expand_lessAPRI WIDGET

Vittime di stupro: quando la mancata ribellione va sotto processo. L’ignoranza della legge sui vissuti traumatici di chi subisce un’aggressione sessuale.

Qualche giorno fa, in Spagna, è stata emessa una sentenza che ha indignato il Paese provocando un’ondata di proteste. Nel 2016 un gruppo di cinque uomini violentò in branco una diciottenne durante la festa di San Firmino, a Pamplona (Ciai, 2018). Dato che la legge spagnola distingue fra abuso sessuale e stupro, dove nel primo caso si esclude violenza o intimidazione, la corte ha condannato gli imputati alla pena più lieve, adducendo come motivazione la mancata reazione della ragazza, che non si è ribellata, ma ha subito il drammatico evento stando ferma con gli occhi chiusi per tutto il tempo.

 

Un episodio analogo accadde a Torino nel 2017, quando l’imputato fu assolto dall’accusa di violenza sessuale proprio a causa della mancata reazione della vittima (Muntoni, 2017). La legge italiana, a differenza di quella spagnola, riconosce lo status di vittima a chi subisce un’aggressione sessuale, di qualunque natura: ogni atto sessuale non consenziente è considerato una violenza. E lo è, senza dubbio.

Tuttavia, l’applicazione della pena è ancora troppo suscettibile d’interpretazioni che rivelano la necessità di fare maggiore chiarezza, e forse anche maggiore cultura, sul trauma e i vissuti che lo accompagnano e sui comportamenti che ne conseguono, in questo caso l’immobilità e il silenzio. La vittima non reagisce perché sta subendo un trauma, non perché l’impatto dell’evento sia minimo.

Per chiunque si occupi di trauma è infatti evidente come questo genere di sentenze siano l’espressione di un enorme gap fra ciò che clinica e ricerca in ambito traumatologico hanno rivelato negli ultimi decenni e ciò che si riscontra nelle aule di tribunale, dove chi, peritus peritorum, emette le sentenze, ignorando ciò che avviene davvero nel cervello di una vittima di aggressione.

Che cosa succede, dunque, durante un’aggressione sessuale? Che cosa vive in quel momento chi la subisce?

La teoria polivagale di Stephen Porges (2014) ci aiuta a comprendere reazioni che a volte appaiono incomprensibili, incluse quelle che si notano in molte vittime di stupro. Quando ci si sente in pericolo, nel nostro cervello si attiva immediatamente il sistema di difesa. Immediatamente nel senso letterale del termine: questa reazione repentina, infatti, non è mediata dalle zone corticali, dalle funzioni superiori, ma si sviluppa nella parte evolutivamente più antica del cervello, il tronco encefalico, in cui hanno sede gli istinti che ci accomunano con gli altri animali.

Questo significa che le reazioni di difesa non sono il frutto di una decisione volontaria e razionale, ma sono automatiche, non controllabili e producono il comportamento che il cervello in quel momento ritiene più utile alla sopravvivenza. Quattro sono le possibili risposte del sistema di difesa: freezing, fight, flight e faint.

Il freezing, o congelamento, è immobilità tonica: è quello che succede al cervo in mezzo alla strada, che s’immobilizza quando arriva un’auto. In quel momento il corpo è bloccato, ma i muscoli sono in tensione, pronti a scattare non appena il cervello, sempre a livello automatico e involontario, avrà valutato il comportamento più utile alla sopravvivenza da mettere in atto. Nel frattempo l’immobilità consente di essere meno visibili ai predatori. Poi ci sono le reazioni di attacco (fight) o fuga (flight).

Faint, immobilità ipotonica

L’ultima, e più importante in relazione a questi casi di aggressione sessuale, è l’immobilità ipotonica (faint): quando nessuna delle reazioni precedenti pare utile a fronteggiare il pericolo, l’unica risposta possibile è la brusca riduzione del tono muscolare, accompagnata da una ridotta percezione di ciò che sta accadendo in quel momento, un distacco dall’esperienza. I centri inferiori si disconnettono da quelli superiori (Liotti e Farina, 2011). Come l’opossum pare morto sotto attacco del predatore, la vittima di aggressione perde il controllo del proprio corpo che collassa per l’attivazione del sistema dorso-vagale, a volte fino allo svenimento. Molte vittime di stupro raccontano proprio questo tipo di esperienza: si subisce l’aggressione senza avere più il controllo del proprio corpo, senza poter muovere un muscolo, senza poter nemmeno parlare o gridare. In alcuni casi l’esperienza dissociativa è talmente forte che ci si vede da fuori nella scena, come se stesse capitando a qualcun altro.

Questo è molto più frequente negli stupri di gruppo, dove il senso di pericolo per la propria vita e l’impotenza sono ancora più estremi. Ecco perché la giovane spagnola non ha gridato, non si è ribellata ai suoi aggressori. Non perché fosse consenziente, ma perché il suo sistema di difesa ha stabilito che restare immobile e non reagire fosse il modo migliore per sopravvivere in quella situazione.

Purtroppo il sistema giudiziario non tiene conto di tutto ciò e giudici e avvocati non sono sufficientemente informati sul trauma e i vissuti ad esso correlati. E’ un problema molto serio quello sollevato da certi casi di cronaca, che dovrebbero costringere a riflettere sulla necessità di lavorare alla costruzione e diffusione di una cultura del trauma che tuteli le vittime e, riconoscendone il danno, le aiuti ad affrontare il difficile cammino di superamento ed elaborazione del trauma stesso. Le sentenze assolutorie verso gli abusanti, infatti, non solo non rendono giustizia alle vittime, ma peggiorano l’impatto dell’episodio traumatico, amplificando emozioni di colpa e vergogna intrinsecamente connesse all’aggressione subita.

Inclusione e disabilità. L’importanza del lavoro di rete – Report del convegno di Carini

Si è svolto lo scorso 17 aprile, presso il prestigioso Castello di Carini, un evento formativo che ha analizzato il tema della disabilità, nell’ottica dell’inclusione sociale, ad opera dei vari servizi preposti, quali, a titolo esemplificativo, l’istituzione scolastica e i Servizi di Neuropsichiatria infantile.

 

L’evento, organizzato dalla Cooperativa Sociale Amanthea, con sede a Caccamo, specializzata nell’assistenza ai minori disabili, e patrocinato dal Comune di Carini, mettendo l’accento sull’importanza dell’integrazione dei servizi che si occupano della persona disabile, ha previsto l’intervento di varie figure professionali, testimoni a loro volta della rilevanza strategica dell’integrazione delle competenze professionali, quali psicologo, assistente sociale, medico.

[blockquote style=”1″]Il convegno nasce da una lettura dei bisogni del territorio, per conoscere e formarsi su un tema così delicato e che nel corso della vita può coinvolgere qualunque persona. Carini è un comune molto sensibile alla tematica della disabilità e questo ha permesso la realizzazione dell’evento, primo step per il coinvolgimento e la sensibilizzazione della persona, dei cittadini, al fine di fugare i luoghi comuni legati al termine disabile. Infatti, l’immagine della persona disabile richiama alla differenza rispetto all’immagine corporea normale, generando paura ed evitamento[/blockquote] commenta Angelo Barretta, psicologo, vice Presidente della cooperativa Amanthea.

Disabilità: l’impatto sui sibilings

Evitamento, distanziamento, timori che esistono non solo tra i soggetti normali, nel loro rapportarsi a una diversità incomprensibile e minacciosa, ma anche tra gli operatori stessi, sollecitati a intervenire come supporto in situazioni di elevata complessità e instabilità.

Sandra Giordano, psicologa, precisa:

[blockquote style=”1″]I disabili spingono a porci delle domande sul come ben operare, in particolare per gli insegnanti e gli operatori specializzati a scuola. A mio avviso il corretto e funzionale aiuto alle persone diversamente abili si fonda sulla strutturazione di un progetto globale di vita, a partire dalle prime fasi di sviluppo di una disabilità, che coinvolga le famiglie, i vicini di casa, la scuola, i servizi socio-sanitari, l’intera Comunità. È comune sentir dire a una persona disabile -Non ho amici, sono solo!- per cui ogni intervento non può prescindere dalla costruzione di una rete sociale di sostegno. In particolare l’intervento psicoeducativo attivato dalla scuola deve essere finalizzato a sviluppare le potenzialità del disabile, attraverso l’osservazione del comportamento: un intervento estensivo, globale, che si stende fino all’Università. Rispetto alle famiglie il lavoro da fare riguarda l’accettazione della disabilità del figlio che genera rabbia nei primi due anni dalla scoperta e che necessita di accompagnamento psicologico[/blockquote]

Oltre al disabile e ai suoi problemi quotidiani, grande attenzione meritano i fratelli, in particolare nella fascia di età che va dai sei a quindici anni, per le ricadute emotive che la disabilità del fratello o sorella ha su di loro.

[blockquote style=”1″]I sentimenti comuni ai sibling sono quelli di isolamento e trascuratezza, pressione dei genitori alla perfezione e sentimenti di vergogna per le stereotipie del parente. A questo si aggiungono la colpa per essere sani e la paura di sviluppare una disabilità, incertezze per il proprio futuro (se i loro figli svilupperanno la stessa disabilità) e dolore per le limitazioni del fratello o sorella. Tra le strategie terapeutiche che aiutano i sibling nella gestione di tali emozioni negative sono da ricordare i gruppi di incontro con altri sibling e l’attivazione di laboratori esperienziali attraverso i quali mettersi nei panni del disabile, empatizzando con la sua disabilità (per esempio mettersi su una gamba sola, sperimentandone le difficoltà) o dare libero sfogo alle proprie paure (esprimendo la propria rabbia per sentirsi esclusi dai genitori). È fondamentale dare a questi bambini o adolescenti spazi appositi per esprimere il proprio disagio, al di là di un mito familiare che li vorrebbe forti, solo perché senza handicap[/blockquote]

sottolineano Loredana Cicero e Santa D’Alessandro, psicologhe.

Disabilità e genitorialità

Accanto alle esigenze dei fratelli si affiancano, non meno rilevanti, le richieste dei genitori, spaventati, confusi, arrabbiati, a cui i servizi non possono che rispondere ancora con interventi di rete.

[blockquote style=”1″]Parlando dei servizi di Neuropsichiatria infantile essi risultano di enorme utilità nella gestione delle problematiche dei bambini e delle loro famiglie, in quanto multidisciplinari, ovvero includenti un’équipe di psicologi, assistenti sociali, pedagogisti, logopedisti, e integrati con il Terzo Settore e i Servizi sociali, seppur, spesso, con elevate criticità a livello di raccordo funzionale. L’importanza del lavoro multidisciplinare è evidente nella creazione di gruppi di genitori che vengono aiutati nella gestione della disabilità del figlio e nel fronteggiamento dei sentimenti diffusi di rabbia, confusione e disperazione conseguenti alla diagnosi. È altresì centrale il lavoro di collaborazione tra gli operatori mirante alla costruzione di un linguaggio condiviso per comprendere perché con quel bambino non si va avanti, attraverso riunioni settimanali, e includendo anche gli operatori che non lavorano con il bambino, per beneficiare di uno sguardo neutrale [/blockquote] spiega Alfonso Geraci, neuropsichiatra infantile.

Servizi di supporto e sviluppo delle potenzialità del disabile e di ristrutturazione dei legami familiari e sociali, che infine si diversificano per tipologia per soddisfare le esigenze particolari di ciascun disabile, nei suoi diversi contesti di vita.

Disabilità e inclusione

[blockquote style=”1″]Il territorio offre ai disabili servizi diversificati per favorire il loro benessere, come i servizi domiciliari di assistenza o sostegno economico e quelli residenziali, come le Comunità Alloggio o le CTA. Un benessere che deve riguardare anche la famiglia, in quanto prima cellula economico-educativa, favorente i processi di autonomia: non considerare la famiglia nel processo di aiuto equivale certamente a lavorare a metà[/blockquote]

– concludono Francesca Sunseri e Simona La Rosa, assistenti sociali –

[blockquote style=”1″]Una Comunità in rete solidale per supportare il disabile e la propria famiglia, sostanziando un’autonomia e un’autostima che divengono sostegno alle proprie fragilità affinché il disabile “si concentri su ciò che il suo handicap non impedisce di fare e non si rammarichi di ciò che non può fare[/blockquote]

Alcune foto del convegno

Inclusione e disabilità l'importanza del lavoro di rete nel convegno a Carini-foto 1

 

 

Trasposizioni. Il Glossarietto di psicoanalisi (2017) di Giuseppe Civitarese

Trasposizioni è il titolo del più recente libro italiano di Giuseppe Civitarese –  analista didatta della SPI, direttore della Rivista di Psicoanalisi dal 2013 al 2017 e figura di spicco della ricerca psicoanalitica a livello internazionale.

Francesco Capello

Ben quattro delle sue monografie sono state tradotte in inglese per la prestigiosa ‘New Library of Psychoanalysis’. Ora, quest’ultimo volumetto rappresenta in certo modo una ‘summa’ dei lavori precedenti, pur essendo d’impianto assai diverso. Nel segno della continuità ritroviamo qui alcuni ‘cavalli di battaglia’ del pensiero analitico di Giuseppe Civitarese: l’inconscio estetico, la narratologia, la teoria del campo di matrice postbioniana con le relative ramificazioni/implicazioni in sede clinica; un interesse costante e sensibile per tutto ciò che – nell’arte e nella vita di tutti i giorni, ma soprattutto in ogni seduta analitica –  ‘è ritmo’. Quel fondante ritmo di presenza e assenza, separazione e unisono, identità e differenza, figura e sfondo la cui modulazione sta alla base della possibilità di dare senso emotivo alle nostre storie – o meglio, di produrre continuamente senso tramite le narrazioni e gli intrecci di rappresentazioni che ad ogni istante, consapevoli o meno, costruiamo.

Trasposizioni: il ritmo e la scoperta di senso

È un’intuizione primigenia e corporea (artistica, insomma) sul significato affettivo del ritmo quella che anima molte di queste pagine, al cui centro è pure la generosa curiosità per le svolte di senso che la psicoanalisi presenta a chi si inoltra nei suoi sentieri di sorpresa e inquietudine (il libro concede democraticamente spazio a entrambe). Questa disponibilità al non-noto, già familiare ai lettori di Civitarese, va anche qui a braccetto con la passione per la cura: intesa, quest’ultima, come processo volto ad accrescere le funzioni della mente che potranno col tempo sostenere tali aperture al nuovo. Non a caso il libro è dedicato ‘ai miei pazienti’, che nella toccante poesia-lista ‘Oggetti smarriti’ si vedono simbolicamente restituire parti di sé ‘dimenticate’ e a lungo depositate nella stanza d’analisi. Con la grazia discreta di questi versi Civitarese allude a uno dei compiti cardinali della cura analitica: porgere ai pazienti attraverso le parole – parole che finalmente possono prendere il posto di ‘oggetti’ concreti– quote di vita, potenziale e creatività smarrite o forse mai ancora rivendicate (tra i vari ‘lost and found’ c’è… un plettro!).

Civitarese e la leggerezza

Ciò che rende questo glossarietto diverso dai libri che lo hanno preceduto sono la struttura asistematica, spesso felicemente aforistica, e ancor più il tono, che meno impegnato dai vincoli della prosa scientifica scopriamo improntato a una calviniana leggerezza – una mobilità mentale che ben presto contagia il lettore. Come ricorda citando Valéry il Calvino delle Lezioni americane, la leggerezza a cui ha senso ambire non è quella della piuma, soggetta alla forza dei venti, ma la più solida virtù degli uccelli: non si tratta, cioè, di una qualità passiva, ma della libertà di chi ha imparato a portare il suo peso e per questo può guardarsi attorno, decidere, spiccare il volo. La luce insolita e amabile di questi flash di pensiero, che ben si prestano anche a una lettura rapsodica, ha in questa leggerezza il suo fil rouge.

 

 


Trasposizioni (2017) di Giuseppe Civitarese – L’introduzione

Trasposizioni glossarietto di psicoanalisi. la nuova opera di G. CivitareseFrammenti di vignette cliniche, oggetti enigmatici, progetti, pensieri randagi, immagini, appunti di letture, rêverie; ma anche postille a film e mostre, ricordi, episodi della vita quotidiana, sommari di lavori da scrivere, dubbi, ossessioni: questo è un libro di trasposizioni. Riflesse alla luce della mia identità di psicanalista, esse nascono tutte da momenti in cui ho avuto l’impressione di intuire qualcosa di problemi affiorati nel lavoro quotidiano o di punti oscuri ma appassionanti della teoria. Un tratto comune a queste piccole epifanie è dunque il rapporto intenso che li lega all’esperienza di vita. In esse brilla sempre un’emozione; che sia di divertimento, stupore, gratitudine, tristezza, gioia.

Piccole ma non per questo meno significative, almeno per chi scrive, e comunque abbastanza da desiderare di farne dei piccoli doni, xenia appunto, per gli ‘ospiti’ di queste pagine, per i lettori. Se hanno a che fare con la lente della psicoanalisi è perché per me essa non rappresenta solo una professione ma il modo che ho scelto nel lavoro per sentirmi più umano e reale, e insieme di accostare il mistero di cosa vuol dire essere umani, e quindi anche dell’umanità dell’altro. In fondo, in una ricerca che prosegue sempre anche sotto- traccia con un misto di ansia e piacere rivivono, come in ciascuno, i momenti di luce e di ombra della relazione con l’oggetto che per la prima volta ha creato per noi il mondo.

