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Cognitivismo Clinico n. 2, Dicembre 2017: l’ editoriale – Ricerca e psicoterapia

Questo numero speciale di Cognitivismo Clinico è dedicato alla presentazione di sette lavori, sei dei quali sono tesi magistrali che hanno ricevuto il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva” indetto dalla sezione regionale Lazio della Società Italiana di Terapia Comportamentale Cognitiva (SITCC Lazio) nel 2017.

 

La SITCC è una società scientifico-professionale che ha come oggetto sociale la promozione delle attività che conducono a un approfondimento degli aspetti teorici, metodologici, clinici e applicativi nell’approccio cognitivo e comportamentale alle tematiche e ai problemi psicologici, psichiatrici e sociali. Tale mandato statutario rispecchia la profonda convinzione della necessità imprescindibile di collegare l’intervento terapeutico alle conoscenze sulle strutture e sui processi mentali messi in luce dalla ricerca scientifica in ambito psicologico e all’obbligo di proporre trattamenti di dimostrata efficacia. Al fine di incoraggiare e promuovere la ricerca in psicoterapia cognitiva e, più in generale, nella psicopatologia sperimentale, e contribuire alla diffusione di una cultura psicoterapeutica fondata sulla ricerca sperimentale, da due anni la SITCC Lazio organizza il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva” riservato a tesi magistrali inerenti ricerche sugli esiti e sul processo terapeutico in psicoterapia cognitiva, e sui processi psicologici che generano e mantengono la psicopatologia.

Non ha partecipato al concorso per il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva”, l’articolo “La mente non accettante” anche se deriva dalla tesi magistrale di Elio Carlo, relatore Francesco Mancini, perché la tesi è stata presentata dopo la chiusura dei termini per partecipare alla selezione.

In questo numero di Cognitivismo clinico verranno presentati sette lavori inerenti temi diversi, tra cui la procrastinazione, la ruminazione e il suo ruolo nella fobia sociale, il problema secondario nella fobia sociale, il disgusto nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, i bias di memoria nella Depressione, i processi cognitivi alla base della “mente non accettante”.

Cognitivismo clinico presenta le testi di Laurea premiate

  • Il lavoro di Salvatori sulla procastinazione

Nel primo lavoro Salvatori presenta un’interessante rassegna sulle origini della procrastinazione, sui relativi meccanismi psicopatologici e sulle tecniche di intervento cognitivo comportamentali. In particolare in questo lavoro si sottolinea la trasversalità di questo processo, che accomuna diverse forme di psicopatologia come fattore di vulnerabilità e di mantenimento.

  • La ruminazione nella fobia sociale: Aquino e Liguoro con Couyoumdjian

Il secondo lavoro presentato nell’ultimo numero di cognitivismo clinico da Aquino e Couyoumdjian è una ricerca che prende in considerazione il ruolo che la ruminazione ha nel mantenimento della fobia sociale. Nello specifico hanno confrontato un gruppo di fobici sociali con un gruppo di soggetti non clinici per verificare l’ipotesi di una differente variabilità cardiaca e attivazione fisiologica associata alla ruminazione post-evento.

Il terzo lavoro di Liguoro e Couyoumdjian esamina il ruolo della ruminazione come fattore di mantenimento della fobia sociale. Nello specifico viene indagato l’effetto della ruminazione sul valore personale e sul tono dell’umore, e si osserva come il pensiero ripetitivo incrementi stati emotivi negativi, pensieri negativi e autocritica.

  • Il secondario nella fobia sociale: Morticcioli e Couyoumdjian

Anche il quarto lavoro di Morticcioli e Couyoumdjian prende in esame gli effetti del problema secondario nel mantenimento della sintomatologia della fobia sociale, tuttavia gli autori si concentrano sull’efficacia di alcune tecniche di intervento orientate alla riduzione del secondario. In sintesi, osservano che le tecniche di defusione risultano essere più efficaci rispetto all’esposizione.

  • Disgusto e DOC: Ferracuti e Couyoumdjian

Ferracuti e Couyoumdjian, nel quinto studio presentato su Cognitivismo Clinico, si propongono di differenziare i correlati psicofisiologici del disgusto morale confrontando soggetti con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e soggetti con DOC di Personalità. Effettivamente dai risultati i due disturbi si differenziano per attivazione di sistemi psicofisiologici con caratteristiche differenti.

  • Bias mnestici nel disturbo depressivo: Torre e Couyoumdjian

La sesta tesi magistrale qui presentata di Torre e Couyoumdjian ha indagato i bias mnestici nel disturbo depressivo indagandone l’associazione con gli stili di personalità di Blatt analitico e introiettivo. Gli autori hanno osservato che i depressi hanno difficoltà a ricordare singoli episodi passati, e mostrano un bias verso i ricordi a contenuto negativo, ciò riguarda soprattutto i depressi-dipendenti.

  • La mente non accettante: Mancini e Carlo

Infine, l’ultimo lavoro sviluppato da Mancini e Carlo presenta un interessante modello della “mente non accettante”, che comprende le strategie cognitive e gli stili di ragionamento che ostacolano il disinvestimento da scopi compromessi o minacciati. In altre parole, prendendo spunto dalla Hyper Emotion Theory e dalle ben note strategie cognitive precauzionali, gli autori forniscono una chiara lettura dei meccanismi cognitivi della “mente non accettante”, che sarebbero alla base dello sviluppo dei disturbi emotivi e, soprattutto, del loro mantenimento e aggravamento.

Sette: analisi psicologica dei meccanismi di affiliazione e affrancamento – Report dal webinar organizzato dall’OPL

Si è svolto lo scorso 18 aprile un interessante evento Webinar, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia e aperto ai professionisti di tutti gli Ordini regionali, che ha indagato il fenomeno delle sette e i meccanismi di affiliazione attraverso cui i nuovi adepti vengono “captati” all’interno delle sette, e realtà totalitarie, dotate di propri codici insindacabili e finalizzate all’attaccamento esclusivo agli ideali del gruppo settario.

 

Relatrice esperta la Dottoressa Lorita Tinelli, psicologo, specializzato in criminologia e fondatrice del CESAP, Centro Studi Psicologici Abusi Psicologici Onlus.

Il termine sette si riferisce alla funzione delle stesse, ovvero quella di separare, nel senso di un distacco dalle realtà sociali, alla guida di un leader con precise caratteristiche – precisa Tinelli.

Un fenomeno allarmante e che necessita di interventi di tipo psicoterapeutico e criminologico: ottomila le sette in Italia, 600 mila gli adepti in Italia e 500 milioni nel mondo, secondo un’indagine di Focus dell’Aprile 2006, all’origine di storici fatti di sangue. Resterà nella memoria collettiva il caso del reverendo Jim Jones, predicatore statunitense, che ordinò (e ottenne) il suicidio di massa di 909 membri della sua congregazione nello stato della Guayana, inclusi bambini per mano degli stessi padri. Cosa può aver spinto a tale decisione collettiva definitiva, quali i poteri carismatici di influenzamento e le finalità da attribuire al leader Jones e quali i meccanismi di controllo delle menti degli adepti?

In termini generali, finalità primaria del leader è l’indottrinamento dei suoi membri al fine di accentrare il poter su di sé, sfoderando uno spiccato narcisismo, e portando a un controllo totale dell’adepto, a vari livelli, compreso quello economico, con la frequente espoliazione dell’intero patrimonio dell’adepto o l’appropriazione dei proventi della sua attività professionale – sottolinea la docente – Nel caso Jones un genitore che decide di consegnare nelle mani del leader-predicatore il proprio figlio dimostra un totale controllo della sua mente e un’alienazione dal mondo e dalla sua funzione genitoriale. D’altronde anche i testimoni di Geova agiscono dimostrando una cieca acritica adesione alla dottrina del gruppo, quando proibiscono le trasfusioni e permettono la morte dei propri piccoli.

Un indottrinamento lento, quello delle sette, costante, inesorabile che si fonda sulle capacità seduttive del leader e sul sapiente utilizzo di tecniche di indebolimento della volontà, e che sfrutta personalità vulnerabili, malleabili, soddisfando bisogni di dipendenza affettiva.

Il leader di una setta ha precise caratteristiche che lo rendono seduttivo, in grado di vendere un prodotto che non c’è, alla ricerca di un solo vantaggio personale: si autodefinisce maestro, veggente, dedica molto tempo alla cura della sua immagine, inventando spesso anche storie false su di sé, come il possesso di lauree inesistenti, utilizzando uno stile linguistico ampolloso. Riguardo all’indottrinamento vengono utilizzati metodi scientifici per aggirare le difese psichiche, come la deprivazione del sonno, i digiuni, in grado di alterare lo stato di coscienza e facilitare l’indebolimento della volontà, oltre alle regole su chi abusare sessualmente. Ciò induce confusione mentale nei confronti di adepti di per sé vulnerabili, in particolari momenti di fragilità, che, in qualche modo, a fronte di una forza vacillante, sulla base di una scelta emotiva, sono spinti ad attribuire forza, verità, misticismo al guru, accettando fideisticamente tutto, compreso l’isolamento totale dalla famiglia e dagli amici, verso cui vinee indotta aggressività. Ben si comprendono i danni psicologici, che persistono anche dopo l’abbandono della setta: del 25%, infatti, è la percentuale di ex seguaci che soffrono di danni psicologici irreversibili, senza contare i danneggiamenti fisici che possono condurre alla morte continua Tinelli.

Nelle sette troviamo metodi comportamentali di influenzamento e convincimento a cui si affiancano tecniche psicologiche ben note nel campo della psicologia sociale, finalizzate alla persuasione e all’indebolimento delle capacità decisionali e di critica.

La tecnica dell’adescamento consiste nel dare al soggetto informazioni errate rispetto alla richiesta, aggiungendo particolari allettanti che poi verranno smentiti. Il vincolo psicologico nasce dalla credenza per il soggetto di avere preso liberamente una certa posizione, al punto da sentirsi vincolato a rispettarla, quindi a seguire la volontà e la dottrina del gruppo. Da ricordare anche la tecnica del piede sulla porta, che consiste nel coinvolgere il soggetto in un compito poco impegnativo (come la compilazione di un questionario) cui segue un altro più impegnativo. Ciò accade nei movimenti per lo sviluppo del potenziale che propongono innocui tests sulle proprie risorse personali su cui proporre dei corsi di miglioramento personale volti a colmare le carenze evidenziate dal test stesso, ma sempre più incalzanti e risolutivi rispetto al problema rilevato, e finalizzati alla dipendenza dal movimento stesso.

Un percorso di suggestione e induzione di una realtà “alternativa”, potremmo dire, che segue delle fasi specifiche, ben descritte dal modello di Steve Hassan: nella fase di decongelamento si inducono negli adepti dubbi sulla propria vita precedente, quindi vengono inseriti nuovi valori e “poteri”, come l’apprendimento di poteri magici per controllare l’ambiente o la convinzione dell’esistenza di vita ultraterrene, insomma una strutturazione di un nuovo ego più solido e forte che maschera quello precedente, e che costituisce un vero e proprio controllo del pensiero, su cui avviene infine una fissazione, un ricongelamento, una normalizzazione della “nuova vita”.

Controllo del pensiero certamente fondamentale, a cui si aggiunge un controllo del comportamento (abbigliamento per imitazione), un controllo emozionale e un controllo delle informazioni (non leggere o guardare certi programmi televisivi).

A fronte quindi della santificazione del leader che porta gli adepti a difenderlo anche a fronte di accuse di reato o di fallimenti nelle previsioni (come accade per le previsioni mai verificatesi sulla fine del mondo), frutto dell’adesione fideistica al gruppo, fonte di vita (al punto che l’espulsione equivale alla morte stessa), si pone un intervento di recupero complesso, che prevede per esempio la creazione di reti amicali, come coadiuvanti nel reinserimento sociale dell’adepto e nell’allontanamento dalla setta, e il supporto di professionisti, adeguatamente formati.

Per chi svolge la professione di psicologo non esistono corsi specifici all’interno dell’Università, per cui suggerisco una formazione eclettica per poter usufruire di strumenti operativi per la terapia, e l’appartenenza a realtà associative anche europee – conclude Tinelli.

