expand_lessAPRI WIDGET

Il parto e la tocofobia – Mamme e papà si diventa

Il parto è un evento che comporta una separazione e interrompe la fusione fisica tra la mamma e il bambino. Si tratta di un evento fisiologico in cui emergono rappresentazioni culturali e sociali, fattori familiari ed emotivi. La tocofobia indica la paura del parto ed è caratterizzata da intensa ansia e dal terrore di morire.

 

L’evento psicosomatico del parto

Il parto è un evento che comporta una separazione e interrompe la fusione fisica tra la mamma e il bambino. Da alcune donne può essere vissuto come una liberazione, da altre come una perdita. A tale evento, la donna, il bimbo e la coppia si preparano per tutti i 9 mesi di gestazione. Nel parto, psicologicamente, può essere presente il conflitto tra l’impulso ad espellere il bambino e la tendenza a trattenerlo e gli spasmi perineali possono essere la manifestazione somatica dell’angoscia psichica della perdita (Imbasciati, Cena, 2015).

Si tratta, inoltre, di un evento fisiologico in cui emergono rappresentazioni culturali e sociali, fattori familiari ed emotivi. Secondo Pancheri (1984), il travaglio e il parto costituiscono una fase influenzata da molteplici fattori di natura psicosomatica: i cambiamenti neuroendocrini e fisiologici sono influenzati dalla mente della mamma e da come è avvenuta l’elaborazione e la preparazione psichica all’evento della nascita già nei mesi precedenti.

Il dolore del travaglio

Il dolore è un vissuto che accompagna il travaglio e ha inevitabilmente una causa biologica, sebbene anche la condizione emotiva della donna moduli i processi sia cognitivi che somatici e incida sulla percezione del dolore. Per questo, ogni donna percepisce uno specifico dolore a seconda delle esperienze attuali e vissute nella propria storia da bambina e da donna (Imbasciati, Cena, 2011). Dunque, il travaglio e il parto risultano un processo psicosomatico, in cui i fattori biologici e quelli psichici si influenzano reciprocamente. È stato, infatti, dimostrato che le donne che hanno espresso e verbalizzato la paura del dolore durante la gravidanza hanno avuto un travaglio più breve (Maggioni, 2003). Dunque, il modo in cui è stata vissuta psicologicamente la gravidanza influenza  l’andamento del parto: le preoccupazioni e le angosce vissute durante i 9 mesi di gestazione sono presenti anche al momento del travaglio.

L’influenza dei fattori culturali e dello stile materno sulla scelta del tipo di parto e del luogo

Durante il parto, entrano in gioco anche fattori culturali; ad esempio in alcune società avviene in luoghi appositi, in cui poche persone possono avere accesso; in altre culture, invece, la nascita di un bambino è un evento sociale cui partecipa tutta la comunità (Raphael-Leff, 2014). Nonostante queste differenze culturali, l’importante è che la donna partorisca in un contesto da lei percepito come sicuro e accogliente, in cui poter esprimere i propri desideri e le proprie paure.

Inoltre, diverse ricerche (Raphael-Leff, 2014) hanno dimostrato che le donne durante la gravidanza sviluppano uno stile materno che influenza le aspettative, fantasie e rappresentazioni della donna gravida e la relazione tra madre e bambino. Tale orientamento materno influenza anche la scelta delle modalità del parto. Raphael-Leff ha definito 3 stili materni: lo stile della madre “facilitante”, quello della madre “regolatrice”, mentre nel mezzo si colloca lo stile della “reciprocità”. La madre “facilitante” vive la maternità come un’esperienza positiva; si costruisce la propria identità di madre, accetta la gravidanza e si prepara adeguatamente al parto; la madre “facilitante” in genere non coglie nessun difetto o problematica nella gravidanza, la vive come un’esperienza meravigliosa e a volte rischia di sacrificare completamente se stessa e la sua realizzazione personale e professionale per il bambino. Le donne con un orientamento “facilitante” di solito preferiscono il parto naturale, in casa e vivono il travaglio e il parto come un evento emozionante.

La madre “regolatrice”, invece, non tollera le trasformazioni corporee, considera il feto un intruso e il parto è concepito come un’esperienza negativa; le mamme con un orientamento “regolatorio” spesso prediligono un parto in un posto asettico e tale evento è concepito come una crisi dolorosa da sopportare, tanto da ricercare qualunque mezzo per anestetizzare il dolore. La conoscenza del bambino dopo la nascita si preferisce che avvenga in maniera graduale.

In una posizione intermedia, invece, si colloca lo stile della reciprocità: la donna è felice di aspettare un bambino, ma presenta anche rimpianti rispetto ai cambiamenti inevitabili che subiranno la sua vita professionale, personale e di coppia. Le donne con questo tipo di stile materno, di solito, preferiscono un parto attivo; questa fase viene vissuta come un processo naturale, attraverso il quale il bambino può venire al mondo.

Con il parto, dunque, avviene un passaggio dalla realtà psichica a quella esterna; il bambino viene alla luce e sostituisce il bambino immaginario, fantasticato durante la gravidanza.

La tocofobia

La tocofobia indica la paura del parto ed è caratterizzata da intensa ansia e dal terrore di morire durante il parto. Tale disturbo può essere suddiviso in tocofobia primaria e tocofobia secondaria: la prima è presente ancora prima di concepire un figlio, la seconda può sopraggiungere dopo un precedente parto vissuto in modo traumatico. In questi casi, possono essere utili interventi sia di prevenzione rivolti alle donne a rischio sia di preparazione al parto.

La paura del parto, se pervasiva e se associata al rifiuto dell’esperienza stessa, porta ad un aumento della rigidità muscolare e dei tessuti; l’intolleranza della paura e la non accettazione dell’andamento del dolore, generano un circolo vizioso di dolore continuo e un abbassamento della soglia del dolore.

Una funzione rilevante nel percorso della nascita è rappresentata dalle ostetriche e dai ginecologi. Se tra questi e la donna si stabilisce una buona alleanza terapeutica, ciò favorisce una maggiore tolleranza al dolore durante il travaglio e il parto. Molto utili possono essere anche i corsi di preparazione alla nascita, che prevedono una serie di esercizi di respirazione e di tecniche di rilassamento. Se tali corsi prevedono anche la figura dello psicologo, con cui poter esprimere sentimenti, ansie e preoccupazioni, le donne hanno la possibilità di giungere al momento del parto con una maggiore preparazione psicofisica.

I farmaci per l’ADHD hanno effetti sull’umore? Quali?

Un nuovo studio mostra che le persone in salute che assumono farmaci per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) sperimentano un aumento del glutammato, un neurotrasmettitore, in alcune parti chiave del cervello. Questa variazione è associata a un successivo miglioramento dell’umore.

I risultati di uno studio pubblicato su Neuropsychopharmacology, non solo forniscono indizi su come questi farmaci per l’ADHD influenzino il cervello, ma accennano anche a un legame precedentemente sconosciuto tra glutammato e umore.

[blockquote style=”1″]Questa è la prima volta che un aumento del glutammato cerebrale in risposta ai farmaci psicostimolanti è stato dimostrato negli esseri umani. Questo è importante poiché il glutammato è il principale neurotrasmettitore responsabile dell’eccitazione nel cervello e influenza l’apprendimento e la memoria[/blockquote]

ha detto Tara White, un assistente professore alla Brown University School of Public Health e autore principale del nuovo studio. L’aspetto ancora più interessante è che l’aumento del glutammato sembrerebbe informarci sull’ampiezza e la durata delle risposte emotive positive al farmaco.

[blockquote style=”1″]Data la tempistica di questi effetti – l’effetto del glutammato viene prima, e l’emozione positiva viene dopo – questo potrebbe indicare un nesso causale tra glutammato e innalzamento del tono dell’umore […] Milioni di bambini a livello nazionale assumono farmaci per curare l’ADHD. Ma oltre all’uso prescritto, c’è un fiorente mercato nero per questi farmaci, che i giovani usano per migliorare l’attenzione, l’umore, il lavoro e le prestazioni scolastiche. Ancora poco si sa quali siano gli effetti di questi farmaci a livello neurologico su soggetti sani [/blockquote]

dice la White.

