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Ragazze interrotte: Il mondo caleidoscopico del Disturbo Borderline di Personalità

Ragazze interrotte è un film che cerca di inquadrare l’esperienza e il vissuto del Disturbo borderline di personalità dandone uno scorcio visivo capace di mettere in evidenza le varie sfumature di questo disturbo e di riflettere su un disagio dai tratti caleidoscopici e multiformi.

Mattia De Franceschi

 

Tono dell’umore appiattito, risposte tangenziali alle domande ricevute e silenzi, lunghi momenti in cui flashback intrusivi emergono e fanno perdere per un istante i confini tra realtà e fantasia. “Come?” risponde Susanna Kaysen, interpretata da Winona Ryder nel film Ragazze interrotte (1999), lasciando intendere di non aver udito per niente la domanda posta dallo psichiatra. La ragazza fatica a rimanere lì, frammenti di ricordi le invadono il suo spazio mentale ed è come se si perdesse in quel ricordo rendendo instabile il contatto con la realtà. La protagonista del film è stata appena portata e ricoverata in una clinica psichiatrica dopo aver tentato il suicidio ingerendo insieme vodka e un flacone di aspirine.

Il film Ragazze interrotte cerca di inquadrare l’esperienza e il vissuto di quanto nel DSM-5 è riportato come Disturbo borderline di personalità e lo fa dandone uno scorcio visivo che permetta di potersi soffermare sulle varie sfumature e riflettere su un disagio dai tratti caleidoscopici e multiformi. Un modo di sentire che è descritto molto bene dalla stessa protagonista che in un’occasione di sconforto riporta “so cosa significa voler morire.. e che sorridere fa male.. e che ci provi ad inserirti ma non ci riesci… e che fai del male al tuo corpo per tentare di uccidere la cosa che hai dentro”.
Il disturbo borderline di personalità è annoverato nel Cluster B dei disturbi di personalità (DSM-5) insieme ai disturbi antisociale, istrionico e narcisistico di personalità. Gli individui con questi disturbi spesso appaiono amplificativi, emotivi o imprevedibili.

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Nello specifico il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da un pattern pervasivo d’instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti. Il soggetto borderline vive una mancata separazione dell’Io dal mondo esterno che comporta il confluire inarrestabile ed esplosivo di emozioni e pensieri senza alcun filtro e possibilità di poterli assimilare in modo funzionale. Tale meccanismo sembra essere dovuto all’incapacità inconscia di distinguere chiaramente tra il Sé, che include il senso d’identità personale, e il mondo esterno (Searles, 1988). Non essendo presente alcun argine che possa dare freno all’ondata emotiva destrutturante, il soggetto si attiva in modi imprevedibili per rispondere a tale condizione e in molti casi mette in atto comportamenti disfunzionali come gesti o minacce suicidarie oppure manifesta impulsività in aree potenzialmente dannose per se stesso come sesso non protetto, abuso di sostanze e guida spericolata.

Fragilità, incertezza e insicurezza tratteggiano il soggetto con disturbo borderline di personalità e la protagonista del film Ragazze interrotte si fa carico di queste angosce e le ripropone in modo più che umano dando voce a un disagio che spesso a parole diventa complicato poter descrivere, un malessere fatto di sofferenza psichica che si riverbera a livello fisico e sociale, una “interruzione” nel normale percorso del proprio essere.
Il Cinema aiuta a utilizzare il punto di vista interno del soggetto, permette di potersi immedesimare e accompagnare la protagonista nel suo percorso di catarsi, di presa di coscienza (o quasi) del proprio malessere e con essa la possibilità di poter forse superare tale condizione. Chissà se alcuni, guardando il film, possano essersi ritrovati in qualche tratto, sfumatura dei soggetti rappresentati e si siano chiesti cosa veramente significhi la dimensione Borderline riconoscendosi nell’ultima riflessione in chiusura del film in cui la protagonista dice “sono mai stata matta? Forse sì. O forse… è matta la vita”.

Le professioni dello psicologo

La psicologia è una scienza che investe un campo estremamente vasto. Durante il percorso di studi in psicologia è possibile acquisire notevoli conoscenze riguardanti non solo le relazioni esistenti tra le diverse aree del cervello, specifici processi cognitivi, le emozioni e il comportamento, ma anche quanto questi processi si manifestino all’interno della popolazione generale o patologica. 

 

La psicologia è una scienza che investe un campo estremamente vasto che spazia dalla biologia alla statistica. Di conseguenza, durante il percorso di studi in psicologia è possibile acquisire notevoli conoscenze riguardanti non solo le relazioni esistenti tra le diverse aree del cervello, specifici processi cognitivi (percezione, attenzione, memoria), le emozioni e il comportamento, ma anche quanto questi processi si manifestino all’interno della popolazione generale o patologica. Le diverse conoscenze apprese, dunque, riguardano ambiti differenti e trovano applicazione in svariati settori lavorativi.

Alcuni profili professionali ricoperti dallo psicologo sono noti a tutti, come per esempio occuparsi del disagio mentale ed emotivo, ma altri sono meno conosciuti.

In molti, infatti, scelgono di intraprendere carriere che non si realizzano nell’ambito del disagio mentale, ma in contesti dissimili tra loro.

Percorso di studi dello psicologo

Il percorso di studi in psicologia consta di due livelli: laurea triennale in scienze e tecniche psicologiche e laurea magistrale con un indirizzo specifico in una determinata area della psicologia.

Colui che consegue una laurea triennale in scienze e tecniche psicologiche, è chiamato “Dottore in tecniche psicologiche per i contesti sociali, organizzativi e del lavoro” o “Dottore in tecniche psicologiche per i servizi alla persona e alla comunità“. Tale figura professionale può svolgere, solo se supervisionato da uno Psicologo senior iscritto alla sezione A dell’albo, la professione nel settore delle tecniche psicologiche per i contesti sociali, organizzativi, del lavoro e della comunità. Un laureato in tecniche psicologiche potrebbe collaborare su un progetto in cui è previsto un intervento psicologico di valutazione cognitiva o riabilitativa, rivolto al singolo o a gruppi, nell’ambito della psicologia dello sviluppo, dell’educazione, in psicologia clinica e della salute.

Colui che consegue la laurea magistrale in psicologia, può operare come psicologo negli ambiti previsti dall’Ordinamento della professione. La professione di psicologo comprende l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, diagnosi, attività di abilitazione, di riabilitazione e di sostegno rivolte a persone, gruppi, organismi sociali e comunità. Inoltre comprende attività di sperimentazione, ricerca e formazione in tale ambito. In particolare l’indirizzo clinico consente una peculiare specializzazione nel settore della salute mentale, diagnosi psicologica e interventi volti all’aiuto. Oltre all’indirizzo clinico, ne esistono altri che permettono di acquisire abilità e compiti specifici in settori dedicati, come il lavoro, la comunità, le scienze cognitive.

Prima di accedere al mondo del lavoro è necessario effettuare un tirocinio abilitante per l’ammissione all’esame di stato che permette l’iscrizione all’apposito albo professionale. Lo psicologo junior dovrà iscriversi all’Albo B, mentre lo psicologo magistrale all’Albo A.

Chi è lo psicologo

Lo psicologo è un professionista che studia i processi mentali, cognitivi, comportamenti e conosce le tecniche e gli strumenti necessari per effettuare un intervento sulla psiche umana e sulle sue manifestazioni. Lo psicologo non è un medico e per questo non prescrive farmaci ma pratica terapie, individuali o di gruppo e applica dei test, attitudinali, di orientamento scolastico e professionale.

Lo psicologo è una figura diversa rispetto allo psicoterapeuta, il quale ha frequentato una scuola di specializzazione in psicoterapia della durata di almeno 4 anni, riconosciuta dal MIUR.

Lo psicoterapeuta, rispetto allo psicologo, è abilitato a svolgere psicoterapia ovvero un percorso di trattamento per i disturbi psicopatologici, utilizzando specifiche tecniche terapeutiche apprese nel percorso di specializzazione che non possono essere applicate dagli psicologi.

Lo psicologo può svolgere le seguenti attività:

  • somministrare test
  • svolgere colloqui a fini diagnostici
  • selezione del personale
  • realizzare attività di orientamento tramite colloqui individuali e di gruppo
  • eseguire attività educative in piccoli gruppi per promuovere abilità psicosociali.

Tali competenze che si acquisiscono attraverso gli esami effettuati durante il corso di laurea e il tirocinio eseguito pre e post lauream, consentono, successivamente, di accedere a diversi settori lavorativi, previa abilitazione alla professione.

Psicologia clinica

Gli psicologi clinici valutano e trattano i disturbi mentali, emotivi e comportamentali che variano dai gravi disturbi legati alla sfera del pensiero ai disturbi d’ansia. Alcuni psicologi clinici lavorano sul singolo soggetto altri si concentrano su famiglia o coppie, gruppi di minoranze etniche o persone anziane. Gli psicologi clinici collaborano con i medici per ottenere terapie di supporto farmacologico o maggiori ragguagli sui problemi fisici cui seguono manifestazioni psicologiche. Lo psicologo clinico espleta le sue funzioni sia in contesti privati, attraverso l’attività libero professionale, sia in strutture pubbliche quali centri di salute mentale, consultori, ospedali.

Come già detto lo psicologo clinico deve essere distinto dallo psicoterapeuta, in particolar modo lo psicologo si occupa di analizzare la richiesta di aiuto che gli si presenta, fornire una consulenza psicologica e/o proporre un percorso di sostegno psicologico in risposta ad una momento critico affrontato dalla persona come sancito dall’Art. 3 del Codice deontologico degli psicologi italiani “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità”.

Psicologia cognitiva o psicologia generale

Gli psicologi cognitivi studiano le funzioni cognitive superiori dell’essere umano come la percezione, il pensiero e la memoria. Gli psicologi cognitivi sono interessati a capire come la mente rappresenta la realtà, le modalità di apprendimento di una serie di nozioni e come il linguaggio è compreso e riprodotto. Gli psicologi cognitivi collaborano con i neuroscienziati per capire cosa avviene a livello cognitivo e quali sono le basi biologiche del disagio mentale. Gli psicologi cognitivi operano principalmente in ambito accademico e di ricerca nelle Università come docenti e ricercatori e in Istituti di Ricerca pubblici e privati.

Psicologia di Comunità

Gli psicologi di comunità lavorano per rafforzare le capacità di persone accomunate da uno stesso disagio psichico.  Aiutano, dunque, ad accedere alle risorse cognitive presentate dalle persone aventi il disagio e a collaborare con gli altri presenti in comunità per migliorare il loro stile di vita. Gli psicologi di comunità facilitano il fronteggiamento di circostanze negative o traumatiche, per sviluppare maggiori capacità di interazione tra gruppi. Esempi di interventi in tale settore comprendono il sostegno alle vittime di una calamità, collaborazione con le scuole per prevenire il bullismo, etc.

Psicologia dello sviluppo o evolutiva

Gli psicologi dello sviluppo studiano lo sviluppo psicologico dell’essere umano durante tutto l’arco della vita. Gli psicologi dello sviluppo lavorano sui bambini e adolescenti e sugli anziani attraverso l’applicazione di tecniche di intervento psicologico e psicodiagnostico che consentono di superare il disagio.

Questa figura può lavorare nell’ambito dei Servizi Sanitari Nazionali, nei servizi territoriali offerti dalle Aziende Sanitarie Locali o nelle Aziende Ospedaliere in particolare nei reparti di Neuropsichiatria Infantile. Lo psicologo dello sviluppo iscritto regolarmente all’albo può lavorare inoltre negli Istituti privati e/o nei centri privati dedicati all’età evolutiva.

Lo psicologo dello sviluppo, regolarmente iscritto all’albo, può dedicarsi alla libera professione non dimenticando però la differenza, in termini di interventi attuabili, con lo psicoterapeuta specializzato in psicoterapia dell’età evolutiva.

Psicologi sperimentali

Gli psicologi sperimentali, che condividono numerose caratteristiche con gli psicologi cognitivi già citati, sono interessati ad una vasta gamma di fenomeni psicologici, come i processi cognitivi, funzioni esecutive, working memory, i comportamenti e gli atteggiamenti. Questi psicologi conducono delle ricerche in equipe sulle funzioni di base del cervello e sui comportamenti individuali messi in atto da animali, neonati, adulti sani, persone con disturbi emotivi, anziani. Alcune ricerche si svolgono in laboratorio dove le condizioni di studio possono essere controllate con attenzione; altre sono effettuate sul campo, come le scuole e gli ospedali, per verificare direttamente come si manifesta un dato comportamento. La maggior parte degli psicologi sperimentali che svolgono il lavoro di ricercatore espletano le loro funzioni in ambito universitario o in istituti privati dove è possibile condurre delle ricerche attraverso appositi strumenti adatti allo scopo.

Psicologia forense

Gli psicologi forensi applicano i principi psicologici alle questioni legali. La loro esperienza è spesso essenziale all’interno del sistema giudiziario. Possono, ad esempio, aiutare un giudice nel decidere quale genitore dovrebbe avere la custodia di un bambino o valutare la competenza mentale di un imputato prima di essere processato. Lo psicologo forense svolge anche valutazioni psicologiche su testimoni o giurie.

Psicologi della Salute

Gli psicologi della salute sono specializzati nell’individuazione di fattori biologici, psicologici e sociali che possano influenzare la salute mentale. Studiano come i pazienti gestiscono la malattia e quali possano essere le modalità più efficaci per controllare il dolore e il benessere in generale. Per questo, sono state sviluppate delle strategie di assistenza sanitaria che favoriscono lo sviluppo emotivo e fisico. Sensibilizzano, inoltre, i tecnici sanitari ai problemi psicologici derivanti dal dolore e dallo stress. Lo psicologo della salute opera in squadra con altri operatori sanitari o da solo per fornire ai pazienti una assistenza sanitaria completa.

Psicologia del lavoro e delle organizzazioni

Gli psicologi del lavoro e delle organizzazioni applicano i principi della psicologia a contesti lavorativi, per migliorare la produttività, la salute dei lavoratori e la qualità della vita lavorativa. Molti sono specialisti delle risorse umane e facilitano la relazione tra l’azienda e il personale, promuovendo la formazione e lo sviluppo. Gli psicologi del lavoro e delle organizzazioni applicano i test e altre procedure per selezionare dipendenti e per promuovere le risorse aziendali. Inoltre, molti psicologi del lavoro e delle organizzazioni svolgono attività di consulenza nella gestione di settori quali la pianificazione strategica in una azienda, la gestione delle risorse o fronteggiamento delle problematiche, per promuovere il cambiamento organizzativo.  La figura dello psicologo del lavoro diventa estremamente importante nei casi di mobbing o di elevato stress-lavoro correlato che possono verificarsi in alcune situazioni. In questi casi è possibile sia svolgere un intervento sul lavoratore “vittima” sia attuare un intervento formativo nei contesti aziendali, coinvolgendo quindi tutto il gruppo di lavoro.

Neuropsicologia

Il neuropsicologo studia la relazione esistente tra i sistemi cerebrali e il comportamento manifesto attraverso la messa in atto di tecniche di neuroimaging, come la tomografia ad emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI), e studi di psicofisica comportamentale. Inoltre, il neuropsicologo valuta e riabilita attraverso l’applicazione di test neurocognitivi il funzionamento cognitivo non solo in caso di lesione cerebrale ma anche in pazienti con malattie neurodegenerative (ad esempio, Alzheimer, Parkinson, etc.) e in caso di “invecchiamento precoce”.