Bullismo: un fenomeno in crescita. Come riconoscere episodi di bullismo e come intervenire

Un’importante preoccupazione con cui genitori e insegnati si trovano a fare i conti sono gli episodi di bullismo che, soprattutto tra gli undici e i tredici anni, si manifestano tra coetanei all’interno degli ambienti scolastici, ma anche sportivi.

Tale preoccupazione ha ragione di esistere soprattutto per il fatto che episodi di bullismo spesso si verificano lontano dalla supervisione degli adulti, ad esempio nei corridoi e nei bagni delle scuole, o negli spogliatoi nei contesti sportivi.

Con il termine bullismo ci si riferisce ad un insieme di comportamenti violenti, di natura intenzionale, che si protraggono nel tempo. Esso può essere di natura fisica, nel caso di agiti aggressivi e violenti nei confronti della vittima, o psicologica, che si manifesta attraverso pettegolezzi, prese in giro, ecc.. Esiste una forma di bullismo più indiretta, in cui il target dei comportamenti messi in atto dai bulli, non è la vittima, ma gli oggetti che ad essa appartengono. In questi casi, i bulli potrebbero nascondere o danneggiare oggetti che sono di proprietà della vittima, come nascondere i suoi libri o danneggiare il suo zaino.

Chi sono le vittime di bullismo?

Spesso atti di bullismo vengono prepetrati nei confronti di alcuni soggetti, piuttosto che altri, a causa dello stigma sociale, sulla base della razza, dell’orientamento sessuale, del genere o di altre caratteristiche. Da queste caratteristiche è possibile inferire che tali episodi vengano perpetrati nei confronti delle minoranze, che mostrano delle diversità, infatti, tra gli undici e i tredici anni, periodo in cui gli atti di bullismo raggiungono il loro apice, è presente un elevato conformismo tra gli adolescenti. Questo potrebbe spiegare come mai le minoranze vengano, in maniera sensibilmente più elevata, “prese di mira”.

Interventi e prevenzione

Sono state implementate diverse forme di interventi che si sono dimostrate utili nell’affrontare questa problematica. Innanzitutto, può essere molto importante portare avanti delle campagne di sensibilizzazione rispetto a tale fenomeno, che coinvolgano non solo gli studenti, ma anche i genitori. Ottenere la collaborazione e l’aiuto dei genitori è fondamentale, proprio perché episodi di bullismo sono difficili da scovare e si verificano spesso in contesti in cui gli adulti non possono esercitare la loro supervisione. Intervenire in maniera preventiva è spesso la scelta più saggia. Molte scuole, a tal proposito, adottano una politica anti-bullismo allo scopo di scoraggiare tale fenomeno, promuovendo invece la costruzione di un clima di classe basato sulla collaborazione e sulla messa in atto di comportamenti prosociali.

Data la rilevanza delle conseguenze negative a cui il fenomeno del bullismo sottopone tutti i suoi partecipanti, siano essi vittime, bulli oppure osservatori, è fondamentale che tale fenomeno non venga minimizzato o sottovalutato. Intervenire preventivamente sulla politica della scuola e sul clima di classe incide positivamente sul benessere e sul rendimento scolastico dei singoli alunni.

Farma party: la pericolosa moda delle feste a base di farmaci, sempre più diffusa tra gli adolescenti

Perché i farma party sembrano essere la nuova pericolosa moda degli adolescenti? Alcune caratteristiche adolescenziali correlano positivamente con la probabilità di mettere in atto comportamenti devianti o di utilizzare sostanze stupefacenti o, nel caso in esame, prodotti farmaceutici allo scopo di “sballarsi”.

Rachele Recanatini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I comportamenti devianti tra variabili biologiche e variabili psicosociali

I comportamenti cosiddetti devianti hanno alla base molteplici cause, che possono essere di tipo biopsico-sociale. Un atto considerato pericoloso, che viola le norme sociali, potrebbe infatti risultare multideterminato da una combinazione di variabili biologiche funzionali, come ad esempio un deficit a livello del lobo frontale, da processi psicologici, quali per ipotesi l’essere vittima di violenza e da fattori contestuali di riferimento, come l’instabilità economica (Baron, Richardson, 1994).

Durante il delicato periodo adolescenziale tali variabili risultano particolarmente significative, in quanto ricche di cambiamenti. A livello biologico si riscontra una notevole modificazione organica, nello specifico un decremento della sostanza grigia cerebrale nei lobi frontali e nella corteccia prefrontale, fenomeno chiamato “frontalization” (Rubia, 2000); un cambiamento proprio in quelle zone deputate al controllo degli impulsi, alla regolazione emotiva ed alla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni (Giedd, 2004); ciò indica come gli adolescenti siano maggiormente predisposti a fornire risposte comportamentali istintive (Yurgelun-Todd, 2006).

Le cause ambientali rivestono un ruolo altrettanto significativo. L’azione dell’ambiente appare maggiormente determinante sui minori rispetto agli adulti, a causa di una maggiore sensibilità agli stimoli esterni; infatti l’ambiente socioculturale di riferimento, ovvero l’insieme dei fattori sociali, culturali ed economici, le usanze e le abitudini, incidono profondamente sull’adolescente e sul suo eventuale comportamento antisociale (Monniello, Quadrana, 2010).

Il risk taking negli adolescenti

Numerose ricerche scientifiche sono ad oggi concordi nell’indicare come la delinquenza adolescenziale possa essere considerata una forma di “comportamento fisiologico”, che nella maggior parte dei casi regredisce in maniera spontanea (Zara, 2006). Le trasformazioni fisiologiche e psicologiche che avvengono a questa età, di fatto, incidono notevolmente sul desiderio di ribellione, di indipendenza e volontà decisionale, di contrasto con le figure di riferimento istituzionali e familiari, di accettazione nel gruppo dei pari. L’adolescente ricerca, per natura, forme di gratificazione immediata, subordinando la percezione e la valutazione delle conseguenze future (Zara, 2005). Il comportamento delinquenziale giovanile può essere visto come una modalità di risposta ad un cambiamento fisico e psicologico che l’adolescente spesso ha difficoltà a gestire, un’espressione di malessere esistenziale, una richiesta di attenzione, una curiosità di scoprire, una reazione alla frustrazione, un modo per uscire dalla noia, un sentirsi parte del gruppo.

L’insieme di tali caratteristiche definisce il concetto di risk taking, ovvero l’aumento dell’assunzione di rischio, atteggiamento tipicamente adolescenziale; un’attrazione per le sensazioni estreme, le emozioni forti, il coinvolgimento in attività pericolose, il senso di immediatezza degli agiti, la sfida verso l’autorità, la megalomania del sé ed il tipico pensiero dicotomico “tutto o niente” (Fuligni, 2002). Il sensation seeking e l’ impulse control sono costrutti alla base del risk taking adolescenziale (Lydon-Staley, Geier, 2017), e si riferiscono alla ricerca costante di sensazioni intense, che porta a voler superare i propri limiti e, spesso, a perdere il controllo.

Farma party: l’uso dei farmaci per “sballarsi”

Le caratteristiche adolescenziali elencate correlano positivamente con la probabilità di utilizzare sostanze stupefacenti o, nel caso in esame, prodotti farmaceutici allo scopo di “sballarsi”. Tale comportamento, così come altri collocabili approssimativamente tra i 12 ed i 18 anni d’età, potrebbe essere legato a cause di vario genere: l’imitazione ed il condizionamento del gruppo di appartenenza, la volontà di affermare il proprio sé ed auto-valorizzarsi, di proteggersi da eventuali insuccessi o di ridurre la consapevolezza (“non pensare”). Le sostanze scelte dai giovani sono in preponderanza facilmente recuperabili ed accessibili, rendono nell’immediato più disinibiti, euforici ed espansivi, ma provocano a lungo termine effetti drammatici quali ad esempio stati depressivi ed ansiosi, paranoia, pensieri psicotici e, in alcuni casi, pensieri di morte.

Tali considerazioni generali relative all’adolescenza possono ben rappresentare un fenomeno in recente espansione in Italia, i cosiddetti farma party. Il termine pharma parties è stato ideato dai mass media americani per descrivere feste (parties) in cui adolescenti si scambiano ed ingeriscono casualmente alcuni prodotti farmaceutici (pharma), fino ad esserne intossicati. L’8 marzo 2002 questo termine compare per la prima volta nella rivista Public Opinion di Chambersburg, in Pennsylvania, che lo descrive come problematica che coinvolge vari paesi (Shafer, 2008). Da allora vicende legate ai farma party si sono diffuse su riviste e programmi televisivi in tutti gli Stati Uniti (Shafer, 2010).

Episodi simili ai farma party erano già stati descritti durante gli anni sessanta; nello specifico, un evento chiamato fruit salad party fu segnalato il 30 marzo 1966 in una edizione della famosa rivista The Sun, nel Massachusetts. La vicenda si riferiva ad una festa in cui alcuni adolescenti portarono tre pillole ciascuno che, mescolate in una ciotola, furono ingerite casualmente. La maggior parte dei giovani fu ricoverata in ospedale ed uno di essi rimase in coma. Non furono reperite informazioni certe, nomi dei protagonisti o tipologia specifica di farmaci assunti. Le notizie relative ai fruit salad parties continuarono durante tutti gli anni settanta; in alcuni casi, fonti non ufficiali riferirono che i farmaci furono nascosti all’interno di vera e propria frutta, che gli adolescenti mescolavano creando effettive “macedonie” (Shafer, 2008). Nella maggior parte dei casi i portavoce autorevoli erano rappresentati da poliziotti o “drug counselor”, i quali non mostrarono prove effettive ma riferirono elementi salienti ascoltati dai giovani direttamente coinvolti negli episodi in oggetto.

Dal primo decennio del ventunesimo secolo si possono trovare informazioni più dettagliate relative ai farma party o, come chiamati dai media, ai pharming parties o pharming. Così come durante la prima ondata di notizie, le fonti informative furono indirette, le statistiche assenti o ingannevoli, e non fu identificato alcuno specifico incidente. Nonostante ciò, tra il 2005 ed il 2006, vennero redatti numerosi articoli relativi al fenomeno in America, dove furono trasmessi perfino episodi di telefilm incentrati sull’argomento (CSI: NY – nel novembre 2005; Boston Legal – nel maggio 2006).

Nel giugno del 2006 l’editore della rivista statunitense Slate, Jack Shafer, iniziò ad investigare sui farma party, concludendo che il fenomeno era reale, popolare e in crescita, ma molto ben nascosto e poco conosciuto ai media. Sebbene studi internazionali indicano che più di un adolescente su cinque ha abusato di prescrizioni mediche (Institute for Good Medicine, 2008), non è ancora chiaro se queste feste, specificatamente organizzate per scambiarsi farmaci, contribuiscano a tali abusi. L’ente governativo americano FDA (Food and Drug Administration) ha di recente lanciato l’allarme, con l’obiettivo di regolare il commercio di medicinali negli Usa.

I protagonisti della nuova moda dei farma party sono adolescenti che rubano all’interno delle proprie abitazioni farmaci di ogni genere, per poi portarli alle feste dove vengono scambiati ed ingeriti in maniera casuale, spesso accompagnati dal consumo di alcol. I prodotti farmaceutici possono essere di qualsiasi tipologia: antinfiammatori, antidolorifici, fino ad arrivare a psicofarmaci quali ansiolitici, antidepressivi o inibitori dell’iperattività, che spesso sono reperibili nelle proprie case, in quanto utilizzati da familiari.

Le sostanze, durante i farma party, vengono dapprima condivise in una grande ciotola, per poi essere deglutite in un mix totalmente imprevedibile, come fossero caramelle. Le conseguenze del consumo casuale appaiono naturalmente gravissime: frequenti sono i ricoveri ospedalieri per avvelenamento ed intossicazione, che nei casi più gravi si traducono in decessi.

L’elemento che appare maggiormente assurdo ed incomprensibile di questi farma party risulta essere la randomizzazione sia della tipologia di sostanza che del dosaggio. I giovani racimolano ciò che riescono a trovare all’interno degli armadietti contenenti prodotti farmaceutici nelle proprie abitazioni, li portano con sé durante le feste, spesso appositamente organizzate, dove vengono ingeriti in maniera indiscriminata, fino a far perdere i sensi. In alcuni casi gli adolescenti leggono le etichette del farmaco o si istruiscono sul web per verificare gli effetti previsti, ma una volta versati nella ciotola risulta difficile differenziare – ad esempio – l’ossicodone o la benzodiazepina da un semplice antistaminico o antibiotico, soprattutto dopo aver assunto alcol. La pillola ingerita potrebbe essere qualsiasi sostanza.