ADHD: i risultati dello studio su Desoxyn e d-amfetamina

In questo nuovo studio, i soggetti sono stati sottoposti a uno screening per la salute mentale e fisica e, successivamente, sono stati sottoposti a scansioni di spettroscopia MRI progettate per rilevare la concentrazione di composti neurali in specifiche regioni del cervello. Basandosi sulla letteratura medica sugli psicostimolanti, White e il suo team volevano osservare l’attività della corteccia cingolata anteriore, una regione del cervello che collega più reti cerebrali coinvolte nell’emozione, nel processo decisionale e nel comportamento. Il team ha scoperto che due farmaci per l’ADHD (Desoxyn e d-amfetamina) hanno aumentato significativamente la quantità complessiva di glutammato nella corteccia cingolata anteriore dorsale destra anche dopo aver controllato possibili fattori confondenti, come il volume di materia grigia nella regione.

L’aumento del glutammato cerebrale ha predetto sia la durata che l’intensità delle emozioni positive, misurate dalle valutazioni dei partecipanti sul fatto che apprezzassero il farmaco o si sentissero di buon umore dopo averlo consumato.
Gli autori, però, sottolineano che la ricerca dimostra solo un’associazione tra glutammato e umore positivo e non necessariamente una relazione causale. Tuttavia, il fatto che lo stato emotivo cambi in maniera coerente in seguito ai cambiamenti dei livelli di glutammato suggerisce una causalità, anche se al momento è necessario ottenere maggiori risultati da studi più approfonditi.

Il glutammato è il neurotrasmettitore più abbondante nel cervello, secondo la ricercatrice e il suo ruolo nell’apprendimento e nella memoria è ben chiaro. Un potenziale collegamento tra glutammato e umore sarebbe una scoperta nuova.

[blockquote style=”1″]Questa è la prima volta che vediamo un collegamento tra l’aumento del glutammato cerebrale e l’aumento del tono dell’umore nelle persone sane[/blockquote]

sostiene la White, che ha sede presso il Brown’s Center for Alcohol and Addiction Studies.

La ricerca ha anche trovato prove di differenze di genere negli effetti dei farmaci: le donne del campione hanno mostrato un aumento maggiore del glutammato rispetto agli uomini. Le donne hanno anche risposto in modo più energico al Desoxyn, rispetto alla d-amfetamina. La differenza di genere è coerente con gli studi precedenti sugli animali, che mostrano maggiori effetti stimolanti dei farmaci nelle femmine rispetto ai maschi. Le differenze tra i due farmaci indicano anche che questi possono avere effetti diversi sul glutammato e altri composti nel cervello. White e i suoi colleghi sulla base di queste prove indicano che l’aumento di glutammato coinvolge cambiamenti negli enzimi e nei precursori del glutammato. Ciò suggerisce che i ricercatori hanno visto il segnale di glutammato che proveniva dal glutammato appena prodotto, piuttosto che dalla ricaptazione. Con ulteriori ricerche, i nuovi dati potrebbero aiutare gli scienziati a capire meglio come gli individui rispondono in modo diverso alle droghe e cambiano le emozioni positive nel tempo.

[blockquote style=”1″]I risultati attuali forniscono la prima prova che nell’uomo i cambiamenti indotti dal glutammato in seguito all’assunzione del farmaco correlano con esperienze soggettive di gradimento dopo l’assunzione di droghe[/blockquote]

scrivono White e colleghi.

Stress sociale: cambiamenti nei batteri intestinali

Secondo un nuovo studio della Georgia State University, l’esposizione allo stress psicologico sotto forma di conflitto sociale, è sufficiente ad alterare la flora batterica nelle cavie da laboratorio, composte da criceti siriani.

Lucia Marangia

 

È stato a lungo detto che gli umani hanno “sentimenti viscerali” , ma non è noto come l’intestino possa comunicare quei “sentimenti” al cervello. È stato dimostrato che il microbiota intestinale, la complessa comunità di microrganismi che vivono nei tratti digestivi dell’uomo e di altri animali, può inviare segnali al cervello e viceversa.

Inoltre, dati recenti hanno evidenziato che lo stress è in grado di alterare il microbiota intestinale. Per quanto riguarda gli esseri umani lo stress più comune è quello relativo alle relazioni socialistress che può innescare o peggiorare alcune forme di malattia mentale come l’ansia e la depressione.

I ricercatori hanno esaminato se, un lieve stress sociale generato da una situazione di conflitto  possa alterare il microbiota intestinale nei criceti; e se, in tal caso, questa risposta sia diversa negli animali che “vincono” rispetto a quelli che “perdono”.

I criceti sono ideali per studiare lo stress sociale perché formano rapidamente gerarchie di dominanza. In questo studio, coppie di maschi adulti sono stati messi insieme e hanno iniziato rapidamente a competere, fino a che non si è avuto un animale dominante (vincitore) ed uno subordinato (perdente). I loro microbi intestinali sono stati campionati prima e dopo il primo incontro e dopo nove interazioni.
Il campionamento è stato eseguito anche in un gruppo di controllo di criceti che, non essendo mai stati messi in condizioni competitive, non hanno subito stress sociale.

I risultati, pubblicati nella rivista Behavioral Brain Research, ci dicono che anche una singola esposizione allo stress sociale causa un cambiamento nel microbiota intestinale, cambiamento simile a quello che si sarebbe potuto osservare in seguito ad altri eventi stressanti (fisici) molto più gravi.
Inoltre  questo cambiamento diventa più evidente dopo esposizioni ripetute a stress sociale.

I ricercatori, partendo dal presupposto che i “perdenti” sono soggetti ad un rilascio più marcato dell’ormone dello stress, hanno inizialmente ipotizzato che i cambiamenti del microbiota sarebbero stati più evidenti proprio tra chi aveva subito una sconfitta.
Inoltre, i dati hanno evidenziato che lo stress sociale indipendentemente dal fatto di vincere o perdere, ha comunque modificato il microbiota dei contendenti.

Una scoperta intrigante è invece arrivata dall’analisi dei campioni presi prima che gli animali fossero posti in contesti competitivi.
Questi risultati suggeriscono la presenza di una comunicazione bidirezionale tra il cervello e l’intestino che non a caso, sempre più spesso, viene indicato come il “secondo cervello”.
Da un lato c’è lo stress che ha un impatto sul microbiota, e dall’altro la tipologia di batteri intestinali che sembra in qualche modo avere influenza sulle modalità con le quali l’organismo risponde allo stress.

Questo studio offre l’evidenza che il microbiota intestinale può regolare il comportamento sociale.

L’uso delle tecniche immaginative nella Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI)

Le tecniche di immaginazione guidata trovano ampio sostegno in letteratura. La ricerca ha mostrato che avere un’immagine nella mente, sia che si tratti di un ricordo o di un’immagine appena costruita, è una esperienza emotivamente più carica rispetto al riferirsi alle stesse esperienze attraverso il canale verbale.

 

Se non ci piace dove stiamo possiamo spostarci, non siamo alberi (Snoopy).

Nell’ambito della terapia cognitiva si assiste in questi anni ad una forte diffusione delle tecniche immaginative usate a vari scopi e in diversi momenti della terapia, dall’assessment alle fasi di promozione del cambiamento. Le immagini mentali sono componenti centrali dell’esperienza psichica e sono dotate di caratteristiche sensoriali, oltre che cognitive ed emotive (Hackmann, Bennett-Levy e Holmes, 2014). Beck fin dagli esordi della terapia cognitiva riteneva centrale il ruolo dell’imagery per comprendere la sofferenza emotiva (Beck, 1970; Beck, 1971).

In letteratura quando si parla di immmaginazione guidata (o imagery) si fa riferimento sommariamente a:

  • immagini mentali e ricordi
  • imagery notturna (sogni e incubi)
  • immagini metaforiche
  • immagini intrusive

Spesso l’ immaginazione guidata è riferita a ricordi di eventi specifici, e ciò è facilmente comprensibile se si considera il Disturbo post traumatico da stress (PTDS), dove spesso il paziente riferisce di subire l’apparizione nella sua mente di immagini intrusive che sono quasi sempre frammenti dell’evento stressante o che in qualche modo ad esso si collegano. L’ imagery inoltre è spesso vivida, caricata emotivamente e corredata di intense componenti sensoriali per lo più visive ma anche uditive, tattili e motorie.
In letteratura la ricerca ha mostrato che avere un’immagine nella mente, sia nel caso di un ricordo, sia di una nuova immagine appena costruita è una esperienza emotivamente più carica rispetto al riferirsi alle stesse esperienze attraverso il canale verbale: immaginare di saltare giù da una scogliera è diverso che averne il solo pensiero (Holmes et al., 2006). Le immagini hanno inoltre un impatto più potente sulle emozioni positive rispetto all’elaborazione verbale e quindi le tecniche utilizzate per promuovere cambiamenti positivi dovrebbero utilizzare anche l’ immaginazione guidata (Holmes et al., 2007).