Psicometria

Gli psicologi esperti in statistica o psicometristi utilizzano metodi e tecniche per la progettazione di esperimenti e analisi dei dati. Alcuni sviluppano nuove procedure statistiche, altri creano strategie di ricerca per valutare l’effetto di programmi sociali, educativi e psicologici. Essi, inoltre, sviluppano e valutano modelli matematici promuovendo nuovi metodi volti a migliorare i test psicologici. L’ambito d’occupazione principale è quello della ricerca in ambito Universitario.

Psicologia scolastica

Gli psicologi scolastici sono impegnati nel fornire servizi psicologici completi nelle scuole a bambini, adolescenti e famiglie. Essi valutano e orientano gli studenti su tematiche personali o di gruppo, intervengono su situazioni problematiche anche a livello familiare e gestiscono il personale scolastico attraverso la realizzazione di interventi comportamentali. La maggior parte delle strutture scolastiche impiegano gli psicologi a tempo pieno.

Psicologia sociale

Gli psicologi sociali studiano come la vita mentale di una persona e il comportamento siano modellati dalle interazioni con altre persone. Essi sono interessati a tutti gli aspetti delle relazioni interpersonali, comprese le influenze sia individuali sia di gruppo, migliorandone l’interazione. Inoltre, essi facilitano la comprensione di atteggiamenti sociali dannosi,  come nel caso di pregiudizio, facilitandone il cambiamento. Gli psicologi sociali sono presenti in una varietà di ambienti: istituzioni accademiche, dove svolgono prettamente ricerca sociale, agenzie di pubblicità e società di ricerche di mercato dove studiano gli atteggiamenti, i comportamenti e le preferenze dei consumatori, aziende o enti pubblici, dove aiutano a gestire il conflitto o eventuali disagi.

Psicologia dello sport

Gli psicologi dello sport aiutano gli atleti a focalizzare la loro attenzione sul raggiungimento degli obiettivi da raggiungere, diventando di conseguenza più motivati e capaci di gestire l’ansia e la paura del fallimento che spesso accompagnano l’attività agonistica.  Sono presenti in diversi club calcistici o ambienti sportivi in cui si svolge attività sportiva ad alti livelli di competitività.

Per concludere, sono stati elencati una vasta gamma di profili professionali che lo psicologo potrebbe ricoprire nel mondo del lavoro.

E’ necessario sottolineare che, dopo la laurea, è possibile conseguire un ulteriore diploma di specializzazione – ad esempio in psicoterapia, un master o un dottorato di ricerca, a seconda dei propri obiettivi professionali, che potrebbero ulteriormente implementare le alternative di scelta lavorativa, sia in campo pubblico sia privato, aumentando notevolmente il ventaglio di occasioni possibili da raggiungere in ambito lavorativo.

Dall’ansia al rischio di suicidio: le conseguenze del cyberbullismo sulla salute mentale

La possibilità di accedere ovunque e in qualunque momento con chiunque nel mondo tramite internet e social network ha incrementato un nuovo e preoccupante fenomeno: il cyberbullismo. Nonostante ci siano diverse similitudini con il bullismo tradizionale, gli approcci classici per contrastarlo sembrano inefficaci per il bullismo che si realizza nei mondi virtuali e dei social network.

 

Il cyberbullismo è diventato uno dei maggiori problemi psicosociali sia nei contesti scolastici che nella società in generale; esso è stato posto all’attenzione dell’opinione pubblica, politica e dell’industria della tecnologia per le conseguenze dannose e spesso estreme nei confronti di chi lo subisce.

Si stima che potenzialmente ne siano oggetto circa il 90 % dei giovani appartenenti ai paesi industrializzati, tra i 13 e i 17 anni che hanno ampia disponibilità all’utilizzo di internet con una frequenza giornaliera di accesso alle maggiori piattaforme social (Lenhart et al., 2016).

In particolare tra gli utenti Microsoft a livello mondiale, circa il 37 % dei giovani tra gli 8 e i 17 ha riportato di essere stato vittima di cyberbullismo, mentre il 24 % riferisce di essere stato tra i perpetuatori.

Le conseguenze psicologiche del cyberbullismo

Tre le conseguenze psicologiche legate al cyberbullismo vi sono ansia, depressione e nei casi più estremi il suicidio (Kowalski et al., 2014); è risultato pertanto necessario comprendere approfonditamente il ruolo della vittimizzazione connessa al cyberbullismo per la salute mentale con il fine di offrire un adeguato supporto psicosociale a chi ne viene colpito.

Il cyberbullismo è una nuova e più sottile forma di bullismo, definito come la ripetizione intenzionale di atti aggressivi tra un perpetuatore e una vittima, all’interno di una relazione sbilanciata di potere, tramite tecnologie di comunicazione (Kowalski et al., 2014).

Contrariamente al bullismo tradizionale, “offline” per così dire, quello perpetuato tramite tecnologie è caratterizzato in primo luogo dall’anonimato del perpetuatore in quanto non vi è tra questo e la sua vittima un reale contatto vis-à-vis che renderebbe immediate ed evidenti le conseguenze di un atto aggressivo di bullismo sulla vittima.

L’anonimato del perpetuatore inoltre allarga maggiormente la forbice di potere con la sua vittima; è infatti difficile per questo tipo di bullismo constatare la sopraffazione ad esempio fisica del bullo su un altro e pertanto rispetto a quello reale, il cyberbullismo utilizza altre risorse di potere come ad esempio il numero dei sostenitori online dell’atto offensivo.

In aggiunta, la caratteristica che più contraddistingue il bullismo tramite social network da quello “reale” è il fatto che il primo si estende ad un numero maggiore di persone, dal momento che internet consente di poter interfacciarsi con chiunque in qualunque momento, abbattendo le barriere dello spazio e del tempo (Landoll et al., 2015).

In secondo luogo le conseguenze negative, emotive e comportamentali del cyberbullismo potrebbero persistere in modo significativo nel tempo rispetto a quelle legate al vissuto di un atto di bullismo tradizionale, come suggerito da Wright (2018).

Nel loro studio, Kowalski, Limber & McCord (2018) sottolineano come tra le conseguenze più comuni del cyberbullismo sulla salute mentale vi siano problematiche nella regolazione emotiva, comportamentali, riduzione dell’autostima e uso di sostanze; gli autori inoltre ricordano che il cyberbullismo è correlato a problematiche psicosociali anche se rimane ancora poco chiaro se sia il cyberbullismo da solo a determinarle.

Diverse vittime di cyberbullismo infatti potrebbero aver già manifestato in passato vulnerabilità preesistenti, come depressione, ansia sociale ed esclusione sociale che fungerebbero da fattori di rischio per il cyberbullismo aumentando la probabilità di essere poi bullizzati online.

Fattori protettivi e prevenzione del cyberbullismo

Tuttavia molti studi (Rose, Tynes, 2015) si sono concentrati sui fattori protettivi che possono prevenire l’insorgenza di disturbi psicosociali a seguito di atti di cyberbullismo come la vicinanza della famiglia, il supporto dei gruppi di pari e l’ambiente scolastico oltre che caratteristiche personologiche e il genere.

Studi preliminari (Kowalski, Limber & McCord, 2018) hanno infatti evidenziato nel genere femminile un fattore di rischio per lo sviluppo di sintomi ansiosi e depressivi a seguito di un atto di cyberbullismo, mentre il genere maschile sarebbe più associato al discontrollo comportamentale.

Le strategie di trattamento e prevenzione del cyberbullismo sono efficaci quando sono multilivello, cioè quando combinano insieme approcci focalizzati sull’individuo avendo come target sia i comportamenti online rischiosi sia rivolgendosi alle potenziali preesistenti vulnerabilità.

Tali approcci focalizzati sull’individuo si accompagnano in parallelo a interventi cosiddetti “system-level”, partendo dalla vittimizzazione legata al pregiudizio sociale che haorigine da fattori come il razzismo e la disabilità, fino ad arrivare a interventi su insegnanti e genitori, per la promozione di comportamenti sani soprattutto sulle piattaforme online (Kowalski, Limber & McCord, 2018).

Tuttavia la ricerca che fino ad ora si è concentrata sullo sviluppo di programmi di prevenzione del cyberbullismo mostra da una parte la mancanza di un’adeguata base empirica, dall’altra i trattamenti proposti e basati su protocolli si fondano su una tradizionale letteratura anti-bullismo che risulta poco aggiornata circa le nuove dinamiche della vittimizzazione a seguito di cyberbullismo.

È pertanto necessario partire da evidenze empiriche circa tale fenomeno per valutare quale siano effettivamente le sue conseguenze sulla salute mentale (Pingault & Schoeler, 2017).

A parere di Pingault e Schoeler (2017) ricerche future dovranno chiarire se il cyberbullismo è legato a specifici outcome sulla salute mentale o se al contrario rappresenta un fattore di rischio non specifico tra le categorie diagnostiche psicopatologiche; esse dovranno inoltre identificare i suoi fattori di rischio e comprendere come un vissuto di cyberbullismo possa alterare meccanismi biologici favorenti l’insorgenza di un disturbo psicologico.

Ci sono evidenze infatti che associano il cyberbullismo alla disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (González-Cabrera, Calvete et al., 2017)

Inoltre i ricercatori dovranno focalizzarsi sugli aspetti che contraddistinguono il cyberbullismo da quello più tradizionale, come ad esempio l’ambiente virtuale online, in cui si esperisce la vittimizzazione in quanto è probabile che abbia un impatto sui conseguenti outcome.

Per esempio, un individuo potrebbe essere ad alto rischio nel diventare una vittima di cyberbullismo a seconda del tempo speso sulle piattaforme social: è stato infatti mostrato come una maggiore esposizione online in termini di ore possa aumentare il rischio sia di essere vittimizzati che di perpetuare atti di cyberbullismo (Pingault & Schoeler, 2017).

Altri potenziali rischi potrebbero essere associati alla tipologia di piattaforma social utilizzata, Facebook, piuttosto che Instagram o Twitter, al grado di riservatezza che garantiscono o alle diverse modalità di accesso e uso delle stesse.

Secondo Kowalski, Limber e McCord (2018) un maggiore approfondimento delle aree che la ricerca individua come critiche e favorenti il rischio di essere vittimizzati online potrebbe portare alla realizzazione di programmi di prevenzione e interventi maggiormente adatti al fenomeno del cyberbullismo, riducendo così le conseguenze dannose associate ad esso.

Social media e minori. Un convegno di studi a Palermo – Report dall’evento

Internet e minori: un connubio attualissimo e inevitabile, un’interazione che può provocare o rinforzare disagi evolutivi, o viceversa essere portatrice di evoluzione e opportunità educative.

 

Sul complesso rapporto tra minori e tecnologia si è focalizzato il Convegno “Comunicazione e minori” svoltosi lo scorso 9 marzo presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo.

Psicologi e giuristi sono intervenuti delineando rischi e opportunità del Web, sottolineando quanto lo Stato abbia fatto e debba ancora fare, a livello normativo, per tutelare i minori dagli abusi e dalle violenze perpetrate online, e quanto la terapia psicologica possa essere di supporto per minori e famiglie verso la direzione di un uso consapevole degli strumenti tecnologici.

Il mondo virtuale deve essere analizzato sotto il duplice aspetto dei rischi e dei vantaggi che esso arreca ai minori – spiega Concetta Polizzi, ricercatore in Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Palermo – Se gli effetti deleteri dei media riguardano l’alterazione dello sviluppo affettivo, l’analfabetizzazione emotiva, che si estrinseca in atti di bullismo, e la frammentazione dell’attenzione, un uso adeguato potenzia le abilità cognitive, come la reticolarità del pensiero. Che fare allora per incentivare un uso funzionale dei media e ridurre i rischi di uso maldestro e nocivo? Le linee da seguire riguardano da un lato lo sviluppo di high skills nei minori, come la capacità di autotutela durante la navigazione e la capacità di chiedere aiuto ai genitori in caso di sospetta minaccia, dall’altro un lavoro con i genitori e sulla loro capacità di leggere i bisogni evolutivi del bambino.

Un bambino alla ricerca di risposte identitarie, che ricerca nel web sostegno e riconoscimento, riflesso di un sistema sociale franato nel compito educativo di contenimento e supporto emotivo.

La crisi dell’adolescente di oggi è il riflesso della crisi più generale della società, una società narcisista e individualista, dove crollano i garanti sociali e la figura del padre evapora, come sostiene Recalcati – sottolinea Patrizia Muccioli, Responsabile dell’ambulatorio di psicoterapia dell’età adolescenziale del servizio di Neuropsichiatria infantile dell’ASP di Palermo – Figli del permissivismo educativo e della svalorizzazione del limite, i minori si nutrono del potere della tecnologia, poco tollerando la frustrazione e amplificando l’analfabetismo emotivo, mentre soffrono di una solitudine degli affetti.

Affetti vissuti in maniera disfunzionale, prepotente, poiché la chat è il luogo degli agiti narcisistici, come nel fenomeno del sexting, frutto della sovraesposizione mediatica ed espressione di un corpo snaturato a oggetto di consenso, a cui dare un voto.

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Comunicazione e minori. Convegno di studi a Palermo - Report dall'evento - Imm1

Imm. 1 – Immagine dall’evento “Comunicazione e minori”

 

La realtà virtuale, quindi, come ambiente da cui rifuggire o piuttosto come mezzo da cui partire per progettare una terapia da sovraesposizione mediatica?

Il computer, a dispetto di quanto prima detto, salva il minore da danni maggiori, nella misura in cui, in qualche modo, lo aiuta a costruire una rete sociale, salvando il Suo Sé invisibile, attraverso le amicizie su Facebook, evitando atti definitivi di suicidio – continua Muccioli – Ecco perché la terapia deve allearsi con il PC, a fronte del suo ruolo compensativo di vuoti affettivi, e prevedere altresì metodiche come laboratori creativi, colloqui con i genitori, psicoterapia.

Protezione del minore dai danni di un uso disfunzionale del virtuale, ma altresì promozione di un uso appropriato, moderato, partecipato e consapevole, che miri allo sviluppo di abilità positive, come la reticolarità del pensiero o la sperimentazione creativa di Sé virtuali che non pregiudichino il contatto con la realtà. Protezione, promozione e partecipazione, tre principi su cui si sofferma anche il diritto nei documenti che riguardano il bambino e la sua difesa.

Alla base dei principali documenti a difesa del minore come la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 vi è sia un’esigenza di tutela, ribadita anche nel rapporto con la TV nel 1996, ma anche di partecipazione del minore alle decisioni che lo riguardano, come le regole sull’accesso a Internet – precisa la professoressa Marcella Di Stefano, Professore Ordinario all’Università degli Studi di Messina – L’obiettivo è attuale: l’educazione partecipata a un corretto utilizzo, ribadita da un recente documento datato Dicembre 2017 e adottato dal Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Una visione con cui lo Stato intende il bambino, di tipo propositiva, non squalificante, consapevole dell’importanza del coinvolgimento del minore nel progetto educativo di utilizzo funzionale dei media; una visione che concepisce la realtà virtuale come realtà da demonizzare o contro cui inveire tout court. Ecco allora strutturarsi un progetto più realistico di adesione a una “realtà vera” in cui il virtuale non può più considerarsi opzionale, ma non per questo deve rischiare di agire in maniera indisciplinata, controllando le vite dei minori e determinando dei danni evolutivi a loro volta difficilmente gestibili nell’arco di vita.

Un genitore fantastico! di L. Donodoni – Recensione del libro

Un genitore fantastico è un manuale di Luca Dondoni con un’impostazione cognitivo-comportamentale e si rivolge ai genitori allo scopo di risolvere i problemi quotidiani relativi all’educazione dei figli.

