expand_lessAPRI WIDGET

Perchè abbiamo paura dei robot? L’antropomorfismo e la teoria dell’uncanney valley. L’Interazione Uomo-Robot (HRI) secondo un’indagine freudiana.

Lo studio del comportamento animale può fornire modelli che un ricercatore può rendere operativi su un sistema robotico, partendo dalla capacità più semplice di un organismo vivente: percepire e agire nell’ambiente in maniera significativa e intenzionale (Coraggio, 2007). La semplicità/complessità del design del robot, la semplicità/complessità del comportamento espressivo del robot è legata alla proprietà antropomorfa biomimetica (Koh, 2009), ovvero molti dei robot attualmente costruiti sono bio-ispirati, sono esempi naturali, per tale motivo tendiamo a percepirli come umani.

 

[blockquote style=”1″]…la nostra immaginazione non può che antromorfizzare…[/blockquote]

Italo Calvino (Lezioni americane, 1988)

 

L’antropomorfizzazione

Alcune ricerche sulla comunicazione dimostrano che le persone antropomorfizzano computer e altri oggetti, e che tale antropomorfismo interagisce con la natura del comportamento dei partecipanti durante gli esperimenti (Reeves, Nass, 1996).

Una teoria di Gray (2012), ha recentemente ipotizzato perché i robot umanoidi possono apparire strani e sostiene che le caratteristiche umanoidi richiederebbero agli utenti di percepire che il robot abbia una mente.

L’antropomorfismo si riferisce all’attribuzione di una forma umana o di caratteristiche umane o di un comportamento umano attribuito a cose non umane, quali robot, computer e animali (Bartneck et al., 2009).

Nella mia tesi analizzo questo punto cruciale dell’interazione uomo-robot (HRI):

«Le ricerche suggeriscono che l’interazione con un’entità artificiale è simile all’interazione con gli altri umani anche se l’intera ricerca che gravita attorno l’HRI mira a superare l’ipotesi dell’uncanney valley, ovvero quel senso di spiacevolezza e inquietudine nel momento in cui il robot raggiunge un livello di somiglianza paritetica all’uomo.

Nelle attuali ricerche, la radice di tale ipotesi non è stata indagata; l’uncanney valley sarebbe riconducibile ad aspetti prettamente evoluzionistici e letture freudiane.

Il richiamo alla componente evoluzionistica si riferisce ad un automatismo primordiale al quale l’uomo si attiene durante l’interazione con un umanoide artificiale; è come se ci fosse una lettura coerente tra l’aspetto umanoide e le sue abilità interne e come se, violata tale coerenza, si cadesse nell’ipotesi dell’uncanney valley. (Fonte: La teoria della mente nell’interazione uomo-robot in una prospettiva evoluzionistica e in relazione alla teoria della complessità).

L’ipotesi dell’uncanney valley

La “teoria valle perturbante” (uncanney valley) proposta da Mori (1970) suggerisce una relazione non lineare tra l’antropomorfismo robotico e le affinità umane.

Ishiguro (2005) sviluppa androidi che per un breve periodo sono indistinguibili dagli esseri umani. I suoi androidi antropomorfi che lottano persistentemente con la cosiddetta uncanny valley generano risposte emotive sempre più positive ed empatiche, fino a raggiungere un punto oltre il quale la risposta diventa rapidamente di intensa repulsione (Burghart et al., 2008).

In linea con questo, i robot che hanno un aspetto chiaramente non umano, sembrano essere apprezzati di più  rispetto a quelli che cercano di apparire simili alla figura umana (Bartneck, 2007). Per tale motivo molti robot costruiti odiernamente non hanno un aspetto speculare alle caratteristiche umane.

Quando un robot sembra umano, ma non si comporta in modo simile all’uomo, questo vìola le aspettative e può portare a sorpresa o paura (Mitchell, et al., 2011; MacDorman, 2006).

L’HRI sotto la lente psicoanalitica

[blockquote style=”1″]Non c’è un vedere che non sia anche un guardare, né un sentire che non sia anche un ascoltare; e il modo in cui guardiamo e ascoltiamo è plasmato dalle nostre attese, dalla nostra posizione e dalle nostre intenzioni[/blockquote] Woodworth (1947).

Secondo un’indagine freudiana (Freud, 1919) questo mistero dell’interazione tra uomo e robot proviene da uno stato di categorizzazione percettiva di incertezza in connessione con “umano o non umano”, “animato o inanimato”, “vivo o morto” dove ne scaturiscono giudizi percettivi necessari a produrre reazioni perturbanti come nel caso di statue, bambole e automi simili a umani.

In questa connessione può verificarsi un effetto inquietante anche se l’oggetto percepito è definitivamente verificato essere una statua di cera inanimata, come nel caso dei bambini che sperimentano incertezze sul fatto che la bambola con cui stanno giocando possa animare ipso facto lo sviluppo di sentimenti inquietanti.

Questo è legato a credenze primitive che sono concezioni animistiche che caratterizzano il mondo approvato dai bambini in una fase normale del loro sviluppo e che persistono inconsciamente nella vita adulta come contenuti mentali repressi.

Le credenze animistiche riguardano in particolare la magia, il desiderio di adempiere, l’onnipotenza dei pensieri e la distribuzione di poteri magici su vari personaggi, su entità animate e non inanimate. Così, la vista di statue di cera o in movimento o automi simili a zombi o cadaveri sembrano corroborare la convinzione inconscia che queste entità siano dotate di poteri magici. Inoltre, l’ambivalenza emotiva verso questi artefatti, risuona con credenze animistiche che possono evocare internamente l’idea che i morti non saranno inevitabilmente benevoli nell’uso dei loro poteri magici (Scalzone, 2013).

Altresì queste attribuzioni eccessivamente umane mettono in moto le proprie attività immaginative nei confronti del robot in una varietà di direzioni diverse. Di conseguenza, conflitti tra esseri umani e macchine intelligenti sono prima di tutto i conflitti tra esseri umani e il loro mondo interiore (ibidem).

Inquinamento atmosferico e l’effetto sulla morfologia cerebrale dei bambini in età scolare

Un nuovo studio condotto nei Paesi Bassi ha collegato l’esposizione all’inquinamento atmosferico residenziale durante la vita fetale con le differenze strutturali-morfologiche cerebrali dei bambini in età scolare; tali conformazioni morfologiche possono contribuire a compromettere le funzioni cognitive.

Lucia Marangia

 

Gli effetti dell’inquinamento atmosferico sullo sviluppo del cervello nei bambini

Lo studio, pubblicato su Biological Psychiatry, riporta che i livelli di inquinamento atmosferico, correlati alle alterazioni del cervello, sono inferiori a quelli considerati sicuri.

I ricercatori hanno osservato gli effetti sullo sviluppo del cervello in relazione a livelli di particelle fini al di sotto dell’attuale limite UE. Questa scoperta si aggiunge agli studi precedenti che hanno collegato livelli comunque accettabili di inquinamento atmosferico con altre complicazioni, tra cui difficoltà nello sviluppo e nella crescita fetale.

L’esposizione a particelle fini durante la vita fetale era associata a un maggiore assottigliamento della corteccia cerebrale in diverse regioni. Per questo studio sono state arruolate donne incinte e dopo sono stati seguiti i bambini dalla vita fetale in poi. Il dottor Guxens e colleghi hanno valutato i livelli di inquinamento atmosferico a casa durante la vita fetale di 783 bambini. I dati sono stati raccolti da campagne di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico e includevano livelli di biossido di azoto (un importante inquinante atmosferico causato dal traffico e dal fumo di sigaretta), particelle grossolane e particelle fini.

L’imaging cerebrale eseguito quando i bambini avevano tra 6 e 10 anni ha rivelato anomalie nello spessore della corteccia cerebrale del precuneo e della regione frontale media rostrale. Nonostante la relazione tra queste alterazioni della struttura cerebrale e l’esposizione a particelle fini, i livelli medi residenziali di particelle fini nello studio erano ben al di sotto dell’attuale limite accettabile fissato dall’UE . Solo lo 0,5% delle donne in gravidanza nello studio erano esposte a livelli considerati pericolosi. I livelli medi residenziali di biossido di azoto erano giusti al limite di sicurezza.

John Krystal, direttore di Biological Psychiatry, ha dichiarato che: “L’inquinamento atmosferico è così evidentemente negativo per i polmoni, il cuore e altri organi che molti di noi non hanno mai considerato i suoi effetti sul cervello in via di sviluppo, ma forse dovremmo aver imparato dagli studi sul fumo materno, che inalare le tossine può avere effetti duraturi sullo sviluppo cognitivo.”

Il cervello fetale è particolarmente vulnerabile durante la gravidanza, non ha ancora sviluppato i meccanismi per proteggere o rimuovere le tossine ambientali. I risultati dello studio suggeriscono che l’esposizione a livelli anche inferiori a quelli considerati sicuri potrebbe causare deficit e danni nella funzionalità cerebrale.

Jon Kabat-Zinn, scopriamo la Mindfulness – Introduzione alla Psicologia

Il programma MBSR creato e messo a punto da Jon Kabat-Zinn ha lo scopo di aiutare le persone a ridurre il dolore e lo stress attraverso un percorso strutturato, in cui si uniscono la tecnica Mindfulness ad aspetti scientifici e psicoeducativi. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Chi è Jon Kabat-Zinn

Jon Kabat-Zinn è nato a New York nel 1944. Suo padre immunologo e sua madre pittrice gli hanno garantito di crescere in un ambiente scientificamente stimolante. Jon Kabat-Zinn si è laureato all’Haverford College e ha conseguito il Ph.D. in biologia molecolare nel 1971.
 Durante i suoi studi in biologia molecolare frequentò il corso di meditazione  di Philip Kapleau, missionario Zen, che lo appassionò al punto da continuare a coltivare il suo interesse per queste tematiche seguendo lezioni e studiando all’Insight Meditation Society, dove conseguì il ruolo di insegnante. 
Contemporaneamente, Jon Kabat-Zinn iniziò la pratica yoga, e seguiva insegnamenti buddisti. Tutto questo lo portò a elaborare una teoria in cui integrava i principi del buddismo Zen alle evidenze scientifiche.
Nel 1979 inventò la Stress Reduction Clinic all’Università della Massachusetts Medical School, e sviluppò il programma chiamato Stress Reduction and Relaxation Program, che successivamente divenne un percorso della durata di otto settimane chiamato Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR).

Jon Kabat-Zinn è socio fondatore del Cambridge Zen Center e del Fetzer Institute, ente non-profit che promuove valori di solidarietà e cooperazione sociale, è membro di diverse organizzazioni in ambito scientifico e fa parte del Consiglio Direttivo del Mind and Life Institute, gruppo di studio che organizza dialoghi tra il Dalai Lama e gli scienziati occidentali. Per la sua attività professionale ha ottenuto numerosi ed importanti riconoscimenti.
Jon Kabat-Zinn è sposato con Myla Zinn, figlia di Roslyn e Howard Zinn, e ha tre figli: Will, Naushon e Serena.

La mindfulness

Jon Kabat-Zinn, sostenne che meditare possa trasformare in modo duraturo la sofferenza e lo stress. Da qui il concetto di Mindfulness, ovvero portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante. Si tratta di un processo in cui si porta l’attenzione al momento presente, in termini di consapevolezza e accettazione del momento attuale.
L’obiettivo della Mindfulness è di eliminare la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Quindi, la pratica della Mindfulness consente di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Kabat-Zinn, dunque, affermava che la Mindfulness dovesse essere accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti, e facilmente adattabile a condizioni mediche particolari. Per questo, doveva avere tempi limitati, limiti di movimenti e spazi, il tutto adattato a una realtà ospedaliera.
Sulla base di queste esigenze, la Mindfulness si spogliava delle sue connotazioni spirituali e morali, rinunciando ad essere parte di un cammino per l’illuminazione per aprirsi alla possibilità di lavorare con i pazienti difficili attraverso pratiche di consapevolezza.

Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR)

Durante un ritiro di meditazione, a Kabat-Zinn pensò di poter aiutare le persone a ridurre il dolore e lo stress creando un percorso strutturato, in cui si univa la tecnica Mindfulness agli aspetti scientifici e psicoeducativi.
 Nel 1979, con il sostegno del primario di Medicina Interna del Medical Center dell’Università di Worcester, Boston – Massachusetts, fonda la prima Clinica per la riduzione dello stress basata sulla coltivazione della consapevolezza.
Il programma MBSR creato e messo a punto da Kabat-Zinn, comprende:

  1. pratiche di consapevolezza nel mangiare
  2. pratiche di consapevolezza in movimento
  3. pratiche di consapevolezza sul respiro, sensazioni, emozioni, pensieri
  4. pratiche di consapevolezza nel camminare

Inoltre, si aggiungono momenti di condivisione di gruppo sul vissuto dei partecipanti riguardo agli esercizi proposti; con riflessioni su alcuni temi quali l’attenzione non giudicante, la mente del principiante, il lasciar andare e il lasciar essere, la fiducia in sé; con dispense ed approfondimenti su argomenti più scientifici quali ad esempio lo stress e l’attenzione.

