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La lotteria per la vita: il fenomeno migratorio tra accoglienza e informazione – Report dal Convegno di Palermo

Quali le verità e le tragedie umanitarie e quali i luoghi comuni che ostacolano una visione chiara della migrazione, in taluni casi “remando contro” un’efficace politica di integrazione e instillando l’idea del migrante come pericolo, minaccia? Questi i temi caldi dell’evento formativo tenutosi a Palermo lo scorso 15 febbraio all’interno della cornice dell’Assemblea Regionale siciliana e dal titolo forte “La lotteria per la vita”.

 

Emergenza migranti, aiuti umanitari, assistenza, integrazione: termini comunemente legati al fenomeno migratorio che impegna le politiche sociali e la comunità tutta in azioni empatiche, incisive, tempestive, coordinate e orientate al benessere di esseri umani a cui, per varie ragioni, è stata sottratta la possibilità di una vita dignitosa.

Assistenza, vicinanza emotiva e pratica, concrete realtà favorite dall’opera di sensibilizzazione ai bisogni di chi ha perso tutto o rischia di perderlo: ecco il ruolo di una corretta informazione mediatica sul fenomeno, essenziale per una presa di coscienza collettiva della gravità della situazione che affligge queste popolazioni, che si traduca in reale supporto.

Chi sono allora e da cosa fuggono i migranti che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste, che, attraversando insidie e incertezze, scommettono su una “lotteria della vita” che restituisca loro il sogno di uomini liberi?

Quali le verità e le tragedie umanitarie e quali i luoghi comuni che ostacolano una visione chiara della migrazione, in taluni casi “remando contro” un’efficace politica di integrazione e instillando l’idea del migrante come pericolo, minaccia?

Questi i temi caldi dell’evento formativo tenutosi a Palermo lo scorso 15 febbraio all’interno della cornice dell’Assemblea Regionale siciliana e dal titolo forte “La lotteria per la vita”, a sottolineare le lotte disperate, senza punti fermi, di chi fugge dal conflitto e dalla morte per ricercare altrove un “porto sicuro”, nell’incertezza costante di potervi approdare in sicurezza, guadagnandosi la salvezza e una nuova e più dignitosa opportunità di vita.

Un evento che ha coinvolto esperti del settore, politici e giornalisti nell’intento comune di delineare la figura del migrante, sfatando il rischio di un’informazione parziale o ingannevole capace di creare falsi e pericolosi miti su quella che non può non definirsi a pieno titolo tragedia umana.

I migranti che sbarcano presso le coste siciliane provengono da differenti territori e sono mossi da motivazioni che variano dalle persecuzioni personali alle guerre alla povertà – spiega Guglielmo Mangiapane, fotoreporter della Reuters-LaPress – Molti scappano da un pericolo maggiore verso l’ignoto, percepito comunque come pericolo minore. Alcuni non hanno mai visto il mare, come accade per chi proviene dall’Africa Subsahariana, non sanno nuotare e la vista del mare rappresenta un momento estremo di gioia. Gioia che si tramuta spesso in dubbio su un dopo percepito come incerto, dopo un viaggio della speranza che lascia alle sue spalle morti, feriti, dispersi, mortificazioni corporali e umiliazioni, ma che ha anche portato nuove vite che nascono proprio su quei barconi improvvisati. Ecco il ruolo essenziale del mediatore culturale nel comunicare per primo problemi di salute e nel garantire un approdo meno traumatico possibile con una cultura nuova, con un ambiente da conoscere e a cui affidarsi”.

Una visione che restituisce l’immagine di un bisogno estremo di cure, di libertà di espressione; una cornice di tristezza e coraggio per chi affronta traversate impervie.

Raccontare le reali storie di miseria e fuga, al di là di ogni pietismo o stigmatizzazione, è compito elevato di un’informazione al servizio dei cittadini, e un’informazione di questo tipo deve evitare errori grossolani che rischiano di diffondere falsi allarmismi, pregiudizi e che scandalizzi oltremodo sulla penosità in cui può versare la condizione umana.

Esiste un’informazione tendenziosa in grado di distorcere la realtà, per eccesso o difetto, della tragicità legata alla migrazione – racconta Lidia Tilotta, giornalista TGR Sicilia – È compito deontologico di noi giornalisti evitarla e segnalare un suo utilizzo improprio. Per esemplificare, preferire un’informazione da contabilità, puntando più sui numeri dei migranti sbarcati che sui loro vissuti, non sviluppa empatia e anzi produce allarmismi, se unita a termini come invasione epocale. Anche utilizzare termini come clandestino ha un effetto ghettizzante, così come enfatizzare crimini commessi da stranieri perché fa più scalpore. Si tratta peraltro di dati errati: l’Eurostat calcola, tra il 2008 e il 2015, un aumento delle denunce per crimini per gli italiani del 7% e una diminuzione dell’1% per gli stranieri. L’ottica in cui porsi inoltre non può essere inoltre quella caritatevole, sensazionalistica, pietistica, ma del diritto all’accoglienza, anche per evitare conflitti. Un’accoglienza reale significa diversità, arricchimento, mentre la paura per l’immigrato che delinque o ruba il lavoro genera odio, il quale allontana integrazione e accoglienza. E noi giornalisti abbiamo il compito di non fomentare un clima d’odio nella Comunità, una responsabilità che condividiamo con la politica”.

Gruppo: la nuova edizione del libro di Claudio Neri (2017) – Recensione

Claudio Neri torna con un’edizione aggiornata di un volume che è considerato un classico della psicoterapia di gruppo analitica, già tradotto in varie lingue nella sua prima edizione.

Igor Pontalti

Il gruppo non è la somma di singoli individui

Nella prima parte, dopo un essenziale excursus storico, si parte con la disamina del concetto di aggregazione di individui e correlandolo alle fasi iniziali di una terapia di gruppo, come questa aggregazione multiforme si organizzi psicologicamente fino a costituire un campo mentale che si rapporta in modo biunivoco con i vari partecipanti al gruppo costituendone qualcosa di diverso dalla semplice somma di esperienze individuali.

Questo processo è spesso poco analizzato e valorizzato nella psicoterapia di gruppo che abitualmente è concepita in ambito cognitivista. Il vantaggio è che nel libro di Neri tali “organizzazioni del palcoscenico prima dello spettacolo” sono descritte in modo lineare e ogni passaggio è semplificato con vignette cliniche con trascrizione delle sedute e schemi riassuntivi.

Le caratteristiche e il paradigma del gruppo terapeutico

Dopo questa importante premessa il libro entra nel campo vivo della terapia con una serie di concettualizzazioni  che descrivono i fenomeni in atto. Qui è forse il nucleo concettuale più importante e più utile per chi proviene da epistemologie differenti. Le persone in contesti diversi si rappresentano in modo diverso: il setting di gruppo trasforma il piano emotivo-cognitivo in modo che spesso il terapeuta individuale fatica a riconoscere il proprio paziente. Ma questa è anche la grande opportunità esplicativa e terapeutica di questo approccio.

Presentando  il “Manuale di psicoterapia sistemica di gruppo (2016)” su questa rivista  Annalisa Bertuzzi ha riportato i fattori terapeutici come individuati da Yalom nel suo centrale “Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo” (1974), dobbiamo immaginare che il libro di Neri contestualizza e scompone quei fattori terapeutici utilizzando una tecnica che parte dal vissuto dell’individuo per muoversi verso un livello interpersonale e multipersonale che lo porta a formulare dei concetti che inscrivono i fenomeni che avvengono nel gruppo e attorno allo spazio-tempo del gruppo, fondamentali per la possibilità di comprensione e quindi di cura e che altrimenti rimarrebbero oscuri o peggio attribuiti al movimento psicologico del singolo paziente.

L’epistemologia psicoanalitica da cui muove Neri lo porta a produrre delle metafore concettuali (campo, semiosfera, sistema protomentale, comunità dei fratelli, commuting, diffusione trans-personale, disposizione a stella) che non devono spaventare il lettore perché poste in modo logico e conseguente al procedere del gruppo e correlate da tanti esempi clinici esplicativi. Il lettore cognitivista è abituato ad altre epistemologie come il paradigma cognitivo-evoluzionista, il quale per esempio fornisce un altro tipo di metafore (trauma, dissociazione), ma leggendo il libro si renderà conto come l’esposizione di Neri completi ed integri i differenti sistemi.

Rimane da sottolineare l’utile glossario posto in appendice e a completezza dell’opera quattro brevi saggi sotto forma di intervista (La trasformazione di un gruppo in una istituzione cura di Marco Zanori, Terapeuticità del gruppo a cura di Stefania Marinelli, Gruppi nelle istituzioni e  Il Social Dreaming  a cura di Giorgia Dappelo) che propongono ulteriori campi di interesse da approfondire e che sembrano fare da ponte verso un nuovo saggio ancora nella penna dell’autore.

Utilizzo dei social network e peggioramento del rendimento scolastico?

I giovani che usano i social media (tra cui Snapchat, Instagram, Musically, Facebook) peggiorano nello studio scolastico rispetto a quelli che non li usano?

 

Gli studi sull’uso dei social media e lo studio

Un progetto di ricerca finanziato dalla German Research Foundation (DFG) ha esaminato 59 studi (condotti su circa 30000 giovani di tutto il mondo) che affrontano la correlazione tra uso dei social media e rendimento scolastico per trovare una risposta di fronte alle preoccupazioni riguardanti le presunte conseguenze dei social network sulle prestazioni scolastiche.

Gli studi analizzati presentano dati contrastanti: alcune analisi riportano gli impatti negativi dell’uso dei social media, mentre altri studi ne riferiscono l’influenza positiva. Infine, esistono studi che non hanno trovato alcuna relazione tra utilizzo dei social network e le prestazioni scolastiche.

Nello specifico questi sono i dati emersi:

Gli alunni che usano Instagram e social network durante lo studio e lo svolgimento dei compiti tendono ad avere risultati peggiori rispetto agli altri studenti. Una possibile spiegazione può risiedere nel fatto che compiere più attività contemporaneamente diventa dispersivo anziché produttivo.

Gli alunni che utilizzano intensamente i social media per comunicare con i compagni su argomenti relativi alla scuola (compiti, verifiche, etc.) tendono ad avere voti leggermente più alti dei compagni che non lo fanno.

Un piccolo effetto è stato riscontrato nei voti degli studenti che trascorrono molto tempo sui social network, pubblicando regolarmente messaggi e/o foto: essi ottengono voti leggermente inferiori rispetto agli altri studenti.

Gli alunni che sono molto attivi sui social media (ovvero coloro che pubblicano regolarmente contenuti sui propri profili social) non dedicano meno tempo allo studio rispetto a coloro che sono meno attivi sui social network.

In base ai risultati ottenuti, Markus Appel sostiene che “le preoccupazioni riguardanti le presunte conseguenze disastrose dei siti di social networking sulle prestazioni scolastiche sono infondate”. L’uso dei social media non sembra avere un impatto negativo significativo sui voti scolastici.

Il professor Appel consiglia comunque ai genitori di interessarsi ai social media e alle possibili attività online a cui i giovani aderiscono. Questo gli permetterà di comprendere le modalità di utilizzo dei social e di comunicare in modo più efficace con i propri figli.

Gli amici si somigliano: il nostro cervello è più in sintonia con chi è nostro amico

Uno studio ha messo in evidenza un altro aspetto affascinante dell’amicizia. Gli amici percepiscono il mondo in modo simile tra loro e hanno cervelli più in sintonia.

Lucia Marangia

 

Gli amici hanno cervelli simili tra loro e in sintonia

I ricercatori del Dartmouth College hanno dimostrato che è possibile prevedere con chi le persone sono più amiche, semplicemente osservando il modo in cui il loro cervello risponde alla visione di alcuni video clip. Durante l’esperimento, gli amici presentavano modelli di attività neurale più simili, seguiti dagli amici degli amici che, a loro volta, avevano un’attività neurale più simile rispetto alle persone meno affini. Secondo i ricercatori, lo studio è il primo nel suo genere: “Le risposte neurali a stimoli dinamici e naturalistici, come i video, possono darci una finestra sui processi di pensiero spontanei della gente man mano che si sviluppano” commenta la Dott.ssa Parkinson.

Lo studio ha analizzato le amicizie e i legami sociali all’interno di una coorte di quasi 280 studenti universitari. I ricercatori hanno stimato la distanza sociale tra coppie di individui sulla base di legami sociali reciprocamente segnalati. Successivamente, a 42 studenti è stato poi chiesto di guardare una serie di video mentre la loro attività neurale è stata registrata attraverso uno scanner funzionale con risonanza magnetica (fMRI). La serie di video osservata dai ragazzi comprendeva numerosi argomenti e generi, tra cui politica, scienza, commedia e video musicali. Ogni partecipante ha guardato gli stessi filmati, seguendo il medesimo ordine e con le stesse modalità. I ricercatori hanno poi confrontato le risposte neurali per determinare se le coppie di studenti che erano amiche presentassero un’attività cerebrale più simile, rispetto ad altre coppie del gruppo.

I risultati hanno dimostrato che la somiglianza della risposta neurale era più forte tra gli amici, e questo schema sembrava manifestarsi attraverso le regioni cerebrali coinvolte nella risposta emotiva, l’attenzione e il ragionamento di alto livello.
Anche quando i ricercatori controllavano variabili, come il fatto di essere mancini o destrimani, l’età, il sesso, l’etnia e la nazionalità, la somiglianza nell’attività neurale tra amici era ancora evidente.

Il team ha anche affermato che le somiglianze nella risposta alla risonanza magnetica funzionale potrebbero essere utilizzate per prevedere non solo se una coppia è amica, ma anche la distanza sociale tra i due soggetti.

Siamo una specie sociale e viviamo in continuo collegamento con gli altri. Se vogliamo capire come funziona il cervello umano, abbiamo bisogno di capire come funzionano i cervelli in combinazione – come le menti si modellano a vicenda“, ha detto l’autore Dr. Thalia Wheatley.

Prossima sfida per i ricercatori di Los Angeles sarà quella di comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda.

La dipendenza affettiva: tra letteratura e neurobiologia

Oggi, con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione che non solo facilitano le comunicazioni tra individui, ma permettono di tracciare anche i minimi dettagli di una persona, stiamo vivendo una trasformazione delle modalità con cui si manifesta la dipendenza affettiva (o love addiction), che tuttavia rimane un problema psicosociale da arginare.

 

Donne che amano troppo – Riflessioni sul libro

Nonostante la prima edizione di Donne che amano troppo della psicoterapeuta americana Robin Norwood risalga alla metà degli anni Ottanta, questo libro rappresenta un capolavoro di attualità. Come specificato nell’introduzione alla nuova edizione, cambiano i tempi, cambiano le modalità comunicative, cambia il grado di consapevolezza di avere un problema con l’amare troppo qualcuno, ma il “mal d’amore” descritto nelle pagine del libro è assolutamente moderno e debilitante così come in passato.

Se qualche decade fa una donna trascorreva giornate intere sdraiata nel letto, accanto al telefono fisso del suo appartamento nell’attesa di una chiamata da parte di un uomo di cui era ossessionata, o tentava di contattare amici o parenti nella speranza di avere notizie del suo amore, oggi, con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione che non solo facilitano le comunicazioni tra individui, ma permettono di tracciare anche i minimi dettagli di una persona, stiamo vivendo una trasformazione delle modalità con cui si manifesta la dipendenza affettiva (o love addiction), che tuttavia rimane un problema psicosociale da arginare.

Per proporre qualche esempio, la stessa donna sdraiata nel letto con la cornetta del telefono vicino all’orecchio, ai tempi d’oggi controllerebbe spasmodicamente il cellulare, contemplando sul display il nome e numero dell’uomo che ama con il pensiero desiderante di chiamarlo (una sorta di craving, come un alcolista davanti alla porta di un’enoteca con il desiderio impulsivo di varcare la soglia del locale e cadere nuovamente nella sua dipendenza), oppure accederebbe a Whatsapp per verificare l’ora esatta del suo ultimo accesso (attivando meccanismi di ruminazione e rimuginio tali da mantenere attivo lo stato di allarme e angoscia), o ancora analizzerebbe accuratamente il suo profilo Facebook o Instagram alla ricerca di qualche indizio o prova della sua disonestà (foto ambigue, commenti fatti e/o ricevuti da altre possibili pretendenti e così via), il tutto in uno stato di attivazione fisiologica di ansia, paura, rabbia o tristezza che non fa altro che fomentare il disagio esperito. Per riassumere: mutano i tempi e i contesti ma non muta la dipendenza.