In seconda battuta questo è un libro di conversazioni immagina- rie con alcuni degli autori più amati. Se per fare una mente occorre un’altra mente, poi per tutta la vita qualcosa di nuovo può solo nascere da momenti e da incontri fortunati. Oltre ad alcuni analisti e filosofi pago il mio tributo alla presenza discreta e ispiratrice di Roland Barthes e alla sua passione per l’haikù e per la scrittura aforistica; una certa pratica dell’intertestualità sia in senso generale, tra discipline e campi diversi del sapere, sia specifico, tra modelli di- versi di psicoanalisi, e un’attenzione alla funzione della citazione mi vengono da un’innata curiosità e da un antico interesse per Walter Benjamin; riflessi di una poetica della leggerezza e della rapidità mi derivano invece da Italo Calvino.

Inaugurato durante un viaggio Milano–Seattle, questo taccuino è stato ispirato in parte da un libro di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività. Durante il volo di andata, mentre ne scorrevo le pagine belle e difficili, mi sono sorpreso a osservare le nuvole perché avevano preso la forma di una vasta distesa di ghiaccio inondata di una luce abbacinante ma, per uno strano fenomeno, come composta di tanti rettangoli separati da profonde e regolarissime scanalature, proprio come i campi arati e variopinti che si vedono quando si sta per atterrare. Mi sembrò un’allegoria di ciò che Agamben stava provando a fare dialogando a sua volta con Hegel e Heidegger: con il loro aiuto, a perimetrare i campi dell’indicibile e del negativo. Dopo pochi minuti la forma delle nuvole mutò in quella di tante ninfee, come disegnate da Monet, ma di ghiaccio, e galleggianti nell’immenso stagno del cielo. Campi, ninfee che non esistono se non nel linguaggio e nella stupefacente possibilità che esso ci dona di poter trasporre tutte le cose.

Per me la psicoanalisi è questa capacità di saper attendere, di sor- prendersi; di lavorare nel luogo dell’inconscio, per definizione un luogo di negatività, e di esercitare una forma di scetticismo dolce: dopotutto un modo dell’ospitalità. Il glossarietto esprime così il mio stile di analista e di persona nel curare la sofferenza psichica e fa intravedere l’immaginario che lo alimenta.

È dunque un glossarietto ‘apocrifo’ perché le voci sono scelte su una base personale e spesso sono ‘controcorrente’; e pertanto non corrispondono, se non per caso, a quelle ‘canoniche’. Infine, pur nella loro varietà, al lettore attento apparirà senz’altro chiaro che esse si dispongono come altrettante tessere di un unico mosaico – e d’altra parte non è la frammentazione una figura dell’andamento liberamente associativo dell’analisi? –. Difatti i vari lemmi sono tutti legati da alcuni, pochi, fili essenziali, il principale dei quali è l’accensione del mentale e del sentimento della bellezza nella relazione d’oggetto, in sostanza un’indagine sul senso dell’essere.

Relazioni sane e adattive: come i genitori possono favorire lo sviluppo delle abilità relazionali nei bambini

All’interno del contesto familiare, la qualità delle relazioni assume un ruolo fondamentale. Essa, non solo determina il benessere dei membri della famiglia stessa, ma è molto probabile che quei pattern relazionali vengano interiorizzati e, successivamente, riproposti dai propri figli nelle loro relazioni.

 

Dato che delle buone abilità comunicative e la presenza di supporto sociale rappresentano dei fattori di protezione fondamentali rispetto a varie forme di psicopatologia, e influenzano anche il grado di soddisfazione e benessere in vari ambiti della vita (ad esempio, quello professionale e sentimentale) è importante che i genitori monitorino il modo in cui si relazionano tra di loro e con i figli, al fine di permettere a questi ultimi di acquisire le abilità sociali di cui hanno bisogno.

In particolare, la teoria evolutiva dell’apprendimento e degli affetti di Benjamin (2003) mette in evidenza tre diversi processi attraverso cui si interiorizzano le prime esperienze interpersonali in funzione di un attaccamento sicuro o insicuro.

Questi processi sono:

  • Identificazione: trattare gli altri nello stesso modo in cui siamo stati trattati. Nella misura in cui un individuo si è identificato fortemente con le figure di accudimento precoci, esiste la tendenza a comportarsi verso gli altri in modi che emulano come si sono comportati i caregivers nei confronti dell’individuo in via di sviluppo.
  • Ricapitolazione: significa reagire come se l’altro interiorizzato fosse ancora presente e avesse il controllo. In questo caso, ad esempio, è probabile che l’input interpersonale sia elaborato in maniera distorta, così che l’altro prossimale, come un amico, è vissuto come simile all’altro interiorizzato, come una figura di accudimento.
  • Introiezione: definita come trattare il sé come si è stati trattati dalle figure di accudimento.

In uno studio, Mengya Xia e collaboratori, hanno osservato che gli adolescenti che hanno precedentemente riferito un clima familiare positivo, da giovani adulti tendevano ad avere migliori capacità di problem solving e relazioni romantiche più soddisfacenti, rispetto a quelli che da adolescenti avevano riferito un clima familiare negativo, caratterizzato da relazioni familiari conflittuali. In più, diverse ricerche hanno dimostrato che i giovani adulti che posseggono le abilità per formare e mantenere relazioni sane, tendono ad essere più soddisfatti della loro vita e ad essere genitori migliori.

Data l’importanza per i figli di acquisire, nel corso dello sviluppo, delle abilità interpersonali sane e adattive, i genitori dovrebbero, in prima battuta, essere in grado di comunicare in maniera assertiva, di regolare le proprie emozioni come la rabbia, di impiegare strategie di coping adattive nella risoluzione dei conflitti, ed infine, di aiutare i propri figli ad acquisire tali abilità fondamentali nel determinare la loro qualità di vita.

 

 

Stress genitoriale: i vissuti interni e le emozioni nei genitori di bambini affetti da varie forme di psicopatologia

La severità dei sintomi dei bambini affetti da differenti forme di psicopatolgia è risultata associata allo stress genitoriale in vari studi. Ciò che sembra incidere sul livello di stress percepito dai genitori sarebbero in parte i sintomi tipici e caratteristici del disturbo ma anche difficoltà nella comunicazione o nella relazione.

Chiara Arlanch – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Stress genitoriale: genitori di bambini con Ritardo Mentale

I genitori di bambini con Ritardo Mentale quotidianamente devono affrontare molte sfide a causa dei deficit di tipo cognitivo, motorio, medico o psicopatologico, che solitamente danno luogo a forti reazioni emotive e preoccupazioni. Il bambino solitamente può avere un aspetto diverso rispetto ai suoi coetanei e mette in atto comportamenti diversi. Il genitore deve gestire tutti gli aspetti della vita del figlio e iniziano presto le preoccupazioni nell’adulto sul futuro del bambino. La presenza di un figlio con Ritardo Mentale può causare difficoltà coniugali nella coppia genitoriale: spesso le madri diventano iperprotettive verso il figlio e concentrano tutte le proprie attenzioni sul bambino, mentre i padri tendono ad allontanarsi dal problema, sia fisicamente sia mentalmente. Frequenti sono i tassi di separazioni e divorzi nei casi di genitori di bambini con Ritardo Mentale (Bornstein, 2002).

Molti fattori influenzano, infatti, le reazioni emotive di genitori di bambini con Ritardo Mentale, tra i quali le caratteristiche dei genitori stessi. E’ importante lo stile con cui il genitore gestisce le situazioni problematiche; il genitore può adottare un tipo di stile orientato al problem-solving, pianificando come risolvere le difficoltà quotidiane, impegnandosi a fondo e traendo insegnamenti dagli errori. Altri genitori possono adottare uno stile improntato sulle emozioni, in cui solitamente l’adulto nega le reazioni emotive che possono esserci verso il figlio oppure al contrario si focalizza solo sull’emotività negativa. Il primo tipo di stile di gestione porta a comportamenti adattivi maggiori rispetto al secondo (Turnbull et al., 1993).

I diversi tipi di reazioni che possono essere presenti tra madre e padre possono influire sul benessere del genitore: da molti studi è emerso come le madri sperimentino maggiore stress e minore senso di controllo della situazione rispetto ai padri (Bristol et al., 1988). Le madri sembravano reagire maggiormente a stimoli specifici, mentre i padri sono più concentrati su aspetti pratici delle problematiche quotidiane, specialmente sui costi economici necessari per gestire il figlio (Price-Bonham & Addison, 1978).

Possono essere cruciali anche le caratteristiche del bambino con Ritardo Mentale sui tipi di reazioni dei genitori; può essere importante ad esempio l’età del bambino. Il genitore in media presenta forti reazioni negative dopo la nascita e la diagnosi del bambino; le madri sono più preoccupate per le acquisizioni dei primi anni del bambino, anche se la preoccupazione permane nel periodo prescolare. Le reazioni emotive nel genitore ricorrono per tutta l’infanzia del bambino, ma anche durante la pubertà e l’età adulta del figlio. La maggior parte degli studi supporta l’ipotesi per cui con il passare del tempo la famiglia si adatta meglio alla situazione e impara a coesistere e gestire meglio le problematiche, ciò nonostante le famiglie hanno notevoli problematiche e le madri riportano alti livelli di stress (Bornstein, 2002)

Un altro aspetto rilevante per le reazioni emotive di questi genitori possono essere ad esempio le caratteristiche della famiglia, come il supporto sociale percepito. Spesso le famiglie con un bambino con Ritardo Mentale si sentono più isolate, ricevendo scarso supporto formale e informale: è emerso che ricevono meno supporto informale, ma che l’aiuto sia più intensificato e provenga in modo maggiore da parte di una cerchia ristretta di familiari e amici fidati (Kazak & Marvin, 1984). Per quanto riguarda il supporto formale Wikler e collaboratori (1981) hanno notato che vi sono differenze di prospettiva tra le famiglie e i centri di supporto: mentre i genitori sperimentavano preoccupazioni sia nell’età infantile sia negli anni successive, nei centri si fornisce più aiuto nei primi anni di vita nel bambino, non sempre venendo incontro a tutte le esigenze dei genitori (Wikler et al., 1981).

Stress genitoriale: genitori di bambini affetti da Disturbi Pervasivi dello sviluppo

Dalla letteratura riguardante i genitori di bambini con Disturbi dello Spettro Autistico è emerso che molto spesso sono riportati alti livelli di stress, anche se non tutti i genitori di bambini con questo disturbo li riportano. Johnson e collaboratori hanno condotto uno studio nel 2011 riguardante lo stress genitoriale, il funzionamento e la qualità di vita legata alla salute in famiglie con bambini e ragazzi (dai 2 ai 18 anni) affetti da Disturbi dello Spettro Autistico. I genitori riportavano un alto tasso di stress, dato anche dalle decisioni che quotidianamente dovevano prendere nella gestione del figlio e delle sue problematiche; lo stress poteva essere causato da vari fattori, tra i quali la qualità di funzionamento della famiglia, la qualità di supporto e relazioni sociali e il tipo di aspettative dei genitori (Johnson et al., 2011).

Lo studio di Davis & Carter (2008) ha analizzato lo stress di madri e padri di bambini con autismo più piccoli (di età media di 27 mesi) e i genitori hanno dichiarato alti livelli di stress. I problemi nelle abilità sociali e relazionali dei figli erano associati allo stress e a problematiche nell’interazione col bambino. Lo stress materno era associato a difficoltà di regolazione del bambino, mentre lo stress del padre era più associato a problematiche comportamentali (Davis & Carter, 2008).

I genitori di bambini con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo solitamente hanno maggiori livelli di stress genitoriale in confronto ad altri genitori con bambini a sviluppo tipico, ma anche in confronto a genitori di bambini con altre disabilità. Vari studi hanno indagato lo stress genitoriale in famiglie con bambini con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, utilizzando ad esempio il Questionnaire on Resources and Stress (QRS) di Holroyd o il Parenting Stress Index-Short Form (PSI-SF) di Abidin: è emerso che le famiglie di bambini con disturbi dello spettro autistico erano più stressate di famiglie senza bambini con questi disturbi (Johnson et al., 2011).

La severità dei sintomi dei bambini è risultata associata allo stress genitoriale in vari studi. In genitori di bambini affetti da questo disturbo sono i sintomi tipici e caratteristici del Disturbo dello Spettro Autistico a creare alto stress. Bebko e collaboratori (1987) ha rilevato che i fattori più stressanti per questi genitori erano proprio dei sintomi strettamente connessi al disturbo, come le difficoltà di comunicazione o nella relazione (Bebko et al., 1987). Phetrasuwan (2003) tramite una scala costruita per valutare appositamente lo stress genitoriale di famiglie con bambini autistici (Parenting Stress Scale: Autism) ha evidenziato che a recare maggiore stress nelle madri erano i timori fuori luogo dei bambini e la loro difficoltà ad adattarsi a cambiamenti anche minimi (Phetrasuwan, 2003).

Oltre alla severità dei sintomi autistici anche altri comportamenti problematici di questi bambini possono essere fonte di stress. I problemi comportamentali del bambino sono associati ad alti livelli di stress genitoriale, più del ritardo evolutivo. Ad esempio Lecavalier e collaboratori (2006) hanno mostrato come specifici problemi comportamentali erano più predittivi di alto stress rispetto ai comportamenti adattivi (Lecavalier et al., 2006). Possono influenzare lo stress anche fattori positivi: lo studio di Beck e collaboratori (2004) ha dimostrato che sia i problemi comportamentali sia le limitate competenze (in termini di comportamenti prosociali) erano associati ad alti livelli di stress e i ricercatori hanno sottolineato l’importanza di analizzare il contributo di comportamenti positivi e problematici indipendentemente (Beck et al., 2004).

La ricerca di Koegel e collaboratori (1992) suggerisce che potrebbe esistere un profilo caratteristico relativamente costante in genitori di bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico: nello studio emergono infatti specifiche aree di difficoltà nel crescere un bambino con Disturbo dello Spettro Autistico (Koegel et al., 1992). Le differenze riscontrate rispetto a genitori di bambini a sviluppo tipico sono state preoccupazioni per il futuro del bambino, per la sua capacità cognitiva e la sua autonomia e per la sua integrazione nella comunità. Holroyd e MacArthur (1976) hanno confrontato madri di bambini con questo disturbo con madri di bambini con Sindrome di Down: le madri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico hanno affermato che i loro figli erano più dipendenti fisicamente da loro e meno autonomi (Holroyd & MacArthur, 1976).

La letteratura inoltre riporta che sembrano esserci delle aree specifiche di stress che possono aumentare lo stress genitoriale, ovvero delle situazioni che possono metterli in difficoltà, non solo in relazione alla severità dei sintomi del bambino. Lo studio di Koegel e collaboratori (1992) conferma che potrebbero esserci in queste famiglie delle restrizioni nelle opportunità e che questi genitori sono meno inclini a passare del tempo dedicandosi ad attività di piacere fuori casa, occupandosi maggiormente dell’accudimento del bambino all’interno delle mura domestiche (Koegel et al., 1992).

In letteratura è stato inoltre confrontato il livello di stress sperimentato da madri e padri e i risultati non sono univoci; alcuni studi riportano che le madri sperimentano in media maggior stress dei padri, come ad esempio due studi, che hanno valutato lo stress tramite il Questionnaire on Resources and Stress (QRS) (Herring et al., 2006). Queste evidenze sono state interpretate da molti come la conseguenza del ruolo più centrale assunto dalle mamme nell’accudire e seguire i bambini con Disturbo dello Spettro Autistico. Ricerche più recenti mostrano invece che lo stress sperimentato da madri e padri sia allo stesso livello, forse dovuto al fatto che con il passare del tempo i padri hanno sempre più assunto maggiori responsabilità nei confronti dei propri bambini con questo disturbo, con una più equa distribuzione dei compiti (Hastings et al., 2005).

La ricerca di Pottie e Ingram (2008) ha esaminato le strategie di gestione dello stress messe in atto da genitori di bambini con Disturbi dello Spettro Autistico, che hanno riportato il livello di stress quotidiano, le strategie di coping e il proprio tono dell’umore. I ricercatori distinguono i risultati in base agli effetti sull’umore positivo e su quello negativo. La ricerca ha evidenziato cinque tipi di risposte di coping (ovvero adottare strategie di problem-solving, ricerca di supporto sociale, attuare una riformulazione positiva, mettere in atto una regolazione emotiva, o una strategia di negoziazione o di ricerca di compromesso) che erano predittive di un aumento di tono dell’umore positivo. E’ inoltre emerso che quattro tipi di risposte (strategia di evitamento della situazione stressante, tentativo di distrarsi, strategia di allontanamento dagli altri e risposta di rassegnazione) portavano a un decremento di tono dell’umore positivo. La tipologia di sintomi presenti nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico e la distanza temporale dal momento dell’avvenuta diagnosi erano predittivi dell’umore quotidiano del genitore (Pottie & Ingram, 2008).

