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Limiti e utilità della classificazione bottom up e top down

Ultimamente nell’ambiente della terapia cognitivo comportamentale italiana e non si discute della contrapposizione tra processi top down e bottom up. I primi sarebbero quelli del pensiero esecutivo, consapevole, volontario, dichiarativo e quindi immediatamente verbalizzabile e infine processabile dal pensiero razionale. I processi bottom up invece sarebbero automatici, emotivamente carichi, associativi, inseriti nell’esperienza immediata e connessi con la sensorialità corporea ma non sempre immediatamente controllabili volontariamente (Kahneman 2011-2012; Martin & Sloman, 2013).

Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli

 

La classificazione ha i suoi cultori e i suoi detrattori, i suoi limiti e il suo valore, che è soprattutto euristico. I limiti di questo modo di ragionare sono vari. Ad esempio, se definiamo top down un modello metacognitivo come quello di Adrian Wells (2013), va osservato che Wells a sua volta non lavora sul “capire” razionalmente un contenuto distorto ma sul gestire diversamente alcuni processi mentali, tra cui l’attenzione. E per gestire questi stati attentivi Wells non si limita a “spiegare” ma assegna degli esercizi in cui il paziente apprende nella pratica a gestire diversamente le funzioni attentive. Sono esperienze anche queste.

Se parliamo di esercizi immaginativi notiamo che un esercizio di questo tipo può essere fatto in due modi: condividendo il razionale all’interno di una formulazione del caso anch’essa condivisa, oppure utilizzando l’esercizio per creare un’esperienza  con il paziente da valutare consapevolmente solo in un secondo momento. Noi crediamo che il modo migliore di farlo sia il primo, anche perché è difficile pensare a un intervento bottom-up laddove al paziente è chiesto di governare consciamente le proprie facoltà mentali, nel caso l’immaginazione. Questo significa che l’esercizio bottom-up s’inserisce in una cornice di concettualizzazione ed esecuzione top-down: le funzioni superiori decidono che certe esperienze vanno fatte e non solo sapute concettualmente.

Terzo scenario tra i tanti possibili: l’uso della relazione terapeutica. E in particolare l’uso delle varie situazioni critiche in seduta. Ad esempio l’esperienza condivisa alla Semerari oppure le rotture e riparazioni alla Safran e Muran (2000), e così via. In questo caso immaginiamo che il top down tenda a confinarsi in un’analisi a posteriori dell’accaduto relazionale che, come forse direbbe Liotti, ha solo la funzione di memorizzare nel top un intervento che però si è svolto tutto nel bottom in modo da poterlo facilmente riattivare quando necessario. Questo punto è quello che ci trova perplessi. In primo luogo è difficile comprendere il peso dell’intervento e della memorizzazione successiva né è sempre chiaro in modo operativo ove si situi maggiormente il processo terapeutico, nella componente relazionale in sé (bottom up) nella discussione esplicita successiva (top down) o nell’interazione tra le due.

Procedendo per questa strada, infatti, si finirebbe per diventare meno cognitivisti di Otto Kernberg (Kernberg, Yeomans, Clarkin e Levy, 2008). Il suo modello di psicoterapia focalizzata sul transfert, infatti, prevede che le pulsioni inconsce che emergono nella relazione di transfert siano davvero oggetto di lavoro terapeutico solo quando emergono al livello di conoscenza cosciente durante gli interventi di chiarificazione, confronto e interpretazione di transfert. In Kernberg c’è una valorizzazione del ruolo del pensiero cosciente che invece nei modelli relazionalisti si rischia di perdere, compresi i modelli relazionalisti cognitivi come quelli di Semerari e Dimaggio (Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò e Procacci, 2007), Liotti e Monticelli (2014) e Safran e Muran (2000).

Si potrebbe obiettare: poco male, se quella è la verità. Amicus Plato, sed magis amica veritas. Vero, ma noi non sappiamo ancora qual è la verità. Nel frattempo si procede a tentoni ma anche mantenendo una direzione. Non per cieca ideologia ma per ordine mentale e rigore metodologico. Chiamiamola sana ideologia: si verifica un’ipotesi alla volta e a fondo per evitare il rischio di testare un po’ tutto e in maniera insufficiente e al tempo stesso accogliere un po’ di tutto. Basta poco per passare dall’apertura all’ecclettismo deteriore.

Inoltre, ci sembra che un simile intervento, pur possibile, rischi di fare troppo aggio su elementi casuali, governabili solo a posteriori, non programmabili in un progetto terapeutico condiviso e tanto meno prevedibili in una formulazione del caso condivisa ma da vivere e utilizzare sul momento, come occasioni irripetibili che sicuramente il terapeuta esperto sa e deve saper utilizzare al volo.

Il rischio principale però è che così la componente artigianale non solo diventi di gran lunga prevalente (poco male, se questa è la realtà) ma peggio, che in una profezia che si auto-avveri si rinunci a cercare gli aspetti controllabili e replicabili della psicoterapia per accontentarsi di una abilità irriproducibile e tutta intuitiva. Ci si chiede inoltre anche quanto sia insegnabile una simile abilità e quanto sia scevra da distorsioni interpretative che dipendono più dalle idee del terapeuta che del paziente.  Tutto questo, s’intende, al di là di una doverosa attenzione da dare al come ci si sente in seduta.

Un altro rischio è che la ricerca si riduca alla descrizione di processi talmente complessi da non poter essere mai governati consapevolmente, con la conseguenza deprimente che da questo quadro non ci si potrà mai aspettare un miglioramento progressivo dell’efficacia terapeutica, ma solo un cristallizzarsi di un’arte sempre uguale a se stessa, incapace di progredire e addirittura non intenzionata a migliorare, che tende a trasmettersi sapienzialmente da maestro ad allievo in un rapporto ancora una volta artigianale nel senso peggiore del termine.

Il rischio di questa deriva è la riduzione della scienza psicoterapeutica e della professione dello psicoterapeuta a una posizione di consulente, esperto di elementi aspecifici, elementi facilmente replicabili da ogni professionista della relazione d’aiuto.  O ancora peggio, la riduzione della psicoterapia all’effetto placebo, che in fondo non è altro che l’insieme degli elementi che funzionano appunto in modo aspecifico. D’altro canto Wampold e Imel nel loro “Great Psychotherapy Debate” appena uscito nel 2015 parlano esplicitamente di un uso costruttivo e positivo del termine “placebo” per definire il lavoro psicoterapeutico. La psicoterapia come buon placebo: idea geniale o pillola indorata?

Per concludere, i termini top down e bottom up sono sicuramente molto limitati e limitanti e finiscono per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico, riconoscibile e operazionalizzabile. Quando fare questo? Quando per esempio il bottom up rischia di ridursi a un’esperienza emozionale correttiva unica, irripetibile, non programmabile e a rischio di essere vissuta come salvifica in un rapporto apparentemente paritario con un terapista che sembra un semplice artigiano, ma in realtà potrebbe essere più propenso a presentarsi come un sacerdote sapienziale e ieratico.

Al tempo stesso, occorre anche essere consapevoli che il compito storico della terapia cognitivo comportamentale è stato l’approfondimento del ruolo della direzione top down nel processo terapeutico e ci sembra giusto proseguire questo percorso. Inoltre ci sembra conveniente proseguire il lavoro nell’area in cui si è diventati storicamente più competenti ed esperti. Ed è anche vero che nel nostro gruppo di lavoro riteniamo che i processi top down siano realmente i più promettenti dal punto di vista clinico. Ma questa è un’altra storia e un altro articolo.

Formazione in Psicoterapia: Pratichiamo la Teoria – II Edizione – Milano 2018

PRATICHIAMO LA TEORIA

Ciclo di incontri di formazione in psicoterapia – II Edizione, Milano 2018

Il primo colloquio con diverse patologie

Studi Cognitivi offre un ciclo di incontri formativi di confronto fra modelli. La seconda edizione del ciclo di eventi “Pratichiamo la teoria” avrà come focus il primo colloquio in psicoterapia e il suo adattamento con diversi tipi di patologie. Ogni incontro presenterà le caratteristiche peculiari della patologia trattata e le modalità di indagine ad hoc. Dopo l’introduzione teorica, il docente effettuerà una simulata di seduta di un primo colloquio della patologia trattata.

Relatori

Dr. Giovanni Maria Ruggiero: Medico chirurgo, specialista in Psichiatria e Psicoterapia Cognitiva. Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano e Bolzano. Responsabile Ricerca di “Studi Cognitivi”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano, Modena e San Benedetto del Tronto. Docente presso Sigmund Freud University di Milano. Terapeuta MCT, Terapeuta e supervisore REBT. Autore e teorico del modello LIBET. E’ didatta SITCC, socio SPR.

Dott. Gabriele Caselli: Psicologo, Psicoterapeuta cognitivo e comportamentale e Dottore di Ricerca in Psicologia Clinica, ricercatore e didatta presso le scuole di specializzazione in psicoterapia cognitiva  del Network di Studi Cognitivi. Direttore della Scuola di Specializazione “Psicoterapia e Scienze Cognitive”. Specializzato in Terapia Metacognitiva presso l’MCT Institute di Manchester con il Prof. Adrian Wells e primo terapeuta metacognitivo italiano. Coordinator for curriculum and Teaching Instructor presso Sigmund Freud University di Milano. Autore e teorico del modello LIBET.

Dott. Walter Sapuppo: Psicologo, Psicoterapeuta cognitivo e comportamentale, Advance Therapist REBT, Adult Attachment Interview Certified Coder. E’ Tenured Lecturer in Psicologia Generale presso la Sigmund Freud University di Milano e docente presso le Scuole di Specializzazione del network di Studi Cognitivi. E’ socio ordinario SITCC e SPR.

Programma

Disturbo ossessivo-compulsivo e Rimugino

Dr. Ruggiero – 4 Aprile 2018 – Ore 18:00

Il rimuginio è un fenomeno cognitivo caratterizzato da un predominio di pensiero verbale negativo e da un’attività predittiva. Il rimuginio è un processo che ha un impatto fondamentale in diversi disturbi psicologi. E’ il cuore ad esempio dei disturbi d’ansia.

Anche nel disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) ha una valenza importante. Nel DOC le intrusioni attivano alcune credenze metacognitive, cioè pensieri relativi al significato e all’importanza della comparsa nella mente delle ossessioni. In quest’ottica il problema non è quindi avere dei pensieri intrusivi in mente ma il fatto che per i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo ciò diventa intollerabile, preoccupante, fonte di rimuginio, minaccioso.

Come condurre quindi un primo colloquio con un paziente che tende a rimuginare molto? Che tecniche adottare? Cosa è utile indagare?

Durante l’incontro verranno mostrate le caratteristiche principali di queste problematiche e le tecniche per indagarle. Infine il docente effettuerà dal vivo una simulata su un caso clinico con DOC e rimuginio.

ISCRIZIONE ONLINE 9998

 

Disturbi Alimentari

Dr. Sapuppo – 2 Maggio 2018 – Ore 18:00

Nel trattamento dei pazienti affetti da Disturbi Alimentari, i clinici si trovano spesso a fronteggiare un atteggiamento ambiguo e non sempre collaborativo che li costringe a una continua ridefinizione e negoziazione degli obiettivi terapeutici. Da un punto di vista clinico, inoltre, si rileva una frequente comorbilità con altri disturbi psichiatrici. Inoltre, lo stretto legame con aspetti biologici alterati (a carico dei sistemi cardio-circolatorio, osseo, gastroenterico, endocrinologico, ginecologico e neuropsicolgico) rende spesso necessaria una ridefinizione dei programmi terapeutici. In tale ottica, l’utilizzo di trattamenti efficaci, validati a livello internazionale, insieme a un’attenzione ad aspetti personologici peculiari, può consentire un management clinico maggiormente efficace nei vari livelli e contesti di cura. Durante l’incontro verranno mostrate le caratteristiche principali di queste problematiche e le tecniche per indagare le diverse caratteristiche. Infine, il docente effettuerà dal vivo una simulata su un caso clinico con Disturbo Alimentare.

ISCRIZIONE ONLINE 9998

 

Alcolismo

Dr. Caselli – 23 Maggio 2018 – Ore 18:00

Le dipendenze patologiche fanno riferimento a diverse sostanze. La presenza di un disturbo correlato a sostanze si caratterizza per un uso continuativo nonostante l’insorgenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che generano elevato grado di difficoltà. Recentemente è stato studiato un nuovo modello (Modello Trifasico) (Caselli & Sapda) delle dipendenze patologiche che fa riferimento alla cornice teorica della Terapia Metacognitiva (Wells).

Durante l’incontro verranno mostrate le caratteristiche principali delle dipendenze patologiche e in particolare dell’alcolismo, le tecniche per indagarle alla luce del Modello Trifasico. Infine il docente effettuerà dal vivo una simulata su un caso clinico con alcolismo.

ISCRIZIONE ONLINE 9998

Informazioni

Partecipazione gratuita e aperta a professionisti che operano nell’ambito dei disturbi psichiatrici e psicologici, specializzandi in psichiatria, studenti di psicologia e di medicina e operatori della salute mentale.

Sede degli incontri

Gli incontri si svolgeranno presso: Sigmund Freud University Milano – Ripa di Porta Ticinese, 77-Milano

 

Direzione Scientifica: Dr.ssa Sandra Sassaroli e Dr. Giovanni Maria Ruggiero

Coordinamento Didattico: Dott.ssa Carolina A. Redaelli

Cartesio, il Disturbo Ossessivo Compulsivo e Dio

Ad una prima lettura Cartesio si rivela un uomo pieno di dubbi e di domande ed è curioso che l’incalzare di domande fosse in passato relegato e considerato “normale” nell’ambito della filosofia. A seguito di questa riflessione sarebbe utile forse riflettere su come la categorizzazione e l’inserimento di ogni sintomo in una casella ci abbia portato a non avere più una visione olistica dell’essere umano integrato in tutti gli aspetti di psiche, anima e corpo.

 

Mi sono trovata casualmente a leggere la quarta parte di questa opera di Cartesio, Le prove dell’esistenza di Dio e dell’anima umana, ossia i Fondamenti della Metafisica.

Famosa è la sua frase più celebre “Penso, dunque sono”, tuttavia è interessante analizzarne il processo di costruzione. È evidente ad una prima lettura che Cartesio fosse un uomo pieno di dubbi e di domande ed è curioso che l’incalzare di domande fosse in passato relegato e considerato “normale” nell’ambito della filosofia. A seguito di questa riflessione sarebbe utile forse riflettere su come la categorizzazione e l’inserimento di ogni sintomo in una casella, o di ogni patologia associata ad un etichetta ci abbia portato a perdere di vista la visione d’insieme, o meglio ancora a non avere più una visione olistica dell’essere umano integrato in tutti gli aspetti di psiche, anima e corpo. Ricordo qualche anno fa un paziente nella comunità psichiatrica dove lavoravo, che era completamente spiazzato perché in India era considerato un filosofo, un saggio e in Italia era considerato pazzo. Sarebbe per noi utile per recuperare una visione d’insieme, integrare le diverse conoscenze culturali e intercontinentali in materia di strumenti per la psicologia e per la psichiatria? O siamo troppo certi delle nostre ragioni per scendere a compromessi con i nostri dubbi? O forse potremmo provare ad abbandonare lo scetticismo ponendoci in una posizione di conoscenza senza giudizio? Tornando a Cartesio, inizialmente, durante la lettura, mi è sembrato di ascoltare qualcosa di molto simile alle infinite domande e rimuginii alle quali si assiste con un paziente ritenuto ossessivo in una stanza di psicoterapia.

