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Interazione genitori-figli: la sollecitazione in bambini con Sindrome di Down e Disturbo dello Spettro Autistico

Il presente articolo illustra un lavoro di ricerca il cui obiettivo è la descrizione di come la figura genitoriale interagisce sollecitando il proprio figlio in una condizione di gioco; in particolare il focus d’interesse è l’interazione nello sviluppo atipico, nella fattispecie l’interazione con bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico e da Sindrome di Down.

Alice Santoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Interazione genitori-figli in situazioni di sviluppo atipico: abstract

L’obiettivo del presente lavoro è la descrizione di come la figura genitoriale interagisce sollecitando il proprio figlio in una condizione di gioco. In particolare il nostro focus d’interesse è l’interazione nello sviluppo atipico.

L’ipotesi di partenza è che la patologia dei figli possa modificare significativamente i comportamenti d’interazione innati dei genitori.

Il campione della ricerca è costituito da trenta diadi madre-bambino e dalle altre rispettive diadi padre-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico e 25 diadi madre-bambino e padre-bambino con Sindrome di Down.

La raccolta dati è avvenuta attraverso l’osservazione di videoregistrazioni che ritraevano episodi di gioco sociale. La codifica è avvenuta attraverso lo strumento ObsWin ed uno specifico schema di codifica a nove livelli riportato successivamente in appendice (Child and Family Research,Venuti 1994; Bornestein 1988).

Per codificare i dati ottenuti è stato utilizzato il coefficiente statistico Kappa di Choen e per analizare i risultati il test per campioni indipendenti. Per valutare l’ipotesi di partenza è stato applicato il test di Levene di uguaglianza della varianza.

I risultati emersi confermano l’ipotesi di partenza, le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno infatti ad interferire, talvolta anche in modo significativo, sull’abituale comunicazione genitori-figli.

Interazione genitori figli

L’ interazione genitori-bambini è funzionale alla sopravvivenza. I differenti modi d’interagire consentono di stabilire una prossimità psicologica che funge da rampa di lancio per il futuro sviluppo del piccolo. Il legame assume fondamentale importanza soprattutto nei primi mesi di vita, durante i quali il bambino è maggiormente vulnerabile. La figura di accudimento, sia madre, padre o sostituto significativo, diviene indispensabile per garantire un equilibrato sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale.

Specificità e differenze nella relazione parentale

I modelli d’ interazione padre-bambino e madre-bambino mostrano sia delle differenze sia delle somiglianze nei comportamenti. Secondo alcuni autori le differenze sulle attitudini di cura non andrebbero ricercate nelle difformità sessuali, bensì nelle risposte alle pressioni sociali consolidate. Frodi e Lamb (1978) condussero uno studio di laboratorio nel quale venne indagata la risposta ad alcuni segnali emessi da bambini a loro estranei. Venivano monitorate le risposte elettrofisiologiche di madre e padre durante la visione di alcuni filmati. Lo studiò dimostrò che madre e padre risultavano ugualmente attivi e sensibili ai richiami del neonato e ne conseguivano medesimi comportamennti sociali. Certo esistono anche delle peculiarità; le madri prediligono attività di tipo intellettuale, e assolvono a compiti di cura fisica del bambino. I padri sono principalmente partner di gioco, con proposte che tendono ad essere più vigorose e stimolanti rispetto a quelle materne. Il padre diviene istitutore o modello di abilità e valori con un ruolo strettamente correlato dalla sfera normativa dettata dalla società (Paola Venuti, Francesca Giusti, 1996).

Questi studi dimostrano come le differenze siano riscontrabili a livello qualitativo e come il ruolo assunto dal genitore dipenda dal contesto sociale, dalla rete di relazioni, dalle credenze e dai valori di ciascun individuo.

Interazione e sviluppo-atipico

Le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno ad interferire sull’abituale comunicazione fra genitori-figli, rendendo così incapace il bambino di relazionarsi agli altri attraverso le modalità di relazione tipiche. A seconda della gravità della patologia possono essere presenti disfunzioni gravi, oppure le abilità del piccolo con sviluppo atipico possono essere intaccate solo parzialmente.

Sulla base di ciò è molto interessante comprendere quali strategie alternative vengono messe in atto dai genitori e figli per compensare il deficit. Numerosi studi sembrano sottolinerae che i genitori sono in grado di ricalibrare la loro soglia di rispondenza e attivazione di comportamenti utili, al fine di non deprivare di nulla il bambino. I genitori possono imparare a compensare, per lo meno in parte, le capactà interattive ridotte dei propri figli.

Com’è la relazione tra genitori e figli con Disturbo dello Spettro Autistico?

In letteratura le ricerche focalizzate su questo argomento sono poche poiché l’approfondimento riguardante questo campo d’indagine è recente. I deficit caratteristici dell’ autismo rendono difficoltoso lo scambio interattivo e lo svolgimento del proprio ruolo da parte del genitore. La relazione è influenzata dalle difficoltà presenti nello sviluppo comunicativo, vista la mancanza di reciprocità ed interazione del bambino. Altresì la mancanza della comparsa del gioco simbolico, descritto da Baron Choen (1987) come la capacità da parte del piccolo ad utilizzare oggetti in sostituzione di altri, l’attribuire ad essi caratteristiche non realmente esistenti ed il saper fingere giocando mina lo sviluppo semantico, concettuale e meta-rappresentativo. Il rapporto è compromesso anche dalla scarsa empatia del figlio, che non attiverà le risposte attese dai genitori. Alle classiche modalità messe in atto dai genitori non conseguiranno i comportamenti ideali che caratterizzano un bambino con sviluppo tipico. Tale comportamento va dunque a pregiudicare il corretto adattamento del bambino e produce una sensazione di frustrazione nei genitori. La poca responsività del bambino e la scarsissima apertura sociale modificano il modo in cui s’instaura la relazione conferendo ad essa un senso d’inadeguatezza. Per contrastare il senso di manchevolezza i genitori di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico sembrano avere una maggior tendenza al controllo ed alla direttività, mettendo in atto più tentativi per agganciare l’attenzione del piccolo soprattutto attraverso approcci di tipo fisico (Kasari, Sigman, Mundi, Yiriya, 1988; Lemanek, Stone, Fishel, 1993).

Com’è la relazione tra genitori e figli con Sindrome di Down?

Il legame che s’instaura nei primi anni di vita è segnato dai limiti dettati dal ritardo cognitivo che non permette sempre un legame intimo caratterizzato da sicurezza, in quanto vengono meno i prerequisiti necessari. Sebbene l’interazione dei bambini con Sindrome di Down risulti più ricca rispetto a quella dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, si rivela comunque carente rispetto a quella sviluppata dai bambini con sviluppo tipico. Inoltre sono presenti difficoltà comunicative, intellettive ed attentive (Stefano Vicari, 2007). Tutto ciò rende quindi difficile la creazione e la manipolazione delle idee, nonché l’organizzazione globale del proprio comportamento. A livello indiretto inoltre la poca reattività del bambino crea un ostacolo che non permette ai genitori di giungere ad una chiara interpretazione dell’atteggiamento del figlio. Generalmente i genitori per superare questa sfida reagiscono mettendo in atto un comportamento contraddistinto da un eccessivo coinvolgimento nelle cure del figlio. Talvolta la preoccupazione genitoriale si esprime con atteggiamenti intrusivi che, se esasperati, influiscono negativamente sullo sviluppo psichico del piccolo. Tale frustrazione potrebbe non permettere al bambino di raggiungere il più alto livello delle sue potenzialità. Anche in questo caso, come per i genitori dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, madre e padre di bambini con Sindrome di Down attuano comportamenti contraddistinti da una forte direttività (Jenelik Dominus, Dvorak Gijs, 2009).

L’interazione genitori-figli in casi di sviluppo atipico – Lo studio

Campione, procedura raccolta dati e codifica

Il campione della ricerca è costituito da trenta diadi madre-bambino e dalle altre trenta corrispondenti diadi padre-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico, e da venticinque diadi madre-bambino e padre-bambino con Sindrome di Down. I bambini hanno un’età compresa fra i venti ed i sessanta mesi.

La fase di ricerca si è basata sull’osservazione di videoregistrazioni di diadi madre-bambino e padre-bambino impegnati in episodi di gioco sociale.

Inizialmente, per raggiungere un buon utilizzo e una buona conoscenza del codice (Child and Family Research, Venuti 1994; Bornestein 1988), mi sono concentrata sulla visione di diadi con sviluppo tipico e successivamente con il campione vero e proprio.

Le videoriprese, ciascuna della durata di dieci minuti, avvenivano in situazioni strutturate e con un set di giochi adeguati all’età: un servizio da tè, una palla, un trenino, dei libri illustrati, delle botticelle ad incastro, una bambola, una coperta ed un telefono giocattolo. Per codificare i dati si è utilizzato Obswin poiché permetteva che la codifica avvenisse in tempo reale.

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione genitori-figli - LIVELLI

Imm. 1 – I nove livelli di codifica per l’analisi degli episodi di gioco

Per codificare i dati si è utilizzato il coefficiente statistico di Kappa per garantire accuratezza ed affidabilità statistica alla classificazione.

Analisi dei dati

Per analizzare i dati è stato utilizzato il test per campioni indipendenti che permette, attraverso il confronto tra le medie dei due campioni lineari, di decidere se quest’ultimi provengano da due popolazioni diverse o meno. Per valutare questa ipotesi è necessario applicare il test di Levene di uguaglianza della varianza. Se l’ipotesi che le varianze siano uguali viene rifiutata, il procedimento risulterebbe inadeguato. Nelle successive tabelle (con * saranno indicati i dati significativi) saranno riportate unicamente le frequenze, tralasciando le durate della sollecitazione, in quanto risultano decisamente più  informative le prime. Non veranno valutati i valori della variabile 9, detta anche di default.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE TABELLE DELL’ ANALISI DEI DATI

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab1

Tab. 1 – Frequenze livelli di sollecitazione

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab. 2

Tab. 2 – Frequenze livelli di sollecitazione madri

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.3

Tab. 3 – Frequenze livelli di sollecitazione padri

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.4

Tab. 4 – Frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.5

Tab. 5 – Frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down

Conclusioni

I risultati emersi dallo studio evidenziano come i comportamenti d’interazione innati del genitore possano modificarsi, talvolta anche in modo significativo, a seconda delle differenti necessità dettate dallo sviluppo atipico dei propri figli. Le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno infatti ad interferire sull’abituale comunicazione genitori-figli.

Interessanti risultano inoltre le specificità di genere riguardanti i differenti approcci interattivi di madri e padri. Mettendo a confronto la tabella numero 4 (frequenze livelli di sollecitazioni nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico) e la tabella numero 5 (frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down) è possibile osservare come madri e padri rispettino i consolidati ruoli sociali, differenziando qualitativamente la modalità con le quali si relazionano al piccolo. Esaminando le sollecitazioni che avvengono con frequenza maggiore è possibile notare come i padri cerchino di agganciare l’attenzione del proprio figlio soprattutto attraverso l’utilizzo della variabile numero 3 in entrambi i casi di sviluppo atipico. Allo stesso modo le sollecitazioni che avvengono con maggior frequenza osservando esclusivamente i comportamenti delle madri sono tutte riconducibili alla numero 6. La madre dunque, a differenza del padre, anche nel caso di sviluppo atipico sollecita  maggiormente il piccolo a livello intellettuale piuttosto che ludico.

Dall’ analisi ottenuta dalla comparazione tra i gruppi (tabella 1: frequenze livelli di sollecitazione) sono emerse delle significatività riguardanti la variabile numero 5 e numero 7. La variabile numero 5 viene utilizzata maggiormente nel gruppo di bambini con Sindrome di Down, menre la 7 nel gruppo d bambini con Disturbo dello Spettro Autistico.

Osservando la tabella numero 2 (frequenze livelli di sollecitazione madri) le significatività emerse riguardano la variabile numero 1 e nuovamente la variabile numero 7. Come avveniva nella prima tabella, anche qui, la variabile numero 7 ha frequenza maggiore nel gruppo d bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, mentre la 1 in quello dei bambini con Sindrome di Down.

Confrontando le sollecitazioni dei padri in entrambi i casi di sviluppo atipico (Tabella 3: frequenze livelli di sollecitazione padri) è emersa una significativa differenza a carico della variabile numero 5. Questo livello viene utilizzato maggiormente dai padri di bambini con Sindrome di Down.

Nelle ultime due analisi dove si sono confrontati i comportamenti di entrambi i genitori, ma separatamente per ognuna delle patologie dei figli, è emersa una significativa differenza solo nella tabella 4 (frequenze livelli di sollecitazioni nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico), mentre nessuna nella tabella 5 ( frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down). La significatività riguarda la variabile 6 utilizzata con maggiore intensità da parte dei padri.

 

APPENDICE – Guarda qui lo schema di codifica del gioco a nove livelli 

Cosa avviene nel cervello quando muoviamo la testa?

I neuroscienziati del Sainsbury Wellcome Center hanno identificato un circuito nella corteccia visiva primaria del cervello (V1) che integra i segnali del movimento della testa e i segnali di movimento visivo. Lo studio, pubblicato su Neuron, spiega alcuni meccanismi con cui gli input visivi e vestibolari del cervello si sommano per consentire risposte comportamentali appropriate.

 

Il movimento della testa e l’attivazione del cervello

Nella vita quotidiana si muove costantemente la testa per osservare l’ambiente circostante. Per dare un senso alle informazioni che rientrano nello sguardo, è necessario tracciare la posizione della testa; questo si realizza con informazioni che provengono dagli organi di senso vestibolari, che si trovano nell’orecchio interno.

Il team di ricerca ha identificato che nella corteccia visiva primaria (area V1) i segnali vestibolari e i segnali visivi convergono. I segnali vestibolari provengono dalla corteccia retrospleniale, un’area cerebrale pensata per codificare informazioni critiche per la navigazione spaziale nel mondo circostante.

Il direttore associato del Sainsbury Wellcome Centre e direttore del progetto, il professor Troy W. Margrie ha commentato: “Dagli anni ’50 ci siamo concentrati sulla comprensione di come la direzione e la velocità degli stimoli sensoriali siano rappresentati dalla corteccia sensoriale primaria, dimostrando che questo processo corticale dipende dal contesto e coinvolge stimoli interni che segnalano il movimento“.

Per identificare dapprima le aree all’interno della V1 che potrebbero avere accesso ai segnali di testa-movimento, i ricercatori hanno utilizzato sonde di neuropixel all’avanguardia nel cervello di topi, ruotati passivamente. Le registrazioni iniziali sono state effettuate in completa oscurità per garantire che non vi fosse alcun input visivo e i dati hanno mostrato che i neuroni V1 di livello 6 (L6) trasmettono informazioni sul movimento della testa durante la rotazione.

Come avviene l’integrazione dei segnali di testa e di movimento visivo

La seconda parte dello studio, utilizzando registrazioni intracellulari, si è concentrata su quali aspetti del movimento della testa potrebbero essere codificati da tale attività. Lesionando i canali vestibolari e ruotando gli animali a varie velocità, gli autori hanno mostrato che la stragrande maggioranza dei neuroni V1 L6 riceve input sinaptici la cui attività fornisce una stima affidabile della velocità della testa.

Forse l’osservazione più sorprendente è stata la misura in cui questi segnali venivano rappresentati attraverso la rete locale. Anche se si è esplorata solo una piccola frazione dello spazio di stimolo vestibolare, quasi tutte le cellule hanno risposto“, ha osservato il professor Margrie.

Per studiare l’integrazione dei segnali di testa e di movimento visivo nelle singole cellule V1 L6, le registrazioni intracellulari sono state nuovamente ottenute attraverso i topi mentre questi venivano ruotati oltre uno stimolo visivo statico e poi confrontate con i dati delle rotazioni del topo al buio. È stato trovato che i neuroni L6 ricevono un insieme di input distinti da quelli che trasmettono le informazioni di movimento visivo e che questi segnali si sommano linearmente per distinguere il movimento interno da quello esterno e la loro combinazione.

