expand_lessAPRI WIDGET

Tre tipologie di craving per la comprensione del problem drinking

L’esperienza di craving è considerata una componente cruciale nella transizione da un bere controllato ad un vero e proprio problema di dipendenza (Robinson e Berridge, 1993) e uno dei principali fattori di mantenimento del comportamento di addiction legato all’ abuso di alcol.

 

Studi scientifici hanno evidenziato la natura eterogenea del craving nelle sue determinanti psicologiche e neurobiologiche, in quanto la sua insorgenza può essere il risultato di disfunzioni neurochimiche, bisogni fisiologici e sintomi psicofisiologici. Il craving infatti è definito come un desiderio/bisogno irrefrenabile di assumere una sostanza il quale, se non viene soddisfatto, può condurre a conseguenze negative sul piano fisico e psicologico (Caretti, La Barbera, 2010).

Abuso di alcol: una spiegazione neurobiologica

L’etanolo, come sostanza di abuso che può indurre dipendenza, agisce sui recettori dopaminergici implicati nei circuiti della gratificazione, rinforzando l’effetto positivo indotto dall’assunzione. L’alcol possiede anche un potente effetto sedativo che riguarda essenzialmente l’aumento dell’attività GABAergica, in quanto il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale; in aggiunta, l’azione sedativa coinvolge il glutammato, neurotrasmettitore eccitatorio, la cui funzione viene ostacolata attraverso l’antagonismo dell’alcol sui recettori NMDA. In corso di disintossicazione l’attività GABAergica viene interrotta, mentre si assiste ad un aumento di glutammato; la concomitanza di queste modificazioni neurochimiche è una delle principali cause dei tipici sintomi riscontrabili durante periodi di astinenza, quali ansia e convulsioni (Heinz, 2003).

Il comportamento compulsivo di ricerca della sostanza è dunque psicobiologicamente motivato: l’alcolista sente un bisogno irresistibile di porre rimedio alla sofferenza conseguente la privazione della sostanza la quale, in precedenza, ha generato gratificazione e sollievo.

Diverse tipologie di craving

Alla fine degli anni Novanta dello scorso secolo, Verheul e collaboratori (1999) hanno descritto il craving secondo tre distinte tipologie, sulla base di differenti disregolazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali implicati nella sua manifestazione, considerando inoltre come discriminanti le componenti psicologiche e la familiarità per l’alcolismo.

Il primo tipo, il reward craving, causato da una disregolazione dopaminergica/oppioidergica, ha un esordio precoce e si riscontra più di frequente in soggetti maschi con storia familiare di abuso di alcol. Questi soggetti sembrano avere un’ipersensibilità ai rinforzi positivi indotti dall’alcol e maggiore presenza di novelty/sensation seeking, per cui si riscontra un’incapacità di astenersi dal consumo della sostanza che possiede forti proprietà stimolanti.

Il secondo tipo, il relief craving, è la conseguenza di una disregolazione dell’attività GABA/glutammatergica, con una ipereccitabilità neuronale indotta dal glutammato e un’ipersensibilità agli effetti sedativi provocati dall’etanolo; esso ha quindi un effetto di “automedicamento” che consiste nella riduzione della tensione e degli affetti negativi attraverso l’assunzione di alcol. Ha un esordio tipicamente tardivo, si riscontra più di frequente nelle donne, e le caratteristiche di personalità peculiari comprendono ansia e/o inibizione.

Infine, l’obsessive craving, è il risultato di una disregolazione serotoninergica che causa perdita di controllo e presenza di compulsioni volte al raggiungimento della sostanza; alcuni studi hanno infatti osservato che durante l’intossicazione da alcol si assiste ad un incremento dei livelli di serotonina a livello del sistema nervoso centrale che però segue, a breve distanza, una drastica riduzione di quest’ultima, provocando un serio deficit serotoninergico. Dal momento che la carenza di serotonina è stata associata a disturbi legati a perdita di controllo dei propri impulsi, umore negativo e disfunzione dei processi cognitivo-attentivi, l’obsessive craving si ritrova spesso in individui con tratti di disinibizione.

Sulla base della distinzione suggerita da Verheul e colleghi, sono state proposte differenti tipologie di trattamento farmacologico che hanno preso in considerazione le caratteristiche individuali di ciascun paziente alcolista in corso di riabilitazione e che si sono focalizzate sulla comprensione dei diversi meccanismi sottostanti il craving (Addolorato, 2005). Da un punto di vista psicoterapeutico si dovrebbe auspicare la stessa meticolosità in quanto individuare i fattori all’origine del craving e del suo mantenimento significa aver chiari i bersagli per un intervento efficace.

Problem drinking: il ruolo delle credenze metacognitive

A questo proposito Spada e Wells (2010) hanno condotto indagini sulle credenze metacognitive maggiormente riscontrabili in soggetti con problemi di  abuso di alcol (problem drinking) e con dipendenza conclamata, confrontandoli con un gruppo di controllo costituito da bevitori non problematici. Dopo la somministrazione di test per la valutazione delle credenze metacognitive positive e negative riguardo la regolazione emotiva e cognitiva (self-regulation) quali Positive Alcohol Metacognitions Scale (PAMS) e Negative Alcohol Metacognitions Scale (NAMS), sono stati osservati punteggi più alti nel campione con addiction, così come il campione problem drinking riporta valutazioni maggiori del campione di controllo. La metacognizione sembra dunque essere una determinante lungo il continuum che va da un bere sociale (social drinking) alla dipendenza, ed il craving che ne consegue rappresenta il risultato di processi metacognitivi disfunzionali che si ritrovano negli alcolisti.

Successive ricerche di Spada e colleghi (2012) hanno portato alla formulazione di un modello metacognitivo dell’alcolismo che prevede tre fasi distinte (Triphasic Metacognitive Formulation), ognuna delle quali presenta specifiche caratteristiche. Nella prima fase, Pre-Alcohol Use, i triggers legati all’ abuso di alcol che si presentano sotto forma di immagini, memorie, pensieri o esperienza di craving con le sue componenti psicofisiologiche, innescano credenze metacognitive positive circa l’utilità del pensare in modo continuativo all’utilizzo della sostanza: questa perseveranza si traduce in rimuginio, pensiero desiderante, ruminazione o la concomitanza di tutte e tre i processi. Il soggetto, ad esempio, può ritenere utile analizzare la propria esperienza di craving per capirne le cause, oppure presumere che il riflettere sugli effetti negativi dell’ abuso di alcol lo aiuterà ad evitarne il consumo in futuro. I processi di regolazione cognitiva messi in atto portano all’esacerbazione del craving e all’attivazione di credenze metacognitive circa la necessità di avere controllo sui propri pensieri, aumentando così la possibilità di fare uso di alcol.

La seconda fase, Alcohol Use Phase, in cui il soggetto assume la sostanza, è caratterizzata da credenze metacognitive positive che riguardano l’efficacia dell’alcol nel ridurre il rimuginio/ruminazione e nell’avere il controllo sui relativi pensieri, conducendo in realtà ad una compromissione del monitoraggio metacognitivo dei propri stati interni, deterioramento facilitato inoltre dagli effetti chimici negativi di un consumo persistente. Quando il bere problematico aumenta di frequenza e gravità, emergono le credenze metacognitive negative di incontrollabilità nell’uso di alcol e ciò contribuisce alla continuità nel suo utilizzo.

Nella terza e ultima fase, Post-Alcohol Use, si osserva l’emergere di una ruminazione post evento, in cui il soggetto analizza i motivi che lo hanno indotto a bere, interrogandosi sul perché provi certe sensazioni. L’effetto paradossale indotto dalla ruminazione è quello di accrescere i sentimenti negativi e le credenze metacognitive di incontrollabilità, aumentando nuovamente la possibilità di ricorrere all’utilizzo dell’alcol come tentativo di sopprimere i pensieri considerati dannosi. La circolarità con cui si presenza il problem drinking manifesta chiaramente la necessità di interrompere i processi di pensiero disfunzionali alla base del fenomeno, favorendo negli alcolisti la
consapevolezza e la capacità di autocontrollo.

Le evidenze scientifiche ed i costrutti teorici riguardo il craving, offrono una chiave di lettura indispensabile per comprendere in profondità i meccanismi sottostanti le esperienze psicofisiologiche di ciascun individuo dedito all’alcol. Ogni soggetto che fa abuso di alcol può presentare uno specifico tipo di craving (reward, relief, obsessive) o una combinazione delle varie tipologie proposte, per questo motivo un’attenta indagine clinica che analizzi i processi di pensiero (metacognizione), le componenti neurofisiologiche (rinforzi positivi/negativi), i comportamenti di ricerca della sostanza (compulsioni) l’anamnesi familiare e gli stili di personalità, potrebbe concretamente promuovere terapie farmacologiche e psicologiche ad hoc, favorendo la risoluzione delle problematiche connesse all’utilizzo disregolato di alcol ed evitando il più possibile ricadute.

Festival della Psicologia IV edizione, Torino dal 6 all’ 8 aprile 2018 – Comunicato Stampa

Festival della Psicologia IV edizione - Torino, dal 6 all' 8 Aprile 2018 - LOGO

 

Festival della Psicologia – IV edizione

Torino, 6-8 aprile 2018

Comunicato stampa

 

La quarta edizione del Festival della Psicologia si svolge a Torino da venerdì 6 a domenica 8 aprile. La manifestazione, organizzata e promossa dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte con il patrocinio e la partnership di Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte e Università degli Studi di Torino e con il patrocinio della Città di Torino, da quest’anno ha la direzione scientifica dello psicoanalista Massimo Recalcati.

Un festival multidisciplinare, a vocazione internazionale, che per tre giornate chiama alla Cavallerizza Reale di Torino psicologi, psicoanalisti, scrittori e filosofi italiani e stranieri a confrontarsi sul tema: Io non ho paura.

In programma per il Festival della Psicologia di Torino, conferenze, dialoghi e spettacoli, tutti gratuiti, che hanno l’obiettivo di coinvolgere un pubblico eterogeneo per età, formazione e interessi, offrendo strumenti di approfondimento su temi di attualità per consentire a tutti di ampliare il proprio sguardo sul mondo di oggi.

Il nostro tempo vive una condizione di angoscia di fronte al carattere anarchico e imprevedibile della violenza terrorista – spiega Massimo Recalcati – Quali sono le sue origini? Quali le ideologie e i fantasmi che nutrono lo spirito del terrorismo? Come si può vivere senza rinunciare alla vita in questo clima di insicurezza? Esistono modi per pensare individualmente e collettivamente una prevenzione possibile della violenza? A queste e ad altre domande che toccano nel vivo anche la pratica quotidiana dello psicologo queste giornate cercheranno di offrire delle risposte ragionate, invitando a prendere la parola, oltre ai colleghi psicoanalisti e psicoterapeuti, intellettuali, filosofi e scrittori.

Continua, con questa quarta edizione, il percorso di discesa nell’animo umano del Festival della Psicologia di Torino – aggiunge Alessandro Lombardo, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte e direttore organizzativo della manifestazione – Un festival che ha l’ambizione di portare la psicologia, e gli psicologi, sempre più vicino alla vita delle persone. Dopo aver parlato, nelle edizioni precedenti, di felicità, di fiducia, di storie, quest’anno ci immergiamo in una tra le più oscure emozioni dell’animo umano: la paura. Come sempre, il nostro obiettivo è trovare una strada che ci permetta di affrontare le paure che il vivere può metterci di fronte.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Festival della Psicologia IV edizione - Torino, dal 6 all' 8 Aprile 2018 - Massimo Recalcati

Imm. 1 – Massimo Recalcati: direttore scientifico del Festival della Psicologia di Torino IV Edizione

 

Festival della Psicologia di Torino – Il programma:

Venerdì 6 aprile

Apre il Festival della Psicologia di Torino il dialogo tra il fondatore della comunità monastica di Bose Enzo Bianchi – nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani da Papa Francesco – e il palestinese Izzeddin Elzir, Imam di Firenze e oggi al secondo mandato come Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, su Religioni e violenza. Modera l’incontro lo psicologo Mauro Grimoldi.

Il saggista Lucio Caracciolo, uno dei massimi esperti italiani di geopolitica, dedica una lectio magistralis al tema Chi sono e cosa vogliono i terroristi. L’obiettivo dei terroristi è di generare paura e quindi risposte irrazionali nel nemico, indebolendolo, snaturandolo e possibilmente battendolo. Nell’epoca attuale, l’efficacia del terrorismo è accentuata dall’eco mediatica che normalmente riceve. Cuore della lezione è il terrorismo di matrice jihadista e le reazioni che esso ha provocato, con una particolare attenzione al caso italiano.

Sabato 7 aprile

Durante la seconda giornata del Festival della Psicologia di Torino, lo psichiatra e psicoanalista Maurizio Balsamo, direttore di ricerca in Psicopatologia psicoanalitica all’Università di Parigi Sorbonne Cité, si confronta con lo scrittore Marco Belpoliti cercando di indagare la mente del terrorista. Le radici politiche, economiche e storiche del terrorismo non bastano a spiegarne la crudeltà e distruttività, quindi non c’è forse altra soluzione, per tentare di comprendere, che far ricorso alla psicoanalisi. Secondo Balsamo, lo slegamento di tutti i processi culturali e di umanità determina la dimensione mortifera di alcune comunità che tendono al proprio annientamento – nel gesto del suicidio o nel progetto megalomane di dominare il mondo – e rimettono in circolo arcaismi simbolici, linguistici, rituali del passato che mostrano un carattere altamente anacronistico. Marco Belpoliti indaga le motivazioni per le quali il martirio è diventato un’attrattiva possibile per giovani uomini e donne: è la giovinezza, infatti, uno degli elementi che accomunano gli attentatori, sempre più spesso adolescenti, manipolati da predicatori più anziani e indotti con la promessa di una vita ultraterrena migliore, a sacrificare le loro giovani vite per la causa della jihad islamica. Di questo gesto estremo, che sfugge al pensiero razionale, si indagano le motivazioni annidate nel credo religioso o ideologico di quella popolazione musulmana che, nelle periferie urbane di Londra, Parigi, Bruxelles, Nizza, vive un senso di inferiorità.

La filosofa e scrittrice Federica Manzon conversa con lo psicoanalista Francesco Stoppa su Eredità della violenza e del terrore. La prima si concentra sullo spazio della letteratura, oggi, di fronte alle nuove forme di violenza e terrorismo: come si articola il rapporto della finzione con una violenza già da subito spettacolarizzata e narrativizzata? Gli scrittori hanno la possibilità di raccontare il male, non tanto nel suo legame con la morte o il nulla, ma piuttosto nel legame che mantiene con la vita, con il desiderio, con l’affermazione di sé. Francesco Stoppa spiega invece come la psicoanalisi leghi la questione della violenza nelle sue varie declinazioni – individuali, di coppia, sociali – alla complessa e ambigua vicenda della costituzione e autoconservazione dell’io, cosa che, paradossalmente, finisce per mettere l’io stesso e il mondo alla mercé della pulsione di morte e di negazione della vita.

