera e Lana Epstein, alternando lavoro in plenaria e la presentazione di casi clinici tramite workshop in piccoli gruppi esperienziali.

Dolores Mosquera, ospite di tradizione della formazione veneziana, è una Psicologa e Psicoterapeuta, supervisore EMDR, terapeuta certificata Sensorimotor, lavora privatamente a La Coruña e a Santiago di Compostela, Spagna, dove ha fondato Intra-TP, un centro clinico che si occupa in particolare di trauma complesso, disturbi dissociativi e disturbi di personalità borderline e antisociali.

Lana Epstein, per la prima volta a Venezia, è una Psicoterapeuta, supervisore EMDRIA, supervisore ASCH (American Society for Clinical Hypnosis) e formatrice senior del Sensorimotor Psychotherapy Institute, vive e lavora in Massachusetts (Stati Uniti) e dedica la sua attività clinica all’applicazione di forme integrative di terapia, in particolare nel campo del trauma complesso e dei disturbi dissociativi. Ha lavorato con Janina Fisher come supervisore clinico nel Trauma Center di Bessel van der Kolk a Boston.

Il cuore di entrambi gli interventi è stato raccontare il loro lavoro clinico con i pazienti vittime di traumatizzazione cronica, nella fase di elaborazione delle memorie traumatiche, proponendo diversi metodi di intervento volti però ad un unico obiettivo: affrontare un passo alla volta il dolore legato alle esperienze traumatiche del passato, senza generare emozioni soverchianti e senza ri-traumatizzare il paziente durante il processo terapeutico stesso. Essenziale punto di partenza per questa popolazione clinica!

Elaborazione del trauma: i punti fondamentali

I comuni denominatori tra i modelli proposti da Dolores Mosquera e Lana Epstein sono stati:

  • Il mantenimento costante dell’attenzione duale tra presente e passato
  • Far muovere il paziente sempre dentro una “finestra di tolleranza emotiva” (Siegel, 1999) per lui/lei tollerabile
  • La focalizzazione attenta sui segnali emotivi e somatici di attivazione delle difese (fight, flight, freeze, faint) come linea di confine per il lavoro di elaborazione
  • Il mantenimento della Co-consapevolezza tra tutte le parti del paziente sul lavoro terapeutico
  • La promozione del dialogo tra le parti dissociative sempre attraverso la mediazione dell’Adulto sano, che via via riesce a guadagnare competenza e capacità di coping per gestire il dolore all’interno del suo sistema emotivo
  • La trasparenza, la chiarezza e la condivisione degli obiettivi terapeutici con il paziente
  • Il rispetto della volontà, della motivazione e del livello di energia del paziente in ogni fase
  • La focalizzazione molto precisa sul tema di lavoro scelto in ogni seduta, per non correre il rischio di elaborare troppi aspetti dello stesso evento, che il paziente non riesce a sopportare
  • Restare curiosi di fronte ai blocchi e alle resistenze, sono solo nuovi elementi da esplorare insieme al paziente e non comportamenti da interpretare
  • La flessibilità sugli obiettivi terapeutici e la disponibilità a fermarsi o tornare indietro quando emergono blocchi, fobie, nuovi conflitti o nuove parti nel corso del trattamento.

Elaborazione secondo Dolores Mosquera: le Micro-Elaborazioni

Dolores Mosquera - FOTO
Dolores Mosquera

Durante i tre giorni di formazione, Dolores Mosquera ha raccontato il suo lavoro terapeutico orientato prevalentemente all’utilizzo dell’EMDR come strumento clinico di sostegno all’elaborazione. La cautela è il principio base di questa fase di lavoro: affrontare le memorie traumatiche per pazienti con Trauma complesso e Disturbi Dissociativi può essere molto soverchiante e spesso la frammentazione interna è così complessa e stratificata, da impedire la creazione di una mappa chiara e definitiva del sistema interno. Da dove si parte?

Laddove il paziente non possa tollerare il dolore o non sia possibile rintracciare un unico evento traumatico scatenante (trauma T) o il trauma sia coperto da parziale o totale amnesia, è necessario possedere strumenti specifici e procedere con metodi di elaborazione frazionata o graduale dei ricordi: le “micro-elaborazioni”. Quali dunque i possibili target per le “micro-elaborazioni”?

Spesso è necessario intervenire tempestivamente su sintomi intrusivi che invadono il quotidiano e che risultano molto invalidanti: ad esempio flash back o incubi ricorrenti che causano insonnia, fobie o evitamenti. Quando tuttavia il ricordo non è accessibile per intero, la micro-elaborazione può coinvolgere: frammenti di ricordo (fotogrammi), frammenti intrusivi che generano triggers nel presente (immagini, parole, odori, sensazioni), fobie trauma correlate (fobia del ricordo, fobia del terapeuta, fobia degli stati interni, fobia delle parti dissociative); infine possono diventare target di elaborazione aspetti periferici – e meno attivanti – del ricordo T, che condizionano però altri aspetti del presente. Quest’ultima tecnica è stata descritta e codificata come “Strategia della punta del dito” (Gonzalez e Mosquera, 2015) e consiste nel lavorare su dei target traumatici che non sono presenti nella memoria centrale del trauma, ma che si collocano alla periferia del ricordo e spesso rappresentano una conseguenza del trauma, ma non una parte stessa dell’evento.

Di particolare interesse e utilità clinica è stata inoltre la descrizione del CIPOS (Constant Installation of Present Orientation and Safety, di Jim Knipe 2008), metodo EMDR specifico che permette al paziente di esporsi al ricordo per una finestra temporale molto breve (spesso alcuni secondi), di elaborare micro-frammenti di immagini, sensazioni, pensieri o emozioni, e di tornare poi nel presente e nella percezione di sicurezza. Solo dentro la “finestra di tolleranza emotiva” è possibile infatti che avvenga l’elaborazione; se il paziente è fuori in iper- o ipo- arousal la sua mente non ha adeguate risorse per elaborare il materiale mnestico e il rischio è solo di produrre un’intensa abreazione senza processamento di informazioni.

Le fasi del CIPOS possono essere considerate un framework di lavoro da utilizzare come traccia anche all’interno di approcci terapeutici diversi dall’EMDR:

1) chiedere il Permesso al paziente per lavorare sul ricordo/frammento

2) Sviluppare un senso di sicurezza nel qui ed ora

3) Rafforzare l’orientamento nel presente

4) Utilizzare una scala di valutazione per misurare l’attenzione duale (Back of the Head Scale)

5) Iniziare il lavoro di micro-elaborazione. Il processo di elaborazione muove continuamente dalla fase 1 alla 5, finché il frammento iniziale scelto non risulta desensibilizzato e non più disturbante.

La chiarezza illuminante di Dolores Mosquera ha reso comprensibile un processo terapeutico altrimenti complesso e ricchissimo di variabili da considerare contemporaneamente, ma è evidente come solo l’esperienza e la formazione continua possano aiutare ad applicare i metodi di elaborazione in modo controllato, appropriato ed efficace. Una raccomandazione per tutte: l’EMDR è molto efficace e potente, ma va usato con l’attenzione di un “laser”: il target deve essere molto preciso, circoscritto e centrato rispetto al problema riferito dal paziente nel momento presente. Vietato improvvisare!

Elaborazione secondo Lana Epstein: la Memory Reconsolidation

Lana Epstein
Lana Epstein

Il lavoro presentato da Lana Epstein mantiene lo stesso rigore e gli stessi obiettivi clinici, ma muove dalla cornice teorica della Memory Reconsolidation (Ecker, Ticic e Hully, 2012) e predilige la Terapia Sensomotoria (SP) come metodo di elaborazione delle memorie traumatiche e delle ferite d’attaccamento. L’obiettivo di lavoro esplicito è quello di raggiungere e intercettare attraverso i frammenti sensoriali dell’esperienza presente del paziente, la memoria implicita procedurale legata ai ricordi traumatici e aiutare il paziente a letteralmente “ri-cablare” la memoria di quegli eventi, modificandone l’impatto emotivo e gli effetti sintomatici nel presente.

Il legame con le prime teorie di Pierre Janet risulta a questo proposito naturale e coerente:

I pazienti influenzati dai ricordi traumatici non sono capaci di eseguire nessuna delle azioni caratteristiche dell’Atto di Trionfo

(Janet, 1919-1925), cioè se il trauma blocca delle azioni adattive di difesa, poiché le emozioni soverchianti impediscono alla vittima di agire attivamente in favore della propria sopravvivenza, allora quelle azioni tronche possono restare bloccate nella memoria procedurale e creare sintomi e sofferenza psichica nel presente anche a distanza di anni. Un lavoro profondo sulle memorie procedurali può andare a sbloccare quelle azioni e ripristinare delle difese attive, che aiutino a modificare l’impatto del ricordo traumatico del passato sul cervello del paziente nel presente.

