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Disturbo dello spettro autistico negli adulti e riduzione della risposta cerebrale quando si sente il proprio nome

Il gruppo di ricerca EXPLORA della Ghent University in Belgio mostra come la risposta più bassa del cervello all’udire il proprio nome non sia presente solo nei bambini a rischio di una diagnosi di autismo, ma anche negli adulti con una diagnosi di autismoLo studio è stato condotto dalla dottoranda Annabel Nijhof, sotto la supervisione dei professori Roeljan Wiersema e Marcel Brass. Questo studio non era mai stato condotto prima in individui adulti con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

 

La risposta cerebrale di chi è affetto da autismo quando sente il proprio nome

Solitamente quando si sente qualcuno pronunciare il proprio nome, a prescindere dal luogo in cui si trova, scatta una risposta orientativa forte e questo è considerato un aspetto importante e di successo per quanto riguarda le interazioni sociali. Le persone percepiscono l’udire il proprio nome come l’intenzione di un altro individuo di attirare la propria attenzione.
Studi precedenti hanno dimostrato come i bambini che sono a rischio di una diagnosi di autismo rispondono meno di fronte all’ascolto del proprio nome.
Questo potrebbe essere dovuto proprio al fatto che i sintomi principali del disturbo dello spettro autistico (ASD) riguardano l’interazione sociale e la comunicazione. Ed è proprio una diminuita risposta orientativa all’ascolto del proprio nome uno dei più forti predittori per lo sviluppo di un disturbo dello spettro autistico.

Il gruppo di ricerca EXPLORA della Ghent University in Belgio mostra come la risposta più bassa del cervello all’udire il proprio nome non sia presente solo nei bambini a rischio di una diagnosi di autismo, ma anche negli adulti con una diagnosi di autismo.
Lo studio è stato condotto dalla dottoranda Annabel Nijhof, sotto la supervisione dei professori Roeljan Wiersema e Marcel Brass. Questo studio non era mai stato condotto prima in individui adulti con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

Lo studio

Lo studio si è occupato del confronto tra un gruppo di adulti con disturbo dello spettro autistico e un gruppo di controllo, costituito da adulti senza una diagnosi di autismo.
I partecipanti allo studio sono stati posti in uno scenario sperimentale nel quale, mentre veniva registrata la loro attività cerebrale, venivano pronunciati i nomi propri dei soggetti, il nome di altri sconosciuti ed il nome di persone conosciute, senza che fosse chiesto loro di rispondere a questi richiami.

Risultati

Dai risultati è emerso che, come previsto, nei soggetti senza disturbo dello spettro autistico la risposta cerebrale all’udire il proprio nome, rispetto all’udire il nome di altri adulti, era molto più forte. Ma per quanto riguarda i soggetti con diagnosi di autismo questo effetto preferenziale nei confronti del proprio nome era totalmente assente.
A livello cerebrale, questa differenza del gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo era correlata ad una diminuita attività della giunzione temporale-parietale destra.
Studi precedenti si sono occupati di collegare la giunzione temporale-parietale destra ai processi di distinzione sé-altro e di mentalizzazione degli stati mentali altrui, processi esperiti diversamente dai soggetti con diagnosi di autismo, rispetto a soggetti senza questo tipo di diagnosi.

Applicazione dello studio

Questo studio è stato il primo a dimostrare la diversità di risposta nel cervello di adulti con disturbo dello spettro autistico all’udire il proprio nome, indicativi di deficit centrali nei processi di distinzione sé-altro, associati ad una disfunzione della giunzione temporale-parietale destra.
Questi risultati sono dunque molto importanti per aprire una serie di studi sulla possibilità di utilizzare la risposta neurale atipica al proprio nome come potenziale marker biologico dei disturbi dello spettro autistico.

Il prezzo del patriarcato. Uno studio israeliano sul sessimo: come il dominio maschile influenza negativamente il benessere di uomini e donne – FluIDsex

Uno studio condotto da Orly Bereket e Rotem Kahalon dell’Università di Tel Aviv, Israele, pubblicato sulla rivista di Springer Sex Roles, evidenzia come la polarizzazione maschile nei confronti delle donne, capace di ritrarle unicamente con una possibilità dicotomica “caste” oppure “promiscue”, influenza l’autonomia ed il benessere femminile e minaccia le relazioni intime eterosessuali.

 

Lo studio è stato condotto su 108 uomini israeliani eterosessuali, di cui il 77% minore di trent’anni ed il 55% single. I partecipanti tramite un questionario online hanno risposto ad una serie di domande, tra cui alcune sulla propria percezione della sessualità femminile, su eventuali legami tra castità/promiscuità femminile e tratti positivi/negativi, sulle loro relazioni e vite sessuali attuali e passate, se hanno oggettivato le donne e se si sono sentiti protettivi e paternalistici nei loro confronti.

I risultati hanno mostrato che il sostegno del predominio maschile influenza negativamente il benessere di uomini e donne rafforzando la disuguaglianza di genere, oggettivando le donne e limitando la loro sessualità. I partecipanti che sostenevano la dominanza maschile erano più inclini a ricreare una dicotomia femminile castità-promiscuità inconciliabile, ad oggettivare le donne sessualmente, esprimere un doppio standard che vede gli uomini più liberi sessualmente rispetto alle donne ed infine a mostrare un sessismo “benevolo” incentrato sui ruoli maschili più protettivi, rispetto a quelli tradizionali femminili, di cura.

Tale studio, avvenuto nel 2017 a Tel Aviv, e pubblicato nel 2018, dimostra come ancora alcuni uomini trovino il piacere sessuale e l’amore incompatibili. Tali credenze, come spiega il ricercatore Bareket influenzano la vita relazionale delle coppie eterosessuali:

Questi uomini possono avere difficoltà a sentirsi attratti dalle donne che amano, o amare le donne da cui sono sessualmente attratti, portando ad insoddisfazione cronica nelle loro relazioni sentimentali.

Date le conseguenze, i ricercatori invitano i terapeuti a riflettere sul patriarcato e sulla dicotomia sesso-amore con i propri pazienti. La terapia può utilizzare degli interventi psico-educativi, volti a riduzione del disagio relazionale, lavorando sul sessismo e sul dominio sociale, promuovendo empatia e rispetto verso gli altri.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

C’era una volta la prima volta. Come raccontare il sesso e l’amore a scuola, in famiglia, a letto insieme (2003) di Fabio Veglia e Rossella Pellegrini – Recensione del libro

C’era una volta la prima volta. Come raccontare il sesso e l’amore a scuola, in famiglia, a letto insieme è un libro scritto da Fabio Veglia e Rossella Pellegrini, della casa editrice Erickson. All’interno di questo piccolo manuale sulla sessualità troviamo le domande di migliaia di studenti delle scuole medie inferiori e superiori di tutta Italia.

Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Commetti il più vecchio dei peccati nel più nuovo dei modi.
William Shakespeare

 

 C’era una volta la prima volta. Come raccontare il sesso e l’amore a scuola, in famiglia e a letto insieme è un libro scritto da Fabio Veglia e Rossella Pellegrini, della casa editrice Erickson. All’interno di questo piccolo manuale sulla sessualità troviamo le domande di migliaia di studenti delle scuole medie inferiori e superiori di tutta Italia. I titoli dei capitoli di questo libro sono domande emblematiche, scritte dagli studenti in forma anonima e corrispondono alla sessualità reale, così come viene vissuta prima di essere discussa. Da qui si capisce l’esigenza degli autori di trovare un linguaggio semplice, comune e immediato per parlare di un tema che molto spesso viene visto come un tabù all’interno delle famiglie e delle scuole italiane.

C’era una volta la prima volta si pone come obiettivo l’educazione alla sessualità ad ogni età e in ogni situazione di vita: “rassicura chi è in crisi sulla propria vita sessuale o sulla possibilità di educare quella degli altri, ma anche per mettere in crisi chi è troppo sicuro di sé”.

Inoltre, permette una riflessione sulle emozioni che la sessualità suscita, come rabbia, vergogna, tristezza e divertimento, per entrare in contatto con le sue diverse sfaccettature.

Gli autori mettono in gioco la loro professionalità sul tema, raccontando, mettendosi dal punto di vista dell’adolescente che sta sperimentando una fase di vita molto turbolenta e piena di riflessioni sul proprio corpo.

C’era una volta la prima volta: come raccontare e raccontarsi

Una parte del libro C’era una volta la prima volta viene dedicata ai consigli per i genitori ed educatori che vogliono comunicare e parlare di sessualità con i propri figli o allievi. L’idea di fondo è riconoscere come il sesso sia parte integrante della vita di ogni individuo e che si deve innanzitutto accettare questa condizione per poter evitare le censure e false informazioni, andando verso un’idea di sessualità migliore e più appagante. Partire dalla propria responsabilità di genitore o educatore, apprendere come entrare in contatto con la propria sessualità è il primo passo per trovare il modo più adeguato per parlarne agli altri e con gli altri.

Ciò che si sottolinea in questa parte è la necessità di trovare un linguaggio comune con cui poterne parlare, non troppo scientifico, non troppo scontato, tenendo a mente quello del corpo, che secondo gli autori è quello più immediato per parlare d’amore.

Un altro capitolo è riservato ai ragazzi che vogliono parlare di sesso con gli adulti. Sottolineano l’importanza della comunicazione, di trovare un adulto competente che riesca a rispondere e contenere dubbi e confusione, perché una scarsa informazione sulla sessualità potrebbe comportare delle conseguenze difficili da gestire.

Le dimensioni della sessualità

La prima parte di C’era una volta la prima volta si conclude con la spiegazione di quelle che gli autori definiscono “dimensioni della sessualità”. Gli autori fanno presente il loro punto di vista, dicendo che la sessualità non è il principale motore o organizzatore della vita umana, ma che può connotare qualsiasi esperienza della nostra vita.

Si inizia questo viaggio all’interno della sessualità parlando della dimensione riproduttiva, quella che garantisce la continuità della specie umana; il bisogno riproduttivo è una spinta innata insita in ogni individuo.

La seconda è la dimensione ludica, cioè, la parte più divertente della sessualità, dove al suo interno essa si trasforma in un gioco. Se si rimane solamente all’interno di questo lato del sesso si rischia di “accontentarsi, di rimanere all’interno di una caverna, in una realtà virtuale” che ha poco a che vedere con la totalità di questa esperienza.

La dimensione sociale, quella dello “stare insieme” ad un’altra persona, rende la sessualità un bisogno di costruzione e condivisione con l’altro. Qui si sgancia dalla sua missione primordiale di riproduzione, e dal semplice gioco amoroso.

Successivamente troviamo la dimensione semantica: siamo proprio lì, dove avviene l’amore. Il sesso inizia ad essere un incontro fra due corpi che necessita di una coscienza condivisa con l’altro.

Fino ad arrivare alla dimensione narrativa, all’interno della quale nasce una storia. “Nei racconti generiamo senso e significato per la vita” ed è proprio in questa realtà che si inizia a fare l’amore generando un racconto che viene condiviso con l’altro.

Infine, l’ultima, ma non meno importante, è la dimensione procreativa. Dopo aver raccontato una storia si ha il bisogno di introdurre un nuovo piccolo personaggio. Dall’amore si passa all’atto creativo di introdurre un bambino nella propria vita ed iniziare a generare nuovo senso e significato.

Parliamo di sessualità

Quanti buchi ha la donna? Perché hanno sempre voglia di quella cosa lì? Quanti orgasmi si fanno con un pieno?

Queste sono solo alcune domande che gli adolescenti italiani si sono posti mettendoli davanti a persone competenti che hanno voluto parlare di sessualità fino in fondo, con il giusto linguaggio e le giuste metodologie.

Le altre le troverete nel libro, e ognuna di esse va a comporre un capitolo di psicoeducazione sulla sessualità. Il linguaggio usato, come detto in precedenza, è intuitivo, semplice, spiega cose complesse senza giri di parole e analisi scientifiche. Mette in condizione il lettore di percepire che l’educazione sessuale non è semplice prevenzione o informazione: l’educazione sessuale è educare alla vita, alla coscienza di sé e dell’altro. La sessualità diviene qualcosa di comprensibile sia per gli educatori/genitori, sia per gli adolescenti. In ogni pagina si cerca un luogo comune e lo si scompone per trovare chiarezza e comprensione.

