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Il contratto terapeutico

Parlo coi pazienti, supervisiono molti giovani colleghi, discuto casi durante le lezioni. L’esperienza è sempre la stessa, nessuno, davvero nessuno degli allievi o dei giovani colleghi mette in pratica una cosa: la formulazione e il continuo rinnovo del contratto terapeutico.

 

Giancarlo, la terapia va male, il paziente non risponde, non so più che fare. Gli ho spiegato che dovrebbe attivarsi, affrontare il sintomo attivamente, parlare diversamente con la moglie, il marito, il collega, ma niente, non fa niente.

Dopo questo discorso le reazioni del terapeuta sono spesso: scoraggiamento e impotenza, insieme all’idea di essere scarso. Irritazione verso il paziente. Facilmente: oscilla tra le due. E nessuna delle due è particolarmente benefica per il trattamento.

Mi chiedo sempre: il concetto di alleanza terapeutica, merita di essere ignorato così? È così ingiusto che un concetto così bello, utile, commovente nella sua semplicità, resti inosservato? Eppure è così: i terapeuti lo dimenticano.

L’ alleanza terapeutica ha tre componenti. Il bond, il legame. Che traduco come: passare un’ora in questa stanza insieme non è poi così male. E qui i terapeuti spesso ci arrivano. Poi c’è il goal, la meta, l’obiettivo. E qui i terapeuti ci devono arrivare. Il paziente entra in terapia e si definisce, si spera in modo congiunto, paritetico, collaborativo, dove si vorrebbe andare a parare. Varie declinazioni specifiche del concetto di ‘stare meglio’.

E infine casca l’asino. La terza componente. Se la scordano tutti. Eppure dovrebbe definire la terapia cognitiva. Ma se la scordano tutti. Il task, il compito. Lei vuole andare lì, siamo d’accordo, e per farlo sarà necessario che io faccia questo e lei faccia, tra una seduta e l’altra, quello. Ok? Stretta di mano?

La mano, i terapeuti di solito non la stringono. E la pagano cara questa mancata stretta.

Che significa? Che i terapeuti, giovani e meno giovani, esperti e meno esperti, cognitivisti e meno cognitivisti o non pensano proprio che la cura passa attraverso l’esecuzione degli homework, oppure lo sanno – fiuuu, meno male – ma pensano di dovere convincere il paziente a farli.

Una delle cose che trovo meno facili da tollerare nei colleghi è quando vogliono convincere i pazienti di qualcosa: insistono, pressano, spiegano, alzano la voce, rimproverano spesso con grande soddisfazione: ‘Eh, sapessi, ma io gliel’ho detto al paziente, sai? E sì, proprio non vuole capire, ma gliene ho cantate quattro’. Come canzone quasi quasi preferisco Anna Tatangelo.

No. La strada per la cura è un’altra. Il terapeuta crea il legame. Fatto? Definisce la meta. Fatto? E spiega al paziente che per raggiungere la meta bisognerà seguire una certa strada. Se quella strada non la vuole percorrere se ne può provare un’altra. Poi una terza. La quarta di solito non c’è o almeno io, come terapeuta, non la conosco.

Ecco, questo è il momento di formulare il contratto. Il terapeuta non deve spingere il paziente su quella strada, saggia, foriera di futuro e speranza, colma di salute, benessere e felicità. Il terapeuta la deve prefigurare quella strada, disegnarla nell’aria con ipnotici movimenti delle dita, evocarla, tracciarla su carta nel caso. E poi il contratto: ‘Senta, lei se la sente di fare questo viaggio al fine di arrivare a quell’approdo?’.

Il terapeuta bravo, a questo punto, fa una cosa strana. Respira. A lungo, profondamente, quasi un respiro mindful.

Respira. A lungo. E poi. Aspetta.

Il concetto chiave del contratto terapeutico è che il terapeuta aspetta. Spiega al paziente lo spiegabile, definisce il definibile. Ma poi chiede: ‘Questi passi le va di compierli? Se la sente? Ne è convinto?’. Alla fine, fatta la domanda.

Aspetta. Bravi, quello.

Adesso la terapia entra in uno stato di sospensione, un’attesa infinita dell’istante successivo. Il momento prima del calcio di rigore, dopo che il calciatore ha piazzato la palla sul dischetto, prima di tirare. Il pubblico trattiene il fiato. Il terapeuta trattiene il fiato.

Trattiene il fiato significa disciplina interiore, ovvero il terapeuta regola le sue tendenze a preoccuparsi, irritarsi, agire per essere efficace.

La terapia esce dallo stato di sospensione quando e solo quando il paziente dice: ‘Sì, lo voglio’. Ok, non è proprio come il matrimonio, ma il concetto è simile, se non dici sì a voce alta non risulti sposato.

I terapeuti saltano a piè pari tutta questa fase di attesa e di ascolto del sì definitivo del paziente. E quindi penano di fronte a pazienti passivi, confusi, oppositivi, sfidanti. Invece la soluzione è semplice: si tratta di scrivere e riscrivere continuamente il contratto.

Attenzione: il contratto non è quella cosa che si scrive, magari firmata col sangue, all’inizio del trattamento. Esattamente allo stesso modo dell’ alleanza, che va continuamente riparata dopo che si è rotta, il contratto va continuamente aggiornato dopo essere stato scritto e firmato. La terapia si evolve, cambiano le mete, cambiano i compiti e quindi si ridefinisce l’accordo.

Una mia giovane collega mi porta in supervisione un caso di una donna che entra in terapia con sintomi d’ansia. I sintomi in un certo grado migliorano con un insieme di affrontamento delle situazioni temute e tecniche per la riduzione del rimuginio. Lo scenario diventa quello di un problema interpersonale. La donna descrive il marito come distante, strafottente, verbalmente aggressivo e sprezzante. Ha due figlie piccole di cui fatica a occuparsi. Vorrebbe separarsi ma ha timore che se lo facesse sarebbe solo per dare ragione alla madre che pressa affinché lei lasci un uomo tanto orribile. Allo stesso tempo se non lo lascia si sente infelice. È in uno stato di paralisi, di scontentezza cronica. La terapeuta cerca di ricostruire gli schemi interpersonali maladattivi e con un po’ di fatica ci riesce. Lo scopo desiderato è quello di autonomia/esplorazione. Se si muove nella direzione di un desiderio proprio descrive l’altro come critico, sprezzante, punitivo e che l’abbandona. A quel punto risponde sentendosi inetta, incapace o abbandonata. Si attiva l’attaccamento e si sottomette per evitare l’abbandono. Ritorna a quel punto infelice e desiderosa di autonomia. Non esce dal circolo vizioso di mantenimento.

Passano alcuni mesi e la paziente non fa nessun passo. La terapeuta si dibatte, si preoccupa, si irrita, si accusa: “Perché la paziente non si muove, dove sto sbagliando? Però mi fa pure incazzare”.

Le dico: “Hai chiesto alla paziente qual è l’assetto desiderato? E soprattutto, come parte dei vostri accordi, quali azioni è disposta a fare per raggiungerlo”. “No”. “Prova”.

Lo fa. Glielo chiede. La paziente risponde. La terapeuta è sorpresa dalla risposta che ascolta: “Vede, è come se vivessi in una gabbia dorata. Avere il sostegno economico di mio marito e la presenza di mia madre è comodo e io non so se voglio rinunciare a questa comodità”.

Svelato l’arcano. La terapeuta voleva guarire la paziente, ma la paziente non le stava dando strumenti. Non aveva deciso di volere andare verso la metà.

La terapia è cambiata. La terapeuta si è rasserenata. E ha fatto la domanda più semplice del mondo. Una domanda fatta all’interno di uno stato relazionale di assoluta presenza, non una minaccia, un aut-aut. Sono qui, le resto e le resterò vicino, ma le chiedo: “Benissimo, mi rendo conto che la gabbia dorata può essere confortevole. Lo capisco, l’ho sperimentata anche io. Però se non vuole lasciarla, in terapia cosa possiamo fare? Che strumenti mi dà perché io possa condurla verso il benessere”.

Se i pazienti ascoltano quella domanda iniziano per la prima volta a pensare.

Gravidanza e infiammazione: quali conseguenze potrebbero esserci nei bambini?

L’infiammazione è una normale della risposta del corpo alle infezioni, allo stress cronico o all’obesità. Nelle donne in gravidanza, si ritiene che un’accentuata infiammazione aumenti il rischio di malattie mentali o problemi di sviluppo del cervello nei bambini. Quali? In che misura?

Lucia Marangia

 

Uno studio condotto dai ricercatori dell’OHSU di Portland, in Oregon, ha stabilito un legame tra l’infiammazione nelle donne in gravidanza e il modo in cui il cervello del neonato è organizzato in reti.

I risultati dello studio, pubblicati su Nature Neuroscience, potrebbero fornire strade promettenti per esplorare trattamenti potenzialmente in grado di modificare questi impatti negativi sulla funzione cerebrale neonatale.

Il gruppo di ricerca ha raccolto campioni di sangue da 84 donne a ogni trimestre di gravidanza, misurando i livelli di interleuchina, 6 (IL-6), un marker d’infiammazione, già noto per la sua influenza nello sviluppo del cervello del feto.

Quattro mesi dopo la nascita, hanno valutato il grado di imaging a risonanza magnetica funzionale. Hanno infine misurato le prestazioni della memoria di lavoro dei piccoli all’età di due anni, un fattore predittivo per la successiva riuscita negli studi e dell’eventuale presenza di disturbi mentali.

Gravidanza e infiammazioni: i risultati dello studio

I dati ricavati mostrano che le differenze nei marker d’infiammazione nelle madri erano direttamente associate a differenze nelle vie di comunicazione cerebrale appena formate, cosi come alla successiva memoria di lavoro a due anni di età. In particolare, i livelli d’infiammazione più alti della madre durante la gravidanza sono risultati correlati negativamente con la capacità di memoria dei bambini.

[blockquote style=”1″]È importante sottolineare che il risultato non significa che ogni esposizione all’infiammazione possa avere un impatto negativo sul bambino, tuttavia questi risultati offrono nuove possibilità di ricerca e possono aiutare gli operatori sanitari a pensare a come e quando l’infiammazione potrebbe avere un impatto sullo sviluppo dell’apprendimento a lungo termine del bambino e sulla salute mentale [/blockquote]

ha spiegato Alice Graham, coautrice dello studio. Un altro aspetto notevole dello studio, è lo sviluppo di un modello previsionale:

[blockquote style=”1″]Ora, disponiamo di un approccio basato anche sulla tecnica d’intelligenza artificiale noto come apprendimento automatico, che sulla base delle scansioni di risonanza magnetica funzionale, permette di risalire a livelli complessivi d’infiammazione durante la gravidanza[/blockquote]

ha aggiunto la ricercatrice. Inoltre

[blockquote style=”1″]Questa comprensione fornisce alcune informazioni sulle future prestazioni di memoria dei bambini, consentendo un precoce intervento clinico, se necessario[/blockquote] .

In futuro, gli autori intendono approfondire in che modo fattori presenti prima e dopo la nascita, come la società e l’ambiente, possono interagire per influenzare la funzione cognitiva nei bambini.

[blockquote style=”1″]Lo stress aumentato e la cattiva alimentazione sono considerati normali secondo gli standard odierni, ma influiscono notevolmente sui tassi di infiammazione in tutti gli esseri umani, non solo nelle mamme in attesa. Dobbiamo anche capire quali fattori portano a un più elevato livello d’infiammazione, e predisporre terapie mirate per ridurre i tassi d’infiammazione e l’impatto complessivo sul cervello in via di sviluppo[/blockquote]

ha concluso Graham.

 

Stress e performance atletica (2017) – Recensione del libro di Cesare Picco

Nel libro Stress & Performance Atletica, Cesare Picco affronta il tema delle relazioni tra lo stress e le prestazioni sportive dipingendo un quadro ben più complesso rispetto a quello basato solamente sulle informazioni riferite alle medie della popolazione.

 

Cesare Picco, infatti, parte dal presupposto che esistano le eccezioni alle regole, eccezioni rappresentate da atleti e sportivi il cui funzionamento non coincide con quello delineato dalle teorie formulate finora. L’autore, attraverso i cinque capitoli che compongono il libro Stress & Performance Atletica, accompagna il lettore nel mondo dello stress, dapprima introducendolo al concetto con riferimenti alle dottrine classiche, per poi entrare nella fitta rete di relazioni tra stress e performance atletiche.

Cos’ è lo stress?

Nel primo capitolo l’autore Cesare Picco presenta lo stress come un processo di adattamento ad un qualsiasi cambiamento, che deriva sia da un eccesso sia da una mancanza di stimolazione rispetto ad un livello ottimale. Per approfondire il tema, l’autore riporta nel dettaglio la Sindrome Generale di Adattamento, spiegando le fasi che attraversa il nostro organismo nel momento in cui reagisce a uno stress: la fase di allarme, suddivisa nelle sottofasi Shock e Contro-Shock; la fase di resistenza e la fase di esaurimento. Per ognuna di queste, sono indicate le variazioni che avvengono a livello corporeo ed endocrino. È poi esposta la sintomatologia legata allo stress, nei livelli fisico, comportamentale e psicologico. Cesare Picco si mostra attento a non lasciare nulla al caso, dedicando spazio anche a quella che definisce l’altra faccia della medaglia dello stress, ovvero la resilienza, spiegandone le varie componenti e i collegamenti con determinate caratteristiche di personalità. Si continua affrontando l’esperienza di flow, uno stato di immersione nell’attività in cui si raggiunge la prestazione ottimale.

È interessante notare come le spiegazioni in Stress & Performance Atletica siano chiarificate da numerosi esempi e riferimenti alla pratica atletica, che rendono molto più comprensibili i significati descritti.

Stress & Performance Atletica: come agisce lo stress sulle prestazioni sportive?

Nel secondo capitolo di Stress & Performance Atletica si inizia a collegare lo stress alle performance atletiche, partendo dalla rappresentazione della legge di Yerkes e Dodson, che mette in relazione il livello di stress provato con la bontà della performance, spiegando come le prestazioni migliori avvengano all’interno di una fascia intermedia di attivazione (eustress). È qui che Cesare Picco introduce le conoscenze derivanti dalla sua esperienza, spiegando come questa curva stress-performance non valga per tutti gli atleti. L’autore propone quindi cinque differenti curve, definite utilizzando nomi di motori: Motore a benzina, Motore a diesel, Motore a gas, Motore misto di tipo A, Motore misto di tipo B. Esplicitare al meglio e nel dettaglio l’ associazione tra stress e performance è basilare affinché ogni atleta possa identificare il proprio livello ottimale di attivazione, compresi coloro che si discostano dal funzionamento della maggioranza della popolazione. Sono ipotizzate cinque curve normali, non più una, nelle quali rientrano percentuali diverse di casi. Avere consapevolezza della posizione che si occupa nella propria curva in un determinato momento, continua l’autore, consente di mettere in atto strategie di ipo- o iper-attivazione che permettano uno spostamento verso la personale fascia ottimale di stress, massimizzando le possibilità di performance positive.

Anche qui si nota l’attenzione posta da Cesare Picco nel cercare di fornire una visione completa dell’argomento che comprenda anche gli aspetti negativi, ad esempio con la descrizione della sindrome del burn-out sportivo, illustrato nelle varie componenti, e dell’overtraining, il sovrallenamento, di cui si riportano i principali sintomi. In Stress & Performance Atletica, Cesare Picco accenna anche alle relazioni tra stress e altri fattori costituenti la vita di un atleta, come gli infortuni e l’ alimentazione.

Cosa sono le curve stress-performance?