Dai primi anni ’80, l’equipe di Kabat-Zinn, inizia a sviluppare i primi lavori di ricerca, inizialmente sulle applicazioni del protocollo a pazienti affetti da dolore cronico, ampliando poi l’indagine ad altre categorie: psicosomatica e psicologia.
Nel 1990 Kabat-Zinn pubblica il suo primo libro: “Vivere momento per momento” sul protocollo MBSR. Pochi anni dopo, il giornalista Bill Moyers parla dell’MBSR nella sua serie televisiva “Healing and the Mind” e contribuisce a dare visibilità al protocollo che nel frattempo, grazie a studi e ricerche pubblicati con rigore scientifico ma soprattutto grazie alle testimonianze, allarga a macchia d’olio la sua diffusione.

Negli anni 90 sono più di 400 i centri ospedalieri che offrono l’MBSR tanto che il mondo scientifico, e psicoterapeutico inizia a interessarsi sempre più al programma, pensando di applicarlo a diverse problematiche.
 Questa sarà poi la base di molte collaborazioni e scambi col Centro dell’Università di Boston, che darà poi vita, in seguito, al protocollo MBCT, di matrice più psicologica.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Quando lo stalking viene perpetrato da una donna

Quando si parla di stalking lo stereotipo prevalente suggerisce che la violenza sia stata perpetrata da un uomo. Circa l’80% dei casi conosciuti riportano un soggetto maschile come carnefice, ma dalle ricerche emerge che anche le donne possono mettere in atto una campagna di stalking verso una persona dello stesso sesso o del sesso opposto.

 

Il fenomeno dello stalking è ormai noto alla maggior parte della popolazione; a seguito della definizione nel codice penale (23 aprile 2009, legge n° 38, prevedendo l’art. 612-bis del codice penale) e della certezza della pena, spesso i mass media ne raccontano episodi, alcuni dei quali sfuggono al controllo del perpetratore e terminano con aggressioni od omicidi.

Quando si parla di stalking lo stereotipo prevalente suggerisce che la violenza sia stata perpetrata da un uomo. Nonostante il fenomeno abbia valenza neutra, come sostengono Pomilla, D’Argenio e Mastronardi, (2012), circa l’80% dei casi conosciuti riportano un soggetto maschile come carnefice; dalle ricerche sappiamo che anche le donne possono mettere in atto una campagna di stalking verso una persona dello stesso sesso o del sesso opposto.

Dalla ricerca di Purcell et al. del 2001 (Acquadro Maran, 2012) su 190 stalker (40 donne e 150 uomini) emerge come elemento interessante la percentuale di vittime dello stesso genere, la quale risulta del 47,5% tra donne (n = 19), percentuale che scende al 8.7% tra gli uomini (n = 13 circa). Il numero degli uomini vittime di donne stalker (n = 21) e uomini stalker (n = 13 circa) è sottostimato a causa della scarsa propensione alla denuncia da parte degli stessi.

Purtroppo gli uomini tendono a non denunciare o parlare dell’essere vittima di una stalker, cosa che impedisce di avere una percentuale reale del fenomeno al femminile. La ragione della mancata dichiarazione si potrebbe rintracciare soprattutto nella cultura “machocentrica” contemporanea, che renderebbe oggetto di scherno un uomo vittimizzato per stalking da una donna; spesso, nei casi meno gravi, potrebbe accadere che per un uomo sia motivo di vanto essere corteggiato ossessivamente da una donna.

Il pericolo però potrebbe essere dietro l’angolo e trasformare un corteggiamento ossessivo in un incubo emotivo con conseguenze anche sul piano personale e professionale; gli uomini sperimentano gli stessi sentimenti di paura e preoccupazione a cui sono soggette tutte le vittime di stalking. Nonostante ciò, le ricerche in letteratura sono ancora poche (Wigman, 2009).

A sostegno del mancato riconoscimento degli uomini in qualità di vittime, Langhinrichsen-Rohling (2012) sostiene che la violenza femminile è più accettabile di quella maschile in quanto il genere femminile viene etichettato come sesso più debole, quindi meno pericoloso. Ad esempio comportamenti minacciosi fisici quali mostrare il pugno o un oggetto contundente (coltello), se messi in atto da una donna verso un uomo potrebbero essere descritti con toni che tendono al ridicolo, minimizzando il reale pericolo. Conseguentemente, gli uomini tendono a esperire minor paura quando sono minacciati da una donna: tale ridotta attenzione al potenziale pericolo può essere una spiegazione al minor numero di querele e di denunce effettuate.

Donne stalker: emozioni, psicopatologia e differenze rispetto agli uomini

L’angoscia e le conseguenze sulla sfera professionale e privata della vittima di una stalker vengono descritte in un caso di stalking in cui un uomo è vittima di uno stalker di cui non conosce l’identità. Grazie all’intervento delle forze dell’ordine, si scoprirà che il perpetratore della campagna di stalking è una donna con cui ha intrattenuto una breve e fugace relazione:

[blockquote style=”1″]..ha un crollo psicologico: diventa estremamente ansioso, non dorme, dimagrisce di alcuni chili in poco tempo: sul lavoro alcune imprecisioni in sala operatoria, dove lavora come ferrista, gli costano l’allontanamento temporaneo e la ricollocazione in reparto.. Non esce più di casa se non per andare al lavoro o per accompagnare la figlia a scuola.[/blockquote] (Acquadro Maran, 2012).

 

Le valutazioni psichiatriche effettuate sui campioni di stalker di genere femminile indicano che le patologie mentali con maggior incidenza sono il disturbo depressivo maggiore, il disturbo delirante e la schizofrenia, mentre tra i disturbi di personalità spiccano il disturbo borderline, narcisistico e dipendente. Si evince una minore incidenza rispetto ai maschi per quanto riguarda l’abuso di sostanze ed il disturbo bipolare. Scarduzio (2016) e colleghi sostengono che le donne che perpetrano violenza nei confronti del partner, ma non ne sono vittime, presentano livelli alti del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), disturbo d’ansia e disturbo depressivo. In genere le donne utilizzano un approccio violento per esprimere emozioni negative, per ottenere il controllo all’interno della relazione, allo scopo di rispondere ai propri sentimenti di gelosia e per difesa personale.

La ricerca di Purcell et al. (Acquadro Maran, 2012) su 190 stalker (40 donne e 150 uomini) mette in evidenza come sul piano della tipologia di comportamenti messi in atto, prevalga la propensione al contatto con la vittima (telefonate, lettere, approcci) mentre i comportamenti violenti, sia psichici sia fisici, tendano ad essere inferiori rispetto agli uomini. Questo dato conferma che la violenza femminile è più tesa alla comunicazione ed al contatto con la vittima.

I dati relativi alla relazione con la vittima indicano che la maggior parte dei casi di stalking si verifica all’interno del quadro professionale, come per esempio il medico, l’insegnante, lo psicologo. Rispetto alle donne, gli uomini stalker hanno una minor incidenza con vittime appartenenti alla relazione professionale, ma manifestano invece percentuali maggiori rispetto le donne per gli ex-partner e gli sconosciuti.

La durata dello stalking al femminile presenta maggiori casi all’interno del range 2 mesi – 20 anni, durata maggiore rispetto quella degli uomini perpetratori; l’effetto rilevato potrebbe essere il riflesso di una maggior tenacia da parte delle donna rispetto il genere opposto.

Alcune ricerche internazionali sullo stalking al femminile

Le ricerche internazionali effettuate dai maggiori studiosi del fenomeno (da “Il fenomeno stalking”, 2012) disegnano un quadro esaustivo delle dinamiche e delle modalità con cui i soggetti femminili conducono la campagna stalkizzante. Un limite trasversale è dato dal numero non elevato di casi, raccolti per lo più in strutture di cura o di reclusione.

Sheridan, Gillett, Davies, Blaauw, e Patel (2003) hanno effettuato uno studio su 168 studenti universitari, 120 donne e 48 uomini. Tra gli aspetti interessanti della ricerca rispetto il genere emerge che la probabilità di atti lesivi agiti è maggiore se lo stalker è di genere maschile e la vittima di genere femminile, che agli uomini vittime viene attribuita maggior responsabilità della campagna persecutoria e che le vittime di genere maschile posseggono maggiori capacità di fronteggiamento dello stress.

Dai risultati della ricerca di Walby e Allen (2004), i quali hanno indagato l’incidenza e la natura della violenza interpersonale in Scozia e in Inghilterra su un campione di 22.463 individui, si evince che l’8% delle donne e il 6% degli uomini avevano subito forme di stalking nei dodici mesi precedenti, percentuale che sale al 19% nelle donne e 12% negli uomini quando il periodo considerato ricopre l’intero arco di vita. Il perpetratore per gli uomini era nella maggior parte dei casi (70%) un conoscente, mentre solo nell’8% era una persona intima (partner, ex-partner).

La ricerca di Tjaden e Thoennes (2000) su 8000 uomini e 8000 donne, che aveva come obiettivo l’indagine dei diversi tipi di violenza interpersonale, mostra come gli uomini siano meno attivi nel denunciare la violenza subita, il 13,4% rispetto al 27,8% delle donne. Il dato interessante è che questi ultimi ottengono meno protezione dagli strumenti legali: solo 3,6% degli uomini ha ottenuto un ordine restrittivo contro il persecutore e solo nel 1,4% dei casi è stato portato a termine.

La ricerca di Brewster (Acquadro Maran, 2012) su 187 donne autodichiaratesi vittime di stalking illustra cosa succede loro quando si rivolgono alle forze dell’ordine: 150 vittime (80.2%) hanno denunciato la campagna persecutoria, intraprendendo 280 azioni legali; il 50.7% non ha avuto effetti sullo stalker, mentre il 16.8% dei casi ha mostrato esiti peggiorativi.

La ricerca in Italia: alcuni dati recenti

Il gruppo di ricerca guidato dalla Dott.ssa Daniela Acquadro Maran (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino) e composto dal Dott. Massimo Zedda (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino), dalla Dott.ssa Valentina Pristerà e dalla dott.ssa Antonella Varetto (Città della Salute e della Scienza di Torino), ha avviato nel 2009 un progetto di ricerca per valutare l’impatto del fenomeno dello stalking su un campione composto da 1072 professionisti della cura, di cui il 73.04% di genere femminile.

Le vittime di stalking sono 160, il 14.9% del campione studiato; l’85% delle vittime è di genere femminile mentre il 15% sono vittime maschili. I perpetratori sono nel 70.6% uomini, mentre per le donne stalker la percentuale scende al 18.1%. La maggior parte delle vittime di genere femminile (31.3%) ha subito stalking da un conoscente di genere maschile (27.5%), mentre nel 7.5% dei casi il conoscente era di genere femminile.

La maggior parte degli uomini vittime (6.3%) ha subito stalking all’interno di una relazione ex-intima (6.3%). Rispetto la motivazione della campagna, il 6.3% degli uomini vittime è stato stalkizzato da una donna (5.0%) a causa del rifiuto della relazione precedente.

Meglio prevenire

La prevenzione è uno strumento efficace per arginare il fenomeno e le sue conseguenze, può contribuire ad attivare le risorse individuali e la rete sociale che insieme possono fermare il fenomeno: l’aiuto degli altri (amici, famigliari, colleghi, ecc.) spesso risulta essere un valido deterrente alla campagna messa in atto dallo/dalla stalker. L’isolamento sociale è infatti una delle prime conseguenze della vittimizzazione, rompere il silenzio significa essere consapevoli dei danni che la campagna di stalking arreca alla salute propria e a quella degli affetti più cari.

In particolare per gli uomini vittime di questo fenomeno, sapere che si è compresi, non giudicati ma invece supportati e accolti, può determinare una interruzione del malessere e del disagio che rischia di minare l’integrità fisica, emotiva e psicologica.

L’invito per tutte le vittime è quello quindi di parlarne con persone di cui si fidano, amici, conoscenti e famigliari, senza escludere i professionisti quali psicologi, avvocati e centri d’ascolto.

Non ultime per importanza sono le forze dell’ordine, disponibili e preparate ad accogliere le richieste di aiuto.

Cosa succede nel cervello durante lo stato d’incoscienza?

Quando i pazienti si sottopongono a un intervento chirurgico complesso, vengono spesso sottoposti ad anestesia per consentire al cervello di trovarsi in uno stato di “incoscienza”. Ma cosa avviene nel cervello in quel momento? Tre ricercatori della Facoltà di Medicina del Michigan sono autori di tre nuovi articoli che esplorano questa domanda – specificamente come vengono sospese le trasmissioni a livello della rete cerebrale in associazione con una varietà di stati di incoscienza.