La parte finale dello studio si è concentrata su una potenziale fonte dei segnali di movimento della testa. La corteccia retrospleniale (RSP), un’area del cervello coinvolta nella navigazione spaziale, è stata proposta come probabile candidata a causa della sua connettività monosinaptica con V1 L6 e della sua pertinenza funzionale. Per testare questa teoria, gli pseudovirus sono stati usati per indicare un segnale che permettesse la registrazione ottica degli stimoli di uscita dei neuroni RSP. I dati hanno mostrato che RSP fornisce un percorso plausibile per l’integrazione dei segnali di movimento della testa.

Il professor Margrie ha osservato in conclusione: “Dati i nostri precedenti risultati anatomici e il suo ruolo nell’elaborazione spaziale, l’RSP è stata la nostra prima regione candidata: questi nuovi dati aumentano la possibilità che possano essere trasmessi vari tipi di informazioni spaziali attraverso un locus per la modulazione dipendente dal contesto della segnalazione sensoriale nella corteccia“.

Questa ricerca è stata sostenuta dal British Medical Research Council, Wellcome Trust e The Gatsby Charitable Foundation.

La schema Therapy con i bambini e gli adolescenti (2017) di Loose C., Graaf P., Zarbock G. – Recensione del libro

Nel testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti gli autori usano questa metafora: gli schemi sono atomi che si combinano a formare diverse molecole, i mode. Anche nella terapia con i bambini e gli adolescenti è fondamentale individuare mode, schemi, stili di coping e bisogno primario non soddisfatto.

 

Questo libro è per noi una gioia ma anche una sfida, per la prima volta a livello internazionale, presentiamo l’approccio della Schema Therapy (…) per l’ambito della terapia con bambini e adolescenti.

 

Questo è l’incipit dell’introduzione al testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti, atteso dagli psicologi dell’età evolutiva e dagli psicoterapeuti formati nella Schema Therapy, ideata da Jeffrey Young.

La psicopatologia secondo la Schema Therapy di Jeffrey Young

La Schema Therapy descrive la psicopatologia partendo dai principi fondamentali della psicologia clinica dello sviluppo (Heinrichs & Lohaus, 2011). Nello specifico occorre tenere presente un modello che comprenda l’esame dei seguenti elementi:

  • Fattori di rischio che possono influire o compromettere lo sviluppo emotivo, cognitivo e sociale del bambino fino all’emergere di disturbi psichici. Quali sono questi fattori di rischio? Fattori biografici e culturali del contesto familiare e socio-culturale. Ma anche fattori genetici e di vulnerabilità biologica.
  • Fattori di protezione. Che cosa favorisce lo sviluppo ottimale o cosa riesce a contrastare gli effetti dei fattori di rischio? La disponibilità di almeno una relazione funzionale con un caregiver affettivo è certamente la miglior protezione, oltre alla “robustezza biologica” e ad altri fattori sia personali sia di situazione.

Oltre al modello dei fattori di rischio è da tener presente il modello dei compiti evolutivi (Havinghurst, 1972) e il modello delle dimensioni e costellazioni temperamentali (Herpetz,2008). Nella Schema Therapy fattori di rischio, fattori protettivi, dimensioni temperamentali sono posti in correlazione con i bisogni primari. La frustrazione cronica dei bisogni primari (attaccamento-autonomia-autostima-gioia e divertimento) e del bisogno di coerenza interna, peggiora l’effetto dei fattori di rischio e dirige la psicopatologia. In che modo si sviluppa pertanto la patologia?

La frustrazione cronica dei bisogni e una scarsa coerenza di sé porta alla costruzione di specifici schemi. Essi possono essere definiti come un tentativo, poco funzionale, di soddisfare comunque il bisogno di coerenza ovvero di giungere a un coordinamento di tutti i processi mentali e neuronali per acquisire sicurezza e identità.

Ogniqualvolta un bisogno primario è frustrato si scatenano nel bambino reazioni emotive negative: rabbia, tristezza, paura. Se vissute ripetutamente e con elevata intensità è possibile che il bambino sviluppi un modo stereotipato di comportarsi in reazione a esse.

Abbiamo gli stili di coping o strategie di reazione. Si tratta delle classiche reazioni di allarme tipiche di tutti gli esseri viventi: fight-flight-freeze.

Ovvero con i termini della Schema Therapy:

  1. Stile di coping di iper-compensazione o reazione di attacco o aggressione o fight.
  2. Stile di coping basato su evitamento o reazione di fuga o flight.
  3. Stile di coping della sottomissione e resa o reazione di congelamento o freeze.

Lo schema secondo Jeffrey Young è dunque il risultato di un processo di apprendimento, è inteso come un insieme di ricordi, cognizioni, emozioni e reazioni corporee.

Young ha sviluppato il concetto di mode che definisce così: combinazione di schemi adattivi e maladattivi o di operazioni di schemi che sono attivi contemporaneamente in una persona (Young et al., 2005). Schemi e stili di coping si raggruppano come parti del sé, un modo disfunzionale è una parte del sé che è poco integrata con le altri parti del sé.

La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti: come applicare la Schema Therapy in ogni fase dell’età evolutiva

Nel testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti gli autori usano questa metafora: gli schemi sono atomi che si combinano a formare diverse molecole, i mode.

Anche nella terapia con i bambini e gli adolescenti è fondamentale individuare mode, schemi, stili di coping e bisogno primario non soddisfatto.

Nel testo gli autori illustrano come applicare la Schema Therapy in età evolutiva in ogni fase specifica. Troverete un capitolo per ogni fascia di età dal neonato fino al giovane adulto, nel quale sono descritti i compiti di sviluppo e i principi essenziali della terapia ma anche le tecniche e gli strumenti specifici per ogni età. L’uso dei pupazzi, delle storie, delle metafore e delle carte gioco e del role-play sono strumenti fondamentali dell’approccio con il bambino e l’adolescente; il lettore potrà conoscerli anche attraverso i numerosi casi clinici che gli autori hanno descritto nel manuale.

Volendo fare una sintesi dell’approccio con i bambini è possibile procedere come segue.

La prima tappa è: l’identificazione del mode. Potremmo dire al bambino “dobbiamo creare una squadra, chi sono i giocatori di questa squadra? Quali sono le emozioni che conosci di questa squadra?”.

La seconda fase è accedere al bambino vulnerabile. Un mode che si potrebbe presentare in questa fase è quello del bambino felice, l’altro è il mode del bambino vulnerabile. Al bambino vulnerabile dobbiamo dare tutto perché è il bambino che ha più bisogno di supporto, senza critiche. Ad esempio giocando con le marionette dobbiamo fare in modo che la parte del bambino vulnerabile abbia il pieno sostegno, il nostro obiettivo principale è dare a questa parte del bambino ciò che vuole e capire qual è il bisogno frustrato.

La terza fase riguarda il determinare la funzionalità dei mode del nostro paziente, ovvero riuscire ad individuare tutti i punti di forza e le difficoltà del bambino. Qualunque mode sia, una volta che è compresa la sua funzionalità del mode si procede a riorientare il mode, rafforzando i mode più funzionali e positivi e togliendo così forza alle componenti disfunzionali che determinano comportamenti problematici. Ogni mode ha aspetti funzionali e disfunzionali, ogni mode ha un suo senso, una sua ragion d’essere, non esiste un mode che sia solo sbagliato, bisogna trovare l’alternativa che possa svolgere un lavoro che questo mode non riesce a fare. Ultima fase è il trasferimento di questo nella vita di tutti i giorni, nessuna terapia ha senso senza che abbia un effettivo beneficio nella vita quotidiana.

Peter Graaf dedica uno specifico capitolo di La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti al lavoro con i genitori. Come sempre non è pensabile e non è efficacia fare psicoterapia con i bambini senza coinvolgere i genitori e in molti casi progettare un lavoro specifico con loro.

Nella maggior parte dei casi, spiega l’autore, il coaching dei genitori è una parte irrinunciabile del percorso terapeutico.

In Schema Therapy si usa l’espressione coaching genitoriale per indicare una forma di consulenza sullo sviluppo del bambino e sulla comprensione di come i propri schemi possano colludere con gli schemi dei figli. I genitori sono guidati anche verso l’individuazione dei propri schemi maladattativi, il comportamento problematico del figlio potrà essere visto anche come sintomo derivato dall’esistenza di schemi e mode disfunzionali in famiglia.

Strumenti e tecniche del coaching dei genitori sono la psico educazione, il role-play, la tavola della famiglia, il disegno, gli esercizi immaginativi e le letture specifiche.

E’ possibile un lavoro con i genitori in parallelo con la terapia del bambino ma anche sedute familiari o sedute con il bambino e un singolo genitore.

Gli autori descrivono, inoltre, quali aspetti generali indicano o controindicano il trattamento con quest’approccio.

Schema Therapy in età evolutiva: indicazioni per l’uso

Controindicazioni all’uso della Schema Therapy in età evolutiva:

  • In presenza di sintomi acuti e pericolosi (grave anoressia)
  • In presenza di sintomi psicotici.
  • In presenza di sintomi neurologici o gravi ritardi nello sviluppo.

Indicazioni all’uso della Schema Therapy in età evolutiva:

  • Il bambino non è ancora pronto per la terapia cognitivo comportamentale.
  • Il bambino non riesce a esercitare strategie di autocontrollo.
  • Il bambino tende a evitare emozioni e pensieri legati al comportamento problematico.
  • Il bambino non pensa di avere abbastanza risorse da affrontare le situazioni problematiche e non spera in un miglioramento.

Ho trovato il manuale La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti ricco di strumenti e casi clinici ma anche di un’esaustiva parte teorica esplicativa dei principi della Schema Therapy, pertanto utile a psicologi e psicoterapeuti che lavorano con l’infanzia ma ancora non formati nelle tecniche di J.Young.

 

Aborto e lutto perinatale: il dolore della perdita di un figlio

La perdita di un figlio in gravidanza o nell’immediato post-partum è un evento luttuoso, che comporta una serie di reazioni psicologiche e comportamentali. Spesso il lutto perinatale è un’esperienza traumatica che richiede del tempo per essere elaborata.

 

La perdita di un figlio in gravidanza o nell’immediato post-partum è un evento luttuoso, che comporta una serie di reazioni psicologiche e comportamentali. Si utilizza l’espressione lutto perinatale per indicare la morte di un figlio che avviene tra la ventisettesima settimana di gestazione e i primi 7 giorni di vita del bambino. Gli eventi che comportano la perdita di un figlio nel periodo perinatale sono molteplici e comprendono l’aborto spontaneo, l’interruzione volontaria o terapeutica della gravidanza, la morte intrauterina e la morte subito dopo il parto.

Le fasi del lutto perinatale

Quando si perde una persona cara e, dunque, anche quando viene a mancare un bambino non ancora nato o appena dato alla luce, si attivano diversi vissuti emotivi che caratterizzano le diverse fasi del lutto (Ravaldi, 2009). La prima fase è quella dello shock e della negazione e caratterizza i primi giorni dopo aver ricevuto la notizia della perdita; stordimento, incredulità e negazione sono le emozioni e i vissuti più comuni. Segue la fase della realizzazione, in cui si inizia a prendere consapevolezza della perdita e a prendere contatto con l’esperienza del dolore e può comparire il senso di colpa associato al pensiero che qualcosa poteva essere fatto per evitare la perdita. La terza fase è quella della protesta, in cui compare l’emozione della rabbia, il sentirsi vittime di un’ingiustizia e si possono ricercare delle colpe e responsabilità nei medici, nel contesto ospedaliero, ecc. Segue la fase della disorganizzazione, in cui possono comparire depressione e tendenza all’isolamento e all’evitamento di alcune situazioni legate alla genitorialità; si pensa sia meglio non parlarne e far finta con gli altri che nulla sia successo. Talvolta l’isolamento può essere messo in atto anche nei confronti del partner, soprattutto se i due genitori hanno un modo differente di vivere il dolore. Solo dopo aver attraversato tali fasi ed il dolore associato ad esse è possibile accedere alla fase della riorganizzazione e accettazione, la sofferenza comincia ad attenuarsi, la ricerca della solitudine e l’evitamento si riducono e pian piano si ricomincia a coltivare interessi ed è possibile che ricompaia il desiderio di maternità.

Il lutto perinatale come esperienza traumatica per la famiglia

Da questo si deduce che la perdita di un figlio è spesso un’esperienza traumatica che richiede del tempo per essere elaborata e avviene mediante l’attraversamento del dolore emotivo, dell’angoscia e di pensieri disturbanti, dei ricordi e dei flashback associati all’evento. Il livello della sofferenza può essere intenso e la durata variabile.

Essere ascoltate, comprese, validate e contenute emotivamente diventa fondamentale per non sentirsi sole in quest’esperienza di dolore e per poter giungere ad attribuire un senso condiviso all’evento vissuto. Il lutto perinatale comporta l’interruzione della genitorialità e della relazione di attaccamento con il proprio bambino; per questo il processo di rielaborazione può durare da 6 mesi a 2 anni e talvolta purtroppo può trasformarsi in un lutto complicato non elaborato o può comportare l’insorgenza di un disturbo psichico, tra cui la depressione o il disturbo post traumatico da stress.

La ferita può restare aperta anche tutta la vita se non si riesce a darle un significato. Tentare di consolare i genitori in lutto consigliando di riprovarci o ricordando che hanno già altri figli, qualora presenti, non attenua la sofferenza dei genitori che hanno subito la perdita di un figlio; essi hanno bisogno di vivere il proprio dolore per poi giungere gradualmente all’accettazione della perdita. Alcuni riti, quali dare sepoltura al bambino non ancora nato e andare al cimitero possono aiutare ad elaborare tale dolore, a non negarlo e a prendere contatto con l’esperienza vissuta. Il lutto vissuto non deve diventare un tabù, una vergogna, anzi è opportuno che se ne parli e si pianga il bambino perso senza vergogna o pudore.

È importante anche ricordare che alle volte quando avviene un lutto perinatale, vi sono anche fratelli o sorelle che non vedono arrivare il fratellino tanto atteso. Molti genitori pensano che sia pericoloso o dannoso esporre i bambini all’esperienza della morte; per questo tendono ad evitarlo o a minimizzarlo. Questo in realtà impedisce ai bambini di poter vivere e condividere il dolore della perdita con gli adulti e in particolare con i genitori. Si sostiene, invece, che sia importante fornire ai bambini informazioni e spiegazioni semplici e veritiere sull’accaduto, in modo tale che possano anch’essi elaborare e integrare tale esperienza e i vissuti che ne conseguono nell’ambiente protetto e sicuro della famiglia.

Dunque, per elaborare e giungere emotivamente all’accettazione del lutto perinatale è opportuno darsi tempo, vivere il dolore, condividerlo e provare a dargli un senso. Esperienze di supporto psicologico o di gruppi di mutuo-aiuto possono essere una risorsa che può accompagnare la coppia in un processo di elaborazione. Talvolta è possibile ricorrere alle tecniche dell’EMDR  o della terapia senso-motoria per il trattamento dei disturbi post-traumatici che possono eventualmente insorgere dopo l’esperienza traumatica del lutto.

La malattia invisibile. Diagnosi e terapia della fibromialgia – Report Congresso di Palermo

Il 17 marzo si è svolto a Palermo il Congresso di aggiornamento promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e dall’Università degli Studi di Palermo, avente come oggetto di analisi la valutazione diagnostica e il trattamento della fibromialgia.

 

Si è svolto lo scorso 17 marzo a Palermo, nella prestigiosa cornice di Palazzo Steri, il Congresso di aggiornamento promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e dall’Università degli Studi di Palermo ed avente come oggetto di analisi la valutazione diagnostica e il trattamento della fibromialgia, sindrome cronica dolorosa riconosciuta nella sua specificità nosografica solo nel 2010, nell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione mondiale della Sanità.

Un evento innovativo, dal punto di vista di un’informazione scientifica finalizzata a delineare le caratteristiche di una patologia ancora poco nota e a tracciare l’efficacia dei trattamenti neuronali e psicologici attualmente disponibili.

