Silvia Pomi, Giorgia Righi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena
Adozione: avere un figlio adottivo è aprire nella propria famiglia uno spazio non solo fisico, ma soprattutto mentale per l’accoglienza di un bambino, generato da altri, con una sua storia, e che ha bisogno di continuarla con dei nuovi genitori, con cui formerà una vera famiglia, come una sua seconda possibilità di vita.
Adozione e attaccamento
Bowlby (1989) nella teoria dell’attaccamento sottolinea l’importanza di garantire al bambino, nel corso della prima infanzia, la sensazione di sicurezza e fiducia nei confronti del genitore che rappresenterà una base sicura cui far riferimento per affrontare gli obiettivi di crescita. Ciò richiede al genitore caratteristiche di accessibilità, sensibilità e responsività. Un genitore accessibile fisicamente ed emotivamente, dovrà anche essere in grado di percepire e valutare i segnali di pericolo e di disagio, e di poter rispondere a tali bisogni in maniera amorevole, pronta, costante e adeguata. Ciò produrrà nel bambino un sentimento di sicurezza e un migliore adattamento al mondo sociale. Il soddisfacimento di questi bisogni fondamentali è centrale anche all’interno di un percorso di adozione con genitori non naturali.
Avere un figlio adottivo è aprire nella propria famiglia uno spazio non solo fisico, ma soprattutto mentale per l’accoglienza di un bambino o di una bambina, generato da altri, con una sua storia, e che ha bisogno di continuarla con dei nuovi genitori, con cui formerà una vera famiglia, come una sua seconda possibilità di vita.
Adozione e criteri di adottabilità
Secondo la legge 4 maggio 1983 n. 184, perché un minore venga dichiarato in stato di adottabilità deve trovarsi ‘in una situazione di abbandono perché privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio’ (art. 8).
Con la dichiarazione di adottabilità il bambino deve affrontare l’esperienza della separazione definitiva dalle figure genitoriali che non sono state in grado di tutelarlo a sufficienza. Il bambino risulta come sospeso tra il conflitto di voler tornare indietro da quella mamma o quel papà che se pur inadeguati, gli consentiva di appartenere a qualcuno e la paura di nuovi attaccamenti affettivi alternativi ai propri genitori naturali, con tutto il carico di conflittualità e ambivalenza ad essi collegato. (Monaco, Niro, 1999).
Il fallimento dell’adozione
Accanto ad adozioni che riescono ad affrontare le situazioni di crisi evolutive, trovando nuove soluzioni che permettono di conservare i legami affettivi instauratisi, ci sono altre esperienze nelle quali purtroppo prevalgono sofferenza e disagio, tanto nei genitori quanto nei figli, che si concludono con il fallimento e nei casi estremi, con la restituzione del bambino.
Riflettere sui meccanismi che possono concorrere al fallimento è un compito fondamentale per tutti gli operatori sociali e gli psicologi che si impegnano in questo lavoro, consapevoli che l’adozione è l’unica possibilità per un bambino abbandonato dai genitori biologici di poter crescere all’interno di una famiglia.
L’esperienza clinica ci segnala che i percorsi dell’adozione risultano essere complessi e il lavoro degli operatori e di tutti coloro che sono coinvolti, necessita di qualificazione, aggiornamento e responsabilità. A oggi il lavoro di prevenzione non sembra aver raggiunto l’efficacia sperata, considerata la percentuale di fallimenti adottivi.
Fallimento adottivo significa per una famiglia, non essere stata in grado di accogliere ed instaurare con un bambino una relazione significativa dal punto di vista affettivo, non attraversando con lui le fasi evolutive, fino al raggiungimento della sua autonomia nell’età adulta. (Galli, Viero, 2001).
Tra 2002 e 2013 sono stati 73 i casi di fallimento adottivo segnalati dai servizi in Emilia-Romagna. Fino al 2005 la definizione applicata era quella di gravi crisi verificatesi all’interno della famiglia adottiva, tali da comportare l’allontanamento del bambino-ragazzo entro il primo anno di inserimento in famiglia (o durante l’anno di affidamento pre-adottivo in caso di adozione nazionale), fenomeno noto in letteratura come restituzione. Tra 2006 e 2010 emerge una proporzione di 3 restituzioni entro il primo anno di adozione su 52 fallimenti adottivi più generalmente intesi, con una netta prevalenza (95% circa) di situazioni in cui i problemi adottivi si sono acutizzati (fino alla rottura o interruzione dei legami e al conseguente allontanamento), dopo il primo anno dall’inserimento del bambino in famiglia. Tra 2010 e 2013 emerge una proporzione di 2 restituzioni entro il primo anno di adozione su 38 fallimenti adottivi con la prevalenza degli allontanamenti avvenuti dopo il primo anno di adozione (95%). Nel 92% dei casi i fallimenti hanno riguardato le adozioni internazionali. Gli allontanamenti hanno avuto un andamento crescente ed hanno coinvolto bambini residenti in tutti le province. Il tasso medio di fallimenti adottivi registrati in Emilia-Romagna su tutto il periodo può essere stimato al 2,46%, con oscillazioni variabili di anno in anno. (portale ER /adozioni)
Il fallimento adottivo porta il bambino, già segnato dall’esperienza dell’abbandono, a subire un ulteriore abbandono, il cui effetto costituisce un trauma estremamente grave, che comporta conseguenze sul suo sviluppo psichico.