Il terzo capitolo di Stress & Performance Atletica è dedicato all’esposizione vera e propria delle curve stress-performance menzionate precedentemente. Per ognuna di queste tipologie atletiche vengono riportate le principali caratteristiche, la fenomenologia corrispondente ai diversi livelli della risposta allo stress, secondo il modello della Sindrome Generale di Adattamento, e le indicazioni su come si concretizzino tali specificità nelle fasi dell’attività atletica, cioè allenamento/preparazione, pre-gara, gara e recupero. Vale la pena spendere due parole sulle diverse curve.

  • Il Motore a benzina rimanda alla condizione più diffusa tra gli atleti. Questi sono caratterizzati da una reazione psico-fisica allo stimolo veloce ma non immediata e da una resistenza di durata medio-lunga, che viene terminata dal soggetto prima che lo stress raggiunga picchi elevati, per permettere un buon recupero. Un soggetto di questa categoria è definito “All-Around Player”, un atleta che riesce ad essere performante in una molteplicità di situazioni e contesti e a livelli competitivi differenti. D’altro canto, lo svantaggio è proprio la difficoltà nel trovare quella specificità in grado di farlo emergere davvero.
  • L’atleta con il Motore a gas mostra un funzionamento migliore e una migliore prestatività quando scarsamente sollecitato. Il basso livello di stress deve però essere presente sia a livello sportivo sia extra-sportivo. È caratterizzato da una risposta immediata al cambiamento, che avviene cioè a bassi livelli di attivazione, e passa velocemente alla fase di resistenza e a quella di esaurimento, rendendolo poco efficace in situazioni che richiedono un impegno duraturo e nei momenti decisivi di alto stress. Le capacità dell’atleta sono inficiate negativamente da livelli di stress anche bassi.
  • Il Motore a diesel è caratterizzato da prestazioni buone sulla lunga durata e se stimolato abbondantemente. La risposta allo stress è tendenzialmente lunga, seguita da una fase di resistenza anch’essa prolungata che permette di gestire una grande mole stressogena o stress molto intensi e che si esaurisce, invece, con un repentino tracollo, seguito spesso da una sintomatologia fisica invalidante. La performance migliora all’aumentare dello stress ma, nel momento del decadimento, raggiunge livelli decisamente inferiori alle proprie capacità, generando effetti controproducenti per sé o per la squadra. Il grande vantaggio di riuscire ad essere molto efficienti in presenza di stress elevati si accompagna al rischio di incappare nella troppa attivazione che comporta la caduta libera delle proprie abilità.
  • Gli atleti con Motore misto A e B presentano prestazioni positive in due momenti, ai livelli di stress medio-basso e medio-alto, e prestazioni inferiori con attivazioni basse, medie e alte. Il primo tipo ha una partenza molto buona, cui segue un calo nella fase centrale dell’attività, per poi tornare a crescere sul finale, senza però riuscire più a raggiungere la qualità della prova iniziale. Il Motore misto B ha un andamento sovrapponibile che si differenzia solo per il fatto che la performance migliore si posiziona al secondo picco di performance positiva, ovvero a livelli medio-alti di stress, in modo speculare al tipo A.

Stress & Performance Atletica: il ruolo delle caratteristiche di personalità

Cesare Picco allarga il suo lavoro indagando alcune caratteristiche di personalità coinvolte nella percezione e nella gestione dello stress. Di esse sono descritte le varie proprietà e ne vengono spiegate le relazioni con e le influenze sulla prestazione. Di seguito è riportato un elenco delle componenti prese in esame:

  • autoefficacia: un atleta che ha fiducia nelle proprie capacità e si sente in grado di affrontare le sfide, percepirà meno stressanti gli eventi, si mobiliterà più facilmente e metterà in pratica soluzioni più efficaci;
  • ansia di tratto: la predisposizione a reagire in modo ansioso anche in situazioni poco attivanti;
  • vigoria psicologica: è composta da Commitment, la capacità di provare piacere in ciò che si fa, da Control, un approccio attivo alle situazioni stressanti, e da Challange, la considerazione dei cambiamenti e delle difficoltà come sfide positive;
  • locus of control: la personale interpretazione delle cause degli eventi, dei successi e degli insuccessi, come dipendenti da sé stessi o da fattori esterni;
  • comportamento di tipo A e B: in generale, le personalità A vivono stati affettivi e mettono in atto comportamenti volti a raggiungere nuovi obiettivi nel minor tempo possibile, mentre le personalità B affrontano la vita con tranquillità e meno ambizione;
  • sensation seeking: i “ricercatori di sensazioni” sono individui che necessitano di sperimentare un livello decisamente elevato di sensazioni e di emozioni;
  • alessitimia: una caratterizzazione cognitiva contraddistinta da una preponderanza di pensiero concreto/operatorio, a discapito della sfera emozionale, ideativa e onirica, dalla povertà nei rapporti sociali, da una rigidità posturale, da un’attenzione marcata a sintomi fisici specifici, da una difficoltà a leggere i propri e gli altrui sentimenti, da scarsa capacità introspettiva;
  • perfezionismo: tendenza a cercare standard elevati di prestazione, che può essere considerata un fattore predisponente al successo sportivo, ma che può anche sfociare in eccessiva autocritica e in uno stile di pensiero ruminativo;
  • ottimismo: una predisposizione che sembra incidere positivamente sulla risposta allo stress, ad esempio contrastando l’emersione di sintomatologia fisica stress-correlata;
  • apertura sociale: la presenza di relazioni significative e di rete sociale è un fattore protettivo nei confronti di eventi stressanti o nei momenti problematici della vita;
  • senso di coerenza: gli atleti con questa caratteristica percepiscono gli eventi della loro vita come comprensibili, gestibili e densi di significato;
  • affettività negativa/nevroticismo: consiste nello sperimentare frequentemente stati mentali interni negativi come insoddisfazione e rabbia;
  • pensiero autotelico: consente di trovare la motivazione nel praticare una determinata attività, per il piacere stesso provato durante lo svolgimento;
  • self-handicapping: strategia che identifica preventivamente i motivi, con causa esterna, per cui si potrebbe incappare in un fallimento;
  • paura di vincere: o Nikefobia, porta l’atleta a comportarsi in modo poco produttivo nei momenti decisivi.

È intuibile come tutte queste particolarità possano incidere sulla percezione e sulla gestione dello stress.

Una marcia in più per vincere

L’ultimo capitolo di Stress & Performance Atletica, infine, sottolinea i risvolti positivi che può avere una considerazione approfondita della relazione stress-performance nell’attività di ogni atleta. Il libro fornisce un ottimo contributo volto a massimizzare le possibilità di miglioramenti e di risultati positivi nell’attività sportiva. Delineare un profilo adeguato dell’atleta, permette di dare un significato alle reazioni manifestate nei diversi momenti costituenti lo sport e di aumentare la conoscenza di se stessi nell’ottica non solo di ottimizzare le prestazioni, ma anche di favorire il proprio benessere psico-fisico.

 

Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici – Report del convegno di Palermo

Obiettivo dell’ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI.

 

Etica, psicologia, medicina, diritto: discipline al servizio dell’umana sofferenza nel momento cruciale in cui essa esita nel passaggio verso l’altro aspetto della vita stessa, la morte, in quanto evento fisiologico, inevitabile, che necessita accompagnamento, supporto professionale, sociale ed emotivo.

Quali allora le competenze comunicative e terapeutiche da mettere in atto nel momento delicatissimo in cui la malattia cronica, terminale, diviene diagnosi clinica e in cui la “scelta” delle cure diviene determinante nel senso alto del “prendersi cura” del malato e dei suoi ultimi giorni? Ancora, quale ruolo concesso all’autonomia decisionale rispetto alla scelta stessa delle cure di fine vita da parte del paziente?

Queste in sintesi gli interrogativi mossi dalla Giornata Nazionale FADOI-ANIMO del fine vita, svoltasi il 7 aprile scorso a Palermo, con il Patrocinio del Ministero della Salute.

Il nostro obiettivo come ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI

commenta Maria Lucia Rita Di Grigoli, Referente Regionale ANIMO per la Sicilia.

Il fine vita: dimensione medica, psicologica e sociale

Il fine vita, inevitabile momento di conclusione del ciclo vitale in cui garantire la qualità della vita e la dignità del paziente, diviene aspetto etico imprescindibile, che si traduce, a livello medico, in adeguata nutrizione, idratazione, igiene del corpo e riduzione del dolore fisico attraverso sedazione e l’utilizzo delle cure palliative, ma anche in ascolto del disagio emotivo, familiare e sociale che ogni paziente porta con sé.

“L’obiettivo di una terapia del fine vita è rendere la vita residua la miglior vita possibile – precisa Roberto Garofalo, Medico Chirurgo, specializzato in Geriatria e Gerontologia e Cure Palliative dell’ASP di Palermo – Ciò implica anche l’evitamento dell’accanimento terapeutico, ovvero la messa in atto di cure inutili o sproporzionate, che causano solo sofferenza, come 15 o 20 compresse al giorno, e l’invito a circondare il malato dei suoi affetti, offrendo altresì assistenza domiciliare. Non esistono regole standard per la terapia, da individuare in base a ogni singolo paziente e il supporto deve coinvolgere la famiglia, il sociale, oltre gli aspetti medici, mettendo in chiaro che la guarigione è solo un’opzione terapeutica e bisogna puntare sulla qualità di vita, a prescindere dalla guarigione”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Fine vita aspetti psicologici etici e giuridici - Report congresso di Palermo IMM1

 

Fine vita aspetti psicologici etici e giuridici - Report congresso di Palermo IMM2

Immagini dal Convegno “Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici”

Comunicare la diagnosi di fine vita

Una qualità della vita che non può prescindere dalla collaborazione del paziente alle cure, garantita da una corretta comunicazione tra medico e paziente e medico e familiari, a partire dal delicato momento della comunicazione della diagnosi infausta.

Se molti familiari sostengono di non dire la verità al paziente perché morirebbe prima dei suoi giorni, la pratica clinica suggerisce invece che una diagnosi che altera drammaticamente la prospettiva di vita, comunicata con empatia, non in maniera brusca e frettolosa, e secondo modalità che infondono speranza, aumenta la collaborazione con il paziente e la qualità della sua vita. D’altronde l’atteggiamento empatico del medico e del paramedico è fondamentale per non far morire il paziente nella disperazione – spiega Valentina Bordino, Psicologo dell’ASP di Agrigento – Per comunicare con empatia la diagnosi è importante essere consapevoli dell’esistenza, nei familiari, di automatismi che li spingono a non voler sapere, corrispondenti alla negazione iniziale del trauma della malattia, secondo un modello a cinque fasi a cui segue la rabbia, la depressione e che auspicabilmente condurrà all’accettazione della malattia, secondo il modello di Elisabeth Ross.

Far accettare la morte al paziente e ai suoi familiari, cercando spazi di collaborazione, significa reinserirla nel ciclo vitale, curando con rispetto fino alla fine, accettando ciò che deve accadere – sottolinea ancora Valentina Vegna, Psicologa Area Emergenza Ospedale Civico di Palermo.

Accettazione e autonomia decisionale del paziente nel fine vita

Sull’accettazione (o meno) dell’inevitabile e delle cure che vi si accompagnano, si gioca tutto il dibattito odierno sul principio dell’autonomia decisionale del paziente.

Esso è legato agli aspetti legali ed etici di un’eventuale decisione di “sospensione delle cure” secondo quanto predisposto dalle modernissime Disposizioni Anticipate di Trattamento, emanate a gennaio del 2018.

Spiega Pietro Virgadamo, Professore Associato Istituzioni di diritto privato LUMSA di Palermo:

Il più noto Testamento biologico predispone che, nella piena capacità di intendere e volere, e in previsione di una malattia cronica che comporti il sopraggiungere dell’incapacità di intendere e volere, si possa esprimere se accettare o rifiutare trattamenti sanitari o accertamenti diagnostici. Molte le note critiche, in relazione al delicato confine concettuale con l’eutanasia, tra cui il ruolo dell’idratazione e della nutrizione artificiali che non è chiaro, dal testo di legge, se si debbano intendere come terapia (quindi da potere rifiutare) o mera sussistenza.

La genitorialità: una visione neuroscientifica

Per la prima volta, gli scienziati hanno analizzato i circuiti cerebrali implicati nella gestione del comportamento genitoriale nei topi.

 

Il team, guidato da Catherine Dulac dell’Howard Hughes Medical Institute, ha scoperto che oltre 20 diverse parti del cervello sono integrate in questo circuito: distinti gruppi di cellule all’interno di un centro di controllo genitoriale innescano i cambiamenti motivazionali, comportamentali e ormonali coinvolti nella cura dei piccoli di animali.

Non è ancora noto se gli esseri umani e altri animali condividano gli stessi circuiti cerebrali inerenti al pattern comportamentale del parenting identificati nei topi, ma i ricercatori sottolineano che altri neuroni, che sono stati identificati come responsabili del controllo di altri comportamenti essenziali nei roditori, esistono anche in altri vertebrati.

Identificare il modo in cui il cervello controlla il circuito neuronale del parenting potrebbe, un giorno, aiutare i ricercatori a escogitare dei modi per aiutare le madri nella creazione di un legame con i propri bambini in caso di depressione postpartum.

Lo studio: premesse e sviluppo

Ciò che ha incuriosito i ricercatori non è solo come i circuiti cerebrali controllano il comportamento genitoriale ma anche la distinzione fondamentale tra maschi e femmine. I topi femmine mostrano comportamenti materni indipendentemente dal fatto che abbiano o meno un cucciolo. I topi maschi, invece, non condividono quello stesso istinto genitoriale, a meno che non si siano accoppiati di recente; il loro comportamento abituale nei confronti dei giovani topi è l’aggressività, ma tre settimane dopo l’accoppiamento – circa il tempo in cui la potenziale prole sarebbe nata – le cose cambiano: “I maschi perdono la loro aggressività verso i cuccioli, e il loro comportamento sembra esattamente quello di una femmina”, sostiene Dulac.

Questi topi passano il loro tempo costruendo nidi, accalcandosi vicino ai cuccioli, pulendoli e tenendoli vicino. Diventano meno interessati a interagire con gli animali adulti e molto più interessati a interagire con i cuccioli. Anche i livelli degli ormoni cambiano.

Diversi anni fa, Dulac e il suo team avevano scoperto un gruppo di neuroni in una parte del cervello nota come area preottica mediale che coordina questi cambiamenti diffusi.

Per lo studio corrente, il team ha tracciato le connessioni da e verso queste cellule di controllo genitoriale, che producono tutte una molecola di segnalazione chiamata galanina. Le loro mappe hanno rivelato che l’hub genitore riceve segnali da 20 diverse regioni del cervello e trasmette le informazioni ad altrettante aree: ogni singolo neurone che produce galanina proietta in una sola di queste regioni cerebrali, suggerendo che sottoinsiemi di cellule controllano funzioni diverse. Per svelare questi ruoli, il team, insieme a Johannes Kohl, un assegnista di ricerca all’interno del laboratorio di Dulac, ha utilizzato strumenti basati sulla luce per manipolare l’attività di diversi insiemi di cellule: un insieme di proiezioni dal centro del controllo del pattern del comportamento genitoriale a una regione all’interno dell’area del cervello mediano premotoria chiamata sostanza grigia periacqueduttale. “Quei neuroni sono dedicati al controllo motorio della genitorialità, dice Dulac. Quando il team ha attivato questi neuroni, i topi hanno aumentato il loro accudimento nei confronti dei cuccioli, anche i maschi, che normalmente non hanno tale istinto. Spegnendo gli stessi neuroni si riduceva la toelettatura dei cuccioli sia nei maschi che nelle femmine.