La ricerca sulla Memory Reconsolidation (MR) è iniziata negli anni 70 attraverso i primi studi condotti sull’ECT (Elettroshock) e ha subìto diverse battute d’arresto nel corso della sua storia, ma grazie alla ricerca neuroscientifica attuale, l’interesse clinico e dei ricercatori si è ravvivato. Il meccanismo di base della MR si incentra sulla sorprendente scoperta delle capacità del cervello di eliminare uno specifico apprendimento emozionale indesiderato (convinzioni, azioni o schemi disfunzionali), non cosciente, a livello delle sinapsi neuronali fisiche che lo codificano nella memoria emozionale. La cancellazione di quell’apprendimento emozionale disfunzionale che sta alla base di un particolare sintomo, permette di eliminare il sintomo alla radice (Ecker, Ticic e Hully, 2012). Secondo la MR è possibile riscrivere delle esperienze emotive del passato incorporando nuovi elementi in quella traccia mnestica legata all’esperienza negativa e traumatica (Lana, Ryan, Nadel, Greenberg 2015).

Il lavoro terapeutico presentato da Lana Epstein è completamente coerente rispetto a questi modelli teorici e la Terapia Sensomotoria (SP) offre lo strumento clinico ideale per accedere a questo livello di memoria implicita. Il suo metodo è il risultato – molto complesso e articolato – della sinergia tra le fasi della Memory Reconsolidation e i 4 Passi del metodo di lavoro della Psicoterapia Sensomotoria (Ogden, Fisher 2018).

Le fasi descritte della MR sono:

1) Ri-attivare il ricordo traumatico e farlo emergere in modo esperienziale, osservando più la componente sensoriale rispetto agli altri dettagli del ricordo (es: immagine, pensiero)

2) Fornire un esperimento di “Mis-Match” (disadattamento), evocando e stimolando cioè una difesa attiva opposta alla difesa passiva originale emersa nel passato

3) Rivedere il ricordo tramite nuovo apprendimento e consolidare/integrare il nuovo apprendimento collegandolo a tutti i livelli di elaborazione coinvolti: sensoriale, comportamentale, emotivo e cognitivo.

In questa cornice teorica la fase di elaborazione è quella centrale (2) ed è qui che vengono integrati gli interventi di Terapia Sensomotoria – SP (Ogden, Fisher 2016). Gli inquadramenti terapeutici in SP possono riguardare due obiettivi clinici essenziali: il lavoro sul trauma o l’elaborazione delle ferite d’attaccamento. Se l’obiettivo terapeutico (inquadramento) è lavorare sul trauma, e sono presenti nel corpo delle azioni di difesa primarie (fight, flight, freeze, faint), è necessario contattare quell’azione “tronca” e promuovere una difesa attiva nel corpo che guidi il paziente a sentire che l’azione rimasta bloccata nel passato, possa riprendere vitalità ed esprimersi nel presente (Atto di Trionfo), restituendo energia e senso di padronanza; se invece si sta lavorando con le ferite d’attaccamento ed è possibile accedere attraverso l’Adulto (Adult state) alla Parte Bambina (Child State) che ha visto frustrati i suoi bisogni nell’infanzia, senza sentire minaccia o emozioni soverchianti, allora è possibile cercare un contatto con quella parte e aiutarla a rivedere il suo schema di attaccamento. Questa esplorazione viene condotta attraverso l’osservazione della memoria procedurale legata ai 5 movimenti di attaccamento primari: protendersi, spingere via, raggiungere, afferrare, tirare.

Da trauma e dissociazione verso il cambiamento neurale profondo

La graduale esplorazione del corpo, del movimento, dei 5 sensi, delle emozioni e dei pensieri, permette in entrambi gli inquadramenti di elaborare l’esperienza attraverso tutti i canali sensoriali e di integrare tutti i diversi livelli, fino a raggiungere un’integrazione completa della nuova esperienza che va a consolidarsi come nuova memoria procedurale. In questo modo la finestra temporale in cui il ricordo è riattivato, viene utilizzata per promuovere il cambiamento neuronale profondo e il risultato verrà consolidato e rafforzato attraverso l’integrazione e l’utilizzo della nuova risorsa nella vita quotidiana.

La complessità del modello e la spettacolarità del risultato, rendono questo metodo straordinariamente interessante e innovativo, ma tutt’altro che facile nella sua applicazione clinica. Quelli che possono apparire “semplici” esperimenti di movimento, non sono mai utilizzati per il loro valore simbolico, ma al contrario devono essere collocati all’interno di una cornice di ascolto profondo in cui paziente e terapeuta si pongono in osservazione non giudicante (mindful) del corpo, delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri che emergono. Solo questa premessa permette l’accesso ad un livello fisiologico molto antico e allo stesso tempo immediato nella sua capacità di portare la persona a realizzare e rendere consapevoli, vissuti emotivi diversamente difficili da raggiungere.

Insomma anche quest’anno la formazione veneziana ha riservato belle sorprese e ha permesso di approfondire la clinica dei disturbi dissociativi attraverso esempi clinici eccellenti, metodi di lavoro innovativi e scientificamente fondati, in un’ottica di integrazione guidata dal rigore dell’applicazione clinica e dall’attenzione al panorama internazionale.

Social media: quale correlazione con i sintomi di depressione

Parallelamente alla crescita di internet e dell’uso dei social media, si riscontra attualmente un aumento di casi di depressione e di altri disturbi dell’umore tra gli adolescenti, che a volte arrivano ad essere letali.

 

I social media, come Facebook, Instagram, Tumblr, e molti altri, sono diventati un’icona dei tempi moderni. Facebook è la piattaforma più conosciuta ed utilizzata nel mondo. Quasi un terzo della popolazione mondiale ha un profilo su questo sito.

Parallelamente alla crescita di internet e di queste piattaforme, si riscontra attualmente un aumento di casi di depressione e di altri disturbi dell’umore tra gli adolescenti, che a volte arrivano ad essere letali. Numerose ricerche sull’utilizzo dei social media hanno mostrato più volte una correlazione tra aumento nell’uso dei social ed aumento dei casi di depressione e disturbi dell’umore.

La correlazione è chiara, ma la domanda persiste: perché?

Soprattuto, ancora non è chiara la relazione causale tra le due variabli: È l’eccessivo utilizzo dei social a causare depressione? Oppure le persone depresse tendono ad usare eccessivamente i social media?
Per cercare di rispondere a queste domande, sono auspicabili ulteriori studi e ricerche scientifiche in merito. Tuttavia, possiamo riflettere su come i social media possono agire sulla mente umana.

Quasi ogni social ha come obiettivo quello di far trascorrere più tempo possibile online ai propri utenti, per potergli mostrare in quel frangente quante più pubblicità possibili. Per raggiungere questo scopo, vengono usati trigger di dipendenza per ricompensare le persone che rimango più tempo online.
Nello stesso modo in cui la dopamina, il neurotrasmettitore responsabile delle sensazioni di gratificazione e piacere, è rilasciata quando i giocatori d’azzardo giocano o gli alcolisti bevono, i social media sono disseminati di trigger che plausibilmente fanno esperire sensazioni di piacere e rilasciano dopamina.
Un ricercatore ha affermato che: “I ‘mi piace’, i commenti, le notifiche che riceviamo sui nostri cellulari tramite le applicazioni, creano sensazioni positive di accettazione… Le nostre menti vengono ‘hackerate’ da queste applicazioni e dai social…Le ricerche effettuate in questo campo hanno lo scopo di comprendere come la tecnologia può stimolare il rilascio di dopamina durante il suo utilizzo. Quando non viene rilasciata dopamina dai social, proviamo sentimenti di paura, ansia e solitudine. L’unico rimedio per alcuni è ritornare sul social in questione e riprovarci.” (Darmoc, 2018).

Un fenomeno che può attivarsi durante l’uso dei social media è il ‘contagio emotivo’. Il contagio emotivo è stato approfonditamente studiato nelle interazioni reali tra persone. Recenti ricerche hanno indagato lo stesso fenomeno nelle interazioni online e hanno dimostrato come felicità, rabbia e tristezza possono essere trasmesse da un individuo all’altro attraverso i social. In uno studio condotto da Ferrara e Yang (2015) su un campione di 3800 utenti, è stato analizzato quanto possano essere contagiosi i contenuti emotivi negativi di un post visualizzato online. Questo può essere estremamente dannoso se combinato con la questione delle ‘bolle’ culturali virtuali.