Il successo dell’esperienza adottiva può dipendere dalla presenza di fattori di rischio che, generalmente, per i genitori sono strettamente connessi alle motivazioni che li hanno spinti all’adozione. Tali elementi di rischio possono essere già presenti nella storia individuale dei protagonisti dell’adozione ma si manifestano palesemente nel momento in cui condizionano l’esito dell’adozione, conducendo al fallimento della relazione adottiva.
Adozione: gli indicatori di rischio
Galli (2001) ha analizzato e descritto alcuni indicatori di rischio che possono assumere un peso fondamentale nel definire l’esito dell’adozione; nell’individuare tali indicatori ha tenuto conto non solo delle caratteristiche delle coppie aspiranti all’adozione e dei bambini che vengono adottati, ma anche delle difficoltà e degli eventuali errori di valutazione dei professionisti che operano nel campo. Le peculiarità della coppia che di per sé non costituiscono fattori di rischio, possono invece rivelarsi determinanti di fronte a particolari caratteristiche del minore.
Gli indicatori individuati sono:
- L’infertilità, la sterilità, i trattamenti medici: necessario che la coppia abbia elaborato e superato il lutto derivante dalla sterilità/infertilità, e abbia avuto il tempo di creare quello spazio interno, psichico e mentale necessario per accogliere un figlio adottivo;
- I disturbi e funzionamento psicosomatico della coppia: è nota la frequenza con la quale alcune coppie che richiedono di adottare un bambino, dopo anni di ricerca e trattamento dell’infertilità, inizino una gravidanza subito dopo avere presentato la domanda di adozione, al principio o alla conclusione dello studio psicologico e sociale per l’ottenimento dell’idoneità, al momento dell’abbinamento o subito dopo l’arrivo del bambino; altrettanto frequente è il fatto che negli stessi momenti del percorso adottivo, altre coppie manifestino sintomi o malattie psicosomatiche (ad esempio ulcere gastrointestinali, asma bronchiale) più o meno gravi, che incidono sia durante il percorso che in seguito, sulle dinamiche relazionali con il bambino.
- Le malattie organiche e disabilità: le richieste da parte di coppie nelle quali uno dei partner è affetto da malattie croniche progressive vengono, in alcuni casi, definite adulto-centriche, ovvero domande in cui il bambino adottivo viene a svolgere un ruolo terapeutico nei confronti dell’adulto malato;
- L’adozione dopo la morte di un figlio: la richiesta di adozione fatta da queste coppie pone necessariamente di fronte al problema dell’elaborazione del lutto, nonché al rischio che il figlio adottivo si trovi a dover svolgere l’impossibile compito di sostituire il bambino deceduto;
- Il rifiuto di procreare e motivazioni filantropiche: se la richiesta di adozione viene fatta da coppie che, senza problemi di infertilità, sono spinte apparentemente solo da motivazioni filantropiche e ideologiche è possibile che dietro queste motivazioni si celino ansietà riguardanti la gravidanza e/o il parto, oppure timori di trasmettere malattie genetiche, o profonde problematiche riguardanti la sessualità di coppia.
Adozione e psicopatologia
Poche sono le ricerche sulla psicopatologia genitoriale nel tema dell’adozione, tante invece quelle sui disturbi del bambino adottivo, soprattutto legati al periodo adolescenziale. L’attaccamento ai genitori adottivi e ad altre figure familiari si può verificare a ogni età. Sicuramente il periodo adolescenziale, caratterizzato da profondi mutamenti biologici e psicologici e di ricerca della propria identità, presenta per il bambino adottato difficoltà peculiari, ma ciò è indipendente dall’età di inserimento all’interno del nucleo adottivo. Secondo Kestemberg (1962):
“Se è vero che tutto si prepara nell’infanzia tutto si gioca nell’adolescenza”.
Come emerge dalla letteratura scientifica sull’adozione, anche in Emilia-Romagna l’età pre-adolescenziale e adolescenziale si conferma essere una fase evolutiva sfidante per le relazioni familiari adottive.
Dalla ricerca di Miller et al. (2000) emergono risultati contrastanti sul fatto che i bambini adottati abbiano più problemi psicologici e comportamentali che i non adottati. Differenze medie standardizzate mostrano che gli adolescenti adottati sono più a rischio in tutti i settori presi in esame, tra cui riuscita scolastica e problemi a scuola, uso di sostanze, benessere psicologico, salute fisica, menzogne e litigi con i genitori. I risultati mostrano che le differenze tra gli adolescenti adottati e non adottati erano maggiori se si consideravano come variabili il sesso maschile, gli adolescenti più giovani o più anziani, ispanici o asiatici e gli adolescenti che vivono in case famiglia o con i genitori di basso livello di istruzione. In maggior misura quindi gli adolescenti adottati hanno più problemi di vario genere rispetto ai loro coetanei non adottati.