L’immaginazione guidata nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI)

Una delle prime azioni terapeutiche che si effettua in Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) riguarda la raccolta di uno o più episodi narrativi attraverso cui il clinico ricostruisce gli schemi disfunzionali alla base della sofferenza.
L’episodio narrativo per sua definizione è un evento preciso, definito concretamente nel tempo e descritto in dettaglio con dovizia di particolari concreti sul piano della scenografia e sceneggiatura (chi c’era?, dove eravate?, chi ha detto cosa? etc.). Lo scopo è quello di raccogliere, al di là di racconti generalizzati, cosa il paziente ha provato in quella situazione specifica e in relazione a quella persona. Lo scopo metodologico è la raccolta di esperienze che ricadano nella memoria episodica meno soggetta a distorsioni e bias quali la generalizzazione e l’intellettualizzazione. Lo scopo ulteriore è quello di cogliere e far cogliere al paziente lo stato mentale entro cui si genera l’emozione che il paziente riporta come sofferenza.

Inoltre ciò che caratterizza l’episodio è la sua componente interpersonale: sulla scena appare il paziente, con un desiderio attivo (es. vorrei sentirmi apprezzato), appare però anche un Altro che nello schema patogeno solitamente risponde al desiderio in maniera disfunzionale (es. fa una critica), creando nella memoria del paziente una procedura “se.. allora”: se desidero essere apprezzato.. c’è un Altro che mi critica. Il paziente a quel punto costruisce una rappresentazione di sé collegata (ad esempio: non valgo niente) ed entra in uno stato mentale di abbattimento caratterizzato ad esempio da un’emozione di tristezza, con sensazioni anche fisiche e posturali collegate (ad esempio: mimica triste, postura accasciata, movimenti lenti, tono della voce basso etc.), con immagini mentali a ciò associate.

In TMI il lavoro sugli episodi viene fatto fin dalle prime sedute e lungo l’arco della terapia con scopi differenti e spesso l’analisi dell’episodio narrativo si integra con l’ immaginazione guidata con notevoli effetti sul piano della metacognizione del paziente. Se volessimo sommariamente, ma non esaustivamente, delineare alcuni tra i più frequenti utilizzi possiamo così elencarli:

  • incremento della riflessività
  • individuazione di alcune componenti specifiche delle schema interpersonale disfunzionale, quali l’immagine di sé
  • modifica dell’immagine di sé nella fase di costruzione di schemi adattivi
  • identificazione di risorse e parti sane
  • promozione della comprensione della mente altrui e del decentramento

L’immaginazione guidata in terapia: alcuni esempi clinici

Di seguito si riportano alcuni esempi clinici per meglio dettagliare l’uso dell’ imagery e i suoi vantaggi in termini di efficacia terapeutica.

  • Incremento della riflessività: Cristiana

Cristiana 30 anni, disturbo evitante di pesonalità, depressione e disturbo alimentare.

In una fase iniziale della terapia, Cristiana (giovane medico tirocinante) si trova in ospedale e subisce gli urli di una paziente con problemi psichiatrici, a cui sta facendo una medicazione. Durante la medicazione Cristiana sperimenta un profondo senso agitazione. Nel frattempo due infermiere anziane passano davanti alla stanza in cui lei si trova e commentano: “eccole lì, le hanno accoppiate, le due pazze”.
Cristiana riferisce di aver provato tanta paura, tanta tristezza e rabbia. Vuole lasciare il lavoro. La paziente non riesce a riferire altro. Il racconto è freddo, meccanico, l’atteggiamento è distanziante, diffidente anche con il terapeuta.

Il terapeuta decide di utilizzare una tecnica di imagery per esplorare meglio lo stato mentale di Cristiana nella situazione raccontata e aiutarla a comprenderlo e condividerlo. Ad occhi chiusi e dopo aver indotto con la respirazione uno stato di calma per facilitare l’introspezione, Cristiana viene invitata a raccontare la scena con dovizia di dettagli e “usando il tempo presente, come se l’evento stesse succedendo in quel momento”. Il terapeuta chiede di individuare i “punti caldi” (cioè quelli emotivamente più intensi) della scena su cui si soffermerà l’attenzione di entrambi.
Cristiana torna sulla scena, descrive le urla della signora malata (primo punto caldo), si sente inadatta, prova ansia, alza la voce a sua volta. Si percepisce come inadeguata, incapace nelle relazioni con gli altri, si irrigidisce, si chiude anche nella postura, sente vergogna. “Non so fare niente”, piange. Quando le due infermiere fanno quel commento (secondo punto caldo), Cristiana sente vergogna, vuole sprofondare, sparire, si percepisce ridicola, inadeguata, vuole nascondersi, sente che grossa parte della critica sia giusta. Piange ancora.

Il racconto in immaginazione guidata diviene intenso, carico emotivamente, più ricco. E’ possibile ravvisare gli aspetti centrali dello stato mentale temuto e nel commento successivo è possibile iniziare la ricostruzione con la paziente dello schema maladattivo: “quando desidero essere apprezzata e sentirmi capace l’altro mi appare minaccioso e ostile (la signora malata ma anche le due infermiere) quindi sprofondo in uno stato mentale di inadeguatezza e mi sento tremendamente incapace, di non valere e ridicola (immagine di Sé sottostante) e metto in atto perciò comportamenti di evitamento (nascondersi, sparire, lasciare il lavoro) per non sentirmi così”.

  • Individuazione di alcune componenti specifiche delle schema interpersonale disfunzionale, quali l’immagine di sé: Giovanni

Giovanni ha 45 anni, è un imprenditore affermato, titolare di una agenzia immobiliare. La diagnosi è di disturbo passivo aggressivo.

Giovanni riporta difficoltà con la moglie, che descrive come aggressiva ed esageratamente esigente. Le sue reazioni sono varie, la più frequente è la rabbia repressa e con sensazione di costrizione, cui si aggiunge un comportamento di evitamento della sessualità, evento che a sua volta incrementa la rabbiosità della moglie.

Giovanni racconta un episodio di una discussione avuta con la moglie che rivediamo in immaginazione guidata. Ci soffermiamo sul “punto caldo” della scena: la moglie urla contro di lui che non ce la fa più di andare avanti così, che è stanca e stufa. Ci soffermiamo sul volto della moglie: Giovanni lo descrive come una “Furia”. Il volto gli appare trasfigurato, terrificante. Giovanni descrive di provare un senso di paralisi, di congelamento davanti a quel volto, una profonda paura.

Il terapeuta invita Giovanni a soffermarsi su come vede sé stesso in questa scena, lì davanti alla “Furia”: Giovanni, fatica ma riesce a intercettare un’immagine di sé in precedenza inaccessibile. Dice di vedersi goffo, imbranato, rigido nella muscolatura, con il volto ripiegato in basso, come di chi è umiliato ed è d’accordo con chi lo umilia. Si sente colpevole, le accuse sono giuste, la moglie ha ragione. Questa immagine di sé così negativa sostiene lo schema maladattivo di Giovanni e nel corso della terapia sappiamo essersi formata anni addietro quando la madre lo rimproverava duramente e ingiustamente, dopo che tornava a casa stanca e stressata e Giovanni, in quelle occasioni, si sentiva goffo, imbranato e colpevole di aver fatto dispiacere la madre.

  • Modifica dell’immagine di sé nella fase di costruzione di schemi adattivi: Daniela

Daniela, 40 anni, libera professionista.

Daniela racconta in terapia di sperimentare colpa ogni qualvolta prova a fare qualcosa che va contro il volere dell’altro. La storia di vita annovera diversi maltrattamenti subiti.

Lo schema disfunzionale primario che si ricostruisce durante la terapia è il seguente: “se desidero essere vista e ricevere cure, l’altro mi trascurerà e mi maltratterà e in questo caso sperimento un profondo senso di tristezza e solitudine”. L’immagine di sé che sottostà è quella di essere sola, non meritevole di cure e attenzioni, insignificante. Il coping conseguente è di autosacrificio: “nella vita per non sentirmi più così mi occupo degli altri così forse potrò ricevere amore e cure”, il tipico accudimento invertito.