Un’altra serie di neuroni galaninici invia segnali all’area tegmentale ventrale, una componente chiave del centro di ricompensa del cervello. L’attivazione di quei neuroni aumentava notevolmente la motivazione degli animali a interagire con i cuccioli. Quando il team ha attivato queste cellule, sia i topi maschi che femmine hanno scalato le barriere di plastica poste nella loro gabbia per raggiungere i cuccioli dall’altra parte. Attivare queste cellule non ha tuttavia avuto alcun impatto sul comportamento genitoriale degli animali. Questo è stato più chiaro in esperimenti con topi maschi, che hanno scalato la barriera solo per attaccare i cuccioli.

Il team ha anche mostrato che i neuroni galanici che si proiettano nell’amigdala, una regione a forma di mandorla nota per il suo ruolo nell’elaborazione emotiva, tengono i genitori concentrati sui loro cuccioli: i genitori rimangono concentrati ignorando i segnali sociali di altri adulti.

Inoltre, i segnali delle cellule inviate alla regione dell’ipotalamo, che si occupa della regolarizzazione degli ormoni, modulano gli ormoni legati al parenting: l’ossitocina, la vasopressina, e l’ormone di rilascio della corticotropina, ormone dello stress. Il team non ha riscontrato differenze drammatiche nel cablaggio dei circuiti genitoriali tra maschi e femmine ma continueranno a indagare su ciò che attiva il comportamento genitoriale post-accoppiamento dei maschi.

Conclusioni e sviluppi futuri

È interessante notare che, come dice Dulac, il circuito responsabile del pattern del comportamento genitoriale che il suo team ha scoperto condivide somiglianze organizzative con i neuroni del midollo spinale che controllano il movimento dei muscoli. Entrambi comprendono pool di celle coordinati ma distinti che controllano le funzioni discrete. Resta da vedere se i circuiti che sono alla base di altri comportamenti sociali condividono questa logica.

Lo yoga e la mindfulness per migliorare la salute emotiva nei bambini

Un nuovo studio della Tulane University ha evidenziato che praticare yoga e mindfulness aumenta il benessere dei bambini e la qualità della loro vita psicoemotiva.

 

Lo stress è un fattore rilevante nella salute dei bambini in età scolare che, spesso, si trovano a vivere situazioni quotidiane stressanti, come ad esempio la preoccupazione per il rendimento scolastico, l’esclusione sociale, il bullismo e problematiche legate ai compiti a casa.

Partendo da questo presupposto, una recente ricerca, pubblicata su Psychology Research and Behavior Management, ha cercato di indagare gli effetti dell’inserimento di attività quali lo yoga e la mindfulness all’interno di una scuola primaria americana. In particolare, i ricercatori hanno deciso di coinvolgere nello studio bambini frequentanti la terza elementare in quanto questo periodo del percorso scolastico rappresenta un momento cruciale di transizione per i giovani studenti: molti di loro, infatti, manifestano sentimenti ansiosi a fronte dell’aumento delle aspettative accademiche.

Lo studio: praticare attività di yoga e mindfulness a scuola

Dopo un primo screening basato sulla sintomatologia ansiosa, i bambini coinvolti nello studio sono stati suddivisi in due gruppi, a ciascuno dei quali è poi stato proposto un programma che prevedeva la partecipazione a diversi tipi di attività. 
Il gruppo di controllo, composto da 32 bambini, è stato coinvolto in attività di consulenza, o altri tipi di attività, sempre guidate da un assistente sociale scolastico, come previsto dal programma già attivo nell’istituto. Il gruppo di intervento, invece, costituito da 20 bambini, ha preso parte a semplici attività basate sui principi dello yoga e della mindfulness per otto settimane consecutive; le sessioni si svolgevano ad inizio mattina e comprendevano esercizi di respirazione, rilassamento guidato e diverse posizioni tradizionali dello yoga.

Il team di ricercatori ha dunque valutato la qualità del benessere emotivo in ciascun gruppo, prima e dopo l’intervento. Per farlo, hanno rivolto ai bambini diverse domande riguardanti la soddisfazione in varie aree della propria vita personale; una domanda riguardava la soddisfazione generale per la propria vita. Inoltre, è stata valutata la presenza di eventuali problemi emotivi, sociali e scolastici nel mese precedente la ricerca.

Conclusioni e limiti della ricerca

Sulla base dei dati raccolti, secondo gli autori, è possibile affermare che gli interventi basati sullo yoga, la meditazione o la mindfulness all’interno di un contesto educativo possono essere un utile strumento nel raggiungere un significativo miglioramento nella qualità di vita e nella sensazione di benessere percepito dai bambini.

Gli autori riconoscono anche che la ricerca presenta dei limiti sostanziali. Le condizioni di somministrazione sono risultate essere diverse nei due gruppi. I bambini del gruppo sperimentale hanno infatti partecipato alle attività in diversi momenti dell’anno scolastico, perciò la percezione personale della loro qualità di vita potrebbe essere stata condizionata non dalla variabile sperimentale quanto invece dai cambiamenti naturali avvenuti nel corso dell’anno. Un secondo problema è rappresentato dal fatto che le attività proposte prevedevano esercizi di yoga e mindfulness combinati, impendendo quindi di valutare se fosse responsabile del miglioramento trovato solamente una o entrambe le attività.

Identità cognitivista e livelli di integrazione

Rispondo al sistematico intervento di Ruggiero, Sassaroli e Caselli su State of Mind del 24 luglio 2017 La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”. Esso intendeva fare il punto sul ruolo della relazione nel processo terapeutico.

Silvio Lenzi – Direttore Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva – Sinesis Centro per la ricerca in scienze e terapie cognitive

 

Venivano presi in esame due aspetti principali: da un lato la natura variegata e complessa, ma solo saltuariamente decisiva, degli interventi relazionali (gli 11 interventi di area relazionale della Comprehensive Psychotherapeutic Interventions Rating Scale, CPIRS, Trijsburg et al., 2002); dall’altro la specificità dell’intervento col paziente difficile, che pure non si esaurisce negli aspetti relazionali stando alla disamina fornita di alcune terapie manualizzate per i Disturbi di Personalità: Mentalization Based Therapy (MBT, Bateman e Fonagy, 2006), Dialectical Behavior Therapy (DBT, Linehan, 1987), Schema Therapy (ST, Young, Klosko e Weishaar, 2003) e Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò, & Procacci, 2007).

In quello scritto si andava a mio parere di fatto a evidenziare, e a sanzionare, una sorta di deriva generale degli stili terapeutici “cognitivisti” che tendono – nel tempo aggiungerei io-  a perdere di vista la specificità e articolazione della metodologia esplicita e della tecnica, evidentemente a favore della cosiddetta componente relazionale, col rischio eclettico di appiattire e uniformare.

Ad esempio e ulteriore declinazione di questa tendenza era stata citata la soverchiante attenzione dedicata alla componente traumatica della psicopatologia e della patogenesi. In queste argomentazioni però i nostri autori andavano incontro a una sorta di shunt argomentativo, perdendo un po’ di vista la distinzione dei piani teorico e applicato, ovvero dei modelli clinici e psicopatologici da una parte e di teoria della tecnica e valutazione dell’efficacia dall’altro. Infatti non si può non constatare che gran parte degli interventi per il trattamento del trauma e della psicopatologia traumatica, considerata trasversale e ubiquitaria, sembrano proporre procedure decisamente tecniche, come ad esempio quelle della galassia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Shapiro, 2001) o anche della NET (Terapia dell’Esposizione Narrativa, Schauer, Neuer, Elbert, 2014).

Ma su come tentare di destreggiarsi tra questi livelli molteplici di argomentazione e discussione tornerò alla fine. Per ora insisto sul tema principale.

Anche l’attuale iniziativa di Sassaroli, Caselli e Ruggiero appare in linea con un ben preciso posizionamento generale. Infatti il “gloss” (the covert or overt purpose) del loro recente articolo comparso su State of Mind: Limiti e utilità della classificazione bottom up e top down si mostra chiaramente nella figura sottostante al titolo. Due frecce: una rossa diretta verso l’alto e una verde, diretta verso il basso, come monito alla pratica e allo sviluppo delle procedure nell’approccio cognitivista: freccia rossa cioè stop a quelle bottom up (associate a una prospettiva più relazionale) e via libera invece a quelle top down (associate ad un approccio più francamente cognitivista di “seconda ondata”, per etichettarlo alla Dimaggio).

Evidentemente le sfaccettature di una posizione “ideologica” e di intenti di questo tipo sono numerose e le implicazioni ancora di più variegate e su più piani. Basti pensare a quella di fondamentale importanza sulle linee guida, la loro redazione e il loro rispetto, evocata da Francesco Mancini – anche se mi verrebbe da dire la good practice e i rischi legali non coincidono linearmente con il rispetto di una linea guida.

Per questo il dibattito sembra crescere esponenzialmente risultando a volte difficile da seguire o confondente rispetto ai piani e ai contenuti. Per una sorta di moltiplicazione delle prospettive e non solo a motivo delle affermazioni retoriche e “ideologico divulgative”, che quasi per statuto non rendono giustizia al merito della materia su cui si esprimono e costringono i diretti interessati a reagire puntualizzando le proprie posizioni e dando vita ad un climax di argomentazioni di rimessa.

A questo punto anche per auto-chiarirmi alcune mie posizioni o per lo meno per consolidare le mie priorità, vorrei provare a mettere a fuoco alcuni punti che mi sembrano fondamentali di fronte alle provocazioni poste dalle tesi del gruppo Sassaroli, le quali, piaccia o no, vanno a evidenziare alcuni aspetti critici dei trend attuali della area cognitiva e cognitivo-comportamentale.

I. Etica della ricerca e posizione del terapeuta

Innanzitutto per quanto mi riguarda non va mai dimenticata la priorità espressa da Giancarlo Dimaggio (comunicazione in mailing list SITCC, 18 marzo 2018):

Mi interessa capire quali sono i fattori efficaci di trattamento e applicarli, perché fare il bene del paziente non significa fare ciò che si sa fare bene e per il quale si è stati formati, ma imparare a fare quello che fa il bene del paziente”.

Anche se a Dimaggio non sfuggirà che non è che il terapeuta agisca sempre direttamente a favore di un fattore efficace, con una specifica iniziativa (magari in linea con un protocollo per un disturbo che giustamente è stato diagnosticato, ma che non esaurisce certo la domanda del paziente e i possibili obiettivi terapeutici legati alla situazione del momento), ma piuttosto nell’articolazione d’insieme dell’intervento che spesso risulta più ricco che non la somma delle sue parti e che deve essere impostato alla luce di diversi fattori e variabili.

Ma al di là delle probabilmente scontate precisazioni e distinzioni non si può che partire dal fatto di essere aperti, evitando  –per lo meno nella pratica – il rigore del modello alla domanda espressa dal paziente e all’impegno a risolverla nel modo più efficace ed efficiente possibile (“l’impegno a far star bene il paziente”).

Certo questa priorità va dialetticamente confrontata col fatto che – accanto agli ideali proponimenti espressi da Camilla Marzocchi (comunicazione in mailing list del 16 marzo 2018) di vagliare tutte le tecniche disponibili per la soluzione di un problema- occorre necessariamente acquisire flessibilità e destrezza nella attuazione di una metodologia di base, secondo quanto enunciato ad esempio anche da Christopher Fairnburn, nella sua CBT-E per i Disturbi Alimentari: il principio di parsimonia ovvero fare poche cose ma bene (per lo meno in riferimento ad un nucleo centrale trans-diagnostico della procedura). E non ricorrere indiscriminatamente all’aggiunta di tante altre tecniche e procedure che possono risultare dispersive e fuorvianti. Ma anche qui occorre discernimento e stare attenti a non esagerare, altrimenti potremmo cadere in una deriva conservatrice come quella di Jon Allen (2012, Restoring Mentalizing. Treating Trauma With Plain Old Therapy, pag. 166) che propone il ritorno alla Plain Old Therapy di fronte all’evidenza che il terapeuta non può padroneggiare un numero sempre crescente di trattamenti e tecniche specialistici.

O forse questa strada è percorribile? Magari quello a cui Sassaroli, Ruggiero e Caselli richiamano potrebbe essere una sorta di equivalente cognitivista della terapia dialogica aggiornata (cioè letta alla luce dei recenti sviluppi teorici sulla metacognizione / mentalizzazione e più in generali sul funzionamento emotivo interpersonale), una sorta di elaborazione della conoscenza personale legata alla consapevole declinazione delle strategie di auto-osservazione e ristrutturazione della cognition, aggiornata ovvero riportata evoluzionisticamente alle sue molteplici componenti strutturali e funzionali. Non lo so. Confesso che nella mia testa questo orizzonte campeggia e talora non mi sembra così lontano da trovare una sua configurazione teorica e applicata scientificamente condivisibile e aggiornata allo stato dell’arte delle standardizzazioni metodologiche. Su questo possibile asse portante integrato delle metodologie cognitive torno più avanti. Per chi avrà la resistenza di esserci.

II. La distinzione tra mappa e territorio

Il riferimento a una procedura di base caratteristica di un approccio psicoterapico mi richiama una seconda priorità  -che è sì una petitio principii, ma a mio modo di vedere decisiva. Si tratta della necessità di tener presente nel proprio ragionare teorico e clinico la distinzione tra mappa e territorio, specie quando si parla dell’antinomia tra tecniche e relazione o tra processi bottom-up e top down. Mi spiego meglio: nel formulare o discutere di una metodologia terapeutica evidentemente ne descriverò solo alcuni aspetti, senza potere esaurire tutte le componenti implicate sia nel suo realizzarsi fattuale, sia nei processi cerebrali e mentali di coloro che la realizzano. Le antinomie in questione sono sicuramente presenti nella mappa di chi teorizza ma non allo stesso modo nel territorio. E quindi i giudizi e le speculazioni in merito ai diversi approcci riguarderanno le teorie dei terapeuti e non la sostanza dell’interazione psicoterapeutica – e quindi il giudizio globale su una metodologia.

Inevitabilmente, come in molti hanno già sottolineato, quando si interagisce in seduta, ad esempio in una conversazione che ha per tema il parlare di sé, o con aspetti legati ad altri formati interattivi – come quello della esercitazione con una tecnica immaginativa -, si coinvolgono inevitabilmente sia livelli di procedura che relazionali. E per comprendere validamente il processo terapeutico credo occorra tenere presenti tutte le caratteristiche di una conversazione terapeutica, quelle più immediate e procedurali da un lato e quelle più riflessive e semantiche dall’altro.

Per farmi capire anche un po’ bottom up attraverso le immagini, proporrei qui due figure per illustrare il doppio livello dei fenomeni della conversazione che invece vengono considerati come antitetici o escludentisi: una è la classica di Antonio Semerari sui processi metacognitivi attivati nella relazione terapeutica, l’altra si riferisce alla sintonizzazione interattiva propria di ogni conversazione (vedi le ricerche di Conversation Analysis ad es. Hutchby & Wooffitt, 1998; Perakyla et al. 2008) e ai processi anche intrapsichici di tipo rappresentazionale che implica.

Dialoghi Riflessivi - Lenzi

Protoconversazioni - Lenzi

Le generalizzazioni che fanno i terapeuti ovviamente non potranno non riguardare e illuminare in modo preminente ora l’uno ora l’altro di questi macro livelli, ma questo non vuol dire che non si stiano verificando anche gli altri e che non giochino un ruolo importante nel processo terapeutico e nel cambiamento ad esso collegato di una particolare metodologia presa in esame.

III. Ambiti di integrazione tra teoria e pratica

Quindi dopo aver chiarito che ci muoviamo in un contesto applicato con un mandato deontologico da cui non possiamo né vogliamo derogare, e dopo aver colto che le argomentazioni teoriche e le discussioni sono sì legittime e utili, ma anche parziali e non equivalenti all’oggetto di cui trattano (non si mangia un menu direbbero i sistemici) mi rimane da chiarire una terza ed ultima priorità o questione.