Stress genitoriale: genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento

I genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento hanno spesso molte fonti di stress quotidiane e la relazione genitore-bambino può essere influenzata negativamente in molti modi. I genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento infatti si preoccupano solitamente di come i loro figli si trovino a scuola, delle relazioni che instaurano con i pari e dei comportamenti problematici che i loro figli possono adottare. Questi genitori hanno alti livelli di stress, di frequente temono di non riuscire più a gestire i comportamenti dei figli e pensano che il problema del figlio sia diventato il centro delle proprie vite. La letteratura ha indicato maggiori livelli di stress per i genitori con bambini con Disturbi dell’Apprendimento rispetto ai genitori i cui bambini non hanno tale disturbo. Le madri di bambini con queste problematiche riportano minore soddisfazione in merito al loro ruolo genitoriale, al proprio rapporto di coppia e alti indici di divorzio. La ricerca ha messo in evidenza come questi genitori tendono a dare maggiori direttive e più riscontri negativi ai loro figli avendo uno stile più autoritario e meno supportivo. La letteratura ha inoltre evidenziato che sono presenti differenze tra madri e padri: questi ultimi in generale tendono a minimizzare l’entità del problema, percepiscono i figli con Disturbi dell’Apprendimento come meno problematici ed entrano meno in conflitto con loro, mentre le madri sperimentano più difficoltà nella disciplina e sono più stressate (Barkley et al., 1992).

In presenza di questi molteplici aspetti i genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento si sentono solitamente soli, isolati e viene loro a mancare il supporto sociale di cui necessitano. Per questi genitori è importante ricevere comprensione empatica e accettazione da parte degli altri; ciò potrebbe aumentarne l’autostima e l’autoefficacia e ridurre il senso di colpa e la delusione sperimentati (Seligman, 1993).

Stress genitoriale: genitori di bambini con Disturbo da deficit di Attenzione/Iperattività

Nei bambini con ADHD sono frequenti scarsi risultati scolastici e inadeguato impegno nei compiti che sono interpretati dagli adulti come sintomo di pigrizia, scarsa responsabilità o opposizione. All’interno delle loro famiglie vi sono spesso conflitti, risentimenti e antagonismo: il fatto che i sintomi del bambino siano così vari fa credere al genitore che vi sia volontarietà alla base delle sue azioni. Il genitore è spesso in constante litigio col bambino, si creano così interazioni negative (American Psychiatric Association, 2000).

Lo studio di Johnston e Freeman (1997) ha indagato le attribuzioni e reazioni di genitori di bambini con ADHD di fronte a comportamenti di inattenzione, iperattività, opposizione e prosociali. E’ emerso che i genitori di bambini con questo disturbo percepivano i comportamenti di disattenzione, iperattività e opposizione come causati dall’interno e meno controllabili dal bambino; tendevano a vederli più stabili e a reagire in modo peggiore. Per quanto riguarda i comportamenti prosociali, questi genitori ne percepivano la causa come meno interna e meno stabile (Johnston & Freeman, 1997). I genitori di bambini con ADHD sperimentano maggiore stress rispetto ai genitori di bambini senza questo disturbo, inoltre percepiscono minore senso di efficacia ed è frequente in queste famiglie un alto tasso di conflitti coniugali, separazioni o divorzi (Sethi, 2012).

Mash e Johnston (1983) hanno confrontato genitori di bambini con ADHD e genitori di bambini a sviluppo tipico: i primi riportavano minore autostima e più alti livelli di stress genitoriale associati alle caratteristiche del bambino e a propri sentimenti di isolamento sociale e senso di colpa. I genitori di bambini con ADHD percepivano i propri figli come maggiormente problematici, ma percepivano anche di non avere delle buone competenze genitoriali. Emerge anche che l’autostima genitoriale delle madri è correlata alla percezione dei padri del proprio figlio come un bambino difficile. La maggiore fonte di stress è data dalle caratteristiche del bambino, in particolare dalla sua iperattività e distraibilità; le correlazioni tra lo stress riportato da madri e padri e le percezioni del figlio come un bambino difficile di madri e padri erano alte (Mash & Johnston, 1983).

Spesso la madre di un bambino con ADHD fa la scelta di lasciare la propria attività professionale per dedicarsi completamente alla gestione del figlio e della casa. Lo studio di Kvist e collaboratori (2011) mostra come i genitori di bambini con ADHD hanno una probabilità del 75% più alta di porre fine al proprio matrimonio e hanno in media meno opportunità lavorative. Il genitore deve affrontare il fatto che il bambino necessita di una gran quantità di tempo rispetto ad altri bambini; l’adulto deve essere spesso presente e guidare il bambino nelle varie attività quotidiane. Può essere problematico anche far svolgere a figlio semplici compiti come andare a dormire, prepararlo per andare a scuola, farlo mangiare o fargli fare i compiti. Nel genitore è frequente la frustrazione; si crea spesso un circolo vizioso di conflitti all’interno della coppia e incoerenze educative (Kvist, Nielsen & Simonsen, 2011).

I comportamenti del bambino sono spesso percepiti come fastidiosi e stressanti e suscitano nel genitore, che impartisce forme più severe di punizione, reazioni forti. Le madri di bambini con ADHD hanno interazioni meno positive, più stressanti e insoddisfacenti con i propri figli rispetto alle madri di bambini con sviluppo tipico. Per questi genitori avere un figlio con queste problematiche può essere fonte di stress, di bassa autostima e può modificare la percezione del genitore del proprio ruolo genitoriale, delle caratteristiche del bambino e del tipo d’interazione genitore-figlio (Mash & Johnston, 1983).

Stress genitoriale: genitori di bambini con problematiche emotive

I genitori di bambini con difficoltà emotive possono sperimentare numerose problematiche quotidiane, nel tentativo di assistere i figli a gestire i sentimenti negativi: essi dovrebbero infatti essere di supporto e tentare di insegnare loro strategie di gestione dell’emotività. I genitori di questi bambini variano molto nelle loro reazioni e possono essere supportivi o non supportivi: nel primo caso il genitore invita il bambino ad aprirsi e ad esprimere le proprie emozioni, aiutandolo a comprenderle e gestirle, mentre nel secondo caso il genitore tende a ridurre l’espressione di emozioni negative del bambino, facendogli capire di non apprezzare tale manifestazione o punendo il bambino. Un atteggiamento più di supporto da parte del genitore può influenzare positivamente la competenza emotiva e sociale del bambino, favorendo la comprensione delle emozioni e i rapporti sociali. Al contrario una reazione non supportiva del genitore può peggiorare le problematiche emotive del bambino, che non sente di avere la possibilità di esprimere le proprie emozioni negative. I padri nelle loro reazioni all’emotività negativa dei figli sono meno supportivi delle madri (Eisenberg et al., 1996).

Lo studio di Valiente e collaboratori (2007) ha mostrato che il tipo di reazioni che i genitori attuano nei confronti di manifestazioni di emotività negativa dei loro bambini influenza il livello di stress legato al ruolo genitoriale (Valiente et al., 2007). Nelson e collaboratori hanno inoltre evidenziato che lo stress della famiglia è associato al modo in cui i genitori interagiscono col bambino: più stress genitoriale sperimentano, meno supportive sono le reazioni e più usano metodi non supportivi per insegnare al bambino come esprimere i sentimenti (Nelson et al., 2009).

Conclusioni

In varie ricerche sembra essere emersa una maggiore vulnerabilità e stress in genitori di bambini affetti da questi tipi di patologie, rispetto ai genitori di bambini con sviluppo tipico. I genitori di bambini affetti da ognuno di questi disturbi presentano problematiche specifiche, che spesso emergono dalle ricerche, anche se la letteratura sembra essere più vasta su alcuni disturbi rispetto ad altri, in cui sarebbero utili ulteriori approfondimenti. In generali le madri sembrano presentare spesso maggiori livelli di stress e indici psicopatologici. Come sottolineato in letteratura in queste donne è frequente la presenza di stress, depressione ed altri sintomi; assillate dalle preoccupazioni e assorbite dall’organizzazione e gestione della vita del bambino, spesso trascurano se stesse e il proprio rapporto di coppia per concentrarsi soprattutto sulle esigenze del figlio.

Osservare i punti di debolezza nei genitori può essere un punto di partenza per comprendere le problematiche e il vissuto da essi riscontrati, con la speranza di poter prevedere forme di aiuto e sostegno che ne migliorino la qualità di vita.

Fidarsi dei pazienti (2016) di F. Gazzillo – Recensione di Giancarlo Dimaggio

Fidarsi dei pazienti di Francesco Gazzillo è, semplicemente, un libro che i terapeuti devono tenere sul comodino. Leggerlo. Rileggerlo. Impararlo. Applicarlo.

 

Se vogliamo curare i pazienti la nostra formulazione del caso deve essere di un’accuratezza finissima. Per arrivarci abbiamo bisogno di teorie adeguate, grazie alle quali ascolteremo i pazienti e riorganizzeremo il loro discorso in un modo che li farà sentire visti, accettati, capiti e accompagnati verso la salute, la rottura delle catene mentali che vincolano alla sofferenza.

E ci servono libri che ci spieghino il processo relazionale in terapia, quello che accade tra paziente e terapeuta. Libri che ci mostrino, senza oscurantismi, linguaggio iniziatico, idee strampalate, che il modo in cui il clinico si relaziona al paziente ha un impatto potenzialmente utilissimo sul suo funzionamento.

Fidarsi dei pazienti di Francesco Gazzillo è, semplicemente, un libro che i terapeuti devono tenere sul comodino. Leggerlo. Rileggerlo. Impararlo. Applicarlo.

Perché illustra una delle teorie più utili clinicamente che possiate trovare, la Control Mastery Theory. Sviluppata negli anni ’80 dagli psicoanalisti Joseph Weiss e Harold Sampson, ha una capacità ineguagliabile di spiegare la componente relazionale del processo di cura. La concettualizzazione del caso è formulata esattamente come voglio: chiara, affilata e soprattutto alla luce di una psicologia della salute.

Qual è l’idea? Che i pazienti siano motivati da desideri e spinte sani, funzionali, adattivi. Ma che covino una serie di credenze patogene su come gli altri risponderanno alle loro proposte relazionali. A causa di queste risposte reagiscono in una serie di modi: compiacendo, ribellandosi, estremizzando i comportamenti opposti, reprimendo i desideri sani. E a quel punto si fregano la possibilità di realizzare i propri desideri. Si tratta di credenze che i pazienti possono coltivare in piena coscienza, ma più spesso si tratta di automatismi, procedure relazionali inconsce, agite senza consapevolezza.

Più in dettaglio, l’idea è che ogni relazione interpersonale sia una specie di test. Come dice con chiarezza Gazzillo:

In tutto ciò che facciamo nelle nostre relazioni più o meno intime, e dunque anche in terapia, ci può essere almeno una dimensione di test… visto che vogliamo sentirci al sicuro per realizzare i nostri obiettivi e disconfermare le nostre credenze patogene, ogni volta che ci rapportiamo a un’altra persona facciamo tutto questo e stiamo attenti a vedere se e quanto la risposta dell’altro è in linea con i nostri bisogni (p. 34).

La teoria della cura, almeno per quanto riguarda la relazione terapeutica ha la stessa disarmante chiarezza. Il paziente testerà il terapeuta per vedere se quest’ultimo confermerà le sue credenze patogene o agirà disconfermandole e così facendo lo renderà libero di perseguire il suo desiderio sano con sicurezza e libertà. Grazie a questa teoria, e alle tante vignette cliniche che Gazzillo utilizza per illustrarla, il terapeuta, di qualunque orientamento sia, apprende strumenti per ragionare su come comportarsi quando il paziente lo critica, adotta comportamenti a rischio, salta le sedute, chiede un parere. Insomma, fa ragionare in un modo semplice, lucido e sensato sulla relazione di transfert.

Il clinico esce dal libro e ha capito una cosa: che deve essere di parte. Sapere riconoscere qual è il piano sano, adattivo, il desiderio che il paziente persegue. E supportarlo, validarlo, fare capire con le parole e con le azioni che lo sostiene. In questo modo il terapeuta si scolla di dosso le attribuzioni schema-dipendenti che il paziente gli aveva affibbiato e permette al paziente stesso di vivere le relazioni con un senso di curiosità, scoperta e libertà.

Se non sono stato abbastanza chiaro: un volume del genere ha la stessa importanza degli scritti di Safran e Muran sulla relazione terapeutica e sulla rottura e riparazione dell’ alleanza. Ora sono stato abbastanza chiaro.

Qualche nota personale

A metà degli anni ’90 Joseph Weiss tenne un seminario all’Associazione di Psicologia Cognitiva. Erano presenti cognitivisti e psicoanalisti e quel giorno nessuno era interessato alla scuola di appartenenza. Weiss parlava un linguaggio che veniva fuori pari pari da Piani e strutture del comportamento di Miller, Galanter e Pribram. Lui non lo sapeva, i cognitivisti sì. Lì cognitivismo e psicoanalisi andavano a braccetto.

Qualche anno fa presentavo qualcosa, credo sotto l’ala della scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università La Sapienza. Durante il mio intervento parlai di una mia paziente, mi pare di ricordare fosse narcisista. Francesco Gazzillo faceva da discussant. Fece vari interventi. A un certo punto gli chiesi se avesse conosciuto la paziente perché mi stava dicendo cose su di lei che io non avevo detto! Ed erano tutte giuste. Per fare osservazioni come quelle ci vogliono intelligenza e acume clinico. E una teoria solida come la roccia. Intelligenza e acume clinico sono qualità personali. La teoria solida come una roccia era la Control Mastery Theory.

Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi (2017) di C. Jesurum – Recensione del libro

Nel libro Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi, la psicoanalista e psicoterapeuta Costanza Jesurum affronta una questione importante: come orientarsi nel vasto panorama della psicologia, delle psicoterapie e degli orientamenti teorici che le contraddistinguono?

 

Una domanda che caratterizza sia la ricerca di chi per la prima volta si orienta verso un percorso terapeutico, ma che interessa anche chi lo ha già intrapreso e sta sviluppando una curiosità verso il mondo della psicologia e della psicoterapia.

In Dentro e fuori la stanza l’autrice ripercorre alcune delle domande più frequenti dei non addetti ai lavori, rendendo maneggevoli al lettore alcuni aspetti non sempre di facile comprensione, anche in ragione dell’immagine pubblica frammentata che le psicoterapie contribuiscono a creare nel loro essere scarsamente comunicanti e a volte in competizione l’una con l’altra.

Come nasce la figura dello psicologo? Quali differenze si possono riscontrare rispetto ad altre figure sanitarie che si occupano di salute mentale, come ad esempio lo psichiatra? Quali informazioni sarebbe necessario raccogliere rispetto alla formazione del professionista a cui ci si affida? Funziona la psicoterapia? Che cosa permette di raggiungere un cambiamento?

Costanza Jesurum utilizza le evidenze scientifiche sull’efficacia delle psicoterapie per rispondere al dubbio che accompagna fin dalle prime battute l’avvio di un percorso terapeutico e la possibilità di costruire un’alleanza di lavoro produttiva: le diverse ricerche nell’ambito hanno dimostrato che la psicoterapia produce benefici, e la validità terapeutica è rappresentata secondo la sua definizione dalla “possibilità di costruire un orizzonte di senso, con un nuovo vocabolario e una nuova sintassi per parlare della propria vita, e per dare nome alle proprie scelte”.

Dentro e fuori la stanza: cosa chiede lo psicoterapeuta? Perchè?

Affrontate queste incertezze, l’autrice di Dentro e fuori la stanza ci propone un’analisi delle strane richieste che gli psicoterapeuti fanno ai propri pazienti all’inizio e durante il percorso. Sviscera quegli aspetti che più facilmente possono suscitare molte perplessità sia dentro che fuori dalla stanza di cura come la questione del pagamento delle sedute, la definizione della frequenza degli incontri, gli accordi rispetto a quelli saltati, la durata e l’invio di un proprio famigliare.

Sembra così che Costanza Jesurum sia ben riuscita nel suo proposito di fare un po’ di ordine nella confusione di tanti pazienti e di amici e famigliari degli stessi.

[blockquote style=”1″]ho provato a fornire le risposte alle domande che più spesso mi sono state poste, cercando di includere, per quanto mi fosse possibile, anche sguardi teorici e approcci da me più lontani, e nel pensare a queste risposte ho messo insieme cosa possiamo avere in comune noi terapeuti di diverse scuole[/blockquote]

In questo senso, di Dentro e fuori la stanza colpisce quanto, fornendo risposte chiare e mai semplificate, il lettore possa riuscire ad integrare con successo quella visione spesso troppo caleidoscopica della psicologia e delle psicoterapie.

Soldi e matrimonio fanno la felicità? Come lo status economico e civile influenza il benessere psicologico

Soldi, felicità e..matrimonio: è questa la combinazione perfetta? Il benessere psicologico delle persone varia in base allo status economico e civile? Il matrimonio fa bene alla salute?

 

Uno studio condotto in America ha verificato come le coppie sposate che guadagnano meno di 60.000 dollari all’anno a coppia (all’incirca 50.000 euro – tale cifra è da intendersi all’interno del contesto in cui lo studio è avvenuto, ovvero quello americano, in cui, il costo della vita è più alto rispetto a quello del contesto italiano) hanno meno sintomi depressivi rispetto a coloro che non sono sposati e che guadagnano la stessa cifra da soli. Un ulteriore dato emerso dallo studio mostra come le coppie che guadagnano cifre superiori a 60.000 dollari non mostrano lo stesso stato di benessere mentale delle coppie con reddito inferiore a questo.