Il concetto di confine è indagato dai filosofi Rocco Ronchi, fondatore della Scuola di Filosofia Praxis di Forlì e del Centro Studi di Filosofia e Psicoanalisi Après-coup dell’Università de L’Aquila, e Simona Forti, docente della New School for Social Research di New York. L’identità è un costrutto della memoria che presuppone, per essere tematizzata, una distanza. Per avere un’identità bisogna infatti averla perduta in qualche modo. Per tracciare un confine, invece, occorre averlo valicato. Non c’è dunque identità né confine senza un preliminare esodo, che esprime la condizione umana stessa.

La relazione fra Trauma e perdono è il focus sul quale si concentrano la psicologa clinica e psicoterapeuta Clara Mucci, lo psicoanalista argentino Aldo Becce e Mauro Grimoldi, psicologo e coordinatore scientifico della Casa dei Diritti di Milano, indagando i tre principali livelli traumatici – il trauma relazionale infantile; il trauma di abuso, deprivazione e maltrattamento, con particolare attenzione alla dinamica tra vittima e persecutore, e il trauma sociale massivo, come la Shoah – e le dinamiche intergenerazionali della trasmissione traumatica, per offrire alcune indicazioni sulla realtà contemporanea. Il trauma ferma il tempo e agisce sulla psiche come evento da evitare, ripetere, negare, ostentare oppure elaborare, perdonare, dimenticare. È possibile dimenticare la ferita che esso provoca e andare oltre, rinunciando al dolore che si trasforma in senso di vita, motore di rivendicazione, fonte inesauribile di odio?

Chiude il pomeriggio la lectio magistralis di Massimo Recalcati sul tema Violenza e terrore: il gesto di Caino sorge da un fenomeno di fascinazione, perché Abele è il suo ideale irraggiungibile e l’odio è quindi fomentato da un eccesso di idealizzazione. Esiste però un’altra radice della violenza: lo straniero è odiato perché differente, difforme, per nulla ideale. L’odio può quindi essere anche la manifestazione esterna dell’angoscia che troviamo di fronte all’ingovernabile di cui lo straniero è l’emblema.

Ultimo appuntamento della giornata è lo spettacolo Edipo Re, a cura della compagnia Archivio Zeta. La tragedia di Sofocle è introdotta dall’esperto del mondo antico Federico Condello, il quale spiega perché quello di Edipo è il dramma per eccellenza.

Domenica 8 aprile

I filosofi Bruno Moroncini e Simone Regazzoni parlano di Accoglienza: condizionata o incondizionata? Se bisogna evitare gli effetti negativi di un’ospitalità illimitata e calcolarne i rischi, non si deve però mai chiudere la porta all’avvenire e all’altro: ecco la doppia legge dell’ospitalità. Infatti, pensando a quanto oggi accade in Italia e in Europa attorno al fenomeno delle nuove migrazioni di massa, occorre comprendere che l’istanza etica dell’ospitalità incondizionata deve essere tradotta in politiche in grado di gestire, concretamente, un fenomeno regolato da leggi e frontiere.

Il terrore spiegato ai bambini è il titolo della conferenza dello psicologo e psicoanalista, membro dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, Uberto Zuccardi, con la responsabile di VIOLE-LAB (Laboratorio Pedagogico sulla Violenza) Elisabetta Biffi. Due sono i piani del rapporto tra bambini e terrore, uno psichico e uno che tocca l’attualità dello spettacolo del terrore. L’inizio della vita imprime nello psichismo la traccia del “terrore” e i bambini sono, in questo senso, “esperti” della paura: il male, il sentimento della morte, sono componenti fondamentali del reale psichico e, pertanto, sono anche un’irresistibile fonte di attrazione. Per quanto riguarda l’esposizione contemporanea dei bambini allo spettacolo del terrore, amplificata dai media, come possono gli adulti spiegare ai bambini la negatività del male, la sua insensatezza, affinché non diventi per loro, tragicamente, qualcosa di normale e banale? Il terrore è qualcosa che fa tremare, aggiunge Elisabetta Biffi, impedisce l’azione, toglie il respiro. La prima istintiva forma di protezione è comprensibilmente la fuga e l’evitamento, da mettersi in atto soprattutto verso i più piccoli: allontanarli dall’esperienza del terrore, minimizzarne i segnali, tacere. Trovare, invece, forme di mediazione fra il dovere di spiegare e il bisogno di comprendere il terrore è la vera sfida educativa.

Come si può Prevenire la violenza? È quanto si chiedono Federico Condello, il giornalista Gad Lerner e la pedagogista Jole Orsenigo, docente di ermeneutica della formazione. Lerner osserva come oggi l’umana ricerca di emozioni tenda a riversarsi nelle più diverse forme di intrattenimento fornite dalla realtà virtuale, che si contraddistingue anche per l’esercizio di una violenza verbale – per ora – sostitutiva della violenza fisica. Dove però regna la povertà la pratica quotidiana della violenza subisce un’accelerazione e l’esperienza storica sembra indicare come ineluttabile, prima o poi, il passaggio dalla violenza verbale alla violenza fisica. Prima di porre la questione di come prevenire la violenza, occorrerebbe riconoscere la “violenza” necessaria e utile a educare: è quanto aggiunge Jole Orsenigo. Non esiste gesto educativo senza esercizio di potere (e d’amore) il che non legittima affatto tutte le forme che il “sadomasochismo pedagogico” ha assunto e può assumere.

Chiude il Festival della Psicologia di Torino la lectio magistralis della psicoanalista franco-marocchina Houria Abdelouahed, dell’Università Diderot di Parigi, Donne Islam e violenza. L’Islam ha instaurato un mondo gerarchizzato, che riceve le sue leggi dall’alto. Il religioso ha istituito una supremazia del maschile che ha fondato il politico sacro. I testi degli agiografi sono così diventati il Testo del pensiero politico e costituiscono l’humus concettuale che ha impedito l’autonomia e l’emancipazione della donna. Il destino collettivo delle donne è talmente imbevuto di violenza sacralizzata da compromettere il senso delle esperienze individuali di ognuna.

Tutti gli appuntamenti del Festival della Psicologia di Torino sono a ingresso gratuito con prenotazione

Date

  • Dal 6 all’ 8 aprile 2018

Luoghi

  • Aula Magna dell’Università degli Studi di Torino – Cavallerizza Reale (via Verdi, 9) |
  • Casa del Teatro Ragazzi e Giovani (Corso Galileo Ferraris, 266)

Informazioni e prenotazioni per gli incontri

Informazioni e prenotazioni per lo spettacolo

Social


FESTIVAL DELLA PSICOLOGIA – IL PROGRAMMA COMPLETO:

I riverberi psicologici della povertà

La povertà, come condizione che caratterizza alcuni strati della popolazione mondiale, a livello psicologico produce delle conseguenze sulla salute mentale e sulle funzioni cognitive degli individui. Nello specifico, essa incide negativamente sull’attenzione, sulla memoria di lavoro e sulla capacità di autoregolazione del soggetto.

 

Le conseguenze della povertà sulla salute mentale degli individui

La povertà come condizione che caratterizza alcuni strati della popolazione è stata frequentemente analizzata dal punto di vista macroeconomico, ovvero come un fenomeno frutto dello squilibrio nella distribuzione delle risorse fra i diversi contesti antropologici del pianeta terra (Adamkovič e Martončik, 2017).

A livello psicologico, la povertà è stata studiata soprattutto per quello che riguarda le conseguenze che essa produce sulla salute mentale degli individui e nei riverberi che determina sulle funzioni cognitive (Džuka e al., 2017). Più ricerche relative all’indigenza hanno avuto come focus concettuale il capire come i comportamenti individuali possano far perpetuare una condizione di povertà invece che indurre delle pratiche di emancipazione da essa. Tali condotte sono frequentemente ascrivibili a fattori personali. In pratica, queste peculiarità individuali causano dei comportamenti improduttivi dal punto di vista economico, un’inadeguatezza nel prendere delle decisioni e una scarsa considerazione per il proprio benessere sia fisico che mentale (Mani e al., 2013). Il fattore determinante è rappresentato dall’incapacità di decidere saggiamente in ambito economico (Haushofer e Fehr, 2014).

La povertà, secondo la definizione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (1995), può essere considerata una condizione contrassegnata da un insieme di parametri, quali un introito economico non adeguato alle esigenze di vita e, quindi, la mancanza di risorse tali da garantire una qualità della vita dignitosa, la non soddisfazione dei bisogni primari, uno stato di salute non omologabile ad una condizione di benessere, l’esclusione dai processi di scolarizzazione e di acculturazione, il vivere in contesti abitativi non idonei, l’esclusione sociale.

Le ripercussioni della povertà sulle funzioni esecutive

Come si è detto, la povertà ha dei riverberi sulla cognitività del soggetto. In altri termini, l’indigenza comporta un carico cognitivo notevole, derivante dallo stress che le precarie condizioni di vita inducono (Shah e al., 2012; Haushofer e Fehr, 2014). Nello specifico, la povertà protratta genera delle ripercussioni negative sulle funzioni cognitive esecutive. Inoltre, uno stato di povertà è associato ad un incremento di episodi depressivi nell’adulto (Najman e al., 2010). La condizione di povertà cronica accresce la produzione di cortisolo plasmatico, che è considerato l’ormone dello stress, come rivelano diverse ricerche (Blair e al., 2011; Butterworth e al., 2011).

Nell’ambito delle funzioni esecutive cognitive, quelle che risentono maggiormente nell’adulto di una condizione di ristrettezza sono rappresentate dall’attenzione, dalla memoria di lavoro e dalla capacità di autoregolazione (Adamkovič e Martončik, 2017).
Lo stress associato ad uno stato di disagio economico è responsabile di una diminuzione delle capacità attentive, che si ripercuote sulle performance cognitive del soggetto (Mani e al., 2013; Shah e al., 2012).

La memoria di lavoro o memoria a breve termine è quel magazzino di memoria destinato ad accogliere le informazioni per un breve periodo. Diverse ricerche hanno analizzato le interrelazioni fra povertà e memoria di lavoro, soprattutto nell’età evolutiva. Da questi studi si evince che lo stato d’indigenza determina una scarsa capacità ritentiva della memoria a breve termine sia nell’infanzia (Pavlakis e al., 2015; Rowe e al., 2016) che nell’età adulta (Evans e Fuller-Rowell, 2013).

La capacità di autocontrollo può essere definita come l’abilità dell’individuo di controllare la propria attenzione, i pensieri, i comportamenti e le emozioni (Diamond, 2013). Le continue preoccupazioni economiche, che si verificano in una condizione di indigenza cronica, hanno un impatto negativo sulla capacità di autocontrollo (Hofmann e al., 2012; Vohs, 2013). Infatti, il soggetto è incapace di governare i suoi pensieri e i suoi comportamenti, accedendo a delle forme marcate di impulsività (Vohs, 2013).

In conclusione, una condizione di indigenza protratta produce dei riverberi negativi sull’attenzione, sulla memoria di lavoro e sulla capacità di autoregolazione dell’individuo.

Keywords: povertà, effetti negativi, attenzione, memoria di lavoro, capacità di autoregolazione.

Imparare a porre critiche costruttive per favorire uno sviluppo sano nei bambini

L’abilità degli adulti di porre critiche costruttive e non distruttive risulta essere fondamentale. Lo stesso vale anche per gli insegnanti nel contesto scolastico e per gli allenatori in ambienti sportivi. In questi casi, una comunicazione costruttiva favorisce un maggior senso di benessere nei bambini e anche una maggiore possibilità di raggiungere i risultati desiderati.

 

Il compito degli adulti (genitori, insegnanti o allenatori) è aiutare i bambini a crescere. Per raggiungere quest’obiettivo, l’abilità degli adulti di porre critiche costruttive e non distruttive, risulta essere fondamentale. Nonostante i genitori desiderino il meglio per i propri figli, inconsapevolmente, possono adottare delle strategie disfunzionali di comunicazione con questi ultimi. Lo stesso vale anche per gli insegnanti, nel contesto scolastico e per gli allenatori, in ambienti sportivi. In questi casi, una comunicazione efficace favorisce un maggior senso di benessere nei bambini e anche una maggiore possibilità di raggiungere i risultati desiderati.

Le caratteristiche di una comunicazione costruttiva e distruttiva

Esploriamo le caratteristiche di una comunicazione costruttiva:

1. I feedback, positivi o negativi, sono rivolti al comportamento. Ad esempio, “Bel tiro”, invece che “Bravo”. Rimandare un feedback sul comportamento, evita l’attribuzione di etichette che possono risultare dannose.
2. I feedback si concentrano sul processo. Ad esempio, “Ti sei impegnato molto e la verifica è andata bene”, favorisce una maggior senso di autonomia e aumenta l’ autoefficacia.
3. Dopo una critica, è importante evidenziare l’applicazione di altre possibili strategie. Questo, orienta l’attenzione del bambino verso il nuovo comportamento da mettere in atto, piuttosto che sulla percezione d’incompetenza.
4. Mettere in evidenza la motivazione intrinseca del bambino, attraverso delle lodi sincere e costruttive, piuttosto che sull’utilizzo di premi.
5. Adottare un linguaggio non verbale e un atteggiamento che esprimono tranquillità. Questo, favorirà, a sua volta, un atteggiamento più calmo del bambino e una maggiore possibilità di interiorizzare il feedback.

Questo consente di mantenere una relazione sana con il bambino.

Al contrario, una modalità distruttiva di comunicazione:

1. I feedback sono rivolti alla persona. Ad esempio, “Sei cattivo”, “Sei lento”. E’ consigliabile evitare questa tipologia di feedback, a causa degli effetti dannosi che attribuire un’etichetta, senza alcuna spiegazione, porta con sé.
2. I feedback si concentrano sul risultato. Ad esempio, “Sono contento/a che tu abbia preso 8” riduce il senso di autonomia e può spostare il focus della motivazione da intrinseco a estrinseco.
3. La critica non è accompagnata da strategie utili. In questo caso, l’adulto esprime solo la critica, il che porta a un senso di frustrazione crescente nel bambino, a causa del fallimento e anche per il fatto di non conoscere altre possibili strategie d’intervento.
4. Il feedback si concentra sui premi. Fornire sistematicamente dei premi riduce la motivazione intrinseca del bambino.
5. Il linguaggio non verbale è carico di emotività negativa (rabbia, frustrazione). Questo, incrementa nel bambino un senso di disagio e incomprensione da parte dell’adulto, che agisce negativamente sulla crescita del bambino.
Tutto ciò incide negativamente sulla relazione con il bambino.

I vantaggi di una comunicazione costruttiva

Comunicare feedback in maniera costruttiva, porta con sé diversi vantaggi, tra cui:
– L’adozione di una teoria incrementale: l’abilità è ritenuta non fissa e modificabile; per questo, il bambino, intrinsecamente motivato, ritiene che con l’impegno e con l’adozione di diverse strategie, riuscirà a superare le difficoltà che si presenteranno.
– Aumento della percezione di autoefficacia: cioè, la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico (Bandura, 1986).

