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In ricordo di Giovanni Liotti e delle sue lezioni

Una di quelle notizie difficili da accettare, una notizia ricevuta in una chat di gruppo. Una chat con alcune colleghe ex allieve di Studi Cognitivi che, come me, hanno avuto la fortuna di assistere ad alcune lezioni del Prof. Gianni Liotti. Inutile descrivere il dispiacere in cui tutte siamo piombate subito dopo aver ricevuto la notizia, poi il silenzio, un silenzio dovuto.

Tutti noi abbiamo apprezzato le sue lezioni, dettagliate e organizzate nei minimi particolari, per consentire a chiunque lo ascoltasse di capire la sua teoria e gli importanti risvolti a livello clinico. Argomento centrale delle sue lezioni erano il trauma complesso e i sistemi motivazionali, tematiche che il prof Gianni Liotti ha sempre studiato e su cui ha tanto scritto e pubblicato, fino a diventare famoso in tutto il mondo, tanto da farci invidiare siffatta mente da accademici e clinici d’oltreoceano.

Eppure le sue lezioni erano molto di più: erano uno spalancare le porte su piccoli universi di psicologia, una chiave per leggere con mente da clinico il mondo che ci circonda, anche i suoi aspetti più piccoli e apparentemente banali.

Il curriculum del prof Liotti lo precedeva, e chiunque lo abbia incontrato almeno una volta ne capisce il motivo. Eppure, tra le tante nozioni che ci ha trasmesso, ho un ricordo in particolare che credo mi accompagnerà a lungo nella professione: il prof. Liotti spiegava il primo incontro con un paziente traumatizzato, descriveva in che modo una sua paziente si faceva del male per non sentire un dolore più grande, quello del trauma subito in tenera età. Nel sentire la descrizione di quegli agiti autolesionistici, molti degli studenti presenti hanno assunto un’espressione di paura, spaventata. È stato allora che il prof Liotti ha detto:

“non dovreste reagire così dinnanzi a chi vi racconta tanto dolore, bisognerebbe pensare che è una persona che soffre e che quello è l’unico modo che ha per gestire la sofferenza”.

È una frase che forse molti studenti si sentono ripetere dai propri didatti, ma il tono di voce con cui fu detta da Liotti mi ha ricordato l’estrema importanza di non essere giudicante, mai, dinnanzi alla sofferenza altrui. Perché, si sa, il più delle volte se si diventa degli illustri studiosi, si è dei grandi clinici di partenza. E per essere grandi clinici, non si può non essere persone sensibili ed empatiche. La prosodia, l’espressione con cui Liotti ci ha rivolto quelle parole sono state un grande insegnamento di cosa significa essere empatici.

Credo che tutti noi, specializzandi seduti in platea ad ascoltare le sue parole, tenderemo a ricordare le sue lezioni come delle esperienze di grande formazione non solo curriculare. Sebbene ne sia grata, ritengo di aver avuto la sfortuna di assistere a poche lezioni di Liotti, penso ai suoi studenti e ai suoi colleghi più stretti, alla perdita che ciò rappresenterà per loro e che il mio dispiacere non sia che una minima parte della loro più grande tristezza. D’altra parte penso, però, che se un didatta ti colpisce e ti resta dentro anche solo dopo poche lezioni, vale la pena ricordare a tutti che persona speciale fosse.

 

Ed è così che mi piacerebbe ricordarlo. In piedi dietro a una cattedra, a godersi il meritato applauso per la sua grande lezione.

 

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista Gianni Liotti per State of Mind nel 2014:

 

Mind wandering nelle persone con ippocampo danneggiato

Mind wandering: è possibile per le persone che hanno l’ippocampo danneggiato? Le scoperte di una recente ricerca del team guidato da Cornelia McCormick

L’ippocampo è una struttura che si trova in entrambi i lati del cervello, nello specifico nei lobi temporali, vicino alle orecchie. Gioca un ruolo importante nella memoria e nel pensiero riferito al passato e al futuro. Proprio questo ha portato una squadra di ricercatori, guidata da Cornelia McCormick al Wellcome Center for Human Neuroimaging, a chiedersi se le persone con danni ad entrambi gli ippocampi siano ancora capaci di mind wandering, partendo dal presupposto che quando sogniamo ad occhi aperti, spesso si tratta di cose che abbiamo fatto o che intendiamo fare. Inoltre: se questi pazienti riescono a vagabondare con la mente, il contenuto dei loro pensieri è diverso da quello dei pazienti sani?

Mind wandering e ippocampo: come si è svolta la ricerca

I ricercatori hanno seguito 6 pazienti maschi con danno bilaterale dell’ippocampo per due giorni durante le ore diurne, occasionalmente chiedendo loro di riferire a cosa stavano pensando e confrontando le loro descrizioni con quelle ottenute da 12 controlli sani. I pazienti con ippocampo danneggiato vagavano con la mente quanto i controlli sani, ma la forma e il contenuto del loro vagare erano molto diversi.
I ricercatori hanno seguito controlli e pazienti (che avevano lesioni piccole ma altamente specifiche all’ippocampo, causate da una forma di encefalite) mentre stavano frequentando un laboratorio psichiatrico dove per due giorni si sono sottoposti a scansioni cerebrali e altri test. Per venti volte al giorno (della durata di 8 ore), i ricercatori hanno domandato ai partecipanti: “A cosa stavi pensando poco prima che te lo chiedessi?”, le risposte venivano immediatamente trascritte. La domanda veniva posta ai partecipanti durante i periodi tranquilli della giornata in cui il vagabondaggio mentale è più probabile.

I risultati della ricerca: le differenze sulla memoria episodica

Codificando le risposte, i ricercatori hanno trovato tassi estremamente elevati di mind wandering – definito come avere pensieri disimpegnati dal mondo esterno (o percettivamente “disaccoppiato”) – tra i pazienti e i controlli, di circa l’80-90%.
Le risposte dei partecipanti rilevano che i pensieri della mente dei pazienti erano molto diversi dai controlli sani. Mentre il mind-wandering dei controlli era per lo più episodico (su eventi passati e presenti) e consisteva in scene visive, il vagabondaggio mentale dei pazienti era in gran parte semantico (sui fatti) e verbale. “Le piccole lesioni selettive del loro ippocampo hanno drammaticamente influenzato la natura del loro vagabondare mentale”, hanno detto i ricercatori.
Questo contrasto nel mind-wandering tra i pazienti e i controlli è giustificato dai test neuropsicologici che hanno rilevato nei pazienti una memoria episodica alterata, ma normale in tutte le altre sfaccettature mnemoniche, compresi i test della memoria di lavoro; quindi è altamente improbabile che fossero incapaci di ricordare i loro pensieri vagabondi.
Sappiamo dalla ricerca fatta con persone sane che la mente che vaga dipende dall’attività in una rete di regioni del cervello nota come “rete modalità predefinita“, che include l’ippocampo. Inoltre, le persone che segnalano viaggi mentali particolarmente ricchi e dettagliati tendono ad avere una connettività più forte tra i loro ippocampi e altre regioni chiave della rete in modalità predefinita.

Tuttavia, questo nuovo studio è il primo a suggerire con forza che un ippocampo intatto è necessario per un “normale” vagabondaggio mentale che coinvolge il viaggio nel tempo mentale e scene visive vivide. I risultati completano anche altre ricerche che dimostrano che i pazienti con danni dell’ippocampo si sforzano di immaginare il passato e il futuro quando vengono incoraggiati a farlo, rivelando che questa menomazione si estende al contenuto del loro pensiero spontaneo.
 
[blockquote style=”1″]Mostrando che l’ippocampo gioca un ruolo causale in un fenomeno onnipresente come il vagabondaggio mentale, questo studio ridefinisce il suo ruolo tradizionalmente percepito nella memoria episodica, ponendolo al centro nelle nostre esperienze mentali quotidiane[/blockquote]

concludono i ricercatori.

Ricordo di Gianni Liotti

È mancato Gianni Liotti, un amico e un importante esponente nell’ambiente scientifico della terapia cognitivo comportamentale italiana e internazionale.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Gianni Liotti fu socio fondatore della SITCC, la Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale, e portò in Italia un modo innovativo e curioso di tentare di mettere in relazione ciò che veniva dalla ricerca evolutiva, dalle neuroscienze, dagli studi sul funzionamento dell’affettività con il mestiere di psicoterapista in un periodo in cui l’unico paradigma psicoterapeutico accettato era quello della psicoanalisi. Questo tentativo d’integrazione è stato il suo codice più costante e innovativo. Leggere e studiare scienza a tutto tondo e integrare ciò che appariva nuovo e interessante con la clinica e con la costruzione del progetto psicoterapeutico.

Dopo la collaborazione iniziale con Vittorio Guidano che fruttò l’importante libro del 1983, Gianni Liotti sviluppò il suo modello di psicoterapia cognitiva evoluzionista, dapprima delineandone le basi teoriche (1994, 2001) e poi elaborando gli aspetti clinici con i suoi collaboratori (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2014). Le idee di Liotti si basavano sugli studi neuroscientifici di Michael Gazzaniga, Michael Tomasello, Daniel J. Siegel e molti altri. Si tratta del modello della mente relazionale, ovvero della mente come entità che prende vita nell’interazione sociale e interpersonale. Questo modello è anche evoluzionista perché teorizza che è nel passato evolutivo che possiamo trovare alcune delle prove che la cognizione nasca e si sviluppi solo nella dimensione interpersonale della coscienza.

Tra gli esempi di nascita della mente relazionale che Gianni Liotti amava ricordare, c’era frequentemente quello dell’atto primordiale di indicare la preda. Nella notte dei tempi un Homo Sapiens indicò una preda da cacciare a un suo compagno. Quel complesso atto cognitivo che fu riconoscere un animale, indicarlo al compagno e significare, per mezzo di quell’atto, una complessa azione di caccia, cattura e uccisione di una preda -legata a sua volta a sofisticate intenzioni pratiche, sociali e cognitive, come cucinarla, procurare da mangiare al proprio gruppo, ottenere rispetto e onore nella tribù e così via- avvenne soprattutto attraverso un episodio interpersonale: io che indico a te –amico mio- e ti propongo una cosa da fare assieme. Al di fuori di quella interazione non sarebbe possibile alcuna cognizione e non era e non è possibile l’esistenza di una mente. Come è noto, non sempre eravamo d’accordo con le sue idee cliniche ma ci piace ricordarlo così, mentre ci raccontava questa storia antichissima e piena di poesia.

Banksy - Trolley Hunters - 2006
Banksy – Trolley Hunters – 2006

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista Gianni Liotti per State of Mind nel 2014:


 

 

Gianni Liotti - SITCC 2012
Gianni Liotti, Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero durante il congresso SITCC 2012 a Ginevra

La regolazione emotiva: sopprimere le emozioni negative può aiutarci a stare meglio?

Un recente studio sembra suggerire che la regolazione emotiva può influire significativamente sui propri sentimenti e sui propri ricordi emotivi. Tutto ciò potrebbe condurci verso nuove modalità di intervento per la depressione.

 

Un recente studio, pubblicato sulla rivista Neuropsychologia, ha indagato come la regolazione emotiva influisce su sentimenti e ricordi negativi. I risultati ottenuti sembrano suggerire la possibilità di sviluppare nuovi metodi di intervento terapeutico per il trattamento della depressione. Spesso i famigliari di pazienti depressi consigliano loro di evitare di soffermarsi troppo sulle emozioni negative e di “andare oltre”, ma compiere questo passaggio non è così semplice.

Nel presente studio, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi, di cui uno di controllo, da 17 soggetti ciascuno, ed è stata monitorata l’attività cerebrale dei soggetti tramite risonanza magnetica funzionale. Il monitoraggio è avvenuto mentre i partecipanti svolgevano un compito di valutazione dell’immagine. Le immagini, 180 in totale, sono state scelte in base ai contenuti neutrali o appositamente create per suscitare emozioni negative. Al primo gruppo è stato chiesto ai partecipanti di sopprimere volontariamente, attraverso esplicite indicazioni, le emozioni negative insorte durante la valutazione della negatività delle immagini. I partecipanti del secondo gruppo, invece, hanno ricevuto delle indicazioni in grado di suscitare la soppressione non consapevole delle emozioni insorte in seguito alla valutazione della negatività delle immagini.
A distanza di una settimana dalla somministrazione delle immagini, i ricercatori hanno misurato gli effetti a lungo termine delle immagini negative sulla memoria episodica.
In questo modo, sono stati dunque esplorati sia gli effetti immediati, ovvero l’esperienza emotiva, sia gli effetti a lungo termine, ovvero la memoria episodica, della regolazione emotiva.