 

Il bambino non vuole fare i compiti? Lascia la camera in completo disordine? Spesso fa perdere la pazienza con capricci esagerati? Come gestire queste situazioni quotidiane e che riguardano la maggior parte delle famiglie? Lo scopo del libro Un genitore fantastico è quello di fornire delle strategie che possano diminuire i comportamenti problematici dei bambini e aumentare quelli positivi e adeguati, quali studiare, tenere la camera in ordine, non litigare o picchiare compagni o fratelli, ecc.

Un genitore fantastico: l’analisi applicata del comportamento

L’impostazione teorica alla quale si fa riferimento è quella dell’analisi applicata del comportamento, che spiega come funziona il comportamento dell’essere umano e come, secondo le teorie dell’apprendimento, sia possibile potenziare e aumentare la frequenza dei comportamenti adattivi e funzionali e diminuire quelli dannosi e disturbanti.

Innanzitutto, l’autore di Un genitore fantastico ci spiega quanto sia importante il linguaggio per spiegare le situazioni problematiche. Utilizzare etichette, aggettivi e un linguaggio vago non consente di comprendere quali siano le reali situazioni che si intendono modificare. Mai etichettare un bambino come “capriccioso”, “timido”, “ribelle”, ecc.; è preferibile descrivere le azioni problematiche e la frequenza con cui si verificano, collocandoli nello specifico nello spazio e nel tempo.

A questo punto ampio spazio viene riservato nel libro alle teorie del comportamento relative a condizionamento classico e condizionamento operante, anche attraverso esempi concreti. L’autore ci spiega come sia importante descrivere le singole situazioni, considerando lo schema seguente: antecedenti – comportamento – conseguenze.

Secondo il condizionamento operante, le conseguenze hanno un effetto sul comportamento e questo spiega perché un rinforzo positivo aumenta la probabilità che quel comportamento si ripeta.

Si parla di rinforzo positivo quando un comportamento è seguito immediatamente da uno stimolo e, come risultato, comportamenti simili capiteranno più frequentemente in futuro. Chiameremo “rinforzatore” lo stimolo che ha determinato questo cambiamento.

Vengono di seguito forniti esempi di rinforzi positivi e quali caratteristiche debbano possedere per essere efficaci.

Il fratello del rinforzo positivo è il rinforzo negativo, che, contrariamente a quanto si possa pensare, non indica una punizione.

Parliamo di rinforzo negativo quando un comportamento produce la cessazione o la riduzione di uno stimolo e, come risultato, abbiamo un aumento di comportamenti simili in futuro.

Anche in questo caso seguono numerosi esempi, tesi a specificare in che modo utilizzare il rinforzo negativo, il quale, se non utilizzato in maniera adeguata, può dare origine a paure ingiustificate.

Altra strategia descritta, facente parte delle teorie dell’apprendimento, è quella dell’estinzione.

Quando un comportamento non è più seguito da rinforzi, diventerà via via meno frequente, fino a sparire del tutto.

Tale strategia è utile per diminuire i capricci dei bambini: quando ad es. piangono o si arrabbiano molto se non gli si compra il gelato o un giocattolo, se si ignora il capriccio e il comportamento problematico, si riduce la sua frequenza e la sua durata. In sostanza, non viene più data attenzione ad un comportamento problematico allo scopo di eliminarlo.

A questo punto del libro Un genitore fantastico, si descrive nel dettaglio come educare attraverso le regole, specificando esempi di regole valide e come esse siano generalmente seguite da conseguenze sia immediate che a lungo termine. Sebbene le conseguenze a lungo termine siano quelle più utili e adattive, se le conseguenze immediate non sono abbastanza soddisfacenti e coinvolgenti è difficile che si segua una regola. Ad esempio un bambino sarà più motivato ad ascoltare una lezione o a fare i compiti se questo comporta delle conseguenze positive nell’immediato (ad es. mangiare un gelato, guardare la tv, ecc).

Segue la descrizione della token economy, ossia un programma in cui, per ogni comportamento adeguato precedentemente concordato, è possibile ricevere dei gettoni che potranno poi essere scambiati con dei premi veri e propri. Viene descritto nel dettaglio come definire la lista dei comportamenti da premiare e quella dei premi, in modo tale che il programma risulti efficace.

Il libro termina con delle indicazioni concrete su come promuovere e potenziare le abilità sociali e relazionali dei propri figli, ponendosi come esempio e rinforzando i comportamenti positivi.

Un genitore fantastico è un libro semplice, di facile lettura, scritto con un linguaggio alla portata di tutti e ricco di esempi concreti e quotidiani. Un ottimo suggerimento per qualunque genitore.

Le relazioni amorose migliorano la salute dei giovani omosessuali, ma non dei giovani bisessuali – FluIDsex

Per giovani appartenenti a minoranze sessuali e di genere, avere un partner può amplificare le esperienze positive della vita ed essere un sostegno per affrontare quelle difficili. Diversi i risultati tra i gruppi di giovani omosessuali e giovani bisessuali.

 

I giovani appartenenti a minoranze sessuali sperimentano elevati tassi di disagi psicologici. Per questo motivo è importante identificare quali possano essere i fattori protettivi capaci di ridurre il rischio di sofferenza psicologica. A questo proposito, da uno studio condotto dalla Cincinnati University in collaborazione con la Northwestern Medicine University è emerso che le relazioni amorose tra giovani omosessuali possano essere considerate un fattore protettivo.

Nel presente studio sono state indagate le associazioni presenti tra coinvolgimento relazionale e disagio psicologico in un gruppo di giovani appartenenti a minoranze sessuali. Questa ricerca riveste una notevole importanza in quanto studi precedenti hanno evidenziato dati contrastanti rispetto al ruolo che il sostegno di genitori e amici possa avere di fronte agli effetti negativi derivanti da atti di bullismo omofobico nei confronti di ragazzi non eterosessuali.

Le relazioni tra ragazzi omosessuali: lo studio e i risultati

Il presente studio è stato condotto tramite i dati provenienti dal progetto Q-2, ricerca longitudinale condotta su 248 giovani omosessuali, bisessuali e transgender americani di Chicago, di età compresa tra i 16 ed i 20 anni. I dati di questo studio sono stati raccolti otto volte, in un periodo di cinque anni. I partecipanti hanno riferito meno stress psicologico quando erano in una relazione rispetto a quando non lo erano ed il coinvolgimento nelle relazioni ha ridotto l’associazione negativa tra vittimizzazione basata sullo stato di minoranza sessuale e disagio psicologico.

Questi risultati suggeriscono come essere in una relazione romantica possa promuovere la salute mentale per molti giovani appartenenti a minoranze sessuali.

L’autrice principale dello studio, professoressa di Psicologia presso l’Università di Cincinnati ritiene che, in base a questi dati, le domande che la ricerca e gli operatori della salute mentale dovranno porsi per aiutare gli adolescenti omosessuali riguarderanno la facilitazione dell’instaurazione di relazioni romantiche, così che i giovani appartenenti a minoranze sessuali possano avere le stesse esperienze di incontri-romantici che hanno i loro coetanei eterosessuali.

Avere un partner può amplificare le esperienze positive della vita ed essere un sostegno per affrontare quelle difficili, aggiunge Brian Mustanksi, direttore dell’Istituto per la salute ed il benessere delle minoranze sessuali e di genere presso la Scuola di Medicina Feinberg della Northwestern University.

Ulteriori risultati di questo studio riguardano invece il gruppo dei giovani bisessuali, i quali esiti differiscono dal gruppo omosessuale: il coinvolgimento romantico è associato ad un maggiore disagio psicologico. I giovani bisessuali nel momento in cui erano in relazione amorose riportavano il 19% in più di sintomi ansiosi rispetto a quando non erano impegnati.

Una possibile motivazione spiegata da Mustanksi risiede nel fatto che le relazioni delle persone bisessuali nascondono stressor unici rispetto a qualsiasi altro tipo di relazione: gli uomini bisessuali nelle proprie relazioni con donne non riescono a parlare apertamente del proprio orientamento ed in generale sperimentano spesso lo stereotipo che li vede “omosessuali incapaci di accettarsi”, annullando così il riconoscimento del loro orientamento; mentre le donne bisessuali impegnate in relazioni con uomini riferiscono spesso che i proprio partner oltre a dare per scontati incontri sessuali a tre (con un’altra donna), sentono la propria virilità minacciata dalla “mascolinità” della partner.

Per questi motivi, la ricerca sui fattori protettivi per la salute mentale dei giovani bisessuali rimane un terreno ancora da esplorare.

 


 

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Salute mentale: intervenire a scuola per non intervenire domani

I dati di una ricerca condotta su 50.000 bambini confermano che integrare nel sistema scolastico la cura della salute mentale permette di gestire efficacemente problematiche di attenzione, umore, ansia e abuso di sostanze.

Negli Stati Uniti circa il 30-40% dei bambini riceve una diagnosi di disturbo mentale prima dei 14 anni.
Una meta-analisi di 43 studi effettuata dal ricercatore Jonathan Comer e colleghi, del centro per bambini e famiglie della Florida International University, ha mostrato come l’assistenza scolastica sanitaria per la salute mentale sia efficace nel ridurre queste problematiche nei bambini.

I servizi di salute mentale scolastica presentano il vantaggio di ridurre le disparità di accesso a questa tipologia di servizi. Le famiglie accettano maggiormente questa soluzione perrchè integrata nell’ambiente scolastico ed inoltre possono usufruirne i bambini provenienti da contesti minoritari/economicamente svantaggiati, i quali altrimenti rimarrebbero esclusi da questo tipo di servizio, .
Inoltre, come sottolinea l’autore principale, Amanda Sanchez,

[blockquote style=”1″]Il trattamento dei bambini nelle scuole può superare in modo efficace problemi di costi, trasporto e stigmatizzazione che tipicamente limitano l’ampio utilizzo dei servizi di salute mentale[/blockquote].

Salute mentale: i risultati della ricerca su bambini tra i 6 e gli 11 anni

La ricerca ha analizzato 43 studi, i cui risultati sono derivati dai dati di circa 50000 bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, i quali hanno partecipato ad attività di prevenzione e intervento nell’ambito della salute mentale scolastica durante la scuola elementare.
Lo scopo della meta-analisi è stato quello di esaminare l’efficacia complessiva dei servizi di salute mentale scolastica e l’efficacia relativa ai vari modelli di intervento che differivano per format e intensità degli interventi proposti.

I risultati sostengono un’efficacia complessiva dell’assistenza sanitaria mentale scolastica.
Le analisi di follow-up hanno rivelato una particolare efficacia quando i servizi si erano posti come obiettivo gestire i problemi di attenzione, umore, ansia ed abuso di sostanze.
Infine, i trattamenti implementati più volte a settimana hanno mostrato un’efficacia due volte maggiore rispetto ai trattamenti su base settimanale o meno.

Alla luce di questi risultati si ritiene importante avanzare una considerazione realistica: purtroppo attualmente non tutte le istituzioni scolastiche dispongono delle risorse adeguate a questo tipo di intervento.
Gli autori ritengono che una possibile strategia interessante sarebbe quella di formare gli insegnanti affinché vengano sempre più sensibilizzati nell’area della salute mentale per supportare i professionisti nel lavoro di prevenzione e intervento precoce.

 

Fissando il sole (2017), riflettere sui temi della sofferenza esistenziale e sulla paura della morte in psicoterapia

Irvin D. Yalom, psichiatra, professore emerito alla Stanford University e scrittore, in Fissando il sole, come in molte altre sue opere, affronta diversi temi esistenziali perché, a suo parere, rivestono un ruolo importante nel creare sofferenza emotiva negli individui, un ruolo più rilevante di quanto gli venga in genere riconosciuto.

 

Già nel libro Existential Psyhotherapy del 1980 esamina quelli che a suo parere rappresentano dei temi importanti ai fini della psicoterapia: la morte, l’isolamento, il significato della vita e la libertà. In Fissando il sole approfondisce, invece, il tema della paura della morte che si può presentare in modo indiretto ad esempio sotto forma di inquietudine generalizzata, o nascosta dietro altri sintomi, oppure come sentimento cosciente di angoscia e in altri casi ancora come un timore che impedisce la realizzazione personale.

Nell’epigrafe all’inizio del libro è riportata la scritta “Le soleil ni la mort ne se peuvent regarder en face” (Né il sole né la morte si possono guardare fisso) di François de La Rochefoucauld, e tuttavia Yalom commenta:
[blockquote style=”1″]Non raccomanderei a nessuno di fissare il sole, ma fissare la morte è un’altra faccenda. Puntare uno sguardo deciso e risoluto sulla morte è appunto il messaggio di questo libro.[/blockquote]

Il suo intento è trasformare la paura in risorsa. Si tratta di affrontare una realtà ineluttabile per impedire che l’angoscia, rimanendo ‘inascoltata’, ostacoli la realizzazione personale dell’individuo. Ogni capitolo si conclude con una riflessione che ribadisce il vantaggio di ‘fissare il sole’.

Anche in Fissando il sole, così come nelle sue precedenti pubblicazioni, fa spesso riferimento al pensiero dei filosofi greci classici, che ritiene anche oggi attuale e di grande rilevanza. In effetti, i passaggi delle terapie che riporta rivelano quanto Yalom nella pratica clinica prenda spunto dalla filosofia.

Perchè leggere Fissando il sole?

Fissando il sole è rivolto a chiunque non riesce a contrastare l’angoscia della morte. Nel primo capitolo ne viene descritta la struttura, nel settimo capitolo si rivolge invece direttamente agli psicoterapeuti ma nonstante ciò è stato scritto in modo da risultare comprensibile a tutti i lettori.

Nel primo capitolo, Irvin Yalom racconta come, attraverso la sua esperienza professionale, ha avuto modo di osservare che la preoccupazione per la morte ha un andamento oscillante nelle diverse fasi dell’esistenza degli individui, presentandosi in forme diverse in relazione alle caratteristiche di personalità.
[blockquote style=”1″]In questo primo capitolo (dice) mi preme sottolineare che la paura della morte crea problemi che in un primo momento possono non sembrare direttamente connessi con la mortalità. La morte ha una gittata lunga, con un impatto che spesso viene occultato. Anche se l’angoscia della morte può immobilizzare completamente alcuni di noi, spesso questa paura rimane in secondo piano e si esprime attraverso sintomi che sembrano non avere nulla a che fare con la mortalità.[/blockquote]

Il capitolo si conclude con una sorta di augurio che contrasta con i sentimenti che spesso si associano a questo argomento:
[blockquote style=”1″]Pertanto offro questo libro alla lettura con ottimismo. Credo che vi aiuterà a fissare la morte in faccia e, nel farlo, non solo ne ridurrete il terrore, ma arricchirete anche la vostra vita.[/blockquote]

Attraverso lo stile usuale dell’autore, i diversi capitoli si susseguono alternando stralci di storie dei pazienti, considerazioni cliniche e riflessioni personali/autobiografiche. Fa da filo conduttore del libro il pensiero che “la consapevolezza della morte può essere un’esperienza di risveglio, un catalizzatore profondamente utile per cambiamenti importanti della nostra esistenza”.

Riconoscere l’angoscia della morte è titolo del secondo capitolo e, allo stesso tempo, ne sintetizza il contenuto. Attraverso la descrizione di casi clinici, viene mostrato in che modo l’angoscia della morte si può nascondere dietro altre paure, come per esempio quella dell’abbandono, di stare male, ecc. Talvolta può essere necessario un atteggiamento investigativo proprio perché la paura della morte può assumere forme diverse in relazione alla storia personale del soggetto.