Nella ricerca di Cederblad et al. (1993) condotta in Svezia dove 152 famiglie con figli adottivi sono state invitate a prendere parte a uno studio del livello di salute mentale e dello sviluppo dell’identità dei figli adottivi; sia dalle interviste con i genitori che dagli strumenti di auto-valutazione somministrati ai giovani, è emerso che la loro salute mentale era buona e intatta.
Dallo studio effettuato in Spagna su adozioni internazionali da Barcons-Castel et al. (2011) indica che, anche se hanno uno sviluppo adeguato, i bambini adottati mostrano più problemi emotivi e comportamentali rispetto ai bambini non adottati. I risultati indicano differenze tra i bambini adottati e non, legati alla somatizzazione; i minori adottati sono quelli che ottengono i punteggi più bassi in generale e nello specifico nella scala che valuta la capacità di adattamento i minori non adottati ottengono punteggi più alti. Differenze significative sono state trovate nelle abilità adattive: i ragazzi non adottati mostrano abilità migliori di quelli adottati, differenze che non sono state riscontrate invece tra le ragazze.
In generale, i ragazzi presentano punteggi più alti in esternalizzazione della sintomatologia e depressione rispetto alle ragazze. Tra i bambini adottati, il tempo trascorso in un istituto è una variabile che ha un impatto negativo sull’insorgenza di esternalizzazione e internalizzazione dei problemi. I minori provenienti dall’Europa dell’Est mostrano maggiori problemi di attenzione, abilità adattive minori e le relazioni interpersonali più povere rispetto agli altri minori. Inoltre problemi di attenzione appaiano più frequentemente in minori adottati dopo l’età di 3 anni.
L’indicazione metodologica che possiamo trarre dalla lettura dei dati delle ricerche sopra riportate sui fallimenti adottivi e sul benessere psicologico dei bambini-adolescenti è la necessità di accompagnare da subito la creazione di legami familiari adottivi (affiliazione-genitorialità adottiva), promuovendo interventi di sostegno e aiuto precoci, in grado di leggere in tempo i segnali di disagio per poter intervenire con successo fin dal loro esordio.
Adozione e disturbi di personalità
Per quanto riguarda i disturbi di personalità o altre patologie più gravi, non vi sono in letteratura molti studi legati all’adozione; alcuni di questi mostrano una maggiore probabilità di sviluppare disturbi di personalità e comportamento a rischio in adulti adottati.
In uno studio Westermeyer et al. (2015) hanno indagato la storia di vita e la presenza di disturbi di personalità in adulti adottati e non adottati mediante l’impiego di un campione rappresentativo a livello nazionale. I dati sono stati confrontati in adulti adottati rispetto ad adulti non adottati, per stimare le probabilità della presenza di disturbi di personalità. I sette disturbi di personalità considerati erano istrionico, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, ossessivo-compulsivo e disturbo di personalità dipendente.
Per coloro che erano stati adottati è stato registrato un aumento nella probabilità di sviluppare qualsiasi disturbo di personalità rispetto ai non adottati; in particolare gli adulti adottati mostravano una probabilità maggiore di possedere un disturbo di personalità istrionica, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, e ossessivo-compulsivo rispetto ai non adottati. Questi risultati supportano i più alti tassi di disturbi di personalità tra gli adottati rispetto ai non adottati.
Adozione e incidenza di comportamenti suicidari
Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota dal 1998 al 2008, da Keyes et al., si è proposta di indagare se lo stato di adozione rappresentava un rischio di tentativo di suicidio per i figli adottati e non adottati che vivono negli Stati Uniti. Gli autori hanno poi esaminato i report dei genitori e i fattori noti per essere associati a comportamenti suicidari tra cui sintomi di disordine psichiatrico, tratti di personalità, ambiente familiare e disimpegno accademico. Dallo studio è emerso che la probabilità di tentativo di suicidio erano quasi 4 volte superiore in adulti adottati rispetto a non adottati. La relazione tra stato di adozione e tentativo di suicidio è parzialmente mediata da fattori noti per essere associati a comportamento suicidario.
Conclusioni: auspicabilità della prevenzione del disagio psicologico nell’adozione
Come suggeriscono gli studi sarebbe interessante ampliare la ricerca sull’argomento, soprattutto in una fase preliminare nel percorso adottivo, sia dal punto di vista genitoriale che del bambino adottato, per poter prevenire il disagio psicologico e ridurre la probabilità di fallimento adottivo.
Anche il viaggio più lungo comincia con un solo passo.
(Laozi)