Nel libro, che è una raccolta di storie di donne (la maggior parte pazienti in cura dall’autrice) in balia di relazioni turbolente con uomini inaffidabili, egoisti e spesso con storie passate o attuali di abuso di alcol, la Norwood descrive egregiamente i vissuti emotivi di ciascuna delle protagoniste, focalizzando l’attenzione sulla loro infanzia spesso traumatica a causa da abusi fisici, sessuali o psicologici, questi ultimi comprendenti sia abusi verbali che trascuratezza nelle cure ricevute dalle figure di riferimento (neglect) che secondo alcuni importanti autori possono provocare veri e propri traumi nello sviluppo cognitivo-affettivo (Liotti G., Farina B., 2011).

Caratteristiche peculiari di molte donne descritte nelle pagine del libro riguardano un forte bisogno di controllo relazionale, l’autocolpevolizzarsi ed incrementare così il senso di sfiducia verso se stessa e la propria autostima (“è colpa mia se si è arrabbiato”, “non sono abbastanza attraente”) e l’illusione del “lui cambierà” e del “se gli sono necessaria o gli risolvo i problemi lui mi amerà”. A proposito della speranza (troppo spesso utopica) di veder cambiare il partner con la forza del proprio amore, diligenza, devozione e presa in carico delle sue problematiche (emotive, finanziarie ecc.), non è un caso che molte delle donne descritte nelle pagine del libro intrattengano o abbiano intrattenuto relazioni burrascose con alcolisti, molti dei quali, a causa della loro dipendenza patologica, non sono in grado di badare a se stessi e sono quindi ben disposti a delegare la propria vita a qualcuno di così efficiente e responsabile. La Norwood chiama queste donne coAlcoliste, in quanto parte del problema e fattori di mantenimento. È come se una dipendenza chiamasse un’altra dipendenza, alimentandosi l’un l’altra in un intreccio esplosivo che conduce a gravi conseguenze sul piano emotivo. L’autrice dedica un intero capitolo al racconto delle storie di alcuni di questi uomini, dei loro vissuti legati alla dipendenza da alcol e dalla necessità di trovare partner responsabili e capaci di cura e attenzione. Ma se il primo idillio d’amore offusca i sensi e la razionalità, ben presto le cose si complicano e gli aspetti personologici e comportamentali di entrambi giungono in superficie dando origine alle prime incomprensioni e rotture relazionali.

Tornando alle donne che amano troppo, la Norwood apre le prime pagine del suo libro con una frase rappresentativa di ciò che significa l’avere una dipendenza affettiva, dove la parola “dipendenza” può essere senza dubbio considerata analoga a tutte le tipologie di addiction con e senza sostanza: “Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo”.

Il libro viene proposto come manuale di auto-aiuto, nonostante sia la stessa autrice a consigliare vivamente un percorso psicoterapeutico volto all’accettazione del proprio passato e delle proprie fragilità, al fine di (ri)conquistare individualità e amore verso se stessi e riuscire così a darsi una direzione nella vita e renderla piena e soddisfacente a prescindere da ogni tipo di relazione sentimentale passata, presente o futura.

Nel libro la Norwood parla di donne ma è opportuno precisare che l’argomento trattato si può riferire anche agli uomini i quali possono sviluppare dipendenza affettiva che si origina da dinamiche relazionali disfunzionali. L’”amare troppo” è una condizione che può manifestarsi all’interno di qualsiasi genere sessuale di appartenenza e vittima e carnefice non si basano dunque su superficiali ruoli di genere, dal momento che ridurre il fenomeno esclusivamente alle donne sarebbe un atto alquanto semplicistico e sessista. Il libro quindi si può benissimo adattare a qualsiasi individuo in quanto la dipendenza affettiva può interessare qualsiasi persona a prescindere da età, sesso, religione, cultura e orientamento sessuale. É tuttavia probabile che per motivi psicologici e sociali la dipendenza affettiva si manifesti più di frequente nelle donne, ciò potrebbe essere dovuto a fattori predisponenti nelle donne e a fattori protettivi nei maschi e tali considerazioni necessitano di adeguate indagini clinico-scientifiche.

Aspetti neurobiologici della dipendenza

Negli organismi altamente evoluti di cui l’essere umano è l’esemplare maggiormente avanzato, il piacere rappresenta la spinta motivazionale all’azione (Caretti, La Barbera, 2010), per cui un comportamento che porta ad esperire una sensazione di piacere avrà più possibilità di essere reiterato.

Tale assunto è il punto di partenza da cui si origina una dipendenza patologica, dal momento che una sostanza di abuso o un comportamento compulsivo con iniziali conseguenze piacevoli attivano cascate di reazioni chimiche che coinvolgono circuiti cerebrali legati alla gratificazione e alla soddisfazione dei bisogni. I numerosi studi di neurobiologia sono tutti concordi nel ritenere il circuito meso-cortico-limbico il principale substrato neurale implicato nell’ addiction, e la dopamina come principale neuromodulatore. Infatti le aree di questo circuito costituito dall’area tegmentale ventrale e dal nucleo accumbens (striato ventrale) e parte della corteccia pre-frontale, giocano un ruolo cruciale nel sistema di rinforzo e ricompensa ed è stato osservato che una sostanza psicostimolante è in grado di iperattivare i neuroni dopaminergici presenti in questa porzione cerebrale provocando sensazioni di benessere e dando così alla sostanza di abuso una valenza edonica positiva (alto valore di salienza). Ciononostante, le ripetute scariche di dopamina (e la sua sovrapproduzione) all’interno di queste aree conducono in seguito ad un incremento della soglia di attivazione in grado di suscitare sensazioni positive associate alla sostanza, creando di conseguenza tolleranza e bisogno maggiore di dopamina all’interno del sistema della gratificazione. Inoltre studi di neuroimaging hanno osservato una sostanziale riduzione dei recettori D2 della dopamina nello striato in soggetti con addiction, in associazione ad una ipoattivazione della corteccia orbitofrontale (regione implicata nell’attribuzione della salienza degli stimoli e nei comportamenti compulsivi) e del giro cingolato (regione coinvolta nel controllo inibitorio, attenzione ed impulsività) (Volkow, 2007).

La riduzione dei recettori D2 e della normale attività dopaminergica causa quindi un deficit nei circuiti che regolano la gratificazione attraverso rinforzi naturali quali cibo, sesso e sonno, portando il soggetto con addiction a ricercare stimoli maggiormente capaci di attivare i circuiti della gratificazione; questo potrebbe spiegare il perché si assista, in coloro che abusano di sostanze, ad un progressivo disinteresse per le usuali attività naturali che fino a poco prima provocavano piacere. Senza piacere dunque non può esserci motivazione e se l’unico piacere diventa la sensazione esperita a seguito di somministrazione di stupefacenti o di un comportamento compulsivo, non rimane tanto difficile comprendere le basi all’origine del craving. Il ricordo dell’esperienza piacevole associato a stimoli in grado di rievocare tale esperienza mette in moto una serie di comportamenti volti al raggiungimento di quello che, a seguito di ripetute esposizioni, è diventato il bisogno primario, a discapito di tutte quelle attività piacevoli (e sane) dapprima praticate.

Oltre alla iperattivazione dopaminergica e al successivo decremento dei recettori D2, un’altra conseguenza  provocata dall’ addiction riguarda la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA), ovvero l’insieme delle strutture che modulano le nostre risposte allo stress. É stato osservato che la somministrazione cronica di sostanze d’abuso conduce alla disregolazione di HPA e che ciò provoca, durante un periodo di astinenza prolungata, un incremento del fattore di rilascio della corticotropina (CFR), dell’ormone adrenocorticotropo (ACHT) e del corticosterone nell’amigdala estesa (Koob, Le Moal, 2005). Questo potrebbe in parte spiegare le sensazioni di ansia e paura sperimentate dai soggetti in astinenza (l’amigdala è la principale struttura coinvolta nel circuito della paura) e l’incapacità di tali soggetti di far fronte in modo costruttivo a situazioni stressanti (la disregolazione di HPA manterrebbe attivo lo stato di stress rendendo difficile un adeguato problem-solving). Inoltre, in uno studio che investigava il legame intercorrente tra cure parentali durante l’infanzia e abuso di cocaina in età adulta è stato riscontrato che esperienze infantili negative (maltrattamenti/abusi, neglect) erano associate all’ addiction e a più alti livelli di cortisolo e ACTH, dimostrando una possibile associazione tra attaccamento e dipendenza patologica (Gerra G., 2009).

La dipendenza affettiva negli studi di neuroimaging

Descrivere la neurobiologia dei comportamenti di addiction, partendo dagli studi che hanno indagato le basi neuroanatomiche/neurochimiche alla base della patologia, è di estrema importanza dal momento che diverse ricerche hanno dimostrato similarità tra le varie dipendenze. Per tornare all’argomento principale dell’articolo, in studi di neuroimaging che hanno indagato le possibili aree cerebrali implicate nella dipendenza affettiva è stato osservato quanto tale fenomeno abbia alcune somiglianze con la dipendenza da sostanze. Infatti, Reynaud e collaboratori (2010) hanno comparato osservazioni cliniche e dati provenienti da studi di neuroimaging in soggetti con diverse tipologie di dipendenza che comprendevano abuso di sostanze, gambling patologico e dipendenza affettiva, osservando reazioni psicosomatiche analoghe e un simile pattern di attivazione cerebrale. Nel dettaglio, i soggetti con love addiction mostravano euforia e desiderio irresistibile in presenza dell’oggetto d’amore (o da stimoli associati), mentre in sua assenza era frequente notare umore negativo (fino all’anedonia) e disturbi del sonno. Per quanto riguarda le aree implicate, alcuni studi suggeriscono che la corteccia orbitofrontale e il giro cingolato anteriore siano regioni cerebrali coinvolte nella dipendenza affettiva, le stesse che mediano la dipendenza da sostanza, insieme a specifici neurotrasmettitori tra cui la dopamina (si ricorda che le cellule dopaminergiche si attivano in risposta a stimoli salienti e facilitano l’apprendimento condizionato tipico dei comportamenti di addiction con le motivazioni e compulsioni correlate). In aggiunta, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), Fisher e colleghi (2010) hanno osservato significativa attivazione nell’area tegmentale ventrale bilateralmente, nello striato ventrale e nelle cortecce orbitofrontale e prefrontale in soggetti che avevano subito un recente rifiuto da parte di un partner, i quali partecipavano ad un esperimento in cui venivano fatte vedere loro fotografie dei loro amati in vari contesti.

I dati provenienti dagli studi di neurobiologia forniscono importanti informazioni circa la natura delle dipendenze e del successivo craving, dimostrando che non vi sono sostanziali differenze per quanto riguarda le aree associate al comportamento di addiction, di qualsiasi forma si tratti.

Conclusioni: la neurobiologia delle donne che amano troppo

Partendo dall’analisi di un bestseller di fama mondiale e descrivendo in seguito gli effetti neurobiologici delle dipendenze patologiche, potrebbe ora essere possibile delineare le associazioni che intercorrono tra le donne descritte nel libro della Norwood e gli aspetti più prettamente scientifici che riguardano la dipendenza affettiva.

Infatti, molte delle protagoniste raccontano di come le relazioni con uomini “sbagliati” fossero per loro costanti stimoli e di come andassero in continua ricerca di quell’eccitazione sessuale ed emotiva che riuscivano a trovare esclusivamente in partner tendenzialmente inadatti. Alcune affermano come l’amore ed il rispetto ricevuto da un uomo buono, attento, responsabile e realmente interessato a loro fosse un’esperienza noiosa o comunque non abbastanza stimolante da farle rimanere in relazioni “sane” di quel tipo. É possibile che le scariche d’eccitazione sperimentate con gli uomini sbagliati descritti nel libro sia la ricerca di quelle cascate di dopamina osservate nei comportamenti di addiction con e senza sostanza, e che quelle sensazioni di malessere, anedonia, ansia e angoscia esperite a seguito di una separazione temporanea o di un vero e proprio abbandono (e che si accompagnano spesso a processi di ruminazione e rimuginio che mantengono attiva l’attenzione selettiva sull’oggetto-stimolo dell’addiction) siano analoghe all’esperienza di craving che si riscontra nelle dipendenze patologiche. Inoltre, dal momento che molte donne del libro provengono da contesti familiari altamente disfunzionali (genitori assenti, alcolisti, violenti, abusanti, trascuranti ecc.) e riscontrata una correlazione tra disregolazione dell’asse HPA e addiction, potrebbe essere possibile che anche nelle protagoniste delle storie raccontate dalla Norwood le esperienze infantili negative/traumatiche siano fattori predisponenti lo sviluppo di dipendenza affettiva, a causa dell’enorme carico di stress a cui sono state e continuano ad essere sottoposte.

Considerando i dati provenienti dalla ricerca neuroscientifica e le esperienze raccolte in “Donne che amano troppo”, sarebbe opportuno impegnarsi nello sviluppo e rinforzo di psicoterapie in grado di far fronte ai vissuti emotivi negativi di coloro che soffrono di dipendenza affettiva al fine di garantire a queste persone una qualità di vita migliore e una capacità di relazionarsi agli altri in modo più funzionale e adattivo.

La Terapia Cognitivo-Comportamentale potrebbe fornire soluzioni efficaci, attraverso moduli di intervento che producano risultati soddisfacenti, quali gestione di processi metacognitivi disfunzionali (Caselli, 2017), individuazione e superamento dei cicli interpersonali problematici (La Mela, 2014), potenziamento delle funzioni metacognitive e senso di agency (Di Maggio, 2013), riduzione dello stress attraverso programmi di mindfulness (Kabat-Zinn, 1990).

Risocializzazione e ravvedimento nel carcere per i minori. La parola al direttore dell’IPM di Palermo

L’ articolo 27 della Costituzione, sottolinea la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali e di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà.

 

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: così recita l’articolo 27 della Costituzione, sottolineando la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali, di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà.

Una funzione di reintegrazione sociale che, al di là di ogni intento puramente afflittivo, mira a dare fiducia, a promuovere crescita, sviluppo e senso di appartenenza, in particolar modo per i minori autori di reato.

Riabilitazione, promozione del benessere, progettualità educativa, pilastri su cui si fonda l’attività dell’Istituto Penale per i minorenni (IPM) di Palermo, fortemente sostenuta e coordinata dal Direttore Michelangelo Capitano.

Ai giovani, tra i 14 e i 18 anni, deve essere assicurata una crescita adeguata, non bisogna quindi interrompere i percorsi evolutivi in atto, semmai correggere quelli che si discostano dalla previsione delle norme – spiega Capitano – Il Codice di Procedura penale minorile (D.P.R. 448/88, uno tra i più avanzati e studiati al mondo, anche dopo 30 anni dalla sua emanazione) prevede una serie di misure atte a far uscire il minore autore di reato dal circuito penale nel più breve tempo possibile, senza però abbandonarlo alla propria sorte.

Ravvedimento e revisione critica delle scelte di vita: possibilità date da un carcere che educhi al legame sociale in quanto bene collettivo a cui tutti sono chiamati a contribuire, all’interno di un contesto di osservazione e trattamento mirati. Questa la ratio del carcere minorile, da considerarsi sempre come scelta estrema e solo per i reati gravi/gravissimi.

Il carcere per i minori è sicuramente la misura estrema voluta dalla legge, non tanto per preservare la società, quanto per consentire al minore di avere un periodo di riflessione e di poter elaborare, molte volte lontano da condizionamenti familiari e sociali, una propria aspettativa di vita, aiutato in questo, dalle professionalità coinvolte (educatori, polizia penitenziaria, assistenti sociali, psicologi, ma anche insegnanti e volontari) – continua Capitano – L’apporto di tutti è indispensabile per far comprendere le regole della convivenza civile, il rispetto dell’altro e la valorizzazione delle proprie abilità, al fine di vivere una vita all’insegna della legalità e del progresso. Una vita nuova a cui molti ragazzi rispondono con sfiducia, richiamando un senso di impotenza nelle proprie capacità, nel farcela, nonché di sfiducia verso una società considerata spesso nemica, non tutelante.

La risocializzazione nel carcere per i minori la parola al direttore dell'IPM di Palermo - Michelangelo Capitano

Michelangelo Capitano, Direttore dell’ IPM di Palermo

Una vita spesa nella legalità, in quanto monito interno, presa di coscienza profonda, empatica, della violazione dei diritti di un altro essere umano, obiettivo raggiunto attraverso il contatto diretto con la parte offesa.