 

“Questi studi derivano da un’ipotesi di lunga data che i miei colleghi e io abbiamo avuto riguardo alla caratteristica essenziale del perché siamo consapevoli e di come diventiamo inconsci, sulla base di modelli di trasferimento di informazioni nel cervello”, afferma George A. Mashour, MD, Ph.D., professore di anestesiologia, direttore del Center for Consciousness Science e direttore associato per la ricerca clinica presso la University of Michigan Medical School.
Negli studi, il team non esplora solo il modo in cui le reti cerebrali si frammentano, ma anche il modo migliore per misurare ciò che sta accadendo: [blockquote style=”1″]Lavoriamo da un decennio per capire in modo più raffinato come gli aspetti spaziali e temporali della funzione cerebrale si interrompono durante l’ incoscienza, come possiamo misurare quella sospensione e le implicazioni per l’elaborazione delle informazioni[/blockquote]

afferma Uncheol Lee, Ph. D., fisico, assistente professore di anestesiologia e direttore associato del Center for Consciousness Science.

Cosa accade durante l’incoscienza? La risposta attraverso tre studi

Questi tre studi, così come altri lavori del Center for Consciousness Science, trovano fondamento in una teoria prodotta da Mashour. “Ho pubblicato un articolo teorico quando collaboravo in anestesiologia suggerendo che l’anestesia non funziona spegnendo il cervello di per sé, ma piuttosto isolando i processi in certe aree del cervello”, dice Mashour. “Invece di vedere una rete cerebrale altamente connessa, l’anestesia si traduce in una serie di isole con cognizioni ed elaborazioni isolate: abbiamo preso questo pensiero, così come il lavoro degli altri, e ci siamo basati su questa ricerca”.

Nello studio del Journal of Neuroscience, il team ha analizzato diverse aree del cervello durante la sedazione, l’anestesia chirurgica e uno stato vegetativo. “Spesso viene suggerito che diverse aree del cervello che tipicamente parlano tra loro sfuggono alla sincronizzazione durante l’ incoscienza dice Anthony Hudetz, Ph.D., professore di anestesiologia, direttore scientifico del Center for Consciousness Science e autore senior dello studio. [blockquote style=”1″]Abbiamo notato che nelle prime fasi della sedazione, la sequenza temporale dell’elaborazione delle informazioni si allunga e le aree locali del cervello si connettono più strettamente all’interno di se stesse. Questo processo potrebbe portare all’incapacità di connettersi con aree distanti.[/blockquote]

Nello studio Frontiers in Human Neuroscience, il team ha approfondito il modo in cui il cervello integra le informazioni e come ciò possa essere misurato nel mondo reale: “Abbiamo intrapreso un compito computazionale molto complesso di misurazione dell’integrazione delle informazioni nel cervello e l’abbiamo trasformato in un compito più gestibile”, afferma Lee, autore senior dello studio.“Abbiamo dimostrato che quando il cervello diventa più modulare e ha più conversazioni locali, la misura dell’integrazione delle informazioni inizia a diminuire. Essenzialmente, abbiamo esaminato come si stava verificando la frammentazione della rete cerebrale”.

Infine, l’ultimo articolo, in Trends in Neurosciences, aveva lo scopo di portare gli studi precedenti del gruppo e altri lavori sul tema dell’ incoscienza e mettere insieme un quadro più completo. Mashour, autore principale dello studio, afferma che [blockquote style=”1″]Esaminando l’ incoscienza attraverso tre diverse condizioni, fisiologica, farmacologica e patologica, abbiamo scoperto che, durante l’ incoscienza, la connettività interrotta nel cervello e una maggiore modularità creano un ambiente inospitale per il trasferimento efficiente di informazioni richieste per lo stato di coscienza.[/blockquote]

I membri del team del Center for Consciousness Science evidenziano che tutto questo lavoro può aiutare i pazienti in futuro: “Stiamo cercando un modo migliore per quantificare la profondità dell’anestesia in sala operatoria e valutare la coscienza in qualcuno che ha avuto un ictus o un danno cerebrale”, dice Hudetz. “Ad esempio, possiamo presumere che un paziente sia completamente inconscio in base al comportamento, ma in alcuni casi la coscienza può persistere nonostante l’insensibilità”.

Il team spera che questa e la ricerca futura possano portare a strategie terapeutiche per i pazienti. [blockquote style=”1″]Vogliamo comprendere la rottura della comunicazione che si verifica nel cervello durante l’ incoscienza, in modo che possiamo mirare o monitorare precisamente questi circuiti per ottenere un’anestesia più sicura e ripristinare al meglio questi circuiti.[/blockquote]

Rock and Resilienza sulla poltrona del terapeuta: tecniche di relazione in TMI per transitare attraverso la musica dal dolere alla narrazione del Sè

Proprio quando esseri umani compiono cammini simili e decidono di raccontare il proprio viaggio, finisce che alcuni percorsi si incrociano con altri dando vita a forme di conoscenza interessante, dove l’arricchimento di esperienza umana è inevitabile.
Questo mi è accaduto il giorno dopo aver conosciuto Paola Maugeri, alla presentazione del suo libro “ Rock and Resilienza ” all’Hard Rock Cafè di Roma.

Che cos’è la resilienza?

La resilienza è un termine che nasce dalla metallurgia per descrivere le caratteristiche di alcuni metalli in grado, dopo stress e sollecitazioni, di mantenere la propria struttura o di riprendere la forma originaria. Questo termine è stato preso in prestito dalla psicologia per descrivere l’attitudine delle persone a far fronte alle situazioni difficili a cui la vita li sottopone. Tutto nella stanza della terapia è un percorso alla scoperta della resilienza. Quando mi viene domandato “che cosa si fa in terapia?” una delle risposte che amo dare quando sono in vena di sintesi è “in terapia ci si impara a conoscere e si scopre la resilienza”.

Come ci si arriva alla resilienza? Questa è un’altra storia. Una capacità simile è frutto di un cammino, non breve, non impossibile, ma fondamentale. Come ogni cammino è personale, ogni persona che si è seduta sulla poltrona davanti a me l’ha scoperto attraverso un viaggio profondo in contatto con se stesso. Percorsi in cui ognuno ha imparato a conoscersi, partendo dalla sua storia personale e dalla proprie debolezze e fragilità. Ognuno guidato sempre dallo stesso desiderio: avere accesso a stati desiderabili di benessere. Quali? Questo dipende dal percorso.

Rock and resilienza: un libro di Paola Maugeri

Paola Maugeri racconta il suo in Rock and Resilienza.
Proprio quando esseri umani compiono cammini simili e decidono di raccontare il proprio viaggio, finisce che alcuni percorsi si incrociano con altri dando vita a forme di conoscenza interessante, dove l’arricchimento di esperienza umana è inevitabile.
Questo mi è accaduto il giorno dopo aver conosciuto Paola Maugeri, alla presentazione del suo libro “ Rock and Resilienza ” all’Hard Rock Cafè di Roma. A questo incontro lei arrivava con un bellissimo scritto, sentito e dato alla vita dopo aver attraversato le sonorità e le note della musica, io attraverso le parole dei pazienti dalla mia poltrona di terapeuta, ognuno con il proprio mezzo utilizzato per viaggiare attraverso le tracce che lasciano tante vite vissute: le storie.

E da qui il pensiero e la dedica di offrirne una io prendendo in prestito il mezzo che Paola Maugeri ha voluto condividere con il mondo alla ricerca della resilienza, quella resilienza che ci rende forti, resistenti, pensati, presenti, desideranti e sopratutto liberi.

Il caso clinico di Lisa

Aprendo la porta appare subito evidente che sarà una seduta impegnativa. Lisa ha lo sguardo spento, malinconico, un’ombra di tristezza si trascina pesante accanto a lei mentre passa dall’uscio.
Racconta subito di sentirsi giù di umore e che aveva pensato anche di non venire. Il fatto che sia sul divano davanti a me però mi da motivo di credere che c’è una parte di lei desiderosa di stare meglio che l’ha trascinata fino allo studio. Lo chiamiamo desiderio dello stato mentale positivo, quella parte che a volte si nasconde nella mente e sente che, da queste condizioni di sofferenza, è in qualche modo possibile venirne fuori, una parte presente anche in Lisa, altrimenti non sarebbe qui. Le rimando questo pensiero e lei annuisce senza cambiare espressione.

Cappello di lana, septum e gli abiti scuri e larghi oggi non sono sufficienti a coprire il suo basso umore e smarrimento, ma Lisa è li, presente con le sue emozioni e qualcosa insieme possiamo provare a fare. Nel nostro contratto terapeutico abbiamo condiviso il bisogno di prendere maggior contatto con i propri desideri, evitare quegli schemi relazionali dove Lisa abbandona i propri bisogni per evitare di creare sofferenza altrui. Abbiamo un’idea delle relazioni in cui possa essere stato appreso questo schema interpersonale, ma è la prima volta che ci troviamo in presenza del risultato che spesso ne deriva, il bloccarsi, arrestarsi, fino a sentirsi tristi ed immobili.

Si lavora con ciò che porta il paziente e così proviamo ad esplorare la tristezza di questo momento. Lo scopo è capire come attivare la resilienza, la capacità di reagire a questo momento in cui l’agency sembra bloccata. La modalità è quella di affrontare e cercare di modulare lo stato mentale negativo. Entrarci in contatto e condividerlo sono sempre una buona mossa in questi casi. Inizialmente il percorso è confuso, manca un contatto profondo con questa emozione che non riusciamo a collegare a nulla, nessun episodio preciso, nessuna immagine o pensiero definito. Accade, è cosi che ci si protegge, spaventati da ciò che si prova, ma questa volta Lisa non è sola in questa esplorazione. Da questa tristezza apparentemente opaca riusciamo infine a delineare il quadro di una situazione definito da oscillazioni di umore che, da tempo remoto, appartengono alla vita della giovane paziente. Momenti in cui tutto è possibile, il mondo ha dei colori più vivi e si sente capace di tutto e momenti in cui l’energia manca, si sente spenta e resterebbe tutto il giorno in casa aspettando che cessi una pioggia che invece è solo dentro di lei.
Forse dovremmo conoscerli meglio questi alti e bassi”.
In che senso?
Nel senso che potremmo osservarci e vedere come cambiano nelle varie giornate

Lisa è incuriosita e il fatto che non è sola nel viversi questa emozione fa sì che inizi a concedersi di esplorarla secondo la mia proposta.
Pensavo che potremmo semplicemente appuntare gli stati emotivi che caratterizzano le giornate, come ad esempio oggi potremmo scrivere TRISTEZZA e magari capire in che quantità è presente… da 1 a 10 che numero potremmo mettere?
Oggi è sicuramente un 8, perché sono venuta qui
Quel 2 era la parte di speranza che avevo condiviso con lei ed ero contento che se la stesse riconoscendo.
“Va bene Lisa allora immaginiamo di segnare sul quaderno la data di oggi con TRISTEZZA 8
Potremmo aggiungere anche un altro dato?” dissi passando a lei la guida dell’esplorazione.
L’espressione di Lisa inizia in qualche modo a cambiare, la seguo.
Assolutamente si, cosa vorresti metterci?
Vorrei metterci delle canzoni” (sorriso appena percettibile).

L’idea mi piace, ho sempre ritenuto la musica un potente strumento in grado di far entrare in contatto profondo con le proprie ed altrui emozioni. Le chiedo allora che canzone abbinerebbe alla giornata di oggi e senza neanche pensarci mi propone “I Wanna Be Adored” degli The Stone Roses.
Non è un pezzo che conosco molto bene e allora lancio subito la proposta “Ti va di ascoltarlo insieme?

Ed è in quel momento, che spostiamo la ricerca di quell’emozione lontano dal piano delle parole, aprendoci ad una percezione di quel pezzo malinconico sulle cui note adesso Lisa sente di riuscire a dare sostanza e raccontare in pieno la sua emozione in piena condivisione. Pochi minuti di ascolto in silenzio, un audio non di certo impeccabile, ma tanto ci basta.

Alla fine della canzone Lisa ha un’altra espressione.
Coma si sente Lisa? E’ successo qualcosa?” dico per orientarla a monitorare le sue emozioni.
Mi sento un pò meglio”.
E’ così che accade. Quando troviamo modo di uscire dall’isolamento della sofferenza per entrare in contatto e condivisione, qualcosa dentro di noi si muove e ci permette di sentirci meglio.

L’ombra di tristezza che aveva accompagnato Lisa sembra svanire, postura, sguardo, espressioni adesso sono diverse.
Iniziamo a parlare di resilienza, della capacità che ci appartiene di affrontare gli stati negativi, della nostra capacità di reagire e di quanto la condivisione di ciò che ci accade sia fondamentale.

La resilienza in terapia metacognitiva interpersonale attraverso il libro Rock and resilienza

In Terapia Metacognitiva Interpersonale lo riteniamo un momento della seduta fondamentale, quando riusciamo a spostarci quel tanto che serve dallo stato di sofferenza per riuscire ad agganciare un altro stato migliore, più positivo. Prendere contatto con la parte sana lo chiamiamo. Marcare una strada netta in questo passaggio e far riflettere il paziente sul fatto che è stato lui a compiere questo shift è resilienza pura, dove si apprende che si è in grado di reagire e cambiare qualsiasi stato emotivo.