Soldi, felicità e.. risorse coniugali

Il presupposto teorico dell’analisi condotta dai ricercatori, dott. Carlson e dott. Lennox Kail della Georgia State University, è il modello delle risorse coniugali. Secondo tale modello il matrimonio fornisce risorse sociali, psicologiche ed economiche capaci di promuovere il benessere dei coniugi. La salute conseguente al matrimonio può esser dovuta ad un aumento delle risorse economiche grazie alla messa in comune della ricchezza e di conseguenza questo può condurre ad un maggiore benessere dovuto ad un miglioramento della nutrizione, dell’opportunità di cure mediche e all’accesso ad altre risorse utili a migliorare la salute (Ross, Mirowsly e Goldsteen, 1990).

Il presente studio è recentemente stato condotto presso la Georgia State University, basandosi sui dati del Changing Lives Survey degli americani, un’indagine nazionale longitudinale composta da interviste con 3.617 adulti negli Stati Uniti di età compresa tra 24 e 89 anni. La Changing Lives Survey indaga differenti elementi, tra cui aspetti sociologici, psicologici, mentali e fisici.

Il ricercatore principale dello studio, il dott. Ben Lennox Kail, ha analizzato i dati emersi dalla survey creando dei gruppi in base allo stato civile:

[blockquote style=”1″]Abbiamo esaminato le interrelazioni tra matrimonio, reddito e depressione, e ciò che abbiamo scoperto è che il beneficio del matrimonio sulla depressione è fruibile dalle persone con livelli di reddito medio o basso[/blockquote].

Dallo studio emerge, dunque, che le persone sposate e con reddito medio-basso sperimentano meno sintomi di depressione (riferendosi gli sperimentatori a livelli di depressione subclinica, i quali seppur non clinicamente rilevanti, impattano sulla salute e sulla felicità del soggetto).

Il dato più rilevante emerso è che non è il matrimonio di per sé ad essere associato alla riduzione di sintomi depressivi, ma l’esito di benessere è concausato sia dallo status civile sia da quello economico.

I ricercatori hanno ipotizzato che tali risultati dipendano dal fatto che coloro il cui reddito personale o di coppia è alto hanno già abbastanza risorse sulle quali investire per la propria felicità. Per quanto riguarda, invece, coloro il cui reddito è medio-basso, il matrimonio di per sé rappresenta un senso di sicurezza finanziaria, dettato dalla probabile messa in comune delle risorse coniugali.

Madre e bambino: qual è il loro legame? Ce lo dice un nuovo strumento: l’ NVA

Le interazioni tra madre e bimbo oggi possono essere studiate attraverso un nuovo strumento, il Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction- NVA.

 

Nel corso degli ultimi trent’anni sono stati messi a punto diversi strumenti per l’osservazione strutturata delle interazioni diadiche. La maggior parte di esse erano finalizzate alla descrizione e valutazione della sensibilità materna nel contesto della relazione madre-bimbo nel corso della prima infanzia (Cassibba & van Ijzendoorn, 2005).

L’utilizzo della videoregistrazione ha dato un grande contributo al miglioramento delle tecniche osservative e ha permesso la creazione di strumenti finalizzati a una sempre maggior correttezza nella valutazione. Ha anche dimostrato il suo grado di efficacia, non solo nell’ambito di ricerca, ma anche in ambito clinico nell’osservazione, nella diagnosi e nel trattamento delle problematiche infantili inscrivibili nei disturbi della relazione e dell’ attaccamento (Ainsworth et al., 1978; Riva Crugnola, 2007).

Un limite di questi strumenti riguarda la difficoltà di interpretazione delle categorie e delle dimensioni di valutazione che tendono a essere piuttosto ampie e globali, difficilmente fruibili in assenza di un’ampia esperienza clinica da parte di chi li utilizza.

Come viene osservato il legame madre e bimbo attraverso l’NVA?

Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction- NVA è uno strumento per l’osservazione strutturata, la valutazione e la codifica di sequenze videoregistrate di interazioni tra il caregiver e il bimbo nei primi tre anni di vita, dove per caregiver si può intendere anche un educatore, un terapista o un insegnante.

La struttura della codifica NVA permette all’osservatore di valutare separatamente i comportamenti dell’adulto e quelli del bimbo, ponendoli sempre in relazione tra loro.

In questa prospettiva il Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction-NVA (Moioli, 2008; Moioli et al., 2010, 2014) si propone di integrare gli aspetti informativi presenti nelle scale già esistenti in letteratura, fornendo

  • categorie comportamentali (livello microanalitico) maggiormente specifiche e descrittive, più facilmente rilevabili per operatori che lavorano nell’ambito dell’osservazione infantile
  • sette tipologie qualitativamente corrispondenti (livello macroanalitico) con le quali definire la modalità interazionale del genitore e del bambino, una volta rilevate le dimensioni comportamentali microanalitiche

La tecnica di rilevazione e codifica dei comportamenti prevede la ricerca di corrispondenza fra ciò che si osserva e un’ampia varietà di risposte pre-organizzate, a loro volta classificate nelle sette dimensioni categoriali o aree di valutazione:

  1. lo sguardo
  2. la mimica facciale e azioni del viso
  3. i gesti delle mani e delle braccia
  4. la postura corporea, l’uso del corpo e dello spazio
  5. l’uso della voce
  6. l’uso delle parole (dai 12 mesi)
  7. l’uso degli oggetti e del gioco (playing tool) – il momento del pasto (feeding tool)

All’interno di ciascuna area si individuano i comportamenti suddivisi e organizzati a loro volta in tre categorie di “avvicinamento” e tre di “allontanamento” dallo stile relazionale centrale: stile “sensibile” per l’adulto e stile “partecipativo” per il bambino.

NVA è strutturato in modo da collocare al centro le modalità interazionali adeguate, che considerate insieme presentano una doppia polarità negativa: se uno dei 2 (madre o bimbo) va nella direzione della presa di distanza, l’altro va verso l’avvicinamento eccessivo e l’intrusività. I punteggi ottenuti sulla base delle osservazioni rilevate permettono di fare delle riflessioni sia a livello categoriale (per es. categoria con un punteggio più alto o più basso), sia a livello dimensionale, andando a descrivere il profilo specifico di caregiver e bambino.

Legame madre e bimbo: le informazioni offerte da NVA per la gestione diagnostica e terapeutica

NVA offre agli operatori due diversi tipi di valutazione:

  • “NVA Playing tool” per la codifica delle interazioni di gioco
  • “NVA feeding tool” per la codifica delle interazioni tra caregiver e bambino durante il momento del pasto dalla fase dello svezzamento in poi (Moioli, 2017).

Dalla codifica emergono due profili:

  • Il primo profilo è basato sulle frequenze con le quali si presenta uno stile di comportamento ed è visualizzato a livello grafico-quantitativo ponendo a confronto i comportamenti di entrambi i soggetti dell’interazione.

Legame madre-bambino: da oggi è possibile codificarlo con l'NVA- Immagine 1

 

  • Il secondo profilo permette di confrontare gli stili di interazione di caregiver e bambino rispetto alle soglie di rischio e grave rischio di comportamenti problematici differenziati nelle varie aree.

Legame madre-bambino: da oggi è possibile codificarlo con l'NVA - Immagine 2

Un ulteriore vantaggio di questo sistema è rappresentato dalla possibilità di ottenere valori descrittivi per le diverse dimensioni categoriali mettendo in luce quali sono gli eventuali punti di forza o di debolezza della diade.

Lo schema di codifica si pone dunque come uno strumento in linea con la letteratura esistente, in grado di coniugare un’osservazione maggiormente microanalitica basata sulla rilevazione di specifici comportamenti con la possibilità di ottenere informazioni globali e dimensionali sulla coppia genitore-bambino. In particolare, consente di focalizzare in modo dettagliato i punti critici e le risorse delle modalità di interazione materna e di risposta del bambino, mostrandosi particolarmente utile nell’ambito dei progetti di intervento o di screening precoce del rischio.

Questo nuovo sistema di codifica delle interazioni soddisfa pertanto il bisogno di trovare una sintesi capace di restituire al clinico delle indicazioni sempre più dettagliate e precise su come “stanno insieme” genitore e bambino (Stern, 1995).

Le informazioni raccolte dall’analisi codificata delle interazioni consentono una restituzione al genitore o all’adulto precisa ed efficace supportando la tecnica del video feedback (revisione condivisa e commentata del video dell’interazione stessa al genitore).

NVA è uno strumento appositamente pensato e studiato per poter essere utilizzato da operatori sanitari anche non medici e la tecnica proposta ha lo scopo di ridurre al minino il rischio di interpretazione dell’interazione.

Legame madre bimbo: NVA e altri strumenti a confronto

A differenza di altri metodi di classificazione delle interazioni (Biringen, 2008; Crittenden, 1998) il sistema di codifica NVA centra l’attenzione sull’effetto che le azioni dell’uno hanno sull’altro, su ciò che è visibile. Delle 7 categorie definite sia per il bambino sia per l’adulto, ne definiamo una centrale che include i comportamenti di una coppia genitore-bimbo funzionante dove si osserva che i due condividono in pieno lo stesso progetto di gioco con un piacere condiviso.

Da questa categoria centrale (adulto “sensibile” e bambino “partecipativo”) si distanziano con intensità crescente tre categorie che descrivono comportamenti di “avvicinamento” (controllante, intrusivo/reattivo e aggressivo/violento) e tre categorie che descrivono comportamenti di “allontanamento” (collaborante, passivo e espulsivo/escludente).

Recenti applicazioni dello strumento hanno messo in evidenza il contributo che l’analisi codificata delle interazioni adulto-bambino ha apportato in ambito di prevenzione e di sostegno della genitorialità in condizioni di rischio, ad esempio depressione post-partum e genitorialità in adolescenza (Ierardi et al., 2018; Moioli et al., 2016; Riva Crugnola et al., 2009) e non rischio come i percorsi post-partum di accompagnamento alla crescita (Riva Crugnola, 2007; Vigorelli, 2005).

Ulteriori contributi riguardano la valutazione diagnostica e la programmazione terapeutica di bambini della fascia 0-3 con ritardo del linguaggio, sospetto spettro autistico, mutismo selettivo, sospetta iperattività, difficoltà nella gestione del momento del pasto (Caiati et al., 2016; Dosi et al., 2017; Moioli, 2014; Silvano et al., 2018). Alcuni studi sono stati effettuati anche per comprendere e migliorare l’intervento di terapia neuropsicomotoria nelle interazioni madre – bimbo nel caso di bambini con Sindrome di Down e nascita pretermine (Broggi et al., 2014).

Inoltre la compilazione condivisa della codifica NVA permette di affinare le riflessioni dell’equipe multidisciplinare nelle supervisioni di casi clinici.

Prospettive future per l’NVA

La definizione multidimensionale dello strumento fornisce al clinico e al ricercatore la possibilità di cogliere diversi profili funzionali relativi alla diade genitore-bambino o adulto-bambino.

Gli ambiti di applicazione coinvolgono lo screening precoce, la definizione diagnostica, la pianificazione dell’intervento terapeutico e la valutazione della sua efficacia. Significativo può essere inoltre l’apporto del NVA nel dibattito scientifico sul ruolo della sensibilità diadica nel processo di trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento (van Ijzendoorn & Bakermans-Kranenburg, 2018; Zimmermann, 1999).

Le nuove droghe: i catinoni sintetici, dal mefedrone alla flakka – Introduzione alla psicologia

Tra le nuove droghe, sempre più di frequente, si sente parlare dei catinoni sintetici, tra cui troviamo anche mefedrone e flakka, ovvero delle molecole ottenute in laboratorio note anche come sali da bagno, appartenenti al gruppo delle designer drugs.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Si tratta di sostanze che determinano una forte sensazione di eccitazione, comunemente chiamata “sballo”. La particolarità di queste droghe, però, è quella di avere un’azione analoga a quella del catinone naturale, molecola ottenuta dalla pianta del Khat.

I catinoni sintetici agiscono a livello del sistema nervoso centrale, determinando una forte sensazione di eccitazione. Da qualche tempo i catinoni sono diventati un vero e proprio fenomeno sociale, anche in Italia.

Tra i catinoni sintetici, il più importante e maggiormente utilizzato, è il mefedrone, nome in gergo Mafalda, che emula il meccanismo d’azione del catinone naturale. Oltre a questo esistono tanti altri catinoni sintetici, come: il pentedrone cloridrato, il metilone cloridrato e altre varietà di scarsa qualità che non causano effetti particolarmente duraturi ed eccitanti.

Meccanismo d’azione

I catinoni agiscono al livello sinaptico della noradrenalina, della dopamina e della serotonina, stimolando il rilascio di questi neurotrasmettitori.

Il mefedrone, inoltre, è due volte più potente del metilone come transporter di substrato, poiché aumenta maggiormente i livelli extracellulari di dopamina e serotonina, similmente a quanto causato dall’MDMA. Il potenziamento della trasmissione dopaminergica fa presupporre un elevato potenziale di abuso. Al pari di quanto avviene con l’MDMA, inoltre, la ripetuta somministrazione di dosi elevate causa deplezione del patrimonio cerebrale di serotonina, dipendenza e assuefazione.

Storia

Il primo catinone ad essere sintetizzato è stato il mefedrone, nel 1929 in Francia. La sostanza è apparsa sul mercato illegale nel 2003, ad opera di uno sperimentatore noto con il nickname di Dr. Zee che l’ha pubblicizzato sul sito internet The Hive. La prima significativa diffusione del mefedrone è avvenuta in Inghilterra e in Olanda, in concomitanza con la riduzione della disponibilità di MDMA sul mercato illegale. Il mefedrone è circolato legalmente in molti stati europei prima di essere inserito nella tabella delle legislazioni nazionali sugli stupefacenti. Inoltre, era usato anche come sostanza per esperimenti o come fertilizzante per piante, prima di essere dichiarato illegale.

Sintesi e produzione

La sintesi del mefedrone e degli altri catinoni sintetici è relativamente semplice ed è simile a quella dell’MDMA. Esso è sintetizzato soprattutto in estremo Oriente, Cina, Birmania ed India, ma sono stati scoperti laboratori clandestini anche in Italia.

Il mefedrone, generalmente, si presenta in forma di polvere bianca o chiara, eccezionalmente in forma di compresse.

Modalità di assunzione

Il mefedrone e gli altri catinoni sintetici possono essere assunti per via orale, per via intranasale o sniffati, per insufflazione, e possono essere iniettati per via intramuscolare o endovenosa. Il dosaggio del mefedrone varia a seconda da come è assunto.

Effetti e dosaggio del mefedrone e dei catinoni sintetici

Gli effetti del mefedrone e degli altri catinoni sintetici sono spesso indicati come simili a quelli dell’MDMA e della cocaina. In verità si tratta di un’interpretazione non del tutto veritiera, malgrado vi siano catinoni in grado di rimandare agli effetti dell’MDMA, come il metilone. In ogni caso, sono sostanze dotate più di un effetto stimolante che enctatogeno.

Il mefedrone presenta una composizione chimica diversa da quella dell’MDMA e manifesta i suoi effetti prima di quelli dell’ecstasy, ovvero dopo solo 15 minuti e li esaurisce più rapidamente. Per questo, l’assunzione di mefedrone per via intranasale presenta un rischio di abuso maggiore e ancor più l’assunzione per via endovenosa. Generalmente, si sente bisogno di assumere una nuova dose già dopo 45-120 minuti, in relazione alla rapidità di insorgenza dell’effetto.

Come per le altre droghe, gli effetti del mefedrone sugli esseri umani possono essere distinti in:

  • Positivi: euforia, elevazione del tono dell’umore, stimolazione fisica e mentale, sensazione di empatia e di apertura, maggiore tendenza alla socializzazione e desiderio di parlare con altri, rapida salita, vissuta come gradevole. Sono necessari tra i 15-40 minuti per il massimo effetto a stomaco vuoto;
  • Neutri: modificazioni generiche dello stato di coscienza, riduzione dell’appetito, midriasi, vampate di calore, tremori, pelle d’oca, sensazione di energia, alterazioni della temperatura corporea, sudorazione, tachicardia ed aumento della pressione arteriosa;
  • Negativi: forte desiderio di una nuova dose, per vivere nuovamente il piacere della salita veloce dell’euforia, cambiamenti sgradevoli nella temperatura corporea, sudorazione e brividi, palpitazioni, sensazione soggettiva di tachicardia, riduzione della memoria recente, insonnia, trisma (contrazione dolorosa dei muscoli della mascella), bruxismo (drighignamento dei denti), contrazioni muscolari improvvise, nistagmo (movimenti involontari laterali degli occhi), vertigini ed altri disturbi dell’equilibrio, in casi estremi vasocostrizione severa che richiede trattamento farmacologico. Ovviamente, gli effetti negativi sono amplificati dall’assunzione contemporanea di alcol o altre sostanze.