Per far comprendere il significato di ravvedimento cito un episodio di qualche anno fa – racconta il Direttore – Avevamo invitato all’interno di un’iniziativa, alcuni funzionari di banca per un corso sull’imprenditorialità. A margine dell’incontro, uno dei funzionari ha cominciato a narrare il proprio vissuto durante una rapina subita tanto tempo prima, quello che aveva provato, la paura, i pensieri. A un certo punto un ragazzo, sempre più a testa bassa, si è avvicinato ed abbracciandolo gli ha detto “Grazie mi ha fatto capire quello che pensava”: era lui l’autore della rapina e in quell’abbraccio aveva voluto, fisicamente, fargli sentire la sua vicinanza emotiva. Elaborare il reato anche sotto questo punto di vista, del dolore della vittima, può essere una remora a ricommetterlo.

Quali sono nello specifico le attività rieducative dell’IPM di Palermo e che valenza formativa detiene il lavoro?

A oggi l’IPM di Palermo propone varie attività tese al reinserimento sociale, come scuola, formazione, sport, lavoro. Nel caso del lavoro alcuni ragazzi sono sposati, convivono, qualcuno ha figli e il limitato sostentamento della famiglia diventa un modo di sentirsi utili, parte integrante di una società che non li abbandona, dà loro fiducia, rispetto e responsabilità produttive, e rispetto alla quale modificare un atteggiamento classico volto al danneggiamento e al reato. Situazione dolente per la formazione professionale, sospesa da due anni in Sicilia, con grave danno ai ragazzi, che perdono un’occasione per poter acquisire una professionalità. Abbiamo attivato dei corsi professionalizzanti (edile, falegname/ferro, giardiniere) affidando ad alcuni artigiani il compito di passare le competenze del mestiere ricomponendo quel clima di andare a bottega nel quale l’imparare il mestiere comprendeva il rispetto del maestro, del cliente e del lavoro. Tante iniziative, ma il nostro vanto è sicuramente il laboratorio dolciario “Cotti in fragranza”, un biscottificio all’interno della struttura, ma fuori dalla sezione detentiva, pensato per i giovani che escono dall’istituto, per accompagnarli al loro reinserimento. I biscotti sono adesso presenti anche nella grande distribuzione; il processo produttivo è seguito dai ragazzi. I nomi dei biscotti (Buonicuore al mandarino, Parrapicca al limone e zenzero, Coccitacca alla cioccolata di Modica e arancia) sono stati scelti da loro, così come il packaging e le strategie industriali. Esistono poi tante altre collaborazioni con Istituzioni e con professionisti: voglio citare a titolo esemplificativo, il Museo Salinas con il quale abbiamo appena concluso un Corso di restauro di vasellame del II secolo a. C., e l’Istituto Zooprofilattico Siciliano (con un corso di caseificazione di prossima attivazione). Decine e decine di persone che hanno deciso di donare un po’ del loro tempo ai ragazzi dell’Istituto: e, come dico spesso proprio ai ragazzi, si può comprare quasi tutto, ma il tempo che ci viene dedicato – in qualunque momento – non si può comprare.

Il lavoro, anzi l’idea del lavoro, come deterrente di ulteriori reati in quanto garanzia di regole funzionali di vita, formazione alle abilità e alla loro spendibilità sociale, al rispetto di sé e dell’impegno preso, e non ultimo garanzia di sostentamento economico.

Ciò che vogliamo trasmettere ai nostri ragazzi è l’idea del lavoro. L’idea del lavoro significa capire che è dal lavoro che deve derivare il proprio reddito, il proprio tenore di vita; significa essere puntuale, mettere la massima attenzione in ciò che si fa per il rispetto e la valorizzazione di un’opportunità che viene offerta e non può essere data per scontata. Lavorare, con una remunerazione giusta, significa, per moltissimi ragazzi non dover delinquere. In tanti anni di lavoro non ho mai visto un ragazzo felice per aver commesso un reato, piuttosto ne ho visti tanti dispiaciuti per non esser riusciti a evitarlo.

Il carcere quindi come misura rieducativa efficace, ma sempre nell’ottica di un’ultima ratio a cui deve essere sempre preferita un’azione massiccia di prevenzione dei reati.

La permanenza in un istituto penale per i minorenni è una misura residuale nella legislazione italiana. Si devono creare occasioni per far diventare questa misura ancora più residuale. Si deve agire prima, con una prevenzione nei quartieri, nelle scuole. Spesso si dice che la prevenzione costa, ma quanto costa, non esclusivamente in termini economici, la commissione di un reato? Qual è il prezzo del dolore della vittima, del dolore dei familiari, del dolore dello stesso reo, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della società? Qual è il prezzo che paghiamo tutti, per un ragazzo che deve stare in carcere tanti anni, qual è il prezzo per un reato che non consente un’azione riparatoria, un tornare indietro? È necessaria un’attenzione politica al mondo dei giovani in un’ottica di lotta alla povertà educativa e sociale perché questa aumenta le diseguaglianze economiche, non permettendo la piena inclusione sociale con alti costi per la società: da questo punto di vista la vicinanza del Sindaco Orlando, dell’Assessore Mattina, ma anche del Consiglio Comunale di Palermo mi fanno ben sperare per il futuro di questa Città. L’auspicio, per il nostro lavoro, è di riuscire a restituire alla società dei buoni cittadini preparati ad affrontare la vita con la dignità di uomini liberi – conclude Capitano.

Quando le cognizioni influenzano le amicizie tra bambini

I ricercatori del dipartimento di psicologia dello sviluppo dell’Università dell’Illinois hanno indagato quali siano gli aspetti capaci di predire la qualità dell’amicizia tra bambini.

 

Le intenzioni attribuite ai pari influenzano la qualità delle amicizie

Le amicizie giocano un ruolo importante nell’adattamento psicologico e comportamentale dei bambini, in particolare questo aspetto diventa fondamentale durante il passaggio alla fase adolescenziale.

L’ipotesi dei ricercatori è che ciò che i bambini pensano riguardo alle intenzioni dei loro pari (ad esempio, benigne o ostili) e le emozioni che provano a riguardo possano influenzare la qualità delle proprie amicizie.

I partecipanti allo studio sono stati 913 bambini (di cui 50% femmine e 50% maschi, di età compresa tra i 9 ed i 12 anni) ed i loro amici. I soggetti sono stati osservati durante attività interattive in cui sono stati presentati scenari definiti dai ricercatori negativi e ambigui (esempio: computer rotto da un pari), nei quali veniva chiesto come interpretare l’intenzione del pari a seconda dello scenario presentato (esempio: “Il pari intendeva rompere il computer o è stato un incidente?”). I ricercatori hanno interpretato i risultati che attribuivano intenzionalità al pari come pregiudizio ostile, mentre i risultati che si riferiscono ad un’assenza di intenzionalità del pari come pregiudizio benigno.

È stata inoltre indagata l’intensità emotiva, intesa come la tendenza del bambino a sperimentare ed esprimere emozioni forti.

È emerso che coloro che, all’età di 9-10 anni, attribuivano intenzionalità al comportamento del pari e riportavano alti livelli di intensità emotiva, all’età di 11-12 anni vivevano interazioni più negative. Mentre, un pregiudizio di attribuzione di natura più benigna all’età di 9-10 anni, combinato con un’alta intensità emotiva, prevedeva un’interazione positiva tra pari all’età di 11-12 anni.

Come mai l’intensità emotiva riveste un ruolo così importante, se combinata a pregiudizi ostili o benigni? Per gli autori, l’intensità emotiva può servire da carburante che stimola il comportamento, ma solo la tipologia di pregiudizio (ostile o benevolo) può determinare la direzione dell’interazione.

Così, per i bambini che hanno un pregiudizio ostile è più probabile che agiscano e si impegnino in interazioni negative con gli amici quando tale pregiudizio è alimentato da intense emozioni. Allo stesso modo, i bambini che hanno un pregiudizio benigno intraprenderanno un comportamento più positivo con i pari, specialmente quando tale pregiudizio è alimentato da emozioni intense”, ha detto McElwain.

Una possibile spiegazione, che però non trova conferma nel presente studio e potrà dunque costituire un futuro sviluppo incentrato su specifici comportamenti, riguarda l’ipotesi che coloro che percepiscono le interazioni tra pari come benigne all’età di 9-10 anni, potrebbero successivamente iniziare comportamenti pro-sociali e condividere più interazioni positive, mentre coloro che percepiscono le interazioni come ostili, potrebbero essere più predisposti ad attaccare i propri amici e/o ritirarsi dalle interazioni.

L’importanza di riconoscere e ridimensionare i pregiudizi verso gli altri

Tale studio riveste un ruolo importante in quanto alcune amicizie sono una grande risorsa contro lo stress, mentre altre possono costituire elementi di conflitto e rivalità.

I genitori e gli insegnanti possono contribuire ad aiutare i bambini nello sviluppo di relazioni di qualità.

Spiegare quanto emerso a genitori ed insegnanti può aiutare loro a comprendere questo aspetto e lavorarci sopra, riconoscendo i pregiudizi ostili e minimizzandoli. Nell’arco temporale che precede l’adolescenza i bambini iniziano sempre più a riflettere sui propri pensieri e le distorsioni cognitive si aprono a possibili cambiamenti. Chen aggiunge: “Gli adulti possono aiutare i bambini, che mostrano cognizioni negative, modellando le opinioni positive sugli eventi negativi quando la situazione lo richiede. Un esempio potrebbe essere quello di dire al bambino: «Non penso che intendesse versare il latte sui tuoi compiti. È stato un incidente»”.

Spesso, un primo buon passo nel minimizzare i pregiudizi è riconoscere che esistono. “Durante l’adolescenza, i bambini sono sempre più in grado di discutere e riflettere sulle proprie cognizioni, quindi, questo periodo di sviluppo, in particolare, può essere uno in cui le cognizioni negative e le distorsioni sono aperte ai cambiamenti“, spiega McElwain.

Sogno e desiderio in Eyes Wide Shut – Recensione del film

La pellicola Eyes Wide Shut esplora i vissuti emozionali, le gelosie, i timori, i segreti di una tipica coppia americana. Credo però che l’elemento saliente possa essere ravvisato in quella che definirei come una “parabola del desiderio”.

Raffaele Fasano

 

Eyes Wide Shut: la trama del film

Avvicinarsi all’analisi dell’ultimo lavoro del grande cineasta americano Stanley Kubrick risulta un’ esperienza insieme malinconica e affascinante per chi come il sottoscritto ha amato ogni suo lavoro, dal più acerbo “The killer’s Kiss” all’indecifrabile “2001: A space odissey”. La malinconia di un ultimo incontro con uno dei più grandi personaggi del XX secolo, le ultime volontà artistiche e concettuali di un uomo che ha indagato ogni angolo della natura umana, si mescola con la fascinazione che questo ultimo lavoro esercita sullo spettatore, travolto da oniriche visioni di desideri liberati, colpe celate che dividono la scena della coscienza dei due protagonisti del film Eyes Wide Shut, Bill ed Alice, un torbido mistero di sesso e perversione che rapisce lo sguardo e la mente di uno spettatore agognante, impaurito, condotto da una regia maniacalmente attenta a disegnare sullo schermo una lenta, a tratti stancante, discesa nell’inferno di un matrimonio che si confronta con i propri fantasmi.

Siamo in bagno all’inizio del film Eyes Wide Shut, Bill ed Alice si stanno preparando per andare ad una festa natalizia, la loro figlia piccola Helene dorme nell’altra stanza. Lei è nuda, si osserva allo specchio, elemento questo molto ricorrente nella pellicola in quanto luogo del riconoscimento di sé, lui la cinge da dietro, rinnovando la conquista del corpo e dell’amore di lei. Assistiamo ad una classica manifestazione di intimità tra due giovani sposi, belli, innamorati e felici. La sera stessa questo idillio sarà messo alla prova, durante la festa, sotto forma di due procaci ragazze che cercano di attirare Bill, e di un attempato e misterioso signore che esprime la sua volontà di possessione nei confronti di Alice. Entrambi resistono alla tentazione del tradimento, ma eccitati e incuriositi dalle trame dell’attrazione sessuale, giocano con i loro seduttori, in un gioco di sguardi e gesti che invita e disillude. La sera, tornati a casa, si ricongiungono facendo l’amore.

È questo il primo incontro con il tema della sessualità, presente in tutta la pellicola. I due protagonisti conoscono le possibilità attrattive dei propri corpi, invitano alla seduzione, sono pronti a svestire i panni della moglie e del marito, e a lasciar emergere le nudità consapevoli delle proprie pulsioni. Il sesso è un tema forte dell’opera, che si manifesta in questo frangente come pura e semplice soddisfazione sessuale, il desiderio di soddisfacimento che vuole estinguersi nel raggiungimento dell’oggetto desiderato. È un tipo di soddisfacimento che esaurisce la tensione del soggetto attraverso la scarica, è in altri termini un tipo di desiderio che richiede la soddisfazione immediata, assimilabile al bisogno. Probabilmente nel fare l’amore i due protagonisti rispondono in qualche modo alla tensione sessuale creatasi negli assalti ai loro corpi, oggetti del desiderio di altri.

La sessualità si manifesta in una forma diversa in una scena successiva, quando Alice confessa, in preda ai fumi della marijuana, di aver provato una forte attrazione sessuale per un ufficiale della marina intravisto alcuni anni addietro. La donna, semi vestita, ammiccante e aggressiva, descrive le sue voluttuose fantasie al marito, che rimane estremamente scosso dalla scena. Ricevuta una telefonata, Bill lascia la moglie e si reca al capezzale di un paziente in fin di vita. Inizia qui il percorso parallelo dei due protagonisti, l’uomo inizia un’odissea che lo porterà fino alla misteriosa orgia nella villa, la donna si addentra nelle sue fantasie sognando l’ufficiale della marina.

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Il doppio sogno

Ci sono due elementi che simbolicamente spiegano la circostanza per cui la donna rivela la sua fantasia al marito. Innanzitutto la droga, che sembra agire come una sorta di liberazione della parola, annebbiando il suo giudizio, portandola a dare voce ad un antico desiderio fino ad allora celato, quasi come uno scacco dato all’attività censoria della veglia. Inoltre la notte, che nel film è segretamente presente quale metafora insieme della discesa nell’oscurità, negli inferi della mente che sfugge alle regole, e del sonno, come attività che libera lo spazio del sogno, l’esplorazione dei propri desideri repressi, l’agognata soddisfazione di essi nell’attività onirica.

Durante la notte la donna sogna infatti di avere un rapporto sessuale con l’ufficiale, appagando in maniera onirica così il suo antico desiderio. L’uomo, al contempo, si avventura negli spazi di una New York estremamente simbolica e onirica, che si configura come una sorta di sogno ad occhi aperti, che si fa luogo della possibilità di soddisfazione onirica per Bill. Avrà così la possibilità di vendicarsi del tradimento fantasticato dalla moglie, prima con una donna di nome Marianne, innamorata da tempo di lui, poi con una prostituta, ma entrambe le volte l’uomo sarà richiamato alla realtà, che gli impedirà di cedere alla soddisfazione del suo desiderio. Successivamente, attraverso varie peripezie, si trova in una villa, dove si sta svolgendo un’orgia fanatica di rapporti sessuali, corpi nudi donati indiscriminatamente, l’identità protetta da una maschera. È questo il momento più onirico di tutta la pellicola, con l’orgia che si configura quale spazio del più incontrollato desiderio sessuale, dove il corpo spogliato dei vestiti e dell’identità può essere privato di ogni sua connotazione sociale, ogni dettaglio culturale, facendosi strumento e oggetto della più sfrenata soddisfazione sessuale. È in questo spazio che l’uomo troverà la più vivida manifestazione del suo desiderio sessuale, insieme alla condanna, esercitata simbolicamente da un officiante dalle sembianze cardinalizie, una sorta di grande inquisitore che veste i panni di una realtà che legifera sulle più sfrenate condotte.

Il deciso richiamo alla teoria del sogno di Sigmund Freud si ravvisa in questo elemento onirico del film. Gli avvenimenti salienti avvengono durante la notte, al calare dell’oscurità, in opposizione alla calda e apparente serenità familiare del giorno. È durante la notte che la tentazione sessuale scuote i sensi dei protagonisti, durante la notte essi si confessano a se stessi e al proprio partner, ed è sempre durante la notte che, entrati nello spazio del sogno, si abbandonano alla soddisfazione del proprio desiderio. La scena filmica appare inoltre rovesciata, gli elementi si presentano ignari delle proprie contraddizioni, i personaggi si muovono senza apparente volontà, quasi trasportati dagli eventi. Troviamo ancora numerosi elementi che appaiono opposti rispetto alla veglia, come ad esempio i due giapponesi svestiti nel negozio di costumi che il giorno successivo incontreranno Bill, vestiti di tutto punto.