In quel momento sento che anche io voglio condividere con lei un mio ricordo e dalla borsa accanto alla poltrona tiro fuori il libro “ Rock and Resilienza ”. Mi sento un pò orgoglioso per la copia autografata di Rock and resilienza.

Sai Lisa, è pensando a questo libro che mi è venuto in mente di ascoltare insieme a te la canzone. Ti va se ne leggiamo un pezzo insieme?
Non avevo avuto ancora tempo per leggerlo, ma con sorpresa il primo capitolo parlava proprio di qualcosa che sarebbe stato un arricchimento prezioso al nostro percorso. Il potere della narrazione, della trasformazione positiva di storie di vita difficili vissute attraverso la condivisione faceva decisamente a caso nostro. “Se decidiamo di raccontare abbiamo la possibilità di far sì che la nostra sofferenza esista anche nella mente di un’altra persona e l’illusione immediata di essere capiti, accettati nonostante le nostre ferite, trasforma inevitabilmente il nostro trauma in confidenza, relazione, condivisione.” Durante la lettura Lisa è più serena, segue, abbiamo aperto la nostra condivisione al mondo attraverso le pagine di un libro, che parla di storie nuove ma che in fondo sembra conoscere anche un pezzo di noi.

Siamo verso la fine della seduta e Lisa inizia a rievocare momenti in cui è stata bene, dei posti dove si recava per trovare tranquillità fino ad arrivare alle sue passioni dove si sente capace e attiva. Parliamo di fotografia e di disegno, di quel che ama fare e, a fine seduta, esce propositiva, con una grande voglia di reagire e prendere in pugno diverse situazioni di vita. E’ in pieno contatto con la parte sana, la sua resilienza è attiva.
Il nostro percorso avrà ancora del tempo, ma oggi abbiamo scolpito in maniera ancora più definita la strada da percorrere. Ci salutiamo con la promessa di leggere un altro capitolo di Rock and resilienza insieme alla prossima seduta.
Stay Rock … Stay Psy.

La forma dell’acqua oltre l’amore – Recensione del Premio Oscar 2018 di Guillermo del Toro

Ne La Forma dell’acqua, Guglielmo del Toro riesce a spiegare la complessità dell’amore attraverso la semplicità delle immagini e con un linguaggio comprensibile ad ogni cuore, capace di lasciarci senza fiato.

 

Poeti, cantanti, artisti e registi hanno provato in molti modi a mettere al centro delle loro opere l’ amore e la sua complessità. Biagio Antonacci  qualche anno fa cantava “L’amore comporta un linguaggio a sé stante, l’amore ti innaffia e ti mette le ali, ti toglie gli odori che hai preso per strada, pulisce e rinnova e vai su” e ancora Erich Fried nella sua poesia È quel che è diceva racconta così l’amore: “È assurdo dice la ragione È quel che è dice l’amore. È infelicità dice il calcolo Non è altro che dolore dice la paura È vano dice il giudizio È quel che è dice l’amore È ridicolo dice l’orgoglio È avventato dice la prudenza È impossibile dice l’esperienza È quel che è dice l’amore”.

Nel film La Forma dell’acqua il regista fa un salto di qualità: l’amore non ha forma, come l’acqua, inonda il cuore degli amanti e lo riempie con tutta la sua potenza. La pellicola è un capolavoro, non tanto per il tema che tratta ma per come viene trattato il tema dell’amore. È un film particolare, è orribile e al tempo stesso meraviglioso, mette lo spettatore nelle condizioni di non potersi muovere e di non riuscire a prendere parte. Non è un fantasy, non è un miusical, non è un thriller, non è una fiaba ma al tempo stesso contiene in sé sfumature di tutti i generi.

IL FILM CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La forma dell’acqua e l’unicità della trama

La forma dell’acqua, il nuovo film di Guglielmo del Toro, è una dichiarazione d’amore all’umanità. Ritroviamo i buoni e i cattivi, da un lato coloro che considerano la creatura anfibia un mostro da uccidere e vivisezionare, coloro che sono spinti dal desiderio di potere e da una spinta orribile di crudeltà, che vogliono uccidere senza conoscere la diversità, dall’altro la protagonista, Elisa, una ragazza muta, che lavora nella base aereospaziale come donna delle pulizie e che si innamora di questa creatura meravigliosa. La storia può sembrare anche banale, ma nei dialoghi emergono delle considerazioni che lasciano senza fiato chi, almeno una volta, ha provato quel tipo di amore che come l’acqua non ha alcuna forma ma che si adatta, avvolge e travolge i due amanti senza alcuna considerazione razionale. Quando Elisa capisce che vogliono uccidere la splendida creatura, corre a casa dal suo unico amico e dopo aver fatto appello al senso di umanità e all’obbligo morale di ogni essere umano di non rimanere impassibile di fronte alle atrocità che si commettono, si abbandona in un dialogo che lascia senza fiato che spiega l’amore con una semplicità travolgente. La ragazza dice: [blockquote style=”1″]dare una forma alla purezza dell’amore attraverso la metafora dell’acqua ma sopratutto spiegare la complessità dell’amore attraverso la semplicità delle immagini e con un linguaggio comprensibile ad ogni cuore. [/blockquote]

Struggente e appassionante il modo in cui attraverso il gioco di fotografie, colori e musica il regista sia riuscito a far penetrare nell’anima dello spettatore l’unione di un amore così diverso e al tempo stesso così completo. Questo film sorprende per la sua capacità di raccontare in modo semplice una storia d’amore che sembrerebbe destinata a non esistere fin dal primo istante e, attraverso essa, manda dei messaggi importanti sulla società contemporanea in cui l’accettazione della diversità sembra essere così lontana dalla realtà, anche a dispetto del riconoscimento di risorse meravigliose in un altro diverso da noi, e dunque anche sulla relazione con l’altro, su come spesso si dia importanza alle differenze e su come probabilmente l’amore vero sia estraneo a tutte quelle domande e dubbi su cui spesso ci concentriamo.

C’è ancora molto altro, c’è l’amore che cura, l’amore che ferisce ma che si prende la responsabilità di guarire le ferite che a volte in ogni relazione si procurano. C’è l’aggressività delle incomprensioni e un linguaggio tutto di coppia per riparare il danno. C’è il compromesso e la compassione per qualcuno che ha linguaggi e metodologie diverse dalle nostre. C’è l’importanza dell’amicizia, il bene dell’altro, la fiducia, la protezione, la volontà assoluta di non lasciare solo chi ami e di accompagnarlo verso la libertà. Nel finale un colpo di scena “il cattivo” capisce tutto e quando ormai tutto sembra perduto, i giochi fatti e l’amore distrutto ancora una volta lui, creatura anfibia con delle doti meravigliose, prende la sua amata e la rimette in vita. Il film si conclude con un messaggio che fa riflettere [blockquote style=”1″]incapace di percepire la tua forma ti ritrovo tutto attorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, onora il mio cuore perché sei ovunque.[/blockquote]

Il regista con questo film è riuscito in un’impresa difficilissima: dare una forma alla purezza dell’amore attraverso la metafora dell’acqua, ma sopratutto a spiegare la complessità dell’amore attraverso la semplicità delle immagini e con un linguaggio comprensibile ad ogni cuore.

Il tipo di relazione sessuale-affettiva influenza la scelta del contraccettivo – FluIDsex

La scelta dei metodi contraccettivi non dipende solo dalla loro efficacia. Essa dipende anche dal tipo di rapporto di intimità e fiducia che si ha con la persona con la quale si ha un rapporto sessuale o una relazione.

 

La sessualità non protetta è un’esperienza non rara e le conseguenze di questa condotta potrebbero essere gravidanze indesiderate e trasmissione di malattie, quali epatite, sifilide, herpes, AIDS, clamidia, gonorrea ed altre. L’unico tra i metodi contraccettivi capace anche di proteggere da malattie sessualmente trasmissibili è il preservativo, maschile o femminile, la cui efficacia (molto elevata) dipende dalle modalità di utilizzo dello strumento.

Un metodo come quello del backup control, che vede l’utilizzo di preservativo e altri metodi anticoncezionali (ormonali, ad esempio) può essere considerato la forma di protezione maggiore. Ma la scelta dei metodi contraccettivi non dipende solo dall’efficacia. Essa dipende anche dal tipo di rapporto di intimità e fiducia che si ha con la persona con la quale si ha un rapporto sessuale o una relazione, dal costo, dalla reperibilità e dalla facilità di utilizzo. Quando vi è intimità la scelta del metodo utilizzato può diventare una scelta che non riguarda più il singolo, ma diviene una scelta della coppia.

Uso dei metodi contraccettivi: uno studio su attività sessuale e relazione di coppia

All’Oregon State University è stato condotto uno studio longitudinale su 470 giovani adulti. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere ad una survey con domande sulla loro attività sessuale, sui propri partner, sull’uso dei metodi contraccettivi, sulla durata della relazione sessuale, sulla frequenza dell’attività sessuale e sull’esclusività. Sono stati inoltre misurati i livelli di impegno relazionale ed il processo decisionale sessuale (ruolo percepito di un individuo nelle decisioni riguardo all’uso dei metodi contraccettivi all’interno della coppia).

Dallo studio è emerso che il 41% dei partecipanti ha riferito di usare solo preservativi, il 25% metodi ormonali (pillole, anello vaginale, spirale IUD ormonale, etc.), il 13% un backup method ed il 21% ha dichiarato di non utilizzare nessun metodo di protezione dalle nascite e dalle malattie sessualmente trasmissibili (IST). Le scelte dei partecipanti allo studio dipendono dall’impegno percepito nella relazione e nella percezione del proprio ruolo nel processo decisionale rispetto alla vita sessuale. Dunque, la qualità e le dinamiche di una relazione sono importanti predittori dell’uso dei metodi contraccettivi.

Risulta inoltre che le decisioni rispetto ai metodi contraccettivi dipendono anche dal rischio percepito di contrarre malattie sessualmente trasmissibili o di una gravidanza, e questi due aspetti sembrano dipendere a loro volta da come le persone si sentono riguardano un particolare partner: quando la fiducia nella coppia aumenta diminuisce la paura di trasmissioni sessuali di malattie e così diminuisce a sua volta l’utilizzo del preservativo.

I risultati sono utili per ricordare ai professionisti della salute pubblica, tra cui medici, infermieri, ginecologi, sessuologi ed educatori sessuali come la comprensione della relazione che il paziente ha con il/i proprio/i partner sessuale/i diviene importante per inquadrare il comportamento del paziente stesso.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gli adolescenti e il brivido del rischio: i fattori neurologici e sociali alla base dei comportamenti impulsivi

Alla luce degli studi recenti, sorge spontaneo chiedersi se davvero gli adolescenti siano delle inarrestabili e autolesive macchine in corsa o se invece ci siano altri fattori coinvolti nella propensione al rischio in adolescenza.

 

L’adolescenza è un periodo estremamente delicato: solo nel 2015 si stimano circa un milione e mezzo di morti di età compresa tra i 10 e i 19 anni.

Più precisamente si calcola che la percentuale mondiale di decessi tra i 15 e i 19 anni sia del 35% più alta rispetto alla fascia di età che va dai 10 ai 14 anni, soprattutto per il genere maschile; le morti si verificano soprattutto a seguito di incidenti stradali, violenza interpersonale, autolesionismo e abuso di alcol o tabacco (Telzer et al., 2015).

Alcuni scienziati hanno teorizzato uno squilibrio nello sviluppo cerebrale degli adolescenti per spiegare i loro comportamenti impulsivi, promiscui e rischiosi. Il sunto centrale di tali teorie era che negli adolescenti le aree cerebrali legate all’impulsività e ad un’alta sensibilità alla ricompensa, specialmente in ambito sociale, fossero maggiormente attive rispetto a quelle prefrontali, più legate a processi cognitivi di controllo e inibizione dell’azione.

Da ciò l’idea che la mente adolescenziale fosse come una macchina in corsa folle con i freni bloccati.

Tuttavia a parere di Ted Satterthwaite, psichiatra e ricercatore in neuroscienze presso l’università della Pennsylvania, non tutti gli adolescenti mostrano questa propensione alla messa in atto di comportamenti autolesivi e rischiosi. In particolare una survey di Johnston e colleghi (2016) su un campione di 45 mila studenti statunitensi ha stimato come il 61% di questi tra i 17 e i 18 anni non abbia mai fatto uso di sigarette, e il 29% ha dichiarato di non aver mai bevuto alcol.

Sorge spontaneo chiedersi se davvero gli adolescenti siano delle inarrestabili e autolesive macchine in corsa o se invece ci siano altri fattori coinvolti nella propensione al rischio in adolescenza.

“L’adolescenza è un periodo delicato e vulnerabile ma non a causa del fatto che ci sia qualcosa di squilibrato nella mente dei ragazzi” (Ted Satterthwaite)

Studi recenti hanno iniziato a indagare e approfondire come i fattori sociali influenzino la propensione al rischio in adolescenza.

Steinberg, psicologo all’università di Temple, Philadelphia, tramite il compito “chicken game” in risonanza magnetica funzionale (2011), dimostrò come gli adolescenti fossero più propensi a mettere in atto comportamenti rischiosi e impulsivi quando veniva detto loro di essere osservati durante il compito, da un gruppo di pari.