Il filosofo apre il suo trattato mettendo sui due piatti della bilancia i due aspetti della vita, dei processi di conoscenza: la Verità e la Menzogna. Come stare nel giusto e nella perfezione? Dopo un incalzare di domande in cui arriva anche a dire chi sono io, dopo numerosi interrogativi su come avvicinarsi a qualcosa che fosse accostabile alla verità, tira fuori un idea che potrebbe essere uno strumento di lavoro per i terapeuti in termini di visualizzazioni e di concettualizzazioni. Egli decide di smetterla di cercare la verità e di capovolgere l’imbuto, il binocolo con cui aveva guardato fino ad allora, decise di considerare falso tutto ciò che genera un dubbio dentro di lui “pensai che dovevo fare il contrario, rigettare come assolutamente falso tutto ciò in cui potevo immaginare il minimo dubbio” .

Questo capovolgimento della visuale, questa estensione dello zoom, lo porta in maniera estrema, ma efficace, a considerare che gli uomini sbagliano ragionando e ancora dopo a capire che i pensieri possono valere quanto i sogni, che cambiano e si modificano di giorno come di notte, ma soprattutto lo conducono ad operare uno spostamento in cui si sostituisce il dubbio con la conoscenza.

Forse, come suggerisce Cartesio, la persona che riesce ad abbandonare ogni dubbio considerandolo portatore di falsità, a favore di un processo di conoscenza che si concentri sull’essere e non sul “potrebbe essere” si libera e si ritrova in quel modo d’essere del “penso, dunque sono” e allora non ha più senso “cosa penso” (inteso come mero e meccanico controllo ossessivo) e acquista valore il meccanismo del pensare in quanto tale. Non i contenuti ma il processo del pensare.

Spesso lavoriamo nelle stanze di psicoterapia per l’integrazione delle parti, Cartesio offre una visione e un’opportunità di capovolgere la prospettiva, dando al dubbio un ruolo talmente centrale tanto da farlo diventare normale. Nella normalità perde potenza e si trasforma in modo multidimensionale nelle varie istanze dell’essere umano.

Cartesio e la riflessione sul rapporto tra uomo e Dio

Inoltre Cartesio ci conduce in una intensa riflessione sul rapporto tra uomo e Dio, pur considerando il grado di soggettività religiosa, a me sembrerebbe che si parli di qualcosa che va oltre la religione e che offre uno spazio di recupero di un’identità spirituale che è dell’uomo a partire dalla sua nascita. Cartesio si interroga molto sul filo sottile che mette in connessione l’uomo con Dio, e a tal proposito si domanda: ma cosa lega l’uomo alla ricerca di una qualche perfezione? E in fondo cosa nel mondo è più perfetto dell’uomo? Egli trova nella natura una armonia e una perfezione che può a suo avviso aver preso forma da una perfezione spirituale e innata di cui l’uomo non è responsabile ma ne eredita il compito di curarsene. A tal proposito mi viene in mente che nella Cabbalà si dice che ogni essere umano è scintilla dell’eterno e allora cosa manca alla psicologia per legarsi alle trascendenza?

Non so se Cartesio fosse un Cabbalista, ma ha in comune con essa l’opinione che l’idea di Dio sia innata negli esseri umani, e essendo un’idea perfetta ne deriva che tale idea è introdotta nell’uomo dalla potenza e onnipresenza del divino. Il recupero di questa idea certa dell’esistenza di Dio (ossia il recupero della consapevolezza della propria spiritualità individuale), ci aiuterebbe a comprendere meglio forse alcuni aspetti deliranti o del pensiero magico che notiamo nelle narrazioni dei pazienti psicotici e/o ad entrare in relazione in generale con l’anima e la componente spirituale nostra e dei nostri pazienti. Ormai molte scienze che avevano escluso questo studio del divino stanno cambiando prospettiva e aprono le porte allo sconosciuto mondo spirituale. La fisica quantistica ad esempio si è aperta allo studio di questo mondo metafisico e spirituale, sarebbe una sfida anche per la psicologia concepire nei suoi studi e nelle tecniche la potenzialità della “particella Dio” e attingere dalla spiritualità e non dalla religiosità, delle metodologie di lavoro?

Salute in digitale: le app per il benessere psicologico

Sono state da poco rilasciate due app, Shim e Woebot, che cercano di migliorare il benessere psicologico degli utenti, riducendo (a detta degli sviluppatori) depressione, ansia e stress.

 

Ogni giorno sono innumerevoli le azioni che compiamo grazie allo sviluppo delle tecnologie digitali e all’intelligenza artificiale, pensiamo solo a tutti gli acquisti che possiamo fare con un click o a servizi come l’home banking che ci permette di effettuare pagamenti direttamente da casa o in mobilità.

E se facessimo ancora un passo oltre? E se, come nei classici film di fantascienza, con queste tecnologie noi potessimo interagire? Se fosse possibile parlare con loro? Se ci potessero anche rispondere? Non è più qualcosa di così lontano, anzi.

Woebot: l’app che aiuta a fronteggiare ansia e depressione

E’ da poco stata rilasciata una app chiamata Woebot (dall’inglese letteralmente ‘robot della sofferenza’) disponibile per tutti i sistemi operativi. Si tratta di un sistema che conversa con l’utente (chatbot), qualcosa di molto simile a Siri della Apple, ma che invece di rispondere a richieste su dove andare o come far qualcosa, tiene conversazioni sulla salute mentale ed il benessere.

Di matrice cognitivo-comportamentale, Woebot chiede alle persone come si sentono attraverso brevi conversazioni quotidiane; invia anche video e consigli utili a seconda dell’umore del momento e di come la persona risponde alle domande, infatti è in grado di tarare le sue risposte in base a ciò di cui si è parlato precedentemente.

Questo strumento è pensato per adolescenti e under 30, per avvicinarli alle conversazioni terapeutiche abbattendo il muro dello stigma sociale relativo a situazioni di disagio, stigma che può essere particolarmente influente sui più giovani. Woebot si colloca espressamente come strumento di auto-aiuto, di incoraggiamento e supporto ma, precisano i creatori, non intende assolutamente sostituirsi alla terapia vera e propria. E’ stata creata da un gruppo di giovani scienziati, ingegneri e psicologi, che hanno messo a disposizione le loro competenze tecniche e cliniche e hanno effettuato uno studio con l’Università di Standford (Fitzpatrick et al., 2017) in cui hanno testato l’efficacia della app. L’85% dei partecipanti di età compresa tra 18 e 28 anni che hanno utilizzato Woebot quotidianamente hanno riportato una significativa riduzione di sintomi di ansia e depressione già dopo due settimane, misurate attraverso la Patient Health Questionnaire (PHQ-9), la  Generalized Anxiety Disorder 7-item scale (GAD-7) e la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS).

Lo studio riporta degli evidenti limiti etici e metodologici: è stato finanziato dalla società produttrice della app Woebot, una delle autrici dell’articolo ne è la socia fondatrice, mentre per quanto riguarda l’aspetto metodologico il basso numero (70) e la selezione non casuale dei partecipanti (sono stati selezionati volontari in un campus universitario nell’area di New York di livello socioeconomico medio alto) oltre alla mancanza di un follow up, hanno reso poco generalizzabili i risultati, per cui gli Autori stessi sottolineano chiaramente l’esigenza di ulteriori studi per determinare se effettivamente questa app aiuti nella gestione di sintomi ansioso depressivi.

Shim: l’app per il supporto psicologico

Un altro studio (Ly et al, 2017), condotto stavolta in Svezia, ha testato una app chiamata Shim e simile a Woebot e creata per fornire supporto secondo le linee dell’approccio CBT. Anche in questo caso lo studio ha incluso un numero esiguo di partecipanti selezionati in maniera non random (28 volontari reclutati tramite annunci su social media e in università) e nessun follow up è stato fatto. I risultati hanno mostrano una diminuzione dello stress percepito secondo la Perceived Stress Scale-10 (PSS-10) e un aumento del benessere psicologico in generale misurato con la Flourishing Scale (FS) e la Satisfaction With Life Scale (SWLS).

Rischi e potenzialità delle app per il benessere psicologico

Fatte le dovute premesse sulle limitazioni metodologiche, entrambi gli studi riportano anche analisi qualitative su quanto riportato dai soggetti molto utili per comprendere l’impatto, i rischi e le potenzialità dell’utilizzo di app come supporto al benessere in popolazioni non francamente cliniche. Le tematiche emerse possono essere ricondotte a diverse aree, che vanno dagli aspetti tecnici a quelli di contenuto. I partecipanti hanno dimostrato un reale interesse e coinvolgimento in questo strumento, arrivando a consultare fino a 12 volte in un giorno la app, diventata per alcuni una vera e propria routine grazie anche alla possibilità accedervi in qualsiasi momento.

I pregi principali sono il poter esprimersi, apprendere e riflettere su aspetti importanti della propria vita, poter parlare della propria giornata e sfogarsi su ciò che succede, avere l’incoraggiamento e il supporto in situazioni di incertezza. D’altro canto, i soggetti hanno evidenziato tra i difetti proprio il fatto che se da un lato Shim viene umanizzato e parlarci viene considerato alla stregua di una conversazione “umana”, dall’altro è deludente accorgersi dei suoi limiti e che si tratta solo di un chatbot poiché non è possibile portare la relazione ad un livello più profondo. Difetti quali la ripetitività di frasi o domande, oppure il fatto che non colga alcune sfumature del linguaggio, rendono alcune volte parlare con Shim artificiale in maniera troppo evidente, creando distacco e delusione perché non si può andare oltre nel rapporto.

Gli strumenti di conversazione automatica come Siri della Apple o Alexa di Amazon facilitano la nostra vita quotidiana offrendoci servizi e riducendo tempi e costi di molti processi. Cosa implica però applicare questi strumenti alla sfera del benessere psicologico è un discorso diverso che prende in considerazione più aspetti. La realtà virtuale permette di abbattere i costi e svincolarsi dallo stigma che accompagna il disagio mentale: la possibilità dell’anonimato e l’accessibilità direttamente da casa attraverso la propria connessione consentono di eludere la condivisione del proprio disagio con altri e di non dover affrontare le spese della terapia. Ma qui sta il punto.

Per quanto possano lenire alcuni sintomi e funzionare da sfogo nel quotidiano, questi strumenti non sono e non hanno nemmeno la pretesa di sostituirsi a percorsi di terapia, percorsi tenuti da professionisti in carne e ossa e che permettono la creazione di una alleanza terapeutica profonda e qualitativamente insostituibile. Gli Autori (Fitzpatrick et al., 2017; Ly et al., 2017) sottolineano chiaramente e senza ambiguità che le app possono avere funzione educativa e di supporto ma non di sostituzione della terapia. Mostrano di aumentare il coinvolgimento e l’aderenza al trattamento, di essere percepiti come strumenti utili e interessanti, di portare sollievo e benefici e sicuramente in un futuro non lontano saranno sviluppati sistemi sempre più raffinati e capaci di farci sentire capiti sebbene da una tecnologia automatizzata. Il momento in cui un robot si sostituirà ad un essere umano è però ancora molto lontano.

Gli effetti di programmi TV e reality show sulle aspettative delle donne incinte

I programmi televisivi sulla maternità esercitano una notevole influenza sulle aspettative di ciò che attenderà alle mamme al momento della nascita del neonato.

Lucia Marangia

 

I programmi tv e reality show possono cambiare la percezione e la gestione sulla gravidanza di una donna incinta. A dirlo è uno studio dell’Università di Cincinnati che, ha analizzato l’influenza di alcuni contenuti televisivi su un gruppo eterogeneo di donne di New York.

I ricercatori della UC, guidati dalla professoressa di Sociologia Danielle Bessett e da Stef Murawsky, hanno raccolto un campione di 64 donne incinte di differente status sociale, livello d’educazione e background etnico per comprendere il grado d’incidenza dei prodotti della tv sulle aspettative di gravidanza e nascita.

Le donne sono state interrogate riguardo le loro abitudini televisive. Il 44% di loro hanno rivelato non solo di aver guardato durante la gravidanza programmi TV su storie di gravidanze realmente accadute, ma anche che tali contenuti avevano influenzato le loro conoscenze riguardanti la maternità ed il parto.

Queste risposte sono state date per la maggioranza da donne poco scolarizzate, mentre la maggioranza delle partecipanti con livelli di scolarizzazione più alta hanno affermato di non dedicarsi alla visione di certi programmi televisivi.

In seguito a ulteriori domande, coloro che affermavano di non aver guardato o utilizzato la TV per ottenere informazioni sul parto, hanno palesato un comportamento contraddittorio. Quando è stato chiesto di descrivere dove hanno raccolto le loro informazioni, hanno ripetutamente fatto riferimento a situazioni mediche o scene relative agli ultrasuoni che avevano visto in programmi televisivi o persino film.

Secondo gli autori questo fenomeno sarebbe attribuibile in parte ad un “pudore” all’interno di certe classi sociali con alto grado d’istruzione che ritengono poco appropriato informarsi guardando la TV, ma evidenzia anche il potere sottile del mezzo televisivo nell’influenzarci con immagini e contenuti impattanti che giocoforza vanno ad influenzare la nostra percezione delle cose.

 

L’intelligenza emotiva. Che cos’è e come usarla (2017) di D. Walton – Recensione del libro

L’intelligenza emotiva è un libro dal linguaggio semplice e adatto a qualsiasi lettore, che affronta il tema dell’ Intelligenza Emotiva, intesa come un insieme di abilità e di capacità mentali che possono aiutare le persone a gestire con successo sia se stesse sia l’esigenza di relazionarsi agli altri.

 

Attraverso esemplificazioni, brevi questionari e numerosi esempi pratici, il libro L’intelligenza emotiva di David Walton offre spunti di riflessione interessanti e orientati al miglioramento dell’abilità di gestire l’impatto che le emozioni hanno sulle nostre relazioni con gli altri.

Secondo l’autore, l’ Intelligenza emotiva è composta da due forme di intelligenza: l’ intelligenza cognitiva (ossia l’abilità di pensare razionalmente, agire in maniera decisa e di gestire il proprio ambiente; comprende le abilità intellettive, analitiche, logiche e razionali) e l’ intelligenza sociale (ossia l’abilità di comprendere e di gestire le situazioni che coinvolgono altre persone; comprende la capacità di essere consapevole di se stessi, di capirsi, di gestire le relazioni e di comprendere il contenuto emotivo del comportamento).