È questo l’elemento dei che maggiormente suscita preoccupazione ed inquietudine: chi è solito utilizzare droghe, o commerciarle, fino all’avvento dei farma party non avrebbe accettato di condividere un oppiaceo con il rischio di ricevere in cambio un prodotto che allevia sintomi allergici. Ciò che attrae è invece propriamente l’assunzione del rischio nel provare effetti diversi ed imprevedibili. Sostanze farmacologiche da sempre vengono utilizzate dagli adolescenti per alleviare lo stress, rilassarsi o migliorare performance scolastiche. Ben diverso da quanto invece oggi sembra accadere durante i farma party. Tra i farmaci più diffusi ci sono le benzodiazepine, gli ipnotici, gli antidepressivi ed i farmaci a base anfetaminica, usati per ridurre lo stimolo della fame. All’elenco si possono aggiungere anche medicine anti-tosse poiché alcune contengono piccole dosi di oppiacei e, infine, gli antidolorifici.

Recentemente è giunta anche in Italia questa nuova folle moda. Un importante studio modenese ha analizzato i capelli di alcuni giovani con il gas cromatografico rilevando che circa il 10% dei campioni analizzati risultavano essere ragazzi di età inferiore ai vent’anni che assumono farmaci non prescritti dal medico. Tra i positivi, il 40% ha assunto ansiolitici ed il 30% antidepressivi (Studio Lab 2000, 2010).

Oltre i farma party: altre fenomeni pericolosi che riguardano gli adolescenti

La notizia rimanda per similitudine ad un’altra malsana abitudine, derivante anch’essa dagli Stati Uniti, ovvero il Binge Drinking: il consumo di alcol in maniera occasionale ed esagerata al di fuori dei pasti. Nel 2015, infatti, è proprio il Ministero della Salute che all’interno di un report al Parlamento redatto in relazione al consumo di alcol ed alle problematiche ad esso correlate, ne denuncia la diffusione. Nello stesso anno si diffuse sul web un’altra moda statunitense altamente pericolosa: la KylieJenner Challenge, ovvero la sfida a gonfiarsi le labbra infilandole nel collo di una bottiglia ed aspirando, alterando così la circolazione sanguigna in una zona ricca di capillari, provocando lividi e tagli profondi alla bocca, allo scopo di somigliare ad un personaggio famoso.

Ma che cosa spinge gli adolescenti ad assumere comportamenti altamente a rischio? Spesso la mancata tolleranza alla noia. Un recente studio rileva come il bere in maniera occasionale ed esagerata possa essere predetto dalla maggiore propensione ad annoiarsi tipica degli adolescenti (Biolcati et al., 2016). In alcuni casi, è una condizione di vittimizzazione a poter influenzare la delinquenza giovanile. Una ricerca recente indica che giovani poli-traumatizzati risultano significativamente più a rischio di comportamenti quali binge drinking, probabilmente a causa della difficoltà di autoregolazione, ponendoli come categoria altamente a rischio verso comportamenti problematici a lungo termine (Davis et al., 2018).

Cause diverse spingono dunque gli adolescenti alla ricerca di un elevato rischio e di sensazioni estreme allo scopo di divertirsi: una netta diminuzione del senso di responsabilità al fine di sentirsi potenti e sicuri, durante agiti di natura differente, come atti sessuali promiscui, violenza ed aggressività fisica, guida imprudente e in stato di ebrezza, binge drinking o, nel caso in esame dei farma party, assunzione sregolata di farmaci.

I farma party rappresentano una roulette russa in cui i farmaci, assunti in maniera esagerata, casuale ed associata al consumo di alcol, provocano gravissimi danni alla salute, fino al possibile decesso. Il rischio è amplificato dalla totale inconsapevolezza del tipo di compresse ingerite: antidolorifici, antinfluenzali, ansiolitici o antidepressivi combinati insieme hanno effetti devastanti sul cervello e sul corpo. In particolare, danni elevati vengono riscontrati a livello del sistema cardiocircolatorio, neurologico e cerebrale: l’abuso di benzodiazepine, ad esempio, può portare all’ipotrofia, ovvero alla riduzione del volume del lobo frontale, struttura deputata a molteplici funzioni cognitive, quali l’attenzione, il coordinamento e il controllo del comportamento volontario. Lesioni significativamente più gravi se le sostanze vengono assunte durante la fase adolescenziale di sviluppo e crescita psicofisica. Inoltre, l’associazione di alcuni psicofarmaci con l’alcol deprime ed indebolisce le funzioni neuro-psichiche. In un sempre maggior numero di casi, anche nel nostro paese, il desiderio di provare forti emozioni partecipando ad un farma party procura overdose letali.

Breve storia teorica della terapia cognitivo comportamentale tra funzionalismo e strutturalismo

Una versione un po’ diversa di come è nato il cognitivismo clinico racconta un’evoluzione non proprio armonica dal comportamentismo al cognitivismo, fino a quella che oggi viene definita “terza onda”.

 

In un articolo che abbiamo appena pubblicato sul Journal of Rational Emotive and Cognitive Behavior Therapy e che qui potete scaricare in formato pdf, presentiamo la nostra versione della storia del movimento cognitivo clinico – sia americano che italiano – di fronte alle sfide a cui è andato incontro degli ultimi anni, sia in termini di cosiddetta “terza onda” (vedi Dai contenuti ai processi mentali: la terza ondata della Terapia Cognitiva) che di integrazione con gli interventi relazionali (vedi La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”).

Narriamo un racconto un po’ diverso dalla storia del comportamentismo che si sarebbe armonicamente sviluppato in cognitivismo e che a sua volta sarebbe sfociato – un po’ meno armonicamente – nella “terza onda”. Nella nostra storia, invece, vi è una posizione iniziale che denominiamo “funzionalista” e che fu quella del comportamentismo e poi del primo cognitivismo teorico/sperimentale, ma non del cognitivismo clinico. La posizione funzionalista mostrò alcuni limiti pratici nelle applicazioni cliniche ma aveva in sé un rigore e una correttezza che poi in parte abbiamo trascurato a favore della significatività clinica. Beninteso, riteniamo che fosse un passaggio necessario e nessuna perdita è mai definitiva, tutto può essere recuperato.

Vi fu poi una prima forte crisi – non un’evoluzione armonica – che portò alla svolta clinica, cognitiva di Beck e costruttivista di Mahoney e Guidano, svolta che denominiamo “strutturalista” e che corrispose ad alcuni bisogni clinici concreti e che portò a un grande passo in avanti a cui non vogliamo rinunciare, ovvero la superiore efficacia specifica della terapia cognitivo-comportamentale per alcuni disturbi-bersaglio, ma che determinò anche – a nostro parere – alcuni fraintendimenti teorici su cui è bene riflettere, senza catastrofismi.

Noi proponiamo che la svolta cognitiva nella clinica non fu propriamente l’esatto corrispettivo della “rivoluzione cognitiva” che era avvenuta nel campo teorico-sperimentale. Essa fu anche un primo esempio, in parte felice ma non del tutto, d’integrazione tra concetti che non appartenevano all’impostazione funzionalista e alla sua attenzione per i processi mentali. Si introdussero concetti che ipotizzavano strutture sottostanti, soprattutto quelle centrate sul sé. E’ questo passaggio dalle funzioni mentali alle strutture psicologiche che ci fa chiamare questa evoluzione “strutturalista”.

Si noterà che in questa nostra storia il cognitivismo di Beck e il costruttivismo di Mahoney e Guidano sono raccontati nelle loro somiglianze e comunanze e non – come si fa di solito – nelle loro differenze.

La storia prosegue sostenendo che alcune caratteristiche “strutturaliste” di Beck, Mahoney e Guidano abbiano prodotto alcune conseguenze in parte positive ma con alcuni rovesci della medaglia. L’aspetto migliore fu quello che portò alla fioritura delle procedure efficaci di Beck e alle intuizioni cliniche sull’importanza della storia di vita di Mahoney e Guidano, insomma gli sviluppi esplorativi ed evolutivi tipici del costruttivismo in tutte le sue declinazioni.

Altri aspetti della svolta ci lasciano più perplessi. L’attenzione data alle credenze centrate sul sé – la cosiddetta self-knowledge – ebbe un grande valore clinico e pratico, ma spostò l’attenzione dei clinici lontano dai processi e dalle funzioni mentali a favore di concetti strutturali, come appunto il sé o i significati personali. I concetti “strutturalisti” come il sé erano forse più maneggevoli e intuitivamente comprensibili per il clinico. Questo però forse generò un interesse verso la storia di vita del paziente come scoperta di sé clinicamente promettente, ma anche a rischio di riduzione della terapia (e della relazione terapeutica) a un lavoro di scoperta esistenziale a due – terapista e paziente – emotivamente ricco ma operativamente vago e dalla efficacia non chiarissima, con scarsa attenzione alla condivisione contrattata con il paziente di un modello di funzionamento e di apprendimento di un funzionamento diverso.

Insomma, forse si perse qualcosa della rigorosità dell’impostazione funzionalista del cognitivismo e comportamentismo iniziale. Perdita parziale che forse contribuì al calo di fiducia nell’intervento esplicito sulle funzioni esecutive e consapevoli del paziente a favore di interventi provenienti da altre tradizioni, la cui integrazione nel cognitivismo/comportamentismo è – a nostro parere – ancora tutta da elaborare teoricamente.

La nostra storia si conclude con una descrizione forte della “terza onda” come recupero del funzionalismo – ovvero il recupero del rigore teorico del comportamentismo – tenendo però presente il meglio della seconda onda di Beck, Mahoney e Guidano, ovvero l’operatività clinica e non da laboratorio, applicata finalmente sul giusto bersaglio scientifico: i processi mentali.

Memoria autobiografica: scopi e funzioni nella nostra vita quotidiana

Negli ultimi anni la memoria autobiografica è stata oggetto di numerose ricerche che hanno avuto come focus concettuale il capire come essa agisca, qual è la sua finalità e perché alcuni episodi della propria vita sono meglio ricordati di altri.

 

Relativamente all’utilizzo della memoria autobiografica da parte degli individui, essa viene usata per tre scopi ben precisi, ovvero per pianificare i propri comportamenti presenti e futuri, per sviluppare la percezione della continuità della propria storia di vita, per avere cognizione delle interazioni sociali che si sono strutturate nel tempo (Bluck e al., 2005).

 

Primo scopo della memoria autobiografica: la pianificazione del comportamento

Riguardo alla prima funzione, è noto come l’esperienza passata, che entra a far parte della memoria autobiografica, serva a direzionare le condotte del presente e del futuro. In pratica, le informazioni desunte dalla propria storia di vita diventano un archetipo che dirige la capacità di decidere per il presente e per il futuro e fungono da ancora a cui l’individuo può aggrapparsi nei momenti di incertezza (Baddley, 1988; Bluck e al., 2005). Inoltre, le informazioni desunte dalla memoria di tipo autobiografico costituiscono una cognizione utile per capire il comportamento degli altri, inquadrandoli in una cornice di continuità e di prevedibilità, con l’obiettivo di capire meglio il contesto sociale nel quale si vive (Robinson e Swanson, 1990). In aggiunta, la memoria autobiografica ha una funzione di apprendimento che si palesa, soprattutto, in ambito morale, ossia le condotte del passato possono aiutare l’individuo a comportarsi diversamente, laddove i propri comportamenti sono stati fonte di sofferenza per l’alterità (Bluck e Gluck, 2004).

Secondo scopo: garantire un senso di continuità e di stabilità del sé

Riguardo alla seconda funzione, la memoria autobiografica gioca un ruolo importante in quanto fornisce i costrutti necessari a creare una stabile e duratura immagine di sé. In altre parole, le notizie ricavate dalla propria autobiografia sotto forma di ricordi danno il senso di continuità che accompagna il proprio divenire. In pratica, malgrado l’individuo possa fare esperienze disomogenee e frammentarie nel suo arco di vita, la memoria di tipo autobiografico crea l’unitarietà dell’agire come specchio di un sé che si è costruito nel corso del tempo e questo assicura il senso dell’identità personale (Bluck e Alea, 2008).