Il “chicken game” è un videogioco che prevede che i ragazzi guidino nello scanner una macchina, attraversando 20 semafori in sei minuti. Nello studio di Steinberg, molti teenager decidevano di proseguire al primo semaforo rosso, altri aspettavano il verde. Un’interessante dinamica era rappresentata dal fatto che, quando ai teenager veniva detto di essere soli al momento di svolgere il compito, essi tendevano a rispettare i semafori con una frequenza simile ai giocatori adulti. Quando invece veniva detto loro, in modo menzognero, di essere osservati da un gruppo di pari, assumevano maggiormente comportamenti rischiosi che si accompagnavano ad una maggiore attivazione dello striato ventrale sensibile alla ricompensa.

Uno studio simile di Telzer e colleghi (2015) ha mostrato, al contrario, che l’informare i teenager di essere osservati dalle proprie madri, riduceva di molto la propensione a mettere in atto comportamenti rischiosi; tale riduzione si associava in risonanza magnetica funzionale all’attivazione dei circuiti prefrontali preposti all’inibizione dell’azione e al controllo cognitivo.

Un’altra ricerca di Peake e colleghi (2013) ha evidenziato come nei teenager l’esperienza dell’esclusione sociale da parte del gruppo dei pari giochi anch’essa un ruolo cruciale nella propensione a comportamenti rischiosi. In particolare sembra che i teenager che hanno vissuti di vittimizzazione o esclusione sociale siano maggiormente vulnerabili al rischio (Telzer, 2018).

La comprensione profonda dei contesti e delle situazioni che aumentano negli adolescenti la vulnerabilità ad assumere alcol o sostanze, a prendere decisioni sbagliate, rischiose o autolesive, può contribuire alla strutturazione di interventi di prevenzione rendendo possibile la realizzazione di contesti più positivi e di supporto.

Il gruppo dei pari può costituire una risorsa positiva per l’individuo, così come un elemento di vulnerabilità.

Uno studio di Hoorn e colleghi (2016), tramite videogioco, ha mostrato come i teenager a cui veniva chiesto di donare o tenere per sé una somma di denaro, tendevano a fare una donazione qualora approvati dal gruppo di amici, mentre se disapprovati tendevano con più frequenza a tenere per sé la somma di denaro. In aggiunta, tale studio ha sottolineato come la messa in atto di comportamenti prosociali da parte dei teenager fosse correlata con una maggiore attività di quelle aree cerebrali implicate allo stesso modo nel risk-taking, come il ventrale striato.

Quei soggetti maggiormente prosociali e che mostravano un’attivazione maggiore della regione ventrale dello striato tendevano a mettere in atto comportamenti più prudenti a lungo termine e ad essere meno vulnerabili alla depressione da adulti (Telzer et al., 2014).

Inoltre recenti studi hanno evidenziato come anche i fattori emotivi potrebbero influenzare e peggiorare le prestazione degli adolescenti in compiti di autocontrollo. Infatti nelle situazioni emotivamente neutre, gli adolescenti hanno delle prestazioni nei compiti cognitivi molto simili agli adulti, ma quando le situazioni presentate sono emotivamente negative o avversive, le prestazioni dei giovani nell’autocontrollo peggiorano (Cohen et al., 2016).

Di conseguenza prendendo in considerazione questa rassegna di studi, sembrerebbe che il risk-taking in adolescenza potrebbe riguardare una piccola porzione di teenager e non essere invece un fenomeno generalizzato a tutti gli adolescenti come si tende ingenuamente a pensare. Infatti ci sono evidenze che lasciano supporre come i processi che portano alla messa in atto di comportamenti rischiosi siano influenzati in larga parte dal contesto sociale e dai fattori emotivi.

Quali sono gli effetti dell’ossitocina sul cervello materno?

Un nuovo studio dell’Università finlandese di Tampere, ha rivelato che la somministrazione di ossitocina rafforza la risposta alle immagini dei volti di neonati e adulti nel cervello delle madri di bambini di 1 anno.

 

L’ ossitocina è un ormone che svolge un ruolo estremamente importante nel processo del travaglio, nell’allattamento e in generale nella cura del neonato.

L’influenza dell’ ossitocina nei legami sociali

L’influenza dell’ ossitocina sulla percezione dei volti, delle emozioni e di altre informazioni sociali è stata ampiamente studiata negli ultimi anni mediante la somministrazione dell’ormone per via nasale. Alcuni studi hanno dimostrato, ad esempio, che la somministrazione intranasale di ossitocina può aumentare il riconoscimento delle emozioni e l’attività cerebrale durante la percezione di un volto. L’ormone in questione quindi, sembra giocare un ruolo significativo nell’elaborazione delle informazioni interpersonali e nel mantenimento dei legami sociali.
Tuttavia ad oggi, sono stati condotti pochi studi volti ad indagare gli effetti dell’ ossitocina nelle madri di bambini piccoli.

Il ruolo dell’ ossitocina nell’elaborazione dei volti infantili

Mikko Peltola ricercatore dell’Academy Research dell’Università di Tampere e autore della ricerca ha affermato:

“Il principale contributo del nostro studio è quello di aver esteso la ricerca sperimentale riguardante l’ ossitocina alle madri di bambini piccoli che raramente sono incluse in questo tipo di ricerche”.

Lo studio aveva lo scopo di investigare se la somministrazione di ossitocina provocasse un effetto sulle risposte neurali in 52 donne finlandesi, divenute madri da un anno. Considerato il ruolo che l’ ossitocina riveste nell’accudimento, l’obiettivo specifico era quello di capire se gli effetti dell’ormone fossero maggiori in risposta all’elaborazione di volti infantili.

I ricercatori hanno utilizzo l’elettroencefalografia (EEG) per misurare le risposte neurali delle madri alla percezione visiva di facce di neonati e di adulti (stimoli sperimentali). Al fine di controllare le variabili sperimentali, prima di ogni misurazione veniva somministrata ossitocina, tramite l’utilizzo di uno spray nasale (condizione sperimentale) o una sostanza placebo (condizione di controllo).

I risultati hanno mostrato un aumento della componente N170 del segnale EEG in risposta alle facce dei neonati e degli adulti unicamente nella condizione sperimentale. La componente N170 riflette l’attivazione delle aree del cervello sensibili ai volti, suggerendo quindi che gli stimoli presentati attivavano queste aree con maggiore intensità solo dopo l’inalazione dell’ormone. L’analisi tuttavia non ha mostrato chiaramente se l’effetto dell’ossitocina fosse maggiore con i volti dei bambini o con le facce dei soggetti adulti.

Il professor Kaija Puura dell’Università di Tampere ha affermato:

“In futuro sarebbe interessante condurre ricerche studiando campioni più ampi al fine di determinare se l’ossitocina influenza specificatamente la sensibilità del genitore alle richieste del bambino”.

Maltese, un cantautore porzione “singolo”

Se un brano è figlio delle emozioni più profonde, allora Maltese ha trovato la “chiave” giusta per far musica d’autore: camminare, mano per mano con l’ascoltatore, su un viale dei sensi molto particolare, costruito da “porzioni singole” musicali.

 

Maltese: un cantautore che diffonde un nuovo modo di fare musica

Maltese è un cantautore torinese, noto per aver firmato pezzi importanti tra cui il diffusissimo Déjà vu e il suo è un progetto che si chiama, appunto, Single Portion. Un nuovo ed originale modo di fare e diffondere musica, pubblicare un singolo alla volta anziché far uscire un intero album. E’ evidente, che il suo slancio artistico e poeticamente anarchico, si muove verso una fruizione più libera della musica.

Maltese non vuole perdere il contatto con la realtà. Non vuole snaturarsi. Non vuole perdersi. E , soprattutto, non vuole veicolare sensazioni anche solo in minima percentuale diverse da quelle provate nel momento in cui, ad anima pura e gambe incrociate sull’universo, le stava creando. Si, perché Maltese non accetta di scendere a patti con le fredde leggi della statistica o dell’economia. No. Lui vuole condividere le sue idee, ovviamente per quanto possibile, nella stretta imminenza in cui le ha partorite. Una scelta onesta, coraggiosa. Un giuramento di fedeltà nei confronti di chi, nelle sue canzoni, potrebbe ritrovare se stesso. Ecco. Io credo che questo modo di “vendere” la propria arte, sia l’unico possibile in un contesto in cui tutto tende a sporcarsi di ipocrisia, finzione, apparenza.

I messaggi della musica di Maltese

Maltese, con le sue “monoporzioni” musicali mette al mondo brani e mondi fantastici che si connettono, senza derivazioni sterili e fuorvianti, al suo imminente presente, spezzando le catene di un immaginario statico e sterile. Arriva con forza, allora, il suo messaggio quando – con il suo primo singolo La legge delle cose, disponibile sul suo canale youtube e su tutte le piattaforme social – prende le distanze, con consapevole coerenza, dall’idea illusoria dell’amore eterno, accogliendone l’essenza più vera, quella che si muove sul filo del cambiamento, del distacco, della volubilità della vita.

Emblematico, il suo «Il mondo non si ferma tutto gira / tutto cambia questa è la Legge delle cose / non c’è respiro che sia eterno», passaggio intriso dal profumo dell’instabilità esistenziale. Ma anche in questo esporsi al vento della precarietà umana, torna a sorprendere, a fare un passo indietro. Torna più umano, più frangibile, quando supplica la sua donna di restare ancora al suo fianco, almeno «fino all’arrivo dell’inverno» per soddisfare l’esigenza terrena della condivisone. Del resto, sembra sussurrare alla sua compagna, se «hai già cambiato troppe volte la tua pelle per amore e con lo sguardo all’orizzonte hai perso l’ultima stagione» è solo per La legge delle cose, una regola astrusa che sconvolge progetti ma non uccide.

GUARDA IL VIDEO:

I più comuni vissuti psicosomatici della gravidanza: cosa comunica il corpo

I sintomi in gravidanza di natura psicosomatica si manifestano quando alcune emozioni, ansie, conflitti non vengono accolti ed espressi e per questo vengono espressi attraverso il corpo. Le paure più frequenti sono quelle relative al parto, al timore di non essere delle brave madri o di perdere la propria vita precedente.

 

Le emozioni e i cambiamenti che caratterizzano la gravidanza

La gravidanza è un periodo nella vita della donna, caratterizzato da molteplici cambiamenti a livello sia fisiologico che psicologico e spesso essi risultano interrelati tra loro. Sin dalle prime fasi della gravidanza ci si interroga su come dovrebbe essere un buon genitore e se si sarà in grado di rispondere a tali modelli. In questo periodo più che mai si riattualizzano i ricordi legati alla propria infanzia e al rapporto con i propri genitori e possono riemergere conflitti non elaborati nelle fasi precedenti dello sviluppo (Imbasciati, Cena, 2015).

Ad essi, si associano dubbi, perplessità, ansie che se hanno la possibilità di emergere e di essere accettati ed elaborati per quello che sono, preservano maggiormente il benessere psico-fisico delle donne. Infatti, le mamme che tendono ad idealizzare completamente la nascita di un bambino, mettendo a tacere e negando eventuali preoccupazioni o vissuti ambivalenti che possono insorgere, sono quelle più a rischio di lievi disturbi (Finzi, Battistin, 2011). La soluzione può essere quella di porsi nei confronti della gravidanza e dei cambiamenti che essa porta con sé con un sentimento di accettazione dei molteplici e ambivalenti vissuti emotivi e psichici che possono emergere, senza temere o sopprimere eventuali paure, perplessità o ostilità che alle volte possono insorgere e che definiscono la complessità della maternità.

Da ciò si deduce come le modificazioni somatiche e i vissuti psichici si influenzino reciprocamente durante tutto il periodo della gravidanza e del parto. Sia il corpo che l’immagine di sé subiscono dei cambiamenti: l’aumento del peso, il senso di affaticamento, le modifiche apportate al proprio stile di vita possono essere vissuti dalle donne in modi differenti e alle volte può succedere che prevalga la sensazione di essere poco attraenti o il timore che non si riacquisterà più la propria forma fisica. In questo caso la propria identità femminile può risultare compromessa e il vissuto può essere quello di non accettazione di sé e del proprio corpo che cambia.

I sintomi in gravidanza

Uno dei sintomi in gravidanza che frequentemente lamentano le donne soprattutto nel primo trimestre sono le nausee: se da un lato sono legate principalmente ai cambiamenti ormonali tipici della gestazione, dall’altro sono alle volte espressione di sentimenti ambivalenti nei confronti della maternità; il timore degli sconvolgimenti che porta con sé l’arrivo di un bambino e la paura di non essere in grado di farvi fronte, possono comportare un’ambivalenza tra l’accettazione e il rifiuto della gravidanza e del bambino stesso (Benedek, 1952).

Un altro dei sintomi in gravidanza è l’ipersonnia, piuttosto frequente nel primo trimestre e può essere legata all’adattamento psico-fisico della donna allo stato gravidico ma può anche essere interpretata alle volte come un’identificazione con il feto o uno stato regressivo (Imbasciati, Cena, 2015).