Cosa si intende per ‘bolle’ culturali virtuali?

Le applicazioni utilizzano potenti algoritmi per fornire agli utenti contenuti maggiormente conformi ai loro interessi, in modo tale da coinvolgerli, farli interagire sul social e intrattenerli il più a lungo possibile.
Gli utenti tendono ad interagire con lo stesso tipo di contenuto e questo permette agli algoritmi dei social di mostrare sempre lo stesso genere di contenuti, favorendo così la creazione di una ‘bolla’ virtuale, di cui l’utente non ne è al corrente. Per esempio, un utente che clicca su un articolo che parla di una sparatoria, o commenta il post di un amico concernente il divorzio, fa creare agli algoritmi delle ‘bolle’ dai contenuti maggiormente negativi ed in questo modo gli verranno mostrati online contenuti più negativi perché è quello per cui ha mostrato interesse.
Tutto questo combinato con il contagio emotivo, può influenzare gravemente e negativamente lo stato emotivo di un individuo.

Altre conseguenze dell’uso dei Social Media

Indirettamente, i social media fungono da catalizzatori per comportamenti distruttivi come il cyberbullismo e la ricerca compulsiva dell’approvazione. In particolare, rispetto ai comportamenti di cyberbullismo, gli utenti possono nascondersi dietro l’anonimato e sottrarsi dalle conseguenze di questi atti di molestie, che possono avere conseguenze fatali.

Un ulteriore effetto collaterale delle applicazioni è che portano gli utenti a mostrare solo gli aspetti salienti delle proprie vite, postando solo i momenti positivi e importanti, tralasciando il negativo e il banale. Gli utenti confrontano la propria vita, in particolar modo le parti peggiori di sé, con ciò che viene postato dai loro amici, quello che ne può risultare sono emozioni di vergogna, invidia e senso di inferiorità.

Conclusioni

Uno studio condotto nel Regno Unito dalla Royal Society for Public Health ha testato l’impatto psicologico dei social media su 1500 adolescenti ed ha scoperto come quasi tutti i social media hanno un impatto negativo sul benessere psicologico dei soggetti, provocando stati che vanno dall’ansia alla perdita di autostima.

I risultati della ricerca dimostrano che i casi di depressione sono aumentati con la crescita di utilizzo dei social, e più alto è il numero di social utilizzati da una singola persona, maggiori sono le probabilità di avere disturbi dell’umore. Quello che non è dimostrato nella ricerca è se sono i social a causare depressione o se le persone depresse usano eccessivamente i social media. Per rispondere a questa domanda occorre una ricerca che indaghi approfonditamente questa differenza e la relazione causale tra le due variabili.

 

Ricordo di Jeremy Safran

Jeremy Safran, 66 anni, è stato ucciso da un rapinatore nella sua casa di Brooklyn. Sconvolti e addolorati siamo vicini a sua moglie Jenny e alle loro figlie. Jeremy era un amico, un uomo delicato e un ricercatore straordinario.

di Vittorio Lingiardi, SPR Italia

 

Jeremy Safran insegnava Psicologia alla New School for Social Research di New York, era direttore di ricerca al Beth Israel Medical Center di New York. È stato Presidente dell’International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy (IARPP) e da sempre socio attivo della Society for Psychotherapy Research (SPR). A lui, con Christopher Muran, dobbiamo le ricerche e le intuizioni più brillanti sull’alleanza terapeutica e sui meccanismi di rottura e riparazione che regolano la relazione terapeutica. Due suoi libri sono tradotti in italiano: Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (Laterza, 2003) e Psicoanalisi e terapie psicodinamiche (Raffaello Cortina, 2013).

“Non sono mai stato a mio agio nell’identificarmi esclusivamente in una tradizione terapeutica, e i miei scritti fanno trasparire una predilezione dello stare al confine tra i vari orientamenti”, scriveva. È vero, Jeremy ha saputo integrare non solo diverse anime (di ricercatore, di teorico e di clinico), ma anche diversi approcci scolastici (il cognitivismo, le teorie interpersonali, la psicoanalisi relazionale). Il pluralismo di Jeremy non è mai una semplificazione, bensì la capacità di cogliere significati condivisi in linguaggi differenti. Una delle cose che maggiormente colpisce chi legge i suoi lavori è l’impressione “evolutiva” del percorso, la capacità di esprimere attraverso i propri scritti le trasformazioni del proprio pensiero, a partire dalla lunga collaborazione con Leslie Greenberg all’inizio degli anni Ottanta.

L’integrazione non come fine da perseguire in modo ideologico, ma come risultato di una ricerca personale, clinica e concettuale. Ma è la ricerca sui processi di rottura e riparazione dell’alleanza a rappresentare la quinta essenza del suo pensiero e della sua proposta clinica. Nella sua concettualizzazione dei processi di rottura e riparazione, infatti, ritroviamo la sua attenzione per gli aspetti emotivi dell’esperienza di paziente e terapeuta, per la dimensione interpersonale del lavoro clinico, per il qui ed ora della relazione terapeutica. Il suo lavoro segna il passaggio da una concezione “buonista” dell’alleanza a una concezione dinamica e costruttivista: l’alleanza non come requisito a priori, ma come tensione processuale e negoziazione continua che in alcuni casi, per esempio nel trattamento di pazienti con disturbi gravi di personalità, può costituire il fine del trattamento stesso.

La concettualizzazione di alleanza proposta da Safran e Muran si basa su un’importante componente di verifica empirica, la Task Analytic Investigation, per cui il processo terapeutico è descrivibile come una sequenza di eventi che si ripetono come pattern identificabili nel corso delle sedute. Questo tipo d’indagine permette di costruire modelli clinici in grado di descrivere i diversi modi di rottura dell’alleanza (per ritiro o confrontazione) e gli stadi che ne caratterizzano la risoluzione. Il significato di ogni fattore tecnico può dunque essere compreso solo nel contesto relazionale in cui viene applicato, e le indicazioni tecniche fornite dagli autori non sono prescrizioni standardizzate di tipo manualistico, ma esperienze vissute nella cornice relazionale. Jeremy è stato capace di integrare le nostre diverse anime di teorici, di clinici e di ricercatori. Ha pensato clinicamente e ha verificato empiricamente le sue idee al fine di fornire nuove indicazioni alla pratica clinica.

Da tempo si era avvicinato alle filosofie orientali e in particolare al buddismo (tra i suoi lavori ricordo il libro del 2003 Psychoanalysis and Buddhism: An Unfolding Dialogue). Cercava di accettare e apprezzare le cose per quello che sono, non per passività, ma per coglierne l’essenza. Diceva che nell’accostarsi al paziente era necessario avere “la mente del principiante”. Ci mancherà immensamente e lo abbracciamo commossi nel ricordo della sua tensione spiriturale forte quanto la sua passione empirica.

Assessment in età evolutiva: aspetti strategici e procedurali – Report del convegno di Palermo

L’assessment in età evolutiva e la sua particolare complessità, sono stati il focus dei lavori nel convegno di Palermo del 21-22 aprile scorsi, condotto da Giuseppe Romano.

La psicoterapia cognitiva si occupa, fin dalle sue origini, di valutazione e trattamento dei disturbi psichici, lungo tutto l’arco di vita. In questo contesto l’Assessment, in quanto prima fase valutativa, si pone come momento indispensabile per indagare il funzionamento globale della persona, attraverso la raccolta di informazioni provenienti da diverse fonti (test, colloqui, osservazione del comportamento), al fine di potere migliorare la qualità di vita della persona, scegliere le modalità di psicoterapia più efficaci e decidere circa l’opportunità della presa in carico.

Condurre un buon assessment è un processo complesso e unico per ciascun paziente; l’età evolutiva pone specifici problemi, relativi alle peculiari modalità con cui il disagio si manifesta e al rilevante coinvolgimento dei genitori, fondamentale per una raccolta funzionale dei dati.

Di assessment in età evolutiva si è parlato nella due giorni di formazione organizzata il 21 e il 22 aprile scorsi dall’Istituto Gabriele Buccola (IGB), Scuola di Psicoterapia Cognitiva, sede di Palermo, corso aperto ai professionisti di tutti gli approcci.

