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Ore 15:17 Attacco al treno (2018) – Recensione del film

15:17 Attacco al treno: Un film che narra una storia vera, dove tutto è reale, a partire dagli attori, gli stessi protagonisti della “missione” che valse ai tre l’onorificenza francese, dove la suspence del pericolo di morte incombente su cinquecento anime si intreccia costantemente al racconto retrospettivo della storia di vita di tre bambini e ragazzi assolutamente ordinari, ma proiettati su scelte di vita fondate sull’altruismo.

Trama del film 15:17 – Attacco al treno

Tre uomini, un’amicizia senza tempo e ruggine, che dura dai tempi remoti delle scuole elementari.  Un’amicizia “cameratesca”, fondata sulla condivisione di momenti ludici, delle baruffe per i primi amori e su ideali e sogni, innanzitutto il sogno dell’aiuto ai bisognosi. Questo il legame tra Alek, Spencer e Anthony, i protagonisti dell’ultimo film di Steven Spielberg, ORE 15:17 Attacco al treno, che racconta la gloria e il coraggio di tre uomini comuni che riuscirono, il 21 agosto 2015, a sventare l’attacco terroristico ideato da Ayoub El-Khazzani al treno ad alta velocità Thalys Amsterdam-Parigi su cui stavano viaggiando.

Un film che narra una storia vera, dove tutto è reale, a partire dagli attori, gli stessi protagonisti della “missione” che valse infine ai tre l’onorificenza francese, dove la suspence del pericolo di morte incombente su cinquecento anime si intreccia costantemente al racconto retrospettivo della storia di vita di tre bambini e ragazzi assolutamente ordinari, ma proiettati su scelte di vita fondate sull’altruismo (questo forse può costituire la loro eccezionalità e maturità, forse a tratti esageratamente sottolineata, in un ideale dell’Io di freudiana memoria a cui aspirare, faticosamente).

L’infanzia dei tre protagonisti

Ed ecco che il film Attacco al treno “parte dalle origini” con il racconto biografico dei tre bambini discoli, provenienti da famiglie modeste, con madri disperate e richiamate all’appello dai maestri per i comportamenti irruenti dei figli (in particolare Spencer), il bullo che colleziona punizioni e rimproveri, nel contempo valoroso sognatore di una vita militare in cui si esprime il senso sociale di una vita spesa per l’aiuto ai bisognosi. Sì, perché i tre amici di infanzia coltivano il desiderio di una vita al servizio della patria e Spencer coltiva il sogno di divenire aereosoccorritore, aiutando chi si trova in difficoltà, all’insegna di un comportamento prosociale, intriso di empatia e dovere morale, secondo gli insegnamenti di Bateson e Rogers. Un sogno che non conosce minacce, tentennamenti, anche se non sempre supportato dagli stessi amici “Fai quello che devi, non devi avere l’approvazione degli altri”, recita una voce di fondo, in piena sintonia con un senso pieno di autoefficacia, intesa come consapevolezza di essere capace di dominare specifiche attività, situazioni ed eventi, in accordo con la definizione di Bandura.

Un sogno che si alimenta di duri allenamenti fisici, puntuali scoraggiamenti, soprattutto per Spencer che, a causa del suo comportamento ribelle, non si attiene esattamente ai protocolli rigidi di una vita militare e più volte rischia di mettersi in pericolo pur di “combattere fino alla fine”, sfoderando un coraggio forse superiore alla prudenza che richiedono le situazioni di emergenza. Un comportamento senza timori che si dimostrerà essenziale nello scontro fisico con l’attentatore senza scrupoli dove la collaborazione dei tre amici risulterà preziosa nel tentativo di sventare una strage e mettere in salvo i feriti.

L’eroismo e il senso di responsabilità come qualità dei protagonisti

Eroismo, senso di responsabilità, sangue freddo, tutti ingredienti in grado di dare senso a un’esistenza, per certi versi vissuta nei rimproveri subiti e fatti a se stessi (Spencer che combina guai a scuola e delude la madre costantemente), e poi confortata dalla preghiera del perdono e della pace, recitata dallo Spencer bambino dopo i rimproveri materni “Signore, fai di me uno strumento di pace. Solo dando si riceve”. E nel senso del donare si può riassumere il film: un dono di un corpo insanguinato e ferito nella colluttazione con un attentatore senza scrupoli, il dono della vita restituita a chi probabilmente, la vita, l’avrebbe lasciata su un treno passeggeri.

Una visione quasi mistica, un’aderenza a un ordine morale che coincide con il bene della società, dove riecheggia la teoria di Kohlberg sullo sviluppo morale, in particolare riferita al livello post-convenzionale da lui descritto. “Perché nei momenti di crisi bisogna fare qualcosa. Rischiare la vita per la libertà. Bisogna aiutarsi tutti nella comunità umana”, frase toccante della cerimonia premiale all’Eliseo dove il presidente Hollande consegna  laLégion d’honneur agli eroi del treno, e che lascia lo spettatore affascinato dal coraggio di eroi del tutto comuni, spingendolo forse a riappropriarsi di uno spirito comunitario e altruistico, che vada al di là della tendenza al disimpegno morale nei contesti di emergenza, del tutto in contrasto con quanto stabilito dai noti esperimenti sociologici di Darley & Latané sulla diffusione della responsabilità.

Conclusioni

Ore 15:17 Attacco al treno, un film dove i colpi di scena (a partire dalla vita militare e dai suoi vincoli fino allo scontro violento con l’uomo armato del treno passeggeri) si uniscono a flashback intrisi di spiritualità o del racconto di una quotidianità giovanile spesa tra amori e amicizie, racconto che talvolta, a dire il vero, si prolunga oltremodo e che appare poco collegato alla trama dell’attentato, a cui, in verità, non resta che lo spazio di pochi minuti. Minuti che, a onor del vero, avrebbero meritato un tributo ben più ampio, ma che comunque simbolizzano il potere del bene di dominare il male e il potere dei sogni di realizzarsi, “perché forse tutti siamo chiamati, in qualche modo, a qualcosa di più grande”.

Autismo: un focus sull’Applied Behaviour Analysis (ABA)

Diversi sono gli approcci comportamentali impiegati nell’ ambito dell’ autismo, tra i più importanti troviamo: l’ ABA (Applied Behavior Analysis), il TEACHH (Treatment And Education Of Autistic And Related Comunication Handicapped Children) e il metodo Portage.

Mara di Paolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Introduzione: l’ autismo

La Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA) nel 2006, ha definito l’ autismo come: “una sindrome comportamentale, causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri” (Baird et al., 2003; Berney, 2000; Szatmari, 2003). L’ Autismo, pertanto, si configura come una  disabilità  “permanente” che accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se con un’espressività variabile nel tempo.

Diversi sono gli approcci comportamentali impiegati nell’ambito dell’ autismo, che descriveremo di seguito.

ABA (Applied Behaviour Analysis)

L’ ABA (Applied Behavior Analysis) ovvero l’analisi applicata del comportamento, si basa principalmente sui principi comportamentali del condizionamento operante, al fine di indurre un processo di normalizzazione, attraverso lo sviluppo di pattern comportamentali adattivi. Il luogo privilegiato di questo trattamento è il contesto in cui il bambino vive, casa sua, la sua scuola (Lovaas et al; 1990). In breve, le caratteristiche precipue di questo intervento sono:

  1. La programmazione di un intervento creato ad hoc per ciascun bambino, valutando le potenzialità e lacune, cercando di ampliare il repertorio comportamentale adattivo, riducendo il più possibile i comportamenti-problema.
  2. L’inizio dell’intervento è immediato. Si è osservato attraverso ricerche sull’efficacia di questo metodo, come l’efficacia sia direttamente proporzionale all’età d’inizio del trattamento (iniziare a lavorare con una bambino di 18 mesi è molto meglio che iniziare a lavorare con un bambino di 5 anni ) e l’intesività temporale.
  3. Il trasferimento dell’intervento ai contesti naturali. I genitori essendo sempre presenti agli incontri quotidiani del proprio bambino con i tecnici ABA conoscono le finalità del programma e possono anche loro mettere in pratica le modalità educative più consone.
  4. Il programma è intensivo sia nei termini di tempo, sia per il coinvolgimento di quante più persone siano quotidianamente a contatto con il bambino (genitori, fratelli, insegnanti, perenti, educatrici, etc..).

L’ Applied Behaviour Analysis verra’ ulteriormente approfondita nel paragrafo 2 di questo articolo.

TEACHH (Treatment And Education Of Autistic And Related Comunication Handicapped Children)

Il TEACHH  è una modalità di presa in carico globale del bambino con autismo (Schopler et al.; 1980). Il modello pone molta attenzione all’organizzazione degli spazi fisici, ai compiti materiali di tipo visivo-spaziale, all’organizzazione dell’ambiente e alla creazione di contesti facilitanti, al fine di rendere l’ambiente il più possibile adatto alle abilità del bambino. Ergo genitori, terapisti, educatori non devono limitarsi all’insegnamento di nuove abilità, ma anche nella facilitazione dell’uso indipendente delle abilità possedute. Bisogna prestare quindi molta attenzione a come si strutturano gli spazi fisici, la disposizione dei mobili e dei materiali all’interno dei vari contesti in cui il bambino quotidianamente vive. Il TEACHH programma minuziosamente le sequenze d’azione o attività, che si svolgono nel tempo come uno schema della giornata visualizzato composto da foto, oggetti, fotografie, agende, etc.. a seconda chiaramente della persona che ne usufruisce, questo permette di ridurre nel bambino la frustrazione o lo stress, che potrebbe provare di fronte all’incomprensione delle cose da dover fare. I genitori sono coinvolti all’interno del trattamento e concertati con i professionisti, ciascuno portatore di un proprio sapere e contributo, i genitori massimi conoscitori del figlio e i professionisti conoscitori della tecnica.

Metodo Portage

Il Metodo Portage (Bacci, Menazza, Vio, 2010) è un metodo educativo precoce, che fa leva essenzialmente sulla formazione dei genitori. Il programma ha preso il nome dalla cittadina in cui è nato, consisteva inizialmente in un intervento domiciliare per venire incontro alle esigenze delle persone, che non potevano muoversi da casa con frequenza, per raggiungere i vicini centri riabilitativi. Pertanto un operatore specializzato visitava una volta alla settimana la famiglia, per insegnare direttamente ai genitori i modi più idonei per facilitare lo sviluppo del figlio autistico. Per rendere più efficace l’intervento, alle famiglie venivano anche consegnate delle schede su cui lavorare che spiegavano le tecniche educative più efficaci. Inoltre ad ogni visita venivano valutati i progressi del bambino, le impressioni dei genitori e aggiornato di volta in volta il programma, in base ai dati rilevati, con obiettivi realistici e raggiungibili. Nel corso del tempo poi le visite si diradavano in modo da rendere sempre più autonomo ciascun genitore. Anche in Italia il programma si è rivelato assai flessibile, in quanto l’intervento non è volto solo a colmare il ritardo che il bambino ha accumulato, ma anche a prevenirlo. L’efficacia di questo metodo però dipende dalla precocità d’inizio (0-6 anni), anche se sono stati raggiunti buoni risultati con bambini di età superiore. Il programma non offre ricette immediate, ma necessita della flessibilità e dell’ingegnosità genitoriale nell’applicazione dei consigli educativi. Inoltre le attività domiciliari non risultano mai essere sostitutive dei programmi riabilitativi quali quelle del logopedista, del fisioterapista etc…

Un approfondimento sull’ Applied Behaviour Analysis (ABA)

L’ ABA (Applied Behaviour Analysis = Analisi Applicata al Comportamento) in termini generali è un insieme di procedure applicative che trovano fondamento nella teoria dell’ Analisi del Comportamento (Skinner, 1953). Tali procedure hanno riscontrato un grandissimo successo di impiego in vari ambiti, non solo clinico e riabilitativo ma anche nel settore economico ed organizzativo. Questa precisazione è doverosa per non correre il rischio di ridurre l’ ABA al solo metodo di trattamento per l’ autismo.

L’ Applied Behaviour Analysis per l’ autismo può essere descritto come un insieme di procedure di intervento intensivo precoce, che applica i principi comportamentali, che hanno avuto una convalida scientifica, con l’obiettivo di promuovere i comportamenti adattivi e ridurre quelli problematici da impiegare con i bambini autistici (Cooper, Heron et Heward; 1989). Per fare ciò vengono, in seguito alla diagnosi emessa dalla neuropsichiatria infantile, raccolti preventivamente una serie di dati basati sull’ analisi comportamentale osservabile e quantificabile del bambino e su questa viene stilato un progetto d’intervento intensivo settimanale. È giusto ricordare che ABA (Applied Behaviour Analysis) per l’autismo è stata convalidata da diversi istituiti/enti nazionali ed internazionali tra cui: NIMH ( Ente Istituzionale Statunitense per la Salute Mentale), S.I.N.P.I.A (Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile), I.S.S. (Istituto Superiore della Sanità). Ad oggi è dimostrato che l’intervento precoce è maggiormente efficace se effettuato a livello anagrafico nei primi anni di vita, questo specialmente per la maggiore plasticità cerebrale dell’individuo che risulta essere massima rispetto ad altre fasi del ciclo di vita. Questo è comprensibile se riflettiamo sulla genesi neuronale e strutturale delle connessioni sinaptiche, che se pur geneticamente predeterminate sono vulnerabili all’impatto ambientale e possono altresì andare incontro a riorganizzazione funzionale allorquando ce ne sia necessità.

Diverse ricerche hanno appurato che un intervento precoce migliora la prognosi per i bambini con autismo, che iniziano il trattamento prima dei 5 anni (Fenske, Krantz, McClannhan;1985. Lovaas; 1987). Ulteriori studi hanno provato l’efficacia dell’intervento precoce con bambini tra i 4 e i 7 anni ( Eikeset, S. Jhar, E. Eldevik; 1999). Ciò è legato fondamentale a due fattori strettamente collegati tra loro:

  • La maggiore plasticità neuronale;
  • Il fatto che a 3 anni un bambino non ha imparato molto e non gli manca molto per raggiungere i suoi coetanei.

Progettando quindi un intervento intensivo ad hoc peculiare per ogni dato bambino autistico, da svolgersi nel contesto naturale (casa-scuola) è possibile concretamente indurre un processo di normalizzazione grazie ad una maggiore plasticità neuronale.

L’ Applied Behaviour Analysis (ABA) è l’ analisi applicata del comportamento che nell’ambito del trattamento per gli autistici si traduce in una modalità d’intervento educativa che nasce dall’applicazione dei principi comportamentali Skinneriani ed è finalizzata al superamento dei comportamenti problema e ad insegnare al bambino autistico ad apprendere, rendendo funzionale quanto appreso (Klevestrand, Isaksen, Gloersen e Ioersen, 1996).

L’ Applied Behaviour Analysis (ABA), per riuscire a fare ciò, combina diversi aspetti convalidati scientificamente in un pacchetto completo, ma altamente individualizzato a seconda del caso specifico, tra i metodi troviamo: NET (insegnamento nel contesto naturale-ecologico: casa, scuola, piscina, etc..), SEGNI (insegnamento di segni per comunicare), PECS (sistema di comunicazione tramite pittogrammi), DTT (insegnamento formale per prove discrete/strutturato), INCIDENTALE (imparare tramite stimoli).