Il desiderio nel film Eyes Wide Shut

La pellicola Eyes Wide Shut esplora i vissuti emozionali, le gelosie, i timori, i segreti di una tipica coppia americana. Credo però che l’elemento saliente possa essere ravvisato in quella che definirei come una “parabola del desiderio”. Nel primo atto di seduzione descritto in precedenza, i corpi dei protagonisti sono fatti oggetto dell’attrazione dell’altro, delle due ragazze e dell’uomo alla festa. È questo un desiderio che si avvicina più propriamente al bisogno biologico, secondo cui il corpo agognato è schiacciato sulla definizione di oggetto desiderabile per alcune caratteristiche, che può appunto soddisfare il soggetto. Ma che tipo di desiderio sta esprimendo Alice al marito nella scena della confessione? E che tipo di desiderio vivifica Bill nella sua angosciante odissea newyorchese?

In queste scene di Eyes Wide Shut assistiamo ad una problematizzazione del desiderio sessuale esperito dai due protagonisti. È innanzitutto un desiderio inconscio, non manifesto, che seppur espresso è simbolicamente collocato nelle scene notturne, elemento descritto in precedenza. Nella sua “Interpretazione dei sogni” Freud definisce tre tipi di desiderio che possono suscitare un sogno: il primo tipo è suscitato di giorno e può non trovare appagamento in seguito a circostanze esterne, il secondo può emergere durante la veglia ma essere represso, il terzo può provenire dall’inconscio. Perché il terzo tipo di desiderio possa dar origine ad un sogno deve collegarsi ad un pensiero esperito durante la veglia, che sia in qualche modo associato al desiderio rimosso. Nel caso dei due protagonisti, gli avvenimenti della festa suscitano in maniera inequivocabile un certo tipo di eccitazione sessuale, che collegandosi ad antichi pensieri repressi, danno origine ad un ritorno di fantasie sessuali nascoste. È per questo che Alice assume un’ aria totalmente sconosciuta al marito ad esempio, come se fosse dominata da un’altra parte di sé, mai mostrata al proprio partner. In questo caso si tratta di un altro tipo di desiderio quindi, un desiderio di natura sessuale sì, ma inconscio, represso, relegato nell’oscurità, che può esprimersi solo attraverso le leggi del processo primario.

La donna assume un’ espressione stranita, sognante, le sue membra sono contratte, sembra essa stessa un sogno. Allo stesso modo Bill attraversa una New York oscura, evocativa, che seguendo le leggi di costituzione del sogno descritte da Freud si configura come una manifestazione mascherata di un contenuto nascosto. L’orgia in questo senso può essere configurata come la massima espressione delle funzioni del sogno, quale completa distensione del principio di piacere, di quel principio cioè che aspira al più totale soddisfacimento, sfuggendo all’esame di realtà. Alice si abbandona anch’essa al principio di piacere, soddisfacendo in maniera fantasticata il suo desiderio. Il desiderio descritto in questa fase è separato in Freud dal concetto di bisogno, è un desiderio come detto inconscio, che risponde alla sola legge del principio di piacere. Tale principio è uno dei due poli che regola l’attività psichica dell’essere umano, in contrapposizione al principio di realtà che sottopone la nostra vita al controllo morale, etico e sociale. Se non imbrigliato, l’inconscio sarebbe libero di esprimere incondizionatamente i suoi soddisfacimenti pulsionali, con la conseguente impossibilità di una vita stabile e in armonia con gli altri. In questo senso il confronto finale dei due coniugi si configura come un ritorno nella sfera della realtà, attraverso la piena accettazione dei rispettivi vissuti di desiderio e il consapevole ritorno sottomesso alle leggi della società, simbolizzata nella scena finale di Eyes Wide Shut dalla famiglia felice in prossimità del Natale, luogo caldo e rassicurante che allontana l’oscurità.

Arte e neuroscienze: le due culture a confronto (2017) – Recensione

Nella pubblicazione Arte e Neuroscienze, Kandel approfondisce la relazione tra creatività e razionalità attraverso un percorso tra l’arte del novecento e il funzionamento del nostro sistema nervoso.

Alessia Incerti, Valentina Rossi

 

Chi è Eric Kandel?

Sono d’obbligo alcune note circa l’autore: Eric Richard Kandel neurologo, psichiatra statunitense è uno dei maggiori neuroscienziati del ventesimo secolo.

E’ stato Professore di biofisica e biochimica presso la Columbia University dal 1974 e ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2000 per gli studi effettuati sulle basi fisiologiche della conservazione della memoria nei neuroni, premio che condivide con i colleghi Arvid Carlsson e Paul Greengard.
Molti di noi psicologi hanno studiato i fondamenti anatomo-fisiologici dell’attività psichica sui suoi manuali.

Arte e neuroscienze: un libro che unisce creatività e razionalità

Nella pubblicazione Arte e Neuroscienze, Kandel approfondisce la relazione tra creatività e razionalità attraverso un percorso tra l’arte del novecento e il funzionamento del nostro sistema nervoso.

L’autore propone un modo per colmare lo iato tra cultura umanistica e artistica e cultura scientifica, come prima di lui fece il fisico molecolare C. Snow che diede inizio a questo dibattito. Kandel nella sua introduzione afferma: “tanto le neuroscienze quanto l’arte astratta si pongono, in modo diretto e coinvolgente, domande e obiettivi che sono centrali per il pensiero umanistico (…). Se il processo artistico è spesso rappresentato come espressione della fantasia umana, io mostro che gli artisti astratti spesso raggiungono i loro obiettivi ricorrendo a metodologie simili a quelle usate dagli scienziati.”

Kandel riferendosi ai metodi delle scienze si riferisce alla possibilità di scomporre un fenomeno complesso nelle sue singole parti per poterle studiare analiticamente.
Un approccio riduzionista ha favorito l’acquisizione delle conoscenze circa l’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso.

A partire dagli anni settanta del secolo scorso, nasce un nuovo approccio che integra le conoscenze fino ad ora acquisite con le conoscenze della psicologia, psichiatria che studiano il comportamento umano. E’ la nascita delle neuroscienze e della ricerca di risposte a domande circa il funzionamento della mente umana: Come impariamo? Come ricordiamo? Come percepiamo? Da dove provengono le emozioni? Che cosa significa empatia?

La risposta a queste domande è da trovarsi nelle neuroscienze che ci permettono di affrontare anche il tema  del libro Arte e neuroscienze, ovvero la relazione tra cervello e arte.

Perché non tutti abbiamo la stessa reazione osservando la medesima opera d’arte?

Questo tema inizia a essere affrontato da A. Riegel già sin dalla fine dell’ottocento, egli sottolineò come l’arte sia incompleta senza il punto di vista dell’osservatore stesso.
Kandel stesso ci racconta la storia di questi studi ed anche descrive come il nostro cervello elabora i segnali sensoriali provenienti da un’opera d’arte e a partire da essi costruisce significati: “per l’artista il processo creativo è anche interpretativo e per chi guarda il processo interpretativo è anche creativo”.

Riprendiamo la domanda “perché non tutti abbiamo la stessa reazione osservando la medesima opera d’arte?” Rintracciamo la risposta in un periodo specifico della storia dell’arte: gli anni quaranta e cinquanta, epoca della scuola neworkese dell’espressionismo astratto.

Il riduzionismo scientifico permette di analizzare un fenomeno complesso scomponendolo ed esaminando le singole parti, può essere applicato a diversi ambiti, alla biologia ma anche all’arte.
Il riduzionismo difatti, consente agli artisti di passare dalla rappresentazione figurativa all’astrazione, ovvero all’assenza di elementi figurativi, per suscitare nuove risposte emotive e percettive nell’osservatore.
L’autore spiega che l’arte astratta si basa sul presupposto che elementi semplici siano sufficienti per avviare un’esperienza percettiva poi completata dall’osservatore sulla base della propria esperienza; le opere astratte stimolano la creatività, l’immaginazione e le associazioni personali di chi le osserva.

L’approccio riduzionista è evidente nelle opere d’importanti artisti come Piet Mondrian che sviluppò un nuovo linguaggio dell’arte basato su forme geometriche semplici che consentono allo spettatore di costruire la propria percezione dell’immagine.
Anche gli artisti della Scuola di New York, soprattutto Willem de Kooning, Jackson Pollock, Mark Rothko e Morris Louis utilizzarono il riduzionismo.
Il nuovo approccio riduzionista di Pollock ad esempio si concentrava sull’atto di dipingere e sul processo di creazione: l’artista rivoluzionario versava e faceva gocciolare il colore sulla tela stesa a terra ottenendo immagini in grado di stimolare la visione periferica e il continuo movimento degli occhi dell’osservatore.

Rothko si focalizzò invece sul colore e la profondità e affermava: “Solo spingendo al limite colore, astrazione e riduzione l’artista può creare un’immagine che ci liberi dalle associazioni convenzionali con il colore e la forma e permetta al nostro cervello di plasmare idee, associazioni e relazioni nuove e nuove risposte emotive a esse”.

Kandel sostiene che l’arte astratta sovverte le regole innate della percezione e ci insegna a guardare l’arte e il mondo in modo nuovo: in assenza di elementi figurativi e riconoscibili creiamo nuove associazioni.

La mia ricerca artistica comprende immagini astratte che lasciano ampio spazio alla lettura e alle impressioni personali dell’osservatore. In un recente progetto, racconta Valentina Rossi ho rappresentato invece semplici oggetti di uso comune, ma le dimensioni di queste figure e l’interazione con lo spazio che le circonda, invitano l’osservatore a soffermare lo sguardo su questi oggetti per osservarli in modo nuovo, evocare immagini personali e significati simbolici. Ci sono spettatori che guardano ad un opera d’arte attivando processi Bottom up: ovvero dalle sensazioni percettive osservate nel quadro alla ricerca di un significato personale e di una definizione del percepito. Ad esempio: “quel cerchio con una linea verticale mi fa pensare alla chiave del mio ufficio”.

Vi sono poi spettatori nei quali, osservando un’opera, si attivano processi top down e riconoscono immediatamente una definizione e un significato: “è una chiave!” e poi risalgono alle sensazioni percettive e ascoltano le proprie sensazioni corporee sperimentate davanti al quadro.
Un’opera d’arte, dunque è completa solo se vista. L’osservatore, mediante processi top-down o bottom-up fornisce una interpretazione dell’opera stessa.

Arte e neuroscienze: “L’incontro tra due discipline non prende posto dove l’una comincia a riflettersi sull’altra, ma dove l’una realizza che deve risolvere da sè, con i suoi mezzi, un problema simile ad uno affrontato dall’altra” (Gilles Deleuze).

Un’inaspettata condivisione di pattern di attivazione genica per una migliore diagnosi psichiatrica

Un recente studio di Geschwind, Gandal e colleghi, pubblicato su Science, ha mostrato come cinque fra le maggiori patologie psichiatriche abbiano pattern di attivazione genica distinti ma anche sovrapponibili a livello delle cellule della corteccia cerebrale.

 

Somiglianze nei pattern di attivazione genica dei principali disturbi psichiatrici

La predisposizione a sviluppare un disturbo psichiatrico è frutto di una complessa, poligenica e pleiotropica architettura; tuttavia, sono ancora poche le informazioni disponibili circa i meccanismi molecolari coinvolti nella patologia o nella disfunzione cerebrale.

Lo studio di Geschwind e Gandal (2018), utilizzando l’analisi transcriptomica, ha tentato di identificare come l’espressione genica di alcuni specifici pattern genetici possa favorire l’insorgenza di fattori di rischio per cinque diverse patologie psichiatriche: schizofrenia, disturbo bipolare, depressione, autismo e abuso di alcol.
Nonostante i recenti sviluppi per identificare i fattori di rischio genetici che contribuiscono allo sviluppo di diverse patologie psichiatriche (Geschwind & Flint, 2015; Gandal, Leppa, Won & Geschwind, 2016), poco ancora si sa riguardo a come questi interagiscano con fattori ambientali ed epigenetici a livello cerebrale per aumentarne il rischio.

Pertanto Geschwind e Gandal, studiosi alla UCLA (University of California, Los Angeles), per cercare di capire cosa accade a livello molecolare nei soggetti affetti da patologie psichiatriche hanno iniziato, nel 2013, ad analizzare l’espressione genica utilizzando cellule della corteccia cerebrale tramite analisi post-mortem di 700 pazienti con autismo, schizofrenia, disturbo bipolare, depressione e abuso di alcol confrontati con 293 soggetti di controllo.

Questa prima analisi ha evidenziato come certe patologie psichiatriche siano più simili a livello molecolare rispetto a quanto indichi la loro sintomatologia: per esempio il disturbo bipolare è stato categorizzato dal DSM IV-TR (APA, 2000) come un disturbo dell’umore assieme al disturbo depressivo per alcune basi biologiche condivise.

Questo studio ha dimostrato come in realtà i geni delle cellule corticali dei soggetti con disturbo bipolare si possano invece sovrapporre per attività a quelli degli individui affetti da schizofrenia.

In aggiunta Geschwind, Gandal e colleghi (2018) hanno trovato una correlazione estremamente bassa tra pattern di attività di alcuni specifici geni confrontando l’abuso di alcol con gli altri quattro disturbi, dimostrando come in realtà gli studi sui gemelli omozigoti che evidenziavano come simili i fattori di rischio genetici tra l’abuso di alcol e la depressione non fossero corretti.

Tale studio (Geschwind, Gandal, 2018) ha inoltre mostrato come molti geni delle cellule corticali siano attivi allo stesso modo sia nell’autismo che nella schizofrenia, anche se la loro attività è maggiore nel primo disturbo, contribuendo all’idea che un’ iperespressione genica possa giocare un ruolo nei sintomi autistici.

I risultati ottenuti dalla ricerca di Geschwind, Gandal e colleghi (2018) forniscono una caratterizzazione genomica piuttosto ampia che coinvolge cinque tra le maggiori patologie neuropsichiatriche tramite l’identificazione di pattern molecolari legati all’espressione di alcuni specifici geni distinti per ciascuna patologia ma anche inaspettatamente condivisi.

A parere degli autori dello studio, queste evidenze potrebbero in futuro permettere un’innovativa e più corretta diagnosi oltre che aumentare la conoscenza dei fattori di rischio che contribuiscono allo sviluppo di tali patologie; di conseguenza sarà possibile anche strutturare ad hoc nuove terapie e interventi.

Grazie a questo studio, stiamo trovando quei tasselli del puzzle che ci permetteranno di vedere il quadro generale con più chiarezza” (Kenneth Kendler, psichiatra e genetista alla Commonwealth University in Richmond).

Il sistema uditivo e il suo funzionamento – Introduzione alla Psicologia

Il sistema uditivo è composto da diversi organi, primo tra tutti l’orecchio che raccoglie e converte le vibrazioni prodotte dalle onde sonore in un segnale nervoso.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Come funziona il sistema uditivo

Il suono una volta attraversato l’orecchio esterno è trasdotto meccanicamente, tramite la membrana timpanica, attraversa il complesso degli ossicini che si trovano nell’orecchio medio. Le pressioni prodotte nell’orecchio interno sono inizialmente elaborate dalla coclea che converte le vibrazioni meccaniche in impulsi nervosi e successivamente invia questi segnali ai centri uditivi corticali superiori.

Le vibrazioni prodotte dal suono si irradiano tramite onde circolari nelle quali sono presenti dei picchi, in eccesso e in difetto. La frequenza dell’onda, valutata in cicli al secondo o Hz, indica la tonalità. L’orecchio umano è sensibile ad una gamma di frequenze acustiche che varia dai 20 ai 20.000 Hz. L’ampiezza del suono è la massima escursione della pressione dell’aria prodotta da un suono nei due sensi ed è correlata con l’intensità del suono stesso, misurata in decibel.

Le cellule del sistema uditivo

Le cellule ciliate del sistema uditivo sono presenti nell’orecchio interno, esattamente nell’organo del Corti, composto da tre file di cellule ciliate esterne e una fila di cellule ciliate interne. Sulla superficie apicale di ogni cellula ciliata sono presenti fascicoli di stereociglia che terminano nella sovrastante membrana tettoria. Le stereociglia si flettono se la membrana tettoria e la membrana basilare si muovono e se il movimento depolarizza la cellula ciliata provocando l’apertura di canali ionici che determinano l’insorgenza di una corrente entrante o segnale nervoso. Nel momento in cui un suono determina un movimento oscillatorio della membrana basilare, lo spostamento angolare, avanti ed indietro, delle stereociglia provoca l’insorgenza di variazioni sinusoidali di potenziale che hanno la stessa frequenza dello stimolo acustico.