Come allora prendere in esame e valutare una metodologia terapeutica, da che punto di vista e con che linguaggi? E soprattutto: come formularla e costruirla? visto che con la propria conoscenza non si può per così dire prendere dappertutto, mentre quando operiamo ci attiviamo con tutto il nostro bagaglio cognitivo, emotivo, procedurale e contestuale (ovvero relazionale).

La mia argomentazione si rifà alle modalità di integrazione, e in particolare all’integrazione assimilativa di Messer riprendendo il mio intervento ad un simposio di Rosario Esposito al congresso della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale a Genova nel 2014: Elementi utili per il fronteggiamento della continua integrazione teorica e pratica a cui il terapeuta cognitivista è chiamato sul campo.

Innanzitutto è necessario distinguere, come anche diceva Nino Carcione nella mail del 16 marzo (comunicazione della mailing list SITCC), tra integrazione tecnica e integrazione teorica, cosa che non era tanto tenuta presente nei corollari del discorso sulle elaborazioni bottom-up e top down fatto da Sassaroli e colleghi.

Certo con le integrazioni non bisogna comunque esagerare: infatti si rischierebbe, come ci diceva tempo addietro Giovanni Ruggiero, di fare la fine dell’astronomo Tycho Brahe, passato nell’oblio pur essendo il “capo dipartimento” di Keplero e avendo fatto lui la maggior parte delle scoperte rivoluzionarie attribuite poi a quest’ultimo. Infatti, per zelo integrativo con le teorie accreditate del tempo, Brahe si giocò la possibilità di formulare in modo chiaro la teoria eliocentrica, che pure emergeva dalle osservazioni che ebbe il merito di condurre in modo innovativo e sistematico. Ma questo mi pare un problema successivo, di politica e management della scienza e della ricerca, o di storiografia al limite, che al momento non ci riguarda.

In verità la distinzione tra integrazione tecnica e integrazione teorica è di importanza primaria e la sua necessità può essere colta meglio alla luce della distinzione tra descrizione (proposta teorica esplicita di una metodologia) e realtà dei fenomeni in oggetto. Dunque quando integriamo una tecnica o una procedura sicuramente ci muoviamo a livello territorio, in un campo più ampio di quello che possiamo discutere a livello speculativo e quindi non tutti gli eventi in gioco (cognitivi, emotivi, procedurali, di contesto) possono essere considerati.

A questa distinzione tra i due livelli di integrazione se ne aggiunge in verità un terzo, quello della integrazione assimilativa, che ha un carattere del tutto peculiare, utile a mio parere per trarre proponimenti pratici – ognuno i propri, pro domo sua, perché no? – dalle nostre discussioni. L’integrazione assimilativa consiste nell’incorporazione nell’approccio primario e di base del terapeuta di atteggiamenti, prospettive o tecniche tratte da un modello terapico differente.

Essa adotta una posizione contestualista per cui una tecnica terapeutica è vista non come a sé stante ma inserita in una cornice teorico terapeutica da cui deriva il proprio significato. Per esempio si pone che una tecnica comportamentale come la desensibilizzazione sistematica assuma un differente significato in una terapia psicodinamica o esperienziale. Così la tecnica gestalt delle due sedie usata da un terapeuta comportamentale può apparire come un training di assertività piuttosto che come una risoluzione esperienziale di un conflitto- intento questo tipico dell’utilizzo originario.

Questa forma di integrazione è stata supportata da alcuni e discussa da altri (ad esempio Lazarus 1991), che, da una posizione di eclettismo tecnico, non concorda col fatto che una tecnica sia mutata dalla sua nuova veste di applicazione e che necessiti ad esempio di una nuova validazione. Una data tecnica rimane la stessa a prescindere dalla teoria o terapia di origine o di importazione.

Il concetto di integrazione assimilativa rientra invece in una tradizione di pluralismo secondo cui una teoria o modello non preclude mai una integrazione alternativa delle evidenze. In effetti si ritiene che il modo migliore di tendere alla verità scientifica sia quello di appoggiarsi a teorie diverse favorendo il confronto tra le teorie stesse e tra teorie e prove. Al contrario la visione alternativa presume che vi sia una teoria unificata e preminente in attesa di essere scoperta e questo sia il compito degli integrazionisti.

IV. Background, Ground e Foreground per lo studio e la ricerca in psicoterapia

Alla luce di queste differenziazioni, volendo avanzare un ulteriore passo, mi sembra non sia illegittimo – e anzi sia addirittura opportuno – per una corrente di psicoterapia come quella cognitivista e per una società come la nostra non abdicare alla formulazione di un modello e di una proposta rigorosa di procedure psicoterapiche che sia coerente con le proprie premesse e i propri contenuti e anzi che le sviluppi e le aggiorni coerentemente al progredire – mi si lasci dire- dell’arte e della scienza.

Se poi all’aut aut tra le modalità di integrazione sostituiamo un et et, ecco che diventa possibile individuare dei precisi ambiti su cui formulare, con rigorosa differenziazione metodologica, integrazioni e proposte. Ad esempio formulandole nello specifico a partire dal ground di integrazione assimilativa sul campo, e confrontandosi con gli elementi provenienti dal background teorico scientifico di base e dal foreground della ricerca in psicoterapia, sia di esito che di processo, ovvero dal confronto darwiniano con protocolli e linee guida.

Una volta collocatele in modo rigoroso a livello metodologico, non dobbiamo però come studiosi e ricercatori esimerci da iniziative (anche identitarie) di questo tipo, magari in nome dell’adesione ad un mandato di aggiornata produttività di tendenza, che garantisce risultati anche cospicui, ma poi alla lunga dispersivi e meno fecondi.

Faccio in breve un esempio di come intendo questa formulazione sul ground, indicando quella che potrebbe essere una sorta di proposta “assimilativa”, di integrazione ed espansione della procedura di base della terapia cognitiva, l’elaborazione dell’attività cognitiva tra auto-osservazione/monitoraggio e ristrutturazione, (Dobson, 2009).

Tale espansione si articolerebbe nei seguenti punti:

–     Articolazione della procedura terapeutica di base (espansione delle attività di elaborazione conoscitiva) e degli aspetti conversazionali di sintonizzazione e posizionamento interpersonale legati ad esse

–     Estensione del target di elaborazione (concetto di cognition) agli aspetti emotivo esperienziali (già parte degli ABC contestuali), di elaborazione narrativa (già in parte implicata dagli ABC classici) e di agire comunicativo (già in parte considerata ABC comportamentali)

–     Definizione delle strategie di utilizzo della procedura e degli obiettivi terapeutici in relazione ai tipi di cambiamento perseguiti (cambiamento sintomatico, cambiamento etiologico o di processo, cambiamenti di contesto)

Per chi fosse incuriosito da questi temi rimando a un probabile workshop al prossimo congresso della SITCC nel settembre 2018 a Verona “Il caso clinico nel suo divenire: strumenti cognitivisti per la costruzione di un percorso terapeutico”, in cui descriverò come utilizzare le procedure di elaborazione conoscitiva per la costruzione sistematica e calibrata di un percorso terapeutico.

V. Conclusione: per non diventare macchine di Touring

La densità di quello che accade nella pratica terapeutica è espressione dell’agire di due persone che, concretamente e in un contesto specifico, si incontrano.

Da sempre la sfida della conoscenza umana è rendere ragione del concreto vivente, e la conoscenza scientifica, nell’ambito del rigore metodologico che la contraddistingue, certo non si sottrae – demandando a derive relativistiche magari impregnate di impressionismo filosofico- alla conoscenza di quello che accade in seduta e al tentativo di realizzarlo sempre più pienamente ed efficacemente. Dopo l’esempio di integrazione sulla procedura a livello del ground terapeutico, vorrei per finire accennare, dalle angolature di background e foreground che ancor più direttamente si rifanno alle acquisizioni e ai metodi della scienza, a quelli che per me sono due aspetti critici per le questioni dibattute.

Con questo saluto, ringraziando tutti e la SITCC per la possibilità di discussione che ci offre.
Senza di essa saremmo molto più indietro e anche più soli.

 

Una questione di Background

Un problema teorico con una ricaduta di fondamentale importanza per gli argomenti discussi credo sia quello relativo alla natura del linguaggio e dell’attività linguistica. Da queste questioni in parte dipende l’esito del confronto tra approcci più eclettici e anche ritenuti “relazionali”, sicuramente legati alla psicopatologia traumatica, e la possibilità di pratica efficace di una psicoterapia sistematica, vuoi che si tratti della Plain Old Therapy oppure anche una metodologia ampliata di elaborazione cognitivista.

La questione può essere posta a partire dalle due figure precedenti, e riguarda la possibilità che la conversazione terapeutica sia capace di “trascinare con sé” e integrare – ovvero di realizzare una adeguata azione terapeutica su – entrambi i livelli della elaborazione riflessiva e della elaborazione immediata (con conseguenze sui processi top down e bottom up), come sostengono in ambito dinamico Vivona e anche Eagle, Gallese e Migone (2007, 2009) o se, viceversa, come sostiene il gruppo di Stern, vi sia qualcosa di più oltre il semantico/cognitivo e i due livelli abbiano ambiti non solo privilegiati ma anche separati di elaborazione. Ambiti distinti che riguardano ad esempio a livello implicito la relazione in sé e per sé (qualunque cosa vogliamo intendere con questa espressione), che quindi viene a consistere anche fuori dal linguaggio e dalle procedure esplicite in terapia.

Si tratta di argomenti complessi, ma a livello di background credo che qui sia in ballo il nocciolo di tante questioni.

Questioni di Foreground

L’escursione sul piano del foreground della ricerca in psicoterapia la faccio con un test: chi è d’accordo o meno con i diversi punti ritenuti da Westen alla base degli studi randomizzati controllati. Non è recentissimo l’articolo (2004), ma Drew ci ha messo 4 anni per scriverlo. I punti sono ripresi da alcuni seminari e interventi a congressi di Paolo Migone.

Utilizzando la seguente lista di affermazioni valuti lo stile di adesione/attaccamento ai principi della ricerca quantitativa e di esito assegni un punteggio su una scala da 0 (del tutto falso) a 6 (del tutto vero).

1)     I processi psicologici sono altamente malleabili

2)     La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero

3)     I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta

4)     I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all’inizio della terapia quale è il loro problema

5)     Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati

6)     Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato.

Ecco le mie personali risposte:

Affermazione 1 > 5

Affermazione 2 > 3

Affermazione 3 > 4

Affermazione 4 > 3

Affermazione 5 > 6

Affermazione 6 > 5

 

E per finire le posizioni critiche di Westen, a testimonianza dell’ampia portata del dibattito e delle posizioni possibili.

Il pensiero di Westen è riportato tra parentesi: egli conclude che gli assunti di base degli EST non sono teoricamente neutrali e non sono stati testati o sono stati testati ma dimostrati falsi. O per lo meno possono essere discussi proprio sulla base della stessa ricerca come indicato tra parentesi.

1.     I processi psicologici sono altamente malleabili [viceversa non è dimostrato che lo sono, nel senso che sembra occorra molto tempo per modificarli]

2.     La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero: [viceversa i pazienti presentano sintomi plurimi e comorbilità – vedi anche il problema della effectiveness]

3.     I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta [mentre è dimostrato che la personalità gioca un ruolo rilevante]

4.     I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all’inizio della terapia quale è il loro problema [mentre spesso il problema responsabile del disagio viene compreso a trattamento inoltrato]

5.     Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati [mentre non è dimostrato che una psicoterapia può essere “smantellata”, nel senso che il suo significato è diverso dalla semplice somma delle sue parti]

6.     Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato [mentre alcuni studi, utilizzando ad esempio il Psychotherapy Process Q-set [PQS], hanno dimostrato che in un trattamento anche facente parte di uno studio controllato vengono usati interventi appartenenti a manuali diversi, e anche che spesso non vi è correlazione tra il risultato e gli interventi prescritti dal manuale].

 

Il sistema limbico – Introduzione alla Psicologia

Il sistema limbico è costituito da un insieme di regioni appartenenti al sistema nervoso centrale, tra loro connesse. Agisce nell’integrazione dell’olfatto e della memoria a breve termine; svolge funzioni importanti in relazione alle emozioni, all’umore e al senso di autocoscienza. Svolge anche funzioni elementari come l’integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e neuroendocrino. Inoltre, alcune parti del sistema limbico sono coinvolte nei processi mnesici, viscerali, di difesa e riproduzione.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il lobo limbico rappresenta uno dei sei lobi che compongono gli emisferi telencefalici, unitamente al lobo frontale, parietale, occipitale, temporale e all’insula.

Il sistema limbico è costituito da un insieme di regioni appartenenti al sistema nervoso centrale, tra loro connesse. Nel sistema limbico sono comprese le strutture mesencefaliche, diencefaliche, telencefaliche, la regione settale, la regione preottica, l’ipotalamo, alcuni nuclei del talamo, l’area tegmentale ventrale, il giro del cingolo, il giro paraippocampico, l’ippocampo, l’amigdala, la corteccia olfattiva più tutti i fasci che connettono le diverse parti.

Il sistema limbico agisce nell’integrazione dell’olfatto e della memoria a breve termine; svolge funzioni importanti in relazione alle emozioni, all’’umore e al senso di autocoscienza. Il sistema limbico svolge anche funzioni elementari come l’integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e neuroendocrino. Inoltre, alcune parti del sistema limbico sono coinvolte nei processi mnesici, viscerali, di difesa e riproduzione.

Il sistema limbico è spesso confuso e soprannominato lobo limbico che in realtà costituisce solo una componente di tale sistema dopo che, con le recenti scoperte, si è stabilito come numerose attività attribuite al sistema limbico non corrispondono ai limiti anatomici del lobo limbico.

Il sistema limbico consta di una serie di proiezioni:

  • riceve proiezioni dopaminergiche dal mesencefalo in relazione ai fenomeni di gratificazione e all’effetto delle sostanze psicoattive
  • le proiezioni noradrenergiche, invece, sono convolte negli attacchi di panico, ansia, paura di morire, senso di soffocamento e sintomi inerenti alle crisi epilettiche della corteccia limbica
  • le proiezioni colinergiche sono fondamentali per il mantenimento della memoria e nel momento in cui si verificano delle lesioni di tali nuclei si presentano alcune forme di demenze
  • è strettamente connesso alla corteccia prefrontale, e per questo è coinvolto nei meccanismi di presa di decisione in risposta ad agiti emotivi.

Sistema limbico: l’ippocampo

L’ippocampo è contenuto nel lobo temporale, è formato dall’archicortex e da una continuazione del giro paraippocampico e della corteccia entorinale. Esso presenta una forma a “C” che gli permette di essere nominato “corno di ammone”. Nello spazio tra l’ippocampo e il subicolo è presente il giro dentato. Dall’ippocampo partono degli assoni che formano l’alveo, un velo di sostanza bianca racconta in un fascio, la fimbria, che superiormente forma le colonne del fornice.

L’ippocampo è costituito da 3 strati: uno profondo, lo strato lacunoso molecolare, prosecuzione dello strato molecolare della neocortex; uno composto da cellule piramidali, in continuazione con il 5° strato della neocortex, da cui partono le efferenze dell’ippocampo; uno delle cellule polimorfe in continuazione al 6° strato della neocortex. Il giro dentato, inoltre, presenta la stessa struttura a strati dell’ippocampo, ma al posto dello strato piramidale presenta uno strato granulare.