Inoltre, C’era una volta la prima volta porta il lettore a entrare in contatto non solo con le problematiche legate alla sfera sessuale, ma anche con i piaceri e le emozioni positive. Fare sesso non deve essere un problema, un punto spiacevole della vita che viene affrontato con ansia e perplessità, ma un atto naturale e cosciente che può portare sensazioni di piacere e anche di responsabilità verso se stessi e l’altra persona.

In conclusione, questo libro è sorgente di informazioni, domande, riflessioni e metodologie utili quando si inizia a parlare di sessualità, sia a scuola, che in famiglia. Aiuta a riconoscere le varie sfaccettature di questo tema così delicato ma fondamentale. Porta un punto di vista fresco e genuino, emozionando il lettore con parole e metafore intuitive e accessibili a tutti.

Genitori, educatori, adolescenti o semplicemente persone comuni che vogliono comunicare con sé stessi e con gli altri della sessualità, possono leggere C’era una volta la prima volta per educarsi, emozionarsi e riflettere sul sesso, per essere poi in grado di mettere in pratica quanto appreso. Nella propria intimità, oppure, davanti a un pubblico assetato di domande che ha bisogno di essere guidato nel percorso di conoscenza di sé e della propria sessualità.

Virtuale e familiare: come gestire l’utilizzo dei dispositivi tecnologici da parte dei bambini

Sempre più spesso mi capita di essere interpellata sull’utilizzo degli schermi da parte di bambine e bambini. Ecco perchè ho iniziato ad occuparmi della questione e a cercare di capire, andando dietro al nostro tempo e cercando insieme di anticiparlo, come aiutare i genitori che si trovano a dover gestire una delle forze apparentemente più ingestibile di questa epoca: il virtuale.

 

Come posizionarsi di fronte all’utilizzo di telefoni, computer e tablet?

In un convegno dello scorso settembre (Waimhbl,2017)  i colleghi psicologi presenti hanno dimostrato come adottare una posizione clinica vuol dire non giudicare gli adulti che si occupano di educazione (genitori, nonni, baby sitter, maestri, etc.) ma sostenerli, spiegando loro in quale fase della crescita si trova il bambino per capire i suoi bisogni specifici.

Se si pensa ai primi mesi di vita, è evidente che per crescere si ha bisogno di toccare gli oggetti, metterli in bocca, odorarli, manipolarli, poi lanciarli, riprenderli, in pratica farli propri. La visione passiva impedirebbe dunque di sperimentare il mondo in modo attivo, di vivere la sensazione concreta di poter agire su di esso. Si può allora riflettere insieme sul fatto che il tempo passato davanti ad uno schermo permette di utilizzare solo due sensi: vista e udito. Che cosa succede allora se non si usano tutti e cinque i sensi? Come professionisti dell’infanzia, non si puo ignorare che numerose ricerche dimostrano e confermano i pericoli della televisione e dell’uso dello schermo in particolare prima dei tre anni (Ripamonti, 2016).

Tutto il tempo passato davanti agli schermi non è “perso” ma è di certo un tempo in cui non vengono utilizzate le capacità primordiali che sono innate per il gioco e adeguate all’età.

Secondo il report tecnico dell’AAP (American Academy of Pediatrics (Reid Chassiakos et al., 2016) bisogna considerare che per un bebé di pochi mesi, il ritmo rapido delle immagini, dei colori e dei suoni sono di una intensità largamente superiore alle stimolazioni abituali della sua vita quotidiana. Uno schermo acceso cattura l’attenzione ma rischia di renderlo eccitato, agitato e di nuocere alla sua concentrazione. Ci tengo a sottolineare che rischia: ciò significa che utilizzare un tablet per giocare non equivale necessariamente a compromettere il suo apprendimento, ma certamente a disinvestire nella relazione, con gli altri e con se stessi.

Relazione con se stessa e con se stesso

Il gioco è fondamentale per sviluppare creatività e capacità creative, intellettuali ma anche emotive; giocare permette di confrontarsi con l’apprendimento e il divertimento ma anche con due punti essenziali, purtroppo spesso dimenticati, se non rimossi: la noia e la solitudine. La bambina e il bambino devono poco a poco imparare a sostenere l’assenza, il vuoto e la monotonia; nel caso di un tablet, ecco un oggetto esterno che riempie, in modo facile e immediato, il vuoto interno, impedendo di poter restare all’ascolto delle proprie emozioni e di gestire ogni piccola e grande frustrazione.

L’uso frequente delle nuove tecnologie non sembra aiutare lo sviluppo della capacità sociali del bambino. Il tablet rischia di scoraggiare l’interazione sociale in anni nei quali nel cervello avvengono importanti sviluppi neuronali e neurogenerativi. Una prima conseguenza, derivante dall’isolamento nel quale si immergono bambini rapiti dal loro gadget tecnologico, è una minore capacità nella comunicazione (Solo Tablet, 2013).

Dunque, meno gioco reale in solitudine, meno gioco reale in compagnia.

Relazione con gli altri

Le esperienze intersoggettive tra madre, padre e figlio ma anche tra fratelli e sorelle contengono emozioni condivise che permettono al bambino e alla bambina la sintonizzazione con l’altro,  in modo tale che le esperienze piacevoli siano amplificate e che quelle negative siano ridotte e contenute, con una intenzione congruente per capirsi e stare bene.

E’ possibile osservare nelle nostre stesse famiglie come la comunicazione quotidiana si intrecci ormai sempre più frequentemente con il tempo dello schermo: le conversazioni telefoniche dirette e vocali si sommano alle interazioni che avvengono tramite le applicazioni. Il risultato è che figli non solo passano sempre più tempo davanti ad uno schermo, ma vedono i propri genitori farlo, negli orari e nei momenti in cui prima si era “irraggiungibili”.

I momenti adatti e consacrati alla relazione diventano sacri allora per ogni membro della famiglia!

Nessun programma televisivo può avere lo stesso valore di una parola veramente indirizzata ad un figlio, ad una figlia e aggiungerei che i piccoli hanno tanto bisogno che si racconti loro delle storie, quanto i grandi hanno piacere nel farlo.

Secondo i colleghi che si occupano di studiare l’argomento (Waimhbl, 2017) non esiste ancora sufficiente letteratura scientifica per poter arrivare a confermare le ipotesi sulla tossicità degli schermi ma è evidente, ad ogni livello, il rischio del tempo sottratto alle interazioni sociali.

Insomma, fra familiare e virtuale non si dovrebbe compiere una scelta: il virtuale può e deve essere utile a costruire il familiare. Come ci ha insegnato Donald Winnicott, non esiste un bambino: esiste una relazione.

Nuove cellule staminali sono state trovate nel cervello degli adulti

Gli autori del presente studio sono riusciti a rintracciare per la prima volta le singole cellule staminali e la loro progenie neuronale all’interno del cervello adulto. Questo studio fa luce su come i nuovi neuroni vengano prodotti durante l’intero arco della vita.

 

Come si formano le nuove cellule staminali nel cervello adulto

La generazione di cellule nuove si pensava finisse al termine dello sviluppo embrionale, tuttavia recenti ricerche hanno dimostrato che il cervello adulto può generare nuove cellule per tutta la vita. Una delle aree in cui questo accade è l’ippocampo, una struttura cerebrale implicata in molti dei processi di apprendimento e memoria, svolge un ruolo importante nella formazione delle memorie esplicite e nella trasformazione della memoria a breve termine in memoria a lungo termine.

In un nuovo studio pubblicato su Science, il laboratorio di Sebastian Jessberger, professore del Brain Research Institute dell’Università di Zurigo, ha mostrato per la prima volta il processo attraverso il quale le cellule staminali neurali si dividono e i neuroni neonati si integrano nell’ippocampo del topo adulto. Lo studio, condotto da Gregor Pilz postdoc e dalla studentessa di dottorato Sara Bottes, ha utilizzato l’imaging in vivo a 2 fotoni e l’etichettatura genetica delle cellule staminali neurali per osservare le divisioni delle cellule staminali nel momento in cui si sono verificate, e per seguire la maturazione delle nuove cellule fino ai due mesi.

Osservando le cellule in azione e nel tempo, il team ha mostrato come la maggior parte delle cellule staminali si dividono solo per pochi round prima che maturino nei neuroni. Questi risultati offrono una spiegazione sul perché il numero di cellule appena nate diminuisce drasticamente con l’avanzare dell’età. “In passato era ritenuto tecnicamente impossibile seguire le cellule staminali monocellulari nel cervello nel corso del tempo, data la profonda localizzazione dell’ippocampo nel cervello“, ha detto Jessberger.

Ha aggiunto che la svolta è stata resa possibile solo formando una squadra interdisciplinare. “Siamo stati fortunati che un gruppo di collaboratori, tra cui Fritjof Helmchen del Brain Research Institute e David Jörg e Benjamin Simons dell’Università di Cambridge, si siano uniti per mettere insieme le loro competenze nell’imaging cerebrale profondo e nella modellazione teorica, che ci ha permesso di ottenere e interpretare i nostri dati.”

Lo studio ha risposto a domande di lunga data, ma i ricercatori hanno affermato che questo è solo l’inizio di molti altri esperimenti volti a capire come i nostri cervelli siano in grado di formare nuove cellule per tutta la vita. “In futuro, speriamo di essere in grado di utilizzare cellule staminali neurali per la riparazione del cervello – ad esempio per malattie come l’invecchiamento cognitivo, il morbo di Parkinson e l’Alzheimer o la depressione maggiore“, riassume Jessberger.

13 reasons why it’s no longer a wonderful life: la serie TV “Tredici” e la psicologia del suicidio

È passato abbastanza tempo dalla diffusione della serie TV Tredici (13 reasons why) e forse è possibile parlare del finale senza rovinare la sorpresa. Come si dice? Senza spoilerare; rovinare però è una traduzione migliore e precisa.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 30/01/2018

 

Attenzione, da qui spoiler! La protagonista alla fine si suicida. Senza pretendere di recensire la qualità della serie, riflettiamo insieme sulla rappresentazione del suicidio. Molto è stato scritto e detto dai tanti addetti alla psicologia che hanno visto lo spettacolo. Tra i tanti pareri, colpisce quello di Psychology Today che nota come la serie, accanto al merito di sensibilizzare il pubblico sul disagio giovanile, il bullismo e la violenza sessuale, ha il difetto di concludere la storia con un suicidio presentato con tratti irrealistici che finiscono per rafforzare alcune delle fantasie tipiche delle persone a rischio.

Tredici: il suicida come spettatore di vendetta

L’intera serie TV Tredici ruota intorno alla stupefacente capacità della protagonista di influenzare dopo la morte il gruppo dei coetanei che l’ha fatta soffrire e che in qualche modo ha creato del ragioni del suicidio. Non intendiamo giudicare le scelte di sceneggiatura e drammaturgiche. Non si può negare che l’idea funzioni e che leghi lo spettatore alla storia. La serie di cassette lasciate da Hannah, la ragazza suicida, ipnotizza non solo gli altri personaggi della serie ma soprattutto lo spettatore. Scelta quindi drammaturgicamente azzeccata, psicologicamente però rischiosa. Perché? Perché questa è proprio una delle tipiche fantasie di chi ha pensieri suicidari. Invece di comprendere che uccidendosi pongono fine alla propria vita, alcune persone a rischio si crogiolano nell’immaginare gli effetti del loro atto sui loro conoscenti, quasi illudendosi di essere ancora vivi dopo la morte, ma vivi in maniera diversa, dietro le quinte e al tempo stesso più potenti, capaci di tirare le file, di condizionare la mente e la vita di chi è ancora vivo. Ed è quello che riesce a fare la protagonista di Tredici con le sue cassette. Dopo morta è più viva che mai, tutta l’esistenza dei suoi amici, dei suoi compagni di scuola e dei suoi parenti è piena del fantasma della morta alla quale non riescono a smettere di pensare, con la quale non riescono a smettere di interagire come se fosse ancora viva. Ma non lo è. È morta. E lo spettatore lo dimentica a sua volta.

Hannah vive dopo la morte e ci riesce con le cassette e con il suo inquietante agente rimasto tra noi, il terribile Tony, rimasto tra i vivi ma con un ruolo di messaggero della morta e forse di tutti i morti, angelo custode e accompagnatore nell’aldilà dei trapassati come Ermes psicagogo e anzi di più, visto che è in grado di fare anche il movimento contrario riportando continuamente Hannah in vita dall’aldilà con le sue cassette.