Regolazione emotiva: è possibile sopprimere le emozioni negative?

È emerso come la soppressione esplicita (primo gruppo) sia stata capace di ridurre le valutazioni emotive delle immagini negative. A livello neurale, la soppressione esplicita si mostra con una diminuzione dell’attività nell’amigdala e nel giro frontale inferiore. È stato inoltre registrato come entrambe le forme di soppressione siano associate ad una ridotta connettività funzionale tra amigdala-ippocampo e tra giro frontale inferiore-ippocampo, aree del cervello deputate alla codifica di ricordi emotivi.
Tali risultati permettono un avanzamento nella conoscenza dei meccanismi della soppressione emotiva implicita ed esplicita circa la percezione e la memoria, suggerendo l’impatto che essi hanno sui meccanismi top-down e bottom-up coinvolti nelle interazioni cognizione-emozione.

Inoltre, i risultati dello studio dimostrano come gli effetti immediati (esperienza emotiva) cambiano se la soppressione è esplicita piuttosto che implicita, in base al modo in cui il cervello elabora le immagini. Solo i partecipanti che hanno soppresso esplicitamente le proprie emozioni negative si sono sentiti meglio durante la visualizzazione delle immagini negative.
Gli effetti a lungo termine (memoria episodica), invece, risultano simili sia in un caso che nell’altro. A distanza di una settimana dalla visualizzazione delle immagini, infatti, sia la soppressione esplicita sia quella implicita hanno ridotto la capacità dei partecipanti di ricordare le immagini.

Il presente studio ed i risultati ottenuti forniscono alcune informazioni utili per aiutarci a capire come sia possibile fronteggiare i sintomi della depressione o di altri disturbi dell’umore in quanto “sopprimere le emozioni sembra ridurre i ricordi negativi, sia che lo si faccia consapevolmente o inconsciamente”, sostiene Katsumi.
Eppure, non sempre è possibile per tutti rifarsi alla soppressione esplicita, in quanto è un processo che richiede uno sforzo significativo dal punto di vista cognitivo e spesso le persone in condizioni cliniche non hanno le energie per attingere alle proprie risorse cognitive.

Il comportamento prosociale: come può cambiare in seguito a un trauma cranico

E’ possibile che due veterani di guerra, entrambi con trauma cranico causato da uno sparo, attuino un comportamento prosociale completamente differente tra loro: uno tende a donare il proprio denaro alle entità sociali in cui crede, e l’altro punisce le istituzioni che non lo rappresentano?

 

La risposta a queste differenze comportamentali si basa su aree cerebrali, che dopo essere state danneggiate durante la guerra del Vietnam non funzionano più come dovrebbero. Per chiarire questi meccanismi, un team di neuroscienziati guidati da Oliveira-Souza, autori di una ricerca pubblicata su Brain, hanno studiato il comportamento altruistico – azioni a beneficio degli altri – nei veterani del Vietnam.

Gli effetti del trauma cranico a livello comportamentale

Sappiamo che il trauma cranico può cambiare diversi domini di comportamento, alterando il comportamento sociale o la memoria, ad esempio, a seconda di quali aree del cervello sono state danneggiate. Tuttavia, mappare la relazione tra aree del cervello e comportamento può essere difficile, specialmente per comportamenti complessi come l’ altruismo. I veterani di guerra costituiscono un’opportunità unica per rivelare una relazione causale tra il modo in cui specifiche aree del cervello sono coinvolte nel comportamento prosociale.

Questo studio, che appartiene al filone di un’iniziativa di ricerca avviata durante gli anni ‘80 mirata a studiare le i cambiamenti del cervello nei veterani di guerra, comprendeva 94 veterani di guerra con trauma cranico con penetrazione e 28 del gruppo di controllo coinvolti comunque nei servizi di guerra in Vietnam ma senza lesioni cerebrali.

Tutti i partecipanti venivano sottoposti a un esame del cervello tramite tomografia computerizzata (TC), un metodo non invasivo che consente di indagare i danni cerebrali.

Oltre all’analisi computerizzata, i veterani venivano coinvolti in un compito di decisione altruistica al fine di individuare le loro capacità di ragionamento morale. In questo test, a ciascun partecipante veniva richiesto di donare o punire 30 organizzazioni di beneficenza coinvolte in importanti questioni sociali, come l’aborto e il controllo delle armi.

Ogni decisione (donare o punire) costava $ 1, mentre evitarli comportava risparmiare. Nel compito di decisione, le donazioni e le punizioni sono in genere decisioni altruistiche: comportano l’elargizione dei propri fondi per avvantaggiare terze parti.

Questo test è diverso dagli altri perché ci consente di approfondire le loro intenzioni morali, dal momento che donano o puniscono ciò che ritengono giusto o sbagliato – spiega Ricardo de Oliveira-Souza, neurologo del D’Or-Institute for Reasearch and Education.

Il comportamento prosociale nel cervello

Collegando le prestazioni dei partecipanti al test alle loro lesioni cerebrali, gli scienziati hanno scoperto che i veterani che hanno punito di più hanno mostrato lesioni bilaterali nella corteccia prefrontale dorsomediale. D’altra parte, una minore punizione era associata a lesioni nella corteccia sinistra temporo-insulare e destra perisilviana. Tuttavia, le decisioni di donare a una determinata organizzazione sono state associate a lesioni in altre aree del cervello.

L’aumento delle donazioni era legato a lesioni bilaterali nella corteccia parietale dorsomediale, mentre la diminuzione delle donazioni è stata osservata nei veterani che avevano sofferto danni nelle parti posteriori dell’emisfero destro, tra cui il solco temporale superiore e il giro medio-temporale.

Le nostre scoperte rivelano che abbiamo due distinti circuiti cerebrali che entrano in azione in una situazione morale: uno di loro punisce, l’altro dona – sottolinea Oliveira-Souza.

Precedenti studi hanno evidenziato l’importanza di queste aree cerebrali per determinare il senso di moralità e giustizia nei confronti degli individui o dei gruppi sociali. Secondo gli autori, il presente studio rafforza l’idea che le decisioni altruistiche e il comportamento prosociale emergano da complessi processi cognitivi che entrano in azione durante una decisione morale, ad esempio se si è a favore o contro i diritti civili.

Speriamo che imparando di più sui meccanismi cerebrali del comportamento altruistico e del relativo comportamento prosociale possiamo promuovere i comportamenti sociali positivi che le famiglie desiderano, in particolare nei pazienti in riabilitazione per diverse forme di disturbi neurodegenerativi o lesioni cerebrali – dice Jordan Grafman, Brain Injury Research Program, Shirley Ryan AbilityLab, Chicago, USA.

In futuro, gli autori si aspettano di valutare soggetti giovani e le donne con il compito di decisione altruistica, al fine di indagare la possibile presenza di differenze nei circuiti cerebrali della moralità legati al sesso e all’età.

 

Favorire un’efficace gestione delle emozioni nei bambini

L’acquisizione della capacità di regolazione emotiva in età evolutiva si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche, migliorando la qualità di vita dei bambini.

 

Le emozioni assumono un ruolo centrale nella vita degli esseri umani. Lo stato emotivo determina, in modo sostanziale, lo stato di benessere o malessere delle persone e ne influenza le azioni. Ad esempio, alcuni comportamenti disfunzionali come abbuffate, agiti aggressivi, abuso di sostanze, promiscuità, autolesionismo e disturbi internalizzanti come ansia e depressione, sono generati da un’inefficiente regolazione delle emozioni. Per questo motivo, per i genitori risulta fondamentale aiutare i propri figli ad acquisire abilità di regolazione emotiva efficaci, che incidano positivamente sul loro stato di benessere fisico e psicologico.

L’acquisizione di utili modalità di gestione dei propri stati emotivi in età evolutiva, si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche, migliorando decisamente la qualità della vita dei bambini. Ecco alcuni suggerimenti efficaci:

  • Auto- regolazione emotiva sana: i bambini sono ottimi osservatori e tendono a imitare i comportamenti e le reazioni dei propri genitori. Mantenere un atteggiamento calmo e coerente, evitando, ad esempio, di urlare o assumere atteggiamenti intimidatori, a seguito di determinati comportamenti dei bambini (come non sistemare i giocattoli o sporcare casa), può incidere molto nell’aiutare i propri figli a imparare la regolazione emotiva e l’autocontrollo.
  • Riconoscere e validare le emozioni: è importante che i genitori, e in genere gli adulti, facciano attenzione allo stato emotivo dei bambini. In particolare, un atteggiamento giudicante e poco empatico risulta disfunzionale e può spingere i bambini a reprimere le loro emozioni, in quanto etichettate come “sbagliate”. Al contrario, un atteggiamento empatico degli adulti che riconosce e valida l’esperienza emotiva dei bambini, comunica che tutte le loro emozioni sono importanti e che queste, seppur alcune volte possano risultare scomode, non sono pericolose e possono essere gestite. A seguito di interventi empatici da parte dei genitori, i bambini iniziano ad accettare ed elaborare le proprie emozioni, ottenendo una migliore consapevolezza e controllo emotivo.
    Data l’importanza di questo atteggiamento, fondamentale anche all’interno di setting terapeutici, ritengo sia molto utile riportare l’esempio esposto da O’Brien: sei al parco, ed è ora di partire, quindi dai ai tuoi figli un avvertimento: “Ancora cinque spinte nell’altalena e poi è ora di andare”. A questo punto, i bambini spesso si arrabbiano; quindi, il compito dell’adulto è quello di convalidare i loro sentimenti dicendo: “So che ti stavi divertendo. Dobbiamo andare, ma possiamo tornare un altro giorno o possiamo giocare con i tuoi giocattoli a casa”. In altri casi, se il comportamento dei bambini è pericoloso, si può dire: “So che ti piace, ma non è sicuro. Mi dispiace che tu sia arrabbiato (o triste, o deluso) … “.
  • Limita le loro azioni ma non le loro emozioni: quando i bambini sperimentano un’emozione, ad esempio rabbia, dire loro di calmarsi o punirli non cambierà il fatto che loro si sentano arrabbiati. Al contrario, interventi di questo tipo comunicano al bambino che le sue emozioni sono “cattive” o “sbagliate”, così, quest’ultimo cercherà di reprimerle con conseguenze dannose sul proprio sviluppo. Un approccio decisamente migliore è insegnare loro le abilità per gestire le emozioni.
    Un altro fattore fondamentale è porre una netta distinzione tra le azioni e le emozioni che proviamo. In particolare, è importante insegnare ai propri figli che non possiamo scegliere le nostre emozioni, ma possiamo scegliere il modo in cui ci comportiamo; ad esempio, va bene arrabbiarsi, ma non è giusto colpire gli altri o lanciare gli oggetti.
  • Lascia che ti parlino: un’altra strategia che favorisce un buona regolazione emotiva è incoraggiare il bambino a parlare delle sue esperienze, come eventi accaduti a scuola o in altri contesti, con i pari e con gli adulti. Comunicare, non solo la descrizione dell’evento, ma il modo in cui i bambini si sono sentiti, il loro vissuto interiore e le loro reazioni, favorisce una maggiore elaborazione e organizzazione dell’esperienza, che li aiuta a esprimere e lasciar andare tristezze, paure o rabbia legate all’evento stesso. Questa strategia rappresenta un fattore di protezione, eliminando la possibilità di traumi irrisolti ed emozioni represse che tendono a ripresentarsi in futuro, incidendo negativamente sul benessere.
  • Aiutali a trovare sbocchi emotivi salutari: un’importante strategia che incide positivamente sulla qualità di vita, implica apprendere come incanalare le emozioni negative in modi positivi e costruttivi. Avere uno sbocco emotivo sano, come ballare, suonare uno strumento, dipingere, scrivere o intraprendere uno sport, consente al bambino, non solo di rilasciare qualsiasi emozione repressa, incidendo positivamente sulla loro salute mentale, ma anche di migliorare la propria vita sociale.

Non è possibile decidere che emozioni sperimentare, ma possiamo insegnare ai nostri figli come gestirle, guidandoli verso una modalità di auto- regolazione emotiva, in modo tale che queste non vengano vissute come pericolose, in quanto al di fuori della sfera del controllo. Sperimentare le emozioni in maniera adattiva incide positivamente su uno sviluppo sano del senso del sé, sulla salute mentale e sul benessere sociale.