Terzo scopo: sviluppare e mantenere le relazioni sociali

Relativamente alla terza funzione, ossia quella sociale, la memoria autobiografica serve a selezionare e a far perdurare le relazioni sociali. In altri termini, attraverso la memoria autobiografica il soggetto sceglie quali relazioni sociali coltivare e consolidare e quali, invece, recidere, in quanto i ricordi delle interazioni sociali passate divengono un’unità di misura con cui soppesare le nuove conoscenze sociali (Bluck e al., 2005; Rasmussen e Habermas, 2011).

L’utilizzo delle tre funzioni a cui è deputata la memoria autobiografica varia nel corso del ciclo di vita. Come differenti ricerche hanno evidenziato (Baltes e al., 2016; Vranić e al., 2018), esiste una differenza generazionale nell’uso della memoria autobiografica. Infatti, i soggetti più giovani (età media 28 anni) tendono ad utilizzare più frequentemente, rispetto alle persone più anziane (età media 60 anni), la memoria autobiografica per dirigere i propri comportamenti e per avere la continuità e la stabilità del proprio sé. Le stesse ricerche, inoltre, hanno mostrato che le donne si servono più degli uomini della memoria autobiografica per calibrare le proprie azioni.

In conclusione, la memoria autobiografica è adoperata per tre ragioni principali, ossia per meglio calibrare le proprie condotte, per sviluppare il senso del sé e per selezionare i rapporti sociali.

Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse (2017) di M. C. Strocchi, S. Raumer e T. Segato – Recensione del libro

Cosa porta una persona a diventare affettivamente dipendente da un’altra? Quali sono i tratti di personalità che contraddistinguono le vittime e i carnefici di relazioni basate su violenza e manipolazione? Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse cerca di rispondere a questi e a molti altri quesiti, già dalle prime pagine.

 

Sempre più frequenti, tra le pagine di cronaca nera, gli episodi di femminicidio: cambiano i nomi, i luoghi, i tempi ma la modalità tende a ripetersi. Un copione scritto infinite volte che vede come protagonisti due amanti, una coppia apparentemente normale a detta di vicini e conoscenti ma sui quali, man mano che si scava nella vita di coppia, piombano molte più ombre di quelle non viste dagli altri. Ombre pesanti, incatenanti come la gelosia, la manipolazione, la dipendenza affettiva e la violenza. L’epilogo è sempre lo stesso: lui, geloso e violento, che picchia, maltratta e uccide lei, dipendente da lui, la donna di cui si diceva innamorato, spesso compagna e madre dei suoi figli.

Quello presentato è il quadro più estremo di una relazione patologica, per nulla sana. Altri quadri di questo tipo di relazione, certamente non così estremi ma per nulla scevri da negativi impatti psicologici (e non solo), si dipingono tra le quattro mura domestiche, in cui tra i partner si instaura un perverso gioco di manipolazione e violenza. E a volte a farne le spese non sono solo le donne: anche gli uomini possono diventare vittime di una relazione asimmetrica, dipendenti dalla partner, soggiogati dai ricatti morali e materiali o dalla personalità dominante della propria compagna.

Cosa porta una persona a diventare affettivamente dipendente da un’altra? Quali sono i tratti di personalità che contraddistinguono le vittime e i carnefici di queste relazione d’amore surrogato? Cosa si può fare se pian piano ci si rende conto di essere imprigionati in una relazione del genere?

Liberarsi dalla dipendenza affettiva: perché si diventa dipendenti dall’altro?

Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse di Maria Cristina Strocchi, Sonny Raumer e Tullio Segato, cerca di rispondere a questi e a molti altri quesiti, già dalle prime pagine.

Il libro si apre con un’introduzione che cerca già di spiegare in che modo la società spinge le persone a diventare dipendenti dal proprio partner: in un’epoca caratterizzata da incertezza e cambiamenti repentini che difficilmente si è in grado di gestire, preferiamo seguire i sicuri binari del “accontentati di quello che hai” oppure “non lasciare la strada vecchia per quella nuova, sai quello che lasci ma non quello che trovi”. A ciò si aggiungono le vecchie regole di rapporto fondato sulla sopportazione reciproca, sulla fedeltà, sul rimanere insieme per i figli, per i genitori, per la casa, per i soldi o per la paura di rimanere soli.

Gli autori sottolineano come la dipendenza affettiva abbia due protagonisti: il dominato e il dominante, entrambi incatenati nel gioco della violenza e della manipolazione.

Cosa porta una persona a diventare dominato o dominante? Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse lo chiarisce fin da subito: al di là del ruolo che attualmente ricoprono, i partner che si incastrano in questo gioco di potere e sottomissione hanno sofferto nella loro infanzia, sebbene da adulti, pur avendo la stessa matrice, sviluppano modalità relazionali opposte.

Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse si divide in due parti: la prima si concentra sulla definizione di dipendenza affettiva, mentre la seconda illustra delle mosse pratiche per gestire le relazioni poco sane e crearne di nuove, più soddisfacenti.

La prima parte del libro, come anticipato, spiega cos’è la dipendenza affettiva. Tutti noi abbiamo sperimentato una condizione di dipendenza affettiva “sana”: da bambini, per esempio, quando i nostri genitori ci accudivano in modo affettuoso ed equilibrato, ma anche nel rapporto con il partner può manifestarsi un po’ di sana dipendenza dall’altro, a patto che ci si senta liberi di “fare e di essere” all’interno del rapporto di coppia.

Quando allora la dipendenza dall’altro diventa un problema? Lo diventa quando il partner rappresenta il nostro unico obiettivo di vita, quando pensiamo che possa essere l’unico che risolverà i nostri problemi personali, quando non abbiamo dell’altro una visione realistica (con pregi e difetti… e spesso questi ultimi sono evidentissimi ma negati), quando la nostra stessa esistenza viene messa in secondo piano rispetto a quella del nostro partner.

In Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse vengono presentate poi, in maniera dettagliata, le caratteristiche dei due protagonisti della dipendenza, partendo dalla vittima. Molto spesso donna, l’età è estremamente variabile. Quasi tutte però presentano dei tratti in comune: sono donne con scarsa autostima che cercano spasmodicamente la conferma dal partner di essere persone di valore; hanno paura dell’abbandono; attribuiscono a loro stesse la responsabilità del buon funzionamento della coppia. Spesso hanno una personalità dipendente che le porta a cercare negli altri le fonti di sostegno e affetto, di cui non possono fare a meno. Con il tempo queste persone riescono a consolidare questo “stile di vita” e divengono delle vere esperte nello scegliere partner incapaci di donare amore.

D’altro canto vi è il dominante, dai tratti narcisistici di personalità molto evidenti oppure si mostra debole, remissivo ma in grado di mettere in atto molti comportamenti di tipo manipolativo, utilizzando questa presunta debolezza per mettere in scacco il partner. I primi, più frequenti, sono persone con un senso grandioso di importanza, hanno bisogno di costante ammirazione, sfruttano gli altri per i loro scopi; Inizialmente persone di questo tipo possono realmente esercitare un certo fascino sugli altri. Con il tempo però questo velo d’apparenza cade e rimangono dei comportamenti deleteri, maleducati, che tendono a svilire il partner creando elevata conflittualità all’interno della coppia.

Gli autori continuano così illustrando quali sono le personalità più predisposte a diventare dominatrici e dominate, concentrando la loro risposta su personalità narcisistiche (quelle dominatrici) e dipendenti o border (quelle dominate).

Un capitolo è dedicato alle definizioni di manipolazione affettiva e di violenza, non solo fisica ma anche psicologica, spesso più subdola e più frequente nelle relazioni tra dominato e dominante. Seguono numerosi casi clinici che aiutano il lettore a comprendere meglio la multi-sfaccettatura del fenomeno.

A questo punto gli autori di Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse forniscono delle utili indicazioni su come valutare il livello di gravità della dipendenza dall’altro, basandosi soprattutto sulla motivazione al cambiamento di chi ne è vittima, sulla comoribilità con altri disturbi psichici o di personalità, sulle caratteristiche del partner e sulla condizione socio-economica.

La seconda parte del libro si concentra sulle mosse pratiche per liberarsi dalla manipolazione. In particolare viene descritto in che modo chiudere la relazione con un manipolatore violento e come difendersi in caso di bisogno (molto importante rivolgersi a professionisti e forze dell’ordine).

Vengono successivamente offerti degli esercizi pratici di autostima ed esercizi pratici per accettare, gestire e comunicare le proprie emozioni. Il focus si chiude poi su modalità e tecniche di comunicazione efficace, per esprimere i bisogni e le necessità e per difendersi dalla prepotenza altrui.

Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse è un libro che aiuta a comprendere quando dovrebbe attivarsi un campanello d’allarme nella relazione con l’altro. Al contrario di quanto il titolo possa lasciar intendere, è messo in evidenza quando è necessario rivolgersi a professionisti e forze dell’ordine per venir fuori da una relazione pericolosa e quando invece si può imparare in autonomia a interrompere i cicli disfunzionali messi in atto nella relazione con l’altro. Scritto in modo molto chiaro, ha il pregio di essere un testo di semplice lettura: nozioni di psicologia e psicopatologia diventano così accessibili a tutti, non solo ai professionisti del settore.

Social Network delle mie brame, chi è il più fragile del reame?

Cosa attira le persone sui Social Network? Quali sono i rischi psicologici profondi? Relazioni sociali e identità mediate sui Social dal punto di vista psicodinamico.

 

Facebook, Instagram ed altri Social Network sono ormai utilizzati quotidianamente in maniera più o meno assidua e hanno dilagato in poco tempo conquistando dai più piccoli ai più anziani. È interessante provare a capire che cosa ha attirato le persone su questi Social Network, ma anche quali sono i rischi psicologicamente più profondi, oltre ai ben più noti vantaggi, da un punto di vista psicodinamico.

Iniziamo con il dire che un Social come Facebook concede una possibilità unica nel suo genere: avere un profilo consente di essere parte di un “tutto sociale” senza investire in un contatto reale, vìs à vìs. La parola “virtuale”, in effetti, significa che esiste in potenza ma non si è ancora realizzato: siamo sul tagliente orlo della logica del “potenzialmente sì ma di fatto no”.

Social Network e relazioni: sé – sé virtuale – altro virtuale

Se si parte da questa premessa si può dedurre quale tipo di relazione con l’altro si instaura: una relazione che lo implica solo nella misura in cui questo fa da pubblico, da supporto all’Io, senza uno scambio relazionale vero e proprio. Un utilizzo dell’altro esclusivamente in funzione di oggetto e non di soggetto, in un contesto virtuale che trasforma le emozioni e reprime molte delle responsabilità etiche (per esemplificare basti pensare agli ormai numerosi casi di cyberbulling che sono tragicamente sfociati in suicidio).

Su Facebook ci si può esprimere senza avere l’obbligo di considerare ciò che esprimono gli altri, interpretare frasi e immagini secondo la propria esperienza e lo stato umorale del momento. L’autoreferenzialità è un aspetto dominante e produce quello che M. Franchi e A. Schianchi (2011) chiamano un rischio di isolamento solipsistico. Il rischio di isolamento è infatti alto ed è la quotidianità ad insegnarlo: basta osservare un qualsiasi contesto sociale ordinario per vedere come la nuova tecnologia cellulare sembri parte integrante del corpo; in altre parole, ironicamente, l’articolazione superiore non finisce con la mano, ma con lo Smartphone, lo sguardo è basso e l’attenzione è focalizzata lì. Si osservano persone raggruppate ma sole, ritirate in un mondo di “sé-sé virtuale-altro virtuale”.

Social Network e identità

Bruckman (1992) definisce i cyberplace come Facebook dei puri simulacri autoreferenziali. Questo spazio virtuale viene utilizzato spesso come un laboratorio per la propria identità, quello che l’autrice definisce “Identity Workshop”. Che cosa significa?

Se ci pensiamo, Facebook permette di incorniciare il Sé in un quadro che è possibile abbellire e levigare, smussandone con acquarello o candeggina gli aspetti inaccettabili. I Social Network come Facebook danno in effetti la facoltà di scegliere accuratamente il modo in cui presentarsi su questo “palcoscenico digitale”, tramite immagini, frasi, video, che vengono date in pasto al pubblico;

L’ aspetto narcisistico presente in ogni persona viene a patti con il voyeurismo di chi guarda la pagina profilo (E. Menduini, G. Nencioni, M. Pannozzo, 2011)

La componente voyeurista, e la sua gemella esibizionista, suggeriscono qualcosa nell’ordine di quella che in psicoanalisi viene chiamata perversione: sostanzialmente il paradosso dell’avere un bisogno viscerale di qualcosa dall’altro, ma volerlo ottenere senza passare dall’altro come soggetto.