Tredici e La vita è meravigliosa: due modi di vedere al suicidio

È un modo di trattare il suicidio pessimistico e deprimente. Non si tratta di squalificare le sofferenze della ragazza o di banalizzare il bullismo. Si tratta però di opporsi alla presentazione del suicidio come mezzo efficace per prendersi le proprie rivincite. Volendo assumere la posa dei laudator temporis acti, possiamo ricordarci di un’altra opera che ha fatto un uso simile eppure diverso della rappresentazione del suicidio come mezzo per risolvere le ingiustizie. Il classico La vita è meravigliosa di Frank Capra, in inglese It’s a wonderful life. Anche lì c’è un protagonista maltrattato dal destino e dalla cattiveria umana e anche lì c’è un pensiero di morte per suicidio, gettarsi da un ponte nel fiume gelido e in tempesta durante una tormenta di neve notturna. Il suicidio è scongiurato dall’intervento metafisico di un angelo molto diverso dall’inquietante Tony: Clarence, il buffo angelo di seconda classe. La salvezza però non scongiura le fantasie di morte di George Bailey, il protagonista recitato da James Stewart. Certo, non sono più fantasie suicide ma di non essere mai nato e che però seguono di pochi minuti pensieri suicidari veri e propri. Fantasia così tenacemente invocata che infine viene soddisfatta: d’accordo, vediamo cosa accadrebbe se tu non fossi nato, dice il rassegnato Clarence al disperato George Bailey.

L’effetto è opposto a quello di Tredici. Il protagonista si rende conto che la sua morte, lungi dal risolvere i problemi, non solo non lo rende più potente e capace di controllare gli eventi e la mente degli altri, non solo lo annulla come essere vivente ma produce uno scenario oggettivamente più infelice e più negativo. Improvvisamente George Bailey si rende conto di tutte le cose buone che ha fatto vivendo e che non si sono realizzate perché lui non è nato. Suo fratello è morto annegato perché lui non era lì a salvarlo. La città è in mano a un banchiere senza scrupoli perché lui non ha gestito e fatto prosperare la cooperativa per piccoli risparmiatori ereditata dal padre. Sua moglie è sola e i suoi figli non sono mai nati a loro volta. E così via.

Il paragone è in parte discutibile perché non si tratta di suicidio ma di non nascita. Tuttavia –accanto al fatto che George Bailey aveva fantasticato il suicidio nel fiume- c’è un dettaglio che rende l’accostamento ancora più credibile. In entrambi i casi, sia in “13 reasons why” che in “It’s a wonderful life”, l’innesco della catastrofe finale è dato dallo smarrimento sbadato di una somma di denaro che va versata in banca. L’analogia è così forte da far venire il dubbio che gli autori di Tredici l’abbiano inserita volontariamente.

In entrambi i casi lo smarrimento dei soldi è interpretato dal protagonista come conferma che tutto gli va storto, che lui o lei è un’incapace e scatena la disperazione finale, l’autoflagellazione vittimistica e la decisione di ripudiare la vita. Decisione che in It’s a wonderful life è ottimisticamente smentita in maniera realistica e convincente. George Bailey ha fatto tante cose buone nella vita e farle sparire non nascendo ha un effetto malefico e terribile. In Tredici invece la bontà della decisione è confermata. Il suicidio determina la consapevolezza nei tormentatori del male fatto a Hannah, quasi suggerendo che abbia fatto bene a uccidersi.

E allora facciamo i laudator temporis acti fino in fondo. I tempi sono bui se pensiamo che la vita non solo non valga la pena di essere vissuta ma che non vivendola il mondo migliori. La vita era meravigliosa al tempo dei film di Frank Capra mentre oggi una serie TV ci da almeno Tredici ragioni per le quali potrebbe non esserla più.

Super Mario nella Terapia Metacognitiva Interpersonale – Narrativa & Psicologia

Loredana è una giovane donna apparentemente forte e decisa. Solare, con una smania addosso di dover far star bene gli altri, per poi perdersi nella ricerca della sua di felicità. Non a caso è un medico.

 

Si è presentata nel mio studio circa sei mesi fa, ancora ricordo quel giorno, aveva fatto forse due minuti di ritardo (se così si può chiamare) ed era mortificata oltre che trafelata! Mi chiarisce subito che mi ha contatta perché vuole “imparare a vivere le relazioni con più serenità” e mi spiega che per lei significa non sentirsi sottomessa, sfruttata e dipendente.

In questi sei mesi abbiamo parlato a lungo della relazione con Alberto, conosciuto un anno fa a casa di amici. Lo descrive come un tipo deciso, verbalmente aggressivo a volte, imprenditore di grande successo. Lo stima e ammira molto, ma la relazione è piuttosto complicata e Loredana sente che le “manca il fiato”. Oscilla tra il sentirsi poco per lui al percepirsi troppo in altri casi. E nessuna delle due situazioni è serena. La prima la porta ad assecondarlo, a sentirsi estremamente influenzabile; la seconda costretta e sfruttata: “Gli sto dando troppo per quello che merita“. È un’altalena continua che si ripete in ogni seduta.

Loredana sta male. In questi mesi abbiamo parlato della sua famiglia, del rapporto con i genitori, dei rapporti passati in cui ha sempre deciso lei di interrompere le relazioni, abbiamo analizzato gli eventi più recenti legati ad Alberto. Da queste narrazioni, in linea con la terapia metacognitiva interpersonale, abbiamo ricostruito uno schema interpersonale patogeno a partire dal desiderio di autonomia. Loredana vorrebbe assecondare i propri desideri ma: da una parte percepisce la reazione dell’altro che ostacola e controlla e porta una risposta del sé rabbiosa e orientata alla fuga dalla relazione con conseguente immagine di sé indipendente e capace; dall’altra percepisce l’altro sofferente, la reazione emotiva è legata al senso di colpa e ad un’immagine di sé di persona cattiva, dannosa che può per questo perdere l’amore della persona amata. In quest’ultimo caso si attiva l’accudimento invertito alla vista dell’altro che sta male e il conseguente timore di essere abbandonata o non voluta se non fa qualcosa per riparare alla sofferenza altrui.

Se dovesse rimanere sola sente di non essere al sicuro perché crede di non poter provvedere a sé stessa, di non esserne capace e prova paura. Loredana mi dice: “Mi immagino come Super Mario, il personaggio del videogioco, quando cade e sprofonda nel vuoto. Questo è per me la chiusura di una relazione… non aver fatto un salto abbastanza lungo per raggiungere l’altra sponda. Poi per carità la relazione, come il gioco, non è mica facile… gente che vuole ucciderti (ride) ma nel percorso a volte trovi pure dei funghi magici e ti senti grande, pieno di energie e vai avanti nonostante le insidie e gli ostacoli perché sai che poi riassaporerai quei brevi ma intesi momenti in cui ti senti al sicuro”.

L’ultima volta prima dell’estate l’ho vista in lacrime, dopo l’ennesima lite con Alberto, mi ripeteva “Non posso farcela, non ne sono capace, non sto bene da sola, non sto bene con qualcuno, non ne uscirò mai“. Doveva recarsi ad una cena con le amiche per salutarle prima dell’estate mentre l’ufficio di Alberto aveva organizzato all’ultimo minuto una cena con compagne/compagni al seguito. Lui ha un ruolo importante in azienda e ha “costretto” Loredana ad andare con lui: “Mi sono sentita in colpa perché ha iniziato a dirmi che le fidanzate degli altri non fanno così, aiutano il proprio compagno, sono presenti quando è necessario… non riuscivo a credere a quello che diceva, sapevo che non era così eppure… sono andata a quella cavolo di cena! Si può immaginare la discussione furiosa dopo”. Loredana ha chiaro lo schema ma al momento, com’è normale in questa fase della terapia, riesce a vedere di esserci stata dentro solo dopo l’abbassamento del tono emotivo.

Decido allora di fare un esercizio in immaginazione a partire da un episodio narratomi precedentemente con l’idea di attuare un reparenting e accedere alle parti sane. Loredana all’epoca aveva circa quindici anni e ricorda la madre che in lacrime le chiede di restare a casa perché ha bisogno di lei; ha discusso con il padre e non vuole rimanere sola. Nell’esercizio Loredana rivive la scena, sente nuovamente il senso di colpa, “un pugno allo stomaco”, e nel farlo troviamo inaspettatamente un elemento in più nella direzione del reparenting che avevo pensato di attuare: ricorda che la madre le aveva detto che poteva uscire, il viso abbattuto certo ma amorevole, ma che è la stessa Loredana a scegliere di non andare fuori con il ragazzo. Al termine dell’esercizio Loredana è scossa. “Loredana abbiamo visto un punto molto importante. Ha fatto una scelta mossa dal senso di colpa. Il timore che l’altro possa stare male e abbandonarla se non è una brava figlia, e oggi se non è una brava compagna, la spinge a reprimere ciò di cui lei ha bisogno. Ma lei può scegliere se assecondare questo senso di colpa o andare nella direzione di ciò che desidera”. Loredana ripensa all’episodio del passato: “Tornando indietro non so cosa farei oggi”. Le dico di contattarmi se non sta bene nei giorni successivi, perché non ci vedremo per circa tre settimane.

Il 5 settembre è di nuovo nel mio studio.

Loredana (L): sono partita alla fine…

Terapeuta (T): ah bene con Alberto allora? Parigi mi aveva detto…

L.: No… me ne sono andata a mangiare burritos in Messico! (Ride)

T.: Messico?!

L.: Sì ne avevo bisogno… Non sapevo più cosa volevo, o forse chi ero. Dopo l’ultima seduta ero molto confusa, per la prima volta ho come capito che potevo fare qualcosa, che non era così scontato dover per forza aiutare e limitarsi. Forse non volevo andare lì per un motivo preciso ma di certo dovevo fuggire. In fondo non è spesso cosi? Non sappiamo più se volevamo scoprire un posto nuovo o sotterrarne uno vecchio, non crede?

T.: Ora che mi ci fa pensare può capitare, crede sia questo il caso allora? Fuggire? E da cosa?

L.: Eh qui viene il bello (ride) forse da me stessa, non saprei… Dalla mia testa (ride di nuovo) come se parlare un’altra lingua ci cambiasse non solo la forma dei pensieri ma anche il contenuto! “Te echo de menos” come se dirlo così non significasse sempre “mi manchi”, come se quelle parole nuove potessero placare l’emozione che contengono.

T.: Una bella osservazione. Trovo curioso che abbia scelto proprio questa frase come esempio, mi vuole aggiungere qualcosa? Stava ripensando a qualcosa in particolare?

L.: Probabile… Be’ durante i miei viaggi ho sempre sentito la nostalgia di ciò che lasciavo quando ero in un posto nuovo e poi sentivo nostalgia di quel luogo o di quelle persone al ritorno. Come se non fossi stata mai presente nel momento che stavo vivendo. Ma con il capo girato dietro le mie spalle a guardare quello da cui mi ero allontanata, insomma l’opposto del pensiero mindful che abbiamo visto insieme (ride). Ho capito questo mentre camminavo sotto la pioggia con i vestiti appena ritirati in lavanderia in una stradina di Tulum. Sentivo la pioggia rinfrescante sulla mia pelle e mi sentivo libera. Avevo sbagliato strada e non ritrovavo l’albergo. Una sensazione bellissima di paura ma nello stesso tempo di gioia della scoperta e della libertà di essere sola. Di poter inevitabilmente pensare solo a me stessa senza sensi di colpa. L’angoscia della solitudine a braccetto con la felicità della libertà di essere chi vogliamo. Perdersi, ma forse è in quelle occasioni che ritroviamo noi stessi. Forse è questo il vero viaggio. Ma per perdersi è necessario cambiare strada e forse andare lontano. E soffrire forse. Almeno un po’. Cioè sentirsi più… non saprei dire… In bilico. Non so come quando ci alziamo velocemente e abbiamo un capogiro, ecco quella sensazione. Stai per cadere ma non cadi, ti sembra di essere in una realtà parallela ma sai di essere ancora in questo mondo. Ci sei e non ci sei. L’incertezza.

T.: Questo ha provato in quel momento? 