Al contrario, comunicare feedback in maniera distruttiva comporta:
– L’adozione di una teoria dell’entità: si basa sul fatto che quell’abilità è ritenuta fissa e immodificabile, nel senso che l’individuo non pensa di poter superare i propri limiti. Il bambino, non intrinsecamente motivato, avrà come obiettivo la ricerca di valutazioni positive e la tendenza a evitare le valutazioni negative.
– Riduzione della percezione di autoefficacia: i bambini per evitare di ricondurre l’insuccesso a una propria incapacità, ricorrono a strategie di auto-sabotaggio, definite operazioni di self-handicapping. Queste strategie consistono nel cercare delle scuse, crearsi degli ostacoli nell’affrontare una determinata attività, allo scopo di proteggere il proprio sé e preservare un’immagine positiva di se stessi (Dweck, 1991).

Dato che la comunicazione dei feedback è inevitabile, è importante monitorare le proprie strategie comunicative, al fine di esprimere il proprio punto di vista in maniera costruttiva e favorevole per la crescita.

Ostacoli da superare e prospettive future della teoria psicoanalitica

Il trattamento psicoanalitico fornisce una prospettiva unica sul comportamento e sull’esperienza degli esseri umani, che produce considerazioni ricche dal punto di vista evolutivo e clinicamente efficaci. Tuttavia la teoria presenta diversi limiti, che, se superati, potrebbero rendere non solo la pratica clinica più adeguata ma anche fornire importanti modelli per comprendere l’eziopatogenesi di alcuni disturbi mentali, soprattutto di origine evolutiva.

 

Affinché una somma di osservazioni cliniche possa costituire una base adeguata per una teoria psicoanalitica, devono essere soddisfatte quattro condizioni: a) un chiaro legame logico fra la teoria e la tecnica; b) in relazione al materiale clinico, un ragionamento induttivo quanto deduttivo; c) un uso dei termini privo di ambiguità; d) la volontà di esporre più materiale clinico a un esame critico dettagliato.

I limiti della teoria psicoanalitica

Presentiamo i principali limiti sui quali deve concentrarsi la teoria psicoanalitica, secondo Fonagy, per affinarsi e mettere a disposizione il prezioso contributo che si è dimostrata capace di offrire.

– La pratica clinica non è logicamente deducibile da alcuna teoria clinica psicoanalitica. L’impressione di Fonagy è che la pratica clinica psicoanalitica non sia logicamente deducibile dalla teoria a disposizione, questo per varie ragioni. E’ noto che la tecnica psicoanalitica si è sviluppata per prove ed errori, lo stesso Freud lo ha riconosciuto spontaneamente quando ha scritto: “Le regole tecniche che mi accingo a proporre sono state ricavate dalla mia personale pluriennale esperienza, dopo che risultati sfavorevoli mi hanno indotto ad abbandonare altri metodi che avevo intrapreso”. La strategia maggiormente usata in psicoanalisi clinica per costruire una teoria è l’”induttivismo enumerativo”, durante il trattamento di un paziente, si accede a un insieme di osservazioni, basate sulla valutazione ed evoluzione del processo di cura. Da questo campione vengono selezionate alcune osservazioni reputate significative, a partire dalle quali l’analista trae conclusioni sul come e sul perché il paziente agisca in un certo modo. L’analista sarà concentrato maggiormente su quegli aspetti che hanno un senso secondo i costrutti teorici che egli privilegia.

Tutto questo è utile da un punto di vista clinico, poiché aiuta lo psicoanalista a sentirsi più sicuro nella sua attività di elaborazione di un’immagine del mondo interno del paziente. La difficoltà nasce dal ruolo della teoria, che si genera a partire da osservazioni induttive, in questo modo è intrinsecamente contaminata dalla tecnica utilizzata per produrre osservazioni. La tecnica si è sviluppata in assenza di un legame serrato o coerente con la teoria, quest’ultima verrà modellata su ciò che è stato ritenuto utile dal punto di vista clinico, la pratica in questo modo non è dettata dalla teoria. Perciò, sebbene la teoria sia un completamento della pratica clinica, nessuna delle due è stata utilizzata in modo da permettere all’una di convalidare l’altra. Inoltre in psicoanalisi si pensa che le nuove teorie debbano integrare le vecchie, piuttosto che soppiantarle (Sandler,1983), esistono perciò molte concettualizzazioni in parte incompatibili, di cui bisogna avvalersi simultaneamente per fornire resoconti esaurienti. Se si vuole che l’approccio psicoanalitico sopravviva, occorre trovare il modo di rafforzare il corpo della teoria, invece che continuare a ramificarsi.

– L’uso ambiguo dei termini: La tendenza a nascondere con la retorica il debole legame fra teoria e pratica è dannosa, perché incoraggia l’illusione di una certezza basata sulla teoria. Inoltre il lento sviluppo della tecnica psicodinamica può essere dovuto alla tendenza dei teorici di cercare conferma alle proprie ipotesi nella congruenza con certe pratiche cliniche condivise. In secondo luogo, gli psicoanalisti non capiscono, né pretendono di capire, in che modo o perché la loro terapia funzioni, la natura dell’azione terapeutica della psicoanalisi è un tema che ricorre di continuo nei convegni psicoanalitici ( Glover et al, 1937). A ogni incontro i relatori sostenevano che “non si capisce in modo adeguato” come funzioni l’analisi (Fairbairn, 1958). L’assenza di definizioni operazionali può incoraggiare la frammentazione, e può anche impedire di distinguere differenze importanti fra gli approcci teorici. Spesso diversi autori psicoanalitici utilizzano diversi termini per indicare un costrutto simile, allo stesso modo alcune definizioni comuni o profili diagnostici venivano utilizzati in modi differenti. La validazione delle variabili chiamate in causa dalle teorie psicodinamiche rappresenta effettivamente una sfida difficile, data la loro complessità e difficoltà nell’operazionalizzazione.

– La condivisione e la verifica delle osservazioni cliniche: i report narrativi dei clinici sono inevitabilmente selettivi e la loro utilità scientifica ne risulta compromessa (Brown, Scheflin, Hammond,1998). La psicoanalisi dovrebbe trovare il modo di mettere a disposizione qualche parte del proprio operare a un’osservazione esterna, così che la tecnica e la teoria possano essere studiate e valutate. Se la psicoanalisi si proclama inaccessibile a osservazioni controllate e ipotesi verificabili priva se stessa dell’interazione fra dati empirici e teoria. In assenza di dati non distorti da bias, gli psicoanalisti continueranno a far ricorso all’evidenza indiretta dell’osservazione clinica.

– La natura del rapporto fra teoria e pratica: la teoria orienta i clinici nella loro opera di osservazione, descrizione e spiegazione dei fenomeni. Inevitabilmente essa influenzerà la tecnica, sebbene il legame fra le due sia così allentato. Gli psicoanalisti hanno spesso commesso l’errore di credere di essere impegnati in qualcosa di più dell’operare secondo un modello: hanno creduto che la loro pratica fosse fondata sulla teoria. Questa pretesa può portare a una sua cristallizzazione. L’illusione di un legame diretto con la teoria, associata al fatto che, in realtà teoria e pratica sono solo debolmente connesse, può indurre i clinici a un’eccessiva cautela verso la sperimentazione di nuove tecniche. Se la teoria venisse separata dalla pratica, la tecnica potrebbe progredire su un terreno empirico, in base a ciò che effettivamente funziona. Se la teoria è saldamente legata alla tecnica, i progressi teorici conducono inevitabilmente a riscontri pratici.

– La ricerca sugli esiti della psicoanalisi: nonostante il suo iniziale ottimismo riguardo l’efficacia del trattamento psicoanalitico, Freud nei suoi ultimi scritti psicoanalitici ha ripudiato le affermazioni precedenti sugli aspetti preventivi dell’analisi, affermando: “ Si ha l’impressione che non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fine risultasse che la differenza di comportamento fra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto a un’analisi non è poi così radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che in effetti sia”, inoltre ha aggiunto: “ Sembra quasi che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni ‘impossibili’ il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo” (le altre due “professioni impossibili sono governare e educare). Questo era lo stato delle cose mezzo secolo fa. Che speranze abbiamo oggi, nell’era dei trattamenti convalidati su base empirica (Lonigan, Elbert, Johnson, 1998), che premia interventi brevi strutturati, per un approccio terapeutico che si definisce libero da vincoli e da preconcetti (Bion, 1967) e calcola la durata del trattamento non in termini di una manciata di sedute ma di anni? La psicoanalisi potrà dimostrare la sua efficacia, trascurando il rapporto costi-benefici?

– Prove di efficacia del trattamento psicoanalitico: Gli psicoanalisti sono stati incoraggiati dall’insieme delle ricerche che supportano la psicoterapia dinamica breve. La psicoterapia breve può anche dimostrarsi lievemente superiore a qualche altra terapia se il disegno di ricerca comprende un follow-up a lungo termine. Uno studio, lo Sheffield Psychoterapy Project (Shapiro et al,1995) ha dimostrato l’efficacia di un trattamento psicoanalitico di 16 sedute basato sul modello di Hobson nella cura della depressione maggiore.
Vi sono prove di efficacia anche in programmi integrati per tossicodipendenti (Woody et al., 1995), per chi soffre di attacchi di panico (Milrod et al.,1997), per chi soffre di una patologia fisica grave e tanti altri disturbi.

La maggior parte degli psicoanalisti, tuttavia, sostiene che gli obiettivi e i metodi di una psicoterapia a breve termine, che prevede una seduta a settimana, non sono paragonabili a un’ analisi completa. Studi mostrano che una terapia protratta per ventiquattro mesi è risultata più efficace di una della durata di sei mesi.

Un altro studio, lo Stockholm Outcome of Psychotherapy and Psychoanalysis Project (Sandell,1999; Sandell et al.,2000), ha seguito 756 persone che hanno ricevuto un trattamento fino a tre anni di psicoanalisi o psicoterapia psicoanalitica. Al confronto finale, un’analisi di 4-5 sedute settimanali non si discostava da una psicoterapia meno intensa, ma dopo i 3 anni il miglioramento era più marcato per chi aveva usufruito della psicoanalisi rispetto alla psicoterapia psicoanalitica.

L’impatto della psicoanalisi è evidente al di là della sintomatologia, in termini di funzionamento lavorativo e salute fisica: ricerche tedesche hanno rilevato minori ospedalizzazioni, meno assenza dal lavoro e uso inferiore di medicine. E’ possibile che un trattamento psicoanalitico completo modifichi le strutture psicologiche connesse ai sistemi di regolazione dello stress, che a loro volta sono legati al funzionamento del sistema immunitario e ai processi di invecchiamento (Sapolsky,1994).

Nessuno di questi studi è riuscito a cogliere le esperienze soggettive che sono al centro del processo analitico, come se l’attuale metodologia di ricerca fosse inadeguata al compito; con i progressi della neuropsicologia dell’emozione e cognizione verranno rintracciati indicatori obiettivi per conseguire una nuova comprensione.

– La necessità di una metodologia: lo sviluppo di strumenti di ricerca costituisce una parte essenziale di questo maggior rigore metodologico. Una profonda lacuna in questo settore, che ha impedito la costruzione cumulativa di una base di conoscenza psicoanalitica, consiste nella mancanza di un sistema per descrivere i casi clinici e ciò si tratta di un’esigenza primaria. Sono necessarie anche misure che verifichino se il trattamento psicoanalitico abbia avuto luogo; si aprono così due sfide:

1) descrivere il trattamento psicoanalitico in forma che possa essere valutata;

2) dotarsi di un metodo per dimostrare l’aderenza e competenza del terapeuta nell’erogazione di un trattamento specifico.

La psicoanalisi è un trattamento lungo che fa affidamento sul materiale portato dal paziente, con tecniche astratte, ma la cui corretta applicazione dipende dalla creatività e soggettività dell’analista. L’approccio più promettente si avvale di uno strumento, lo Psychotherapy Process Q-set (Jones, Cumming, Pulos, 1993), uno strumento di 100 item, che fornisce un linguaggio di base per la descrizione e la classificazione dei processi terapeutici in uno schema sottoponibile ad analisi quantitativa. Le ore di terapia vengono classificate scegliendo gli item e l’analisi statistica è usata per identificare potenziali strutture latenti di interazione. Per valutare i cambiamenti ci si avvale successivamente dell’analisi delle serie temporali, esaminando l’evolvere nel tempo di variabili diverse.

Conclusioni, prospettive e speranze future

Non esistono valide giustificazioni per la debolezza delle prove di efficacia relative al trattamento psicoanalitico. Gli psicoanalisti dichiarano di essere all’origine intellettuale di altre talking cures (es. terapia sistemica, terapia cognitivo-comportamentale), e contemporaneamente si rifugiano dentro la relativa immaturità della disciplina per spiegare l’assenza di prove della sua efficacia. Eppure questi “derivati” della terapia psicoanalitica poggiano su prove di efficacia più solide di quelle della psicoanalisi. Tra gli ostacoli che abbiamo presentato, c’è la consapevolezza che nessuno di questi sia insormontabile.

La psicoanalisi offre non solo una tipologia di trattamento per la risoluzione di disturbi psichici, ma anche la possibilità di sperimentare ed elaborare esperienze di vita e avere diverse prospettive sul mondo. Alcuni obiettivi futuri per i clinici-ricercatori orientati psicoanaliticamente sono:
a) Abbandonare l’induttivismo enumerativo e utilizzare i metodi alternativi di raccolta dei dati messi a disposizione;

b) Definire in modo più accurato i costrutti psicoanalitici e le tecniche;

c) Sviluppare una tradizione di “studi comparativi psicoanalitici”, in cui vengono prese in considerazione cornici teoriche psicoanalitiche alternative in relazione alle osservazioni;

d) Affinare la riflessione sulle interazioni fra mondo intrapsichico e ambiente (Rutter, 1993);

e) Dedicare maggiore attenzione al contesto sociale e culturale all’interno del quale si sviluppano le relazioni d’oggetto;

f) Liberarsi degli impacci di una teoria datata e troppo specifica, focalizzandosi sugli elementi essenziali delle sue proposizioni psicologiche.

La teoria psicoanalitica è una teoria dinamica e non statica, allo stesso modo l’atteggiamento dei clinici e teorici di questa corrente dovrebbe ambire a tale forza, così da mantenere viva e sfruttare a pieno le potenzialità del suddetto approccio.

Perchè abbiamo paura dei robot? L’antropomorfismo e la teoria dell’uncanney valley. L’Interazione Uomo-Robot (HRI) secondo un’indagine freudiana.

Lo studio del comportamento animale può fornire modelli che un ricercatore può rendere operativi su un sistema robotico, partendo dalla capacità più semplice di un organismo vivente: percepire e agire nell’ambiente in maniera significativa e intenzionale (Coraggio, 2007). La semplicità/complessità del design del robot, la semplicità/complessità del comportamento espressivo del robot è legata alla proprietà antropomorfa biomimetica (Koh, 2009), ovvero molti dei robot attualmente costruiti sono bio-ispirati, sono esempi naturali, per tale motivo tendiamo a percepirli come umani.

 

[blockquote style=”1″]…la nostra immaginazione non può che antromorfizzare…[/blockquote]

Italo Calvino (Lezioni americane, 1988)

 

L’antropomorfizzazione

Alcune ricerche sulla comunicazione dimostrano che le persone antropomorfizzano computer e altri oggetti, e che tale antropomorfismo interagisce con la natura del comportamento dei partecipanti durante gli esperimenti (Reeves, Nass, 1996).