Questo tipo d’intervento per quanto sia utilizzato con bambini autistici può essere anche utilizzato con bambini con Ritardo Mentale e Disturbi dello Sviluppo, dato che è caratterizzato da:

  • Ambiente di apprendimento positivo;
  • Validazione empirica (ricerca);
  • Coinvolgimento della famiglia (importante un Parent Training con i genitori);
  • Coinvolgimento della scuola;
  • Coerenza dell’educazione;
  • Intensività.

Le aree funzionali per l’ intervento ABA sono:

  • Comunicazione: partendo dai pre-requisiti si lavora sulla comprensione e produzione del linguaggio, fino alla formazione ed espansione delle frasi;
  • Socializzazione: si lavora prevalentemente a scuola quando ciò è possibile, e si cerca di passare dalla socializzazione nel piccolo gruppo al grande gruppo attraverso il supporto e la selezione di attività.
  • Gioco e Attività ricreative: nel gioco si lascia spazio al bambino anche in una dimensione “soliva” con l’ausilio di tecnologie, mentre nelle attività ricreative si cerca di creare socialità.
  • Abilità cognitive: dipendono dall’età anagrafica e sono connesse anche allo sviluppo scolastico.
  • Abilità scolastiche: riguardano sia le abilità cognitive, che sociali. In questo caso però si cerca di lavorare il più possibile con gli insegnanti su alcuni obiettivi, che gli stessi vorrebbero raggiungere.
  • Comportamento: riduzione dei comportamenti problema ovvero quelli che vanno a minare l’incolumità del bimbo, delle persone, o dell’ambiente. Le stesse stereotipie possono rappresentare un limite all’integrazione sociale e all’apprendimento pertanto esse stesse possono essere considerate comportamenti problema. L’eliminazione del comportamento problema è suggellata dalla sostituzione di un comportamento positivo sostitutivo, che viene scomposto e proposto in maniera accettabile e acquisibile al bambino.
  • Autonomia: si lavora sulla cura di sé per esempio a seconda dell’età anagrafica del piccolo si potrà lavorare sull’eliminazione del biberon oppure sul controllo sfinterico.

Tutti gli interventi qui esposti, seppur diversi, condividono alcuni elementi: sono tanto piu efficaci quanto preoci e intensivi (è fondamentale dunque una diagnosi precoce) e soprattutto è fondamentale che siano condivisi gli obiettivi con i genitori e i vari operatori che interagiscono con il bambino autistico.

La coppia e il sesso in gravidanza – Mamme e papà si diventa

Una domanda che molte donne si pongono è se e in che modo sia possibile fare sesso in gravidanza. Nella nostra cultura, fino ad alcuni decenni fa, si preferiva praticare l’astinenza nel timore che il rapporto sessuale potesse danneggiare il feto o generare aborti.

 

Attualmente, è ormai condiviso dalla comunità scientifica che non vi sono controindicazioni se si pratica sesso in gravidanza, tranne nei casi di gravidanze a rischio; andrebbe evitato solo nelle ultime settimane prima del parto (Imbasciati, 2015), infatti sia le contrazioni orgasmiche che la presenza di una sostanza simile alla prostaglandina contenuta nello sperma maschile possono favorire il travaglio.

Sesso in gravidanza: i timori delle coppie

Nonostante tale informazione sia ormai nota, la reazione delle coppie e in particolare della donna non è così scontata, anzi risulta influenzata da fattori psichici ed emotivi. Da un lato, infatti, nella società moderna la donna incinta ha riacquistato una sua femminilità e l’identità di donna tende ad essere conservata anche quando si acquisisce l’identità di madre, in un’ottica di maggiore unitarietà e armonia. Le neo-mamme continuano ad essere donne e compagne, oltre che mamme e questo risulta positivo per la vita di coppia (Finzi, 2011). Infatti, l’interruzione dei rapporti sessuali può far sentire il padre escluso dalla gravidanza; mantenendo l’intimità nella coppia, invece, il papà ha la possibilità di sentirsi parte del processo procreativo e questo aumenta la sua vicinanza sia alla donna che al bambino stesso.

Dall’altro lato, si osserva invece, come, nonostante le rassicurazioni mediche sulla possibilità di continuare a fare sesso in gravidanza, alle volte le coppie manifestino timori e sentimenti che impediscono che ciò accada. Questo perché il sesso, non è solo l’ incontro fisico tra due corpi, è soprattutto l’incontro tra due menti e alcuni eventi psichici possono intervenire per bloccare l’intimità. Mente e corpo sono interrelati in un processo di natura psicosomatica e il piacere sessuale scaturisce da molteplici emozioni e vissuti psicofisici. È possibile infatti percepire sensazioni fisiche sgradevoli o dolorose, che potrebbero portare all’astinenza e questo può essere legato a preoccupazioni o fantasie inconsce. Ad esempio, la presenza del bambino potrebbe essere percepita come l’essenza dell’amore e aumentare la sessualità nella coppia oppure può essere vissuta come un’invasione rispetto alla diade o una “spia” nel momento di intimità. Altri vissuti possono essere di esclusione da parte del papà dall’unione madre-bambino mentre la madre potrebbe sentirsi invasa dalla presenza del feto (Raphael-Leff, 2014).

Fare sesso in gravidanza: i benefici sul feto

Tali fantasie e timori sono assolutamente di natura psichica, in quanto fisicamente il bambino è al sicuro e non può subire nessun danno se si fa sesso in gravidanza. Anzi, in gravidanza l’eccitazione e il piacere della donna risultano spesso intensificati a causa dell’aumentata produzione ormonale e dell’elasticità della muscolatura. Alcune ricerche hanno anche dimostrato che una sana attività sessuale in gravidanza può avere un effetto positivo sul parto: infatti, le donne che hanno orgasmi in gravidanza hanno una probabilità minore di avere parti prematuri; inoltre, le prostaglandine contenute nello sperma aumentano le contrazioni uterine e possono favorire il travaglio. Anche il bambino sembra gradire la sensazione di benessere della mamma durante il rapporto sessuale, a causa del rilascio di endorfine che entrano subito in circolo.

Ciò che, dunque, può essere d’ostacolo al sesso in gravidanza sono le credenze e i falsi miti comuni o le dinamiche psichiche individuali o di coppia. Se presenti, approfondirle e comprenderne la natura può essere importante per vivere una sana e soddisfacente intimità sessuale anche in gravidanza.

Dunque, non esiste una regola su come debba essere vissuto il sesso in gravidanza; ogni coppia ha un proprio modo di vivere l’intimità che può modificarsi sulla base dei cambiamenti che la perinatalità comporta.

La stimolazione auricolare transcutanea del nervo vago (taVNS) per il trattamento della sintomatologia depressiva

Un’analisi condotta da Kong, Fang, Rong e colleghi, recentemente pubblicata su Frontiers in Psychiatry, ha mostrato come la stimolazione auricolare transcutanea del nervo vago (taVNS) sia in grado di ridurre in modo significativo alcuni sintomi caratterizzanti il disturbo depressivo maggiore (MDD) come l’ansia, il rallentamento psicomotorio, i disturbi del sonno e il senso di hopelessness.

 

Il nervo vago: che cos’è e come funziona

Il nervo vago (VN) è il nervo craniale più lungo e ramificato del corpo umano che dall’encefalo si estende nel tronco fino alla cavità addominale; facente parte di un intricato network neuro-immuno-endocrino, esso presiede al mantenimento dell’omeostasi di molteplici sistemi (Yuan, 2016).

Infatti grazie alle sue molteplici connessioni, funge da “controllo centrale”, integrando le informazione enterocettive provenienti dal sistema cardiovascolare, respiratorio e viscerale e rispondendo in modo appropriato, tramite modulazione, ai feedback che riceve.

Recenti studi hanno mostrato come il nervo vago sia altresì coinvolto nella regolazione infiammatoria, del dolore e dell’umore.

Per tale ragione, nel 2005 la US Food and Drug Administration ha approvato per la prima volta la stimolazione cervicale del nervo cranico come trattamento per alcune patologie tra cui la depressione cronica farmaco-resistente e l’epilessia refrattaria (Yuan, 2016).

La stimolazione transcutanea del nervo vago

Da quel momento sono stati sviluppati diversi metodi di stimolazione transcutanea non invasiva del nervo vago, in particolare due: il primo prevede l’applicazione nella zona cervicale di un semplice device chiamato GammaCore, il secondo invece prevede una stimolazione nella regione dell’orecchio.

Il razionale dell’applicazione di tale stimolazione vagale, tramite agopuntura o blandissimi impulsi elettrici, partendo dalla regione dell’orecchio (taVNS), si basa su numerosi studi di anatomia che dimostrano come il ramo auricolare del nervo vago sia distribuito per la maggior parte nella conca superiore e inferiore dell’orecchio incluso il canale uditivo esterno; pertanto queste aree rappresentano il target per la taVNS.

Un recente studio di Kraus e colleghi (2013), confrontando gli effetti evocati dalla taVNS con i segnali provenienti dalla fMRI, ha mostrato una significativa diminuzione di quest’ultimi per alcune regioni cerebrali come il giro paraippocampale, la corteccia cingolata posteriore e la parte destra del talamo a seguito della stimolazione del quadrante posteriore e anteriore del canale uditivo sinistro.

Tale risultato suggerisce che la taVNS in alcune zone specifiche dell’orecchio potrebbe modulare pattern cerebrali differenti che a loro volta potrebbero essere associati a differenti effetti; tuttavia future ricerche sono necessarie per indagare più dettagliatamente il legame tra specifiche aree cerebrali e differenti aree dell’orecchio.

Hein e colleghi (2013) furono i primi ad utilizzare la taVNS bilaterale su soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore trattato con antidepressivi.

I soggetti furono divisi in due gruppi che poi vennero confrontati tra loro: uno riceveva realmente la taVNS, mentre l’altro riceveva una stimolazione solo simulata.

Dal confronto i ricercatori mostrarono come nel gruppo dei soggetti realmente stimolati vi era stato un miglioramento significativo dei sintomi depressivi, misurati tramite il Beck Depression Inventory, dopo cinque sedute a settimana per due settimane, rispetto al gruppi di soggetti che non avevano ricevuto la stimolazione.

In aggiunta a tali risultati, uno studio clinico precedente di Rong e colleghi (2016) ha mostrato effetti della taVNS simili in soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore che erano stati istruiti a metterla in atto quotidianamente a casa: i pazienti che mettevano in atto la taVSN mostravano una diminuzione della sintomatologia depressiva nei punteggi della Hamilton Depression rating scale (Hamilton, 1960) in particolare per il rallentamento psicomotorio, i disturbi del sonno e la sensazione di hopelessness.

L’ipotesi dell’efficacia della taVNS per il disturbo depressivo maggiore

Secondo l’ipotesi eziopatologica del disturbo depressivo maggiore che associa la patologia ad una disregolazione del circuito limbico-corticale, le aree cerebrali coinvolte sarebbero associate a due componenti: una più vegetativa-somatica che coinvolge l’ipotalamo, l’amigdala, l’ippocampo, l’insula anteriore, l’altra più attentiva-cognitiva (dlPFC, la corteccia parietale inferiore) (Mayeberg, 1997).

Uno studio di Conway, Price e colleghi (2013) ha mostrato come il nervo vago abbia connessioni e influenze sia dirette che indirette sul circuito limbico-striato-talamico-corticale; a dimostrazione di ciò, la taVNS può produrre in ampia misura la modulazione dell’attivazione delle proiezioni terminali vagali “classiche” che si diramano fino l’insula anteriore, il locus coeruleus, l’ipotalamo, la corteccia cingolata anteriore, il nucleo del tratto solitario.

Altri studi hanno suggerito un ruolo di rilievo del nervo vago nella modulazione non solo dei circuiti cerebrali coinvolti nella depressione ma anche del sistema infiammatorio attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e l’inibizione dei glucocorticoidi delle vie infiammatorie periferiche (Bellavance, 2014).

In aggiunta uno studio di Cryan & Dinan (2012) ha evidenziato come la flora batterica intestinale possa influenzare alcune funzioni cerebrali, l’umore e il comportamento interagendo con il sistema nervoso centrale tramite meccanismi endocrini e immunitari.

In particolare è stato dimostrato come il microbiota intestinale sia essenziale per la modulazione della risposta comportamentale allo stress, come l’ansia e la depressione (Fung, Olson et al., 2017).

Il nervo vago pertanto potrebbe essere in grado anche di modulare le funzioni dei sistemi sopracitati producendo degli effetti sulla sintomatologia depressiva tramite l’influenza sull’asse microbiota-intestino-sistema nervoso.

La somministrazione della taVNS ha una durata che va dai 30 minuti due volte al giorno a 15 minuti per cinque volte a settimana; tuttavia la frequenza e l’intensità per ottenere la “dose” giusta di taVNS per produrre degli effetti significativi sono ancora oggetto di numerosi studi in quanto diverse frequenze di questa stimolazione possono produrre dei cambiamenti diversi a livello cerebrale e un diverso rilascio neurotrasmettitoriale (Kong, Fang, Rong, 2018).

Riconciliare causazione cognitiva e causazione ambientale: un approccio funzionale alla cognizione

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione.

Davide Carnevali

 

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione, dimostrando come l’ approccio funzionale alla cognizione, fortemente enfatizzato dal programma di ricerca comportamentale sulle risposte relazionali derivate, il cui prodotto ultimo è la Relational Frame Theory, (Sidman & Tailby, 1982; Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Törneke, 2010; Cassidy, Roche & O’Hora, 2010), abbia gettato le basi per una fruttuosa collaborazione tra entrambi gli orientamenti.

Analisi del comportamento e psicologia cognitiva: due isole dello stesso arcipelago

Fino ad aggi, la relazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva può essere paragonata alla relazione esistente fra tribù che vivono su isole remote appartenenti allo stesso arcipelago (Hughes, De Houwer, & Perugini, 2016). Questa mancanza di interazione non è sorprendente alla luce di ciò che è stato detto e scritto da entrambe le parti sulla relazione tra analisi comportamentale (o comportamentismo in senso più ampio) e psicologia cognitiva.

Gli psicologi cognitivi hanno creato il mito della “rivoluzione cognitiva” (vedi Watrin e Darwich, 2012, per un’eccellente revisione) che avrebbe comportato la fine del comportamentismo, in modo simile a quello in cui una specie animale viene soppiantata dall’avvento di un’altra nel corso dell’evoluzione naturale. Questo mito pretende di affermare la superiorità esplicativa della psicologia cognitiva rispetto all’ analisi del comportamento, considerando quest’ultima definitivamente estinta o comunque in via di estinzione. Le varianti di questo mito sono così diffuse nei libri di testo universitari introduttivi alla psicologia che, con ogni probabilità, la grande maggioranza degli psicologi laureati negli ultimi 20 anni sono beatamente inconsapevoli dei risultati o persino dell’esistenza dell’ analisi del comportamento (Hobbs & Chiesa, 2011).