Altri studi si sono, invece, soffermati sull’ansia e lo stress della mamma mettendoli in relazione con alcune possibili complicanze ostetriche, con il prolungamento del travaglio, con il basso peso del bambino alla nascita e con il parto prematuro (Standley e al., 1979; Bogetto e al., 2004, Paalberg e al., 1999). L’ansia e lo stress in gravidanza sembrano anche essere predittivi del temperamento difficile e di problemi comportamentali del bambino nei primi mesi e anni di vita.

I sintomi in gravidanza di natura psicosomatica, dunque, si manifestano quando alcune emozioni, ansie, conflitti non vengono accolti ed espressi e per questo vengono espressi attraverso il corpo. Le paure più frequenti sono quelle relative al parto, al timore di non essere delle brave madri o di perdere la propria vita precedente. Le preoccupazioni, i dubbi e i sentimenti ambivalenti sono molto comuni tra le donne in gravidanza, e talvolta possono generare stati ansiosi di diversa intensità o essere responsabili di alcune sintomatologie fisiche. Esprimerli, accoglierli, elaborarli in una dimensione sia individuale che di coppia costituisce un importante passo per salvaguardare il proprio benessere psico-fisico e quello del bambino.

Curo con il mio viso ma non lo conosco: l’integrazione tra Self Mirroring Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale nella disciplina interiore del Terapeuta

La tecnologia e la formazione sulla Self Mirroring Therapy vengono in aiuto del terapeuta nel raggiungere una disciplina interiore, attraverso una webcam verso di sé, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, per ottenere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Michela Alibrandi

 

Ciao Michela, che occhiaie stamattina! Sembri un panda! Ti senti bene?”. Esordisce cosi la prima paziente di un faticoso venerdì mattina. Qualche ora dopo, ripensando all’episodio, mi dico scolasticamente “Bene! Si è concessa di scherzare con me senza paura di offendermi, c’è ancora un po’ del suo accudimento ma non è così rilevante, tutto ok”.

Se mi focalizzo però sulle mie sensazioni, l’ ansia sottile con cui in quelle ore ho sbirciato la mia immagine riflessa, il pensiero ricorrente del 40° compleanno in arrivo, l’angoscia delle recenti notti insonni in allattamento, riconosco il timore sotteso, familiare, di non essere adeguata, risvegliato da quella frase.

Tutto ok? Per niente! Sul momento però non me ne sono accorta e sicuramente sono apparse sul mio viso espressioni inconsapevoli di ansia e irritazione che la paziente può avere colto, in maniera altrettanto inconsapevole.

Come funzionano gli Schemi Interpersonali

Queste dinamiche, in Terapia Metacognitiva Interpersonale, costituiscono materiale importantissimo di conoscenza e cura del paziente (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013)

Ogni essere umano viaggia nel mondo con il suo kit di Schemi Interpersonali, appresi e modificabili nell’arco dell’intera vita, che originano da desideri sani e universali (“wish”), come amare ed essere amato, appartenere al gruppo e cooperare, formare legami sentimentali e sessuali stabili, competere, esplorare ed essere autonomi.

A partire da queste motivazioni, e dalle risposte dell’altro ai propri desideri, la persona si approccia alla realtà, fa previsioni, interpreta e filtra le informazioni, ragiona sui propri comportamenti e le conseguenze ( “procedura se…allora” e “risposta dell’altro”: per esempio “se chiedo aiuto allora l’altro si arrabbierà” ). La risposta dell’altro (immaginata o reale ma interpretata alla luce dello schema), induce nella persona una strategia di coping (“risposta del sé alla risposta dell’altro”) di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale (proseguendo l’esempio: “se si arrabbia ha ragione perché non valgo niente”, tristezza, evitamento della relazione) ed una sottostante immagine di sé (in questo caso, “non amabile”).

Nella patologia, gli Schemi tendono ad essere negativi e totalizzanti, netti, difficili da mettere in discussione e generano emozioni molto intense nel paziente.

Gli Schemi del paziente entrano in gioco in tutte le relazioni, anche in psicoterapia, e si incontrano, a volte si scontrano, con quelli del terapeuta, mettendo in scena dei Cicli Interpersonali Disfunzionali tra i due protagonisti della seduta, dove il terapeuta incarna l’“Altro” del paziente e viceversa.

Il paziente ha delle aspettative sul terapeuta, guidate dai propri schemi, che moduleranno i pensieri, le emozioni e i comportamenti in terapia. A sua volta anche nel terapeuta si attiveranno i propri schemi con tutti gli elementi, ma a differenza del paziente, il terapeuta ne è consapevole (o dovrebbe esserlo), ha imparato a conoscerli, non se ne fa turbare ma li osserva in seduta serenamente e con curiosità, per poi rifletterci a casa, o nelle proprie supervisioni, utilizzandoli come fonte di informazione e di cambiamento per sé e per il paziente.

Come lavorare sui Cicli Interpersonali: la Self Mirroring Therapy

Bello, molto bello, ma come si arriva a questa disciplina interiore? La tecnologia e la mia formazione e ricerca sulla Self Mirroring Therapy mi vengono in aiuto e, non senza timore, decido di puntare una webcam verso di me, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, così da avere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Non si tratta di un semplice, per quanto efficace, videofeedback. La Self Mirroring Therapy è una tecnica che si applica in seduta con il paziente, che viene filmato nelle varie fasi della terapia (video 1) e poi filmato nuovamente mentre osserva e commenta il primo video (video 2). (Vinai, Speciale, 2013)

Osservandosi nel video 1, il paziente riesce a riconoscere meglio le proprie emozioni e a guardarsi con accettazione ed empatia, perché non implica più l’uso delle capacità autoriflessive, che spesso sono carenti, ma il sistema dei neuroni specchio, che viene normalmente impiegato in modo automatico e pre-riflessivo per comprendere le emozioni altrui ed empatizzare.

Tutto questo avviene in relazione stretta con un terapeuta esperto in Self Mirroring Therapy, che crea un clima disteso e di accettazione, ha in mente un progetto di cura e degli obiettivi sulla base dei quali seleziona e propone gli spezzoni di filmato più adatti, modula le emozioni del paziente, che a volte reagisce all’immagine di sé con sorpresa e spaesamento (mai, però, nella nostra esperienza, con rabbia o aggressività), sottolinea i suoi insight e li rafforza (Vinai, Speciale, Alibrandi, 2016)

Consapevole dei limiti dati dall’essere contemporaneamente “terapeuta del paziente” e “terapeuta o supervisore di me stessa”, l’esperienza di applicare la Self Mirroring Therapy su di me, alla ricerca dei Cicli Interpersonali Disfunzonali, è illuminante.

Self Mirroring Therapy: un caso clinico

Scelgo di registrare una seduta con un paziente “facile”, con cui sono a mio agio, dopo aver avuto il sospetto che questa mia rilassatezza fosse eccessiva, segnale di un probabile Ciclo Interpersonale Disfunzionale. Identifico le mie remore ad accendere la telecamera: se vedrò dei miei comportamenti che non mi piaceranno, potrei sentirmi incapace, scoraggiarmi e perdere energia nelle sedute successive, in uno Schema che recita, più o meno, “vorrei essere apprezzata, l’altro è critico, mi sento inadeguata, rispondo con il perfezionismo, se questa strategia fallisce e scopro dei difetti…è un disastro!

Dopo pochi minuti però dimentico la telecamera e tutto prosegue con naturalezza. Alla fine della seduta, rifletto sulle emozioni che ho provato e non ne identifico altre al di là della mia serenità, a parte qualche flash emotivo diverso che sul momento non reputo rilevante. Decido poi di guardare gli spezzoni di video relativi ai momenti più salienti, selezionati con i criteri con cui scelgo solitamente quelli da mostrare al paziente, ponendo l’attenzione sulla mia parte di “intervista doppia”, la mia faccia, e di videoregistrarmi mentre mi guardo (Self Mirroring Therapy).

Si alternano emozioni di curiosità benevola e di stupore. Una scena su tutte: il paziente con ansia sociale mi racconta di essersi avvicinato al bar dove lavora la ragazza che gli piace con l’intenzione di parlarle, in quel momento sul mio viso compare un’espressione tesa. “E’ l’interesse di sapere com’è andata a finire” mi direi, se non avessi il video che testimonia, in modo inequivocabile ai miei occhi, che è proprio ansia. Se non bastasse, mentre mi racconta di non essere riuscito perché gli sono tornate le solite paure, eccomi in una micro-smorfia di disappunto, che diventa per un attimo irritazione.

Il mio Schema dice “se non ce l’ha fatta dopo tanto tempo passato a parlarne con te vuol dire sei proprio scarsa, probabilmente di questo paziente non hai capito niente!”. I miei discorsi sono invece quelli corretti, da manuale, tanto che scelgo di abbassare l’audio, perché di fronte alle espressioni emotive le parole non hanno una grande importanza. Ho confermato al paziente il suo Schema: “se ti mostri debole, l’altro ti rifiuta”, tant’è vero che subito dopo lui cambia argomento, e sul suo viso compare per un attimo un’espressione di tristezza.

Resta ora da guardare il video 2, quello in cui ho ripreso le mie reazioni all’osservazione del video 1. Mi appaio totalmente rapita da ciò che sto osservando. Mi vedo mentre commento a voce alta. Sono buffa mentre ragiono: sposto lo sguardo verso l’alto, mi mordicchio un dito e borbotto discorsi incomprensibili tra me e me che diventano un’affermazione in maiuscolo quando tiro le conclusioni. Nel video 2 mi approccio alla registrazione della seduta con interesse scientifico ed esprimo riflessioni che suscitano altre riflessioni in me osservatrice, servirebbe un video 3 in una “never ending story” in cui non si finisce mai di imparare!

Ciò che però lascia davvero il segno, perché non mi è familiare, è vedermi mentre mi guardo con un’espressione benevola, curiosa, intenerita, non critica. Nel video 2 il mio sorriso è molto più pronunciato mentre guardo me stessa piuttosto che quando osservo il paziente. I timori che avevo all’idea di rivolgere la webcam verso di me si sono rivelati infondati: l’altro – me stessa – non è critico né sprezzante, anche in presenza di errori evidenti, ma vicino, interessato ed affettuoso, in una relazione che smentisce lo Schema mentre valida il sé.

Mi accorgo che ciò che definivo “disciplinare le emozioni” era in realtà ignorarle volutamente, talvolta inibirle, fino a perdere l’abitudine di sentirle, tutta concentrata sull’Altro, o a scappare da me. Una consapevolezza momentanea, a parole, che non corrispondeva ad una reale e profonda conoscenza. Vedermi benevola di fronte ai miei errori, invece, è un’esperienza molto più intensa, che contrasta con l’idea di un Altro ostile e giudicante. Nel video è immortalato un aspetto di me sano, creativo, divertito, che ha voglia di mettersi in gioco ed esplorare. Non è proprio questo ciò che desideriamo per i nostri pazienti: che facciano esperienza di parti di sé più sane e benevole, che possano gradualmente affiancarsi o sostituirsi a quelle che causano sofferenza? Allo stesso modo, il terapeuta che conosce e sperimenta degli aspetti nuovi e sereni di sé, un sé bendisposto, amichevole e costruttivo, si disingaggerà più velocemente dai Cicli Interpersonali Disfunzionali, o non se ne farà coinvolgere.

Decido di farmi un regalo: al posto della foto di mia figlia, userò come immagine di sfondo del cellulare un fotogramma di me con un’espressione benevola verso me stessa. La mia bimba se ne farà una ragione! Credo che sarà utile vederla spesso, durante la giornata, come un interessante promemoria: la disciplina interna è reale se diventa un assetto interiore costante di consapevolezza e relazione dinamica tra parti del sé, non relegabili al tempo della seduta (Salvatore, 2006). E può essere anche molto piacevole!

I fratelli aiutano a sviluppare l’empatia in infanzia

La ricerca ha mostrato come bambini con fratelli maggiori che mostrano più empatia, che sono più gentili, calorosi e solidali siano più empatici di coloro che hanno fratelli maggiori manchevoli di queste caratteristiche.

 

Sviluppo dell’ empatia: il ruolo dei fratelli e delle sorelle

Sin dalle prime fasi dello sviluppo, i bambini influenzano positivamente l’ empatia dei propri fratelli minori e maggiori. Così come i genitori, svolgono un importante ruolo nella vita dei più piccoli, fungendo da modelli ed aiutando i fratellini a conoscere il mondo. La ricerca ha infatti mostrato come bambini con fratelli maggiori empatici, gentili, calorosi e solidali siano più empatici di coloro che hanno fratelli maggiori manchevoli di queste caratteristiche.

Il presente studio si pone come obiettivo quello di esplorare il ruolo che l’ empatia dei fratelli maggiori possa avere sullo sviluppo dell’ empatia di quelli minori durante la prima infanzia, momento in cui le tendenze empatiche cominciano a svilupparsi. Lo studio, condotto dai ricercatori della Calgary University, della Laval University, della Tel Aviv University e della Toronto University su un gruppo di 452 coppie di fratelli canadesi e dalle loro madri prende in considerazione soggetti di etnia e background socio-economico diversificati.