Le cellule ciliate, inoltre, rilasciano tramite  estremità basale i neurotrasmettitori che entrano in contatto con gli assoni periferici dei neuroni bipolari i cui corpi cellulari sono localizzati nel ganglio spirale e le branche danno origine al nervo acustico. Il nervo acustico, dopo essere stato polarizzato, è in grado di trasmettere il segnale nervoso dalla periferia al centro.

Le fibre del nervo acustico terminano nel nucleo cocleare che si trova sulla superficie esterna del peduncolo cerebrale inferiore.

Il nucleo cocleare mostra una organizzazione tonotopica delle cellule e delle fibre, poiché si determina l’analisi delle caratteristiche temporali e spaziali del suono.

Gli assoni delle cellule del nucleo cocleare si suddividono in tre fasci distinti: la stria acustica dorsale, la stria acustica intermedia e il corpo trapezoide. La via principale è costituita dal corpo trapezoide che contiene le fibre destinate ai nuclei dell’oliva superiore di entrambi i lati del tronco dell’encefalo. Il nucleo mediale dell’oliva superiore è deputato alla localizzazione dei suoni in base a differenze interaunali di tempo. Questo nucleo è formato da cellule che ricevono afferenze dai nuclei cocleari controlaterali e ipsilaterali.

Il nucleo laterale dell’oliva superiore è principalmente legato all’analisi delle differenze dell’intensità del suono. Gli assoni del complesso dell’oliva superiore convergono a formare il lemnisco laterale. In questo modo, il sistema nervoso centrale riceve estese afferenze uditive bilaterali e lesioni a carico delle vie uditive centrali non determinano mai sordità monoaurale. Il lemnisco laterale passa attraverso i nuclei del lemnisco laterale e, a questo livello, avviene uno scambio di fibre attraverso la commessura di Probst. Tutte le fibre del lemnisco laterale fanno sinapsi infine con le cellule del collicolo inferiore che ricevono afferenze binaurali ed hanno un’organizzazione tonotopica. La maggior parte delle cellule del collicolo inferiore del sistema uditivo inviano i loro assoni al corpo genicolato mediale del talamo: queste a loro volta mandano i loro assoni alla corteccia uditiva primaria omolaterale che è localizzata nel giro temporale superiore.

La corteccia uditiva

La corteccia uditiva è localizzata nel lobo temporale. L’informazione sonora, dopo essere stata ricevuta, giunge alla corteccia uditiva primaria che è la prima area a ricevere questi dati. Essa può anche essere denominata area di Brodman 41 e 42 e a sua volta è suddivisa in uditiva primaria e uditiva secondaria.

La corteccia uditiva primaria è tonotopica, ossia  analizza le caratteristiche dell’onda sonora in arrivo come l’altezza, l’intensità o l’ampiezza, il timbro o il ritmo. La tonotopia di quest’area è data dal fatto che i neuroni di questa zona sono distribuiti secondo le differenti frequenze che rispondono eterogeneamente alle componenti armoniche del suono, dividendolo in caratteristiche specifiche.  Inoltre, il IV strato di cellule presente in questa area cerebrale è quello d’ingresso alla corteccia mentre il V è legato al corpo genicolato mediale e alle cortecce somatica e visiva.

Anche la corteccia uditiva è funzionalmente organizzata in colonne, esattamente come le altre aree. Le cellule che la costituiscono hanno caratteristiche binaurali e tendono a raggrupparsi in due tipi di colonne diverse e alternate dette rispettivamente colonne di sommazione e colonne di soppressione. Nella prima la risposta binaurale delle cellule è maggiore della risposta monoaurale. Nelle seconde si osserva la dominanza delle afferenze che provengono da una delle due orecchie. Infine, la corteccia uditiva possiede anche estensioni callosali.

La corteccia uditiva secondaria, invece, non è tonotopica poiché è deputata all’analisi semantica, ossia alla comprensione logica che ne determina il significato.

Siccome vi sono estese rappresentazioni delle afferenze di ciascun orecchio in entrambi gli emisferi cerebrali, le lesioni corticali unilaterali non alterano in maniera significativa la percezione delle frequenze acustiche mentre hanno notevoli conseguenze sulla capacità di localizzare i suoni nello spazio. Ogni emisfero cerebrale è deputato alla localizzazione dei suoni che provengono dal lato controlaterale.

L’ablazione o la lesione di una parte della corteccia uditiva può comprometterne la funzione uditiva, a partire da semplici problemi relativi all’individuazione della sorgente del suono, per arrivare a complicazioni più gravi come la sordità.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Una epidemia del narcisismo nelle società occidentali

Il narcisismo è un tratto caratteristico della personalità, che descrive quelle persone che mostrano fantasie di grandiosità, una scarsa empatia verso il prossimo, un bisogno di percepire l’ammirazione degli altri, un forte senso dei propri diritti, a scapito di quelli altrui.

 

Pretendiamo troppo dalla vita, e troppo poco da noi stessi (Cristopher Lasch, “La cultura del narcisismo”)
Il punto è, che non potrai mai essere troppo avido (Donald Trump).

 

Il narcisismo è un tratto caratteristico della personalità, che descrive quelle persone che mostrano fantasie di grandiosità, una scarsa empatia verso il prossimo, un bisogno di percepire l’ammirazione degli altri, un forte senso dei propri diritti, a scapito di quelli altrui. I tratti narcisistici sono molto comuni nella popolazione non clinica; solo quando essi sono presenti in forma rigida, inflessibile, ostacolando il funzionamento e il benessere delle persone che ne sono portatori, nonché di coloro che vi entrano in relazione, si può parlare di un Disturbo narcisistico di personalità.

Una distinzione comunemente impiegata dai clinici (Akthar & Thompson) è tra un narcisismo manifesto (overt) e un narcisismo sommerso (covert): il primo grandioso nelle fantasie, bisognoso di ammirazione, sprezzante, egocentrico e seduttivo, il secondo affetto da sentimenti di inferiorità, fragile, sensibile alle critiche e agli insuccessi, distaccato nelle relazioni (per un approfondimento vedi Dimaggio & Semerari, 2003).

Narcisismo e ambiente di apprendimento: Germania Est e Germania Ovest a confronto

La consapevolezza di una notevole diffusione di tratti narcisistici nella popolazione ha portato diversi autori a indagarne le ragioni, senza risparmiare affermazioni forti: c’è chi ha parlato di cultura del narcisismo (Lasch, 1979), e addirittura di una epidemia del narcisismo (Twenge, Campbell, 2009) nelle società occidentali.

Un team di ricercatori afferenti alla Charité–Universitätsmedizin di Berlino (Vater et al., 2018) ha indagato i livelli di narcisismo nella società tedesca, valutandolo su tre dimensioni: narcisismo grandioso (overt), narcisismo vulnerabile (covert), e autostima. Lo scopo della ricerca era di verificare eventuali differenze tra i cittadini cresciuti nei territori della ex Germania Est, e tra quelli cresciuti nella ex Germania Ovest. L’ipotesi è che eventuali differenze sarebbero riconducibili alle influenze socioculturali, derivanti dall’avere vissuto rispettivamente in una società a connotazione capitalistica/individualistica o a una società a connotazione socialista/collettivista. La storia della Germania rappresenta un unicum mondiale, un grande esperimento politico di trasformazione socio-culturale, dal collettivismo di stampo comunista al capitalismo del mondo occidentale. Questo interessante studio rappresenta quindi un’indagine sull’interazione tra caratteristiche sociodemografiche e caratteristiche psicologiche, nelle popolazioni interessate a un processo di trasformazione sociopolitica unico e irripetibile.

L’ipotesi dei ricercatori era di una maggior prevalenza della dimensione narcisismo overt nella popolazione dell’ex Germania Ovest, unita a una maggiore autostima rispetto alle popolazioni della Germania Est. Inoltre, viene per la prima volta svolta una ricerca comparativa sulla dimensione del narcisismo covert, sulla quale non esiste letteratura. L’ipotesi, basata sulla teoria che l’ambiente di apprendimento può plasmare la personalità (Trautwein et al., 2006), è che questa differenza riguardi soprattutto coloro che, per ragioni anagrafiche, hanno sperimentato il passaggio tra condizioni socio-culturali diverse; quindi coloro che avevano già una scolarizzazione al momento del crollo del muro di Berlino.

Sono stati reclutati 1,025 partecipanti di età compresa tra i 18 e gli 83 anni tramite pubblicità sui social network. I partecipanti sono stati invitati a compilare un questionario online, e gli è stata offerta la possibilità di ottenere un e-book come incentivo. Il questionario comprendeva i seguenti strumenti:

  • Narcissistic personality inventory (NPI), per indagare la dimensione narcisismo grandioso,
  • Pathological Narcissism Inventory (PNI), per indagare le dimensioni narcisismo grandioso e vulnerabile
  • Roseberg’s Self-Esteem Scale (RSE), per indagare la dimensione autostima.

I ricercatori hanno quindi diviso i partecipanti sulla base dell’appartenenza geografica (residenti in territori dell’ex Germania Ovest e dell’ex Germania Est), e su tre coorti di età, prendendo come riferimento il 1989, anno di riunificazione della Germania. Si è ottenuto quindi un gruppo di partecipanti più giovani (meno di 6 anni di età nel 1989), un gruppo di mezza età (tra i 6 e i 18 anni di età nel 1989), un gruppo di partecipanti più anziani (tra i 19 e 41 anni di età nel 1989).

I risultati indicano differenze significative nelle dimensioni narcisismo grandioso, con punteggi più elevati tra i partecipanti dell’ex Germania Ovest, e nelle dimensioni autostima, con punteggi più elevati tra i partecipanti dell’ex Germania Est, contrariamente alle ipotesi iniziali. Questi risultati sono stati rilevati solo tra i partecipanti nella coorte di mezza età, mentre i dati riguardanti la dimensione narcisismo vulnerabile non indicano differenze significative tra i campioni. L’assenza di differenze nella coorte più anziana rifletterebbe dati già documentati in letteratura (Cai et al., 2012; Orth et al., 2010), per cui la grandiosità narcisistica decresce con il trascorrere degli anni, mentre l’ autostima tende a innalzarsi. L’assenza di differenze nella coorte più giovane, ipotizzata dagli autori, rifletterebbe l’appianamento dei modelli socio-culturali tra i territori della Germania riunificata.

I dati riguardanti le differenze nell’ autostima impongono una maggiore riflessione: è possibile che le differenze rilevate in letteratura su popolazioni asiatiche o medio-orientali (Foster et al, 2003; Schmitt & Allik, 2005), le cui società hanno un orientamento collettivistico, siano inficiate da una inadeguata taratura dei mezzi di indagine, che riflettono la cultura occidentale, mentre potrebbero non riflettere differenti concezioni culturali nelle popolazioni orientali. A tal proposito, Sedikides e collaboratori (2015) argomentano che il desiderio di avere una buona autostima è universale, mentre ogni cultura indica diverse modalità con cui questa si può manifestare.

In conclusione, questo interessante studio documenta come i fattori socio-culturali abbiano un’influenza sull’espressione di tratti narcisistici di personalità, sfruttando in modo originale un “esperimento naturale”, dovuto alle vicende politiche della Germania. Per quanto non si possano trarre inferenze di causalità dai dati presentati, possibili solo sulla base di studi longitudinali, l’impressione che si stia rinforzando la presenza di tratti narcisistici nella popolazione sembra un dato realistico, e potrebbe fare riflettere coloro che hanno proposto di abolire il disturbo narcisistico di personalità dalle classificazioni diagnostiche (per un approfondimento vedi: Holden, 2010; Shedler et al., 2010).

L’ aborto come tendenza intergenerazionale

Secondo un nuovo studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal, le adolescenti le cui madri hanno abortito hanno maggiori probabilità di effettuare un aborto a loro volta.

 

Aborto in adolescenza: l’influenza intergenerazionale

Nei paesi sviluppati, le statistiche parlano di circa 6,7 milioni di casi di aborto eseguiti ogni anno dallo staff sanitario. Un’elevata percentuale di donne che effettuano un aborto è costituita da adolescenti di età pari o inferiore ai diciannove anni.

In particolare, in Canada, il tasso di gravidanza delle adolescenti è di 28 su 1000, di cui circa il 50% confluisce in aborto.

Gli studiosi Joel Ray e Ning Liu, dell’Institute for Clinical Evaluative Sciences, a Toronto, hanno notato come la letteratura scientifica riporti un’associazione tra i tempi di una prima gravidanza materna terminata in parto vivo ed i tempi della prima gravidanza delle figlie, anch’essa terminata con parto vivo.

Da questa associazione, i ricercatori hanno generato una domanda di ricerca sul tema dell’ aborto indotto.

Il database è stato costituito sui dati di 431623 ragazze nate in Ontario, servendosi dei dati dell’Istituto per le scienze cliniche valutative (ICES) e collegandosi ad altri database in cui erano contenute informazioni sulle coppie madre-figlia.

I gruppi createsi a partire da questi dati sono stati due: il primo costituito da 75518 figlie le cui madri avevano abortito (almeno una volta) ed il secondo gruppo costituito da 358105 ragazze le cui madri non avevano mai abortito.

Nel primo gruppo, quello in cui le madri delle ragazze avevano abortito, la probabilità di aborto durante l’adolescenza era del 10,1% rispetto al 4,2% della probabilità di abortire del gruppo costituito dalle ragazze le cui madri non avevano mai abortito.

Gli studiosi hanno considerato che quasi la totalità di questi aborti (94,5%) si è verificata prima della gestazione di 15 settimane e ciò determina l’improbabilità che la ragione di tale aborto potesse essere attribuita a motivazioni quali difetto genetico o di nascita del feto. Nella maggior parte dei casi si ipotizza dunque che gli aborti fossero dovuti a indicazioni sociali.

È stato inoltre rilevato un effetto per il quale il maggior numero di aborti della madre corrispondeva ad un maggiore numero di aborti nella figlia adolescente.

Limiti e fututi sviluppi dello studio

Ciò che non emerge dai risultati sono i fattori che potrebbero causare questa associazione. Studi precedenti hanno rilevato una maggiore probabilità di aborto da parte di adolescenti in caso di problemi sociali (ad esempio prestazioni scadenti a scuola, separazione da un genitore biologico, minore educazione dei genitori e scarso reddito).

Alcuni aspetti che nello studio non sono stati indagati, ma che potrebbero contribuire alla comprensione del fenomeno sono informazioni sui padri, sullo stato civile, sul livello di istruzione delle ragazze stesse e sulle dinamiche familiari.

Inoltre, ulteriori studi potrebbero determinare se i genitori e le strategie educative da essi adottate potrebbero contribuire alla riduzione del sesso non protetto tra adolescenti e alla comprensione di tematiche legate alla gravidanza e all’aborto.

Conclude il dottor Ray “Qualunque sia l’esito della gravidanza, la necessità di difendere la salute di una giovane donna è fondamentale“.

 

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Approcci psicoterapeutici per i pazienti affetti da sclerosi multipla

La sclerosi multipla è una malattia infiammatoria neurodegenerativa del sistema nervoso centrale la cui natura è autoimmunitaria, che si manifesta su una base genetica con l’interazione di fattori ambientali. Tale patologia presenta un decorso imprevedibile e la disabilità da essa provocata è dovuta a infiammazione e degenerazione nel SNC, con distruzione progressiva della guaina che avvolge i neuroni, la mielina.

Nausicaa Berselli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Sclerosi multipla: sintomi ed impatto sulla qualità di vita

I sintomi della sclerosi multipla dipendono dalla localizzazione delle aree di demielinizzazione; la loro comparsa può essere causata sia dall’edema e dall’azione di mediatori infiammatori tossici che dalla perdita assonale. Il progressivo danno degli assoni, nei casi a decorso cronico, porta ad estesa degenerazione ed atrofia cerebrale, la quale sembra essere molto più correlata con i deficit neurologici permanenti rispetto alla demielinizzazione (Poser, Raun, & Poser, 1982).

I sintomi all’esordio della sclerosi multipla sono molto variabili e possono presentarsi singolarmente o in associazione, in forma acuta, subacuta o lentamente progressiva. Tali sintomi riguardano principalmente i sistemi motorio, visivo, sensitivo (Ghezzi & Cazzullo, 1980) e l’apparato vestibolo-cerebellare. Altri sintomi che sono stati individuati sono la fatica (Colosimo, Millefiorini, Grasso, Vinci, Fiorelli, Koudriavtseva, & Pozzilli, 1995), i disturbi intestinali (Chia, Fowler, Kamm, Henry, Lemieux, & Swash, 1995), dolori di intensità variabile, disartria e disfagia, presenti nelle forme più gravi e cronicizzate, disturbi urinari (Awad, Gaiewsky, Sogbein, Murray, & Feld, 1984) e sintomi da disfunzione sessuale (Ghezzi, 1999).