Su questa linea notiamo che esiste una solida ed adesiva identificazione tra il Sé e l’Ideale, che trasforma il Soggetto in oggetto: questo risulta non soltanto dalla tendenza a pietrificarsi nell’immagine illusoria e perfetta del proprio profilo Social (che a sua volta tenta di copiare quella del canone sociale), ma anche dall’intenzione di voler proporre questo Sé come oggetto, nella sua massima esposizione sregolata di cui, inconsciamente si auspica, l’altro possa godere. Questo processo avviene in maniera prevalentemente ego-sintonica: se prendiamo ad esempio i profili Instagram più cliccati, proporre immagini di sé sessualmente esplicite è divenuto un vanto ed una qualità che vorrebbe incarnarsi. Probabilmente l’idea che questi soggetti hanno, e vorrebbero far passare, è che l’immagine profilo costituisca la realtà, o meglio, che quella sia la verità sul corpo e sulla loro identità. Questo serve a potersi dire “è così che sono”.

Social Network e immagine di sé perfetta

In alcuni casi la serie delle immagini proposte è serialmente tutta uguale: questo richiama qualcosa della ripetizione come godimento (inteso Lacanianamente come ripetitività spasmodica del sintomo) un voler essere ripetitivamente, ritualmente, statuariamente perfetti, non accettando la minima variazione che, umanamente, il corpo subisce di ora in ora per condizioni interne ed esterne. I cosiddetti “filtri” delle nuove applicazioni fotografiche servono proprio a questo: a togliere, forse denegare nei casi più gravi, ogni sbavatura, ogni differenza dall’Ideale. Il sembiante della foto perfetta viene confuso, mescolato con l’essere reale del soggetto.

L’annullamento della differenza tra essere e sembiante, tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce, […] avviene […] per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. È ciò che Cristopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l’espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come distruzione del fattore soggettivo. (M. Recalcati, 2010).

Da un punto di vista psichico strutturale, l’Immaginario dell’individuo in questi casi è sovra saturo, carico del peso dell’immagine identificatoria e ideale che non può né scalfirsi né modificarsi: il costo sarebbe quello di un crollo narcisistico, probabilmente depressivo.

Social Network e narcisismo

L’esasperazione dell’immagine, sempre più a ridosso del limite pornografico, sembra voler disperatamente gridare: “Guardami!”. L’ipotesi è, come accennato, che sia fortemente in gioco l’integrità narcisistica e, di conseguenza, esistenziale: Narciso, in fondo, specchiandosi in una fonte non cerca se stesso, ma se stesso arricchito dallo sguardo (…). Il mito di Narciso ricorda che, in alcuni soggetti psichicamente più fragili, esiste un legame tra l’amore e la conferma della propria esistenza: je t’aime = aime-moi ; je t’aime = j’existe (J. McDougall, 1976). L’impressione è che questi individui rischino la vita, che necessitino lo sguardo su di sé a tutti i costi, o il costo sarebbe quello della disintegrazione narcisistica. Tristemente, ma secondo la parte istintuale della nostra natura, l’ipersessualizzazione dell’immagine costituisce la via che attecchisce più facilmente, la via che può attirare più velocemente e più voracemente lo sguardo dell’altro.

Per dei motivi che andrebbero indagati più a fondo, questo interessa soprattutto il genere femminile:

Il corpo alla moda è il corpo che una donna deve avere per esistere come donna di fronte al sistema del grande Altro contemporaneo e al suo sguardo onnipervasivo. Sottolineo i due verbi: dovere e avere (M. Recalcati, 2010).

Il primo verbo servile ha a che fare con un imperativo categorico che non appartiene alla potenza del Super-Io, ma alla predominanza dell’Es come pura spinta al godimento. Il secondo, avere, è in contrapposizione con l’essere del Soggetto: egli non la possibilità di essere a partire dalla mancanza, ma solo di avere come direttiva di esistenza che si basa sul possedimento di un oggetto, il quale, una volta perso, lascia un vuoto che non può essere significato, simbolizzato, pensato o mentalizzato.

Per meglio comprendere la questione sul corpo si può partire dalla

[…] figura clinica dell’isteria, che non insegna solo che il corpo parla e parla là dove soffre, nei sintomi, nelle cifrature enigmatiche scritte sulla carne del corpo, ma anche che il corpo sfugge sempre ad ogni disegno della padronanza dell’Io. Il corpo isterico rivela, infatti, una plasticità camaleontica, metamorfica, imprevedibile che l’Io non può affatto governare. Questo aspetto del corpo isterico ci pone di fronte non a una patologia ma ad una verità: il corpo non è mai una proprietà del soggetto. È l’illusione filosofica di una certa fenomenologia – e in gran parte ormai della donna moderna – pensare che io sono il mio corpo e che il mio corpo è ciò che io più profondamente sono, ovvero pensare che io non ho ma sono il mio corpo (M. Recalcati, 2010).

In questo modo si spiega lo spasmodico utilizzo del corpo come strumento goduto e godibile, di cui una delle conseguenze risulta molto spesso la mancanza, riscontrabile nella clinica, di sintomi che siano metaforici; il “sintomo dell’avere” non parla, devasta direttamente il corpo somatico, senza mediazioni rappresentative.

Se tutto ciò può dare uno spunto al lavoro psicologico e terapeutico, vale la pena considerare il ruolo che può avere l’utilizzo dei Social Network in persone psicologicamente già fragili da un punto di vista strutturale e narcisistico, oltre a cogliere precocemente i campanelli di allarme di un utilizzo scorretto di queste piattaforme virtuali soprattutto nei giovanissimi e negli adolescenti.

Je so’ pazzo (2018) – Recensione del documentario di A. Canova sull’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli

“Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura medicina e giustizia dovrebbero esistere”.

 

Con queste parole di Franco Basaglia si apre il documentario di Andrea Canova. Sant’Eframo Nuovo è un ex OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ricavato da un vecchio monastero e dismesso nel 2008 perché ritenuto inagibile. Dopo 7 anni di abbandono, nel 2015, mentre in Italia si chiudevano gli altri OPG, l’edificio è stato riaperto e occupato per essere trasformato in un centro sociale nel senso letterale del termine, una casa del popolo, un punto di incontro per tutti.

Per secoli luogo inaccessibile, isolato dalla vita del quartiere, teatro di disgregazione delle relazioni e di annichilimento dell’essere umano, è diventato uno spazio di libertà e di apertura alla comunità.

Je so’ pazzo: Sant’Eframo raccontato da Canova

Andrea Canova scandisce il suo racconto con l’alternarsi di immagini dei nuovi spazi pieni di colore del centro sociale, che hanno ripreso vita grazie ai numerosi progetti di accoglienza e sostegno alla comunità, e le immagini di stanze vuote, grigie e abbandonate che Michele, un ex internato, attraversa narrando, nelle pagine del suo diario, durante gli anni della sua detenzione. Michele è uno dei fortunati, perché ha trascorso in Ospedale Psichiatrico Giudiziario “solo” 5 anni e non ha subìto gravi abusi. Altri non sono stati così fortunati e hanno trascorso in quelle condizioni la maggior parte della loro vita. La durata della reclusione in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, infatti, non era stabilita in modo definitivo, ma le misure di sicurezza potevano essere prorogate fino a trasformarsi di fatto in “ergastoli bianchi”. Molti, troppi, non sono riusciti ad adattarsi a vivere da reclusi e dimenticati e hanno trovato nel suicidio l’unica via di fuga.

Ospedale psichiatrico giudiziario: la testimonianza di Michele

Michele racconta la vita e l’alienazione degli internati, gli abusi di potere, le violenze, la difficile convivenza forzata in spazi ristretti, in cui regnavano gli odori acri e la mancanza d’igiene, la solitudine dolorosa. Dalle sue parole, dai suoi diari, dalle sue lettere, dai versi delle sue poesie emerge lo spaccato di una realtà che il mondo esterno ha cercato di ignorare, di cui ha cercato di liberarsi confinandolo fra quelle mura. Poche tracce della memoria di Sant’Eframo sono sopravvissute agli anni di abbandono e gli scritti di Michele sono la testimonianza più significativa della sua storia dimenticata.

Je so’ pazzo: la rinascita, oggi

All’orrore di questo “carcere disumano” e del suo “popolo di dimenticati” fa da contraltare il coraggioso tentativo del collettivo di trasformare quei luoghi in uno spazio di accoglienza per tutti. Numerosi volontari mettono a disposizione professionalità, impegno e umanità per costruire una vera e propria comunità. E’ stata allestita una palestra, ci sono corsi di teatro, di ballo, un corso di italiano per immigrati, una camera popolare del lavoro, un ambulatorio medico e supporto psicologico. I ragazzi vengono qui a studiare, vengono aiutati a fare i compiti, giocano a pallone e in questo modo si tengono lontani dal “fare guai” per strada.

I colori dei murales, il suono della musica, i concerti fanno da cornice alle iniziative sociali. L’opera del collettivo dell’ex Ospedale Psichiatrico GiudiziarioJe so’ pazzo” è la testimonianza di un grande impegno a trasformare quello che per lunghi anni è stato teatro di continue violazioni di diritti umani in luogo di accoglienza e sostegno alle persone, un impegno affinché “non ci siano più esseri umani di serie B”.

 

JE’ SO PAZZO – IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

 


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Affido familiare: accogliere il minore in difficoltà, sostenendo la sua famiglia d’origine

Diversamente dall’ adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’ affido familiare consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

 

Affido familiare: definizione e differenze con l’ adozione

Diversamente dall’ adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’ affido familiare consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

In Italia l’istituto dell’ affido familiare è regolamentato dalla legge 149/01, in cui si afferma il diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia e, in mancanza di essa, a poter fruire delle cure di una famiglia altra, che possa quindi esercitare una funzione vicariante. Attualmente i minori in affidamento in Italia sono circa 16.800, si tratta pertanto di un fenomeno estremamente diffuso nel nostro Paese, che riguarda tutte le fasce di età e comprende tanto gli affidi etero-familiari quanto quelli intra-familiari (Moretti et al., 2009).

L’ affido familiare, pertanto, si configura come intervento di accompagnamento e supporto alla famiglia di origine, avendo come obiettivo il successivo rientro del minore nel contesto familiare naturale. Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia, l’intervento di affido familiare avviene ad opera dei servizi territoriali di Tutela Minori su incarico dell’Autorità Giudiziaria Minorile, che è garante della protezione dei più piccoli in casi di potenziale pregiudizio.

Ma in quali situazioni è richiesto un intervento di tal genere? Tra le più frequenti troviamo: la malattia di un genitore, la sua carcerazione, la fragilità psicologica o anche la psicopatologia di un genitore.

Le potenzialità dell’ affido familiare sono numerose, ma in esso sono insiti altrettanti rischi. Inserirsi in una nuova famiglia, può significare per il bambino conoscere e sperimentare stili di attaccamento nuovi, andando così a modificare i propri Modelli Operativi Interni, utili a comprendere se stesso e il mondo che lo circonda. In tal senso l’ affido si configura come un’esperienza correttiva e positiva, capace di interrompere i precedenti cicli interpersonali disfunzionali interiorizzati dal bambino nella sua famiglia di origine.

Tuttavia l’ affido familiare porta i suoi protagonisti a fare i conti con una perdita: il minore viene separato dalla famiglia di origine e a volte dal suo intero contesto di vita. Perdita dunque delle abitudini ma anche dei suoi riferimenti.

Dall’ affido all’ adozione: la legge del 15 Ottobre 2015

Il 15 ottobre 2015 è stata approvata la Legge che sancisce il diritto alla continuità degli affetti da parte dei minori che vivono l’esperienze dell’ affido familiare.

L’ approvazione è stata ottenuta dopo una lunga attesa e un lungo lavoro da parte di moltissime associazioni che hanno spinto per il riconoscimento della continuità degli affetti stabilita dal bambino con le figure affettive che si sono prese cura di lui nel periodo dell’ affidamento familiare.