Assessment in età evolutiva: le peculiarità

Apre i lavori il docente Giuseppe Romano, Psicologo, Psicoterapeuta e Docente presso l’IGB:

[blockquote style=”1″]Condurre un Assessment in età evolutiva è alquanto complesso. La complessità del periodo dell’età evolutiva, la necessità di dover acquisire informazioni da più fonti (giovane paziente, genitori, insegnanti, ecc.) e la scarsa disponibilità da parte del bambino e/o dell’adolescente a intraprendere un percorso di psicoterapia, rende difficile realizzare questa prima fase. Riguardo alla complessità della fase evolutiva è importante sottolineare come il livello di sofferenza provata dal bambino sia più che altro espresso in forma privata: ecco che i disturbi d’ansia nei piccoli sono spesso nascosti, mentre vi è un’inflazione enorme dei disturbi del comportamento. Per quanto riguarda invece la raccolta delle informazioni dalle fonti, il discorso si fa anche qui complesso: infatti ciò che viene riferito dalle madri, dalle quali solitamente proviene la richiesta di aiuto, può essere travisato dalle loro valutazioni soggettive su quale sia il problema del figlio. In particolare, mi ricordo di una madre che si lamentava del supposto comportamento problematico della figlia (eccessiva vivacità), ma non delle occasioni rappresentative di effettivo disagio, come quelle in cui questa stava in silenzio anche per tre giorni di fila in gita scolastica, poiché era solo la vivacità della piccola a creare in lei disagio[/blockquote]

Una raccolta di informazioni minuziosa, che non può lasciare nulla al caso, e che si avvale a tal fine altresì di specifici strumenti testistici, quali il Parental Bonding Instrument di Parker (utile nell’esaminare il costrutto dell’attaccamento nella dimensione dell’accudimento e dell’iperprotettività), al fine di trarre una concettualizzazione o formulazione del caso che orienti verso il da farsi.

[blockquote style=”1″]Un buon assessment ci permette di giungere alla formulazione del caso, un modello che fotografa, per così dire, il funzionamento del disturbo (quando compare, quali pensieri ed emozioni vengono attivati, che problemi apporta) così da inferire cause e meccanismi di mantenimento che contribuiscono alla sua fissazione nel tempo, ostacolando una risoluzione spontanea, con un’attenzione ai temi di vita centrali (le credenze ad esempio sull’unità familiare, da indagare con strumenti quali il genogramma). In una prospettiva cognitiva, il terapeuta indaga il profilo interno del disturbo, ovvero gli stati mentali e le credenze che rendono ragione del funzionamento del problema presentato, attraverso la ricostruzione degli ABC, o sequenza dei pensieri disfunzionali di Beck. Mi preme qui sottolineare come le conseguenze apportate dal disturbo vengano adoperate strategicamente per la fase di trattamento, per motivare il paziente a superare il problema, puntando l’attenzione, per esempio, sulle mani distrutte dal sapone. In ultimo, una buona formulazione del caso permette di ottenere informazioni sugli elementi della storia di vita del paziente che hanno favorito la nascita, l’insorgenza del problema (vulnerabilità storica) e su quelli che, oggi, rendono il soggetto vulnerabile a una ricaduta nel disturbo (vulnerabilità attuale)[/blockquote]

continua Romano.

Assessment in età evolutiva: il fondamentale coinvolgimento dei genitori

Una descrizione del problema che non trascura i punti di forza e l’analisi delle risorse utilizzate dal paziente per far fronte al disagio, e che coinvolge i genitori verso la presa di coscienza della disfunzionalità dei pensieri alla base del disturbo presentato dal figlio e la fattiva collaborazione lungo tutto il processo terapeutico.

[blockquote style=”1″]Ai genitori viene chiesto un lavoro di collaborazione attraverso cui sostituire i pensieri dannosi con altri più funzionali, comprendendo insieme le ragioni storiche o situazionali che rendono certe situazioni problematiche, al fine di acquisire nuove strategie comportamentali ed emotive di gestione del comportamento del figlio. I genitori vengono altresì chiamati a valorizzare e chiarire a sé stessi il reale contributo e operato dello psicologo, attraverso precisi accordi sulla frequenza degli incontri con il bambino/ragazzo e con i genitori stessi, nonché sui tempi di verifica dei risultati, alla ricerca eventuale di nuove strategie utili al benessere dell’intera famiglia[/blockquote]

conclude Romano.

Assessment in età evolutiva - Report del convegno di Palermo-foto1

Oltre la fragilità psicologica: la genetica del suicidio

Attualmente in tutto il mondo, il suicidio è una tra le prime tre cause di morte tra i soggetti della fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni. Ogni anno il suicidio causa circa un milione di morti; stando alle stime dei dati attuali e all’analisi dei dati epidemiologici mondiali, il numero sembrerebbe salire drammaticamente ad un milione e mezzo di morti nel 2020 (Who.int).

Mara Di Paolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

Introduzione: il suicidio tra aspetti psicologici, sociali e biologici

Nel 2000 circa un milione di individui è morta per suicidio, ma un numero di soggetti variabile tra le 10 e le 20 volte maggiore ha tentato il suicidio (Who.int). Questo significa, che in media ogni 40 secondi vi è una morte per suicidio e ogni 3 secondi un tentato suicidio al mondo.

Ma che cos’è il suicidio? Con il termine suicidio ci si riferisce ad una serie di comportamenti autolesivi, che se pur condividono le stesse motivazioni,vengono etichettati diversamente in base al livello di intenzionalità della ricerca della morte. Lungo un continuum che va dalla massima all’incerta intenzionalità nella ricerca della morte, troviamo: il suicidio, l’atto che porta alla morte, frutto di un pensiero volontario e consapevole; il mancato suicidio in cui la morte è stata schivata solo grazie all’intervento di fattori protettivi estranei al soggetto; il  tentato suicidio in cui l’intenzione suicidaria è sfumata e ambivalente; il parasuicidio in cui l’autolesione non è legata ad un certo ed evidente intento ad autosopprimersi.

Lo psichiatra Esquirol, nei primi dell’Ottocento, asseriva: “ritengo di aver dimostrato che un uomo non attenta alla propria vita se non è in delirio e che i suicidi sono degli alienati”. Questa tesi del suicidio a sfondo patologico è stata per molto tempo l’opinione dominante non solo tra i professionisti della salute mentale, ma anche tra le persone comuni. La tesi del suicidio a sfondo patologico è stata smontata nel corso del tempo in modo massiccio grazie al contributo di più studiosi, provenienti da ambiti diversi, non solo clinici, ma anche sociologici come le vaste indagini di Durkheim, oppure quelle orientate in senso psicoanalitico (Freud, Adler). Un ulteriore contributo lo hanno dato: Schwartz con il concetto di “Bilanzselbstmord” (un tirare le somme tra aspetti positivi e negativi dell’esistenza); Reichardt con l’assunto che il suicidio è comprensibile per “motivi psicologici normali”, Deshaies con l’atto di “psicologia totale”. Infine il contributo dello psichiatra Karl Jaspers che, antesignano di un approccio fenomenologico alla psichiatria, nel corso della prima metà del Novecento ha finalmente concluso che la malattia mentale non è condizione necessaria del fenomeno suicidale.

Da qui in poi molti altri contributi si sono sommati a questi e hanno fatto sì che ora si consideri il suicidio come un fenomeno molto complesso, determinato da un’eterogeneità di fattori e dall’interazione di questi. Infatti oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ritiene il suicidio come il risultato del combinato disposto di aspetti biologici, genetici, ambientali, culturali, sociali e psicologici.

Tale complessità fenotipica è espressa in maniera precipua nel modello-interpretativo a sovrapposizione di S. J Blumenthal (1988) che descrive cinque aree di vulnerabilità suicidaria:

  1. Disturbi psichiatrici: tra i pazienti con disturbi umorali che si suicidano possono esserci sia i depressi, che i bipolari, soprattutto i pazienti bipolari che non seguono una terapia sono a rischio suicidio. Tuttavia secondo uno studio recente dell’OMS, le malattie psichiatriche correlate con il suicidio sono: disturbi affettivi 30-65%, disturbi d’ansia e disturbi di personalità 10%, abuso di alcol e sostanze 25%, schizofrenia 4,9-13%, altri disturbi psichici 15%, disturbi del comportamento alimentare 1,8-7,3%, nessuna diagnosi psichiatrica 6%;
  2. Tratti di personalità;
  3. Fattori psicosociali e ambientali;
  4. Elementi genetici e familiari.