La sclerosi multipla ha un forte impatto sulla funzionalità dell’individuo; entro dieci anni dall’esordio, metà dei pazienti non sono in grado di adempiere pienamente alle attività domestiche e alle responsabilità lavorative, entro quindici anni metà di essi diviene incapace di camminare senza aiuto, ed entro venticinque anni la metà dei pazienti ha bisogno della sedia a rotelle (Confavreux, Vukusic, & Adeleine, 2003).

Nella sclerosi multipla i farmaci comunemente utilizzati appartengono a quattro categorie principali: gli steroidi, gli immunosoppressori, gli immunomodulatori e i sintomatici. Gli effetti che la terapia della sclerosi multipla intende conseguire sono quelli di abbreviare le ricadute e di ridurre la loro gravità, prevenire le ricadute, e prevenire o ritardare la progressione della malattia.

È stata stimata la presenza di compromissione cognitiva nella metà dei pazienti con sclerosi multipla, con percentuali che oscillano tra il 40 ed il 65% (Beatty, 1993). Per la maggior parte i disturbi cognitivi sono lievi o moderati, anche se sono riportate in letteratura forme di demenza da sclerosi multipla. Vi sono alcuni domini cognitivi ritenuti più compromessi rispetto ad altri, quali le funzioni esecutive, l’attenzione volontaria, la memoria e le abilità visuo-spaziali. Vengono invece ritenuti meno vulnerabili il rendimento intellettivo globale ed il linguaggio.

Sclerosi multipla e disturbi psicologici

Sono stati condotti numerosi studi valutare la prevalenza e le caratteristiche delle difficoltà psicologiche che si riscontrano nei pazienti con sclerosi multipla. Si rilevano disturbi d’ansia e di somatizzazione, disturbi bipolari e psicosi, anche se il disturbo più comune è rappresentato dalla depressione (Thompson, Polman, Hohlfeld, & Noseworthy, 1997).

Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare l’associazione fra depressione e sclerosi multipla: l’esistenza di una comune base genetica, la presenza di una correlazione con il processo di demielinizzazione e di gliosi in specifiche aree cerebrali, la concomitanza di comuni alterazioni del sistema immunitario, il coinvolgimento di fattori psicologici che possano spiegare il disturbo depressivo come modalità di reazione del singolo individuo ad una patologia particolarmente stressante ed invalidante come la sclerosi multipla.

Il disturbo d’ansia rappresenta la modalità immediata di risposta agli eventi più stressanti correlati alla malattia, quali l’esordio dei sintomi, la comunicazione della diagnosi, l’ospedalizzazione, il confronto diretto con forme gravi di malattia, l’incertezza dell’evoluzione, l’inadeguatezza delle proposte terapeutiche, il progressivo accumulo di disabilità.

Un altro tipo di disturbo psicopatologico che si verifica in corso di sclerosi multipla è il disturbo bipolare, dovuto ad una condizione medica generale che designa quelle situazioni in cui il disturbo insorge in rapporto cronologico con una patologia fisica, anche se non si può escludere che la malattia costituisca un fattore scatenante di un disturbo primario dell’umore. In questi casi è spesso possibile identificare nella storia del paziente pregressi episodi ed una familiarità positiva per patologia psichiatrica. Gli episodi maniacali in corso di sclerosi multipla sono distinti dalle manifestazioni psicotiche vere e proprie nelle quali il paziente si mostra più agitato, senza però presentare una persistente alterazione del tono dell’umore. Un’ulteriore condizione frequente che può essere confusa con manifestazioni di tipo maniacale è la sensazione di benessere e di noncuranza verso la malattia, definita come euforia. Questa condizione è caratterizzata da uno stato di labilità emotiva e di ottimismo incongruo, ma non presenta l’iperattività motoria e le fluttuazioni tipiche del disturbo bipolare.

Un altro disturbo che si verifica in corso di sclerosi multipla è sicuramente la psicosi dovuta a cause mediche generali. Le caratteristiche cliniche della psicosi nei pazienti affetti da sclerosi multipla sembrano essere relativamente diverse da quelle dei pazienti schizofrenici: l’età d’esordio è più tardiva, la risposta affettiva è preservata, i sintomi si risolvono più rapidamente e la risposta al trattamento è migliore (Feinstein, du Boulay, & Ron, 1992).

Una condizione clinica di frequente riscontro nella sclerosi multipla è costituita da riso e pianto spastico, in cui episodi di riso e pianto si manifestano e alternano in maniera improvvisa, incontrollabile e incongrua rispetto al contesto ambientale. Questa condizione rappresenta un’alterazione della risposta emozionale ed è associata a lesioni cerebrovascolari coinvolgenti i tratti cortico-bulbari (Kim, & Choi-Kwon, 2002), che compromettono i movimenti necessari per ridere e piangere.

Le reazioni alla diagnosi di sclerosi multipla

Ricevere la diagnosi di sclerosi multipla e vivere ogni giorno con questa malattia è molto difficile. Il momento della comunicazione della diagnosi comporta nel paziente una crisi psicologica molto intensa, caratterizzata da emozioni contrastanti tra loro: rabbia, frustrazione, senso di impotenza, senso di colpa e incredulità. Dopo aver ricevuto la diagnosi di sclerosi multipla crollano tutte le certezze e la propria progettualità di vita. Tutto diventa, allora, imprevedibile, a partire dal decorso della malattia stessa, ai sintomi e alla assunzione di farmaci; ciò ha un enorme impatto sulla qualità di vita del paziente e della famiglia che lo circonda.

La prima fase che una persona vive dopo aver ricevuto la diagnosi di sclerosi multipla è quella definita di shock caratterizzata da incertezza, confusione e disorientamento. La seconda fase è quella di reazione caratterizzata da sentimenti di rabbia: la persona acquisisce consapevolezza di malattia e inizia a chiedersi il motivo per cui si è ammalato, concentrandosi sulle informazioni relative alla patologia, sugli esami e sulle terapie. La terza fase è quella di elaborazione, in cui il paziente inizia ad adattarsi alla malattia e a gestire le proprie difficoltà. Quarta e ultima fase è quella di accomodamento alla malattia, caratterizzata da una convivenza totale con la sclerosi multipla; anche se è importante considerare che l’individuo, pur accettando la sua patologia, incontri comunque delle difficoltà. Per far sì che queste fasi si evolvano e l’individuo possa giungere a una convivenza quanto più possibile serena e un’accettazione della sclerosi multipla, è fondamentale il ruolo del sostegno psicologico soprattutto nella fase di comunicazione della diagnosi e possibilmente durante i primi anni di malattia (Bonino, 2002).

La psicoterapia con pazienti affetti da sclerosi multipla

L’intervento psicoterapico nella sclerosi multipla può essere definito come l’insieme degli interventi volti a ripristinare un equilibrio emotivo e relazionale ottimale in una persona malata e in difficoltà, promuovendo le risorse dell’individuo e dell’ambiente. Tale complesso di interventi si propone di favorire il processo di accettazione e adattamento alla malattia, evidenziano le distorsioni cognitive, i vissuti emotivi e i comportamentali disfunzionali correlati alla sclerosi multipla, che inducono il paziente a modificare aspettative e obiettivi di vita e ad “arrendersi” passivamente alla propria condizione.

I fini dell’intervento psicoterapico sono quelli di ridefinire il concetto di sé e ristrutturare le relazioni con gli altri e il proprio progetto di vita con l’obiettivo di conseguire un adattamento alla condizione di malattia, che ambisca al miglior inserimento possibile del soggetto nel proprio ambiente con il più elevato livello di qualità della vita che la disabilità consenta. Compito del terapeuta è riconoscere le difficoltà del paziente, valutandone i bisogni espressi e le potenzialità, facendo attenzione alla complessa interazione tra gli aspetti di base della personalità e gli effetti che la malattia produce sul piano fisico, cognitivo e relazionale. Alla base di ogni tipo di intervento psicologico con pazienti affetti da sclerosi multipla c’è l’ascolto della sofferenza emotiva di chi è toccato dalla malattia e il riconoscimento del malato come persona.

Primo obiettivo del clinico, quindi, deve essere quello di stabilire la cosiddetta “alleanza terapeutica”. Il dare spazio, il tollerare la sofferenza del paziente rappresenta un aspetto integrante delle cure, da garantire in vista dell’umanizzazione delle stesse. Un aspetto importante della psicoterapia con pazienti affetti da sclerosi multipla è il problema della motivazione al trattamento, il condizionamento imposto dalla malattia sul processo terapeutico e la presenza di tematiche ricorrenti legate ai vissuti psicologici più tipici della sclerosi multipla.

Gli interventi richiedono una modulazione in relazione alla fase e alla gravità della malattia; nelle fasi iniziali risultano più rilevanti i problemi correlati all’impatto con la diagnosi, con la conseguente necessità di riassestamento delle relazioni familiari e sociali, mentre in quelle più avanzate, con l’instaurarsi dei deficit neurologici, divengono più pressanti i problemi assistenziali e correlati alla gestione dell’handicap. L’intervento terapeutico quindi dovrebbe essere globale, finalizzato alla presa in carico delle sofferenze esperite dai pazienti nella convivenza con la cronicità e invalidità della malattia neurologica e all’attivazione di risorse familiari e sociali, in modo che il paziente possa partecipare pienamente alla vita familiare e sociale nel pieno rispetto delle sue capacità residue. Tale intervento dovrebbe inserirsi nell’ottica di un’assistenza integrata che metta assieme l’apporto di diverse competenze e figure specialistiche sulla base di una “neuroriabilitazione”.

Nell’affrontare una psicoterapia con pazienti affetti da sclerosi multipla è necessario considerare non solo il disturbo, le caratteristiche di personalità, il sistema di apprendimento del paziente, ma anche la precarietà dell’adattamento dovuta alle caratteristiche cliniche della malattia. Diventa, quindi, ancora più importante porre attenzione alle procedure sottostanti il processo di cambiamento, operazionalizzare il disagio riportato dal paziente e l’obiettivo dell’intervento, e progettare un intervento di mantenimento che tenga conto della precarietà della condizione clinica.

La maggior parte degli studi è concorde nel sottolineare gli effetti benefici di una terapia integrata, in cui l’utilizzo della psicoterapia abbia come finalità il trattamento dei sintomi psichici, una maggiore aderenza ai trattamenti, la riduzione dei sintomi fisici, la prevenzione delle ricadute del disturbo psicologico, ed un maggior benessere bio-psico-sociale in termini di migliori relazioni con i familiari e le figure sanitarie.

Gli studi presenti in letteratura hanno preso in considerazione vari tipi di psicoterapie, dai gruppi di sostegno e i gruppi di auto-aiuto con supporto psicologico, alle terapie più strutturate come la psicoterapia cognitivo-comportamentale. La maggior parte degli studi clinici è concorde nel sottolineare l’effetto positivo della psicoterapia nella gestione delle problematiche psicologiche, specialmente di tipo depressivo.

Uno studio di particolare interesse è stato condotto da Tesar, Baumhackl, Kopp, & Gunther  (2003), che ha integrato teorie e tecniche psicologiche diverse in un programma di trattamento singolo: strategie di tipo cognitivo-comportamentale applicate alla gestione dei fattori di stress individuali e correlati alla malattia ed esercizi di rilassamento muscolare progressivo sul corpo, con lo scopo di migliorare la percezione e l’immagine del proprio corpo. Sono stati istituiti due gruppi, di cui uno sperimentale ed uno di controllo. I pazienti appartenenti al gruppo sperimentale sono stati sottoposti a colloqui di sostegno non strutturati, in cui si trattavano le problematiche legate all’accettazione di malattia.

A tutti i pazienti sono stati somministrati questionari per la quantificazione della sintomatologia depressiva (BDI), del grado di soddisfazione relativa all’immagine corporea (FKB-20), delle modalità di coping della malattia (FKV-LIS SE) e dell’ansia di stato (S.T.A.I. X-1). I questionari sono stati somministrati prima dell’inizio, alla fine del trattamento e a due mesi dalla fine. Sono stati arruolati 14 pazienti nel gruppo sperimentale, divisi in due gruppi, e 15 nel gruppo di controllo, per una durata complessiva di 6 mesi. Sono state effettuate con il gruppo sperimentale sei sessioni di terapia.

Nella prima sessione, i pazienti sono stati informati sulle regole del gruppo e sulle strategie terapeutiche. Nella seconda sessione sono stati proposti il modello di gestione dello stress, le strategie di coping cognitive e di distrazione da utilizzare in situazioni di stress ed è stata effettuata la prima serie di esercizi per il rilassamento muscolare secondo Jacobson, abbinata ad esercizi di fantasia guidata. Nella terza sessione sono state approfondite le modalità di coping implementando attività di role-playing che favorissero l’uso di strategie di coping focalizzate sul problema, e sono stati approfonditi gli esercizi di rilassamento muscolare progressivo. Nella quarta sessione sono stati affrontati gli aspetti psicosociali della malattia, discutendo i cambiamenti di ruolo connessi all’eventuale disabilità e alla restrizione dell’autonomia, con lo scopo di aumentare il senso di autostima ed efficacia personale del paziente attraverso la consapevolezza delle proprie potenzialità attraverso esercizi corporei. Nella quinta sessione sono state esplicitate le strategie di coping che favoriscono l’adattamento alla sclerosi multipla, con particolare attenzione all’applicabilità delle strategie apprese in un contesto ecologico. Nella sesta sessione sono stati proposti esercizi volti a migliorare la consapevolezza del proprio corpo, con lo scopo di aumentare la capacità di discriminare i propri movimenti, di diventare consapevoli dello spazio interno del proprio corpo e di prestare attenzione al senso del tatto. Infine gli sperimentatori hanno richiesto una valutazione orale e scritta del programma di trattamento. I risultati del questionario valutativo completato dai pazienti del gruppo sperimentale hanno mostrato un alto grado di accettazione della terapia. I pazienti del gruppo sperimentale hanno presentato una minore sintomatologia ansioso-depressiva rispetto al gruppo di controllo ed hanno utilizzato modalità di coping focalizzate sul problema piuttosto che sulle emozioni.

Un interessante studio condotto da Mohr, Cox, Epstein, & Boudewyn (2002) riguarda il trattamento della fobia in pazienti affetti da sclerosi multipla a cui è prescritta la cura con interferone, che prevede l’autosomministrazione.

Il campione era costituito da 8 pazienti con sclerosi multipla affetti da fobia specifica per l’iniezione cui veniva prescritto l’interferone beta-1a. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a 6 sedute cognitivo-comportamentali a cadenza settimanale della durata di 50 minuti circa, con lo scopo di ridurre l’ansia legata all’iniezione e aumentare il senso di auto-efficacia. Il trattamento prevedeva una valutazione clinica e una cognitiva condotta alla baseline, dopo il trattamento e a tre mesi dalla fine del trattamento. Lo studio ha previsto 6 sessioni: nella prima sessione il terapeuta ha introdotto il modello cognitivo-comportamentale dell’ansia, sottolineando la connessione tra pensieri, emozioni e comportamento e informando il paziente sulle caratteristiche psicologiche e fisiologiche delle risposte ansiose. Il paziente è stato informato sulle modalità di esecuzione degli homeworks. Inoltre, è stato proposto un modello di auto-valutazione dell’ansia chiamato SUDS (scala delle unità soggettive del distress), in cui il paziente ha sviluppato una gerarchia degli stimoli ansiosi legati all’iniezione, ordinati dal meno al più ansiogeno e si è sottoposto a brevi esercizi di rilassamento.

Nella seconda sessione il terapeuta, basandosi sulla gerarchia di stimoli ansiosi compilata dal paziente, ha proposto la tecnica di desensibilizzazione sistematica, in cui il paziente si espone, attraverso l’immaginazione, agli stimoli ansiogeni precedentemente graduati, gestendo la risposta ansiosa attraverso gli esercizi di rilassamento. Nella terza sessione il terapeuta ha introdotto le tecniche di ristrutturazione cognitiva, in cui vengono esplorati i pensieri disfunzionali legati all’iniezione e alla malattia in generale. Nella quarta sessione i pazienti si sono autosomministrati il farmaco con l’assistenza del terapeuta per monitorare l’effettivo uso del rilassamento, la giusta tecnica di somministrazione e le tecniche cognitive di gestione dei pensieri legati all’iniezione. Solitamente, i pazienti riportano elevati livelli d’ansia prima di cominciare l’auto-somministrazione e un incremento del senso di auto-efficacia personale immediatamente dopo aver effettuato l’iniezione. Nella quinta sessione i pazienti hanno ripetuto la procedura di auto-somministrazione del farmaco, presentando un livello d’ansia minore rispetto alla sessione precedente e svolgendo la procedura più velocemente. Nella sesta sessione il terapeuta ha chiesto al paziente di prospettare un piano di prevenzione delle ricadute, identificando pensieri e situazioni che potrebbero favorire l’insorgenza dell’ansia e formulando un piano per fronteggiare adeguatamente le situazioni problematiche.