Durante il racconto di un episodio del passato, Daniela riferisce di essere stata percossa sulla schiena dalla madre. Con l’uso dell’ imagery accediamo all’immagine di sé: “sono una bambina sola, nessuno mi può proteggere e difendere, nessuno si occupa di me”. Si immagina rannicchiata per terra a piangere. Daniela sperimenta un profondo dolore durante l’ immaginazione guidata. Il terapeuta la invita a immaginare di far entrare nella scena qualcuno che sia protettivo ed accudente verso la piccola. Daniela fa entrare se stessa da adulta. La Daniela grande si avvicina alla bambina, la stringe a sé, la calma e poi le chiede cosa le piacerebbe fare per stare un po’ meglio. La bambina dice di voler andare al mare. La Daniela adulta la porta via.
Nelle sedute successive dice di aver provato un profondo senso di tenerezza per sé stessa che le rimarrà costante nel tempo a seguire. Uno schema più adattivo inizia a farsi strada nella mente: “se desidero essere vista e amata, posso ottenere cure e posso sperimentare un senso di appagamento e sentirmi accudita e vista”.

  • Identificazione di risorse e parti sane: Antonio

Antonio, 35 anni, impiegato, ha un buon successo lavorativo ed è considerato in gamba dai colleghi e gradevole di aspetto. La diagnosi è di disturbo dipendente di personalità.

Durante l’adolescenza Antonio ha subito diversi fenomeni di bullismo, viveva in una periferia romana, era bravo a scuola ma per i suoi compagni era un po’ un “soggetto” perché studioso e molto religioso. Si vedeva brutto, mal vestito, debole e “sfigato”. In terapia racconta che durante una partita di calcio commette un errore e un gruppetto di compagni comincia a insultarlo, ridicolizzandolo e umiliandolo. Si sente molto addolorato ma anche arrabbiato.

Durante l’esercizio di immaginazione guidata ci soffermiamo sulla scena in cui, coperto dagli sfottò dei compagni, si sente sprofondare. L’immagine di sé presente nello schema disfunzionale è di inettitudine, scarso valore, diversità. L’emozione è la vergogna, la postura è ripiegata su di sé e l’emozione viene localizzata nello stomaco e nel petto, insieme ad un formicolio sul volto.
Lo schema interpersonale disadattivo vede attivo il bisogno di inclusione, a cui si associa la rappresentazione di un altro/altri escludenti, ridicolizzante, con conseguente emozione di vergona.
La sessione immaginativa si conclude e, dopo un breve commento, si decide di effettuare un’altra sessione, questa volta focalizzata su una esperienza in cui Antonio si è sentito parte di un gruppo, in cui ha sperimentato una sensazione positiva diversa dalla vergogna. Il ricordo è relativo ad una cena tra amici, caratterizzata da sfottò e battute dove Antonio ha ricevuto vari commenti scherzosi ma ne ha fatti altrettanti, divertendosi e risultando simpatico a tutti. Nella seconda sessione di imagery facciamo soffermare Antonio su uno dei momenti più positivi della scena e cerchiamo di fare uno zoom sull’immagine di sé. La descrizione è ben differente: l’emozione è di allegria, la postura è rilassata, le spalle sono aperte e il volto sorride. L’immagine di sé è di essere adeguato, in gamba. Oltre a percezioni negative di sé e degli altri Antonio ha dentro di sé risorse e parti sane che ha avuto modo di sperimentare e incamerare.

Il commento finale del terapeuta è volto a far comprendere quanto la percezione della realtà e delle esperienze interpersonali è schema–guidata e che il benessere deriva dal padroneggiare metacognitivamente questi differenti stati mentali.

  • Promozione della comprensione della mente altrui e del decentramento: Ludovica

Ludovica ha 46 anni, disturbo evitante di personalità.

In una fase avanzata della terapia la paziente racconta di una lezione che ha dovuto tenere ad un gruppo di adolescenti in una scuola. C’è stata un’attivazione emozionale molto forte ma per fortuna non c’è stato evitamento: la lezione si è svolta e piuttosto bene. Il racconto si sofferma su un momento intenso: un ragazzo, piuttosto bello, la guarda. Lei prova ansia, si riattivano vecchi ricordi di quando da ragazzina era derisa ed esclusa dai compagni. Rivede sul volto di quell’adolescente la stessa derisione. Con una tecnica di esposizione immaginativa Ludovica viene condotta a soffermarsi su quel volto. Le si chiede di osservarlo e di descrivere che cosa esprime e cosa pensa: “sembra che rida di me e del mio grosso naso. Mi guarda e mi giudica”.
Il terapeuta chiede a Ludovica di osservare più attentamente il volto di quel ragazzo, di guardarlo come se lei non fosse più lì davanti a lui. A quel punto Ludovica lo descrive diversamente: “sembra che sorrida, è un po’ imbarazzato, sembra essere timido”. Nel commento il terapeuta può far notare a Ludovica la potenza di questo meccanismo che condiziona quello che “mettiamo” nella mente altrui.

Conclusioni

L’uso e il grande apprezzamento delle tecniche di immaginazione guidata nella Terapia Metacognitiva Interpersonale è relativo al loro contributo nel cambiamento dello schema interpersonale del paziente, verso la costruzione di schemi più adattivi. La potenza di questo strumento deriva principalmente dal fatto che si può applicare a diverse fasi della terapia e all’interno delle diverse procedure che la TMI adotta. Certamente limitativo sarebbe pensare che il solo cambiamento dell’ imagery produca un cambiamento terapeutico, al di fuori della modifica dello schema disfunzionale.

Il percorso dell’ adozione: ri-conoscersi per continuare insieme

Durante il percorso d’ adozione sono diversi i protagonisti che entrano in scena: non solo la coppia disponibile all’ adozione e i bambini dichiarati adottabili, ma anche i genitori naturali e le istituzioni predisposte. 

 

Adozione e criteri di adottabilità

Il vocabolario definisce l’ adozione come un istituto giuridico grazie al quale soggetti rimasti senza genitori naturali o da questi non riconosciuti o non educabili possono diventare figli legittimi di altri genitori.

L’ adozione è un istituto con una lunga storia: in principio essa prevedeva la sola funzione patrimoniale e assistenziale, per passare poi a una connotazione più altruistica con l’avvento delle società cristiane.

L’ adozione si trasforma ancora nella seconda metà del XX secolo, inizia così lentamente a presentarsi la necessità di disciplinare l’ adozione e di adoperarsi per il rispetto dei diritti dei bambini e dei loro genitori. A tale scopo tra la fine degli anni ’60 e ‘80 sono introdotte la legge n°431/67 per l’ adozione speciale e la legge n°184/83 per l’ affidamento familiare e l’ adozione internazionale (Facchi, Gilson, Villa, 2017).

Secondo la legge 4 maggio 1983 n. 184, perché un minore venga dichiarato in stato di adottabilità deve trovarsi ‘in una situazione di abbandono perché privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio’ (art. 8).

Con la dichiarazione di adottabilità il bambino deve affrontare l’esperienza della separazione definitiva dalle figure genitoriali che non sono state in grado di tutelarlo a sufficienza. Il bambino risulta come sospeso tra il conflitto di voler tornare indietro da quella mamma o quel papà che se pur inadeguati, gli consentivano di appartenere a qualcuno e la paura di nuovi attaccamenti affettivi alternativi ai propri genitori naturali, con tutto il carico di conflittualità e ambivalenza ad essi collegato. (Monaco, Niro, 1999).

I coniugi che intendono adottare dovranno presentare determinati requisiti (sia per le adozioni internazionali che  per quelle nazionali), previsti dall’art. 6 della legge 184/83 (come modificata dalla legge 149/2001) che disciplina l’adozione e l’affidamento:

  • Matrimonio:  la coppia deve essere unita in matrimonio da almeno tre anni, o per per un numero inferiore di anni se i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, e ciò sia accertato dal tribunale per i minorenni;
  • Età: L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando, con la possibilità di deroga in caso di danno grave per il minore.

Una volta accertati i requisiti si potrà intraprendere il tortuoso iter burocratico e psicologico, che passa da una valutazione genitoriale della coppia effettuata dagli Enti locali e validata dal Tribunale per Minorenni, alla richiesta ad un Ente autorizzato per le adozioni internazionali che segue la coppia dalla richiesta all’arrivo del bambino in Italia.

I momenti del percorso dell’ adozione e le criticità

Durante il percorso adottivo sono diversi i protagonisti che entrano in scena: non solo la coppia disponibile all’adozione e i bambini dichiarati adottabili, ma anche i genitori naturali e le istituzioni predisposte. Quali sono i principali momenti del percorso adottivo? Il primo momento riguarda la dichiarazione della coppia di disponibilità all’ adozione e l’ottenimento dell’idoneità; a esso segue il conferimento dell’incarico a un ente autorizzato – in caso di adozione internazionale; l’attesa del bambino; l’incontro tra la coppia e il bambino da adottare e infine è prevista la legittimazione dell’ adozione.