Il Partito Democratico alla deriva: l’universalismo ha cozzato con il bisogno di appartenenza degli esclusi

Può la psicologia farci capire qualcosa della deriva in cui si è cacciato il Partito Democratico? Forse sì, se riflettiamo che la missione di quel partito, e della sinistra europea in genere, è un muscolo stirato dal difficile compito di assicurare l’inserimento economico e sociale universalista agli esclusi e senso di appartenenza civile e sociale ai penultimi.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 24/03/2018

 

Qual è il problema? È che l’inserimento degli esclusi corrode il senso di appartenenza dei penultimi -ma anche dei terzultimi e dei quartultimi e sempre più su nella scala sociale fino alle posizioni alte della fascia media- che così reagiscono ricercando un identitarismo chiuso e sospettoso. Finché lo sviluppo economico coniugava innovazione, sicurezza d’impiego e inclusività, la quadratura riusciva. Merito di Keines più che di Marx, ma non sottilizziamo. Ancora prima era stato lo stesso Marx ad assicurare la quadratura, non con una formula economica di successo (il vecchio filosofo non era forte in questo) ma attraverso una profezia palingenetica che seguiva a una analisi spietata dei difetti del capitalismo, anzi delle sue contraddizioni come si diceva in gergo.

Consideriamo ad esempio l’analisi di Paul Mason, pensatore che peraltro si colloca alla sinistra del PD. Il suo lavoro è davvero istruttivo e fa capire con sottigliezza perché il neoliberismo addomesticato di Blair e Clinton adottato dal PD non riesce ad avere l’afflato universalistico che aveva il modello di Keines. Il problema non è però l’analisi ma la genericità delle soluzioni. Anche Mason conclude la sua esplorazione accontentandosi di aver messo in luce le “contraddizioni” della realtà, irrimediabilmente di destra. Il suo essere di sinistra si riduce all’invocazione di un modello universale che accontenti tutti, dimenticando che fare politica è trovare soluzioni parziali che, senza distruggere nessuno, al tempo stesso realisticamente prendano atto che ogni scelta implica comunque una parziale preferenza per alcuni classi sociali e per alcuni bisogni, compresi quelli identitari e di appartenenza, con tanti saluti all’universalismo progressista. Come accontentare il bisogno identitario senza essere un po’ meno universalisti e quindi un po’ meno di sinistra è un mistero a cui nessuno finora ha saputo rispondere, men che meno quella sinistra anti-modernista e pasoliniana che ha preso atto che anche di questo bisogno occorre prendere atto contro l’universalismo spersonalizzante del capitalismo. Non basta: Mason tenta anche di proporre qualche soluzione, tra le cui pieghe, va detto, è facile vedere qualche dettaglio sovranista e identitario sebbene ben celato, dettaglio che fa a pugni col bisogno universale del pensiero progressista.

Orfano della profezia marxista e del generatore keinesiano di benessere, il PD cerca di andare incontro alle classi oppresse ma offre loro un universalismo che cozza con i loro bisogni appena meno profondi di quello di mangiare: ovvero il bisogno di appartenere e di definirsi anche escludendo qualcuno. Atomizzate da un precariato che non offre sicurezze, percosse da una percezione d’irrilevanza culturale, le classi sociali escluse ma non oppresse non sanno che farsene di sogni universali che somigliano troppo a quella vita metropolitana e stilosa e cool che concorre significativamente a farle sentire profondamente sfigate nella loro provincia e o nelle loro periferie, dalle parti del bar del Giambellino, peraltro oggi di proprietà di una famiglia di cinesi. Insomma, non sarebbe un problema economico ma di carenza di appartenenza e di visibilità, ovvero di sfiga.

Chi è invece attratto dall’offerta del PD? Chi condivide il progetto d’individualismo universalista dei meriti e della vita libera dai lacci non tanto del capitalismo (quelli rimangono) ma del conservatorismo, sensibile alle sofferenze dei veri ultimissimi della terra e non dei penultimi (a questi anzi va un certo disgusto): i migranti nei barconi minacciati dal mare, gli abitanti in fuga o impossibilitati alla fuga delle mille terre in guerra, le donne maltrattate e costrette a battere sul ciglio della strada come rifiuti del mondo. Lo è chi è sensibile alle sofferenze altrettanto stringenti delle tante minoranze di genere o razziali e infine alla sofferenza della terra intera, inquinata dall’uomo e dalle sue passioni sanguinarie e carnivore.

Preoccupazioni così universali ed elevate finiscono per trovare un elettorato solo nelle grandi metropoli del mondo occidentale, mentre non attecchiscono nella grande provincia esclusa, lo strapaese incattivito non solo dalla crisi -e a volte non tanto dalla crisi, che pare stia passando- ma soprattutto dal senso di irrilevanza e di disorientamento culturale. Anche queste, si potrebbe dire, sembrano sofferenze non particolarmente incisive, solo diversamente futili dalle preoccupazioni etiche del ceto riflessivo che abita in centro. Intanto però sono sofferenze che contano nel segreto dell’urna. Già qui si è parlato dell’importanza psicologica per i gruppi sociali del senso di appartenenza.

Baumeister e Leary (1995) hanno studiato il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto. Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un aspetto umano che va compreso e controllato, ma non eliminato. Striato da queste opposte tensioni, il PD finisce per privilegiare il versante universalista e cerca di rassicurare i penultimi promettendo sicurezza economica, ma nella maniera che meno piace ai penultimi: attraverso l’impiego precario e non fisso, come lo era invece quello assicurato dai keinesiani anni di vacche grasse.

Un bel problema, perché così facendo il PD finisce per apparentarsi a classi sociali che di sinistra sicuramente hanno la mentalità, ma manco per niente l’estrazione sociale. La sinistra finisce quindi per rappresentare non una classe sociale, ma uno schieramento etico. E il suo progetto non è più politico, ma –di nuovo- etico e prescrittivo. Difficile pensare a qualcosa di meno marxista. Che fare? Direbbe Lenin. Meglio non pensarci troppo, in attesa di un nuovo Keines o, almeno, di un nuovo Marx che riavvii il motore singhiozzante della sinistra. Non solo in Italia.

 

Il quinto principio di Paul Williams (2014) – Recensione del libro

Primo di una trilogia che Paul Williams ha iniziato a comporre nel 2010, “ Il quinto principio ” racconta la storia dell’infanzia del piccolo Paul, dalla nascita alle scuole elementari. Il racconto è inevitabilmente dell’adulto, o meglio di un Paul adulto che guarda al bambino cercando di descriverne i pensieri, le emozioni, le reazioni più intime. Il testo è breve ma fondamentale per ogni lettore o terapeuta che abbia desiderio di capire gli effetti devastanti del trauma infantile sulla mente di un bambino.

 

Mia madre aveva un sesto senso per colpirci quando eravamo spiazzati o
ci sentivamo tranquilli o ci eravamo divertiti lontano da lei. […]
Sembrava che l’obiettivo della aggressioni fosse di umiliarci e noi eravamo umiliati, ma c’era qualcos’altro. Capii che questo qualcos’altro era l’odio per i bisogni e i sentimenti dei bambini […].
A 4 anni capii che non dovevo più chiederle niente e che dovevo rendermi invisibile.
(da “ Il quinto principio ” di Paul Williams, 2014).

 

Il quinto principio: la storia dell’infanzia del piccolo Paul con gli occhi del Paul adulto

Il lavoro terapeutico dell’adulto – e del Paul Williams psicanalista – chiarifica alcuni passaggi del racconto e permette al lettore di mantenere uno sguardo “metacognitivo” sugli eventi raccontati, che certamente il Paul bambino non avrebbe potuto avere. In questo emerge una grande differenza espressiva rispetto a “Feccia”, il secondo romanzo della trilogia, in cui è l’adolescente a parlare direttamente e a bucare il foglio con parole, pensieri ed emozioni poco o quasi per nulla mediati dall’adulto.

Nonostante il maggior distacco, “ Il quinto principio ” riesce con forza a trasmettere il contatto profondo con quel bambino, con i suoi pensieri e con la sua innata capacità di sopravvivere all’impensabile, offrendo alla coscienza del lettore una brusca sveglia rispetto all’urgenza di intervenire precocemente sulle storie di abuso, maltrattamento e trascuratezza infantile, con tutti i mezzi terapeutici a nostra disposizione.

La forza del racconto muove dalle condizioni estreme in cui Paul ha dovuto vivere sin dalla nascita, trovando in piccoli gesti, strategie e fughe quotidiane, soluzioni essenziali alla sua resilienza. Come è ormai noto in letteratura, vivere un contesto perennemente minaccioso genera necessità ed emozioni differenti: un singolo – seppur grave – evento traumatico può infatti innescare paure, immagini intrusive, un senso di perdita e di fallimento tali da limitare la possibilità di esplorare alcuni spazi di vita prima affrontati senza timori. Quando però ci si trova esposti a molti traumi psicologici nel corso dell’infanzia (trauma cumulativo o complesso), la mente deve adattarsi a ripetute condizioni di minaccia alla vita, di grave trascuratezza e di rinuncia a bisogni primari universali: nutrimento, protezione, sicurezza. In queste condizioni, il cervello e la mente devono ri-organizzare completamente le risposte difensive e renderle più complesse, pervasive ed efficaci nell’affrontare un mondo perennemente imprevedibile e oscuro.

Un contesto familiare gravemente maltrattante e trascurante, genera nella mente di un bambino un paradosso senza soluzione o, come qualcuno la definirebbe, “paura senza sbocco” (Liotti, 2005): non posso restare perché potrei morire, non posso andare perché potrei morire.
L’alienazione dagli altri e da sé è dunque l’unico rifugio sicuro.

I principi guida del piccolo Paul

Da questa urgenza di sopravvivere, nascono i principi che Paul Williams descrive e che costituiscono una sintesi eccellente di quello che un terapeuta deve saper riconoscere quando si trova di fronte a storie di abuso e maltrattamento infantile. Alle sue parole la descrizione dei principi guida del piccolo Paul:

La vergogna fu l’origine del mio Primo Principio di vita: Tutto ciò che facevo o dicevo era sbagliato.
Questo Principio era alla base del Secondo, del Terzo e del Quarto,
che elaborai a 4 anni per affrontare le conseguenze del Primo.
Il Secondo Principio diceva: Non credo a quello che dicono. La verità è l’opposto di quel che dicono.
Il Terzo Principio era: La rabbia mi terrà in vita.
Il Quarto Principio era: Se lavorerò il doppio degli altri, sarò in grado di vivere un vita che sarà molto simile a una normale.”

Ogni Principio è necessario alla sopravvivenza, ma allo stesso tempo finisce per creare teorie sul mondo, credenze fisse, pensieri automatici, schemi di comportamento e reazioni emotive che resteranno nell’adulto anche molti anni dopo la fine delle torture emotive compiute dai genitori. Su questi frammenti residui dell’esperienza infantile, il lavoro terapeutico può esercitare il suo profondo potere trasformativo e migliorare il futuro di chi ha combattuto sin da piccolissimo una battaglia impari, ingiusta e non evitabile.

Il Primo principio è la risposta migliore possibile all’umiliazione e alla violenza fisica vissuta con i genitori: se è Paul ad essere sbagliato, se è sua la colpa di tutto, allora può fare qualcosa per essere più bravo e sottrarsi agli insulti e alle percosse. “E’ più facile essere un bambino cattivo con dei genitori buoni, che un bambino buono con dei genitori cattivi” (Jim Knipe, 2018). Nel secondo caso Paul non avrebbe infatti nessuna possibilità di prevedere le loro reazioni, nel primo caso invece resta a lui una piccola illusione di controllo e di speranza nel poter cambiare le cose.

Il Secondo principio descrive il cuore del trauma infantile: il tema di sfiducia verso gli altri è l’elemento più doloroso e persistente nelle vittime di traumi relazionali; ogni essere umano diventa potenziale fonte di pericolo e imprevedibilità, quindi vivere “in trincea” come soldati appare come una valida soluzione per proteggersi, anche rinunciando all’intimità e al calore degli altri, se necessario.

Il Terzo Principio segue in linea diretta il Secondo: la rabbia è un’emozione più tollerabile della tristezza e del dolore dell’abbandono. Nelle vittime di traumatizzazione cronica la vulnerabilità non è un’opzione e non può essere mai mostrata. In quest’ottica non è difficile comprendere come sentirsi arrabbiati, reattivi e pronti a combattere (fight) sia indubbiamente un’emozione più sicura in cui stare, rispetto alla vergogna, alla disperazione, alla colpa, alla solitudine, o persino alla gioia.