Il terzo capitolo è dedicato a descrivere proprio l’esperienza del risveglio. Come esempio, tra gli altri, vengono citati alcuni famosi romanzi come Canto di Natale di Charles Dickens. Il protagonista Ebenezer Scrooge viene visitato nella notte dagli spiriti del Natale (quello passato, quello presente e quello futuro). Sognare come le persone reagiranno alla sua morte porta Scrooge ad avviare un processo di totale trasformazione delle sue abitudini di vita.
Le circostanze che possono sollecitare ‘l’esperienza del risveglio’ sono molteplici, in genere eventi intensi e pressanti come un lutto, una malattia grave, la rottura di una relazione, traumi, ricorrenze come alcuni compleanni (cinquanta, sessanta, ecc), alcuni incubi o sogni eccetera.

Il quarto e il quinto capitolo sono rivolti a illustrare come aiutare gli individui a riconoscere ed affrontare questa paura attraverso alcune idee e il potere della connessione con gli altri.

Nel sesto capitolo, Yalom, secondo il suo stile, racconta la sua personale esperienza in ordine al tema del libro, corredandola di ricordi e cenni autobiografici.

Infine il settimo capitolo è rivolto agli psicoterapeuti. Per Irvin Yalom le scuole di formazione non dedicano uno spazio adeguato alla trattazione dei temi esistenziali. A suo parere gli psicoterapeuti, di frequente, considerano la paura della morte come un timore che copre altre paure, mentre i temi legati al doversi confrontare con la condizione umana sono essi stessi causa di disagio emotivo e di psicopatologia.

L’approccio psicoterapeutico di Irvin Yalom

Si può dire che proprio quest’ultimo è il nucleo dell’approccio proposto da Yalom: riconoscere una maggiore centralità dei temi esistenziali per comprendere le forme che può assumere la sofferenza umana, perché “noi umani siamo le uniche creature per le quali la propria stessa esistenza costituisce un problema.” Pertanto il concetto chiave è l’esistenza…
Per aiutare i pazienti ad affrontare i temi esistenziali, Irvin Yalom utilizza diverse strategie relazionali, pensieri di filosofi, aforismi e alcune idee che ha sperimentato come efficaci nella sua esperienza professionale. Una di queste idee è rappresentata dai ‘cerchi nell’acqua’.
[blockquote style=”1″]L’immagine dei cerchi nell’acqua si riferisce al fatto che ciascuno di noi crea, spesso senza un intento consapevole e senza rendersene conto, dei cerchi concentrici di influssi che a loro volta possono influenzare gli altri per anni, persino per generazioni. Vale a dire che l’effetto che abbiamo sulle altre persone viene a sua volta passato ad altri, proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno continuano a svilupparsi finche non sono più visibili, anche se il movimento persiste a un livello impercettibile.[/blockquote]

Ma non si tratta di lasciare la memoria della propria immagine o il proprio nome, “I cerchi nell’acqua, come li intendo io, si riferiscono invece all’idea di lasciare dietro di sé qualcosa dell’esperienza della propria vita, un qualche tratto, un frammento di saggezza, una guida, una virtù, una consolazione che viene trasmessa ad altri, conosciuti o ignari”.

Alcuni temi importanti

Un’altra idea che ritorna nelle pagine del libro è un’ affermazione di Otto Rank (allievo di Freud): “Alcuni rifiutano il prestito della vita per evitare di pagare il debito della morte. Un’idea suggestiva che sicuramente rappresenta bene l’atteggiamento di molte persone che sembrano rinunciare a vivere appieno, a realizzare i propri desideri, per paura di ciò che possono perdere o che inevitabilmente perderanno. Un altro tema ricorrente, è l’importanza di realizzare al meglio le proprie potenzialità perché la paura della morte può essere tanto più forte quanto più si è insoddisfatti della propria vita. Quindi per convivere meglio con la consapevolezza della morte è importante vivere appieno e rimuovere gli ostacoli che la persona incontra nella propria realizzazione.

Yalom ha esperienza di conduzione di gruppi di pazienti con malattie gravi, anche terminali e il libro è anche un’occasione per sollecitare chiunque si trovi a vivere questa condizione a cercare di stabilire ‘connessioni’ con gli altri perché sono assolutamente utili ad affrontare la sofferenza. Nel tempo ha avuto modo di osservare che i pazienti possono attuare cambiamenti positivi anche in prossimità della fine della vita, riuscendo quindi ad apportare trasformazioni nelle relazioni e a trovare una forma di serenità.

In considerazione dei temi affrontati è opportuno menzionare la questione religiosa. Yalom chiarisce che pur avendo una visione laica della vita ha sempre avuto cura di non interferire con le posizioni di fede dei suoi pazienti.

Il valore di Fissando il sole per uno Psicoterapeuta

Fissando il sole, pur essendo rivolto a un ampio pubblico, rappresenta una lettura che contiene suggerimenti interessanti anche per gli specialisti. Attraverso lo spunto della paura della morte, Yalom affronta, infatti, argomenti che sono oggetto di molte psicoterapie: la difficoltà a fare scelte, l’insoddisfazione per la propria vita, i rimpianti, solo per citarne alcuni. In merito alla tecnica psicoterapeutica sono interessanti i ripetuti riferimenti a lavorare sul ‘qui ed ora’. In particolare è importante individuare un equivalente dei temi portati dal paziente nell’ambito della relazione terapeutica. Può essere un esempio il racconto di una paziente con problemi di salute che lamenta la mancanza di cura e attenzioni da parte del marito e che Yalom porta ad affrontare – nel qui ed ora – come avverte il suo prendersi cura di lei nell’ambito della terapia stessa. In questo modo fa vedere ‘in diretta’ alla paziente il ruolo che lei svolge, ad esempio non chiedendo nulla o addirittura cercando di ‘coprire’ i propri bisogni, sia nel contesto della terapia che nel rapporto con il marito.

A conferma di come il tema della morte spesso venga eluso, l’autore, nella post fazione, rivela che se in genere quando è impegnato nella stesura di un libro è abituato a fare lunghe conversazioni con colleghi e amici rispetto al lavoro in corso, nel caso di Fissando il sole, non appena rispondeva che il libro avrebbe riguardato il terrore della morte, la conversazione si concludeva e il suo interlocutore passava ad un altro argomento. In effetti, è esperienza abbastanza comune che le persone possono sentirsi a disagio a parlare di un argomento così carico di significati e di fronte al quale gli esseri umani in genere si sentono impotenti.

Nonostante le difficoltà inerenti i contenuti del testo è condivisibile l’opinione dell’autore che i terapeuti dovrebbero essere in grado di affrontare le diverse problematiche connesse ai temi esistenziali e le paure che ne possono scaturire. Per fare questo è utile che loro stessi si familiarizzino con i vissuti che hanno rispetto a questi temi. In questo senso la lettura del libro può essere un’occasione di riflessione non solo per il lavoro con i pazienti, ma anche per considerazioni personali.
Fissando il sole, coerentemente con l’idea portata avanti nel libro, si conclude con una speranza rivolta ai lettori:
[blockquote style=”1″]Non voglio che questo libro sia tetro. Spero invece che, aggrappandoci, aggrappandoci davvero alla nostra condizione umana, alla nostra finitezza, al nostro breve tempo di luce, riusciremo non solo ad assaporare quant’è prezioso ogni momento e il piacere puro e semplice di esistere, ma aumenteranno anche la nostra compassione per noi stessi e per gli altri esseri umani.[/blockquote]

Sempre in anticipo sul suo futuro – In ricordo del Prof. Marcello Cesa Bianchi

E’ venuto a mancare giovedì 15 Marzo, pochi giorni prima del suo 92esimo compleanno, il Prof. Marcello Cesa Bianchi, uno dei padri fondatori della Psicologia italiana.

 

Che il Prof. Marcello Cesa Bianchi si sarebbe distinto nel corso della sua lunga vita, lo si poteva immaginare già nei suoi primi anni di infanzia: appena in quarta elementare, il suo genio e la sua elevata intelligenza lo portano a saltare diversi anni di scuola per frequentare direttamente la prima ginnasio. Ma non è l’unico salto che il suo acume gli consente: dalla seconda liceo passa al primo anno di università. La sua carriera prosegue in questo modo: una costellazione di traguardi e onorificenze, che hanno reso il Prof. Marcello Cesa Bianchi il punto di riferimento per molti psicologi ed esperti del mondo accademico.

La sua attitudine ad anticipare i tempi ha contraddistinto la sua intera vita, non a caso la sua autobiografia – pubblicata nel 2012, all’età di 86 anni – ha titolo “Sempre in anticipo sul mio futuro”.

Laureato con lode in Medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Milano nel 1949, a soli 23 anni, successivamente si specializza, sempre con lode, in Psicologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1951 e in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali all’Università di Pavia nel 1953.

Tra i ruoli di prestigio che il Prof. Marcello Cesa Bianchi ha ricoperto, lo ricordiamo in veste di fondatore e direttore dell’Istituto di Psicologia e delle Scuole di Specializzazione in Psicologia e Psicologia Clinica presso la Facoltà Medica dell’Università degli Studi di Milano, di cui era Professore Emerito. È stato inoltre insignito di diverse lauree honoris causa da vari atenei italiani. Nel maggio 1999 ha ricevuto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano la Laurea Honoris Causa in Psicologia. Nel novembre 2002 gli è stata attribuita dall’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione. Nel maggio 2012 gli è stata assegnata dall’Università degli Studi di Torino la Laurea Honoris Causa in Psicologia. Nel novembre 2015 riceve dalla Libera Università della Terza Età di Carbonia la Laurea Magistralis Honoris Causa per il lavoro svolto nel campo della psicologia dell’invecchiamento.

Coordinatore di progetti di ricerca nazionali ed internazionali, ha firmato più di 70 volumi e 1000 pubblicazioni scientifiche in diverse discipline. Sono rari gli argomenti della Psicologia che non hanno risentito della sua influenza: dalla metodologia psicologica alla psicologia generale, dalla percezione alla psicologia medica, passando per la psicologia della devianza e dell’età evolutiva. Durante gli ultimi anni della sua carriera si è dedicato allo studio e alla ricerca nell’ambito della psicologia dell’invecchiamento e dell’età senile, con un occhio di riguardo alla relazione tra terza età e creatività.

Il suo contributo è tangibile, un patrimonio di grande valore per tutti gli psicologi e i ricercatori, così come ricordato anche dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Riassumere l’intera carriera del Prof. Cesa Bianchi in poche righe non avrebbe reso giustizia alla sua illustre figura, ma le sue lauree honoris causa e la Medaglia d’oro di benemerenza per l’impegno umanitario conferitagli dal comune di Milano nel 1985, sono solo alcuni degli esempi che ci fanno comprendere la grave perdita per il panorama della Psicologia italiana.

Dalla redazione di State of Mind, porgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti al Prof. Mario Cesa Bianchi per gli impagabili contributi che ci ha lasciato e per essere diventato una figura di riferimento che guiderà le carriere di tutti noi psicologi presenti e futuri, un riferimento costante e prezioso…sempre in anticipo sul nostro futuro.

Ermal Meta: rabbia e dolore verso un padre che non ha amato nostra madre

Ermal Meta parla in alcune canzoni del dolore di un figlio che vede il padre non amare la madre, come nel complesso di Ruben. Questo dolore incide sulla schiena delle cicatrici, ma non è tardi per ricominciare. Lì ci si attaccano le ali e si prova a ristabilire in qualche modo la “giustizia degli affetti”.

 

Cosa accomuna i testi di Ermal Meta con il personaggio biblico di Ruben? Ruben, figlio di Giacobbe e Lea, è il giustiziere degli affetti familiari (Accardo, Lorenzini 2014); soffre l’umiliazione della madre come se fosse la sua e fin dal nome che porta gli brucia in petto il malanimo di Giacobbe verso Lea, la mai amata. Ruben è colui che pretende giustizia degli affetti, soffre di sentimenti calpestati, patisce il torto fatto alla madre. L’ingiustizia degli affetti è un danno subìto che non conosce risarcimento. E’ la storia di un abbandono ancor prima che la separazione avvenga. Ci si ritrova costretti da una rabbia ceca a farsi giustizia da soli, senza cercare un impossibile risarcimento, ma solo per punire nell’altro il destino di non essere amati. In Ruben la giustizia degli affetti non è solo l’amore del padre verso la madre, ma anche e soprattutto verso di lui, suo figlio; il padre aveva il dovere di occuparsi di lui e di proteggerlo, perché è l’amore che tiene in vita. Quando ciò non avviene si minaccia la sopravvivenza della specie ed il successo riproduttivo e assistiamo al fallimento del comportamento genitoriale, inteso come una forma speciale di comportamento altruistico.

Il complesso di Ruben nelle canzoni di Ermal Meta

La musica non è né scienza né letteratura eppure ci racconta tante storie. E quando a parlare è il bambino di ieri attraverso la penna dell’uomo di oggi, allora la musica diventa strumento di condivisione profonda. Nel rispetto dei sentimenti di chi ha cantato la propria vita, questo lavoro è ben lontano dal fare interpretazioni cliniche. I brani su cui mi sono soffermata sono “Lettera a mio padre” (Ermal Meta 2014) e “Vietato morire” (Ermal Meta 2017). Passando dall’uno all’altro possiamo trovare un percorso volto a ristabilire in qualche modo la giustizia degli affetti.
Un padre violento, una bestia, uno di quegli uomini che dinanzi a chi non li conosce si mascherano di voce docile e mani bianche, ma che dentro i loro occhi non hanno niente, che uccidono con le parole, colpiscono con i pugni in faccia e lasciano cicatrici e occhi neri.
La violenza domestica è anche violenza psicologica, e quando un bambino è figlio di un non amore, di un amore imperfetto, ecco che è anche vittima dell’ingiustizia degli affetti, un ingiustizia che mette a repentaglio la propria integrità fisica ed emotiva e annienta la vita in nome di un non amore. Nonostante la paura che frantuma i pensieri, il desiderio di un bambino, che potrebbe incarnare la missione rubenica, più che salvare sé stesso, è portare via di là la propria madre, attraverso i cui occhi vede e vive la sofferenza. Nel caso di Ruben la figura paterna è vista come un rivale, un ostacolo al suo progetto di realizzazione della felicità della madre. E per poter salvare un adulto, un bambino diventa grande in un istante.

Come ricominciare, da adulti

Tuttavia anche un non amore è fatto di due parti e allora cosa resta? Da un lato restano le rughe d’espressione, un cognome, la metà del sangue nelle vene e le cicatrici. Dall’altro lato restano le rughe d’espressione, un nome, l’altra metà del sangue nelle vene, le ali e un monito. L’incoraggiamento della mamma al bambino, la base sicura, il faro che protegge, perché si può proteggere anche con le promesse. Promettere e insegnare l’amore da un libro di odio, anche se costa fatica. Difatti il successo del ruolo di madre è assicurato dalla sua capacità di accorrere alle richieste di aiuto del proprio figlio, dalla sua disponibilità a confortarlo attraverso abbracci e carezze, dalla sua prontezza a proteggerlo dai pericoli (Attili 2012).

Ruben è il portabandiera dei non amati. La rabbia di Ruben si iscrive tutta nel sistema motivazionale di attaccamento/accudimento. Tuttavia la consapevolezza dell’inutilità dei suoi sforzi condanna Ruben ad un eterno rancore. Nei testi approfonditi invece sembra esserci una strada diversa.
Se scegli una strada diversa, alla ricerca della sicurezza, un giorno diventi padre e puoi dire di cambiare le stelle, puoi dire che un cazzotto fa male, che una parola a volte ti uccide e che quando sulla schiena hai cicatrici è lì che ci attacchi le ali. Quando non si ha un buon padre bisogna procurarsene uno, diceva Nietzsche; oppure, potremmo dire, bisogna diventarne uno. Puoi dire e far si che i figli si sentano amati, perché se noi non siamo stati amati non è perché eravamo cattivi. In questo modo una mamma non smette di sognare perché la vita che avrai non sarà mai distante dell’amore che dai, ed ogni male è un bene quando serve.
Così, con la pelle dura, si può anche correre con i lupi, perché non c’è più paura e quello che era gigante oggi non si vede, perché non c’è solo la voce del sangue ma anche quella dell’affetto, e questa può salvarti veramente.