I sistemi neurobiologici, coinvolti nell’eziopatogenesi del comportamento suicidario sono: il sistema serotoninergico, il sistema noradrenergico, il sistema neuroendocrino e il sistema dopaminergico. La serotonina, la dopamina, la noradrenalina sono neurotrasmettitori monoaminergici, la loro presenza in determinate aree cerebrali è connessa a determinate funzioni. Alterazioni di questi sistemi, sono implicate nell’insorgenza di diverse psicopatologie come nei sintomi depressivi. Risulta così possibile che alcuni soggetti in cui siano presenti il maggior numero di questi fattori, siano considerati a rischio suicidio più di altri.

Un focus sui fattori genetici del suicidio

Il genotipo rappresenta la costituzione genetica di ciascun individuo, esso è diverso da soggetto a soggetto, tranne nei gemelli monozigoti, in cui è identico. Genitori e figli hanno il 50% del genotipo in comune, i fratelli compresi i gemelli eterozigoti, ne hanno in comune il 25-50% , mentre in generale da una generazione ad un’altra, la quantità di genotipo in comune si dimezza. Va precisato che quando si parla di diverso genotipo, ci si riferisce non ad avere geni diversi, ma possedere diverse varianti dello stesso gene, dette “alleli”. Uno studio familiare condotto da Tsung nel 1983, ha dimostrato che il rischio suicidio nei parenti di primo grado di pazienti psichiatrici era otto volte superiore a quello di persone sane. La metà dei pazienti affetti da diversi disturbi mentali e familiarità positiva per suicidio hanno almeno un tentato suicidio in anamnesi. Uno studio familiare successivo del 1985, di Egeland e Sussex, ha per la prima volta evidenziato che il ruolo della genetica nel suicidio potrebbe essere indipendente da malattie mentali.

Studi successivi hanno dimostrato che più persone con una storia familiare di tentati suicidi e suicidi, commettevano un suicidio in misura maggiore di persone con una storia familiare di psicopatologie senza suicidi in anamnesi, oltre ad aver riscontrato un tasso elevato di psicopatologie tra i bambini di genitori che commettevano un suicidio (Mitterauer et al. 1988; Qin et al., 2003, Runeson e Abserg, 2003). Inoltre i bambini di genitori con condotte suicidarie o una storia di comportamenti suicidari nei fratelli sono risultati essere più inclini a rischio suicidario (Brent et al; 2003). Questi studi familiari hanno dunque concluso che una storia familiare di suicidi è un maggior fattore di rischio suicidario, indipendentemente dalla psicopatologia. Gli studi gemellari confermano i risultati degli studi familiari, vedendo una predisposizione genetica per il suicidio.

Una metanalisi (Roy et al 1991), degli studi gemellari pubblicata in letteratura indica che la concordanza per comportamento suicidario nei gemelli monozigoti (gemelli geneticamente identici) è del 13,2% contro lo 0,7% dei gemelli eterozigoti (gemelli che condividono solo il 25%-50% del corredo genetico). Altri studi hanno dimostrato che il tasso di concordanza suicidaria varia nei gemelli omozigoti tra il 13,2% e il 25%, mentre per gli eterozigoti questo tasso si attesta tra lo 0,7% e il 12,8% (Glowinski et al 2001 et al, e Roy et Segal 2001).

La diagnosi del presunto rischio suicidario in base a questi studi gemellari è avvenuta in base ad una relazione tra suscettibilità genetica e disturbi psichici come depressione maggiore, disturbo antisociale di personalità, disturbo da stress post traumatico, attacchi di panico e abuso di sostanze. É necessario evidenziare che la condotta suicidaria è fortemente influenzata dall’interazione genetica e ambientale e che in questo ambito la concordanza fra gemelli omozigoti è ampiamente inferiore a quel 100%, che ci attenderemo se il comportamento fosse completamente sotto controllo genetico. Inoltre dobbiamo menzionare gli studi sulle adozioni, che supportano anch’essi le basi genetiche del comportamento suicidario, ma al contempo forniscono informazioni utili sul ruolo dei fattori ambientali nella patogenesi suicidaria. Uno studio del 1986 (Wender et al., 1986) ha comparato la funzione dei comportamenti suicidari, tra i genitori biologici di individui adottati, che presentavano una depressione maggiore e le famiglie adottive. Questo studio si è concluso osservando che il tasso prevalente di comportamento suicidario è quindici volte più alto tra i genitori biologici che tra quelli adottivi.

I geni coinvolti nel comportamento suicidario

Molte ricerche da oltre trent’anni, hanno dimostrato e constatato l’implicazione genetica del sistema serotoninergico nel comportamento suicidario. Rilievi autoptici post-morten di soggetti suicidi depressi, hanno notato una riduzione dei trasportatori della serotonina, nella corteccia prefrontale ventromediale dell’ipotalamo, nella corteccia occipitale e a livello del midollo allungato. La funzione dell’amigdala, la quale è riccamente innervata da neuroni serotoninergici, che presenta un’elevata espressione dei recettori della 5-HT, appare anch’essa alterata nei soggetti a rischio suicidio. I geni coinvolti nella condotta suicidaria sono: il gene per il trasporto della serotonina, gene del SERT (Pollock et al. 2000; Aries et al., 2003), i geni dei recettori per la serotonina 5HT1A-5HT2A-5HT1B  (Wu et Comings, 1999), i geni della Triptofano Idrossilasi I-II (TPH1- TPH2) (Walther et al., 2003; Bach-Mizrachi et al., 2006) e il gene della MAO-A (Garpenstrand et al., 2002). I geni codificanti per il BDNF e il suo recettore NTRK2 (Neurotrophic Tyrosine Kinase Receptor, type 2) sono implicati nella regolazione e nella crescita dei neuroni serotoninergici (Perroud et al., 2008). Il polimorfismo più comune del gene del BDNF è il VAL66MET, uno studio del 2008 ha trovato una correlazione tra questo polimorfismo e violenti tentati suicidi e suicidi in persone con storie traumatiche infantili. La COMT è un enzima responsabile della degradazione delle monoamine, tra cui la noradrenalina. Alcune metanalisi hanno riportato un’associazione tra il polimorfismo COMT VAL158MET, ed il comportamento suicidario, correlato inoltre alla letalità dell’atto (Lachman et al. 1996).

In conclusione è importante sottolineare che la presenza di determinati polimorfismi genici da soli non condannano inevitabilmente l’individuo a condotte suicidarie, ma ciò accade solo con l’interazione e il contributo dell’ambiente, determinando così una vastissima eterogeneità fenotipica suicidaria. Se sulla genetica non è possibile intervenire direttamente, alterando “manualmente” il DNA genomico, è però vero che si può cercare di intervenire su tutti quei fattori ambientali che concorrono con la genetica a predisporre l’individuo al suicido.

 

“I don’t have Tourette, I have a cat in my head!”: la Sindrome di Tourette a casa, a scuola, a Roma! – Report dal Convegno

Il 20 aprile 2018, a Roma, presso la sala convegni del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), si è svolto il Convegno “ Sindrome di Tourette: a scuola, a casa, a Roma!”, presieduto da Francesco Cardona, dell’Università La Sapienza di Roma e Presidente del Comitato Scientifico della Tourette Roma Onlus e da Giuseppe Ruggeri, Direttore della Scuola di Psicoterapia Humanitas di Roma.

Barbara Svevi, Zina Fiorello, Chiara Caccia, Federica Bianchi e Stefano Terenzi

 

La Sindrome di Tourette e i Disturbi da Tic

In linea generale, è necessario premettere che, tra i disturbi del neurosviluppo, la Sindrome di Tourette (ST) è una condizione neurologica di cui è affetto circa l’1% della popolazione (J. Quezada, K. A. Coffman, 2018) ed è la forma più severa dei disturbi da tic. I sintomi includono principalmente i cosiddetti tic, motori e vocali, descritti come rapidi, aritmici, ricorrenti e con una manifestazione improvvisa ed involontaria (Cath D.C. et Al., 2011). Essi sono caratterizzati da un decorso variabile: l’età media di esordio è di 4- 6 anni e, nella maggior parte dei bambini il periodo di maggiore gravità giunge intorno ai 12 anni (DSM 5, American Psychiatric Association, 2014).

Quasi il 70% dei ragazzi che ha iniziato a “ticcare” prima dei 10 anni migliora con lo sviluppo: i tic diminuiscono in intensità e frequenza e, a volte, si estinguono quasi totalmente alla fine dell’adolescenza. Tuttavia, seppur per una bassa percentuale di individui, i sintomi persistono anche in età adulta o, addirittura, possono peggiorare con il progredire dell’età.

