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AlterEgo: un nuovo strumento per riuscire a comunicare senza parlare

Alcuni ricercatori del Massachussetts Istitute of Technology (MIT) hanno sviluppato un sistema, chiamato AlterEgo, in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto di chi lo indossa per rispondere a domande che non sono state esposte esplicitamente tramite verbalizzazione.

 

Pensa silenziosamente ad una domanda e io ti risponderò.
Questo potrebbe sembrare un trucco magico, in realtà è ciò che promette di fare AlterEgo, un dispositivo in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto per rispondere a domande che sono rimaste silenziose e inespresse nella mente di chi lo indossa. Attenzione, non legge la mente, ma il principio è molto simile.

AlterEgo: come funziona

Kapur e Maes (2018) hanno sviluppato un device computerizzato in grado di “leggere” e poi esprimere ciò che il soggetto verbalizza nella propria mente, senza però che sia espresso a parole. Il sistema, chiamato AlterEgo, è costituito da un apparecchio indossabile che si estende dall’orecchio alla bocca, appoggiato all’osso della mandibola, ed è associato ad un programma computerizzato.

In particolare, l’apparecchio contiene una serie di elettrodi in grado di rilevare i segnali neuromuscolari della mandibola e del volto determinati dalle verbalizzazioni interne che si verificano quando il soggetto pensa a ciò che sta per esternare. Questi segnali neuromuscolari, invisibili all’occhio umano, una volta rilevati vengono trasmessi ad un sistema di machine-learning che è stato progettato per associare specifici segnali a specifiche parole.

AlterEgo inoltre include un paio di cuffiette che trasmettono vibrazioni all’orecchio interno tramite la mandibola: dal momento che tali cuffiette non ostruiscono il canale auricolare, consentono al sistema di trasmettere informazioni a chi lo indossa senza che quest’ultimo sia distratto dalla “conversazione interna” o senza che esse interferiscano con l’esperienza uditiva di chi lo indossa. Il device è così parte di un più generale sistema computazionale che, in aggiunta, permette all’individuo di porre domande non verbalizzate e ricevere, dal computer, risposte silenziose anche a problemi computazionali complessi come è stato osservato in soggetti che utilizzavano AlterEgo durante una partita di scacchi.

[blockquote style=”1″]Lo scopo di tutto è stato quello di costruire un device di accresciuta intelligenza per rispondere ad una nostra domanda: è possibile creare una piattaforma computerizzata che sia più interna, che fonda la macchina artificiale con l’essere umano in una qualche maniera così da ottenere un’estensione della nostra cognizione?[/blockquote]

(Arnav Kapur, laureato al Media Lab del MIT, uno degli sviluppatori del sistema)

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Perchè nasce AlterEgo: quali possono essere gli utilizzi possibili

Fondamentalmente non siamo più in grado di vivere senza i nostri cellulari o i nostri apparecchi digitali, tuttavia, al momento, l’utilizzo di questi apparecchi non garantisce il massimo grado di efficienza.

Durante una discussione, per trovare argomenti rilevanti alla conversazione, è necessario prendere il cellulare, immettere la password se necessario, aprire un’applicazione o immettere una keyword per tentare di trovare l’informazione che si sta cercando, il tutto però interrompendo la conversazione con l’altro e costringendo la persona a focalizzare la sua attenzione sull’apparecchio e non più sull’interlocutore.

AlterEgo, secondo i suoi sviluppatori, nasce con l’intento di fornire alle persone un nuovo tipo di esperienza che consenta loro di beneficiare e di accedere in tempo reale, sul momento, alle informazioni migliori da utilizzare in una conversazione tramite un sistema veloce ed intelligente.

L’idea che le verbalizzazioni interne avessero correlati fisici risale agli anni 50 del Novecento, mai fino ad ora era però stata esplorata l’idea di decodificare le verbalizzazioni interne o “subvocalizzazioni” tramite un computer e un algoritmo.

Il primo passaggio è stato quello di determinare quale punti del volto costituissero una fonte dei segnali neuromuscolari più rilevanti, trovando che quattro specifici elettrodi su sedici, appoggiati alla mandibola, fossero in grado di distinguere parole subvocalizzate. Una volta selezionati gli elettrodi sulle porzioni salienti del volto, i ricercatori hanno iniziato a raccogliere dati tramite pochi task computazionali con un vocabolario piuttosto limitato, circa 20 parole (Kapur, Kapur & Maes, 2018). Ad ogni singolo task, i ricercatori del MIT hanno poi associato correlati neurali per trovare correlazioni tra particolari segnali neuromuscolari e specifiche parole.

Ricerche future dovranno raccogliere dati e creare delle applicazioni con un vocabolario molto più ampio e ricercato che possa consentire un giorni di compiere una completa conversazione.

I benefici dei sistemi come AlterEgo

Innanzitutto device simili ad AlterEgo potrebbero consentire di comunicare senza che vi sia il bisogno di verbalizzare e pertanto, secondo gli sviluppatori, permetterebbero di trasmettere informazioni in situazioni e in ambienti con un massiccio inquinamento acustico come ad esempio una cabina di pilotaggio di una portaerei o in fabbriche in cui i lavoratori per protezione indossano già delle protezioni per le orecchie. Un altro loro uso potrebbe riguardare i pazienti che sono stati sottoposti a interventi chirurgici invasivi che hanno compromesso la loro capacità di vocalizzare o comunicare normalmente a causa ad esempio di tumori ossei alla mandibola.

Mariah Carey, meglio un coming out che un pass away

Mariah Carey ha ammesso alla rivista People di soffrire da molti anni di disturbo bipolare II (la forma più attenuata, quella con episodi ipomaniacali invece che maniacali).

 

Quando mi chiedono che musica mi piace di solito rispondo in modo abbastanza riduzionistico “i cantautori italiani” con riferimenti ai grandi classici della musica d’autore (Guccini, De Andrè, Gaber, Capossela, etc.) o talvolta mi spingo a citare anche Dylan e qualche collega anglofono. In realtà il mio cuore musicale ospita anche singole canzoni che con quel mondo lì non c’entrano proprio niente e tra questi alcuni brani di Laura Pausini (anche questo per certi aspetti è un coming out…) e la canzone When you believe, interpretata magistralmente dalla buonanima di Whitney Huston e da Mariah Carey. La buonanima di Whitney Houston rientra purtroppo in quella lunga e macabra lista di artisti morti degli ultimi anni, che hanno perduto la propria battaglia personale con gravi disturbi psichiatrici o con qualche forma di dipendenza (non solo le classiche droghe, ma anche antidolorifici oppiacei, il cui abuso è diventato recentemente endemico negli Stati Uniti). Di questa sorta di “second wave” di decessi, che ormai compete con il famigerato “club dei 27” e con i martiri del rock di fine anni 60, fanno parte anche Prince, Dolores O’Riordan, Chris Cornell e Chester Bennington.

Di fronte a questa terribile lista di perdite di grandissimi artisti, il coming out di Mariah Carey che ha ammesso alla rivista People di soffrire da molti anni di disturbo bipolare II (la forma più attenuata, quella con gli episodi ipomaniacali invece che maniacali) paradossalmente risuona quasi come una buona notizia. La condivisione pubblica della propria condizione, sicuramente ben ponderata dopo anni di riflessioni, assume un grande significato e denota sicuramente una buona dose di consapevolezza e di capacità di tolleranza della vergogna e del giudizio altrui.

Recentemente ho avuto l’occasione di prendere parte a un corso di psicoeducazione sul disturbo bipolare (Colom e Vieta, 2016), una terapia di gruppo molto strutturata (purtroppo in Italia ancora poco diffusa) che ha la finalità di aiutare il paziente a riconoscere precocemente i sintomi prodromici delle ricadute e di gestire al meglio il disturbo. In uno dei primi incontri c’è proprio un piccolo spazio dedicato a citare bipolari “famosi”, con il messaggio che la malattia non deve essere per forza un limite. In questo senso il coraggioso racconto di Mariah Carey, una delle cantanti più note al mondo con duecento milioni di dischi venduti, rappresenta sicuramente un’iniezione di speranza per le persone affette da questo disturbo. La cantante ha raccontato di soffrire di disturbo bipolare da 17 anni e fa alcuni riferimenti alla sintomatologia degli episodi ipomaniacali come l’insonnia, l’irritabilità e l’iperattività (“Per molto tempo pensavo di avere un grave disturbo del sonno. Ma non era normale insonnia e non stavo sveglia a contare le pecore. Lavoravo, lavoravo e lavoravo… Ero irritabile”). Racconta di come la malattia l’abbia fatta sentire isolata per anni, come ulteriore conferma che il problema dello stigma delle malattie psichiatriche sia ancora una triste realtà anche in paesi apparentemente avanzati come gli Stati Uniti.

Uno dei passaggi sicuramente più pregnanti dell’intervista è quando la cantante dice “Ma mi rifiuto di lasciarmi definire o controllare dalla malattia”, una frase che probabilmente è una delle conquiste di un percorso psicoterapico personale. Speriamo che altri artisti seguano l’esempio di Mariah Carey. Ma soprattutto, lunga vita a Mariah!

Parla, mia paura (2017) – Recensione del libro di Simona Vinci su attacchi di panico e depressione

Cosa sono gli attacchi di panico? Cos’è la depressione? Il racconto autobiografico di Simona Vinci ci parla del suo percorso di lotta e cambiamento.

 

In “Parla, mia paura” Simona Vinci rende accessibile a tutti un tema difficile da trattare, esponendo le proprie difficoltà attraverso un racconto in prima persona; offre molteplici occasioni di rispecchiamento per chi ha sperimentato o si trova a sperimentare attacchi di panico e stati depressivi.

Ci parla di un fenomeno sempre più in espansione, qualcosa che va oltre i momenti di tristezza, paura, spaesamento, che vanno e vengono. Secondo le stime dell’organizzazione mondiale della sanità, il 4,4% della popolazione mondiale soffre di depressione e il 3,6% di disturbi d’ansia (la “grande famiglia” di cui fa parte anche l’attacco di panico), con una maggiore incidenza sulle donne rispetto agli uomini. In Italia soffrirebbero di ansia e depressione circa 7 milioni di persone (nello specifico: il 5% della popolazione soffrirebbe di disturbi d’ansia e il 5,1% di depressione). In pratica ogni 10 persone incontrate almeno una soffre di ansia e depressione, ma nonostante ciò difficilmente ce ne parlerà.

Simona Vinci, nel ripercorrere gli anni della sua vita, ricorda come inizialmente non abbia parlato con nessuno dell’esperienza sconvolgente che stava vivendo con gli attacchi di panico:

[blockquote style=”1″]l’impressione di cadere, di precipitare in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di morire[/blockquote]

Nel momento in cui prese la decisione di chiedere aiuto lo fece con un senso di vergogna, preoccupata che altri lo potessero scoprire. Prima come donna e poi anche come madre, narra di come la sua crescita personale si sia intrecciata con momenti faticosi e dolorosi. Lo fa attraverso una modalità che non risulta autoreferenziale, ma piuttosto di ricerca, includendo il lettore; c’è spazio per la sua storia ma anche per quella di tanti altri che si stanno chiedendo cosa significa soffrire d’ansia e di depressione. Forse, nel tentativo di offrire un senso di vicinanza e di comprensione tipico del automutuoaiuto, l’autrice ci tiene a rimarcare la soggettività che caratterizza le diverse modalità in cui si può vivere questa forma di disagio. Simona Vinci è capace di mettere da parte ogni pregiudizio, anche quello più diffuso nei confronti di chi si affida anche a cure psicofarmacologiche.

Descrive così un cambiamento che passa attraverso la richiesta di aiuto e lo sviluppo di una maggiore consapevolezza rispetto alla propria condizione e alle proprie possibilità. Con grande autenticità non disconosce il ruolo personale nel costruirsi barriere e ostacoli immaginati, ma individua nella narrazione di sè una chiave fondamentale per poter aprire la porta della propria gabbia. Una narrazione che non avviene in solitaria ma che prevede, come in psicoterapia, un interlocutore capace di attivare un ascolto profondo di quel racconto.

L’autrice dedica un intero capitolo, “La stanza dell’analista”, al racconto delle preziose scoperte che avvengono grazie al percorso terapeutico che faticosamente decide di intraprendere, un periodo di trasformazione che riconduce al rapporto con le proprie paure.

Disturbi del comportamento dirompente: tratti calloso-anemozionali e basi neurali

I Disturbi del Comportamento Dirompente, le cui più note espressioni si ritrovano nel Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC), sono patologie con sviluppo precoce che possono evolversi in più gravi disordini comportamentali appartenenti alla sfera della personalità antisociale.

 

Nello studio dei Disturbi del Comportamento Dirompente sono state considerate diverse variabili che vanno da fattori biologici a quelli più prettamente psicosociali e sono state proposte osservazioni psicologiche e neuroscientifiche in grado di descrivere in parte i meccanismi all’origine delle difficoltà comportamentali riscontrate durante lo sviluppo.

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC) possono trovarsi in associazione, dal momento che è stato osservata, in modo significativo, la presenza di comportamenti oppositivo-provocatori in giovani che hanno successivamente sviluppato problemi di condotta, tuttavia non ci sono consensi unanime a conferma del fatto che un Disturbo Oppositivo Provocatorio presente durante l’infanzia avrà necessariamente un’evoluzione in un Disturbo della Condotta.

La classificazione del Disturbo Oppositivo Provocatorio

Diversi autori hanno avanzato proposte di classificazione del Disturbo Oppositivo Provocatorio sulla base di aspetti temperamentali e comportamentali che variano da soggetto a soggetto e che possono successivamente presentare manifestazioni problematiche nella condotta. Burke e colleghi (2010) hanno suddiviso il disturbo in due tipologie: il DOP negative affect con facilità ad impermalosirsi, arrabbiarsi e ad essere dispettoso, spesso associato a psicopatologia depressiva, e il DOP opposition con tendenza alla perdita di calma, alla sfida e alla discussione e primariamente associato a problemi di condotta.

Similmente Stringaris e Goodman (2009) hanno proposto tre sottogruppi. Il primo, il DOP irritable, si caratterizza per essere facilmente infastidito, arrabbiato e risentito, e le manifestazioni comportamentali riguardano principalmente scoppi d’ira frequenti; il DOP headstrong, testardo, vìola le regole, discute con gli adulti, infastidisce intenzionalmente gli altri dando spesso loro la colpa delle proprie azioni; infine, il DOP hurtful rivela connotati aggressivi e di insensibilità. É chiaro che tali suddivisioni abbiano carattere per lo più descrittivo, in quanto è possibile che diverse manifestazioni temperamentali e comportamentali si sovrappongano l’una con l’altra creando patterns specifici per ciascun soggetto; ciononostante considerare tali aspetti in modo distinto potrebbe aiutare a comprendere più nel dettaglio il disturbo in tutte le sue varianti psicopatologiche e proporre interventi appositi.