Skinner, padre dell’ analisi del comportamento, da parte sua, ha fatto ben poco per favorire il riavvicinamento con la psicologia cognitiva, che considerava una psicologia descrittiva, infarcita di mentalismo (costrutti e rappresentazioni della realtà comportamentale) e priva di qualsiasi valore esplicativo (Skinner, 1990). Altri autorevoli analisti del comportamento (ad es. MacCorquodale, 1970; Anderson, Hawkins & Scotti, 2000; Gifford & Hayes, 1999; Palmer, 2006; Watrin & Darwich, 2012) hanno invece risposto alle critiche degli psicologi cognitivi, fornendo chiare ragioni a sostegno delle proprie posizioni o mettendo in rilievo le problematicità intrinseche a tali critiche. Per esempio, un problema spesso trascurato nelle critiche formulate dagli studiosi cognitivi, riguarda la relativa conoscenza del comportamentismo, il quale non è riducibile a un’unica e vera scuola psicologica in senso stretto, ma piuttosto fa riferimento a una famiglia di posizioni concettuali, all’interno della quale convivono posizioni profondamente diverse caratterizzate da opzioni metateoriche e teoriche talvolta contrastanti (Moderato & Ziino, 1994). Per queste ragioni è difficile capire quale rappresentazione ogni ricercatore abbia in mente quando si riferisce al comportamentismo per criticarlo (Moderato & Ziino, 1994). Sfortunatamente, queste repliche e argomentazioni sono state per lo più ignorate dagli psicologi cognitivi, forse in parte perché sono state pubblicate quasi esclusivamente su riviste specialistiche di analisi del comportamento che gli psicologi cognitivi semplicemente non leggono (Palmer, 2006). Alla fine, la mancanza di risposta nel merito d elle riflessioni esposte ha contribuito a rafforzare la percezione circa l’impossibilità di stabilire relazioni costruttive tra i sostenitori dei due orientamenti.

Una via di riconciliazione tra posizioni così distanti è stata tracciata recentemente da alcuni studiosi (De Houwer, 2011; Hughes & Barnes‐Holmes, 2016)., 2016) appartenenti a posizioni contestualiste ed empiriste (Morris,1988; Biglan & Hayes, 1996), in linea con una moderna visione dell’ analisi del comportamento. Tali autori sostengono che la psicologia funzionale (che include anche l’ analisi del comportamento) e la psicologia cognitiva sono allo stesso tempo fondamentalmente diverse e si sostengono a vicenda.

Analisi comportamentale e psicologia cognitiva tra explanandum e explanans

In sostanza, è stato proposto un quadro cognitivo-funzionale che colloca l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva su diversi livelli di spiegazione. Ognuno di essi richiede di essere definito in termini di explanandum (ossia il fenomeno che deve essere spiegato) e dei rispettivi explanans (ossia l’insieme delle conoscenze utilizzate per spiegare un fenomeno). Da questo punto di vista, la psicologia funzionale e cognitiva si situano a diversi livelli di spiegazione proprio perché si concentrano su diversi explanandum ed explanans (Bechtel, 2008; De Houwer, 2011). Più precisamente, mentre la psicologia funzionale (analisi funzionale) mira a comprendere il comportamento in termini di relazioni di controllo (dette relazioni funzionali), rintracciando le variabili ambientali ritenute responsabili della sua emissione (Chiesa, 1994), la psicologia cognitiva (analisi cognitiva) mira invece a comprendere i processi mentali che mediano gli effetti comportamentali di un fenomeno psicologico, facendo appello a meccanismi mentali e/o a peculiari processi di elaborazione cognitiva (Gardner, 1985).

Consideriamo per esempio il paradigma del condizionamento classico di Pavlov e, nello specifico, l’impatto che la co-occorrenza di eventi stimolo (es. suono neutrale e shock elettrico) esercita sul comportamento osservato: la risposta di incremento della conduttanza cutanea elicitata dalla semplice presentazione del suono divenuto stimolo condizionale (Pavlov, 1927).

Da un punto di vista funzionale, è proprio il processo di interazione che coinvolge l’organismo durante la co-occorenza tra stimoli (il tono acustico neutrale e lo shock elettrico o stimolo incondizionale) che di per sé fornisce la spiegazione del cambiamento comportamentale riscontrato (ovvero l’aumento della conduttanza della pelle alla sola presenza del suono, in assenza dello shock elettrico). La spiegazione del comportamento (la risposta di conduttanza cutanea misurata) ha pertanto una genesi esternalistica intercettabile nella relazione di incessante interdipendenza che l’organismo stabilisce con il contesto e che fa da scenario alla manifestazione comportamentale osservata.

Gli psicologi cognitivi d’altro canto, vogliono spiegare l’ effetto comportamentale (il condizionamento classico e quindi l’impatto che la co-occorenza di stimoli esercita sul comportamento) e non il comportamento direttamente osservabile (l’aumento della conduttanza della pelle) e per far ciò chiamano in causa specifici meccanismi mentali. Ad esempio, per spiegare il condizionamento classico, gli psicologi cognitivi hanno proposto che gli accoppiamenti tono-shock producono un’associazione in memoria tra la rappresentazione del tono acustico e la rappresentazione dello shock elettrico. In questo modo, una volta che questa associazione si è formata, la sola presentazione del tono acustico sarà in grado di attivare non solo la propria rappresentazione, ma anche la rappresentazione dello shock elettrico, che a sua volta provocherà un aumento della conduttanza della pelle (Bouton, 1993). Ancora una volta, dunque, appare netta e mercata la distanza tra le due posizioni esplicative appena descritte.

Da un lato i ricercatori cognitivi non potranno mai essere soddisfatti da un’analisi funzionale di un fenomeno comportamentale, poiché la considerano una semplice descrizione. Dall’altra parte, i ricercatori funzionali ritengono di non aver bisogno di spiegare come la mente influenzi il comportamento, dal momento che la conoscenza di specifiche relazioni con talune variabili ambientali è ritenuta di per sé esauriente e sufficiente per predire e per influenzare il comportamento stesso. Questa visione dicotomica ha invalidato sul nascere una possibile fruttuosa comunicazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva.

Certamente queste prospettive sono profondamente diverse anche perché fondate su punti di vista filosofici marcatamente differenti (Hayes, Hayes e Reese, 1988) e poco senso avrebbe negarle o minimizzarle. Tuttavia, come anticipato, è stata avanzata una via di riconciliazione ai fini di una collaborazione fondamentale per l’avanzamento e la parsimonia scientifici.

Verso un approccio cognitivo-funzionale

La proposta di un approccio cognitivo-funzionale capace di affidare obiettivi diversi alla psicologia cognitiva e all’ analisi del comportamento, permetterebbe infatti di eliminare tensioni, dissonanze e conflittualità tra i due modelli. Per esempio, dato che i meccanismi mentali di cui si occupa la psicologia cognitiva non esistono nel vuoto, ma sono sempre modellati dall’ambiente passato e attivati ​​dall’ambiente attuale, ne consegue che una vera comprensione dei meccanismi mentali (obiettivo della psicologia cognitiva) può realizzarsi solo se si tiene conto dell’ambiente (Fiedler, 2014) e degli effetti che esso esercita sul comportamento (obiettivo della psicologia funzionale e quindi dell’ analisi del comportamento). Sul versante clinico, per esempio, un’integrazione di questo tipo sembra intercettabile nel modello di concettualizzazione tutto italiano della LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero, 2015). La tendenza ad occuparsi della ricostruzione del processo di apprendimento nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e la svolta centrata sulle disfunzioni di processo mettono in evidenza la necessità di considerare modelli di concettualizzazione funzionalista del caso.

Viceversa, la psicologia cognitiva che genera continue previsioni su relazioni ambiente-comportamento (Zentall, 2001) potrebbe a sua volta contribuire allo sviluppo della psicologia funzionale. La letteratura cognitiva, infatti, è piena di effetti comportamentali che non compaiono nella letteratura corrente della psicologia funzionale e che possono essere collegati a principi funzionali generali. Pensiamo per esempio a tipici effetti di interferenza studiati dalla psicologia cognitiva come l’effetto Stroop, l’effetto Simon, l’effetto Navon, l’effetto Priming, o ad altri effetti come quelli di “tipicità” o di “distanza gerarchica” alla base dei processi di categorizzazione, o ancora ai più noti effetti placebo e nocebo a cui i ricercatori cognitivi fanno appello per comprendere la modulazione cognitiva ed emotiva dei sintomi. Gli psicologi che adottano un approccio funzionale, come gli analisti del comportamento, sono fortemente interessati a spiegare tali fenomeni identificando tipiche relazioni tra ambiente e comportamento, traducibili in termini di principi generali di funzionamento precisi e di ampia portata (Barnes-Holmes & Hussey, 2016) e scientificamente fondati su paradigmi sperimentali di laboratorio.

Dunque, in linea di principio, gli analisti del comportamento potrebbero usare le teorie cognitive per aumentare la propria conoscenza funzionale (vedi Barnes-Holmes & Hussey, 2016). Ad esempio, collegando il noto effetto Stroop “colore-parola” con il principio dello Stimulus control (definito in analisi del comportamento come controllo esercitato dallo stimolo sulla risposta comportamentale) i ricercatori funzionali, invece di focalizzarsi su presunte alterazioni nei meccanismi di elaborazione delle informazioni, potrebbero utilizzare questi dati empirici in merito all’effetto stroop come guide per approfondire l’analisi delle sorgenti contestuali che regolano le risposte attentive. In questo modo, i ricercatori funzionali cercheranno di influenzare tali risposte, attraverso una manipolazione sempre più precisa degli stimoli ambientali.

In particolare oggi, che la ricerca su linguaggio e cognizione (Relational Frame Theory; Hayes, Roche e Barnes Holmes, 2001) sta acquisendo interesse all’interno della comunità degli analisti del comportamento, adottare un approccio funzionale-cognitivo potrebbe offrire uno scenario di svolta importante sia sul versante sperimentale che su quello applicato. Infatti, a livello teorico, i ricercatori cognitivi hanno già esplorato le proprietà fondamentali di ciò che essi chiamano “conoscenza relazionale”, generando un’ampia, ricca e complessa letteratura sul tema, di cui gran parte degli analisti del comportamento potrebbe non essere consapevole, perdendo l’opportunità di analizzarla da un punto di vista funzionale.

Purtroppo, nonostante l’ampia sovrapposizione tra la ricerca in analisi del comportamento e in psicologia cognitiva, è quasi impossibile trovare riferimenti incrociato tra le due letterature. Questo, rende altamente probabile il proliferare di terminologie, teorie, ipotesi almeno in parte ridondanti, fatto dannoso in ambito scientifico.

Per tutte queste ragioni, l’adozione di un approccio funzionale-cognitivo, permetterebbe ai ricercatori cognitivi e a quelli provenienti dall’ analisi del comportamento di perseguire obiettivi diversi, ma che convergano nel promuovere la conoscenza circa il funzionamento psicologico degli esseri umani. Tale approccio potrebbe sancire l’esistenza di una relazione reciprocamente vantaggiosa tra il livello di spiegazione funzionale e quello cognitivo e fornire quel contesto meta-teorico ad oggi mancante in cui analisti del comportamento e psicologi cognitivi possono finalmente interagire in modo costruttivo ed edificante (possibilmente anche sulle riviste scientifiche!).

La lotteria per la vita: il fenomeno migratorio tra accoglienza e informazione – Report dal Convegno di Palermo

Quali le verità e le tragedie umanitarie e quali i luoghi comuni che ostacolano una visione chiara della migrazione, in taluni casi “remando contro” un’efficace politica di integrazione e instillando l’idea del migrante come pericolo, minaccia? Questi i temi caldi dell’evento formativo tenutosi a Palermo lo scorso 15 febbraio all’interno della cornice dell’Assemblea Regionale siciliana e dal titolo forte “La lotteria per la vita”.

 

Emergenza migranti, aiuti umanitari, assistenza, integrazione: termini comunemente legati al fenomeno migratorio che impegna le politiche sociali e la comunità tutta in azioni empatiche, incisive, tempestive, coordinate e orientate al benessere di esseri umani a cui, per varie ragioni, è stata sottratta la possibilità di una vita dignitosa.

Assistenza, vicinanza emotiva e pratica, concrete realtà favorite dall’opera di sensibilizzazione ai bisogni di chi ha perso tutto o rischia di perderlo: ecco il ruolo di una corretta informazione mediatica sul fenomeno, essenziale per una presa di coscienza collettiva della gravità della situazione che affligge queste popolazioni, che si traduca in reale supporto.

Chi sono allora e da cosa fuggono i migranti che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste, che, attraversando insidie e incertezze, scommettono su una “lotteria della vita” che restituisca loro il sogno di uomini liberi?

Quali le verità e le tragedie umanitarie e quali i luoghi comuni che ostacolano una visione chiara della migrazione, in taluni casi “remando contro” un’efficace politica di integrazione e instillando l’idea del migrante come pericolo, minaccia?

Questi i temi caldi dell’evento formativo tenutosi a Palermo lo scorso 15 febbraio all’interno della cornice dell’Assemblea Regionale siciliana e dal titolo forte “La lotteria per la vita”, a sottolineare le lotte disperate, senza punti fermi, di chi fugge dal conflitto e dalla morte per ricercare altrove un “porto sicuro”, nell’incertezza costante di potervi approdare in sicurezza, guadagnandosi la salvezza e una nuova e più dignitosa opportunità di vita.

Un evento che ha coinvolto esperti del settore, politici e giornalisti nell’intento comune di delineare la figura del migrante, sfatando il rischio di un’informazione parziale o ingannevole capace di creare falsi e pericolosi miti su quella che non può non definirsi a pieno titolo tragedia umana.

I migranti che sbarcano presso le coste siciliane provengono da differenti territori e sono mossi da motivazioni che variano dalle persecuzioni personali alle guerre alla povertà – spiega Guglielmo Mangiapane, fotoreporter della Reuters-LaPress – Molti scappano da un pericolo maggiore verso l’ignoto, percepito comunque come pericolo minore. Alcuni non hanno mai visto il mare, come accade per chi proviene dall’Africa Subsahariana, non sanno nuotare e la vista del mare rappresenta un momento estremo di gioia. Gioia che si tramuta spesso in dubbio su un dopo percepito come incerto, dopo un viaggio della speranza che lascia alle sue spalle morti, feriti, dispersi, mortificazioni corporali e umiliazioni, ma che ha anche portato nuove vite che nascono proprio su quei barconi improvvisati. Ecco il ruolo essenziale del mediatore culturale nel comunicare per primo problemi di salute e nel garantire un approdo meno traumatico possibile con una cultura nuova, con un ambiente da conoscere e a cui affidarsi”.

Una visione che restituisce l’immagine di un bisogno estremo di cure, di libertà di espressione; una cornice di tristezza e coraggio per chi affronta traversate impervie.

Raccontare le reali storie di miseria e fuga, al di là di ogni pietismo o stigmatizzazione, è compito elevato di un’informazione al servizio dei cittadini, e un’informazione di questo tipo deve evitare errori grossolani che rischiano di diffondere falsi allarmismi, pregiudizi e che scandalizzi oltremodo sulla penosità in cui può versare la condizione umana.