L’intelligenza emotiva: gli aspetti che la compongono

Partendo da tale definizione, il libro analizza nello specifico i quattro aspetti che determinano l’ Intelligenza Emotiva, fornendo suggerimenti per migliorare ciascuna di queste aree:

  • La conoscenza di sé
  • La gestione delle proprie emozioni
  • La comprensione del comportamento e dei sentimenti degli altri
  • La gestione delle proprie relazioni (utilizzando capacità sociali efficaci)

Successivamente, L’intelligenza emotiva evidenzia gli aspetti più pratici e applicativi di questo tipo di intelligenza. Si parte dai luoghi di lavoro (l’ Intelligenza Emotiva è un fattore importante in una prestazione di successo, in particolare nelle vendite e nell’ambito gestionale, ma anche in altri ambiti legati al mondo del lavoro come la leadership per esempio), fino ad arrivare agli aspetti legati all’utilità del sviluppo di questo tipo di intelligenza durante l’età evolutiva, attraverso programmi scolastici di alfabetizzazione emotiva (per aiutare i bambini a imparare in modo efficace e per rendere la loro classe un luogo tranquillo e ottimista per imparare), e attraverso una genitorialità orientata allo sviluppo dell’ Intelligenza Emotiva.

Infine il testo si occupa del rapporto tra Intelligenza Emotiva e salute, evidenziando come la nostra salute e la capacità di rimanere in salute siano intimamente connessi al modo in cui gestiamo le nostre emozioni.

Un libro dal taglio molto pratico, dal linguaggio accessibile a tutti, che offre validi spunti per migliorare il nostro benessere attraverso il contributo dell’ Intelligenza Emotiva.

Terapia di coppia per amanti (2017) – Recensione del film

Terapia di coppia per amanti è un film del 2017 distribuito dalla Warner Bross. È una commedia a tratti insolita che racconta la storia di due amanti, Viviana e Modesto, ognuno con una famiglia, che si intravede attraverso i loro racconti nelle scene di vita quotidiana.

 

Terapia di coppia per amanti: i protagonisti

Di Modesto si sa qualcosa in più. Racconta di un padre assente nella sua infanzia che ora nel momento di confusione prende come consigliere e del quale rivaluta la figura anche se in maniera velata. È un uomo sulla quarantina sposato con un figlio,  amante della musica, di lavoro fa il chitarrista, figlio appunto di un musicista che gli ha dato il nome “per ripicca alla madre” come raccontato in una scena di Terapia di coppia per amanti, e del quale si porta dietro la notorietà nel mondo della musica. È un uomo a tratti un po’ bambino, con ansie e paura di una separazione dalla moglie che non riesce a lasciare e altrettante ansie e timori con l’amante Viviana, che ama e dalla quale non riesce a stare lontano. È proprio Viviana che lo sprona a suo modo, cerca di farlo emergere. Modesto si cela dietro battute, nasconde le sue paure.

Viviana è anche lei una moglie,  madre di un ragazzino di 16 anni, per il quale nutre molte ansie dettate da un incidente avuto dal ragazzo, e ne parlerà solo all’interno della terapia. Viviana al contrario di Modesto è analitica, consapevole delle sue paure e di quelle dell’amante e decide per entrambi di andare in terapia di coppia. Una terapia “strana” perché loro sono una coppia, ma una coppia di amanti.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM TERAPIA DI COPPIA PER AMANTI

Terapia di coppia per amanti: il ruolo dell’analista

Nella prima seduta dichiarano questo e trovano il terapeuta incuriosito da questa terapia di coppia per amanti, complice in questo caso anche la situazione dell’analista stesso. Anch’egli sposato e con un’amante. La terapia inizia e escono fuori dinamiche di coppia, di famiglia, di amanti. Si mescolano le vite dei personaggi ed il terapeuta entra in crisi sospendendo la terapia. In Terapia di coppia per amanti le dinamiche sono confuse e velate. Alla fine i due amanti prenderanno coscienza delle loro vite e lasceranno le rispettive famiglie per poi ritrovarsi di nuovo insieme.

Anche il ruolo dell’analista è insolito. E incuriosito dall’avere una coppia di amanti in terapia ma allo stesso tempo si lascia coinvolgere complice una relazione con una sua ex paziente. Ci sarà un momento in una seduta in cui cederà e si lascerà andare ad un commento del quale poi analizzerà i contenuti con un collega. Importante sottolineare la descrizione che fa di Modesto definendolo un sabotatore in quanto contrario alla terapia, trascinato dall’amante, fa di tutto per mandare all’aria la terapia, accordando una chitarra trovata a studio, invitando sotto falso nome l’analista ad un evento conscio della distanza da tenere fuori dalla terapia. Questo passaggio è ben analizzato e serve al protagonista per diventare consapevole delle sue paure.

Terapia di coppia per amanti è una commedia romantica che strappa risate, dove si vede una coppia innamorata incastrata in vite matrimoniali ormai finite che si ritrovano complici nelle risate che l’amore gli regala.

L’acido gamma-idrossibutirrico (GHB) – Introduzione alla Psicologia

L’acido gamma-idrossibutirrico, più comunemente GHB, è un acido grasso a catena corta presente naturalmente nel nostro organismo e, in generale, in quello di tutti i mammiferi. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il GHB è principalmente concentrato nell’ipotalamo, nei gangli basali, nei reni, nel cuore, nei muscoli e nelle masse grasse. Produce effetti simili all’ecstasy, ovvero disinibizione, aumento della sensibilità al tatto, diminuzione dell’ansia, predisposizione all’apertura verso l’altro, riduzione della capacità di reagire alle aggressioni e alle violenze. Questo lo rende la droga ideale da mettere nel bicchiere dell’eventuale vittima per approfittare della sua condizione psicofisica, da qui il nome “droga da stupro”.

Storia

Il GHB è stato sintetizzato per la prima volta nel 1874 da Alexander Mikhaylovic Zaytsev, professore ordinario di chimica all’Università di Kazan e studioso della sintesi delle alcoli.

Nel 1960 il GHB fu nuovamente sistematizzato da Henry Laborit, uno dei principali farmacologi del Novecento e autore degli effetti antipsicotici della cloropromazina. Laborit mentre valutava le possibili applicazioni farmacologiche dell’acido gamma-ammino-butirrico (GABA), neurotrasmettitore endogeno a effetto sedativo ed ansiolitico, notò l’incapacità di questa sostanza di attraversare la barriera ematoencefalica e penetrare nel cervello.

Nel cercare di risolvere questo problema, Laborit ottenne il GHB, avente effetto sedativo ed anestetico.

Nel 1963 fu dimostrata la presenza del GHB nel cervello dell’uomo, in quanto sostanza prodotta naturalmente nel sistema nervoso centrale e nel 1982 si individuarono la presenza di recettori specifici per il GHB nel cervello. La sostanza isolata da Laborit era, dunque, un neurotrasmettitore usato normalmente dalle cellule cerebrali nei processi di trasmissione nervosa.

Nel 1966 si dimostrava che il GHB incrementa il livello cerebrale di dopamina, principale meccanismo alla base dell’abuso di droghe e delle dipendenze. Di conseguenza, il GHB era un possibile farmaco utilizzabile per sopprimere il consumo volontario di alcol etilico e per gestire la crisi d’astinenza.

Inoltre, tale sostanza minimizza gli effetti dell’alcol sul sistema nervoso centrale, senza essere tossica e per questo la terapia con il GHB per gli alcolisti è simile a quella con il metadone per la dipendenza da eroina.

Effetti del GHB

Il GHB è una sostanza con effetti che variano da persona a persona. Anche se assunto in piccole dosi potrebbe avere esiti inaspettati e differenti da quelli preventivati.

In generale, gli effetti cominciano a distanza di circa 5-10 minuti dall’ingestione e durano da 1 a 3 ore circa.

A basse dosi, 1-2 gr equivalenti ad un cucchiaino di polvere, presenta effetti molto simili a quelli degli alcolici, come disinibizione, piacere diffuso, rilassamento e tranquillità, sensualità, euforia ed eloquio fluente.

A dosi più elevate provoca intontimento, perdita di coordinazione dei movimenti, convulsioni, forte sonnolenza e narcosi che si manifesta con un sonno comatoso e attività onirica, che può durare anche fino a 24 ore.

Il GHB induce anche disinibizione, aumento della sensibilità tattile, aumento della capacità erettile nei maschi e una maggiore sensibilità al momento dell’orgasmo.

Il GHB  può produrre un effetto simile al “dopo sbronza” e si presenta al mattino seguente l’assunzione della sostanza, anche se in misura meno forte e spiacevole di quella causata dall’abuso di alcol.

Fra gli effetti avversi conosciuti si segnalano forti attacchi di nausea, vomito, confusione e difficoltà muscolari. Nei casi più gravi sono state osservate convulsioni, collasso e coma. In particolare l’interazione con alte dosi di alcool è molto pericolosa e può anche condurre alla morte per arresto respiratorio.

Consumo

Il GHB è presente sotto forma di liquido o di polvere bianca inodore e ha un sapore tendente al salato. Esso è contenuto in bottigliette di plastica, anche se in polvere bianca, da bere disciolto in un liquido. In campo medico è usato come anestetico chirurgico, per stimolare la produzione dell’ormone della crescita, per la cura della alcool-dipendenza e come coadiuvante del parto per le sue proprietà rilassanti e anti-spasmodiche.

Esso è anche usato come stimolante anche nello sport e per questo è inserito tra i farmaci  dopanti.

Dipendenza e astinenza

La potenzialità tossicomanigena del GHB è determinata dal fatto che crea:

  • Dipendenza fisica, si sviluppa quando è assunto regolarmente e gli effetti causati dalla sospensione dell’assunzione possono includere allucinazioni, insonnia, ansietà, tremori, sudorazione, irascibilità, dolori intercostali e rigidità, dolori ai muscoli ed alle ossa, sensibilità agli stimoli esterni, disforia, e noia. Questi effetti collaterali scompaiono generalmente dopo circa 20 giorni a seconda dell’uso;
  • Dipendenza psicologica che porta alla creazione di una serie di meccanismi volti alla ricerca imminente dall’assunzione dell’ennesima dose.

A oggi, non è noto se l’uso cronico di GHB causi danni permanenti all’organismo. Infatti, test eseguiti sui ratti cui è stato somministrato GHB cronicamente non hanno evidenziato danni a particolari organi o tessuti.

Utilizzo

Il GHB agli inizi degli anni ’90 era molto diffuso in discoteca e successivamente venne usato nei rave party. In seguito, è stato molto utilizzato anche in casi di violenza sessuale, visti i suoi effetti inibitori ed euforici, da qui il nome “droga da stupro”.

Il GHB, inoltre, ha cominciato a diffondersi anche nelle palestre, divenendo rapidamente popolare presso gli sportivi come sostanza dopante per la sua attività stimolatoria sugli ormoni della crescita.

L’abuso attuale di GHB rappresenta un preoccupante fenomeno associato a un mercato non legato di gamma-butirrolattone (GBL) o di 1,4-butanediolo (1,4-BD), solventi industriali facilmente reperibili, che possono essere utilizzati sia come precursori per la sintesi del GHB nei laboratori casalinghi, sia essere assunti direttamente e trasformati in maniera molto rapida dall’organismo in questa molecola.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Un nuovo modello per lo studio del cervello: il “micro-cervello”

Nel loro studio, riportato su Nature Physics, i ricercatori descrivono una metodologia sviluppata al fine di far crescere dei “micro-cervelli” da cellule umane che hanno permesso loro di seguire gli stessi meccanismi fisici e biologici alla base del processo di formazione delle rughe.

 

Al momento della nascita la maggior parte dei cervelli dei neonati si presenta già rugoso come una noce, in alcuni bambini appena nati invece il cervello appare come una “tabula rasa”. Tale difetto cerebrale prende il nome di sindrome del cervello liscio e comporta gravi carenze dello sviluppo e aspettative di vita marcatamente ridotte.

Il gene che causa questa sindrome ha recentemente aiutato i ricercatori del Weizmann Institute of Science ad indagare sulle cause della formazione delle rughe. Nel loro studio, riportato su Nature Physics, i ricercatori descrivono una metodologia sviluppata al fine di far crescere dei “micro-cervelli” da cellule umane che hanno permesso loro di seguire gli stessi meccanismi fisici e biologici alla base del processo di formazione delle rughe.

I micro-cervelli sono stati ottenuti da delle cellule staminali embrionali – i cosiddetti organoidi, introdotti nell’ultimo decennio dai Profs. Yoshiki Sasai in Giappone e Juergen Knoblich in Austria – e cresciuti in laboratorio.

Attualmente, il prof. Orly Reiner del Dipartimento di genetica molecolare del Weizmann Institute of Science afferma che il suo laboratorio, insieme a molti altri, ha abbracciato l’idea di coltivare gli organoidi ma, di risposta, il dott. Eyal Karzbrun, un membro del Reiner Lab, ha dovuto frenare il loro entusiasmo, sostenendo che le dimensioni ottenute erano tutt’altro che uniformi: assenza di vasi sanguigni, mancanza di un apporto costante di sostanze nutritive e interferenza dello spessore del tessuto con l’imaging ottico e il tracciamento del microscopio.

Di conseguenza dott. Karzbrun ha sviluppato un nuovo approccio per la crescita degli organoidi che permetterebbe di seguire il processo di crescita in tempo reale, attuando una limitazione della crescita sull’asse verticale. Questo tipo di approccio ha fornito un organoide a forma di “pita” – rotondo e piatto con uno spazio sottile nel mezzo, che consente di fornire sostanze nutritive a tutte le cellule. Grazie a questo sistema, a partire dalla seconda settimana di sviluppo del micro-cervello, le rughe cominciano ad apparire e poi a divenire più profonde. “Questa è la prima volta che il folding è stato osservato negli organoidi e pare che sia dovuto all’architettura del nostro sistema” sostiene il Dr. Karzbrun.

Le pieghe o le rughe su una superficie sono il risultato di instabilità meccanica, cioè forze di compressione applicate ad alcune parti del materiale. Quindi, per esempio, se c’è un’espansione irregolare in una parte del materiale, un’altra parte potrebbe essere costretta a piegarsi per poterla sopportare. Negli organoidi, gli scienziati hanno trovato tale instabilità meccanica in due punti: il citoscheletro – lo scheletro interno – delle cellule al centro dell’organoide contratto e i nuclei delle cellule vicino alla superficie espansa.

Mentre questo risultato era impressionante, il Prof. Reiner non era convinto che le rughe negli organoidi stessero davvero modellando le pieghe in un cervello in via di sviluppo. Così il gruppo ha sviluppato nuovi organoidi, questa volta con le stesse mutazioni portate dai bambini con la sindrome del cervello liscio. Il Prof. Reiner aveva identificato il gene LIS1 nel 1993 e ha continuato a studiare il suo ruolo nel cervello in via di sviluppo e nella malattia, che colpisce una su 30.000 nascite. Tra le altre cose, il gene è coinvolto nella migrazione delle cellule nervose al cervello durante lo sviluppo embrionale e nella regolazione del citoscheletro.

Gli organoidi con il gene mutato sono cresciuti fino alle stesse proporzioni del primo gruppo, ma hanno sviluppato poche pieghe e quelli che hanno sviluppato erano di forma molto diversa dalle normali rughe. Lavorando sul presupposto che le differenze nelle proprietà fisiche della cellula fossero responsabili di queste variazioni, il gruppo, con l’aiuto del Dr. Sidney Cohen del Dipartimento di Supporto alla Ricerca Chimica, ha studiato le cellule dell’organoide con il microscopio a forza atomica e ha notato che, in merito all’elasticità, le cellule normali erano circa due volte più rigide di quelle mutate.