Circuiti e fascicoli dell’ippocampo

L’ippocampo è coinvolto in diversi circuiti e riceve svariate afferenze. Quindi, è presente un circuito interno in cui dalla corteccia entorinale, tramite il subicolo, parte una proiezione al giro dentato. Dal giro dentato partono proiezioni che terminano sostanzialmente nello strato lacunoso formando i collaterali di Schaffer. Alla corteccia entorinale all’ippocampo giungono le informazioni sensitive-sensoriali e le informazioni circa le altre attività della corteccia. Altre fibre invece emergono nell’alveo e proseguono nella fimbria e quindi nel fornice. Il fornice nasce dal giro paraippocampico e circonda il talamo al di sotto del corpo calloso. I due fornici, di destra e sinistra, sulla linea mediana si uniscono a formare il corpo del fornice e attraverso questa unione le fibre di un lato possono passare all’altro lato. Ancora, in corrispondenza della commessura anteriore, il fornice si divide di nuovo in una colonna destra per l’ipotalamo di destra e una colonna sinistra per l’ipotalamo di sinistra, terminando nei nuclei mammillari. Una parte esigua del fornice costituisce il fornice pre-commessurale posto davanti alla commisura, da cui riceve altre afferenze ed emette ulteriori fascicoli.

L’ippocampo, tramite il fornice, riceve informazioni dai nuclei del setto, dai nuclei colinergici, dall’ipotalamo, dal talamo e dai nuclei del rafe serotoninergici, e proietta informazioni all’amigdala e al nucleo accumbens.

L’ippocampo è implicato nel processo di richiamo di un ricordo. Il ricordo è qualcosa che si costruisce volta per volta nell’ippocampo, e il suo recupero a memoria (attività mnesica) è una costruzione momentanea. L’ippocampo, inoltre, e’ centrale nelle epilessie essendone nella maggior parte dei casi il punto di origine.

Sistema limbico: il fornice

Il fornice è composto da sostanza bianca e rappresenta l’organo commessurale dell’ippocampo. Si trova sotto il corpo calloso ed è la continuazione dell’alveus e della fimbria che, piegando in avanti e in alto, formano le gambe del fornice. Le gambe continuano nel corpo, posto dorsalmente al talamo costituiscono l’unione delle componenti di destra e di sinistra del fornice. Anteriormente al talamo si formano le colonne del fornice: due fasci simmetrici che si portano in basso e si dirigono fino alla commessura anteriore, dividendosi in una porzione postcommessurale, che porta all’ipotalamo e precommessurale volta ai nuclei settali.

Le fibre trasversali sono presenti nella commessura del fornice compreso fra le due gambe prima che si fondano per formare il corpo facendo del fornice la formazione commessurale del sistema limbico.

Sistema limbico: l’amigdala

L’amigdala è posizionata nel lobo temporale tra l’ippocampo e l’area olfattiva, medialmente al margine anteriore del corno temporale del ventricolo laterale e inferiormente al nucleo lenticolare. L’amigdala è collegata alla corteccia frontale, temporale, al cingolo, dell’area olfattiva e all’ippocampo in entrambe le direzioni. L’amigdala riceve afferenze dai nuclei intralaminari del talamo e dalla formazione reticolare e dal tronco. Inoltre, presenta afferenze colinergiche dai nuclei della base, dopaminergiche dall’area tegmentale ventrale e dalla sostanza nera.

L’amigdala proietta, attraverso la stria terminale all’area preottica, alla regione del setto e all’ipotalamo anteriore, ai nuclei vegetativi del tronco encefalico tramite il fascicolo prosencefalico mediale. Altre fibre giungono alla regione del setto, al nucleo accumbens, al nucleo medio dorsale del talamo e al limen insulae.

Essendo parte del sistema limbico l’amigdala contribuisce alla componente emozionale. Infatti, essa è il punto da cui genera la paura. Coloro che subiscono un danno in tale area si presentano docili, o indifferenti verso gli stimoli emotigeni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Je so’ pazzo (2018) di A. Canova – Recensione del film documentario

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo.

 

Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. (Braudel)

Quand’anche fosse son pazzo, e allora?/ Mi rimane un tanto per essere felice/ Mi rimane un tanto per le mie sofferenze/ Mi rimane un tanto per dire ho un amico, per dire ti odio, ho paura/ ed altro ancora/ Mi rimane un tanto per dire: sono un uomo. (Michele Fragna – ex detenuto)

 

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo. Il collettivo, occupandolo nel 2015, l’ha rifondato, dandogli una nuova possibilità di vita nuova. Si percepisce chiaramente nel film l’alternarsi tra l’innovazione e la libertà del presente che spinge verso il futuro e l’immobilismo del passato.

All’interno di Sant’Eframo: da monastero a sede del collettivo Je so’ pazzo

Sant’Eframo fu antico monastero del ‘600, convertito in ospedale psichiatrico giudiziario nel 1978 a seguito della Legge Basaglia, e chiuso definitivamente nel 2008.

Nel 2015 un comitato di quartiere lo occupa e costituisce un collettivo di gestione.

Un’architettura abitata per anni da persone malate di disturbo psichiatrico che hanno commesso un reato, come Michele Fragna ex detenuto, ora narratore nel film documentario Je so’ pazzo. Ci guida attraverso i corridoi lunghi e stretti di una struttura per anni rimasta invisibile, abbandona e chiusa.

Lui stesso ci racconta così quel che ricorda di questa struttura:

Il colore predominante era il grigio, ora sono murales e tinte forti, dove prima era silenzio, ora sono risa di ragazzini che giocano a pallone, dove prima erano detriti, ora spunta un sottile strato erbaceo, dove prima era muraglia di separazione, ora è palestra di roccia, dove prima erano letti imbrattati di umori, ora c’è il suono di un violino, dove prima erano grida soffocate, il battere di cucchiai sulle sbarre, ora c’è uno strumento che suona, le voci che l’accompagnano.

Michele, come racconta lui stesso, entrò in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) all’età di ventidue anni con una diagnosi di schizofrenia paranoide e se la cavò con pochi anni di reclusione. Avere un motivo per vivere ogni giorno è ciò che gli permise di continuare a vivere tra fredde mura e sbarre e sperare di progettare un futuro al di fuori. Michele ci racconta anche le storie di amicizie nate nella disperazione ma divenute punto essenziale di contatto umano ed energia necessaria alla sopravvivenza.

L’OPG ospitava circa centottanta reclusi, nel documentario Je so’ pazzo si mostrano le celle e le scritte sulle pareti di coloro che lì hanno vissuto lungamente e in solitudine in una cella di due metri per tre.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO:

Je so’ pazzo: da reclusione a inclusione

Ora è tutto diverso: il collettivo ha permesso di riabitare luoghi infernali, ha ridato anima e vita a questo luogo dimenticato. Qui prima c’erano persone uscite dal mondo e recluse in un altro mondo. Ora qui troviamo adulti, giovani e bambini che contribuiscono a mantenere viva la memoria degli ex detenuti e a rielaborare il passato costruendo un senso comunitario.

Vengo qui perché nel quartiere non abbiamo un campetto da calcio – dice un bambino.

E come lui, nell’ex OPG, oggi trovano un senso di comunità e partenza molti altri ragazzi e adulti del quartiere.

Il collettivo è costituito da volontari che offrono la loro competenza professionale e il loro tempo a chiunque ne abbia necessità, a chiunque, bambino o adulto, straniero o italiano.

Dalle celle due metri per tre, alle macerie e da esse numerose stanze attrezzate che offrono servizi gratuiti: l’ambulatorio medico; le aule d’insegnamento per il doposcuola; il laboratorio di teatro; le “pizzicate”; la stanza dei violini; una biblioteca; la palestra di boxe, l’immancabile campo da calcetto e persino una parete attrezzata per il free climbing.

Qui si organizzano attività pomeridiane e feste il sabato e la domenica. Gli abitanti del quartiere non sentono più il rumore delle forchette sulle sbarre ma musica e grida di gioia.

Il collettivo Je so’ pazzo ha istituito qui un servizio di accoglienza ai migranti per aiutarli nel disbrigo delle pratiche. Si organizzano tavole rotonde per favorire discussione e scambio di opinioni e per continuare a interrogarsi sui vecchi significati e costruirne di nuovi.

Non è che sono pazzi, sono persone normali, soltanto che hanno un piccolo problema. Se tu ti spezzi una gamba ti devono chiamare zoppo?

Questo è quello che il collettivo Je so’ pazzo ha fatto concretamente nei fatti. Il regista ha fatto di più: ha integrato il passato con il presente, ha mostrato come dalla disintegrazione sociale può nascere l’integrazione, in altre parole ha raccontato il Possibile.

Fake news: perché le notizie false viaggiano più veloci di quelle vere su Twitter?

Uno studio, pubblicato recentemente su Science, di Vosoughi, Roy e Aral del dipartimento delle scienze dei media del Massachussets Istitute of Technology, ha mostrato come la diffusione delle fake news su twitter sia significativamente più veloce e su larga scala rispetto alle notizie vere, per tutte le categorie d’informazione, a causa del fenomeno del retweeting.

 

Il fenomeno delle “fake news” o notizie false, cioè quelle notizie che imitano nella forma i contenuti delle informazioni dei media ma che non hanno nulla del consueto processo organizzativo né dell’intento per cui quelle accurate vengono diffuse (Lazer, Baum, Benkler et al., 2018), ha acquisito notorietà a seguito delle elezioni presidenziali americane del 2016 che hanno portato al comando Donald Trump.

Questa vittoria politica da parte di Donald Trump, data per irrealizzabile fino all’ultimo dai sondaggi e dagli exit-pole diffusi tramite social network, ha evidenziato in modo marcato la potenziale pericolosità delle notizie inaccurate in quanto esse hanno abbattuto le barriere istituzionali contro la disinformazione nell’epoca di internet. Dal momento che le nuove tecnologie e piattaforme social consentono una diffusione rapidissima, su larga scala e in tempo reale, la pericolosità del fenomeno risiede nell’enorme portata che ha assunto riuscendo ad influenzare in modo profondo non solo decisioni in ambito politico ma anche finanziario (Rapoza, 2017) e a divulgare contenuti falsi su attacchi terroristici (Starbird, Maddock et al., 2014) e calamità naturali (Mendoza, Poblete et al., 2010) solo con un semplice twit.

Ma perché le notizie false viaggiano più veloci di quelle vere e perché le persone appaiono più propense a ritwittare informazione non vere e accurate?

Per rispondere a queste domande, lo studio di Vasoughi, Roy e Aral (2018) ha investigato la diversa diffusione di notizie verificate e di fake news tramite Twitter tra il 2006 e il 2017, prendendo come riferimento 126.000 storie twittate da 3 milioni di persone più di 4,5 milioni di volte.

I risultati sono stati a dir poco interessanti: le notizie false hanno una probabilità di essere ritwittate del 70% rispetto quelle notizie confermate e con fondamento, determinate dal confronto tra le cinque maggiori organizzazioni mondiali d’informazione. L’analisi, compiuta tramite un algoritmo, ha mostrato come le informazioni ritenute vere, con un range di accordo tra il 95 e il 98%, vengano diffuse più lentamente rispetto quelle false e vengano considerate e ritwittate da un bacino minore di utenti, mentre le news sulla politica e sulle cosiddette “leggende metropolitane” siano tra le più diffuse, con una velocità pari ad un contagio virale (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

In aggiunta a ciò, i ricercatori del MIT, autori dello studio, hanno evidenziato paradossalmente come gli utenti che maggiormente ritwittano notizie false hanno un numero minore di “follower” e a loro volta seguono pochi utenti e sono meno attivi su Twitter.

Per eliminare ogni tipo di distorsione nella traiettoria di diffusione delle news su Twitter, gli autori hanno inoltre distinto i dati provenienti dagli account di Twitter appartenenti a persone reali da quelli automatici-robotici, scoprendo che le notizie false erano prodotte soprattutto dagli account degli utenti “reali” anziché da quelli automatici, dimostrando come la causa di questa diffusione di notizie false sia dovuta al comportamento umano (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

Secondo Vasoughi e colleghi (2018), la ragione di tale rapidissima diffusione risiederebbe nella novità: sembra infatti che le false notizie rispetto a quelle confermate abbiano una componente maggiore di novità percepita dagli utenti che li attrarrebbe e che farebbe sì che le prime risaltino rispetto le seconde nel grande bacino dei tweet. Inoltre un’analisi delle parole scelte dagli utenti per i loro tweet e, quindi, del loro contenuto emotivo ha evidenziato come quelli falsi infondano paura, disgusto e sorpresa mentre quelli veri siano caratterizzati maggiormente da tristezza, anticipazione e fiducia (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

In conclusione gli esiti di tale ricerca hanno evidenziato come sia il comportamento umano a contribuire maggiormente alla diffusione di notizie false e pertanto gli interventi che possono essere messi in atto per contrastare la disinformazione dovrebbero essere caratterizzati anche dall’apprendimento di strumenti che aiutino gli utenti online a non accettare acriticamente le informazioni sulle piattaforme social (Lazer, Baum, Benkler et al, 2018).

Trauma complesso: quali sono le caratteristiche del Disturbo da Stress Post Traumatico? Come differenziarlo dal Disturbo da Trauma Cumulativo?

La diagnosi del Disturbo da Trauma Cumulativo non è ancora presente nel DSM V, ma gli esperti ne stanno delineando le caratteristiche, a partire dall’individuazione delle “Adverse Childhood Experiences”.

 

La diagnosi di Trauma Complesso non è attualmente riconosciuta dal DSM V, ma è al centro di un dibattito scientifico e culturale che rende la sua definizione ancora oggi controversa. La letteratura scientifica da anni si sta occupando di approfondire gli effetti a lungo termine dell’abuso, del maltrattamento e della trascuratezza nell’infanzia, sulla salute mentale e sull’organizzazione di personalità dell’adulto (Adverse Childhood Experiences – ACE Studies; Judith Herman, 1992; Felitti e Al., 1998; Briere e Spinazzola, 2005; van der Kolk, 2005; Cloitre e Al., 2009; Lanius, 2012). Il tentativo è anche di differenziarlo, attraverso i sintomi, dal Disturbo da Stress Post-Traumatico, che è legato all’esposizione ad un singolo evento di minaccia alla vita. La traumatizzazione cronica invece ha i sintomi più pervasivi e invalidanti, legati all’essere stati esposti a molti eventi traumatici nell’infanzia o nell’arco della vita adulta; in questo secondo caso si parla in clinica di “trauma cumulativo” (Briere e Spinazzola, 2005; Cloitre e Al., 2009).

Questo tipo di esperienze traumatiche, che possono dare origine al Disturbo da Trauma Cumulativo, riguarda prevalentemente traumi interpersonali come l’abuso fisico e/o sessuale, l’abuso emotivo e il neglect, la violenza assistita e la separazione precoce, l’abbandono o il deterioramento della relazione primaria (a causa di malattie, droghe o detenzione) del caregiver.

Sono causa di traumatizzazione cronica anche esperienze di tortura, guerra, prigionia o migrazione forzata e in generale tutte le condizioni in cui lo stato di minaccia alla vita per se stessi o per i propri familiari resta attivo per un tempo prolungato, impedendo all’individuo ogni forma di protezione o difesa. Gli esiti psicopatologici di questo tipo di esperienze avverse, sono più complessi e pervasivi ed includono solo in parte i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico, ad oggi unica diagnosi riconosciuta ufficialmente.

Nel tentativo di definire ed includere nella diagnosi l’eziologia di questo tipo di disturbi psicopatologici, questo cluster di sintomi è stato descritto altrove come Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Herman, 1992) negli adulti o Developmental Trauma Disorder – Disturbo Traumatico dello Sviluppo (D’Andrea e Al., 2012; van der Kolk, 2005) nei bambini. Di seguito le caratteristiche identificate dagli autori:

immagine PTSD

Lo psicologo nelle organizzazioni: il benessere del singolo per il benessere di tutti

Lo psicologo in azienda contribuisce a rendere l’ambiente lavorativo un contesto sicuro e di scambio proficuo. Il vantaggio non è soltanto per il singolo individuo, indagare il benessere personale dei propri collaboratori è un atto quasi doveroso anche per il benessere aziendale.