I Disturbi del Comportamento Dirompente e i tratti calloso-anemozionali

Un altro fattore preso in considerazione nello studio dei Disturbi del Comportamento Dirompente riguarda i tratti calloso-anemozionali (callous-unemotional, CU), da sempre considerati elementi cruciali nella psicopatia (Frick, 2008) e caratteristici di quei soggetti, bambini e adolescenti, che mostrano mancanza di senso di colpa, mancanza di empatia e superficialità emotiva, e che possono ritenersi un sottogruppo specifico di Disturbi del Comportamento Dirompente con rischio aumentato di evoluzione in personalità antisociale.

I tratti calloso-anemozionali sono stati presi in esame per comprendere i motivi alla base della disregolazione emotiva che si ritrova in alcuni soggetti con problemi di condotta mentre in altri no, e il ruolo che riveste l’aggressività in tali manifestazioni emotive. L’insensibilità ai vissuti degli altri, l’assenza di senso di colpa e quindi la tendenza alla manipolazione che si ritrova nei soggetti con tratti calloso-anemozionali, conducono all’idea che l’aggressività sia strumentale al raggiungimento dei propri scopi (aggressività proattiva) e dunque è raro assistere a disregolazioni emotive eccessive. Viceversa, individui con problemi nella sfera della condotta che non presentano tratti calloso-anemozionali, mostrano un’aggressività di tipo reattivo che si palesa a seguito di situazioni sociali attivanti (provocazioni, umiliazioni ecc.) ed è stata associata a contesti ambientali sfavorevoli ed a inefficienza nelle cure parentali (Wootton, 1997). La difficoltà nella regolazione emotiva potrebbe trovare origine in una forte suscettibilità a situazioni sociali emotivamente attivanti che si traduce in agiti impulsivi a seguito dei quali il bambino/adolescente, senza tratti calloso-anemozionali, potrebbe provare pentimento.

Disturbi del Comportamento Dirompente: esiste una causa biologica?

Da un punto di vista neuroscientifico, sono stati condotti molti studi che hanno suffragato l’ipotesi di una causa biologica alla base dell’insorgenza del Disturbo Oppositivo Provocatorio e del Disturbo della Condotta.

Sappiamo che il bambino, affinché sviluppi capacità sociali che gli permettano di far parte di un gruppo, deve accrescere la sensibilità agli stimoli-ricompensa che lo spingano a mettere in pratica con maggiore probabilità comportamenti ritenuti socialmente adeguati e, allo stesso tempo, ha la necessità di imparare ad astenersi da comportamenti inappropriati attraverso un’adeguata elaborazione delle conseguenze che certi tipi di comportamento avranno su di sé e sugli altri.

Disturbi del Comportamento Dirompente e sensation seeking

Recenti ricerche forniscono dati a sostegno di una ridotta sensibilità alla ricompensa in soggetti con Disturbi del Comportamento Dirompente (DOP o DC) e ciò potrebbe spiegare il perché tali soggetti ricerchino costantemente sensazioni forti (sensation seeking) attraverso la trasgressione di regole e, in generale, attraverso comportamenti socialmente inadeguati: le normali attività fonte di piacere in soggetti sani (come la condivisione, il gioco ecc.) non produrrebbero il medesimo effetto piacevole rendendo dunque necessaria la ricerca di sensazioni di grado più intenso. La difficoltà nell’elaborazione della ricompensa e il fenomeno di sensation seeking potrebbero trovare origine dalla riduzione dell’attività della corteccia orbitofrontale che è stata riscontrata in soggetti con Disturbo della Condotta, dal momento che questa area è deputata all’elaborazione degli stimoli associati a ricompensa e una sua disfunzione potrebbe favorire la propensione alla frustrazione e conseguenti agiti aggressivi (Blair, 2004).

È stata inoltre osservata una ipoattivazione del sistema autonomo che interessa la frequenza cardiaca a riposo, la quale associata a disfunzioni dei circuiti della ricompensa fornirebbe spiegazioni aggiuntive circa la difficoltà da parte di soggetti con Disturbo della Condotta ad esperire sensazioni piacevoli per attività che soggetti sani giudicano piacevoli e avere quindi una tendenza a comportamenti delinquenziali (fino a vera e propria antisocialità) per far fronte a sensazioni di noia.

L’ emozione di paura

Anche l’inibizione di comportamenti ritenuti socialmente inopportuni riguarda aree cerebrali specifiche, la cui attività è risultata deficitaria in soggetti con Disturbo della Condotta. Un bambino, affinché comprenda l’impatto di alcuni comportamenti verso se stesso e verso gli altri, e quindi impari a valutare in maniera appropriata stimoli negativi, ha bisogno di sviluppare la capacità di prevedere le ripercussioni sfavorevoli a seguito di determinati comportamenti e ciò può essere agevolato da una certa sensibilità all’emozione di paura. L’emozione di paura, come le altre emozioni di base, possiede una forte funzione informativa circa l’ambiente esterno (gli altri, il mondo) e interno (vissuti personali, stati mentali) e come tale può influenzare il modo in cui ci comportiamo e rapportiamo con i nostri simili. Una buona elaborazione della paura è estremamente importante al fine dell’adattamento, in quanto ci preserva da agiti e situazioni che potrebbero minare la nostra sicurezza, sia fisica (pericoli ambientali/situazionali) che psichica (allontanamento/esclusione sociale), rivestendo dunque un ruolo vitale per la sopravvivenza.

A livello neurobiologico, a spiegazione della mancata acquisizione di consapevolezza dei propri agiti socialmente negativi, è stata osservata una riduzione di sostanza grigia nell’amigdala (principale aree di elaborazione della paura) in adolescenti con problemi di condotta con e senza psicopatia, molti dei quali mostravano comorbilità con il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). L’insensibilità all’emozione di paura è causa di aumentato rischio di problemi nella socializzazione, poiché non cogliendo i segnali informativi che fornisce tale emozione, sarà difficile per il bambino o adolescente inibire comportamenti pericolosi. La ridotta capacità di cogliere segnali interni (“questo comportamento è rischioso, potrei farmi male”) ed esterni (“capisco che quel bambino ha paura a causa di un mio comportamento, rischio di essere escluso”) o ancora l’incapacità di prevedere esiti negativi futuri (“questo comportamento potrebbe provocare conseguenza negative per me stesso, meglio non metterlo in atto”), aumenta il rischio di sviluppare gravi problemi di socializzazione che potrebbero incrementare la sensazione di esclusione e una riprovevole immagine di sé (“sono cattivo, nessuno vuole stare con me”).

Il ruolo delle funzioni esecutive nei Disturbi del Comportamento Dirompente

Sempre da un punto di vista neuroscientifico, l’inibizione di comportamenti socialmente inopportuni a favore di comportamenti pro-sociali, necessita di un controllo cognitivo che viene attuato attraverso le funzioni esecutive. Le funzioni esecutive sono quei processi mentali quali attenzione, pianificazione, memoria di lavoro, inibizione di risposte inappropriate, flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti ambientali, decison making, il cui compito principale è quello di ottimizzare le risorse mentali ed il comportamento in un ambiente in continuo mutamento.

La porzione cerebrale sede delle funzioni esecutive è la corteccia prefrontale, sebbene esistano moltitudini di interconnessioni neuronali tra aree frontali ed aree sottocorticali coinvolte anch’esse nel controllo inibitorio, decision making e attenzione, oltre che nel circuito della ricompensa. In soggetti con Disturbi del Comportamento Dirompente, in particolare con Disturbo della Condotta è stata trovata una riduzione di sostanza grigia nelle aree prefrontali; in aggiunta, una ipoattivazione nei lobi frontali è stata ripetutamente associata a violenza, nello specifico è stato riscontrato che un danno alla corteccia orbitofrontale porta ad aggressività impulsiva (Brower, 2001).

Disturbi del Comportamento Dirompente: l’importanza dell’ambiente

Come in molti disturbi psicopatologici, i Disturbi del Comportamento Dirompente presentano cause multifattoriali ancora non del tutto chiare e spiegabili. La neurobiologia fornisce una chiave di lettura importante nella comprensione di queste manifestazioni comportamentali invalidanti da un punto di vista sociale e psichico, le quali possono avere una prognosi favorevole se individuate per tempo e trattate con terapie mirate.

Ad esempio, molti studi hanno ipotizzato un ruolo cruciale dell’ambiente nel plasmare i tratti calloso-anemozionali, presupponendo che insensibilità e mancanza di empatia, in associazione ad agiti aggressivi, siano il prodotto di una storia evolutiva caratterizzata da abuso o rifiuto da parte delle figure genitoriali, incapaci di accudire la prole o apertamente maltrattanti. Crescere in un ambiente privo di vicinanza e intimità, rende difficile lo sviluppo di capacità empatiche e abilità sociali; deficit d’empatia in aggiunta a fattori di vulnerabilità biologica vanno così a facilitare l’insorgenza di gravi disturbi comportamentali, i quali a loro volta condurranno il soggetto a una progressiva esclusione sociale, incrementando il rischio di un’evoluzione antisociale.

Un’intervento tempestivo che aiuti l’individuo ad incrementare l’empatia, sostenendolo nello sviluppo di una Teoria della Mente e nell’accrescimento delle abilità sociali, intervenendo inoltre sul contesto e sulle dinamiche familiari, è un passo fondamentale affinché la prognosi risulti favorevole e il bambino/adolescente tragga benefici a livello psicologico e sociale.

Bambini piccoli e attesa: a che età imparano?

Oltre 40 anni dopo il Marshmallow Test, un team di ricercatori polacchi ha compiuto uno studio, che ha testato la capacità di gratificazione differita in bambini piccoli mostrando che le differenze individuali nell’autoregolazione comportamentale sono evidenti già a 18 mesi. 

Il Test dei Marshmallow è uno degli esperimenti classici della psicologia del comportamento. Ideato da Walter Mischel, intendeva testare l’abilità di ritardare la gratificazione immediata -per ottenerne una maggiore in seguito- dei bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni; in questo modo è stato introdotto il concetto di gratificazione differita.

L’autrice dello studio Marta Bialecka-Pikul e il suo gruppo di ricerca hanno reclutato 130 piccoli partecipanti di 18 mesi e i loro genitori per replicare l’esperimento di Mischel. I ricercatori hanno seguito la procedura sperimentale originale: un dolcetto era posto su un tavolo di fronte al bambino che, vista la tenera età, sedeva in grembo al genitore a cui era chiesto espressamente di non intervenire in alcun modo; dopo ciò lo sperimentatore abbandonava la stanza per farvi ritorno dopo 60 secondi. La ricerca è stata ripetuta una seconda volta, quando i bambini avevano 24 mesi, aumentando il tempo di attesa a 90 secondi.

Da bambini la resistenza alle tentazioni aumenta con l’età?

I risultati mostrano come a 18 mesi il 23% del campione resisteva alla tentazione mentre invece a 24 mesi la percentuale saliva al 55%. Dalle analisi appare una traiettoria di sviluppo molto chiara: la maggior parte dei bambini che avevano ceduto alla tentazione nella prima fase riuscivano nell’impresa a 24 mesi mostrando di aver acquisito un maggior autocontrollo con l’avanzare del tempo. La tendenza a “retrocedere” invece era rara: solo l’8% infatti di coloro che avevano svolto la prova con successo a 18 mesi fallivano nel re-test.

Un elemento interessante emerge dalla codifica dei video: sono stati rilevati infatti 20 diversi tipi di comportamenti manifestati durante l’attesa tra i quali: osservare il dolce, manipolarlo, parlare del piacere che si proverebbe nel mangiarlo, distrarsi, toccare il proprio corpo o quello del genitore. Gli autori hanno raggruppato questi comportamenti formando 4 categorie principali:

  • attenzionale e basata sul movimento
  • comunicativa
  • focalizzata sulla ricompensa
  • non specificata (agitarsi e fare rumori).

Tra tutte, la prima categoria era fortemente correlata al successo nel compito in entrambe le fasi sperimentali come hanno affermato gli stessi ricercatori:

[blockquote style=”1″]Guardarsi attorno, focalizzare l’attenzione su altri oggetti o toccare sé stessi si è rivelato essere l’insieme di comportamenti che hanno aiutato maggiormente i bambini durante l’attesa [/blockquote]

Le evidenze emerse suggeriscono che già a 18 mesi i bambini affrontano attivamente il compito, non risultando partecipanti passivi alla procedura ma anzi applicando diversi comportamenti con vari gradi di efficacia. Quello che si è osservato solo nella fase dei 24 mesi è che i piccoli partecipanti mostravano meno attenzione alla ricompensa, attuando gli altri tipi di comportamento ed in particolar modo lo spostamento dell’attenzione.

Gli autori hanno concluso affermando che l’abilità di gratificazione differita nei bambini piccoli è in gran parte dovuta a un insieme di comportamenti attenzionali che vengono utilizzati come strategie di autoregolamentazione, le quali si svilupperebbero proprio durante il secondo anno di vita.

Correlazioni fra quantità e qualità del sonno e performance scolastiche nell’adolescenza

Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano: le ore di sonno diminuiscono ma il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. Questi cambiamenti si ripercuotono sul rendimento scolastico: la diminuzione delle ore di sonno e riposo è correlata a scadenti performance scolastiche.

 

Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano. Questo è dovuto ad una variazione dei meccanismi neurofisiologici, che regolano il sonno e il ritmo circardiano. Solitamente gli adolescenti vanno più tardi a letto, cambiando le abitudini che avevano nella fanciullezza. In ragione di ciò le ore di sonno diminuiscono con il progredire dell’età, anche se il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. I cambiamenti relativi alla quantità e alla qualità del sonno si ripercuotono sul rendimento scolastico. In pratica, una diminuzione delle ore di sonno e del tempo dedicato al riposo è correlata a delle performance scolastiche scadenti.

Keywords: adolescenza, quantità e qualità del sonno, performance scolastiche.

Sonno: cosa cambia negli adolescenti

Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano. Questo è dovuto ad una variazione dei meccanismi neurofisiologici, che regolano il sonno e il ritmo circardiano (Galvan e al., 2012). Solitamente gli adolescenti vanno più tardi a letto, cambiando le abitudini che avevano nella fanciullezza. In ragione di ciò le ore di sonno diminuiscono con il progredire dell’età, anche se il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. Molti adolescenti riferiscono in ricerche condotte a tale scopo (Spilsbury e al., 2015) che la quantità delle loro ore di sonno non è sufficiente per dare loro la sensazione di aver riposato bene.

L’ adolescenza, inoltre, corrisponde al periodo in cui si comincia la scuola secondaria di secondo grado e questo induce dei cambiamenti di vita che incidono sulle ore di riposo. In pratica, gli adolescenti frequentano degli istituti scolastici che sovente sono ubicati ad una distanza maggiore dalla loro abitazione rispetto alla scuola secondaria di primo grado dei precedenti anni scolastici, per cui per raggiungere la nuova scuola devono alzarsi prima al mattino. Parrallelamente aumenta anche l’impegno e il tempo dedicato ai compiti a casa e ciò sottrae tempo allo spazio riservato all’eventuale riposo pomeridiano.

In aggiunta, gli adolescenti spendono parte del loro tempo ad utilizzare gli strumenti elettronici, in particolare lo smarthphone. Recenti ricerche hanno dimostrato una correlazione significativa fra uso eccessivo dello smarthphone e peggioramento della qualità del sonno (Hysing e al., 2015), con relativi riverberi negativi sulle abituali attività quotidiane.