Esiste un’informazione tendenziosa in grado di distorcere la realtà, per eccesso o difetto, della tragicità legata alla migrazione – racconta Lidia Tilotta, giornalista TGR Sicilia – È compito deontologico di noi giornalisti evitarla e segnalare un suo utilizzo improprio. Per esemplificare, preferire un’informazione da contabilità, puntando più sui numeri dei migranti sbarcati che sui loro vissuti, non sviluppa empatia e anzi produce allarmismi, se unita a termini come invasione epocale. Anche utilizzare termini come clandestino ha un effetto ghettizzante, così come enfatizzare crimini commessi da stranieri perché fa più scalpore. Si tratta peraltro di dati errati: l’Eurostat calcola, tra il 2008 e il 2015, un aumento delle denunce per crimini per gli italiani del 7% e una diminuzione dell’1% per gli stranieri. L’ottica in cui porsi inoltre non può essere inoltre quella caritatevole, sensazionalistica, pietistica, ma del diritto all’accoglienza, anche per evitare conflitti. Un’accoglienza reale significa diversità, arricchimento, mentre la paura per l’immigrato che delinque o ruba il lavoro genera odio, il quale allontana integrazione e accoglienza. E noi giornalisti abbiamo il compito di non fomentare un clima d’odio nella Comunità, una responsabilità che condividiamo con la politica”.

Gruppo: la nuova edizione del libro di Claudio Neri (2017) – Recensione

Claudio Neri torna con un’edizione aggiornata di un volume che è considerato un classico della psicoterapia di gruppo analitica, già tradotto in varie lingue nella sua prima edizione.

Igor Pontalti

Il gruppo non è la somma di singoli individui

Nella prima parte, dopo un essenziale excursus storico, si parte con la disamina del concetto di aggregazione di individui e correlandolo alle fasi iniziali di una terapia di gruppo, come questa aggregazione multiforme si organizzi psicologicamente fino a costituire un campo mentale che si rapporta in modo biunivoco con i vari partecipanti al gruppo costituendone qualcosa di diverso dalla semplice somma di esperienze individuali.

Questo processo è spesso poco analizzato e valorizzato nella psicoterapia di gruppo che abitualmente è concepita in ambito cognitivista. Il vantaggio è che nel libro di Neri tali “organizzazioni del palcoscenico prima dello spettacolo” sono descritte in modo lineare e ogni passaggio è semplificato con vignette cliniche con trascrizione delle sedute e schemi riassuntivi.

Le caratteristiche e il paradigma del gruppo terapeutico

Dopo questa importante premessa il libro entra nel campo vivo della terapia con una serie di concettualizzazioni  che descrivono i fenomeni in atto. Qui è forse il nucleo concettuale più importante e più utile per chi proviene da epistemologie differenti. Le persone in contesti diversi si rappresentano in modo diverso: il setting di gruppo trasforma il piano emotivo-cognitivo in modo che spesso il terapeuta individuale fatica a riconoscere il proprio paziente. Ma questa è anche la grande opportunità esplicativa e terapeutica di questo approccio.

Presentando  il “Manuale di psicoterapia sistemica di gruppo (2016)” su questa rivista  Annalisa Bertuzzi ha riportato i fattori terapeutici come individuati da Yalom nel suo centrale “Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo” (1974), dobbiamo immaginare che il libro di Neri contestualizza e scompone quei fattori terapeutici utilizzando una tecnica che parte dal vissuto dell’individuo per muoversi verso un livello interpersonale e multipersonale che lo porta a formulare dei concetti che inscrivono i fenomeni che avvengono nel gruppo e attorno allo spazio-tempo del gruppo, fondamentali per la possibilità di comprensione e quindi di cura e che altrimenti rimarrebbero oscuri o peggio attribuiti al movimento psicologico del singolo paziente.

L’epistemologia psicoanalitica da cui muove Neri lo porta a produrre delle metafore concettuali (campo, semiosfera, sistema protomentale, comunità dei fratelli, commuting, diffusione trans-personale, disposizione a stella) che non devono spaventare il lettore perché poste in modo logico e conseguente al procedere del gruppo e correlate da tanti esempi clinici esplicativi. Il lettore cognitivista è abituato ad altre epistemologie come il paradigma cognitivo-evoluzionista, il quale per esempio fornisce un altro tipo di metafore (trauma, dissociazione), ma leggendo il libro si renderà conto come l’esposizione di Neri completi ed integri i differenti sistemi.

Rimane da sottolineare l’utile glossario posto in appendice e a completezza dell’opera quattro brevi saggi sotto forma di intervista (La trasformazione di un gruppo in una istituzione cura di Marco Zanori, Terapeuticità del gruppo a cura di Stefania Marinelli, Gruppi nelle istituzioni e  Il Social Dreaming  a cura di Giorgia Dappelo) che propongono ulteriori campi di interesse da approfondire e che sembrano fare da ponte verso un nuovo saggio ancora nella penna dell’autore.

Utilizzo dei social network e peggioramento del rendimento scolastico?

I giovani che usano i social media (tra cui Snapchat, Instagram, Musically, Facebook) peggiorano nello studio scolastico rispetto a quelli che non li usano?

 

Gli studi sull’uso dei social media e lo studio

Un progetto di ricerca finanziato dalla German Research Foundation (DFG) ha esaminato 59 studi (condotti su circa 30000 giovani di tutto il mondo) che affrontano la correlazione tra uso dei social media e rendimento scolastico per trovare una risposta di fronte alle preoccupazioni riguardanti le presunte conseguenze dei social network sulle prestazioni scolastiche.

Gli studi analizzati presentano dati contrastanti: alcune analisi riportano gli impatti negativi dell’uso dei social media, mentre altri studi ne riferiscono l’influenza positiva. Infine, esistono studi che non hanno trovato alcuna relazione tra utilizzo dei social network e le prestazioni scolastiche.

Nello specifico questi sono i dati emersi:

Gli alunni che usano Instagram e social network durante lo studio e lo svolgimento dei compiti tendono ad avere risultati peggiori rispetto agli altri studenti. Una possibile spiegazione può risiedere nel fatto che compiere più attività contemporaneamente diventa dispersivo anziché produttivo.

Gli alunni che utilizzano intensamente i social media per comunicare con i compagni su argomenti relativi alla scuola (compiti, verifiche, etc.) tendono ad avere voti leggermente più alti dei compagni che non lo fanno.

Un piccolo effetto è stato riscontrato nei voti degli studenti che trascorrono molto tempo sui social network, pubblicando regolarmente messaggi e/o foto: essi ottengono voti leggermente inferiori rispetto agli altri studenti.

Gli alunni che sono molto attivi sui social media (ovvero coloro che pubblicano regolarmente contenuti sui propri profili social) non dedicano meno tempo allo studio rispetto a coloro che sono meno attivi sui social network.

In base ai risultati ottenuti, Markus Appel sostiene che “le preoccupazioni riguardanti le presunte conseguenze disastrose dei siti di social networking sulle prestazioni scolastiche sono infondate”. L’uso dei social media non sembra avere un impatto negativo significativo sui voti scolastici.

Il professor Appel consiglia comunque ai genitori di interessarsi ai social media e alle possibili attività online a cui i giovani aderiscono. Questo gli permetterà di comprendere le modalità di utilizzo dei social e di comunicare in modo più efficace con i propri figli.

Gli amici si somigliano: il nostro cervello è più in sintonia con chi è nostro amico

Uno studio ha messo in evidenza un altro aspetto affascinante dell’amicizia. Gli amici percepiscono il mondo in modo simile tra loro e hanno cervelli più in sintonia.

Lucia Marangia

 

Gli amici hanno cervelli simili tra loro e in sintonia

I ricercatori del Dartmouth College hanno dimostrato che è possibile prevedere con chi le persone sono più amiche, semplicemente osservando il modo in cui il loro cervello risponde alla visione di alcuni video clip. Durante l’esperimento, gli amici presentavano modelli di attività neurale più simili, seguiti dagli amici degli amici che, a loro volta, avevano un’attività neurale più simile rispetto alle persone meno affini. Secondo i ricercatori, lo studio è il primo nel suo genere: “Le risposte neurali a stimoli dinamici e naturalistici, come i video, possono darci una finestra sui processi di pensiero spontanei della gente man mano che si sviluppano” commenta la Dott.ssa Parkinson.

Lo studio ha analizzato le amicizie e i legami sociali all’interno di una coorte di quasi 280 studenti universitari. I ricercatori hanno stimato la distanza sociale tra coppie di individui sulla base di legami sociali reciprocamente segnalati. Successivamente, a 42 studenti è stato poi chiesto di guardare una serie di video mentre la loro attività neurale è stata registrata attraverso uno scanner funzionale con risonanza magnetica (fMRI). La serie di video osservata dai ragazzi comprendeva numerosi argomenti e generi, tra cui politica, scienza, commedia e video musicali. Ogni partecipante ha guardato gli stessi filmati, seguendo il medesimo ordine e con le stesse modalità. I ricercatori hanno poi confrontato le risposte neurali per determinare se le coppie di studenti che erano amiche presentassero un’attività cerebrale più simile, rispetto ad altre coppie del gruppo.

I risultati hanno dimostrato che la somiglianza della risposta neurale era più forte tra gli amici, e questo schema sembrava manifestarsi attraverso le regioni cerebrali coinvolte nella risposta emotiva, l’attenzione e il ragionamento di alto livello.
Anche quando i ricercatori controllavano variabili, come il fatto di essere mancini o destrimani, l’età, il sesso, l’etnia e la nazionalità, la somiglianza nell’attività neurale tra amici era ancora evidente.

Il team ha anche affermato che le somiglianze nella risposta alla risonanza magnetica funzionale potrebbero essere utilizzate per prevedere non solo se una coppia è amica, ma anche la distanza sociale tra i due soggetti.

Siamo una specie sociale e viviamo in continuo collegamento con gli altri. Se vogliamo capire come funziona il cervello umano, abbiamo bisogno di capire come funzionano i cervelli in combinazione – come le menti si modellano a vicenda“, ha detto l’autore Dr. Thalia Wheatley.

Prossima sfida per i ricercatori di Los Angeles sarà quella di comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda.

La dipendenza affettiva: tra letteratura e neurobiologia

Oggi, con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione che non solo facilitano le comunicazioni tra individui, ma permettono di tracciare anche i minimi dettagli di una persona, stiamo vivendo una trasformazione delle modalità con cui si manifesta la dipendenza affettiva (o love addiction), che tuttavia rimane un problema psicosociale da arginare.

 

Donne che amano troppo – Riflessioni sul libro

Nonostante la prima edizione di Donne che amano troppo della psicoterapeuta americana Robin Norwood risalga alla metà degli anni Ottanta, questo libro rappresenta un capolavoro di attualità. Come specificato nell’introduzione alla nuova edizione, cambiano i tempi, cambiano le modalità comunicative, cambia il grado di consapevolezza di avere un problema con l’amare troppo qualcuno, ma il “mal d’amore” descritto nelle pagine del libro è assolutamente moderno e debilitante così come in passato.

Se qualche decade fa una donna trascorreva giornate intere sdraiata nel letto, accanto al telefono fisso del suo appartamento nell’attesa di una chiamata da parte di un uomo di cui era ossessionata, o tentava di contattare amici o parenti nella speranza di avere notizie del suo amore, oggi, con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione che non solo facilitano le comunicazioni tra individui, ma permettono di tracciare anche i minimi dettagli di una persona, stiamo vivendo una trasformazione delle modalità con cui si manifesta la dipendenza affettiva (o love addiction), che tuttavia rimane un problema psicosociale da arginare.

Per proporre qualche esempio, la stessa donna sdraiata nel letto con la cornetta del telefono vicino all’orecchio, ai tempi d’oggi controllerebbe spasmodicamente il cellulare, contemplando sul display il nome e numero dell’uomo che ama con il pensiero desiderante di chiamarlo (una sorta di craving, come un alcolista davanti alla porta di un’enoteca con il desiderio impulsivo di varcare la soglia del locale e cadere nuovamente nella sua dipendenza), oppure accederebbe a Whatsapp per verificare l’ora esatta del suo ultimo accesso (attivando meccanismi di ruminazione e rimuginio tali da mantenere attivo lo stato di allarme e angoscia), o ancora analizzerebbe accuratamente il suo profilo Facebook o Instagram alla ricerca di qualche indizio o prova della sua disonestà (foto ambigue, commenti fatti e/o ricevuti da altre possibili pretendenti e così via), il tutto in uno stato di attivazione fisiologica di ansia, paura, rabbia o tristezza che non fa altro che fomentare il disagio esperito. Per riassumere: mutano i tempi e i contesti ma non muta la dipendenza.

Nel libro, che è una raccolta di storie di donne (la maggior parte pazienti in cura dall’autrice) in balia di relazioni turbolente con uomini inaffidabili, egoisti e spesso con storie passate o attuali di abuso di alcol, la Norwood descrive egregiamente i vissuti emotivi di ciascuna delle protagoniste, focalizzando l’attenzione sulla loro infanzia spesso traumatica a causa da abusi fisici, sessuali o psicologici, questi ultimi comprendenti sia abusi verbali che trascuratezza nelle cure ricevute dalle figure di riferimento (neglect) che secondo alcuni importanti autori possono provocare veri e propri traumi nello sviluppo cognitivo-affettivo (Liotti G., Farina B., 2011).

Caratteristiche peculiari di molte donne descritte nelle pagine del libro riguardano un forte bisogno di controllo relazionale, l’autocolpevolizzarsi ed incrementare così il senso di sfiducia verso se stessa e la propria autostima (“è colpa mia se si è arrabbiato”, “non sono abbastanza attraente”) e l’illusione del “lui cambierà” e del “se gli sono necessaria o gli risolvo i problemi lui mi amerà”. A proposito della speranza (troppo spesso utopica) di veder cambiare il partner con la forza del proprio amore, diligenza, devozione e presa in carico delle sue problematiche (emotive, finanziarie ecc.), non è un caso che molte delle donne descritte nelle pagine del libro intrattengano o abbiano intrattenuto relazioni burrascose con alcolisti, molti dei quali, a causa della loro dipendenza patologica, non sono in grado di badare a se stessi e sono quindi ben disposti a delegare la propria vita a qualcuno di così efficiente e responsabile. La Norwood chiama queste donne coAlcoliste, in quanto parte del problema e fattori di mantenimento. È come se una dipendenza chiamasse un’altra dipendenza, alimentandosi l’un l’altra in un intreccio esplosivo che conduce a gravi conseguenze sul piano emotivo. L’autrice dedica un intero capitolo al racconto delle storie di alcuni di questi uomini, dei loro vissuti legati alla dipendenza da alcol e dalla necessità di trovare partner responsabili e capaci di cura e attenzione. Ma se il primo idillio d’amore offusca i sensi e la razionalità, ben presto le cose si complicano e gli aspetti personologici e comportamentali di entrambi giungono in superficie dando origine alle prime incomprensioni e rotture relazionali.

Tornando alle donne che amano troppo, la Norwood apre le prime pagine del suo libro con una frase rappresentativa di ciò che significa l’avere una dipendenza affettiva, dove la parola “dipendenza” può essere senza dubbio considerata analoga a tutte le tipologie di addiction con e senza sostanza: “Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo”.

Il libro viene proposto come manuale di auto-aiuto, nonostante sia la stessa autrice a consigliare vivamente un percorso psicoterapeutico volto all’accettazione del proprio passato e delle proprie fragilità, al fine di (ri)conquistare individualità e amore verso se stessi e riuscire così a darsi una direzione nella vita e renderla piena e soddisfacente a prescindere da ogni tipo di relazione sentimentale passata, presente o futura.