L’ipotesi dei ricercatori israeliani e canadesi è la seguente: i livelli di empatia rilevati all’inizio dello studio nei fratellini di 18 e 48 mesi predicono dei cambiamenti direttamente proporzionali nei livelli di empatia nei 18 mesi successivi alla prima misurazione. I ricercatori per testare l’ipotesi hanno registrato le interazioni sociali quotidiane, mentre hanno chiesto alle madri di compilare dei questionari sui tipi di pratiche genitoriali vigenti in famiglia. L’ empatia dei bambini è stata misurata osservando le risposte comportamentali e facciali di ciascun fratello di fronte ad un ricercatore adulto che fingeva di essere angosciato (ad esempio in seguito alla rottura di un oggetto amato) o ferito (ad esempio dopo essersi schiacciato le dita in una borsa da ufficio).

Precedenti studi avevano dimostrato che fratelli maggiori e genitori svolgono il ruolo più significativo nell’influenzare la socializzazione dei più piccoli. Da questo studio emerge come anche il ruolo dei fratelli più giovani sia di cruciale importanza nello sviluppo empatico dei più grandi: l’influenza positiva dell’ empatia è un fenomeno reciproco tra fratelli minori e maggiori; le differenti pratiche genitoriali o il diverso status socio-economico non influiscono e non determinano alcuna differenza a riguardo. Nonostante ciò, più aumenta la differenza d’età più diventa efficace il ruolo del fratello maggiore come modello.

Confrontando inoltre le somiglianze ed eventuali differenze nell’instaurarsi di questo fenomeno in base all’età e al genere del fratello, i risultati non hanno mostrato particolari differenze, se non una che riguarda il gruppo fratelli minori/sorelle maggiori. In questo caso, infatti, i fratelli minori non hanno contribuito a cambiamenti significativi nell’ empatia delle sorelle maggiori.

Limiti e futuri sviluppi dello studio

L’utilità di questo studio sta nel sottolineare che tutti i membri della famiglia contribuiscono ad un positivo sviluppo dell’ empatia nei bambini. Sono i bambini stessi ad influenzarsi vicendevolmente, già dai primi momenti dello sviluppo, senza dover attendere la fase adolescenziale. Un importante passo successivo potrebbe essere quello di determinare se e come si possano coltivare maggiori tendenze empatiche nei bambini piccoli e se insegnando competenze empatiche ad un fratello minore e/o maggiore questo possa influenzare positivamente le competenze empatiche. Tale lavoro aiuterebbe anche ad affrontare la questione di come gli interventi familiari volti a promuovere esiti positivi dello sviluppo durante l’infanzia possano trarre beneficio dalle relazioni tra fratelli.

La forma dell’acqua (2018) di Guillermo del Toro: la psiche che condiziona il nostro sguardo sul mondo – Recensione del film

La psiche può condizionare profondamente il nostro sguardo sul mondo, la nostra weltanschauung, lo dimostra La forma dell’acqua, il film fantastico che Guillermo del Toro, dopo La Spina del Diavolo e il Labirinto del Fauno, torna a proporre al grande pubblico.

Pier Francesco Galgani

 

Le emozioni possono avere una forma? O meglio, ciò che custodiamo dentro di noi può influenzare i sensi tattili, visivi, olfattivi? Il nostro più intimo universo può sovvertire la realtà delle cose tanto da creare un legame indissolubile tra una donna e un essere d’aspetto sgradevole? Si. La psiche può condizionare profondamente il nostro sguardo sul mondo, la nostra weltanschauung. Lo dimostra La forma dell’acqua, il film fantastico (Oscar 2018 migliori lungometraggio, regia, colonna sonora e scenografia) che Guillermo del Toro, dopo La Spina del Diavolo e il Labirinto del Fauno, torna a proporre al grande pubblico.

La forma dell’acqua: la trama

Questa volta però, al centro della storia, sempre sopra le righe, mai banale e al limite del fiabesco, c’è il sentimento più antico del mondo e che, secondo molti, permette alla civiltà di continuare a sopravvivere: l’ amore. La trama de La forma dell’acqua è estremamente semplice: la nascita di un rapporto particolare e profondo che si origina tra due esseri molto simili.

Da una parte, Elisa, donna delle pulizie (interpretata dall’attrice britannica Sally Hawkins), priva della parola, intrappolata in una vita solitaria, con i giorni sempre uguali gli uni agli altri, nessuno scossone né diversivi. Nella sua esistenza, vuota come un deserto, la principale risorsa che le permette di continuare a vivere è il suo animo sensibile, chiuso in lunghi silenzi, pur in mezzo a folle gracchianti, ma pronto a farla rifugiare in fantasie e sogni ad occhi aperti, anche in pieno giorno.

Dall’altra, la creatura mostruosa, scoperta in Sudamerica e condotta negli Usa con la forza, dove in un laboratorio super segreto, il governo federale la studia e cerca di carpirne i segreti, in una rincorsa continua con Mosca, la patria del comunismo, che, solo pochi anni prima era riuscita a inviare il primo satellite nello spazio e poi il primo uomo in orbita, umiliando Washington e la sua classe dirigente.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM LA FORMA DELL’ACQUA:

 

Non sono pochi, durante il film La forma dell’acqua, i richiami alla competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la supremazia mondiale: la pellicola è infatti ambientata nei primi anni ’60, quando i contrasti tra le due superpotenze raggiunsero la massima intensità. Non manca il riferimento alla guerra delle spie – con i suoi omicidi improvvisi e atroci – e ad altri inequivocabili segni del momento. Emblematica, la voce del presidente Kennedy che pronuncia il discorso di avvio della crisi dei missili di Cuba, diffuso come un mantra nelle strade e nelle case della gente comune. Tensioni interne ed internazionali che trovano espressione nei toni cupi che informano i fotogrammi, a simboleggiare l’oscurità e la paura riflesse nel quotidiano di chi visse quell’epoca.

Anche l’immagine dell’essere, studiato da una torma di scienziati in camice bianco e con i tipici capelli a spazzola dei quegli anni, è un chiaro richiamo ai miti di quel periodo storico, come i leggendari alieni di Roswell che, secondo molti, dopo il tragico incidente del 1947, sarebbero stati esaminati per anni nelle gallerie sotterranee della mitica Area 51. Un essere metà uomo e metà pesce, sottoposto ad ogni genere di violenza ed esperimenti che, nella condizione di cavia da laboratorio, incapace a comunicare ed esprimere quello che prova ai suoi aguzzini se non con gemiti e risposte furibonde alle continue angherie, troverà il suo riscatto dapprima intrecciando un rapporto timoroso, ma pieno di comprensione con la muta Elisa, e poi trasformando quei timidi contatti, rivelatori di una inaspettata sintonia con la sognatrice umana, in un sentimento di amore.

I due protagonisti de La forma dell’acqua si trovano a fronteggiare condizioni di disagio purtroppo molto simili. Lui, sradicato da una bucolica realtà di acque e foreste amazzoniche, scaraventato in un mondo ostile e violento, in cui nessun essere umano ha i mezzi per – o, forse, non vuole – comprendere cosa provi o desideri. Un estraniamento dalla realtà, quello della creatura, favorito anche dalla diversità di aspetto e di modo d’essere. Difformità che genera un comportamento ambivalente nei suoi torturatori: da una parte un sentimento di paura istintiva, dall’altra la volontà di porre una barriera fatta di percosse e catene volta a tenere a bada non solo la sua forza fisica, ma anche le sue doti taumaturgiche, ben consapevoli di essere di fronte ad un essere destinato a distinguersi dalla massa e proprio per questo da soffocare, un po’ come accade spesso nelle opere di Franz Kafka.

La donna, solo in apparenza perfettamente integrata nella società americana del suo tempo, non ha, in realtà, un posto ben preciso nel mondo. Semplicemente non è, non ha un ruolo se non quello legato al suo lavoro. Solo una collega di colore e un vicino di casa misantropo e poco socievole si accorgono di lei e della sua esistenza. Per gli altri, è un essere anonimo che tenta di sollevarsi da un mondo che non le parla al cuore e che non fa nulla per accoglierla. La solitudine e le identiche condizioni di soggetti avulsi da una realtà che li respinge e li isola sono il fondamento da cui sboccia l’ amore tra due esseri esteriormente molto diversi: Elisa, la ragazza minuta e solitaria e la creatura, un ibrido tra uomo e pesce con sembianze mostruose, capace però di mostrare, con gli occhi e le espressioni del volto, un animo sorprendentemente umano.

La forma dell’acqua e l’amore verso il diverso

Il messaggio de La forma dell’acqua è evidente: l’ amore non può essere fermato, può nascere ovunque e tra chiunque e il diverso non è un qualcosa da temere o tenere lontano e isolare, poiché anch’esso può provare e donare amore. La scelta del regista di adottare dei contrasti tra luci e ombre per descrivere le tensioni internazionali di quegli anni, assume, poi, nel rapporto tra Elisa e la creatura, un significato molto diverso.

L’oscurità caratterizza la loro esistenza quotidiana, mentre la luce e i colori caldi e brillanti danno forma e sostanza ai momenti in cui i due si congiungono, ritrovando la loro essenza più pura. Molto toccante e piena di pathos, è la scena finale de La forma dell’acqua in cui gli amanti, finalmente liberi dalle costrizioni e dal dolore della realtà in cui sono costretti a vivere, si uniscono in un intenso amplesso che fa immaginare una loro ascesa negli abissi dove, come nella migliore tradizione delle fiabe, sarebbero vissuti felici e contenti.

Completano il cast la collega e amica di Elisa, Zelda, interpretata dall’attrice Octavia Spencer, che la sostiene sempre e comunque e che con la sua mimica facciale e i suoi occhi espressivi dà al film un tocco di ironia e talvolta di ilarità e Richard Jenkins, nei panni di Giles, il vicino di casa di Elisa e suo unico amico, insieme a Zelda, segretamente omosessuale e alle prese con altalenanti fasi della sua attività di designer pubblicitario. Una menzione a parte merita il cattivo della pellicola: il colonnello Strickland, capo del laboratorio dove venivano effettuati gli esperimenti sulla creatura e suo principale aguzzino. Ad impersonarlo, l’americano Michael Shannon, con le sue azioni al limite del paranoico e le sue movenze facciali nel contempo viscide e feroci. Ma i particolari che lo riguardano sono quelli più truculenti e, forse, meno adatti ad un lungometraggio che si muove sull’impronta di una nuova favola moderna.

Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche – Recensione

Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche, scritto da Nina Coltartpsicoanalista della British Psychoanalytical Society – viene pubblicato in italiano dopo venticinque anni dalla sua uscita. È una raccolta di contributi densi di uno spirito vocazionale profondo nei confronti di una professione contrassegnata da pensieri impensabili. Il manifesto di una teoria e di una pratica psicoanalitica nate da una consapevole e coraggiosa libertà di pensiero congiunta a una doverosa accettazione dell’inconoscibile.

 

Pensare l’impensabile e rendere noto l’ignoto in psicoanalisi

La “più indipendente degli indipendenti” consegna così al lettore il suo apporto, esclusivo e quanto mai attuale, su diversi temi del panorama psicoanalitico, poco esplorati, forse per un certo verso temuti e in linea con un progetto d’indagine temerario.

Sin dall’apertura del testo, affidata a una splendida poesia di Yeats, che anticipa e condensa il senso dell’intero libro, si scopre, incarnato nei versi del poeta, il viaggio misterioso in cui paziente e analista si imbarcano diretti verso una prospettiva di salute. Un inno alla complessità della professione psicoanalitica che attraverso il paradosso acquista un significato vivo e tangibile.

Nel contatto con ciò che è impensabile e che si muove lentamente nel buio del non noto, proprio come fa “una rozza bestia”, l’analista si trova nella posizione specifica di un atto di fede. A questo proposito Nina Coltart, riconoscendo l’aspetto ineffabile che appartiene alla professione psicoanalitica, una professione “precisa e profonda”, afferma: “[…] ogni ora con ogni paziente è anche, a suo modo, un atto di fede; fede in noi stessi, nel processo, e fede negli aspetti segreti, sconosciuti, impensabili nel nostro paziente che, in quello spazio che è l’analisi, arrancano aspettando il momento in cui sarà giunta infine la loro ora” (Coltart, 2017, p. 3).

Accostarsi a quelle zone d’ombra, significa, comprensibilmente, che ad essere sollecitati nell’analista non sono solo disorientamento e timore per la complessità con cui si confronta, ma, soprattutto, l’entusiasmo per la nuova nascita del paziente.  Un po’ come un funambolo in equilibrio sulla fune, dentro “l’atmosfera analitica” co-costruita dalla coppia, egli presta, con costanza, attenzione ai fattori che conserveranno il suo equilibrio e riserva uno sguardo benevolo verso i propri errori. È nell’ignoto “che muove verso il diventare noto” che l’analista scopre la creatività della propria tecnica e della propria intuizione.