L.: Sì totalmente! In effetti quella sensazione l’ho provata più volte… Intendo l’incertezza, paura e libertà e poi anche poter costruire una nuova me. Nessuno mi conosceva, e probabilmente delle persone incontrate non rivedrò nessuno. Puoi essere cioè che vuoi, puoi mettere da parte la vergogna e vedere che succede ad essere diversa.

T.: In che modo ha provato questo? Si è sentita diversa in cosa?

L.: Lei lo sa, ne abbiamo parlato molto. Alberto conosce bene l’inglese e faccio andare avanti lui quando siamo all’estero. Be’ ero sola e l’italiano medio sa meno inglese di me (ride) mi sono dovuta fare carico di un gruppo di connazionali che avevano bisogno di qualcuno che parlasse per loro in aeroporto negli Stati Uniti. Che ridere! Io come guida!! Ci crede!?! (Ride ancora)

T.: Io si, me lo posso immaginare bene, anzi me lo immaginavo anche prima che diventasse la sua realtà. Probabilmente il senso del viaggio non era scoprire un luogo nuovo, ma una nuova parte di sé in relazione a quei luoghi. Far venire alla luce quello che temeva piuttosto che sotterrare il vecchio. 

L.: Si è stato così che ho capito che posso farcela. Che non succede nulla se sono sola e mi concedo la libertà di pensare solo a me stessa. Credo che avevo bisogno di provare che anche sola non succede nulla. Sono fuggita da alcuni cani che mi inseguivano in piena notte in un piccolo villaggio, ho messo da parte la vergogna parlando in lingue diverse, ho superato il disgusto tra sudore e alberghi non proprio puliti, e, nonostante la paura, ho nuotato a largo per poter ammirare le tartarughe marine nuotare sotto di me…

T.: Vedo una luce diversa nei suoi occhi mentre parla, felicità? 

L.: Sì felicità, la gioia di essere consapevole di avercela fatta. Si ricorda Super Mario? Mentre ero sull’aereo per andare ho sentito che ero caduta in quella sensazione di vuoto, paura, solitudine e forse senso di colpa per aver pensato solo a me…. non è stata una sensazione piacevole, ma poi mi sono detta che da lì si poteva risalire, che non era arrivato il momento del game over (ride). Ho respirato profondamente, sono uscita dalla mia mente guardandomi intorno, dicendomi che andava tutto bene e qualsiasi difficoltà potevo affrontarla, che si ero sola, era vero, e stavo andando lontano, vero anche questo ma mi stavo agitando perché mi soffermavo sopra questi pensieri, se li avessi lasciati sciolti mi sarebbe venuto un attacco di panico!

T.: Brava Loredana, vedo che ha attuato le tecniche viste insieme di detached mindfulness per gestire il rimuginio, deve essere stato veramente difficile emotivamente quel momento…

L.: Molto, oltretutto ero partita e non sapevo nemmeno se Alberto ed io eravamo ancora una coppia. All’aeroporto di Dallas ho iniziato a scrivergli, in quel momento avevo bisogno di sapere che c’era. Mi sono detta “ora hai bisogno di sentirlo, di essere in contatto, poi capirai che cosa fare, una cosa alla volta, procedi passo dopo passo” cioè mi rendo conto sempre di più che se mi metto a guardare la scalinata intera non arriverò mai. L’ho capito prima di salire sulla piramide nel sito di Uxmal. Ho fatto un gradino alla volta per arrivare alla vetta, e guardando solo quel gradino in cui mettevo il piede. Poi arrivata ho guardato il paesaggio ed è stato favoloso. Ho capito che è lo stesso per tutto comprese le relazioni. Se guardo troppo oltre mi spavento. Ho capito che dovevo fermarmi.

T.: Fermarsi? In che senso?

L.: Stavo mollando con Alberto, come ho sempre fatto nelle mie relazioni precedenti. Come nello schema. L’altro mi ostacola, mi arrabbio e cerco la fuga. È più semplice, no? Stare insieme a qualcun altro mi “costringe” ad assecondare e se non lo faccio l’altro sta male e non mi vuole. Poi, vista la nostra ultima seduta, ho capito che stavo rimettendo in moto le mie solite dinamiche viste insieme. E lì mi sono letteralmente fermata e mi sono presa la pausa messicana! Mi sono detta “ecco Lory di nuovo gli stessi comportamenti, la stessa paura che ti spinge ad allontanarti, fermati un attimo e rifletti”. Con Alberto stiamo insieme, ma sono andata via di casa. Ho capito che avevo bisogno di stare sola, di avere qualcosa di mio. Lui è rimasto senza parole ma ha capito. Ovvio che penso convenga anche a lui (ride)… il mio senso di non essere amata e amabile di certo non si elimina in sei mesi di terapia… ma il punto è che io sto meglio così devo ricostruirmi, ricompattarmi. Ho capito che la presenza continua mi affatica troppo perché oltre alle dinamiche relazionali devo gestire le mie e al momento non posso farcela, d’altronde bisogna essere anche consapevoli dei propri limiti no? Come ci siamo dette più volte

T.: Si Loredana è proprio così, ha fatto dei grandi passi in avanti, tanta consapevolezza sulle proprie dinamiche.

L.: Si si è vero, è come se nel viaggio avessi applicato ciò che ci siamo dette in questi mesi, cioè più che applicato non saprei… provato forse. Super Mario per salvare la principessa Daisy deve tentare e ritentare. Ironia della sorte io da piccola con il mio Game Boy non ho mai finito il gioco così come non ho mai portato avanti una relazione tanto a lungo. Ora è arrivato il momento di godere del gioco senza l’angoscia di dover necessariamente salvare la principessa.

Manipolare le emozioni negative attraverso la stimolazione cerebrale

Una nuova ricerca, pubblicata su Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience e Neuroimaging mostra che le emozioni negative possono essere rafforzate o indebolite modificando l’eccitabilità del cervello. Utilizzando la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) (una particolare tecnica di stimolazione cerebrale) i ricercatori dell’Università di Münster in Germania, hanno scoperto che la stimolazione di tipo eccitatorio, rispetto a quella inibitoria, riduce maggiormente la risposta del cervello a immagini spaventose.

 

La stimolazione cerebrale può influenzare la regolazione emotiva

Cameron Carter, editore del Journal, in cui è stato pubblicato l’articolo ha detto: “Lo studio conferma che la modulazione della regione frontale nell’emisfero destro, influenza direttamente la regolazione delle informazioni emotive nel cervello in una modalità top-down. Queste scoperte evidenziano ed espandono l’ambito delle potenziali applicazioni terapeutiche della rTMS”.

Per confrontare gli effetti di una singola sessione di rTMS eccitatoria e inibitoria della corteccia prefrontale dorsolaterale, gli autori tedeschi hanno diviso 41 partecipanti sani in due gruppi ed hanno eseguito la tecnica mentre i soggetti osservavano volti paurosi, utilizzati per evocare emozioni negative o facce neutre per la condizione di controllo.

I risultati mostrano effetti opposti: la stimolazione eccitatoria diminuiva il processo di elaborazione visiva dei volti paurosi mentre quella inibitoria aumentava il processo sensoriale, allo stesso modo la rTMS eccitatoria riduceva i tempi di reazione impiegati dai partecipanti per rispondere agli stimoli e diminuiva l’arousal emotivo elicitato dai volti paurosi, la rTMS inibitoria invece aumentava entrambi questi processi.

L’autore senior Markus Junghöfer afferma “Questi risultati dovrebbero incoraggiare lo sviluppo di ricerche sui meccanismi di stimolazione magnetica della corteccia prefrontale dorsolaterale implicata tra gli altri anche nella depressione. ”

Proprio su questo versante, lo studio appare interessante: nella depressione infatti si osserva un’alterazione dell’elaborazione delle emozioni nella corteccia prefrontale dorsolaterale, che causa un’amplificazione delle emozioni negative e una riduzione di quelle positive. L’idea più diffusa oggi è che la stimolazione magnetica inibitoria a livello della corteccia prefrontale abbia effetti antidepressivi in quanto ridurrebbe l’elaborazione delle emozioni negative.

I risultati ottenuti da questa nuova ricerca suggeriscono invece che la rTMS eccitatoria potrebbe fornire una nuova via nel trattamento del disturbo depressivo.

Wonder: un film sulla diversità, l’inclusione e la famiglia – Recensione del film

Wonder è il film tratto dall’omonimo libro di R.J. Palacio . È un racconto trasversale che abbraccia diversi argomenti. Si spazia dal tema della diversità, dell’inclusione a tematiche quali la famiglia, il senso di sè, l’adolescenza. 

 

Wonder: la trama

Il personaggio principale è un bambino di 12 anni, August Pullman, per gli amici e familiari Auggie, che si trova all’ingresso della scuola media non avendo mai frequentato una scuola per via della sua condizione.

Auggie è affetto da una malattia congenita dello sviluppo cranio facciale, la sindrome di Treacher Collins, che comporta displasia orotomandibolare bilaterale e simmetrica, senza anomalie degli arti, associata a diverse anomalie della testa e del collo.

In questo caso il bambino è stato sottoposto a 13 interventi come riportato all’inizio del film proprio dal protagonista, alcuni per farlo respirare autonomamente altri per farlo sentire meglio, lasciando però sul viso cicatrici visibili. Questo fa sì che al bambino venga impartita un’ educazione domiciliare da parte della madre, una fumettista talentuosa che alla nascita di suo figlio, e viste le complicazioni smette di scrivere la tesi e si dedica a lui. Qui emergono il senso di protezione e di dovere della madre nell’ottica del prendersi cura inteso come “contenimento” , in quanto la madre si fa carico di paure, ansie e aspettative sue e del bambino fino a quando entrambi i genitori decidono che il bambino sia pronto e lo iscrivono in una scuola pubblica.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Le dinamiche genitoriali e familiari nel film Wonder

Qui entrano in gioco dinamiche di coppia e genitoriali che nel film sono velate dal legame molto forte tra i genitori. Quasi alla fine del film c’è una bella scena di complicità dove la madre serena porta a termine la tesi e torna a nuova vita forte della comprensione e del sostegno del marito.

Le dinamiche familiari si intrecciano con la storia della sorella del bambino, Via, una ragazza molto responsabile alla quale è stato chiesto di crescer in fretta e che mostra nei confronti di suo fratello protezione e dedizione.

Sono tanti i temi che si intrecciano nel film che viene raccontato da diversi punti di vista. Questo a sottolineare che a seconda delle prospettive la visone di una problematica è diversa.

Le emozioni di Auggie per l’ingresso alle scuole medie

Elemento portante è l’ingresso a scuola del bambino.
C’è la paura che suscita il diverso, o chi non ci somiglia; c’è il bullismo; il coraggio di iniziare un nuovo percorso e la voglia di affrontare il mondo essendo se stessi.

Il ragazzo “bullo” che muove insulti nei confronti di Auggie, all’inizio, forte del consenso di alcuni amici si ritrova ad essere solo nel momento della scoperta delle sue azioni, complice una famiglia poco sensibile che prende le sue difese senza comprendere il disagio del ragazzo.
Alla fine si sentirà dispiaciuto e consapevole dei propri errori e in una scena esternerà il proprio dispiacere al preside.

Auggie è un bambino forte ma al contempo pieno di ansie e paure che si scopre artefice di un cambiamento positivo dei suoi coetanei nella classe.
Questo cambiamento è sottolineato dal preside della scuola nel suo encomio finale dove cita alcuni passi di un autore fondatore della scuola che sottolineano come la forza di un cuore che trascina altri cuori è motivo di orgoglio e di importanza più di un’ opera di carità.

Alla tematica dell’inclusione si accostano ragazzi che si accingono all’adolescenza, già carica di significati per loro.

Conclusioni sul film Wonder

È un film che fa riflettere per i contenuti attuali e per il senso di sentirsi diversi in un’ epoca in cui la diversità è spesso associata a punto di debolezza.

In questo film la forza dimostrata da questa famiglia fa molto riflettere su quanto sia importante un senso di famiglia ben radicato. Non si fanno cenni al percorso di aiuto o sostegno della famiglia ma spicca il senso di unione tra loro, il rispetto e l’amore per Auggie e più in generale per la famiglia.