Nel libro la Norwood parla di donne ma è opportuno precisare che l’argomento trattato si può riferire anche agli uomini i quali possono sviluppare dipendenza affettiva che si origina da dinamiche relazionali disfunzionali. L’”amare troppo” è una condizione che può manifestarsi all’interno di qualsiasi genere sessuale di appartenenza e vittima e carnefice non si basano dunque su superficiali ruoli di genere, dal momento che ridurre il fenomeno esclusivamente alle donne sarebbe un atto alquanto semplicistico e sessista. Il libro quindi si può benissimo adattare a qualsiasi individuo in quanto la dipendenza affettiva può interessare qualsiasi persona a prescindere da età, sesso, religione, cultura e orientamento sessuale. É tuttavia probabile che per motivi psicologici e sociali la dipendenza affettiva si manifesti più di frequente nelle donne, ciò potrebbe essere dovuto a fattori predisponenti nelle donne e a fattori protettivi nei maschi e tali considerazioni necessitano di adeguate indagini clinico-scientifiche.

Aspetti neurobiologici della dipendenza

Negli organismi altamente evoluti di cui l’essere umano è l’esemplare maggiormente avanzato, il piacere rappresenta la spinta motivazionale all’azione (Caretti, La Barbera, 2010), per cui un comportamento che porta ad esperire una sensazione di piacere avrà più possibilità di essere reiterato.

Tale assunto è il punto di partenza da cui si origina una dipendenza patologica, dal momento che una sostanza di abuso o un comportamento compulsivo con iniziali conseguenze piacevoli attivano cascate di reazioni chimiche che coinvolgono circuiti cerebrali legati alla gratificazione e alla soddisfazione dei bisogni. I numerosi studi di neurobiologia sono tutti concordi nel ritenere il circuito meso-cortico-limbico il principale substrato neurale implicato nell’ addiction, e la dopamina come principale neuromodulatore. Infatti le aree di questo circuito costituito dall’area tegmentale ventrale e dal nucleo accumbens (striato ventrale) e parte della corteccia pre-frontale, giocano un ruolo cruciale nel sistema di rinforzo e ricompensa ed è stato osservato che una sostanza psicostimolante è in grado di iperattivare i neuroni dopaminergici presenti in questa porzione cerebrale provocando sensazioni di benessere e dando così alla sostanza di abuso una valenza edonica positiva (alto valore di salienza). Ciononostante, le ripetute scariche di dopamina (e la sua sovrapproduzione) all’interno di queste aree conducono in seguito ad un incremento della soglia di attivazione in grado di suscitare sensazioni positive associate alla sostanza, creando di conseguenza tolleranza e bisogno maggiore di dopamina all’interno del sistema della gratificazione. Inoltre studi di neuroimaging hanno osservato una sostanziale riduzione dei recettori D2 della dopamina nello striato in soggetti con addiction, in associazione ad una ipoattivazione della corteccia orbitofrontale (regione implicata nell’attribuzione della salienza degli stimoli e nei comportamenti compulsivi) e del giro cingolato (regione coinvolta nel controllo inibitorio, attenzione ed impulsività) (Volkow, 2007).

La riduzione dei recettori D2 e della normale attività dopaminergica causa quindi un deficit nei circuiti che regolano la gratificazione attraverso rinforzi naturali quali cibo, sesso e sonno, portando il soggetto con addiction a ricercare stimoli maggiormente capaci di attivare i circuiti della gratificazione; questo potrebbe spiegare il perché si assista, in coloro che abusano di sostanze, ad un progressivo disinteresse per le usuali attività naturali che fino a poco prima provocavano piacere. Senza piacere dunque non può esserci motivazione e se l’unico piacere diventa la sensazione esperita a seguito di somministrazione di stupefacenti o di un comportamento compulsivo, non rimane tanto difficile comprendere le basi all’origine del craving. Il ricordo dell’esperienza piacevole associato a stimoli in grado di rievocare tale esperienza mette in moto una serie di comportamenti volti al raggiungimento di quello che, a seguito di ripetute esposizioni, è diventato il bisogno primario, a discapito di tutte quelle attività piacevoli (e sane) dapprima praticate.

Oltre alla iperattivazione dopaminergica e al successivo decremento dei recettori D2, un’altra conseguenza  provocata dall’ addiction riguarda la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA), ovvero l’insieme delle strutture che modulano le nostre risposte allo stress. É stato osservato che la somministrazione cronica di sostanze d’abuso conduce alla disregolazione di HPA e che ciò provoca, durante un periodo di astinenza prolungata, un incremento del fattore di rilascio della corticotropina (CFR), dell’ormone adrenocorticotropo (ACHT) e del corticosterone nell’amigdala estesa (Koob, Le Moal, 2005). Questo potrebbe in parte spiegare le sensazioni di ansia e paura sperimentate dai soggetti in astinenza (l’amigdala è la principale struttura coinvolta nel circuito della paura) e l’incapacità di tali soggetti di far fronte in modo costruttivo a situazioni stressanti (la disregolazione di HPA manterrebbe attivo lo stato di stress rendendo difficile un adeguato problem-solving). Inoltre, in uno studio che investigava il legame intercorrente tra cure parentali durante l’infanzia e abuso di cocaina in età adulta è stato riscontrato che esperienze infantili negative (maltrattamenti/abusi, neglect) erano associate all’ addiction e a più alti livelli di cortisolo e ACTH, dimostrando una possibile associazione tra attaccamento e dipendenza patologica (Gerra G., 2009).

La dipendenza affettiva negli studi di neuroimaging

Descrivere la neurobiologia dei comportamenti di addiction, partendo dagli studi che hanno indagato le basi neuroanatomiche/neurochimiche alla base della patologia, è di estrema importanza dal momento che diverse ricerche hanno dimostrato similarità tra le varie dipendenze. Per tornare all’argomento principale dell’articolo, in studi di neuroimaging che hanno indagato le possibili aree cerebrali implicate nella dipendenza affettiva è stato osservato quanto tale fenomeno abbia alcune somiglianze con la dipendenza da sostanze. Infatti, Reynaud e collaboratori (2010) hanno comparato osservazioni cliniche e dati provenienti da studi di neuroimaging in soggetti con diverse tipologie di dipendenza che comprendevano abuso di sostanze, gambling patologico e dipendenza affettiva, osservando reazioni psicosomatiche analoghe e un simile pattern di attivazione cerebrale. Nel dettaglio, i soggetti con love addiction mostravano euforia e desiderio irresistibile in presenza dell’oggetto d’amore (o da stimoli associati), mentre in sua assenza era frequente notare umore negativo (fino all’anedonia) e disturbi del sonno. Per quanto riguarda le aree implicate, alcuni studi suggeriscono che la corteccia orbitofrontale e il giro cingolato anteriore siano regioni cerebrali coinvolte nella dipendenza affettiva, le stesse che mediano la dipendenza da sostanza, insieme a specifici neurotrasmettitori tra cui la dopamina (si ricorda che le cellule dopaminergiche si attivano in risposta a stimoli salienti e facilitano l’apprendimento condizionato tipico dei comportamenti di addiction con le motivazioni e compulsioni correlate). In aggiunta, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), Fisher e colleghi (2010) hanno osservato significativa attivazione nell’area tegmentale ventrale bilateralmente, nello striato ventrale e nelle cortecce orbitofrontale e prefrontale in soggetti che avevano subito un recente rifiuto da parte di un partner, i quali partecipavano ad un esperimento in cui venivano fatte vedere loro fotografie dei loro amati in vari contesti.

I dati provenienti dagli studi di neurobiologia forniscono importanti informazioni circa la natura delle dipendenze e del successivo craving, dimostrando che non vi sono sostanziali differenze per quanto riguarda le aree associate al comportamento di addiction, di qualsiasi forma si tratti.

Conclusioni: la neurobiologia delle donne che amano troppo

Partendo dall’analisi di un bestseller di fama mondiale e descrivendo in seguito gli effetti neurobiologici delle dipendenze patologiche, potrebbe ora essere possibile delineare le associazioni che intercorrono tra le donne descritte nel libro della Norwood e gli aspetti più prettamente scientifici che riguardano la dipendenza affettiva.

Infatti, molte delle protagoniste raccontano di come le relazioni con uomini “sbagliati” fossero per loro costanti stimoli e di come andassero in continua ricerca di quell’eccitazione sessuale ed emotiva che riuscivano a trovare esclusivamente in partner tendenzialmente inadatti. Alcune affermano come l’amore ed il rispetto ricevuto da un uomo buono, attento, responsabile e realmente interessato a loro fosse un’esperienza noiosa o comunque non abbastanza stimolante da farle rimanere in relazioni “sane” di quel tipo. É possibile che le scariche d’eccitazione sperimentate con gli uomini sbagliati descritti nel libro sia la ricerca di quelle cascate di dopamina osservate nei comportamenti di addiction con e senza sostanza, e che quelle sensazioni di malessere, anedonia, ansia e angoscia esperite a seguito di una separazione temporanea o di un vero e proprio abbandono (e che si accompagnano spesso a processi di ruminazione e rimuginio che mantengono attiva l’attenzione selettiva sull’oggetto-stimolo dell’addiction) siano analoghe all’esperienza di craving che si riscontra nelle dipendenze patologiche. Inoltre, dal momento che molte donne del libro provengono da contesti familiari altamente disfunzionali (genitori assenti, alcolisti, violenti, abusanti, trascuranti ecc.) e riscontrata una correlazione tra disregolazione dell’asse HPA e addiction, potrebbe essere possibile che anche nelle protagoniste delle storie raccontate dalla Norwood le esperienze infantili negative/traumatiche siano fattori predisponenti lo sviluppo di dipendenza affettiva, a causa dell’enorme carico di stress a cui sono state e continuano ad essere sottoposte.

Considerando i dati provenienti dalla ricerca neuroscientifica e le esperienze raccolte in “Donne che amano troppo”, sarebbe opportuno impegnarsi nello sviluppo e rinforzo di psicoterapie in grado di far fronte ai vissuti emotivi negativi di coloro che soffrono di dipendenza affettiva al fine di garantire a queste persone una qualità di vita migliore e una capacità di relazionarsi agli altri in modo più funzionale e adattivo.

La Terapia Cognitivo-Comportamentale potrebbe fornire soluzioni efficaci, attraverso moduli di intervento che producano risultati soddisfacenti, quali gestione di processi metacognitivi disfunzionali (Caselli, 2017), individuazione e superamento dei cicli interpersonali problematici (La Mela, 2014), potenziamento delle funzioni metacognitive e senso di agency (Di Maggio, 2013), riduzione dello stress attraverso programmi di mindfulness (Kabat-Zinn, 1990).

Risocializzazione e ravvedimento nel carcere per i minori. La parola al direttore dell’IPM di Palermo

L’ articolo 27 della Costituzione, sottolinea la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali e di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà.

 

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: così recita l’articolo 27 della Costituzione, sottolineando la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali, di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà.

Una funzione di reintegrazione sociale che, al di là di ogni intento puramente afflittivo, mira a dare fiducia, a promuovere crescita, sviluppo e senso di appartenenza, in particolar modo per i minori autori di reato.

Riabilitazione, promozione del benessere, progettualità educativa, pilastri su cui si fonda l’attività dell’Istituto Penale per i minorenni (IPM) di Palermo, fortemente sostenuta e coordinata dal Direttore Michelangelo Capitano.

Ai giovani, tra i 14 e i 18 anni, deve essere assicurata una crescita adeguata, non bisogna quindi interrompere i percorsi evolutivi in atto, semmai correggere quelli che si discostano dalla previsione delle norme – spiega Capitano – Il Codice di Procedura penale minorile (D.P.R. 448/88, uno tra i più avanzati e studiati al mondo, anche dopo 30 anni dalla sua emanazione) prevede una serie di misure atte a far uscire il minore autore di reato dal circuito penale nel più breve tempo possibile, senza però abbandonarlo alla propria sorte.

Ravvedimento e revisione critica delle scelte di vita: possibilità date da un carcere che educhi al legame sociale in quanto bene collettivo a cui tutti sono chiamati a contribuire, all’interno di un contesto di osservazione e trattamento mirati. Questa la ratio del carcere minorile, da considerarsi sempre come scelta estrema e solo per i reati gravi/gravissimi.

Il carcere per i minori è sicuramente la misura estrema voluta dalla legge, non tanto per preservare la società, quanto per consentire al minore di avere un periodo di riflessione e di poter elaborare, molte volte lontano da condizionamenti familiari e sociali, una propria aspettativa di vita, aiutato in questo, dalle professionalità coinvolte (educatori, polizia penitenziaria, assistenti sociali, psicologi, ma anche insegnanti e volontari) – continua Capitano – L’apporto di tutti è indispensabile per far comprendere le regole della convivenza civile, il rispetto dell’altro e la valorizzazione delle proprie abilità, al fine di vivere una vita all’insegna della legalità e del progresso. Una vita nuova a cui molti ragazzi rispondono con sfiducia, richiamando un senso di impotenza nelle proprie capacità, nel farcela, nonché di sfiducia verso una società considerata spesso nemica, non tutelante.

La risocializzazione nel carcere per i minori la parola al direttore dell'IPM di Palermo - Michelangelo Capitano

Michelangelo Capitano, Direttore dell’ IPM di Palermo

Una vita spesa nella legalità, in quanto monito interno, presa di coscienza profonda, empatica, della violazione dei diritti di un altro essere umano, obiettivo raggiunto attraverso il contatto diretto con la parte offesa.

Per far comprendere il significato di ravvedimento cito un episodio di qualche anno fa – racconta il Direttore – Avevamo invitato all’interno di un’iniziativa, alcuni funzionari di banca per un corso sull’imprenditorialità. A margine dell’incontro, uno dei funzionari ha cominciato a narrare il proprio vissuto durante una rapina subita tanto tempo prima, quello che aveva provato, la paura, i pensieri. A un certo punto un ragazzo, sempre più a testa bassa, si è avvicinato ed abbracciandolo gli ha detto “Grazie mi ha fatto capire quello che pensava”: era lui l’autore della rapina e in quell’abbraccio aveva voluto, fisicamente, fargli sentire la sua vicinanza emotiva. Elaborare il reato anche sotto questo punto di vista, del dolore della vittima, può essere una remora a ricommetterlo.

Quali sono nello specifico le attività rieducative dell’IPM di Palermo e che valenza formativa detiene il lavoro?

A oggi l’IPM di Palermo propone varie attività tese al reinserimento sociale, come scuola, formazione, sport, lavoro. Nel caso del lavoro alcuni ragazzi sono sposati, convivono, qualcuno ha figli e il limitato sostentamento della famiglia diventa un modo di sentirsi utili, parte integrante di una società che non li abbandona, dà loro fiducia, rispetto e responsabilità produttive, e rispetto alla quale modificare un atteggiamento classico volto al danneggiamento e al reato. Situazione dolente per la formazione professionale, sospesa da due anni in Sicilia, con grave danno ai ragazzi, che perdono un’occasione per poter acquisire una professionalità. Abbiamo attivato dei corsi professionalizzanti (edile, falegname/ferro, giardiniere) affidando ad alcuni artigiani il compito di passare le competenze del mestiere ricomponendo quel clima di andare a bottega nel quale l’imparare il mestiere comprendeva il rispetto del maestro, del cliente e del lavoro. Tante iniziative, ma il nostro vanto è sicuramente il laboratorio dolciario “Cotti in fragranza”, un biscottificio all’interno della struttura, ma fuori dalla sezione detentiva, pensato per i giovani che escono dall’istituto, per accompagnarli al loro reinserimento. I biscotti sono adesso presenti anche nella grande distribuzione; il processo produttivo è seguito dai ragazzi. I nomi dei biscotti (Buonicuore al mandarino, Parrapicca al limone e zenzero, Coccitacca alla cioccolata di Modica e arancia) sono stati scelti da loro, così come il packaging e le strategie industriali. Esistono poi tante altre collaborazioni con Istituzioni e con professionisti: voglio citare a titolo esemplificativo, il Museo Salinas con il quale abbiamo appena concluso un Corso di restauro di vasellame del II secolo a. C., e l’Istituto Zooprofilattico Siciliano (con un corso di caseificazione di prossima attivazione). Decine e decine di persone che hanno deciso di donare un po’ del loro tempo ai ragazzi dell’Istituto: e, come dico spesso proprio ai ragazzi, si può comprare quasi tutto, ma il tempo che ci viene dedicato – in qualunque momento – non si può comprare.