I risultati ottenuti indicano che sette pazienti hanno acquisito, nel corso dei sei incontri, la capacità di auto-somministrarsi il farmaco, mentre l’ottavo ha acquisito tale capacità dopo sette incontri. Il follow up a tre mesi indica che sette degli otto pazienti hanno mantenuto l’abilità acquisita, mentre l’ottavo ha scelto volontariamente di non somministrarsi il farmaco, pur rimanendo capace di farlo.

Mohr, Staley, & Alison (2003) hanno inoltre rivolto la loro attenzione alla fatica, un altro importante sintomo della sclerosi multipla, che impatta significativamente sulla qualità di vita dei pazienti. L’obiettivo dello studio era verificare se il trattamento della depressione con psicoterapia cognitivo-comportamentale individuale o psicoterapia supportiva espressiva di gruppo o trattamento farmacologico riducesse il grado di fatica esperito da 60 pazienti. La psicoterapia cognitivo-comportamentale individuale è stata condotta secondo le procedure e le metodiche convenzionali, così come la terapia supportiva espressiva di gruppo. I risultati mostrano che il grado di fatica esperito dai pazienti si è ridotto significativamente durante il corso del trattamento e si è associato a riduzione della sintomatologia depressiva. I risultati non sono stati influenzati dalla tipologia di trattamento.

Foley, La Rocca, Sanders, & Zemon (2001) hanno invece concentrato il loro studio sulla riabilitazione delle disfunzioni sessuali nelle coppie con sclerosi. Gli autori si sono proposti di valutare l’efficacia di un intervento psicoeducazionale e di counselling per la riabilitazione delle disfunzioni sessuali, della soddisfazione e della comunicazione tra coniugi in pazienti affetti da sclerosi multipla e nei loro partner. Entrambi i membri della coppia sono stati valutati al momento del reclutamento, all’inizio e alla fine del trattamento. Nella prima sessione sono state fornite informazioni relative alle cause, alla natura e ai trattamenti farmacologici che possono interferire con l’attività sessuale di coppia. Nella seconda fase si è provveduto ad individuare la tipologia delle difficoltà sessuali per coppia e ad implementare il programma delle attività sessuali da svolgere. Nella terza è stato effettuato un intervento di counseling focalizzato sul miglioramento delle abilità sessuali attraverso esercizi corporei di tipo sessuale e tecniche di ristrutturazione cognitiva dei pensieri e comportamenti che contribuiscono a mantenere il disturbo sessuale.

Inoltre è stato affrontato il tema del miglioramento delle abilità comunicative delle coppie attraverso l’applicazione della terapia cognitivo-comportamentale e del training delle abilità comunicative che ha previsto tre fasi: nella fase educazionale, sono state fornite informazioni relative ai problemi sessuali e di comunicazione della coppia; nella fase di ripetizione sono state individuate, con l’aiuto del terapeuta, le strategie necessarie alla risoluzione delle difficoltà comunicative; nella fase applicativa le coppie hanno applicato le strategie apprese nella vita quotidiana. I risultati indicano che nella condizione “trattamento” le coppie presentano un significativo miglioramento rispetto alla fase di “attesa del trattamento”, nelle abilità di problem solving, nella comunicazione affettiva e nella soddisfazione maritale e sessuale.

Wiesel, Norton, Roy, Storrie, Bowers, & Kamm (2000) hanno rivolto il loro studio all’applicazione della tecnica di biofeedback nel trattamento di pazienti affetti da sclerosi multipla con stipsi, incontinenza fecale o entrambi i sintomi. Lo studio sottolinea come il biofeedback possa assumere un’importanza rilevante nel management di pazienti con disfunzione pelvica o rettale, che spesso riportano un’incoordinazione dei muscoli del pavimento pelvico. Tutti i 13 pazienti reclutati sono stati sottoposti ad un intervento della durata di quattro sessioni, caratterizzato da un insieme di tecniche comportamentali e farmacologiche, con follow up a 14 mesi.

Tali studi mostrano come l’intervento terapeutico abbia come obiettivo primario la riduzione di sintomi depressivi e la promozione di una buona aderenza alle terapie farmacologiche specifiche. Il lavoro terapeutico deve procedere poi considerando le emozioni contrastanti che caratterizzano le prime fasi della sclerosi multipla, per accompagnare il paziente stesso verso un migliore adattamento nell’impatto quotidiano con i disturbi e le limitazioni causate da essa. Successivamente l’obiettivo psicoterapico prevede un lavoro sull’autoefficacia del paziente, sulle proprie risorse interne fondamentali per convivere con la malattia per poi ricostruire la sua identità e i suoi progetti di vita. Di grande importanza è anche il lavoro supportivo effettuato con le famiglie ed il partner del paziente, sia nel momento della comunicazione della diagnosi che per aiutare le famiglie nel rielaborare i sentimenti di rabbia e gli atteggiamenti iperprotettivi che potrebbero danneggiare il senso di indipendenza e autoefficacia costruito con il paziente.

È importante che l’individuo a cui venga diagnosticata la sclerosi multipla si affidi a una équipe multidisciplinare specializzata nella patologia e accetti il sostegno psicologico sia nella fase della comunicazione della diagnosi che nelle fasi successive. Il percorso psicoterapeutico può aiutare il paziente e la sua famiglia a mettere in atto buone strategie di coping per affrontare la malattia, per poter gestire l’aspetto sociale e relazionale-affettivo e superare le sfide che la malattia presenta nel corso della quotidianità.

L’auto-addomesticamento come ipotesi dell’evoluzione umana

L’ auto-addomesticamento umano è un’ipotesi che afferma che tra le forze motrici dell’evoluzione umana, gli esseri umani abbiano selezionato i loro compagni a seconda di chi avesse un comportamento più pro-sociale. I ricercatori di un gruppo dell’Università di Barcellona guidato da Cedric Boeckx, professore presso il Dipartimento di Filologia Catalana e Linguistica Generale e membro dell’Istituto dei Sistemi Complessi dell’Università di Barcellona (UBICS), hanno evidenziato nuove prove genetiche per questo processo evolutivo.

 

L’uomo moderno è il frutto di un processo di auto-addomesticamento?

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica PLOS ONE, ha confrontato i genomi degli esseri umani moderni con quelli di diverse specie sia addomesticate dall’uomo sia selvatiche, al fine di cercare geni sovrapposti associati a tratti di domesticazione, come la docilità o una fisionomia gracile. I risultati hanno mostrato un numero statisticamente significativo di geni associati all’addomesticamento che si sono sovrapposti tra animali domestici e esseri umani moderni, ma non con i loro pari selvaggi, come i Neanderthal.

Secondo i ricercatori, questi risultati rafforzano l’ipotesi di auto-addomesticamento umano e aiutano a far luce su un aspetto che ci rende umani: il nostro istinto sociale. Sulla base di un nuovo tipo di prove, i genomi di parenti umani estinti, l’addomesticamento si verificherebbe in specie che presentano caratteristiche anatomiche e comportamentali tipiche degli animali domestici rispetto ai loro tipi selvatici. Tuttavia, in questi casi, l‘addomesticamento avrebbe avuto luogo senza altre specie che addomesticassero gli altri. Lo scopo di questo studio era di scoprire le prove biologiche del self-domestication osservando un nuovo tipo di dati: i genomi dei nostri parenti estinti, come Neanderthal o Denisovans.

“Una ragione che ha fatto affermare agli scienziati che gli esseri umani siano menti auto-addomesticate all’interno del nostro comportamento: gli esseri umani moderni sono docili e tolleranti, come le specie domestiche, le nostre capacità cooperative e il comportamento pro-sociale sono le caratteristiche chiave della nostra cognizione moderna”, afferma Cedric Boeckx. “La seconda ragione è che gli umani moderni, rispetto ai Neanderthal, presentano un fenotipo più gracile che assomiglia a quello visto negli animali addomesticati rispetto ai loro cugini selvatici”, ha aggiunto l’esperto.

Per identificare i segni di un processo di auto-addomesticamento negli esseri umani, i ricercatori hanno stilato un elenco di geni associati a caratteristiche di domesticazione nell’uomo, fuori dal confronto con il genoma di Neanderthal e Denisovans, specie umana estinta. Quindi, hanno confrontato questa lista con il genoma di alcuni animali domestici e dei loro parenti selvatici, ad esempio, i cani rispetto ai lupi e il bestiame rispetto ai bisonti.

I risultati hanno mostrato che questa sovrapposizione era rilevante solo tra specie domestiche e esseri umani.
I ricercatori hanno anche utilizzato altre misure statistiche, incluse le specie di controllo, per certificare questi risultati. Il loro scopo era quello di escludere il fatto che questi geni potessero essere sovrapposti casualmente tra gli umani e gli animali domestici, quindi hanno confrontato i genomi tra le altre grandi scimmie. “Abbiamo scoperto che gli scimpanzé, gli orangotango e i gorilla non mostrano una significativa sovrapposizione di geni in selezione positiva con addomesticati, quindi sembra che ci sia un legame speciale tra gli esseri umani e le specie domestiche, e riteniamo che ciò sia una prova per addomesticamento“, continua Boeckx.

I ricercatori hanno osservato che c’è ancora un lavoro più sperimentale da fare per scoprire le caratteristiche anatomiche, cognitive e comportamentali associate a questi geni. “Pensiamo che la sovrapposizione che abbiamo trovato potrebbe aiutarci a spiegare la nostra speciale modalità di cognizione e perché siamo sorprendentemente cooperativi, ma questo deve ancora essere provato: in un certo senso, ciò che abbiamo fatto è restringere l’insieme dei geni da esaminare sperimentalmente“, ha concluso Cedric Boeckx.

La Botta Grossa, un film documentario di Sandro Baldoni sul terremoto del 2016 – Recensione

Baldoni nel film La Botta Grossa compie un viaggio personale e condiviso con molte famiglie sfollate, nella terribile esperienza dei terremoti del 2016, iniziando proprio dalla sua città, Campi – frazione di Norcia (PG), e dal suo personale vissuto emotivo, per poi mostrare gli effetti disastrosi delle scosse sul territorio umbro marchigiano. Sulle case, sulla natura e nell’animo dei suoi abitanti.

 

Le fratture generate dal terremoto rappresentate nel film La botta grossa

” La botta grossa, come la chiamano da queste parti la scossa del 30 ottobre, ti spacca il cervello! “, dice Baldoni. Un titolo che subito ci porta alle immagini crude degli effetti del terremoto che il regista non ha paura di mostrarci: macerie, case devastate, edifici intatti ma inagibili, strade interrotte e molte fratture.

Fratture del terreno che dividono paesi e persone ma fratture anche dell’anima turbata da sentimenti dolorosi: paura, rabbia, disorientamento, confusione e sentimento d’impotenza.

Fratture nelle famiglie: padri che rimangono ad accudire terreni e animali nella propria terra devastata e madri, bambini e nonni che trovano riparo sulle coste adriatiche.

Pare bello poter trascorrere un inverno al mare sulle spiagge, ma per le persone di campagna e montagna questo comporta un cambiamento radicale di abitudine, clima e prospettiva, una frattura che fa sperimentare sentimenti di vuoto, nell’attesa di rientrare a casa.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Il lavoro degli psicologi dell’emergenza dell’associazione EMDR Italia

Il regista incontra anche gli psicologi dell’emergenza dell’associazione EMDR Italia che proprio si sono occupati dei vissuti emotivi delle persone colpite dal sisma e dal trauma del terremoto.

In situazioni di emergenza causata da gravi eventi critici, tutta la comunità è colpita e sperimenta elevato stress, le persone possono vivere intense reazioni emotive, tali da interferire con le normali abilità di Fronteggiamento. Nel documentario il regista intervista la dottoressa Giada Maslovaric che ha coordinato insieme alla dottoressa Isabel Fernandez (presidente di Emdr Italia e di EMDR EUROPE) tutti gli interventi di emergenza psicologica del terremoto in Italia centrale dell’associazione Emdr. Numerosi psicologi volontari dell’associazione recandosi sul territorio hanno fornito supporto psicologico, in rete con gli enti preposti al soccorso.

Dopo il terremoto cosa è cambiato?

Sandro Baldoni mostra anche le immagini del dopo terremoto, a distanza di un anno cosa è cambiato? Che cosa troviamo nei luoghi del terremoto?
Cosa si è rotto? E Che cosa è stato riparato?
Tanta solidarietà e tanto desiderio di ricominciare, ma anche tante attese e promesse e ancora troppe persone senza una casa.

Nel film allo spettatore pare proprio di incontrarle davvero le persone, i protagonisti de “ La botta grossa ”. Si entra nella loro dimora, per alcuni un container, per altri una roulotte, per altri ancora il grande salone della pro-loco. Vediamo la difficoltà di non avere più uno spazio personale, un momento di privacy per la coppia per volersi bene ma anche per discutere. Ed anche qui che la comunità acquista forza e dignità d’essere e di pensare e progettare.

Sandro Baldoni ci mostra anche l’incredibile storia di una comunità, quella di campi, che si autogestisce, che si ricostruisce senza aiuti. Una comunità che si rafforza e progetta del nuovo dalle macerie e dal nuovo si autosostiene.

E’ il caso proprio della comunità di Campi “Noi non vogliamo sopravvivere ma vivere a Campi, e questo dipende dalla nostra abilità di stare bene in quel territorio“: così Roberto Sbriccoli, presidente della pro-loco della frazione di Norcia, racconta l’idea di costruire una struttura di dodici mila metri quadrati allo scopo di ospitare turisti, creare posti di lavoro, far ripartire l’economia del piccolo centro umbro e funzionare come struttura di protezione civile in caso di necessità. Back to Camp è il nome del progetto e della struttura.

Parte dei proventi di questo film sono devoluti proprio a sostegno di questa iniziativa, esempio perfetto di resilienza, di crescita post traumatica e riflesso di una comunità forte e unita che nemmeno “ la botta grossa ” ha potuto spaccare!

La “macchina della memoria” ideata in Italia. Qual è la sua validità? La risposta attraverso l’analisi di alcuni casi di cronaca in cui è stato utilizzato questo nuovo strumento

Si parla dell’ Autobiographical Implicit Association Test (a-IAT) e del suo utilizzo di certo innovativo: esso è stato il protagonista di alcuni casi di cronaca che gli hanno valso la nomina di “macchina della memoria”. L’obiettivo di questo strumento consiste nel verificare la veridicità di un evento autobiografico.

Chiara Proto

 

Il poligrafo, meglio noto a tutti come la macchina della verità, è uno strumento che misura e registra diverse caratteristiche fisiologiche di un individuo, come ad esempio la pressione del sangue o la respirazione, mentre il soggetto è chiamato a rispondere ad una serie di domande. Sulla base di queste premesse si va a valutare o meno la veridicità delle risposte date. Ma è veramente attendibile? L’idea di base è che mentire provochi effetti secondari fisiologici che dunque possono essere individuati e utilizzati come indicatori di menzogna. Ma simulare le reazioni fisiologiche non era impresa tanto difficile per i bugiardi professionisti.

La macchina della memoria

Se dunque la macchina della verità, ormai in disuso, sembra presentare non poche lacune, ecco che un nuovo strumento fa la sua apparizione proprio in Italia. Si parla dell’ Autobiographical Implicit Association Test (a-IAT), ideato da Sartori nel 2008 presso l’Università di Padova. La sua “creazione” non è recente ma il suo utilizzo è di certo innovativo, è stato il protagonista di alcuni casi di cronaca che gli hanno valso la nomina di “macchina della memoria”. L’obiettivo di questo strumento non consiste nel valutare se il soggetto sta dicendo la verità o meno quanto verificare la veridicità di un evento autobiografico, quello che è possibile indagare grazie allo strumento è solo quello che il cervello del soggetto ricorda come veritiero, ma non è la verità assoluta (Sartori, 2015).