Il Quarto principio è una strategia di adattamento ai continui attacchi all’autostima: le doverizzazioni, l’auto-sacrificio, gli standard alti, il perfezionismo, la sottomissione agli altri. Il senso pervasivo di inadeguatezza nelle vittime di trauma può diventare cronico e investire ogni area della vita, facendo accrescere l’idea che il successo e l’accettazione siano possibili solo a condizione di estrema efficienza, competenza e capacità. La paralisi sarebbe inevitabile, dunque il quarto principio nella sua durezza offre a Paul una soluzione per uscire dal guscio e tentare – nonostante tutto – la strada tutta in salita del confronto con gli altri.

E il Quinto principio? ..Lascio alla lettura del testo la soluzione che porterà Paul a capovolgere la sua traiettoria esistenziale e a smantellare un pezzo alla volta la vergogna e il terrore della sua infanzia.

Il (falso) mito del successo secondo la psicologia positiva. Bastano soldi, fama e successo per essere felici?

Nell’epoca moderna il binomio successofelicità è spesso veicolato dai mass media come unico obiettivo del singolo nella collettività. Vi è un’ambigua correlazione tra benessere materiale e benessere soggettivo e spesso questa correlazione è diversa tante quante sono le culture alle quali viene applicata. E’ realmente questo il senso della frenetica corsa quotidiana, da qualche decennio a questa parte? Le persone benestanti sono più felici?

 

La felicità va di pari passo con il benessere materiale?

Benché i confronti tra Paesi del mondo dimostrino una discreta correlazione fra ricchezza nazionale misurata dal prodotto interno lordo e livello di felicità dichiarata dagli abitanti (Inglehart, 1990), questa correlazione non è poi così lineare: giapponesi e tedeschi, per esempio, si dichiarano molto meno felici degli irlandesi, nonostante il PIL dei loro Paesi risulti doppio rispetto a quello dell’ Irlanda.

Rimpicciolendo il focus della nostra lente di osservazione sul micro-sistema, in una recente ricerca longitudinale finanziata dalla Sloan Foundation, condotta con strumenti qualitativi atti a misurare il vissuto quotidiano di 1000 adolescenti americani, i risultati hanno dimostrato una correlazione negativa tra benessere materiale e felicità (Csikszentmihalyi e Schneider, in stampa): i ragazzi degli strati socioeconomici più alti dichiaravano un livello di felicità più basso rispetto ai loro coetanei degli strati più poveri.

Questi risultati possono essere considerati come un dato concreto o le norme della loro classe sociale prescrivono di dichiararsi “meno felici del vero”?

Se D. Kanheman, economista premio Nobel, ha riscontrato che “ricchezza e povertà hanno leggere differenze sull’impatto nella vita delle persone”, è anche vero che, secondo il Financial Times, il 23% delle persone più ricche al mondo “sono ossessionate dal costante stress finanziario”, tanto quanto le persone della media borghesia.
Nonostante le evidenze scientifiche, la maggior parte delle persone continua a credere che i loro problemi sarebbero risolti “se avessero più soldi”. Per quanto sia gratificante essere ricchi e famosi nessuna ricerca conferma il fatto che avere ricompense materiali bastino da sole a rendere le persone felici, per quanto ad esse siano collegate la serenità familiare, le amicizie, il tempo libero (Myers&Diener, 1995).

Qual è il vero segreto della felicità?

Secondo Csikzentmihalyi (2000), il “prerequisito della felicità è coinvolgersi pienamente nella vita. Se le condizioni materiali sono abbondanti tanto meglio ma la mancanza di denaro o di salute non impedisce di trovare l’esperienza del libero flusso (“condizione estatica di totale coinvolgimento emotivo, motivazione e soddisfazione”, ndr) in qualunque circostanza si presenti”. Ad avvalorare la sua teoria, infatti, sembra che i figli delle famiglie più ricche incontrino più difficoltà rispetto ai loro coetanei meno benestanti: tendono ad essere meno partecipi e meno entusiasti, si annoiano di più e si divertono di meno, probabilmente dato dal fatto che passano meno tempo di qualità con i loro genitori (Hunter, 1998).

Diventa difficile dunque, specie per i giovani, distinguere davvero tra ciò che rientra nella loro sfera d’interesse e ciò che è iscritto nel loro status sociale.
E’ per questo che John Locke ammoniva a non confondere la felicità immaginaria da quella reale (“quella del cuore”) e già Platone, 25 secoli fa, scriveva che il compito più urgente al quale siamo chiamati noi educatori, insegnanti, genitori, “adulti significativi” (per parafrasare J. Bowlby) è “insegnare ai giovani a trovare il piacere nelle cose giuste”.
E’ nel cammino e non nella meta che sta la felicità? Ebbene sì.

Nel libro “La trappola della felicità”, Russ Harris, medico e psicoterapeuta, spiega perché il desiderio delle persone di essere ricche e famose è un’arma a doppio taglio, poiché dietro tale desiderio si possono celare molti fattori motivanti.
Una motivazione particolarmente comune è quella di ottenere ammirazione e rispetto da parte degli altri”, spiega Harris (2015). La maggior parte delle persone è convinta che avere soldi, fama e successo sia una scorciatoia per “far colpo sugli altri”, per “essere accettati”, perché siamo troppo spaventati dal far sì che gli altri ci vedano come siamo realmente. Il costo di questo meccanismo è elevatissimo, perché “finiamo di perdere il contatto con le persone che abbiamo intorno e le nostre relazioni mancano di intimità, profondità e apertura”. Siamo letteralmente fusi con la convinzione di “Non valere abbastanza” quindi riteniamo che lo status economico possa renderci “appetibili” per il prossimo, senza dare peso ai valori dei quali siamo portatori, rendendo il nostro percorso più frustrante e deludente di quanto possiamo immaginare.

Il consiglio è di evitare di vivere una vita concentrata sugli obiettivi (“diventare ricco” è un obiettivo) perché, una volta raggiunto quell’obiettivo, questo “non sarà ancora abbastanza”; al contrario, è meglio desiderare di vivere una vita piena, emotivamente ricca, consapevole, soddisfacente, incentrata sui valori “perché i tuoi valori sono sempre a tua disposizione a prescindere dalle circostanza in cui ti trovi”.
Il segreto sta nell’ evidenza scientifica, allora. Meglio trarre maggiore gratificazione dalle esperienze, dalla condivisione di esse, dalla possibilità di poter creare una rete relazionale più ampia, dal processo grazie al quale le persone si mettono in gioco per poter ottenere ciò che desiderano sul piano materiale.

Patologie neurologiche: nuove cure in arrivo senza farmaci?

È possibile trattare le patologie neurologiche con la neuromodulazione delle onde elettriche cerebrali anziché con i farmaci? Una neuroscienziata ha casualmente aperto le porte a interessanti scoperte.

Nel Marzo 2015, Li-Huei Tsai, neuroscienziata presso il Massachussets Institute of Technology a Cambridge, fece involontariamente un’interessante scoperta, lasciando una piccola luce accesa in una gabbietta con alcuni topi da laboratorio.

Ogni giorno, per alcune ore, riponeva in un box illuminato solo da una luce stroboscopica, alcuni topolini modificati in maniera optogenetica per produrre placche β-amiloidi, caratteristica distintiva della malattia dell’Alzheimer.

Una volta dissezionati, Tsai si accorse che quei topolini che erano stati riposti nel box con la luce stroboscopica avevano un livello di placche β-amiloidi significativamente più basso rispetto a quelli che erano nei box ma completamente al buio (Iaccarino, Singer, Martorell et al., 2016).

Per tentare di spiegare tali risultati inaspettati, la ricercatrice e il suo team si concentrarono sulla luce, scoprendo che la luce stroboscopica era di circa 40 Hz e aveva avuto un effetto di modulazione delle onde cerebrali dei topolini innescando in particolare degli effetti biologici che avevano determinato l’eliminazione della produzione delle placche β-amiloidi.

Nonostante questi promettenti risultati siano stati ricavati da modelli animali e siano, per il momento, di difficile replicazione negli esseri umani affetti da patologie neurologiche come l’Alzheimer, essi hanno stuzzicato l’interesse di molti studiosi che da anni stanno cercando di definire il campo delle onde cerebrali e di collegarle in modo robusto alle funzioni cerebrali e ai comportamenti umani disfunzionali o caratterizzanti le patologie neurodegenerative con il fine di trattarli senza l’uso di farmaci (Thompson, 2018).

Come variano le nostre onde cerebrali?

Le oscillazioni delle onde cerebrali sono caratterizzate da una frequenza, ampiezza e origine specifiche. Nonostante molti tipi di onde si osservino in qualsiasi momento dell’attività cerebrale, alcune sembrano dominare durante alcuni comportamenti rispetto ad altre, suggerendo un collegamento:

  • le onde Delta, tra 0.5 e 4 Hz, sono le più lente e sono associate al sonno profondo, senza sogni, le onde Theta, tra 4 e 8 Hz, si osservano a livello della corteccia negli stati meditativi, di sonnolenza o patologici;
  • le onde Alpha, tra 8 e 13 Hz, hanno origine dal lobo occipitale e sono associate agli stati vigili ma con gli occhi chiusi
  • le onde Beta, tra 13 e 32 Hz sono associate invece ai normali stati di consapevolezza vigile e concentrazione
  • le onde Gamma, tra 25 e 140 Hz sono associate alla normale consapevolezza visiva e ai movimenti oculari rapidi durante il sonno (Thompson, 2018)

Come arriviamo ad avere un’esperienza coerente? Cosa accade a livello neuronale?

Molti ricercatori hanno tentato di studiare e utilizzare l’oscillazione di queste onde per influenzare alcune funzioni come ad esempio la percezione consapevole. Randolph Helfrich e colleghi, dell’Università di Berkley, sono riusciti a modulare le onde Gamma con l’aumento o la riduzione, usando una tecnica non invasiva, la stimolazione transcranica a corrente alternata (tACS) e così sono riusciti a influenzare la modalità di una persona di percepire un video con dei punti in movimento (Helfrich, Knepper, Nolte, 2014).

Lo studio delle oscillazioni delle onde fornisce un potenziale meccanismo per comprendere come il cervello crei un’esperienza coerente dalla caotica percezione di innumerevoli stimoli che attivano il sistema sensorimotorio allo stesso momento.

Sembra infatti che la produzione di un’esperienza coerente sia possibile a seguito della sincronizzazione dei neuroni che rispondono tutti allo stesso evento: in particolare le onde cerebrali potrebbero far si che tutte le informazioni rilevanti, collegate all’oggetto percepito, arrivino nelle aree cerebrali preposte al momento giusto (Thompson, 2018).

A parere di Robert Knight, neuroscienziato dell’università di Barkley, la coordinazione di tutti i segnali neurali sarebbe la chiave della percezione.

Come agiscono le onde in alcune patologie neurologiche?

In alcune patologie tuttavia è stata riscontrata una desincronizzazione delle oscillazioni: per esempio nel Parkinson, si osserva un aumento delle onde Beta nelle regioni motorie che determinerebbe l’impoverimento dei movimenti del corpo, aumento che invece non si riscontra nei soggetti non affetti da questa patologia.

Nella malattia dell’Alzheimer si osserva invece una riduzione delle oscillazioni gamma (König, Prichep, Dierks, et al., 2005).

A partire da questi presupposti, una crescente mole di ricerche si sta occupando della modulazione dell’attività cerebrale come possibile trattamento veloce, non invasivo e innovativo per alcune patologie neurologiche, senza l’apporto di farmaci.

Le sfide future: monitorare e manipolare le oscillazioni delle onde nelle patologie neurologiche

La sfida è quella di manipolare in modo efficace le oscillazioni nelle differenti aree cerebrali, utilizzando la luce o i suoni.

Una delle modalità che i ricercatori hanno trovato per monitorare le oscillazioni è il neurofeedback che consente di controllare le proprie onde cerebrali misurate tramite EEG utilizzando cue visivi e uditivi (Marzbani, Marateb & Mansourian, 2016).

In aggiunta al neurofeedback, Phyllis Zee, neurologo alla Northwestern University, e colleghi hanno sviluppato un suono definito “rumore rosa” composto da frequenze che messe insieme richiamano il suono di una cascata, per aiutare gli anziani durante il sonno (Papalambros, Santostasi, Malkani, Zee et al., 2017).

Questo “rumore rosa” eliciterebbe le oscillazioni Delta che caratterizzano il sonno profondo migliorando allo stesso tempo il consolidamento mnestico che si affievolisce con l’avanzare dell’età e che si verifica per l’appunto durante il sonno.