Le reazioni psicotiche associate all’uso di mefedrone insorgono più frequentemente nella pratica dello slamming, assunzione endovenosa in corso di chemsex. In qualche caso queste manifestazioni mentali possono essere severe e richiedere lunghe ospedalizzazioni e alcune ulteriori settimane per la totale remissione dei sintomi. Oltre al delirio di persecuzione, possono essere presenti aggressività, allucinazioni e grave stato di agitazione.

Nei casi di intossicazione più gravi, possono comparire convulsioni, iponatremia, ipertermia, rabdomiolisi (con possibile evoluzione in insufficienza renale acuta), coagulazione intravascolare disseminata ed insufficienza epatica acuta, che possono condurre al decesso.

La flakka: nuova moda nel mondo della droga

Una delle droghe correlate ai catinoni è sicuramente la flakka. Un nome che da qualche tempo finisce sempre più abitualmente sui giornali per via delle notizie che arrivano soprattutto dall’America. I cristalli di flakka sono utilizzati nei paesi americani da tantissimi giovani e gli effetti sono molto importanti. Si tratta di cristalli che possono essere utilizzati in vario modo: sia per via endovenosa sia sniffati, oltre che fumati o strofinati leggermente a livello dei bulbi oculari.

Gli effetti della flakka sono importanti e talvolta impressionanti per un essere umano. Notizie provenienti dall’America parlano sempre più frequentemente di tossicodipendenti che in seguito all’assunzione di flakka sviluppano una forza fisica notevole tanto da non riuscire ad essere bloccati da un paio di persone. Senza dimenticare l’enorme eccitazione che la flakka è capace di creare, così come numerose allucinazioni o anche stati confusionali.

Sono stati registrati anche diversi numeri di morti per via della flakka in quanto è stato visto come questa droga possa portare in pochissimo tempo ad un enorme sovraccarico cardiaco. Da un punto di vista fisiologico, l’assunzione di questa droga determina allucinazioni e deliri, oltre a stati di ipertensione marcati, paranoia, psicosi, aumenti della secrezione di adrenalina, aggressività, forza fisica e soprattutto un elevato rischio di morte.

La flakka nacque qualche anno fa in sostituzione delle amfetamine per studenti che cercavano sostanze energizzanti viste le limitazioni poste su quest’ultime dal Governo Nazionale.

Ciò che comunque gli esperti tendono a sottolineare in merito a questo nuovo tipo di droga è la capacità di venirne a contatto molto facilmente, e, soprattutto, il prezzo assai ridotto con cui si può acquistare tale droga. Per questo motivo, si sta iniziando un’opera di informazione in merito alla flakka, per farla conoscere e limitarne, di conseguenza, i danni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicoterapia on line? Da oggi c’è la piattaforma Psicoadvise.it

Nasce psicoadvise.it, dedicata esclusivamente alla psicoterapia online. Psicoadvise.it è la piattaforma che permette agli psicoterapeuti di aprire il proprio studio digitale e agli utenti di poter scegliere la propria consulenza via video, scegliendo la persona che più si addice alle proprie necessità: un incontro attraverso il video, facile, discreto, immediato ma soprattutto professionale e certificato. 

 

Come nasce questo progetto?

In Europa e negli Stati Uniti, diverse realtà private e pubbliche stanno già investendo sulla promozione di interventi online e sull’indagine delle loro caratteristiche. Siamo tutti immersi nella “quarta rivoluzione industriale” (espressione usata per la prima volta alla Fiera di Hannover nel 2011 in Germania) e siamo tutti spettatori di uno storico cambiamento. Anche la sanità ora è in rete: con il termine “eHealth“, infatti, s’intende l’utilizzo di strumenti basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per sostenere e promuovere la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il monitoraggio delle malattie e la gestione della salute e dello stile di vita.

La psicoterapia online porta a risultati positivi quanto quella tradizionale faccia a faccia?

L’utilizzo delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia potrebbe portare a importanti sviluppi per il futuro della psicoterapia? Sembrerebbe di si!

Sono stati effettuati numerosi studi con l’obbiettivo di valutare l’esito degli interventi psicologici online e tali ricerche sono volte principalmente ad individuare se gli interventi online portino a miglioramenti clinici rispetto a gruppi di controllo offline.

Tendenzialmente tali studi hanno mostrato risultati incoraggianti. Si rilevano infatti miglioramenti significativi nei soggetti che hanno partecipato a diversi interventi psicologici online, con una gamma di disturbi clinici che includono disturbi di panico (Klein & Richards, 2001), disturbi alimentari (Robinson & Serfaty, 2001), disturbi post-traumatici da stress e in casi di lutto (Lange, van de Ven, Schrieken, & Emmelkamp, 2001). Alcuni ricercatori di Zurigo, in uno studio nel 2013, hanno addirittura superato le loro aspettative, osservando alla fine del trattamento online, una remissione della depressione nel 53% dei pazienti trattati con psicoterapia online e nel 50% dei pazienti trattati con psicoterapia tradizionale faccia a faccia. Jedlicka e Jennings (2001) hanno infine analizzato i racconti di 11 coppie che hanno partecipato ad una terapia di coppia via webcam: non risultavano differenze significative tra la conduzione online e quella in vivo, considerate ugualmente efficaci.

Sulla base degli studi di efficacia e in linea con quelli che sono gli sviluppi della tecnologia e, in particolar modo, quelli relativi alle procedure diagnostiche e terapeutiche, ora anche gli psicologi hanno la possibilità di utilizzare i moderni canali digitali non solo a fini di informazione o di pubblicità, ma per fornire prestazioni professionali.

La psicoterapia online su psicoadvise.it

L’obiettivo di psicoadvise.it è quello di creare un unico luogo in cui l’incontro tra terapeuti e pazienti avvenga in maniera semplice, senza limiti geografici ma in linea con le proprie disponibilità e i propri bisogni.

La piattaforma mette a disposizione della comunità un vasto panorama di professionisti certificati così da rendere più semplice e accessibile la terapia e l’ascolto. Allo stesso tempo abbatte la concorrenza e consente agli psicoterapeuti un accesso alla professione immediato ed economico.

Psicoadvise.it garantisce l’idoneità degli psicoterapeuti e fornisce loro una serie di servizi dedicati, tra cui un sistema di fatturazione automatizzato, sicuro e di facile utilizzo. Grazie alla tecnologia peer to peer inoltre, i dati delle connessioni saranno sicuri e non lasceranno traccia nel web, per garantire ai pazienti il massimo della privacy.

Iscriversi è semplice, così come è facile effettuare la ricerca di un terapeuta che più si avvicini alle proprie esigenze, grazie ad un attento sistema di filtri e a un calendario personale sempre aggiornato. Provalo subito ed entra anche tu a far parte della naturale evoluzione della psicoterapia.

 

Per informazioni:

Lucia, una storia di depressione vissuta all’ombra del vulcano – Un caso clinico trattato con la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

I pazienti affetti da HIV presentano livelli di depressione almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta, con un tasso più alto nella popolazione femminile. I pazienti, tra il 4 e il 14% dei casi, mostrano un disturbo grave ed almeno il 30% di essi presenta segni di depressione.

 

Da un punto di vista psicologico e sociale, cancro ed infezione da HIV presentano diversi punti di contatto, sia a livello individuale che collettivo. A livello individuale entrambe le condizioni possiedono un carattere disumanizzante, poiché determinano una trasformazione dell’individuo e ne intaccano la propria dignità come persona. I significati della perdita dei propri ruoli e delle proprie funzioni, della minaccia e della sofferenza rappresentano infatti il denominatore comune delle due patologie. A livello collettivo, entrambe evocano angosce legate all’incontrollabilità e alla minaccia. In entrambi i casi, Il corpo può subire importanti alterazioni legate alla malattia stessa o alle terapie, con conseguenti modifiche della propria immagine corporea e cambiamenti importanti dei significati che a quelle parti del corpo vengono dati.

Ciò può avere ripercussioni su altre aree dell’esistenza, intaccando la propria identità temporale, lavorativa, familiare e sociale. A queste corrispondono importanti significati relazionali, poiché la malattia modifica il modo col quale la persona si percepisce rispetto agli altri e da questi è a sua volta percepita. A questo livello la malattia influenza enormemente la percezione che ciascuno ha di far parte del contesto nel quale vive. Il mantenimento di sentimenti di integrazione e appartenenza viene messo in pericolo a scapito di sentimenti di solitudine ed emarginazione che emergono in maniera tumultuosa.

Diversamente dalle patologie neoplastiche, all’infezione da HIV si associano significati diversi che si legano strettamente ad alcune variabili tipiche dell’infezione: le sue modalità di trasmissione, le sue caratteristiche cliniche e le sue conseguenze. L’infezione, tra l’altro, si è presentata come epidemia, quindi con un significato di diffusione e di contagio che ha indotto sensazioni generalizzate di pericolo nella popolazione e, di conseguenza, di bisogno di emarginare la fonte del pericolo. Inoltre, le modalità dell’infezione, specialmente agli inizi della diffusione del fenomeno, quando i gruppi colpiti (o, come venivano definiti, “a rischio”) erano gli omosessuali e i tossicodipendenti, ha determinato risposte sociali estremamente marcate di ostilità, discriminazione e ghettizzazione verso i soggetti sieropositivi.

In questi casi il paziente veniva in qualche modo considerato responsabile diretto della propria condizione.

HIV e Depressione

Nonostante la vastità delle opzioni terapeutiche a disposizione, la depressione rimane il più comune disturbo psicologico tra i pazienti affetti da HIV. I livelli di depressione fra questi soggetti appaiono essere almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta: dal 4 al 14% dei pazienti mostra un disturbo grave ed almeno il 30% segni di depressione. La presenza di una condizione depressiva va attentamente indagata sul piano clinico, in quanto essa è risultata associata a:

  1. più rilevante immunodepressione
  2. accelerata progressione di malattia (il paziente depresso è un paziente scarsamente aderente al trattamento e la bassa aderenza è una delle principali cause del fallimento terapeutico)
  3. aumentata disabilità
  4. minore sopravvivenza
  5. più elevata probabilità di morte

Di particolare interesse appare la correlazione fra depressione e sesso femminile. Già nella popolazione generale la percentuale di donne affette da depressione è doppia rispetto agli uomini, fra le donne sieropositive è quattro volte più elevata rispetto alle donne sieronegative (19% vs 5%). La presenza di sintomi depressivi fra le donne HIV positive è stata associata all’età compresa fra 30 e 50 anni, all’uso di sostanze stupefacenti, ad un basso reddito o all’appartenenza a minoranze etniche ma anche a condizioni cliniche quali una bassa conta dei linfociti CD4 o una viremia rilevabile o un trattamento terapeutico subottimale. Le donne HIV positive con elevati livelli di depressione hanno, infatti, minore probabilità di assumere la HAART e vanno più frequentemente incontro ad un outcome sfavorevole, spesso per situazioni cliniche non correlate all’infezione da HIV. La premorienza è addirittura doppia rispetto a donne con assenza o intermittenza di sintomi depressivi, anche in assenza di diagnosi di AIDS.

Un recente studio indaga la relazione tra il “silenzio su di sé” (inteso come evitamento della disclosure e quindi inibizione dei propri bisogni nelle relazioni interpersonali), fattori socioeconomici (istruzione, impiego e reddito) e resilienza in un campione di donne con HIV. Le donne con punteggi più bassi sul “silenzio su di sé” hanno riportato una resilienza significativamente maggiore rispetto alle donne con punteggi più elevati. Sebbene l’occupazione sia significativamente correlata ad una maggiore resilienza, il silenzio tende a predire la resilienza al di là dei contributi di occupazione, reddito ed istruzione (Dale et al., 2014). I risultati suggeriscono che gli sforzi di intervento e prevenzione mirati a ridurre il silenzio delle donne, l’inibizione dei loro bisogni e aspettative nei confronti degli altri siano strumenti preziosi per progredire verso il benessere e la realizzazione di sé, nonché promotori di opportunità lavorative.

In pazienti HIV + il riscontro di un disturbo della personalità è piuttosto frequente (20-40% dei casi). È stato dimostrato che una diagnosi psichiatrica a questo livello si associa a una più elevata prevalenza di disturbi depressivi in soggetti HIV +. Nei pazienti con tale disturbo il rischio di sviluppo di manifestazioni psicopatologiche successivamente all’infezione viene aumentato di circa sei volte e si correla ad una netta riduzione del livello di funzionamento soggettivo del paziente nel condurre la propria esistenza. Inoltre la depressione risulta associata a comportamenti a rischio quali sesso non protetto e si associa spesso ad assunzione di alcol. Nei pazienti sieropositivi il disturbo depressivo è fortemente associato ad aumentato rischio di mortalità per malattie cardiovascolari (Parruti et al., 2013). Aspetti psicologici possono agire sulla salute cardiovascolare sia attraverso meccanismi fisiopatologici, sia indirettamente in quanto si associano all’adozione di stili di vita nocivi per la salute come vita sedentaria, fumo, alcol, squilibri alimentari. Nella maggior parte degli studi presi in esame, i pazienti affetti da depressione dichiaravano che la malattia medica aveva esasperato tematiche legate alla colpa, alla vergogna, al senso di solitudine e stigma percepito.

I principali interventi

Markowitz (Markowitz et al.,1998) ha condotto un trial randomizzato di 16 settimane su 101 pazienti sieropositivi con diagnosi di depressione. I soggetti sottoposti a psicoterapia interpersonale hanno ottenuti maggiori benefici rispetto agli altri gruppi. Carrico e colleghi (2006) hanno visto che la combinazione di psicoterapia cognitiva e training sull’incremento dell’aderenza alle cure mediche dava ottime risposte in termini di riduzione della sintomatologia depressiva e conseguentemente una riduzione del rifiuto della terapia antiretrovirale.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità, con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma (Dimaggio et al.,2016). Rispetto alla Terapia cognitiva Standard, la TMI pone un’attenzione fondamentale alle disfunzioni metacognitive dei pazienti.

Sulla base dell’assunto che uno dei nuclei patogeni della personalità sia la difficoltà ad identificare gli stati mentali e utilizzare tale conoscenza per risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali, la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha sviluppato una serie di tecniche specifiche e di modalità di lavoro sulla relazione terapeutica atte a promuovere la metacognizione.

Recentemente è stata anche applicata con successo al caso di un uomo con sarcoma di Kaposi, neoplasia opportunistica AIDS correlata che, nonostante la gravità della situazione clinica non era aderente alla terapia antiretrovirale. Il paziente era anche affetto da un disturbo di personalità grave (Sofia et al., 2017). La Terapia Metacognitiva Interpersonale è stata adattata al caso clinico al fine di migliorare l’aderenza al trattamento e di ridurre i criteri diagnostici del disturbo di personalità.

La storia di Lucia

Illustriamo di seguito, in forma narrativa, il caso clinico di una paziente sieropositiva affetta da disturbo paranoide di personalità e scarsamente aderente alla terapia antiretrovirale.

Lucia è guidata nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, dei quali non è consapevole e che mette in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai suoi desideri, speranze e bisogni.

In termini di formulazione condivisa del caso, terapeuta e paziente arrivano a capire che: Lucia si sente vulnerabile ma teme l’abuso e l’inganno e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di minaccia. Per gestire il senso di paura e vulnerabilità utilizza coping disfunzionali quali la diffidenza, la fuga, l’isolamento talvolta attacchi verbali accompagnati da una maschera forzata oppure da silenzio ostentato. Questi comportamenti amplificano la rabbia e la costante paura dell’altro, con il conseguente sviluppo di un disturbo depressivo grave che ha portato all’interruzione della terapia antiretrovirale.

In corso di terapia, la paziente è stata aiutata a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza di essere danneggiata può essere parzialmente vera, ma riflette anche uno schema in cui si vede umiliata e sottomessa. Nella storia descritta, gli schemi si fondano sulla figura materna percepita come tirannica e su vissuti traumatici di violenza protratta dai propri partner oltre che per l’incontro con un virus vissuto come “potente e minaccioso”. Attraverso la relazione terapeutica, la paziente si sentirà compresa ed incoraggiata, imparerà a riconoscere i propri schemi interpersonali e sarà portata a valorizzare le parti di sé che funzionano, riconoscendo i propri punti di forza.

Tra gli aspetti tecnici citati, anche guided imagery, rescripting e role play utilizzati con l’obiettivo di modificare gli schemi all’interno dello spazio mentale. Nelle ultime fasi della terapia, la paziente riuscirà ad affrontare con serenità anche uno dei nodi più importanti della vita di questi pazienti: la comunicazione della propria sieropositività ai figli.

L’arrivo di Lucia è preceduto dalla telefonata di un collega infettivologo : “O la paziente è all’ennesima resistenza alla terapia antiretrovirale o mi prende clamorosamente in giro e la terapia non la prende. I suoi esami peggiorano, mi preoccupa. Lei non mi dice nulla. Ci vuoi parlare tu?”

Lucia entra in ambulatorio ridendo, grandi occhi scuri come il cappotto che indossa. Cappotto lungo, portato in pieno Maggio di una afosa mattina catanese. Lucia ha 50 anni ed è sieropositiva da 16 anni. Sul volto i segni evidenti di una dermatite seborroica.

Il cappotto indossato anche in estate “la protegge – lei dice- dalla pioggia nera di cenere vulcanica… Questa terra sottile vomitata dall’Etna è più insidiosa di quello che si pensa. E poi mi fa male alla pelle. Insomma….è difficile la vita sotto il vulcano, ti senti sempre sotto minaccia”.