Il lavoro, anzi l’idea del lavoro, come deterrente di ulteriori reati in quanto garanzia di regole funzionali di vita, formazione alle abilità e alla loro spendibilità sociale, al rispetto di sé e dell’impegno preso, e non ultimo garanzia di sostentamento economico.

Ciò che vogliamo trasmettere ai nostri ragazzi è l’idea del lavoro. L’idea del lavoro significa capire che è dal lavoro che deve derivare il proprio reddito, il proprio tenore di vita; significa essere puntuale, mettere la massima attenzione in ciò che si fa per il rispetto e la valorizzazione di un’opportunità che viene offerta e non può essere data per scontata. Lavorare, con una remunerazione giusta, significa, per moltissimi ragazzi non dover delinquere. In tanti anni di lavoro non ho mai visto un ragazzo felice per aver commesso un reato, piuttosto ne ho visti tanti dispiaciuti per non esser riusciti a evitarlo.

Il carcere quindi come misura rieducativa efficace, ma sempre nell’ottica di un’ultima ratio a cui deve essere sempre preferita un’azione massiccia di prevenzione dei reati.

La permanenza in un istituto penale per i minorenni è una misura residuale nella legislazione italiana. Si devono creare occasioni per far diventare questa misura ancora più residuale. Si deve agire prima, con una prevenzione nei quartieri, nelle scuole. Spesso si dice che la prevenzione costa, ma quanto costa, non esclusivamente in termini economici, la commissione di un reato? Qual è il prezzo del dolore della vittima, del dolore dei familiari, del dolore dello stesso reo, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della società? Qual è il prezzo che paghiamo tutti, per un ragazzo che deve stare in carcere tanti anni, qual è il prezzo per un reato che non consente un’azione riparatoria, un tornare indietro? È necessaria un’attenzione politica al mondo dei giovani in un’ottica di lotta alla povertà educativa e sociale perché questa aumenta le diseguaglianze economiche, non permettendo la piena inclusione sociale con alti costi per la società: da questo punto di vista la vicinanza del Sindaco Orlando, dell’Assessore Mattina, ma anche del Consiglio Comunale di Palermo mi fanno ben sperare per il futuro di questa Città. L’auspicio, per il nostro lavoro, è di riuscire a restituire alla società dei buoni cittadini preparati ad affrontare la vita con la dignità di uomini liberi – conclude Capitano.

Quando le cognizioni influenzano le amicizie tra bambini

I ricercatori del dipartimento di psicologia dello sviluppo dell’Università dell’Illinois hanno indagato quali siano gli aspetti capaci di predire la qualità dell’amicizia tra bambini.

 

Le intenzioni attribuite ai pari influenzano la qualità delle amicizie

Le amicizie giocano un ruolo importante nell’adattamento psicologico e comportamentale dei bambini, in particolare questo aspetto diventa fondamentale durante il passaggio alla fase adolescenziale.

L’ipotesi dei ricercatori è che ciò che i bambini pensano riguardo alle intenzioni dei loro pari (ad esempio, benigne o ostili) e le emozioni che provano a riguardo possano influenzare la qualità delle proprie amicizie.

I partecipanti allo studio sono stati 913 bambini (di cui 50% femmine e 50% maschi, di età compresa tra i 9 ed i 12 anni) ed i loro amici. I soggetti sono stati osservati durante attività interattive in cui sono stati presentati scenari definiti dai ricercatori negativi e ambigui (esempio: computer rotto da un pari), nei quali veniva chiesto come interpretare l’intenzione del pari a seconda dello scenario presentato (esempio: “Il pari intendeva rompere il computer o è stato un incidente?”). I ricercatori hanno interpretato i risultati che attribuivano intenzionalità al pari come pregiudizio ostile, mentre i risultati che si riferiscono ad un’assenza di intenzionalità del pari come pregiudizio benigno.

È stata inoltre indagata l’intensità emotiva, intesa come la tendenza del bambino a sperimentare ed esprimere emozioni forti.

È emerso che coloro che, all’età di 9-10 anni, attribuivano intenzionalità al comportamento del pari e riportavano alti livelli di intensità emotiva, all’età di 11-12 anni vivevano interazioni più negative. Mentre, un pregiudizio di attribuzione di natura più benigna all’età di 9-10 anni, combinato con un’alta intensità emotiva, prevedeva un’interazione positiva tra pari all’età di 11-12 anni.

Come mai l’intensità emotiva riveste un ruolo così importante, se combinata a pregiudizi ostili o benigni? Per gli autori, l’intensità emotiva può servire da carburante che stimola il comportamento, ma solo la tipologia di pregiudizio (ostile o benevolo) può determinare la direzione dell’interazione.

Così, per i bambini che hanno un pregiudizio ostile è più probabile che agiscano e si impegnino in interazioni negative con gli amici quando tale pregiudizio è alimentato da intense emozioni. Allo stesso modo, i bambini che hanno un pregiudizio benigno intraprenderanno un comportamento più positivo con i pari, specialmente quando tale pregiudizio è alimentato da emozioni intense”, ha detto McElwain.

Una possibile spiegazione, che però non trova conferma nel presente studio e potrà dunque costituire un futuro sviluppo incentrato su specifici comportamenti, riguarda l’ipotesi che coloro che percepiscono le interazioni tra pari come benigne all’età di 9-10 anni, potrebbero successivamente iniziare comportamenti pro-sociali e condividere più interazioni positive, mentre coloro che percepiscono le interazioni come ostili, potrebbero essere più predisposti ad attaccare i propri amici e/o ritirarsi dalle interazioni.

L’importanza di riconoscere e ridimensionare i pregiudizi verso gli altri

Tale studio riveste un ruolo importante in quanto alcune amicizie sono una grande risorsa contro lo stress, mentre altre possono costituire elementi di conflitto e rivalità.

I genitori e gli insegnanti possono contribuire ad aiutare i bambini nello sviluppo di relazioni di qualità.

Spiegare quanto emerso a genitori ed insegnanti può aiutare loro a comprendere questo aspetto e lavorarci sopra, riconoscendo i pregiudizi ostili e minimizzandoli. Nell’arco temporale che precede l’adolescenza i bambini iniziano sempre più a riflettere sui propri pensieri e le distorsioni cognitive si aprono a possibili cambiamenti. Chen aggiunge: “Gli adulti possono aiutare i bambini, che mostrano cognizioni negative, modellando le opinioni positive sugli eventi negativi quando la situazione lo richiede. Un esempio potrebbe essere quello di dire al bambino: «Non penso che intendesse versare il latte sui tuoi compiti. È stato un incidente»”.

Spesso, un primo buon passo nel minimizzare i pregiudizi è riconoscere che esistono. “Durante l’adolescenza, i bambini sono sempre più in grado di discutere e riflettere sulle proprie cognizioni, quindi, questo periodo di sviluppo, in particolare, può essere uno in cui le cognizioni negative e le distorsioni sono aperte ai cambiamenti“, spiega McElwain.

Sogno e desiderio in Eyes Wide Shut – Recensione del film

La pellicola Eyes Wide Shut esplora i vissuti emozionali, le gelosie, i timori, i segreti di una tipica coppia americana. Credo però che l’elemento saliente possa essere ravvisato in quella che definirei come una “parabola del desiderio”.

Raffaele Fasano

 

Eyes Wide Shut: la trama del film

Avvicinarsi all’analisi dell’ultimo lavoro del grande cineasta americano Stanley Kubrick risulta un’ esperienza insieme malinconica e affascinante per chi come il sottoscritto ha amato ogni suo lavoro, dal più acerbo “The killer’s Kiss” all’indecifrabile “2001: A space odissey”. La malinconia di un ultimo incontro con uno dei più grandi personaggi del XX secolo, le ultime volontà artistiche e concettuali di un uomo che ha indagato ogni angolo della natura umana, si mescola con la fascinazione che questo ultimo lavoro esercita sullo spettatore, travolto da oniriche visioni di desideri liberati, colpe celate che dividono la scena della coscienza dei due protagonisti del film Eyes Wide Shut, Bill ed Alice, un torbido mistero di sesso e perversione che rapisce lo sguardo e la mente di uno spettatore agognante, impaurito, condotto da una regia maniacalmente attenta a disegnare sullo schermo una lenta, a tratti stancante, discesa nell’inferno di un matrimonio che si confronta con i propri fantasmi.

Siamo in bagno all’inizio del film Eyes Wide Shut, Bill ed Alice si stanno preparando per andare ad una festa natalizia, la loro figlia piccola Helene dorme nell’altra stanza. Lei è nuda, si osserva allo specchio, elemento questo molto ricorrente nella pellicola in quanto luogo del riconoscimento di sé, lui la cinge da dietro, rinnovando la conquista del corpo e dell’amore di lei. Assistiamo ad una classica manifestazione di intimità tra due giovani sposi, belli, innamorati e felici. La sera stessa questo idillio sarà messo alla prova, durante la festa, sotto forma di due procaci ragazze che cercano di attirare Bill, e di un attempato e misterioso signore che esprime la sua volontà di possessione nei confronti di Alice. Entrambi resistono alla tentazione del tradimento, ma eccitati e incuriositi dalle trame dell’attrazione sessuale, giocano con i loro seduttori, in un gioco di sguardi e gesti che invita e disillude. La sera, tornati a casa, si ricongiungono facendo l’amore.

È questo il primo incontro con il tema della sessualità, presente in tutta la pellicola. I due protagonisti conoscono le possibilità attrattive dei propri corpi, invitano alla seduzione, sono pronti a svestire i panni della moglie e del marito, e a lasciar emergere le nudità consapevoli delle proprie pulsioni. Il sesso è un tema forte dell’opera, che si manifesta in questo frangente come pura e semplice soddisfazione sessuale, il desiderio di soddisfacimento che vuole estinguersi nel raggiungimento dell’oggetto desiderato. È un tipo di soddisfacimento che esaurisce la tensione del soggetto attraverso la scarica, è in altri termini un tipo di desiderio che richiede la soddisfazione immediata, assimilabile al bisogno. Probabilmente nel fare l’amore i due protagonisti rispondono in qualche modo alla tensione sessuale creatasi negli assalti ai loro corpi, oggetti del desiderio di altri.

La sessualità si manifesta in una forma diversa in una scena successiva, quando Alice confessa, in preda ai fumi della marijuana, di aver provato una forte attrazione sessuale per un ufficiale della marina intravisto alcuni anni addietro. La donna, semi vestita, ammiccante e aggressiva, descrive le sue voluttuose fantasie al marito, che rimane estremamente scosso dalla scena. Ricevuta una telefonata, Bill lascia la moglie e si reca al capezzale di un paziente in fin di vita. Inizia qui il percorso parallelo dei due protagonisti, l’uomo inizia un’odissea che lo porterà fino alla misteriosa orgia nella villa, la donna si addentra nelle sue fantasie sognando l’ufficiale della marina.

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Il doppio sogno

Ci sono due elementi che simbolicamente spiegano la circostanza per cui la donna rivela la sua fantasia al marito. Innanzitutto la droga, che sembra agire come una sorta di liberazione della parola, annebbiando il suo giudizio, portandola a dare voce ad un antico desiderio fino ad allora celato, quasi come uno scacco dato all’attività censoria della veglia. Inoltre la notte, che nel film è segretamente presente quale metafora insieme della discesa nell’oscurità, negli inferi della mente che sfugge alle regole, e del sonno, come attività che libera lo spazio del sogno, l’esplorazione dei propri desideri repressi, l’agognata soddisfazione di essi nell’attività onirica.

Durante la notte la donna sogna infatti di avere un rapporto sessuale con l’ufficiale, appagando in maniera onirica così il suo antico desiderio. L’uomo, al contempo, si avventura negli spazi di una New York estremamente simbolica e onirica, che si configura come una sorta di sogno ad occhi aperti, che si fa luogo della possibilità di soddisfazione onirica per Bill. Avrà così la possibilità di vendicarsi del tradimento fantasticato dalla moglie, prima con una donna di nome Marianne, innamorata da tempo di lui, poi con una prostituta, ma entrambe le volte l’uomo sarà richiamato alla realtà, che gli impedirà di cedere alla soddisfazione del suo desiderio. Successivamente, attraverso varie peripezie, si trova in una villa, dove si sta svolgendo un’orgia fanatica di rapporti sessuali, corpi nudi donati indiscriminatamente, l’identità protetta da una maschera. È questo il momento più onirico di tutta la pellicola, con l’orgia che si configura quale spazio del più incontrollato desiderio sessuale, dove il corpo spogliato dei vestiti e dell’identità può essere privato di ogni sua connotazione sociale, ogni dettaglio culturale, facendosi strumento e oggetto della più sfrenata soddisfazione sessuale. È in questo spazio che l’uomo troverà la più vivida manifestazione del suo desiderio sessuale, insieme alla condanna, esercitata simbolicamente da un officiante dalle sembianze cardinalizie, una sorta di grande inquisitore che veste i panni di una realtà che legifera sulle più sfrenate condotte.

Il deciso richiamo alla teoria del sogno di Sigmund Freud si ravvisa in questo elemento onirico del film. Gli avvenimenti salienti avvengono durante la notte, al calare dell’oscurità, in opposizione alla calda e apparente serenità familiare del giorno. È durante la notte che la tentazione sessuale scuote i sensi dei protagonisti, durante la notte essi si confessano a se stessi e al proprio partner, ed è sempre durante la notte che, entrati nello spazio del sogno, si abbandonano alla soddisfazione del proprio desiderio. La scena filmica appare inoltre rovesciata, gli elementi si presentano ignari delle proprie contraddizioni, i personaggi si muovono senza apparente volontà, quasi trasportati dagli eventi. Troviamo ancora numerosi elementi che appaiono opposti rispetto alla veglia, come ad esempio i due giapponesi svestiti nel negozio di costumi che il giorno successivo incontreranno Bill, vestiti di tutto punto.

Il desiderio nel film Eyes Wide Shut

La pellicola Eyes Wide Shut esplora i vissuti emozionali, le gelosie, i timori, i segreti di una tipica coppia americana. Credo però che l’elemento saliente possa essere ravvisato in quella che definirei come una “parabola del desiderio”. Nel primo atto di seduzione descritto in precedenza, i corpi dei protagonisti sono fatti oggetto dell’attrazione dell’altro, delle due ragazze e dell’uomo alla festa. È questo un desiderio che si avvicina più propriamente al bisogno biologico, secondo cui il corpo agognato è schiacciato sulla definizione di oggetto desiderabile per alcune caratteristiche, che può appunto soddisfare il soggetto. Ma che tipo di desiderio sta esprimendo Alice al marito nella scena della confessione? E che tipo di desiderio vivifica Bill nella sua angosciante odissea newyorchese?