I ricercatori hanno mostrato come questa neurostimolazione aumentasse l’ampiezza delle onde Delta e come quest’aumento fosse associato con un miglioramento del 25-30% delle capacità di recupero delle parole apprese la notte precedente (Papalambros, Santostasi, Malkani, Zee et al., 2017).

Tuttavia queste modalità di neuromodulazione presentano delle limitazioni: sono infatti molto facili da apprendere ma necessitano di un tempo piuttosto lungo affinchè sia possibile intravedere i loro effetti sulle persone, effetti che però solitamente risultano di breve durata. Infine attraverso gli esperimenti che utilizzano stimolazioni acustiche o magnetiche è difficile conoscere con precisione quale area cerebrale è stata influenzata nello specifico (Thompson, 2018)

[blockquote style=”1″]Gli studi sulle oscillazioni delle onde cerebrali e la loro neuromodulazione potrebbero aiutare a collegarle con i comportamenti umani e a come il cervello funziona nel suo insieme. Potrebbero in futuro costituire un trattamento efficace non invasivo sostitutivo ai farmaci[/blockquote] (Robert Knight, neuroscienziato cognitivo alla Berkeley University)

Le Nuove Sostanze Psicoattive – Introduzione alla Psicologia

Tra il 1997 e il 2010 sono state identificate più di 150 nuove sostanze psicoattive, tra cui i cannabinoidi sintetici, funzionalmente simili al THC (il principio attivo della cannabis).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Negli ultimi anni sono state diffuse nuove sostanze di origine sintetica o naturale non regolamentari. Esse sono state commercializzate attraverso Internet, gli smart e head shops, come se fossero droghe legali, per questo sono definite anche furbe, e sono sponsorizzate grazie a strategie di marketing sofisticate. Le Nuove Sostanze Psicoattive in alcuni casi, intenzionalmente, non presentano gli elementi da cui sono effettivamente composte allo scopo di poter attrarre sempre maggiori ignari acquirenti. Queste sostanze hanno enorme successo soprattutto tra i giovanissimi, si diffondono rapidamente e sono facilmente reperibili. Inoltre, si rilevano spesso specifici forum o blog dedicati alla discussione sulle varie droghe, dove è possibile ottenere informazioni, consigli, indicazioni e istruzioni per l’uso in maniera rapida e immediata.

Quello delle nuove droghe è un fenomeno iniziato alla fine degli anni ’90, in seguito a delle campagne mediche contro l’ecstasy e le droghe sintetiche da discoteca. Di conseguenza, sono comparse un ventaglio di sostanze che promettevano gli stessi effetti delle pasticche.

Le Nuove Sostanze Psicoattive rappresentano un gruppo molto ampio di molecole principalmente di natura sintetica, caratterizzate da proprietà farmacologiche e tossicologiche particolarmente pericolose per la salute dei consumatori. La comparsa delle Nuove Sostanze Psicoattive negli ultimi anni rappresenta un fenomeno di dimensioni sempre più imponenti e che interessa tutto il mondo, Italia compresa, rappresentando un problema emergente a livello internazionale, tanto che le Nazioni Unite, l’International Narcotics Control Board e l’Unione Europea hanno dedicato grande attenzione a quella che presenta una nuova minaccia per la salute pubblica.

I cannabinoidi sintetici

Tra il 1997 e il 2010 sono state notificate tramite l’Early Warning System europeo, più di 150 nuove sostanze psicoattive, acquistabili tramite online shop. Tra le nuove droghe presentiamo per primi i catinoni o cannabinoidi sintetici.

I cannabinoidi sintetici sono funzionalmente simili al THC, il principio attivo della cannabis, e possono avere effetti allucinogeni, sedativi e depressivi. Si tratta di una serie di composti chimici artificiali che hanno proprietà psicotrope e possono essere nebulizzati, spruzzati sotto forma di gocce finissime, su materiale vegetale usato come eccipiente per poter essere fumati. Altre volte si presentano in forma liquida, adatti per essere inalati per mezzo di sigarette elettroniche o vaporizzatori.

Il nome cannabinoidi è dovuto al fatto che queste sostanze sono simili ai principi attivi contenuti nella marijuana o Cannabis. Per via di questa affinità, i cannabinoidi sintetici sono spesso chiamati anche erba sintetica, e sono considerati alternative alla semplice marijuana. In realtà, si tratta di composti dagli effetti imprevedibili e con un’azione sul cervello molto più potente di quella della normale erba. In alcuni casi i cannabinoidi sintetici, però, possono provocare gravi effetti sul cervello o sull’organismo, che in casi estremi potrebbero diventare anche mortali.

I cannabinoidi sintetici, dunque, sono di diverso tipo e tra essi ricordiamo:

  1. naftoindoli (ad es. JWH-018, JWH-073 e JWH-398)
  2. naftometilindoli
  3. naftoilpirroli
  4. naftilmetilindeni
  5. fenilacetilindoli (come i benzoilindoli, ad es. JWH-250)
  6. cicloesilfenoli (ad es. CP 47,497 e omologhi di CP 47,497)
  7. cannabinoidi classici (ad es. HU-210)

I nomi comunemente usati per i cannabinoidi sintetici sono: Spice, K2, X, Tai high hawaiian haze, Mary joy, Exodus damnation, Ecsess, Devil’s weed, Clockwork orange, Bombay blue extreme, Blue cheese, Black mamba, Annihilation.

I cannabinoidi sintetici agiscono sui recettori cerebrali della cannabis in modo più potente che la cannabis naturale. Essi sono venduti abitualmente miscelati con delle sostanze vegetali come foglie essiccate di damiana, melissa, menta, timo o mescolandoli direttamente alle foglie da fumare, in cui sono presenti differenze estreme di concentrazione fra un campione e l’altro.

L’aspetto finale, dunque, è simile all’erba e per questo possono essere fumati insieme al tabacco oppure direttamente con pipe, bong o chilum oppure possono essere aggiunti a cibo o preparati sotto forma di tè.
Esistono dei liquidi per sigaretta elettronica contenenti cannabinoidi, e per questo possono essere anche inalati.

Le miscele da fumare sono messe in piccoli pacchetti di alluminio, colorate con delle etichette che descrivono il contenuto come incenso o miscela da fumare e portano l’avvertenza “Non adatto al consumo umano”.

Invece, se sono in forma di aromi liquidi sono contenuti in bottigliette di plastica, come avviene per altri prodotti destinati alle sigarette elettroniche.

Per molti anni i mix di cannabinoidi sintetici sono stati venduti negli Stati Uniti nei negozi di accessori per fumatori, nelle stazioni di servizio e attraverso internet. Poiché molte di queste sostanze hanno effetti sul cervello senza apportare alcun beneficio per la salute, le autorità hanno proibito alcune di queste sostanze. Tuttavia, i produttori hanno raggirato la regolamentazione modificando la struttura chimica di questi composti.

La facilità con cui si reperiscono queste sostanze, e la falsa convinzione che si tratti di prodotti naturali e per questo sicuri, ha contribuito alla diffusione e al loro uso tra i giovani. Il fatto che gli esami solitamente usati per rilevare la presenza di stupefacenti difficilmente sono in grado di rilevare queste sostanze ha ulteriormente favorito la loro diffusione.

Effetti causati sul sistema nervoso centrale

Ad oggi sono pochissimi gli studi scientifici sugli effetti di queste sostanze sul cervello umano, ma è noto che alcune di queste molecole formano con i recettori dei legami più forti di quelli del THC e per questo sono più potenti. Per questa ragione, gli effetti sulla salute sono del tutto imprevedibili. Poiché la composizione esatta di queste sostanze è sconosciuta e varia molto da una produzione all’altra, è possibile che gli effetti siano molto diversi da quello che ci si aspetta.

In ogni caso, gli utilizzatori di cannabinoidi sintetici hanno riferito effetti simili a quella della marijuana come:

Tra gli effetti psicotici sono stati segnalati:

I cannabinoidi sintetici possono anche provocare un innalzamento della pressione sanguigna, inibire l’afflusso di sangue al cuore, provocare danni al fegato, indurre convulsioni e, in casi estremi, provocare morte.

Dipendenza e assuefazione

I cannabinoidi sintetici possono dare dipendenza e se il loro consumo fosse interrotto si possono presentare i seguenti sintomi da astinenza:

  • cefalea
  • ansia
  • depressione
  • irritabilità

Non ci sono studi sull’effetto di terapie comportamentali o farmacologiche nel trattamento della dipendenza da questo tipo di sostanze.

La situazione in Europa e in Italia

In Europa, i primi cannabinoidi sintetici sono stati individuati nel 2008 in diverse miscele vegetali, definite “herbal mixture” o “herbal blend”, ed erano vendute come incensi o profumatori ambientali. Si tratta di prodotti denominati Spice e venduti come non adatti all’uomo.

Il prodotto, però, era definito naturale e per questo ingannevole al consumatore, che erroneamente era rassicurato dalla sua falsa natura innocua.

La preoccupazione per i danni provocati dal consumo della Spice ha portato alcune nazioni europee, come Austria, Germania, Francia, Lussemburgo, Polonia, Svezia e Italia, a vietare o controllare la vendita dei prodotti Spice e loro simili. In data 7 Aprile 2010, il Ministro della Salute Italiano ha emanato, d’intesa con il Dipartimento Politiche Antidroga presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, un’Ordinanza che prevede il divieto di fabbricazione, importazione, immissione sul mercato e commercio, anche online, dei prodotti denominati Spice.

Purtroppo per ogni molecola ufficialmente regolamentata, altrettante nuove molecole ne emergono e, ovviamente, non ancora proibite per legge.

In Italia dal 2010 sono stati rilevati 41 casi di intossicazione acuta correlata all’assunzione di prodotti contenenti cannabinoidi sintetici, per i quali è stato necessario l’accesso in pronto soccorso. La maggior parte dei casi sono stati registrati nel Nord Italia e hanno coinvolto soggetti tra i 14 e i 55 anni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Lo stress può contribuire allo sviluppo della Depressione tardiva

È ormai noto che lo stress ossidativo è implicato nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore nei giovani adulti. Un recente studio ha cercato di valutare il suo ruolo anche nello sviluppo di forme di depressione tardiva in soggetti anziani.

 

Lo stress ossidativo è una condizione patologica causata dalla rottura dell’equilibrio fisiologico, in un organismo vivente, fra la produzione e l’eliminazione, da parte dei sistemi di difesa antiossidanti, di sostanze chimiche ossidanti. Lo squilibrio tra i produttori di stress ossidativo e antiossidante può contribuire allo sviluppo della depressione tardiva.

Gli individui con depressione tardiva, cioè sviluppata in età avanzata (LLD), hanno livelli F2-isoprotani più elevati rispetto agli individui di confronto sani, suggerendo un aumento della perossidazione lipidica durante l’episodio depressivo. Livelli più alti di F2-isoprotano sono stati anche correlati a peggiori prestazioni cognitive tra individui LLD.

Era già noto che lo stress ossidativo fosse implicato nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore nei giovani adulti. Tuttavia, ci sono pochi dati a sostegno del suo ruolo negli anziani. Un recente studio è andato proprio verso questa direzione, cercando di valutare se i soggetti con depressione in età avanzata (LLD) presentavano variazioni nella risposta allo stress ossidativo rispetto al gruppo di controllo non depresso. Il team di ricerca ha quindi esplorato i marcatori di stress ossidativo associati a caratteristiche specifiche di LLD, in particolare le prestazioni cognitive e l’età di esordio del disturbo depressivo maggiore in questi individui.

Hanno incluso un campione di 124 individui, 77 con LLD e 47 soggetti non depressi (gruppo di controllo) e misurato i livelli plasmatici di 6 marcatori di stress ossidativo. I risultati indicano che i partecipanti con LLD avevano livelli di 8-isoprostano liberi significativamente più alti (p = 0,003) e attività di glutatione perossidasi inferiore (p = 0,006) rispetto ai controlli. I livelli liberi di 8-isoprostano erano anche significativamente correlati con punteggi peggiori nei compiti iniziali, nella perseveranza (r = -0.24, p = 0.01), concettualizzazione (r = -0.22, p = 0.02) e i punteggi totali (r = -0,21, p = 0,04).

Questo studio fornisce una solida evidenza dello squilibrio tra il danno da stress ossidativo, in particolare la perossidazione lipidica, e le difese antiossidanti come meccanismo correlato alla depressione in età avanzata e il deterioramento cognitivo in questa popolazione. Gli interventi volti a ridurre il danno da stress ossidativo possono avere un potenziale effetto neuroprotettivo per i soggetti di età avanzata.