 

Capita spesso che ricercando “psicologo aziendale” tra gli annunci di lavoro le uniche opportunità riguardino soltanto la ricerca e la selezione del personale. Quando si cerca, poi, una descrizione esaustiva delle funzioni principali dello psicologo nelle organizzazioni si incappa in tutto ciò che riguarda il coaching, la formazione, l’engagement, lo sviluppo delle skills personali, ecc.. L’articolo Psicologia del Lavoro: di cosa si occupa lo psicologo in azienda descrive in modo esaustivo i “pilastri” su cui si fonda l’intervento psicologico aziendale.

Tutti aspetti, questi, che sembrano riguardare il potenziamento di risorse e dinamiche (individuali e di gruppo) volte al miglioramento della prestazione lavorativa, alla creazione di un ambiente di lavoro favorevole, allo sviluppo delle relazioni e al perseguimento di obiettivi coerenti con la mission aziendale. Certo, questa prospettiva fa parte del cosiddetto Sviluppo Organizzativo (Krone & Clark, 1072) che ha dato una nuova visione all’organizzazione aziendale e al lavoro non più centrati solo su fatica e dovere ma che ha cominciato a includere tutti quegli aspetti fondamentali che fanno di un’azienda un contesto socialmente attento, attivo e dinamico.

Dagli anni ’70-’80 ad oggi siamo passati, infatti, dalla dimensione operativa e produttiva fronteggiabile con il progresso tecnologico alla necessità di migliorare la qualità della vita lavorativa (Beer & Walton, 1987) e la relazione persona-organizzazione sotto il profilo dell’equità (Sue, 1982). Allo stesso modo è nata l’esigenza di integrare appieno le skills personali con l’obiettivo aziendale e favorire l’azione collettiva (Huffington, Cole, & Brunning, 1997).

Perchè avere uno psicologo in azienda ?

Ma in che termini lo psicologo può e deve essere utile alla sfera individuale del “lavoratore collettivo”? Da un buon IO deriva un miglior NOI. Non soltanto un IO nelle relazioni, un IO interpersonale, ma un IO personale, intimo, che ha bisogno di un suo spazio per poi dare il meglio di sé nel contesto aziendale. La qualità dell’equilibrio psicofisico ha necessariamente ripercussioni sull’ambiente di lavoro (Gruneberg, 1979).
L’intervento dello psicologo in azienda può quindi aiutare a far luce su questi aspetti producendo conoscenza. La soddisfazione lavorativa del singolo è una buona base di partenza per comprenderne i comportamenti e in che modo sono correlati alla performance ma soprattutto al benessere dell’individuo.

Soddisfazione lavorativa: cosa si intende e cosa cerchiamo

Diversi autori si sono interrogati su questo aspetto e ne è derivato che la soddisfazione lavorativa può essere intesa come una reazione affettiva (emozionale) ad una serie di aspetti connessi al lavoro che risulta dal confronto dei risultati reali con quelli desiderati, aspettati, meritati (Cranny, Smith , & Stone, 1992). Tali aspetti includono ad esempio, il tipo di attività svolta e i suoi aspetti intrinseci, la retribuzione, la qualità della vita extra-lavorativa, l’autonomia e la possibilità di gestire il proprio tempo, i tratti di personalità, i valori, e così via…

Senza entrare troppo nel merito di ciascuno di questi elementi, prendiamo in considerazione in che termini la soddisfazione o meno di questi aspetti possa influire sulla performance (per un approfondimento si veda l’articolo La soddisfazione lavorativa: quanto la performance dipende da quanto siamo soddisfatti) e sul benessere personale. Gli studi finora condotti con l’ausilio di strumenti di indagine appositi (questionari) attestano che un lavoratore soddisfatto si impegna maggiormente nella propria attività migliorando di conseguenza la prestazione lavorativa (Schleicher, Watt, & Greguras, 2004). Quando una persona è soddisfatta a livello lavorativo si sente parte del gruppo e dell’organizzazione e vuole impegnarsi per questa perché ne percepisce il valore. Il coinvolgimento personale risulta elevato e ciò significa che alla soddisfazione lavorativa corrisponde anche un appagamento nella vita privata (Avallone & Paplomatas, 2005). Al contrario, in assenza di soddisfazione si palesano tutti quei comportamenti che non solo sono segnale di malessere e, a lungo andare, possono essere dannosi per la salute, ma inficiano anche la performance. L’insofferenza nell’andare al lavoro, l’assenteismo, il pettegolezzo, disturbi psicosomatici di vario genere (sonno, apparato digerente..), lentezza nelle azioni, ecc. sono tutti indicatori che qualcosa nel contesto lavorativo non sta andando nella giusta direzione.

I vantaggi di avere uno psicologo in azienda

Se consideriamo quindi che il posto di lavoro è l’ ambiente in cui passiamo più tempo durante l’ arco della giornata, capiamo bene che andarci con uno spirito sereno o sapere che è presente una figura professionale come lo Psicologo che da supporto e nell’ affrontare le difficoltà e funge da filtro con i vertici aziendali, rende l’ ambiente-lavoro un contesto sicuro e di scambio proficuo. Lo psicologo in azienda supporta i dipendenti nell’affrontare le difficoltà e funge da “filtro” con i vertici aziendali, con l’obiettivo di rendere l’ambiente-lavoro un contesto sicuro e di scambio proficuo.

Vien da sé che il vantaggio non è soltanto del singolo individuo e del suo equilibrio psicofisico. Sensibilizzare un dirigente ad indagare il benessere personale dei suoi collaboratori è un atto quasi doveroso anche per il benessere aziendale. A tal proposito si è sentito parlare di una figura che in America si è già affermata e in Italia sta prendendo piede pian piano: il manager della felicità. Il suo scopo è quello di saper ascoltare, capire i bisogni dei dipendenti, fornire intervalli momentanei alla routine lavorativa.

Il quesito quindi sorge spontaneo: gli psicologi del benessere hanno speranza?
Forse, se la felicità inizia ad essere un trend possiamo sperare che il lavoro diventi per molti un posto felice.

Musica e arti visive a scuola migliorano le capacità cognitive dei bambini

Le ore di musica nelle scuole di tutto il mondo sono state notevolmente ridotte. La mancanza di finanziamenti, dovuta alla crisi economica, fa sì che apprendere a suonare uno strumento diventi un lusso, piuttosto che una base educativa da elargire a tutti gli studenti. E’ una buona mossa per lo sviluppo cognitivo dei bambini?

 

Artur Jaschke della VU University di Amsterdam, Paesi Bassi, ha condotto uno studio al riguardo e ha affermato che

[blockquote style=”1″]nonostante le indicazioni rispetto agli effetti benefici della musica sulla cognizione, tale disciplina sta scomparendo dai programmi di studio generale[/blockquote]

E’ stato proprio questo il movente che ha spinto il gruppo di ricerca, composto anche dal dottor Henkjan Honing e dal dottor Erik Scherder, a condurre uno studio sugli effetti positivi dell’ educazione musicale sui risultati accademici.

Lo studio: quali sono gli effetti dell’educazione musicale sui bambini?

Lo studio longitudinale, il primo a larga scala condotto ad oggi, ha analizzato gli effetti positivi dell’educazione musicale su 147 bambini frequentanti diverse scuole primarie olandesi.

Le ore di educazione musicale sono state introdotte in base ad un metodo sviluppato dal Ministero della ricerca e dell’istruzione dei Paesi Bassi e ad un centro specializzato nell’educazione artistica, adattandolo al curriculum scolastico regolare: in questo modo tutte le scuole in oggetto hanno seguito il regolare curriculum di studi, introducendo alcune ore di lezione pratiche e teoriche di musica ed arti visive.

Prima dell’introduzione delle ore di lezione artistica (musicale e di arti visive) ed in seguito a 2 anni e mezzo da questa introduzione, i ricercatori hanno valutato le abilità cognitive (tra cui pianificazione, inibizione e abilità di memoria) e le prestazioni scolastiche dei bambini.

È emerso che i bambini che hanno seguito lezioni di musica hanno avuto significativi miglioramenti cognitivi applicabili allo studio, rispetto ai bambini che non hanno seguito tali lezioni. I miglioramenti maggiori sono stati registrati nel ragionamento basato sul linguaggio verbale, nella capacità di pianificazione, nell’organizzazione delle attività e conseguentemente nei risultati scolastici.

Come afferma il dottor Jaschke, i risultati ottenuti suggeriscono

[blockquote style=”1″]che le abilità cognitive sviluppate durante le lezioni di musica possono influenzare le abilità cognitive dei bambini, portando a prestazioni accademiche complessivamente migliori[/blockquote]

Inoltre, le lezioni di arti visive hanno mostrato di apportare un beneficio a livello della memoria visiva e spaziale a breve termine.

I ricercatori si augurano che il proprio studio possa contribuire a sottolineare l’importanza che le lezioni di musica e d’arte ricoprono nello sviluppo della cultura umanistica e generale degli studenti, oltre che nel loro sviluppo cognitivo.

Neurobiologia dell’ingiustizia. Cosa succede nel nostro cervello quando siamo vittime o spettatori di un comportamento ingiusto?

Un gruppo di ricercatori olandesi sì è posto l’obiettivo di indagare i meccanismi psicologici e neurologici che accompagnano le scelte punitive o riparative espresse a seguito di un’ ingiustizia, cercando di dare un contributo ad un tema così profondamente legato all’esperienza umana, ma ancora poco indagato dal punto di vista neurobiologico.

 

La ricerca si è posta come primo obiettivo quello di riuscire ad individuare i meccanismi neurologici alla base delle decisioni di punire i trasgressori e risarcire le vittime. Sulla scia delle ultime ricerche in materia, che hanno evidenziato come dietro ad un comportamento punitivo non ci sia un processo unitario ma un sistema articolato in diverse sottocomponenti, i ricercatori hanno poi voluto far luce sulla reazione di questo sistema a seguito di un’ ingiustizia a cui si è assistito o che ci ha coinvolti in prima persona.

Il recente interesse per la dimostrata influenza degli ormoni sui processi cognitivi, li ha indotti infine ad esplorare il ruolo dell’ossitocina non solo nelle situazioni in cui si soccorrono le vittime, avendo già altre ricerche individuato il ruolo facilitante di questo ormone nell’ambito di comportamenti prosociali, ma anche nelle circostanze che ci vedono impegnati a punire i trasgressori.

Per raggiungere questi obiettivi, il team di ricerca ha adottato un approccio esplorativo e multi-metodologico: la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’impiego farmacologico di ossitocina e quello che hanno chiamato Justice Game, un racconto con compiti di decision-making.

Il campione di ricerca ha visto coinvolti efficacemente 53 uomini con un’età media di 21 anni, 27 dei quali hanno ricevuto la dose di ossitocina e gli altri un placebo contenente tutti i principi attivi del farmaco ad eccezione del solo neuropeptide.

Il primo obiettivo di riuscire a comprendere meglio i meccanismi neurologici alla base della decisione di punire i trasgressori o di risarcire le loro vittime è stato raggiunto constatando che l’aumento dell’attività dello striato ventrale è correlata più con la decisione di punire chi si è comportato ingiustamente che con la volontà di ricompensare chi si trova svantaggiato. Inoltre la decisione di astenersi da condotte punitive è risultata correlata positivamente con un aumento di attività nella giunzione temporo-parietale, un’area coinvolta nell’empatia e nella capacità di mettersi nei panni altrui.

Il secondo obiettivo intendeva paragonare le ragioni psicologiche e l’attività del cervello ad esse associate, sottostanti la decisione di punire, e quanto severamente farlo, sia che si sia vittime dirette di un comportamento ingiusto sia che esso sia diretto ad un terzo. L’area del cervello dell’insula anteriore è risultata associata alla decisione di punire ma in misura maggiore se chi punisce è chi ha subito direttamente il torto. Nell’esperienza sociale l’insula è risaputo essere coinvolta nel processamento della violazione alle norme, pertanto i ricercatori sono giunti alla conclusione che la volontà di punire possa dipendere da questo tipo di considerazioni che assumono un carattere di maggiore severità nelle vittime piuttosto che negli osservatori.

In quest’ultimo caso i risultati della ricerca hanno invece evidenziato il possibile coinvolgimento di un’altra area cerebrale nelle decisioni punitive, la corteccia prefrontale dorsolaterale, che sommerebbe alle pure considerazioni di giustizia dell’insula anche informazioni addizionali circa le variabili del contesto in cui si verifica l’episodio di violazione delle norme. Così come in ricerche precedenti, anche in questo caso i ricercatori hanno evidenziato il coinvolgimento dell’amigdala in questo tipo di scenario, supportando l’ipotesi che questa regione del cervello codifichi l’arousal emotivo associato con il danno procurato a terzi.

Per quanto riguarda il ruolo dell’ossitocina, essa non è risultata aver alcun ruolo facilitatore, riscontrabile a livello neurologico e comportamentale, nell’ambito dei comportamenti di soccorso alle vittime, disconfermando i risultati di altre ricerche che descrivono il neuropeptide come un generale potenziatore di empatia e decisioni prosociali e altruistiche ma tale dato potrebbe anche dipendere dal ridotto campione di comportamenti positivi esaminati nell’ambito della ricerca.

L’ossitocina invece ha dimostrato di influenzare l’attività cerebrale e il comportamento di chi decideva di agire in senso punitivo: a livello comportamentale l’ossitocina ha aumentato la frequenza di punizioni di lieve entità, diminuendo la volontà di punire duramente sia nelle vittime dirette che negli spettatori.

Benchè la percezione di ingiustizia sia il precursore non solo di discussioni da bar tra amici di vecchia data ma anche di conflitti di larga portata tra culture diverse, ancora poco si sa riguardo a come il cervello elabori l’ ingiustizia e quali sue aree e fattori esterni contribuiscano ai processi decisionali che ne derivano. Questa ricerca offre indubbiamente un prezioso contributo a colmare questa lacuna.

Parlami di Lucy (2018), molto più di un thriller psicologico – Recensione del film

Se il valore di un film si giudica anche dalle possibilità che lascia aperte al contributo soggettivo dello spettatore, Parlami di Lucy lascia certamente la sensazione che l’impegno investito nella sua visione non sia stato uno sforzo infruttuoso.

 

Parlami di Lucy: più di un semplice thriller psicologico

Definire Parlami di Lucy un thriller psicologico pare per la verità limitante, poiché la struttura narrativa gioca sul continuo scambiarsi e intrecciarsi di livelli del racconto che hanno sì a che vedere con l’incertezza, la suspense, ma forse non si risolvono mai, nemmeno con la svolta finale apparentemente definitiva.

Nella cornice di montagne dure e austere, nel microcosmo di una casa solitaria il cui ambiente umano non si espande mai oltre la stretta natura circostante e l’inizio – o la fine, a seconda che si voglia arrivare o fuggire – della strada sterrata che collega a realtà altre mai veramente descritte, in questa cornice si diceva, il contrasto fra non detto e sottinteso, fra incubo del sonno e incubo della coscienza non giunge mai ad una piena e liberatoria – o deludente, dipende dalle predilezioni dello spettatore – composizione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM PARLAMI DI LUCY:

Parlamy di Lucy: la trama

Nicole, protagonista del film Parlami di Lucy, madre tormentata da paranoie crescenti e paure reali, ospita in sé la disgregazione di un matrimonio, l’angoscia muta del tradimento sconosciuto, la manipolazione di una figlia ostaggio dei propri silenzi e delle ferite non risolte dagli adulti. Il pericolo incombe e non sempre è chiaro se sia ciò da cui Nicole vuole proteggere la bambina o ciò da cui la donna non riesce a proteggersi. In una spirale che ricorda il giro di vite jamesiano, la protagonista è al centro di eventi inspiegabili o forse spiegabili con una storia di fantasmi, i suoi. Non abbiamo certezza che la linea sottile che separa il reale dal perturbante sia davvero una separazione. Più spesso essa appare la vera chiave di lettura del racconto, quel confine che può essere superato e ripristinato seguendo sensazioni tanto aperte quanto al contrario diviene claustrofobica l’atmosfera narrativa.