L’emozione di paura è assemblata nella corteccia prefrontale – Report dal convegno con Joseph Ledoux

Il 10 e 11 Febbraio si è svolto a Roma un interessante convegno intitolato Anxiety organizzato dalla Italian Psychoanalytic Dialogues e dalla International Neuropsychoanalysis Society; la main relation è stata tenuta da uno speaker d’eccezione, Joseph Ledoux.

 

Dopo almeno tre decenni dedicati allo studio dei correlati neurali di ansia e paura e dopo aver ben identificato il ruolo della amigdala, Joseph Ledoux (2017) ha formulato una versione aggiornata della sua teoria.

La tesi sostenuta da Joseph Ledoux merita di essere riassunta e diffusa perché pone qualche difficoltà all’ approccio bottom up alle emozioni. Ledoux parte da una osservazione: la parola “paura”, nel linguaggio comune fa riferimento al feeling che invade la nostra coscienza quando riteniamo di essere in pericolo, e la riconosciamo in noi stessi grazie alla introspezione, e negli altri per manifestazioni direttamente osservabili, come il freezing, la fuga, i tremori, le espressioni facciali. Invece, osserva Joseph Ledoux, con lo sviluppo delle neuroscienze il termine “paura” è utilizzato di solito in riferimento a uno specifico stato di attivazione del circuito neurale che coinvolge l’amigdala e che media tra gli stimoli minacciosi e le reazioni di difesa.

Per alcuni, riduzionisti eliminativisti, il riconoscimento del ruolo di questo circuito neurale consentirebbe di dar conto della esperienza della paura in modo oggettivo, senza far riferimento a descrizioni che utilizzano un linguaggio psicologico introspettivo considerato non oggettivo e inaccurato.

Altri ritengono che il sentimento soggettivo della paura sia istanziato nell’amigdala, vale a dire che essa sia il substrato della esperienza della paura. Un terzo approccio, quello proposto in precedenza da Joseph Ledoux stesso, ipotizza l’esistenza di due circuiti della paura, uno subcorticale e inconscio, l’altro corticale, prefrontale e conscio. Il primo, implicito, renderebbe ragione delle reazioni fisiologiche e comportamentali della paura, il secondo, esplicito, della esperienza soggettiva della paura.

Joseph Ledoux: tra paura e difesa

In realtà, suggerisce Ledoux, il termine “paura” va riservato soltanto alla esperienza conscia della paura, mentre il termine “paura” non andrebbe proprio utilizzato quando si parla del circuito sottocorticale che coinvolge l’amigdala. Questo andrebbe denominato, invece, circuito della difesa e della sopravvivenza, la cui attivazione non è una condizione necessaria e nemmeno sufficiente per provare l’emozione di paura. Infatti:

  • L’esperienza soggettiva di ansia e paura non correla bene con le misure di risposte fisiologiche e comportamentali di difesa
  • Pazienti con danni della amigdala non hanno le normali risposte fisiologiche alle minacce, ma hanno l’esperienza soggettiva della paura e del panico
  • Minacce processate soltanto a livello inconscio implicano un aumento della attività della amigdala e attivano risposte fisiologiche periferiche, anche quando la persona rimane inconsapevole della minaccia e non sperimenta la paura
  • L’esperienza della paura non è connessa ad un singolo circuito subcorticale ma anche a circuiti coinvolti nella termoregolazione, equilibrio dei liquidi corporei, regolazione della energia oltre a quelli più noti connessi con la difesa dai predatori.

In sintesi, Joseph Ledoux trae alcune conclusioni. Il termine “paura” va riservato all’esperienza conscia della paura e non va utilizzato per l’attivazione del circuito della amigdala. L’esperienza soggettiva della paura emerge in circuiti corticali come risultato della integrazione di informazioni nella memoria di lavoro, informazioni che riguardano rappresentazioni sensoriali e vari ricordi, informazioni che possono provenire anche dalla attivazione del circuito cerebrale che coinvolge l’amigdala e dedicato alla difesa e alla sopravvivenza, e anche dai feedback che provengono dalle risposte corporee.

Il circuito che coinvolge l’amigdala va denominato circuito di difesa e sopravvivenza e la sua attivazione non è una condizione né necessaria né sufficiente per l’esperienza soggettiva della paura. L’esperienza della paura è assemblata nella corteccia, in particolare in quella prefrontale, e non nelle strutture sottocorticali.

Può essere interessante aggiungere un dato emerso da un nostro esperimento (Couyoumdjian, 2016). L’ipotesi era che la riduzione della valutazione negativa della propria emozione di paura, in soggetti con fobia specifica, avrebbe ridotto la paura degli stimoli fobici. I partecipanti erano pazienti con fobia specifica e con un problema secondario, cioè valutavano negativamente se stessi per il fatto di avere la fobia. Ad esempio, molti di loro si giudicavano fifoni e vigliacchi. Con un intervento strettamente cognitivo, il doppio standard, abbiamo ridotto la valutazione negativa che davano di se stessi per la loro fobia.

Il risultato è stato che la reazione fisiologica (misurata tramite la Hearth Rate Variability) di fronte allo stimolo fobico si riduceva significativamente, ma non si modificava l’esperienza soggettiva di paura (misurata tramite Visual Analogue Scale introspettive).

L’aspetto interessante non è tanto l’indipendenza del vissuto di paura dalla reazione fisiologica, che è un fatto ben noto e ampiamente argomentato da Joseph Ledoux, quanto piuttosto che un intervento strettamente cognitivo abbia modificato la reazione fisiologica, che si presume essere sottocorticale, ma non l’esperienza soggettiva della paura, che si presume essere corticale.

L’esperienza TED: innovazione nella divulgazione scientifica

TED, acronimo di Technology, Entertainment and Design, è un’organizzazione no-profit che ben 33 anni fa, nel 1984, ha intrapreso la sua opera di divulgazione scientifica organizzando in America, nella Silicon Valley, una conferenza di quattro giorni in cui confluivano i tre grandi temi originari: tecnologia, intrattenimento e design.

 

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre”, diceva una delle menti più aperte e geniali che abbiamo conosciuto, Albert Einstein. Una mente aperta è una mente in grado di apprendere, di confrontarsi, di mettere in discussione idee, integrarle, cambiarle, rivoluzionarle. Per poter fare ciò, è necessario esporsi alla novità e considerare nuovi punti di vista. Il TED è un po’ tutto questo. Un’esperienza che ci permette di entrare in contatto con realtà molto distanti dalla nostra, che probabilmente non avevamo nemmeno mai considerato, con estrema semplicità.

Cos’è TED?

TED, acronimo di Technology, Entertainment and Design, è un’organizzazione no-profit che ben 33 anni fa, nel 1984, ha intrapreso la sua opera di divulgazione scientifica organizzando in America, nella Silicon Valley, una conferenza di quattro giorni in cui confluivano i tre grandi temi originari: tecnologia, intrattenimento e design. Dopo quella prima conferenza, dovettero passare circa sei anni prima che ne venisse organizzata un’altra (un vuoto dovuto principalmente a motivi economici). Nel 1990 però si ripartì con una nuova conferenza a Monterey, in California, per poi diventare un appuntamento annuale. I temi affrontati si allargarono, fino a comprendere le discipline più disparate, attraverso interventi indirizzati ad un uditorio aperto e curioso verso nuove scoperte e idee innovative. I relatori appartenevano alle categorie professionali più diverse, tra cui scienziati, filosofi, musicisti, uomini d’affari, leader religiosi, e molti altri ancora.

Fino al 2001, però, il TED rimase un’esperienza circoscritta alla sola città californiana. Quindi, tra il 2001 e il 2006 ci fu un’ulteriore grande apertura. Nacquero infatti tre rami del TED: TED Global, che annualmente organizza conferenze in tutto il mondo, TED Prize, che stanzia un premio da 1 milione di dollari per realizzare idee innovative in grado di migliorare il mondo (!), e TED Talk, che pubblica online i contributi migliori. A seguire, si formarono nuove forme di TED, tra cui il TEDx nel 2008, che replica il format del TED in eventi locali ed indipendenti, ed il TED-Ed nel 2012, che pubblica brevi video-lezioni sui temi più vari.

Attualmente, l’appuntamento annuale della TED Conference è a Vancouver, in British Columbia.

Come si può leggere sul sito web, la mission dell’organizzazione è sempre stata quella di diffondere al grande pubblico il sapere di menti curiose, in modo semplice e coinvolgente. Non a caso, il nome completo dell’organizzazione è TED – “Ideas worth spreading”, ovvero “idee che meritano di essere diffuse”.

Ormai moltissime città italiane organizzano fantastici eventi TED, basta cercare in uno dei siti internet riportati in bibliografia.

Esperienza TED la divulgazione scientifica tra realta distanti con estrema semplicita - Imm1

Imm1 – Foto scattata al TEDxRoma 2017. Speaker: Philip Zimbardo

Qual è il format del TED?

Il TED ha poche regole, ma chiare e precise.

Primo, ogni relatore ha a disposizione al massimo 18 minuti per parlare del suo argomento. Può sempre controllare lo scorrere del tempo tramite un counter che ha di fronte a sé sul palco.

Secondo, bisogna utilizzare un lessico semplice e di facile comprensione, non troppo tecnico, ma allo stesso tempo accattivante, in modo da farsi comprendere e far appassionare anche i non esperti del settore.

Terzo, è caldamente consigliato utilizzare supporti audio o video per essere il più possibile coinvolgenti.

Denominatore comune, infine, è il caratteristico pallino rosso entro i cui confini il relatore deve cercare di rimanere durante il suo intervento.

Non resta che farsi trascinare dagli entusiasmanti eventi TED!

Anche per i geni il tempo è importante – Ritmi circadiani e la trascrizione del DNA

Il detto “c’è una stagione per tutto” è molto usato e attualmente una nuova ricerca mostra che è calzante anche a livello molecolare! Uno studio del Salk Institute, in California, pubblicato sulla rivista Science, ha rilevato che l’attività di circa l’80 percento dei geni segue un ritmo giorno-notte in molti tipi di tessuti e regioni del cervello.

 

I ritmi circadiani dei geni

Mentre gli scienziati sanno da tempo che molti tessuti seguono questi cicli, detti ritmi circadiani, questo è lo studio più completo che collega queste tempistiche alla trascrizione genica (il processo di copiare il DNA nell’RNA per guidare l’assemblaggio delle proteine).

Questa è la prima volta che viene stabilita una mappa di riferimento dell’espressione genica quotidiana“, dice Satchidananda Panda, professore nel Laboratorio di biologia regolatoria di Salk e autore senior del giornale. “E ‘un quadro per capire come la disregolazione circadiana possa concorrere a causare molti disturbi fisici e mentali, con un enorme impatto sulla comprensione dei meccanismi o l’ottimizzazione delle cure“.

Utilizzando il sequenziamento dell’RNA, il team di ricerca ha monitorato l’espressione genica in dozzine di diversi tessuti primati non umani ogni 2 ore per 24 ore. Il team ha scoperto che ogni tessuto conteneva geni espressi a diversi livelli in base all’ora del giorno. Tuttavia, il numero di questi geni “ritmici” variava in base al tipo di tessuto: da circa 200 nei linfonodi pineali, mesenterici, midollo osseo e altri tessuti a più di 3.000 nella corteccia prefrontale, nella tiroide, nel muscolo gluteo etc.. Inoltre, i geni che sono stati espressi più spesso tendevano a mostrare più ritmicità o variabilità nel tempo.

Dei 25.000 geni nel genoma dei primati, quasi 11.000 erano espressi in tutti i tessuti. Di quelli (che per lo più governano le funzioni cellulari di routine, come la riparazione del DNA e il metabolismo energetico), il 96,6 percento erano particolarmente ritmici in almeno un tessuto, variando drasticamente durante il campionamento.

Nella maggior parte dei tessuti, la trascrizione genica ha raggiunto il picco al mattino presto e nel tardo pomeriggio e si è calmata la sera dopo cena, prima di andare a dormire. Con l’81,7 per cento dei geni codificanti proteine, che sperimentano un effetto ritmico, questo meccanismo di temporizzazione è molto più diffuso di quanto si sospettasse in precedenza.