Ipercontrollo nei disturbi di personalità: perfezionismo e inibizione emotiva

Sia perfezionismo che inibizione emotiva sembrano essere in grado di predire la gravità del Disturbo di Personalità. Tali aspetti correlano inoltre l’uno con l’altra, suggerendo forse che persone con alti standard e preoccupazione degli errori possano tendere a inibire l’espressione emotiva per timore che gli altri li trovino imperfetti e li critichino. 

 

I disturbi di personalità (DP) con caratteristiche di ipercontrollo e inibizione sono stati negli anni molto meno investigati del necessario, laddove l’attenzione si è rivolta in prevalenza alla disregolazione emotiva.
In uno studio appena pubblicato su Comprehensive Psychiatry, abbiamo esplorato la presenza e i correlati di perfezionismo (misurato con il Frust-Multidimensional Perfectionism Scale) e inibizione emotiva in un ampio campione di pazienti ambulatoriali.
È emerso che il perfezionismo era correlato fortemente alla maggior parte dei DP e alla gravità complessiva del DP, al di là della singola diagnosi. Anche l’ inibizione emotiva era presente in modo significativo in disturbi specifici, ovvero evitante, dipendente, depressivo e paranoide a anch’essa correlava con la gravità complessiva del DP.
È interessante che perfezionismo e inibizione correlassero l’uno con l’altra. Il dato induce a pensare che persone con alti standard e preoccupazione degli errori possano tendere a inibire l’espressione emotiva per timore che gli altri li trovino imperfetti e li critichino. Sia perfezionismo che inibizione emotiva erano in grado di predire la gravità del DP.
Un altro aspetto interessante della ricerca è che si conferma il ruolo del perfezionismo come aspetto transdiagnostico della psicopatologia, e in questo caso della patologia di personalità.
Questi dati hanno una rilevanza in Terapia Metacognitiva Interpersonale, perché vanno a corroborare il modello di patologia di DP inibiti/sovraregolati sulla quale si basava il manuale di intervento “Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità” (2013).
Per il campo generale dei DP, i risultati invitano clinici e ricercatori a prestare attenzione a fattori che spesso ricevono scarsa considerazione nell’assessment e nel pianificare il trattamento. Inoltre, nel modello rivisto dei DP che a partire dal DSM 5 si tende a utilizzare, il perfezionismo potrebbe essere tra gli elementi da includere nel valutare i livelli di funzionamento. Pazienti con DP più grave è probabile che siano mossi da livelli estremamente alti di perfezionismo critico, e alcuni di essi dalla tendenza a sovra-regolare le emozioni.

Sindrome di Klinefelter: una patologia medica con risvolti psicologici e sociali – V° Convegno ASKIS Onlus a Palermo

Delle caratteristiche proprie della Sindrome di Klinefelter, con un focus specifico sulle difficoltà riproduttive e sui trattamenti multidisciplinari centrati sugli stili di vita, si è parlato a Palermo lo scorso 24 marzo nell’ambito del V° Convegno Nazionale dell’Associazione ASKIS onlus, Pazienti con Sindrome di Klinefelter, nata nel 2012 e gestita da pazienti e medici, che in Sicilia si occupa della tutela della salute di pazienti affetti dalla sindrome di Klinefelter.

 

I sintomi della sindrome di Klinefelter

Disfunzione erettile, infertilità, tumori, cardiopatie, deficit cognitivi e dell’affettività: questi alcuni dei sintomi della Sindrome di Klinefelter, patologia genetica rara determinata nei maschi dalla presenza di un cromosoma sessuale X in più rispetto alla normale dotazione genetica (47, XXY).
Un problema invalidante se non diagnosticato tempestivamente, allorché l’individuazione tardiva in età adulta non di rado comporta una varietà di sintomi che raggiungono un grado di criticità tale da rendere complesso o a rischio di scarsa efficacia il trattamento.

Delle caratteristiche proprie della Sindrome di Klinefelter, con un focus specifico sulle difficoltà riproduttive e sui trattamenti multidisciplinari centrati sugli stili di vita, si è parlato a Palermo lo scorso 24 marzo nell’ambito del V° Convegno Nazionale dell’Associazione ASKIS onlus, Pazienti con Sindrome di Klinefelter, nata nel 2012 e gestita da pazienti e medici, che in Sicilia si occupa della tutela della salute di pazienti affetti dalla sindrome di Klinefelter.

L’importanza della diagnosi prenatale e del sostegno alle coppie dopo la diagnosi

La motivazione che mi ha spinto a organizzare questo Convegno è la volontà di diffondere al pubblico la conoscenza delle tecniche di procreazione medicalmente assistita – commenta Vincenzo Graffeo, Presidente Nazionale ASKIS onlus – È poi fondamentale trasmettere il seguente messaggio: i pazienti hanno diritto a effettuare diagnosi precoce della loro malattia presso ambulatori collocati all’interno di Ospedali predisposti in ogni Regione italiana, rivolti specificatamente alla Sindrome XXY. Attualmente a Palermo esiste un’équipe multidisciplinare all’interno dell’Ospedale Villa Sofia-Cervello di Palermo, operante nell’ambulatorio di Endocrinologia. Un vantaggio notevole, considerato che non tutte le Province siciliane ne godono, ma ASKIS sostiene l’idea dell’apertura di specifici ambulatori/centri per la diagnosi della Sindrome di Klinefelter, con adeguato riconoscimento assessoriale”.

Vincenzo Graffeo

E sull’importanza di un’accurata diagnosi prenatale e di un opportuno Counseling alle coppie si è focalizzata la relazione della Dr.ssa Emanuela Orlandi, Specialista in Ostetricia e Ginecologia, nella misura in cui non di rado la diagnosi scatena timori dei genitori che possono condurre ad azioni impulsive, disperate, poco consapevoli.

È nota la relazione tra decisione di interrompere la gravidanza e diagnosi di Klinefelter, da cui deriva l’importanza di un Counseling di sostegno al percorso decisionale della coppia. Esso è condotto da varie figure, come il genetista e lo psicologo, nonché sostenuto dal confronto con Associazioni di pazienti e familiari con cui condividere l’esperienza della patologia, contrastando anche le fonti di informazioni confusive e non scientifiche raccolte e i timori dei pazienti e delle famiglie derivanti dal concetto di malattia come condizione irreversibile. In un famoso studio retrospettivo del 2002 si è visto infatti che su un campione di 111 donne a cui era stata fatta la diagnosi, in cinque paesi europei, il tasso di interruzione volontaria di gravidanza si riduceva se il medico consultato per il Counseling era un genetista, su un tasso complessivo del 44%” precisa Orlandi.

Una diagnosi che equivale a una traiettoria di vita sicuramente irta di difficoltà, innanzitutto dovute alla difficoltà di procreazione, che resta una delle questioni di maggior interesse per la ricerca e il trattamento.

Notoriamente gli individui adulti affetti dalla Sindrome di Klinefelter sono pressoché sempre azoospermici, cioè non hanno spermatozoi nel liquido seminale, sebbene questa osservazione non sia del tutto veritiera – spiega Adolfo Allegra, Direttore Sanitario della Clinica di giorno “Centro Andros S.r.l.” di Palermo – Esiste infatti nei testicoli di questi soggetti la possibilità di produrre spermatozoi, che, se non in grado di progredire all’esterno, è possibile prelevare, attraverso interventi di estrazione testicolare, e rendere disponibili per la procreazione medicalmente assistita. Qui la giovane età gioca un ruolo cruciale nel determinare il successo della paternità: a diciassette anni il ritrovamento degli spermatozoi è molto più probabile, e quindi diventa importante un cambiamento culturale che spinga i genitori e i giovani Klinefelter a decidere di recuperare e conservare il proprio seme, per utilizzarlo magari venti anni dopo. Nessuna paura rispetto all’efficacia: la ricerca ha dimostrato che la probabilità di avere una gravidanza è uguale se gli spermatozoi sono prelevati in adolescenza o a distanza di molti anni, senza che i futuri nascituri riportino anomalie genetiche, e con un tasso di nati vivi del 43%. ASKIS oggi testimonia che diventare genitore è possibile: a dicembre 2017 è stata portata a termine la prima gravidanza in Sicilia da un socio ASKIS onlus e un’altra è in corso, contando due mesi di gestazione”.

Gli interventi preventivi e curativi della sindrome di Klinefelter

Sindrome di Klinefelter, una patologia sfaccettata, che coinvolge una molteplicità di organi e funzioni vitali e per il cui contrasto è necessario un intervento a vasto raggio, multidisciplinare, che incida sugli stili di vita, sia in fase preventiva che curativa.

Esiste una molteplicità di disturbi associati a questa Sindrome, per cui proporrà solo un rapido elenco – spiega Leonardo Gambino, endocrinologo – Da un punto di vista cognitivo, questi soggetti presentano, oltre a disturbi del linguaggio e possibilità di sviluppare disturbi psichiatrici, come la schizofrenia, un QI mediamente ridotto di dieci punti, problema che può determinare disturbi dell’apprendimento, da valutare attraverso l’intervento prezioso dell’insegnante di sostegno a scuola e dello psicologo, in stretta collaborazione con scuola e famiglia, fin dai primi gradi di istruzione. Da un punto di vista medico, la lista è notevole: tumore della mammella, malattie autoimmuni, diabete di tipo 2, cardiopatie, osteoporosi, tra le più comuni. In questi casi lo stile di vita deve adeguarsi a delle regole di sana alimentazione e costante esercizio fisico: dieta mediterranea, ricca di fibre, con apporto di vitamina D e calcio, attività fisica per almeno 30/40 minuti al giorno, fin da giovanissimi, apporto di farmaci nei casi opportuni, al fine di scongiurare l’insorgenza di gravi disabilità, come la cecità da diabete”.

L’uso quotidiano di videogiochi violenti non ha effetti a lungo termine sull’aggressività dei giocatori adulti

Un nuovo studio condotto da Simone Kühn, in collaborazione con l’Istituto Max Planck di Amburgo, indaga gli effetti dell’utilizzo per periodi prolungati di videogames violenti sull’aggressività degli adulti.

 

Precedenti studi sugli effetti dei videogames violenti

Precedenti studi sperimentali hanno dimostrato che la riproduzione di videogiochi violenti di qualche minuto (a breve termine) può influenzare i livelli di aggressività, i livelli d’impulsività, l’umore, la cognizione ed i comportamenti pro-sociali dei giocatori (Anderson & Bushman, 2001).
Vi sono tuttavia motivi per ritenere che questi effetti siano principalmente i risultati dell’esposizione a stimoli specifici. E, rispetto a precedenti studi, l’attuale è il primo ad indagare gli effetti della riproduzione violenta di videogiochi a lungo termine, servendosi di una variegata batteria di test somministrata prima ed in seguito a due mesi di gioco.

Lo studio

Lo studio è stato condotto su 77 partecipanti che hanno o non hanno giocato ad un determinato videogioco ogni giorno per due mesi. I partecipanti sono stati reclutatati online e sono stati scelti coloro che non hanno utilizzato abitualmente videogames nei sei mesi precedenti lo studio.
I soggetti sono stati suddivisi in tre gruppi: il primo gruppo di soggetti (n. 25) ha giocato al videogame violento Grand Theft Auto 5 (GTA-5) ogni giorno per due mesi; il secondo gruppo di soggetti (n. 24) ha giocato a The Sims 3 ogni giorno per due mesi; mentre il terzo gruppo (n. 28) non ha giocato ai videogiochi per due mesi.

Grand Theft Auto 5 (GTA-5) è un videogioco in cui viene rinforzato l’uso della violenza da parte dei giocatori per poter procedere al livello successivo. Lo scenario in cui si è immersi consente una notevole libertà d’azione del giocatore.
Sims 3 è invece un gioco di simulazione di vita, anch’esso concede una notevole libertà d’azione. Il giocatore crea dei personaggi, sceglie i loro stati d’animo, i loro bisogni e costruisce un mondo in cui i desideri dei suoi personaggi potranno esser soddisfatti.

I ricercatori hanno indagato i livelli di aggressività, empatia, competenze interpersonali, impulsività (tra cui i seguenti costrutti: sensazione di ricerca, predisposizione alla noia, assunzione di rischi), ansia, umore prima dell’inizio della parte sperimentale ed in seguito ai due mesi di utilizzo/inutilizzo dei videogame. Tali livelli sono stati indagati con una batteria di test standardizzati. Sono state inoltre indagate misure comportamentali dell’aggressività e le funzioni di controllo esecutivo, attraverso i seguenti strumenti: Stop Signal Task, Multi-Source Interference Task, Switching Task.