Ad aprire i lavori la lectio magistralis del Professore Massimiliano Oliveri, neurologo e professore ordinario di neuroscienze cognitive all’Università degli Studi di Palermo, che sottolinea la caratteristica neuronale distintiva della fibromialgia nella perdita della capacità di modulazione del dolore.
“Nella fibromialgia i processi inibitori del dolore non risultano adeguatamente funzionanti, con una riduzione del neurotrasmettitore inibitorio GABA, con il risultato che i processi eccitatori prendono il sopravvento, nello specifico l’eccitazione della corteccia motoria – spiega Oliveri – Da tale constatazione scientifica derivano i trattamenti di neuro modulazione più adeguati, che consistono nell’eccitazione delle aree motorie, finalizzata all’attivazione del GABA e della serotonina verso le vie discendenti. Dobbiamo riconoscere due fondamentali sistemi trattamentali: la stimolazione magnetica ad alta frequenza diretta alla corteccia motoria, utile se applicata per un periodo di due settimane, tutti i giorni, benchè il dolore tenda a ricomparire, e la stimolazione elettrica transcranica, i cui risultati di efficacia risultano ancora limitati. È altresì da sottolineare come ai trattamenti di tipo neurologico si debbano affiancare trattamenti psicologici e, se necessario, farmacologici”.

Fibromialgia: quali sono i sintomi

A procedere nella descrizione approfondita dei sintomi specifici della fibromialgia la relazione del Dr. Piercarlo Sarzi Puttini, Professore a contratto in Reumatologia presso l’Università degli Studi di Milano.
“La fibromialgia, con una prevalenza femminile dal 2% all’8%, è una sindrome clinica contraddistinta da un insieme di sintomi eterogenei quali un dolore muscoloscheletrico cronico e diffuso, rigidità, affaticamento cronico, disturbi del sonno, in una percentuale che arriva al 90% dei casi, disturbi della memoria e della concentrazione, ansia, depressione, con generale scadimento della qualità di vita e costi socio-economici diretti e indiretti. Insomma, il cervello del fibromialgico è di venti anni più vecchio rispetto a un cervello di un soggetto sano. Nonostante i progressi nella gestione del dolore, bisogna dire che a oggi il dolore cronico rimane un problema irrisolto in molti Paesi”.

Aspetti cognitivi e strumenti terapeutici

Sugli aspetti cognitivi della fibromialgia, e sugli strumenti terapeutici, si è quindi concentrata la relazione del Dr. Massimiliano Curatolo, psicologo.
“A livello cerebrale nella fibromialgia si riscontra una significativa riduzione del volume encefalico, della dopamina a livello presinaptico e della sostanza grigia – sottolinea Curatolo – Una situazione che si traduce in tutta una serie di deficit cognitivi riassumibili nel concetto di nebulosità mentale, quali difficoltà nell’attenzione, nella memoria, in particolare verbale, spaziale e a lungo termine, rallentamento dei tempi di reazione e alterazione delle funzioni esecutive, che determina deficit nella capacità decisionale. Dal punto di vista dei trattamenti la stimolazione elettrica transcranica permette di ottenere un miglioramento dei sintomi deficitari a carico di memoria e attenzione”.

A concludere le relazioni non poteva mancare la disamina delle componenti affettive della fibromialgia, nella misura in cui la componente ansioso-depressiva è da considerarsi correlato classico della patologia, in una genesi multifattoriale in cui le componenti psicologiche, quali traumi psichici, hanno altresì un ruolo, insieme a componenti di tipo medico, come traumi fisici, incidenti, infezioni.

“Al momento le cause della fibromialgia non sono note, anche se tra le ipotesi multifattoriali più accreditate sono inclusi traumi fisici e psicologici, come lutti. Resta comunque certo che la diagnosi di fibromialgia porta con sé correlati di tipo ansioso e depressivo – spiega la Dr.ssa Sandra Giordano, psicologa – La malattia è devastante e può innescare un drammatico effetto domino che non risparmia il lavoro, la famiglia, la comunità, la vita di coppia e la percezione del futuro. Si tratta di una malattia invisibile: chi ne è affetto non di rado viene definito malato immaginario, benchè la sua sia una sofferenza tangibile, scandita continuamente dalle parole Sto male, in un racconto di sé che la terapia ha il compito di cambiare in maniera più funzionale. Un’azione terapeutica che si scontra con lo scetticismo dei pazienti verso medici e farmaci, infatti non di rado vengono riportati insuccessi e insoddisfazioni per le terapie seguite. Dal punto di vista del trattamento molto importante è il gruppo psicoeducativo, composto da non più di venti pazienti e due terapeuti, e della durata massima di venti sedute, in cui, assegnato un tema, questo viene discusso, con la finalità di contenere le ansie della patologia e di portare a casa con sé informazioni utili. Riguardo invece ai gruppi di mutuo aiuto essi risultano efficaci nella misura in cui permettono la libera circolazione di emozioni e vissuti e la condivisione di esperienze simili, benchè, nel caso della fibromialgia, sia necessario prevedere una terapia individuale, viste le esigenze di visibilità e di richiesta di attenzioni che i pazienti portano. Grazie infine alla psicoterapia di gruppo è favorita la narrazione della storia di vita dei pazienti e la messa in gioco nello psicodramma”.

La fibromialgia, una patologia al confine tra cervello e mente, emozioni e cognizione, che richiede aggiornamento scientifico, sensibilità clinica, multi-professionalità, affinché il lamento somatopsichico di chi soffre non resti relegato a questione di pura immaginazione e isterica richiesta di attenzioni, prolungando le sofferenze di chi ha diritto a un ascolto che cura e a una cura basata sull’ascolto di un paziente che sempre resterà, nell’ottica di un’alleanza terapeuticamente fondata, il massimo esperto dei propri disagi.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale ottiene prove di efficacia in un trial clinico randomizzato

Popolo e Dimaggio (2016) hanno disegnato e manualizzato un approccio breve, 16 sedute, psicoeducazionale ed esperienziale, denominato TMI-Gruppo (TMI-G). L’idea dalla quale tale approccio partiva è che la metacognizione, essendo in buona parte contesto-dipendente, può essere allenata in contesti semi-naturali come il gruppo.

 

Sviluppare modelli di trattamento. Manualizzarli. Verificarli empiricamente. La forza del cognitivismo nel bene e nel male è sempre stata questa. È una mission che ha portato prima a disegnare la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Semerari, Popolo, Carcione e Nicolò, 2007). Poi a manualizzarne le procedure, in particolare per i pazienti con prevalente inibizione comportamentale ed emotiva (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013).

A quel punto siamo passati alla verifica empirica. Una prima serie di casi singoli (Dimaggio et al, 2017) e una multiple baseline case series (Gordon-King, Schweitzer & Dimaggio, 2018) hanno dato preliminari prove di efficacia.

Il passaggio successivo era tentare uno studio randomizzato di efficacia, forti anche degli esiti notevoli di un recente trial in cui i Metacognition Oriented Social Skills Training (disegnati dal nostro Paolo Ottavi) si sono dimostrati nettamente superiori ai Social Skills Training tradizionali (Inchausti et al., 2018).

Insieme (Popolo & Dimaggio, 2016) abbiamo quindi disegnato e manualizzato un approccio breve, 16 sedute, psicoeducazionale ed esperienziale, denominato TMI-Gruppo (TMI-G). L’idea dalla quale partiva è che la metacognizione, essendo in buona parte contesto-dipendente (Semerari, 1999) può essere allenata in contesti semi-naturali come il gruppo. L’idea è che la metacognizione peggiori proprio quando la persona è guidata da scopi personalmente rilevanti ed è guidata da previsioni negative (schemi interpersonali) riguardo al loro raggiungimento. “Desidero essere amato, mi aspetto che l’altro mi rifiuti. Desidero essere apprezzato, mi aspetto che l’altro mi critichi”.

Quindi le persone soffrirebbero a causa dell’attivazione di questi schemi e in quei casi le abilità metacognitive, necessarie per aumentare la possibilità che l’assetto relazionale sia buono, cadono.

Siamo partiti dall’idea che fosse utile:

  1. spiegare ai pazienti quali siano i sistemi motivazionali interpersonali che li guidano, a partire dall’elaborazione fatta dai nostri colleghi italiani (Giovanni Liotti, Giovanni Fassone, Antonella Ivaldi, Benedetto Farina, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Cecilia La Rosa e tanti altri);
  2. che sotto l’attivazione di questi sistemi le persone provano determinati pensieri ed emozioni e si comportano in certi modi.

A partire da questa conoscenza di sfondo, la parte psicoeducazionale del programma, i pazienti erano invitati a raccogliere episodi narrativi specifici problematici durante i quali erano stati guidati da quello scopo/sistema motivazionale (e.g. agonismo, appartenenza, esplorazione).

La metacognizione, come dicevamo, va allenata nei contesti naturali. Questa è la parte esperienziale del programma. I pazienti erano invitati al role-play degli episodi selezionati, volto prima a comprendere gli stati mentali, propri e degli altri, e successivamente a mettere in atto forme più efficaci e adattive di problem-solving guidato da un’ aumentata comprensione metacognitiva della relazione. In altre parole a migliorare la mastery!

TMI-Gruppo: quale efficacia?

A quel punto era il momento di testarne l’efficacia.

Raffaele Popolo insieme a Daniela Rebecchi e ai colleghi del Servizio Psicologia Clinica DSM AUSL di Modena ha condotto un trial randomizzato con gruppo di controllo. 10 pazienti hanno ricevuto 16 sedute di TMI-Gruppo e 10 sono stati in lista d’attesa+treatment as usual (TAU). I risultati sono stati ottimi. Nel gruppo TMI-Gruppo 8 pazienti su 10 hanno completato il programma. Non ci sono stati effetti avversi neanche nei due drop-out (per altro dovuti a motivi di organizzazione). Il gruppo TMI-Gruppo si è dimostrato chiaramente superiore nel migliorare i sintomi e il funzionamento interpersonale dei pazienti rispetto al gruppo di controllo. La magnitudine del cambiamento era ampia. La metacognizione, come previsto, è migliorata in modo significativo nel solo braccio TMI-Gruppo (TMI-G), in particolare per quanto riguarda autoriflessività e mastery. I risultati si sono mantenuti al follow-up (Popolo et al., 2018).

Con questo studio la TMI, in particolare nella forma TMI-G entra a buon diritto nelle terapie per i disturbi di personalità empiricamente supportate, anche se naturalmente il livello di prove empiriche è solo iniziale. Sulla base di una power analysis, abbiamo valutato che è necessario uno studio randomizzato con almeno 20 pazienti per braccio. Di conseguenza è da poco iniziato un nuovo studio randomizzato di efficacia nello stesso sito del precedente.

In parallelo, a Saragozza è in corso uno studio pilota di efficacia (10 pazienti) per valutare la possibilità di replicare i risultati e disseminare l’approccio in altri paesi. In Norvegia è in corso uno studio simile, con la TMI-Gruppo applicata in più unità psichiatriche. È attualmente in corso di approvazione etica e finanziamento un largo studio randomizzato multicentrico internazionale (Spagna come paese di base, Italia, Norvegia, Australia e Scozia).

TMI-G: Riassumendo

È possibile sviluppare in Italia trattamenti soggetti a verifica empirica? Sì. Fatto.

È possibile testarli? Sì, fatto.

È efficace un trattamento per i disturbi di personalità basato sulla comprensione dei propri schemi interpersonali e sul miglioramento della metacognizione? Sembra proprio di sì.

Servono più prove empiriche a supporto della sua efficacia? Sì, le stiamo raccogliendo.

La metacognizione aumenta nel corso di trattamenti orientati al suo miglioramento? Decisamente sì!

Genitori: quando è necessario richiedere l’aiuto di un esperto?

Come fanno i genitori a valutare se sia necessario o meno l’intervento di un professionista per aiutare il loro figlio/a? E’ possibile iniziare prendendo in considerazione tre parametri: durata, intensità e impatto sullo sviluppo del bambino e sul funzionamento della famiglia. 

 

Come valutare se è necessario rivolgersi ad un professionista per un disagio del proprio figlio

I genitori, anche a causa delle numerose notizie che passano attraverso differenti canali di comunicazione, sono molto preoccupati circa la salute mentale dei propri figli.
Quindi, come fanno i genitori a valutare se sia necessario o meno l’intervento di un professionista per aiutare il loro figlio/a?

E’ possibile iniziare prendendo in considerazione tre parametri:

Durata: il comportamento o i comportamenti considerati, da quanto tempo si verificano? Settimane o mesi?

Intensità: il comportamento target viene messo in atto all’interno di diversi contesti, ad esempio a scuola e a casa, oppure si verifica solo all’interno di un unico luogo? Il comportamento target, ha un andamento costante oppure peggiora nel tempo?

Impatto sullo sviluppo del bambino e sul funzionamento della famiglia: la famiglia sta adattando, o modificando negativamente, le proprie abitudini per adattarsi al comportamento del bambino?

Maggiori saranno la durata, l’intensità e l’impatto generale e più è probabile che i genitori dovranno rivolgersi ad un professionista.

Al di là di queste linee guida, è importante che i genitori siano consapevoli del fatto che:
– Intervenire tempestivamente su un’eventuale disfunzione è importante e può evitare l’aggravarsi della situazione. Esistono trattamenti efficaci che forniscono risultati positivi in tempi brevi.
– Alcuni comportamenti, molto gravi, anche se vengono messi in atto una sola volta, devono essere presi sin da subito in considerazione e i genitori dovrebbero prontamente rivolgersi a un esperto.
– I bambini sperimentano forme di disagio che manifestano in diversi modi in differenti età.

Espressione del disagio nelle diverse età

– Neonati e bambini in età prescolare: anche i bambini piccoli possono diventare depressi o ansiosi. In questa fascia d’età, il disagio viene manifestato soprattutto attraverso un’accentuazione dei capricci o del comportamento irritabile.
Bambini in età scolare: i bambini possono iniziare a manifestare paure o ansie relative alla scuola, come verifiche e interrogazioni, o relative all’interazione con gli altri bambini, ad esempio, i bambini possono avere difficoltà a fare amicizia con i compagni.
– Pre-adolescenti e adolescenti: a questa età, sono diverse le preoccupazioni per i genitori, come il bullismo e cyberbullismo, abuso di alcol e droghe e tutto ciò che concerne la sfera sessuale (ad esempio, la protezione durante i rapporti).

Queste linee guida permettono ai genitori di effettuare una prima valutazione rispetto al fatto che i comportamenti del proprio figlio facciano parte di uno sviluppo normale o se effettivamente richiedano una valutazione attenta da parte di un professionista. Quest’ultimo sarà in grado di stabilire se i comportamenti del bambino, indicati dai genitori, rappresentino:
– Una variante evolutiva: cioè, un comportamento atteso rispetto all’età.
– Un problema: questi comportamenti generano un disagio eccessivo al proprio figlio/a.
– Un disturbo: sono soddisfatti i criteri di una determinata categoria diagnostica.

Prendersi cura dei propri figli, non significa solo fare attenzione all’eventuale espressione di particolari disagi, ma è importante anche tutto ciò che i genitori possono fare di positivo per loro; ad esempio, giocare con i propri bambini, aiutarli a esprimere desideri e preoccupazioni e a coltivare insieme le loro passioni.

I trattamenti non necessari alla nascita. Effetti sul vissuto delle donne e delle famiglie – Report dal Convegno di Palermo

Demedicalizzazione, benessere della donna nel delicatissimo momento del parto e lungo tutto il percorso nascita, considerazione del parto quale evento naturale, fisiologico, in cui la donna detiene un ruolo attivo, partecipato, informato, nell’ottica del contrasto alla violenza ostetrica.
Questo, in sintesi, il messaggio forte del Convegno svoltosi a Palermo “I trattamenti non necessari alla nascita. Effetti sul vissuto delle donne e delle famiglie” in occasione della Festa della Donna e organizzato dall’Ordine degli Ostetrici di Palermo, in collaborazione, tra gli altri, con l’Assessorato alla Salute.