Discussione dei risultati e implicazioni cliniche

Questi risultati forniscono nuove intuizioni che potrebbero influenzare il modo in cui la ricerca scientifica viene convalidata. Ad esempio, gli scienziati che cercano di replicare il lavoro precedente possono prestare maggiore attenzione a quando sono stati condotti specifici esami“, dice l’autore co-senior della carta Howard Cooper. Oltre a fornire nuove informazioni su nuovi metodi di ricerca, questo meccanismo di sincronizzazione molecolare potrebbe anche avere un impatto sull’efficacia dei farmaci. In futuro, i medici potranno fornire ai pazienti istruzioni più dettagliate su quanto spesso e in quale momento della giornata assumere determinati farmaci.

Dimostriamo che oltre l’80% dei target di farmaci approvati dalla FDA sono ritmici in almeno un tessuto“, dice Ludovic Mure, ricercatore dello staff di Salk.
L’atlante dell’espressione genica del team Salk potrebbe anche aiutare gli scienziati a chiarire come gli stili di vita che prevedono una disregolazione dei riti circadiani possano influire sulla salute umana. Questo potrebbe applicarsi ai lavoratori in turni o a chiunque si allontani regolarmente dal ciclo giorno-notte.

Questo è un elenco di come i geni sono espressi differenzialmente in diversi organi e questo ci fornirà un quadro per capire se il lavoro a turni e altre interruzioni cambiano il modo in cui i geni sono espressi“, ha detto Panda. “Per la precedente ricerca sul ritmo circadiano, non avevamo un riferimento, quindi è come avere un genoma di riferimento umano.”

La paura della Paura: conversazione con Sandra Sassaroli – Podcast –

La Dott.ssa Sandra Sassaroli, fondatrice delle scuole di Psicoterapia del gruppo Studi Cognitivi, ha partecipato alla trasmissione radiofonica Dialoghi in città.

 


Registrazione della puntata del 12 febbraio 2018 della trasmissione radiofonica “Dialoghi in Città”, a cura di Gennaro Matino. Ospite: Prof.ssa Sandra Sassaroli.


 

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2° Summit Internazionale – Behavior Analysis e Autism in Higher Education: Advances e Opportunities, Stoccolma – Report

Si è tenuto nei giorni scorsi a Stoccolma il Secondo Summit su ABA, autismo ed educazione superiore. Il Summit ha visto la partecipazione di studiosi di analisi del comportamento di vari Paesi europei: Grecia, Regno Unito, Islanda, Norvegia e Svezia, e di chi scrive in rappresentanza dell’Italia.

 

Autismo e analisi comportamentale

Erano presenti alcuni colleghi di università statunitensi, Shahla Alai Rosales, James Todd, Samuel Odom e Gail McGee, oltre a Jim Carr, CEO del Behavior Analyst Certification Board, l’agenzia che ha sede negli Stati Uniti e certifica la formazione degli analisti del comportamento che lavorano nel campo dei trattamenti per l’autismo, accompagnato da Neil Martin, Responsabile dell’International Development del BACB.

Obiettivo del Summit era riunire ricercatori e studiosi internazionali per dibattere alcune questioni relative all’istruzione universitaria in riferimento all’analisi comportamentale e alla sua relazione con l’autismo, prendere in considerazione orientamenti in politica sanitaria e formare nuove partnership internazionali.

Data la familiarità dei partecipanti con i temi trattati, ogni presentatore ha potuto entrare direttamente in medias res, evidenziando tre o quattro questioni centrali che sono servite a promuovere una discussione produttiva tra tutti i partecipanti. I documenti, una volta redatti, saranno pubblicati su un numero speciale dell’European Journal of Behaviour Analysis.

2° Summit Internazionale su Analisi del Comportamento e autismo - Report

Che cosa è emerso dal Summit?

Due cose principalmente: una differenza radicale tra Stati Uniti e Unione Europea, e una sostanziale omogeneità tra paesi del Nord e del Sud Europa per quanto concerne i servizi per le persone con autismo e la formazione degli operatori per questi servizi.

In altre parole, abbiamo verificato una convergenza generale sulla tipologia di trattamenti comportamentali intensivi e precoci, necessari ed efficaci per l’autismo, pur applicati con modalità che presentano accenti differenti in termini di caratteristiche dei programmi: ad esempio modelli più direttivi e strutturati accanto a modelli più naturali ed ecologici. Negli Stati Uniti, tuttavia, manca un sistema di welfare paragonabile a quello presente nella maggioranza degli stati europei: pertanto il ruolo di diagnosi e cura, svolto in UE dai nostri diversi Servizi Sanitari Nazionali è prevalentemente assicurato da professionisti forniti e pagati da assicurazioni private, oppure da centri specializzati, finanziati da enti privati o dai singoli Stati.

Ricordiamo, en passant, che la necessità di garantire la preparazione professionale degli Analisti del Comportamento, nata pionieristicamente negli anni ’70, ma sviluppata a livello nazionale, grazie al prezioso lavoro di Jerry Shook, a cavallo della fine del secolo, nasce proprio su richiesta delle assicurazioni, che com’è noto, prima di scucire un dollaro, vogliono essere certe di pagare per qualcosa di realmente efficace. Del resto bisogna ricordare che erano rimaste scottate non molti anni prima dalla vicenda dei trattamenti psicoterapeutici psicoanalitici, lunghi, costosi e dimostratisi privi di efficacia.

Una profonda differenza esiste tra USA e UE per quanto riguarda la formazione universitaria degli Analisti del Comportamento. In nessun Paese europeo, almeno fra quelli presenti al Summit, ma mi sento di poter generalizzare l’affermazione anche agli assenti, c’è un riconoscimento formale del profilo dell’Analista del Comportamento, e conseguentemente della Certificazione del BACB. L’analisi del comportamento, come accade da noi in Italia, è insegnata all’interno di poche università e sotto mentite spoglie, all’interno del corso di Psicologia Generale. Non esiste una laurea in Analisi del comportamento, non esiste un profilo professionale di analista del comportamento a livello sanitario o socio sanitario.

Conseguentemente anche la certificazione BCBA non possiede un valore legale/formale. Per colmare questo vuoto è stata fondata SIACsa, la Società Italiana degli Analisti del Comportamento in campo sperimentale e applicato, che pubblica un registro di professionisti che hanno ottenuto una formazione professionale di alto livello, valutata e garantita da un Board Internazionale.
Esistono Master, universitari e non, che rilasciano diplomi, anch’essi privi di valore legale/formale, quindi valutabili esclusivamente sul piano della qualità della preparazione professionale che forniscono: ricordiamo che in Italia il termine Master è una sorta di catch-it-all che designa molte, troppe cose. Ma su questo argomento torneremo presto in un prossimo articolo.

L’ultima informazione che riporto da Stoccolma è che la rivista The Behavior Analyst, organo dell’Associazione per l’Analisi del Comportamento, non esiste più. È stata sostituita da Perspectives on Behavior Science An Official Journal of the Association for Behavior Analysis International. Il tempo ci dirà se questo cambio di titolo implica anche una differente linea editoriale. Di sicuro non c’è più spazio per “we few, we happy few” (S. Hayes, corrispondenza personale), e non è più tempo per l’arrogante scientismo che caratterizza alcuni sedicenti scienziati comportamentisti da noi altri.

Femminicidio: la psicologia di un delitto. Tratti personologici di vittima e carnefice.

Vi è una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima

Bulgarelli Alessandra, Lai Elisa – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

L’origine del termine Femminicidio

Il termine Femminicidio è un neologismo attestato solo da pochi anni che fa riferimento alla violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

Come “omicidio di una donna in quanto donna” appare il violento e brutalissimo retaggio di una cultura patriarcale arcaica, in cui la donna è vista come proprietà dell’uomo (MacNish,1827). Vi è dunque una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima (Barbagli, 2013). La violenza che non sfocia in un gesto che provochi l’uccisione della vittima può, all’interno del rapporto personale o familiare, essere traumatica e dare l’avvio a disturbi post-traumatici da stress. In letteratura, sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti.

Sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti.

  • La sindrome di Stoccoloma domestica (Domestic Stockholm Syndrome, DDS) é una condizione psicologica in cui una persona, vittima di un sequestro o di una condizione di restrizione della propria libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si realizza come meccanismo di coping per fronteggiare le violenze intime. Le vittime, continuamente concentrate su come sopravvivere in una situazione cronica di fortissimo stress, cercano di controllare il loro ambiente per evitare almeno le violenze più gravi. La loro attività di strategizing (trovare strategie) le induce così a concentrarsi sulla bontà del loro carnefice piuttosto che sulla brutalità. La vittima arriva a convincersi di dover stare con il carnefice al fine di proteggere i figli e i parenti dalla violenza, fino ad arrivare a pensare che la propria sopravvivenza sia completamente nelle mani del suo abusante e che l’unico modo per sopravvivere sia di essergli fedele (Reale, 2011).
  • La sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome, BWS), individuata dagli studi di Leonore Walker (Walker, 2007) è simile alla sindrome di Stoccolma, ma si iscrive all’interno di un “ciclo della violenza” che si articola in una prima fase di accumulo della tensione, una seconda fase di aggressioni e percosse, e una terza fase di cosiddetta “luna di miele”. Quest’ultima fase “amorosa” di sollievo in realtà amplifica il disagio creando nella vittima speranze illusorie sul fatto che il partner possa cambiare e la violenza possa cessare (Walker, 2007). La Walker afferma che tale sindrome è comune tra le donne gravemente abusate: tra gli elementi che rendono estremamente complesso il loro quadro è il non esaurimento della speranza che il partner cambi, la dipendenza economica dal partner, la convinzione di poter gestire un equilibrio familiare tra un un’esplosione di violenza e la successiva, la paura di rimanere sola, la perdita di autostima, uno stato di depressione o la perdita dell’energia psicologica necessaria a iniziare una nuova vita (Danna, 2007).

Identikit psicologico delle vittime di femminicidio

Tracciando un identikit psicologico delle vittime di femminicidio, si è osservato (Baldry, 2006) come la determinazione familiare e culturale della violenza possa innescare quel meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che le vittime presentano. In passato si parlava di vis grata puellis (Betsos, 2009) in particolare in materia di violenza sessuale, o di “destino anatomico” che impone l’umiliazione alla donna.

Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è spesso citato il concetto di “incapacità appresa” (De Pasquali, 2009). Secondo questa ricostruzione, chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile. Uno studio sperimentale condotto da Martin Seligman nel 1967 (Musumeci, 2012) ha dimostrato che il cane che viene rinchiuso in una gabbia e a cui viene somministrata una scossa elettrica, dopo ripetuti tentativi di fuggire sempre frustrati dal fatto che la gabbia non consente all’animale la fuga, rinunceranno a cercare di sottrarsi anche una volta che venga loro mostrato che la gabbia è stata aperta. Gli esseri umani si comportano in modo analogo, l’addestramento alla rinuncia e la rassegnazione potrebbe essere simile. Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza (che sfocia spesso in femminicidio) c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative, e gli abusanti lo sanno bene, tant’è vero che l’isolamento e la violenza economica sono forme di abuso abitualmente praticate: in questi casi, scomodare il “masochismo” o parlare di collusione per donne prive di alternative sociali ed economiche è solo aggiungere ingiustizia all’ingiustizia.

Un altro fenomeno che occorre considerare nell’illustrare le dinamiche di comportamento delle vittime di femminicidio è il “legame traumatico” (Betsos, 2009). Si tratta di un termine impiegato nella letteratura per descrivere un legame potente e distruttivo che è talvolta osservato tra le donne maltrattate e i loro abusanti o tra bambini e i loro genitori (Dutton & Painter,1981). Esso permette di descrivere dunque certe situazioni in cui i forti legami emotivi che si possono formare tra le vittime e i loro oppressori risultano in una complessa serie di relazioni abusanti, quali ad esempio la Sindrome di Stoccolma. Le condizioni necessarie quindi al verificarsi di un vincolo traumatico sono due: il fatto che una delle persone coinvolta nella relazione abbia una posizione di dominio sull’altra, e che il livello di abuso compaia e scompaia cronicamente. Il rapporto cioè è caratterizzato da periodi di comportamenti partecipativi e affettuosi da parte del partner dominante, alternati ad episodi di abuso intenso, che possono poi sfociare in casi di femminicidio.