Tuttavia il percorso non è così lineare come descritto, esso può presentare varie criticità, criticità evidenti al punto da essere disciplinate da successive modifiche della legge n°184/1983. Questi punti critici, in taluni casi, hanno condotto a veri e propri fallimenti adottivi. Si tratta spesso di condizioni che, oltre all’interruzione del rapporto tra genitori adottivi e minori, possono terminare con l’allontanamento e il ricollocamento in un’altra famiglia o in una struttura di accoglienza.

Valutazione delle coppie adottanti

La valutazione della coppia genitoriale, indispensabile per l’ottenimento di idoneità, è un processo di delicata importanza. In questo processo non si valuta solo il singolo e le sue capacità genitoriali ma anche l’intero funzionamento della coppia che sceglie di adottare (Brodzinsky & Schechter, 1990): sono così indagate le modalità relazionale e di gestione dei problemi, i livelli di espressione dell’affettività, nonché le capacità di soddisfare i bisogni del bambino (fisici e psichici).

Nella valutazione della coppia bisogna tener conto anche dell’eventuale presenza di strutture psicopatologiche, che possono manifestarsi in diversi gradi: dalla scarsa consapevolezza della responsabilità, alle difficoltà relazionali, fino alla ben più grave possibile presenza di una perversione.

Vi sono diversi strumenti a cui lo psicologo che si accinge alla valutazione dell’idoneità può ricorrere (Elliot, 1995):

  • Il colloquio. Con il colloquio si indagano specifiche aree: dalle pregresse e personali esperienze genitoriali, alle dinamiche relazionali del momento presente. La modalità relazionale dei propri genitori, infatti, nel rapporto con la figura materna e paterna hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo della psiche individuale e tendono a formare modelli di attaccamento riproposti nell’età adulta all’interno della coppia e nella relazione con i propri figli (Bronfenbrenner, 1986). Pertanto, è necessario indagare le esperienze infantili vissute nella famiglia d’origine dei genitori che intendono adottare: il clima era caloroso e accogliente? O si palesava un’atmosfera fredda e rigida? I genitori erano ostili o violenti?
  • L’ osservazione. La consapevolezza di essere valutati spinge i potenziali genitori ad assumere un atteggiamento socialmente desiderabile (Wegar, 2000), che tuttavia è spesso tradito dal comportamento non verbale e dalle modalità con cui i soggetti si relazionano con lo psicologo a prescindere dal contenuto che esprimono. Un occhio esperto che osserva anche questi aspetti garantisce una valutazione più completa.
  • La valutazione psicodiagnostica. Considerando i diversi piani della comunicazione e della organizzazione di personalità dei genitori sarebbe opportuno affiancare alle scale autocompilate uno strumento proiettivo: un quadro sfaccettato e scandito su più livelli (autovalutazione vs. proiezione) può infatti offrire una valutazione più completa possibile.
    Per saperne di più:

Oltre la valutazione iniziale: il proseguimento del contatto con le famiglie adottanti

Oltre al processo di valutazione, è necessario anche il proseguimento del contatto con le famiglie, anche dopo aver effettuato l’abbinamento coppia-bambino, per almeno due motivi.

Il primo motivo riguarda il fatto che, quando si decide di adottare, la coppia è sottoposta a una lunga serie di accertamenti legali, sanitari, sociali e psicologici. L’indagine psico-sociale in particolare viene vissuta come un processo invasivo, pressante e “indagatorio”. Ci si sente giudicati, sotto esame e questo spesso porta a una rottura del legame di fiducia con i servizi stessi. E’ necessario quindi rimarginare questa incrinatura, eliminando il vissuto di giudizio e pressione, aggiungendo l’elemento supportivo e strumentale, in un’ottica di fiducia reciproca.

L’altra motivazione spiega il senso della componente valutativa ma anche il proseguimento del contatto con le famiglie riguarda la natura della genitorialità adottiva in sé. Le famiglie non hanno percezione degli elementi emotivi, psicologici, sociali e culturali che dovranno affrontare con i loro futuri figli. La valutazione iniziale, come il corso preparatorio ed il successivo sostegno ad ogni tappa difficile, è fondamentale per poter affrontare le mille complessità della situazione e per evitare la dolorosa esperienza del fallimento dell’ adozione. Dolorosa e traumatica sia per genitori che per i bambini.

Le adozioni da parte delle famiglie omosessuali

In Italia si è ancora scettici, sia politicamente che socialmente, all’idea dell’ adozione da parte di coppie omosessuali. Ma esistono dei dati scientifici che supportano le ragioni di tale scetticismo? In realtà, negli ultimi vent’anni di ricerche, vi sono dati che mettono in luce come non vi siano differenze significative tra omosessuali e eterosessuali né in relazione alla genitorialità biologica (Temperamenti), né in relazione a quella adottiva (Caratteri). (Patterson 1994, 2001; Wainright & Patterson, 2008; Gartrell et al., 1996, 1999, 2000, 2005).

Quali sono effettivamente i fattori che possono discriminare un buon genitore da un cattivo genitore? L’orientamento sessuale è una discriminante importante? Tra i numerosi studi effettuati negli ultimi anni, ne citiamo uno in cui un team di psicologi ha esaminato 82 bambini, dei quali 60 affidati a genitori eterosessuali e 22 a genitori omosessuali gay o lesbiche (15 con genitori maschi e 7 con i genitori femmine). Tutti i bambini esaminati nello studio avevano diversi fattori di rischio al momento dell’ adozione, tra cui la nascita prematura, l’esposizione prenatale a sostanze, abuso o negligenza, e precedenti affidi. L’età dei bambini variava da 4 mesi a 8 anni, con un’età media di 4 anni, mentre i genitori adottivi avevano un’età compresa tra 30-56, con un’età media di 41. il 68% dei genitori erano sposati o conviventi.

Gli psicologi hanno studiato i bambini due mesi, un anno e due anni dopo che erano stati collocati presso una famiglia. I bambini sono stati sottoposti ad una valutazione cognitiva da uno psicologo clinico tre volte durante il corso dello studio, i genitori hanno completato questionari standard per il comportamento dei bambini in ciascuno dei tre periodi di valutazione. I risultati evidenziano pochissime differenze tra i bambini in tutte le valutazioni effettuate a due anni dal collocamento nella famiglia di genitori omosessuali o eterosessuali. In media, tutti i bambini hanno registrato miglioramenti significativi nel loro sviluppo cognitivo, mentre il livello di problemi comportamentali è rimasto stabile. Il punteggio QI è aumentato in media di 10 punti, da circa 85 a 95, cioè con un forte incremento da funzionamento medio-basso verso il funzionamento medio.

Un dato interessante riguarda il fatto che i bambini adottati da genitori omosessuali avevano più fattori di rischio al momento della loro collocazione, rispetto ai bambini adottati da genitori eterosessuali, ma nonostante questo a due anni dall’ adozione i loro progressi cognitivi sono paragonabili a quelli degli altri bambini del campione.

Lo studio indica dunque che i genitori omosessuali sono in grado di offrire un nucleo accogliente che si prenda cura di questi bambini in modo analogo a quella dei genitori eterosessuali. I risultati dello studio illustrato non sono un’oasi nel deserto ma si mostrano assolutamente in linea con la letteratura dell’ultimo ventennio, che conferma l’idoneità genitoriale delle coppie omosessuali.

 

Adozione: il bambino arriva a casa

L’arrivo a casa del bambino dà inizio a una nuova fase evolutiva. Il bambino e i rispettivi genitori, devono cominciare a “riconoscersi”, come figure familiari, figure di riferimento e di attaccamento reciproco. Devono imparare a riconoscersi. Riconoscersi, a differenza del conoscersi, non è un processo veloce, ma richiede del tempo in modo da trasformare la propria vita, pensato in due, ad una vita che deve includere un terzo.

Anche nell’usuale processo genitoriale, quando nasce un figlio, si stravolge l’ordine di vita precedente, tuttavia il relazionarsi con un figlio proprio, a partire dai primi giorni di vita, consente ai genitori un riassetto graduale dei loro spazi e dei loro tempi, nonché delle loro capacità relazionali ed emotive. I bambini adottati non sempre arrivano in famiglia così piccoli, a volte hanno un trascorso in altre famiglie, persino in altri contesti culturali. Il conoscersi spesso parte già con delle difficoltà oggettive.

Anche il linguaggio del corpo è un linguaggio che potrebbe essere espresso diversamente dai genitori adottivi e dai figli adottati: anche un abbraccio, se il bambino è cresciuto in un ambiente freddo e violento, può essere temuto. Per cui anche i primi contatti sono veri e propri campi di esplorazione sconosciuta.