 

Un convegno per sensibilizzare al tema della violenza ostetrica

Questo convegno è pensato per sensibilizzare al tema della violenza ostetrica, in cui un ruolo importante ha l’abuso di medicalizzazione, secondo la definizione ufficiale di violenza ostetrica risalente al 2007. Chi denuncia deve essere attenzionato, al fine di garantire alla donna quel benessere psicologico ottimale per vivere il parto nel miglior modo possibile” apre i lavori Elio Lo Presti, Ostetrico con Funzioni di Coordinamento Area Ostetrica/Ginecologica ASP Palermo e Presidente del Comitato Scientifico del Convegno.

Rispetto alla medicalizzazione del parto segue quindi la dettagliata relazione di Patrizia Quattrocchi, antropologa e ricercatrice, che illustra i paradigmi culturali legati alla nascita, tra cui quello scientifico rappresenta il più diffuso, ma, non per questo, esclusivo.

Il modello biomedico guarda alla nascita come un evento patologico, legato al concetto di rischio/sicurezza. Questo modello riduce lo sguardo sulle possibilità Altre, in cui instaurare un dialogo tra medicina e antropologia – sottolinea Quattrocchi – Se infatti intendiamo il parto come evento medico l’ospedale sarà luogo di eccellenza, ma se la donna è in salute perché standardizzarla come malata in un luogo di cura? Ecco il modello che ispira il parto a domicilio, avviato in Emilia Romagna fin dal 1999, in cui il parto, letto in chiave fisiologica, naturale, è riferito all’ostetrico e il ginecologo interviene solo nelle emergenze. In definitiva concepire il corpo della donna come corpo-macchina, come avviene nell’eccesso di ecografie, è un abuso vero e proprio, una limitazione all’autonomia e alla partecipazione, poiché spersonalizza la donna, la rende passiva, diviene fonte di stress, paura e impotenza per lei e i familiari”. Alta tecnologia che si traduce in basse relazioni umane ed è proprio nella relazione di fiducia che si gioca la riuscita di un parto e la soddisfazione percepita dalla donna e dalla famiglia.

I trattamenti non necessari alla nascita. Effetti sulle donne e le famiglie

In quanto esperta della sua gravidanza, impegnata e responsabile nel processo che darà vita al suo bambino, la donna deve essere coinvolta nel processo del parto, creando intesa e alleanza tra lei e l’équipe medica, attraverso una buona comunicazione e informazione sia con la neomamma che all’interno della stessa équipe – spiega Marco Braghero, docente di educazione fisica e pedagogista – L’assenza di informazione e fiducia determina violenza percepita dalla donna, al punto che la violenza si può definire istituzionale. Esemplificando, se devo adottare una tecnica salvavita, anche se brusca, se ho informato preventivamente la donna sulla possibilità di utilizzo e ho creato prima un rapporto di fiducia con la partoriente, il suo uso non sarà percepito come abuso, come coercizione. Questo è molto importante poiché un parto vissuto negativamente può determinare nella donna la drastica decisione di non avere più figli in futuro”.

Come vivere l’esperienza del parto in maniera positiva e gratificante

Un’informazione sulle tecniche che si affianca a un’attenzione ai vissuti emotivi nel rapporto con il nascituro e che guarda al futuro, al figlio del desiderio.
È importante puntare al dialogo creativo, chiedendo alla partoriente come immagina la gravidanza nei nove mesi, coinvolgere i familiari e prevedere altresì incontri entro il secondo anno, nell’ottica di un dialogo aperto e della continuità assistenziale. Perché il servizio non si esaurisce con il parto, in quanto servizio alla persona” continua Braghero.

Autonomia decisionale, partecipazione, presa di consapevolezza, soddisfazione della neomamma, che si traducono in un’esperienza del parto positiva e gratificante, diritto inalienabile per ogni donna.

Un diritto che comprende diverse modalità come la possibilità di scegliere la presenza del compagno durante il travaglio e le strategie di gestione del dolore, così come la libertà di movimento durante il parto. Un diritto che rappresenta un passaggio di visione, dal parto come pericolo, al parto come gratificazione, un diritto che riconosce il potenziale delle madri nella gestione di un momento fondamentale nella condizione di ogni donna, in grado di condizionare il rapporto con il figlio, il partner, la visione stessa della donna mamma come efficace portatrice di vita e sviluppo.

Realtà virtuale: cos’è e come può essere utilizzata in psicoterapia?

La realtà virtuale è composta da fattori esperienziali e tecnologici in grado di portare ad un cambiamento radicale all’interno dell’esperienza che il soggetto fa di sè. Sempre più le ricerche che guardano ai potenziali sviluppi di tale strumento nel contesto della psicoterapia.

 

Si inizia a parlare di realtà virtuale tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del 1900, quando lo scrittore Stanley Weinbaum pubblica il racconto breve The Pygmalion’s Spectacles, in cui fa riferimento a visori per la realtà virtuale basati su registrazioni olografiche di esperienze in grado di stimolare il senso della vista e dell’udito ed anche il senso del tatto e dell’olfatto.

La storia di questo strumento in ambito medico ha inizio quando, nel 1989, Jaron Lanier coniò il termine ‘Virtual Reality’ e fondò la Prima Compagnia di Ricerca sulla realtà virtuale, la VPL Research. Nel giro di un paio di anni, l’utilizzo di questo mezzo fu esteso al campo della psicologia e furono pubblicati i primi articoli delle ricerche sull’utilizzo della realtà virtuale all’interno dell’assessment e di protocolli di trattamento psicologici (Rothbaum et al. 1995; North, North & Coble, 1997).

Realtà virtuale (virtual reality o VR) vs realtà aumentata (augmented reality o AR)

La realtà virtuale è un aggregato di ausili tecnologici e branche del sapere abbastanza diverse tra loro ed è composta da fattori esperienziali e tecnologici. Relativamente all’aspetto esperienziale, la realtà virtuale rappresenta un cambiamento radicale all’interno dell’esperienza mediale: il soggetto da osservatore di un’azione ne diventa protagonista. Vedere, udire, toccare, manipolare oggetti che non esistono, percorrere spazi senza luogo in compagnia di persone che sono altrove, è quanto sembra proporci tale innovazione tecnologica. Questo processo attivo di interazione con il mondo virtuale produce il senso di presenza, cioè la sensazione di essere nell’ambiente virtuale.

La realtà virtuale (VR) nasce dall’idea di “replicare” la realtà quanto più accuratamente possibile dal punto di vista visivo, uditivo, tattile e anche olfattivo, per compiere azioni nello spazio virtuale superando limiti fisici, economici e di sicurezza. Il soggetto viene proiettato all’interno di mondi alternativi, catapultato in ogni angolo del mondo vivendo avventure in prima persona.

Per realtà aumentata (AR) si intende, invece, la rappresentazione di una realtà alterata in cui, alla normale realtà percepita attraverso i nostri sensi, vengono sovrapposte informazioni sensoriali artificiali/virtuali. Si tratta di un potenziamento percettivo, basato fondamentalmente sulla generazione di contenuti virtuali da parte di un computer e dalla loro sovrapposizione con la realtà.

In sintesi, possiamo dire che la realtà aumentata è basata sul potenziamento dei sensi, mentre la realtà virtuale sull’alterazione.

Diverse esperienze di realtà virtuale

Un sistema di realtà virtuale è costituito da una serie di strumenti in grado di ottenere informazioni sulle azioni del soggetto (strumenti di input), che vengono integrate e aggiornate in tempo reale dal computer in modo da costruire un mondo tridimensionale dinamico, per essere restituite al soggetto attraverso sofisticati strumenti di fruizione dell’informazione (strumenti di output). In base agli strumenti di output utilizzati è possibile distinguere tre tipi di realtà virtuale:

  • Immersiva: concernente dispositivi sonori, di visualizzazione, di movimento e tattili (casco 3D, guanti e tracciatori sensoriali) che isolano i canali percettivi del soggetto immergendolo in toto, a livello sensoriale, nell’esperienza virtuale che si accinge a compiere (Melacca, 2016). L’interazione è data da uno o più sensori di posizione (tracker) che rilevano i movimenti del soggetto e li trasmettono al computer, così che questo possa modificare l’immagine tridimensionale in base alla posizione e al punto di vista assunto dal soggetto (Morganti, Riva, 2006)
  • Semi-Immersiva: determinata da stanze fornite di dispositivi e schermi di retro-proiezione surround che riproducono le immagini stereoscopiche del computer e le proiettano sulle pareti, con differenti forme e gradi di convessità, adeguati indici di profondità dell’immagine, dando il cosiddetto effetto tridimensionale (Melacca, 2016)
  • Non Immersiva: determinata da monitor che funge da “finestra” attraverso cui l’utente vede il mondo in 3D; l’interazione con il mondo virtuale può essere effettuata attraverso il mouse, il joystick o altre periferiche come i guanti (Melacca, 2016)

Come integrare la realtà virtuale in psicoterapia

All’interno di un percorso di psicoterapia, la realtà virtuale può rappresentare un valido strumento di aiuto per terapeuta e paziente. Di particolare interesse è la possibilità che offre al paziente di partecipare attivamente al riconoscimento e alla presa di consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri, in situazione. È questo uno dei vantaggi della realtà virtuale, ma anche il punto di condivisione con la terapia cognitivo-comportamentale: la visione del paziente come attivo costruttore della propria esperienza, e quindi del cambiamento.

Posti a confronto con i tradizionali protocolli terapeutici, gli interventi con ambienti virtuali mostrano numerosi punti a favore. I vantaggi possono essere identificati in tre principali possibilità innovative:

  • Lo psicoterapeuta può realizzare l’assessment in situazione con il paziente, costruendo la gerarchia degli stimoli ansiosi all’interno degli scenari virtuali, per poi pianificare ed effettuare programmi di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’interno di ambienti virtuali protetti (Riva, 2007, 2008)
  • Le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono suscettibili di un ampio controllo da parte del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente, in relazione alla valutazione di tempi e progressi
  • Lo svolgimento delle attività in ambienti virtuali permette al terapeuta di trattare nell’immediato il disputing sulle credenze disfunzionali, più accessibili e vivide durante l’esposizione piuttosto che in un colloquio classico

Applicazioni della realtà virtuale nella psicoterapia

Differenti recensioni e meta-analisi, considerano la realtà virtuale come strumento coadiuvante la psicoterapia basata sull’esposizione, per il trattamento dei molteplici disturbi d’ansia (Riva, 2005; Wiederhold & Wiederhold, 2006). Un ulteriore vantaggio nell’utilizzo di ambienti virtuali con pazienti con disturbi d’ansia è la maggior efficacia anche per quei soggetti con scarse capacità immaginative o che rifiutano l’esposizione in vivo.

Nel caso dei disturbi fobici, il cui trattamento è basato sull’esposizione, l’utilizzo della realtà virtuale consente di fare esperienze altrimenti quasi impossibili, se non in modo immaginifico, come recarsi ad un aeroporto e salire su di un aereo, trovare una platea che ascolta, essere gradualmente immerso in un ambiente pieno di ragni, avvicinarsi senza rischio alcuno al parapetto di un balcone. Lo psicoterapeuta può ricostruire, con il paziente, una gerarchia degli stimoli critici che sono alla base del disturbo in esame e pianificare un programma di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’esperienza di tali condizioni. La tecnica rimanda al Flooding cognitivo-comportamentale ma in chiave tecnologica. La terapia mediata dalla realtà virtuale desensibilizza il soggetto dalle sue ansie, abituandolo progressivamente ad emozioni che può provare a gestire attraverso un approccio differente. Inoltre, le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono interamente sotto il controllo del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente. Il terapeuta, in questo modo, ricopre il ruolo di mediatore tra mondo reale e virtuale.

La realtà virtuale è stata introdotta anche per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress. Il dott. Albert Rizzo, dell’Institute for Creative Technology della University of Southern California, ha lavorato sul disturbo post-traumatico da stress, comune nei soldati veterani, applicando la CBT e la VR, ricreando situazioni stressanti in modo graduale (Rizzo et al, 2005). La simulazione è basata sull’idea di restituire al paziente tutte le emozioni che hanno provocato il trauma, ma questa volta al sicuro nello studio del terapeuta. La differenza con le altre tecniche utilizzate fino ad ora è la possibilità di immergersi nell’esperienza passata e di poterlo fare gradualmente, escludendo qualsiasi cosa il paziente non voglia ancora affrontare.

L’applicazione della realtà virtuale per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nasce con i lavori di Clark et al. (1998) in cui si è proposta una esposizione vicaria agli stimoli ansiogeni (spesso legati alle contaminazioni) con prevenzione del rituale compulsivo. Un recente studio ha proposto di utilizzare ambienti virtuali selezionati come stimoli di riferimento per ottenere una valutazione e formulare una misura interattiva dei comportamenti di controllo compulsivi (Kim et al., 2010).

A partire dagli anni ’90, per quanto riguarda i disturbi del comportamento alimentare, in aggiunta al trattamento farmacologico e alle tecniche cognitive si affiancava l’utilizzo della realtà virtuale (Riva, Bacchetta, Cesa et al. 2004). La realtà virtuale è considerata un possibile strumento per la modifica di un’immagine corporea negativa (Riva, 2011). Tramite gli ambienti virtuali è possibile, infatti, porre a confronto due immagini corporee: quella reale, ottenuta dalla misurazione oggettiva del corpo del paziente, e quella che il soggetto percepisce, derivante cioè da come il paziente si vede (Riva, Bacchetta, Baruffi, et al., 2002).

Sebbene l’utilizzo della realtà virtuale con pazienti affetti da schizofrenia sia una pratica piuttosto recente, alcuni studi dimostrano che essa consente, in una situazione controllata, interessanti applicazioni sia per la valutazione che per il trattamento. Questo strumento permette, infatti, di riprodurre situazioni ambientali e sociali che stimolano il soggetto in modo simile al contesto reale; per di più, è possibile modulare l’intensità e la durata dell’esperienza virtuale in base alle esigenze del soggetto (La Barbera et al., 2010) e di riprodurre situazioni emotive e sociali, tipiche delle relazioni interpersonali (Kim et al., 2010). Gli ambienti virtuali, così come nel trattamento delle fobie, consentono di esporre il paziente alle proprie paure persecutorie e di testare le proprie credenze su ciò che viene percepito come minaccioso.
Un altro utilizzo può essere quello di far apprendere le strategie di coping da adottare in situazioni sociali variegate, qualora si verifichino sintomi psicotici. Per esempio, la realtà virtuale è stata applicata anche nei giochi di ruolo per stimolare le abilità interpersonali di questi pazienti, migliorandone le capacità di conversazione e la fiducia in se stessi (Park et al., 2011). Tuttavia, il principale limite delle applicazioni virtuali con i pazienti affetti da patologie gravi sembra essere la stabilità dell’esame di realtà, che caratterizza la fase acuta della malattia.

Ancora, nell’ambito, ad esempio, della gestione dello stress, la meditazione guidata dal terapeuta in realtà virtuale di scene che inducono la risposta di rilassamento ha ottenuto effetti positivi (Riva, 1997). La riproduzione realistica degli ambienti cibernetici, il coinvolgimento dei vari canali senso-motori e la sensazione di immersione che ne deriva consentono al soggetto in trattamento un’esperienza più vivida di quanto potrebbe fare attraverso la propria immaginazione (Vincelli & Molinari, 1998).

Conclusioni e limiti

Le possibilità di applicazione di questo strumento ed i possibili sviluppi futuri sono davvero entusiasmanti, tuttavia, il ritmo incalzante con cui i sistemi di realtà virtuale si sviluppano, aumentando di volta in volta il loro grado di accessibilità, portano con sé la necessità di riflettere in modo cosciente ed etico rispetto ai possibili cattivi usi che se ne possa fare alla luce del fatto che i soggetti manifestano reazioni molto intense gli ambienti simulati.
Wiederhold B. e Wiederhold M. in un articolo del 2003 A New Approach: Using Virtual Realty Psychotherapy in Panic Disorder With Agoraphobia hanno approfondito il fatto che alcune categorie di pazienti possono non essere idonee alle psicoterapie condotte mediante realtà virtuale, in particolare persone affette da gravi patologie cardiache, tossicodipendenti, persone affette da epilessia e persone con problematiche riguardanti la percezione della realtà, pensiamo ad esempio a psicotici che hanno già di per sé un senso della realtà compromesso. In questo caso, introdurre la realtà virtuale sarebbe controproducente, nonché dannoso per il paziente.