Nel ciclo di comportamenti relazionali, attribuiti a legame traumatico, il “vittimizzatore” impone forti punizioni, poi dopo aver dato un rinforzo negativo, che censura il comportamento “irregolare” della vittima, dismette il comportamento punitivo e si sposta a gratificare la vittima con rinforzi positivi. Questo modello di punizioni e rinforzi positivi può costituire una forma particolarmente potente di double bind e legittimare così nella vittima la paura di essere feriti o uccisi come reazione a una qualche mancanza, a un qualche atto di sfida o di autonomia o a una non conformità alle regole imposte o previste.

I risultati delle ricerche e delle teorie di Donald Dutton e Susan Painter (Dutton & Painter, 2009) risultano convincenti per quanto riguarda il motivo per cui le donne rimangano in relazioni violente, relazioni il cui triste epilogo è spesso il femminicidio. I due autori hanno rivisitato molti studi e ricerche sull’argomento e sono giunti alla conclusione che l’elemento forte che spiega il permanere in una situazione di violenza è l’intermittenza dell’ abuso. Molte donne hanno infatti descritto con espressioni di soddisfazione e gratificazione i periodi di riconciliazione intercorsi tra i momenti di violenza. Questo modello si mostra in sé perverso, in quanto conduce inevitabilmente a ignorare il problema della violenza e a considerarlo un’eccezione, un momento di aberrazione del rapporto che rimane, nella percezione complessiva della donna, come positivo.

Per mantenere il sopravvento il carnefice manipola il comportamento della vittima e limita la sua libertà di scelta al fine di perpetuare lo squilibrio di potere. Qualsiasi minaccia all’equilibrio può essere controllata con un ciclo crescente di punizioni che vanno da intimidazioni a esplosioni vere e proprie di violenza. Il carnefice inoltre isola la vittima da altre fonti di sostegno, cosa che riduce la probabilità di individuazione dei comportamenti abusanti e la capacità di intervento su di essi; altera la capacità della vittima di ricevere un punto di vista diverso da quello dell’abusante rafforzando così il senso di dipendenza unilaterale (Dutton & Painter, 2009).

Gli effetti traumatici di tali relazioni violente possono includere la compromissione della capacità della vittima di una corretta autovalutazione delle risorse personali, portando a un senso di inadeguatezza e a una percezione di dipendenza dalla persona dominante.

Le vittime possono anche incontrare una serie di spiacevoli conseguenze sociali e legali nel rapporto con qualcuno che commette atti aggressivi, anche se esse stesse sono le destinatarie delle aggressioni. Molte spiegazioni teoriche come ad esempio alcune teorie psicodinamiche (Horowitz & Mardi, 2001) chiamano in gioco il concetto di masochismo (Millon, 2004), di coazione a ripetere (Freud,2006), per spiegare come determinate vittime colludano con gli atti di vittimizzazione, mostrando una propensione verso i rapporti abusivi e i legami traumatici. Alla base di queste teorie vi è la teoria dell’attaccamento insicuro (Bowlby, 2000) che si è determinato nella storia infantile e nelle relazioni con le figure parentali. Questo legame traumatico si configura come una sorta di «elastico, che nel tempo si estende lontano da chi abusa e, successivamente, torna indietro» (Magaraggia & Cherubini, 2013). Non appena l’effetto della reazione immediata del trauma si abbassa, la forza del legame traumatico si rivela attraverso sia l’incremento della focalizzazione degli aspetti positivi della relazione, sia in un successivo e improvviso cambiamento del punto di vista della donna sulla relazione: si altera infatti la memoria sugli abusi passati e la previsione del ripetersi degli abusi nel futuro.

Nella storia del legame traumatico troviamo un altro fattore essenziale alla sua formazione: la gradualità, ovvero l’incremento graduale degli eventi abusivi (Magaraggia & Cherubini, 2013). Questo incremento è simile «ad un lento veleno la cui portata lesiva non può essere percepita nell’immediatezza dei fatti. Esso coopera con una forma di adattamento, compatibile con la permanenza del rapporto più che con la fuga dal rapporto» (Millon,2004). Così nella storia di questo rapporto troviamo che, soprattutto all’inizio della relazione, gli eventi d’abuso non sono percepiti come un’anomalia e ad essi non viene attribuito inizialmente il carattere di gravità. Inoltre, gli atteggiamenti di contrizione da parte dell’uomo successivamente agli incidenti violenti operano al fine di rafforzare l’attaccamento affettivo in un momento in cui non vi è cognizione che l’abuso si ripeterà, si aggraverà e diventerà ineludibile. Il ripetersi di episodi di maggiore gravità tenderà poi a formare la convinzione nella donna che la violenza si ripresenterà a meno che non faccia qualcosa per prevenirla.

Il Profilo del Femminicida

Relativamente alle strutture di personalità dell’ uomo abusante e dell’ uomo che commette femminicidio molti criminologi (Dutton,1981) hanno sottolineato la presenza, in questo tipo di delitto, di criminogenesi e di strutture personologiche improntate a fattori quali la prepotenza, la possessività, la protervia magari compensatoria, forse dettata da panico di fronte alla prospettiva dell’abbandono, ma in ogni caso fondata sulla mancata considerazione dell’altro con i suoi diritti e le sue esigenze.

Elbow (Elbow, 1977) descrive l’aggressore domestico secondo quattro tipologie:

  • Il controllatore: colui che teme che il proprio dominio e la propria autorità siano messi in discussione e che pretende un controllo totale sugli altri familiari;
  • Il difensore: che non concepisce l’altrui autonomia, vissuta perciò come una minaccia di abbandono, e sceglie quindi donne in condizione di dipendenza;
  • Colui che è in cerca di approvazione e deve continuamente ricevere dall’esterno una conferma per la propria autostima, mentre qualsiasi critica scatena una reazione aggressiva;
  • L’incorporatore: colui che tende ad un rapporto totalizzante e fusionale con la partner, e la cui violenza è proporzionale alla minaccia reale o alla sensazione di perdita dell’oggetto d’amore vissuta come catastrofica perdita di sé.

Questi soggetti devono compensare la propria modesta autostima, ma talora dimostrano veri e propri sintomi psicopatologici. Si tratta di dinamiche in cui il rapporto si gioca sul duplice piano della fusionalità e della relazione dominante/dominato. Il soggetto è coinvolto in un rapporto che ha assunto per lui significato totalizzante: l’altro è così importante o “invadente” da essere ormai parte della vita e dell’identità stessa dell’attore. Altri autori ancora (Killmartin,1977) ravvisano fra i mariti violenti soggetti con disturbi di personalità, individui cioè con una preciso quadro diagnostico psichiatrico, per alcuni dei quali la violenza in famiglia non è che uno degli aspetti di un più generale pattern violento, mentre per altri il comportamento abusante di “controllo e potere” si esplicita solo entro le mura domestiche.

Nel caso del disturbo di personalità si corre però il rischio della tautologia; i disturbi di personalità, infatti, si caratterizzano almeno in parte proprio perché chi ne è affetto si discosta dalla “norma” comportamentale e statistica, piuttosto che dalla “normalità” medica; si puo’ correre il rischio di effettuare una diagnosi di disturbo di personalità in presenza di delitti gravi.

Il DSM-5 fornisce la seguente definizione dei disturbi di personalità “La caratteristica essenziale di un Disturbo di Personalità è un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo […]. La valutazione del funzionamento della personalità deve prendere in considerazione l’ambiente etnico, culturale e sociale dell’individuo” (DSM-5, 2014).

Isabella Betsos (Betsos, 2009) distingue alcune tipologie di uomo abusante:

  • I narcisisti, che hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro. Questi soggetti si nutrono dello sguardo altrui, e più che di amore necessitano di ammirazione e di attenzione continua. Nella coppia, sono dominatori e attraenti, e cercano di sottomettere e isolare la compagna. Il narcisista cerca la fusione e ha bisogno di fagocitare l’altro.
  • I soggetti con “disturbo antisociale di personalità”, in passato denominati psicopatici e sociopatici. Essi soffrono di un disturbo di personalità caratterizzato principalmente da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, la messa in atto di azioni eteroaggressive; le persone con questo disturbo, infatti, non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, come ad esempio distruggere proprietà, truffare, rubare, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi, quali il mentire, il simulare, l’usare false identità, traendone profitto o piacere personale. Elemento distintivo del disturbo è, inoltre, lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni, per cui i soggetti con disturbo antisociale di personalità, dopo aver danneggiato qualcuno, possono restare emotivamente indifferenti o fornire spiegazioni superficiali dell’accaduto. Altre caratteristiche rilevanti del disturbo antisociale sono l’impulsività e l’aggressività. La prevalenza del disturbo antisociale di personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e l’1% nelle femmine.
  • Gli individui che presentano un “disturbo borderline di personalità” (DBP): tale quadro psicopatologico è caratterizzato da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Gli individui con disturbo borderline della personalità possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. I soggetti con disturbo borderline presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione: possono, ad esempio, dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”. I rapporti iniziano generalmente con l’idea che l’altro, il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono. Ma è sufficiente un errore, una critica o una disattenzione, che l’altro venga catalogato repentinamente nel modo opposto: minaccioso, ingannevole, disonesto, malevolo. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
  • I perversi narcisisti, allo stesso tempo più controllati e controllori, ma il controllo non è esercitato attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna. “Nei perversi è l’invidia a guidare la scelta del partner. Si nutrono dell’energia di quelli che subiscono il loro fascino. E’ per questo che scelgono le loro vittime tra le persone piene di vita, come se cercassero di accaparrarsi un po’ della loro forza. Oppure possono scegliere la loro preda in funzione dei vantaggi materiali che può procurare.” (Hirigoyen, M. 2006).
  • Le personalità paranoiche, coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale, e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici secondo i quali la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Costantemente sospettosi e diffidenti, temono complotti ai loro danni anche da parte del coniuge, e la loro gelosia talora sfocia nella patologia vera e propria. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa. Se minacciati di abbandono o abbandonati, nella migliore delle ipotesi metteranno in atto comportamenti di stalking senza però giungere all’uxoricidio.

Costanzo (Costanzo, 2003) individua nella gelosia il movente dell’ uxoricidio e del femminicidio, distingue una “gelosia di tipo competitivo” di quei soggetti che soffrono per aver perduto l’oggetto d’amore ma insieme sentono la perdita come una diminuzione della propria autostima, per i quali l’amore si fonda sulla dipendenza, e che sono incapaci di amore autentico perché tesi al soddisfacimento dei propri bisogni narcisistici, da un secondo tipo di uxoricidi per «gelosia di tipo proiettivo», i quali riversano sul coniuge i propri desideri non riconosciuti di infedeltà. Una terza forma di gelosia, segnata da una patologia vera e propria, è quella del coniuge gravato da delirio di gelosia, spesso accompagnata da cronico alcolismo (Costanzo, 2003).

Tra i fenomeni psicopatologici dell’etilismo cronico sono tipici i deliri di gelosia, cioè convincimenti erronei sull’infedeltà del partner, facilitati anche dalla diminuita efficienza sessuale: tale delirio risulta anche favorito dall’atteggiamento di rifiuto che generalmente si manifesta in famiglia nei confronti dell’etilista sia da parte del coniuge e dagli altri membri della famiglia (Ponti & Betsos, 2014).

Una possibile spinta motivazionale ai delitti contro la partner e al femminicidio potrebbe essere ricercata quindi nell’insicurezza sessuale: si tratta di delitti d’impeto che non riuscendo a sostenere un rapporto sessuale, uccidono la partner femminile e nel contempo distruggono quel simulacro angoscioso che rappresenta, per loro, il fallimento (Ponti & Betsos, 2014).

L’abuso di alcol è citato come fattore criminogenetico in generale e in particolare correlato alla violenza di coppia (Ponti & Betsos, 2014): il bere porta a sovrastimare l’ostilità e le minacce altrui, e questo a sua volta favorisce condotte aggressive. L’attribuzione di episodi violenti a stati di ebbrezza appare una tecnica di neutralizzazione, e anche il consumo di alcol non è che un sintomo, come la violenza, non un fattore casuale.

Combinando le dimensioni delle caratteristiche di personalità, della gravità delle violenze, Monroe e Stuart (Monroe & Stuart, 2004) descrivono:

  • un aggressore dominante-narcisista: per il quale la violenza è al servizio del controllo sulla partner al fine di affermare la propria fragile autostima;
  • il geloso-dipendente: che utilizza la violenza sempre in funzione del controllo, ma soprattutto nel timore dell’abbandono da parte della compagna;
  • gli aggressori antisociali: caratterizzati in realtà da diversi livelli di gravità, ma accomunati dalla caratteristica di praticare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, come pattern generale di violazione dei diritti altrui.