LETTERA A MIO PADRE – IL VIDEO DELLA CANZONE:

VIETATO MORIRE – IL VIDEO DELLA CANZONE:

La procreazione medicalmente assistita: le emozioni sottostanti

La procreazione assistita è un trattamento che può suscitare una serie di vissuti sia emotivi che psicologici che coinvolgono la coppia e il singolo futuro genitore. Per questo sarebbe opportuno fornire un servizio di supporto psicologico.

 

La diagnosi di infertilità e la procreazione assistita

La procreazione medicalmente assistita è sempre più oggetto, negli ultimi tempi, di studi e ricerche scientifiche e solleva interessi e questioni di natura medica, psicologica, relazionale ed etica.

Quando si parla di procreazione assistita, la coppia ha già ricevuto una diagnosi di infertilità e le cause possono essere diverse, di natura sia biologica che psicologica. I fattori di rischio più rilevanti e che più frequentemente si associano alla sterilità sono: l’età sempre più alta della coppia che cerca di avere un bambino; le difficoltà economiche e lavorative che inducono a posporre il più possibile una gravidanza; lo stress, il fumo e le abitudini nocive che possono ostacolare l’arrivo di una gravidanza; le abitudini alimentari e i fattori socio-psicologici.

La procreazione assistita: vissuti emotivi e psicologici

La procreazione assistita, per questo motivo, è un trattamento che può suscitare una serie di vissuti sia emotivi che psicologici che coinvolgono la coppia e il singolo futuro genitore. Tale trattamento porta a scontrarsi con il dolore della mancanza di concepimento e della perdita e questo può far vacillare la propria autostima e la propria identità. È proprio per questo che sarebbe opportuno garantire ai partner che vogliono sottoporsi alla procreazione medicalmente assistita anche un servizio di supporto psicologico, allo scopo di accogliere le loro aspettative, i timori, le delusioni e la speranza di diventare genitori, per tutto il percorso.

Dopo vari tentativi falliti, le emozioni che più frequentemente accompagnano il dolore della mancata gravidanza sono il senso di vuoto, la bassa autostima e anche la propria identità femminile (o maschile, nel caso in cui la causa dell’infertilità risieda in un fattore maschile) viene messa a dura prova. Talvolta, può farsi sentire il senso di colpa e ci si rimprovera di aver rimandato troppo o di aver preso la pillola per troppo tempo o di non essersi sottoposte costantemente alle visite mediche. Anche il rapporto di coppia può iniziare a sgretolarsi e ciascuno dei due partner può sentirsi non supportato adeguatamente dall’altro e chiudersi nel silenzio e nell’isolamento; in alcuni casi possono iniziare le recriminazioni verso il partner, in particolare se uno dei due ha rinviato la ricerca di un figlio il più possibile. Talvolta, si oscilla tra la speranza e la disperazione.

I continui fallimenti possono generare delusione, frustrazione e rabbia e questo può compromettere l’efficacia delle tecniche della procreazione medicalmente assistita. Da questo, si comprende come sia assolutamente fondamentale elaborare tali vissuti ed emozioni negative sia individualmente che nella coppia, al fine non solo di raggiungere un maggiore equilibrio psicologico personale, ma anche per non comprometterne del tutto l’esito. Qualora la procreazione sia eterologa la situazione si complica e nella coppia possono emergere emozioni conflittuali e ambivalenti, che è opportuno condividere ed esplicitare.

Il periodo di attesa dell’esito della  procreazione assistita si carica di ansie e preoccupazioni e spesso si ricercano continue rassicurazioni dal medico ed evidenze fisiche del fatto che tutto proceda bene. Se l’esito è positivo, la gioia iniziale si accompagna comunque spesso a tensioni, nel timore che da un momento all’altro la speranza possa spegnersi e proseguono ancora i controlli medici e i tentativi di essere rassicurati. Qualora l’esito sia negativo, il dolore si fa più forte, ricompaiono il senso di fallimento personale, il vuoto interiore, la frustrazione, la rabbia.

Adottare un approccio multidisciplinare e accogliere la coppia anche psicologicamente durante il percorso di procreazione medicalmente assistita diventa una risorsa fondamentale per sostenere i partner nell’affrontare le difficoltà, le fatiche, le tensioni e le delusioni affinché nessuna donna e nessuna coppia possano sentirsi soli nel gestire un’altalena di emozioni ambivalenti.

Perdite di memoria: normale invecchiamento o Alzheimer?

Invecchiando, non è raro sperimentare “momenti di vecchiaia“, in cui dimentichiamo dove abbiamo parcheggiato la macchina o chiamiamo i nostri bambini con nomi sbagliati. E potremmo chiederci: questi ricordi sono una parte normale dell’ invecchiamento o segnalano le prime fasi di un disturbo grave come il morbo di Alzheimer?

 

I ricercatori di Irvine, dell’Università della California, hanno tuttavia scoperto che la risonanza magnetica funzionale ad alta risoluzione del cervello può essere utilizzata per mostrare alcune delle cause alla base delle differenze inerenti le competenze mnemoniche tra adulti anziani e adulti più giovani. Lo studio, pubblicato sulla rivista Neuron, ha coinvolto 20 giovani adulti (dai 18 ai 31 anni) e 20 adulti anziani cognitivamente sani (dai 64 agli 89 anni). Ai partecipanti veniva chiesto di eseguire due tipi di attività durante la scansione fMRI, un’attività di memoria di oggetti e un’attività di memoria di posizione. Poiché l’fMRI esamina le dinamiche del flusso sanguigno nel cervello, i ricercatori sono stati in grado di determinare quali parti del cervello i soggetti stavano usando per ciascuna attività.

Nel primo compito, venivano fatte vedere ai partecipanti delle immagini di oggetti di uso quotidiano e, successivamente, veniva chiesto di distinguerle dalle nuove immagini.

Alcune immagini erano identiche a quelle viste prima, alcune erano nuove e altre erano simili alle precedenti – potremmo aver cambiato il colore o le dimensioni – ha detto Michael Yassa, direttore del Centro per la Neurobiologia dell’apprendimento e della memoria e autore senior dello studio – Chiamiamo questi oggetti delicati le “esche”. E abbiamo scoperto che il conflitto mnemonico avveniva maggiormente negli anziani: sono molto più propensi dei giovani a pensare di aver già visto quelle “esche”.

Il secondo compito era quasi lo stesso ma veniva richiesto ai soggetti di determinare se la posizione degli oggetti fosse stata alterata. Qui, gli adulti più anziani sono andati molto meglio rispetto al compito precedente.

Questo suggerisce che non tutta la memoria cambia allo stesso modo dell’invecchiamento – sostiene l’autore principale Zachariah Reagh, che ha partecipato allo studio come studente laureato presso l’UCI ed ora è un borsista postdottorato alla UC Davis – La memoria degli oggetti è molto più vulnerabile di quella spaziale, o posizione, memoria – almeno nelle prime fasi.

Altre ricerche hanno dimostrato che i problemi con la memoria spaziale e la navigazione si manifestano in maniera individuale verso la malattia di Alzheimer.

È importante sottolineare che, esaminando il cervello dei soggetti sottoposti a questi test, gli scienziati sono stati in grado di stabilire un meccanismo cerebrale per tale deficit nella memoria degli oggetti. Hanno scoperto che era collegato a una perdita di segnalazione in una parte del cervello chiamata corteccia entorinale anterolaterale. Questa area è già nota per mediare la comunicazione tra l’ippocampo, in cui le informazioni vengono prima codificate e il resto della neocorteccia, che svolge un ruolo nell’archiviazione a lungo termine. È anche un’area gravemente colpita nelle persone con malattia di Alzheimer.

La perdita del segnale fMRI significa che c’è meno flusso di sangue nella regione, ma crediamo che la base di questa perdita dipenda dal fatto che l’integrità strutturale di quella parte del cervello sta cambiando – ha detto Yassa – Una delle cose che sappiamo della malattia di Alzheimer è che questa regione del cervello è una delle prime ad esibire un segno chiave della malattia, la deposizione di grovigli neurofibrillari.

Al contrario, i ricercatori non hanno rilevato differenze legate all’età in un’altra area del cervello collegata alla memoria: la corteccia entorinale posteromiale. Hanno dimostrato che questa regione ha un ruolo nella memoria spaziale, che non era significativamente compromessa nei soggetti più anziani.

Questo suggerisce che il processo di invecchiamento del cervello è selettivo – dice Yassa – I nostri risultati non sono un riflesso dell’invecchiamento cerebrale generale, ma piuttosto di specifici cambiamenti neurali che sono collegati a problemi specifici nella memoria dell’oggetto e non nello spazio.

Per determinare se questo tipo di scansione fMRI potrebbe alla fine essere utilizzato come strumento per la diagnosi precoce, i ricercatori prevedono di espandere il loro lavoro a un campione di 150 adulti più anziani che saranno seguiti nel tempo. Condurranno anche tomografia a emissione di positroni, o PET, scansioni per cercare la patologia provocate della placche amiloidi e della proteina tau.

Ci auguriamo che questi esaurienti test di imaging e cognitivi ci consentiranno di capire se i deficit che abbiamo visto nel presente studio sono indicativi di ciò che verrà in seguito in alcuni di questi individui – ha detto Yassa

I nostri risultati, così come risultati simili da altri laboratori, indicano la necessità di compiti e paradigmi progettati con cura che possano rivelare diverse funzioni in aree chiave del cervello e diverse vulnerabilità al processo di invecchiamento – ha aggiunto Reagh.

 

La formulazione condivisa del caso come alleanza terapeutica in terapia cognitiva

Qualche mese fa eravamo in compagnia di due colleghi comportamentisti e a uno dei due scapparono le parole “alleanza terapeutica” e “relazione terapeutica”. Prontamente l’altro lo corresse, dicendo che era preferibile utilizzare “formulazione del caso”. La puntualizzazione del secondo collega potrebbe sembrare una pedantesca difesa identitaria. Oppure no. Vediamo perché.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Le terapie cognitive comportamentali hanno sempre intrattenuto con i concetti di alleanza e relazione terapeutica un rapporto pragmatico, preferendo chiamarle spesso con altri nomi più operativi (Bruch, 1998, 2015). Tra questi, il termine più significativo e coerente con il paradigma cognitivo-comportamentale è quello di “formulazione del caso” oppure -sottolineando maggiormente gli aspetti di relazione terapeutica e alleanza terapeutica– di “formulazione condivisa del caso”. Oggi questo strumento è ormai  ampiamente praticato nel campo delle terapie comportamentali e cognitive (Eells, 2007, 2009; Sturmey, 2008, 2009).

La formulazione del caso comportamentista di Monte Shapiro

In realtà il termine “formulazione del caso” è stato definitivamente introdotto solo nel 1985 grazie a Turkat (1985, 1986), ma esso era presente nel lavoro della maggior parte dei pionieri delle terapie cognitive e comportamentali: ad esempio in Monte B. Shapiro (1955, 1957) (Shapiro & Nelson, 1955), Lazarus (1960), Meyer (1960), Wolpe (1960) e Yates (1960). Tra tutti spicca il contributo di Meyer. Perché? Perché negli altri autori, e in particolare in Shapiro, la formulazione del caso non conteneva in sé alcun elemento di accordo e condivisione con il paziente, ovvero –volendo usare una terminologia psicodinamica- la formulazione era relazionalmente vuota e non portava a un’alleanza di lavoro. Shapiro realizzava la formulazione del caso dapprima intervistando i pazienti per ottenere una descrizione precisa del loro comportamento problematico. Successivamente, sulla base di modelli teorici di apprendimento si formulavano delle previsioni sulle reazioni comportamentali dei pazienti a determinati stimoli, previsioni che erano testate in esperimenti clinici e che portavano infine alla formulazione di un piano terapeutico fatto di ripetuti esperimenti comportamentali. Insomma, Shapiro otteneva dati dal paziente ma non li riformulava al paziente, non cercava il suo assenso ne gli chiedeva di utilizzare la formulazione come base per un lavoro comune. Un simile metodo poteva effettivamente esporsi all’accusa, fatta varie volte ai comportamentisti, di trattare i pazienti come cani ammaestrati.

La formulazione del caso condivisa con il paziente di Victor Meyer

Completamente diverso l’approccio di Victor Meyer (1975). Il suo intenso impegno clinico con i pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo gli consentì di comprendere il ruolo cruciale dell’intervista col paziente come esperienza individuale. Era critico nei confronti di schemi standardizzati come ad esempio quello di Kanfer e Saslow (1969). Secondo Meyer, invece di aderire rigidamente a uno schema, i terapeuti devono essere incoraggiati a sviluppare ipotesi sulla natura del problema e a discuterli e condividerli con il paziente (Meyer, 1975, p. 22). In altre parole, Meyer pone l’enfasi sulla comprensione e sulla condivisione del problema del paziente, spiegandogli la logica, cercando la cooperazione e quindi costruendo la risoluzione e la motivazione per il programma di trattamento. È chiara quindi la stretta relazione tra approccio di Meyer e relazione terapeutica, però da un punto di vista rigorosamente cognitivo e comportamentale che nulla deve al modello psicodinamico, come spesso accade nei modelli integrati cognitivo-interpersonali (Meyer e Liddell, 1975, p. 237).

Insomma, Meyer condivideva la formulazione del caso con il paziente. Dopo aver raccolto i dati sulle situazioni problematiche del paziente, egli formulava il caso nei suoi termini di antecedenti, risposte comportamentali e conseguenze e lo proponeva al paziente, discutendolo con lui. Questa discussione non era una trasmissione unidirezionale di informazioni dal clinico al paziente, ma avveniva su un piano paritario ed entrava a far parte del contesto terapeutico. La condivisione delle informazioni con il paziente diventa quindi essa stessa parte della modificazione ambientale e comportamentale perseguita dal clinico comportamentale per ottenere il cambiamento terapeutico. Questa modificazione, però non avveniva all’insaputa del paziente, ma coinvolgendolo, ovvero coinvolgendo i suoi stati mentali. È chiaro che, in tal modo, si agisce non solo in maniera esterna sulle reazioni comportamentali ma in maniera condivisa, alleata e relazionale. Esprimendoci nel linguaggio comportamentale, si agisce sui rule-governed behaviors.

Formulazione condivisa del caso vs relazione terapeutica

Si potrebbe obiettare: se è così, perché non adottare i termini di “alleanza terapeutica” e di “relazione terapeutica”? Perché ostinarsi su un termine più pragmatico e operativo come “formulazione condivisa del caso”? “Formulazione condivisa del caso” non è solo un termine tradizionale da usare distrattamente per abitudine ma fornisce informazioni pratiche sulla concezione cognitiva e comportamentale dell’alleanza terapeutica.

Invece “relazione terapeutica” è un termine estremamente ampio. I suoi difetti sono due: un rischio di vaghezza e di genericità, poiché “relazione” può indicare qualunque evento interpersonale che accade tra paziente e terapista; il secondo è la possibilità che in fondo esso non sia un termine neutro ma che invece esso sia più adatto a indicare le componenti più ambigue della relazione, meno sensibili al controllo volontario e meno accessibili all’alleanza esplicita. Insomma, la “relazione terapeutica” non è l’alleanza terapeutica.