Assertività: perché non riusciamo a “dire no”? Perché a volte reagiamo con rabbia ad una richiesta? Perché temiamo di chiedere chiarimenti?

L’assertività è la competenza del “saper dire di no” e del “saper far valere i propri diritti”. Ci facilita la vita al lavoro, in famiglia, nelle relazioni amicali. Perché allora può essere difficile usarla?

Comportarsi in modo assertivo significa posizionarsi a metà su una linea immaginaria: ad un estremo troviamo l’aggressività, al polo opposto la passività (o remissività). Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri, decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono.
Il comportamento aggressivo è tipico di chi per perseguire la propria gratificazione si afferma con violenza, minimizzando, calpestando o disconoscendo il valore altrui. Così facendo non considera i punti di vista diversi dal proprio e pensa di non essere mai nel torto. L’aggressivo attribuisce i  fallimenti alle circostanze o agli altri; svaluta l’altro, si mostra rigido sulle sue posizioni.
Talvolta, una reazione aggressiva e densa di rabbia può essere un malriuscito tentativo di non farsi mettere i piedi in testa, se tendiamo a comportarci solitamente da remissivi.

Una condotta passiva invece porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali alla ricerca del compiacimento altrui. La risposta risulta essere inadeguata poiché generata da frustrazione, insicurezza, senso di colpa, ansia.

Tale comportamento può essere mantenuto da un dialogo interno disfunzionale che incide sulla paura di irritare gli altri, sulla paura di essere rifiutati o sul sentirsi responsabili dei sentimenti altrui, fino ad ipotizzarsi responsabili delle sofferenze altrui per aver ferito l’interlocutore con le proprie parole, non aver ricambiato i sentimenti o aver disatteso le sue aspettative, pervenendo difficilmente alle cause della sofferenza nel comportamento altrui.

Assertività: è più facile in coppia, al lavoro o in famiglia?

Ognuno di noi riesce ad essere assertivo in modo diverso nelle diverse aree della sua vita: c’è chi non riesce a rispondere bene alla suocera, c’è chi non riesce a gestire richieste e comunicazioni scomode con i figli. Comportarsi in modo assertivo è una conseguenza ed un indice dello stile di comunicativo, ma anche del tipo di rapporto in cui ci troviamo, compreso quello di coppia: quando uno dei 2 “dice sempre si”, si adegua ai desideri e gusti dell’altro quasi come i suoi non esistessero, forse ci troviamo di fronte ad un rapporto di dipendenza affettiva.

Talvolta essere assertivi significa anche confrontarsi e discutere partendo da opinioni diverse. Alcuni di noi ne hanno paura, come chi in famiglia tende a “colludere” ovvero inganna se stesso e gli altri incarnando delle fantasie che non corrispondono alla realtà e ricoprendo un ruolo fisso, in cui si resta però intrappolati. Non c’è quindi possibilità di esprimere se stessi, nè di cambiare idea; non ci si pone in maniera chiara nei confronti dell’altro: in una parola, ci si comporta in modo anassertivo: non ha e non da fiducia.

Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, alcuni recenti studi mostrano come stili comunicativi rispettosi siano alla base dei rapporti che intratteniamo al lavoro; se gli stili comunicativi sono aggressivi o oltraggiosi, ci sta male anche chi assiste, pur non essendo coinvolto in prima persona e specialmente se donna.

Assertività fa rima con.. autostima!

Abbiamo visto come e dove possiamo esprimerci in modo assertivo, ma da cosa dipende il nostro livello di assertività? Quali componenti la influenzano o vengono influenzate da essa? Il livello di autostima sembra essere direttamente proporzionale al livello di assertività che si riesce a mettere in gioco nei confronti degli attori sociali con i quali ci si relaziona. Essere capaci di dar valore ai propri bisogni ed esprimerli in maniera adeguata senza lasciarsi invadere dalle necessità e dalle opinioni dell’altro o senza il bisogno di imporli a tutti i costi, ci permette di percepirci come persone consapevoli e integre, piene di valore e centratura.

Di seguito, alcuni esempi tratti dal cinema di comportamenti assertivi, passivi e aggressivi.

SINCERITA’, FIDUCIA E ASSERTIVITA’ – WILL SMISTH IN “LA RICERCA DELLA FELICITA'”

INSICUREZZA E PASSIVITA’ – HUGH GRANT IN “4 MATRIMONI E UN FUNERALE”

RABBIA E AGGRESSIVITA’ – LEONARDO DI CAPRIO IN “REVOLUTIONARY ROAD”

Perché ascoltiamo una canzone che ci piace così tante volte?

Quali sono le proprietà delle canzoni che spingono alcune persone ad ascoltarle ripetutamente più e più volte? Un nuovo articolo su Psychology of Music cerca di capirne le ragioni.

 

Perché non ci stanchiamo mai di ascoltare le nostre canzoni preferite: ecco la risposta

Nell’autunno del 2018, il gruppo di ricerca guidato da Frederick Conrad dell’Università del Michigan ha chiesto a 204 soggetti, per lo più trentenni, quale canzone stessero “ascoltando più spesso in quei giorni”. I partecipanti hanno menzionato principalmente canzoni pop e rock, ma anche rap, country, jazz e reggae, con solo 11 brani selezionati da più di un ascoltatore (i più citati erano Get Lucky, Royals e Blurred Lines, che erano tutti successi nell’anno del sondaggio).

L’ottantasei per cento dei partecipanti ascoltava la canzone preferita almeno una volta alla settimana e quasi la metà lo faceva ogni giorno. Il sessanta per cento ha detto che ascoltavano la canzone per almeno due volte consecutive.
I partecipanti sono stati poi invitati a spiegare l’effetto che aveva la canzone prescelta durante il suo ascolto, le descrizioni hanno suggerito che le canzoni fossero suddivise in tre categorie. Oltre i due terzi erano canzoni allegre ed energiche (“Mi fa sentire Pompato! Eccitato! Pronto a ballare, cantare e amare! “). Riguardo questa tipologia di canzone, quasi la metà delle persone riferiva di battere i piedi, battere le mani o tamburellare le dita durante l’ascolto. Le altre categorie erano rispettivamente “canzoni calme e rilassate” (“Mi fa sentire a mio agio, calmo, e mi aiuta a mettere le cose in prospettiva“) e “Canzoni malinconiche agrodolci” (“Mi fa sentire triste, malinconico, e mi piace ascoltarla e cantarla“). Le canzoni agrodolci sono state ascoltate ripetutamente in modo più frequente rispetto agli altri tipi di canzone: in media 790 volte, contro 515 per canzoni tranquille e 175 per canzoni felici.

Secondo la teoria classica della curva di Wundt uno stimolo piacevole diventa più piacevole con la familiarità fino a raggiungere un effetto soffitto e “cadere”, ovvero diventare non più piacevole o indifferente, come accade con le canzoni su una radio a pesante rotazione. Questo modello spiega come nonostante la mancanza di sorpresa ogni volta che si ascolta la canzone preferita, la gente riascolta queste canzoni molte volte senza stancarsi mai. Infine, hanno scoperto che più volte si ascolta la canzone preferita, più gli ascoltatori la possono sentire “visceralmente”.

L’affetto delle persone per le canzoni che ascoltano volontariamente a ritmi elevati non sembra diminuire, contrariamente a ciò che accade per le canzoni la cui esposizione è forzata, come nel caso delle hit parade.

In arrivo i nuovi Webinars dell’Ordine Psicologi Lombardia – Marzo, Aprile e Maggio 2018

In arrivo i nuovi Webinars organizzati dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia: quattro appuntamenti per informarsi ed aggiornarsi su diverse tematiche. I seminari saranno trasmessi online, permettendo a tutti i colleghi di partecipare direttamente da casa e in un orario che interferisca il meno possibile con il lavoro.

 

Mercoledì 28 Marzo 2018, ore 20.45:

La “Battered Husband Syndrome”: il caso degli uomini maltrattati. L’esperienza di Ankyra, l’unica struttura milanese ad accogliere uomini vittime di violenza.

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - ankyra

L’ Intimate Partner Violence, o violenza domestica, si manifesta con comportamenti aggressivi e coercitivi che possono provocare danni fisici, abuso psicologico, violenza sessuale, isolamento sociale, stalking, intimidazione e minacce perpetrati da un offender che è o è stato in relazione intima con la vittima e la cui finalità è il controllo sull’altro.

E’ fuori dubbio – e l’ampia letteratura ne dà riscontro – che la donna sia la prima vittima di violenza domestica eppure prende sempre più corpo la casistica degli uomini soggetti a maltrattamenti fisici e psicologici, tanto che la letteratura ha coniato l’espressione “battered husband syndrome”.

In una serie di ricerche sulla vittimizzazione maschile, Reid et al. (2008) riscontrano che la violenza psicologica ricorre più frequentemente rispetto alla fisica e risulta più duratura.

Fra le violenze psicologiche rientrano le minacce di uccidersi, di distruggere le cose dell’altro, di denunciarlo con false accuse, le false denunce di abuso nei confronti dei figli al fine di averne la custodia in caso di separazione, le false denunce di stalking e la cosiddetta alienazione parentale.

Ad aggravare la situazione concorrono la vergogna che impedisce a molti uomini di denunciare e la tendenza culturale a sottostimare il fenomeno.

L’associazione Ankyra è l’unica a Milano ad accogliere le vittime di violenza domestica indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’età; grazie all’esperienza dell’associazione approfondiremo il loro modello di lavoro, la normative di riferimento, i dati sul fenomeno e alcune delle situazioni di violenza sugli uomini affrontate.

Relatori

Dott.ssa Patrizia Montalenti: Responsabile Accoglienza Centro Antiviolenza Donne Milano, Vice Presidente Volontaria del Centro Antiviolenza Ankyra

Avv. Veronica Coppola: Avvocato Cassazionista, Consulente legale volontaria Centro Antiviolenza Ankyra

Come partecipare?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo mercoledì 28 marzo alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/4674237623738604289 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per problemi o informazioni scrivere a [email protected]

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Mercoledì 11 aprile 2018, ore 20.45

Il ritiro sociale in adolescenza: inquadramento del fenomeno e trattamento

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - lancini

Il ritiro sociale è una delle più significative manifestazioni del disagio adolescenziale odierno. Il fenomeno degli Hikikomori, nato e diffusosi in Giappone, si è sviluppato, con caratteristiche proprie, anche in Italia. Infatti, un numero sempre crescente di adolescenti, prevalentemente maschi, si ritira prima dalle scene scolastiche e poi dalle scene sociali, in una sorta di autoreclusione volontaria domiciliare. Il crollo dell’ideale infantile di fronte alle trasformazioni del corpo e allo sguardo di ritorno dei coetanei spinge alcuni adolescenti a ritirarsi severamente, non accedendo ad alcuna forma di mediazione con il mondo. Altri, invece, individuano in internet l’unica possibilità di accesso al sapere (ricerca di informazioni), di simbolizzazione (avatar e giochi di ruolo) e di relazione con gli altri (contatto mediato da chat e cuffie con microfono nel corso delle sessioni di battaglie virtuali). La rivoluzione digitale ha dunque promosso spazi creativi, ambienti espressivi e relazionali, all’interno dei quali gli adolescenti non solo sperimentano nuove possibilità di realizzazione del Sé individuale e sociale, ma si rifugiano in occasione di gravi crisi evolutive, in una sorta di auto ricovero che, contemporaneamente, esprime il disagio e un primo tentativo di risolverlo. A partire dall’esperienza maturata nel corso di oltre un decennio con questa forma di espressione della crisi evolutiva, l’intervento intende inquadrare la psicodinamica del ritiro sociale e presentare le strategie cliniche che guidano la presa in carico dell’adolescente ritirato, in una prospettiva evolutiva.

Relatore

Dott. Matteo Lancini: Psicologo e psicoterapeuta. Presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e dell’AGIPPsA (Associazione Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza). E’ docente di “Clinica dell’adolescente e del giovane adulto” presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca. All’interno del Minotauro è direttore del Master “Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza”, coordina la Sezione Adolescenti del Centro di consultazione e psicoterapia e insegna nella Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto. E’ autore di numerose pubblicazioni sull’adolescenza, le più recenti: Adolescenti navigati. Come sostenere la crescita dei nativi digitali. (Erickson, 2015). Abbiamo bisogno di genitori autorevoli. Aiutare gli adolescenti a diventare adulti (Mondadori, 2017).

Come partecipare?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo mercoledì 11 aprile alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/5711216727254126081 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Mercoledì 18 aprile 2018, ore 21

Sette: analisi psicologica dei meccanismi di affiliazione e affrancamento

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - Tinelli

Nel nostro paese i gruppi a carattere settario sono circa 500, con migliaia di adepti, ma una stima esatta è impossibile. E in mancanza di numeri ufficiali, il fenomeno continua a crescere, mentre per chi vuole uscirne la strada è sempre più difficile.

Il seminario si propone di affrontare le modalità con cui i gruppi settari fanno proseliti e creano acquiescenza. Attraverso un percorso teoricamente documentato e esemplificativo saranno spiegati i principi del controllo mentale e tutte le sue fasi e componenti, ma saranno anche analizzate le fasi che portano all’abbandono del gruppo e le conseguenze psicologiche che simili appartenenze hanno sugli individui, durante e dopo l’esperienza. La lezione prevede anche la presentazione di alcuni casi concreti, tra i più noti in Italia e all’estero.

Relatore

Dott.ssa Lorita Tinelli: psicologa e psicoterapeuta, ha conseguito il perfezionamento in Criminologia Giudiziaria e Penitenziaria presso l’Università di Bari e quello di Mediazione Familiare, Sociale e Penale. E’ docente nel Corso di Alta Formazione Ricorrente in Crimonologia Generale Applicata e Penitenziaria dell’Università di Bari e dal 1999 svolge consulenze presso diversi Tribunali d’Italia, in qualità di CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) o CTP (Consulente Tecnico di Parte).

Nel giugno 1999, insieme ad altri studiosi, ho fondato il CeSAP, di cui è stata presidente sino al 2015 e attualmente vice-presidente.

Dal 2011 è International Affiliate dell’American Psychological Association (APA)

Dal 2015 Psicologa presso l’Unità di Prevenzione e Analisi Criminologica di Roma.

Come partecipare?

Il webinar si terrà mercoledì 18 aprile 2018 dalle 21 alle 22,30.

Se volete partecipare iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/8482630342831693825 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Mercoledì 30 Maggio 2018, ore 21

Lo psicologo come mental coach per lo sviluppo degli atleti

Webinars organizzati da OPL gli appuntamenti in arrivo da Marzo 2018 - cei

Gli atleti sono sempre più consapevoli della necessità di sviluppare, sostenere e ottimizzare le qualità psicologiche necessarie per fornire prestazioni adeguate al loro livello di competenza sportiva. La preparazione psicologica o mental coaching rappresenta, oggi, quell’insieme di modelli teorici e tecniche psicologiche, basati sull’evidenza scientifica prodotta in psicologia dello sport, che permette di costruire programmi di allenamento mentale specifici e rivolti a soddisfare le diverse richieste delle singole discipline sportive, adeguandosi ai bisogni altrettanto specifici dei singoli atleti. Scopo di questo webinar è di illustrare le possibilità offerte allo psicologo dal mental coaching, descrivere le abilità psicologiche di base e quelle avanzate, proporre un sistema di valutazione psicologica dell’atleta, descrivere programmi di allenamento dell’attenzione e di gestione dello stress competitivo e ambientale.