L’ Autobiographical Implicit Association Test è una ‘modifica’ dell’Implicit Association Test (IAT) (Greenwald, et al. 1998), uno strumento molto utilizzato e molto conosciuto tra gli psicologi sviluppato per studiare gli atteggiamenti e le opinioni spontanee delle persone. Lo IAT è un compito che viene svolto al computer, consiste in una serie di prove di categorizzazione e in ognuna di queste prove al centro del monitor compare uno stimolo che deve essere classificato il più velocemente ed accuratamente possibile. Nello specifico, per quanto riguarda il contesto giuridico, il procedimento della macchina della memoria consiste nel sottoporre il soggetto a questo test computerizzato durante il quale deve rispondere a delle frasi che descrivono il ricordo da “validare”. Solitamente queste frasi rappresentano una ricostruzione secondo l’ipotesi accusatoria e una ricostruzione secondo l’ipotesi difensiva, solo una delle due frasi può essere vera. La memoria vera viene riconosciuta in quanto può essere “raggiunta” più velocemente mentre quella falsa ha un percorso cerebrale più “tortuoso” che si riflette in un allungamento abnorme dei tempi di reazione (Sartori, 2008).

Dunque l’ a-IAT, usato come tecnica di rilevamento di una bugia, ha una serie di caratteristiche uniche rispetto alle tecniche tradizionali psicofisiologiche di rilevamento o più recenti come la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Ad esempio, può essere somministrata rapidamente (10-15 minuti), si basa su un’analisi senza equipaggio (non è necessaria la formazione per l’utente) e richiede attrezzature di bassa tecnologia (un computer standard è sufficiente).

È chiaro che, come tutti gli strumenti utilizzati dagli esperti nel processo forense e investigativo, bisogna sempre prestare cautela alle tecniche cui si fa ricorso, le quali, oltre che scientificamente approvate, devono essere accuratamente scelte in base a ciò che si vuole indagare, al soggetto con cui si ha a che fare e devono essere inserite all’interno di un’ampia batteria di test.

L’ Autobiographical Implicit Association Test nella pratica

Questa “macchina della memoria” ha da subito riscosso successo all’interno della comunità scientifica, è stata anche ben accolta dall’opinione pubblica in quanto è entrata in scena in casi di cronaca molto conosciuti nel nostro paese: il delitto di Cogne e il caso di Como.

Il delitto di Cogne

Il delitto di Cogne, avvenuto nel 2002, è divenuto sin dall’inizio un caso mediatico di forte impatto. In questo processo la perizia psichiatrica fatta da esperti ha svolto un ruolo determinante. Ripercorriamo brevemente la vicenda. Nel gennaio del 2002 in una cittadina valdostana, Cogne, viene rinvenuto il cadavere di un bimbo di appena tre anni. A trovare il bambino e a chiamare i soccorsi è la madre, Annamaria Franzoni. Già pochi mesi dopo il delitto la madre viene considerata colpevole e, dopo una serie di vicissitudini giudiziarie, nel 2008 verrà condannata in via definitiva dalla Corte di Cassazione, a 16 anni di carcere. Giungere alla definizione di colpevolezza non è stato semplice, molti sono stati i processi e i ricorsi nonché le perizie effettuate. La donna fu individuata fin dall’inizio come unica responsabile dell’omicidio e la sua personalità, già nel primo processo, fu oggetto di rilievi psicologici e psichiatrici da parte degli esperti. Le perizie psichiatriche, effettuate dal professor Fornari, delinearono il profilo di una donna con una personalità affetta da “nevrosi isterica”, cioè portata alla teatralità e alla simulazione perché incapace di elaborare in modo maturo le problematiche della quotidianità. Dalle indagini effettuate inoltre emerse che la donna aveva spesso lamentato un malessere dopo la nascita del figlio, malessere che era stato blandamente curato con un leggero antidepressivo, non è mai stato accertato però se soffrisse di depressione post-partum o se fossero solo dei sintomi transitori, in seguito verrà anche ipotizzato che la Franzoni soffrisse di attacchi di panico.

Tra i vari strumenti utilizzati durante le perizie, troviamo l’ Autobiographical Implicit Association Test. Il quesito posto dal giudice ai periti era di accertare se la donna avesse “in memoria l’omicidio del figlio Samuele come fatto riconducibile ad una sua azione”, facendo ricorso all’ Autobiographical Implicit Association Test è emerso che Annamaria Franzoni <<ha un “ricordo autobiografico chiaro dei fatti relativi all’omicidio” e che esso “corrisponde alla verbalizzazione ripetutamente fornita nel corso del processo”: in altri termini nel 2009, e cioè nel momento in cui sono stati somministrati i test sopraindicati, la ricostruzione dei fatti dell’omicidio fissata nella memoria di Annamaria Franzoni, in base alle risultanze di tali test, è effettivamente quella che ha raccontato nel corso del processo>> (Trib. Torino, ud. 19 aprile 2011, Franzoni e altro, Est. Arata). Ciò vuol dire che il test usato dai consulenti dimostrerebbe che l’imputata, quando racconta ciò che accadde la mattina dell’omicidio, non mente ma espone quello che ricorda come essere accaduto realmente. Nella mente della donna non c’è memoria del delitto, essa ha un ricordo di sé come innocente. Affermare ciò non vuol dire che lei sia realmente innocente ma è probabile che abbia semplicemente cancellato quel ricordo, attraverso un tipo di rimozione definita “amnesia lacunare psicogena” (Sartori, 2015).

Il caso di Como

Nel 2009, in un paese nella provincia di Como, Stefania Albertani viene arrestata in quanto colta in fragranza di reato mentre tenta di dar fuoco alla madre. L’intervento tempestivo delle forze dell’ordine è dovuto alle intercettazioni ambientali cui la donna era soggetta in quanto sospettata della sparizione della sorella. Si scoprirà infatti che Stefania Albertani aveva ucciso la sorella maggiore segregandola in casa e costringendola ad assumere psicofarmaci in dosi letali che ne avevano causato il decesso. Il Gip condannerà l’imputata a venti anni di reclusione riconoscendole un vizio parziale di mente per la presenza di «alterazioni» in «un’area del cervello che ha la funzione» di regolare «le azioni aggressive» e, dal punto di vista genetico, di fattori «significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento» (Gip Como, 2011). L’imputata viene sottoposta a diverse perizie. I periti concludono che la donna è affetta da psicosi dissociativa per cui le viene riconosciuto un vizio parziale di mente. Inoltre, dato che l’imputata afferma di non ricordare nulla del crimine, viene sottoposta all’ Autobiographical Implicit Association Test utilizzato in questo caso per verificare se una certa informazione è codificata nel cervello di Stefania come traccia mnesica oppure no. Da questo strumento emerge che l’imputata dice la verità quando afferma di non ricordare i particolari del crimine in quanto non viene segnalato alcun rallentamento nei tempi di reazione, dunque Stefania Albertani ha un’amnesia dissociativa e non è una simulatrice.

Lo IAT non è certo un mezzo di prova ma uno strumento tecnico atto a fornire informazioni al perito, informazioni che hanno per oggetto il contenuto autobiografico della memoria del periziando. È chiaro che, come tutti gli strumenti utilizzati dagli esperti nel processo forense e investigativo, bisogna sempre prestare cautela alle tecniche cui si fa ricorso le quali, oltre che scientificamente approvate, devono essere accuratamente scelte in base a ciò che si vuole indagare e al soggetto con cui si ha a che fare e devono essere inserite all’interno di un’ampia batteria di test.


Vedi anche: Psicologia Giuridica e Peritale

La Sindrome Psicotica Attenuata (Attenuated Psychotic Syndrome – APS): dalla ricerca al dsm-5

Inizialmente, la dicitura proposta per la Sindrome Psicotica Attenuata era “Psychosis Risk Syndrome”. Successivamente, tecnici e clinici hanno concordato che potesse essere prematuro l’inserimento di una nuova categoria diagnostica basata principalmente sul rischio futuro piuttosto che sul bisogno clinico attuale.

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Inquadramento negli stati mentali a rischio

La Sindrome Psicotica Attenuata (Attenuated Psychosis Sydrome) è una condizione clinica inclusa nel capitolo “Condizioni che necessitano di ulteriori studi”, della Sezione III del DSM-5.

Essa è frutto degli sviluppi della ricerca clinica inerente gli esordi psicotici, la quale ha concentrato l’attenzione sulle fasi premorbose ed in generale precedenti un primo episodio psicotico.

Si è dunque giunti alla concettualizzazione di condizioni cliniche a rischio, definendo gli stadi dello sviluppo di un disturbo psicotico. Nello specifico, la Sindrome Psicotica Attenuata (APS), è inclusa tra le condizioni che definiscono uno stato UHR (Ultra High Risk for Psychosis) (Yung, McGorry 1996). Altre condizioni che caratterizzano gli UHR sono la presenza di sintomi psicotici brevi ed intermittenti (BLIPS – Brief Limited Intermittent Psychotic Symptoms), la familiarità genetica ed il declino del funzionamento (Schultze-Lutter F. et al, 2015; Raballo et al, 2016).

Sono riconosciute due fasi premorbose dei disturbi psicotici: nella prima prevarrebbero il calo del funzionamento e una serie di Sintomi di Base (BS – Basic Symptoms), che riguardano il pensiero, la percezione ed altre funzioni cognitive (Schultze-Lutter et al, 2007,  Schultze-Lutter, 2009). Nella seconda fase, più prossima alla transizione alla psicosi, prevarrebbero i sintomi UHR, tra cui BLIPS e Sindrome Psicotica Attenuata (Fusar Poli et al, 2013).

Inizialmente, la dicitura proposta per la Sindrome Psicotica Attenuata era “Psychosis Risk Syndrome”. Successivamente, tecnici e clinici hanno concordato che potesse essere prematuro l’inserimento di una nuova categoria diagnostica basata principalmente sul rischio futuro piuttosto che sul bisogno clinico attuale. Ciò era supportato dall’evidenza che una grande porzione di pazienti con questa costellazione sintomatica non sviluppava in seguito un disturbo psicotico, e che la maggior parte di questi individui mostrava ulteriori sintomi e difficoltà che non si esaurivano nel rischio di esordio psicotico (Tsuang et al, 2013).

Di qui dunque la scelta teorica di focalizzare l’attenzione clinica, dall’inquadramento del caso fino al piano terapeutico, sui bisogni clinici attuali piuttosto che sul rischio futuro. Quindi, la scelta di utilizzare la dicitura Attenuated Psychosis Syndrome, la quale descrive i bisogni clinici di condizioni a limite, caratterizzati da sintomi psicotici in forma attenuata che possono sfociare in diversi disturbi psichiatrici, tra cui anche – ma non necessariamente – i disturbi dello spettro psicotico.

La Sindrome Psicotica Attenuata nel DSM-5

I criteri diagnostici proposti nel DSM-5 per la Sindrome Psicotica Attenuata sono i seguenti:

  • A. Almeno uno dei seguenti sintomi è presente in forma attenuata, con un giudizio di realtà relativamente intatto, ed è di severità e frequenza sufficienti da giustificare attenzione clinica:
    • Deliri.
    • Allucinazioni.
    • Eloquio disorganizzato.
  • B. Il/i sintomo/i deve essere stato presente almeno una volta a settimana nell’ultimo mese.
  • C. Il/i sintomo/i deve essere iniziato o peggiorato nell’ultimo anno.
  • D. Il/i sintomo/i deve essere sufficientemente stressante e disabilitante per l’individuo da giustificare l’attenzione clinica.
  • E. Il/i sintomo/i non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale, incluso un disturbo depressivo o bipolare con caratteristiche psicotiche, e non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica.
  • F. Non sono mai stati soddisfatti i criteri per nessun disturbo psicotico.

Di particolare importanza sono i criteri A e F, i quali separano e differenziano i sintomi e i disturbi psicotici. Il criterio A spiega come la sindrome sia caratterizzata da sintomi simili a quelli presenti nei disturbi psicotici, ma che a differenza di queste ultime condizioni, essi sono sottosoglia.

La differenza tra i sintomi del criterio A nella Sindrome Psicotica Attenuata e negli altri disturbi psicotici come ad esempio la Schizofrenia, consiste in una minore intensità e maggior transitorietà. Vi è un maggior insight e l’esame di realtà è maggiormente conservato. Nei disturbi psicotici tali sintomi appaiono invece più strutturati e invalidanti e sono presenti a medio e lungo termine.

È tuttavia presente un forte disagio ed una compromissione o riduzione del funzionamento dell’individuo nei differenti ambiti di vita, come sottolineato anche dal criterio D.

In genere i deliri sono meno rigidi rispetto ai disturbi psicotici e sono caratterizzati principalmente da sospettosità e senso di grandiosità. Le allucinazioni possono essere più o meno vivide, più frequentemente includono dispercezioni sensoriali, prevalentemente uditive e visive.

La disorganizzazione comportamentale riguarda prevalentemente l’eloquio, esso è frequentemente bizzarro ma non compromesso. Nelle condizioni più gravi possono essere presenti blocchi del pensiero e perdita dei nessi associativi, i quali possono essere comunque ristabiliti. Possono inoltre essere presenti altri sintomi o condizioni cliniche, in particolare stati o disturbi ansiosi e depressivi, ritiro sociale, alterazioni emotive, comportamentali e cognitive (APA, 2013).

Esordio, decorso e fattori di rischio

È importante ricordare che la Sindrome Psicotica Attenuata è stata concettualizzata all’interno degli UHR e degli stati mentali a rischio in generale, condizioni che riguardano giovani e adolescenti di età compresa tra i 15 e i 30 anni. Le ricerche hanno mostrato come in questa fase possono essere tracciati vari sintomi ed episodi predittivi dello sviluppo di disturbi psicotici (Yung, McGorry 1996). Tuttavia, la transizione alla psicosi non è una diretta conseguenza di tali sintomi: essi possono andare in remissione spontaneamente, essere trattati efficacemente oppure sfociare in altri disturbi clinici, in particolare disturbi depressivi, ansiosi, bipolari e disturbi di personalità.

L’esordio di questi sintomi è frequentemente in età adolescenziale, preceduto solitamente da una serie di cambiamenti nell’area affettiva, cognitiva e comportamentale. Tali cambiamenti sono solitamente aspecifici, lievi e di breve durata, in particolare nelle prime fasi.

Il  DSM-5, così come riportano le ricerche (APA, 2013; Krucick, 2014; Heckers, 2009; Tandon et al, 2012), pone l’accento sui fattori di rischio biologici e sull’alta familiarità per disturbi psicotici o altri disturbi psichiatrici, così come i fattori psicologici e ambientali. Alcuni studi inoltre hanno mostrato tassi di remissione dallo stato UHR che variano dal 15% al 54% (Simon et al, 2011).

Prevalenza e transizione alla Psicosi

La prevalenza di giovani con Sindrome Psicotica Attenuata è molto difficile da stabilire. È stimata intorno al 5% (Linscott and van Os, 2012), ma si ritiene che solo una piccola parte di essi si rivolga ai centri clinici e ricevano una diagnosi (Tsuang, 2013).

Sebbene la Sindrome Psicotica Attenuata non sia necessariamente una diagnosi che precede lo sviluppo di un disturbo psicotico, sono state svolte varie ricerche e follow-up per tracciare l’affidabilità nel predire lo stato di rischio ed in generale appare come effettivamente vi sia una transizione maggiore dei soggetti UHR rispetto alla popolazione generale (Cannon et al., 2008).

Un’importante meta-analisi svolta nel 2012 ha coinvolto 27 studi per un totale di 2500 pazienti, tenendo in considerazione le variabili cliniche, demografiche e metodologiche. I dati raccolti mostrano un rischio di sviluppo della psicosi molto elevato, che aumenta nel corso degli anni. Nello specifico, la transizione è stimata intorno al 18% dopo i primi 6 mesi, 22% dopo il primo anno e 29% dopo due anni.  Dopo il terzo anno il tasso di transizione alla psicosi è del 36%. (Fusar-Poli et al, 2012).

Ciò appare valorizzare l’implementazione di tali categoria diagnostica nei centri di trattamento e la produzione di conoscenza cliniche attraverso il prosieguo della ricerca. Tsuang (2014) sottolinea come il suo utilizzo sia importante quando non vi sono altre categorie diagnostiche che definiscano meglio quei pazienti che mostrano disagi clinici ma che non soddisfano i criteri per una diagnosi pura, restando in una condizione di rischio ma senza ricevere le cure o l’attenzione necessaria.

Trattamento

I dati riguardanti i trattamenti d’efficacia sono pochi e poco chiari. Attualmente i trial svolti sembrano andare in direzioni simili a quelli proposti per le psicosi (CBT e farmaci antipsicotici), ma la ricerca è ancora in atto e deve tenere conto oltre che del tipo di sintomi, della loro natura attenuata e transitoria.

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