Risultati e futuri sviluppi

I ricercatori non hanno riscontrato cambiamenti significativi in ​​nessuna delle variabili valutate: al termine dei due mesi di utilizzo/non utilizzo quotidiano dei videogames non è stata registrata alcuna differenza nel confronto dei tre gruppi, rispetto ai livelli di aggressività, empatia, competenze interpersonali, impulsività, ansia, umore e controllo esecutivo.
Gli eventuali effetti dei videogiochi sulle variabili valutate non sono stati registrati nemmeno in una fase di follow-up (due mesi dopo la conclusione del periodo di intervento).

I risultati attuali forniscono quindi una forte evidenza contro gli effetti negativi spesso dibattuti dei videogiochi violenti negli adulti. Il successivo passaggio sarà quello di estendere questo tipo di studi a bambini e adolescenti.

Anziani e memoria: il problema dei falsi ricordi

Un problema comune nella vecchiaia è la progressiva perdita della memoria ma ora un team di ricercatori della Penn State University ha suggerito che un ulteriore problema è rappresentato dai falsi ricordi.

 

I falsi ricordi nella vecchiaia

Con la vecchiaia il nostro cervello è più propenso a utilizzare un tipo specifico di memoria, chiamata memoria schematica che permette di ricordare lo schema ovvero il senso generale di un evento ma non i suoi dettagli. Questa modalità tuttavia può portare a difficoltà nel distinguere tra il ricordo di un avvenimento realmente accaduto e il ricordo di un qualcosa che la persona pensa sia accaduta ma che in realtà non si è realizzata: un falso ricordo.

Il cervello riceve continuamente migliaia di informazioni e una memoria efficiente aiuta a organizzare tutti questi dati; le persone anziane si affidano troppo agli schemi per recuperare le informazioni e questo li condurrebbe a credere ai falsi ricordi portandoli ad una maggior confusione.
Così come le persone invecchiano fisicamente in modo diverso, anche nell’invecchiamento cerebrale le differenze individuali ricoprono un ruolo importante soprattutto nel modo in cui i soggetti recuperano i falsi ricordi.

Nancy Dennis co-autrice dello studio ha dichiarato “Se vogliamo davvero capire i problemi legati alla memoria nell’invecchiamento, dobbiamo comprendere i falsi ricordi. Ciò che abbiamo scoperto in laboratorio è che quando si osserva l’attività cerebrale durante il recupero dei ricordi nei soggetti anziani, assistiamo ad un aumento dell’attività nel giro temporale medio o superiore che è la sede dei falsi ricordi”.

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per monitorare l’attività cerebrale di un gruppo di anziani con un’età media di 75 anni. Ai partecipanti è stato richiesto di memorizzare 26 diverse immagini ritraenti scenari comuni. Successivamente sono state mostrate immagini di oggetti raggruppati in tre categorie: oggetti presenti nella scena mostrata precedentemente, oggetti relativi allo scenario mostrato ma non rappresentati nelle immagini e oggetti non comunemente associati alla scena target. Il team di ricerca ha chiesto quindi agli anziani quali oggetti, secondo loro, erano presenti nelle immagini al fine di determinare se i soggetti ricordavano correttamente l’informazione o avevano creato un falso ricordo.

I risultati hanno mostrato attivazioni dell’ippocampo durante il recupero delle informazioni, in particolar modo diverse sub-regioni, di questa parte del cervello, potrebbero essere responsabili dell’elaborazione e del recupero dei ricordi relativi agli oggetti realmente osservati nella scena e anche dei falsi ricordi. I ricercatori hanno osservato inoltre che l’elaborazione della memoria si verificava in una diversa sub-regione dell’ippocampo, spostandosi dalla parte anteriore (tipica dei soggetti giovani) a quella posteriore (osservata nel gruppo sperimentale) suggerendo quindi differenze correlate all’età.

Dennis ha concluso “Se l’età è l’unica spiegazione alle differenze interindividuali trovate non c’è molto che possiamo fare, ma se invece lo schema influenza la memoria creando i falsi ricordi, come i risultati cerebrali mostrano, potremmo essere in grado in futuro di sviluppare interventi che permettano agli anziani di concentrarsi maggiormente sui dettagli allontanandosi dall’utilizzo della sola memoria schematica e riducendo così i falsi ricordi”.

La terapia cognitivo-comportamentale del DOC da relazione – Report del workshop di Firenze

Cos’è il DOC da relazione o ROCD? Come si fa la diagnosi ed il trattamento di questo disturbo le cui ossessioni sono centrate sulle relazioni sentimentali? Guy Doron e Danny Derby nella giornata formativa a Firenze.

Il 23 marzo si è tenuto a Firenze un workshop organizzato da IPSICO, dedicato al Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione (ROCD), condotto da Guy Doron e Danny Derby, massimi esperti internazionali sul tema, per la prima volta in Italia. Hanno esposto i risultati delle loro ricerche e ci hanno guidato alla comprensione del DOC da relazione e delle modalità per il suo assessment e trattamento.

Cos’è il DOC da relazione (ROCD)?

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione (Relationship Obsessive Compulsive Disorder – ROCD) è una forma di disturbo ossessivo compulsivo, che presenta sia aree di sovrapposizione con il DOC classico, sia elementi di specificità. Tali peculiarità lo rendono difficile da trattare con le tradizionali tecniche cognitivo-comportamentali, che vanno quindi adattate per questa tipologia di disturbo.

Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, i dubbi ossessivi e le preoccupazioni sono incentrati sulla relazione sentimentale. In realtà, questa forma di DOC non interessa solo le situazioni di coppia, ma anche altri tipi di relazione, quali ad esempio la relazione genitore-figlio e nelle persone religiose, il rapporto con Dio. Tuttavia la forma più studiata e su cui si è concentrato maggiormente il workshop è quella incentrata sui dubbi riguardo la relazione sentimentale.

ROCD: 2 diverse tipologie, scoperte da Doron e Derby

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione si presenta in due forme principali, che possono anche coesistere nella stessa persona:

  1. con sintomi ossessivo-compulsivi centrati sulla relazione (relationship-centered): i dubbi e le preoccupazioni riguardano i sentimenti provati verso il partner e dal partner e se la relazione sia quella giusta o meno (“Lo/la amo?”, “Lui/lei mi ama davvero?”, “E’ la relazione giusta per me?”)
  2. con sintomi ossessivo-compulsivi focalizzati sul partner (partner-focused): i dubbi ossessivi riguardano invece difetti percepiti nel partner relativamente all’aspetto fisico, alle capacità intellettive, sociali o a caratteristiche di personalità.

Doron e Derby hanno messo in evidenzia come capiti a tutti, a volte, di avere questo tipo di preoccupazioni, ma il problema è quando si rimane invischiati in questi pensieri, che vanno a occupare gran parte della giornata, creando sofferenza e disagio significativi. Doron e Derby hanno raccontato di come all’inizio non fossero a conoscenza di questa sfaccettatura del DOC, per cui cominciarono a cercare informazioni a riguardo, scoprendo con loro sorpresa che nella letteratura scientifica non c’era praticamente nulla in merito e che la principale fonte di informazione sull’ROCD consisteva in una sorta di forum su internet, in cui gli iscritti si descrivevano come affetti da queste ossessioni relazionali.

I pazienti che venivano all’attenzione di Doron e dei suoi collaboratori provenivano da terapie precedenti, in cui non si era compreso il motivo della loro condizione; anche gli stessi terapeuti cognitivo-comportamentali non ritenevano fosse una forma di DOC. Pertanto il primo scopo dichiarato da Doron e dai suoi collaboratori è stato quello di diffondere, tramite ricerche, pubblicazioni e un sito dedicato, la conoscenza sul Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, al fine di prevenire diagnosi errate e l’applicazione di tecniche di trattamento non adeguate.

ROCD: quali strumenti esistono?

Sono stati messi a punto due questionari specifici per la valutazione del ROCD:

  1. Partner-focused OC Symptom inventory – PROCSI: scala a due dimensioni (difetti esteriori e interiori percepiti nel partner)
  2. Relationship OC Symptom inventory – ROCI: scala a tre dimensioni (avere dubbi sulle emozioni verso il partner, avere dubbi se la relazione è giusta o no, avere dubbi rispetto all’amore del partner verso di noi).

DOC da relazione: quali sono i sintomi e i circoli di mantenimento?

Oltre ai dubbi ossessivi, sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione consistono anche in una serie di compulsioni, messe in atto allo scopo di alleviare l’ansia e il disagio provocati dalla presenza e/o dal contenuto di queste ossessioni.

  • controllo e messa alla prova (checking and testing)
  • monitoraggio degli stati interni (monitoring internal states)
  • neutralizzazione (neutralizing)
  • fare confronti (comparing)
  • ricerca di rassicurazione (reassurance)
  • autocritica (self criticism)
  • evitamento (avoidance)

Tramite la simulazione di un colloquio tra terapeuta e paziente, Doron e Derby ci hanno mostrato in cosa consiste ciascuna di queste condotte compulsive. Ad esempio, al fine di comprendere se il partner è quello giusto, oltre a monitorare continuamente i propri sentimenti verso lui/lei, la persona con DOC da relazione può voler testare le sue competenze intellettive e/o può tendere a fare confronti con altri potenziali partner. Un esempio di neutralizzazione è quando si cerca di rievocare bei ricordi per annullare i dubbi ossessivi. Alcuni possono inoltre ricercare rassicurazione, chiedendo ad altri cosa pensano della relazione o, al contrario, possono evitare di chiedere per vergogna, ritenendo stupidi i propri dubbi. Un esempio di evitamento, inoltre, è quando si cerca di non guardare altre donne o uomini, nella convizione che rivolgere lo sguardo verso di loro sia la prova di non essere innamorato/a del proprio partner.

L’autocritica può fungere da comportamento compulsivo nei casi in cui,  quando si ha il dubbio che l’altro non sia il partner giusto per sé, si sminuisce se stessi per sentirsi più adeguati nella relazione.

Un importante elemento su cui ci si è soffermati è quello del disinvestimento sulla relazione che la persona con ROCD può mettere in atto, per paura di illudere il partner oppure per paura di scoprire davvero cosa c’è veramente, evitando di impegnarsi in tutte quelle attività che possono promuovere la relazione (ad es. evitare di regalare fiori …).  Ciò non fa che peggiorare la situazione, in quanto contribuisce a diminuire il senso di soddisfazione che deriva dall’essere in coppia, aumentando ulteriormente i dubbi e le preoccupazioni, in un circolo vizioso in cui il sentirsi non impegnati nella relazione può fungere sia da innesco che da conseguenza del DOC da relazione.

DOC da relazione: cosa lo differenzia dal DOC “classico”?

Il DOC da relazione, differenziandosi dal DOC con le ossessioni di contaminazione, simmetria, ecc., costituisce una forma particolare di DOC e, come tale, secondo Doron e Derby, va trattata di conseguenza. Gli elementi fondamentali da considerare per adattare la terapia cognitivo-comportamentale alla cura del DOC da relazione sono: la vulnerabilità e le credenze specifiche del soggetto, le conseguenze dei sintomi sul partner e sulla relazione, il processo di elaborazione del lutto per l’idea che non si potrà mai avere il partner ideale, altre forme di DOC e di ROCD.

Chi è affetto da Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione presenta vulnerabilità specifiche: in particolare, può presentare un livello di autostima che dipende dal valore attribuito al partner e/o alla relazione (partner-value contingency self-esteem e relationship contingent self-esteem). Ciò tende a presentarsi maggiormente in chi ha sviluppato ansia di attaccamento.

Oltre a queste specifiche vulnerabilità, nel Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione si evidenziano anche credenze disfunzionali specifiche, che tendono ad alimentare il disturbo stesso: credenze d’amore estreme (“se è la relazione giusta, devo essere sempre felice”, “se il mio partner è quello giusto, lo devo pensare in ogni momento”) e credenze di catastrofizzazione (“se inizio una relazione, non riuscirò mai a uscirne”, “se lo lascio, non riuscirei a stare senza di lui”.) Le persone con ROCD spesso non sono consapevoli di tali credenze e parte del lavoro consiste nel portarle alla loro attenzione, per poi metterle in discussione.

Come e quando arriva in terapia il paziente ROCD?