Alleanze e sabotaggi: i presupposti teorici che orientano le terapie

Non si tratta di una differenza solo tecnica ma teorica: la formulazione del caso di tradizione comportamentale parte dal presupposto che l’alleanza è sempre possibile e che essa si stipuli a partire dai suoi aspetti pratici e operativi, appunto la condivisione della formulazione. In altri paradigmi, come forse in alcune forme di terapia psicodinamica, si parte dal presupposto che il paziente tendenzialmente saboti la terapia e che il lavoro terapeutico consista proprio nella analisi e nella gestione relazionale di questo sabotaggio, che è interiore ma che si manifesta soprattutto nella relazione. Seguendo questo paradigma, la concettualizzazione del caso non è mai davvero onestamente condivisibile da parte del paziente e la sua formulazione esplicita è sempre un inganno. Una rassegna esaustiva di questo paradigma si può trovare nel bel libro “I sabotatori interni” di Francesco Gazzillo (2012).

In una versione meno estrema il paziente non sabota la terapia e non inganna il terapista, ma comunque non ha, almeno inizialmente, le capacità relazionali per riuscire a eseguire un’alleanza soddisfacente. Il paziente è ritenuto un tipo difficile, ma non è un ingannatore. In questo caso il lavoro terapeutico non consisterebbe nel gestire i sabotaggi e gli inganni del paziente, ma le sue mancanze e i suoi deficit costruendo un compenso emotivo che andrebbe a coprire un deficit relazionale di base. Si tratta effettivamente di una teoria del deficit. Quello che colpisce è che in entrambi i casi il terapista lavorerebbe soprattutto nella relazione e la utilizza in una maniera non condivisa –o almeno non completamente condivisa- con il paziente, ovvero senza comunicare del tutto il senso del suo lavoro. Tutto accade prima nella relazione e nella costruzione dell’alleanza. Nella formulazione comportamentale condivisa del caso e quindi dell’alleanza terapeutica, invece, tutto inizia con la stipulazione onesta del patto terapeutico.

Inoltre ci sembra innegabile che una visione che privilegia la relazione prima dell’alleanza rischierebbe di scivolare in una relazione non paritaria tra un soggetto che agisce in modo implicito sulla relazione da una posizione di supremazia di esperto conoscitore della relazione che non spiega e condivide del tutto cosa sta facendo e a quale scopo.

Naturalmente è innegabile che esistano pazienti che sabotano la terapia o con i quali occorre effettuare un lavoro più di supporto che di vera terapia, in attesa che si creino le condizioni per effettuare il lavoro terapeutico. E comunque nel nostro approccio anche questo aspetto può essere onestamente esplicitato. L’aspetto dirimente è considerare questo lavoro preparatorio o semmai necessario in casi speciali con pazienti molto sofferenti con gravi deficit di mentalizzazione, oppure il vero centro di ogni terapia. Si tratta di visioni della mente, dell’uomo e del mondo differenti.

Tre tipologie di craving per la comprensione del problem drinking

L’esperienza di craving è considerata una componente cruciale nella transizione da un bere controllato ad un vero e proprio problema di dipendenza (Robinson e Berridge, 1993) e uno dei principali fattori di mantenimento del comportamento di addiction legato all’ abuso di alcol.

 

Studi scientifici hanno evidenziato la natura eterogenea del craving nelle sue determinanti psicologiche e neurobiologiche, in quanto la sua insorgenza può essere il risultato di disfunzioni neurochimiche, bisogni fisiologici e sintomi psicofisiologici. Il craving infatti è definito come un desiderio/bisogno irrefrenabile di assumere una sostanza il quale, se non viene soddisfatto, può condurre a conseguenze negative sul piano fisico e psicologico (Caretti, La Barbera, 2010).

Abuso di alcol: una spiegazione neurobiologica

L’etanolo, come sostanza di abuso che può indurre dipendenza, agisce sui recettori dopaminergici implicati nei circuiti della gratificazione, rinforzando l’effetto positivo indotto dall’assunzione. L’alcol possiede anche un potente effetto sedativo che riguarda essenzialmente l’aumento dell’attività GABAergica, in quanto il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale; in aggiunta, l’azione sedativa coinvolge il glutammato, neurotrasmettitore eccitatorio, la cui funzione viene ostacolata attraverso l’antagonismo dell’alcol sui recettori NMDA. In corso di disintossicazione l’attività GABAergica viene interrotta, mentre si assiste ad un aumento di glutammato; la concomitanza di queste modificazioni neurochimiche è una delle principali cause dei tipici sintomi riscontrabili durante periodi di astinenza, quali ansia e convulsioni (Heinz, 2003).

Il comportamento compulsivo di ricerca della sostanza è dunque psicobiologicamente motivato: l’alcolista sente un bisogno irresistibile di porre rimedio alla sofferenza conseguente la privazione della sostanza la quale, in precedenza, ha generato gratificazione e sollievo.

Diverse tipologie di craving

Alla fine degli anni Novanta dello scorso secolo, Verheul e collaboratori (1999) hanno descritto il craving secondo tre distinte tipologie, sulla base di differenti disregolazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali implicati nella sua manifestazione, considerando inoltre come discriminanti le componenti psicologiche e la familiarità per l’alcolismo.

Il primo tipo, il reward craving, causato da una disregolazione dopaminergica/oppioidergica, ha un esordio precoce e si riscontra più di frequente in soggetti maschi con storia familiare di abuso di alcol. Questi soggetti sembrano avere un’ipersensibilità ai rinforzi positivi indotti dall’alcol e maggiore presenza di novelty/sensation seeking, per cui si riscontra un’incapacità di astenersi dal consumo della sostanza che possiede forti proprietà stimolanti.

Il secondo tipo, il relief craving, è la conseguenza di una disregolazione dell’attività GABA/glutammatergica, con una ipereccitabilità neuronale indotta dal glutammato e un’ipersensibilità agli effetti sedativi provocati dall’etanolo; esso ha quindi un effetto di “automedicamento” che consiste nella riduzione della tensione e degli affetti negativi attraverso l’assunzione di alcol. Ha un esordio tipicamente tardivo, si riscontra più di frequente nelle donne, e le caratteristiche di personalità peculiari comprendono ansia e/o inibizione.

Infine, l’obsessive craving, è il risultato di una disregolazione serotoninergica che causa perdita di controllo e presenza di compulsioni volte al raggiungimento della sostanza; alcuni studi hanno infatti osservato che durante l’intossicazione da alcol si assiste ad un incremento dei livelli di serotonina a livello del sistema nervoso centrale che però segue, a breve distanza, una drastica riduzione di quest’ultima, provocando un serio deficit serotoninergico. Dal momento che la carenza di serotonina è stata associata a disturbi legati a perdita di controllo dei propri impulsi, umore negativo e disfunzione dei processi cognitivo-attentivi, l’obsessive craving si ritrova spesso in individui con tratti di disinibizione.

Sulla base della distinzione suggerita da Verheul e colleghi, sono state proposte differenti tipologie di trattamento farmacologico che hanno preso in considerazione le caratteristiche individuali di ciascun paziente alcolista in corso di riabilitazione e che si sono focalizzate sulla comprensione dei diversi meccanismi sottostanti il craving (Addolorato, 2005). Da un punto di vista psicoterapeutico si dovrebbe auspicare la stessa meticolosità in quanto individuare i fattori all’origine del craving e del suo mantenimento significa aver chiari i bersagli per un intervento efficace.

Problem drinking: il ruolo delle credenze metacognitive

A questo proposito Spada e Wells (2010) hanno condotto indagini sulle credenze metacognitive maggiormente riscontrabili in soggetti con problemi di  abuso di alcol (problem drinking) e con dipendenza conclamata, confrontandoli con un gruppo di controllo costituito da bevitori non problematici. Dopo la somministrazione di test per la valutazione delle credenze metacognitive positive e negative riguardo la regolazione emotiva e cognitiva (self-regulation) quali Positive Alcohol Metacognitions Scale (PAMS) e Negative Alcohol Metacognitions Scale (NAMS), sono stati osservati punteggi più alti nel campione con addiction, così come il campione problem drinking riporta valutazioni maggiori del campione di controllo. La metacognizione sembra dunque essere una determinante lungo il continuum che va da un bere sociale (social drinking) alla dipendenza, ed il craving che ne consegue rappresenta il risultato di processi metacognitivi disfunzionali che si ritrovano negli alcolisti.

Successive ricerche di Spada e colleghi (2012) hanno portato alla formulazione di un modello metacognitivo dell’alcolismo che prevede tre fasi distinte (Triphasic Metacognitive Formulation), ognuna delle quali presenta specifiche caratteristiche. Nella prima fase, Pre-Alcohol Use, i triggers legati all’ abuso di alcol che si presentano sotto forma di immagini, memorie, pensieri o esperienza di craving con le sue componenti psicofisiologiche, innescano credenze metacognitive positive circa l’utilità del pensare in modo continuativo all’utilizzo della sostanza: questa perseveranza si traduce in rimuginio, pensiero desiderante, ruminazione o la concomitanza di tutte e tre i processi. Il soggetto, ad esempio, può ritenere utile analizzare la propria esperienza di craving per capirne le cause, oppure presumere che il riflettere sugli effetti negativi dell’ abuso di alcol lo aiuterà ad evitarne il consumo in futuro. I processi di regolazione cognitiva messi in atto portano all’esacerbazione del craving e all’attivazione di credenze metacognitive circa la necessità di avere controllo sui propri pensieri, aumentando così la possibilità di fare uso di alcol.

La seconda fase, Alcohol Use Phase, in cui il soggetto assume la sostanza, è caratterizzata da credenze metacognitive positive che riguardano l’efficacia dell’alcol nel ridurre il rimuginio/ruminazione e nell’avere il controllo sui relativi pensieri, conducendo in realtà ad una compromissione del monitoraggio metacognitivo dei propri stati interni, deterioramento facilitato inoltre dagli effetti chimici negativi di un consumo persistente. Quando il bere problematico aumenta di frequenza e gravità, emergono le credenze metacognitive negative di incontrollabilità nell’uso di alcol e ciò contribuisce alla continuità nel suo utilizzo.

Nella terza e ultima fase, Post-Alcohol Use, si osserva l’emergere di una ruminazione post evento, in cui il soggetto analizza i motivi che lo hanno indotto a bere, interrogandosi sul perché provi certe sensazioni. L’effetto paradossale indotto dalla ruminazione è quello di accrescere i sentimenti negativi e le credenze metacognitive di incontrollabilità, aumentando nuovamente la possibilità di ricorrere all’utilizzo dell’alcol come tentativo di sopprimere i pensieri considerati dannosi. La circolarità con cui si presenza il problem drinking manifesta chiaramente la necessità di interrompere i processi di pensiero disfunzionali alla base del fenomeno, favorendo negli alcolisti la
consapevolezza e la capacità di autocontrollo.

Le evidenze scientifiche ed i costrutti teorici riguardo il craving, offrono una chiave di lettura indispensabile per comprendere in profondità i meccanismi sottostanti le esperienze psicofisiologiche di ciascun individuo dedito all’alcol. Ogni soggetto che fa abuso di alcol può presentare uno specifico tipo di craving (reward, relief, obsessive) o una combinazione delle varie tipologie proposte, per questo motivo un’attenta indagine clinica che analizzi i processi di pensiero (metacognizione), le componenti neurofisiologiche (rinforzi positivi/negativi), i comportamenti di ricerca della sostanza (compulsioni) l’anamnesi familiare e gli stili di personalità, potrebbe concretamente promuovere terapie farmacologiche e psicologiche ad hoc, favorendo la risoluzione delle problematiche connesse all’utilizzo disregolato di alcol ed evitando il più possibile ricadute.

Festival della Psicologia IV edizione, Torino dal 6 all’ 8 aprile 2018 – Comunicato Stampa

Festival della Psicologia IV edizione - Torino, dal 6 all' 8 Aprile 2018 - LOGO

 

Festival della Psicologia – IV edizione

Torino, 6-8 aprile 2018

Comunicato stampa

 

La quarta edizione del Festival della Psicologia si svolge a Torino da venerdì 6 a domenica 8 aprile. La manifestazione, organizzata e promossa dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte con il patrocinio e la partnership di Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte e Università degli Studi di Torino e con il patrocinio della Città di Torino, da quest’anno ha la direzione scientifica dello psicoanalista Massimo Recalcati.

Un festival multidisciplinare, a vocazione internazionale, che per tre giornate chiama alla Cavallerizza Reale di Torino psicologi, psicoanalisti, scrittori e filosofi italiani e stranieri a confrontarsi sul tema: Io non ho paura.

In programma per il Festival della Psicologia di Torino, conferenze, dialoghi e spettacoli, tutti gratuiti, che hanno l’obiettivo di coinvolgere un pubblico eterogeneo per età, formazione e interessi, offrendo strumenti di approfondimento su temi di attualità per consentire a tutti di ampliare il proprio sguardo sul mondo di oggi.

Il nostro tempo vive una condizione di angoscia di fronte al carattere anarchico e imprevedibile della violenza terrorista – spiega Massimo Recalcati – Quali sono le sue origini? Quali le ideologie e i fantasmi che nutrono lo spirito del terrorismo? Come si può vivere senza rinunciare alla vita in questo clima di insicurezza? Esistono modi per pensare individualmente e collettivamente una prevenzione possibile della violenza? A queste e ad altre domande che toccano nel vivo anche la pratica quotidiana dello psicologo queste giornate cercheranno di offrire delle risposte ragionate, invitando a prendere la parola, oltre ai colleghi psicoanalisti e psicoterapeuti, intellettuali, filosofi e scrittori.

Continua, con questa quarta edizione, il percorso di discesa nell’animo umano del Festival della Psicologia di Torino – aggiunge Alessandro Lombardo, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte e direttore organizzativo della manifestazione – Un festival che ha l’ambizione di portare la psicologia, e gli psicologi, sempre più vicino alla vita delle persone. Dopo aver parlato, nelle edizioni precedenti, di felicità, di fiducia, di storie, quest’anno ci immergiamo in una tra le più oscure emozioni dell’animo umano: la paura. Come sempre, il nostro obiettivo è trovare una strada che ci permetta di affrontare le paure che il vivere può metterci di fronte.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Festival della Psicologia IV edizione - Torino, dal 6 all' 8 Aprile 2018 - Massimo Recalcati

Imm. 1 – Massimo Recalcati: direttore scientifico del Festival della Psicologia di Torino IV Edizione

 

Festival della Psicologia di Torino – Il programma:

Venerdì 6 aprile

Apre il Festival della Psicologia di Torino il dialogo tra il fondatore della comunità monastica di Bose Enzo Bianchi – nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani da Papa Francesco – e il palestinese Izzeddin Elzir, Imam di Firenze e oggi al secondo mandato come Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, su Religioni e violenza. Modera l’incontro lo psicologo Mauro Grimoldi.

Il saggista Lucio Caracciolo, uno dei massimi esperti italiani di geopolitica, dedica una lectio magistralis al tema Chi sono e cosa vogliono i terroristi. L’obiettivo dei terroristi è di generare paura e quindi risposte irrazionali nel nemico, indebolendolo, snaturandolo e possibilmente battendolo. Nell’epoca attuale, l’efficacia del terrorismo è accentuata dall’eco mediatica che normalmente riceve. Cuore della lezione è il terrorismo di matrice jihadista e le reazioni che esso ha provocato, con una particolare attenzione al caso italiano.