La legge definisce che la famiglia che accoglie un bambino in affido, nel caso in cui si presenti una situazione di adottabilità del minore, potrà inoltrare richiesta di adozione del minore grazie al riconoscimento della continuità affettiva stabilita tra loro.

La legge si configura come un superamento della parte della legge 184/1983 che impediva l’ adozione del minore da parte degli affidatari, anche quando era presente un legame affettivo positivo e funzionale alla crescita del bambino. Un punto questo che stonava con l’attenzione che la legge 184/1983 dava al diritto del minori di vivere in famiglia, grazie all’affidamento famigliare e all’adozione. Si può facilmente comprendere come ciò avesse un effetto deleterio sulla vita del bambino e delle famiglie affidatarie, proprio perché interrompeva la continuità affettiva consolidata nella famiglia e decretava un ulteriore separazione dalle persone che erano diventate dei sostituti genitoriali, un’ulteriore perdita.

La legge sulla continuità degli affetti finalmente interviene su questo punto permettendo alla famiglia affidataria di inoltrare richiesta di adozione del minore o di mantenere i contatti con egli nella situazione in cui, invece, venga adottato da un’altra famiglia.

Un altro aspetto assolutamente degno di note è il riconoscimento del diritto della continuità affettiva anche quando il bambino rientra nella famiglia d’origine o viene adottato da un’altra famiglia: la legge, infatti, stabilisce che è importante garantire momenti di incontro volti a mantenere la continuità affettiva del bambino nei confronti della famiglia affidataria.

E’ inoltre tutelato il riconoscimento del diritto del minore di essere ascoltato in merito alle decisioni che riguardano la sua vita: quindi il bambino potrà essere ascoltato dal giudice e potrà esprime il proprio parere in relazione a qualsiasi proposta degli operatori e giudici che riguarda la possibilità di rientrare nella sua famiglia d’origine, o di essere adottato dalla famiglia affidataria o da un’altra famiglia e di mantenere i contatti con la famiglia affidataria come definito dall’art. 12 della Convenzione sui diritti dell’infanzia.

Con la legge sul diritto alla continuità degli affetti si interrompe finalmente il processo di perdita dolorosa che sembrava caratterizzare la vita dei bambini in affido familiare.

Comunità per minori o affido familiare?

Dibattiti molto accesi sono avvenuti sull’opportunità o meno di inserire bambini, soprattutto quando molto piccoli, in comunità per minori. Da più autori è stato affermato come non sia opportuno, ad esempio, inserirvi bambini e ragazzi che dovranno restarvi a lungo, sostenendo l’importanza di privilegiare l’ affido familiare perché ritenuto un contesto relazionale più vicino alla normalità, più affettivo e più stabile.

Certamente l’ affido etero familiare può essere una risposta adatta per un bambino con esperienze di inadeguatezza, trascuratezza e relazioni distorte nella sua famiglia d’origine; tuttavia l’ affido non è sempre un percorso facilmente praticabile e spesso non sempre si riescono a reperire famiglie affidatarie adeguate e necessariamente preparate ad accogliere i minori allontanati dai loro precedenti contesti di vita. Capita inoltre che problematiche a volte molto gravi, come ad esempio un abuso o un grave maltrattamento, possono rendere difficile un affido familiare per le complesse dinamiche vissute e i susseguenti problemi che si dovranno affrontare. A volte sono i ragazzi stessi a non essere pronti ad un affido da parte di un adulto semi-sconosciuto che in breve tempo diventa “la tua famiglia”

 

 

Psicologi in Zona: focus sul tema della crescita. Il ritorno a Maggio a Milano dell’iniziativa organizzata dall’OPL – Comunicato Stampa

Ordine degli Psicologi della Lombardia:

A Maggio torna a Milano Psicologi in Zona. Focus sul tema della crescita.

Ascolto dei bisogni e informazione: questo l’obiettivo degli psicologi volontari a disposizione di famiglie, insegnanti e ragazzi su questioni come bullismo e la violenza intrafamiliare.

 

Realizzato in sinergia con i Municipi di Milano, il progetto porterà gazebo itineranti in tutte le zone della città, in prossimità delle scuole primarie e secondarie.

 

Milano, 26 aprile 2018 – La psicologia come strumento accessibile, necessario e vicino ai bisogni delle persone: è questo il senso dell’iniziativa Psicologi in Zona, che nel mese di maggio porterà decine di psicologi volontari in tutti i quartieri della città di Milano.

Nello specifico, questa nuova edizione di Psicologi in Zona è dedicata ai temi della Crescita e dell’Età Evolutiva, che sempre più vanno configurandosi come momenti di straordinaria vulnerabilità ed esposizione a rischi quali bullismo, cyberbullismo, dipendenze, etc. Per questa ragione, ogni settimana, i gazebo OPL si alterneranno in 2 diverse zone di Milano, vicino a istituti e comprensori scolastici.

La cronaca e la nostra esperienza professionale ci dicono che l’età infantile e adolescenziale necessitano di una riflessione profonda. Non solo in termini di patologia, ma di evoluzione e crescita dell’individuo. OPL porterà quest’anno gli psicologi proprio nei luoghi di formazione dei ragazzi – le scuole – con l’obiettivo di incrociare i bisogni dei giovani e quelli degli adulti che se ne occupano. La psicologia può e deve essere un alleato di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, per facilitare processi di ascolto, dialogo e intervento in ottica di prevenzione e gestione di gravi situazioni di disagio – commenta Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Dati Psicologi in Zona 2017

A dare una forte indicazione sull’opportunità di dedicare Psicologi in Zona 2018 al tema della Crescita sono stati gli stessi cittadini, che, nella scorsa edizione dell’iniziativa, hanno manifestato la propria preoccupazione proprio rispetto all’età dell’infanzia e dell’adolescenza.

Nel seguito alcune cifre relative a Psicologi in Zona 2017:

  • 120: gli psicologi volontari coinvolti;
  • 1.200 circa: i cittadini coinvolti (70% donne);
  • 19%: percentuale di cittadini che hanno segnalato i problemi dell’età evolutiva e il bullismo come le aree di maggiore criticità e più bisognose di supporto psicologico. Al secondo posto, la questione dell’invecchiamento (14%).

Bullismo e Violenza Intrafamiliare: gli strumenti di sensibilizzazione

In occasione di Psicologi in Zona, OPL presenta due importanti strumenti di sensibilizzazione e divulgazione di base, realizzati in collaborazione con CISMAI (Coordinamento Italiano Servizi Maltrattamento all’Infanzia), Università Cattolica del Sacro Cuore e AIAF Lombardia (Associazione Avvocati per Famiglia e Minori):

  • Violenza intra-familiare: articolato in 7 domande allo psicologo, il documento chiarisce in che termini, con quali tempi e con quali possibili strumenti è importante proteggere i minori dagli scontri violenti tra genitori;
  • Decalogo per gli adulti per battere il bullismo: dal ruolo degli ‘spettatori’ alla complicità del silenzio, dall’impatto delle giustificazioni all’importanza del coordinamento, OPL mette a fuoco 10 linee guida, per contrastare più efficacemente bullismo e cyberbullismo.

All’interno dei gazebo itineranti, sarà possibile incontrare i professionisti, comprendere meglio le proprie necessità in relazione alle diverse discipline della psicologia e conoscere le diverse possibilità di intervento psicologico disponibili sul territorio.

Questo il calendario degli appuntamenti con Psicologi in Zona:

Psicologi in Zona- Calendario 2018

Maggiori informazioni sul sito e sulla pagina Facebook di OPL.

Ordine degli Psicologi della Lombardia

L’Ordine degli Psicologi – Nazionale o Regionale – è un ente pubblico che rappresenta e governa gli iscritti all’Albo degli psicologi. Se l’Ordine, da un lato, è un presidio dello Stato a tutela della salute e del benessere dei cittadini, l’Albo è l’elenco pubblico di tutti gli psicologi abilitati ad esercitare regolarmente la professione a disposizione dei cittadini. Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) è Riccardo Bettiga. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.opl.it.

 

Terapia Metacognitiva: il racconto di Adrian Wells – Report della Conferenza di Modena

Il 21 e 22 aprile Adrian Wells ha tenuto a Modena il seminario sulla Terapia Metacognitiva. L’evento è stato organizzato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi, che da sempre promuove il dialogo aperto tra differenti modelli teorici e di trattamento. Nel 2016, Studi Cognitivi aveva già ospitato il terzo congresso internazionale di Terapia Metacognitiva.

 

MCT Essentials

La conferenza, dal titolo “MCT Essentials”, ha guidato i partecipanti nella scoperta della Terapia Metacognitiva partendo da un’analisi della teoria e dei suoi concetti fondamentali e distintivi, per addentrarsi poi sempre di più nella pratica clinica.

Nel rispetto di quelli che sono i principi propri dell’approccio metacognitivo, Adrian Wells ha sviluppato le due giornate mantenendo l’equilibrio tra conoscenza ed esperienza. È stato così possibile per i presenti conoscere il modello e sperimentarne in prima persona tecniche ed interventi attraverso momenti di simulazione guidata in cui hanno ricevuto la diretta supervisione del Professor Wells.

“Il contenuto dei pensieri non ha importanza, ciò che è causa della sofferenza psicologica è il processo con cui noi ci approcciamo ai nostri pensieri”

queste le parole di Adrian Wells che raccontano le differenze rispetto al modello di trattamento classico della Terapia Cognitivo-Comportamentale. Una grande differenza rispetto a quello che molti di noi fanno nella loro pratica clinica e agli aspetti su cui lavorano con i propri pazienti.

Fin dalla prima giornata, è questo il concetto fondamentale che Wells chiede di non dimenticare e che ci porta verso una nuova comprensione della psicopatologia.

Rimuginio e Ruminazione, come processi di pensiero, acquistano un’importanza centrale nella comprensione della sofferenza del paziente. Come lavorarci? L’invito di Wells e della Terapia Metacognitiva è quello di non addentrarsi nel loro contenuto quanto piuttosto di andare ad indagare le metacredenze cognitive, positive e negative, che sostengono tali processi. È necessario portare il paziente verso una nuova modalità di approccio ai propri pensieri che gli consenta di non restare “incastrato” in un circolo ripetitivo e sterile di pensieri negativi, che altro non causano se non la sua sofferenza.

Terapia metacognitiva: protocolli di intervento

Nella seconda giornata il Prof. Adrian Wells ha illustrato i protocolli di intervento per disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia generalizzata, depressione e disturbo ossessivo compulsivo. La chiarezza e la semplicità che contraddistingue il suo modo di fare didattica è uno degli aspetti che sono stati più apprezzati; un altro è la generosità nel condividere il suo modo di lavorare con i pazienti; infine lo spazio dato alle esercitazioni e alla sperimentazione di tecniche e strumenti – come la detached mindfulness – o di parti di seduta.

Al di là delle specificità di trattamento di ogni disturbo, che si snoda in protocolli di 12 sedute, Wells tiene a sottolineare che la complessità del disturbo di cui ci occupiamo non presuppone o richiede un trattamento complesso. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, come terapeuti, sono pochi, solidi strumenti, una logica d’uso molto chiara, grande preparazione e rigore nell’applicazione. Tutto questo – e solo questo – insieme ad una solida base teorica e all’evidenza scientifica di efficacia ci consente di offrire un valido aiuto clinico al paziente e ci assicura un futuro come professionisti della salute.

La Sindrome Cognitivo-Attentiva

La presa di coscienza della Cognitive Attentional Syndrome (CAS) e di come e quanto rimuginio e/o ruminazione alimentino i sintomi è una delle parti fondamentali del trattamento di tutti i disturbi ed è possibile grazie al dialogo socratico. Questo percorso all’insegna della scoperta guidata alimenta una relazione di cooperazione tra paziente e terapeuta. Insieme possono muoversi in un clima caldo, per sperimentare ed apprendere come “lasciar andare” i pensieri, senza bloccarli in processi ricorsivi e maladattivi, che chiedono senza sosta “… e se …?” o “Perchè …?”.

Sapere come funziona spontaneamente la mente, scoprire che siamo noi a imporle un funzionamento che ci provoca ansia o tristezza, da o ridà al paziente quel controllo sulla sua vita che tentava di ottenere rimuginando o ruminando. Ne consegue, ad esempio, che non c’è trauma che non possa esser trattato con la terapia metacognitiva.