Dal punto di vista eziopatogenetico, la Sindrome di Tourette sembrerebbe essere influenzata da fattori genetici ed ambientali, la cui interazione ne favorirebbe l’insorgenza. In particolare, si ipotizza che la Sindrome di Tourette possa essere ricondotta a deficit a carico del sistema dopaminergico, tuttavia la natura di tali disfunzioni al momento risulta esser ancora controversa e dibattuta (Maia e Conceição, 2018).

Le manifestazioni della Sindrome di Tourette raramente sono gravi dal punto di vista medico, ma possono compromettere significativamente il funzionamento della persona sul piano sociale, con un importante impatto sulla vita quotidiana, in relazione alla gravità della sintomatologia (DSM 5, American Psychiatric Association, 2014).

Inoltre, le persone affette da Sindrome di Tourette possono presentare una comorbidità per altri disturbi, di tipo neuropsichiatrico. Vi è infatti un’elevata comorbidità con il Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (DDAI), con il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), con attacchi di rabbia, con il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP), con la Depressione e con i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA). Per la Sindrome di Tourette non esiste ancora una cura definitiva, ma fortunatamente alcune terapie, farmacologiche e non e spesso in associazione tra loro, riescono a garantire un adeguato controllo sintomatologico. Tra gli interventi di tipo non farmacologico, risulta essere di primaria importanza un intervento di tipo psicoeducativo nei confronti del paziente, della sua famiglia e delle persone a lui vicine, permettendo di ottenere ottimi risultati nel migliorare la qualità della vita.

La Sindrome di Tourette a Roma – Il convegno

Ad aprire il convegno sono Lucia Masullo – Presidente Tourette Roma Onlus – insieme al messaggio di Riccardo Breusa – Presidente Associazione Italiana Sindrome di Tourette (AIST), con cui la più giovane associazione Tourette Roma Onlus collabora nell’ottica di garantire sostegno ed assistenza ai soggetti affetti da Sindrome di Tourette e alle loro famiglie. La Tourette Roma Onlus, infatti, è un’associazione nata da poco grazie ad un gruppo di volenterosi genitori affiancati da professionisti che si occupano da anni dei disturbi da tic e delle problematiche ad essi associati. L’associazione ha come obiettivo il supporto alla genitorialità, il sostegno a tutte quelle famiglie che si trovano ad affrontare questo disturbo, la divulgazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, l’organizzazione di eventi, convegni ed altre attività di inclusione sociale ed infine il supporto legale ai suoi associati.

Tra gli ospiti presenti anche il Professor Zappella, membro onorario della Society for the Study of Behavioural Phenotypes (Londra) e della Società Italiana di Pedagogia, è stato Presidente della Associazione Italiana Sindrome di Tourette dal 1999 al 2003 e Vice Presidente della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile dal 1976 al 1978. Si vuole ringraziare anche la presenza del Magnifico Rettore dell’Università “La Sapienza” di Roma, il Professor Eugenio Gaudio, venuto a portare il suo sostegno ed apprezzamento per l’iniziativa.

Il primo intervento dal titolo “La sindrome in età evolutiva”, è quello di Francesco Cardona, Dipartimento di Neuroscienze Umane – Università “La Sapienza” di Roma e Direttore Scientifico dell’Associazione, il quale introduce la platea al tema illustrando gli aspetti salienti del disturbo, le caratteristiche dei tic, l’elevata comorbidità con altre patologie e la possibile fisiopatologia del disturbo.

Segue la relazione della Dott.ssa Roberta Pange, che illustra le conseguenze della Sindrome di Tourette sull’apprendimento e sulla carriera scolastica dei soggetti affetti dalla Sindrome. L’intervento mette in luce come i bambini affetti dal disturbo possano manifestare importanti ricadute in ambito scolastico, sia dal punto di vista degli apprendimenti, sia da un punto di vista relazionale e di inclusione sociale. Inoltre, pone l’accento sulla necessità di individuare un profilo neuropsicologico specifico, anche se i dati non sono univoci e sembrano esserci molte differenze tra adulti e bambini. Ad ogni modo, sottolinea la presenza di difficoltà attentive, di integrazione visuo-motoria, nella motricità fine e nella flessibilità cognitiva a differenza di un buon funzionamento delle abilità visuo – percettive e verbali. Infine, la presenza di altri disturbi in comorbidità delineano quadri ancor più complessi da gestire.

Successivamente, la Dott.ssa Tasmin Owem, psicologa dell’Eveline London Children Hospital di Londra espone un intervento sulla Misofonia, intesa come una reazione di fastidio, di avversione, di rabbia estrema provocata da specifici suoni, illustrando le possibili ipotesi sui meccanismi fisiopatologici correlate ai cambiamenti riguardanti la corteccia insulare anteriore e ai processamenti neuronali aspecifici e/o a maturazione atipica.

Cos’è l’esser abile e l’esser disabile? Quali sfide per la scuola dagli allievi con difficoltà e quali riflessioni nelle prospettive per l’inclusione?” E’ su queste riflessioni che è incentrato l’intervento rivoluzionario del Professore Fabio Bocci che offre il suo contributo su Abilismo e Neoliberismo:

Noi lo dobbiamo immaginare questo futuro… lo dobbiamo costruire – afferma il Professor Bocci.

Una risposta possibile ci viene fornita dall’intervento della Dott.ssa Germana Paoletti, co-fondatrice dell’Associazione Tourette Roma Onlus e Assessore alle politiche sociali, la quale illustra come la normativa possa essere usata come strumento metodologico e scolastico.

L’intervento della Dott.ssa Roberta Galentino, psicoterapeuta esperta di Sindrome di Tourette e membro AIST, Associazione Italiana Sindrome Tourette che opera sul territorio nazionale, intende offrire linee guida e strumenti concreti per professionisti del settore, terapisti e insegnanti al fine di riconoscere e progettare interventi per aiutare i ragazzi tourettici in ambito scolastico.

Tornando alla complessità e comorbidità dei disturbi da tic (DOC, DSA, ADHD) la Dott.ssa Paola Silvestri – Tourette Roma Onlus – illustra ai partecipanti i risultati di EMTICS, attraverso uno studio epidemiologico europeo.

Immediatamente successiva è la riflessione proposta dalla Dott.ssa Marina Romani – Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Umberto I Roma, che porta la platea alla scoperta della terra di mezzo tra Sindrome di Tourette e ADHD, dando alcuni strumenti operativi e consigli ai genitori e agli insegnanti sulle modalità per gestire i disturbi.

Il Dott. Mauro Ferrara, dell’Università “La Sapienza”, aggiunge come durante l’adolescenza spesso sia presente una condizione di disregolazione affettiva che, anche nelle patologie complesse come la Sindrome di Tourette, può sovrapporsi e modificare le espressioni cliniche tipiche della sindrome, talvolta complicando la risposta ai trattamenti efficaci.

L’ultima parte del convegno affronta i possibili trattamenti per la Sindrome di Tourette. La Prof.ssa Renata Rizzo, neuropsichiatra infantile e professoressa presso l’Università degli studi di Catania, illustrando l’importanza nella progettazione di programmi terapeutici personalizzati, individualizzati e del trattamento farmacologico nella Sindrome di Tourette, afferma:

It’s crucial to detect comorbidities in order to know their interplay and to disentangle the contribution of each to the patient’s impairment in every day life.

La Dott.ssa Monica Mercuri, psicologa-psicoterapeuta della scuola di psicoterapia cognitiva APC-SPC di Roma, spiega il ruolo della terapia cognitivo-comportamentale e dei protocolli, scientificamente dimostrati, efficaci nel controllo dei sintomi della Sindrome di Tourette e dei problemi ad essa correlati nei bambini.

The only way out is throught it” cita il Professor Rosario Capo, coordinatore della Didattica della Scuola di Psicoterapia Humanitas di Roma e Docente dell’Accademia di Neuropsicologia dello Sviluppo-ANSVI di Parma, spiegando come, attraverso il Parent Training, anche i genitori dei bambini con Sindrome di Tourette devono essere parte attiva del processo terapeutico che avviene soprattutto tramite il modeling e l’insegnamento diretto a ridosso degli eventi problematici. L’Esposizione e la Prevenzione della Risposta (ERP), la Pratica Negativa e l’Habit Reversal Training (HRT) sono considerati gli interventi di elezione per rendere i genitori partecipi al trattamento del figlio con lo scopo di sostenerlo e rinforzarlo nei suoi avanzamenti.