Una teoria di Gray (2012), ha recentemente ipotizzato perché i robot umanoidi possono apparire strani e sostiene che le caratteristiche umanoidi richiederebbero agli utenti di percepire che il robot abbia una mente.

L’antropomorfismo si riferisce all’attribuzione di una forma umana o di caratteristiche umane o di un comportamento umano attribuito a cose non umane, quali robot, computer e animali (Bartneck et al., 2009).

Nella mia tesi analizzo questo punto cruciale dell’interazione uomo-robot (HRI):

«Le ricerche suggeriscono che l’interazione con un’entità artificiale è simile all’interazione con gli altri umani anche se l’intera ricerca che gravita attorno l’HRI mira a superare l’ipotesi dell’uncanney valley, ovvero quel senso di spiacevolezza e inquietudine nel momento in cui il robot raggiunge un livello di somiglianza paritetica all’uomo.

Nelle attuali ricerche, la radice di tale ipotesi non è stata indagata; l’uncanney valley sarebbe riconducibile ad aspetti prettamente evoluzionistici e letture freudiane.

Il richiamo alla componente evoluzionistica si riferisce ad un automatismo primordiale al quale l’uomo si attiene durante l’interazione con un umanoide artificiale; è come se ci fosse una lettura coerente tra l’aspetto umanoide e le sue abilità interne e come se, violata tale coerenza, si cadesse nell’ipotesi dell’uncanney valley. (Fonte: La teoria della mente nell’interazione uomo-robot in una prospettiva evoluzionistica e in relazione alla teoria della complessità).

L’ipotesi dell’uncanney valley

La “teoria valle perturbante” (uncanney valley) proposta da Mori (1970) suggerisce una relazione non lineare tra l’antropomorfismo robotico e le affinità umane.

Ishiguro (2005) sviluppa androidi che per un breve periodo sono indistinguibili dagli esseri umani. I suoi androidi antropomorfi che lottano persistentemente con la cosiddetta uncanny valley generano risposte emotive sempre più positive ed empatiche, fino a raggiungere un punto oltre il quale la risposta diventa rapidamente di intensa repulsione (Burghart et al., 2008).

In linea con questo, i robot che hanno un aspetto chiaramente non umano, sembrano essere apprezzati di più  rispetto a quelli che cercano di apparire simili alla figura umana (Bartneck, 2007). Per tale motivo molti robot costruiti odiernamente non hanno un aspetto speculare alle caratteristiche umane.

Quando un robot sembra umano, ma non si comporta in modo simile all’uomo, questo vìola le aspettative e può portare a sorpresa o paura (Mitchell, et al., 2011; MacDorman, 2006).

L’HRI sotto la lente psicoanalitica

[blockquote style=”1″]Non c’è un vedere che non sia anche un guardare, né un sentire che non sia anche un ascoltare; e il modo in cui guardiamo e ascoltiamo è plasmato dalle nostre attese, dalla nostra posizione e dalle nostre intenzioni[/blockquote] Woodworth (1947).

Secondo un’indagine freudiana (Freud, 1919) questo mistero dell’interazione tra uomo e robot proviene da uno stato di categorizzazione percettiva di incertezza in connessione con “umano o non umano”, “animato o inanimato”, “vivo o morto” dove ne scaturiscono giudizi percettivi necessari a produrre reazioni perturbanti come nel caso di statue, bambole e automi simili a umani.

In questa connessione può verificarsi un effetto inquietante anche se l’oggetto percepito è definitivamente verificato essere una statua di cera inanimata, come nel caso dei bambini che sperimentano incertezze sul fatto che la bambola con cui stanno giocando possa animare ipso facto lo sviluppo di sentimenti inquietanti.

Questo è legato a credenze primitive che sono concezioni animistiche che caratterizzano il mondo approvato dai bambini in una fase normale del loro sviluppo e che persistono inconsciamente nella vita adulta come contenuti mentali repressi.

Le credenze animistiche riguardano in particolare la magia, il desiderio di adempiere, l’onnipotenza dei pensieri e la distribuzione di poteri magici su vari personaggi, su entità animate e non inanimate. Così, la vista di statue di cera o in movimento o automi simili a zombi o cadaveri sembrano corroborare la convinzione inconscia che queste entità siano dotate di poteri magici. Inoltre, l’ambivalenza emotiva verso questi artefatti, risuona con credenze animistiche che possono evocare internamente l’idea che i morti non saranno inevitabilmente benevoli nell’uso dei loro poteri magici (Scalzone, 2013).

Altresì queste attribuzioni eccessivamente umane mettono in moto le proprie attività immaginative nei confronti del robot in una varietà di direzioni diverse. Di conseguenza, conflitti tra esseri umani e macchine intelligenti sono prima di tutto i conflitti tra esseri umani e il loro mondo interiore (ibidem).

Inquinamento atmosferico e l’effetto sulla morfologia cerebrale dei bambini in età scolare

Un nuovo studio condotto nei Paesi Bassi ha collegato l’esposizione all’inquinamento atmosferico residenziale durante la vita fetale con le differenze strutturali-morfologiche cerebrali dei bambini in età scolare; tali conformazioni morfologiche possono contribuire a compromettere le funzioni cognitive.

Lucia Marangia

 

Gli effetti dell’inquinamento atmosferico sullo sviluppo del cervello nei bambini

Lo studio, pubblicato su Biological Psychiatry, riporta che i livelli di inquinamento atmosferico, correlati alle alterazioni del cervello, sono inferiori a quelli considerati sicuri.

I ricercatori hanno osservato gli effetti sullo sviluppo del cervello in relazione a livelli di particelle fini al di sotto dell’attuale limite UE. Questa scoperta si aggiunge agli studi precedenti che hanno collegato livelli comunque accettabili di inquinamento atmosferico con altre complicazioni, tra cui difficoltà nello sviluppo e nella crescita fetale.

L’esposizione a particelle fini durante la vita fetale era associata a un maggiore assottigliamento della corteccia cerebrale in diverse regioni. Per questo studio sono state arruolate donne incinte e dopo sono stati seguiti i bambini dalla vita fetale in poi. Il dottor Guxens e colleghi hanno valutato i livelli di inquinamento atmosferico a casa durante la vita fetale di 783 bambini. I dati sono stati raccolti da campagne di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico e includevano livelli di biossido di azoto (un importante inquinante atmosferico causato dal traffico e dal fumo di sigaretta), particelle grossolane e particelle fini.

L’imaging cerebrale eseguito quando i bambini avevano tra 6 e 10 anni ha rivelato anomalie nello spessore della corteccia cerebrale del precuneo e della regione frontale media rostrale. Nonostante la relazione tra queste alterazioni della struttura cerebrale e l’esposizione a particelle fini, i livelli medi residenziali di particelle fini nello studio erano ben al di sotto dell’attuale limite accettabile fissato dall’UE . Solo lo 0,5% delle donne in gravidanza nello studio erano esposte a livelli considerati pericolosi. I livelli medi residenziali di biossido di azoto erano giusti al limite di sicurezza.

John Krystal, direttore di Biological Psychiatry, ha dichiarato che: “L’inquinamento atmosferico è così evidentemente negativo per i polmoni, il cuore e altri organi che molti di noi non hanno mai considerato i suoi effetti sul cervello in via di sviluppo, ma forse dovremmo aver imparato dagli studi sul fumo materno, che inalare le tossine può avere effetti duraturi sullo sviluppo cognitivo.”

Il cervello fetale è particolarmente vulnerabile durante la gravidanza, non ha ancora sviluppato i meccanismi per proteggere o rimuovere le tossine ambientali. I risultati dello studio suggeriscono che l’esposizione a livelli anche inferiori a quelli considerati sicuri potrebbe causare deficit e danni nella funzionalità cerebrale.

Jon Kabat-Zinn, scopriamo la Mindfulness – Introduzione alla Psicologia

Il programma MBSR creato e messo a punto da Jon Kabat-Zinn ha lo scopo di aiutare le persone a ridurre il dolore e lo stress attraverso un percorso strutturato, in cui si uniscono la tecnica Mindfulness ad aspetti scientifici e psicoeducativi. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Chi è Jon Kabat-Zinn

Jon Kabat-Zinn è nato a New York nel 1944. Suo padre immunologo e sua madre pittrice gli hanno garantito di crescere in un ambiente scientificamente stimolante. Jon Kabat-Zinn si è laureato all’Haverford College e ha conseguito il Ph.D. in biologia molecolare nel 1971.
 Durante i suoi studi in biologia molecolare frequentò il corso di meditazione  di Philip Kapleau, missionario Zen, che lo appassionò al punto da continuare a coltivare il suo interesse per queste tematiche seguendo lezioni e studiando all’Insight Meditation Society, dove conseguì il ruolo di insegnante. 
Contemporaneamente, Jon Kabat-Zinn iniziò la pratica yoga, e seguiva insegnamenti buddisti. Tutto questo lo portò a elaborare una teoria in cui integrava i principi del buddismo Zen alle evidenze scientifiche.
Nel 1979 inventò la Stress Reduction Clinic all’Università della Massachusetts Medical School, e sviluppò il programma chiamato Stress Reduction and Relaxation Program, che successivamente divenne un percorso della durata di otto settimane chiamato Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR).

Jon Kabat-Zinn è socio fondatore del Cambridge Zen Center e del Fetzer Institute, ente non-profit che promuove valori di solidarietà e cooperazione sociale, è membro di diverse organizzazioni in ambito scientifico e fa parte del Consiglio Direttivo del Mind and Life Institute, gruppo di studio che organizza dialoghi tra il Dalai Lama e gli scienziati occidentali. Per la sua attività professionale ha ottenuto numerosi ed importanti riconoscimenti.
Jon Kabat-Zinn è sposato con Myla Zinn, figlia di Roslyn e Howard Zinn, e ha tre figli: Will, Naushon e Serena.

La mindfulness

Jon Kabat-Zinn, sostenne che meditare possa trasformare in modo duraturo la sofferenza e lo stress. Da qui il concetto di Mindfulness, ovvero portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante. Si tratta di un processo in cui si porta l’attenzione al momento presente, in termini di consapevolezza e accettazione del momento attuale.
L’obiettivo della Mindfulness è di eliminare la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Quindi, la pratica della Mindfulness consente di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Kabat-Zinn, dunque, affermava che la Mindfulness dovesse essere accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti, e facilmente adattabile a condizioni mediche particolari. Per questo, doveva avere tempi limitati, limiti di movimenti e spazi, il tutto adattato a una realtà ospedaliera.
Sulla base di queste esigenze, la Mindfulness si spogliava delle sue connotazioni spirituali e morali, rinunciando ad essere parte di un cammino per l’illuminazione per aprirsi alla possibilità di lavorare con i pazienti difficili attraverso pratiche di consapevolezza.

Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR)

Durante un ritiro di meditazione, a Kabat-Zinn pensò di poter aiutare le persone a ridurre il dolore e lo stress creando un percorso strutturato, in cui si univa la tecnica Mindfulness agli aspetti scientifici e psicoeducativi.
 Nel 1979, con il sostegno del primario di Medicina Interna del Medical Center dell’Università di Worcester, Boston – Massachusetts, fonda la prima Clinica per la riduzione dello stress basata sulla coltivazione della consapevolezza.
Il programma MBSR creato e messo a punto da Kabat-Zinn, comprende:

  1. pratiche di consapevolezza nel mangiare
  2. pratiche di consapevolezza in movimento
  3. pratiche di consapevolezza sul respiro, sensazioni, emozioni, pensieri
  4. pratiche di consapevolezza nel camminare

Inoltre, si aggiungono momenti di condivisione di gruppo sul vissuto dei partecipanti riguardo agli esercizi proposti; con riflessioni su alcuni temi quali l’attenzione non giudicante, la mente del principiante, il lasciar andare e il lasciar essere, la fiducia in sé; con dispense ed approfondimenti su argomenti più scientifici quali ad esempio lo stress e l’attenzione.

Dai primi anni ’80, l’equipe di Kabat-Zinn, inizia a sviluppare i primi lavori di ricerca, inizialmente sulle applicazioni del protocollo a pazienti affetti da dolore cronico, ampliando poi l’indagine ad altre categorie: psicosomatica e psicologia.
Nel 1990 Kabat-Zinn pubblica il suo primo libro: “Vivere momento per momento” sul protocollo MBSR. Pochi anni dopo, il giornalista Bill Moyers parla dell’MBSR nella sua serie televisiva “Healing and the Mind” e contribuisce a dare visibilità al protocollo che nel frattempo, grazie a studi e ricerche pubblicati con rigore scientifico ma soprattutto grazie alle testimonianze, allarga a macchia d’olio la sua diffusione.

Negli anni 90 sono più di 400 i centri ospedalieri che offrono l’MBSR tanto che il mondo scientifico, e psicoterapeutico inizia a interessarsi sempre più al programma, pensando di applicarlo a diverse problematiche.
 Questa sarà poi la base di molte collaborazioni e scambi col Centro dell’Università di Boston, che darà poi vita, in seguito, al protocollo MBCT, di matrice più psicologica.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Quando lo stalking viene perpetrato da una donna

Quando si parla di stalking lo stereotipo prevalente suggerisce che la violenza sia stata perpetrata da un uomo. Circa l’80% dei casi conosciuti riportano un soggetto maschile come carnefice, ma dalle ricerche emerge che anche le donne possono mettere in atto una campagna di stalking verso una persona dello stesso sesso o del sesso opposto.

 

Il fenomeno dello stalking è ormai noto alla maggior parte della popolazione; a seguito della definizione nel codice penale (23 aprile 2009, legge n° 38, prevedendo l’art. 612-bis del codice penale) e della certezza della pena, spesso i mass media ne raccontano episodi, alcuni dei quali sfuggono al controllo del perpetratore e terminano con aggressioni od omicidi.

Quando si parla di stalking lo stereotipo prevalente suggerisce che la violenza sia stata perpetrata da un uomo. Nonostante il fenomeno abbia valenza neutra, come sostengono Pomilla, D’Argenio e Mastronardi, (2012), circa l’80% dei casi conosciuti riportano un soggetto maschile come carnefice; dalle ricerche sappiamo che anche le donne possono mettere in atto una campagna di stalking verso una persona dello stesso sesso o del sesso opposto.

Dalla ricerca di Purcell et al. del 2001 (Acquadro Maran, 2012) su 190 stalker (40 donne e 150 uomini) emerge come elemento interessante la percentuale di vittime dello stesso genere, la quale risulta del 47,5% tra donne (n = 19), percentuale che scende al 8.7% tra gli uomini (n = 13 circa). Il numero degli uomini vittime di donne stalker (n = 21) e uomini stalker (n = 13 circa) è sottostimato a causa della scarsa propensione alla denuncia da parte degli stessi.

Purtroppo gli uomini tendono a non denunciare o parlare dell’essere vittima di una stalker, cosa che impedisce di avere una percentuale reale del fenomeno al femminile. La ragione della mancata dichiarazione si potrebbe rintracciare soprattutto nella cultura “machocentrica” contemporanea, che renderebbe oggetto di scherno un uomo vittimizzato per stalking da una donna; spesso, nei casi meno gravi, potrebbe accadere che per un uomo sia motivo di vanto essere corteggiato ossessivamente da una donna.