Qualità del sonno e rendimento scolastico

Per questo motivo, molti ragazzi vivono una condizione di deprivazione del sonno nel corso della settimana, come molti studi hanno messo in evidenza (Boschloo e al., 2013; Sivertsen e al., 2014). Tali variazioni relative alla quantità e alla qualità del sonno si ripercuotono sul rendimento scolastico. Innumerevoli ricerche hanno evidenziato che una diminuzione delle ore di sonno e del tempo dedicato al riposo è correlata a delle performance scolastiche scadenti (Dewald e al., 2010; Perkinson – Gloor e al., 2013).

Nello specifico, gli effetti della mancanza di sonno inficiano le abilità neuropsicologiche degli adolescenti (Jones e harrison, 2001), la loro capacità di autoregolazione (Turnbull e al, 2013) e di autocontrollo (Digdon e Howell, 2008).

In conclusione, si può affermare che esiste una correlazione diretta nel periodo adolescenziale fra quantità e qualità del sonno e performance scolastiche (Nije Bijvank e al., 2017).

La nascita del costrutto della co-ruminazione

La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale, dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici, sintomi esternalizzati, abuso alcolico nelle studentesse universitarie, accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo. 

Mara Di Paolo, Open school Studi cognitivi di Bolzano

 

Il costrutto della co-ruminazione

Il costrutto di co-ruminazione è nato nel 2002 nell’ambito della psicologia scolastica americana, ad opera della dottoressa Amanda J. Rose, per spiegare le differenze di genere negli adolescenti e nei giovani adulti rispetto ai risultati discordanti ottenuti in due filoni di ricerca, uno basato sull’amicizia e l’altro sul coping e il funzionamento emozionale.

Le ricerche sull’amicizia riscontravano, nella condivisione di vissuti emotivi e cognitivi, un processo in grado di favorire forti legami amicali (Camarena, Sargiani, Peterson, 1990, Wei, Russell e Zakalik, 2005), favorenti l’aiuto reciproco e la risoluzione positiva dei conflitti (Asher, Parker eWalker,1996, Greene 2009; Parker e Asher 1993). Al contrario gli studi sul coping e sul funzionamento emozionale mostravano come la ruminazione, ovvero il processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero astratto, ripetitivo e centrato su sensazioni e pensieri negativi fosse la causa di problemi emozionali, sia negli adulti ( Nolen- Hoeksema Morrow e Fredrickson, 1993; Nolen-Hoeksema, Parker e Larson, 1994; Nolen-HOeksema, Wisco e Lyubomirsky, 2008) che negli adolescenti (Hart e Thompson, 1997; Schwartz e Koening, 1996) e bambini (Broderick, 1998).

Questi dati erano confermati da ulteriori ricerche di genere che riscontravano nelle giovani donne e nelle adolescenti femmine, maggiori livelli di ansia e depressione nonostante nel genere femminile prevalessero maggiormente forti rapporti amicali diadici, caratterizzati da più alti livelli di self disclousure (Bhurmester e Furman, 1987; Camerena et.al 1990; Dindia e Allen 1992; Parker e Asher, 1993) rispetto ai giovani maschi che mostravano rapporti amicali basati esclusivamente sulla condivisione di interessi sportivi e una ridotta tendenza a discutere di problemi personali.

Il costrutto di co-ruminazione pertanto, nasceva per spiegare queste differenze di genere negli adolescenti e nei giovani adulti (Rose, 2002), indicando con tale termine quel processo interpersonale consistente in una discussione ossessiva e passiva dei propri problemi personali con un amico fidato (Balsamo, Saggino, et.al 2016). I co-ruminatori condividono frequentemente e ripetutamente con amici intimi, lo stesso o gli stessi problemi personali, speculando sui problemi in termini di cause e potenziali conseguenze e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano.

Gli effetti della co-ruminazione e l’analisi fattoriale del costrutto

La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale ( Calmes, Robertes 2008; et. al), dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici (Balsamo et. Al 2015), sintomi esternalizzati ( Tompkins; Hockett, et. Al 2011), abuso alcolico nelle studentesse universitarie (Ciesla et al. 2011), accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo (Byrd-Craven et.al 2008). Tuttavia, in letteratura diverse ricerche internazionali e nazionali si sono impegnate a considerare la portata di ciascuna caratteristica della co-ruminazione, suggerendo la possibilità dell’esistenza di componenti adattive e maladattive; sembra, infatti, che soprattutto il focalizzarsi sulle emozioni negative, induca un aumento di cortisolo (Byrd-Craven et al., 2008; 2011).

La dottoressa Rose, ha redatto il questionario Co-Rumination Questionnaire (CRQ; Rose, 2002), che comprende 9 aree di contenuto:
1. frequenza di discussione dei problemi;
2. discussione di problemi invece di impegni in altre attività;
3. incoraggiamento a discutere dei problemi dell’amico;
4. incoraggiamento dell’amico a discutere dei propri problemi;
5. discussione ripetitiva dello stesso problema;
6. speculazione sulle cause dei problemi;
7. speculazione sulle conseguenze dei problemi;
8. speculazione su aspetti incompresi del problema;
9. focalizzazione su sentimenti negativi.

La dottoressa Rose, in base a un’analisi fattoriale esplorativa in un campione di studenti universitari, ha concluso che la scala è rappresentata meglio da un fattore piuttosto che dai diversi fattori che identificano le 9 aree di contenuto (Rose, 2002).

Invece nel 2014 Davidson e colleghi con una ricerca su un ampio campione di studenti universitari americani, hanno concluso che risulta adeguata una struttura fattoriale gerarchica triadica di primo ordine, costituita da: rehashing (discussione dettagliata di un problema), mulling (desiderio di discutere continuamente di problemi), encouraging problem talk (la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività), le cui associazioni sono spiegate dal costrutto di secondo ordine della co-ruminazione. In particolare nello studio sopra descritto si sono riscontrate le correlazioni tra il fenomeno di rehashing e sintomi depressivi, l’encouraging problem talk e la distrazione per controllare pensieri sgradevoli. Inoltre, sia il rehashing che il mulling, sono significativamente associati alla ruminazione e alla mancanza di fiducia in se stessi (self-confidence). Tutti e tre i fattori sono associati a livelli alti di worry o rimuginio (Davidson et al., 2014).

Anche in Italia un gruppo di studio Balsamo, Saggino et al. nel 2015 ha esaminato in un campione italiano non clinico, la struttura fattoriale, l’invarianza fattoriale e la validità della versione italiana del CRQ, confermandone la struttura fattoriale, così com’è stata proposta nello studio americano di Davidson et al. (2014). Lo studio suggerisce sia la possibilità di impiegare lo strumento anche nella popolazione italiana, che l’importanza di esaminare specifiche componenti della co-ruminazione.

Concludendo, future ricerche saranno necessarie per replicare la struttura fattoriale in popolazioni diverse (bambini, adolescenti, anziani), per approfondire la comprensione sullo sviluppo della co-ruminazione e per interpretare le risposte al CRQ. Sarebbe altresì interessante indagare gli effetti delle sottoscale della co-ruminazione sulla sintomatologia ansiosa e depressiva e il meccanismo di funzionamento di queste relazioni ed esaminare come le sottoscale del CRQ siano associate allo sviluppo di sintomi internalizzanti ed esternalizzanti in termini prognostici.

Memoria di lavoro: quali sono i suoi limiti

L’esperienza quotidiana ci mette di fronte al fatto che la nostra capacità di memoria di lavoro è limitata. È impossibile tenere a mente tante cose in una sola volta.

 

I risultati di un nuovo studio sembrano spiegarci il perché: l’ “accoppiamento”, o sincronia, delle onde cerebrali tra tre regioni chiave del cervello si interrompe in modi specifici quando il carico visivo della memoria di lavoro diventa eccessivo. “Quando si raggiunge la capacità, c’è una perdita di accoppiamento di feedback” ha detto Earl Miller, professore di Neuroscienze presso il Picower Institute for Learning and Memory del Massachusetts Institute of Technology, tra gli autori dello studio. Questa perdita di sincronia significa che le regioni non possono più comunicare tra loro per sostenere la memoria di lavoro.

Scopo dello studio

La capacità massima della memoria di lavoro, ad esempio il numero totale di immagini che una persona può tenere in memoria nello stesso momento, varia da persona a persona, anche se in media corrisponde a circa quattro immagini.

Scopo di questo studio è stato quello di indagare cosa limita la capacità della memoria di lavoro.

Una migliore comprensione di questo aspetto, consentirebbe infatti anche di comprendere meglio la natura limitata del pensiero cosciente e i fattori implicati nelle prestazioni cognitive ottimali. Inoltre, i risultati potrebbero dirci di più su come i disturbi psichiatrici interferiscono con il pensiero. “Gli studi dimostrano che il picco di carico è inferiore negli schizofrenici e in altri pazienti con malattie o disturbi neurologici o psichiatrici rispetto alle persone sane” ha detto Pinotsis, altro autore dello studio. “Quindi, capire i segnali cerebrali al picco di carico può anche aiutarci a capire le origini dei disturbi cognitivi”.

Lo studio: indagine scientifica della memoria di lavoro

Lo studio, pubblicato sulla rivista Cerebral Cortex, si propone come un’analisi statistica dettagliata dei dati ottenuti presso il laboratorio di Earl Miller, ottenuti attraverso la registrazione di soggetti animali mentre erano impegnati in un gioco semplice. Nello specifico, venivano mostrate ai soggetti alcune immagini rispetto alle quali dovevano individuare l’esistenza di una differenza: inizialmente veniva presentato loro un gruppo di quadrati e, dopo la visione di una breve schermata bianca, veniva presentato un nuovo insieme di immagini quasi identico in cui un solo quadrato aveva cambiato colore. Il numero di quadrati coinvolti, quindi il carico di memoria di lavoro di ogni turno, variava in modo tale che a volte il compito superava la capacità di memoria di lavoro degli animali.

Durante lo svolgimento di questo compito, i ricercatori misuravano la frequenza e la tempistica delle onde cerebrali prodotte da gruppi di neuroni in tre regioni che presumibilmente avevano una relazione importante, sebbene ancora sconosciuta, sulla memoria visiva di lavoro: la corteccia prefrontale, i campi frontali dell’occhio e l’area intraparietale laterale.
Obiettivo dei ricercatori era quello di indagare il grado di comunicazione tra queste tre aree in relazione al loro pattern di attivazione in termini di onde cerebrali e di comprendere, in modo specifico, come ciò potesse cambiare quando il carico della memoria di lavoro aumentava al punto di superare il suo livello di capacità massima.

Conclusioni e sviluppi futuri

Usando sofisticate tecniche matematiche, i ricercatori hanno testato decine di varietà di accoppiamenti e sincronizzazioni tra le tre regioni cerebrali sopra indicate, ad alte e basse frequenze.

[blockquote style=”1″]Abbiamo modellato tutte le diverse combinazioni di feedback e segnali feedforward tra le aree e abbiamo aspettato di vedere dove avrebbero portato i dati.[/blockquote]

La struttura “vincente” si è dimostrata quella che meglio si adattava alle prove sperimentali. Da quanto emerso, si potrebbe dunque affermare che queste regioni cerebrali lavorino essenzialmente come un comitato, senza molte gerarchie, allo scopo di mantenere attiva la memoria di lavoro.

[blockquote style=”1″]Al picco del carico di memoria, i segnali cerebrali che mantengono i ricordi e guidano le azioni sulla base di questi ricordi, raggiungono il loro massimo. Al di sopra di questo picco, gli stessi segnali si interrompono.[/blockquote]

Superata la capacità massima della memoria di lavoro, l’accoppiamento della corteccia prefrontale ad altre regioni a bassa frequenza si ferma.

Anche altre ricerche sembrano suggerire che il ruolo della corteccia prefrontale potrebbe essere quello di impiegare onde a bassa frequenza per fornire il feedback che mantiene sincronizzato il sistema di memoria di lavoro. Quando questo segnale viene a mancare, l’intero processo si interrompe e questo permetterebbe di spiegare perché la capacità di memoria di lavoro ha un limite finito.

Già in precedenti studi Miller e i propri collaboratori avevano osservato che l’informazione neurale si degrada con l’aumento del carico della memoria di lavoro, ma non erano stati capaci di individuare in quale momento preciso tale funzione smettesse di funzionare.

Nonostante le importanti conclusioni a cui questo studio ci ha permesso di arrivare rispetto alla nostra conoscenza sulla memoria di lavoro, ancora molti sono gli aspetti che rimangono da indagare. Proprio per questo motivo, il “Miller Lab” è in continuo fermento e nuovi progetti di ricerca sono stati avviati. Sulla base dunque deigli ultimi risultati ottenuti nello studio che vi abbiamo raccontato, il team di ricerca che fa capo a Miller ha avviato un nuovo studio volto ad indagare come le tre regioni cerebrali implicate nei processi di memoria di lavoro interagiscono tra loro quando le informazioni devono essere condivise attraverso il campo visivo.

EMDR: Experimental and clinical notes – Conferenza con il prof. Van den Hout, 12 Aprile 2018

In questi ultimi anni si è avuto un gran parlare di traumi e terapia dei traumi, fatto che ha rinnovato l’attenzione per l’ EMDR, una delle terapie per i traumi. In questo clima merita particolare attenzione la conferenza EMDR: Experimental and clinical notes che il prof. Van den Hout ha tenuto il 12 aprile al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova.

Prof. Ezio Sanavio

 

Il sommario della conferenza EMDR: Experimental and clinical notes è sotto-riportato, come fornito dall’autore. Tra l’altro, egli mette in crisi la tesi corrente che l’ EMDR vada considerata uno dei trattamenti d’elezione per il Disturbo da stress post-traumatico, ma solo per uno dei suoi sintomi principali.

Marcel Van den Hout è professore di Psicologia clinica e psicopatologia sperimentale all’Università di Utrecht.

E’ noto per i suoi studi sui disturbi d’ansia e sul disturbo ossessivo e, in particolare, per aver individuato l’effetto paradossale dei controlli ripetuti (che già alcuni hanno denominato ‘effetto Van den Hout’): l’enorme quantità di controlli ossessivi non determina il potenziamento delle tracce mnestiche, come i pazienti potrebbero attendersi, ma decadimento della vividezza dell’immagine mentale, diminuzione della quantità di dettagli ricordati, abbassamento del livello di fiducia nell’accuratezza dell’immagine rievocata.

Recentemente il prof. Van den Hout ha allargato il suo interesse alla rievocazione delle memorie traumatiche, al disturbo post-traumatico da stress e al suo trattamento.

 

EMDR: Experimental and clinical notes – Abstract della conferenza

Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR)  was introduced as a treatment for Post- Traumatic Stress Disorder (PTSD). During EMDR sessions patients are asked to recall trauma memories while simultaneously making eye movements. Claims of clinical effectivity met with considerable skepticism from the scientific community. Still, in contrast to many other ‘power therapies’ that are not embedded in the scientific literature, EMDR survived controlled clinical tests and a series of critical meta-analyses show that EMDR ranks among the most effective treatments of PTSD. We wanted to unravel how EMDR yields its positive effects. I will present results from a series of experimental and clinical studies that we carried out from 2010 onwards.