Il Prof. Reiner afferma: “Abbiamo scoperto una differenza significativa nelle proprietà fisiche delle cellule nei due organoidi, ma abbiamo osservato differenze anche nelle loro proprietà biologiche. Per esempio, i nuclei nei centri degli organoidi si muovevano più lentamente e abbiamo notato differenze significative nell’espressione genica. Non è esattamente un cervello, ma è piuttosto un buon modello per il suo studio“.

I ricercatori hanno in programma di continuare a sviluppare il loro approccio, che ritengono possa portare a nuove conoscenze su altri disturbi legati allo sviluppo del cervello, tra cui microcefalia, epilessia e schizofrenia.

Razzismo come costruzione sociale

Per quanto un individuo possa agire in autonomia, sganciato da associazioni o movimenti, l’idea stessa di razzismo e di odio etnico rimanda ad un gruppo al quale riferirsi ed appartenere in opposizione a qualcun altro. È nei momenti di conflitto tra gruppi che questo tipo di fenomeno prende piede e si radicalizza, diventando a sua volta carburante per alimentare, amplificare e perpetuare tale scontro.

Carlo Boracchi, Alberto Mascena

 

L’incontro con l’altro e il razzismo

Occidente e Islam, hutu e tutsi, ariani ed ebrei, bianchi e neri, cattolici e protestanti, serbi e croati, autoctoni e immigrati, lombardi e terroni, indiani e cowboy. La discriminazione razziale ha da sempre declinato il concetto di “altro” in modi diversi, cambiando maschera e appoggiandosi a criteri anche molto differenti a seconda dei contesti storici, politici o geografici.

Il comune denominatore a questi molteplici esempi è però sempre il medesimo: l’incontro con la diversità diventa uno scontro, e l’altro è percepito come inferiore.

Come scatta questo meccanismo? Come si costruisce la discriminazione e, soprattutto, l’odio per l’altro?

Nessuno è razzista da solo. Per quanto un individuo possa agire in autonomia, sganciato da associazioni o movimenti, l’idea stessa di razzismo e di odio etnico rimanda ad un gruppo al quale riferirsi ed appartenere in opposizione a qualcun altro. È nei momenti di conflitto tra gruppi che il razzismo prende piede e si radicalizza, diventando a sua volta carburante per alimentare, amplificare e perpetuare tale scontro.

 

Il concetto di razza

Ma quando nasce l’idea di “razza” dato che oggi è scientificamente infondato il concetto di razza?

Il concetto di “razza” è proposto per la prima volta dal medico e viaggiatore francese Bernier nel 1684. Successivamente, saranno Linneo (1735) e Buffon (1749) a sviluppare maggiormente tale concetto. Entrambi questi studiosi ritenevano, infatti, di aver individuato delle specifiche caratteristiche morfologiche e fisiche che permettevano una chiara differenziazione dei gruppi umani in razze distinte.

Oggi tale definizione è stata tuttavia categoricamente scientificamente disconfermata: studi genetici, antropologici e antropometrici hanno rivelato l’impossibilità di definire differenti razze umane (come invece può avvenire parlando di cani o cavalli), favorendo la sua sostituzione con il termine “etnia”, che attribuisce le differenziazioni tra gruppi umani a fattori culturali e antropologici più che strettamente biologici.

Carlo Tullio-Altan individua cinque fattori costitutivi l’etnicità e che possono essere resi salienti attraverso forme di narrazione che li pongono come determinanti rispetto ad altri nascosti e trascurati.
Tali elementi sarebbero:
1) epos: la memoria storica esaltata e celebrata in un passato comune;
2) ethos: il complesso delle istituzioni e norme etiche e religiose;
3) logos: la lingua comune;
4) genos: trasfigurazione simbolica dei legami di discendenza comune;
5) topos: identificazione del gruppo con il territorio;
Quali di questi elementi vengano utilizzati e come siano plasmati risulta arbitrario e mutevole. Quando si parla di cultura, etnia e religione, non ci si riferisce a concetti reali, esistenti nel senso materiale del termine (come invece avviene per “tavolo”, o “mela”) ma costruiti e sostenuti grazie ad un accordo tra persone e declinati attraverso l’interazione sociale, a stretto contatto con il contesto storico-politico.

Il razzismo e il senso di superiorità rispetto agli altri

Stabilito questo, come si passa dalla definizione di un gruppo, alla discriminazione degli altri? Perché il nostro gruppo ci appare migliore degli altri?

Secondo Fabietti e Matera (1999), il razzismo oggi si fonda su una forma di narrazione del passato, una costruzione artificiale della memoria operata attraverso la selezione di ricordi e informazioni che esaltano alcuni specifici aspetti rispetto ad altri, collegati a costruire una storia utile a giustificare l’odio verso l’altro. Un passaggio chiave in questo processo è la creazione del concetto di “identità etnica”, che da concetto astratto, inesistente, finisce per essere percepita come un’entità reale, naturale. Secondo gli autori questo passaggio chiave avverrebbe attraverso processi esterni all’individuo (esasperazione delle differenze tra gruppi e minimizzazione delle somiglianze per dare realtà e sostanza all’identità etnica) e interni (costruzione del senso di appartenenza e riconoscimento dell’idea di etnia come di una cosa reale, esistente).

Concetti simili vengono espressi anche da Tajifel e Turner, con la loro “Teoria dell’identità sociale”, nella quale sostengono che quando si entra in contatto con soggetti appartenenti al nostro stesso gruppo sociale le differenze vengono minimizzate e le somiglianze accentuate, e specularmente, quando abbiamo a che fare con soggetti appartenenti ad un gruppo diverso dal nostro le differenze vengono sovraconsiderate, mentre le somiglianze tendono ad essere minimizzate o contestualizzate.

Se pensiamo ai casi di cronaca che costellano il panorama sociale attuale, ritroviamo diversi esempi di come l’azione criminosa possa essere intrepretata in modo molto differente, se a commettere il reato è un membro del nostro gruppo o di un altro: nel primo caso gli attributi negativi saranno legati alla singola persona, mentre nel secondo tendono ad essere letti come tipici di quel gruppo.
Le quattro affermazioni che seguono esemplificano ciò che abbiamo appena detto: “Un rom ruba perché tutti i rom rubano”; “Se un rom sventa un furto, è perché sarà lui ad essere particolarmente onesto (…o ne ha avuto qualche altro vantaggio…)”. Al contrario: “Se un mio concittadino ruba, è perché sarà lui ad essere un delinquente”; “Se un mio concittadino sventa un furto, è perché noi siamo gente onesta!”

La psicologia clinica come ha affrontato questa dinamica e cosa ne pensa del razzismo?

Ne “Il disagio della civiltà” (Freud, 1929) Freud parla di “narcisismo delle piccole differenze”, attraverso cui tenta di spiegare come la coesione intragruppale è costruita e mantenuta a partire dall’inferiorizzazione degli altri gruppi socialmente o geograficamente vicini, verso cui sono proiettate le istanze aggressive insite al gruppo stesso. Il gruppo che proietta può percepirsi “migliore” direzionando l’aggressività verso i gruppi che presentano delle minime “differenze”, i quali a loro volta diventano oggetto di disprezzo e ostilità.

In pratica Freud sostiene l’esistenza di un meccanismo di proiezione delle proprie parti negative all’esterno, sui gruppi più prossimi (anche perché più accessibili), attraverso il quale distinguiamo il nostro gruppo rispetto agli altri, e ci sentiamo gratificati nell’appartenervi.

Questa prospettiva spiega bene, ad esempio, l’intensa ostilità di alcune forme di campanilismo anche tra gruppi concentrati in un fazzoletto di terra, o la rancorosità spesso presente nei convertiti rispetto agli appartenenti al proprio gruppo religioso precedente.
Sempre nell’alveo della tradizione psicoanalitica non può essere trascurata l’interpretazione offerta da Wilhelm Reich, che nell’opera “Psicologia di massa del fascismo” pone attenzione al ruolo sociale svolto dalla sessualità e a tutte quelle dinamiche psicologiche che “affondano le loro radici nella parte irrazionale del carattere umano”. Conformemente al ruolo centrale attribuito all’energia orgonica nella concettualizzazione reichiana, l’ideologia razziale è intesa come “una tipica espressione caratteriale biopatica dell’uomo orgasticamente impotente”.

Reich include il razzismo tra le molteplici manifestazioni dell’irrazionalismo sociale, attraverso le quali dei soggetti incapaci di scaricare la propria eccitazione fisica e mentale, esprimono e canalizzano le istanze aggressive e la propria perenne frustrazione.

La teoria di Bateson

Naturalmente la psicoanalisi non è stata l’unica corrente psicologica ad affrontare il tema delle “differenze” e delle loro ripercussioni nelle relazioni tra soggetti e gruppi.
Uno dei maggiori autori ad aver affrontato questo tema è Gregory Bateson, che ha incentrato il concetto stesso di differenza alla base del processo conoscitivo umano, attraverso l’assioma per cui “l’informazione corrisponde sempre alla percezione di una differenza”.
Bateson rileva come la conoscenza non possa che procedere per distinzioni, per cui conoscere significa “conoscere attraverso le differenze”: “vi è un numero infinito di differenze […] da questa infinità noi ne scegliamo un numero limitatissimo, che diviene informazione. In effetti, ciò che intendiamo per informazione è una differenza che produce differenza”.
Secondo questo autore, più due gruppi interagiscono, più hanno bisogno di differenziarsi, rimarcando le rispettive caratteristiche idiosincratiche. È così che nasce la “schismogenesi”: la dinamica psico-sociale che porta due gruppi a discriminarsi l’un l’altro. Nella sua formulazione originaria di tale concetto, Bateson afferma che la “schismogenesi è un processo di differenziazione nelle norme comportamentali derivante dall’interazione cumulativa tra individui“.
Ciò significa in concreto che, come abbiamo già detto, più due gruppi interagiscono, più hanno bisogno di marcare le reciproche differenze.
Le modalità con cui i gruppi, una volta distintisi, interagiscono tra loro possono essere simmetriche (più l’altro si mostra aggressivo, più io mi mostro aggressivo) o complementari (più l’altro si mostra aggressivo, più io mi mostro pacifico).

Il conflitto avviene quando nell’interazione tra gruppi compare una sola delle due modalità, poiché si dà avvio ad un’escalation (simmetrica o complementare) insostenibile all’infinito, che culmina con lo scontro. Unica via d’uscita dall’escalation è il ricorso estemporaneo ad un’inversione di ruoli tra i gruppi o il cambio di modalità interattiva, utile a ridurre la quota di contrapposizione (“generalmente rispondo all’aggressività con l’aggressività, ma ora rispondo con la distensione” o “generalmente rispondo con l’accettazione, adesso invece mi oppongo”).
In assenza di tali momenti di riequilibrio della tensione tra gruppi (che Bateson individua nel rituale chiamato “Naven”) lo scontro è inevitabile.

A partire dalla premessa quindi che la mente non sia individuale, ma collettiva, generata cioè dall’interazione degli individui del sistema, secondo l’ottica batesoniana possiamo dire che “il razzista” altro non è che colui che esprime l’escalation conflittuale all’interno di un determinato gruppo, del quale ne incarna la componente più aggressiva nella modalità di confrontarsi con il diverso.
La discriminazione e la violenza altro non sono che l’espressione comportamentale di questa tensione, l’agito che incarna la percezione del soggetto.

Il razzismo come distinzione tra noi e loro all’interno dell’interazione sociale

Ciò che si può riconoscere come punto comune nelle elaborazioni di questi autori, appartenenti a discipline ed orientamenti diversi tra loro, è il pensiero che le differenze poste come cardine della distinzione“noi-loro” siano costruite dentro l’interazione sociale stessa, e che proprio quegli elementi su cui si avvia il processo di distinzione, diventino progressivamente sempre più marcatamente distanti.
Se tuttavia la distinzione è posta in modo arbitrario, essa potrebbe anche essere più facilmente trasformabile: una polarizzazione più significativa in un determinato momento storico, può diventare insignificante in un altro, smorzando il conflitto tra quegli specifici gruppi.

Se negli anni ’70 in Italia, il conflitto tra borghesi e proletari ha raggiunto livelli di tensione culminati nel terrorismo, questa stessa contrapposizione ha perso significato pochi anni dopo.

È quindi possibile, e certamente auspicabile, che proprio quelle categorie sulle quali si concentrano oggi le tensioni più violente, possano in un futuro prossimo diventare insignificanti. Ciò non escluderebbe tuttavia la loro sostituzione con un nuovo asse di discriminazione, secondo parametri che forse oggi ci risultano totalmente indifferenti, permettendo un avvicendamento di discriminazioni che può (forse) limitare l’escalation tra soggetti.

Questo a patto di non essere come i due protagonisti di una barzelletta sentita raccontare da Moni Ovadia: un vecchio Texano razzista (perché, a proposito di discriminazione, i texani “ovviamente” sono tutti razzisti…) si reca a New York e, salito sulla metropolitana, rimane folgorato vedendo davanti a sé due uomini indiscutibilmente neri come la notte. Non è tuttavia il colore della loro pelle, ciò che lo colpisce di più. Non è nemmeno il fatto che quei due uomini così indiscutibilmente neri, siano anche indiscutibilmente gay, dato che si tengono teneramente mano nella mano.
Ciò che lo colpisce e lo schifa ancora di più, è che quei due uomini così neri e così gay indossino la kippah e portino sotto il braccio libri scritti con caratteri indiscutibilmente ebraici, al che il vecchio Texano, un po’ frastornato da un simile concentrato umano, domanda a quei due: “Scusate, ma a voi non bastava essere semplicemente negri?”

Le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani adulti – La percezione delle molestie sessuali

Il gruppo di ricerca fluIDsex negli scorsi mesi ha lanciato una survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia; in questo articolo si farà riferimento all’argomento delle molestie sessuali.

 

Il gruppo di ricerca fluIDsex negli scorsi mesi ha lanciato una survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia.

I soggetti che hanno risposto alla survey sono stati 440, con età media di anni 22, di cui 274 persone di genere femminile e 166 di genere maschile; 125 persone omosessuali e 315 persone eterosessuali.

In questo articolo si farà riferimento unicamente all’argomento delle molestie sessuali. Gli altri risultati emersi sono stati pubblicati in precedenti articoli.

Molestie sessuali

Ogni comportamento di tipo fisico, verbale o non verbale, offensivo della dignità di una delle parti, fondato sull’appartenenza ad un genere o a carattere sessuale ed indesiderato da parte di qualcuno è considerabile molestia sessuale.

Le molestie sessuali, a differenza delle violenze sessuali, agiscono a livello psicologico. Alcuni di questi comportamenti possono essere apprezzamenti e sguardi insistenti, frasi equivoche-allusive ripetute, advance pesanti, mani appoggiate sul corpo altrui (come su una spalla o su un fianco) senza che vi sia un’intimità relazionale che ne giustifichi l’atto, inviti espliciti a rapporti sessuali in cambio di favori o ricatti di natura lavorativa o altra, e così via.

In questo studio la molestia sessuale è stata indagata basandosi sulla percezione che le eventuali vittime hanno avuto di una o più determinate situazioni capitate loro.

Il 67% delle persone eterosessuali di genere femminile che hanno partecipato allo studio ha dichiarato di sentirsi spesso vittima di molestie sessuali. La stessa dichiarazione è stata fatta dal 65% delle persone omosessuali di genere femminile e dal 53% delle persone omosessuali di genere maschile, contro solamente il 20% delle persone eterosessuali di genere maschile.