Il pericolo però potrebbe essere dietro l’angolo e trasformare un corteggiamento ossessivo in un incubo emotivo con conseguenze anche sul piano personale e professionale; gli uomini sperimentano gli stessi sentimenti di paura e preoccupazione a cui sono soggette tutte le vittime di stalking. Nonostante ciò, le ricerche in letteratura sono ancora poche (Wigman, 2009).

A sostegno del mancato riconoscimento degli uomini in qualità di vittime, Langhinrichsen-Rohling (2012) sostiene che la violenza femminile è più accettabile di quella maschile in quanto il genere femminile viene etichettato come sesso più debole, quindi meno pericoloso. Ad esempio comportamenti minacciosi fisici quali mostrare il pugno o un oggetto contundente (coltello), se messi in atto da una donna verso un uomo potrebbero essere descritti con toni che tendono al ridicolo, minimizzando il reale pericolo. Conseguentemente, gli uomini tendono a esperire minor paura quando sono minacciati da una donna: tale ridotta attenzione al potenziale pericolo può essere una spiegazione al minor numero di querele e di denunce effettuate.

Donne stalker: emozioni, psicopatologia e differenze rispetto agli uomini

L’angoscia e le conseguenze sulla sfera professionale e privata della vittima di una stalker vengono descritte in un caso di stalking in cui un uomo è vittima di uno stalker di cui non conosce l’identità. Grazie all’intervento delle forze dell’ordine, si scoprirà che il perpetratore della campagna di stalking è una donna con cui ha intrattenuto una breve e fugace relazione:

[blockquote style=”1″]..ha un crollo psicologico: diventa estremamente ansioso, non dorme, dimagrisce di alcuni chili in poco tempo: sul lavoro alcune imprecisioni in sala operatoria, dove lavora come ferrista, gli costano l’allontanamento temporaneo e la ricollocazione in reparto.. Non esce più di casa se non per andare al lavoro o per accompagnare la figlia a scuola.[/blockquote] (Acquadro Maran, 2012).

 

Le valutazioni psichiatriche effettuate sui campioni di stalker di genere femminile indicano che le patologie mentali con maggior incidenza sono il disturbo depressivo maggiore, il disturbo delirante e la schizofrenia, mentre tra i disturbi di personalità spiccano il disturbo borderline, narcisistico e dipendente. Si evince una minore incidenza rispetto ai maschi per quanto riguarda l’abuso di sostanze ed il disturbo bipolare. Scarduzio (2016) e colleghi sostengono che le donne che perpetrano violenza nei confronti del partner, ma non ne sono vittime, presentano livelli alti del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), disturbo d’ansia e disturbo depressivo. In genere le donne utilizzano un approccio violento per esprimere emozioni negative, per ottenere il controllo all’interno della relazione, allo scopo di rispondere ai propri sentimenti di gelosia e per difesa personale.

La ricerca di Purcell et al. (Acquadro Maran, 2012) su 190 stalker (40 donne e 150 uomini) mette in evidenza come sul piano della tipologia di comportamenti messi in atto, prevalga la propensione al contatto con la vittima (telefonate, lettere, approcci) mentre i comportamenti violenti, sia psichici sia fisici, tendano ad essere inferiori rispetto agli uomini. Questo dato conferma che la violenza femminile è più tesa alla comunicazione ed al contatto con la vittima.

I dati relativi alla relazione con la vittima indicano che la maggior parte dei casi di stalking si verifica all’interno del quadro professionale, come per esempio il medico, l’insegnante, lo psicologo. Rispetto alle donne, gli uomini stalker hanno una minor incidenza con vittime appartenenti alla relazione professionale, ma manifestano invece percentuali maggiori rispetto le donne per gli ex-partner e gli sconosciuti.

La durata dello stalking al femminile presenta maggiori casi all’interno del range 2 mesi – 20 anni, durata maggiore rispetto quella degli uomini perpetratori; l’effetto rilevato potrebbe essere il riflesso di una maggior tenacia da parte delle donna rispetto il genere opposto.

Alcune ricerche internazionali sullo stalking al femminile

Le ricerche internazionali effettuate dai maggiori studiosi del fenomeno (da “Il fenomeno stalking”, 2012) disegnano un quadro esaustivo delle dinamiche e delle modalità con cui i soggetti femminili conducono la campagna stalkizzante. Un limite trasversale è dato dal numero non elevato di casi, raccolti per lo più in strutture di cura o di reclusione.

Sheridan, Gillett, Davies, Blaauw, e Patel (2003) hanno effettuato uno studio su 168 studenti universitari, 120 donne e 48 uomini. Tra gli aspetti interessanti della ricerca rispetto il genere emerge che la probabilità di atti lesivi agiti è maggiore se lo stalker è di genere maschile e la vittima di genere femminile, che agli uomini vittime viene attribuita maggior responsabilità della campagna persecutoria e che le vittime di genere maschile posseggono maggiori capacità di fronteggiamento dello stress.

Dai risultati della ricerca di Walby e Allen (2004), i quali hanno indagato l’incidenza e la natura della violenza interpersonale in Scozia e in Inghilterra su un campione di 22.463 individui, si evince che l’8% delle donne e il 6% degli uomini avevano subito forme di stalking nei dodici mesi precedenti, percentuale che sale al 19% nelle donne e 12% negli uomini quando il periodo considerato ricopre l’intero arco di vita. Il perpetratore per gli uomini era nella maggior parte dei casi (70%) un conoscente, mentre solo nell’8% era una persona intima (partner, ex-partner).

La ricerca di Tjaden e Thoennes (2000) su 8000 uomini e 8000 donne, che aveva come obiettivo l’indagine dei diversi tipi di violenza interpersonale, mostra come gli uomini siano meno attivi nel denunciare la violenza subita, il 13,4% rispetto al 27,8% delle donne. Il dato interessante è che questi ultimi ottengono meno protezione dagli strumenti legali: solo 3,6% degli uomini ha ottenuto un ordine restrittivo contro il persecutore e solo nel 1,4% dei casi è stato portato a termine.

La ricerca di Brewster (Acquadro Maran, 2012) su 187 donne autodichiaratesi vittime di stalking illustra cosa succede loro quando si rivolgono alle forze dell’ordine: 150 vittime (80.2%) hanno denunciato la campagna persecutoria, intraprendendo 280 azioni legali; il 50.7% non ha avuto effetti sullo stalker, mentre il 16.8% dei casi ha mostrato esiti peggiorativi.

La ricerca in Italia: alcuni dati recenti

Il gruppo di ricerca guidato dalla Dott.ssa Daniela Acquadro Maran (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino) e composto dal Dott. Massimo Zedda (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino), dalla Dott.ssa Valentina Pristerà e dalla dott.ssa Antonella Varetto (Città della Salute e della Scienza di Torino), ha avviato nel 2009 un progetto di ricerca per valutare l’impatto del fenomeno dello stalking su un campione composto da 1072 professionisti della cura, di cui il 73.04% di genere femminile.

Le vittime di stalking sono 160, il 14.9% del campione studiato; l’85% delle vittime è di genere femminile mentre il 15% sono vittime maschili. I perpetratori sono nel 70.6% uomini, mentre per le donne stalker la percentuale scende al 18.1%. La maggior parte delle vittime di genere femminile (31.3%) ha subito stalking da un conoscente di genere maschile (27.5%), mentre nel 7.5% dei casi il conoscente era di genere femminile.

La maggior parte degli uomini vittime (6.3%) ha subito stalking all’interno di una relazione ex-intima (6.3%). Rispetto la motivazione della campagna, il 6.3% degli uomini vittime è stato stalkizzato da una donna (5.0%) a causa del rifiuto della relazione precedente.

Meglio prevenire

La prevenzione è uno strumento efficace per arginare il fenomeno e le sue conseguenze, può contribuire ad attivare le risorse individuali e la rete sociale che insieme possono fermare il fenomeno: l’aiuto degli altri (amici, famigliari, colleghi, ecc.) spesso risulta essere un valido deterrente alla campagna messa in atto dallo/dalla stalker. L’isolamento sociale è infatti una delle prime conseguenze della vittimizzazione, rompere il silenzio significa essere consapevoli dei danni che la campagna di stalking arreca alla salute propria e a quella degli affetti più cari.

In particolare per gli uomini vittime di questo fenomeno, sapere che si è compresi, non giudicati ma invece supportati e accolti, può determinare una interruzione del malessere e del disagio che rischia di minare l’integrità fisica, emotiva e psicologica.

L’invito per tutte le vittime è quello quindi di parlarne con persone di cui si fidano, amici, conoscenti e famigliari, senza escludere i professionisti quali psicologi, avvocati e centri d’ascolto.

Non ultime per importanza sono le forze dell’ordine, disponibili e preparate ad accogliere le richieste di aiuto.

Cosa succede nel cervello durante lo stato d’incoscienza?

Quando i pazienti si sottopongono a un intervento chirurgico complesso, vengono spesso sottoposti ad anestesia per consentire al cervello di trovarsi in uno stato di “incoscienza”. Ma cosa avviene nel cervello in quel momento? Tre ricercatori della Facoltà di Medicina del Michigan sono autori di tre nuovi articoli che esplorano questa domanda – specificamente come vengono sospese le trasmissioni a livello della rete cerebrale in associazione con una varietà di stati di incoscienza.

 

“Questi studi derivano da un’ipotesi di lunga data che i miei colleghi e io abbiamo avuto riguardo alla caratteristica essenziale del perché siamo consapevoli e di come diventiamo inconsci, sulla base di modelli di trasferimento di informazioni nel cervello”, afferma George A. Mashour, MD, Ph.D., professore di anestesiologia, direttore del Center for Consciousness Science e direttore associato per la ricerca clinica presso la University of Michigan Medical School.
Negli studi, il team non esplora solo il modo in cui le reti cerebrali si frammentano, ma anche il modo migliore per misurare ciò che sta accadendo: [blockquote style=”1″]Lavoriamo da un decennio per capire in modo più raffinato come gli aspetti spaziali e temporali della funzione cerebrale si interrompono durante l’ incoscienza, come possiamo misurare quella sospensione e le implicazioni per l’elaborazione delle informazioni[/blockquote]

afferma Uncheol Lee, Ph. D., fisico, assistente professore di anestesiologia e direttore associato del Center for Consciousness Science.

Cosa accade durante l’incoscienza? La risposta attraverso tre studi

Questi tre studi, così come altri lavori del Center for Consciousness Science, trovano fondamento in una teoria prodotta da Mashour. “Ho pubblicato un articolo teorico quando collaboravo in anestesiologia suggerendo che l’anestesia non funziona spegnendo il cervello di per sé, ma piuttosto isolando i processi in certe aree del cervello”, dice Mashour. “Invece di vedere una rete cerebrale altamente connessa, l’anestesia si traduce in una serie di isole con cognizioni ed elaborazioni isolate: abbiamo preso questo pensiero, così come il lavoro degli altri, e ci siamo basati su questa ricerca”.

Nello studio del Journal of Neuroscience, il team ha analizzato diverse aree del cervello durante la sedazione, l’anestesia chirurgica e uno stato vegetativo. “Spesso viene suggerito che diverse aree del cervello che tipicamente parlano tra loro sfuggono alla sincronizzazione durante l’ incoscienza dice Anthony Hudetz, Ph.D., professore di anestesiologia, direttore scientifico del Center for Consciousness Science e autore senior dello studio. [blockquote style=”1″]Abbiamo notato che nelle prime fasi della sedazione, la sequenza temporale dell’elaborazione delle informazioni si allunga e le aree locali del cervello si connettono più strettamente all’interno di se stesse. Questo processo potrebbe portare all’incapacità di connettersi con aree distanti.[/blockquote]

Nello studio Frontiers in Human Neuroscience, il team ha approfondito il modo in cui il cervello integra le informazioni e come ciò possa essere misurato nel mondo reale: “Abbiamo intrapreso un compito computazionale molto complesso di misurazione dell’integrazione delle informazioni nel cervello e l’abbiamo trasformato in un compito più gestibile”, afferma Lee, autore senior dello studio.“Abbiamo dimostrato che quando il cervello diventa più modulare e ha più conversazioni locali, la misura dell’integrazione delle informazioni inizia a diminuire. Essenzialmente, abbiamo esaminato come si stava verificando la frammentazione della rete cerebrale”.

Infine, l’ultimo articolo, in Trends in Neurosciences, aveva lo scopo di portare gli studi precedenti del gruppo e altri lavori sul tema dell’ incoscienza e mettere insieme un quadro più completo. Mashour, autore principale dello studio, afferma che [blockquote style=”1″]Esaminando l’ incoscienza attraverso tre diverse condizioni, fisiologica, farmacologica e patologica, abbiamo scoperto che, durante l’ incoscienza, la connettività interrotta nel cervello e una maggiore modularità creano un ambiente inospitale per il trasferimento efficiente di informazioni richieste per lo stato di coscienza.[/blockquote]

I membri del team del Center for Consciousness Science evidenziano che tutto questo lavoro può aiutare i pazienti in futuro: “Stiamo cercando un modo migliore per quantificare la profondità dell’anestesia in sala operatoria e valutare la coscienza in qualcuno che ha avuto un ictus o un danno cerebrale”, dice Hudetz. “Ad esempio, possiamo presumere che un paziente sia completamente inconscio in base al comportamento, ma in alcuni casi la coscienza può persistere nonostante l’insensibilità”.

Il team spera che questa e la ricerca futura possano portare a strategie terapeutiche per i pazienti. [blockquote style=”1″]Vogliamo comprendere la rottura della comunicazione che si verifica nel cervello durante l’ incoscienza, in modo che possiamo mirare o monitorare precisamente questi circuiti per ottenere un’anestesia più sicura e ripristinare al meglio questi circuiti.[/blockquote]

Rock and Resilienza sulla poltrona del terapeuta: tecniche di relazione in TMI per transitare attraverso la musica dal dolere alla narrazione del Sè

Proprio quando esseri umani compiono cammini simili e decidono di raccontare il proprio viaggio, finisce che alcuni percorsi si incrociano con altri dando vita a forme di conoscenza interessante, dove l’arricchimento di esperienza umana è inevitabile.
Questo mi è accaduto il giorno dopo aver conosciuto Paola Maugeri, alla presentazione del suo libro “ Rock and Resilienza ” all’Hard Rock Cafè di Roma.

Che cos’è la resilienza?

La resilienza è un termine che nasce dalla metallurgia per descrivere le caratteristiche di alcuni metalli in grado, dopo stress e sollecitazioni, di mantenere la propria struttura o di riprendere la forma originaria. Questo termine è stato preso in prestito dalla psicologia per descrivere l’attitudine delle persone a far fronte alle situazioni difficili a cui la vita li sottopone. Tutto nella stanza della terapia è un percorso alla scoperta della resilienza. Quando mi viene domandato “che cosa si fa in terapia?” una delle risposte che amo dare quando sono in vena di sintesi è “in terapia ci si impara a conoscere e si scopre la resilienza”.