Nei primi incontri è normale che i genitori siano spaesati e che debbano mettere in campo molteplici risorse e una grande capacità di tolleranza, di flessibilità e accoglienza. I bambini adottati per esempio, nella loro disperata e disperante angoscia, spesso mettono in atto condotte violente e distruttive, aggrediscono cose e persone, feriscono psicologicamente. I genitori dunque, si ritrovano a conoscere qualcuno che sembra non accogliere la loro disponibilità.

L’incontro effettivo con il piccolo, diverso da noi, avviene unicamente grazie alla capacità di sintonizzarsi ad un livello emotivo profondo, che permette di ri-conoscersi, di sentire la stessa cosa, nonostante una storia diversa, un linguaggio diverso, una cultura totalmente lontana. Se si è capaci di stare nello “stesso sentire”, ci si incomincia ad “appartenere”, a creare un nucleo di appartenenza.

Il processo di riconoscimento ha un suo tempo ed una logica in tutte le relazioni genitori-figli, quelle adottive presentano elementi aggiuntivi e articolati che rendo il tutto più difficile e penoso, in gran parte dei casi.

Bisogna ricordarsi che l’ esperienza di e l’attaccamento di questi bambini, spesso sono caratterizzati da assenza, violenza, maltrattamento, che di conseguenza porta a evitamento, insicurezza, angoscia, che complicano l’avvicinamento da parte dell’adulto che li accoglie.

Adozione: gli indicatori di rischio

Galli (2001) ha analizzato e descritto alcuni indicatori di rischio che possono assumere un peso fondamentale nel definire l’esito dell’ adozione; indicatori che riguardano non solo le caratteristiche delle coppie aspiranti all’ adozione e dei bambini che vengono adottati, ma anche le difficoltà e gli eventuali errori di valutazione dei professionisti che operano nel campo. Le peculiarità della coppia che di per sé non costituiscono fattori di rischio, possono invece rivelarsi determinanti di fronte a particolari caratteristiche del minore.

Gli indicatori individuati sono:

  • L’infertilità, la sterilità, i trattamenti medici: è necessario che la coppia abbia elaborato il lutto dalla sterilità/infertilità, e abbia avuto il tempo di creare uno spazio interno per accogliere un figlio adottivo;
  • I disturbi e funzionamento psicosomatico della coppia: spesso, dopo anni di trattamento dell’infertilità, la coppia può iniziare una gravidanza subito dopo avere presentato la domanda di adozione, o anche subito dopo l’arrivo del bambino adottato; altrettanto frequente è il fatto che negli stessi momenti del percorso adottivo, altre coppie manifestino sintomi o malattie psicosomatiche (ad esempio ulcere gastrointestinali, asma bronchiale) più o meno gravi, che incidono sia durante il percorso che in seguito, sulle dinamiche relazionali con il bambino.
  • Le malattie organiche e disabilità: le richieste da parte di coppie nelle quali uno dei partner è affetto da malattie croniche progressive vengono, in alcuni casi, definite adulto-centriche, in cui il bambino adottivo viene a svolgere un ruolo terapeutico nei confronti dell’adulto malato;
  • L’ adozione dopo la morte di un figlio: la richiesta di adozione fatta da queste coppie pone necessariamente di fronte al problema dell’elaborazione del lutto;
  • Il rifiuto di procreare e motivazioni filantropiche: è possibile che dietro queste motivazioni si celino ansietà riguardanti la gravidanza e/o il parto, oppure timori di trasmettere malattie genetiche, o profonde problematiche riguardanti la sessualità di coppia.

Adozione e disturbi di personalità

Per quanto riguarda i disturbi di personalità o altre patologie più gravi, non vi sono in letteratura molti studi legati all’ adozione; alcuni di questi mostrano una maggiore probabilità di sviluppare disturbi di personalità e comportamento a rischio in adulti adottati.

E’ stato infatti registrato (Westermeyer et al., 2015) un aumento nella probabilità di sviluppare qualsiasi disturbo di personalità rispetto ai non adottati; in particolare gli adulti adottati mostravano una probabilità maggiore di possedere un disturbo di personalità istrionica, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, e ossessivo-compulsivo rispetto ai non adottati. Questi risultati supportano i più alti tassi di disturbi di personalità tra gli adottati rispetto ai non adottati.

Adozione e incidenza di comportamenti suicidari

Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota dal 1998 al 2008, da Keyes et al., si è proposta di indagare se lo stato di adozione rappresentava un rischio di tentativo di suicidio per i figli adottati e non adottati che vivono negli Stati Uniti. Gli autori hanno poi esaminato i report dei genitori e i fattori noti per essere associati a comportamenti suicidari tra cui sintomi di disordine psichiatrico, tratti di personalità, ambiente familiare e disimpegno accademico. Dallo studio è emerso che la probabilità di tentativo di suicidio erano quasi 4 volte superiore in adulti adottati rispetto a non adottati. La relazione tra stato di adozione e tentativo di suicidio è parzialmente mediata da fattori noti per essere associati a comportamento suicidario.

Il fallimento dell’adozione

Accanto ad adozioni che riescono ad affrontare le situazioni di crisi evolutive, trovando nuove soluzioni che permettono di conservare i legami affettivi instauratisi, ci sono altre esperienze nelle quali purtroppo prevalgono sofferenza e disagio, tanto nei genitori quanto nei figli, che si concludono con il fallimento e nei casi estremi, con la restituzione del bambino.

I percorsi di adozione risultano spesso complessi e il lavoro degli operatori coinvolti necessita di qualificazione, aggiornamento e responsabilità.

Fallimento adottivo significa per una famiglia il non essere stata in grado di accogliere ed instaurare con un bambino una relazione significativa dal punto di vista affettivo, non attraversando con lui le fasi evolutive, fino al raggiungimento della sua autonomia nell’età adulta. (Galli, Viero, 2001).

Il fallimento adottivo porta il bambino, già segnato dall’esperienza dell’abbandono, a subire un ulteriore abbandono, il cui effetto costituisce un trauma estremamente grave, che comporta conseguenze sul suo sviluppo psichico.

Adozione: fattori di protezione

Tra i fattori di protezione che potrebbero garantire un buon percorso adottivo vi è l’accoglienza della storia del bambino adottato. Vi sono infatti dei momenti, soprattutto in adolescenza, in cui la persona adottata sente il bisogno di reperire informazioni sulla famiglia biologica.

Questo processo psicologico di base sino a poco tempo fa era ostacolato da un modello che considerava l’ adozione una nuova nascita per il bambino, dove tutto il passato doveva essere negato e tenuto nascosto.

Attualmente si sta passando ad un modello basato sul recupero del passato, sulla continuità, sulla triade genitori adottivi, bambini e genitori biologici. Questo implica l’importanza della narrazione, della raccolta di informazioni come punto di partenza affinchè la coppia adottiva possa accompagnare il bambino nella co/costruzione della propria identità. La trasformazione ha implicato una modifica legislativa, infatti l’articolo 28 della legge 184/1983 sancisce l’obbligo per i genitori adottivi di informare il figlio adottato sulle proprie origini.

La possibilità di accedere in maniera trasparente alle informazioni inerenti il passato del bambino diventa fondamentale, non solo per la costruzione del sé, ma appare funzionale su altri piani: sapere aiuta il genitore adottivo ad attribuire significati ai comportamenti ed alle emozioni del bambino.

D’altro canto, se il genitore adottivo conosce la storia del proprio figlio, potrà meglio comprendere e rispecchiarsi emotivamente nella sofferenza di quel comportamento; in caso contrario ed in assenza di una cornice si sentirà inutile e non voluto arrivando a disattivare le proprie cure.

La mentalizzazione è un fattore di protezione per lo sviluppo del bambino che può essere aiutato a rileggere la propria storia e a capire che la mamma non lo ha abbandonato perché lui era cattivo (egocentrismo) ma perché era depressa (decentramento). Mettere i genitori adottivi nella condizione di dare al proprio figlio una chiave di interpretazione della propria storia significa aiutarlo a capire come mai alcuni adulti (tra cui i suoi genitori biologici) hanno fallito nell’assumere il proprio ruolo genitoriale (Vadilonga, 2011).

Adozione: una migliore qualità di vita per chi adotta

Alcuni ricercatori hanno voluto mettere a confronto la qualità della vita di coppie che, dopo un percordo di Fecondazione in Vitro non andato a buon fine, decidono di adottare con la qualità della vita di coppie che, per diversi motivi, non hanno preso in considerazione l’idea di adottare un bambino.