In a nutshell, this is what the data show and suggest:

  • EMDR can easily be studies in the lab. Its effects are reliable, not due to expectancy or experimenter bias and the effects are not only clear from self-report, but also from objective assessments.
  • The eye movements in EMDR are more than clinical folklore. They add to the effect of the procedure.
  • Still, there is nothing special to the eye movements: they can be replaced by any other task that distracts during trauma recall.
  • In contrast to claims by the founders of EMDR, effects of the procedure have nothing to do with ‘bilateral stimulation’ or promoting ‘interhemispheric communication’. Unilateral stimulation works as well.
  • During recall, memories become labile and susceptible to change. EMDR exploits this fact by taxing working memory during recall. This affects the nature of the long term trauma memory: it gets less lively and less emotional .
  • Some elements of EMDR are productive (e.g. distraction during recall), many elements are not productive (e.g. curious ways of ending the sessions) and some elements are counterproductive (e.g. making eye movements during recall of positive memories). The latter stand in worrisome contrast to the principle of non-nocere. (do no harm)
  • EMDR may be useful for the treatment of flashbacks (as in PTSD) and also for flash forwards (as in some anxiety disorders). The indication of EMDR however seems limited and there is no rational basis for its present proliferation beyond flash backs and flash forwards.

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista il Prof. Marcel Van den Hout durante il Congresso SITCC 2012

Hellblade: l’esperienza della malattia mentale attraverso un videogame?

E’ possibile sperimentare la schizofrenia attraverso un videogame? Accendete la vostra consolle, e accomodatevi nella testa della guerriera Senua, in Hellblade. La Dott.ssa Viola Nicolucci ne ha parlato nella conferenza “Psicologia, Tecnologia e Trasformazione”.

Secondo voi un videogioco può insegnare? Federico Pucci, in un articolo sul sito dell’Ansa, esordisce dicendo:

[blockquote style=”1″]Che il videogioco intrattenga, emozioni, coinvolga, è noto: ma può anche insegnare? [/blockquote]

Ebbene si, un videogioco può anche insegnare. A volte il potere didattico dei videogiochi è per lo più tradizionale, come nel caso dell’ultimo “Assassin’s Creed Origins” in cui, grazie alla modalità Discovery Tour – Antico Egitto, si può usufruire di un’esplorazione interattiva dell’Antico Egitto ai tempi di Cleopatra. Altre volte, dal punto di vista psicologico, un videogioco può allenare una serie di skill, incrementare l’efficacia del processo decisionale, favorire lo svilupparsi dell’intelligenza emotiva o portare alla luce temi sensibili da discutere apertamente quali il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza.

Di esempi, in quest’ultimo caso, ce ne sono diversi. Basti pensare a “Life is Strange”, videogioco prodotto dalla Dontnod e pubblicata dalla Square Enix. Ultimamente però la didattica dei videogiochi ha fatto un interessante passo in avanti. A tal proposito, vorrei cogliere l’occasione per parlarvi del lavoro della Dott.ssa Viola Nicolucci (psicoterapeuta dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte) che ho avuto l’onore di conoscere durante la conferenza “Psicologia, Tecnologia e Trasformazione” tenutasi il 26 gennaio 2018 a Torino. Il tema del suo argomento si focalizzava su Hellblade: l’esperienza della malattia mentale attraverso un videogame. Sperando di non tralasciare nulla cercherò di riportarvi fedelmente i concetti trattati dalla collega, avvalendomi delle risorse offerte dal Web al solo scopo di aiutarmi.

Cos è la Gamification? A cosa serve in un processo di comunicazione?

Prima di iniziare a parlarvi di “Hellblade: Senua’s Sacrifice”, vorrei introdurvi il concetto di “gamification”.  Il termine deriva dalla parola “Game”, cioè gioco, anche solo per semplice divertimento. La Gamification, traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni e dai principi alla base del concetto stesso di divertimento, rappresenta uno strumento molto efficace in grado di trasmettere messaggi di vario tipo. Il suo obiettivo è di applicare meccaniche ludiche ad attività che non hanno direttamente a che fare con il gioco; in questo modo è possibile stimolare e consolidare l’interesse attivo da parte degli utenti coinvolti sul messaggio che si vuole comunicare.
Per raggiungere questi obiettivi, il processo di communication design deve essere necessariamente ripensato per introdurre meccaniche e dinamiche di gioco, aggiungendo ai fattori tradizionali altri elementi trainanti (ancora, mutuate dal mondo del “gaming”) che possano attirare e ri-attirare l’interesse e l’attenzione dell’utenza su specifici contenuti.

Come si crea coinvolgimento? Ce lo spiega B.J. Fogg, padre della captologia

Anche in Hellblade le meccaniche e le dinamiche di gioco sono gli strumenti per “gamificare”: l’introduzione di concetti come punti, livelli, missioni e sfide incoraggia gli utenti ad investire il proprio tempo, spingendoli alla partecipazione, al coinvolgimento efficace, nonché aiutandoli a costruire delle relazioni all’interno del gioco. Perché la gamification funzioni sono essenzialmente necessarie due componenti: l’applicazione di dinamiche efficaci e l’uso delle giuste tecnologie. Ed in questo, B. J. Fogg, padre della Captologia (ovvero della scienza che studia i fenomeni che stanno nell’intersezione tra software e hardware da un lato, e i sentimenti e le attitudini umane scatenati dalla persuasione dall’altro) ci può spiegare parecchie cose. Grazie al modello sviluppato da Fogg, è possibile individuare tre fasi fondamentali: 1) fornire una motivazione, 2) fornire degli strumenti per partecipare, 3) offrire uno spunto da cui partire. Eccoli molto sinteticamente:

  1. Fornire una motivazione
    Bisogna dare alle persone un motivo per partecipare: il meccanismo del gioco e della sfida è profondamente radicato nella mente umana ed è uno stimolo potentissimo; affinchè funzioni è fondamentale che i giocatori abbiano davanti a loro un premio, una meta, un obiettivo che ne attiri l’attenzione e ne aumenti la determinazione
  2. Fornire degli strumenti per partecipare
    Perché la gamification funzioni è necessario che tutti i soggetti coinvolti abbiano a disposizione le stesse possibilità e gli stessi strumenti per andare avanti
  3. Offrire uno spunto da cui partire
    Ogni attività di gamification che si rispetti ha bisogno di un momento di avvio che funga da momento zero da cui far partire la sfida. Se tutte le meccaniche del gioco non si attivano in maniera coordinata, il rischio è che i partecipanti perdano rapidamente l’interesse in ciò che stanno facendo.

In Hellblade Senua’s Sacrifice ritroviamo tutte e tre queste fasi. Senza anticiparvi nulla vi inviterei a leggere il prosieguo dell’articolo benchè ci sia ancora un elemento di cui vi voglio parlare: l’avatar. La possibilità di rappresentare visivamente il proprio personaggio sottende alcuni meccanismi motivazionali come un maggior senso di autonomia e un maggior legame di tipo affettivo con il gioco. Diversi studi sull’avatar hanno prodotto interessanti ricerche tra cui l’Effetto Proteus.

Qual è la malattia mentale di Senua, guerriera di Hellblade?

Trattare un tema così delicato come quello della schizofrenia non è sicuramente un’impresa semplice, e finora l’ha fatto il cinema, non il mondo dei videogame.

Il primo tentativo è “Hellblade: Senua’s Sacrifice“, uscito nell’estate 2017 su PC, PS4 e a breve anche per Xbox One. Il videogioco presenta marcati riferimenti alla mitologia norrena: da protagonisti del gioco vestiamo i panni di Senua, guerriera celtica affetta da una grave forma di schizofrenia, esiliata dal suo villaggio perché ritenuta responsabile di funesti avvenimenti e pestilenze. La mente già fragile della ragazza è ulteriormente penalizzata dalle torture psicologiche indotte dal padre, che fin da piccola la sottopone a dei riti druidici per “liberarla” dalla sua maledizione. Dopo il ritorno dall’esilio Senua vede il suo amato Dillion, l’unico in grado di comprendere i suoi deliri, crocefisso barbaramente dall’attacco dei nordici, come sacrificio agli Dei. Lo shock sarà così forte da aggravare ulteriormente le condizioni di Senua, portandola in un perenne stato di psicosi in cui sente delle voci. Almeno inizialmente, il viaggio di Senua attraverso il fiume dei morti, non sembra essere esplicitamente legato alle sue psicosi. L’obiettivo della protagonista è difatti quello di liberare l’anima del suo adorato riconsegnando la sua testa a Hela, la Dea norrena dei morti e sovrana di Helheim. Il gioco si apre con un avviso piuttosto esplicito: lo sviluppo del titolo è avvenuto con l’ausilio di esperti in psichiatria e la consultazione di pazienti affetti da turbe psichiche.

Quale esperienza si fa in Hellblade?

Avviando la partita, iniziamo finalmente a scivolare lungo un fiume, guidando lentamente una rozza canoa, nei panni della tormentata Senua. Immediatamente giungono alle nostre orecchie un nugolo di sussurri: voci che si accavallano, discutono fra loro, deridono, guidano o rimproverano la protagonista come se noi non ci fossimo. La stessa protagonista parla di sé in terza persona, restituendo un senso di estraneità e scarsa autocoscienza. Il primo guizzo narrativo prende forma quando Senua parla anche con noi, trattandoci proprio come una delle sue tante “voci”. In questo modo entriamo subito nella mente della ragazza, stabilendo un rapporto sempre più intimo e morboso con la sua psiche malata. Nel video presente qui sotto avrete conferma di quanto vi ho detto.

(Hellblade: Senua’s Sacrifice – Intro: Only Voices)

Sentire le voci nella testa di Senua

Le voci di Senua, ottenute sfruttando l’audio 3D binaurale al solo scopo di renderle davvero realistiche, sono la concretizzazione di tutte le sensazioni che le riecheggiano in testa, siano esse un sottile ma avvertibile desiderio di morte, l’entusiasmo per una nuova scoperta, la paura del fallimento o il timore che tutto sia un inganno. Di tanto in tanto Senua sembra parlarci direttamente, raccontarci le sue paure, e testimoniare un desiderio di vendetta alternati ad attimi di abbandono integrale.
In un certo senso, è come se stessimo assistendo a una seduta psichiatrica, registrando con spirito voyeuristico le reazioni di una paziente. E forse il “viaggio” di Senua rappresenta proprio questo: una lunga e faticosa lotta per esorcizzare la sua malattia fatta di visioni, suoni, correlazioni apparentemente impensabili, percezione alterata dei colori e della realtà, fino a momenti in cui la mente si “spegne” e in cui non c’è alcun appiglio cui aggrapparsi.

Quale guerra combattiamo? Dentro o fuori la nostra testa?

Verso la fine dell’avventura, giunta al cospetto di Hela, divinità infernale, descritta come una donna bruciata per metà, Senua rivedrà la propria madre, che fu messa al rogo perché soffriva della stessa forma di psicosi che poi svilupperà anche lei. Tuttavia ci sarebbe da chiedersi, però, se questo momento di catarsi con la figura materna sia stato raggiunto davvero attraverso una sfida fatta di prove e battaglie, oppure se il viaggio della protagonista sia avvenuto solo ed esclusivamente nella sua mente. A un certo punto una delle voci nella testa della ragazza dice chiaramente che “le battaglie più difficili sono quelle combattute nella tua testa”. Potrebbe darsi, allora, che lo strano balletto di fendenti e affondi della protagonista, sia in realtà soltanto immaginato. Molto spesso, durante gli scontri, non si ha un’inquadratura di tutti i nemici che stiamo affrontando. Nel caso in cui un avversario attacchi Senua da un angolo cieco, saranno le voci ad avvertirla – “attenta alle spalle!” -, così che sia possibile eseguire un contrattacco col giusto tempismo. Eppure, se le voci esistono solo nella testa di Senua, e lei non sta vedendo il nemico pronto a colpire, come possiamo esserne informati? L’unica prospettiva plausibile è che tutto esista davvero solo nella sua mente.

Durante la progressione esplorativa del gioco Senua allucina rune luminose, con colori e luci che sono amplificati o attenuati. Attraverso queste rune la protagonista si ritrova a risolvere dei veri e propri puzzle, che implicano l’utilizzo di un aspetto della sua malattia mentale per “vedere le cose in modo diverso”. Tale particolarità si riferisce ad un fenomeno psicologico creativo chiamato apofenia, ed è qualcosa in cui tutti ci impegniamo. Si ritiene però che le persone con disturbi psicotici siano più abili in questo tipo di processo creativo e vi s’impegnino involontariamente più frequentemente. Affine al concetto di apofenia vi è quello di pareidolia. Tuttavia, di questi due aspetti, ve ne riparlerò poi verso la fine.

Perchè non stigmatizzare la malattia mentale

Tra gli extra inclusi in Hellblade: Senua’s Sacrifice è disponibile anche un video da che approfondirà il profilo psicologico della protagonista Senua. Per garantire una rappresentazione accurata, il team ha collaborato con Paul Fletcher, uno psichiatra e professore di Neuroscienze della salute presso l’Università di Cambridge nonché pazienti affetti da turbe psicotiche. Intitolato Hellblade: Senua’s Psychosis, questo video spiega il decorso della malattia, le sintomatiche principali e soprattutto un concetto fuori dalle righe, ovvero che stigmatizzare la malattia mentale non solo è controproducente per i soggetti affetti (che possono essere anche amici o parenti), ma anche dannoso nei confronti della conoscenza stessa, poiché approfondire e cercare di capire una situazione diversa dalla nostra può farci aprire gli occhi su cose che credevamo impossibili. Insomma, uno sprono ad aprire la mente e a vedere la vita in maniera diversa.

(Hellblade: Senua’s Sacrifice | Senua’s Psychosis Teaser | PS4 & PC)

Cos è l’apofenia? Chi la sperimenta?

Per spiegarvi il concetto di apofenia, mi servirò dei contenuti presi dal sito di Capuano. L’apofenia è la percezione spontanea di connessioni significative tra fenomeni che non hanno alcuna relazione tra loro. Il termine fu coniato dallo psichiatra tedesco Klaus Conrad, che lo descrisse come l’osservazione immotivata di connessioni da una precisa sensazione di anormale significatività. Per Conrad, l’apofenia è parte di un modello evolutivo della schizofrenia che comprende quattro fasi: Trema, Anastrofè, Apofenia (o Apofania) e Apocalisse. Nel vocabolario del suo inventore, dunque, il fenomeno è strettamente collegato a una forma patologica. Oggi, però, si tende a usarlo in maniera più estesa e indipendentemente da condizioni psichiatriche. Capuano continua dicendo che

[blockquote style=”1″]…c’è qualcosa nella nostra mente che fa sì che tendiamo a rinvenire connessioni significative tra eventi fra loro indipendenti[/blockquote]

Questo qualcosa può assumere talvolta una dimensione patologica, come quando qualsiasi correlazione tra eventi è assunta come significativa. Una situazione che si verifica in alcuni casi di schizofrenia e paranoia.