Come ci si arriva alla resilienza? Questa è un’altra storia. Una capacità simile è frutto di un cammino, non breve, non impossibile, ma fondamentale. Come ogni cammino è personale, ogni persona che si è seduta sulla poltrona davanti a me l’ha scoperto attraverso un viaggio profondo in contatto con se stesso. Percorsi in cui ognuno ha imparato a conoscersi, partendo dalla sua storia personale e dalla proprie debolezze e fragilità. Ognuno guidato sempre dallo stesso desiderio: avere accesso a stati desiderabili di benessere. Quali? Questo dipende dal percorso.

Rock and resilienza: un libro di Paola Maugeri

Paola Maugeri racconta il suo in Rock and Resilienza.
Proprio quando esseri umani compiono cammini simili e decidono di raccontare il proprio viaggio, finisce che alcuni percorsi si incrociano con altri dando vita a forme di conoscenza interessante, dove l’arricchimento di esperienza umana è inevitabile.
Questo mi è accaduto il giorno dopo aver conosciuto Paola Maugeri, alla presentazione del suo libro “ Rock and Resilienza ” all’Hard Rock Cafè di Roma. A questo incontro lei arrivava con un bellissimo scritto, sentito e dato alla vita dopo aver attraversato le sonorità e le note della musica, io attraverso le parole dei pazienti dalla mia poltrona di terapeuta, ognuno con il proprio mezzo utilizzato per viaggiare attraverso le tracce che lasciano tante vite vissute: le storie.

E da qui il pensiero e la dedica di offrirne una io prendendo in prestito il mezzo che Paola Maugeri ha voluto condividere con il mondo alla ricerca della resilienza, quella resilienza che ci rende forti, resistenti, pensati, presenti, desideranti e sopratutto liberi.

Il caso clinico di Lisa

Aprendo la porta appare subito evidente che sarà una seduta impegnativa. Lisa ha lo sguardo spento, malinconico, un’ombra di tristezza si trascina pesante accanto a lei mentre passa dall’uscio.
Racconta subito di sentirsi giù di umore e che aveva pensato anche di non venire. Il fatto che sia sul divano davanti a me però mi da motivo di credere che c’è una parte di lei desiderosa di stare meglio che l’ha trascinata fino allo studio. Lo chiamiamo desiderio dello stato mentale positivo, quella parte che a volte si nasconde nella mente e sente che, da queste condizioni di sofferenza, è in qualche modo possibile venirne fuori, una parte presente anche in Lisa, altrimenti non sarebbe qui. Le rimando questo pensiero e lei annuisce senza cambiare espressione.

Cappello di lana, septum e gli abiti scuri e larghi oggi non sono sufficienti a coprire il suo basso umore e smarrimento, ma Lisa è li, presente con le sue emozioni e qualcosa insieme possiamo provare a fare. Nel nostro contratto terapeutico abbiamo condiviso il bisogno di prendere maggior contatto con i propri desideri, evitare quegli schemi relazionali dove Lisa abbandona i propri bisogni per evitare di creare sofferenza altrui. Abbiamo un’idea delle relazioni in cui possa essere stato appreso questo schema interpersonale, ma è la prima volta che ci troviamo in presenza del risultato che spesso ne deriva, il bloccarsi, arrestarsi, fino a sentirsi tristi ed immobili.

Si lavora con ciò che porta il paziente e così proviamo ad esplorare la tristezza di questo momento. Lo scopo è capire come attivare la resilienza, la capacità di reagire a questo momento in cui l’agency sembra bloccata. La modalità è quella di affrontare e cercare di modulare lo stato mentale negativo. Entrarci in contatto e condividerlo sono sempre una buona mossa in questi casi. Inizialmente il percorso è confuso, manca un contatto profondo con questa emozione che non riusciamo a collegare a nulla, nessun episodio preciso, nessuna immagine o pensiero definito. Accade, è cosi che ci si protegge, spaventati da ciò che si prova, ma questa volta Lisa non è sola in questa esplorazione. Da questa tristezza apparentemente opaca riusciamo infine a delineare il quadro di una situazione definito da oscillazioni di umore che, da tempo remoto, appartengono alla vita della giovane paziente. Momenti in cui tutto è possibile, il mondo ha dei colori più vivi e si sente capace di tutto e momenti in cui l’energia manca, si sente spenta e resterebbe tutto il giorno in casa aspettando che cessi una pioggia che invece è solo dentro di lei.
Forse dovremmo conoscerli meglio questi alti e bassi”.
In che senso?
Nel senso che potremmo osservarci e vedere come cambiano nelle varie giornate

Lisa è incuriosita e il fatto che non è sola nel viversi questa emozione fa sì che inizi a concedersi di esplorarla secondo la mia proposta.
Pensavo che potremmo semplicemente appuntare gli stati emotivi che caratterizzano le giornate, come ad esempio oggi potremmo scrivere TRISTEZZA e magari capire in che quantità è presente… da 1 a 10 che numero potremmo mettere?
Oggi è sicuramente un 8, perché sono venuta qui
Quel 2 era la parte di speranza che avevo condiviso con lei ed ero contento che se la stesse riconoscendo.
“Va bene Lisa allora immaginiamo di segnare sul quaderno la data di oggi con TRISTEZZA 8
Potremmo aggiungere anche un altro dato?” dissi passando a lei la guida dell’esplorazione.
L’espressione di Lisa inizia in qualche modo a cambiare, la seguo.
Assolutamente si, cosa vorresti metterci?
Vorrei metterci delle canzoni” (sorriso appena percettibile).

L’idea mi piace, ho sempre ritenuto la musica un potente strumento in grado di far entrare in contatto profondo con le proprie ed altrui emozioni. Le chiedo allora che canzone abbinerebbe alla giornata di oggi e senza neanche pensarci mi propone “I Wanna Be Adored” degli The Stone Roses.
Non è un pezzo che conosco molto bene e allora lancio subito la proposta “Ti va di ascoltarlo insieme?

Ed è in quel momento, che spostiamo la ricerca di quell’emozione lontano dal piano delle parole, aprendoci ad una percezione di quel pezzo malinconico sulle cui note adesso Lisa sente di riuscire a dare sostanza e raccontare in pieno la sua emozione in piena condivisione. Pochi minuti di ascolto in silenzio, un audio non di certo impeccabile, ma tanto ci basta.

Alla fine della canzone Lisa ha un’altra espressione.
Coma si sente Lisa? E’ successo qualcosa?” dico per orientarla a monitorare le sue emozioni.
Mi sento un pò meglio”.
E’ così che accade. Quando troviamo modo di uscire dall’isolamento della sofferenza per entrare in contatto e condivisione, qualcosa dentro di noi si muove e ci permette di sentirci meglio.

L’ombra di tristezza che aveva accompagnato Lisa sembra svanire, postura, sguardo, espressioni adesso sono diverse.
Iniziamo a parlare di resilienza, della capacità che ci appartiene di affrontare gli stati negativi, della nostra capacità di reagire e di quanto la condivisione di ciò che ci accade sia fondamentale.

La resilienza in terapia metacognitiva interpersonale attraverso il libro Rock and resilienza

In Terapia Metacognitiva Interpersonale lo riteniamo un momento della seduta fondamentale, quando riusciamo a spostarci quel tanto che serve dallo stato di sofferenza per riuscire ad agganciare un altro stato migliore, più positivo. Prendere contatto con la parte sana lo chiamiamo. Marcare una strada netta in questo passaggio e far riflettere il paziente sul fatto che è stato lui a compiere questo shift è resilienza pura, dove si apprende che si è in grado di reagire e cambiare qualsiasi stato emotivo.

In quel momento sento che anche io voglio condividere con lei un mio ricordo e dalla borsa accanto alla poltrona tiro fuori il libro “ Rock and Resilienza ”. Mi sento un pò orgoglioso per la copia autografata di Rock and resilienza.

Sai Lisa, è pensando a questo libro che mi è venuto in mente di ascoltare insieme a te la canzone. Ti va se ne leggiamo un pezzo insieme?
Non avevo avuto ancora tempo per leggerlo, ma con sorpresa il primo capitolo parlava proprio di qualcosa che sarebbe stato un arricchimento prezioso al nostro percorso. Il potere della narrazione, della trasformazione positiva di storie di vita difficili vissute attraverso la condivisione faceva decisamente a caso nostro. “Se decidiamo di raccontare abbiamo la possibilità di far sì che la nostra sofferenza esista anche nella mente di un’altra persona e l’illusione immediata di essere capiti, accettati nonostante le nostre ferite, trasforma inevitabilmente il nostro trauma in confidenza, relazione, condivisione.” Durante la lettura Lisa è più serena, segue, abbiamo aperto la nostra condivisione al mondo attraverso le pagine di un libro, che parla di storie nuove ma che in fondo sembra conoscere anche un pezzo di noi.

Siamo verso la fine della seduta e Lisa inizia a rievocare momenti in cui è stata bene, dei posti dove si recava per trovare tranquillità fino ad arrivare alle sue passioni dove si sente capace e attiva. Parliamo di fotografia e di disegno, di quel che ama fare e, a fine seduta, esce propositiva, con una grande voglia di reagire e prendere in pugno diverse situazioni di vita. E’ in pieno contatto con la parte sana, la sua resilienza è attiva.
Il nostro percorso avrà ancora del tempo, ma oggi abbiamo scolpito in maniera ancora più definita la strada da percorrere. Ci salutiamo con la promessa di leggere un altro capitolo di Rock and resilienza insieme alla prossima seduta.
Stay Rock … Stay Psy.

La forma dell’acqua oltre l’amore – Recensione del Premio Oscar 2018 di Guillermo del Toro

Ne La Forma dell’acqua, Guglielmo del Toro riesce a spiegare la complessità dell’amore attraverso la semplicità delle immagini e con un linguaggio comprensibile ad ogni cuore, capace di lasciarci senza fiato.

 

Poeti, cantanti, artisti e registi hanno provato in molti modi a mettere al centro delle loro opere l’ amore e la sua complessità. Biagio Antonacci  qualche anno fa cantava “L’amore comporta un linguaggio a sé stante, l’amore ti innaffia e ti mette le ali, ti toglie gli odori che hai preso per strada, pulisce e rinnova e vai su” e ancora Erich Fried nella sua poesia È quel che è diceva racconta così l’amore: “È assurdo dice la ragione È quel che è dice l’amore. È infelicità dice il calcolo Non è altro che dolore dice la paura È vano dice il giudizio È quel che è dice l’amore È ridicolo dice l’orgoglio È avventato dice la prudenza È impossibile dice l’esperienza È quel che è dice l’amore”.

Nel film La Forma dell’acqua il regista fa un salto di qualità: l’amore non ha forma, come l’acqua, inonda il cuore degli amanti e lo riempie con tutta la sua potenza. La pellicola è un capolavoro, non tanto per il tema che tratta ma per come viene trattato il tema dell’amore. È un film particolare, è orribile e al tempo stesso meraviglioso, mette lo spettatore nelle condizioni di non potersi muovere e di non riuscire a prendere parte. Non è un fantasy, non è un miusical, non è un thriller, non è una fiaba ma al tempo stesso contiene in sé sfumature di tutti i generi.

IL FILM CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La forma dell’acqua e l’unicità della trama

La forma dell’acqua, il nuovo film di Guglielmo del Toro, è una dichiarazione d’amore all’umanità. Ritroviamo i buoni e i cattivi, da un lato coloro che considerano la creatura anfibia un mostro da uccidere e vivisezionare, coloro che sono spinti dal desiderio di potere e da una spinta orribile di crudeltà, che vogliono uccidere senza conoscere la diversità, dall’altro la protagonista, Elisa, una ragazza muta, che lavora nella base aereospaziale come donna delle pulizie e che si innamora di questa creatura meravigliosa. La storia può sembrare anche banale, ma nei dialoghi emergono delle considerazioni che lasciano senza fiato chi, almeno una volta, ha provato quel tipo di amore che come l’acqua non ha alcuna forma ma che si adatta, avvolge e travolge i due amanti senza alcuna considerazione razionale. Quando Elisa capisce che vogliono uccidere la splendida creatura, corre a casa dal suo unico amico e dopo aver fatto appello al senso di umanità e all’obbligo morale di ogni essere umano di non rimanere impassibile di fronte alle atrocità che si commettono, si abbandona in un dialogo che lascia senza fiato che spiega l’amore con una semplicità travolgente. La ragazza dice: [blockquote style=”1″]dare una forma alla purezza dell’amore attraverso la metafora dell’acqua ma sopratutto spiegare la complessità dell’amore attraverso la semplicità delle immagini e con un linguaggio comprensibile ad ogni cuore. [/blockquote]

Struggente e appassionante il modo in cui attraverso il gioco di fotografie, colori e musica il regista sia riuscito a far penetrare nell’anima dello spettatore l’unione di un amore così diverso e al tempo stesso così completo. Questo film sorprende per la sua capacità di raccontare in modo semplice una storia d’amore che sembrerebbe destinata a non esistere fin dal primo istante e, attraverso essa, manda dei messaggi importanti sulla società contemporanea in cui l’accettazione della diversità sembra essere così lontana dalla realtà, anche a dispetto del riconoscimento di risorse meravigliose in un altro diverso da noi, e dunque anche sulla relazione con l’altro, su come spesso si dia importanza alle differenze e su come probabilmente l’amore vero sia estraneo a tutte quelle domande e dubbi su cui spesso ci concentriamo.

C’è ancora molto altro, c’è l’amore che cura, l’amore che ferisce ma che si prende la responsabilità di guarire le ferite che a volte in ogni relazione si procurano. C’è l’aggressività delle incomprensioni e un linguaggio tutto di coppia per riparare il danno. C’è il compromesso e la compassione per qualcuno che ha linguaggi e metodologie diverse dalle nostre. C’è l’importanza dell’amicizia, il bene dell’altro, la fiducia, la protezione, la volontà assoluta di non lasciare solo chi ami e di accompagnarlo verso la libertà. Nel finale un colpo di scena “il cattivo” capisce tutto e quando ormai tutto sembra perduto, i giochi fatti e l’amore distrutto ancora una volta lui, creatura anfibia con delle doti meravigliose, prende la sua amata e la rimette in vita. Il film si conclude con un messaggio che fa riflettere [blockquote style=”1″]incapace di percepire la tua forma ti ritrovo tutto attorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, onora il mio cuore perché sei ovunque.[/blockquote]

Il regista con questo film è riuscito in un’impresa difficilissima: dare una forma alla purezza dell’amore attraverso la metafora dell’acqua, ma sopratutto a spiegare la complessità dell’amore attraverso la semplicità delle immagini e con un linguaggio comprensibile ad ogni cuore.

Il tipo di relazione sessuale-affettiva influenza la scelta del contraccettivo – FluIDsex

La scelta dei metodi contraccettivi non dipende solo dalla loro efficacia. Essa dipende anche dal tipo di rapporto di intimità e fiducia che si ha con la persona con la quale si ha un rapporto sessuale o una relazione.