Il gruppo di ricerca è composto da ostetriche e medici dell’Università di Göthenburg che hanno analizzato la qualità della vita in uomini e donne (in totale 979 partecipanti) a distanza di cinque anni dal trattamento IVF (Fecondazione in Vitro). I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi sperimentali: coppie con IVF non andato a buon fine (senza figli), coppie con IVF andato a buon fine (con figli), coppie senza problemi di fertilità e coppie che, ha causa dell’insuccesso dell’IVF, hanno deciso di adottare un bambino. La qualità della vita è stata misurata attraverso l’utilizzo del Psychological General Well Being (PGWB) e del Sense of Coherence (SOC), strumenti che misurano rispettivamente il benessere psicologico generale e il senso di coesione familiare. Sono state, inoltre, raccolte, attraverso ulteriori questionari, informazioni demografiche, socio-economiche e sanitarie.

Dai risultati è emerso che le coppie che decidono di adottare un bambino dopo il fallimento del trattamento IVF vanno incontro a una migliore qualità della vita, sia rispetto alle coppie senza figli che rispetto alle coppie senza problemi di fertilità. La qualità di vita peggiore risulta appartenere alle coppie il cui trattamento IVF è fallito e che sono ancora senza figli.

La genitorialità non è sempre riproduttività, si può essere degli ottimi genitori anche quando il dono di un bambino ci viene dato in altri modi, diversi da quello riproduttivo, e lo studio ci conferma è che, adottando, oltre ad aiutare nostro figlio, aiutiamo anche noi stessi.

La formulazione del caso clinico di Rosario Esposito – Recensione del libro

Il libro di Rosario Esposito su ” La formulazione del caso clinico ” è un importante passo in avanti del cognitivismo italiano verso la presa di coscienza dell’importanza di questo aspetto della terapia e al tempo stesso consente anche di comprendere a che punto siamo con la comprensione di cosa sia una buona formulazione.

 

La formulazione del caso clinico secondo Esposito

Il libro di Esposito ha due meriti. Il primo è semplicemente parlare di formulazione del caso clinico. Lo hanno fatto anche altri, ad esempio i colleghi del Terzo Centro e quelli del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale. Tuttavia raramente il problema era stato messo così al centro della riflessione clinica.

Il secondo merito di Esposito è di avere colto molti aspetti del problema della formulazione del caso clinico: profilo interno, fattori di mantenimento, scompenso e vulnerabilità sono descritti in maniera esaustiva e soddisfacente. Esposito è particolarmente attento a definire operativamente le variabili cosiddette “indipendenti” rispetto alla sintomatologia, che è la variabile dipendente, in modo da superare le secche della diagnosi psichiatrica e arrivare a una comprensione del paziente in termini di psicopatologia cognitiva.

A rendere ulteriormente istruttivo il libro vi è una seconda parte dedicata a una serie di casi clinici che esemplificano in termini chiari e comprensibili la parte teorica del libro. Sono presentati tre casi di panico, ansia e/o depressione, concettualizzati con i classici strumenti del cognitivismo italiano degli ABC primari e secondari.

Le prospettive future

Accanto a questi punti di forza vi sono alcune parziali mancanze che tuttavia vanno considerate strade aperte verso futuri miglioramenti del libro di Esposito, magari già nelle prossime edizioni. Il problema principale paradossalmente sta proprio nella ricchezza di dettaglio della formulazione proposta da Esposito. La complessità di una formulazione del genere rischia di essere poco maneggiabile dal paziente. Di conseguenza, per ora la formulazione di Esposito è più un modello privato del terapista che un modello condiviso tra paziente e terapista di gestione della seduta e quindi di costruzione dell’alleanza terapeutica.

Un modello condiviso, infatti, deve essere costituito da pochissime variabili di semplicissima definizione, in modo da poter essere riportato in poche frasi su un foglio ed essere facilmente memorizzato. Ad esempio, nel modello metacognitivo di Wells la formulazione del caso clinico si riduce al contenuto del rimuginio e alle credenze di utilità, incontrollabilità e dannosità del rimuginio. Quattro variabili che possono essere descritte e monitorate quantitativamente a ogni seduta o quasi e che orientano il trattamento: l’utilità del rimuginio va trattata con interventi di riattribuzione verbale, l’incontrollabilità mediante interventi di detached mindfulness. Nel modello LIBET di Studi Cognitivi, le variabili sono intollerabilità e condizionamento dei temi e utilità e incontrollabilità dei piani. Anche in questo caso quattro variabili facilmente memorizzabili, monitorabili e in grado di orientare operativamente la terapia.

I possibili difetti del libro tuttavia vanno considerati come problemi temporanei e come stimoli costruttivi per il futuro. La precisione e il livello di dettaglio dell’opera di Esposito sono un passo avanti. Si tratta ora di passare dalla ricchezza all’amichevolezza e alla maneggiabilità dello strumento.

Aspetti psicologici del ricovero psichiatrico in età adulta: alcune considerazioni sulla degenza nelle case di cura

Il ricovero psichiatrico in età adulta può essere un periodo di degenza variabile in una struttura privata ed è rivolto all’utenza psichiatrica e doppia diagnosi, la quale accede in seguito ad episodi di scompenso psicopatologico.

 

Il programma terapeutico individuale, pertanto, è finalizzato alla stabilizzazione del quadro clinico e in alcuni casi all’avvio di un progetto alternativo, come la presa in carico presso le comunità terapeutiche e i centri diurni. Dal punto di vista psicologico, pertanto, le finalità ruotano sul lavoro di consapevolezza personale attraverso la partecipazione ai colloqui individuali e di gruppo su tematiche di stampo espressivo e psicoeducativo: il ricovero psichiatrico è quindi uno spazio di confronto collettivo sulle esperienze passate, sui trascorsi recenti, ma anche un momento di riflessione individuale guidato e spontaneo. Non è, quindi, solo il lavoro terapeutico a dover incentivare una meditazione sugli antecedenti allo scompenso, ma anche la possibilità di narrare e condividere le emozioni e i pensieri con le persone che hanno affrontato problematiche analoghe o differenti.

Il ricovero psichiatrico e l’avversione al confronto con gli altri

Alcune volte l’eventualità di incontrare, durante il percorso di ricovero psichiatrico, un altro “diverso”, spesso con disturbi socialmente stigmatizzati, scatena un’avversione al confronto: non è infrequente, ad esempio, incontrare un paziente tossicodipendente o psichiatrico che rifiuta il gruppo terapeutico o gli spazi di socializzazione in reparto, come la sala fumatori, per evitare attivamente l’ascolto e lo scambio delle storie analoghe o differenti.

In questi casi anche nelle sedute individuali si riscontrano sovente tentativi di dirigere il colloquio per sviare l’attenzione dall’argomento centrale, come il consumo di una sostanza, o un problema di natura relazionale, nonostante sia direttamente collegato al motivo dello scompenso: un obbiettivo fondamentale è infatti l’esplorazione delle aree critiche di funzionamento spesso di matrice relazionale che hanno incentivato la ricaduta, pertanto un ostacolo al cambiamento è proprio la difficoltà a rivelarsi e a permettersi di sostare nelle emozioni suscitate dal racconto personale e altrui. In altri frangenti, invece, compare un esasperato ricorso alla narrazione degli stessi temi senza possibilità di considerazioni alternative a quelle intraprese: sia la negazione che la ripetizione sono aspetti importanti da considerare nella motivazione al lavoro psicologico su di sé che andrebbero colti fin dai primi contatti.

Ricovero psichiatrico: i rischi del percorso di degenza

È necessario, infatti, presupporre alcuni rischi nel lavoro con pazienti gravi in ricovero psicohiatrico affetti, nella fattispecie, da disturbi di personalità, dipendenze da sostanze e disturbi psicotici, tra cui la ricerca di conferme su di sé o di un alleato su cui contare, piuttosto che sull’eventualità di incrementare punti di vista alternativi al proprio modo di pensare, sentire e agire. Il terapeuta, in tal senso, può essere fantasticato come un amico anziché un professionista, pertanto è doveroso chiarire fin dalle prime occasioni il ruolo e le finalità degli incontri, astenendosi dal colludere con dinamiche che deviano dall’obbiettivo terapeutico.

Per prima cosa occorre considerare che il ricovero psichiatrico in una casa di cura è certamente volontario, ma non comporta necessariamente un’autentica collaborazione con i professionisti, e spesso gli atteggiamenti compiacenti iniziali si trasformano in aperte polemiche non appena sorgono le prime frustrazioni, come il divieto di uscire o di partecipare a determinati gruppi terapeutici o ai colloqui individuali con lo psicologo.