Ci sono veramente presenze oscure? È il marito a far cadere accurati semi di follia nella mente della donna per poterla abbandonare impadronendosi della figlia e fuggendo con l’amante? Nicole protegge la bambina dalla malvagità di una trama soprannaturale, da un padre la cui freddezza potrebbe essere spietato calcolo o dolore inesprimibile, oppure non riesce a difenderla da un’altra minaccia che penetra senza poter essere raffigurata?

Forse Nicole, la sua mente fragile e l’incubo che la percorre sono davvero l’unica cosa che vediamo, che ci è raccontata in Parlami di Lucy; forse Lucy, chiusa negli occhi dritti, nella voce marmorea di una solitudine che nessuno riesce a lenire o che nessuno è realmente interessato a guardare, è lo schermo bianco sul quale gli adulti proiettano la sofferenza che si fa incubo.

Ma in quell’incubo è quasi tutto umano, poco o nulla assomiglia all’horror richiamato in alcune scene, poco o nulla rimanda a vissuti diversi da quelli di una tragedia che più sfugge più si consuma.

 

PARLAMI DI LUCY: LE IMMAGINI DAL BACKSTAGE DEL FILM

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM5

 

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM4

 

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM3

 

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM2

 

 

 

Nulla sfugge ai social: una spinta gentile per ricordarlo

Siamo nell’era della privacy assoluta, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato su internet.

 

La pioggia di dati prodotta da internet è inarrestabile e sta inesorabilmente cambiando le nostre vite, le nostre relazioni, l’amore, la nascita, la morte, la politica e l’economia. Attualmente si parla di una popolazione “data driven”, ovvero “guidata dai dati”, un fiume in piena che noi stessi produciamo.

I rapporti sono mediati da piattaforme, i processi decisionali dai computer più che dai dirigenti. Siamo nell’era della privacy assoluta, in cui si chiede che venga rispettato il diritto alla riservatezza della propria vita privata, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato.

Il 1° gennaio 2004, in Italia, è entrato in vigore il cosiddetto “Testo Unico sulla Privacy”, ovvero il Codice che raccoglie le disposizioni in materia di protezione dei dati personali (Codice in materia di protezione dei dati personali, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196). Il Codice garantisce che il trattamento dei dati si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, assicurando un elevato livello di protezione, nel rispetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed efficacia delle modalità previste per il loro esercizio, ma i comportamenti emessi dalla popolazione risultano essere contrari e incompatibili alla tutela richiesta (Citta & Della Banca, 2003).

I giovani espongono sui social i loro segreti più intimi, perché bisognosi della considerazione sociale di ciò che accade nelle loro vite, condividono fotografie per gioco o per rendere pubblica una relazione d’amore; i genitori inesperti della rete pubblicano foto di minori, installano senza consapevolezza sui propri smartphone applicazioni, allettati dalla parola “gratuita”. I professionisti mettono a rischio i loro contatti di lavoro attraverso lo scambio d’informazioni via e-mail con colleghi e clienti e scansioni di atti. L’uso delle più recenti tecnologie rende i dati sensibili indifesi di fronte ad attacchi esterni e spesso soggetti a incidenti informatici che compromettono il loro recupero. Tra amici o compagni di scuola si fanno strada molestatori e cyberbulli che, convinti di essere protetti dall’anonimato, colpiscono le persone più deboli.

In che modo internet sta ridisegnando la vita delle persone

Luciano Floradi, filosofo nell’Università di Oxford, in un’intervista speciale del TG1 andata in onda il 29 Gennaio 2017, pone l’attenzione sulle modalità attraverso cui internet sta ridisegnando in Italia le nostre vite, personali e pubbliche. Gradualmente, l’introduzione di device mobili nelle nostre vite sta conducendo verso un’identità perennemente “on line”.

La frequenza con cui si è connessi alla “rete delle reti” (internet) sta crescendo progressivamente: in qualsiasi contesto o momento del giorno e della notte, indipendentemente dall’età, si è perennemente on line (ISTAT, 2013). Internet viene utilizzato da fermi o in mobilità, portando l’uomo verso uno sviluppo di relazioni tra macchine più che tra persone, mediante applicazioni di messaggistica istantanea quali WeChat, WhatsApp, ecc..Nel marketing, attualmente, si parla di e-commerce, una forma di commercio i cui prodotti vengono venduti mediante Internet, il quale permette di raggiungere in modo veloce e a basso costo gli acquirenti, ma questa modalità di commercio ha portato a non incontrare neanche più i clienti (Gefen & Straub, 2004). A scuola il bambino viene monitorato in entrata e in uscita mediante il registro elettronico, gli insegnanti utilizzano la LIM (lavagna interattiva multimediale), su cui vengono proiettati contenuti digitali; telecamere appositamente posizionate all’interno delle istituzioni scolastiche monitorano la vita dei ragazzi. A Singapore, webcam e sensori invisibili sono sparsi per tutta la città, registrano e tracciano movimenti e comportamenti su autobus e nella vita quotidiana.

Una traccia rimane ovunque anche se tradisci il tuo partner, tra uomini e oggetti (acquisto di un regalo), tra oggetti e oggetti (es. le camere in hotel sono tutte controllate tramite smartcard). Tasse, proprietà, codici di accesso per visionare parti della propria vita, definiscono il valore professionale e personale dell’individuo.

Secondo alcuni antropologi che studiano i nativi digitali, in aeroporto la presenza di telecamere digitali permette di scansionare i volti, definisce il genere e l’etnia della persona e spesso vengono fermati i soggetti, sulla base di ciò che decide l’algoritmo. Nessuno si lamenta del controllo, viviamo in una società pragmatica, ma quanto siamo consapevoli che il diritto di privacy davanti alle relazioni in rete perde valore?

Anti fragilità vs fragilità delle relazioni reali

L’aver scelto un’identità sempre on line ha reso la popolazione dei nativi digitali più “controllante”: se si perde lo smartphone, grazie al segnale gps è possibile localizzarlo; in un posto in cui il collegamento dei mezzi è scarso, una connessione internet permette di localizzare l’auto più vicina grazie al servizio di car sharing. La Braun Research, società di ricerca di mercato, nel 2016 ha esplorato per conto della Bank of America le tendenze e i comportamenti di utilizzo dello smartphone con un sondaggio telefonico su 1004 persone di età superiore ai 18 anni in possesso di un cellulare. Il 59% dei soggetti intervistati afferma di possedere più di un dispositivo mobile.

L’uso che si fa dello smartphone è legato all’interazione con i propri figli, ottenere indicazioni, prendere appuntamenti, controllare le proprie finanze, prenotare viaggi, fare shopping e ordinare cibo. Questi comportamenti in realtà stanno portando la società in direzione contraria ai principi di anti fragilità (Taleb, 2013) e ciò non stupisce: le relazioni digitali comportano una fragilità nelle relazioni reali. La tecnologia e i dati aiutano a capire chi siamo e orientano l’uomo su dove andare, ancorandolo alla zona di comfort piuttosto cha spingerlo verso la scoperta autonoma dei pro e dei contro. I device digitali, via di accesso alla realtà della rete, dovrebbero essere di supporto e non sostituti.

Oggi il numero degli amici su Facebook è uno degli indicatori più significativi nella vita della persona, con la conseguenza di mettere implicitamente in secondo piano l’effettiva rete di relazioni intessute da un soggetto. Ciò va sommandosi a un altro elemento di fragilità ontologica ossia la mancanza di ridondanza: la quasi esclusività del mezzo digitale toglie di fatto all’individuo l’occasione di sperimentare le implicazioni ripetute della vita reale, le sollecitazioni improvvise ed esterne e non controllabili, necessarie alla crescita e al miglioramento personale. In alcuni casi può accadere che gli aspetti del reale e del virtuale si sovrappongono a tal punto che l’autonomia delle parti necessaria per una socialità anti fragile viene a mancare. In quest’ultimo caso, infatti, il virtuale non supporta il reale ma lo sincretizza diventandone causa di indebolimento: se muore una parte anche l’altra non sussiste. La mancata ridondanza nelle modalità di accesso e di contatto con la dimensione sociale rende il singolo oltremodo fragile. Ed è così che lo smartphone riesce a diventare indispensabile nelle nostre vite che non sono pronte ad affrontare un evento improvviso, un cigno nero (Taleb 2007), che inaspettatamente può far saltare il sistema, cambiando la routine vissuta dall’uomo.

L’era delle “face down people” e delle relazioni “filtrate dalla tecnologia”

La condizione della società contemporanea è descritta dal regista e animatore Steve Cutts, nel nuovo video di Moby & The Void Pacific Choir, nel brano “Are you lost in the world like me?”, uscito il 14 ottobre 2017.

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In questo video la coppia Moby-Cutts denuncia la dipendenza umana dagli schermi, con uno sguardo desolante. Le immagini rivelano come la centralità dell’individuo nella propria vita ha ceduto il posto alle relazioni “guidate dai dati”, in cui comportamenti come baciare, abbracciare, sorridere ecc. sono stati sostituiti da emoticon che comunicano sensazioni alterate e talvolta ambigue. Siamo nell’era delle “face down people”, persone che mantengono lo sguardo rivolto verso il basso, sullo schermo del telefono e si muovono immersi nello smartphone.

Wallace (2014) riporta alcuni casi limite. In Cina, due studenti hanno giocato a un gioco online per due giorni consecutivi: poi, una volta usciti di casa, nell’attraversare i binari nella vita reale, senza rendersi conto del cambiamento, sono stati uccisi da un treno che sopraggiungeva. Una giovane coppia in Korea si è occupata della figlia virtuale trascurando quella vera, che infine è morta. L’uso eccessivo di Internet porta progressivamente a difficoltà soprattutto nell’area relazionale dell’individuo, il quale viene assorbito dalla propria esperienza virtuale, rimanendo “agganciato” alla rete (Jamison, 2000).

È possibile pertanto parlare di dipendenza? Jerald J. Block (2008), in un articolo recente sull’American Journal of Psychiatry, afferma che l’Internet Addiction è un particolare tipo di disturbo compulsivo-impulsivo, il quale si manifesta attraverso i seguenti sintomi: desiderio irrefrenabile di connettersi al web (o comunque di stare davanti a un pc, tablet, smartphone) per chattare, giocare, mandare e-mail, frequentare siti porno. Il soggetto privo di internet diventa irritabile, nervoso e agitato e può facilmente cadere in forme di depressione: una vera e propria sindrome da astinenza. L’assuefazione a internet si manifesta nella forma di una progressiva permanenza davanti al pc/tablet sempre più lunga e ininterrotta, e nella ricerca di dispositivi hardware e software sempre più potenti e innovativi. Facebook è basato su un algoritmo simile a quello di Google, dà avvio a chat e relazioni, nelle quali la persona è immersa; l’algoritmo le ordina e le ripropone, tutto ridisegnato dal web. La relazione è filtrata dalla tecnologia. La velocità della chat brucia le relazioni: si crea la relazione prima che realmente avvenga. Le storie sentimentali da private diventano pubbliche.

La tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative indotta dalla diffusione di device e app digitali può essere un fattore di rischio trasversale per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.

Le app finora create (es. WhatsApp che permette di controllare gli accessi di ciascun utente) contribuiscono al sorgere di relazioni perverse, ipercontrollanti, che fanno sorgere nella mente del partner domande del tipo: “Cosa fa? Con chi chatta se non sta scrivendo a me? Come mai è ancora sveglia/o? Perché non mi scrive? Vuole escludermi dalla sua vita?”

Secondo alcune moderne teorie su pensiero e linguaggio, come l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, Strosahl & Wilson, 1999) e la Relational Frame Theory ( Hayes, Barnes-Holmes, & Roche, 2001), le strategie di controllo che avrebbero l’obiettivo di eliminare i disagi personali, hanno un ruolo centrale nell’esasperare la fisiologica sofferenza connessa all’essere umani. La psicopatologia sorgerebbe, quindi, nel momento in cui finalità e desideri di vita significativi a lungo termine, ad esempio persone e valori importanti, vengono sostituiti dall’obiettivo a breve termine di sentirsi bene, apparire bene e di difendere, nell’immediato, il proprio sé concettualizzato. Guidati da questi scopi a breve termine, effimeri per loro natura, i pattern comportamentali si restringono e si allontanano dai reali valori dell’individuo (Hayes et al., 1999).

Quanto affermato nei paragrafi precedenti evidenzia come l’attuale comunità sociale/verbale favorisca, anche attraverso la diffusione di device e app digitali, proprio queste strategie di controllo, che rappresentano una soluzione a brevissimo termine (ad esempio so sempre che cosa sta facendo il mio partner, i miei amici, ecc.) e un grave problema nel medio-lungo termine (l’assenza della possibilità di monitorare costantemente le attività altrui mi fa sentire perso, disorientato, instabile, sopraffatto, e mi spinge ad agire in modo discontrollato e pericoloso per me e per gli altri, ecc.). Questo eccesso di controllo sulle esperienze interne negative viene chiamato evitamento esperienziale e si traduce in tutti quei comportamenti che la persona mette in atto per allontanare da sé emozioni e sensazioni difficili, indipendentemente da quanto questi comportamenti impediscano alla persona di perseguire scopi significativi e gratificanti più ampi.

La ricerca scientifica mostra come la tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative possa essere un fattore di rischio trasversale per la salute psicologica. Solo per citare alcuni dati, le persone con elevato evitamento esperienziale tendono a sviluppare con maggior probabilità i sintomi del disturbo da stress post traumatico dopo un’esperienza traumatica (Marx e Sloan, 2005). La loro qualità di vita nel corso degli studi universitari risulta peggiore (Hayes et al., 2004); presentano un maggior numero di disturbi psicologici e rischiano di commettere più errori in ambito lavorativo (Bond e Bunce, 2003).

La capacità di aprirsi e accettare pensieri e sentimenti difficili, e di impegnarsi in azioni efficaci e di valore, sembra quindi predire il successo in diversi aspetti della vita degli esseri umani. Viceversa, l’evitamento esperienziale costituisce un importante fattore di rischio in termini di salute psicologica (Biglan, Hayes e Pistorello, 2008). In molti modi, quindi, incluso l’utilizzo pervasivo di rete, social e device, la nostra società rischia di creare un terreno fertile per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.

Foto, video, chat sono tutti elementi che lasciano dati sensibili ovunque. La cura dei dati è affidata a internet che, come una grande tribù priva di presenza fisica, opera una condivisione di informazioni. La distanza scompare, e come nelle caverne il corpo rimane nudo: i dati sono allo scoperto. Si tratta di tribù virtuali che condividono i loro corpi sotto forma di dati e quando i singoli componenti si ammalano anche la tribù si ammala perché ogni cosa è condivisa online. Le app sono diventate gradualmente applicazioni capaci di accomunare persone che hanno gli stessi interessi (cene, viaggi..), i “gruppi chiusi” di Facebook e i gruppi WhatsApp stanno creando una forma di tribalismo istantaneo, in cui l’identità dell’individuo si scioglie in quella collettiva: si verifica uno scambio di emozioni forti, di pensieri condivisi e il bisogno di relazione porta a chattare, fare battute, innamorarsi in un mondo virtuale. I comportamenti delle persone appartenenti ai social seguono regole ben precise: c’è un influencer e tutti lo seguono, il cosiddetto capobranco al quale ci si affida nei “like” o in votazioni relative a specifiche tematiche.