Sabato 7 aprile

Durante la seconda giornata del Festival della Psicologia di Torino, lo psichiatra e psicoanalista Maurizio Balsamo, direttore di ricerca in Psicopatologia psicoanalitica all’Università di Parigi Sorbonne Cité, si confronta con lo scrittore Marco Belpoliti cercando di indagare la mente del terrorista. Le radici politiche, economiche e storiche del terrorismo non bastano a spiegarne la crudeltà e distruttività, quindi non c’è forse altra soluzione, per tentare di comprendere, che far ricorso alla psicoanalisi. Secondo Balsamo, lo slegamento di tutti i processi culturali e di umanità determina la dimensione mortifera di alcune comunità che tendono al proprio annientamento – nel gesto del suicidio o nel progetto megalomane di dominare il mondo – e rimettono in circolo arcaismi simbolici, linguistici, rituali del passato che mostrano un carattere altamente anacronistico. Marco Belpoliti indaga le motivazioni per le quali il martirio è diventato un’attrattiva possibile per giovani uomini e donne: è la giovinezza, infatti, uno degli elementi che accomunano gli attentatori, sempre più spesso adolescenti, manipolati da predicatori più anziani e indotti con la promessa di una vita ultraterrena migliore, a sacrificare le loro giovani vite per la causa della jihad islamica. Di questo gesto estremo, che sfugge al pensiero razionale, si indagano le motivazioni annidate nel credo religioso o ideologico di quella popolazione musulmana che, nelle periferie urbane di Londra, Parigi, Bruxelles, Nizza, vive un senso di inferiorità.

La filosofa e scrittrice Federica Manzon conversa con lo psicoanalista Francesco Stoppa su Eredità della violenza e del terrore. La prima si concentra sullo spazio della letteratura, oggi, di fronte alle nuove forme di violenza e terrorismo: come si articola il rapporto della finzione con una violenza già da subito spettacolarizzata e narrativizzata? Gli scrittori hanno la possibilità di raccontare il male, non tanto nel suo legame con la morte o il nulla, ma piuttosto nel legame che mantiene con la vita, con il desiderio, con l’affermazione di sé. Francesco Stoppa spiega invece come la psicoanalisi leghi la questione della violenza nelle sue varie declinazioni – individuali, di coppia, sociali – alla complessa e ambigua vicenda della costituzione e autoconservazione dell’io, cosa che, paradossalmente, finisce per mettere l’io stesso e il mondo alla mercé della pulsione di morte e di negazione della vita.

Il concetto di confine è indagato dai filosofi Rocco Ronchi, fondatore della Scuola di Filosofia Praxis di Forlì e del Centro Studi di Filosofia e Psicoanalisi Après-coup dell’Università de L’Aquila, e Simona Forti, docente della New School for Social Research di New York. L’identità è un costrutto della memoria che presuppone, per essere tematizzata, una distanza. Per avere un’identità bisogna infatti averla perduta in qualche modo. Per tracciare un confine, invece, occorre averlo valicato. Non c’è dunque identità né confine senza un preliminare esodo, che esprime la condizione umana stessa.

La relazione fra Trauma e perdono è il focus sul quale si concentrano la psicologa clinica e psicoterapeuta Clara Mucci, lo psicoanalista argentino Aldo Becce e Mauro Grimoldi, psicologo e coordinatore scientifico della Casa dei Diritti di Milano, indagando i tre principali livelli traumatici – il trauma relazionale infantile; il trauma di abuso, deprivazione e maltrattamento, con particolare attenzione alla dinamica tra vittima e persecutore, e il trauma sociale massivo, come la Shoah – e le dinamiche intergenerazionali della trasmissione traumatica, per offrire alcune indicazioni sulla realtà contemporanea. Il trauma ferma il tempo e agisce sulla psiche come evento da evitare, ripetere, negare, ostentare oppure elaborare, perdonare, dimenticare. È possibile dimenticare la ferita che esso provoca e andare oltre, rinunciando al dolore che si trasforma in senso di vita, motore di rivendicazione, fonte inesauribile di odio?

Chiude il pomeriggio la lectio magistralis di Massimo Recalcati sul tema Violenza e terrore: il gesto di Caino sorge da un fenomeno di fascinazione, perché Abele è il suo ideale irraggiungibile e l’odio è quindi fomentato da un eccesso di idealizzazione. Esiste però un’altra radice della violenza: lo straniero è odiato perché differente, difforme, per nulla ideale. L’odio può quindi essere anche la manifestazione esterna dell’angoscia che troviamo di fronte all’ingovernabile di cui lo straniero è l’emblema.

Ultimo appuntamento della giornata è lo spettacolo Edipo Re, a cura della compagnia Archivio Zeta. La tragedia di Sofocle è introdotta dall’esperto del mondo antico Federico Condello, il quale spiega perché quello di Edipo è il dramma per eccellenza.

Domenica 8 aprile

I filosofi Bruno Moroncini e Simone Regazzoni parlano di Accoglienza: condizionata o incondizionata? Se bisogna evitare gli effetti negativi di un’ospitalità illimitata e calcolarne i rischi, non si deve però mai chiudere la porta all’avvenire e all’altro: ecco la doppia legge dell’ospitalità. Infatti, pensando a quanto oggi accade in Italia e in Europa attorno al fenomeno delle nuove migrazioni di massa, occorre comprendere che l’istanza etica dell’ospitalità incondizionata deve essere tradotta in politiche in grado di gestire, concretamente, un fenomeno regolato da leggi e frontiere.

Il terrore spiegato ai bambini è il titolo della conferenza dello psicologo e psicoanalista, membro dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, Uberto Zuccardi, con la responsabile di VIOLE-LAB (Laboratorio Pedagogico sulla Violenza) Elisabetta Biffi. Due sono i piani del rapporto tra bambini e terrore, uno psichico e uno che tocca l’attualità dello spettacolo del terrore. L’inizio della vita imprime nello psichismo la traccia del “terrore” e i bambini sono, in questo senso, “esperti” della paura: il male, il sentimento della morte, sono componenti fondamentali del reale psichico e, pertanto, sono anche un’irresistibile fonte di attrazione. Per quanto riguarda l’esposizione contemporanea dei bambini allo spettacolo del terrore, amplificata dai media, come possono gli adulti spiegare ai bambini la negatività del male, la sua insensatezza, affinché non diventi per loro, tragicamente, qualcosa di normale e banale? Il terrore è qualcosa che fa tremare, aggiunge Elisabetta Biffi, impedisce l’azione, toglie il respiro. La prima istintiva forma di protezione è comprensibilmente la fuga e l’evitamento, da mettersi in atto soprattutto verso i più piccoli: allontanarli dall’esperienza del terrore, minimizzarne i segnali, tacere. Trovare, invece, forme di mediazione fra il dovere di spiegare e il bisogno di comprendere il terrore è la vera sfida educativa.

Come si può Prevenire la violenza? È quanto si chiedono Federico Condello, il giornalista Gad Lerner e la pedagogista Jole Orsenigo, docente di ermeneutica della formazione. Lerner osserva come oggi l’umana ricerca di emozioni tenda a riversarsi nelle più diverse forme di intrattenimento fornite dalla realtà virtuale, che si contraddistingue anche per l’esercizio di una violenza verbale – per ora – sostitutiva della violenza fisica. Dove però regna la povertà la pratica quotidiana della violenza subisce un’accelerazione e l’esperienza storica sembra indicare come ineluttabile, prima o poi, il passaggio dalla violenza verbale alla violenza fisica. Prima di porre la questione di come prevenire la violenza, occorrerebbe riconoscere la “violenza” necessaria e utile a educare: è quanto aggiunge Jole Orsenigo. Non esiste gesto educativo senza esercizio di potere (e d’amore) il che non legittima affatto tutte le forme che il “sadomasochismo pedagogico” ha assunto e può assumere.

Chiude il Festival della Psicologia di Torino la lectio magistralis della psicoanalista franco-marocchina Houria Abdelouahed, dell’Università Diderot di Parigi, Donne Islam e violenza. L’Islam ha instaurato un mondo gerarchizzato, che riceve le sue leggi dall’alto. Il religioso ha istituito una supremazia del maschile che ha fondato il politico sacro. I testi degli agiografi sono così diventati il Testo del pensiero politico e costituiscono l’humus concettuale che ha impedito l’autonomia e l’emancipazione della donna. Il destino collettivo delle donne è talmente imbevuto di violenza sacralizzata da compromettere il senso delle esperienze individuali di ognuna.

Tutti gli appuntamenti del Festival della Psicologia di Torino sono a ingresso gratuito con prenotazione

Date

  • Dal 6 all’ 8 aprile 2018

Luoghi

  • Aula Magna dell’Università degli Studi di Torino – Cavallerizza Reale (via Verdi, 9) |
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FESTIVAL DELLA PSICOLOGIA – IL PROGRAMMA COMPLETO:

I riverberi psicologici della povertà

La povertà, come condizione che caratterizza alcuni strati della popolazione mondiale, a livello psicologico produce delle conseguenze sulla salute mentale e sulle funzioni cognitive degli individui. Nello specifico, essa incide negativamente sull’attenzione, sulla memoria di lavoro e sulla capacità di autoregolazione del soggetto.

 

Le conseguenze della povertà sulla salute mentale degli individui

La povertà come condizione che caratterizza alcuni strati della popolazione è stata frequentemente analizzata dal punto di vista macroeconomico, ovvero come un fenomeno frutto dello squilibrio nella distribuzione delle risorse fra i diversi contesti antropologici del pianeta terra (Adamkovič e Martončik, 2017).

A livello psicologico, la povertà è stata studiata soprattutto per quello che riguarda le conseguenze che essa produce sulla salute mentale degli individui e nei riverberi che determina sulle funzioni cognitive (Džuka e al., 2017). Più ricerche relative all’indigenza hanno avuto come focus concettuale il capire come i comportamenti individuali possano far perpetuare una condizione di povertà invece che indurre delle pratiche di emancipazione da essa. Tali condotte sono frequentemente ascrivibili a fattori personali. In pratica, queste peculiarità individuali causano dei comportamenti improduttivi dal punto di vista economico, un’inadeguatezza nel prendere delle decisioni e una scarsa considerazione per il proprio benessere sia fisico che mentale (Mani e al., 2013). Il fattore determinante è rappresentato dall’incapacità di decidere saggiamente in ambito economico (Haushofer e Fehr, 2014).

La povertà, secondo la definizione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (1995), può essere considerata una condizione contrassegnata da un insieme di parametri, quali un introito economico non adeguato alle esigenze di vita e, quindi, la mancanza di risorse tali da garantire una qualità della vita dignitosa, la non soddisfazione dei bisogni primari, uno stato di salute non omologabile ad una condizione di benessere, l’esclusione dai processi di scolarizzazione e di acculturazione, il vivere in contesti abitativi non idonei, l’esclusione sociale.

Le ripercussioni della povertà sulle funzioni esecutive

Come si è detto, la povertà ha dei riverberi sulla cognitività del soggetto. In altri termini, l’indigenza comporta un carico cognitivo notevole, derivante dallo stress che le precarie condizioni di vita inducono (Shah e al., 2012; Haushofer e Fehr, 2014). Nello specifico, la povertà protratta genera delle ripercussioni negative sulle funzioni cognitive esecutive. Inoltre, uno stato di povertà è associato ad un incremento di episodi depressivi nell’adulto (Najman e al., 2010). La condizione di povertà cronica accresce la produzione di cortisolo plasmatico, che è considerato l’ormone dello stress, come rivelano diverse ricerche (Blair e al., 2011; Butterworth e al., 2011).

Nell’ambito delle funzioni esecutive cognitive, quelle che risentono maggiormente nell’adulto di una condizione di ristrettezza sono rappresentate dall’attenzione, dalla memoria di lavoro e dalla capacità di autoregolazione (Adamkovič e Martončik, 2017).
Lo stress associato ad uno stato di disagio economico è responsabile di una diminuzione delle capacità attentive, che si ripercuote sulle performance cognitive del soggetto (Mani e al., 2013; Shah e al., 2012).

La memoria di lavoro o memoria a breve termine è quel magazzino di memoria destinato ad accogliere le informazioni per un breve periodo. Diverse ricerche hanno analizzato le interrelazioni fra povertà e memoria di lavoro, soprattutto nell’età evolutiva. Da questi studi si evince che lo stato d’indigenza determina una scarsa capacità ritentiva della memoria a breve termine sia nell’infanzia (Pavlakis e al., 2015; Rowe e al., 2016) che nell’età adulta (Evans e Fuller-Rowell, 2013).

La capacità di autocontrollo può essere definita come l’abilità dell’individuo di controllare la propria attenzione, i pensieri, i comportamenti e le emozioni (Diamond, 2013). Le continue preoccupazioni economiche, che si verificano in una condizione di indigenza cronica, hanno un impatto negativo sulla capacità di autocontrollo (Hofmann e al., 2012; Vohs, 2013). Infatti, il soggetto è incapace di governare i suoi pensieri e i suoi comportamenti, accedendo a delle forme marcate di impulsività (Vohs, 2013).

In conclusione, una condizione di indigenza protratta produce dei riverberi negativi sull’attenzione, sulla memoria di lavoro e sulla capacità di autoregolazione dell’individuo.

Keywords: povertà, effetti negativi, attenzione, memoria di lavoro, capacità di autoregolazione.

Imparare a porre critiche costruttive per favorire uno sviluppo sano nei bambini

L’abilità degli adulti di porre critiche costruttive e non distruttive risulta essere fondamentale. Lo stesso vale anche per gli insegnanti nel contesto scolastico e per gli allenatori in ambienti sportivi. In questi casi, una comunicazione costruttiva favorisce un maggior senso di benessere nei bambini e anche una maggiore possibilità di raggiungere i risultati desiderati.

 

Il compito degli adulti (genitori, insegnanti o allenatori) è aiutare i bambini a crescere. Per raggiungere quest’obiettivo, l’abilità degli adulti di porre critiche costruttive e non distruttive, risulta essere fondamentale. Nonostante i genitori desiderino il meglio per i propri figli, inconsapevolmente, possono adottare delle strategie disfunzionali di comunicazione con questi ultimi. Lo stesso vale anche per gli insegnanti, nel contesto scolastico e per gli allenatori, in ambienti sportivi. In questi casi, una comunicazione efficace favorisce un maggior senso di benessere nei bambini e anche una maggiore possibilità di raggiungere i risultati desiderati.

Le caratteristiche di una comunicazione costruttiva e distruttiva

Esploriamo le caratteristiche di una comunicazione costruttiva:

1. I feedback, positivi o negativi, sono rivolti al comportamento. Ad esempio, “Bel tiro”, invece che “Bravo”. Rimandare un feedback sul comportamento, evita l’attribuzione di etichette che possono risultare dannose.
2. I feedback si concentrano sul processo. Ad esempio, “Ti sei impegnato molto e la verifica è andata bene”, favorisce una maggior senso di autonomia e aumenta l’ autoefficacia.
3. Dopo una critica, è importante evidenziare l’applicazione di altre possibili strategie. Questo, orienta l’attenzione del bambino verso il nuovo comportamento da mettere in atto, piuttosto che sulla percezione d’incompetenza.
4. Mettere in evidenza la motivazione intrinseca del bambino, attraverso delle lodi sincere e costruttive, piuttosto che sull’utilizzo di premi.
5. Adottare un linguaggio non verbale e un atteggiamento che esprimono tranquillità. Questo, favorirà, a sua volta, un atteggiamento più calmo del bambino e una maggiore possibilità di interiorizzare il feedback.

Questo consente di mantenere una relazione sana con il bambino.