Il concetto di apofenia va tuttavia ben oltre. Esso ci dice che la nostra mente tende naturalmente e normalmente a “mettere insieme” ciò che è separato, ad attribuire significati a cose che non ne hanno. Sono state fornite varie spiegazioni per questo curioso fenomeno. Secondo il neurologo svizzero Peter Brugger, gli esseri umani hanno la tendenza pervasiva a scorgere ordine nelle configurazioni casuali. Non solo, ma la propensione a vedere connessioni tra oggetti o idee senza alcuna relazione apparente tra loro accomuna fortemente la psicosi alla creatività. Apofenia e creatività potrebbero quindi essere viste come due facce della stessa medaglia.

Sappiamo sempre riconoscere l’apofenia?

Con un esperimento realizzato da Naftulin, Ware e Donnelly nel 1973, l’autore ci dimostra un caso concreto in cui si tende a desumere un significato da parole o situazioni che ne sono privi. I tre autori dell’esperimento scrissero un discorso strampalato che aveva ad oggetto la teoria matematica dei giochi applicata all’istruzione medica. Il discorso era pieno di neologismi, frasi insensate e contraddittorie. Un attore, assolutamente incompetente in materia, ebbe l’incarico di pronunciare il discorso di fronte a una platea composta da undici educatori, psicologi e psichiatri ai quali l’oratore era stato presentato come un esperto della materia. La videoregistrazione del discorso fu poi presentata a un gruppo composto da undici psichiatri, psicologi e assistenti sociali e in seguito a un terzo gruppo composto da trentatré educatori e amministratori. Al termine del discorso, a tutti fu chiesto di riempire un questionario per valutare il livello di gradimento di ciò che avevano appena udito. Sorprendentemente, la maggior parte dei partecipanti ai tre gruppi attribuirono un elevato punteggio di soddisfazione all’oratore, sottolineandone le abilità verbali, la conoscenza degli argomenti trattati e la buona disamina degli stessi. Che cosa era successo? Nonostante la loro esperienza, i componenti dei tre gruppi erano stati condizionati più dalla prestazione recitativa dell’attore, dallo stile espositivo e dalle motivazioni e aspettative di apprendere che dal contenuto del discorso stesso. Insomma, un setting adeguato e uno stile accattivante possono dare agli individui l’illusione di aver appreso significati che invece non esistono.

Cos è la pareidolia?

La pareidolia è un processo in cui uno stimolo visivo o sonoro, vago e casuale, viene erroneamente interpretato come una forma riconoscibile. Uno degli esempi più classici è probabilmente quello delle osservazioni delle nuvole. Chi di noi non ha trascorso del tempo a guardare le nuvole provando ad assegnare una forma ad ognuna? Il nostro cervello divide il mondo in schemi e quotidianamente prova a interpretarli in tutto il mondo che ci circonda. Quando proviamo a risolvere un problema, abbiamo bisogno di trovare somiglianze con qualche problema in precedenza risolto e questo ci aiuta perché risparmiamo tempo. La ricerca delle somiglianze (pattern recognition) è anche ciò che ci permette di distinguere i volti, i suoni (voci). La pareidolia è una caratteristica intrinseca dell’evoluzione del nostro cervello e dei centri adibiti al riconoscimento. Noi esseri umani, facciamo fatica a vedere forme casuali, cerchiamo sempre di associare un senso, qualcosa che il nostro cervello riconosce. Dove c’è solo una macchia, un’ombra, vediamo forme, volti e tutto ciò che arriva dalla nostra immaginazione. Le illusioni ottiche dei dipinti di Salvador Dalì o perché no il test delle macchie di Rorscharch, sono due esempi in cui utilizziamo la pareidolia.

immagini pareidolia

Tuttavia, qual è l’origine di questo processo? Le spiegazioni a questo fenomeno sono tante. Per esempio, Jeff Hawkins afferma che sia dovuto al fatto che noi esseri umani abbiamo la tendenza a stabilire degli schemi seguendo le nostre esperienze e le credenze. In pratica, il nostro cervello da un senso a ciò che vediamo dipendendo da ciò che abbiamo vissuto e dalle nostre aspettative. Carl Sagan ci propone al contrario un’altra teoria. Egli Afferma che sia dovuto ad una tecnica ancestrale di sopravvivenza, dato che in passato, distinguere i volti degli amici dai nemici era fondamentale per salvare la vita. Così, il nostro cervello si è andato perfezionando e attualmente sarebbe programmato per identificare volti umani usando pochissimi dettagli. Così potremmo riconoscere una persona a distanza, anche con poca luce.
Nel 2009 uno studio molto interessante appoggia la teoria di Sagan. In questo esperimento si è riscontrato che percepire volti umani in immagini confuse provoca un’attivazione della corteccia ventrale fusiforme, una risposta che si riscontra quando vediamo dei volti reali ma non quando vediamo degli oggetti. Gli scienziati ipotizzano che questa zona si è andata specializzando nel riconoscimento dei volti e agisce in modo praticamente automatico per, in seguito, dare tempo al cervello di percepire se il volto mostra ira e aggressività o se, al contrario, è un volto amico.

Dove troviamo pareidolia e apofenia in Hellblade?

In Hellblade Senua’s Sacrifice dove sono però evidenti la pareidolia e l’apofenia? Se visionerete il video di Youtube che vi ho postato verso la fine, soffermandovi esattamente al minutaggio 8:52 e al minutaggio 13:12, avrete ben chiaro dove appaiono questi due fenomeni di cui vi ho parlato.
Come potrete notare anche voi, in un primo momento, la protagonista riconosce un volto familiare all’interno della cascata dove è presente un volto roccioso. In seguito Senua riesce a trovare una relazione, un collegamento, tra una sua allucinazione visiva e un elemento della realtà. Quanto vi ho detto tuttavia è una mia riflessione personale che potrebbe essere, perché no, per voi alquanto opinabile.

(Hellblade: Senua’s Sacrifice Part 5 | Pareidolia)

Albert Bandura, la teoria dell’apprendimento sociale e il concetto di autoefficacia – Introduzione alla Psicologia

Albert Bandura è uno psicologo contemporaneo specializzato in psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione. Il lavoro teorico e clinico di Bandura è incentrato principalmente sulla teoria dell’apprendimento sociale e sul concetto di autoefficacia.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Albert Bandura: la vita

Albert Bandura è nato ad Alberta, in Canada, nella piccola città di Mundare. Era il più giovane di sei figli, due dei quali morirono in gioventù, uno in un incidente di caccia e un altro per la pandemia influenzale. I genitori di Albert Bandura erano laboriosi e autodidatti; trasferitisi dai paesi dell’est Europa in Canada iniziarono a lavorare presso terzi e poi, dopo aver acquistato una fattoria, coltivarono dei propri terreni.

La sua educazione scolastica, primaria e secondaria, era molto esplorativa e pratica, poiché la scuola che frequentava era guidata da due soli insegnanti e aveva risorse limitate da un punto di vista didattico. Bandura, però, vedeva questo limite come un vantaggio, poiché la sua curiosità gli ha concesso di approfondire concetti e teorie che gli permisero creare le fondamenta della sua conoscenza.

Dopo aver finito la scuola, Albert Bandura si recò allo Yukon per lavorare alla costruzione dell’autostrada dell’Alaska e al suo ritorno a casa, gli è stata offerta la possibilità di stare nella fattoria o continuare a studiare.

Vita professionale

Bandura iniziò l’Università della British Columbia e si appassionò presto alla Psicologia inserendola, inizialmente, nel suo piano di studi come disciplina complementare, ma ben presto divenne il suo principale interesse. Egli si innamorò all’istante di questa materia conseguendo la laurea in soli tre anni e ricevendo anche il premio Bolocan Award per la Psicologia. Ha continuato i suoi studi presso l’Università dello Iowa dove ha conseguito il Master e il dottorato.

L’Università dello Iowa, in quel periodo, era molto nota per le ricerche e i progressi nel campo dell’ apprendimento. Per questo, Albert Bandura, mentre studiava, conobbe Kenneth Spence con cui iniziò a collaborare. Fu inoltre influenzato anche dal pensiero del suo predecessore, Clark Hull, e dagli scritti di Neal Miller e John Dollard.

Bandura iniziò a svolgere esperimenti in cui si usavano immagini, e a livello teorico si appassionò al determinismo reciproco e alla rappresentazione. Di conseguenza, sviluppò una serie di competenze teoriche e analitiche che lo indussero a formulare una nuova cornice teorica volta alla valutazione del processo mentale.

Albert Bandura svolse un breve internato al Wichita Kansas Guidance Center e alla fine iniziò a insegnare alla Stanford University nel 1953, dove lavora ancora oggi.

Bandura, da subito, cercò di studiare come la teoria dell’apprendimento si potesse applicare ai fenomeni clinici ed effettuò un tentativo di concettualizzare tali fenomeni per consentirne la verifica sperimentale.

Durante questi anni a Iowa, incontrò Virginia Varns, un’istruttrice della scuola per infermieri, che successivamente sposò e dalla loro unione nacquero due bambine.

Dopo aver conseguito il Dottorato all’Università dello Iowa, si trasferì a Standford, dove iniziò ad occuparsi dello studio dei processi interattivi in psicoterapia e dei modelli familiari che generano comportamenti aggressivi nei bambini. I risultati del suo studio fornirono molte prove a supporto della teoria del modellamento, secondo la quale l’apprendimento avviene attraverso l’osservazione altrui, considerata centrale nello sviluppo della personalità di ciascun individuo. Tali evidenze vennero diffuse da Albert Bandura attraverso la pubblicazione di due libri: Adolescent Aggression (1959) e Social Learning and Personality Development (1963).

Il libro del 1986 Social Foundations of Thought and Action rappresenta, inoltre, il tentativo di sviluppare una teoria in grado di spiegare e chiarire tutti gli aspetti delle capacità umane, passaggio fondamentale, secondo Bandura, per comprendere lo sviluppo della personalità e il cambiamento terapeutico.

Teoria dell’apprendimento sociale

Bandura iniziò la ricerca concentrandosi sulla motivazione umana, l’azione e il pensiero e ha lavorato con Richard Walters per esplorare l’ aggressione sociale. Il loro studio ha sottolineato l’impatto dei comportamenti di modellizzazione e ha dato il via alla ricerca nell’area dell’apprendimento osservazionale.

Il suo studio più noto è l’esperimento chiamato bambola Bobo, dal nome commerciale del pupazzo gonfiabile usato.

Negli esperimenti erano coinvolti bambini, sia femmine sia maschi, di età compresa tra i 3 e i 6 anni, che, in un primo momento, erano seduti in una sala giochi all’interno della quale erano presenti: un adulto, vari giocattoli, tra cui una mazza, e Bobo. Succede che, in alcuni casi, l’adulto gioca per qualche minuto e ignora il pupazzo, in altri invece, prende quasi subito Bobo a martellate, molto veementi; in altri, l’adulto aggressivo, di volta in volta, è anche premiato o sgridato o lasciato senza conseguenze.

In un secondo tempo, il bambino è condotto in un’altra stanza, dove ci sono diversi giochi. Dopo due minuti, i giocattoli gli sono sottratti, dicendo che sono riservati ad altri bambini, e successivamente è riportato nella prima sala. A questo punto il bambino, che aveva assistito all’aggressione di Bobo da parte dell’adulto, manifesta un gioco di tipo aggressivo, conseguenza della sottrazione precedente dei giocattoli, e in particolare agisce la sua rabbia attraverso gesti ed espressioni verbali violente nei confronti del pupazzo Bobo, in misura assai superiore a quella espressa dai soggetti che non avevano assistito alla violenza da parte dell’adulto. Inoltre, è stato osservato che il comportamento aggressivo è molto più intenso nei maschi che nelle femmine e non emerge nessun effetto particolare, sull’espressione di aggressività nei bambini, in relazione al fatto che l’adulto sia stato o meno premiato o sgridato.

I risultati, dunque, mostrano che non si impara solo in base al meccanismo del premio e della punizione, come sostiene il comportamentismo, bensì anche per via dell’apprendimento osservativo o apprendimento vicario.

Albert Bandura si discostò dalla concezione comportamentista di apprendimento, in cui si associava l’ apprendimento all’esperienza diretta, dimostrando come dei nuovi comportamenti possano essere appresi mediante la semplice osservazione dei comportamenti altrui.

L’ apprendimento, dunque, per Bandura si basava sull’imitazione, resa possibile grazie al rinforzo vicario, per cui le conseguenze relative al comportamento messo in atto dal modello, ricompense o punizioni, hanno i medesimi effetti sull’osservatore. Inoltre, Albert Bandura coniò il termine modellamento, ovvero la modalità di apprendimento che entra in gioco quando il comportamento di un organismo, che assume la funzione di modello, influenza il comportamento di colui che lo osserva.

Bandura ha sottolineato che i bambini imparano in un ambiente sociale e spesso imitano il comportamento degli altri, questo processo è noto come teoria dell’apprendimento sociale.

Albert Bandura ha sviluppato la sua teoria cognitiva sociale da una visione olistica della cognizione umana in relazione alla consapevolezza e influenza sociale. Ha sottolineato che il comportamento è guidato da una combinazione di pulsioni, spunti, risposte e ricompense. Ad esempio, un bambino potrebbe mangiare cioccolatini e rafforzare questo desiderio se il genitore risponde allo stesso bambino mangiando anch’egli cioccolatini contemporaneamente.

Bandura analizzò anche le variabili che sono coinvolte nel processo di apprendimento, chiamando in causa i fattori cognitivi, da cui dedusse che le aspettative proprie e altrui sulle prestazioni esercitano un’influenza molto forte sui comportamenti, sulla valutazione di effetti e risultati e sui processi di apprendimento. A seconda se il successo o il fallimento siano attribuiti a cause interne o esterne, controllabili o incontrollabili, le reazioni affettive e cognitive che conseguono a tali risultati potrebbero variare.

La teoria dell’agire morale

La teoria dell’agire morale è una propaggine della sua teoria cognitiva sociale. Il comportamento morale è un prodotto dell’autoregolamentazione attivata in un contesto sociale. Bandura sostiene che le persone possono agire in modo umano o inumano. Il comportamento inumano diventa possibile quando una persona può giustificarlo. Questa giustificazione comporta una sorta di ristrutturazione cognitiva, che segue uno schema specifico. Il linguaggio igienizzante, che rimuove il peso della crudeltà da un’azione, è un componente chiave. Ad esempio, se il genocidio fosse visto come una normale conseguenza della pulizia di una razza sarebbe, dunque, eliminato l’aspetto fondante, ovvero la crudeltà di tale comportamento. Quindi, è come se si verificasse una sorta di giustificazione morale in cui si minimizza il danno causato all’altro e si sposta la responsabilità su un’altra persona o su un intero gruppo. Incolpare o disumanizzare la vittima è spesso un ingrediente chiave nelle azioni brutali volte a rendere moralmente accettabile qualcosa che non lo è affatto.

L’autoefficacia

Dalla teoria dell’apprendimento sociale, Albert Bandura estrapola il costrutto di autoefficacia (self – efficacy) che coniuga i principi del comportamentismo con quelli della deviazione cognitiva, ovvero l’individuo è capace di simbolizzare o di vicariare l’esperienza diretta, facendo previsioni su se stesso che gli consentono di autoregolarsi. Nello specifico, gli studi sull’efficacia percepita hanno contribuito a porre in rilievo le capacità di autoriflessione e di autoregolazione della mente umana.