A chiudere l’evento è il Dott. Massimo Pasquini, professore di psichiatria alla Sapienza Università di Roma, che evidenzia le diverse manifestazioni cliniche della Sindrome di Tourette negli adulti affermando:

Non abbiamo dati EB disponibili per stabilire il decorso della Sindrome di Tourette negli adulti con età superiore ai 30 anni, clinicamente sappiamo che il disturbo tende a migliorare dopo i 25 anni, ma i sintomi che maggiormente sono presenti, e che creano disabilità in età adulta non sono i tic ma piuttosto le comorbidità psichiatriche.

Sicuramente all’interno della ricerca sulla Sindrome di Tourette sono ancora molte le sfide da affrontare. L’evento sottolinea lo scopo della Tourette Roma Onlus: la divulgazione, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica al tema e l’organizzazione di eventi come questo per permettere di portare avanti la grande battaglia dell’inclusione sociale e del supporto alle famiglie. A tal proposito, si vuole ringraziare per la numerosa partecipazione a questo convegno, con un pubblico interessato ed eterogeneo, composto non solo di esperti in materia, ma anche di genitori, insegnanti e professionisti di vari ambiti. Tale interesse spinge e motiva l’Associazione Tourette Roma Onlus, il Comitato Scientifico di cui dispone e le Associazioni con cui collabora a continuare ad impegnarsi nella realizzazione di progetti di questo ed altro genere.

 

Autoinganno: la menzogna verso se stessi a difesa dell’autostima

Autoinganno (self-deception): si può considerare come una strategia di coping messa in atto quando la realtà percepita risulta così differente dalla rappresentazione di sé ideale da sviluppare un “racconto alternativo” di se stessi, con l’obiettivo di ridurre il livello di indesiderabilità.

Definizione di Autoinganno: bugia o difesa?

Il Dizionario di Psicologia di U.Galimberti (1999) sotto la voce autoinganno riporta:

atteggiamento mentale di difesa attraverso cui l’individuo falsifica consapevolmente l’immagine che ha di sé per non perdere l’autostima o per non rinunciare al soddisfacimento di bisogni istintuali coscientemente rifiutati. Così facendo il soggetto riesce a raggirare la censura del super-io, offrendo a se stesso false motivazioni che giustificano ai suoi occhi i propri comportamenti ed i propri pensieri

“Sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare” sosteneva Niccolò Machiavelli; due soggetti che interagiscono, uno dei quali mente e l’altro accetta come vera l’affermazione. Nell’autoinganno siamo di fronte alla situazione in cui esistono un ingannato ed un ingannatore che corrispondono allo stesso soggetto, il quale si racconta a sé stesso in modo distorto, con l’obiettivo di raggiungere il nuovo stato desiderato; tale stato verrà utilizzato in futuro se si approccerà ad intenzioni interpersonali. Potremmo essere di fronte ad un eccesso di assimilazione a scapito dell’accomodamento, riferendosi alla teoria di Piaget.

Bugie, errori, menzogne e finzioni

Desimoni (2016) riflette sulla differenza tra bugia, errore, menzogna e finzione: per bugia intende il fenomeno per cui “si è a conoscenza della verità e intenzionalmente si dichiara il falso”, invece l’errore si verifica nel momento in cui il falso viene detto in buona fede per mancanza di conoscenza e di intenzionalità; invero con la menzogna si mente consapevolmente mentre “la finzione fa invece riferimento al fingere e al finto”. L’articolo prosegue con la differenza proposta da Lewiss & Saarni nel 1993, in cui gli autori distinguono le menzogne in:

  • bugie transitorie (di evitamento, di difesa, di acquisizione e bugie di autoinganno) legate all’appartenenza a specifiche età, ruoli e situazioni di vita
  • bugie caratteriali (pseudologie, di timidezza, di discolpa e bugie gratuite) riferite alla storia di vita del mentitore e alla sua personalità, dunque tendono ad essere più stabili, ricorrenti e pervasive

Autoinganno: protezione del sé a salvaguardia dell’autostima

Le bugie da autoinganno sono illustrate come protezione del sé, una sorta di “anestetico psicologico” con lo scopo di non avere consapevolezza del  funzionamento mentale, comportamentale o della coscienza di aspetti o situazioni della storia di vita che potrebbero produrre disagio.

Ho trovato interessante la definizione di De Cataldo e Gulotta (2009), i quali esplicitano l’autoinganno come

uno stato nel quale si determina una divergenza tra ciò che il soggetto che mente sa, sia pure a livello inconsapevole, e ciò che egli riconosce. Tale meccanismo impone di accettare il fatto che una persona creda allo stesso tempo ad una proposizione e alla proposizione che la nega.

Un aspetto importante del fenomeno dell’autoinganno (self-deception) riguarda la consapevolezza dell’atto; il soggetto che mente all’interlocutore è consapevole di non dire la verità, mentre nell’autoinganno il meccanismo mentale porta il soggetto ad accettare per vera una verità falsa al di fuori del quadro della consapevolezza.

La terminologia presa in prestito dalla logica formale viene in aiuto per esporre il meccanismo con maggior facilità. Possiamo definire A e B due agenti (soggetti diversi) che si scambiano proposizioni qualsiasi; A trasmette a B un messaggio che reca il contenuto propositivo. Nel caso dell’autoinganno invece i due agenti interagenti sono la stessa persona (A = A e B = A), la quale professa sia la credenza p (la proposizione vera) sia la credenza non-p (la proposizione falsa).

Il fenomeno dell’autoinganno prevede che il soggetto operi la censura del contenuto della credenza percepita come minacciosa; affinché avvenga la sostituzione, non è necessario acquisire una credenza opposta ma che la mente sia arricchita di ragioni in competizione con la credenza minacciosa e di pensieri che costruiscono una realtà contraria. L’autoinganno potrebbe così diventare un meccanismo di difesa finalizzato a ridurre o annullare la sofferenza mentale.

Relazione tra autoinganno e livelli di stress: sono inversamente proporzionali?

Interessante la ricerca di Tomaka (1992), il quale ha esaminato la relazione tra risposta psicofisiologica allo stress e tre misure di difesa, tra cui l’autoinganno. Le risposte allo stress furono registrate durante lo svolgimento di due compiti mentali aritmetici complessi. Come ipotizzato, i soggetti che presentavano alti livelli di autoinganno producevano una minore risposta psicofisiologica e giudicavano il compito come meno minaccioso.

Come sostiene Roberto Lorenzini (2017):

la visione che ciascuno ha di se stesso è il risultato, l’epilogo, della narrazione che si fa delle vicende della propria vita. Ognuno è il protagonista, positivo per chi sta bene e negativo per chi soffre, della storia che si racconta.

Stili di attaccamento e autoinganno

Dal punto di vista ontologico, dalla ricerca di Gillath et al. (2010) emerge che l’attaccamento sicuro prevede la promozione dell’autenticità e della sincerità, aspetti che proteggono dall’insorgere delle problematiche relative alla menzogna, mentre l’attaccamento insicuro veicola varie forme di inautenticità e disonestà favorendo atteggiamenti difensivi rispetto la propria immagine.

Non bisogna sottovalutare la dimensione interpersonale di rimando alla natura del messaggio recepito dall’interlocutore: infatti le persone che tendono ad autoingannare se stesse vengono valutate negativamente dagli interlocutori stessi; questa valutazione può avvenire immediatamente o nel tempo.

È interessante la lettura proposta da Dings (2017) al concetto di autoinganno. Per affrontare la sua affermazione teorica pone come premessa che una delle teorie più influenti per spiegare come i soggetti si autoingannano si concentra sui pregiudizi cognitivi e percettivi, come l’errata interpretazione, l’attenzione selettiva e la selezione selettiva; meccanismo questo di natura prettamente soggettiva. Dings va oltre e sistematizza il concetto di autoinganno sociale, collegandolo alla teorizzazione filosofica esistente, ampliandone i potenziali meccanismi e ponendo come razionale l’utilizzo di altre persone per ingannare se stessi. Emerge quindi come il marker distintivo dell’autoinganno sociale sia l’uso strumentale di altre persone finalizzato al processo auto-ingannevole.

Per chi fosse interessato, invito a leggere la pubblicazione (Social strategies in self-deception, 2017) in cui l’autore offre una esauriente spiegazione del fenomeno con esempi mirati a comprenderne in maniera semplice i vari meccanismi del processo, differenziato in diverse strategie sociali.