Da questi dati è emerso come vi siano delle persone più sensibili e/o più soggette a molestie sessuali in base al proprio genere ed in base al proprio orientamento sessuale: al primo posto troviamo il gruppo di genere femminile, eppure anche il gruppo maschile, nel caso in cui il proprio orientamento sessuale sia omosessuale anziché eterosessuale riporta un alto livello di vittimizzazione legato alle molestie sessuali.

Nonostante i soggetti del gruppo maschile eterosessuale si siano dichiarati meno soggetti ad essere vittime di molestie sessuali, anch’essi, sebbene più raramente, possono sperimentare situazioni di oggettivazione, in cui vengono privati della propria natura umana, per divenire oggetto nelle mani di qualcun altro.

Così, infatti, l’ex giocatore della NFL, Terry Crews, riporta la propria esperienza in cui è stato molestato da un agente nel passaggio alla sua nuova carriera di attore. In particolare, l’attore risponde ad una domanda in cui gli veniva chiesto come mai, grande e grosso com’è, innanzi alla molestia dell’agente non si è ribellato. Tale domanda sembra nascondere un pensiero preciso del pubblico: “se non gli hai tirato un pugno in faccia forse non eri così tanto contrario al suo tocco”.

La risposta di Crews si riferisce allo squilibrio di potere che, nel suo caso, da attore innanzi ad un agente importante, l’ha ostacolato nel rispondere aggressivamente: “Il tuo sogno è come il tuo bambino. I tuoi sogni, i tuoi obiettivi, le tue aspirazioni sono preziosi quanto i tuoi figli. E qualcuno lega il tuo sogno e gli punta una pistola alla testa e lo ucciderà se non lo farai, se non starai zitto. È una situazione di ostaggio, hai a che fare con un terrorista”.

Si ritiene importante citare questo caso, in quanto date le caratteristiche dei protagonisti è più facile comprendere quanto il fulcro del meccanismo delle molestie non sia guidato da una questione di forze e debolezze.

Spesso quando si viene molestati, nonostante il soggetto non venga necessariamente privato della possibilità di urlare, scappare o aggredire entrano in gioco non solo emozioni di rabbia, ma anche di vergogna e paura, capaci di bloccare l’agire in termini di opposizione.

Tuttavia, ad oggi, come emerso anche dalla survey lanciata, le vittime delle molestie sessuali sono principalmente di genere femminile.

A conferma di questi dati, si consiglia la visualizzazione del profilo di Rain Dove, una persona che sfrutta il proprio corpo per mettersi nei panni di diversi personaggi: si trucca, si veste e si atteggia secondo i canoni che la società detta, in modo da apparire oggi un uomo eterosessuale, domani una donna omosessuale e così via. La modella girando principalmente per l’America, ha potuto notare empiricamente quali siano le persone più soggette a molestie, quelle meno sicure e quelle che trovano vantaggio nel far parte della propria categoria di genere, orientamento e origine. In ordine dalla meno sicura alla più sicura e vantaggiosa: donne transessuali (di qualsiasi orientamento), donne eterosessuali, donne omosessuali/bisessuali, uomini omosessuali, uomini eterosessuali.

Come mai sono le persone di genere femminile ad essere primariamente vittime di molestie?

Uno studio condotto da Galdi e colleghi (2013) ha indagato come la programmazione televisiva che oggettivizza e degrada il corpo femminile può spronare gli uomini a impegnarsi in condotte sessualmente moleste.

Studi come questo (Aubrey, 2006) portano a ritenere il problema di carattere dunque prettamente pedagogico e sociale.

Eppure, la scienza ha evidenziato come anche una componente prettamente psicologica porti a sviluppare comportamenti sessualmente molesti. Attraverso il “Likelihood to Sexually Harass” (LHS) sono state trovate relazioni tra alte probabilità che gli uomini usufruiscano della possibilità di sfruttare sessualmente le donne (ad esempio assumerle in cambio di favori sessuali) e tratti di personalità. Inoltre, gli uomini con alti livelli di LHS oltre a presentare scarsi livelli di empatia, mantengono credenze contraddittorie sulla sessualità, sostengono rigidamente stereotipi dei ruoli sessuali e mostrano tendenze verso l’autoritarismo (Pryor et. Al, 1995). Si può dunque ritenere che il fenomeno sia abbastanza complesso e carico di componenti psicologiche, pedagogiche e sociali.

Ma quando una persona non presenta tratti psicologici, come una scarsa empatia, che possono predisporla maggiormente al compimento di molestie sessuali, come può succedere che non dia valore al consenso?

Con le parole di Hannah Arendt:

Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.

La società, con le sue regole e le sue credenze, talvolta può sostituirsi alle singole persone nell’atto del pensare e questo fenomeno porta ad ampie conseguenze.

I peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò che fanno. Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade (…) (Arendt, 1965-1966).

Evitare di riflettere su temi quali l’oggettivazione e rimanere, dunque, fruitori passivi di messaggi che pongono in risalto principalmente e talvolta unicamente il genere ed il corpo contribuisce alla sofferenza psicologica (APA, 2007) e all’ampliamento del fenomeno delle molestie fino ad arrivare all’ampliamento di quella cultura che Laurie Penny (2017), una giornalista inglese, chiama “cultura dello stupro”. Una cultura nella quale non è necessario che vi siano violenze sessuali quotidiane per esser definita tale, ma in cui si è arrivati ad accettare una libertà effimera, nella quale ci si illude di poter compiere la propria scelta, mascherando un’inesprimibile violenza quotidiana.

L’arma ideale contro una cultura del genere, perpetrata da uomini e donne, è il consenso.

Il consenso non è un oggetto. È uno stato dell’essere. (…) È un po’ come prestare attenzione. È un processo continuo. È un’interazione tra due esseri umani – La giornalista aggiunge che la cultura del consenso non è una cultura in cui basta essere salvi rispetto ad un potenziale stupro, ma una cultura in cui è lecito pretendere di più – “considerarsi reciprocamente esseri umani complessi dotati della facoltà di agire e di provare desiderio, non solo in un dato momento, ma in maniera continuativa. Adeguare le nostre idee di relazione e di sessualità al fatto che strappare un sì riluttante all’altro essere umano non basta. Bisognerebbe volere che l’altro dica “si” ancora e ancora. Perché la sessualità non dovrebbe ridursi a un dibattito su come farla franca in un modo che si possa definire consensuale.

Il consenso permetterebbe di uscire da una logica simile a quella del Panopticon, la prigione di Bentham, descritta da Foucault, la quale si basa su un diritto di veduta disuguale in base alla presenza o all’assenza di potere. Seguendo questo parallelismo, nella nostra società sembra che siano per la maggior parte (67%) donne quelle poste al centro della prigione, ovvero coloro che hanno ormai interiorizzato lo sguardo di una cultura in cui l’uomo detiene ancora il potere ed hanno imparato a comportarsi di conseguenza, sotto al peso di uno sguardo costante orientato al loro corpo.

 


 

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La terapia di Mindfulness per l’insonnia (MBTI) di Jason C. Ong – Principi e tecniche per dormire meglio

Il prof. Jason C. Ong ha sviluppato una Terapia basata sulla Mindfulness per l’insonnia (MBTI) , un innovativo intervento terapeutico di gruppo per il trattamento dell’ insonnia cronica.

 

Esiste nel mondo una specie di setta della quale fanno parte uomini e donne di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, razze e religioni: è la setta degli insonni, io ne faccio parte da dieci anni. Gli uomini non aderenti alla setta a volte dicono a quelli che ne fanno parte: ‘se non riesci a dormire puoi sempre leggere, guardare la tv, studiare o fare qualsiasi altra cosa’. Questo genere di frasi irrita profondamente i componenti della setta degli insonni. Il motivo è molto semplice; chi soffre d’ insonnia ha un’unica ossessione: addormentarsi

Con queste parole, Titta di Girolamo nel celebre film di Sorrentino “Le conseguenze dell’amore”,  interpreta benissimo il ruolo dell’ insonne con difficoltà all’addormentamento.

Insonnia: uno sguardo al problema

L’ insonnia è un problema diffuso tra gli adulti che danneggia le capacità cognitive e il sistema immunitario e può portare ulteriori disturbi mentali e patologie fisiche. Le conseguenze spesso sono anche sociali, come incidenti stradali, sul lavoro, diminuita produttività.

La “setta” degli insonni cronici in Italia arriva a comprendere quasi 9 milioni di persone (sondaggio eurodap), di cui il 40 % non “prende sonno” a causa di pensieri economici o familiari, e spesso come avviene per il protagonista del film, la preoccupazione di non dormire diventa essa stessa motivo dello stato di veglia.

Oltre alle ruminazioni cognitive le persone che soffrono d’ insonnia assumono poi comportamenti sbagliati che peggiorano la situazione, come l’abitudine di andare a letto prima, anche in assenza di sonno, e restare più a lungo a letto la mattina.

Secondo il Dr. Jason C. Ong, professore associato nel Dipartimento di Neurologia presso la Scuola di Medicina Feinberg della Northwestern University, più sforzo si fa affinché il sonno giunga e più si interrompe la naturale regolazione del sonno da parte del cervello.

Negli insonni la conseguenza di deprivazione del sonno, mancanza di energie ed umore basso, non facilita l’ascolto dei segnali del proprio corpo e l’autoregolazione. Più si impegnano a dormire seguendo a volte consigli su internet (tipo bere una camomilla, leggere un libro noioso) e più cresce l’ansia legata al fallimento.

La Mindfulness per l’insonnia (MBTI) do J. C. Ong

Il prof. Jason C. Ong ha sviluppato una Terapia basata sulla Mindfulness per l’insonnia (MBTI) , un innovativo intervento terapeutico di gruppo per il trattamento dell’ insonnia cronica.

La Mindfulness per l’insonnia unisce i principi e le pratiche della terapia di mindfulness con le strategie comportamentali della terapia cognitivo-comportamentale per l’ insonnia (CBT-I). L’intervento di gruppo utilizza meditazioni guidate, discussioni di gruppo e attività quotidiane svolte a casa. I partecipanti sono in grado di coltivare una maggiore consapevolezza di sé e modificare i loro pensieri e comportamenti malsani che riguardano il dormire per ridurre lo stress, l’ insonnia e altri disturbi del sonno.

Nel suo libro “Mindfulness-Based Therapy for Insomnia”, Jason C. Ong descrive le basi teoriche della Terapia basata sulla Mindfulness per l’insonnia e fornisce una guida pratica per i professionisti della salute mentale.

Da questo ricco manuale, dalle sue ricerche ed articoli pubblicati dal prof. Ong, ho estrapolato alcuni principi, suggerimenti e tecniche che possono essere di aiuto nel migliorare il rapporto con il sonno.

Prinicipi di Mindfulness per l’insonnia

Il Dr. Jason Ong individua 7 linee guida di Mindfulness per un sonno sereno e di qualità.

  1. La mente del principiante – Avere un atteggiamento mentale da principiante significa essere aperti e curiosi a nuovi modi di dormire, scoprendo diverse attività e cambiando routine. Ogni notte è una nuova notte.
  2. Non-sforzo – Mettersi d’impegno e forzandosi ad addormentarsi il più delle volte è controproducente. Il sonno è un processo naturale.
  3. Lasciare andare – Avere un ideale di sonno preciso porta a preoccuparsi delle conseguenze della mancanza di riposo. E’ consigliabile rilasciare ogni apprensione e permettere al sonno spontaneamente di giungere.
  4. Non-giudizio – Costruire un rapporto positivo con il sonno significa non criticare e non giudicare come negativo e avversivo lo stato di veglia. Fare amicizia con il proprio dormire.
  5. Accettazione – Riconoscere lo stato attuale di insonnia o di difficoltà ad addormentarsi è un primo passo importante nella scelta di come rispondere. Molte persone che hanno problemi a dormire si costringono e restare a letto. Invece accettare che non si è in uno stato di sonnolenza e che il sonno probabilmente non arriverà presto, porta alla scelta migliore di alzarsi dal letto e fare un’attività per stimolare l’arrivo naturale del sonno.
  6. Fiducia – La mente e il corpo sono capaci di autoregolarsi e recuperare la perdita del sonno. A volte un sonno breve e consolidato risulta più soddisfacente di un sonno frammentato e lungo e un debito di sonno può favorire un dolce dormire purché non sia forzato. E’ sempre una buona idea affidarsi al sistema interno e ascoltare i segnali del proprio corpo.
  7. Pazienza – È improbabile che la qualità e la quantità del sonno diventino subito ottimali. Pazientare e avere sempre fiducia nelle proprie capacità innate ripaga nel tempo con buoni risultati.

Avere uno scopo nella vita aiuta a dormire meglio

Aiutare le persone a coltivare uno scopo nella vita potrebbe essere una strategia efficace senza farmaci per migliorare la qualità del sonno, in particolare per una popolazione che combatte sempre di più contro l’ insonnia – sostiene il prof. Jason Ong.

Un suo recente studio del 2017 del Northwestern Medicine e il Rush University Medical Center sugli anziani, riporta che l’avere una buona ragione per alzarsi dal letto al mattino significa avere più probabilità di dormire meglio di notte, diminuendo del 63% le apnee notturne e del 52% la “sindrome delle gambe senza riposo”.

Una ricerca precedente aveva dimostrato che avere uno scopo nella vita in generale migliora il riposo. Questo è il primo studio a dimostrare che avere uno scopo e un obiettivo da raggiungere nella vita comporta un minor numero di disturbi del sonno e una migliore qualità del sonno e per un periodo di tempo lungo.

Lo scopo della vita è qualcosa che può essere perseguito e rafforzato attraverso le terapie di consapevolezza – sostiene il prof. Ong.

In particolare, le terapie basata sulla Mindfulness per l’insonnia (MBTI) e le terapie di Accettazione e Impegno, Acceptance and Commitment Therapies (ACT), includono il riconoscere i valori e praticare la compassione che facilitano il raggiungimento di uno scopo nella vita.

Seguendo l’approccio dell’ ACT per individuare i propri sogni, aspirazioni e speranze di vita, chi soffre di disturbi del sonno potrebbe chiedersi:

  • Se mi sentissi più riposato cosa farei di più nella mia vita?
  • Se dormissi meglio in che modo la mia vita o i miei comportamenti sarebbero diversi?
  • Come cambierebbero le mie relazioni, se fossi meno stanco e nervoso?
  • Quale significato vorrei dare alla mia vita?

Esercizio di “trainspotting”

L’esercizio dell’osservazione dei treni trainspotting, proposto dallo psicologo del sonno Dr. Ong, può essere un buon punto di partenza per acquisire consapevolezza e lavorare sui pensieri ricorrenti associati all’insonnia. L’esercizio comporta di immaginare noi stessi in piedi su una piattaforma ferroviaria ad osservare i pensieri che passano come se fossero treni che sfrecciano davanti a noi in una stazione trafficata.

Inevitabilmente, la nostra mente vagherà e noi “prenderemo un treno” in corsa entrando in un pensiero e seguendolo. Questo è il momento in cui praticare la consapevolezza riconoscendo che siamo entrati in un treno e poi gentilmente e senza giudicarci per questo, scendiamo dal treno e torniamo alla piattaforma per continuare il nostro trainspotting.