È indubbiamente un lavoro di fede quello in cui sostando nel mondo interno del paziente, “dominato dall’anarchia”, egli attende che qualcosa prenda forma, astenendosi dal cedere a un comportamento imprudente e seducente e mettendo alla prova la sua “capacità negativa”.

L’attenzione, che rappresenta l’“impalcatura per ogni altra cosa”, come suggerisce Nina Coltart, costruita e affinata nel tempo, guida il lavoro e lo allontana dalla tendenza a vestire rigidamente un sistema di regole immutabili, “sacre”. Ad essa va riconosciuto il merito di favorire un monitoraggio costante, in cui l’analista può riconoscere l’influenza della personalità e delle maniere nel suo lavoro con il paziente e proteggersi dalla perdita di quella “freschezza”, propria dell’età giovanile, che tende a indebolirsi con l’avanzare di certezze indiscutibili; “quando piace il suono della propria voce, si è molto sicuri di avere ragione, si sviluppa la convinzione della propria autorità a pontificare e imporre il proprio punto di vista […]. Tutto ciò può essere – è – non solo molto noioso, ma anche antiterapeutico” (Coltart, 2017, p.99).

L’importanza della reciprocità e di sentirsi amati in psicoanalisi

La posizione di reciprocità umana è così, grazie all’ausilio dell’attenzione, riconosciuta e difesa, come quella di mutua scoperta e creazione condivisa. Si tratta di una conoscenza – quella verso cui tende l’analisi – che l’analista accetta nella sua intima natura, una conoscenza mai completamente afferrabile, mai completamente “alla sua portata”.

Il lavoro che avviene nella stanza d’analisi può essere pensato allora come “il lavoro della capacità di amare”, un lavoro la cui essenza può essere rappresentata da una combinazione di elementi che hanno il pregio di far sentire il paziente importante, compreso e accolto. L’utilizzo della parola “amare” riflette qui attentamente tutte le sue sfumature. Per essere più precisi, Nina Coltart si riferisce all’amore trascendentale e in quanto tale riconosciuto anche come “ […] l’unico contenitore affidabile entro cui potremmo sentire odio, rabbia o disprezzo per periodi di tempo variabili” (Coltart, 2017, p.119).

Lo studio che l’autrice propone, con questo testo, del mestiere impossibile dello psicoanalista è molto interessante e articolato. Predilige l’analisi delle istanze psichiche, in particolare del Super-Io e di temi a esso legati come l’angoscia e la colpa; si addentra nell’evoluzione, nelle tipologie e nei rapporti dell’angoscia con l’Io, proponendo, inoltre la distinzione tra il senso di colpa inconscio e la vergogna; porta in primo piano le qualità organizzative dell’Io e quelle “benigne” del Super-Io e la natura inconscia delle stesse istanze.

Psicoanalisi, filosofia e religione

Nella genesi, nella trasformazione e nei significati che propone riguardo a questi e altri aspetti che sono propri dell’uomo, tenta in modo audace di far dialogare psicoanalisi, religione e filosofia.

Non le si può negare, a mio avviso, proprio come anticipa al lettore, quasi chiedendogli uno sforzo attentivo, di essersi assunta un compito nient’altro che semplice.

L’ambiguità è una caratteristica che ho ritrovato molto di frequente mentre cercavo di esplorare la storia del peccato e della coscienza nella società, tanto che sono giunta a ritenere che essa sia praticamente inseparabile dal sistema morale degli esseri umani” (Coltart, 2017, p.63). In questo viaggio che arriva fino ad oggi, Nina Coltart affronta i temi dello sviluppo morale, del peccato, della colpa, della sofferenza e della riparazione, tentando una sintesi di un’analisi molto ampia, attraverso esigui richiami ai contributi dei principali rappresentanti storici.

Partendo, dunque, dalla ricerca di senso che caratterizza l’uomo lungo tutta la sua esistenza – anche la propria – arriva a proporre un modello di lavoro psicoanalitico che risponde a una personale filosofia di vita e il cui punto chiave mi sembra proprio quello relativo all’utilità che le viene attribuita.

Lo stile dialogico impiegato, inoltre, rende il lettore costantemente interessato alle sue riflessioni e lo conduce verso la comprensione del modo in cui la sua prassi, che appare a tratti paradossalmente rigorosa e allo stesso tempo comprensivamente aperta al non consueto, si integri in modo coerente con quello che definisce un mestiere impossibile. Di fatto, alcune delle sue “sfide” cliniche, “la terapia con un paziente transessuale”, “il paziente silenzioso”, “l’analisi con il paziente anziano”, proponendo suggestioni su argomenti controversi, rappresentano la testimonianza viva dell’operazione funambolica di armonizzare “la regola” con la “spontaneità intuitiva”.

Per concludere, stare con i pensieri impensabili dei pazienti è un po’come un atto di fede che, per il suo fiducioso “ottimismo”, distingue la scelta vocazionale psicoanalitica dalle altre professioni. È un esercitarsi costante a stare in equilibrio con tutte quelle abilità che avanzano insieme in modo così paradossale e diverso a ogni nuovo incontro, conducendoci a preferire, come ricorda l’autrice, sempre l’autenticità, anche quando è scomoda e il suo esito imprevedibile, all’astuzia clinica.

I neonati sono in grado di apprendere regole astratte già da tre mesi

Secondo un recente studio della Northwestern University pubblicato su PLOS One, i bambini di tre mesi non riescono a sedersi e nemmeno a rotolare, ma sono già in grado di apprendere modelli semplicemente guardando il mondo che li circonda.

Lucia Marangia

 

Per la prima volta, i ricercatori mostrano che i bambini di 3 e 4 mesi possono rilevare con successo i modelli visivi e generalizzarli a nuove sequenze. La capacità di rilevare non solo gli oggetti e gli eventi, ma anche i rapporti tra loro, è la chiave per la sopravvivenza. Negli esseri umani questa capacità di identificare relazioni e schemi è molto sviluppata. Quando apprendiamo uno schema in un dominio, come il pattern di una serie di luci che si susseguono, siamo capaci di estrarlo, riconoscerlo e applicarlo a un altro dominio, come ad esempio un una serie di suoni o di stimoli tattili. Questa abilità, nota come apprendimento astratto delle regole”, contraddistingue il nostro stile percettivo e cognitivo.

A quale età iniziamo ad apprendere una regola?

Grazie a una ricerca precedente, possiamo affermare che i bambini di 4 mesi sono in grado di riconoscere regole astratte dai suoni del linguaggio parlato e da sequenze di toni. Tuttavia, basandoci sempre sui risultati di questi studi, sembra però che i bambini di pochi mesi non siano in grado di estrarre regole astratte a partire dai dati sensoriali provenienti dal dominio visivo.

Una nuova ricerca dei neuroscienziati del Weinberg College of Arts and Sciences della Northwestern ha apportato nuove evidenze rispetto a questo tema. Se si presentano gli stimoli ai bambini in un modo più appropriato per il loto sistema visivo, possono imparare visivamente le regole astratte.
I ricercatori hanno mostrato ai neonati 40 sequenze formate da tre immagini di razze di cani diverse. Per esempio, nel pattern “ABA” i bambini hanno visto un maremmano, un pastore tedesco e nuovamente un maremmano. I bambini hanno visto diverse sequenze ABA, e ogni volta con diversi tipi di cani. Successivamente i ricercatori hanno presentato ai neonati due nuove sequenze con nuovi tipi di cani che i bambini non avevano ancora visto. Gli elementi di ciascuna sequenza erano identici, solo lo schema in cui erano presentati differiva. Una sequenza seguiva lo stesso schema ABA (terrier, setter, terrier), l’altro uno schema differente AAB (terrier, terrier, setter).  Le significative differenze nei tempi di osservazione delle diverse sequenze evidenzia l’avvenuto apprendimento della regola da parte dei bambini.

I bambini sembrano stupirsi quando la regola che hanno appreso viene violata. Si aspettano che venga mostrato loro uno schema terrier, setter, terrier e rimangono spiazzati quando gli sperimentatori, cambiando lo schema appreso, presentano le immagini in modo diverso: terrier, terrier, setter. A differenza di tutti gli esperimenti precedenti, i bambini in questo studio potevano vedere tutte e tre le immagini contemporaneamente.

Apprendimento di regole: sistema uditivo vs sistema visivo

I ricercatori hanno concluso che il sistema uditivo astrae più efficacemente i pattern dalle sequenze che si sviluppano nel tempo (come l’ascolto del linguaggio o della musica), mentre il sistema visivo è più efficace nell’estrarre schemi da sequenze strutturate nello spazio. L’apprendimento uditivo è in grado di elaborare pattern come ABB o ABA solo ascoltandoli in una sequenza, mentre il sistema visivo ha bisogno di più tempo per contemplare tutte le informazioni contemporaneamente.
I risultati dello studio indicano che i bambini possono imparare tali regole astratte attraverso la visione fin dalla tenera età e che la capacità di base dell’apprendimento di regole astratte ha le sue origini nella primissima infanzia.

Settimana mondiale del cervello 2018: le iniziative a Bologna, dal 12 al 18 Marzo – Comunicato Stampa

Settimana del Cervello - logo

 

Settimana mondiale del cervello 2018: le iniziative a Bologna

Adesioni da 600 professionisti di 20 Regioni italiane. Centinaia di eventi e campagne per i cittadini

Dal 12 al 18 marzo 2018

 

Bologna, 7 Marzo 2018 – Dal 12 al 18 Marzo 2018 si tiene la “Settimana del Cervello” (“Brain Awareness Week”), campagna mondiale che diffonde le nuove scoperte neuroscientifiche al fine di arricchire il patrimonio di informazioni sui progressi e benefici della ricerca sul cervello.

Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, ogni anno nel mese di Marzo la campagna vede coinvolti, in numerosi Paesi, migliaia di professionisti del settore (psicologi, neuropsicologi, psicoterapeuti, medici, biologi, neuroscienziati) in una celebrazione del cervello creativa e innovativa rivolta ai cultori e ai cittadini di tutte le età.

La campagna in Italia (“Settimana del Cervello”, terza edizione, www.settimanadelcervello.it) è organizzata e coordinata da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation che, dal 2007, funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento.

Quest’anno in Emilia-Romagna sono previsti 53 eventi gratuiti ed aperti al pubblico. Per tutta la settimana a Bologna sarà possibile effettuare, dietro appuntamento, screening per Disturbi specifici dell’Apprendimento (DSA) con le dottoresse Nellia Arciuolo e Lisa Aragiusto e con le Dott.sse Ivana Mirra e Maria Vizzaccaro. Inoltre, un incontro informativo sui DSA sarà aperto a tutti, il giorno 12 Marzo alle ore 18.30, presso la Sala Comunale Livatino, Via Battindarno 127.

Per gli adulti sarà possibile, dal 12 al 16 marzo, effettuare una consulenza individuale gratuita per capire cosa succede al nostro cervello durante un attacco di panico e quali sono le modalità per superarli con la Dott.ssa Ornella Lastrina presso il Centro SalutePSy in Piazza dei Martiri 5/2.

Infine, la Dott.ssa Federica Campitiello e la Dott.ssa Ornella Lastrina condurranno un incontro di gruppo sulle emozioni per scoprire come identificarle e come gestirle, il 16 Marzo dalle ore 19.30 alle 21.00, per un massimo di 10 partecipanti, presso lo Studio SalutePsy in Piazza dei Martiri 5/2.

Il calendario locale completo è consultabile sul sito www.settimanadelcervello.it, dove è anche possibile iscriversi e trovare i contatti dei professionisti.

Settimana del Cervello anche online

La terza edizione della Settimana del Cervello si svolge anche online, attraverso una serie di post dal contenuto “più cervellotico che mai” che si possono seguire sulla pagina Facebook Settimana del Cervello. Le attività locali si possono invece seguire sulla pagina regionale Settimana del cervello – Emilia Romagna

Per saperne di più:

Patrocinio istituzionale:

  • ENPAP – Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Psicologi

Sponsor:

  • Istituto Santa Chiara srl
  • Cristalfarma

Patrocini gratuiti:

  • Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi
  • Università La Sapienza – Dipartimento di Psicologia
  • Comune di Bologna
  • State of Mind

Contatti:

Emilia Romagna

  • Psicologa Ornella Lastrina. Referente regionale. Tel: 327 5456022; email: [email protected]
  • Psicologa Nellia Arciuolo. Referente regionale. Tel: 320 7618944; email: [email protected]

Settimana del Cervello nazionale

  • Donatella Ruggeri, Psicologa OPRS, Founder @Hafricah.NET. Tel: 090 95 75 428; cel:  366 89 33 240; email: [email protected]
  • Elisabetta Grippa, Psicologa OPL, Content-manager @Hafricah.NET. Cel:  329 42 27 416; email: [email protected]

 

SETTIMANA DEL CERVELLO A BOLOGNA – IL PROGRAMMA:

Settimana del cervello 2018 le iniziative a Bologna, dal 12 al 18 Marzo

 

cancel