La capacità di autoriflessione consente alla persona di analizzare le proprie esperienze, di riflettere sui propri processi di pensiero, di generare nuove capacità di pensiero e di azione.

La capacità di autoregolazione consente di dirigere e di motivare se stessi mediante obiettivi e incentivi, in base a standard interni, restando autonomi rispetto a ogni altro fattore esterno.

Il senso di efficacia personale, o autoefficacia percepita, è il prodotto di un sistema autoreferenziale e autoregolato che guida e dirige il comportamento, orienta il rapporto della persona con l’ambiente e pone le condizioni per lo sviluppo di nuove esperienze e capacità.

Quindi, con autoefficacia si intende la convinzione di poter avere successo o di fallire in una prestazione. A una bassa credenza di auto-efficacia corrispondono spesso comportamenti di evitamento, basse prestazioni o insuccesso, mentre la persona con alta auto-efficacia hanno buone possibilità di ottenere risultati soddisfacenti. Quindi, chi è convinto di riuscire in un obiettivo ottiene prestazioni superiori rispetto a chi, oggettivamente più capace, ma consapevole di non riuscire perché si auto-valuta negativamente.

Per questo, le persone che credono di poter superare un problema, fisico o mentale, sono più propense a farlo e sicuramente saranno in grado di raggiungere e portare a termine gli obiettivi che si prefiggono.

Albert Bandura è autore di molti libri e ha vinto numerosi premi, tra cui il Grawemeyer Award in Psychology nel 2008; inoltre, nell’elenco delle figure più influenti della psicologia moderna è al quarto posto dopo Skinner, Freud e Piaget.

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Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La CBT è efficace nei pazienti con malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT)?

Come migliorare la qualità della vita nei pazienti affetti da malattia di Charcot-Marie-Tooth? La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), secondo alcuni recenti studi, è una soluzione che può offrire benessere a queste persone.

 Ilaria Zeoli – Open School di San Benedetto del Tronto

La sindrome di Charcot-Marie-Tooth (CMT) è caratterizzata da una scarsa funzionalità dell’assone o della mielina, sostanza protettiva dello stimolo nervoso (Kagiava A. et al 2018). Questa mancanza causa atrofia muscolare e debolezza dei muscoli dei piedi, delle gambe e delle mani, perdita sensoriale, perdita dei riflessi, piedi cavi e scoliosi. Ma ci sono casi, seppur rari, che presentano anche una disfunzione del sistema nervoso centrale (SNC) associata a disartria, disfagia, atassia e persino afasia e sonnolenza  (Johnson NE. et al 2014).
E’ una sindrome rara, una patologia a carattere autosomico dominante, con polineuropatia sensitivo-motoria dovuta all’alterazione dei geni, alcuni dei quali ancora non noti. I primi a parlarne furono Jean-Martin Charcot, Pierre Marie, e Howard Henry Tooth da cui la patologia trae il suo nome. Da poco si sta studiando cosa può offrire la CBT alle persone affette da questa sindrome.

Quali sono i tipi di malattia di Charcot-Marie-Tooth? Quali sono i sintomi? Quando compaiono?

La diagnosi medica della malattia di Charcot-Marie-Tooth viene effettuata attraverso l’esame l’elettroneurografico, che permette di misurare la velocità di conduzione nervosa e l’ampiezza del potenziale motorio e sensitivo (Yanjuan Geng,  et al, 2014 ). La CMT più comune è quella di tipo 1 (CMT1) che interessa l’80% della casistica accertata (Arnold A. et al, 2005). La CMT può fare la sua comparsa tra i 10 e 20 anni ed è caratterizzata da deformità articolare a carico dei piedi, delle ginocchia, delle anche e della colonna vertebrale, che con il passare tempo sono causa di dolore nel paziente.
In altri casi la comparsa della patologia avviene in una fase più tardiva, durante l’età adulta, anche se già nell’età scolare le prestazioni motorie di chi ne è affetto risultano carenti. I segni più evidenti sono goffaggine nel cammino, tendenza ad inciampare per difficoltà alla dorsiflessione del piede, crampi ai polpacci. Con il passare del tempo il paziente tende anche a sollevare le ginocchia più del normale per evitare d’inciampare, tanto che il cammino viene paragonato a quello di un cavallo; per questo in tali circostanze si parla anche di deambulazione steppante (Louwerens JWK . 2018 ). Con il tempo ci può essere una diffusione al livello dei muscoli delle cosce, uno scarso controllo del ginocchio e frequenti cadute, fino a determinare il ricorso alla sedia a rotelle.
La malattia si estende in fase più tardiva alla mani. L’indebolimento è lieve e non determina un deficit funzionale, ma solo difficoltà ad abbottonare e sbottonare gli indumenti, ad usare chiusure lampo, quindi difficoltà nei gesti più minuti che richiedono una forza mirata e maggiore.

Malattia di Charcot-Marie-Tooth: comorbilità psichiatriche più frequenti

Chi è affetto da una forma più grave della patologia può avere una comorbilità con le patologie psichiatriche a causa di una qualità di vita restrittiva e compromessa (Rubinsztein JS et al., 1998). Studi più recenti sembrano confermare questa tesi. Pazienti con CMT presentano un rischio più elevato di sviluppare disturbi psichiatrici, in particolare la depressione, perché tali soggetti sembrano essere più suscettibili alle alterazioni della qualità della vita, che possono essere drammaticamente influenzate da limitazioni fisiche. Esiste, inoltre, una notevole correlazione tra i disturbi del sonno e la CMT.
Tuttavia una critica dei succitati studi consta nella diversità degli strumenti impiegati per valutare le variabili dipendenti e indipendenti. Pertanto, studi futuri dovranno mettere in campo metodologie omogenee per confermare statisticamente l’evidenza clinica (Cordeiro JL et al., 2014).

Come si cura la malattia di Charcot-Marie-Tooth? Quale può essere l’apporto della CBT?

Non essendo ancora disponibile una cura medica risolutiva, l’unica terapia in grado di migliorare le prestazioni funzionali (es. deambulazione, prensione) è il trattamento riabilitativo e psicoterapeutico. In particolare, un intervento riabilitativo importante è l’attività sportiva, uno strumento prezioso che porta ad abbattere le differenze sulla propria autonomia per le persone con difficoltà motoria. L’allenamento aerobico ha determinato, infatti, cambiamenti favorevoli in alcune misure di forza e attività funzionali: studi hanno rilevato cambiamenti positivi nella flessibilità della caviglia, nell’equilibrio, nell’agilità e nella mobilità (Sautreuil P et al, 2017). Ci sono, altresì, timori che l’esercizio fisico possa causare una debolezza da superlavoro (OW), caratterizzata da un progressivo indebolimento muscolare dovuto proprio all’esercizio fisico, al lavoro o alle attività quotidiane nelle persone con malattia da CMT (Giuseppe Vita et al, 2016). La maggior parte degli autori, comunque, incoraggia l’attività fisica nei pazienti CMT, ma raccomanda esercizi che non comportano un eccessivo sforzo del proprio potenziale (Knak KL et al, 2017).
Grande attenzione nel mondo scientifico viene suscitata dagli effetti della Psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT). La CBT aiuta a individuare i pensieri automatici e le credenze che ognuno di noi ha sulla realtà; in persone con una qualità di vita limitata, le emozioni negative sono spesso percepite dal soggetto come sintomi; la CBT può correggere i pensieri responsabili delle emozioni negative e favorisce l’integrazione con altri pensieri più funzionali al benessere della persona (Montano A., 2008). Essa è considerata l’unico intervento il cui effetto ha portato beneficio a sei mesi; non ci sono dati di follow-up che dimostrano un beneficio per tempi più lunghi. Attualmente non esistono prove circa i benefici con altri interventi psicosociali negli adulti con disturbi neuromuscolari. Sebbene alcuni abbiano cercato di valutare gli effetti di interventi psicosociali su disturbi neuromuscolari, i risultati e i benefici emersi sono quasi esclusivamente a breve termine.
I disturbi neuromuscolari in età adulta sono in aumento e anche per questo si rendono necessari risultati più chiari e definiti (Elaine Walklet et al, 2016). Apportare benefici fisici, psicologici e sociali alle persone affette da CMT può tradursi in un miglioramento della loro qualità di vita e in costi sanitari ridotti per la società.

Sindrome dell’ X Fragile: grazie alla ricerca potrà essere possibile diagnosticarla in età neonatale

Attraverso risonanza magnetica, è stato possibile dimostrare che i bambini affetti da sindrome dell’ X Fragile a livello neurologico presentano una sostanza bianca meno sviluppata rispetto ai bambini che non sviluppano la condizione. Si è mostrato così che ci sono differenze nel cervello, correlate alla sindrome dell’ X Fragile, riscontrabili molto prima di una diagnosi fatta di solito a tre anni.

 

Per la prima volta, i ricercatori della Scuola di Medicina dell’UNC (University of North Carolina) hanno utilizzato la risonanza magnetica per dimostrare che i bambini affetti da sindrome dell’ X Fragile a livello neurologico presentano una sostanza bianca meno sviluppata rispetto ai bambini che non sviluppano la condizione.

L’imaging di varie sezioni di sostanza bianca da diverse angolazioni può aiutare i ricercatori a concentrarsi sui circuiti cerebrali sottostanti, importanti per la corretta comunicazione neuronale.

Lo studio, pubblicato su JAMA Psychiatry, mostra che ci sono differenze nel cervello, correlate alla sindrome dell’ X Fragile, riscontrabili molto prima di una diagnosi fatta di solito a tre anni.

Finora, gli studi clinici sui farmaci non sono riusciti a dimostrare il cambiamento di trattamento in soggetti con sindrome dell’ X Fragile. Una delle sfide è stata l’identificazione di buone misure di esito del trattamento o di biomarcatori che mostrano risposta all’intervento.

Sindrome dell’ X Fragile: i risvolti dello studio

La sindrome dell’ X Fragile è una malattia genetica rara da ritardo mentale lieve-grave, che può associarsi a disturbi comportamentali e segni fisici caratteristici, ed è la causa ereditaria più comune della disabilità intellettiva nei maschi. I sintomi includono disabilità intellettive, problemi di interazione sociale, linguaggio ritardato, iperattività e comportamenti ripetitivi. Circa un terzo delle persone con sindrome dell’ X Fragile soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo dello spettro autistico.

Una delle cose più eccitanti delle nostre scoperte è che le differenze di sostanza bianca che osserviamo potrebbero essere utilizzate come un indicatore obiettivo per l’efficacia del trattamento – ha detto l’autore co-senior Heather C. Hazlett, PhD, assistente professore di psichiatria presso la UNC School of Medicina.

Per questo studio, Swanson, Hazlett e colleghi hanno utilizzato tecniche di imaging cerebrale in 27 bambini ai quali è stato diagnosticato il disturbo dell’X Fragile, e 73 bambini sani. I ricercatori si sono concentrati su 19 tratti di fibre della materia bianca nel cervello. Le fibre sono fasci di assoni mielinizzati – le lunghe parti di neuroni che si estendono attraverso il cervello o in tutto il sistema nervoso. Questi fasci di assoni collegano varie parti del cervello in modo che i neuroni possano comunicare rapidamente tra loro. Questa comunicazione è essenziale, specialmente per il corretto sviluppo neurologico durante l’infanzia.

L’imaging e l’analisi analitica hanno mostrato differenze significative nello sviluppo di 12 dei 19 tratti di fibra nei neonati con sindrome dell’ X Fragile fin da sei mesi di età. I bambini con X Fragile avevano tratti di fibra significativamente meno sviluppati in varie parti del cervello.

Questi risultati confermano ciò che altri ricercatori hanno dimostrato nei roditori: il ruolo essenziale dell’espressione del gene X fragile sullo sviluppo precoce della materia bianca nei bambini – ha detto il primo co-autore Jason Wolff, PhD, ex postdoctoral fellow presso UNC-Chapel Hill e ora assistente professore di Psicologia dell’Educazione presso l’Università del Minnesota – Il nostro lavoro evidenzia che il circuito della materia bianca è un obiettivo potenzialmente promettente e misurabile per l’intervento precoce, tuttavia, il raggiungimento dell’obiettivo dell’intervento infantile per la X Fragile richiederebbe probabilmente sforzi enormi di screening neonatale.

 

Guarire la frammentazione del Sé – Report dal Workshop con Janina Fisher, 7-8 Aprile 2018

Janina Fisher è una psicoterapeuta molto nota per la sua esperienza clinica e formativa nell’ambito del trauma. Nelle giornate del 7 e 8 Aprile 2018 ha tenuto un workshop, Guarire la frammentazione del sé, in cui ha affrontato il tema della dissociazione, con importanti riferimenti alla teoria dell’attaccamento, alle neuroscienze, alla mindfulness e ovviamente alla psicoterapia sensomotoria.

 

 Janina Fisher è una psicoterapeuta molto nota per la sua esperienza clinica e formativa nell’ambito del trauma. È vicedirettrice del Sensorimotor Psychoterapy Institut e ha lavorato presso il Trauma Center, fondato da Bessel van der Kolk.

In queste due giornate formative la Fisher affronta il tema della dissociazione, con importanti riferimenti alla teoria dell’attaccamento, alle neuroscienze, alla mindfulness e ovviamente alla psicoterapia sensomotoria.

Il workshop prende il via con queste sue parole:

Possiamo dirci guariti nel momento in cui accettiamo noi stessi, ci perdoniamo per quello che è successo arrivando addiritura ad amarci.

Janina Fisher: quando l’attaccamento diventa traumatico

Ma è la qualità dell’ attaccamento da bambini a determinare l’ attaccamento che da adulti abbiamo verso noi stessi, la nostra capacità di consolarci e perdonarci. Ecco perchè Janina Fisher riprende la teoria dell’attaccamento con particolare attenzione agli effetti nocivi sullo sviluppo nervoso di un attaccamento traumatico. I genitori disponibili supportano i figli piccoli nella gestione delle loro emozioni più intense, aiutandoli a sviluppare un’ampia finestra di tolleranza (Siegel, 1999), un range all’interno del quale le diverse intensità di attivazione emotiva e fisiologica possono essere integrate senza interrompere la funzionalità del nostro sistema, permettendoci così di dare un significato alle esperienze integrando le informazioni del nostro mondo interno con quelle provenienti dall’esterno.

Se i genitori invece creano paura perchè abusano o trascurano, il bambino reagirà con impulsività o si paralizzerà restringendo così lo spazio in cui può fare esperienza di emozioni che si sente in grado di poter gestire. Traumi ripetuti o esperienze negative prolungate possono infatti compromettere la nostra capacità di sintonizzarci con il range ottimale di attivazione a favore di modalità di iper o ipo attivazione.

Il fallimento dell’ attaccamento genitoriale interferisce inoltre con l’interiorizzazione di un senso del Sé coerente: rinnegare bisogni che non possono essere soddisfatti o emozioni inaccettabili può essere adattivo ma il prezzo da pagare è l’alienazione dal Sé e la frammentazione.