Imparando ad osservare i pensieri piuttosto che interagire con loro o analizzare i loro contenuti, riusciremo a rapportarci con una mente frenetica in un modo diverso. Invece di cercare di liberare la mente per far sì che il sonno avvenga (il che non è probabile che funzioni) possiamo diventare allenatori della mente, limitando la lotta per controllare i pensieri e permettere al sonno di affiorare.

Conclusioni: l’importanza dell’essere compassionevoli

In base dunque ai nuovi studi e alle nuove tecniche possiamo cambiare approccio al sonno. Essere gentili e auto compassionevoli e concederci l’adeguato riposo considerandolo non come una “perdita di tempo” ma come un bisogno vitale necessario a preservare la nostra salute. E con la consapevolezza che un buon sonno equilibra il sistema cardiovascolare e immunitario, ci rende più stabili emotivamente e più efficienti. Oltre ad essere un ottimo alleato contro l’invecchiamento.

Cosa succede nel cervello di un bambino a seguito di un ictus perinatale?

Un infarto cerebrale in un bambino non ha lo stesso impatto duraturo di un ictus in un adulto: uno studio ha rivelato che, decenni dopo un ictus perinatale, adolescenti o giovani adulti colpiti utilizzano la parte destra del cervello per svolgere le funzioni linguistiche, tipicamente localizzate a sinistra.

 

La nascita è in generale un momento difficile per il cervello, durante questo evento infatti non è raro che un bambino subisca un ictus perinatale: almeno 1 su 4.000 bambini ne è colpito poco prima, durante o dopo la nascita.

Ictus perinatale e conseguenze a livello cerebrale: lo studio della Georgetown University

Uno studio condotto dai ricercatori del Centro Medico della Georgetown University ha trovato che soggetti adulti in passato colpiti da un ictus perinatale, utilizzano il lato destro del cervello per elaborare il linguaggio e svolgere altre funzioni ad esso connesso a seguito del danneggiamento dell’emisfero sinistro.

I 12 soggetti esaminati, di età compresa tra i 12 e i 25 anni, che avevano subito un ictus perinatale nell’emisfero sinistro, utilizzano la parte destra del cervello per svolgere le funzioni linguistiche, le quali, nonostante ciò, non mostrano deficit particolari. Gli unici segni rivelatori della precedente sofferenza cerebrale sono rappresentati dalle difficoltà che alcuni soggetti mostrano durante lo studio o ancora dalla compromissione della funzionalità della mano destra (in seguito al danno avvenuto nella parte cerebrale sinistra, responsabile del controllo corporeo controlaterale). Altri soggetti mostrano disturbi nel funzionamento esecutivo, sintomo comune negli individui con lesioni cerebrali. Nonostante ciò le funzioni cognitive di base, quali ad esempio la comprensione o la produzione linguistica, risultano nella norma.

Gli studi di imaging inoltre hanno mostrato l’attivazione di regioni cerebrali nella parte destra, in particolare in aree identiche ma specularmente opposte rispetto a quelle del linguaggio lateralizzate tipicamente a sinistra.

Questi giovani cervelli erano molto plastici, ciò ha permesso di trasferire le basi del linguaggio in un’area sana, questo però non sta a significare che nuove aree possano essere localizzate nel lato destro del cervello in quanto riteniamo che ci siano limiti molto importanti su dove le funzioni possano essere trasferite – ha chiarito la Newport, che ha continuato – Ci sono regioni specifiche che prendono il sopravvento, a seconda della particolare funzione, quando una parte del cervello è deficitaria. Ogni funzione, come il linguaggio o le abilità spaziali, è localizzata in una particolare regione che può essere utilizzata qualora l’area cerebrale primaria sia danneggiata.

Le prospettive future mirano ad estendere lo studio ad un gruppo più ampio di partecipanti con una storia di ictus perinatale e intendono investigare le conseguenze degli infarti cerebrali su entrambi gli emisferi oltre a scoprire quali altre funzioni, in aggiunta al linguaggio, possano venire allocate nelle aree cerebrali non danneggiate.

Il gruppo di ricerca collabora inoltre a studi che potrebbero rivelare le basi molecolari della plasticità neurale. L’intento risulta estremamente interessante in quanto una maggior conoscenza riguardo la plasticità cerebrale potrebbe avere importanti implicazioni nella riabilitazione dei soggetti adulti in seguito ad un ictus.

 

 

Ore 15:17 Attacco al treno (2018) – Recensione del film

15:17 Attacco al treno: Un film che narra una storia vera, dove tutto è reale, a partire dagli attori, gli stessi protagonisti della “missione” che valse ai tre l’onorificenza francese, dove la suspence del pericolo di morte incombente su cinquecento anime si intreccia costantemente al racconto retrospettivo della storia di vita di tre bambini e ragazzi assolutamente ordinari, ma proiettati su scelte di vita fondate sull’altruismo.

Trama del film 15:17 – Attacco al treno

Tre uomini, un’amicizia senza tempo e ruggine, che dura dai tempi remoti delle scuole elementari.  Un’amicizia “cameratesca”, fondata sulla condivisione di momenti ludici, delle baruffe per i primi amori e su ideali e sogni, innanzitutto il sogno dell’aiuto ai bisognosi. Questo il legame tra Alek, Spencer e Anthony, i protagonisti dell’ultimo film di Steven Spielberg, ORE 15:17 Attacco al treno, che racconta la gloria e il coraggio di tre uomini comuni che riuscirono, il 21 agosto 2015, a sventare l’attacco terroristico ideato da Ayoub El-Khazzani al treno ad alta velocità Thalys Amsterdam-Parigi su cui stavano viaggiando.

Un film che narra una storia vera, dove tutto è reale, a partire dagli attori, gli stessi protagonisti della “missione” che valse infine ai tre l’onorificenza francese, dove la suspence del pericolo di morte incombente su cinquecento anime si intreccia costantemente al racconto retrospettivo della storia di vita di tre bambini e ragazzi assolutamente ordinari, ma proiettati su scelte di vita fondate sull’altruismo (questo forse può costituire la loro eccezionalità e maturità, forse a tratti esageratamente sottolineata, in un ideale dell’Io di freudiana memoria a cui aspirare, faticosamente).

L’infanzia dei tre protagonisti

Ed ecco che il film Attacco al treno “parte dalle origini” con il racconto biografico dei tre bambini discoli, provenienti da famiglie modeste, con madri disperate e richiamate all’appello dai maestri per i comportamenti irruenti dei figli (in particolare Spencer), il bullo che colleziona punizioni e rimproveri, nel contempo valoroso sognatore di una vita militare in cui si esprime il senso sociale di una vita spesa per l’aiuto ai bisognosi. Sì, perché i tre amici di infanzia coltivano il desiderio di una vita al servizio della patria e Spencer coltiva il sogno di divenire aereosoccorritore, aiutando chi si trova in difficoltà, all’insegna di un comportamento prosociale, intriso di empatia e dovere morale, secondo gli insegnamenti di Bateson e Rogers. Un sogno che non conosce minacce, tentennamenti, anche se non sempre supportato dagli stessi amici “Fai quello che devi, non devi avere l’approvazione degli altri”, recita una voce di fondo, in piena sintonia con un senso pieno di autoefficacia, intesa come consapevolezza di essere capace di dominare specifiche attività, situazioni ed eventi, in accordo con la definizione di Bandura.

Un sogno che si alimenta di duri allenamenti fisici, puntuali scoraggiamenti, soprattutto per Spencer che, a causa del suo comportamento ribelle, non si attiene esattamente ai protocolli rigidi di una vita militare e più volte rischia di mettersi in pericolo pur di “combattere fino alla fine”, sfoderando un coraggio forse superiore alla prudenza che richiedono le situazioni di emergenza. Un comportamento senza timori che si dimostrerà essenziale nello scontro fisico con l’attentatore senza scrupoli dove la collaborazione dei tre amici risulterà preziosa nel tentativo di sventare una strage e mettere in salvo i feriti.

L’eroismo e il senso di responsabilità come qualità dei protagonisti

Eroismo, senso di responsabilità, sangue freddo, tutti ingredienti in grado di dare senso a un’esistenza, per certi versi vissuta nei rimproveri subiti e fatti a se stessi (Spencer che combina guai a scuola e delude la madre costantemente), e poi confortata dalla preghiera del perdono e della pace, recitata dallo Spencer bambino dopo i rimproveri materni “Signore, fai di me uno strumento di pace. Solo dando si riceve”. E nel senso del donare si può riassumere il film: un dono di un corpo insanguinato e ferito nella colluttazione con un attentatore senza scrupoli, il dono della vita restituita a chi probabilmente, la vita, l’avrebbe lasciata su un treno passeggeri.

Una visione quasi mistica, un’aderenza a un ordine morale che coincide con il bene della società, dove riecheggia la teoria di Kohlberg sullo sviluppo morale, in particolare riferita al livello post-convenzionale da lui descritto. “Perché nei momenti di crisi bisogna fare qualcosa. Rischiare la vita per la libertà. Bisogna aiutarsi tutti nella comunità umana”, frase toccante della cerimonia premiale all’Eliseo dove il presidente Hollande consegna  laLégion d’honneur agli eroi del treno, e che lascia lo spettatore affascinato dal coraggio di eroi del tutto comuni, spingendolo forse a riappropriarsi di uno spirito comunitario e altruistico, che vada al di là della tendenza al disimpegno morale nei contesti di emergenza, del tutto in contrasto con quanto stabilito dai noti esperimenti sociologici di Darley & Latané sulla diffusione della responsabilità.

Conclusioni

Ore 15:17 Attacco al treno, un film dove i colpi di scena (a partire dalla vita militare e dai suoi vincoli fino allo scontro violento con l’uomo armato del treno passeggeri) si uniscono a flashback intrisi di spiritualità o del racconto di una quotidianità giovanile spesa tra amori e amicizie, racconto che talvolta, a dire il vero, si prolunga oltremodo e che appare poco collegato alla trama dell’attentato, a cui, in verità, non resta che lo spazio di pochi minuti. Minuti che, a onor del vero, avrebbero meritato un tributo ben più ampio, ma che comunque simbolizzano il potere del bene di dominare il male e il potere dei sogni di realizzarsi, “perché forse tutti siamo chiamati, in qualche modo, a qualcosa di più grande”.

Autismo: un focus sull’Applied Behaviour Analysis (ABA)

Diversi sono gli approcci comportamentali impiegati nell’ ambito dell’ autismo, tra i più importanti troviamo: l’ ABA (Applied Behavior Analysis), il TEACHH (Treatment And Education Of Autistic And Related Comunication Handicapped Children) e il metodo Portage.

Mara di Paolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Introduzione: l’ autismo

La Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA) nel 2006, ha definito l’ autismo come: “una sindrome comportamentale, causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri” (Baird et al., 2003; Berney, 2000; Szatmari, 2003). L’ Autismo, pertanto, si configura come una  disabilità  “permanente” che accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se con un’espressività variabile nel tempo.

Diversi sono gli approcci comportamentali impiegati nell’ambito dell’ autismo, che descriveremo di seguito.

ABA (Applied Behaviour Analysis)

L’ ABA (Applied Behavior Analysis) ovvero l’analisi applicata del comportamento, si basa principalmente sui principi comportamentali del condizionamento operante, al fine di indurre un processo di normalizzazione, attraverso lo sviluppo di pattern comportamentali adattivi. Il luogo privilegiato di questo trattamento è il contesto in cui il bambino vive, casa sua, la sua scuola (Lovaas et al; 1990). In breve, le caratteristiche precipue di questo intervento sono:

  1. La programmazione di un intervento creato ad hoc per ciascun bambino, valutando le potenzialità e lacune, cercando di ampliare il repertorio comportamentale adattivo, riducendo il più possibile i comportamenti-problema.
  2. L’inizio dell’intervento è immediato. Si è osservato attraverso ricerche sull’efficacia di questo metodo, come l’efficacia sia direttamente proporzionale all’età d’inizio del trattamento (iniziare a lavorare con una bambino di 18 mesi è molto meglio che iniziare a lavorare con un bambino di 5 anni ) e l’intesività temporale.
  3. Il trasferimento dell’intervento ai contesti naturali. I genitori essendo sempre presenti agli incontri quotidiani del proprio bambino con i tecnici ABA conoscono le finalità del programma e possono anche loro mettere in pratica le modalità educative più consone.
  4. Il programma è intensivo sia nei termini di tempo, sia per il coinvolgimento di quante più persone siano quotidianamente a contatto con il bambino (genitori, fratelli, insegnanti, perenti, educatrici, etc..).

L’ Applied Behaviour Analysis verra’ ulteriormente approfondita nel paragrafo 2 di questo articolo.

TEACHH (Treatment And Education Of Autistic And Related Comunication Handicapped Children)

Il TEACHH  è una modalità di presa in carico globale del bambino con autismo (Schopler et al.; 1980). Il modello pone molta attenzione all’organizzazione degli spazi fisici, ai compiti materiali di tipo visivo-spaziale, all’organizzazione dell’ambiente e alla creazione di contesti facilitanti, al fine di rendere l’ambiente il più possibile adatto alle abilità del bambino. Ergo genitori, terapisti, educatori non devono limitarsi all’insegnamento di nuove abilità, ma anche nella facilitazione dell’uso indipendente delle abilità possedute. Bisogna prestare quindi molta attenzione a come si strutturano gli spazi fisici, la disposizione dei mobili e dei materiali all’interno dei vari contesti in cui il bambino quotidianamente vive. Il TEACHH programma minuziosamente le sequenze d’azione o attività, che si svolgono nel tempo come uno schema della giornata visualizzato composto da foto, oggetti, fotografie, agende, etc.. a seconda chiaramente della persona che ne usufruisce, questo permette di ridurre nel bambino la frustrazione o lo stress, che potrebbe provare di fronte all’incomprensione delle cose da dover fare. I genitori sono coinvolti all’interno del trattamento e concertati con i professionisti, ciascuno portatore di un proprio sapere e contributo, i genitori massimi conoscitori del figlio e i professionisti conoscitori della tecnica.

Metodo Portage

Il Metodo Portage (Bacci, Menazza, Vio, 2010) è un metodo educativo precoce, che fa leva essenzialmente sulla formazione dei genitori. Il programma ha preso il nome dalla cittadina in cui è nato, consisteva inizialmente in un intervento domiciliare per venire incontro alle esigenze delle persone, che non potevano muoversi da casa con frequenza, per raggiungere i vicini centri riabilitativi. Pertanto un operatore specializzato visitava una volta alla settimana la famiglia, per insegnare direttamente ai genitori i modi più idonei per facilitare lo sviluppo del figlio autistico. Per rendere più efficace l’intervento, alle famiglie venivano anche consegnate delle schede su cui lavorare che spiegavano le tecniche educative più efficaci. Inoltre ad ogni visita venivano valutati i progressi del bambino, le impressioni dei genitori e aggiornato di volta in volta il programma, in base ai dati rilevati, con obiettivi realistici e raggiungibili. Nel corso del tempo poi le visite si diradavano in modo da rendere sempre più autonomo ciascun genitore. Anche in Italia il programma si è rivelato assai flessibile, in quanto l’intervento non è volto solo a colmare il ritardo che il bambino ha accumulato, ma anche a prevenirlo. L’efficacia di questo metodo però dipende dalla precocità d’inizio (0-6 anni), anche se sono stati raggiunti buoni risultati con bambini di età superiore. Il programma non offre ricette immediate, ma necessita della flessibilità e dell’ingegnosità genitoriale nell’applicazione dei consigli educativi. Inoltre le attività domiciliari non risultano mai essere sostitutive dei programmi riabilitativi quali quelle del logopedista, del fisioterapista etc…

Un approfondimento sull’ Applied Behaviour Analysis (ABA)

L’ ABA (Applied Behaviour Analysis = Analisi Applicata al Comportamento) in termini generali è un insieme di procedure applicative che trovano fondamento nella teoria dell’ Analisi del Comportamento (Skinner, 1953). Tali procedure hanno riscontrato un grandissimo successo di impiego in vari ambiti, non solo clinico e riabilitativo ma anche nel settore economico ed organizzativo. Questa precisazione è doverosa per non correre il rischio di ridurre l’ ABA al solo metodo di trattamento per l’ autismo.