I nostri primi incontri sono caratterizzati da un ostentazione della sua “onnipotenza”, della sua capacità di “fottere la vita”, nonostante le difficoltà.

Mi racconta che a 14 anni scappa di casa con il primo corteggiatore, a 15 anni ha la prima bambina, a 16 la seconda, a 17 ha la terza bambina.

Lui rapinava ma io non lo sapevo! Ma se li beveva tutti i soldi che rubava… sempre ubriaco fradicio era. Ma io avevo 3 bambine piccole, dove dovevo andare?”. Lucia non ha una narrativa che mette in evidenza dettagli intimi, non accede alle emozioni, sputa fuori eventi in cui è protagonista ai limiti della legalità. Nelle prime sedute non parla mai della sua malattia, vuole parlare di una “storia burocratica”, una vicenda con la vecchia datrice di lavoro a cui faceva le faccende domestiche. Era la seconda volta che le capitava di voler denunciare le persone presso cui lavorava.

La sua narrazione è confusa e frammentata, caratterizzata da sottili attacchi anche nei confronti della terapeuta. “E certo che la devo denunciare, di me se ne approfittano tutti….. ma ora lo vedrà cosa sono in grado di fare. Io senza avvocato cammino. Io, se decido di andare da un magistrato, ci vado da sola e ci so parlare meglio di lei che è laureata e meglio di qualsiasi altro avvocato”.

Difficile interromperla, difficile fermarsi a focalizzare le emozioni durante la seduta. Difficile stabilire un’alleanza terapeutica.

Come quella volta che da quel prepotente me la sono cavata da sola. Era proprietario di un locale e non pagava lo stipendio a mio marito da sei mesi…. Io avevo tre bambine piccole… ci sono entrata con la macchina dentro il locale, gli ho rotto tutte le vetrate al bastardo…. Poi è venuto a suonarmi a casa e mi ha chiesto se volevo essere la sua femmina. Ha capito dottoressa? Mi ha dato lo stipendio di mio marito direttamente nelle mani. Mi ha detto che non lo pagava perché si beveva tutto l’alcool del locale (il marito di Lucia era il cuoco del locale). Ma cosa le dovrei raccontare? Che mio marito stava con la peggio puttana di Catania, la più “viziosa”, lo sapevano tutti tranne io”.

Mentre parla scoppia a ridere e poi sembra trattenere il pianto ma scoppia a ridere più forte.

Il terapeuta TMI è un clinico attentissimo alla mimica facciale del paziente. In particolare, quando un’espressione nel volto del paziente cambia repentinamente o viene soffocata è bene segnalarla tempestivamente per permettere al paziente di individuare con maggiore precisione il pensiero collegato al suo stato emotivo. La fermo un attimo per chiederle cos’era quell’espressione subito dopo la risata, se stava per piangere… Nel caso di Lucia, la segnalazione dell’emozione è servita anche ai fini dell’alleanza terapeutica poiché la paziente si è sentita guardata con attenzione, e ha rivelato uno dei principali nuclei del suo schema interpersonale.

Dottoressa, sorriso fuori e buio dentro. Questa è Lucia!… Gli altri godono se io mostro il mio buio dentro, non lo posso fare vedere a nessuno. E meglio non dire niente e non fare vedere niente. E poi da quando ho saputo come sono…. Non posso essere più felice…Grazie a mio marito, ai suoi divertimenti. Dopo aver fatto una rapina, lo misero dentro a Favignana, io non ci andavo a trovarlo… Avevo 3 bambine piccole… E poi non lo volevo più… E mia madre mi diceva: “non si lasciano i mariti in carcere”… sempre lei ha deciso quello che si doveva fare. Un giorno mi arriva una lettera a casa, era lui. Mi scriveva: fatti le analisi, sono sieropositivo”.

Lucia ride e poi vorrebbe piangere. “Il giorno che ho fatto le analisi… il suo collega infettivologo balbettava, non sapeva come dirmelo e c’era mia madre a fianco che mi ripeteva: una cosa è certa, ora a tuo marito non lo puoi lasciare più, ora chi ti prende a te? Sei malata, sei una donna finita. Il dottore era in collera, io sono scappata. Non mi sono più presentata per anni… la terapia l’ho cominciata dopo… Ma io non sono qui per parlare. Sono qui perché voglio denunciare la mia ex titolare, lei mi può consigliare in questo senso oppure no?

Le dico che sono qui per aiutarla e cercheremo di capire perché si sente nelle condizioni di voler denunciare.

Mi ero fidata della mia titolare, le avevo confidato che mi avevano tolto l’utero e che mi ero sentita sola…Le mie figlie non sono neanche venute a trovarmi nel post-operatorio, eppure io le ho amate tanto. Il pomeriggio dopo mi trovavo a casa sua come sempre a fare le faccende domestiche. Suona suo fratello alla porta, lo faccio accomodare. In un secondo mi sono girata ed era nudo. Mi è saltato addosso e mi ha detto: so che adesso ci possiamo divertire. Ha capito? Me l’ha mandato lei a suo fratello. Quando mostro il mio buio gli altri se la godono sempre”.

Adesso piange disperata: “Non ne posso più, Lucia è stanca… di vivere contando solo su se stessa. A che serve parlare, a che serve prendere la terapia…. E’ meglio accelerare questa agonia, e mettere fine a tutto”.

A Lucia la maschera e la risata ostentata servono per “nascondere il buio dentro che non si può mostrare se no gli altri godono”, però mentre si narra lascia trasparire una mimica che copre il pianto. Farle notare quello che vedo mi permette di accedere alle sue emozioni e di parlarne in seduta. Attraverso la relazione terapeutica, Lucia si sente capita e parla di disperazione, angoscia, caduta nel baratro e desiderio di morte ogni volta che pensa al suo corpo “invaso” da uno straniero. Invasore che l’ha derubata della sua bellezza (la mia pelle adesso fa schifo) e della sua femminilità (questo coso mi ha reso l’utero marcio e io non sono più neanche donna). Non è più possibile godere, avere una vita facile, avere una vita affettiva. Il virus, mai nominato da Lucia, ha portato via con sé le sue attitudini sane e cioè la spensieratezza, la voglia di giocare, di farsi bella, di amare ed essere amata. Attorno a lei un mondo che la pone “vittima” di impostori (le persone presso cui lavora), stalker (gli uomini che incontra), truffatori (commercianti) e ancora una fauna di gente violenta, manesca e approfittatrice a cui si può rispondere solo con l’ostentazione della risata, con tentativi di attacco ma soprattutto con fughe e nuovi isolamenti per non farsi schiacciare ulteriormente e vivere sempre più ai margini.

La storia di Lucia è davvero piena di violenza.

Lo mostrano le memorie autobiografiche che riporta in seduta dopo aver riconosciuto le sue reali emozioni, memorie in cui ad essere quasi sempre protagonista è innanzitutto la madre, descritta come tirannica e ingiusta. Madre che non le concederà l’ultimo saluto alla salma del padre a cui Lucia è particolarmente legata, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Evento traumatico che la segna irrimediabilmente costringendola ad una lettura della mente degli altri assolutamente non flessibile.

“Mio padre è morto quando avevo 13 anni. Il buio nero, quello di cui parlavo prima, è iniziato lì.
Lo sa cosa ha fatto mia madre? Io avevo 7 fratelli che accudivo… lei lo sapeva che avevo un debole per mio padre… Quando mio padre è morto, tutti i miei fratelli lo hanno salutato. Mi ha chiuso in una stanza e mi ha detto che non potevo vederlo. Lo sapeva che ero la preferita, che lo amavo da morire, che avrei passato tutta la notte a baciare la salma… Ma non me l’ha fatto vedere. Quando mostro la mia debolezza, il mio buio oppure il mio bisogno di cure.. l’altro ci gode e mi pugnala apposta. Anche quando ho saputo la diagnosi e sono andata a vivere da mia madre… Separava le posate e non toccava mai il mio bicchiere e mi diceva sempre: e ora chi ti deve prendere a te che sei ridotta così. E allora sono andata via con un nuovo compagno, ed è nato Francesco.
Ma il papà di Francesco, quando vivevo a Torino mi picchiava, lavoravo solo io e mi veniva a picchiare anche nel locale in cui lavoravo. E allora qualche anno fa sono scesa di nuovo a Catania…

Dalla narrazione di Lucia sembra che la madre abbia proprio approfittato della sua debolezza per il padre e del suo momento di dolore per punire la sua preferenza ed impedire solo a lei tra tutti i figli di poter dare l’ultimo saluto al padre. E’ un dolore subito prendendo a calci la porta dietro cui era stata chiusa, è un dolore misto ad impotenza e rabbia, mai raccontato prima.

Da qui l’impossibilità nella sua vita di poter mostrare il buio, il suo dolore agli altri… “perché se mostri il buio gli altri godono”. Così come tutte quelle volte che la madre, dopo la notizia della sieropositività, la fa entrare nella sua casa, ma separa le sue posate, incellofanando tutto quello che ha a che fare con Lucia. “E io mi sentivo umiliata e schiacciata, impossibile per me riprendere il gusto di vivere.”

Durante i mesi siamo riuscite a fare luce sulle emozioni, a comprendere gli schemi principali legati ad una vita piena di violenza e siamo riuscite a compiere quella che in Terapia Metacognitova Interpersonale viene definita “Formulazione condivisa del funzionamento”.

Lucia desidera ancora essere amata e protetta. Negli anni, questa speranza è stata velata dalla paura dell’altro, capace di approfittare di lei, in genere teso ad umiliarla e sottometterla. A questo punto lei si è percepita “fragile” ed ha reagito agli eventi della vita con diffidenza e frequenti ritiri sociali (poca fiducia persino nell’infettivologo che la segue da anni, a cui non ha dichiarato la sua scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale, saltando spesso anche gli incontri ambulatoriali). Altre volte ha disprezzato e minacciato anche lei per sentirsi più forte, ma è stato in corso di terapia che ha capito che il suo desiderio poteva essere ascoltato, poteva parlare del suo dolore senza angoscia, senza quel terrore di essere pugnalata nel momento di maggiore vulnerabilità. Le chiedo se vogliamo provare a portare questa speranza anche fuori dalla nostra relazione per osservare meglio, adesso e con nuova consapevolezza quella che abbiamo definito “fragilità”… quel buio dentro…L’evento della morte del padre torna spesso nei nostri incontri. Quell’impossibilità dell’ultimo bacio, impedito dalla tirannia della madre e dalla ferocia della morte.

Le propongo l’ascolto di una canzone in seduta. Una canzone scritta propria da una nostra concittadina. Si chiama “L’ultimo bacio”, ed è una ballata malinconica, racconto di un addio.

Il brano nasce dalla paura di una Carmen Consoli bambina che, in rapporto di franca ostilità con la madre, immagina di essere abbandonata dal padre, suo unico compagno di giochi con il quale già da piccola condivideva la passione della chitarra. Come sottofondo della scena, il fischiare del vento sembra una sinfonia di violini. Il brano cita un verso del pezzo Piove (mille violini suonati dal vento…), portato al successo da Modugno, che era proprio il brano cantato dal padre di Carmen, quando la salutava la mattina prima di recarsi al lavoro.
Il brano le piace, e sente una “sorta di consolazione. Ma allora soffriva anche lei come me?

Le propongo, se vuole farlo in seduta, insieme a me di scrivere un finale diverso alla sua storia…. Quell’ultimo bacio al padre, lo può dare adesso se riusciamo a immaginare di essere dinnanzi a lui rievocando quella scena di tanti anni fa.

Lucia riesce a farlo, immagina di essere chiusa dentro la stanza ma stavolta di essere aiutata ad uscire dai suoi due fratelli minori. Immagina di avvicinarsi al padre, sempre scortata dai fratelli che la proteggono e di salutarlo come desiderava. Intanto la madre rimaneva “piccola, a guardarmi in lontananza”.

I mesi passano, il legame con il figlio Francesco la tiene fortemente ancorata alla vita. Lucia comincia a dare un nome alla sua malattia, riconosce che è importante assumere costantemente la terapia. Inoltre, è più serena.. c’è un altra buona notizia…Il padre di Francesco non la disturba più, l’hanno arrestato solo in questi giorni, per una denuncia per maltrattamenti che lei aveva sporto contro di lui circa 10 anni fa quando ancora vivevano a Torino (“Dottoressa, lo Stato ce l’ha fatta a darmi ragione…dopo 10 anni!”).

E’ successa una cosa nuova. C’è un “picciotto” del mio quartiere che lavora in pescheria che ogni tanto mi chiede di prenderci un caffè a casa mia. Ho la sensazione che sia una brava persona, ma poi penso che vuole penetrare nel mio appartamento per stabilirsi a casa mia e farsi mantenere da me, insomma un altro inganno… Lo so dottoressa, le mie vecchie esperienze …non mi fanno andare avanti. Non ci ho creduto più nella buona fede. Solo che stavolta volevo mettermi in gioco e volevo parlarne con lei per prendere una decisione. Mentre ero fuori casa per lavoro, si è presentato a casa mia. Gli ha aperto Francesco. E’ venuto munito di strumenti, e nell’arco di poche ore ha eliminato tutta l’umidità della casa. A Francesco ha detto che lo sospettava che a casa mia ci fosse tutta questa umidità, visto che mi vede sempre con il cappotto anche in estate. Niente… ha fatto il lavoro e se n’è andato. Io non l’ho incontrato, mi ha mandata a salutare con Francesco. Volevo ringraziarlo. Avevo paura, mi mancava il coraggio. Ieri sono scesa in Pescheria. Via Etnea era invasa di luce e colori, piazza Duomo piena di turisti. Un gruppo di questi ascoltava una guida che raccontava la storia della Cattedrale, dove sono conservati i resti di Sant’Agata! Allora mi sono fermata a guardare”.

Cosa – ho chiesto io – la guida turistica?”.

No, quel luogo. Racchiude le spoglie mortali di una donna martire, deturpata per il suo amore. Quel visino così bello, offeso da uomini senza Dio. La conosce la storia di Agata, dottoressa?

Certo, una delle prime vittime di femminicidio della storia. Una donna libera.

“Io ho pensato a quegli uomini”, dice Lucia.

Cioè, ha pensato a Quinziano e agli altri carnefici?” Le chiedo io.

No, stavolta no. Ho pensato agli altri uomini. Tutti gli altri. Quei due soldati che ne trafugarono i resti da Costantinopoli per riportarla a casa. Ho immaginato i catanesi che, svegliati nel cuore della notte dalle campane, si affacciavano e con i fazzoletti bianchi dai balconi ne salutavano il ritorno a casa. Ho pensato alla processione, dove centinaia di uomini con un “sacco” bianco portano in giro per la città questa “picciridda” sotto sole e pioggia, percorrendo kilometri spalla a spalla. Gente diversa: avvocati, muratori, disoccupati, per 3 giorni, solamente uomini che sanno amare. Ho pensato che per ogni pezzo di merda, ce ne sono altri cento disposti ad amarti. La vita qualche cosa di buono la restituisce. Ho pensato che questo buono io me lo posso prendere. E così sono scesa in pescheria e sono riuscita a ringraziarlo”.

E’ l’inizio della risalita. Francesco comincia a lavorare in un’autorimessa, e si fidanza con la figlia del portiere del palazzo. Invitano la fidanzata a cena e Lucia cucina per loro. “E’ una ragazza con gli occhi azzurri e limpidi come il mare, ed è innamorata del mio Francesco. Perché Francesco è bello come il sole ed è un ragazzo buono, Lucia ce la fa a fare le cose buone. Me lo sono cresciuto sola a Francesco.. è figlio mio. Dopo cena, abbiamo cantato al Karaoke fino a tardi e abbiamo riso per tutto il tempo. Glielo diciamo a Francesco che sono sieropositiva… Questi farmaci se devo prenderli ogni giorno prima o poi dovrà vederli… Allora mi aiuta a dirlo a mio figlio che sono sieropositiva?

Lucia ha una nuova abitudine, passeggiare sul lungomare di Catania gustandosi una granita alla mandorla. Jeans stretti mettono in evidenza un corpo ancora giovane. Da questa estate, la polvere lavica mista alla brezza marina arriva direttamente sulla sue braccia scoperte, liberate dalla protezione del cappotto ma senza farle male.

Facebook e autostima. L’immagine che abbiamo di noi stessi influenza i contenuti che mettiamo online

Un recente studio ha esaminato come il livello di autostima influenzi il tipo di presentazione che forniamo di noi stessi su Facebook, e come questo abbia effetti sul nostro benessere soggettivo.

 

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Computers in Human Behavior, persone con bassa autostima non sono a proprio agio nel fornire una presentazione autentica di sé stesse sul social network Facebook.

Le precedenti ricerche hanno dimostrato come Facebook sia un’arma a doppio taglio: il coinvolgimento nel social può influenzare sia positivamente che negativamente il benessere soggettivo.

Alcuni studi hanno riscontrato che forme di supporto sociale (ad esempio il ‘Mi Piace’) da amici di Facebook incrementano il benessere soggettivo, mentre altre ricerche hanno evidenziato che l’utilizzo di un atteggiamento competitivo da parte degli utenti di Facebook, fa sviluppare sentimenti di invidia che abbassano il livello di benessere soggettivo.