Accanto così ad una parte che ha bisogno di continuare a funzionare nella quotidianità, c’è una parte emotiva che a sua volta può contare al suo interno diverse parti.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Janina Fisher: Guarire la frammentazione del Sé - Report dal workshop - IMM. 1

Imm. 1 – Strategie difensive delle Parti del Sé (Fisher, 2009)

Janina Fisher: Guarire la frammentazione del Sé- Report dal workshop - IMM.2

Imm. 2 – Le risorse delle Parti (Fisher, 2006)

 

Ognuna di queste parti dissociate strutturalmente si manifestano in reazioni difensive ma una delle cose più importanti da trasmettere ai pazienti è che non si tratta di parti “cattive” poichè ognuna nasconde in sé una risorsa, una sorta di dono di cui hanno bisogno tutti gli esseri umani. Ecco allora che anche la parte che attacca, che può essere quella che induce a gesti autolesivi, è anche quella che potrebbe invece darci coraggio per affrontare le situazioni più difficili.

La maggior parte di noi ignora l’esistenza di queste parti che nel corso della giornata si alternano in modo rapido sul palcoscenico del nostro mondo interno e allora la psicoterapia diventa l’opportunità per ascoltare questa comunità interiore che parla un linguaggio soprattutto di sensazioni e d’impulsi.

La prima giornata del workshop Guarire la frammentazione del Sé si chiude a tal proposito con la visione di un filmato di una terapia di coppia in cui Janina Fisher aiuta i partner a riconoscere proprio il ruolo delle loro parti bambine all’interno della loro relazione.

Guarire la frammentazione del Sé: il blending e unblending

All’avvio della seconda giornata del workshop, Janina Fisher ci parla del blending (fusione) per descrivere cosa accade quando un’emozione prende il sopravvento: il paziente suicidario per esempio spesso si fonde con la parte suicida, si identifica completamente con la disperazione ed è proprio questa identificazione a determinare la patologia. Il paziente deve essere invitato alla curiosità, una parola più volte ripetute da Janina Fisher in queste due giornate dell’incontro Guarire la frammentazione del Sé, per mettere in discussione l’idea che lui effettivamente sia la parte in cui si sente completamente immerso. Il terapeuta deve aiutare il paziente a capire che le emozioni più difficili sono solo emozioni di una o più parti di lui e per stare meglio dovrà imparare a distanziarsene.

Il terapeuta diventa allora un interprete simultaneo per tradurre nel linguaggio delle parti la narrazione del paziente che avviene invece in prima persona (“io faccio sempre degli errori” → “ecco la parte del bambino che pensa di sbagliare sempre”). Questo nuovo linguaggio incrementa la mindfulness, utile per disidentificarsi dal sintomo (“sono un fallimento” → “sta passando in me questo pensiero di fallimento”) in primo luogo perchè il semplice dirsi che una parte di noi è ansiosa, anzichè attribuire alla nostra intera persona questo stato emotivo, porta già ad una dimunizione del livello di ansia, avendo il linguaggio un effetto diretto sul corpo.

L’ unblending (scissione) è proprio questa capacità di notare una parte e disidentificarsi da essa in quanto una delle tante: si può notare un’emozione, una sensazione ed anche un pensiero senza necessariamente identificarsi in esso. Il passo successivo è comunicare empatia per la parte identificata, perché vogliamo che il paziente provi simpatia e desiderio di accudimento verso il bambino coraggioso che si è ribellato alla mamma aggressiva o verso il bambino che taceva per proteggersi dalla possibilità di cadere vittima di abuso.

Quando il paziente ha queste emozioni positive verso le sue parti è il momento buono per “riparare” l’attaccamento, per curare la memoria di una rottura precoce che si nasconde dietro a emozioni di vergogna, paura e tristezza. Se è vero che i ricordi che abbiamo sono codificati nelle reti neuronali e non possono cambiare è anche vero che possiamo creare nuove reti che fanno sì che il ricordo venga inserito in un nuovo percorso, conferendo quindi ad esso un finale diverso.

Lo scopo del lavoro con le parti è proprio questo: accettare quello che di brutto è accaduto ma darsi la possibilità di scrivere un lieto fine, “tenendo il nostro sé bambino nel marsupio del nostro sé adulto”.

Il workshop Guarire la frammentazione del Sé si è concluso dopo due giornate intense, ricche di spunti per migliorare la nostra parte “terapeuta” ma anche per far riflettere sulle nostre altre parti interne.

 

 

La vita segreta della mente (2017) – Recensione del libro di M. Sigman

“Come funziona il nostro cervello quando pensa, sente, decide” è il sottotitolo del lavoro del neuroscienziato argentino M. Sigman, edito da UTET. Una lettura facile e scorrevole per chi vuole guardare da vicino la biologia del cervello e come funziona la mente nella quotidianità.

Il testo scorre in modo semplice e per nulla semplicistico: si leggono esperimenti, prove, risultati e ricerche scientifiche proprio sul funzionamento della mente “quando pensa, sente e decide”. Sigman non si limita a quello dell’adulto, ma si addentra nell’ancora più oscuro e inesplorato cervello dei neonati. Vengono affrontati numerosi temi: come si formano le idee? Come prendiamo le decisioni? Come sogniamo? Come si trasforma il cervello e come noi cambiamo con lui?

Il libro è concepito come un viaggio nella mente, in cui convergono numerosi contributi di psicologia, neurobiologia, cinema, arte, matematica, linguistica, filosofia e tanto altro ancora. Si alternano capisaldi teorici e innovative scoperte, tra citazioni di grandi filosofi e di grandi luminari.

Aneddoti personali e riferimenti bibliografici si articolano contribuendo a spiegare (ergo comprendere) numerosi fenomeni comuni, ma non banali. Sei capitoli per poco più di 250 pagine si aprono con questi interrogativi: “Come pensano i neonati?” “Come nasce la coscienza?” “Come e quanto ci governa l’inconscio?” “Come scegliamo di fidarci?” “Cosa accade durante i sogni?” “Cosa rende il nostro cervello predisposto al cambiamento?” “Come possiamo mettere a frutto ciò che sappiamo sul pensiero per insegnare meglio”?

La mente dei più piccoli: come pensano i neonati?

Dopo aver esplorato vecchie e nuove concezioni di come funziona l’architettura della mente, l’autore chiarisce che il bambino non è un adulto in miniatura, ne una “tabula rasa” dove vengono inscritti apprendimenti e conoscenze, anzi. Il punto di vista di Piaget viene stravolto e viene rivisto un suo esperimento, annoverato tra i più importanti della storia della psicologia ovvero “A non B”.

Nella situazione sperimentale sopra citata, si mostra ad un bambino un oggetto in una posizione (A) e poi l’oggetto viene spostato in un’altra posizione (B). Il bambino continuerà a cercare nella posizione A nonostante veda lo spostamento. Secondo lo studioso francese la cosiddetta “permanenza dell’oggetto” avrebbe previsto un ragionamento che andasse oltre ciò che appare alla superficie dei sensi; pertanto questa facoltà non sarebbe sviluppata nei bambini di pochi mesi. Tuttavia, l’interpretazione attualmente più plausibile, alla luce degli studi odierni, è invece che i bambini (stiamo parlando di bimbi di 10 mesi) sanno che l’oggetto è stato cambiato di posto ma non sono in grado di utilizzare l’informazione, poiché possiedono un controllo volatile delle loro azioni; in altre parole non hanno sviluppato il controllo inibitorio. Sono concezioni copernicane che ribaltano la concezione del neonato e della sua mente, così come resoci dai precedenti studiosi, di cui Sigman riconosce il grande valore.

In seguito vengono affrontati i vari processi cognitivi nella loro genesi e nel loro sviluppo. E’ dimostrato che le capacità cognitive non si sviluppano in modo omogeneo, qualcosa nasce prima, qualcosa si sviluppa con il tempo.

Come si sviluppano i processi cognitivi nella mente del neonato?

Secondo quanto scrive Sigman, l’elaborazione dei concetti appare innata, mentre le funzioni esecutive appaiono appena abbozzate alla nascita.

Anche l’attenzione viene esaminata, tra le tante cose, come maturi molto prima il sistema che permette di orientare l’attenzione verso un nuovo elemento piuttosto che quello che permette di sganciarsene. Questo spiega perché sia così più complesso distogliere volontariamente l’attenzione; allo stesso tempo, spiega perché i bambini riescano a smettere di piangere quando vengono attratti da un altro stimolo nell’ambiente che richiami la loro attenzione.

Altro spazio viene dato al linguaggio a partire dall’idea rivoluzionaria della linguistica di Chomsky e da innumerevoli studi condotti su bambini di appena qualche ora di vita. Anche in questo caso i neonati non sarebbero assolutamente contenitori vuoti da riempire di nozioni, ma nascerebbero con predisposizioni già formate all’apprendimento del linguaggio. Valutando l’intensità di suzione, per esempio, ricercatori hanno notato come un neonato possa discernere tra suoni provenienti da lingue diverse. Il neonato avrebbe infatti un cervello universale per il linguaggio in grado di distinguere le differenze fonologiche di tutte le lingue; è con il tempo che poi si specializza sui fonemi propri della lingua madre.

Il libro prosegue raccontando come l’apprendimento avvenga in un modo assimilabile al processo del correttore automatico del T9 dei nostri smartphone e spiega perché imparare una lingua da adulti ci risulti più difficile. Da grandi diventiamo meno bravi ad ascoltare semplicemente i suoni ma restiamo più attenti ad apprenderne il significato a discapito della musicalità e dei suoni delle parole stesse (meccanismo invece utilizzato proprio dai bambini quando imparano a parlare).

Si susseguono descrizioni dello sviluppo di concetti sempre più complessi dimostrando di volta in volta, con esperimenti brillanti nella loro semplicità, come i bambini possano elaborare concetti astratti e sofisticati come quello di morale, di furto, di buono, cattivo, giusto e sbagliato. I bambini di 6 mesi infatti sono già in grado di inferire intenzioni, desideri bontà e cattiveria arrivando a dimostrare come la nozione di proprietà (in inglese mine) preceda quella di identità (in inglese me).

Come scegliamo? Come diamo fiducia agli altri nelle nostre decisioni?

Tramite racconti storici e scientifici, da Chrurchill a Turing, viene sviscerato il processo decisionale in numerosi suoi aspetti, tenendo di conto del valore dell’azione, del costo del tempo investito, dell’urgenza di rispondere in una chiara ottica neuronale

[blockquote style=”1″]Chi prende decisioni sa molto di più di quanto crede di sapere[/blockquote].

La stessa cosa varrebbe anche prendendo in considerazione tutte quelle scelte che prendiamo “di pancia” (che l’autore riporta con la parola spagnola “corazonada”): l’importanza delle risposte e degli indizi corporei sarebbero importanti messaggi dai quali partire per trarre informazioni dall’ambiente interno ed esterno, molto prima che il livello consapevole entri in funzione, in linea con gli ormai sempre più centrali approcci “bottom up”.  Vengono poi sviscerate le differenze tra decisioni utilitaristiche e deontologiche, tra neurobiologia ed esempi di dilemmi; vengono raccontati esperimenti geniali nella loro semplicità per spiegare meccanismi complessi come la fiducia nell’altro e la generosità.

Perché gli adolescenti sono soggetti a comportamenti più rischiosi?

L’adolescenza è notoriamente uno dei periodi di maggiore rischio e questo potrebbe essere spiegato anche dall’immaturità della corteccia prefrontale (deputata alla valutazione delle conseguenze future e all’inibizione degli impulsi); questo non spiega perché non siano i bambini (con la corteccia ancor più immatura) ad esporsi ai rischi più degli adolescenti.

Gli studi riportano che la percezione del rischio “dipenda” dalla zona cerebrale del “nucleus accumbens” del sistema limbico che corrisponde alla percezione del piacere edonistico e sessuale; studi infatti riportano che in presenza di eccitazione sessuale aumenta la predisposizione a comportamenti rischiosi o ritenuti inaccettabili a mente fredda e pertanto la risposta alla domanda potrebbe proprio unire questi due importanti dati noti: l’adolescenza è la simultaneità tra l’immaturità di sviluppo della corteccia e il consolidato sviluppo del nucleus accumbens che insieme fanno sì che vi sia la ricerca di rischio e piacere in assenza di un completo sviluppo di processi inibitori. Tutto ciò rappresenta un’ulteriore conferma all’ipotesi che lo sviluppo del cervello abbia un andamento tutt’altro che omogeneo.

“Dentro” la mente: come funzionano coscienza, sogni e inconscio?

Anche argomenti come coscienza, sogno, inconscio trovano spazio e un nuovo tentativo di definizione. Si comincia ovviamente da Freud ma si parla del cervello e di come questo sia in grado di osservare e monitorare i suoi stessi processi, di controllarli, inibirli o modificarli in quello che viene chiamato “preludio alla coscienza”.

Nel capitolo “I viaggi della coscienza”, vengono presi in considerazione il sonno e il sogno, con ampio spazio dedicato alle alterazioni indotte da sostanze e su quali meccanismi di funzionamento si poggino le varie droghe, dalla cannabis alla cocaina all’ “ayahuasca”.

Qual’è il limite di età per apprendere? Le neuroscienze come possono aiutarci ad apprendere?

Sigman risponde scientificamente anche a domande interessanti come “C’è una età limite per apprendere? Si nasce talentuosi o si diventa?”. Si può apprendere a tutte le età e le difficoltà di apprendimento tardivo non dipendono da altro se non dal fatto che da grandi abbiamo forse meno tempo e meno motivazione di quanta ne abbiano i bambini.

L’ultima parte viene lasciata a sollecitare domande pratiche: come possono le neuroscienze e le loro sempre più innovative scoperte essere utili all’educazione e all’insegnamento? Va da sé che nell’ambito della dislessia la risposta, per esempio, sia già arrivata. La dislessia infatti non dipende da problematiche legate all’intelligenza o alla motivazione, ma proprio da una specifica difficoltà di regioni del cervello di mettere in connessione la visione con l’udito.

Nell’ultimo capitolo del libro vengono illustrate altre importanti asserzioni, ad esempio: come per apprendere occorra a volte dis-apprendere qualcosa; come il migliore insegnante sia spesso un compagno, alimentando l’importanza della “peer education” e riproponendo l’ipotesi di come questa tendenza ad insegnare possa essere innata.

Il libro è estremamente denso: domande, risposte, strumenti, citazioni, esempi, riferimenti. Quello che stupisce e diverte, è la facilità con cui tutto questo è riportato. Da Harry Potter a John Lennon, da Piaget a Platone passando per numerosi premi Nobel, con il filo conduttore supremo delle neuroscienze, il lettore ha la possibilità di accedere a concetti e questioni per niente banali, in modo intuitivo e semplice. Questo è solo uno dei grandi meriti dell’autore che in questo libro ha brillantemente riportato il lavoro di 20 anni di carriera densa di importanti riconoscimenti.

 

Scuola: l’intelligenza emotiva come prevenzione del disagio di bambini e adolescenti

A scuola, appare evidente il ruolo centrale che i processi affettivi giocano nell’organizzare l’esperienza e il comportamento. La scuola, in un’ottica di prevenzione, ci può aiutare nello sviluppo dell’ intelligenza emotiva.