Il libro The Filter Bubble (Pariser, 2011) porta l’attenzione sui principali servizi web, dal motore di ricerca Google alle notifiche degli amici di Facebook e fa notare al lettore come questi hanno la tendenza a offrire all’uomo una visione su misura del mondo, personalizzata in base alle proprie aree di navigazione e interessi, manifesta in maniera diretta o dedotta in automatico dal sistema. Se da un lato tutto ciò rappresenta un vantaggio, dall’altro lato è un rischio. Il rischio, di cui parla il testo, è che l’uomo finisca per chiudersi in una bolla. Una bolla che ha l’effetto di isolare l’uomo dalla società, facendogli perdere la percezione della collettività nel suo insieme, orientandolo verso la costruzione di relazioni personali ideali più che reali. La società, informata solo in apparenza, pian piano si sta chiudendo all’interno di una bolla guidata da algoritmi che difficilmente permettono l’accesso al caos, rischio, incertezza, avventura e disordine, elementi che permettono all’uomo di crescere ed evolversi. Si è fragili e poco resilienti agli shock. La ridefinizione dei contesti e della frequenza di utilizzo dei propri dispositivi mobili potrebbe permettere all’uomo di uscire da questa bolla esponendosi alla realtà che lo circonda, compiendo scelte utili e funzionali per sé e per chi lo circonda.

Una “protesi cognitiva” semplice e veloce per aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online Daniel Kahneman, psicologo Israeliano e Premio Nobel per l’Economia nel 2002, ha messo in luce nel suo lavoro come l’ambiente in cui ci si muove possa  esercitare un’importante influenza sulle scelte dell’uomo, che ne sia consapevole o meno (Kahneman, 2012). Un’ipotesi di intervento in tal senso che permetta agli individui di ricordare l’importanza della privacy e la tutela dei propri dati è l’applicazione del nudging, l’insieme di principi basati sulle scienze del comportamento, che spinge gentilmente le persone nel processo decisionale verso scelte coerenti con i propri valori individuali e collettivi. Il nudging lavora sull’ “architettura delle scelte” ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo. Aumenta la probabilità di emissione di un comportamento lavorando sugli antecedenti; influenza un comportamento prevedibile senza utilizzare punizioni o incentivi economici (Sunstein & Tahler, 2008).

Lo studio condotto da Castleman e colleghi (2013) in contesto universitario ha mostrato l’efficacia dei remainder nell’incremento delle iscrizioni. Il remainder è una “protesi” cognitiva che ci ricorda, in momenti specifici, la possibilità di compiere una scelta (ad esempio condividere o meno specifiche informazioni). Esso è utile quando i comportamenti non sono influenzati da un’elevata motivazione, o quando la persona deve processare diverse informazioni e può aumentare la probabilità che essa dimentichi di compiere una determinata azione.

Sarebbe utile e funzionale pertanto inserire come screen del proprio smartphone, pc/tablet un reminder contenente l’immagine di un lucchetto o la dicitura “nulla sfugge ai social” per ricordare alle persone l’esistenza e l’importanza della privacy, per aumentare la consapevolezza che tutto ciò che viene caricato online e reso disponibile alla grande tribù digitale di appartenenza, rimarrà per sempre nel web. Attraverso questo intervento le persone sono orientate verso il compiere o meno una scelta: condividere o no qualunque tipologia di foto, video, conversazione ecc.. in tempo reale. Tale intervento non richiede costi esosi, è semplice e veloce da applicare ma potrebbe aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online, tutelando sé stessi, gli altri e il concetto di privacy.

Quello che la mente dice: l’influenza dei pensieri e il concetto di defusione

L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ha portato l’attenzione sulla fusione col pensiero, e la sua controparte, la defusione. Praticare la defusione significa non lasciarsi agganciare dagli eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà.

 

Funzionalità dei processi di pensiero

Il pensiero e i suoi processi possono essere considerati tra le funzioni che, in stretta connessione con il linguaggio, consentono all’uomo di sostenere prestazioni altamente intelligenti. Lo sviluppo di alcune aree cerebrali ci ha permesso di evolverci, sviluppare abilità cognitive complesse e diventare abili pensatori. Grazie alla corteccia prefrontale, ad esempio, siamo in grado di generare nuovi comportamenti esplorando diverse alternative, ci è possibile immaginare, valutare le soluzioni possibili per il raggiungimento dei nostri obiettivi. Il nostro cervello opera però non solo manipolando e soppesando esperienze e sensazioni fisiche reali, ma si serve anche di rappresentazioni e astrazioni della realtà, ovvero di concetti che pone al centro dei processi di pensiero e ragionamento (Skoyles, Sagan, 2003). Il diffuso interesse per tali capacità dell’essere umano ha da sempre spinto gli studiosi ad approfondire i meccanismi che sottendono processi quali il prendere decisioni, il problem solving, le attività di valutazione e di giudizio che continuamente mettiamo in atto per muoverci nel mondo.

La fusione col pensiero: quando le credenze corrispondono a realtà

Ma cosa succede quando ci “fondiamo” con i nostri pensieri, immagini mentali, previsioni più o meno pessimistiche? Iniziamo a credere che questi corrispondano alla realtà e guardiamo al mondo attraverso di essi, come attraverso un filtro che altera il modo in cui vediamo le cose. Molti dei significati che emergono da questa fusione coi pensieri non ci aiutano a vivere pienamente, anzi, ci fanno credere che ci sia qualcosa di preoccupante, spaventoso, minaccioso da cui difendersi. Sappiamo che di fronte ad una potenziale minaccia la complessità delle nostre menti ci consente di trovare soluzioni creative, di risolvere problemi, di rispondere agli ostacoli che si frappongono tra noi e i nostri obiettivi.

La mente è una risolutrice di problemi e pertanto tenta anche di proteggerci da ciò che per noi rappresenta un pericolo; tutto ciò è funzionale all’evoluzione e alla sopravvivenza, ma in alcuni casi può generare un’inversione nella direzione della sofferenza psichica. In questi casi la mente propone soluzioni a problemi che non si sono ancora presentati e che probabilmente non si verificheranno mai, risponde a preoccupazioni e dubbi dettati da credenze distorte su se stessi o sugli altri, da previsioni su ciò che di brutto potrebbe accadere, da idee di fallimento o idee negative di altro genere; in sostanza, si tratta di storie che la mente racconta e che portano a costruire soluzioni disfunzionali, evitamenti, rinunce, tentativi di controllo inflessibili e rigidità. Così avviene che a volte ci sentiamo bloccati, quasi fisicamente incapaci di muoverci verso un obiettivo per noi importante. Magari perché giudichiamo le nostre capacità di farcela in maniera brutalmente – e irrealisticamente – critica, magari perché diamo per scontato il fallimento, o ancora perché “prevediamo” un epilogo negativo, sicuri che si realizzerà la peggiore delle ipotesi, trovando giustificazioni al nostro comportamento che siano in linea con tali convinzioni. È in un simile scenario che i pensieri possono talvolta svolgere un ruolo chiave nel produrre situazioni di stallo e sofferenza soggettiva, e non è tanto – o non solo – il loro contenuto a causare dolore o a impedirci di perseguire i nostri scopi, quanto il modo in cui ci rapportiamo ad essi.

Fusione e defusione nell’ Acceptance and Commitment Therapy

A questo proposito, l’approccio cognitivo-comportamentale cosiddetto di terza generazione e, in particolare, l’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT), hanno portato l’attenzione su un concetto particolarmente esplicativo di quanto finora descritto: la fusione, e la sua controparte, la defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle esperienze interiori, quali pensieri o emozioni, e guardare il mondo attraverso le loro lenti; praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà (Polk, Schoendorff, Webster, Olaz, 2016). I concetti di fusione e defusione sono connessi all’idea di base che il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento. Con la pratica della defusione è possibile riconoscere che i pensieri sono appunto parole, storie, discorsi che si presentano nella nostra mente ma che non necessariamente sono veri, possono esserlo ma non dobbiamo credergli automaticamente. Possiamo concedergli tempo e attenzione solo se sono utili, ma nessun pensiero, per quanto doloroso, rappresenta una minaccia reale (Harris, 2010).

Per questo alcune tecniche dell’ Acceptance and Commitment Therapy volte a promuovere la defusione si fondano sull’utilizzo di strategie verbali che consentono alla persona una descrizione della propria esperienza per ciò che è: invece di pensare “io non posso farlo” e rendere questo pensiero una verità assoluta, si può trasformare questa affermazione in “ho il pensiero di non poterlo fare”. L’intero lavoro sul processo di defusione prevede che si vada, parallelamente, ad intervenire sulla capacità della persona di accettare quei pensieri per lei disturbanti.

Come scrive Harris (2010, p.53):

Rapportati ai tuoi pensieri in modo nuovo, così che abbiano un impatto e un’influenza molto minori su di te. […] essi perderanno la capacità di spaventarti, preoccuparti, stressarti o deprimerti. E man mano che imparerai a praticare la defusione dai pensieri inutili, come le convinzioni che ti limitano e l’autocritica feroce, essi avranno molta meno influenza sul tuo comportamento.

La defusione è quindi, nell’ Acceptance and Commitment Therapy, la risposta alla fusione cognitiva. Si tratta in sintesi di un processo nel quale le persone arrivano a sperimentare i pensieri semplicemente come pensieri, eventi passeggeri che non bisogna necessariamente controllare (Dahal, Stewart, Martell, Kaplan, 2013).

Anche se il concetto di defusione è solo uno dei processi previsti dall’ ACT e va quindi inserito e letto in un contesto più ampio e completo, anche osservarlo singolarmente stimola importanti riflessioni. Avvicinarsi alla consapevolezza che i pensieri possano essere visti in questa prospettiva può rappresentare infatti un punto di partenza per la comprensione dei comportamenti e delle forme di sofferenza che sempre più spesso interessano la nostra società. È utile quindi introdurre noi stessi all’idea che anche la mente mente, e che a volte è bene allenarsi a guardare le cose dalla giusta distanza, “giocare” con i pensieri ingombranti trattandoli per quello che sono, parole, perché – citando Shakespeare – “non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale” (Amleto, atto II, scena II).

AlterEgo: un nuovo strumento per riuscire a comunicare senza parlare

Alcuni ricercatori del Massachussetts Istitute of Technology (MIT) hanno sviluppato un sistema, chiamato AlterEgo, in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto di chi lo indossa per rispondere a domande che non sono state esposte esplicitamente tramite verbalizzazione.

 

Pensa silenziosamente ad una domanda e io ti risponderò.
Questo potrebbe sembrare un trucco magico, in realtà è ciò che promette di fare AlterEgo, un dispositivo in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto per rispondere a domande che sono rimaste silenziose e inespresse nella mente di chi lo indossa. Attenzione, non legge la mente, ma il principio è molto simile.

AlterEgo: come funziona

Kapur e Maes (2018) hanno sviluppato un device computerizzato in grado di “leggere” e poi esprimere ciò che il soggetto verbalizza nella propria mente, senza però che sia espresso a parole. Il sistema, chiamato AlterEgo, è costituito da un apparecchio indossabile che si estende dall’orecchio alla bocca, appoggiato all’osso della mandibola, ed è associato ad un programma computerizzato.

In particolare, l’apparecchio contiene una serie di elettrodi in grado di rilevare i segnali neuromuscolari della mandibola e del volto determinati dalle verbalizzazioni interne che si verificano quando il soggetto pensa a ciò che sta per esternare. Questi segnali neuromuscolari, invisibili all’occhio umano, una volta rilevati vengono trasmessi ad un sistema di machine-learning che è stato progettato per associare specifici segnali a specifiche parole.

AlterEgo inoltre include un paio di cuffiette che trasmettono vibrazioni all’orecchio interno tramite la mandibola: dal momento che tali cuffiette non ostruiscono il canale auricolare, consentono al sistema di trasmettere informazioni a chi lo indossa senza che quest’ultimo sia distratto dalla “conversazione interna” o senza che esse interferiscano con l’esperienza uditiva di chi lo indossa. Il device è così parte di un più generale sistema computazionale che, in aggiunta, permette all’individuo di porre domande non verbalizzate e ricevere, dal computer, risposte silenziose anche a problemi computazionali complessi come è stato osservato in soggetti che utilizzavano AlterEgo durante una partita di scacchi.

[blockquote style=”1″]Lo scopo di tutto è stato quello di costruire un device di accresciuta intelligenza per rispondere ad una nostra domanda: è possibile creare una piattaforma computerizzata che sia più interna, che fonda la macchina artificiale con l’essere umano in una qualche maniera così da ottenere un’estensione della nostra cognizione?[/blockquote]

(Arnav Kapur, laureato al Media Lab del MIT, uno degli sviluppatori del sistema)

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Perchè nasce AlterEgo: quali possono essere gli utilizzi possibili

Fondamentalmente non siamo più in grado di vivere senza i nostri cellulari o i nostri apparecchi digitali, tuttavia, al momento, l’utilizzo di questi apparecchi non garantisce il massimo grado di efficienza.

Durante una discussione, per trovare argomenti rilevanti alla conversazione, è necessario prendere il cellulare, immettere la password se necessario, aprire un’applicazione o immettere una keyword per tentare di trovare l’informazione che si sta cercando, il tutto però interrompendo la conversazione con l’altro e costringendo la persona a focalizzare la sua attenzione sull’apparecchio e non più sull’interlocutore.

AlterEgo, secondo i suoi sviluppatori, nasce con l’intento di fornire alle persone un nuovo tipo di esperienza che consenta loro di beneficiare e di accedere in tempo reale, sul momento, alle informazioni migliori da utilizzare in una conversazione tramite un sistema veloce ed intelligente.

L’idea che le verbalizzazioni interne avessero correlati fisici risale agli anni 50 del Novecento, mai fino ad ora era però stata esplorata l’idea di decodificare le verbalizzazioni interne o “subvocalizzazioni” tramite un computer e un algoritmo.

Il primo passaggio è stato quello di determinare quale punti del volto costituissero una fonte dei segnali neuromuscolari più rilevanti, trovando che quattro specifici elettrodi su sedici, appoggiati alla mandibola, fossero in grado di distinguere parole subvocalizzate. Una volta selezionati gli elettrodi sulle porzioni salienti del volto, i ricercatori hanno iniziato a raccogliere dati tramite pochi task computazionali con un vocabolario piuttosto limitato, circa 20 parole (Kapur, Kapur & Maes, 2018). Ad ogni singolo task, i ricercatori del MIT hanno poi associato correlati neurali per trovare correlazioni tra particolari segnali neuromuscolari e specifiche parole.

Ricerche future dovranno raccogliere dati e creare delle applicazioni con un vocabolario molto più ampio e ricercato che possa consentire un giorni di compiere una completa conversazione.

I benefici dei sistemi come AlterEgo

Innanzitutto device simili ad AlterEgo potrebbero consentire di comunicare senza che vi sia il bisogno di verbalizzare e pertanto, secondo gli sviluppatori, permetterebbero di trasmettere informazioni in situazioni e in ambienti con un massiccio inquinamento acustico come ad esempio una cabina di pilotaggio di una portaerei o in fabbriche in cui i lavoratori per protezione indossano già delle protezioni per le orecchie. Un altro loro uso potrebbe riguardare i pazienti che sono stati sottoposti a interventi chirurgici invasivi che hanno compromesso la loro capacità di vocalizzare o comunicare normalmente a causa ad esempio di tumori ossei alla mandibola.

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