L’ Applied Behaviour Analysis per l’ autismo può essere descritto come un insieme di procedure di intervento intensivo precoce, che applica i principi comportamentali, che hanno avuto una convalida scientifica, con l’obiettivo di promuovere i comportamenti adattivi e ridurre quelli problematici da impiegare con i bambini autistici (Cooper, Heron et Heward; 1989). Per fare ciò vengono, in seguito alla diagnosi emessa dalla neuropsichiatria infantile, raccolti preventivamente una serie di dati basati sull’ analisi comportamentale osservabile e quantificabile del bambino e su questa viene stilato un progetto d’intervento intensivo settimanale. È giusto ricordare che ABA (Applied Behaviour Analysis) per l’autismo è stata convalidata da diversi istituiti/enti nazionali ed internazionali tra cui: NIMH ( Ente Istituzionale Statunitense per la Salute Mentale), S.I.N.P.I.A (Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile), I.S.S. (Istituto Superiore della Sanità). Ad oggi è dimostrato che l’intervento precoce è maggiormente efficace se effettuato a livello anagrafico nei primi anni di vita, questo specialmente per la maggiore plasticità cerebrale dell’individuo che risulta essere massima rispetto ad altre fasi del ciclo di vita. Questo è comprensibile se riflettiamo sulla genesi neuronale e strutturale delle connessioni sinaptiche, che se pur geneticamente predeterminate sono vulnerabili all’impatto ambientale e possono altresì andare incontro a riorganizzazione funzionale allorquando ce ne sia necessità.

Diverse ricerche hanno appurato che un intervento precoce migliora la prognosi per i bambini con autismo, che iniziano il trattamento prima dei 5 anni (Fenske, Krantz, McClannhan;1985. Lovaas; 1987). Ulteriori studi hanno provato l’efficacia dell’intervento precoce con bambini tra i 4 e i 7 anni ( Eikeset, S. Jhar, E. Eldevik; 1999). Ciò è legato fondamentale a due fattori strettamente collegati tra loro:

  • La maggiore plasticità neuronale;
  • Il fatto che a 3 anni un bambino non ha imparato molto e non gli manca molto per raggiungere i suoi coetanei.

Progettando quindi un intervento intensivo ad hoc peculiare per ogni dato bambino autistico, da svolgersi nel contesto naturale (casa-scuola) è possibile concretamente indurre un processo di normalizzazione grazie ad una maggiore plasticità neuronale.

L’ Applied Behaviour Analysis (ABA) è l’ analisi applicata del comportamento che nell’ambito del trattamento per gli autistici si traduce in una modalità d’intervento educativa che nasce dall’applicazione dei principi comportamentali Skinneriani ed è finalizzata al superamento dei comportamenti problema e ad insegnare al bambino autistico ad apprendere, rendendo funzionale quanto appreso (Klevestrand, Isaksen, Gloersen e Ioersen, 1996).

L’ Applied Behaviour Analysis (ABA), per riuscire a fare ciò, combina diversi aspetti convalidati scientificamente in un pacchetto completo, ma altamente individualizzato a seconda del caso specifico, tra i metodi troviamo: NET (insegnamento nel contesto naturale-ecologico: casa, scuola, piscina, etc..), SEGNI (insegnamento di segni per comunicare), PECS (sistema di comunicazione tramite pittogrammi), DTT (insegnamento formale per prove discrete/strutturato), INCIDENTALE (imparare tramite stimoli).

Questo tipo d’intervento per quanto sia utilizzato con bambini autistici può essere anche utilizzato con bambini con Ritardo Mentale e Disturbi dello Sviluppo, dato che è caratterizzato da:

  • Ambiente di apprendimento positivo;
  • Validazione empirica (ricerca);
  • Coinvolgimento della famiglia (importante un Parent Training con i genitori);
  • Coinvolgimento della scuola;
  • Coerenza dell’educazione;
  • Intensività.

Le aree funzionali per l’ intervento ABA sono:

  • Comunicazione: partendo dai pre-requisiti si lavora sulla comprensione e produzione del linguaggio, fino alla formazione ed espansione delle frasi;
  • Socializzazione: si lavora prevalentemente a scuola quando ciò è possibile, e si cerca di passare dalla socializzazione nel piccolo gruppo al grande gruppo attraverso il supporto e la selezione di attività.
  • Gioco e Attività ricreative: nel gioco si lascia spazio al bambino anche in una dimensione “soliva” con l’ausilio di tecnologie, mentre nelle attività ricreative si cerca di creare socialità.
  • Abilità cognitive: dipendono dall’età anagrafica e sono connesse anche allo sviluppo scolastico.
  • Abilità scolastiche: riguardano sia le abilità cognitive, che sociali. In questo caso però si cerca di lavorare il più possibile con gli insegnanti su alcuni obiettivi, che gli stessi vorrebbero raggiungere.
  • Comportamento: riduzione dei comportamenti problema ovvero quelli che vanno a minare l’incolumità del bimbo, delle persone, o dell’ambiente. Le stesse stereotipie possono rappresentare un limite all’integrazione sociale e all’apprendimento pertanto esse stesse possono essere considerate comportamenti problema. L’eliminazione del comportamento problema è suggellata dalla sostituzione di un comportamento positivo sostitutivo, che viene scomposto e proposto in maniera accettabile e acquisibile al bambino.
  • Autonomia: si lavora sulla cura di sé per esempio a seconda dell’età anagrafica del piccolo si potrà lavorare sull’eliminazione del biberon oppure sul controllo sfinterico.

Tutti gli interventi qui esposti, seppur diversi, condividono alcuni elementi: sono tanto piu efficaci quanto preoci e intensivi (è fondamentale dunque una diagnosi precoce) e soprattutto è fondamentale che siano condivisi gli obiettivi con i genitori e i vari operatori che interagiscono con il bambino autistico.

La coppia e il sesso in gravidanza – Mamme e papà si diventa

Una domanda che molte donne si pongono è se e in che modo sia possibile fare sesso in gravidanza. Nella nostra cultura, fino ad alcuni decenni fa, si preferiva praticare l’astinenza nel timore che il rapporto sessuale potesse danneggiare il feto o generare aborti.

 

Attualmente, è ormai condiviso dalla comunità scientifica che non vi sono controindicazioni se si pratica sesso in gravidanza, tranne nei casi di gravidanze a rischio; andrebbe evitato solo nelle ultime settimane prima del parto (Imbasciati, 2015), infatti sia le contrazioni orgasmiche che la presenza di una sostanza simile alla prostaglandina contenuta nello sperma maschile possono favorire il travaglio.

Sesso in gravidanza: i timori delle coppie

Nonostante tale informazione sia ormai nota, la reazione delle coppie e in particolare della donna non è così scontata, anzi risulta influenzata da fattori psichici ed emotivi. Da un lato, infatti, nella società moderna la donna incinta ha riacquistato una sua femminilità e l’identità di donna tende ad essere conservata anche quando si acquisisce l’identità di madre, in un’ottica di maggiore unitarietà e armonia. Le neo-mamme continuano ad essere donne e compagne, oltre che mamme e questo risulta positivo per la vita di coppia (Finzi, 2011). Infatti, l’interruzione dei rapporti sessuali può far sentire il padre escluso dalla gravidanza; mantenendo l’intimità nella coppia, invece, il papà ha la possibilità di sentirsi parte del processo procreativo e questo aumenta la sua vicinanza sia alla donna che al bambino stesso.

Dall’altro lato, si osserva invece, come, nonostante le rassicurazioni mediche sulla possibilità di continuare a fare sesso in gravidanza, alle volte le coppie manifestino timori e sentimenti che impediscono che ciò accada. Questo perché il sesso, non è solo l’ incontro fisico tra due corpi, è soprattutto l’incontro tra due menti e alcuni eventi psichici possono intervenire per bloccare l’intimità. Mente e corpo sono interrelati in un processo di natura psicosomatica e il piacere sessuale scaturisce da molteplici emozioni e vissuti psicofisici. È possibile infatti percepire sensazioni fisiche sgradevoli o dolorose, che potrebbero portare all’astinenza e questo può essere legato a preoccupazioni o fantasie inconsce. Ad esempio, la presenza del bambino potrebbe essere percepita come l’essenza dell’amore e aumentare la sessualità nella coppia oppure può essere vissuta come un’invasione rispetto alla diade o una “spia” nel momento di intimità. Altri vissuti possono essere di esclusione da parte del papà dall’unione madre-bambino mentre la madre potrebbe sentirsi invasa dalla presenza del feto (Raphael-Leff, 2014).

Fare sesso in gravidanza: i benefici sul feto

Tali fantasie e timori sono assolutamente di natura psichica, in quanto fisicamente il bambino è al sicuro e non può subire nessun danno se si fa sesso in gravidanza. Anzi, in gravidanza l’eccitazione e il piacere della donna risultano spesso intensificati a causa dell’aumentata produzione ormonale e dell’elasticità della muscolatura. Alcune ricerche hanno anche dimostrato che una sana attività sessuale in gravidanza può avere un effetto positivo sul parto: infatti, le donne che hanno orgasmi in gravidanza hanno una probabilità minore di avere parti prematuri; inoltre, le prostaglandine contenute nello sperma aumentano le contrazioni uterine e possono favorire il travaglio. Anche il bambino sembra gradire la sensazione di benessere della mamma durante il rapporto sessuale, a causa del rilascio di endorfine che entrano subito in circolo.

Ciò che, dunque, può essere d’ostacolo al sesso in gravidanza sono le credenze e i falsi miti comuni o le dinamiche psichiche individuali o di coppia. Se presenti, approfondirle e comprenderne la natura può essere importante per vivere una sana e soddisfacente intimità sessuale anche in gravidanza.

Dunque, non esiste una regola su come debba essere vissuto il sesso in gravidanza; ogni coppia ha un proprio modo di vivere l’intimità che può modificarsi sulla base dei cambiamenti che la perinatalità comporta.

La stimolazione auricolare transcutanea del nervo vago (taVNS) per il trattamento della sintomatologia depressiva

Un’analisi condotta da Kong, Fang, Rong e colleghi, recentemente pubblicata su Frontiers in Psychiatry, ha mostrato come la stimolazione auricolare transcutanea del nervo vago (taVNS) sia in grado di ridurre in modo significativo alcuni sintomi caratterizzanti il disturbo depressivo maggiore (MDD) come l’ansia, il rallentamento psicomotorio, i disturbi del sonno e il senso di hopelessness.

 

Il nervo vago: che cos’è e come funziona

Il nervo vago (VN) è il nervo craniale più lungo e ramificato del corpo umano che dall’encefalo si estende nel tronco fino alla cavità addominale; facente parte di un intricato network neuro-immuno-endocrino, esso presiede al mantenimento dell’omeostasi di molteplici sistemi (Yuan, 2016).

Infatti grazie alle sue molteplici connessioni, funge da “controllo centrale”, integrando le informazione enterocettive provenienti dal sistema cardiovascolare, respiratorio e viscerale e rispondendo in modo appropriato, tramite modulazione, ai feedback che riceve.

Recenti studi hanno mostrato come il nervo vago sia altresì coinvolto nella regolazione infiammatoria, del dolore e dell’umore.

Per tale ragione, nel 2005 la US Food and Drug Administration ha approvato per la prima volta la stimolazione cervicale del nervo cranico come trattamento per alcune patologie tra cui la depressione cronica farmaco-resistente e l’epilessia refrattaria (Yuan, 2016).

La stimolazione transcutanea del nervo vago

Da quel momento sono stati sviluppati diversi metodi di stimolazione transcutanea non invasiva del nervo vago, in particolare due: il primo prevede l’applicazione nella zona cervicale di un semplice device chiamato GammaCore, il secondo invece prevede una stimolazione nella regione dell’orecchio.

Il razionale dell’applicazione di tale stimolazione vagale, tramite agopuntura o blandissimi impulsi elettrici, partendo dalla regione dell’orecchio (taVNS), si basa su numerosi studi di anatomia che dimostrano come il ramo auricolare del nervo vago sia distribuito per la maggior parte nella conca superiore e inferiore dell’orecchio incluso il canale uditivo esterno; pertanto queste aree rappresentano il target per la taVNS.

Un recente studio di Kraus e colleghi (2013), confrontando gli effetti evocati dalla taVNS con i segnali provenienti dalla fMRI, ha mostrato una significativa diminuzione di quest’ultimi per alcune regioni cerebrali come il giro paraippocampale, la corteccia cingolata posteriore e la parte destra del talamo a seguito della stimolazione del quadrante posteriore e anteriore del canale uditivo sinistro.

Tale risultato suggerisce che la taVNS in alcune zone specifiche dell’orecchio potrebbe modulare pattern cerebrali differenti che a loro volta potrebbero essere associati a differenti effetti; tuttavia future ricerche sono necessarie per indagare più dettagliatamente il legame tra specifiche aree cerebrali e differenti aree dell’orecchio.

Hein e colleghi (2013) furono i primi ad utilizzare la taVNS bilaterale su soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore trattato con antidepressivi.

I soggetti furono divisi in due gruppi che poi vennero confrontati tra loro: uno riceveva realmente la taVNS, mentre l’altro riceveva una stimolazione solo simulata.

Dal confronto i ricercatori mostrarono come nel gruppo dei soggetti realmente stimolati vi era stato un miglioramento significativo dei sintomi depressivi, misurati tramite il Beck Depression Inventory, dopo cinque sedute a settimana per due settimane, rispetto al gruppi di soggetti che non avevano ricevuto la stimolazione.

In aggiunta a tali risultati, uno studio clinico precedente di Rong e colleghi (2016) ha mostrato effetti della taVNS simili in soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore che erano stati istruiti a metterla in atto quotidianamente a casa: i pazienti che mettevano in atto la taVSN mostravano una diminuzione della sintomatologia depressiva nei punteggi della Hamilton Depression rating scale (Hamilton, 1960) in particolare per il rallentamento psicomotorio, i disturbi del sonno e la sensazione di hopelessness.

L’ipotesi dell’efficacia della taVNS per il disturbo depressivo maggiore

Secondo l’ipotesi eziopatologica del disturbo depressivo maggiore che associa la patologia ad una disregolazione del circuito limbico-corticale, le aree cerebrali coinvolte sarebbero associate a due componenti: una più vegetativa-somatica che coinvolge l’ipotalamo, l’amigdala, l’ippocampo, l’insula anteriore, l’altra più attentiva-cognitiva (dlPFC, la corteccia parietale inferiore) (Mayeberg, 1997).