Relatore

Prof. Alberto Cei: svolge la propria attività, in Italia e all’estero (Cipro, India, Iran, Malta) come consulente per l’alta prestazione (ha partecipato alle ultime 6 Olimpiadi estive, gli atleti seguiti hanno vinto 12 medaglie olimpiche, ha lavorato con atleti di 26 sport e per le più importanti multinazionali). Si interessa di etica come fattore alla base delle prestazioni eccellenti ed è autore del libro I Signori dei tranelli (2012). È docente di “Coaching” all’Università di Tor Vergata, Roma, di “Psicologia dello Sport” e “Psicologia Applicata al Calcio” all’Università Telematica San Raffaele, Roma e di “Psicologia” alla Scuola dello Sport del Coni. Autore di 15 libri di psicologia della performance (fra cui Mental training, 1987; Psicologia dello sport, 1998; Coaching alle nuove sfide, 2004; Affrontare lo stress, 2009; Allenarsi per vincere, 2015). E’ editorial manager della rivista International Journal of Sport Psychology (http://www.ijsp-online.com) e direttore della rivista Movimento. Web: http://www.ceiconsulting.it Blog: http://www.albertocei.com

Come partecipare?

Se volete partecipare iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/6660875914053844481 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Io-tu: l’autoriflessività per stare in relazione di coppia

L’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

 

Perché ti sento diverso? Ti vedo in un ruolo? Perché in qualche modo devo capire chi sei tu e attribuirti una categoria prima ancora di conoscerti profondamente? Ogni relazione implica l’incontro con un altro uguale/diverso da me. Ma non tutti gli incontri diventano vere relazioni. Nella costruzione di un rapporto che implichi scambio e relazione è necessario definire se stessi in base all’altro e l’altro in base al sé; questo comporta una valutazione del sé e dell’altro da sé, ovvero chi sono Io e chi sei Tu e cosa sono Io-per-te e cosa sei Tu-per-me.

Centrale in questo processo di costruzione relazionale è partire dalla percezione di se stessi, come soggetti e come oggetti. Il Sé come soggetto implica l’uso nel linguaggio dell’Io (“Io ho fatto, ho detto, ho deciso, pensato, amato…”), intendendo in quell’Io un sé conoscitore di se stesso (Aron, 2000), ovvero un sé dotato di coscienza percettiva, intellettiva e autocoscienza, tre livelli di coscienza pre-riflessiva e riflessiva a diverso grado di complessità (Minolli, Coin, 2007, p.97).

Che cos’è l’autoriflessività

L’autoriflessività, infatti, è il gradino più alto di conoscenza di se stessi e non coincide con la semplice riflessione su di sé, che implica un lavoro di tipo meramente cognitivo in cui ci guardiamo come dall’esterno prendendo distanza da ciò che facciamo; bensì l’autoriflessività o coscienza di sé è una funzione riflessiva del sé che significa sperimentare se stessi come soggetti della propria esistenza. Per fare un esempio, la semplice riflessione cognitiva su di sé potrebbe implicare un pensiero del tipo: “Penso di aver agito in questo modo perché ho valutato questa cosa secondo questo mio schema mentale!”; nonostante questo processo metacognitivo sia già molto importante ed elevato, non è sufficiente raggiungere l’autoriflessività, la quale implicherebbe qualcosa che va oltre il pensare al proprio pensiero (metacognizione), piuttosto implica “l’integrazione tra pensiero e sentimento, mente e corpo, modalità osservazionali ed esperienziali” (Aron, 2000, pp.668-669).

Questa capacità si traduce in qualcosa del tipo “questo è quello che so essere vero di me, perché questo è il modo in cui penso e mi sento” (Ringstrom, 2017) e fa parte della costruzione del sé come soggetto. Il sé come oggetto, invece, è reperibile in ciò che definisce il sé in quanto conosciuto da noi stessi, e lo esprimiamo attraverso il Me (“mi piace, mi interessa, ama me….”). E’ l’insieme delle nostre osservazioni su noi stessi nate anche grazie al feedback degli altri.

Percepire se stessi come oggetti implica riconoscersi come esseri umani tra gli esseri umani, come estranei e diversi dagli altri pur riconoscendoci in noi stessi. Come conosciamo noi stessi attraverso esperienze che ci pongono in modo soggettivato o oggettivato, così noi possiamo percepire gli altri come “altro-soggetto” o “altro-oggetto”. I sé come soggetto e come oggetto sono sempre in tensione dialettica ed entrambi nascono non dall’intelletto bensì dall’esperienziale. Se emerge uno squilibrio tra questi due sé non possiamo percepire gli altri in relazione a noi stessi, se non nelle due posizioni assolute e reciprocamente escludenti di oggetto o soggetto assoluto: il sé che è troppo soggettivato, tratta gli altri come oggetti; il sé che è troppo oggettivato, non è in grado di farsi soggetto con agency e pone gli altri al proprio posto.

Nella metafora del servo e del padrone, Hegel (cit. in Minolli, Coin, 2007, pp.98-99) spiega come in realtà nella rigida posizione dialettica può esistere già una interdipendenza ricorsiva di tipo relazionale: il servo ha salva la vita grazie al padrone e il padrone grazie al servo ha ciò di cui ha bisogno. In questo modo la relazione di padronanza si ribalta perché senza il servo il padrone non può più stare, dunque ne è a sua volta schiavo. Padrone e servo sono due parti di ognuno di noi “scisse e delegate” (Minolli, Coin, 2007, p.99) che possono riferirsi alla soggettivazione o oggettivazione sé-altro da sé.

L’interdipendenza psichica nelle relazioni

Comprendendo che in ogni relazione vi è sempre un’interdipendenza psichica che ci porta a coesistere in un dato contesto, cogliamo anche che non vi è servo e padrone, ma la possibilità di essere l’uno o l’altro in ogni momento in riferimento alla dinamica relazionale. Questo è particolarmente veritiero nella relazione amorosa, in cui l’Io e il me si definiscono come soggetto e oggetto amante e amato; parimenti l’altro è vissuto come soggetto-oggetto di amore.

Barthes (1977, p.107-108) propone questo rovesciamento del sentire “Non riesco a capirti” vuol dire: “non saprò mai che cosa pensi veramente di me. Non posso decifrare te perché non so come decifri me” e allo stesso modo può sussistere un pensiero opposto “Anziché voler definire l’altro (“Cos’è mai costui?”), io volgo l’attenzione su me stesso: “Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?” . In questo pensiero sussiste già una dinamica relazionale di tipo ricorsivo, che lega l’Io al Tu e rende evidente il ruolo centrale del legame relazionale (Io-tu) nella costruzione della propria identità relazionale (Sé). Non cogliere questo rovesciamento ricorsivo può determinare il posizionarsi rispetto all’altro in un modo detto “complementarietà reversibile”, in cui si lotta per spingere l’altro nella posizione rigida che desideriamo assuma a livello relazionale: “tu sei solo servo, io sono solo padrone!” o anche “solo io ti amo, tu non mi ami!” . Questa rigidità rompe la ricorsività dialettica e struttura un gioco di forze e ruoli in cui posizionare in modo irreversibile se stessi e l’altro in posizione di soggetti/oggetti: “Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che gli egli mi dà.” (Barthes, 1977, p.108).

Dato che la tendenza a porsi in modo solamente soggettivato o solamente oggettivato è radicata dallo stile relazionale conflittuale respirato fin da piccoli, nella scelta di partner e nelle relazioni adulte significative tendiamo, per coazione a ripetere, a scegliere persone che mantengano quella data posizione per noi assumibile poiché protettiva: se siamo stati o ci sentiamo servi cerchiamo inconsciamente padroni, se siamo stati o ci sentiamo padroni cerchiamo solo servi. Porsi in modo autoriflessivo non significa solo cogliere la propria dimensione rispetto all’altro, né comportarsi in modo da raggiungere un mero ribaltamento nella dimensione esperita (da servo a padrone, e viceversa).

Autoriflessività: la consapevolezza di sè in relazione all’altro

L’autoriflessività non può dunque raggiungersi solo con un processo di immersione emotiva (Ringstrom, 2017). Credere alla logica del “sento dunque sono!” è estremamente confusivo, poiché l’immersione in un’ esperienza è un processo non-riflessivo dove “non esistono interpretazione ma solo fatti” (Wallin, cit. in Ringstrom, 2017, p. 188). La società moderna basa il principio di “conoscenza di se stessi” troppo soventemente sull’immersione, per cui sentimenti, stimoli somatici, rappresentazioni mentali diventano la realtà (Ringstrom, 2017). In questo stato non si è in grado di entrare in intersoggettività, poiché esiste solo un sé soggettivato su cui non vi è peraltro neanche riflessione. Si vive piuttosto in una “realtà iperoggettivata” (Ringstrom, 2017), come “isterica”, dove si è troppo emotivi e paradossalmente estremamente soli poiché chiusi nella logica del “il mio sentire è il tuo sentire. E solo questa è realtà!”. Questo processo definito “equivalenza psichica” da Fonagy, e “(classicamente descritta come pensiero concreto) in cui non possono essere prese in considerazione prospettive alternative alla propria, poiché manca l’esperienza del “come se” e tutto appare come fosse “reale” (Bateman, 2007), ammazza l’empatia e l’alterità, e pone gli altri in una ipocrita posizione di oggetti-doppi del proprio sé, per cui “tu devi sentire come sento io perché ciò che io sento è vero!”.

Allo stesso tempo l’autoriflessività non rimanda a ragionamenti di tipo intellettivo su di sé, ad una mera metacognizione, speculazione intellettuale su chi sono io e come penso e perché. L’autocoscienza o coscienza di sé o autoriflessività implica “una dimensione misteriosa di coglimento di sé. La presenza a se stessi è una presa d’atto, un’accettazione attiva, un ri-conoscimento, un aprire gli occhi su di sé. C’è in questa presenza a se stessi lo stupore della scoperta, l’umiltà di fronte alla propria realtà, la sofferenza dello scarto, la gioia dell’aderire” (Minolli, Coin, 2007, p. 97). Rispetto alla metafora del servo e padrone l’autocoscienza o coscienza di sé è la capacità di cogliersi sia come servo che come padrone in modo dialettico e coesistente. Quindi l’autoriflessività è il superamento della lotta nell’attribuzione a se stesso di una posizione rigida rispetto all’altro ed è piuttosto la presa di consapevolezza di una “presenza a se stessi” che implica un “…essere a contatto, un viversi, un riconoscersi indipendentemente dalle cose, dai contenuti e dai desideri oggettivati ossia dell’oggetto… è qualcosa che porta a comunicare e a riconoscersi in prima persona con il proprio essere quello che si è, come dato da viversi in pienezza” (Minolli, 2007, p. 3, cit. in Minolli, 2009, p. 58).

Apprendimento multimediale: apprendere tramite testo e immagini oppure tramite istruzioni

Le teorie sull’ apprendimento multimediale studiano i processi di elaborazione dell’informazione che si attivano in risposta alla presentazione di uno stesso stimolo in differenti formati, ad esempio testo e immagine.

Chiara Arlanch – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Apprendimento multimediale: il valore delle immagini

Le illustrazioni sono una forma di rappresentazione visiva dalle svariate funzioni, da quella puramente decorativa, a quella rappresentativa dei contenuti del testo, a quella interpretativa. L’immagine è parte integrante del materiale didattico e non dovrebbe essere ignorata e considerata come elemento secondario; ha un notevole impatto e, in generale, nonostante a volte possa anche distrarci, sembra catturare la nostra attenzione e far restare in memoria dei concetti che altrimenti non riusciremmo a memorizzare facilmente.
La multimedialità, intesa come presentazione del materiale in più formati, ad esempio testo e immagini, è stata studiata a lungo, dagli anni Ottanta a oggi e in modo approfondito. I processi di elaborazione dell’informazione, implicati quando viene presentato un duplice formato, sono stati analizzati da varie teorie dell’ apprendimento multimediale.

Per la Teoria della doppia codifica esistono un sistema di codifica verbale e uno non verbale, in cui l’informazione testuale viene codificata solo dal sistema verbale, mentre l’immagine è codificata da entrambi i sistemi; è proprio questa duplice codifica, rispetto a quella singola, che avviene con la presentazione del solo testo, che migliora la memorizzazione e la comprensione del contenuto (Paivio, 1991, cit. da Mammarella, Cornoldi & Pazzaglia, 2005).

Secondo il modello integrativo della comprensione multimediale di Schnotz, processi bottom up, che partono dall’informazione sensoriale, e processi top down, basati sull’informazione pre-esistente in memoria a lungo termine, sono implicati in processi di selezione e di organizzazione dell’informazione. Per Schnotz permane una continua interazione tra il modello mentale, la rappresentazione superficiale del testo e la rappresentazione percettiva della figura (Schnotz, 2002).

Mayer ha affermato invece che esistono due sottosistemi di codifica, distinti in verbale e non verbale. L’informazione inizialmente entra in memoria sensoriale e viene mantenuta in un magazzino sensoriale per brevissimo tempo; poi la memoria di lavoro seleziona l’informazione rilevante, organizzandola in un modello verbale e in un modello visivo. Infine avviene un processo di integrazione, che unisce i due tipi di rappresentazioni, confrontandole anche con la conoscenza già presente in memoria a lungo termine, in un unico modello mentale complessivo, in cui informazioni verbali e visive sono recuperabili simultaneamente (Mayer, 2000, cit. da Mammarella et al., 2005).

L’apprendimento multimediale: il testo illustrato

Il filone di ricerca, che dagli anni Settanta ad oggi, si è occupato di indagare gli effetti delle illustrazioni associate al testo sull’apprendimento, generalmente ipotizza che le immagini migliorino e aumentino la comprensione e la memorizzazione del materiale. Il materiale didattico odierno contiene sempre più spesso immagini, grafici, diagrammi, mappe e questi tipi di rappresentazioni esterne assumono un ruolo fondamentale nell’apprendimento (Schnotz, 2002). Se da una parte vi è un relativo accordo sull’effetto positivo delle immagini, molti autori hanno rilevato però come vi debbano essere delle condizioni affinché l’apprendimento sia effettivamente promosso e non al contrario ostacolato.

Mayer ha individuato alcuni principi dell’ apprendimento multimediale che devono essere osservati per avere prestazioni ottimali. Una presentazione che associa testo e figure favorisce l’apprendimento e il crearsi di un modello mentale integrato, rispetto a una presentazione con solo testo o solo immagini. Vi è maggiore immediatezza se vi è vicinanza spaziale e temporale nella presentazione di testo e immagini, altrimenti può verificarsi una divisione dell’attenzione e un notevole dispendio di risorse cognitive. Il materiale dovrebbe essere il più possibile rilevante e coerente per non sovraccaricare la limitata capacità della memoria di lavoro e per non creare interferenze. Sarebbe più efficace presentare i contenuti in due modalità diverse, coinvolgendo il canale visivo e quello uditivo, senza che le informazioni provengano solo dalla modalità visiva. In letteratura si sottolinea inoltre che sono da evitare inutili ripetizioni dei concetti, poiché si rischia di creare ridondanza non produttiva (Mayer, 1990, cit. da Mammarella et al., 2005). In generale dunque si può affermare che associare le immagini al testo favorisca l’apprendimento, ma nello specifico bisogna tenere conto di queste condizioni, per non intralciare o rallentare il processo di elaborazione dei contenuti.