Riduzione della dissonanza cognitiva

Una forma di autoinganno spesso utilizzata dalle persone è la riduzione della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), quel meccanismo per cui attribuiamo maggior valore al risultato della scelta effettuata quando sorge una contraddizione tra gli aspetti cognitivi e quelli comportamentali. L’esempio classico è il fumo: razionalmente si ha la consapevolezza che è dannoso fumare (aspetto cognitivo), ma il comportamento manifesto è quello di fumare. Per ritornare all’equilibrio si modifica la credenza sostenendo una serie di ragioni, come ad esempio “anche il mio medico fuma”.

Secondo la teoria costruttivista, la realtà esterna non esiste come dato oggettivo condiviso ma viene costruita da ciascuno di noi in base al proprio senso e significato. Quindi potremmo aspettarci che ogni soggetto abbia la propria visione del mondo, diversa da quella delle altre persone, e condurre l’ipotesi che l’autoinganno sia una operazione utilizzata nella fase di costruzione del reale, per far emergere quest’ultimo il meno dis-equilibrante possibile per il benessere psichico.

Autoinganno e dipendenze

È interessante notare come il costrutto dell’autoinganno venga utilizzato nella ricerca e nella clinica come elemento per rintracciare le problematiche inerenti le dipendenze da gioco d’azzardo. Emozioni quali la vergogna e la paura dello stigma e la minimizzazione delle problematiche sono i più comuni ostacoli per la ricerca di aiuto nei soggetti con dipendenze patologiche o comportamentali.

Nel 1991 Paulhus e Reid (Goldstein, 2017) svilupparono il BIDR (Balanced Inventory of Desirable Responding) allo scopo di valutare due tipologie di risposte socialmente desiderabili: impression management self-deceptive enhancement. Impression management valuta la tendenza a non descrivere comportamenti socialmente devianti e presentare un’immagine favorevole al pubblico, mentre Self-Deceptive Enhancement (SDE) si riferisce alla tendenza di sopravvalutare caratteristiche socialmente desiderabili.

Ulteriore aspetto del self-deceptive si riferisce alla natura delle conseguenze; non sempre la menzogna è un male. Come riportato in un articolo su State Of Mind (Schirru N., 2015), Vrij (2008) nelle sue ricerche suggerisce che è possibile uscire dal pregiudizio secondo il quale mentire sia sbagliato.

La natura della menzogna

Difficile definire la natura del mentire ed alcuni studiosi, tra filosofi, sociologi, scienziati cognitivi, lo definiscono un fenomeno psicopatologico, un comportamento non intelligente, altri invece come un comportamento indispensabile per la sopravvivenza del soggetto. L’autoinganno, come abbiamo visto, è la menzogna verso se stessi e nella discussione emerge che “anche mentire a se stessi viene considerato un modo per ingannare qualcuno, o in altre parole, proteggere la propria autostima.”

Così come è difficile cogliere la menzogna, lo stesso accade nei confronti della menzogna verso se stessi; un esempio letterario che mostra come tale difficoltà esista e possa essere alla portata di tutti è l’Errore di Otello. L’errore rappresenta la difficoltà di capire quanto sia arbitraria la relazione tra significante e significato; il protagonista del dramma sotto l’influenza della gelosia, non crede alla sua amata Desdemona che, accusata di tradimento, la consegna ingiustamente nel destino nefasto.

Le correlazioni tra alti livelli di autoinganno e psicopatologia

In ultima analisi, come sostiene Gorlin (2017), i soggetti che presentano alti livelli di autoinganno hanno esiti ed apprendimenti insoddisfacenti nelle prestazioni lavorative con conseguenze ipotizzabili di natura negativa rispetto l’impatto sociale. Inoltre ottengono punteggi alti nelle misurazioni del narcisismo e sintomatologia depressiva. Anche dagli studi di Paulhus (1998) e Compton et al. (1996) emerge che l’autoinganno si presenta nel soggetto in modo significativo con il narcisismo. Nelle stesse ricerche emerge che tale significatività è riscontrata anche in costrutti quali l’autostima e la positività difensiva.

 

Per concludere: l’autoinganno protegge il soggetto dalla realtà disagevole e sviluppa modalità cognitive per affrontare le conseguenze di scelte che potrebbero essere rilette portatrici di risultati diversi da quelli auspicati (dissonanza cognitiva), processi questi che non hanno come fine il malessere dell’altro, ma che potrebbero meritare il porsi come obiettivo la maggiore consapevolezza dei propri meccanismi al fine di evitare l’insorgere di realtà non-reali potenzialmente fondatrici di disagio sociale.

Binge drinking in gravidanza: figli a rischio di problemi di umore e abuso di alcool

Uno studio ha analizzato le conseguenze dell’uso disregolato di alcool per madre e figli. In particolare, il binge drinking durante la gravidanza e l’allattamento può rendere la prole più vulnerabile ai disturbi dell’umore e all’abuso di alcool da adolescenti.

 

Il binge drinking, dunque, da parte di madri incinte e in allattamento può compromettere la salute mentale della loro prole: a riportarlo è uno studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry. In questo studio eseguito sui ratti, i ricercatori italiani hanno scoperto che mentre il bere abituale è associato a comportamenti di tipo ansioso nelle madri e nella loro prole, il bere in maniera abbuffatoria o “binge” ha un effetto depressivo. Inoltre, le progenie delle madri che bevevano alcolici sono meno sensibili agli stimoli naturali, mostrano un comportamento più “disperato” e sono più vulnerabili all’abuso di alcool durante l’adolescenza. Questo è il primo studio a dimostrare che i cambiamenti innescati dall’uso dall’alcol eccessivo nelle madri possono essere trasmessi alle loro progenie.

Alcool in gravidanza: le conseguenze per le madri

Si presume comunemente che l’alcool venga facilmente sospeso durante la gravidanza, come raccomandato dai medici.

Ma questo non è sempre il caso dei bevitori abituali – afferma la dott.ssa Carla Cannizzaro, l’autrice principale dello studio – Le donne incinte potrebbero anche pensare che bere in modo intermittente sia meno dannoso del bere quotidiano.

Per esaminare le conseguenze dell’uso di alcool materno, in modo continuo o binge, Cannizzaro e collaboratori dell’Università degli Studi di Palermo hanno effettuato delle ricerche ricorrendo a campioni animali (ratti). Durante lo studio, ai ratti femmina in stato di gravidanza e in allattamento è stata somministrata acqua che conteneva alcol, così da riprodurre realisticamente le abitudini delle donne bingeer drinking. Al termine dello studio le madri ratti e la loro prole sono state sottoposte a una serie di test per valutare il loro livello di umore e comportamento.

Il binge drinking portava a profonde alterazioni dell’umore delle madri ratti, che mostravano comportamenti depressivi. Il bere continuo o abituale era invece correlato ad un aumento dei comportamenti ansiosi.

Alcool in gravidanza: le conseguenze per i figli

Sorprendentemente la progenie delle madri che bevevano alcolici era più vulnerabile all’abuso di alcool durante l’adolescenza. Questo potrebbe essere il risultato di un’esposizione all’alcol precoce, coerentemente a cambiamenti genetici trasmessi dalla madre, spiega Cannizzaro.

L’abuso di alcol o di altre droghe, in quantità croniche o eccessive, possono imprimere codifica genetica e promuovere modificazioni ereditabili.

La progenie delle madri che bevono alcolici ha anche mostrato basse risposte agli stimoli naturali, che di solito sono gratificanti, come lo zucchero, il cibo e il sesso; in assenza di alcol, invece, hanno mostrato un comportamento “disperato” in risposta a condizioni ambientali imbarazzanti.

L’uso di alcool cronico può disturbare l’omeostasi delle regioni del cervello rilevanti per la ricompensa – afferma Cannizzaro – Tale uso può portare a dipendenza, craving, perdita di controllo nell’uso della sostanza e gravi sintomi di astinenza quando è interrotto l’utilizzo della sostanza

Una possibile limitazione – in termini di generalizzazione dei risultati – di questo studio è stato il ricorso, nella fase di sperimentazione, a campioni animali; tuttavia, secondo i ricercatori, questo modello animale è particolarmente adatto per lo studio delle proprietà di dipendenza dei farmaci e delle sostanze e dei loro effetti sul cervello, tanto da poter essere una rappresentazione realistica di comportamento anche negli esseri umani.

Come afferma Cannizzaro:

L’alcol esercita un potente effetto sull’organismo, anche se consumato due o tre volte alla settimana in alte concentrazioni.

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