 

La sessualità non protetta è un’esperienza non rara e le conseguenze di questa condotta potrebbero essere gravidanze indesiderate e trasmissione di malattie, quali epatite, sifilide, herpes, AIDS, clamidia, gonorrea ed altre. L’unico tra i metodi contraccettivi capace anche di proteggere da malattie sessualmente trasmissibili è il preservativo, maschile o femminile, la cui efficacia (molto elevata) dipende dalle modalità di utilizzo dello strumento.

Un metodo come quello del backup control, che vede l’utilizzo di preservativo e altri metodi anticoncezionali (ormonali, ad esempio) può essere considerato la forma di protezione maggiore. Ma la scelta dei metodi contraccettivi non dipende solo dall’efficacia. Essa dipende anche dal tipo di rapporto di intimità e fiducia che si ha con la persona con la quale si ha un rapporto sessuale o una relazione, dal costo, dalla reperibilità e dalla facilità di utilizzo. Quando vi è intimità la scelta del metodo utilizzato può diventare una scelta che non riguarda più il singolo, ma diviene una scelta della coppia.

Uso dei metodi contraccettivi: uno studio su attività sessuale e relazione di coppia

All’Oregon State University è stato condotto uno studio longitudinale su 470 giovani adulti. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere ad una survey con domande sulla loro attività sessuale, sui propri partner, sull’uso dei metodi contraccettivi, sulla durata della relazione sessuale, sulla frequenza dell’attività sessuale e sull’esclusività. Sono stati inoltre misurati i livelli di impegno relazionale ed il processo decisionale sessuale (ruolo percepito di un individuo nelle decisioni riguardo all’uso dei metodi contraccettivi all’interno della coppia).

Dallo studio è emerso che il 41% dei partecipanti ha riferito di usare solo preservativi, il 25% metodi ormonali (pillole, anello vaginale, spirale IUD ormonale, etc.), il 13% un backup method ed il 21% ha dichiarato di non utilizzare nessun metodo di protezione dalle nascite e dalle malattie sessualmente trasmissibili (IST). Le scelte dei partecipanti allo studio dipendono dall’impegno percepito nella relazione e nella percezione del proprio ruolo nel processo decisionale rispetto alla vita sessuale. Dunque, la qualità e le dinamiche di una relazione sono importanti predittori dell’uso dei metodi contraccettivi.

Risulta inoltre che le decisioni rispetto ai metodi contraccettivi dipendono anche dal rischio percepito di contrarre malattie sessualmente trasmissibili o di una gravidanza, e questi due aspetti sembrano dipendere a loro volta da come le persone si sentono riguardano un particolare partner: quando la fiducia nella coppia aumenta diminuisce la paura di trasmissioni sessuali di malattie e così diminuisce a sua volta l’utilizzo del preservativo.

I risultati sono utili per ricordare ai professionisti della salute pubblica, tra cui medici, infermieri, ginecologi, sessuologi ed educatori sessuali come la comprensione della relazione che il paziente ha con il/i proprio/i partner sessuale/i diviene importante per inquadrare il comportamento del paziente stesso.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gli adolescenti e il brivido del rischio: i fattori neurologici e sociali alla base dei comportamenti impulsivi

Alla luce degli studi recenti, sorge spontaneo chiedersi se davvero gli adolescenti siano delle inarrestabili e autolesive macchine in corsa o se invece ci siano altri fattori coinvolti nella propensione al rischio in adolescenza.

 

L’adolescenza è un periodo estremamente delicato: solo nel 2015 si stimano circa un milione e mezzo di morti di età compresa tra i 10 e i 19 anni.

Più precisamente si calcola che la percentuale mondiale di decessi tra i 15 e i 19 anni sia del 35% più alta rispetto alla fascia di età che va dai 10 ai 14 anni, soprattutto per il genere maschile; le morti si verificano soprattutto a seguito di incidenti stradali, violenza interpersonale, autolesionismo e abuso di alcol o tabacco (Telzer et al., 2015).

Alcuni scienziati hanno teorizzato uno squilibrio nello sviluppo cerebrale degli adolescenti per spiegare i loro comportamenti impulsivi, promiscui e rischiosi. Il sunto centrale di tali teorie era che negli adolescenti le aree cerebrali legate all’impulsività e ad un’alta sensibilità alla ricompensa, specialmente in ambito sociale, fossero maggiormente attive rispetto a quelle prefrontali, più legate a processi cognitivi di controllo e inibizione dell’azione.

Da ciò l’idea che la mente adolescenziale fosse come una macchina in corsa folle con i freni bloccati.

Tuttavia a parere di Ted Satterthwaite, psichiatra e ricercatore in neuroscienze presso l’università della Pennsylvania, non tutti gli adolescenti mostrano questa propensione alla messa in atto di comportamenti autolesivi e rischiosi. In particolare una survey di Johnston e colleghi (2016) su un campione di 45 mila studenti statunitensi ha stimato come il 61% di questi tra i 17 e i 18 anni non abbia mai fatto uso di sigarette, e il 29% ha dichiarato di non aver mai bevuto alcol.

Sorge spontaneo chiedersi se davvero gli adolescenti siano delle inarrestabili e autolesive macchine in corsa o se invece ci siano altri fattori coinvolti nella propensione al rischio in adolescenza.

“L’adolescenza è un periodo delicato e vulnerabile ma non a causa del fatto che ci sia qualcosa di squilibrato nella mente dei ragazzi” (Ted Satterthwaite)

Studi recenti hanno iniziato a indagare e approfondire come i fattori sociali influenzino la propensione al rischio in adolescenza.

Steinberg, psicologo all’università di Temple, Philadelphia, tramite il compito “chicken game” in risonanza magnetica funzionale (2011), dimostrò come gli adolescenti fossero più propensi a mettere in atto comportamenti rischiosi e impulsivi quando veniva detto loro di essere osservati durante il compito, da un gruppo di pari.

Il “chicken game” è un videogioco che prevede che i ragazzi guidino nello scanner una macchina, attraversando 20 semafori in sei minuti. Nello studio di Steinberg, molti teenager decidevano di proseguire al primo semaforo rosso, altri aspettavano il verde. Un’interessante dinamica era rappresentata dal fatto che, quando ai teenager veniva detto di essere soli al momento di svolgere il compito, essi tendevano a rispettare i semafori con una frequenza simile ai giocatori adulti. Quando invece veniva detto loro, in modo menzognero, di essere osservati da un gruppo di pari, assumevano maggiormente comportamenti rischiosi che si accompagnavano ad una maggiore attivazione dello striato ventrale sensibile alla ricompensa.

Uno studio simile di Telzer e colleghi (2015) ha mostrato, al contrario, che l’informare i teenager di essere osservati dalle proprie madri, riduceva di molto la propensione a mettere in atto comportamenti rischiosi; tale riduzione si associava in risonanza magnetica funzionale all’attivazione dei circuiti prefrontali preposti all’inibizione dell’azione e al controllo cognitivo.

Un’altra ricerca di Peake e colleghi (2013) ha evidenziato come nei teenager l’esperienza dell’esclusione sociale da parte del gruppo dei pari giochi anch’essa un ruolo cruciale nella propensione a comportamenti rischiosi. In particolare sembra che i teenager che hanno vissuti di vittimizzazione o esclusione sociale siano maggiormente vulnerabili al rischio (Telzer, 2018).

La comprensione profonda dei contesti e delle situazioni che aumentano negli adolescenti la vulnerabilità ad assumere alcol o sostanze, a prendere decisioni sbagliate, rischiose o autolesive, può contribuire alla strutturazione di interventi di prevenzione rendendo possibile la realizzazione di contesti più positivi e di supporto.

Il gruppo dei pari può costituire una risorsa positiva per l’individuo, così come un elemento di vulnerabilità.

Uno studio di Hoorn e colleghi (2016), tramite videogioco, ha mostrato come i teenager a cui veniva chiesto di donare o tenere per sé una somma di denaro, tendevano a fare una donazione qualora approvati dal gruppo di amici, mentre se disapprovati tendevano con più frequenza a tenere per sé la somma di denaro. In aggiunta, tale studio ha sottolineato come la messa in atto di comportamenti prosociali da parte dei teenager fosse correlata con una maggiore attività di quelle aree cerebrali implicate allo stesso modo nel risk-taking, come il ventrale striato.

Quei soggetti maggiormente prosociali e che mostravano un’attivazione maggiore della regione ventrale dello striato tendevano a mettere in atto comportamenti più prudenti a lungo termine e ad essere meno vulnerabili alla depressione da adulti (Telzer et al., 2014).

Inoltre recenti studi hanno evidenziato come anche i fattori emotivi potrebbero influenzare e peggiorare le prestazione degli adolescenti in compiti di autocontrollo. Infatti nelle situazioni emotivamente neutre, gli adolescenti hanno delle prestazioni nei compiti cognitivi molto simili agli adulti, ma quando le situazioni presentate sono emotivamente negative o avversive, le prestazioni dei giovani nell’autocontrollo peggiorano (Cohen et al., 2016).

Di conseguenza prendendo in considerazione questa rassegna di studi, sembrerebbe che il risk-taking in adolescenza potrebbe riguardare una piccola porzione di teenager e non essere invece un fenomeno generalizzato a tutti gli adolescenti come si tende ingenuamente a pensare. Infatti ci sono evidenze che lasciano supporre come i processi che portano alla messa in atto di comportamenti rischiosi siano influenzati in larga parte dal contesto sociale e dai fattori emotivi.

Quali sono gli effetti dell’ossitocina sul cervello materno?

Un nuovo studio dell’Università finlandese di Tampere, ha rivelato che la somministrazione di ossitocina rafforza la risposta alle immagini dei volti di neonati e adulti nel cervello delle madri di bambini di 1 anno.

 

L’ ossitocina è un ormone che svolge un ruolo estremamente importante nel processo del travaglio, nell’allattamento e in generale nella cura del neonato.

L’influenza dell’ ossitocina nei legami sociali

L’influenza dell’ ossitocina sulla percezione dei volti, delle emozioni e di altre informazioni sociali è stata ampiamente studiata negli ultimi anni mediante la somministrazione dell’ormone per via nasale. Alcuni studi hanno dimostrato, ad esempio, che la somministrazione intranasale di ossitocina può aumentare il riconoscimento delle emozioni e l’attività cerebrale durante la percezione di un volto. L’ormone in questione quindi, sembra giocare un ruolo significativo nell’elaborazione delle informazioni interpersonali e nel mantenimento dei legami sociali.
Tuttavia ad oggi, sono stati condotti pochi studi volti ad indagare gli effetti dell’ ossitocina nelle madri di bambini piccoli.

Il ruolo dell’ ossitocina nell’elaborazione dei volti infantili

Mikko Peltola ricercatore dell’Academy Research dell’Università di Tampere e autore della ricerca ha affermato:

“Il principale contributo del nostro studio è quello di aver esteso la ricerca sperimentale riguardante l’ ossitocina alle madri di bambini piccoli che raramente sono incluse in questo tipo di ricerche”.

Lo studio aveva lo scopo di investigare se la somministrazione di ossitocina provocasse un effetto sulle risposte neurali in 52 donne finlandesi, divenute madri da un anno. Considerato il ruolo che l’ ossitocina riveste nell’accudimento, l’obiettivo specifico era quello di capire se gli effetti dell’ormone fossero maggiori in risposta all’elaborazione di volti infantili.

I ricercatori hanno utilizzo l’elettroencefalografia (EEG) per misurare le risposte neurali delle madri alla percezione visiva di facce di neonati e di adulti (stimoli sperimentali). Al fine di controllare le variabili sperimentali, prima di ogni misurazione veniva somministrata ossitocina, tramite l’utilizzo di uno spray nasale (condizione sperimentale) o una sostanza placebo (condizione di controllo).

I risultati hanno mostrato un aumento della componente N170 del segnale EEG in risposta alle facce dei neonati e degli adulti unicamente nella condizione sperimentale. La componente N170 riflette l’attivazione delle aree del cervello sensibili ai volti, suggerendo quindi che gli stimoli presentati attivavano queste aree con maggiore intensità solo dopo l’inalazione dell’ormone. L’analisi tuttavia non ha mostrato chiaramente se l’effetto dell’ossitocina fosse maggiore con i volti dei bambini o con le facce dei soggetti adulti.

Il professor Kaija Puura dell’Università di Tampere ha affermato:

“In futuro sarebbe interessante condurre ricerche studiando campioni più ampi al fine di determinare se l’ossitocina influenza specificatamente la sensibilità del genitore alle richieste del bambino”.

Maltese, un cantautore porzione “singolo”

Se un brano è figlio delle emozioni più profonde, allora Maltese ha trovato la “chiave” giusta per far musica d’autore: camminare, mano per mano con l’ascoltatore, su un viale dei sensi molto particolare, costruito da “porzioni singole” musicali.

 

Maltese: un cantautore che diffonde un nuovo modo di fare musica

Maltese è un cantautore torinese, noto per aver firmato pezzi importanti tra cui il diffusissimo Déjà vu e il suo è un progetto che si chiama, appunto, Single Portion. Un nuovo ed originale modo di fare e diffondere musica, pubblicare un singolo alla volta anziché far uscire un intero album. E’ evidente, che il suo slancio artistico e poeticamente anarchico, si muove verso una fruizione più libera della musica.

Maltese non vuole perdere il contatto con la realtà. Non vuole snaturarsi. Non vuole perdersi. E , soprattutto, non vuole veicolare sensazioni anche solo in minima percentuale diverse da quelle provate nel momento in cui, ad anima pura e gambe incrociate sull’universo, le stava creando. Si, perché Maltese non accetta di scendere a patti con le fredde leggi della statistica o dell’economia. No. Lui vuole condividere le sue idee, ovviamente per quanto possibile, nella stretta imminenza in cui le ha partorite. Una scelta onesta, coraggiosa. Un giuramento di fedeltà nei confronti di chi, nelle sue canzoni, potrebbe ritrovare se stesso. Ecco. Io credo che questo modo di “vendere” la propria arte, sia l’unico possibile in un contesto in cui tutto tende a sporcarsi di ipocrisia, finzione, apparenza.

I messaggi della musica di Maltese

Maltese, con le sue “monoporzioni” musicali mette al mondo brani e mondi fantastici che si connettono, senza derivazioni sterili e fuorvianti, al suo imminente presente, spezzando le catene di un immaginario statico e sterile. Arriva con forza, allora, il suo messaggio quando – con il suo primo singolo La legge delle cose, disponibile sul suo canale youtube e su tutte le piattaforme social – prende le distanze, con consapevole coerenza, dall’idea illusoria dell’amore eterno, accogliendone l’essenza più vera, quella che si muove sul filo del cambiamento, del distacco, della volubilità della vita.

Emblematico, il suo «Il mondo non si ferma tutto gira / tutto cambia questa è la Legge delle cose / non c’è respiro che sia eterno», passaggio intriso dal profumo dell’instabilità esistenziale. Ma anche in questo esporsi al vento della precarietà umana, torna a sorprendere, a fare un passo indietro. Torna più umano, più frangibile, quando supplica la sua donna di restare ancora al suo fianco, almeno «fino all’arrivo dell’inverno» per soddisfare l’esigenza terrena della condivisone. Del resto, sembra sussurrare alla sua compagna, se «hai già cambiato troppe volte la tua pelle per amore e con lo sguardo all’orizzonte hai perso l’ultima stagione» è solo per La legge delle cose, una regola astrusa che sconvolge progetti ma non uccide.