Le varie immagini possono essere classificate in base alle loro possibili funzioni e scopi. Levin e altri (1987) hanno individuato cinque funzioni:

  1. Un’illustrazione può essere decorativa e rendere il lettore più stimolato a leggere il testo non fornendo tuttavia informazioni rilevanti in aggiunta a quelle date dal testo; per esempio può trattarsi di riproduzioni di oggetti o eventi collegati al contenuto del testo o anche di decorazioni
  2. Le immagini possono avere funzione rappresentativa, attirando l’attenzione su un dato evento, persona, luogo o oggetto perché sia selezionato come rilevante
  3. Può esserci anche una funzione di trasformazione, meno convenzionale delle altre: l’immagine fa ricordare meglio qualche concetto e favorisce la rievocazione
  4. Le illustrazioni possono poi avere funzione organizzativa, facilitando la costruzione di un modello mentale coerente e strutturato ed evidenziando i collegamenti tra i vari elementi, come schemi o diagrammi
  5. Infine, cruciale è la funzione interpretativa esplicativa, che mostra il funzionamento di un sistema in termini di causalità: le illustrazioni esplicative dovrebbero mettere in evidenza gli elementi del sistema, gli stati e le relazioni tra i cambiamenti di stato dei vari elementi

Questi tipi di illustrazioni, oltre a guidare la selezione e l’organizzazione delle informazioni, consentono un processo d’integrazione con le conoscenze già presenti in memoria a lungo termine (Levin, 1987, cit. da Boscolo, 1997). Varie ricerche sono state pubblicate sull’ apprendimento multimediale da testo e immagini, che possono essere raggruppate secondo le funzioni rappresentativa, organizzativa, trasformazionale e interpretativa (Levin, 1987, cit. da Carney & Levin, 2002).

Di uno dei più comuni tipi di illustrazioni, quelle rappresentative, si è occupata la ricerca di Adler. Agli studenti è stato richiesto di elaborare illustrazioni rappresentative di un testo riguardanti situazioni d’emergenza. Sono stati loro assegnati quattro diversi tipi di istruzioni: un tipo non esplicito, uno esplicito (per esempio “Quanti oggetti vedi nella figura?”), un tipo in cui era implicata un’elaborazione semantica (per esempio “Come si può collegare l’immagine al testo?”) e un ultimo tipo di istruzione che comprendeva un’elaborazione interrogativa (per esempio “Quali altri oggetti possono essere lanciati in questo modo?”), in quest’ultima condizione è stato individuato un vantaggio significativo (Adler, 1993, cit. da Carney & Levin, 2002).

Anche David si è occupato di illustrazioni rappresentative. Nello specifico, ha condotto alcuni esperimenti per valutare l’efficacia di aggiungere illustrazioni rappresentative a notizie di cronaca riguardanti alcune celebrità. E’ emersa una migliore rievocazione del nome del personaggio famoso nelle condizioni in cui vi era anche l’immagine e il vantaggio era ancora maggiore se le notizie erano concrete rispetto a quelle astratte (David, 1998, cit. da Carney & Levin, 2002).

Nell’esperimento di Rubman e Waters, che hanno ripreso ed esteso ricerche precedenti, ai bambini è stato chiesto di costruire delle illustrazioni dopo aver letto un testo; chi di loro ha costruito l’immagine ha riconosciuto più facilmente degli elementi contraddittori interni al testo e, costruendo l’immagine della scena letta, c’ è stato un maggiore controllo della comprensione (Rubman & Waters, 2000, cit. da Carney & Levin, 2002).

Bartholomé si è occupato di vari tipi di supporto che possono essere dati nel processo di apprendimento, per aiutare la costruzione di un modello mentale. E’ emerso, in sintesi, che la condizione che ha migliorato maggiormente l’apprendimento è stata quella in cui erano affiancate etichette numeriche alle figure associate ai concetti, mentre dare troppo aiuto poteva interferire con l’apprendimento. Bartholomé ha concluso che bisognerebbe dare il minimo supporto necessario all’apprendimento, anche a seconda del tipo di conoscenza che si vuole far acquisire (Bartholomé, 2009).

Le illustrazioni con funzione di trasformazione, che aiutano a memorizzare i contenuti, sono state trattate ad esempio da Dretzke. Dalla sua ricerca è emerso un vantaggio nella rievocazione di elementi concreti nella fascia d’età più giovane (17-29 anni) e intermedia (30-50 anni); è risultato che la presenza di un’immagine chiave ha facilitato l’organizzazione della sequenza da rievocare in tutte e tre le fasce d’età (Dretzke, 1993, cit. da Carney & Levin, 2005).

Il più ampio numero di ricerche sull’ apprendimento multimediale ha riguardato illustrazioni interpretative o esplicative. Importante a tal proposito è stato il contributo di Richard Mayer, che ha tentato di capire cosa possa promuovere meglio la comprensione del funzionamento di un sistema scientifico. Mayer (1990) ha condotto tre esperimenti ed è emerso dai risultati che con le illustrazioni delle parti e dei passaggi c’è stata una migliore rievocazione e un vantaggio nel problem-solving, soprattutto con studenti con basso livello di conoscenza precedente, anche poiché esse favorivano la creazione di un modello mentale integrato.

Reid e Beveridge hanno analizzato al computer per quanto tempo gli studenti si soffermavano sull’immagine e in quale punto del testo spostavano l’attenzione su di essa. E’ risultato che in presenza di tematiche più complesse c’era una prolungata osservazione dell’immagine e che gli studenti con maggiori difficoltà nell’apprendimento osservavano più a lungo la figura (Reid & Beveridge, 1990, cit. da Carney & Levin, 2005).

Anche la ricerca di Florax e Ploetzner (2010) si è occupata di illustrazioni di tipo interpretativo, focalizzandosi sull’effetto di attenzione divisa che può avvenire quando si integrano due formati diversi. Gli autori hanno suddiviso gli studenti, che dovevano apprendere il funzionamento di un sistema biologico, in cinque gruppi. Al primo gruppo è stato presentato un testo continuo; al secondo è stato proposto lo stesso tipo di testo, affiancato da alcuni marcatori che ne sottolineavano delle parti; nel terzo caso il testo presentato era invece segmentato; la quarta condizione prevedeva la presenza di testo segmentato con l’aggiunta di marcatori e infine al quinto gruppo era presentato un formato integrato (contenente il testo diviso in parti, inserito all’interno di didascalie esplicative, affiancate alle varie parti dell’immagine). Dai risultati è emerso che il formato integrato ha favorito l’apprendimento in modo maggiore rispetto alle altre condizioni sperimentali.

L’apprendimento multimediale tramite istruzioni

Nell’ apprendimento multimediale, di un testo illustrato, possono essere usate varie strategie cognitive utili ad indirizzare l’approcciarsi ad esso. Spesso si danno delle istruzioni prima della somministrazione del materiale per ottenere l’effetto desiderato, ovvero ad esempio richiamare l’attenzione del lettore anche sull’immagine, che altrimenti potrebbe essere trascurata o analizzata solo superficialmente. Le istruzioni possono così suggerire al lettore di prestare attenzione a tutti gli aspetti del materiale proposto, anche a quelli figurativi, possono spiegare a chi legge il potenziale effetto facilitatore dell’illustrazione, che svolge molte funzioni positive come, ad esempio, chiarire degli aspetti, esemplificare o raffigurare alcuni elementi, o aiutare la rievocazione.
Molto spesso all’interno dei materiali didattici sono presenti varie istruzioni, di tipo generale per indicare di guardare bene la figura, oppure di tipo specifico per esortare il lettore a prestare attenzione scrupolosamente, ispezionare l’illustrazione in modo da elaborarne e interpretarne i contenuti nel modo più adeguato. Le istruzioni possono inoltre richiedere di eseguire dei compiti, ad esempio sottolineare o evidenziare parti dell’illustrazione, o confrontare tra loro aspetti dell’immagine e del testo, completare degli elementi mancanti, rispondere a delle domande o risolvere dei problemi basandosi sulle informazioni fornite dal materiale figurativo.

La ricerca presente sull’argomento non è molta, ma sta iniziando a diffondersi. Il consigliare solamente al lettore di prestare attenzione anche all’immagine non produce un’ispezione molto più approfondita rispetto a quella che sarebbe stata effettuata senza indicazioni. Da ricerche che riportano un confronto tra attenzione prestata incidentalmente rispetto ad un tipo di attenzione intenzionale, sembra che non vi sia una differenza statisticamente significativa. Più efficace sembra invece essere specificare su cosa in dettaglio focalizzare l’attenzione, come risulta da uno studio di Peeck (1993), in cui studenti universitari dovevano leggere un testo illustrato con o senza istruzioni, o leggere il solo testo. Nella prima delle due condizioni di testo illustrato si richiedeva al lettore di trovare quali informazioni corrispondessero in testo e immagine. Nel secondo caso vi era un tipo di istruzione implicita, che diceva semplicemente di prestare attenzione ai contenuti, senza nominare l’immagine. In una valutazione dell’apprendimento successiva è emerso un vantaggio dato dal primo tipo di istruzione, rispetto a quella implicita, e anche rispetto a chi aveva letto solamente il testo. Nella condizione di istruzione esplicita i partecipanti nominavano più frequentemente degli elementi presenti nell’illustrazione.

Più efficace risulta dunque essere un tipo di istruzione specifica, come emerge dagli studi di Yarbus, in cui viene evidenziato come i movimenti oculari sono indirizzati diversamente a seconda del diverso tipo di istruzione (Yarbus, 1967, cit. da Peeck, 1993). Bernard e Weidenmann hanno inserito nelle istruzioni indicazioni più specifiche, che indicavano cosa cercare nell’immagine, e che hanno facilitato maggiormente l’apprendimento (Bernard & Weidenmann, 1990, cit. da Peeck, 1993). L’effettuare la ricerca in un laboratorio può aumentare inoltre la disponibilità di un soggetto a seguire le istruzioni; ciò può non verificarsi in un ambiente meno strutturato, dove esse possono essere ignorate. Un modo per tenere sotto controllo la tendenza a trascurare le istruzioni potrebbe essere quello di richiedere lo svolgimento di qualche compito, che attesti che le indicazioni siano state seguite, come ad esempio rispondere a delle domande, o sottolineare parti dell’immagine, o produrre nuove illustrazioni che rappresentino i contenuti appena appresi (Peeck, 1993).

Il valore dell’ apprendimento multimediale

Dalla ricerca preesistente è emerso un generale accordo sul fatto che un formato integrato favorisca l’apprendimento piuttosto che ostacolarlo; sono state appunto compiute molte ricerche sull’argomento, che spesso hanno portato risultati a favore dell’utilità di un testo illustrato. Le principali teorie dell’ apprendimento multimediale hanno contribuito in modo incisivo a descrivere i processi di elaborazione alla base dell’apprendimento da formato integrato. Sono state analizzate le varie funzioni che può avere un’immagine, da quella puramente decorativa, a quella rappresentativa, organizzativa, trasformazionale e interpretativa. Sono state inoltre evidenziate le condizioni che consentono un migliore apprendimento come, ad esempio, che l’informazione figurativa sia rilevante, coerente, posta nelle vicinanze del testo, a condizione quindi che non si crei ridondanza.

E’ stato inoltre analizzato il ruolo di varie strategie cognitive, come l’uso di istruzioni didattiche, nell’ apprendimento multimediale. Dalle ricerche precedenti è emerso come esistano istruzioni di vari tipi: esse possono essere più generali, chiedendo al lettore di studiare i contenuti, o di osservare anche la parte figurativa del materiale; possono anche essere più specifiche, evidenziando oltre a ciò l’importanza di integrare le informazioni verbali con quelle figurative, o chiedendo ai partecipanti di svolgere alcuni compiti. Dalla ricerca è emerso che più le istruzioni specificavano come bisognasse analizzare i contenuti, maggiore sarebbe stata la loro efficacia.

Varie sono le implicazioni di tipo pratico che possono derivare in merito a tali considerazioni sull’ apprendimento multimediale: potrebbe essere efficace per l’apprendimento dare istruzioni molto specifiche che, oltre ad esortare a collegare testo e figura, richiedano di svolgere qualche compito. Potrebbe essere opportuno, ad esempio, sollecitare ad individuare la parte di testo a cui l’immagine è riferita, magari sottolineando o evidenziando i passaggi più importanti. Lo studente in questo modo potrebbe tendere sempre meno a trascurare l’immagine; utilizzando questo tipo di istruzione più specifica potrebbero essere promosse un’analisi attiva e un’elaborazione più profonda dei contenuti.
Potrebbe essere utile evidenziare anche agli insegnanti l’importanza di associare sempre più frequentemente al testo le illustrazioni, di dare istruzioni esplicite che raccomandano di integrare e collegare l’informazione testuale e quella figurativa prima di presentare i contenuti. Questo potrebbe avvenire all’interno di corsi di formazione agli insegnanti, soprattutto centrati sull’uso ottimale delle nuove tecnologie, ad esempio le Lavagne Interattive Multimediali (LIM), strumenti potenzialmente molto utili a garantire un’interazione attiva degli studenti con i contenuti multimediali, che permettono un ampio ricorso a risorse di tipo iconico.

Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali (2018) – Recensione del libro di Michael Bader

Eccitazione di Bader propone un nuovo modo di vedere le fantasie sessuali, che mette insieme piacere, sicurezza e trasgressioni.

A Jane piace essere maltrattata da un uomo grosso, rude, privo di interesse per quello che lei prova. Mary gusta il pensare di avere tra le mani un uomo potente e farlo impazzire di desiderio. La tensione che sale all’idea che una donna dagli stivali di pelle lo dominerà, chiamerà Mike: schiavo. Robert, che durante i rapporti con la moglie fantastica di una donna forte che lo lega. Un ragazzo ha bisogno di uno specchio unidirezionale che lo separi dalla donna che si spoglia davanti a lui. Jeff immagina la sua donna presa da un altro mentre lui guarda. I Depeche Mode cantano in Strangelove: “Accetterai il dolore che ti darò? Ancora e ancora. E me lo restituirai?”. Aggiungono: “Farò sorridere il tuo cuore”.

Cosa sono le fantasie sessuali? Qual’è il loro significato?

Le fantasie sessuali, se uno si distrae dal motivo per cui esistono, raccontano di storie spesso orribili, rosso carminio, hanno colori foschi o così forti che feriscono gli occhi. Violenze, umiliazioni, sottomissione e potere, disprezzo e gloria. Niente che la morale, neanche quella sfibrata dei contemporanei, accetti realmente. Non vorremmo frequentare il nostro alter ego delle storie che ci eccitano. Però ne abbiamo terribilmente bisogno. Sono parte di noi ma, esclusi gli esibizionisti, non vogliamo che emergano.

Le interpretazioni sul loro significato sono infinite e nessuna, naturalmente, è definitiva.

Poi arriva Michael Bader, con una psicoanalisi che più cognitiva non si può. E le spiega. Le rende chiare. Comprensibili, alla luce di una teoria che funziona. Si tratta di modi per raggiungere il piacere in condizioni di sicurezza.
Sorpresi? Fantasie di violenza, stupro, frustate, tradimento, sottomissione, asfissia sarebbero fonti di sicurezza? Esatto, Bader dice proprio quello e ha ragione. Ma di che genere?  Della forma che ci è più necessaria. Sicurezza relazionale. Raggiungere il piacere, essere vivi, fiammanti, leggeri, estatici. Per arrivarci è necessaria una condizione. Essere accolti. Gioire certi che l’altro non ci accuserà né rifiuterà, che non sarà disgustato da noi. E ancora: che non lo feriremo, che non saremo meglio di ciò che la vita gli ha dato o si è costruito.
Andiamo a fondo: ci proteggiamo dal senso di colpa e vergogna che striscia nel nostro animo. Vi hanno detto che la nostra società edonistica non ha il più senso del limite? Stupidaggini. Non ce ne liberiamo mai, sono emozioni strutturali. Iniziate a capire ora? Esponendoci al fluire dei sensi, posseduti dall’eccitazione, rischiamo accuse, rifiuti e di ferire l’altro. Ci dovremmo abbandonare a qualcuno che non sappiamo chi è, non ne abbiamo mai davvero la certezza.
Le fantasie sessuali servono a quello: piacere in condizioni di sicurezza. Per afferrare a fondo le idee ci servono le storie che fanno da sfondo al teatro dell’erotismo, la cornice che inquadra bondage, fetish e burlesque e quel vostro film mentale maledettamente preferito.