Luisana D’Alessandro, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DI TRONTO 

 

Il costrutto di intelligenza emotiva

Il concetto di Intelligenza emotiva è stato introdotto da Salovey e Mayer (1990) per descrivere “la capacità che hanno gli individui di monitorare le sensazioni proprie e quelle degli altri, discriminando tra vari tipi di emozione ed usando questa informazione per incanalare pensieri ed azioni”.

Goleman, nel 1995, riprende tale concetto mediante la pubblicazione del suo libro ” Intelligenza emotiva ”; questo termine, secondo Goleman, include l’autocontrollo, l’entusiasmo e la perseveranza, nonché la capacità di auto-monitorarsi.
Questi concetti possono essere insegnati ai bambini, mettendoli nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro (Goleman, 1995).

Si afferma, che la famiglia è il primo contesto in cui apprendiamo gli insegnamenti riguardanti la vita emotiva. L’educazione emozionale opera, non solo attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate al bambino, ma anche attraverso i modelli che gli offrono mostrandogli come gestiscono i loro sentimenti e la propria relazione coniugale. Avere dei genitori intelligenti, sotto il profilo emotivo, è una fonte di beneficio per il bambino.
I bambini che imparano a gestire le proprie emozioni e a controllare i propri istinti tollerano meglio le situazioni stressanti, imparano a comunicare meglio i propri stati emozionali e sono in grado di sviluppare relazioni positive con la famiglia e gli amici e ottengono maggiori successi a scuola.

Intelligenza emotiva: la scuola come contesto di prevenzione

La scuola, in un’ottica di prevenzione, ci può aiutare in questo compito.
In un clima favorevole alla crescita, l’apprendimento è più profondo, procede più rapidamente, in quanto nel processo è investita l’intera persona, con sentimenti e passioni al pari dell’intelletto (Rogers, 1978).

A scuola, appare evidente il ruolo centrale che i processi affettivi giocano nell’organizzare l’esperienza e il comportamento. In ultima analisi, “non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva” (Galimberti, 2001).
L’analfabetismo emozionale rappresenta un fattore di rischio e pericolo per la società. L’esclusione o la marginalizzazione nei programmi scolastici di spazi da destinare alla formazione emozionale, è un indicatore negativo che può spiegare l’impotenza delle istituzioni scolastiche di fronte all’aumento delle difficoltà e del disagio, oltre all’insorgenza di alcuni disturbi fra gli adolescenti e i bambini (Mariani, 2001).

Il disagio giovanile, rilevabile in ambito scolastico, è inquadrato in “un insieme di comportamenti disfunzionali (scarsa partecipazione, disattenzione, comportamenti prevalenti di rifiuto e di disturbo, cattivo rapporto con i compagni, ma anche assoluta carenza di spirito critico), che non permettono al soggetto di vivere adeguatamente le attività di classe e di apprendere con successo, utilizzando il massimo delle proprie capacità cognitive, affettive e relazionali“. (Mancini e Gabrielli, 1998). La sofferenza psicologica, come evidenziato dalle ricerche in questo settore, può comportare stress, ricollegabile alle prestazioni scolastiche, comportamenti di angoscia e insicurezza, problemi di comunicazione, sintomi di tensione e assunzione di sostanze psico-attive (Baraldi e Turchi, 1990). Tutto ciò può sfociare in fenomeni rilevanti come bullismo, difficoltà d’ apprendimento, deficit di attenzione e iperattività o rifiuto della scuola; tali fenomeni rendono ancora più visibile l’impotenza dei genitori e degli insegnanti.

Goleman, nel suo libro Intelligenza emotiva, riporta l’esperienza di una scuola di San Francisco, con quindici alunni di quinta elementare. In questa scuola viene proposto un programma di alfabetizzazione emotiva; si richiede che “gli insegnanti e gli studenti si concentrino sul tessuto emozionale. La strategia consiste nell’utilizzare come argomento del giorno le tensioni e i traumi presenti nella vita dei bambini. Gli insegnanti parlano di questioni concrete: del dolore di sentirsi esclusi, dell’invidia e dei contrasti che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola” (Goleman, 1995). I programmi di alfabetizzazione emotiva proposti nell’ambito della prevenzione, hanno come obiettivo quello di consentire un’adeguata gestione dei sentimenti. Le finalità dello sviluppo dell’ intelligenza emotiva riguardano pertanto la conoscenza, l’acquisizione e la realizzazione delle competenze emotive relative a cinque aree: Consapevolezza di sé, Autocontrollo, Motivazione, Empatia, Abilità sociali.

Nello specifico:
1. Consapevolezza di sé: conoscere in ogni istante i propri sentimenti e le proprie preferenze e usare questa conoscenza per guidare i processi decisionali; avere una valutazione realistica delle proprie abilità e fiducia in se stessi.
2. Autocontrollo: gestire le proprie emozioni in modo che facilitino il compito in corso invece di interferire; essere coscienziosi e capaci di rimandare le gratificazioni per perseguire i propri obiettivi; saper ben fronteggiare la propria sofferenza emotiva.
3. Motivazione: usare le proprie preferenze più intime per spronare e guidare se stessi al raggiungimento dei propri obiettivi, come pure per aiutarsi a prendere l’iniziativa; essere altamente efficienti e perseverare nonostante insuccessi e frustrazioni.
4. Empatia: percepire i sentimenti degli altri, essere in grado di adottare la loro prospettiva e coltivare fiducia e sintonia emotiva con un’ampia gamma di persone fra loro diverse.
5. Abilità sociali: gestire bene le emozioni nelle relazioni e saper leggere accuratamente le situazioni sociali; interagire fluidamente con gli altri e usare queste capacità per guidarli, per ricomporre dispute, come pure per cooperare e lavorare in equipe.

L’ autoconsapevolezza rappresenta un aspetto centrale per capire la propria vita affettiva e favorire nel bambino tale consapevolezza, determina un consolidamento della capacità di valutare e regolare meglio quello che accade quando si è preda di un’emozione intensa e distruttiva.
Questo nuovo punto di partenza nell’introdurre l’alfabetizzazione nelle scuole fa delle emozioni e della vita sociale vere e proprie materie di insegnamento cosicché questi aspetti tanto rilevanti della vita quotidiana dell’alunno non vengono più considerati come intrusioni non pertinenti né come occasionale materia disciplinare (Goleman, 1995). Le lezioni possono apparire piatte, inadeguate a offrire una soluzione ai problemi che affrontano, ma sono assai significative. L’apprendimento emozionale mette le radici e fruttifica, dando risultati in futuro (Goleman, 1995). In sintesi, il repertorio comportamentale dell’uomo, secondo Goleman, è in buona parte determinato dalle emozioni (Goleman, 1998).

L’esigenza di progettualità, d’altra parte, trova spiegazione e conferma nelle più recenti ricerche psicologiche nell’ambito del disagio che sottolineano la necessità di offrire interventi sistematici di supporto e consulenza ai giovani (Mariani, 2003). Ciò deve avvenire proprio in riferimento alle problematiche della fase “autonoma e prolungata” dell’adolescenza, caratterizzata dall’attivazione di stati emozionali intensi, di sofferenza.

Fondamentale è “essere nella prevenzione” in quanto ci permette di costruire validi e profondi rapporti con i bambini e i giovani, antidoti del disagio.
Sintonizzarsi con gli alunni e con i figli, offrire loro le parole che identificano quello specifico stato emotivo, condividere il significato di ciò che sentono e di conseguenza analizzare le problematiche connesse e le possibili soluzioni è un’azione altamente educativa. Costituisce, infatti, un’occasione di riflessione e di confronto con sé e con l’altro, diminuendo il rischio di perdersi nella “sicurezza” offerta da qualsiasi forma di dipendenza (Mencaroni, 2013).

Se c’è una cosa da considerare, è l’importanza di guardare ai giovani con occhi liberi da ogni pregiudizio culturale, di ascoltarli aprendo la mente e il cuore, perché, se non si propongono valide alternative, “il giovane rabbioso di oggi è destinato a diventare l’uomo solitario e ostile di domani”. (D.Kindlon, M.Thompson, 1999).

E’ indispensabile, infine, riaffermare che “l’alfabetizzazione emozionale può per certi versi apparire come un esercizio banale, o comunque insufficiente a impedire le multiformi manifestazioni del malessere giovanile, ma l’obiettivo finale di formare nell’ambito scolastico esseri umani, in un clima di libertà e dignità, costituisce un traguardo fondamentale per il nostro futuro e per quello della scuola” (Vignati, 2000).

Il diffondersi di esperienze formative centrate sulla crescita emozionale, credo autorizzi la speranza in un futuro nel quale la scuola assumerà il compito educativo prevalente di promuovere qualità e attitudini come l’autocontrollo e la sicurezza di sé, l’esprimere i sentimenti, l’arte di ascoltare e di risolvere i conflitti, di cooperare, e tutte le altre abilità della vita emotiva.

Le anomalie cerebrali correlate all’ADHD sarebbero osservabili già in età prescolare

Lo studio, finanziato dal National Institutes of Health (NIH) americano e pubblicato sul Journal of International Neuropsychological Society, rappresenta il primo esame completo del volume cerebrale dei bambini prescolari con Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività (ADHD) e potrebbe aiutare a determinare nuovi modi per prevedere i bambini più a rischio di sviluppare il disturbo.

 

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività o ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è uno tra i disturbi più comuni diagnosticati durante la prima infanzia. Ad oggi, gli studi di valutazione dello sviluppo cerebrale strutturale nei bambini affetti hanno esaminato soggetti in età scolare, nonostante i sintomi si osservino anche in età prescolare.
Utilizzando la risonanza magnetica (RM) ad alta risoluzione e le misure cognitive e comportamentali, i ricercatori del Kennedy Krieger Institute hanno osservato lo sviluppo cerebrale di 90 bambini di età compresa tra i 4 e i 5 anni. I bambini facenti parte del campione sono stati selezionati con cura per consentire una miglior comprensione dei meccanismi cerebrali associati all’insorgenza del disturbo. Un’ulteriore sfida era rappresentata dalla strumentazione scelta: l’utilizzo della risonanza magnetica con questi bambini è complicato perché richiede l’immobilità per un periodo di tempo relativamente lungo. Per ovviare al problema i piccoli partecipanti sono stati sottoposti a una procedura di desensibilizzazione comportamentale personalizzata in cui si utilizzava uno scanner fittizio per preparare i bambini alle scansioni vere; con queste sessioni di preparazione l’efficienza del trial clinico è stato quasi del 90%.

I risultati indicano che le anomalie a livello della struttura cerebrale possono essere evidenti già nelle prime fasi dello sviluppo, in particolar modo si è osservato che i bambini in età prescolare con ADHD mostrano un volume cerebrale significativamente ridotto in più regioni della corteccia cerebrale, inclusi i lobi frontali, temporali e parietali, regioni tipicamente coinvolte nel controllo cognitivo e comportamentale.
Le evidenze trovate rappresentano la prima fase di uno studio longitudinale che seguirà i bambini fino in adolescenza con l’obiettivo di prevedere i soggetti che svilupperanno con più probabilità il disturbo nel corso degli anni.

Mark Mahone, autore principale dello studio ha affermato: Lo studio conferma che l’ ADHD è una condizione che presenta manifestazioni a livello sia fisico che cognitivo. La nostra aspirazione è quella di riuscire a riconoscere i primi sintomi, cerebrali e comportamentali, maggiormente associati al disturbo e perché no, identificare gli aspetti dello sviluppo precoce che possono condurre a miglioramenti. Comprendere ciò che accade nel cervello può portare a creare interventi mirati e preventivi nei bambini piccoli per ridurre gli esiti negativi o addirittura invertire il corso di questa condizione.

I percorsi clinici della Psicologia – Metodi strumenti e procedure nel SSN (2018) – Recensione del libro a cura di Daniela Rebecchi

Negli ultimi anni in Italia si assiste ad un incremento dei problemi di salute mentale, in particolare dei sintomi di ansia e depressione,  soprattutto nella fascia di età giovanile. Come far fronte al fenomeno?

Sara Sgambati

Questo dato sulla salute mentale indica innanzitutto la necessità di interventi adatti ai bisogni emergenti e specifici delle singole popolazioni di utenti.

“I percorsi clinici della psicologia” rappresenta il continuativo e prezioso lavoro condotto sul campo degli stessi professionisti psicologi-psicoterapeuti dell’AUSL di Modena che hanno contribuito a scrivere il volume. Il libro vuole essere un utile strumento per l’attività clinica svolta con un metodo strutturato, basato su evidenze scientifiche e linee guida, che propone procedure d’intervento validate per i problemi di salute trattati nelle diverse realtà sanitarie. Al suo interno viene descritta la realtà del Servizio di Psicologia dell’Ausl di Modena, attivo da 15 anni, operante in modo trasversale tra i Servizi e tra i Dipartimenti.

Psicologi e psicoterapeuti nel SSN per la salute mentale

Il volume è diviso in tre parti: nella prima è definita la premessa in base alla quale è nato il libro, ovvero il ruolo della Psicologia all’interno del Sistema sanitario Nazionale. In quella centrale viene posta l’attenzione sull’appropriatezza degli interventi e le valutazioni di esito, necessari per un’operatività ed una professionalità che permettano di adeguare le evidenze al contesto operativo. L’ultima è la parte più operativa, ove vengono delineati i percorsi clinici delle diverse problematiche e/o disturbi rilevanti nel contesto sanitario per l’intervento sulla salute mentale.

A questo proposito, sono proposti protocolli operativi specifici dell’età adolescenziale come nel capitolo “Diagnosi e trattamento sugli adolescenti con sintomatologia di tipo depressivo lieve e moderata”, o propri di una particolare fase del ciclo di vita in “Valutazione e trattamento della depressione in gravidanza e nel post-partum”, o ancora di una dipendenza in “Valutazione e trattamento del gioco d’azzardo patologico”.

Inoltre sono approfonditi ambiti specifici di intervento che suggeriscono esperienze quali: interventi di gruppi psicoeducativi per i familiari di pazienti con disturbo borderline della personalità, o specifici dell’ambito ospedaliero come i trattamenti psicologici per pazienti affetti da patologie cardiache, o ancora su un problematica emergente quale il percorso di accompagnamento al cambiamento per uomini autori di violenza di genere in ambito intrafamiliare. Ogni percorso si declina in studi di evidenza e linee guida fino alla valutazione finale dell’intervento, proponendo strumenti tra cui testistiche da poter utilizzare.

Dalla lettura del libro si coglie quanto, grazie ad un’organizzazione e ad un coordinamento dell’attività psicologica, possano divenire operativi degli interventi disciplinari e professionali di comprovata efficacia e scientificità e quanto questi possano integrarsi e raccordarsi con altre discipline e con altri professionisti sui bisogni e sulle richieste dei pazienti e delle loro famiglie. Si coglie il valore aggiunto che i professionisti sono riusciti a realizzare, per una attività psicologica e psicoterapica che si rapporta con le altre discipline, per la progettualità di interventi di prevenzione e cura e soprattutto per offrire risposte ai pazienti e ai loro familiari con attenzione ai benefici e ai costi che questo comporta.

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