Doron e Derby hanno sottolineato come anche il partner della persona con ROCD provi livelli significativi di sofferenza. Ad esempio, uno dei motivi per cui le persone affette da DOC da relazione giungono in terapia, è perché lamentano disturbi sessuali. Ciò, secondo Doron e Derby, appare comprensibile se pensiamo che lo stare sempre a pensare se si è attratti o meno dal partner non permette invece di stare sull’eccitazione del rapporto sessuale. Questo incide inevitabilmente in modo negativo sulla soddisfazione di coppia, non solo nella persona affetta da ROCD, ma anche nel partner, che percepisce i dubbi e le preoccupazioni dell’altro. Per giunta i dubbi risultano contagiosi: da uno studio condotto da Doron e colloboratori, infatti, era emerso come i sintomi ROCD di uno dei due membri della coppia tendessero a rafforzare i dubbi sulla relazione dell’altro partner, con conseguente maggiore probabilità di infedeltà in futuro.

Alcune persone con  ROCD tendono inoltre ad avere più relazioni contemporaneamente, allo scopo di metterle a confronto e di verificare quale sia la più idonea: il risultato è, come prevedibile, un peggioramento dei sintomi stessi. Diventa quindi importante, qualora si decida di invitare il partner in terapia, esporlo ai sintomi ROCD del paziente mediante un’adeguata psicoeducazione sul disturbo.

DOC da relazione..con quali altri DOC?

Doron e Derby hanno inoltre esposte altre forme di DOC che possono avere collegamenti con il DOC da relazione:

  • Gelosia ossessiva
  • Homosexual Obsessive Compulsive Disorder (HOCD): le persone con HOCD, non sentendosi sufficientemente attratti dal partner, sviluppano dubbi circa il proprio orientamento sessuale. E’ possibile partire da ossessioni di questo tipo per poi sviluppare sintomi ROCD o viceversa
  • Disturbo da dismorfismo corporeo (BDD): chi è ossessionato dai propri difetti avrebbe maggiore probabilità di sviluppare sintomi ossessivi legati alle caratteristiche del partner

Il DOC da relazione nel rapporto genitore-figlio

Uno spazio, anche se minore per questioni di tempo, è stato dedicato anche al DOC da relazione che interessa il rapporto genitore-figlio, ossia quando i genitori sono ossessionati dai difetti percepiti nei figli. Questi genitori hanno una visione di se stessi basata su certi parametri (ad es. da quanto ci si percepiscono intelligenti); inoltre la loro immagine dipende anche dal valore che attribuiscono ai figli su quello stesso parametro (ovvero quanto percepiscono i figli come intelligenti). Pertanto diventa importante lavorare non solo sulla relazione genitore-figlio, ma anche sul valore che il genitore attribuisce al figlio e prima ancora, sulle vulnerabilità del genitore e su cosa crede relativamente a quel parametro (ad esempio riguardo la sua intelligenza).

Il modello del DOC da relazione

Il modello del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione presentato da Doron e Derby comprende e include il modello tradizionale del DOC, andando in aggiunta a lavorare su specifiche vulnerabilità e credenze legate all’ROCD. Inoltre hanno evidenziato come sia importante lavorare anche sulle questioni legate all’attaccamento ansioso sviluppato da questi pazienti.

A tale scopo, è importante raccogliere la storia relazionale del paziente (sia delle relazioni in generale sia di quelle dove ha sviluppato ossessioni) e indagare la relazione tra i genitori. E’ stato infatti riscontrato un alto livello di conflittualità tra i genitori di persone che hanno poi sviluppato un DOC da relazione: i pazienti riferivano che proprio quella era la loro situazione temuta, che volevano cercare di evitare. L’individuazione dei pensieri che preoccupavano i genitori può essere utile a comprendere le ossessioni relazionali del paziente.

Come si tratta il DOC da Relazione?

Qual’è l’obiettivo della terapia del DOC da relazione? Come hanno sottolineato Doron e Derby, lo scopo è che il paziente viva la relazione, anziché il disturbo e ridurre quindi il ciclo ossessivo, abbandonando le proprie compulsioni.

L’intervento sul DOC da relazione è modulare, in quanto alcuni soggetti hanno un più elevato senso di responsabilità, mentre altri presentano credenze OCD classiche di perfezionismo e importanza dei pensieri; alcuni hanno credenze sul valore del sé legato agli altri in generale, altri maggiormente sul partner.

ROCD: come si fa l’assessment?

  • questionari, interviste, fogli di monitoraggio delle compulsioni, etc.
  • storia del problema, storia relazionale, storia familiare e valutazione degli aspetti di personalità

Secondo Doron e Derby, l’assessment è molto importante nel DOC da Relazione perché sono coinvolti tanti elementi che si vanno a combinare; pertanto diventa fondamentale comprenderli, capire se fanno parte del ROCD, se ci sono altri disturbi in comorbidità, se ci sono altre problematiche di comunicazone e se il problema riguarda solo una relazione nello specifico o anche altre. La maggior parte delle persone con DOC da relazione presenta una storia pregressa di sintomi; spesso però l’innesco o la loro esacerbazione avvengono quando si è di fronte a un cambiamento importante nella loro relazione (andare a convivere, sposarsi, avere figli …).

ROCD: elementi di psicoeducazione

Ecco gli aspetti imprescindibili di psicoeduzione per questo disturbo:

  • è fondamentale spiegare al paziente che tutte le decisioni sulla relazione vanno rimandate, poiché il problema non è la decisione in sè, ma il processo che c’è dietro. La persona con ROCD infatti, non vivendo la relazione, non ne fa effettiva esperienza. Si danno quindi istruzioni di mettere in atto comportamenti pro-relazione per un periodo che va dai 6 agli 8 mesi
  • è importante spiegare la differenza tra pensiero ossessivo e risoluzione di un problema

Un altro scopo della psicoeducazione è far riflettere il paziente sul carico che il pensiero ossessivo comporta, con conseguente diminuzione delle capacità di memoria e concentrazione sul problema.

Esposizione con prevenzione della risposta (ERP) ed esperimenti comportamentali per il ROCD

Di seguito alcune tecniche per ridurre le compulsioni e mettere in discussione le credenze disfunzionali:

  • Uso di termini e frasi che costituiscono fonti di paura
  • Esposizione agli script: far scrivere degli scrip al paziente sulle sue paure di base, non solo per esporlo ai suoi timori ma anche per indagarli maggiormente e per predisporre piani di contingenza, qualora le paure si avverassero
  • Esposizione a lasciarsi andare a sentimenti provati verso altri

L’utilizzo delle domande socratiche, di cui Doron e Derby hanno fornito vari esempi, è molto utile per supportare il paziente nella presa di consapevolezza e nella messa in discussione delle proprie credenze disfunzionali.

Il paziente ROCD e la paura del rammarico. Come aiutarlo?

Verso il termine del workshop, Doron e Derby hanno parlato di un aspetto su cui, a loro parere, c’è ancora da lavorare: la paura di vivere il rammarico. I soggetti con DOC da relazione possono invischiarsi nel dubbio ossessivo se restare in una relazione che potrebbe essere sbagliata o se rischiare di lasciare la relazione giusta, catastrofizzando le conseguenze che potrebbero derivare da entrambe le decisioni e/o temendo le emozioni ad esse legate. Possono inoltre temere di continuare ad avere pensieri ossessivi sulla relazione per anni.

Conclusioni

Doron e Derby, a fine workshop, hanno ribadito come sia importante che il trattamento sia pianificato in base ai bisogni specifici del paziente con DOC da relazione.

Riassumendo, alcune cose basilari da tener conto nel trattamento sono:

  1. Indicare di posporre qualsiasi decisione relazionale
  2. Aiutare ad abbandonare le compulsioni e a vivere la relazione con i suoi vantaggi e svantaggi
  3. Essere creativi nel progettare le esposizioni e il lavoro con i trigger
  4. Usare questionari per esplorare e prendere di mira credenze specifiche, anche mediante esperimenti comportamentali tesi a modificarle
  5. Usare sempre il dialogo socratico, per far in modo che le conclusioni vengano dal paziente.

 

Un nuovo magnetoencefalogramma ci permette di conoscere di più il nostro cervello

Una nuova generazione di scanner per il cervello, che può essere indossato come un casco e consentire ai pazienti di muoversi naturalmente durante la scansione, è stata sviluppata dai ricercatori del Sir Peter Mansfield Imaging Center dell’Università di Nottingham e dal Wellcome Center for Human Neuroimaging, UCL.

 

È questo il risultato, parte di un progetto finanziato dalla fondazione Wellcome che ha il potenziale per rivoluzionare il mondo dell’imaging del cervello umano. In un articolo pubblicato su Nature il 21 marzo, i ricercatori coinvolti in questo progetto hanno dimostrato come l’utilizzo di questo nuovo strumento consenta di misurare l’attività cerebrale mentre le persone mettono in atto dei movimenti naturali, tra cui annuire, allungarsi, bere il tè e persino giocare a ping pong.

Questo nuovo tipo di scanner sarebbe un magnetoencefalogramma (MEG) più sensibile rispetto ai sistemi attualmente disponibili. I ricercatori sperano che questo nuovo scanner possa migliorare la ricerca e il trattamento per i pazienti che non possono utilizzare gli scanner MEG fissi tradizionali, come i bambini piccoli con epilessia o pazienti con disturbi neurodegenerativi come il morbo di Parkinson.

Le cellule cerebrali operano e comunicano producendo correnti elettriche, che a loro volta generano minuscoli campi magnetici che vengono rilevati sulla superficie della testa. L’obiettivo del MEG è quello di mappare la funzione cerebrale misurando questi campi magnetici e di ottenere un’immagine precisa al millisecondo per millesimo di quale parte del cervello risulti attivata nel momento in cui intraprendiamo compiti diversi, come parlare o muoversi.

Gli attuali scanner MEG sono grandi e pesano circa mezza tonnellata. Questo perché i sensori utilizzati per misurare il campo magnetico del cervello devono essere mantenuti molto freddi (-269 ° C), il che richiede una tecnologia di raffreddamento ingombrante. Con gli scanner attuali, il paziente deve rimanere immobile durante la scansione, poiché anche un movimento di 5 mm può rendere le immagini inutilizzabili. Ciò significa che è spesso difficile eseguire la scansione di persone che hanno difficoltà a rimanere immobili come bambini piccoli o pazienti con disturbi del movimento. Inoltre pone dei problemi quando si può aver bisogno che un paziente rimanga immobile per un lungo periodo di tempo, per catturare un evento raramente presente nel cervello, come un attacco epilettico.

Questi problemi sono stati risolti con il nuovo scanner, ridimensionando la tecnologia e sfruttando i nuovi sensori “quantici”, montati poi su di un casco prototipo stampato in 3D. Poiché i nuovi sensori sono molto leggeri e possono funzionare a temperatura ambiente, possono essere posizionati direttamente sulla superficie del cuoio capelluto. Posizionando in questo modo i sensori molto più vicino al cervello, aumenta la quantità di segnale che possono raccogliere. La leggerezza del nuovo scanner indica anche che, per la prima volta, i soggetti possono muovere la testa durante la scansione.

Tuttavia, i sensori quantici funzionano solo quando il campo magnetico terrestre viene ridotto di un fattore di circa 50.000. Per risolvere questo problema, il team di ricerca ha sviluppato bobine elettromagnetiche speciali, che hanno contribuito a ridurre il campo terrestre attorno allo scanner. 
Lo scanner si basa su caschi che possono essere realizzati per adattarsi a chiunque debba essere scansionato. Dopo il successo del loro sistema prototipo, i ricercatori stanno ora lavorando alla realizzazione di nuovi modelli di casco, che avranno l’aspetto di un casco da bicicletta e che sarà possibile adattare sia per neonati e bambini che per adulti. I ricercatori prevedono che questo nuovo tipo di scanner fornirà un aumento quadruplo della sensibilità negli adulti, aumentando potenzialmente fino a 15 o 20 volte nei neonati.

Il Dott. Matt Brookes, che dirige il lavoro sul MEG a Nottingham, dove è stato costruito il prototipo, ha dichiarato:

[blockquote style=”1″]Questa nuova tecnologia solleva nuove interessanti opportunità per una nuova generazione di imaging funzionale del cervello.Eseguire la scansione di individui mentre si spostano offre nuove possibilità, per esempio per misurare la funzione cerebrale durante i compiti del mondo reale o le interazioni sociali autentiche Questo ha un potenziale significativo di impatto sulla nostra comprensione non solo delle funzioni del cervello sano ma anche di una serie di condizioni neurologiche, neurodegenerative e di salute mentale.[/blockquote]

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