 

Terapia Metacognitiva - Adrian Wells a Modena 2


Cenni sulla Terapia Metacognitiva

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. L’approccio MCT  è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norma, van Emmerik e Molina, 2014).

La metacognizione è l’aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi attentivi e di pensiero. Molte persone hanno dirette esperienze metacognitive, per esempio quando sono incapaci di ricordare il nome di una persona pur sapendo di conoscerlo. Questo esempio chiarisce come le componenti metacognitive lavorino per informare una persona che un ricordo è immagazzinato da qualche parte nella memoria anche se le persone non sono in grado di ricordarlo. Molte altri aspetti della metacognizione operano al difuori della nostra coscienza.

Una delle caratteristiche dei disturbi psicologici come ansia e depressione è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare o tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi. Questa modalità di funzionamento viene definita Sindrome Cognitivo-Attentiva (cognitive attentional syndrome o CAS). La CAS consiste solitamente in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali. La CAS è controllata da credenze e regole metacognitive.

La Terapia Metacognitiva ha come obiettivo ridurre questo stile di pensiero, vale a dire rimuovere la CAS, e riportarla sotto il controllo cosciente. La MCT mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti. Protocolli di intervento basati sulla teoria metacognitiva sono stati sviluppati per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione (Wells, 2008).

Il docente

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico; è docente di psicologia clinica alla University of Manchester e professore presso la Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Adrian Wells è autore di oltre 200 articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi cognitivi e metacognitivi sottostanti i disturbi psicologici, in particolar modo relativi alla sfera dell’ansia e della depressione. La sua ricerca ha portato alla teorizzazione e alla validazione della Terapia Metacognitiva.

Je so’ pazzo (2018): il toccante documentario di Andrea Canova – Recensione

L’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo vive tanto nelle sue crudeli disumanità quanto nei momenti di arricchimento personale. Oggi la stessa struttura a Napoli vive della buona volontà e della professionalità di chi nel sociale ci crede e spende tempo e risorse.

 

[blockquote style=”1″]Unica finalità del manicomio giudiziario è la punizione di coloro, per la cui cura e tutela, medicina e giustizia dovrebbero esistere. [/blockquote]

Questa la frase di Franco Basaglia ad apertura del Documentario Je so’ pazzo del regista Andrea Canova, che emblematicamente riassume la criticità che accompagna storicamente il concetto di manicomio criminale e che ha condotto alla sua soppressione, alla luce proprio delle osservazioni di Basaglia sulla disumanità delle condizioni di vita in cui versavano i reclusi nelle strutture psichiatriche giudiziarie in cui lui stesso prestò servizio negli anni della sua carriera di psichiatra.

Sui concetti di cura, riabilitazione, sofferenza (e speranza) ruota di fatto l’intero documentario, che racconta, attraverso scene e suoni densi di pathos, la vita quotidiana dei detenuti dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo a Napoli, beneficiando della testimonianza diretta di Michele Fragna, ex detenuto, e della lettura degli stralci del diario tenuto nei suoi cinque anni di reclusione.

Sant’Eframo, Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario: lo racconta Michele Fragna

Sant’Eframo “un luogo per secoli inaccessibile, isolato dal quartiere da cui per anni si sentivano provenire urla strazianti a ogni ora del giorno”, “un luogo che adesso appartiene alla memoria di tutti”, dopo la sua dismissione nel 2008 e il ritorno alla luce nel 2015, sotto forma di Centro Sociale, “luogo di incontro, di solidarietà e di libertà”. Sant’Eframo, un luogo di comune, umana, sofferenza, da non stigmatizzare come insana, disumana pazzia poiché “i detenuti qui sono persone normali, come accadde per chi si rompe un braccio o una gamba, normali, con qualche problema”.

Ecco che lo spettatore viene accompagnato lungo le scene di normale vita quotidiana di un “popolo dimenticato”, con un solerte Michele Fragna che ricorda la “piatta regolarità [dove] i più fortunati lavoravano o facevano teatri o corsi professionali”, o il “grigio e maleodorante” ambiente in cui era costretto a vivere, immagine rafforzata dallo scorrere di immagini di pareti scrostate, pavimenti sporchi e spioncini che restano chiusi tutta la notte e che lasciano i detenuti prigionieri del buio pesto della notte dentro le celle minuscole.

Viene naturale essere progressivamente coinvolti nella testimonianza delle violenze fisiche e psicologiche a cui i detenuti erano sottoposti: detenuti picchiati, come abuso di potere, “tenuti legati con delle fascette a letti di ferro”, come metodo di contenzione, oppure che hanno visto nel suicidio la fine di orrori e di una vita “per cui non trovavano una logica e una soluzione”, come Enrico.

Testimonianze senz’altro toccanti, rese ancora più vivide dal suono metallico, a tratti inquietante, delle chiavi delle celle, e smorzate dalla lettura delle pagine del diario di Michele in cui questi invocava, ai tempi della sua detenzione, la forza di non arrendersi, la speranza di uscire, di trovare la pace e continuare la propria vita da uomo libero.

Uomini liberi, uomini riabilitati al legame sociale: riabilitazione, ricostruzione delle relazioni sociali, contro la disintegrazione delle stesse a opera del reato, sono queste le finalità garantite dai professionisti operanti nell’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario, tra cui psicologi, infermieri, psichiatri, che mettono in campo la loro “umanità oltre che professionalità”. Una “squadra” che Michele ricorda con un sorriso, operosa nell’organizzare le attività ricreative che si svolgevano all’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in particolare il teatro, in grado, come egli sottolinea, di “illuminare le sue giornate”.

L’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziariodi Sant’Eframo oggi è un Centro Sociale rivolto alla comunità

E se la memoria storica dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo vive tanto nelle sue crudeli disumanità quanto nei momenti di arricchimento personale, oggi la stessa struttura a Napoli vive della buona volontà e della professionalità di chi nel sociale ci crede e spende tempo e risorse.

Riqualificato come Centro Sociale, quello che una volta fu luogo di detenzione e oscurità oggi si propone come “luogo entro il quale sentirsi parte di una Comunità” come raccontato dagli operatori che svolgono la loro opera sociale. Attività libere, gratuite, “per chi non può permettersi di pagare il teatro o uno spazio sportivo”, che vanno dai campi di calcetto all’insegnamento della lingua italiana agli immigrati all’orientamento al lavoro.

Questa riqualificazione, se riconsegna dignità agli abusi subiti, mai dimenticati dai detenuti e dalla Comunità, non riesce tuttavia a togliere dagli occhi e dalla mente le immagini di degrado e umiliazione di chi il documentario l’ha visto, di chi ha udito la voce tremante di Michele nel racconto del suo “essere legato al letto, senza pietà, fino a quando non si calmava” o la storia di Vito De Rosa, recluso in una cella senza sedia per cinquantadue anni, e dei tanti altri reclusi di cui Michele dichiara di avere perso ogni traccia.

Un intrecciarsi di storie tristi e sofferenze oltremisura, rese e rinascite (come l’epilogo della vicenda di Michele, attualmente in libertà, dopo cinque anni di reclusione, e che conduce adesso una vita autonoma). Una catena di sofferenze umane inflitte da altri esseri umani e che rimanda all’osservazione iniziale di Basaglia sul ruolo curativo di medicina e giustizia, sul ruolo e la reale efficacia dei metodi punitivi, gratuitamente disumani e spersonalizzanti, sul senso etico e terapeutico del rispetto umano, non solo come diritto inalienabile, ma come misura educativa finalizzata alla cura e alla tutela tanto del detenuto quanto della Comunità in cui dovrà, una volta scontata la sua condanna, utilmente reinserirsi.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

Il lascito di Liotti

Per arrivare a idee così semplici su come curare il malessere psicologico ci sono voluti decenni e ancora non sono abbastanza diffuse. Giovanni Liotti e Fabio Monticelli partono dal buon maestro Darwin.

 

Chi soffre psicologicamente lo fa a partire da un buon motivo. Il comportamento umano è guidato da una serie di spinte – istinti li chiamavano – a sperare qualcosa nelle relazioni. Eccole di seguito:

  • Vogliamo che venga riconosciuto il nostro valore, così da stabilire l’ordine di accesso alle risorse: rango sociale.
  • Cerchiamo conforto in momenti di vulnerabilità: attaccamento
  • Ci muoviamo a prenderci cura di chi soffre: accudimento
  • Cerchiamo di essere parte di un gruppo, pena l’assenza di senso: appartenenza
  • Formiamo legami stabili che portino sensualità e piacere erotico: sessualità
  • Ci alleiamo per raggiungere scopi al di fuori dei nostri limiti individuali: cooperazione
  • Di importanza fondamentale: vogliamo esplorare l’ambiente in modo autonomo, innovare, scoprire. Guidati da arcaici nervi di rettile, usciamo dal territorio cercando risorse, diventiamo giocatori, scienziati, sognatori.

I problemi psicologici cronici nascono dalla previsione che a fronte di questi nostri umani, ineludibili desideri, gli altri risponderanno in modo insoddisfacente. Vogliamo essere apprezzati: ci svaluteranno. Abbiamo bisogno di affetto: levati di torno. Vogliamo esplorare il mondo: fermo lì, resta nel tuo seminato, rispetta gli anziani. Speriamo di sentirci parte di una comunità: non sei dei nostri. In tutti questi casi, se manca la speranza in un destino diverso, la sofferenza è inevitabile.

La terapia che ne consegue parte da quest’idea semplice: il desiderio che hai è sensato, non ti posso promettere che si avveri, ma possiamo riaccendere la speranza.

 

Leggi anche:

L’Alleanza Terapeutica secondo la Prospettiva Cognitivo-Evoluzionista di Liotti e Monticelli

Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

Le nuove epidemie di morbillo in Europa – Infografica

Emergenza Morbillo - Epidemie Morbillo Europa - INFOGRAFICA - Stampaprint

È possibile nel 2018 parlare di un’emergenza morbillo nel bel mezzo dell’Europa? Pare proprio di sì, stando ai dati pubblicati nelle scorse settimane dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità. L’Ente internazionale, di fatto la massima autorità in materia, fotografa una situazione preoccupante: in un solo anno i casi di morbillo nel Vecchio Continente sono cresciuti del 400%, e ad aumentare è anche il numero delle vittime causate dalla malattia infettiva.

Basti aggiungere che ben 15 Paesi su 53 appartenenti alla regione europea hanno fatto registrare delle epidemie con più di cento casi. La situazione, insomma, appare tutt’altro che sotto controllo. L’infografica realizzata da Stampaprint Srl illustra tutti i dati riferiti a questo nuovo focolaio, ma non solo: l’Oms indica anche le probabili cause di quello che possiamo senza dubbio definire un inatteso e non gradito ritorno.

Adolescenti violenti contro i genitori: le cause e i possibili trattamenti terapeutici

L’ aggressività contro i genitori è diventata oggetto di interesse nel mondo accademico solo recentemente, rispetto ad altre forme di violenza privata; è importante capire le motivazioni che spingono a esibire comportamenti aggressivi contro i coetanei e i genitori e a diventare degli adolescenti violenti, e quali sono gli interventi più efficaci per prevenire e trattare questo tipo di problema.

 

I conflitti tra figli e genitori sono molto comuni nell’ adolescenza e le cause sono da ricondurre al risveglio di nuovi bisogni fisiologici e psicologici quali il desiderio di autonomia, l’eccitazione motoria ed un particolare interesse per l’immagine del proprio corpo.

L’ aggressività contro i genitori è stata attribuita anche a fattori di natura sistemica come le modalità comunicative disfunzionali in famiglia, l’aver assistito a episodi di violenza tra genitori, l’inadeguata canalizzazione di emozioni negative come la rabbia. Alcuni studiosi (Margolin, Baucom 2014) hanno tuttavia dimostrato che i comportamenti violenti degli adolescenti contro i propri genitori sono più diffusi tra i soggetti affetti da disturbi della condotta e da disturbi di personalità piuttosto che negli individui con sviluppo nella norma.

E’ stato dimostrato che in seguito a profonde influenze genitoriali negative, i bambini e gli adolescenti possono sviluppare dei disturbi nella sfera emotiva, come una scarsa regolazione delle emozioni, impulsività, scarica motoria della rabbia e della frustrazione (acting-out). Problemi nella sfera affettiva possono portare ad una bassa tolleranza allo stress con conseguenti reazioni disfunzionali in caso di litigi e conflitti.