Jang, autore dello studio, riferisce:

[blockquote style=”1″]Avendo constatato la presenza di modelli contrastanti, si è deciso di verificare se il tipo di strategia adottata per presentare sé stessi online influenza la gratificazione che si ottiene dall’utilizzo del social network. In particolare se la gratificazione psicologica che deriva dall’utilizzo di Facebook, dipenda dal proprio livello di autostima[/blockquote]

Facebook e autostima: ci presentiamo in modo autentico o strategico?

I ricercatori hanno evidenziato due differenti modi in cui le persone possono descriversi sui social network: una presentazione autentica di sé ed una strategica. Nel primo caso viene fornita una descrizione veritiera di se stessi e della propria vita, nel secondo invece, le persone mostrano unicamente contenuti positivi della propria esistenza, in modo tale da creare un’impressione più favorevole di sé.

Nello studio è stato chiesto a 278 utenti di Facebook di pubblicare contenuti che riflettessero se stessi o in modo autentico o in un modo più strategico; in seguito a questa operazione i soggetti hanno compilato un questionario.

È emerso che, solo nelle persone con elevata autostima, e non per quelle con bassa autostima, ad una presentazione autentica di sé si associa maggiore felicità. Invece una presentazione strategica, rende felici sia persone con alta che con bassa autostima. Afferma Jang:

[blockquote style=”1″]I nostri risultati suggeriscono che gli utenti con bassa autostima, probabilmente utilizzano Facebook come mezzo per aumentare il proprio benessere soggettivo, mostrando online solo le caratteristiche più desiderabili. Gli individui con bassa autostima sono maggiormente riluttanti a condividere le proprie caratteristiche, perchè non sono sicuri della propria immagine e percepiscono sé stessi meno attraenti socialmente rispetto alle persone con alta autostima [/blockquote]

Usare Facebook per stare meglio? Funziona davvero?

Le persone percepiscono Facebook come un ambiente relativamente sicuro, in quanto gli utenti possono scegliere i propri amici e controllare cosa viene condiviso. Inoltre momenti d’imbarazzo sono minori e maggiormente controllabili, rispetto ad interazioni di persona.

Le persone con bassa autostima, quindi, utilizzano Facebook come mezzo per condividere aspetti di sé con caratteristiche maggiormente desiderabili e positive, per migliorare la loro attrattiva ed aumentare il loro benessere.

Lo studio presenta alcuni limiti. Non è ancora chiaro se il guadagno in termini di benessere per le persone con bassa autostima sia una conseguenza duratura o temporanea. Subito dopo la pubblicazione di messaggi o immagini si riscontra un incremento del benessere, ma questi benefici potrebbero scomparire nel tempo, anche rapidamente.

I giovani e l’alcol: vecchi vizi e nuove tendenze

Sono sempre di più i giovani, tra gli 11 e i 15 anni, che manifestano comportamenti nell’uso di alcol assimilabili al fenomeno che in letteratura viene definito Binge Drinking.

Bulgarelli Alessandra – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Modena

 

«Bevo. Come potrei altrimenti affrontare l’orrore esistenziale e continuare a lavorare?»

Questa giustificazione dell’uso e dell’abuso di alcol è stata chiama da Stephen King la “spiegazione Hemingway” ma si adatta in realtà a un gran numero di forti bevitori. Giustificare i propri vizi è senz’altro umano, ma ciò, a occhio clinico, svela la volontà di perpetrarli e suscita domande sulle loro radici profonde.

Scopo di questo articolo è quello di proporre un quadro sintetico, ma attuale, rispetto all’assunzione smodata di alcolici, ponendo attenzione in particolare alle abitudini, ai vizi e alle tendenze dei giovani e degli adolescenti rispetto al consumo di alcol. Oggi, infatti, il vizio alcolico è un fenomeno ampiamente diffuso tra i ragazzi e la “bevuta”, che conduce all’eccesso, assume svariate connotazioni di natura psicologica, sociologica e culturale, oltre a presentare modalità nuove, solo di recente formulazione nella letteratura, come quella del Binge Drinking. Indagare questi aspetti e comprenderne i meccanismi è la sola strada per attuare le necessarie strategie preventive che siano in grado di curare, per così dire, prima che si presenti il male e di anticipare con le giuste azioni informative e sanitarie quella che spesso diviene una terapia tardiva.

Alcol e giovani: i numeri del fenomeno

Con il termine alcolismo intendiamo «il cronico disordine comportamentale, caratterizzato dalla ripetuta ingestione di bevande alcoliche in eccesso rispetto agli usi dietetici e sociali della comunità, con gravi conseguenze sulla salute del bevitore e sul suo funzionamento psicosociale» (Janiri & Martinotti, 2008).

L’alcol presente nella birra, nel vino e nei liquori è alcol etilico, meglio chiamato etanolo. Si tratta di una vera e propria droga perchè agisce sul sistema nervoso in maniera del tutto simile alle sostanze psicotrope e stupefacenti che determinano dipendenza. Gli effetti disinibenti ed euforizzanti dell’ alcol tendono ad indurre con maggior facilità le persone a farne uso perchè la sostanza permette di modificare illusoriamente la percezione di se stessi e della realtà.

Ogni anno, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono attribuibili, direttamente o indirettamente al consumo di alcol, il 10% di tutte le malattie, il 10% di tutti i tumori, il 63% delle cirrosi epatiche, il 41% degli omicidi, il 45% di tutti gli incidenti, il 9% delle invalidità e delle malattie croniche.

I giovani sono i più vulnerabili agli effetti sia fisici che mentali dell’ alcol e pertanto sono più esposti ai suoi rischi. I ragazzi tra gli 11 e i 15 anni sono orientati in numero sempre più crescente verso il modello che in America è chiamato Binge Drinking, cioè un abuso di alcol concentrato in singole occasioni. In particolare, gli episodi sono circoscritti al fine settimana: i ragazzi bevono in modo occasionale, alle feste, all’aperitivo o in discoteca, e raramente da soli. Questo comportamento ha effetti devastanti sulla salute in quanto l’organismo di un adolescente è ancora in completa evoluzione e l’alcol ha l’effetto di rallentare lo sviluppo mentale (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Attualmente, in letteratura, la definizione di Binge Drinking è ampiamente utilizzata. Wechsler, nell’ormai noto report del 1992 (Wechsler & Isaac, 1992), lo definì come «l’assunzione di cinque o più drink alcolici in una stessa serata da parte degli uomini e quattro o più per le donne».

Binge Drinking e Binge Drinker

Binge drinking letteralmente significa “bevute compulsive”. In realtà, non si tratta di una vera e propria tendenza legata all’alcool, quanto piuttosto di una tendenza rivolta alla ricerca dello “sballo”, ricercato ingerendo alcolici in quantità superiore al dovuto, solitamente a stomaco vuoto. È una tendenza pericolosa, rispetto alla quale non sempre il soggetto che manifesta Binge Drinking è consapevole delle conseguenze a cui può portare il suo comportamento.

Risulta opportuno descrivere il Binge Drinker sia sulla base della quantità di alcol ingerito che di frequenza d’attuazione del comportamento di abuso. Un episodio di Binge Drinking è caratterizzato dal consumo di 4 o più drink in una sola occasione per le ragazze e più drink per i ragazzi.

Dal punto di vista psicologico, è fondamentale ricordare che, al di là della sostanza ingerita, lo scopo principale delle abbuffate alcoliche è la perdita di controllo, l’ubriacatura. Spesso, dunque, la sostanza rappresenta solo un mezzo e non un fine.

I soggetti possono essere classificati in funzione del consumo alcolico (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008):

  • Non bevitore: abitualmente non consuma alcol o beve una o due volte all’anno
  • Bevitore sociale: beve normalmente alcol con una frequenza che va da 3 o 4 volte all’anno a 3-4 volte alla settimana, senza episodi di Binge Drinking nelle ultime 2 settimane
  • Binge drinker: da 1 a 4 episodi di Binge Drinking nelle ultime due settimane
  • Forte bevitore: più di 4 episodi di Binge Drinking nelle ultime 2 settimane

Le categorie del Binge Drinker possono essere utilizzate anche con soggetti non clinici nell’ambito della ricerca sul consumo e sugli stili di vita dei giovani e fanno riferimento soprattutto al comportamento attuato dal soggetto nell’unità di tempo presa in considerazione.

La prima intossicazione alcolica si verifica di solito intorno ai 13 anni, l’abuso tende poi ad intensificarsi durante l’adolescenza mostrando un picco massimo tra i 18 e i 22 anni, con un tasso più elevato in particolare tra i giovani studenti universitari. Esistono alcune differenze fondamentali nel consumo di alcolici, basate sull’etnia, sulla vicinanza a rivendite di alcolici, sulla presenza o assenza di norme sul consumo di alcolici. L’incidenza varia poi a seconda del sesso, con una la prevalenza del fenomeno tra i maschi: i ragazzi che tendono a mettere in atto comportamenti di Binge Drinking tre o più volte a settimana sono il 56%, contro il 43% delle ragazze. Le percentuali più rilevanti si registrano tra i maschi con un’età superiore ai 21 anni e tra le femmine tra i 12 e i 20 anni. Poi, in genere, la frequenza di fenomeni di bevute compulsive tende a diminuire (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Solo una bassa percentuale (22% per i maschi, 17% per le femmine) ha iniziato a bere alcolici in famiglia, sotto il controllo di un adulto. Il comportamento genitoriale è di particolare rilevanza nel far comprendere all’adolescente, sia dal punto di vista cognitivo che affettivo, la differenza tra l’uso e l’abuso di alcol. (Baiocco, D’Alessio, Laghi 2008)

Il modello di Fishbein (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008) ci permette di analizzare l’uso e l’abuso di alcol in relazione alle intenzioni personali degli adolescenti, a loro volta modulate dalla pressione sociale e dagli atteggiamenti. Secondo questo modello, la spinta al bere compulsivo viene determinata dalla “pressione sociale”, a sua volta dipendente dalle ipotesi normative, cioè dalle opinioni in merito alle aspettative di coloro da cui gli adolescenti desiderano approvazione. In secondo luogo, l’intenzione al bere sarebbe determinata dall’atteggiamento, cioè dalle aspettative che l’adolescente ripone sul fatto che l’assunzione alcolica determinerà un miglioramento del proprio stato affettivo.

Per quanto riguarda, infine, cià che nello specifico bevono i Binge Drinkers, le ricerche mostrano una prevalenza di super alcolici (36%), birra (22%), liquori (18%) e vino (16%) (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Perchè i giovani bevono? Diverse prospettive a confronto

Secondo la prospettiva della Social Cognition, l’abuso di alcol da parte degli adolescenti è legato all’utilizzo di strategie di coping disadattive (Bear, 2002). I giovani Binge Drinkers attribuirrebbero all’alcol la capacità di ridurre le tensioni e favorire le prestazioni sociali, questo li porta dunque con più probabilità a ricorrere all’alcol nelle situazioni percepite come stressanti. I maschi, in particolare, utilizzano uno stile di coping evitante, dove la modalità più utilizzata è quella che in letteratura si definisce “diversivo sociale”. Le ragazze, invece, utilizzano uno stile di coping emozionale, caratterizzato da ansia, rabbia, sensi di colpa rispetto agli stress da gestire. Di contro, i giovani di entrambi i sessi che fanno uso moderato di alcol utilizzano uno stile basato sull’analisi e sulla valutazione del problema quando ritengono tali stress “situazioni modificabili”. I Binge Drinkers, e ancora di più gli Heavy Drinkers (bevitori forti), considerano invece gli eventi stressanti come immodificabili e ricorrono spesso all’alcol, attribuendogli la capacità di evitare o persino di negare tali stress.

In maniera differente, uno schema interpretativo può spiegare l‘abuso alcolico ricorrendo al bisogno di colmare un vuoto esistenziale, tuttavia il fenomeno appare più complesso e, come nel caso di ogni dipendenza, anche il bere assume differenti valenze, che possiamo riassumere schematicamente in questo modo:

  • Socializzazione: quando aumentano le situazioni sociali per farlo (bar, feste con amici, discoteca), soprattutto se si trascorrono molte ore fuori casa o si ha molto tempo libero, l’assunzione di comportamenti di abuso alcolico tra i giovani aumenta. L’alcol viene spesso considerato dai giovani un mezzo per integrarsi socialmente e per ridurre la tensione, al contrario dei giovani adulti i quali dichiarano di bere per divertimento, per stare bene, per essere alla moda, per sembrare estroversi o semplicemente per combattere la noia. È importante rilevare come nella letteratura specializzata, proprio la “noia” viene assunta come principale causa dell’assunzione di comportamenti potenzialmente rischiosi per la salute, come l’uso di alcolici.
  • Trasgressione: la capacità del pensiero astratto, che si sviluppa proprio nell’adolescenza, porta a criticare i valori del mondo dell’adulto, l’autorità, le leggi, gli obblighi. Anche l’alcol, indicato tutt’ora come divieto, come limite del lecito oltre al quale l’adolescente può inoltrarsi solo trasgredendo, letteralmente “incamminandosi oltre” (lat. Trasgredior), assume l’aspetto di un comportamento di rottura, col quale l’adolescente esprime la propria debole opposizione a una realtà che fatica a riconoscere come propria. In tal modo, il giovane esprime la propria adesione ad un tipico archetipo occidentale della cultura adolescenziale: quello del trasgressore. Purtroppo, con tutti i rischi che questo comporta sulla salute.
  • Cultura del Rischio: esiste una “cultura del rischio” che spiega la valorizzazione che i giovani attribuiscono a gesti pericolosi, come l’assunzione di alcol, droghe, comportamenti sessuali estremi, ricerca di sensazioni forti. La cultura del rischio si presenta sfaccettata: secondo un’indagine condotta nel 2012 (Bastiani Pergamo & Drogo, 2012), alla domanda “perchè assumere rischi volontari?” il 90% dei giovani risponde: “per essere notati”, l’80%: “per sentirsi parte di un gruppo” e il 70%: per “vincere la paura”.

Da ultimo, uno sguardo agli studi sociologici ci porta a considerare l’abuso di alcol come strettamente collegato al concetto di devianza proprio di ogni società. Per questo nell’Ottocento l’alcolista era considerato un criminale, nella prima metà del Novecento un malato mentale e, solo nel dopoguerra, un soggetto in qualche modo malato e bisognoso di un programma di recupero.

Strategie terapeutiche, prevenzione e promozione della salute

Il concetto di prevenzione, intesa come semplice profilassi, cioè come educazione sanitaria legata alla cultura medica, ha sottolineato la necessità di un’educazione in grado di contrastare la visione dell’ alcol inteso come sostanza alimentare e che non etichetta come comportamenti “a rischio” il suo uso e il suo abuso. Tuttavia, la carenza di programmi di educazione alla salute ha portato la popolazione giovanile a ignorare i rischi dell’alcol (Pollo, 2012).

Appare quindi importante definire una vera e propria strategia di prevenzione rivolta alla diminuzione dei consumi alcolici e all’adozione di stili di vita sani nei giovanissimi. Fare prevenzione significa “produrre dei cambiamenti stabili nel tempo e che vanno al di là dell’intervento individuale. È necessario creare programmi che non si limitino a interventi riparativi e limitati nel tempo bensì che coinvolgano le persone e le rendano consapevoli delle loro scelte” (Bastiani Pergamo & Drogo, 2012).

Adolescenza: i cambiamenti nel comportamento sociale sono dovuti agli ormoni? – FluIDsex

Cosa determina i cambiamenti nel comportamento sociale durante l’ adolescenza? E’ davvero colpa degli ormoni? La risposta di un recente studio condotto a Buffalo.

 

E se non fossero gli ormoni sessuali rilasciati in pubertà a dettare i cambiamenti nel comportamento sociale degli adolescenti?

L’autore dello studio recentemente uscito sulla rivista Current Biology, Matthew Paul, assistente professore del Dipartimento di Psicologia dell’University at Buffalo (UB), ritiene che i cambiamenti sociali che si verificano durante il periodo dell’ adolescenza siano indipendenti dai cambiamenti ormonali.

E per dimostrare ciò, dato che pubertà e adolescenza insorgono contemporaneamente, è necessario separare i due processi. Non potendo scindere questi due processi in un soggetto umano, i ricercatori di questo studio hanno riprodotto questo processo di separazione sui criceti siberiani.

L’ adolescenza è risaputo essere un periodo critico. Le motivazioni che rendono tale periodo perturbato sono varie, tra cui lo sviluppo di un pensiero complesso dato dal pieno sviluppo cognitivo, il passaggio dallo status di bambino a quello di adulto e gli innumerevoli altri cambiamenti di carattere biologico, psicologico e sociale. Per quanto riguarda infatti, le relazioni, in questa fase di sviluppo l’attenzione si sposta dalla famiglia al gruppo dei pari.

Qual è la differenza tra pubertà e adolescenza?

È stato spesso ritenuto che questo insieme di variegati cambiamenti dipendano dalla pubertà, ovvero dall’aumento del rilascio di ormoni gonadici.

I co-autori dello studio Clemens Probst, studioso del Massachusetts General Hospital, Geert de Vries, professore alla Georgia State University e Lauren Brown, uno studente laureato alla UB, ricordano come in termini colloquiali pubertà e adolescenza vengano utilizzati come sinonimi, eppure sono due processi biologicamente distinti.