In queste scene di Eyes Wide Shut assistiamo ad una problematizzazione del desiderio sessuale esperito dai due protagonisti. È innanzitutto un desiderio inconscio, non manifesto, che seppur espresso è simbolicamente collocato nelle scene notturne, elemento descritto in precedenza. Nella sua “Interpretazione dei sogni” Freud definisce tre tipi di desiderio che possono suscitare un sogno: il primo tipo è suscitato di giorno e può non trovare appagamento in seguito a circostanze esterne, il secondo può emergere durante la veglia ma essere represso, il terzo può provenire dall’inconscio. Perché il terzo tipo di desiderio possa dar origine ad un sogno deve collegarsi ad un pensiero esperito durante la veglia, che sia in qualche modo associato al desiderio rimosso. Nel caso dei due protagonisti, gli avvenimenti della festa suscitano in maniera inequivocabile un certo tipo di eccitazione sessuale, che collegandosi ad antichi pensieri repressi, danno origine ad un ritorno di fantasie sessuali nascoste. È per questo che Alice assume un’ aria totalmente sconosciuta al marito ad esempio, come se fosse dominata da un’altra parte di sé, mai mostrata al proprio partner. In questo caso si tratta di un altro tipo di desiderio quindi, un desiderio di natura sessuale sì, ma inconscio, represso, relegato nell’oscurità, che può esprimersi solo attraverso le leggi del processo primario.

La donna assume un’ espressione stranita, sognante, le sue membra sono contratte, sembra essa stessa un sogno. Allo stesso modo Bill attraversa una New York oscura, evocativa, che seguendo le leggi di costituzione del sogno descritte da Freud si configura come una manifestazione mascherata di un contenuto nascosto. L’orgia in questo senso può essere configurata come la massima espressione delle funzioni del sogno, quale completa distensione del principio di piacere, di quel principio cioè che aspira al più totale soddisfacimento, sfuggendo all’esame di realtà. Alice si abbandona anch’essa al principio di piacere, soddisfacendo in maniera fantasticata il suo desiderio. Il desiderio descritto in questa fase è separato in Freud dal concetto di bisogno, è un desiderio come detto inconscio, che risponde alla sola legge del principio di piacere. Tale principio è uno dei due poli che regola l’attività psichica dell’essere umano, in contrapposizione al principio di realtà che sottopone la nostra vita al controllo morale, etico e sociale. Se non imbrigliato, l’inconscio sarebbe libero di esprimere incondizionatamente i suoi soddisfacimenti pulsionali, con la conseguente impossibilità di una vita stabile e in armonia con gli altri. In questo senso il confronto finale dei due coniugi si configura come un ritorno nella sfera della realtà, attraverso la piena accettazione dei rispettivi vissuti di desiderio e il consapevole ritorno sottomesso alle leggi della società, simbolizzata nella scena finale di Eyes Wide Shut dalla famiglia felice in prossimità del Natale, luogo caldo e rassicurante che allontana l’oscurità.

Arte e neuroscienze: le due culture a confronto (2017) – Recensione

Nella pubblicazione Arte e Neuroscienze, Kandel approfondisce la relazione tra creatività e razionalità attraverso un percorso tra l’arte del novecento e il funzionamento del nostro sistema nervoso.

Alessia Incerti, Valentina Rossi

 

Chi è Eric Kandel?

Sono d’obbligo alcune note circa l’autore: Eric Richard Kandel neurologo, psichiatra statunitense è uno dei maggiori neuroscienziati del ventesimo secolo.

E’ stato Professore di biofisica e biochimica presso la Columbia University dal 1974 e ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2000 per gli studi effettuati sulle basi fisiologiche della conservazione della memoria nei neuroni, premio che condivide con i colleghi Arvid Carlsson e Paul Greengard.
Molti di noi psicologi hanno studiato i fondamenti anatomo-fisiologici dell’attività psichica sui suoi manuali.

Arte e neuroscienze: un libro che unisce creatività e razionalità

Nella pubblicazione Arte e Neuroscienze, Kandel approfondisce la relazione tra creatività e razionalità attraverso un percorso tra l’arte del novecento e il funzionamento del nostro sistema nervoso.

L’autore propone un modo per colmare lo iato tra cultura umanistica e artistica e cultura scientifica, come prima di lui fece il fisico molecolare C. Snow che diede inizio a questo dibattito. Kandel nella sua introduzione afferma: “tanto le neuroscienze quanto l’arte astratta si pongono, in modo diretto e coinvolgente, domande e obiettivi che sono centrali per il pensiero umanistico (…). Se il processo artistico è spesso rappresentato come espressione della fantasia umana, io mostro che gli artisti astratti spesso raggiungono i loro obiettivi ricorrendo a metodologie simili a quelle usate dagli scienziati.”

Kandel riferendosi ai metodi delle scienze si riferisce alla possibilità di scomporre un fenomeno complesso nelle sue singole parti per poterle studiare analiticamente.
Un approccio riduzionista ha favorito l’acquisizione delle conoscenze circa l’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso.

A partire dagli anni settanta del secolo scorso, nasce un nuovo approccio che integra le conoscenze fino ad ora acquisite con le conoscenze della psicologia, psichiatria che studiano il comportamento umano. E’ la nascita delle neuroscienze e della ricerca di risposte a domande circa il funzionamento della mente umana: Come impariamo? Come ricordiamo? Come percepiamo? Da dove provengono le emozioni? Che cosa significa empatia?

La risposta a queste domande è da trovarsi nelle neuroscienze che ci permettono di affrontare anche il tema  del libro Arte e neuroscienze, ovvero la relazione tra cervello e arte.

Perché non tutti abbiamo la stessa reazione osservando la medesima opera d’arte?

Questo tema inizia a essere affrontato da A. Riegel già sin dalla fine dell’ottocento, egli sottolineò come l’arte sia incompleta senza il punto di vista dell’osservatore stesso.
Kandel stesso ci racconta la storia di questi studi ed anche descrive come il nostro cervello elabora i segnali sensoriali provenienti da un’opera d’arte e a partire da essi costruisce significati: “per l’artista il processo creativo è anche interpretativo e per chi guarda il processo interpretativo è anche creativo”.

Riprendiamo la domanda “perché non tutti abbiamo la stessa reazione osservando la medesima opera d’arte?” Rintracciamo la risposta in un periodo specifico della storia dell’arte: gli anni quaranta e cinquanta, epoca della scuola neworkese dell’espressionismo astratto.

Il riduzionismo scientifico permette di analizzare un fenomeno complesso scomponendolo ed esaminando le singole parti, può essere applicato a diversi ambiti, alla biologia ma anche all’arte.
Il riduzionismo difatti, consente agli artisti di passare dalla rappresentazione figurativa all’astrazione, ovvero all’assenza di elementi figurativi, per suscitare nuove risposte emotive e percettive nell’osservatore.
L’autore spiega che l’arte astratta si basa sul presupposto che elementi semplici siano sufficienti per avviare un’esperienza percettiva poi completata dall’osservatore sulla base della propria esperienza; le opere astratte stimolano la creatività, l’immaginazione e le associazioni personali di chi le osserva.

L’approccio riduzionista è evidente nelle opere d’importanti artisti come Piet Mondrian che sviluppò un nuovo linguaggio dell’arte basato su forme geometriche semplici che consentono allo spettatore di costruire la propria percezione dell’immagine.
Anche gli artisti della Scuola di New York, soprattutto Willem de Kooning, Jackson Pollock, Mark Rothko e Morris Louis utilizzarono il riduzionismo.
Il nuovo approccio riduzionista di Pollock ad esempio si concentrava sull’atto di dipingere e sul processo di creazione: l’artista rivoluzionario versava e faceva gocciolare il colore sulla tela stesa a terra ottenendo immagini in grado di stimolare la visione periferica e il continuo movimento degli occhi dell’osservatore.

Rothko si focalizzò invece sul colore e la profondità e affermava: “Solo spingendo al limite colore, astrazione e riduzione l’artista può creare un’immagine che ci liberi dalle associazioni convenzionali con il colore e la forma e permetta al nostro cervello di plasmare idee, associazioni e relazioni nuove e nuove risposte emotive a esse”.

Kandel sostiene che l’arte astratta sovverte le regole innate della percezione e ci insegna a guardare l’arte e il mondo in modo nuovo: in assenza di elementi figurativi e riconoscibili creiamo nuove associazioni.

La mia ricerca artistica comprende immagini astratte che lasciano ampio spazio alla lettura e alle impressioni personali dell’osservatore. In un recente progetto, racconta Valentina Rossi ho rappresentato invece semplici oggetti di uso comune, ma le dimensioni di queste figure e l’interazione con lo spazio che le circonda, invitano l’osservatore a soffermare lo sguardo su questi oggetti per osservarli in modo nuovo, evocare immagini personali e significati simbolici. Ci sono spettatori che guardano ad un opera d’arte attivando processi Bottom up: ovvero dalle sensazioni percettive osservate nel quadro alla ricerca di un significato personale e di una definizione del percepito. Ad esempio: “quel cerchio con una linea verticale mi fa pensare alla chiave del mio ufficio”.

Vi sono poi spettatori nei quali, osservando un’opera, si attivano processi top down e riconoscono immediatamente una definizione e un significato: “è una chiave!” e poi risalgono alle sensazioni percettive e ascoltano le proprie sensazioni corporee sperimentate davanti al quadro.
Un’opera d’arte, dunque è completa solo se vista. L’osservatore, mediante processi top-down o bottom-up fornisce una interpretazione dell’opera stessa.

Arte e neuroscienze: “L’incontro tra due discipline non prende posto dove l’una comincia a riflettersi sull’altra, ma dove l’una realizza che deve risolvere da sè, con i suoi mezzi, un problema simile ad uno affrontato dall’altra” (Gilles Deleuze).

Un’inaspettata condivisione di pattern di attivazione genica per una migliore diagnosi psichiatrica

Un recente studio di Geschwind, Gandal e colleghi, pubblicato su Science, ha mostrato come cinque fra le maggiori patologie psichiatriche abbiano pattern di attivazione genica distinti ma anche sovrapponibili a livello delle cellule della corteccia cerebrale.

 

Somiglianze nei pattern di attivazione genica dei principali disturbi psichiatrici

La predisposizione a sviluppare un disturbo psichiatrico è frutto di una complessa, poligenica e pleiotropica architettura; tuttavia, sono ancora poche le informazioni disponibili circa i meccanismi molecolari coinvolti nella patologia o nella disfunzione cerebrale.

Lo studio di Geschwind e Gandal (2018), utilizzando l’analisi transcriptomica, ha tentato di identificare come l’espressione genica di alcuni specifici pattern genetici possa favorire l’insorgenza di fattori di rischio per cinque diverse patologie psichiatriche: schizofrenia, disturbo bipolare, depressione, autismo e abuso di alcol.
Nonostante i recenti sviluppi per identificare i fattori di rischio genetici che contribuiscono allo sviluppo di diverse patologie psichiatriche (Geschwind & Flint, 2015; Gandal, Leppa, Won & Geschwind, 2016), poco ancora si sa riguardo a come questi interagiscano con fattori ambientali ed epigenetici a livello cerebrale per aumentarne il rischio.

Pertanto Geschwind e Gandal, studiosi alla UCLA (University of California, Los Angeles), per cercare di capire cosa accade a livello molecolare nei soggetti affetti da patologie psichiatriche hanno iniziato, nel 2013, ad analizzare l’espressione genica utilizzando cellule della corteccia cerebrale tramite analisi post-mortem di 700 pazienti con autismo, schizofrenia, disturbo bipolare, depressione e abuso di alcol confrontati con 293 soggetti di controllo.

Questa prima analisi ha evidenziato come certe patologie psichiatriche siano più simili a livello molecolare rispetto a quanto indichi la loro sintomatologia: per esempio il disturbo bipolare è stato categorizzato dal DSM IV-TR (APA, 2000) come un disturbo dell’umore assieme al disturbo depressivo per alcune basi biologiche condivise.

Questo studio ha dimostrato come in realtà i geni delle cellule corticali dei soggetti con disturbo bipolare si possano invece sovrapporre per attività a quelli degli individui affetti da schizofrenia.

In aggiunta Geschwind, Gandal e colleghi (2018) hanno trovato una correlazione estremamente bassa tra pattern di attività di alcuni specifici geni confrontando l’abuso di alcol con gli altri quattro disturbi, dimostrando come in realtà gli studi sui gemelli omozigoti che evidenziavano come simili i fattori di rischio genetici tra l’abuso di alcol e la depressione non fossero corretti.

Tale studio (Geschwind, Gandal, 2018) ha inoltre mostrato come molti geni delle cellule corticali siano attivi allo stesso modo sia nell’autismo che nella schizofrenia, anche se la loro attività è maggiore nel primo disturbo, contribuendo all’idea che un’ iperespressione genica possa giocare un ruolo nei sintomi autistici.

I risultati ottenuti dalla ricerca di Geschwind, Gandal e colleghi (2018) forniscono una caratterizzazione genomica piuttosto ampia che coinvolge cinque tra le maggiori patologie neuropsichiatriche tramite l’identificazione di pattern molecolari legati all’espressione di alcuni specifici geni distinti per ciascuna patologia ma anche inaspettatamente condivisi.

A parere degli autori dello studio, queste evidenze potrebbero in futuro permettere un’innovativa e più corretta diagnosi oltre che aumentare la conoscenza dei fattori di rischio che contribuiscono allo sviluppo di tali patologie; di conseguenza sarà possibile anche strutturare ad hoc nuove terapie e interventi.

Grazie a questo studio, stiamo trovando quei tasselli del puzzle che ci permetteranno di vedere il quadro generale con più chiarezza” (Kenneth Kendler, psichiatra e genetista alla Commonwealth University in Richmond).

Il sistema uditivo e il suo funzionamento – Introduzione alla Psicologia

Il sistema uditivo è composto da diversi organi, primo tra tutti l’orecchio che raccoglie e converte le vibrazioni prodotte dalle onde sonore in un segnale nervoso.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Come funziona il sistema uditivo

Il suono una volta attraversato l’orecchio esterno è trasdotto meccanicamente, tramite la membrana timpanica, attraversa il complesso degli ossicini che si trovano nell’orecchio medio. Le pressioni prodotte nell’orecchio interno sono inizialmente elaborate dalla coclea che converte le vibrazioni meccaniche in impulsi nervosi e successivamente invia questi segnali ai centri uditivi corticali superiori.

Le vibrazioni prodotte dal suono si irradiano tramite onde circolari nelle quali sono presenti dei picchi, in eccesso e in difetto. La frequenza dell’onda, valutata in cicli al secondo o Hz, indica la tonalità. L’orecchio umano è sensibile ad una gamma di frequenze acustiche che varia dai 20 ai 20.000 Hz. L’ampiezza del suono è la massima escursione della pressione dell’aria prodotta da un suono nei due sensi ed è correlata con l’intensità del suono stesso, misurata in decibel.