Adolescenti violenti: quali i fattori di rischio?

Tra i fattori di rischio più comuni che influenzano lo sviluppo di comportamenti violenti nell’adolescenza e che rendono gli adolescenti violenti nei confronti dei genitori e non solo, ritroviamo:

  • educazione basata sulle punizioni corporee, sensi di colpa, denigrazione, derisione ed esasperata coercizione
  • frequenti litigi tra i genitori, soprattutto se violenti
  • violenza assistita
  • disregolazione emozionale (a partire dalla relazione diadica madre-figlio)
  • basso status socio-economico della famiglia
  • vulnerabilità (predisposizione all’affettività negativa, tratti temperamentali)
  • disturbi della condotta presenti durante l’infanzia
  • sesso (i maschi hanno una tendenza maggiore a sviluppare disturbi esternalizzanti rispetto alle femmine)
  • l’appartenenza a bande criminali
  • complesso edipico non superato
  • crescere senza genitori o con un genitore la cui autorità non è riconosciuta
  • difficoltà a inibire gli impulsi

Secondo alcuni studi longitudinali, nessuno di questi fattori di rischio preso singolarmente è responsabile dello sviluppo di comportamenti violenti, quanto una loro combinazione. L’individuazione precoce di alcuni tra questi fattori di rischio (ad esempio nell’infanzia o nella pre-adolescenza), può essere utile nel proteggere gli adolescenti dallo sviluppo di un disturbo antisociale di personalità.

Adolescenti violenti: dall’ acting-out ai casi estremi di omicidi intrafamiliari

Gli adolescenti tendono a comunicare i loro bisogni e le loro emozioni, così come i conflitti più profondi, principalmente attraverso l’azione. L’ acting-out infatti è uno dei meccanismi di difesa più utilizzati dai soggetti con disturbi esternalizzanti (l’ acting-out, per definizione, non è patologico, a meno che non rechi danno a sé e al prossimo- per approfondimenti sul tema dell’ acting-out si veda Lingiardi, Madeddu 2002). Anche nei casi di disturbi del comportamento come i Disturbi del Comportamento Alimentare o l’abuso di sostanze siamo in presenza di una prevalenza di acting-out, a testimonianza di un fallimento nel processo di mentalizzazione. Il proprio corpo diventa centrale nella mente dell’adolescente: colpito, graffiato, svuotato, amato e odiato, funge da mezzo di comunicazione e testimone di dolore e sofferenza interiori. Le azioni violente sul proprio corpo e sul corpo altrui portano con sé il significato della vendetta e della punizione come risultato di rabbia repressa e narcisismo ferito (Maggiolini 2014).

In tutto questo, centrale è anche il risveglio del Complesso Edipico quale configurazione primaria del sistema figlio-madre-padre già sperimentato nella primissima infanzia. Nel periodo edipico si assiste ad una rivalità e competizione con il genitore dello stesso sesso (complesso di Elettra per le femmine) ed un desiderio erotico (inconscio) nei confronti del genitore di sesso opposto. Per quanto la dinamica relazionale sottostante la configurazione edipica sia in larga parte inconscia, assume un ruolo importante nella conflittualità esasperata tra genitori e figli adolescenti.

In casi più estremi, ma fortunatamente isolati, la violenza contro i genitori può trasformarsi in omicidio, come gesto disperato di affrancamento dalla morsa di un genitore vessatorio o opprimente. Lo psichiatra italiano Vittorino Andreoli, studiando casi di adolescenti violenti e omicidi intrafamiliari, ha evidenziato che il più delle volte

La relazione con il genitore è chiaramente di natura nevrotica, basata su un legame di dipendenza in gran parte inconscia, che rende la presenza dell’altro necessaria e condizionante […] vi sono odio e amore, una relazione dalla quale non si può scappare perché il nodo non è logico-razionale ma radicato nel profondo della psiche. Diventa impossibile cancellare l’altro, la cui presenza è forte come un magnete, non lo si può eludere, lo si può solo uccidere (2002, p.24).

L’uccisione di cui parla Andreoli può essere intesa anche come eliminazione simbolica del genitore percepito come opprimente e invalidante, agendo sul suo corpo con violenza e brutalità.

Tra le motivazioni più profonde della ribellione violenta contro i genitori vi è un disperato bisogno di libertà: gli adolescenti non sopportano le restrizioni e le imposizioni dei genitori che sono sentiti come ostili ed egodistonici (dall’immagine di sé, dalle proprie emozioni e dai propri bisogni). Vergogna, umiliazione, psicopatologia, inadeguatezza genitoriale sono quindi elementi di cui tenere conto quando si cerca di comprendere le ragioni del comportamento degli adolescenti violenti.

Alcuni studi scientifici suggeriscono che gli adolescenti non sono in grado, quanto gli adulti, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e di calcolare il rischio. Queste caratteristiche possono essere di natura temperamentale (impulsività, ricerca di sensazioni, scarsa abilità decisionale). Inoltre i soggetti con ipofunzionalità della corteccia prefrontale esibiscono una marcata disinibizione comportamentale (Gennaro, Scagliarini 2007).

Il ruolo della comunicazione famigliare nello sviluppo di condotte violente

Secondo alcune teorie sulla comunicazione (Watzlawick, Jackson 1971; Laing 2002), gli adolescenti violenti e arrabbiati presentano delle difficoltà nel comunicare pensieri ed emozioni ai propri genitori: le famiglie disfunzionali utilizzano modalità interattive “patologiche” come i silenzi, espressioni ambigue, sguardi sfuggenti, incoerenza tra ciò che viene detto e ciò che viene mostrato. In gran parte dei casi, ciò che emerge da un’analisi approfondita delle dinamiche relazionali disfunzionali appartiene al registro dell’implicito, del non-detto, causando nella mente del figlio fantasmi di distruzione. La comunicazione patologica può influenzare i soggetti con predisposizione all’affettività negativa.

Adolescenti violenti contro i genitori: cosa si può fare?

Comprendere le ragioni che spingono gli adolescenti a diventare adolescenti violenti e a commettere azioni criminali è rilevante ai fini della pianificazione di strategie di prevenzione e trattamento. La prevenzione è un beneficio sia per il soggetto autore di violenze sia per la società (Huntley et al. 2017).

Come spiegato in precedenza, lo sviluppo del comportamento violento affonda le radici nelle dinamiche familiari disfunzionali e in fattori come disturbi di personalità, storie di abusi, impulsività, difficoltà nel regolare le emozioni, nella vulnerabilità biologica e in sistemi di attaccamento inadeguati.

L’intervento precoce può essere la chiave: inizialmente i figli possono evitare di parlare degli abusi dei genitori  perché non li vogliono tradire, per proteggere il senso di lealtà che tiene unita la famiglia (Onnis 2013). Tuttavia, incoraggiare i ragazzi (ma anche i genitori) a chiedere aiuto ai professionisti della salute mentale può rinforzare le azioni preventive e impedire l’esacerbazione della conflittualità intrafamiliare.

Tra gli interventi terapeutici più efficaci vi sono quello sistemico-familiare e il colloquio motivazionale. Lo scopo del primo approccio è quello di incoraggiare sia i figli che i genitori ad adottare modalità interattive prosociali basate sull’ascolto reciproco e sull’espressività emozionale, sull’accettazione e la comprensione dei rispettivi punti di vista. Il secondo, è uno strumento molto efficace che ha come scopo quello di promuovere nell’ adolescente uno stile di vita più salutare facendo leva sulle sue risorse interiori, capacità e abilità sia cognitive che emozionali. Il giovane viene stimolato a riflettere sulle proprie scelte e azioni, a immaginare comportamenti alternativi più funzionali al suo benessere e a quello altrui, attraverso feedback personali e l’implementazione di piani di cambiamento sotto la guida dell’operatore. Il colloquio motivazionale raggiunge risultati migliori quando viene coinvolta anche la famiglia.

Mancanza di coordinazione tra aree cerebrali? Possibile causa di disturbi dell’attenzione

I disturbi da deficit dell’attenzione potrebbero derivare da una compromissione della coordinazione tra alcune aree cerebrali.

 

I ricercatori del Case Western Reserve University School of Medicine, hanno scoperto che due regioni del cervello, la corteccia prefrontale e l’ippocampo, lavorano normalmente insieme per mantenere l’ attenzione. Contrariamente, la mancanza di sincronizzazione tra queste regioni cerebrali può portare a disturbi seri, tra cui il disturbo dell’attenzione , il disturbo bipolare e la depressione maggiore.

Le persone con deficit dell’attenzione hanno difficoltà a focalizzare e spesso mostrano comportamenti compulsivi.

Il nuovo studio suggerisce che questi sintomi potrebbero essere dovuti ad una disfunzione del gene ErbB4. L’attività di questo gene è già stata correlata, in ricerche precedenti, a diversi disturbi psichiatrici ma ora, secondo questo nuovo studio, si afferma che il gene ErbB4 sia necessario alla coordinazione di una cascata di segnali cerebrali indispensabili per sincronizzare la corteccia prefrontale e l’ippocampo.

Lo studio pubblicato su Neuron è stato condotto su topi ed ha coinvolto i processi di attenzione selettiva top-down. L’ attenzione può essere o “bottom-up” (dal basso verso l’alto), e si verifica quando alcuni input ambientali ci catturano indipendentemente dalla volontà, o al contrario “top-down” (dall’alto verso il basso), quando utilizziamo la capacità di selezionare determinati stimoli per un probabile vantaggio o premio.

L’ attenzione top-down è orientata quindi al raggiungimento dell’obiettivo e collegata alla messa a fuoco: le persone che non dispongono di un’ attenzione top-down efficiente sono ad alto rischio per il disturbo da deficit dell’ attenzione.

 

 

Assassine – Storie di (stra)ordinaria normalità (2017) di A. Ganci – Recensione del libro

Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità è un volume molto interessante sull’omicidio perpetrato dalle donne; lo confronta con quello maschile ed indaga la psicologia della parte più nera dell’animo umano.

 

Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità è un testo che attraversa la storia di donne comuni, che giungono alla violenza estrema.

L’ autrice, cercando di analizzare la logica della mente criminale di queste assassine, attraverso la lente delle più recenti teorie criminologiche, ne analizza anche le ipotetiche cause scatenanti e le conseguenti vicende giudiziarie.

Assassine: le più famose donne serial killer

 Angela Ganci offre al lettore un’opportuna premessa sulla “banalità del male”: descrive le teorie sociologiche della criminalità femminile, partendo da quelle classiche e più datate, passando attraverso l’evoluzione storica del femminismo, per arrivare agli sviluppi attuali delle teorie di genere. Successivamente il testo si occupa prettamente di serial killer, cercando inizialmente di spiegarne il significato in senso generale; poi ne confronta le somiglianze e le differenze di genere. L’autrice descrive poi una classificazione delle donne serial killer, presentando per ciascuna di esse un caso di cronaca di riferimento, analizzandone nel dettaglio la storia: la vedova nera (il caso Belle Guinness), l’angelo della morte (gli orrori di Saronno), le assassine mentalmente disturbate (il caso Leonarda Cianciulli) ed infine le coppie assassine (il caso dei coniugi West).

La violenza in famiglia

La seconda parte del testo Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità si riferisce alla violenza attraverso l’analisi degli eventi formativi tenuti dallo studio di Psicoterapia e mediazione familiare dell’autrice, cercando di evidenziare che “il tema della violenza intrafamiliare diviene causa della vittimizzazione o del comportamento abusante messo in atto del vittimizzato.”

Numerosi gli argomenti dei seminari presentati nel testo che fanno riferimento al tema della violenza a danno dell’infanzia: l’autrice evidenzia il ruolo degli abusi fisici, psicologici e/o sessuali sul minore in termini di conseguenze a breve-lungo termine sulla sfera cognitiva, affettiva e dell’identità. Il tema all’abuso sui minori, si focalizza anche sulle misure giuridiche a difesa dell’infanzia violata e nell’ottica del diritto a una famiglia che possa assolvere alle sue funzioni curative. Interessanti anche i seminari dedicati alla violenza tra pari, al bullismo e al cyberbullismo, e agli attualissimi aspetti della psicologia dell’immigrazione.

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