  • La pubertà è quel processo attraverso cui, in seguito all’attivazione dell’asse riproduttivo, le persone sviluppano, oltre alle caratteristiche sessuali secondarie, la capacità di riprodursi
  • L’adolescenza, invece, non si riduce ad un cambiamento prettamente ormonale e biologico, ma oltre a comprenderlo, include anche cambiamenti di carattere cognitivo, sociale ed emotivo.

Tutti i cambiamenti evolutivi dipendono dagli ormoni puberali?

Utilizzando i criceti siberiani, una specie animale di allevamento stagionale, il dr. Paul è stato in grado di controllare i loro tempi puberali.

I criceti siberiani nati all’inizio della stagione riproduttiva (quando le giornate sono lunghe) attraversano rapidamente i cambiamenti puberali per riprodursi nello stesso anno, a circa 30 giorni dalla nascita. Invece i criceti nati in ritardo (quando le giornate sono più brevi), subiscono un ritardo anche nell’ insorgenza puberale per evitare parti in pieno inverno. Infatti, l’ arrivo della pubertà per loro si attesta intorno ai 100 giorni di età.

Dati i presupposti della specie, il dr. Paul ha deciso di controllare sperimentalmente la luce che un criceto riceve e ritardare così l’arrivo della pubertà. Nel frattempo, il ricercatore ha osservato i comportamenti di passaggio dal gioco al predominio sociale (passo importante per i criceti siberiani per disperdersi, ovvero trovare il proprio territorio).

I criceti sono stati divisi in due gruppi, che affrontano il passaggio puberale in momenti differenti, in modo da consentire un’osservazione temporale dei comportamenti sociali sopracitati.

Comportamenti sociali e ormoni: i risultati dello studio

Il gruppo di ricerca ha scoperto che la transizione dal gioco alla dominanza si è verificata in entrambi i gruppi di criceti (sia quelli a lunga giornata sia quelli a breve giornata) nello stesso momento, indipendentemente dal momento puberale. In questo modo la transizione gioco-dominanza è avvenuta ben prima della pubertà, per i criceti del secondo gruppo, in cui la pubertà è iniziata a 100 giorni. Sostiene il dr. Paul:

[blockquote style=”1″]Questi risultati sono importanti anche per la salute mentale degli adolescenti. Comprendere i meccanismi alla base dello sviluppo adolescenziale fornirà informazioni sul perché così tanti disturbi mentali si presentano durante questo periodo della vita[/blockquote]

Inoltre, egli non sembra esser titubante nel creare questo parallelismo tra comportamento animale e umano, in quanto

[blockquote style=”1″]Il gioco è un comportamento importante in molte specie, in particolare i mammiferi. È conservato in modo evolutivo, nel senso che non è stato perso da un antenato comune in quanto le specie si sono staccate l’una dall’altra nell’albero evolutivo. Poiché il gioco è espresso in così tante specie, è probabile che stia svolgendo una funzione importante, anche negli umani. Suggerisce anche che ciò che impariamo dai nostri criceti sarà probabilmente vero per molte altre specie[/blockquote]

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Realtà virtuale: nuovo alleato del terapeuta CBT nel trattamento delle paranoie in pazienti con disturbi psicotici?

Secondo un nuovo studio pubblicato su The Lancet Psychiatry la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) basata sulla realtà virtuale può aiutare a ridurre la paranoia e apporta benefici sulla cognizione sociale nelle persone con disturbi psicotici.

 

I ricercatori hanno implementato un disegno di ricerca controllato e randomizzato di terapia cognitivo-comportamentale basata sulla realtà virtuale personalizzata in 116 pazienti con un disturbo psicotico e ideazione paranoide. La ricerca prevedeva sedici sessioni di terapia in realtà virtuale, ciascuna della durata di un’ora. I risultati alla fine delle sessioni sperimentali mostrano una significativa riduzione delle autovalutazioni riferite alla paranoia sia immediatamente dopo il trattamento che in seguito a un follow-up a 6 mesi. Al contrario, il gruppo di controllo trattato con cure classiche quali antipsicotici, consultazioni psichiatriche e trattamenti riabilitativi, ha mostrato un leggero aumento dei pensieri paranoici. Gli autori hanno notato anche modificazione nella cognizione sociale, osservando miglioramenti nel funzionamento interpersonale.

Realtà virtuale in terapia: quali vantaggi offre?

Uno dei grandi vantaggi dell’utilizzo della CBT basata sulla realtà virtuale è quello che essa può essere utilizzata per aggirare alcuni limiti delle terapie più classiche basate sull’esposizione. Nelle impostazioni di realtà virtuale, infatti, l’ambiente e i personaggi possono essere totalmente gestiti dal terapeuta. Ad esempio, lo studio prevedeva lo svolgimento della terapia in 4 ambienti sociali virtuali: nel mezzo di una strada, su di un autobus, all’interno di un bar e in un supermercato. Il terapeuta era in grado di controllare le caratteristiche delle risposte di 40 avatar umani, consentendo in questo modo esercizi di trattamento personalizzati per ciascun paziente.

Gli autori hanno affermato che

[blockquote style=”1″]I pazienti comunicavano con il terapeuta durante la sessione di realtà virtuale descrivendo il pensiero paranoide che scaturiva nella situazione sociale inscenata, permettendo così di abbandonare i “safety behaviors” che solitamente questi pazienti mettono in atto: evitare il contatto oculare, mantenere la distanza e astenersi dalla comunicazione[/blockquote] .

I limiti maggiori della ricerca sono risultati essere: la presenza di un unico follow-up dopo 6 mesi che non ha permesso di stabilire gli effetti a lungo termine di questa forma innovativa di CBT. Inoltre, alcuni pazienti hanno rifiutato di partecipare alla ricerca poiché ritenevano l’ambiente virtuale troppo terrificante, per questo motivo il campione non include i pazienti più paranoici ed evitanti.

In conclusione, appaiono sicuramente necessarie ulteriori ricerche per indagare l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale all’interno della terapia cognitivo comportamentale, quello che si può affermare è che emergono dati a favore dell’utilizzo di questo tipo di terapia in pazienti con disturbi psicotici e paranoidi, oltre che con i pazienti ossessivo-compulsivi come affermano diversi studi presenti in letteratura.

Yoga e ritmo di respirazione: perchè aiutano a gestire ansia e paura

Uno studio pubblicato recentemente su Nature Communication ha dimostrato l’interazione tra pattern di neuroni appartenenti al sistema olfattivo, il comportamento e il ritmo respiratorio. Un’evidenza a favore delle pratiche di meditazione e di Yoga, legate alla respirazione ritmica, nell’alleviare i sintomi ansiosi.

 

Diversi studi (Yackle, Schwarz et al., 2017) avevano precedentemente sottolineato come la modulazione delle onde cerebrali potesse anche avvenire tramite i centri del tronco dell’encefalo relativi alla respirazione; tuttavia poco si sapeva sull’impatto della respirazione sui circuiti neurali tramite il sistema olfattivo.

Con ogni ciclo respiratorio, il flusso d’aria attiva l’attività neurale nel bulbo olfattivo (OB) e nelle cortecce olfattive tramite l’attivazione dei neuroni olfattivi meccano-sensitivi nell’epitelio nasale. Quando questi neuroni sono compromessi, le attività legate alla respirazione diminuiscono (Onoda & Mori, 1980).

Tuttavia recenti studi hanno evidenziato come il flusso d’aria sia in grado di influenzare i circuiti neurali in diverse aree cerebrali oltrepassando le vie olfattive: nei ratti, la corteccia prefrontale e l’ippocampo mostrano delle oscillazioni che sono strettamente associate con la respirazione, oscillazioni che subiscono interferenze quando i segnali olfattivi periferici vengono rimossi (Biskamp, Bartos & Sauer, 2017).

Da qui l’idea che le oscillazioni in queste regioni fossero modulate dai ritmi respiratori per mantenere l’omeostasi fisiologica (Kleinfeld, Deschênes et al., 2014).

Yoga e respirazione: cosa succede nel cervello?

Basse frequenze delle oscillazioni fanno in modo che avvenga la sincronizzazione delle regioni corticali con quelle sottocorticali; queste  vengono reclutate per differenti comportamenti come si osserva nella discriminazione di stimoli avversivi e nell’espressione della paura che si producono a seguito dell’interazione dinamica fra la corteccia prefrontale, l’amigdala basolaterale e l’ippocampo (Likhtik, Stujenske et al., 2014).

Specificamente, l’espressione comportamentale delle memorie di paura, come il freezing, è associata con le oscillazioni di 4-Hz del circuito che coinvolge la corteccia prefrontale e l’amigdala (Karalis, 2016).

Partendo da tutte queste evidenze, Ma, Moberly, Schreck e colleghi (2018) hanno investigato il ruolo della respirazione e del sistema olfattivo nei circuiti preposti alle risposte fisiologiche e comportamentali della paura e dell’ansia.

In particolare nel loro studio sui ratti, gli autori, concentrandosi sulla corteccia prefrontale prelimbica (plPFC), hanno combinato l’optogenetica, l’elettrofisiologia e i comportamenti animali con lo scopo di comprendere i meccanismi che consentissero a input olfattivi di modulare i ritmi respiratori e a sua volta di influenzare plPFC e i comportamenti di freezing (Ma Moberly, Schreck et al., 2018).

Dapprima i ricercatori hanno indotto nei ratti, tramite condizionamento, il freezing, addestrandoli ad associare un suono ad uno shock. È bene sottolineare che nei ratti, utilizzati negli esperimenti, l’attività cerebrale in plPFC e nel bulbo olfattivo (OB) è stata misurata tramite elettrodi mentre questi erano in stato di freezing.

Tramite la misurazione dell’attivazione di OB durante l’inalazione di un flusso d’aria, di plPDF e del comportamento di freezing, i ricercatori hanno osservato come quest’ultimo, il ritmo respiratorio e l’attività elettrica dei circuiti neurali fossero sincronizzati e coordinati letteralmente sulla stessa lunghezza d’onda, 4 Hz (Ma Moberly, Schreck et al., 2018).

I risultati dello studio

Lo studio di Ma, Moberly, Schreck e colleghi (2018) ha dimostrato come nei topi vi sia una sincronizzazione tra respirazione nasale e comportamento rafforzando l’ipotesi per cui la respirazione ha degli effetti su di esso e sulla regolazione autonomica prodotta dai circuiti predisposti alle reazioni di paura e ansia. Gli umani diversamente dai roditori sono in grado di modificare il ritmo e la frequenza respiratoria in modo volontario e consapevole tramite la meditazione e la pratica dello yoga.

Pertanto tale studio (2018) dimostrerebbe come effettivamente un cambiamento nella respirazione possa influenzare i circuiti neurali e autonomici e di conseguenza i comportamenti e gli stati emotivi.

Sarebbe interessante investigare quale specifico pattern di respirazione sia più efficace nell’influenzare l’attività cerebrale e gli stati emotivi e se realmente diversi tipi di frequenze respiratorie hanno effetti diversi su di essi.

Le memorie traumatiche nel Disturbo Ossessivo Compulsivo – Report del seminario internazionale dell’Università di Firenze

Lo scorso 21 marzo si è tenuto presso la sede del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze, un seminario internazionale incentrato sulla rassegna di alcuni dei più recenti sviluppi scientifici nell’ambito del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo complesso.

 

Ha introdotto il seminario il Professor Davide Dèttore (Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze), che ha illustrato come indagare l’eventuale presenza di aspetti traumatici nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), soprattutto in pazienti resistenti ai gold standard del trattamento indicati nelle linee guida internazionali (tipicamente psicoterapia CBT e farmaci serotoninergici), trovi giustificazione nelle evidenze scientifiche più recenti. Vari studi negli ultimi anni hanno suggerito, infatti, che un evento traumatico possa avere un ruolo nell’eziopatogenesi del Disturbo Ossessivo Compulsivo e, in altri casi, che possa esistere un legame tra quest’ultimo ed il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).

Il Dottor Jaime Delgadillo (Department of Psychology, University of Sheffield, UK) ha presentato alcuni trial randomizzati controllati che hanno evidenziato una sinergia positiva nel trattamento del DOC associando la terapia cognitivo-comportamentale standard (CBT) all’approccio terapeutico EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), efficace nel favorire la desensibilizzazione e la rielaborazione di ricordi traumatici o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo attraverso i movimenti oculari o delle stimolazioni tattili.

Il Dottor Nitsa Nacash (Department of Psychiatry, Chaim Sheba Medical Center, Tel Ashomer, Israel) ha illustrato alcuni studi in cui sono state utilizzate tecniche di Esposizione per il trattamento di ossessioni post-traumatiche.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da relazione

L’intervento del Professor Guy Doron (Baruch Ivcher School of Psychology Interdisciplinary Center Herzliya, Israel) è stato incentrato sulla presentazione di alcuni studi sulle memorie di conflitti relazionali in soggetti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo da relazione. Si tratta di una manifestazione particolare del DOC in cui le ossessioni sono incentrate sulla relazione o sul partner. Nel primo caso, le persone si sentono perseguitate da dubbi e preoccupazioni su ciò che provano nei confronti dei loro partner, sui sentimenti che i partner hanno nei loro confronti e su quanto la relazione sia o meno quella ‘giusta’. Nel caso di una sintomatologia focalizzata sul partner, invece, il nucleo delle ossessioni è rappresentato da caratteristiche fisiche del partner, da qualità sociali o ancora da aspetti quali, ad esempio, la moralità, l’intelligenza o la stabilità emotiva. I sintomi del DOC da relazione possono essere estremamente invalidanti e ingenerare costanti richieste di rassicurazione e rimuginii.

Sono inoltre stati identificati specifici fattori di vulnerabilità, quali particolari credenze disfunzionali, perfezionismo clinico, attaccamento insicuro, tratti narcisistici e/o borderline di personalità, instabilità del . Negli studi presentati, sono stati indagati in particolare l’esposizione alla conflittualità genitoriale e a quella tra genitori e figli. E’ emerso dai risultati come l’acquisizione di modelli relazionali negativi possa costituire un fattore predittivo rispetto allo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi, oltre a causare interferenze nel funzionamento relazionale e sessuale, credenze catastrofiche in ambito sentimentale e vulnerabilità dell’autostima.

Dissociazione e disorganizzazione in pazienti DOC

Il ruolo della dissociazione e della disorganizzazione dell’attaccamento in pazienti DOC resistenti è stato illustrato dal Dottor Fabio Monticelli (Centro Clinico De Sanctis, Roma), che ha evidenziato come in questo gruppo particolare di disturbi dissociativi giochino un ruolo fondamentale i Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI). Il genitore spaventante genera uno stato mentale di paura senza sbocco alla quale si può reagire solo in termini di attacco, fuga o dissociazione. Se contempliamo l’idea di uno “spettro psicopatologico dissociativo” in cui i due poli sono costituiti, rispettivamente, dall’attaccamento sicuro e da quello disorganizzato, in quest’ultimo si riscontreranno esperienze di dissociazione come, ad esempio, dissociazione cognitivo-affettiva o congelamento (freezing).

Gli studi presentati hanno messo in evidenza come nei casi in cui i sistemi motivazionali interpersonali siano multipli, scomposti e disorganizzati si riscontrino sintomi dissociativi. Pertanto, nel trattamento di questo particolare sottogruppo di pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo potrebbe essere utile strutturare un intervento differito, nel quale si proceda anzitutto a stabilizzare i sintomi dissociativi, senza perdere di vista l’importanza della relazione terapeutica che si instaura con questi pazienti. Solo successivamente alla stabilizzazione sarebbe possibile intervenire con le tecniche CBT indicate per il trattamento del DOC, come l’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP).

Conclusioni e ringraziamenti

A conclusione del seminario, il Dottor Gian Paolo Mazzoni (Studi Cognitivi, Firenze) ha presentato tre casi complessi di DOC con diversi livelli di intensità sintomatologica che sono stati trattati in setting differenti, rispettivamente in struttura residenziale, in contesto ambulatoriale ed in studio privato. In tutti e tre i casi è stata utilizzata la tecnica terapeutica EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per gestire le memorie traumatiche e superare le resistenze al trattamento, così come indicato in ricerche recenti, in base alle quali quest’ultima può essere utilizzata in associazione alla psicoterapia CBT standard o in forma singola.

Al momento i risultati emersi rispetto al trattamento dei dati clinici e di ricerca presentati nel corso del seminario possono contribuire a delineare nuove ed interessanti prospettive di intervento da incrementare e verificare sperimentalmente per la terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo complesso.

Questo seminario ha messo ancor più in evidenza, data la complessità sintomatologica e di trattamento del DOC, l’utilità della ricerca in questo ambito, al fine di riuscire a migliorare sempre di più la qualità e l’efficacia dei trattamenti. Inoltre é emersa, altresì, l’utilità di una formazione specifica e sempre più mirata per i clinici che intendano occuparsi di questo disturbo dalla struttura multiforme e complessa.

Un sentito ringraziamento va all’Università di Firenze, in particolare al professor Dèttore, per aver ospitato e presentato l’evento, agli organizzatori quali il Dottor Pozza ed a tutti gli ospiti italiani ed internazionali che sono intervenuti con i loro innovativi contributi.

cancel