Le cellule del sistema uditivo

Le cellule ciliate del sistema uditivo sono presenti nell’orecchio interno, esattamente nell’organo del Corti, composto da tre file di cellule ciliate esterne e una fila di cellule ciliate interne. Sulla superficie apicale di ogni cellula ciliata sono presenti fascicoli di stereociglia che terminano nella sovrastante membrana tettoria. Le stereociglia si flettono se la membrana tettoria e la membrana basilare si muovono e se il movimento depolarizza la cellula ciliata provocando l’apertura di canali ionici che determinano l’insorgenza di una corrente entrante o segnale nervoso. Nel momento in cui un suono determina un movimento oscillatorio della membrana basilare, lo spostamento angolare, avanti ed indietro, delle stereociglia provoca l’insorgenza di variazioni sinusoidali di potenziale che hanno la stessa frequenza dello stimolo acustico.

Le cellule ciliate, inoltre, rilasciano tramite  estremità basale i neurotrasmettitori che entrano in contatto con gli assoni periferici dei neuroni bipolari i cui corpi cellulari sono localizzati nel ganglio spirale e le branche danno origine al nervo acustico. Il nervo acustico, dopo essere stato polarizzato, è in grado di trasmettere il segnale nervoso dalla periferia al centro.

Le fibre del nervo acustico terminano nel nucleo cocleare che si trova sulla superficie esterna del peduncolo cerebrale inferiore.

Il nucleo cocleare mostra una organizzazione tonotopica delle cellule e delle fibre, poiché si determina l’analisi delle caratteristiche temporali e spaziali del suono.

Gli assoni delle cellule del nucleo cocleare si suddividono in tre fasci distinti: la stria acustica dorsale, la stria acustica intermedia e il corpo trapezoide. La via principale è costituita dal corpo trapezoide che contiene le fibre destinate ai nuclei dell’oliva superiore di entrambi i lati del tronco dell’encefalo. Il nucleo mediale dell’oliva superiore è deputato alla localizzazione dei suoni in base a differenze interaunali di tempo. Questo nucleo è formato da cellule che ricevono afferenze dai nuclei cocleari controlaterali e ipsilaterali.

Il nucleo laterale dell’oliva superiore è principalmente legato all’analisi delle differenze dell’intensità del suono. Gli assoni del complesso dell’oliva superiore convergono a formare il lemnisco laterale. In questo modo, il sistema nervoso centrale riceve estese afferenze uditive bilaterali e lesioni a carico delle vie uditive centrali non determinano mai sordità monoaurale. Il lemnisco laterale passa attraverso i nuclei del lemnisco laterale e, a questo livello, avviene uno scambio di fibre attraverso la commessura di Probst. Tutte le fibre del lemnisco laterale fanno sinapsi infine con le cellule del collicolo inferiore che ricevono afferenze binaurali ed hanno un’organizzazione tonotopica. La maggior parte delle cellule del collicolo inferiore del sistema uditivo inviano i loro assoni al corpo genicolato mediale del talamo: queste a loro volta mandano i loro assoni alla corteccia uditiva primaria omolaterale che è localizzata nel giro temporale superiore.

La corteccia uditiva

La corteccia uditiva è localizzata nel lobo temporale. L’informazione sonora, dopo essere stata ricevuta, giunge alla corteccia uditiva primaria che è la prima area a ricevere questi dati. Essa può anche essere denominata area di Brodman 41 e 42 e a sua volta è suddivisa in uditiva primaria e uditiva secondaria.

La corteccia uditiva primaria è tonotopica, ossia  analizza le caratteristiche dell’onda sonora in arrivo come l’altezza, l’intensità o l’ampiezza, il timbro o il ritmo. La tonotopia di quest’area è data dal fatto che i neuroni di questa zona sono distribuiti secondo le differenti frequenze che rispondono eterogeneamente alle componenti armoniche del suono, dividendolo in caratteristiche specifiche.  Inoltre, il IV strato di cellule presente in questa area cerebrale è quello d’ingresso alla corteccia mentre il V è legato al corpo genicolato mediale e alle cortecce somatica e visiva.

Anche la corteccia uditiva è funzionalmente organizzata in colonne, esattamente come le altre aree. Le cellule che la costituiscono hanno caratteristiche binaurali e tendono a raggrupparsi in due tipi di colonne diverse e alternate dette rispettivamente colonne di sommazione e colonne di soppressione. Nella prima la risposta binaurale delle cellule è maggiore della risposta monoaurale. Nelle seconde si osserva la dominanza delle afferenze che provengono da una delle due orecchie. Infine, la corteccia uditiva possiede anche estensioni callosali.

La corteccia uditiva secondaria, invece, non è tonotopica poiché è deputata all’analisi semantica, ossia alla comprensione logica che ne determina il significato.

Siccome vi sono estese rappresentazioni delle afferenze di ciascun orecchio in entrambi gli emisferi cerebrali, le lesioni corticali unilaterali non alterano in maniera significativa la percezione delle frequenze acustiche mentre hanno notevoli conseguenze sulla capacità di localizzare i suoni nello spazio. Ogni emisfero cerebrale è deputato alla localizzazione dei suoni che provengono dal lato controlaterale.

L’ablazione o la lesione di una parte della corteccia uditiva può comprometterne la funzione uditiva, a partire da semplici problemi relativi all’individuazione della sorgente del suono, per arrivare a complicazioni più gravi come la sordità.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Una epidemia del narcisismo nelle società occidentali

Il narcisismo è un tratto caratteristico della personalità, che descrive quelle persone che mostrano fantasie di grandiosità, una scarsa empatia verso il prossimo, un bisogno di percepire l’ammirazione degli altri, un forte senso dei propri diritti, a scapito di quelli altrui.

 

Pretendiamo troppo dalla vita, e troppo poco da noi stessi (Cristopher Lasch, “La cultura del narcisismo”)
Il punto è, che non potrai mai essere troppo avido (Donald Trump).

 

Il narcisismo è un tratto caratteristico della personalità, che descrive quelle persone che mostrano fantasie di grandiosità, una scarsa empatia verso il prossimo, un bisogno di percepire l’ammirazione degli altri, un forte senso dei propri diritti, a scapito di quelli altrui. I tratti narcisistici sono molto comuni nella popolazione non clinica; solo quando essi sono presenti in forma rigida, inflessibile, ostacolando il funzionamento e il benessere delle persone che ne sono portatori, nonché di coloro che vi entrano in relazione, si può parlare di un Disturbo narcisistico di personalità.

Una distinzione comunemente impiegata dai clinici (Akthar & Thompson) è tra un narcisismo manifesto (overt) e un narcisismo sommerso (covert): il primo grandioso nelle fantasie, bisognoso di ammirazione, sprezzante, egocentrico e seduttivo, il secondo affetto da sentimenti di inferiorità, fragile, sensibile alle critiche e agli insuccessi, distaccato nelle relazioni (per un approfondimento vedi Dimaggio & Semerari, 2003).

Narcisismo e ambiente di apprendimento: Germania Est e Germania Ovest a confronto

La consapevolezza di una notevole diffusione di tratti narcisistici nella popolazione ha portato diversi autori a indagarne le ragioni, senza risparmiare affermazioni forti: c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo (Lasch, 1979), e addirittura di una epidemia del narcisismo (Twenge, Campbell, 2009) nelle società occidentali.

Un team di ricercatori afferenti alla Charité–Universitätsmedizin di Berlino (Vater et al., 2018) ha indagato i livelli di narcisismo nella società tedesca, valutandolo su tre dimensioni: narcisismo grandioso (overt), narcisismo vulnerabile (covert), e autostima. Lo scopo della ricerca era di verificare eventuali differenze tra i cittadini cresciuti nei territori della ex Germania Est, e tra quelli cresciuti nella ex Germania Ovest. L’ipotesi è che eventuali differenze sarebbero riconducibili alle influenze socioculturali, derivanti dall’avere vissuto rispettivamente in una società a connotazione capitalistica/individualistica o a una società a connotazione socialista/collettivista. La storia della Germania rappresenta un unicum mondiale, un grande esperimento politico di trasformazione socio-culturale, dal collettivismo di stampo comunista al capitalismo del mondo occidentale. Questo interessante studio rappresenta quindi un’indagine sull’interazione tra caratteristiche sociodemografiche e caratteristiche psicologiche, nelle popolazioni interessate a un processo di trasformazione sociopolitica unico e irripetibile.

L’ipotesi dei ricercatori era di una maggior prevalenza della dimensione narcisismo overt nella popolazione dell’ex Germania Ovest, unita a una maggiore autostima rispetto alle popolazioni della Germania Est. Inoltre, viene per la prima volta svolta una ricerca comparativa sulla dimensione del narcisismo covert, sulla quale non esiste letteratura. L’ipotesi, basata sulla teoria che l’ambiente di apprendimento può plasmare la personalità (Trautwein et al., 2006), è che questa differenza riguardi soprattutto coloro che, per ragioni anagrafiche, hanno sperimentato il passaggio tra condizioni socio-culturali diverse; quindi coloro che avevano già una scolarizzazione al momento del crollo del muro di Berlino.

Sono stati reclutati 1,025 partecipanti di età compresa tra i 18 e gli 83 anni tramite pubblicità sui social network. I partecipanti sono stati invitati a compilare un questionario online, e gli è stata offerta la possibilità di ottenere un e-book come incentivo. Il questionario comprendeva i seguenti strumenti:

  • Narcissistic personality inventory (NPI), per indagare la dimensione narcisismo grandioso,
  • Pathological Narcissism Inventory (PNI), per indagare le dimensioni narcisismo grandioso e vulnerabile
  • Roseberg’s Self-Esteem Scale (RSE), per indagare la dimensione autostima.

I ricercatori hanno quindi diviso i partecipanti sulla base dell’appartenenza geografica (residenti in territori dell’ex Germania Ovest e dell’ex Germania Est), e su tre coorti di età, prendendo come riferimento il 1989, anno di riunificazione della Germania. Si è ottenuto quindi un gruppo di partecipanti più giovani (meno di 6 anni di età nel 1989), un gruppo di mezza età (tra i 6 e i 18 anni di età nel 1989), un gruppo di partecipanti più anziani (tra i 19 e 41 anni di età nel 1989).

I risultati indicano differenze significative nelle dimensioni narcisismo grandioso, con punteggi più elevati tra i partecipanti dell’ex Germania Ovest, e nelle dimensioni autostima, con punteggi più elevati tra i partecipanti dell’ex Germania Est, contrariamente alle ipotesi iniziali. Questi risultati sono stati rilevati solo tra i partecipanti nella coorte di mezza età, mentre i dati riguardanti la dimensione narcisismo vulnerabile non indicano differenze significative tra i campioni. L’assenza di differenze nella coorte più anziana rifletterebbe dati già documentati in letteratura (Cai et al., 2012; Orth et al., 2010), per cui la grandiosità narcisistica decresce con il trascorrere degli anni, mentre l’ autostima tende a innalzarsi. L’assenza di differenze nella coorte più giovane, ipotizzata dagli autori, rifletterebbe l’appianamento dei modelli socio-culturali tra i territori della Germania riunificata.

I dati riguardanti le differenze nell’ autostima impongono una maggiore riflessione: è possibile che le differenze rilevate in letteratura su popolazioni asiatiche o medio-orientali (Foster et al, 2003; Schmitt & Allik, 2005), le cui società hanno un orientamento collettivistico, siano inficiate da una inadeguata taratura dei mezzi di indagine, che riflettono la cultura occidentale, mentre potrebbero non riflettere differenti concezioni culturali nelle popolazioni orientali. A tal proposito, Sedikides e collaboratori (2015) argomentano che il desiderio di avere una buona autostima è universale, mentre ogni cultura indica diverse modalità con cui questa si può manifestare.

In conclusione, questo interessante studio documenta come i fattori socio-culturali abbiano un’influenza sull’espressione di tratti narcisistici di personalità, sfruttando in modo originale un “esperimento naturale”, dovuto alle vicende politiche della Germania. Per quanto non si possano trarre inferenze di causalità dai dati presentati, possibili solo sulla base di studi longitudinali, l’impressione che si stia rinforzando la presenza di tratti narcisistici nella popolazione sembra un dato realistico, e potrebbe fare riflettere coloro che hanno proposto di abolire il disturbo narcisistico di personalità dalle classificazioni diagnostiche (per un approfondimento vedi: Holden, 2010; Shedler et al., 2010).

L’ aborto come tendenza intergenerazionale

Secondo un nuovo studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal, le adolescenti le cui madri hanno abortito hanno maggiori probabilità di effettuare un aborto a loro volta.

 

Aborto in adolescenza: l’influenza intergenerazionale

Nei paesi sviluppati, le statistiche parlano di circa 6,7 milioni di casi di aborto eseguiti ogni anno dallo staff sanitario. Un’elevata percentuale di donne che effettuano un aborto è costituita da adolescenti di età pari o inferiore ai diciannove anni.

In particolare, in Canada, il tasso di gravidanza delle adolescenti è di 28 su 1000, di cui circa il 50% confluisce in aborto.

Gli studiosi Joel Ray e Ning Liu, dell’Institute for Clinical Evaluative Sciences, a Toronto, hanno notato come la letteratura scientifica riporti un’associazione tra i tempi di una prima gravidanza materna terminata in parto vivo ed i tempi della prima gravidanza delle figlie, anch’essa terminata con parto vivo.

Da questa associazione, i ricercatori hanno generato una domanda di ricerca sul tema dell’ aborto indotto.

Il database è stato costituito sui dati di 431623 ragazze nate in Ontario, servendosi dei dati dell’Istituto per le scienze cliniche valutative (ICES) e collegandosi ad altri database in cui erano contenute informazioni sulle coppie madre-figlia.

I gruppi createsi a partire da questi dati sono stati due: il primo costituito da 75518 figlie le cui madri avevano abortito (almeno una volta) ed il secondo gruppo costituito da 358105 ragazze le cui madri non avevano mai abortito.

Nel primo gruppo, quello in cui le madri delle ragazze avevano abortito, la probabilità di aborto durante l’adolescenza era del 10,1% rispetto al 4,2% della probabilità di abortire del gruppo costituito dalle ragazze le cui madri non avevano mai abortito.

Gli studiosi hanno considerato che quasi la totalità di questi aborti (94,5%) si è verificata prima della gestazione di 15 settimane e ciò determina l’improbabilità che la ragione di tale aborto potesse essere attribuita a motivazioni quali difetto genetico o di nascita del feto. Nella maggior parte dei casi si ipotizza dunque che gli aborti fossero dovuti a indicazioni sociali.

È stato inoltre rilevato un effetto per il quale il maggior numero di aborti della madre corrispondeva ad un maggiore numero di aborti nella figlia adolescente.

Limiti e fututi sviluppi dello studio

Ciò che non emerge dai risultati sono i fattori che potrebbero causare questa associazione. Studi precedenti hanno rilevato una maggiore probabilità di aborto da parte di adolescenti in caso di problemi sociali (ad esempio prestazioni scadenti a scuola, separazione da un genitore biologico, minore educazione dei genitori e scarso reddito).

Alcuni aspetti che nello studio non sono stati indagati, ma che potrebbero contribuire alla comprensione del fenomeno sono informazioni sui padri, sullo stato civile, sul livello di istruzione delle ragazze stesse e sulle dinamiche familiari.

Inoltre, ulteriori studi potrebbero determinare se i genitori e le strategie educative da essi adottate potrebbero contribuire alla riduzione del sesso non protetto tra adolescenti e alla comprensione di tematiche legate alla gravidanza e all’aborto.

Conclude il dottor Ray “Qualunque sia l’esito della gravidanza, la necessità di difendere la salute di una giovane donna è fondamentale“.

 

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

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