Distinzione non molto dissimile, proposta da Dixon e Browne (Baldry & Roia, 2003), è quella tra i violenti solo in famiglia, che risultano essere i meno gravati da disturbi psicopatologici; i disforici-borderline, segnati da sintomi patologici e in particolare da ansia, depressione, estrema labilità emotiva; e i generalmente disforici-antisociali che si configurano come i più violenti di tutti, caratterizzati da precedenti penali e abuso di sostanze ed eredi di quadri familiari violenti. Mentre per i primi la violenza è soprattutto di tipo espressivo, scaturisce cioè da emotività non controllata, per i disforici-borderline e i violenti-antisociali si tratta di violenza “strumentale”, dettata da specifiche finalità e premeditata.

Dixon e Browne sostengono che circa il 25% dei maltrattanti è costituito di violenti solo in famiglia, ma anche il 25% è costituito da violenti/antisociali, e alla terza categoria, i borderline/disforici, apparterrebbe il restante 25%. Questi tipi si differenzierebbero anche rispetto ad altri fattori, alcuni dei quali culturali, come il livello di violenza subita o a cui si è assistito durante l’infanzia, l’impulsività, la presenza o l’assenza di atteggiamenti che supportano o giustificano la violenza.

Statistiche italiane sul femminicidio

Per lo specifico quadro italiano, l’Istat informa (www.istat.it) che il partner violento è un soggetto fisicamente violento anche al di fuori della famiglia (35,6%), verbalmente violento anche al di là delle mura domestiche (25,7%). Inoltre nel 2006 il 74% degli autori di violenza era in partner o l’ex-partner della vittima, nel 2007 il 58% degli autori sono in partner o l’ex partner, nel 2008 il 54%, mentre nel 2009 il 63%, nel 2010 il 54% fino ad arrivare al dato rilevato lo scorso anno: il 65% degli autori è ora legato alla vittima da un rapporto sentimentale.

La correlazione tra l’uso degli smartphone e la felicità tra gli adolescenti

Uno studio californiano, condotto presso la San Diego State University, dal professore e psicologo Jean Twenge e dai suoi colleghi, ha indagato il collegamento tra il benessere degli adolescenti americani ed il tempo che passano sullo smartphone.

 

Gli adolescenti che usano di più gli smartphone sono meno felici

Twenge è autore del libro “iGen: perché oggi i ragazzi Super-connessi crescono meno felici e completamente impreparati per l’età adulta” (2017), un manuale sull’argomento social, adolescenza e infelicità.

L’autore ha iniziato questo tipo di studi rafforzato dalla letteratura che – per quanto cita l’autore- mostra un calo dell’autostima e della felicità dei giovani dopo il 2012, anno in cui la percentuale di americani che possedevano uno smartphone è salito oltre il 50%. Infatti, in seguito a questa diffusione massiva degli smartphone è stato registrato un declino delle attività sociali dirette ed un calo della qualità del sonno.

I ricercatori si sono serviti dei dati emersi da uno studio nazionale (americano) longitudinale (Monitoring the Future, MtF) (Johnston et al., 2016), in cui venivano indagati i seguenti aspetti: utilizzo di smartphone, tablet e computer, utilizzo di droghe e alcool e diversi altri aspetti. Partendo da questi dati Twenge e colleghi si sono basati su topic quali il tempo trascorso al cellulare, tablet e computer, il livello di felicità dei ragazzi e le loro interazioni sociali senza mediazione di social e smartphone.

È emerso che gli adolescenti americani più dediti all’utilizzo dello smartphone (giocando ai videogame e facendo uso dei social media) erano più infelici di quegli altri adolescenti che investivano il loro tempo in attività che non coinvolgevano l’utilizzo di cellulari, quali sport, lettura di riviste e interazioni sociali faccia a faccia, uscendo a giocare/chiacchierare con gli amici. I ricercatori credono che sia il tempo dedicato all’utilizzo degli smartphone a fare la differenza: gli adolescenti che hanno riportato maggiori livelli di benessere e felicità hanno dichiarato di utilizzare i digital media per meno di un’ora al giorno.

Non è l’astinenza da smartphone a determinare la felicità, ma indubbiamente l’infelicità aumenta costantemente all’aumentare del tempo passato davanti allo schermo.

In conclusione, citiamo le parole dell’autore: “Punta a non spendere più di due ore al giorno sui media digitali e cerca di aumentare la quantità di tempo che trascorri vedendo gli amici faccia a faccia e facendo esercizio fisico – due attività collegate in modo affidabile a una maggiore felicità“.

Le nuove frontiere della ricerca sulla Malattia di Huntington

Una nuova ricerca della Rockefeller University, mostra che le anomalie neurali della Malattia di Huntington, diagnosticata tipicamente verso i 40 anni, sono evidenti già in fase embrionale. La scoperta appare di estrema importanza in quanto potrebbe fornire nuove evidenze riguardo questa malattia fatale che interferisce con la normale funzionalità neurale.

 

La malattia di Huntington potrebbe avere origine nelle prime fasi dello sviluppo

La maggior parte delle persone affette dalla Malattia di Huntington mostrano i primi sintomi in età adulta: il campanello d’allarme è rappresentato da movimenti a scatti seguito, con l’avanzare della malattia, dalla comparsa della demenza sintomo tipico presente in questi pazienti.

La nuova ricerca suggerisce che questi sintomi potrebbero essere una manifestazione tardiva della malattia, che avrebbe origine precocemente addirittura nelle prime fasi dello sviluppo embrionale. Il team di ricercatori, ricreando cellule staminali embrionali umane, ha potuto osservare anomalie precoci a livello dei neuroni coinvolti nella malattia di Huntington; nell’articolo pubblicato su Development è stato descritto il modo in cui queste cellule formano grandi strutture anomale che non erano mai state osservate né associate precedentemente alla malattia.

La nostra ricerca suggerisce che l’incipit della malattia di Huntington si verifichi subito dopo la fecondazione. Questo comporta, ovviamente, delle conseguenze durante l’arco di vita in quanto la malattia si verifica decenni dopo la nascita, quando i sintomi si manifestano” ha detto Brivanlou, uno degli autori dello studio. La Còrea di Huntington è una delle poche malattie che presenta una causa genetica ben precisa: il 100% delle persone che presentano la mutazione del gene Huntington (HTT) svilupperà poi la malattia. La mutazione, che avviene a livello del DNA, fa sì che il gene responsabile produca una proteina più lunga del normale con sequenze ripetitive anomale. La ricerca sulla Malattia di Huntington ha finora utilizzato la sperimentazione animale, tuttavia gli scienziati non sono in grado di spiegare la funzione che il gene HTT svolge normalmente né tanto meno come la sua mutazione infici il funzionamento cerebrale.

Sospettando che la malattia si presenti in modo diverso negli esseri umani, i cui cervelli sono molto più complessi degli animali, i ricercatori hanno posto l’attenzione sulle cellule. Utilizzando la CRISP (una tecnica di modificazione del DNA cellulare) gli scienziati sono stati in grado di creare una serie di cellule staminali embrionali identiche a quelle originali tranne che per il numero di ripetizioni presenti alle estremità dei geni HTT, responsabili della malattia. Il team ha scoperto che, mentre nel processo di divisione cellulare in genere ciascuna cellula conserva un solo nucleo, in alcune delle cellule mutate erano presenti fino a 12 nuclei. Questo ingigantimento influenzava la neurogenesi, ovvero la generazione di nuovi neuroni: più la mutazione cellulare presentava ripetizioni, più si osservavano neuroni multinucleati.

La necessità di trattamenti differenti nella malattia di Huntington

I trattamenti oggi impiegati per la cura della malattia di Huntington si focalizzano principalmente sul blocco dell’attività della proteina mutata HTT supponendo che la iper-attivazione di tale proteina provochi la morte cellulare; il lavoro del team newyorkese però volge verso una via opposta avanzando l’idea secondo la quale la causa sarebbe la mancanza di attività della proteina in questione. Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno creato linee cellulari in cui la HTT era completamente assente: queste cellule sono risultate essere molto simili a quelle coinvolte nella Còrea di Huntington confermando l’idea che sia la mancanza della proteina e non un eccesso di essa, a causare la malattia.

Alla luce di ciò, i risultati appaiono alquanto significativi in quanto evidenziano l’inefficienza e la dannosità dei trattamenti esistenti e la possibilità di svilupparne di nuovi. Le evidenze trovate possono essere un’utile risorsa per studiare ulteriormente le dinamiche cellulari e molecolari coinvolte non solo nella Malattia di Huntington ma anche nelle altre malattie neurodegenerative umane. Brivanlou ha concluso “Il nostro lavoro ipotizza un aspetto evolutivo della patologia mai considerato prima d’ora: la Còrea di Huntington potrebbe essere non solo una malattia neurodegenerativa ma anche una malattia del neurosviluppo”.

Quantum mind: un libro sulla fisica quantistica e le scoperte nella psicologia moderna

Quantum mind è un libro con un intento ardito; quello che si prefigge di fare l’ autore non è un compito facile ma nel complesso ci riesce molto bene. Il titolo, molto evocativo, rimanda immediatamente al tema che in questo lungo trattato (più di 500 pagine), viene affrontato e cioè una complessa disquisizione sulle implicazioni della fisica quantistica e le sue recenti scoperte nella psicologia moderna.

 

I temi della fisica quantistica e della spiritualità in Quantum mind

L’ autore Arnold Mindell ha conseguito un Master in Fisica al Massachussets Institute of Technology (MIT) di Cambridge e ha insegnato fisica nei corsi di “processwork” a Portland, Londra e Zurigo; inoltre nutre un profondo interesse per la psicologia e per lo sciamanesimo. E’ grazie alle esperienze fatte con le pratiche sciamaniche in diverse parti del mondo che giunge alle riflessioni esposte in Quantum mind.

Tutto il libro è un viaggio attraverso concetti molto complessi soprattutto per chi non è del campo inerenti la fisica quantistica, la matematica quantistica, lo sciamanesimo, la psicologia e la spiritualità. Il lettore che non ha esperienza di questi temi potrebbe sentirsi spaventato, ma qui risiede il bello di questo testo, tutti gli argomenti sono trattati in una maniera estremamente semplice, ricca di esempi che aiutano la comprensione, di esercizi che aiutano a fare piccole esperienze per poter saggiare le argomentazioni esposte. Nel libro vi è spazio anche per il lettore più curioso che necessita di approfondimenti tecnici su concetti matematici e fisici con molti rimandi nelle note ad argomenti più specifici.

Fisica, matematica e psicologia

Il Focus di Quantum Mind si concentra essenzialmente sul dimostrare come la fisica e la matematica che sembrano poter spiegare ogni fenomeno, in realtà sono in grado di descrivere solo una piccola parte della realtà, queste due discipline per poter trascendere il limiti della realtà materiale e spiegare fenomeni altrimenti incomprensibili necessitano della psicologia.

Al termine psicologia nel testo viene dato un senso molto lato indicando i peculiari aspetti dell’ esperienza umana costituita da emozioni, percezione, spiritualità, simbolismo etc.. A detta dell’ autore solo restituendo valore a quest’ultima e operando una congiunzione tra le due discipline possiamo comprendere fenomeni complessi appartenenti alla fisica quantistica e a esperienze spirituali profonde. Questa dualità non è mai esistita nella cultura dello sciamanesimo che dai suoi albori non ha mai operato una distinzione tra mondo materiale e spirituale e che quindi detiene comprensioni profonde che oggi la fisica dei quanti ci restituisce in termini scientifici.

Come si intuisce, il tema è ampio e complesso ma estremamente affascinante poiché in linea con un pensiero psicologico che sempre più si fa largo nella letteratura scientifica attuale. Rimando al fortunato lettore di questo testo l’ approfondimento sul tema. Mi limito a precisare ulteriormente che questo è un testo che affronta argomenti complessi, attraverso speculazioni scientifiche intente a operare una visione unificata dell’essere umano, utilizzando teoremi, formule e numeri.

Quantum Mind può essere un ottimo primo approccio al mondo della fisica quantistica e all’utilizzo di questa per approfondire la scienza dell’ essere umano.

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