Eccitazione: alcune fantasie dei protagonisti del libro

Il passato di Bob, il ragazzo dietro lo specchio unidirezionale. Il padre se ne va con una donna più giovane. Bob ha 10 anni. La madre assume il ruolo della martire. Il fratello si ammala. La madre ogni giorno fa miglia a piedi per andare in ospedale. Ostenta sofferenza, sventola dispiacere. Bob esce con gli amici e lei indossa la maschera della delusione: un altro uomo che mi abbandona. Il senso della fantasia voyeuristica oggi: Bob pensa che comportandosi da uomo virile, voglioso, avrebbe ferito simbolicamente la madre come il proprio padre aveva fatto. Mostrando il desiderio offende la donna. E quindi lo specchio unidirezionale: ti osservo senza che tu lo sappia, mi eccito senza farti alcun male. Mi proteggo dal senso di colpa verso mio madre.

Esther, donna morigerata, fantastica di essere presa durante la parata del Mardi Gras a New Orleans, dove ballano tutti nudi, più uomini la prendono e un maestro di cerimonie di colore descrive l’atto alla folla. Per Esther è irresistibile. Il passato: un padre, intellettuale europeo che emigra negli Stati Uniti e si trova costretto a vendere antiquariato, per lui un fallimento. La sera torna di malumore a casa. A moglie e figlia non rivolge attenzioni, forse gioisce per il riscatto economico dei figli maschi. La piccola Esther nota lo sguardo del padre, quel disinteresse per la moglie. E quegli occhi non si poggiano su di lei con l’amore che un padre dovrebbe rivolgere alla figlia. Esther riflette, respira disinteresse. Esther deduce: sono disgustosa. La parata di Mardi Gras è il suo riscatto. La folla ha i sensi esaltati tutti per lei. Il presentatore che declama la festa del suo corpo femminile è la cura per la vergogna. Strangelove, in condizioni di estrema sicurezza.

Il trattamento della fobia specifica attraverso lo studio dell’attività cerebrale altrui 

Un team di ricercatori internazionali ha compiuto una nuova ricerca che potrebbe portare allo sviluppo di una nuova forma di trattamento per le fobie specifiche, presto applicabile sui pazienti. 

Trattare la fobia specifica manipolando l’attività cerebrale

Lo studio si basa su recenti esperimenti condotti presso l’Advanced Telecommunications Research Institute International in Giappone. Utilizzando i metodi all’avanguardia presi in prestito dall’intelligenza artificiale, simili agli algoritmi informatici utilizzati per riconoscere i volti dalle immagini, il team è stato in grado di “leggere”, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), le immagini mentali spontanee all’interno del cervello dei partecipanti.

Lo scopo dello studio era quello di rendere meno paurosi gli oggetti fobici manipolando direttamente l’attività cerebrale: una piccola ricompensa monetaria era assegnata ogni qual volta il soggetto ricordava inconsciamente l’oggetto pauroso. In questo modo secondo i ricercatori, l’immagine di un serpente, ad esempio, veniva associato a un sentimento positivo, diventando a lungo andare meno spaventoso e sgradevole.

L’autore principale dello studio Vincent Taschereau-Dumouchel afferma “Sapevamo che l’idea avrebbe funzionato sui soggetti non fobici, la sfida era capire come leggere i pensieri legati agli oggetti spaventosi dalle immagini cerebrali dei pazienti”.

La partecipazione allo studio di soggetti normali (senza alcuna fobia specifica) appare estremamente importante in quanto ai partecipanti non fobici è possibile mostrare molte immagini, potenzialmente spaventose, senza conseguenze particolari e lasciare che l’algoritmo apprenda il modello cerebrale che si attiva. L’applicazione di questa stessa procedura in pazienti fobici però diventa problematica poiché essi provano un estremo disagio nell’osservare le immagini di oggetti temuti.

Il team ha ideato una soluzione innovativa al problema, ovvero quella di inferire gli schemi dell’attività cerebrale dai partecipanti non fobici. Le parole del Professor Hakwan Lau chiariscono meglio il concetto “Se un soggetto ha paura dei serpenti, per decodificare gli schemi della sua attività cerebrale, egli non deve necessariamente osservare l’immagine di un serpente; un altro individuo può, come suo “surrogato”, osservare le immagini fobiche che non suscitano in lui nessuna reazione e sulla base di questa normale attivazione cerebrale, si potrebbe dedurre a livello computazionale quale dovrebbe essere l’attivazione all’interno del cervello fobico alla vista del serpente. Questo è possibile grazie ad un metodo ingegnoso chiamato iperallineamento”.

Sebbene i modelli di attività cerebrale di individui diversi abbiano organizzazioni spaziali diverse, il metodo di iperallineamento può correggere questa discrepanza. I ricercatori hanno dimostrato che, con una grande quantità di dati provenienti da molti “surrogati”, la fobia del paziente può essere ridotta.

I soggetti venivano sottoposti a sessioni di rinforzo neurale precedute e seguite da sessioni di controllo per valutare l’efficienza del trattamento. In particolar modo durante la procedura di rinforzo neurale, utilizzando dei compiti specifici, i ricercatori erano in grado di attivare nel soggetto specifici pattern cerebrali che si era visto essere associati allo stimolo temuto, elicitando così la stessa risposta neurale che si sarebbe attivata alla vista dell’animale pauroso. Lo scopo della sessione era di consentire ai partecipanti di associare la ricompensa monetaria all’attivazione di queste rappresentazioni neurali giungendo così ad un ridimensionamento inconscio della risposta fobica.

Dopo aver partecipato all’intervento i pazienti mostravano una diminuzione della conduttanza cutanea e dell’attività emodinamica dell’amigdala in risposta alle immagini temute suggerendo un’influenza del trial clinico sulle risposte fisiologiche e cerebrali dei soggetti.

Gli scienziati pensano che il metodo possa rappresentare un’innovazione soprattutto per il fatto che questo tipo di procedura appare libera dalle difficoltà che il soggetto riscontra invece nei tradizionali trattamenti psicoterapeutici quali ad esempio, l’esposizione in vivo.

Il team spera che questo protocollo possa ispirare nuovi tipi di trattamento, non solo per la fobia specifica ma anche per altri tipi di disturbi come il disturbo da stress post-traumatico.

Cos’è il colore? Intervista al Professor Riccardo Manzotti, Docente di Filosofia teoretica all’Università IULM di Milano

Il colore: una proprietà degli oggetti? Una frequenza di luce, come pensava Newton? Una sostanza chimica?  “Può sembrare strano – avverte il Professore Riccardo Manzotti – ma oltre 300 anni dopo il testo di Newton (1704) non sappiamo ancora in modo definitivo che cosa sia il colore”.

 

State of Mind (SoM): Facciamo un po’ di chiarezza con l’aiuto di Riccardo Manzotti, docente di Filosofia teoretica all’Università IULM di Milano. Attualmente insegna negli Emirati Arabi, presso l’ateneo di al-Ayn, dove si studiano le nuove tecnologie. Recentemente ha pubblicato per l’editore Arcipelago un saggio intitolato “Psicologia della percezione artistica.

Riccardo Manzotti (RM): Per le neuroscienze, i colori non esistono nel mondo fisico, ma sono creati dal cervello. Il mondo fisico sarebbe, dunque, senza colori. Tuttavia questa posizione si scontra sia con la nostra esperienza quotidiana (che attribuisce i colori alle superfici e alla luce), sia con l’idea, piuttosto attendibile, secondo cui gli animali si siano evoluti per vedere i colori che si trovano nel mondo. Il problema è che, in molti casi, come le illusioni o le allucinazioni, si vedono colori che non esistono. E allora rimane il dubbio che i colori che vediamo siano una forma di allucinazione. In breve, i colori restano in sospeso tra la mente e il mondo fisico e, di conseguenza, non troviamo una soluzione convincente. Si sente il bisogno di un nuovo paradigma che riesca a mettere insieme neuroscienze, filosofia e fisica.

SoM: Come è cambiata l’arte in relazione alla disponibilità dei colori? In passato, pittori come Giotto avevano una tavolozza infinita, come accade oggi con il digitale?  

RM: In realtà, fino all’invenzione dei colori ad olio, la tavolozza degli artisti era molto limitata sia perché si disponeva di pochi pigmenti stabili, sia perché era quasi impossibile mescolarli senza effetti inattesi. I pigmenti colorati erano sostanze chimiche che non andavano mischiate. Medioevo e Rinascimento conoscono pochi colori. Michelangelo dipinge il Tondo Doni con 5-6 tinte di base. Piero della Francesca fa la stessa cosa. Da Giotto a Raffaello nulla cambia: la gamma dei colori è limitatissima.
La prima rivoluzione avviene con l’introduzione dell’olio e, a metà dell’Ottocento, dei pigmenti chimici che consentono la grande esplosione cromatica dell’Impressionismo. Oggi siamo viziati, qualsiasi schermo digitale produce milioni di sfumature. Se da un lato questo favorisce la ricchezza cromatica, dall’altro impedisce di caratterizzare la singola sfumatura. Turner aveva passato anni a cercare una sfumatura appropriata di giallo. Una volta i colori avevano più, come dire, personalità!

SoM: La visione dei colori può essere condizionata dalla cultura? E dal sesso? Uomini e donne vedono gli stessi colori? 

RM: Contrariamente all’idea diffusa secondo cui la cultura cambia il modo in cui vediamo la realtà, nel caso dei colori non ci sono prove certe, anzi l’evidenza empirica sembra suggerire una grande stabilità dell’esperienza cromatica. Anche i miti circa gli eschimesi che vedrebbero più sfumature di bianco, sembrano ingiustificati. Noi e loro vediamo le stesse sfumature di bianco, ma gli eschimesi danno molti più nomi alle varie nuance senza che questo significhi che vedano qualcosa di diverso. L’idea prevalente oggi è che la percezione cromatica – a meno di differenze patologiche come nel caso dei daltonici e dei dicromatici – sia sostanzialmente identica tra le persone, a prescindere dal sesso o dalla cultura. Un’eccezione è rappresentata dal 12% delle donne che hanno un tipo di fotorecettore al colore in più, sono tetracromatiche. E tuttavia non ci sono prove certe del fatto che vedano più colori delle altre persone. Anche questo è un mistero.

SoM: Cos’hanno in comune Newton e i Pink Floyd? Il primo marzo l’album musicale “The dark side of the Moon” ha compiuto 45 anni. In copertina c’è un arcobaleno… 

RM: Newton è responsabile di un famoso errore che è diventato parte della nostra cultura, ovvero l’idea secondo cui nell’arcobaleno ci sarebbero 7 colori principali. In realtà, il grande scienziato, all’apice della sua fama, forzò questo numero per soddisfare le sue simpatie alchimistiche e numerologiche: 7 è un numero molto affascinante. Ci sono 7 note musicali, 7 giorni della settimana, 7 vizi, 7 virtù e così via. Sfortunatamente per lui, però, ci sono solo 6 tinte salienti nell’arcobaleno (3 colori primari e 3 colori secondari), un numero che non dipende dalla fisica, ma dalla fisiologia dell’occhio. Dunque, care maestre, smettiamola di insegnare i sette colori dell’arcobaleno! La cosa divertente è che, nel 1973, quando i Pink Floyd scelsero la copertina del loro album capolavoro, “The Dark Side of the Moon”, decisero per un omaggio al grande scienziato inglese: misero un prisma che divide la luce nei colori dell’arcobaleno. Dato che i Pink Floyd non sbagliano mai, però, misero correttamente 6 colori e non 7. Chissà che cosa ne avrebbe pensato Isaac Newton!

SoM: Oggi si parla molto di AR (realtà aumentata) oltre che di realtà virtuale. Che cosa si potrà fare con i colori?

RM: L’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie consentono di creare mondi virtuali. Tuttavia, ancora una volta, il colore non si dimostra così facile da trattare. Infatti, i sistemi di realtà virtuale e aumentata non sono in grado di farci vedere colori aggiuntivi rispetto ai familiari colori del nostro mondo. Come mai? Nessuno ha mai visto un colore che non esiste nel mondo fisico. Questo suggerirebbe che la posizione delle neuroscienze, secondo cui i colori sono creati dal cervello, sia sbagliata. Infatti, se lo fossero, con la realtà virtuale dovremmo riuscire a creare colori nuovi. Nei prossimi anni vedremo interessanti sviluppi dalla combinazione della intelligenza artificiale con le neuroscienze che metteranno alla prova i modelli esistenti sul colore.

Ragazze interrotte: Il mondo caleidoscopico del Disturbo Borderline di Personalità

Ragazze interrotte è un film che cerca di inquadrare l’esperienza e il vissuto del Disturbo borderline di personalità dandone uno scorcio visivo capace di mettere in evidenza le varie sfumature di questo disturbo e di riflettere su un disagio dai tratti caleidoscopici e multiformi.

Mattia De Franceschi

 

Tono dell’umore appiattito, risposte tangenziali alle domande ricevute e silenzi, lunghi momenti in cui flashback intrusivi emergono e fanno perdere per un istante i confini tra realtà e fantasia. “Come?” risponde Susanna Kaysen, interpretata da Winona Ryder nel film Ragazze interrotte (1999), lasciando intendere di non aver udito per niente la domanda posta dallo psichiatra. La ragazza fatica a rimanere lì, frammenti di ricordi le invadono il suo spazio mentale ed è come se si perdesse in quel ricordo rendendo instabile il contatto con la realtà. La protagonista del film è stata appena portata e ricoverata in una clinica psichiatrica dopo aver tentato il suicidio ingerendo insieme vodka e un flacone di aspirine.

Il film Ragazze interrotte cerca di inquadrare l’esperienza e il vissuto di quanto nel DSM-5 è riportato come Disturbo borderline di personalità e lo fa dandone uno scorcio visivo che permetta di potersi soffermare sulle varie sfumature e riflettere su un disagio dai tratti caleidoscopici e multiformi. Un modo di sentire che è descritto molto bene dalla stessa protagonista che in un’occasione di sconforto riporta “so cosa significa voler morire.. e che sorridere fa male.. e che ci provi ad inserirti ma non ci riesci… e che fai del male al tuo corpo per tentare di uccidere la cosa che hai dentro”.
Il disturbo borderline di personalità è annoverato nel Cluster B dei disturbi di personalità (DSM-5) insieme ai disturbi antisociale, istrionico e narcisistico di personalità. Gli individui con questi disturbi spesso appaiono amplificativi, emotivi o imprevedibili.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Nello specifico il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da un pattern pervasivo d’instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti. Il soggetto borderline vive una mancata separazione dell’Io dal mondo esterno che comporta il confluire inarrestabile ed esplosivo di emozioni e pensieri senza alcun filtro e possibilità di poterli assimilare in modo funzionale. Tale meccanismo sembra essere dovuto all’incapacità inconscia di distinguere chiaramente tra il Sé, che include il senso d’identità personale, e il mondo esterno (Searles, 1988). Non essendo presente alcun argine che possa dare freno all’ondata emotiva destrutturante, il soggetto si attiva in modi imprevedibili per rispondere a tale condizione e in molti casi mette in atto comportamenti disfunzionali come gesti o minacce suicidarie oppure manifesta impulsività in aree potenzialmente dannose per se stesso come sesso non protetto, abuso di sostanze e guida spericolata.

Fragilità, incertezza e insicurezza tratteggiano il soggetto con disturbo borderline di personalità e la protagonista del film Ragazze interrotte si fa carico di queste angosce e le ripropone in modo più che umano dando voce a un disagio che spesso a parole diventa complicato poter descrivere, un malessere fatto di sofferenza psichica che si riverbera a livello fisico e sociale, una “interruzione” nel normale percorso del proprio essere.
Il Cinema aiuta a utilizzare il punto di vista interno del soggetto, permette di potersi immedesimare e accompagnare la protagonista nel suo percorso di catarsi, di presa di coscienza (o quasi) del proprio malessere e con essa la possibilità di poter forse superare tale condizione. Chissà se alcuni, guardando il film, possano essersi ritrovati in qualche tratto, sfumatura dei soggetti rappresentati e si siano chiesti cosa veramente significhi la dimensione Borderline riconoscendosi nell’ultima riflessione in chiusura del film in cui la protagonista dice “sono mai stata matta? Forse sì. O forse… è matta la vita”.

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