Uno studio di Conway, Price e colleghi (2013) ha mostrato come il nervo vago abbia connessioni e influenze sia dirette che indirette sul circuito limbico-striato-talamico-corticale; a dimostrazione di ciò, la taVNS può produrre in ampia misura la modulazione dell’attivazione delle proiezioni terminali vagali “classiche” che si diramano fino l’insula anteriore, il locus coeruleus, l’ipotalamo, la corteccia cingolata anteriore, il nucleo del tratto solitario.

Altri studi hanno suggerito un ruolo di rilievo del nervo vago nella modulazione non solo dei circuiti cerebrali coinvolti nella depressione ma anche del sistema infiammatorio attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e l’inibizione dei glucocorticoidi delle vie infiammatorie periferiche (Bellavance, 2014).

In aggiunta uno studio di Cryan & Dinan (2012) ha evidenziato come la flora batterica intestinale possa influenzare alcune funzioni cerebrali, l’umore e il comportamento interagendo con il sistema nervoso centrale tramite meccanismi endocrini e immunitari.

In particolare è stato dimostrato come il microbiota intestinale sia essenziale per la modulazione della risposta comportamentale allo stress, come l’ansia e la depressione (Fung, Olson et al., 2017).

Il nervo vago pertanto potrebbe essere in grado anche di modulare le funzioni dei sistemi sopracitati producendo degli effetti sulla sintomatologia depressiva tramite l’influenza sull’asse microbiota-intestino-sistema nervoso.

La somministrazione della taVNS ha una durata che va dai 30 minuti due volte al giorno a 15 minuti per cinque volte a settimana; tuttavia la frequenza e l’intensità per ottenere la “dose” giusta di taVNS per produrre degli effetti significativi sono ancora oggetto di numerosi studi in quanto diverse frequenze di questa stimolazione possono produrre dei cambiamenti diversi a livello cerebrale e un diverso rilascio neurotrasmettitoriale (Kong, Fang, Rong, 2018).

Riconciliare causazione cognitiva e causazione ambientale: un approccio funzionale alla cognizione

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione.

Davide Carnevali

 

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione, dimostrando come l’ approccio funzionale alla cognizione, fortemente enfatizzato dal programma di ricerca comportamentale sulle risposte relazionali derivate, il cui prodotto ultimo è la Relational Frame Theory, (Sidman & Tailby, 1982; Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Törneke, 2010; Cassidy, Roche & O’Hora, 2010), abbia gettato le basi per una fruttuosa collaborazione tra entrambi gli orientamenti.

Analisi del comportamento e psicologia cognitiva: due isole dello stesso arcipelago

Fino ad aggi, la relazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva può essere paragonata alla relazione esistente fra tribù che vivono su isole remote appartenenti allo stesso arcipelago (Hughes, De Houwer, & Perugini, 2016). Questa mancanza di interazione non è sorprendente alla luce di ciò che è stato detto e scritto da entrambe le parti sulla relazione tra analisi comportamentale (o comportamentismo in senso più ampio) e psicologia cognitiva.

Gli psicologi cognitivi hanno creato il mito della “rivoluzione cognitiva” (vedi Watrin e Darwich, 2012, per un’eccellente revisione) che avrebbe comportato la fine del comportamentismo, in modo simile a quello in cui una specie animale viene soppiantata dall’avvento di un’altra nel corso dell’evoluzione naturale. Questo mito pretende di affermare la superiorità esplicativa della psicologia cognitiva rispetto all’ analisi del comportamento, considerando quest’ultima definitivamente estinta o comunque in via di estinzione. Le varianti di questo mito sono così diffuse nei libri di testo universitari introduttivi alla psicologia che, con ogni probabilità, la grande maggioranza degli psicologi laureati negli ultimi 20 anni sono beatamente inconsapevoli dei risultati o persino dell’esistenza dell’ analisi del comportamento (Hobbs & Chiesa, 2011).

Skinner, padre dell’ analisi del comportamento, da parte sua, ha fatto ben poco per favorire il riavvicinamento con la psicologia cognitiva, che considerava una psicologia descrittiva, infarcita di mentalismo (costrutti e rappresentazioni della realtà comportamentale) e priva di qualsiasi valore esplicativo (Skinner, 1990). Altri autorevoli analisti del comportamento (ad es. MacCorquodale, 1970; Anderson, Hawkins & Scotti, 2000; Gifford & Hayes, 1999; Palmer, 2006; Watrin & Darwich, 2012) hanno invece risposto alle critiche degli psicologi cognitivi, fornendo chiare ragioni a sostegno delle proprie posizioni o mettendo in rilievo le problematicità intrinseche a tali critiche. Per esempio, un problema spesso trascurato nelle critiche formulate dagli studiosi cognitivi, riguarda la relativa conoscenza del comportamentismo, il quale non è riducibile a un’unica e vera scuola psicologica in senso stretto, ma piuttosto fa riferimento a una famiglia di posizioni concettuali, all’interno della quale convivono posizioni profondamente diverse caratterizzate da opzioni metateoriche e teoriche talvolta contrastanti (Moderato & Ziino, 1994). Per queste ragioni è difficile capire quale rappresentazione ogni ricercatore abbia in mente quando si riferisce al comportamentismo per criticarlo (Moderato & Ziino, 1994). Sfortunatamente, queste repliche e argomentazioni sono state per lo più ignorate dagli psicologi cognitivi, forse in parte perché sono state pubblicate quasi esclusivamente su riviste specialistiche di analisi del comportamento che gli psicologi cognitivi semplicemente non leggono (Palmer, 2006). Alla fine, la mancanza di risposta nel merito d elle riflessioni esposte ha contribuito a rafforzare la percezione circa l’impossibilità di stabilire relazioni costruttive tra i sostenitori dei due orientamenti.

Una via di riconciliazione tra posizioni così distanti è stata tracciata recentemente da alcuni studiosi (De Houwer, 2011; Hughes & Barnes‐Holmes, 2016)., 2016) appartenenti a posizioni contestualiste ed empiriste (Morris,1988; Biglan & Hayes, 1996), in linea con una moderna visione dell’ analisi del comportamento. Tali autori sostengono che la psicologia funzionale (che include anche l’ analisi del comportamento) e la psicologia cognitiva sono allo stesso tempo fondamentalmente diverse e si sostengono a vicenda.

Analisi comportamentale e psicologia cognitiva tra explanandum e explanans

In sostanza, è stato proposto un quadro cognitivo-funzionale che colloca l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva su diversi livelli di spiegazione. Ognuno di essi richiede di essere definito in termini di explanandum (ossia il fenomeno che deve essere spiegato) e dei rispettivi explanans (ossia l’insieme delle conoscenze utilizzate per spiegare un fenomeno). Da questo punto di vista, la psicologia funzionale e cognitiva si situano a diversi livelli di spiegazione proprio perché si concentrano su diversi explanandum ed explanans (Bechtel, 2008; De Houwer, 2011). Più precisamente, mentre la psicologia funzionale (analisi funzionale) mira a comprendere il comportamento in termini di relazioni di controllo (dette relazioni funzionali), rintracciando le variabili ambientali ritenute responsabili della sua emissione (Chiesa, 1994), la psicologia cognitiva (analisi cognitiva) mira invece a comprendere i processi mentali che mediano gli effetti comportamentali di un fenomeno psicologico, facendo appello a meccanismi mentali e/o a peculiari processi di elaborazione cognitiva (Gardner, 1985).

Consideriamo per esempio il paradigma del condizionamento classico di Pavlov e, nello specifico, l’impatto che la co-occorrenza di eventi stimolo (es. suono neutrale e shock elettrico) esercita sul comportamento osservato: la risposta di incremento della conduttanza cutanea elicitata dalla semplice presentazione del suono divenuto stimolo condizionale (Pavlov, 1927).

Da un punto di vista funzionale, è proprio il processo di interazione che coinvolge l’organismo durante la co-occorenza tra stimoli (il tono acustico neutrale e lo shock elettrico o stimolo incondizionale) che di per sé fornisce la spiegazione del cambiamento comportamentale riscontrato (ovvero l’aumento della conduttanza della pelle alla sola presenza del suono, in assenza dello shock elettrico). La spiegazione del comportamento (la risposta di conduttanza cutanea misurata) ha pertanto una genesi esternalistica intercettabile nella relazione di incessante interdipendenza che l’organismo stabilisce con il contesto e che fa da scenario alla manifestazione comportamentale osservata.

Gli psicologi cognitivi d’altro canto, vogliono spiegare l’ effetto comportamentale (il condizionamento classico e quindi l’impatto che la co-occorenza di stimoli esercita sul comportamento) e non il comportamento direttamente osservabile (l’aumento della conduttanza della pelle) e per far ciò chiamano in causa specifici meccanismi mentali. Ad esempio, per spiegare il condizionamento classico, gli psicologi cognitivi hanno proposto che gli accoppiamenti tono-shock producono un’associazione in memoria tra la rappresentazione del tono acustico e la rappresentazione dello shock elettrico. In questo modo, una volta che questa associazione si è formata, la sola presentazione del tono acustico sarà in grado di attivare non solo la propria rappresentazione, ma anche la rappresentazione dello shock elettrico, che a sua volta provocherà un aumento della conduttanza della pelle (Bouton, 1993). Ancora una volta, dunque, appare netta e mercata la distanza tra le due posizioni esplicative appena descritte.

Da un lato i ricercatori cognitivi non potranno mai essere soddisfatti da un’analisi funzionale di un fenomeno comportamentale, poiché la considerano una semplice descrizione. Dall’altra parte, i ricercatori funzionali ritengono di non aver bisogno di spiegare come la mente influenzi il comportamento, dal momento che la conoscenza di specifiche relazioni con talune variabili ambientali è ritenuta di per sé esauriente e sufficiente per predire e per influenzare il comportamento stesso. Questa visione dicotomica ha invalidato sul nascere una possibile fruttuosa comunicazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva.

Certamente queste prospettive sono profondamente diverse anche perché fondate su punti di vista filosofici marcatamente differenti (Hayes, Hayes e Reese, 1988) e poco senso avrebbe negarle o minimizzarle. Tuttavia, come anticipato, è stata avanzata una via di riconciliazione ai fini di una collaborazione fondamentale per l’avanzamento e la parsimonia scientifici.

Verso un approccio cognitivo-funzionale

La proposta di un approccio cognitivo-funzionale capace di affidare obiettivi diversi alla psicologia cognitiva e all’ analisi del comportamento, permetterebbe infatti di eliminare tensioni, dissonanze e conflittualità tra i due modelli. Per esempio, dato che i meccanismi mentali di cui si occupa la psicologia cognitiva non esistono nel vuoto, ma sono sempre modellati dall’ambiente passato e attivati ​​dall’ambiente attuale, ne consegue che una vera comprensione dei meccanismi mentali (obiettivo della psicologia cognitiva) può realizzarsi solo se si tiene conto dell’ambiente (Fiedler, 2014) e degli effetti che esso esercita sul comportamento (obiettivo della psicologia funzionale e quindi dell’ analisi del comportamento). Sul versante clinico, per esempio, un’integrazione di questo tipo sembra intercettabile nel modello di concettualizzazione tutto italiano della LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero, 2015). La tendenza ad occuparsi della ricostruzione del processo di apprendimento nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e la svolta centrata sulle disfunzioni di processo mettono in evidenza la necessità di considerare modelli di concettualizzazione funzionalista del caso.

Viceversa, la psicologia cognitiva che genera continue previsioni su relazioni ambiente-comportamento (Zentall, 2001) potrebbe a sua volta contribuire allo sviluppo della psicologia funzionale. La letteratura cognitiva, infatti, è piena di effetti comportamentali che non compaiono nella letteratura corrente della psicologia funzionale e che possono essere collegati a principi funzionali generali. Pensiamo per esempio a tipici effetti di interferenza studiati dalla psicologia cognitiva come l’effetto Stroop, l’effetto Simon, l’effetto Navon, l’effetto Priming, o ad altri effetti come quelli di “tipicità” o di “distanza gerarchica” alla base dei processi di categorizzazione, o ancora ai più noti effetti placebo e nocebo a cui i ricercatori cognitivi fanno appello per comprendere la modulazione cognitiva ed emotiva dei sintomi. Gli psicologi che adottano un approccio funzionale, come gli analisti del comportamento, sono fortemente interessati a spiegare tali fenomeni identificando tipiche relazioni tra ambiente e comportamento, traducibili in termini di principi generali di funzionamento precisi e di ampia portata (Barnes-Holmes & Hussey, 2016) e scientificamente fondati su paradigmi sperimentali di laboratorio.

Dunque, in linea di principio, gli analisti del comportamento potrebbero usare le teorie cognitive per aumentare la propria conoscenza funzionale (vedi Barnes-Holmes & Hussey, 2016). Ad esempio, collegando il noto effetto Stroop “colore-parola” con il principio dello Stimulus control (definito in analisi del comportamento come controllo esercitato dallo stimolo sulla risposta comportamentale) i ricercatori funzionali, invece di focalizzarsi su presunte alterazioni nei meccanismi di elaborazione delle informazioni, potrebbero utilizzare questi dati empirici in merito all’effetto stroop come guide per approfondire l’analisi delle sorgenti contestuali che regolano le risposte attentive. In questo modo, i ricercatori funzionali cercheranno di influenzare tali risposte, attraverso una manipolazione sempre più precisa degli stimoli ambientali.

In particolare oggi, che la ricerca su linguaggio e cognizione (Relational Frame Theory; Hayes, Roche e Barnes Holmes, 2001) sta acquisendo interesse all’interno della comunità degli analisti del comportamento, adottare un approccio funzionale-cognitivo potrebbe offrire uno scenario di svolta importante sia sul versante sperimentale che su quello applicato. Infatti, a livello teorico, i ricercatori cognitivi hanno già esplorato le proprietà fondamentali di ciò che essi chiamano “conoscenza relazionale”, generando un’ampia, ricca e complessa letteratura sul tema, di cui gran parte degli analisti del comportamento potrebbe non essere consapevole, perdendo l’opportunità di analizzarla da un punto di vista funzionale.

Purtroppo, nonostante l’ampia sovrapposizione tra la ricerca in analisi del comportamento e in psicologia cognitiva, è quasi impossibile trovare riferimenti incrociato tra le due letterature. Questo, rende altamente probabile il proliferare di terminologie, teorie, ipotesi almeno in parte ridondanti, fatto dannoso in ambito scientifico.

Per tutte queste ragioni, l’adozione di un approccio funzionale-cognitivo, permetterebbe ai ricercatori cognitivi e a quelli provenienti dall’ analisi del comportamento di perseguire obiettivi diversi, ma che convergano nel promuovere la conoscenza circa il funzionamento psicologico degli esseri umani. Tale approccio potrebbe sancire l’esistenza di una relazione reciprocamente vantaggiosa tra il livello di spiegazione funzionale e quello cognitivo e fornire quel contesto meta-teorico ad oggi mancante in cui analisti del comportamento e psicologi cognitivi possono finalmente interagire in modo costruttivo ed edificante (possibilmente anche sulle riviste scientifiche!).

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