Al contrario, una modalità distruttiva di comunicazione:

1. I feedback sono rivolti alla persona. Ad esempio, “Sei cattivo”, “Sei lento”. E’ consigliabile evitare questa tipologia di feedback, a causa degli effetti dannosi che attribuire un’etichetta, senza alcuna spiegazione, porta con sé.
2. I feedback si concentrano sul risultato. Ad esempio, “Sono contento/a che tu abbia preso 8” riduce il senso di autonomia e può spostare il focus della motivazione da intrinseco a estrinseco.
3. La critica non è accompagnata da strategie utili. In questo caso, l’adulto esprime solo la critica, il che porta a un senso di frustrazione crescente nel bambino, a causa del fallimento e anche per il fatto di non conoscere altre possibili strategie d’intervento.
4. Il feedback si concentra sui premi. Fornire sistematicamente dei premi riduce la motivazione intrinseca del bambino.
5. Il linguaggio non verbale è carico di emotività negativa (rabbia, frustrazione). Questo, incrementa nel bambino un senso di disagio e incomprensione da parte dell’adulto, che agisce negativamente sulla crescita del bambino.
Tutto ciò incide negativamente sulla relazione con il bambino.

I vantaggi di una comunicazione costruttiva

Comunicare feedback in maniera costruttiva, porta con sé diversi vantaggi, tra cui:
– L’adozione di una teoria incrementale: l’abilità è ritenuta non fissa e modificabile; per questo, il bambino, intrinsecamente motivato, ritiene che con l’impegno e con l’adozione di diverse strategie, riuscirà a superare le difficoltà che si presenteranno.
– Aumento della percezione di autoefficacia: cioè, la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico (Bandura, 1986).

Al contrario, comunicare feedback in maniera distruttiva comporta:
– L’adozione di una teoria dell’entità: si basa sul fatto che quell’abilità è ritenuta fissa e immodificabile, nel senso che l’individuo non pensa di poter superare i propri limiti. Il bambino, non intrinsecamente motivato, avrà come obiettivo la ricerca di valutazioni positive e la tendenza a evitare le valutazioni negative.
– Riduzione della percezione di autoefficacia: i bambini per evitare di ricondurre l’insuccesso a una propria incapacità, ricorrono a strategie di auto-sabotaggio, definite operazioni di self-handicapping. Queste strategie consistono nel cercare delle scuse, crearsi degli ostacoli nell’affrontare una determinata attività, allo scopo di proteggere il proprio sé e preservare un’immagine positiva di se stessi (Dweck, 1991).

Dato che la comunicazione dei feedback è inevitabile, è importante monitorare le proprie strategie comunicative, al fine di esprimere il proprio punto di vista in maniera costruttiva e favorevole per la crescita.

Ostacoli da superare e prospettive future della teoria psicoanalitica

Il trattamento psicoanalitico fornisce una prospettiva unica sul comportamento e sull’esperienza degli esseri umani, che produce considerazioni ricche dal punto di vista evolutivo e clinicamente efficaci. Tuttavia la teoria presenta diversi limiti, che, se superati, potrebbero rendere non solo la pratica clinica più adeguata ma anche fornire importanti modelli per comprendere l’eziopatogenesi di alcuni disturbi mentali, soprattutto di origine evolutiva.

 

Affinché una somma di osservazioni cliniche possa costituire una base adeguata per una teoria psicoanalitica, devono essere soddisfatte quattro condizioni: a) un chiaro legame logico fra la teoria e la tecnica; b) in relazione al materiale clinico, un ragionamento induttivo quanto deduttivo; c) un uso dei termini privo di ambiguità; d) la volontà di esporre più materiale clinico a un esame critico dettagliato.

I limiti della teoria psicoanalitica

Presentiamo i principali limiti sui quali deve concentrarsi la teoria psicoanalitica, secondo Fonagy, per affinarsi e mettere a disposizione il prezioso contributo che si è dimostrata capace di offrire.

– La pratica clinica non è logicamente deducibile da alcuna teoria clinica psicoanalitica. L’impressione di Fonagy è che la pratica clinica psicoanalitica non sia logicamente deducibile dalla teoria a disposizione, questo per varie ragioni. E’ noto che la tecnica psicoanalitica si è sviluppata per prove ed errori, lo stesso Freud lo ha riconosciuto spontaneamente quando ha scritto: “Le regole tecniche che mi accingo a proporre sono state ricavate dalla mia personale pluriennale esperienza, dopo che risultati sfavorevoli mi hanno indotto ad abbandonare altri metodi che avevo intrapreso”. La strategia maggiormente usata in psicoanalisi clinica per costruire una teoria è l’”induttivismo enumerativo”, durante il trattamento di un paziente, si accede a un insieme di osservazioni, basate sulla valutazione ed evoluzione del processo di cura. Da questo campione vengono selezionate alcune osservazioni reputate significative, a partire dalle quali l’analista trae conclusioni sul come e sul perché il paziente agisca in un certo modo. L’analista sarà concentrato maggiormente su quegli aspetti che hanno un senso secondo i costrutti teorici che egli privilegia.

Tutto questo è utile da un punto di vista clinico, poiché aiuta lo psicoanalista a sentirsi più sicuro nella sua attività di elaborazione di un’immagine del mondo interno del paziente. La difficoltà nasce dal ruolo della teoria, che si genera a partire da osservazioni induttive, in questo modo è intrinsecamente contaminata dalla tecnica utilizzata per produrre osservazioni. La tecnica si è sviluppata in assenza di un legame serrato o coerente con la teoria, quest’ultima verrà modellata su ciò che è stato ritenuto utile dal punto di vista clinico, la pratica in questo modo non è dettata dalla teoria. Perciò, sebbene la teoria sia un completamento della pratica clinica, nessuna delle due è stata utilizzata in modo da permettere all’una di convalidare l’altra. Inoltre in psicoanalisi si pensa che le nuove teorie debbano integrare le vecchie, piuttosto che soppiantarle (Sandler,1983), esistono perciò molte concettualizzazioni in parte incompatibili, di cui bisogna avvalersi simultaneamente per fornire resoconti esaurienti. Se si vuole che l’approccio psicoanalitico sopravviva, occorre trovare il modo di rafforzare il corpo della teoria, invece che continuare a ramificarsi.

– L’uso ambiguo dei termini: La tendenza a nascondere con la retorica il debole legame fra teoria e pratica è dannosa, perché incoraggia l’illusione di una certezza basata sulla teoria. Inoltre il lento sviluppo della tecnica psicodinamica può essere dovuto alla tendenza dei teorici di cercare conferma alle proprie ipotesi nella congruenza con certe pratiche cliniche condivise. In secondo luogo, gli psicoanalisti non capiscono, né pretendono di capire, in che modo o perché la loro terapia funzioni, la natura dell’azione terapeutica della psicoanalisi è un tema che ricorre di continuo nei convegni psicoanalitici ( Glover et al, 1937). A ogni incontro i relatori sostenevano che “non si capisce in modo adeguato” come funzioni l’analisi (Fairbairn, 1958). L’assenza di definizioni operazionali può incoraggiare la frammentazione, e può anche impedire di distinguere differenze importanti fra gli approcci teorici. Spesso diversi autori psicoanalitici utilizzano diversi termini per indicare un costrutto simile, allo stesso modo alcune definizioni comuni o profili diagnostici venivano utilizzati in modi differenti. La validazione delle variabili chiamate in causa dalle teorie psicodinamiche rappresenta effettivamente una sfida difficile, data la loro complessità e difficoltà nell’operazionalizzazione.

– La condivisione e la verifica delle osservazioni cliniche: i report narrativi dei clinici sono inevitabilmente selettivi e la loro utilità scientifica ne risulta compromessa (Brown, Scheflin, Hammond,1998). La psicoanalisi dovrebbe trovare il modo di mettere a disposizione qualche parte del proprio operare a un’osservazione esterna, così che la tecnica e la teoria possano essere studiate e valutate. Se la psicoanalisi si proclama inaccessibile a osservazioni controllate e ipotesi verificabili priva se stessa dell’interazione fra dati empirici e teoria. In assenza di dati non distorti da bias, gli psicoanalisti continueranno a far ricorso all’evidenza indiretta dell’osservazione clinica.

– La natura del rapporto fra teoria e pratica: la teoria orienta i clinici nella loro opera di osservazione, descrizione e spiegazione dei fenomeni. Inevitabilmente essa influenzerà la tecnica, sebbene il legame fra le due sia così allentato. Gli psicoanalisti hanno spesso commesso l’errore di credere di essere impegnati in qualcosa di più dell’operare secondo un modello: hanno creduto che la loro pratica fosse fondata sulla teoria. Questa pretesa può portare a una sua cristallizzazione. L’illusione di un legame diretto con la teoria, associata al fatto che, in realtà teoria e pratica sono solo debolmente connesse, può indurre i clinici a un’eccessiva cautela verso la sperimentazione di nuove tecniche. Se la teoria venisse separata dalla pratica, la tecnica potrebbe progredire su un terreno empirico, in base a ciò che effettivamente funziona. Se la teoria è saldamente legata alla tecnica, i progressi teorici conducono inevitabilmente a riscontri pratici.

– La ricerca sugli esiti della psicoanalisi: nonostante il suo iniziale ottimismo riguardo l’efficacia del trattamento psicoanalitico, Freud nei suoi ultimi scritti psicoanalitici ha ripudiato le affermazioni precedenti sugli aspetti preventivi dell’analisi, affermando: “ Si ha l’impressione che non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fine risultasse che la differenza di comportamento fra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto a un’analisi non è poi così radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che in effetti sia”, inoltre ha aggiunto: “ Sembra quasi che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni ‘impossibili’ il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo” (le altre due “professioni impossibili sono governare e educare). Questo era lo stato delle cose mezzo secolo fa. Che speranze abbiamo oggi, nell’era dei trattamenti convalidati su base empirica (Lonigan, Elbert, Johnson, 1998), che premia interventi brevi strutturati, per un approccio terapeutico che si definisce libero da vincoli e da preconcetti (Bion, 1967) e calcola la durata del trattamento non in termini di una manciata di sedute ma di anni? La psicoanalisi potrà dimostrare la sua efficacia, trascurando il rapporto costi-benefici?

– Prove di efficacia del trattamento psicoanalitico: Gli psicoanalisti sono stati incoraggiati dall’insieme delle ricerche che supportano la psicoterapia dinamica breve. La psicoterapia breve può anche dimostrarsi lievemente superiore a qualche altra terapia se il disegno di ricerca comprende un follow-up a lungo termine. Uno studio, lo Sheffield Psychoterapy Project (Shapiro et al,1995) ha dimostrato l’efficacia di un trattamento psicoanalitico di 16 sedute basato sul modello di Hobson nella cura della depressione maggiore.
Vi sono prove di efficacia anche in programmi integrati per tossicodipendenti (Woody et al., 1995), per chi soffre di attacchi di panico (Milrod et al.,1997), per chi soffre di una patologia fisica grave e tanti altri disturbi.

La maggior parte degli psicoanalisti, tuttavia, sostiene che gli obiettivi e i metodi di una psicoterapia a breve termine, che prevede una seduta a settimana, non sono paragonabili a un’ analisi completa. Studi mostrano che una terapia protratta per ventiquattro mesi è risultata più efficace di una della durata di sei mesi.

Un altro studio, lo Stockholm Outcome of Psychotherapy and Psychoanalysis Project (Sandell,1999; Sandell et al.,2000), ha seguito 756 persone che hanno ricevuto un trattamento fino a tre anni di psicoanalisi o psicoterapia psicoanalitica. Al confronto finale, un’analisi di 4-5 sedute settimanali non si discostava da una psicoterapia meno intensa, ma dopo i 3 anni il miglioramento era più marcato per chi aveva usufruito della psicoanalisi rispetto alla psicoterapia psicoanalitica.

L’impatto della psicoanalisi è evidente al di là della sintomatologia, in termini di funzionamento lavorativo e salute fisica: ricerche tedesche hanno rilevato minori ospedalizzazioni, meno assenza dal lavoro e uso inferiore di medicine. E’ possibile che un trattamento psicoanalitico completo modifichi le strutture psicologiche connesse ai sistemi di regolazione dello stress, che a loro volta sono legati al funzionamento del sistema immunitario e ai processi di invecchiamento (Sapolsky,1994).

Nessuno di questi studi è riuscito a cogliere le esperienze soggettive che sono al centro del processo analitico, come se l’attuale metodologia di ricerca fosse inadeguata al compito; con i progressi della neuropsicologia dell’emozione e cognizione verranno rintracciati indicatori obiettivi per conseguire una nuova comprensione.

– La necessità di una metodologia: lo sviluppo di strumenti di ricerca costituisce una parte essenziale di questo maggior rigore metodologico. Una profonda lacuna in questo settore, che ha impedito la costruzione cumulativa di una base di conoscenza psicoanalitica, consiste nella mancanza di un sistema per descrivere i casi clinici e ciò si tratta di un’esigenza primaria. Sono necessarie anche misure che verifichino se il trattamento psicoanalitico abbia avuto luogo; si aprono così due sfide:

1) descrivere il trattamento psicoanalitico in forma che possa essere valutata;

2) dotarsi di un metodo per dimostrare l’aderenza e competenza del terapeuta nell’erogazione di un trattamento specifico.

La psicoanalisi è un trattamento lungo che fa affidamento sul materiale portato dal paziente, con tecniche astratte, ma la cui corretta applicazione dipende dalla creatività e soggettività dell’analista. L’approccio più promettente si avvale di uno strumento, lo Psychotherapy Process Q-set (Jones, Cumming, Pulos, 1993), uno strumento di 100 item, che fornisce un linguaggio di base per la descrizione e la classificazione dei processi terapeutici in uno schema sottoponibile ad analisi quantitativa. Le ore di terapia vengono classificate scegliendo gli item e l’analisi statistica è usata per identificare potenziali strutture latenti di interazione. Per valutare i cambiamenti ci si avvale successivamente dell’analisi delle serie temporali, esaminando l’evolvere nel tempo di variabili diverse.

Conclusioni, prospettive e speranze future

Non esistono valide giustificazioni per la debolezza delle prove di efficacia relative al trattamento psicoanalitico. Gli psicoanalisti dichiarano di essere all’origine intellettuale di altre talking cures (es. terapia sistemica, terapia cognitivo-comportamentale), e contemporaneamente si rifugiano dentro la relativa immaturità della disciplina per spiegare l’assenza di prove della sua efficacia. Eppure questi “derivati” della terapia psicoanalitica poggiano su prove di efficacia più solide di quelle della psicoanalisi. Tra gli ostacoli che abbiamo presentato, c’è la consapevolezza che nessuno di questi sia insormontabile.

La psicoanalisi offre non solo una tipologia di trattamento per la risoluzione di disturbi psichici, ma anche la possibilità di sperimentare ed elaborare esperienze di vita e avere diverse prospettive sul mondo. Alcuni obiettivi futuri per i clinici-ricercatori orientati psicoanaliticamente sono:
a) Abbandonare l’induttivismo enumerativo e utilizzare i metodi alternativi di raccolta dei dati messi a disposizione;

b) Definire in modo più accurato i costrutti psicoanalitici e le tecniche;

c) Sviluppare una tradizione di “studi comparativi psicoanalitici”, in cui vengono prese in considerazione cornici teoriche psicoanalitiche alternative in relazione alle osservazioni;

d) Affinare la riflessione sulle interazioni fra mondo intrapsichico e ambiente (Rutter, 1993);

e) Dedicare maggiore attenzione al contesto sociale e culturale all’interno del quale si sviluppano le relazioni d’oggetto;

f) Liberarsi degli impacci di una teoria datata e troppo specifica, focalizzandosi sugli elementi essenziali delle sue proposizioni psicologiche.

La teoria psicoanalitica è una teoria dinamica e non statica, allo stesso modo l’atteggiamento dei clinici e teorici di questa corrente dovrebbe ambire a tale forza, così da mantenere viva e sfruttare a pieno le potenzialità del suddetto approccio.

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