GUARDA IL VIDEO:

I più comuni vissuti psicosomatici della gravidanza: cosa comunica il corpo

I sintomi in gravidanza di natura psicosomatica si manifestano quando alcune emozioni, ansie, conflitti non vengono accolti ed espressi e per questo vengono espressi attraverso il corpo. Le paure più frequenti sono quelle relative al parto, al timore di non essere delle brave madri o di perdere la propria vita precedente.

 

Le emozioni e i cambiamenti che caratterizzano la gravidanza

La gravidanza è un periodo nella vita della donna, caratterizzato da molteplici cambiamenti a livello sia fisiologico che psicologico e spesso essi risultano interrelati tra loro. Sin dalle prime fasi della gravidanza ci si interroga su come dovrebbe essere un buon genitore e se si sarà in grado di rispondere a tali modelli. In questo periodo più che mai si riattualizzano i ricordi legati alla propria infanzia e al rapporto con i propri genitori e possono riemergere conflitti non elaborati nelle fasi precedenti dello sviluppo (Imbasciati, Cena, 2015).

Ad essi, si associano dubbi, perplessità, ansie che se hanno la possibilità di emergere e di essere accettati ed elaborati per quello che sono, preservano maggiormente il benessere psico-fisico delle donne. Infatti, le mamme che tendono ad idealizzare completamente la nascita di un bambino, mettendo a tacere e negando eventuali preoccupazioni o vissuti ambivalenti che possono insorgere, sono quelle più a rischio di lievi disturbi (Finzi, Battistin, 2011). La soluzione può essere quella di porsi nei confronti della gravidanza e dei cambiamenti che essa porta con sé con un sentimento di accettazione dei molteplici e ambivalenti vissuti emotivi e psichici che possono emergere, senza temere o sopprimere eventuali paure, perplessità o ostilità che alle volte possono insorgere e che definiscono la complessità della maternità.

Da ciò si deduce come le modificazioni somatiche e i vissuti psichici si influenzino reciprocamente durante tutto il periodo della gravidanza e del parto. Sia il corpo che l’immagine di sé subiscono dei cambiamenti: l’aumento del peso, il senso di affaticamento, le modifiche apportate al proprio stile di vita possono essere vissuti dalle donne in modi differenti e alle volte può succedere che prevalga la sensazione di essere poco attraenti o il timore che non si riacquisterà più la propria forma fisica. In questo caso la propria identità femminile può risultare compromessa e il vissuto può essere quello di non accettazione di sé e del proprio corpo che cambia.

I sintomi in gravidanza

Uno dei sintomi in gravidanza che frequentemente lamentano le donne soprattutto nel primo trimestre sono le nausee: se da un lato sono legate principalmente ai cambiamenti ormonali tipici della gestazione, dall’altro sono alle volte espressione di sentimenti ambivalenti nei confronti della maternità; il timore degli sconvolgimenti che porta con sé l’arrivo di un bambino e la paura di non essere in grado di farvi fronte, possono comportare un’ambivalenza tra l’accettazione e il rifiuto della gravidanza e del bambino stesso (Benedek, 1952).

Un altro dei sintomi in gravidanza è l’ipersonnia, piuttosto frequente nel primo trimestre e può essere legata all’adattamento psico-fisico della donna allo stato gravidico ma può anche essere interpretata alle volte come un’identificazione con il feto o uno stato regressivo (Imbasciati, Cena, 2015).

Altri studi si sono, invece, soffermati sull’ansia e lo stress della mamma mettendoli in relazione con alcune possibili complicanze ostetriche, con il prolungamento del travaglio, con il basso peso del bambino alla nascita e con il parto prematuro (Standley e al., 1979; Bogetto e al., 2004, Paalberg e al., 1999). L’ansia e lo stress in gravidanza sembrano anche essere predittivi del temperamento difficile e di problemi comportamentali del bambino nei primi mesi e anni di vita.

I sintomi in gravidanza di natura psicosomatica, dunque, si manifestano quando alcune emozioni, ansie, conflitti non vengono accolti ed espressi e per questo vengono espressi attraverso il corpo. Le paure più frequenti sono quelle relative al parto, al timore di non essere delle brave madri o di perdere la propria vita precedente. Le preoccupazioni, i dubbi e i sentimenti ambivalenti sono molto comuni tra le donne in gravidanza, e talvolta possono generare stati ansiosi di diversa intensità o essere responsabili di alcune sintomatologie fisiche. Esprimerli, accoglierli, elaborarli in una dimensione sia individuale che di coppia costituisce un importante passo per salvaguardare il proprio benessere psico-fisico e quello del bambino.

Curo con il mio viso ma non lo conosco: l’integrazione tra Self Mirroring Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale nella disciplina interiore del Terapeuta

La tecnologia e la formazione sulla Self Mirroring Therapy vengono in aiuto del terapeuta nel raggiungere una disciplina interiore, attraverso una webcam verso di sé, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, per ottenere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Michela Alibrandi

 

Ciao Michela, che occhiaie stamattina! Sembri un panda! Ti senti bene?”. Esordisce cosi la prima paziente di un faticoso venerdì mattina. Qualche ora dopo, ripensando all’episodio, mi dico scolasticamente “Bene! Si è concessa di scherzare con me senza paura di offendermi, c’è ancora un po’ del suo accudimento ma non è così rilevante, tutto ok”.

Se mi focalizzo però sulle mie sensazioni, l’ ansia sottile con cui in quelle ore ho sbirciato la mia immagine riflessa, il pensiero ricorrente del 40° compleanno in arrivo, l’angoscia delle recenti notti insonni in allattamento, riconosco il timore sotteso, familiare, di non essere adeguata, risvegliato da quella frase.

Tutto ok? Per niente! Sul momento però non me ne sono accorta e sicuramente sono apparse sul mio viso espressioni inconsapevoli di ansia e irritazione che la paziente può avere colto, in maniera altrettanto inconsapevole.

Come funzionano gli Schemi Interpersonali

Queste dinamiche, in Terapia Metacognitiva Interpersonale, costituiscono materiale importantissimo di conoscenza e cura del paziente (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013)

Ogni essere umano viaggia nel mondo con il suo kit di Schemi Interpersonali, appresi e modificabili nell’arco dell’intera vita, che originano da desideri sani e universali (“wish”), come amare ed essere amato, appartenere al gruppo e cooperare, formare legami sentimentali e sessuali stabili, competere, esplorare ed essere autonomi.

A partire da queste motivazioni, e dalle risposte dell’altro ai propri desideri, la persona si approccia alla realtà, fa previsioni, interpreta e filtra le informazioni, ragiona sui propri comportamenti e le conseguenze ( “procedura se…allora” e “risposta dell’altro”: per esempio “se chiedo aiuto allora l’altro si arrabbierà” ). La risposta dell’altro (immaginata o reale ma interpretata alla luce dello schema), induce nella persona una strategia di coping (“risposta del sé alla risposta dell’altro”) di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale (proseguendo l’esempio: “se si arrabbia ha ragione perché non valgo niente”, tristezza, evitamento della relazione) ed una sottostante immagine di sé (in questo caso, “non amabile”).

Nella patologia, gli Schemi tendono ad essere negativi e totalizzanti, netti, difficili da mettere in discussione e generano emozioni molto intense nel paziente.

Gli Schemi del paziente entrano in gioco in tutte le relazioni, anche in psicoterapia, e si incontrano, a volte si scontrano, con quelli del terapeuta, mettendo in scena dei Cicli Interpersonali Disfunzionali tra i due protagonisti della seduta, dove il terapeuta incarna l’“Altro” del paziente e viceversa.

Il paziente ha delle aspettative sul terapeuta, guidate dai propri schemi, che moduleranno i pensieri, le emozioni e i comportamenti in terapia. A sua volta anche nel terapeuta si attiveranno i propri schemi con tutti gli elementi, ma a differenza del paziente, il terapeuta ne è consapevole (o dovrebbe esserlo), ha imparato a conoscerli, non se ne fa turbare ma li osserva in seduta serenamente e con curiosità, per poi rifletterci a casa, o nelle proprie supervisioni, utilizzandoli come fonte di informazione e di cambiamento per sé e per il paziente.

Come lavorare sui Cicli Interpersonali: la Self Mirroring Therapy

Bello, molto bello, ma come si arriva a questa disciplina interiore? La tecnologia e la mia formazione e ricerca sulla Self Mirroring Therapy mi vengono in aiuto e, non senza timore, decido di puntare una webcam verso di me, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, così da avere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Non si tratta di un semplice, per quanto efficace, videofeedback. La Self Mirroring Therapy è una tecnica che si applica in seduta con il paziente, che viene filmato nelle varie fasi della terapia (video 1) e poi filmato nuovamente mentre osserva e commenta il primo video (video 2). (Vinai, Speciale, 2013)

Osservandosi nel video 1, il paziente riesce a riconoscere meglio le proprie emozioni e a guardarsi con accettazione ed empatia, perché non implica più l’uso delle capacità autoriflessive, che spesso sono carenti, ma il sistema dei neuroni specchio, che viene normalmente impiegato in modo automatico e pre-riflessivo per comprendere le emozioni altrui ed empatizzare.

Tutto questo avviene in relazione stretta con un terapeuta esperto in Self Mirroring Therapy, che crea un clima disteso e di accettazione, ha in mente un progetto di cura e degli obiettivi sulla base dei quali seleziona e propone gli spezzoni di filmato più adatti, modula le emozioni del paziente, che a volte reagisce all’immagine di sé con sorpresa e spaesamento (mai, però, nella nostra esperienza, con rabbia o aggressività), sottolinea i suoi insight e li rafforza (Vinai, Speciale, Alibrandi, 2016)

Consapevole dei limiti dati dall’essere contemporaneamente “terapeuta del paziente” e “terapeuta o supervisore di me stessa”, l’esperienza di applicare la Self Mirroring Therapy su di me, alla ricerca dei Cicli Interpersonali Disfunzonali, è illuminante.

Self Mirroring Therapy: un caso clinico

Scelgo di registrare una seduta con un paziente “facile”, con cui sono a mio agio, dopo aver avuto il sospetto che questa mia rilassatezza fosse eccessiva, segnale di un probabile Ciclo Interpersonale Disfunzionale. Identifico le mie remore ad accendere la telecamera: se vedrò dei miei comportamenti che non mi piaceranno, potrei sentirmi incapace, scoraggiarmi e perdere energia nelle sedute successive, in uno Schema che recita, più o meno, “vorrei essere apprezzata, l’altro è critico, mi sento inadeguata, rispondo con il perfezionismo, se questa strategia fallisce e scopro dei difetti…è un disastro!

Dopo pochi minuti però dimentico la telecamera e tutto prosegue con naturalezza. Alla fine della seduta, rifletto sulle emozioni che ho provato e non ne identifico altre al di là della mia serenità, a parte qualche flash emotivo diverso che sul momento non reputo rilevante. Decido poi di guardare gli spezzoni di video relativi ai momenti più salienti, selezionati con i criteri con cui scelgo solitamente quelli da mostrare al paziente, ponendo l’attenzione sulla mia parte di “intervista doppia”, la mia faccia, e di videoregistrarmi mentre mi guardo (Self Mirroring Therapy).

Si alternano emozioni di curiosità benevola e di stupore. Una scena su tutte: il paziente con ansia sociale mi racconta di essersi avvicinato al bar dove lavora la ragazza che gli piace con l’intenzione di parlarle, in quel momento sul mio viso compare un’espressione tesa. “E’ l’interesse di sapere com’è andata a finire” mi direi, se non avessi il video che testimonia, in modo inequivocabile ai miei occhi, che è proprio ansia. Se non bastasse, mentre mi racconta di non essere riuscito perché gli sono tornate le solite paure, eccomi in una micro-smorfia di disappunto, che diventa per un attimo irritazione.

Il mio Schema dice “se non ce l’ha fatta dopo tanto tempo passato a parlarne con te vuol dire sei proprio scarsa, probabilmente di questo paziente non hai capito niente!”. I miei discorsi sono invece quelli corretti, da manuale, tanto che scelgo di abbassare l’audio, perché di fronte alle espressioni emotive le parole non hanno una grande importanza. Ho confermato al paziente il suo Schema: “se ti mostri debole, l’altro ti rifiuta”, tant’è vero che subito dopo lui cambia argomento, e sul suo viso compare per un attimo un’espressione di tristezza.

Resta ora da guardare il video 2, quello in cui ho ripreso le mie reazioni all’osservazione del video 1. Mi appaio totalmente rapita da ciò che sto osservando. Mi vedo mentre commento a voce alta. Sono buffa mentre ragiono: sposto lo sguardo verso l’alto, mi mordicchio un dito e borbotto discorsi incomprensibili tra me e me che diventano un’affermazione in maiuscolo quando tiro le conclusioni. Nel video 2 mi approccio alla registrazione della seduta con interesse scientifico ed esprimo riflessioni che suscitano altre riflessioni in me osservatrice, servirebbe un video 3 in una “never ending story” in cui non si finisce mai di imparare!

Ciò che però lascia davvero il segno, perché non mi è familiare, è vedermi mentre mi guardo con un’espressione benevola, curiosa, intenerita, non critica. Nel video 2 il mio sorriso è molto più pronunciato mentre guardo me stessa piuttosto che quando osservo il paziente. I timori che avevo all’idea di rivolgere la webcam verso di me si sono rivelati infondati: l’altro – me stessa – non è critico né sprezzante, anche in presenza di errori evidenti, ma vicino, interessato ed affettuoso, in una relazione che smentisce lo Schema mentre valida il sé.

Mi accorgo che ciò che definivo “disciplinare le emozioni” era in realtà ignorarle volutamente, talvolta inibirle, fino a perdere l’abitudine di sentirle, tutta concentrata sull’Altro, o a scappare da me. Una consapevolezza momentanea, a parole, che non corrispondeva ad una reale e profonda conoscenza. Vedermi benevola di fronte ai miei errori, invece, è un’esperienza molto più intensa, che contrasta con l’idea di un Altro ostile e giudicante. Nel video è immortalato un aspetto di me sano, creativo, divertito, che ha voglia di mettersi in gioco ed esplorare. Non è proprio questo ciò che desideriamo per i nostri pazienti: che facciano esperienza di parti di sé più sane e benevole, che possano gradualmente affiancarsi o sostituirsi a quelle che causano sofferenza? Allo stesso modo, il terapeuta che conosce e sperimenta degli aspetti nuovi e sereni di sé, un sé bendisposto, amichevole e costruttivo, si disingaggerà più velocemente dai Cicli Interpersonali Disfunzionali, o non se ne farà coinvolgere.

Decido di farmi un regalo: al posto della foto di mia figlia, userò come immagine di sfondo del cellulare un fotogramma di me con un’espressione benevola verso me stessa. La mia bimba se ne farà una ragione! Credo che sarà utile vederla spesso, durante la giornata, come un interessante promemoria: la disciplina interna è reale se diventa un assetto interiore costante di consapevolezza e relazione dinamica tra parti del sé, non relegabili al tempo della seduta (Salvatore, 2006). E può essere anche molto piacevole!

cancel