Altri atteggiamenti si rivelano emblematici del modo di affrontare la degenza: dal cambiamento nella cura di sé, alle attività rifiutate e intraprese nella giornata, esistono diversi elementi non trascurabili per una comprensione più ampia del caso. A titolo di esempio si possono considerare le modalità accudenti compulsive che si evidenziano talvolta nella preoccupazione e premura per gli altri pazienti e gli operatori stessi al fine di mantenere la distanza da tutto ciò che può agevolare una riflessione su di sé, o la paura della solitudine nel rifiuto di uscire dalla struttura vissuta come protettiva.

La sensazione di costrizione, invece, può amplificarsi nell’incontro con molteplici figure professionali, come lo psichiatra, l’infermiere, lo psicologo ed eventualmente le visite degli operatori dei servizi come il centro di salute mentale o il SER.T, o nella consapevolezza di non poter intraprendere un’azione desiderata durante il periodo di ricovero psichiatrico, come uscire dal reparto, usare una sostanza, incontrare una persona amata, o semplicemente fare una passeggiata e allenarsi in uno sport. In determinati soggetti, d’altra parte, si intravedono adesioni incondizionate a tutti i gruppi, complimenti compulsivi e un’estrema disinvoltura nel rapporto con i pazienti e il personale, con difficoltà a focalizzare le preferenze e le avversioni sperimentate, o al contrario, svariate opposizioni al dialogo con i professionisti o con i soggetti ricoverati, arroganza e presunzione sulle soluzioni terapeutiche percorribili, pretese di trattamenti privilegiati perché si è ricoverati in una struttura. La degenza è quindi un contesto in cui emergono le sfaccettature individuali e si palesano le strategie per affrontare il pericolo percepito e ricercare la vicinanza.

Nella maggioranza dei casi, inoltre, è previsto un allontanamento completo dalla realtà quotidiana: nella struttura si mangia, si dorme, si trascorrono intere ore e giornate che sembrano infinite. Talvolta si resta soli in uno specifico reparto, e i contatti con l’esterno sono limitati e sporadici: se per alcuni degenti una soluzione del genere costituisce una liberazione, un periodo di “vacanza”, un’occasione di conoscenze nuove, un inizio di un altro percorso, per altri si rivela una “punizione” per gli sbagli commessi in precedenza, e così l’ipotesi delle ricadute future diventa accettabile e intollerabile a seconda di vari fattori, come l’esperienza della degenza e la consapevolezza di un aiuto esterno nei momenti particolarmente critici.

In tal senso le autodimissioni si ricollegano alla mancata consapevolezza di un aiuto specialistico, nonché all’accettazione passiva di un ricovero psichiatrico indesiderato fin dall’inizio, intrapreso per accontentare le figure famigliari o ricevere agevolazioni: in particolare quando i pazienti sono sottoposti ad un processo per azioni effettuate sotto l’effetto di sostanze, la partecipazione ad un programma terapeutico potrebbe favorire un’immagine consapevole dei propri limiti e collaborante, che però di fatto non esclude una bassa convinzione nel percorso. Ad ogni modo gli aspetti psicologici esaminati devono essere integrati con la storia individuale, i colloqui con gli psichiatri e gli psicologi, e la quotidianità in reparto: dall’atteggiamento nei confronti delle terapie farmacologiche, alle attività predilette, questi dati possono ampliare la conoscenza della persona che si trova ad affrontare per la prima o la ventesima volta un passo importante della propria esistenza.

Il bilinguismo garantisce dei benefici sulle funzioni esecutive?

Lo studio condotto dai ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Åbo Akademi, Finlandia, mostra come il bilinguismo sia ovviamente molto utile nella comunicazione tra le persone, eppure esso non sembra aumentare le capacità cognitive legate alle funzioni esecutive come affermato invece dai media.

 

Un nuovo studio, condotto da Lehtonen e dal suo gruppo di ricerca, mostra come alcuni effetti benefici del bilinguismo siano stati sopravvalutati.

La ricercatrice afferma che:

I vantaggi del bilinguismo nelle funzioni esecutive sono stati al centro di una ricerca attiva negli ultimi anni e il tema ha ricevuto molta attenzione non solo nella comunità scientifica ma anche nei media internazionali.

I media hanno spesso diffuso informazioni su come l’acquisizione e l’uso attivo di due lingue favoriscano l’addestramento di alcune funzioni cerebrali: focalizzazione dell’attenzione, soppressione delle interferenze dell’ambiente e flessibilità nello switching (passaggio da un’attività ad un’altra).

Una meta-analisi per indagare la relazione tra bilinguismo e funzioni esecutive

Lo studio condotto dai ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Åbo Akademi, Finlandia, mostra, tuttavia, attraverso una meta analisi, come il bilinguismo sia ovviamente molto utile nella comunicazione tra le persone, in un’epoca di flessibilità e scambi come quella odierna. Eppure, esso non sembra aumentare le capacità cognitive legate alle funzioni esecutive.

Gli studi analizzati sono stati 152, ognuno di essi incentrato sulle prestazioni degli adulti bilingue e monolingue in compiti che misurano diverse aree di funzioni esecutive.

La revisione sistematica ha analizzato studi effettuati in 27 paesi differenti, in cui il bilinguismo assume forme diversificate.

I risultati della revisione mostrano come non siano stati trovati benefici significativi nei soggetti bilingue in qualsiasi sotto-area delle funzioni esecutive.

Lo studio ha inoltre analizzato una serie di fattori di fondo che potrebbero influenzare l’ampiezza dell’eventuale beneficio osservato, tra cui, ad esempio, l’età di acquisizione della seconda lingua, l’età dei partecipanti e la combinazione linguistica.

Anche a fronte di queste variabili (ad esempio differenze tra soggetti bilingue che hanno acquisito la seconda lingua durante l’infanzia o in soggetti bilingue che hanno acquisito la seconda lingua in età adulta) non è emerso alcun vantaggio nelle funzioni esecutive.

Dunque, a disconferma di quanto creduto da molti, i risultati della presente meta-analisi indicano chiaramente come, in una popolazione di adulti sani, il bilinguismo o l’uso attivo di un’altra lingua non migliorano le funzioni esecutive.

Gli unici vantaggi dettati dal passaggio da una lingua all’altra riguardano le competenze linguistiche e di conseguenza le competenze comunicative.

 

La via del ritorno a Sè: immaginazione e Fantasia nel pensiero Junghiano

La psiche crea giorno per giorno la realtà e, a questa attività, Jung afferma che non è possibile dare altro nome che quello di fantasia.

 

La teoria dell’appagamento del desiderio di Freud influenzò per un lungo periodo il suo discepolo Carl Gustav Jung, il quale rimase in particolare colpito dalla scoperta di come queste formazioni “differivano senza dubbio da quelle dei soggetti normali, in quanto coinvolgevano lo stato di veglia nel suo complesso e, in certe occasioni, lo sostituivano completamente, recando a volte un grave danno alla fonction du reél” (Frey-Rohn, 1984).

“L’attività psichica cosciente della paziente si limita a creare sistematicamente appagamenti di desideri, in una certa misura come equivalente di una vita piena di lavoro e di privazioni e delle impressioni deprimenti di un ambiente familiare miserevole. L’attività psichica incoscia, invece è completamente soggetta all’influsso di complessi rimossi contrastanti, da un lato il complesso di nocumento, dall’altro i resti della correzione normale” (Jung, 1914).

L’autore fu il primo, nell’ambito della psicologia medica, a sostenere come il significato delle formazioni psicotiche fosse alla base del successo della terapia. Tali teorizzazioni furono fondamentali nella definizione di un nuovo approccio psicoterapeutico: “si trattava non di respingere le fantasie sistematiche dei dementi, considerandole assurde e bizzarre, ma piuttosto di far nascere nel paziente il sentimento che le sue fantasie avessero un senso, comune a tutti gli esseri umani” (Frey-Rohn, 1984).

L’allontanamento dalle teorie freudiane: formazioni psicotiche, pensiero arcaico e fantasia

Negli anni immediatamente seguenti iniziò il profondo distacco dalle precedenti teorie di eredità freudiana: Jung infatti osservò come la vera natura delle formazioni psicotiche andasse ricondotta non tanto a desideri personali, quanto piuttosto all’esistenza di un senso impersonale (Jung, 1908). Questo fu il primo passo verso quella che sarebbe stata la sua teoria finale, nella quale l’autore, alla ricerca di un più profondo e recondito senso della pazzia, riconoscerà che le formazioni psicotiche, analogamente a quelle normali, sono basate su un fondamento comune a tutti gli esseri umani: “anche le cose più assurde non sono altro che simboli di pensieri, che non solo sono generalmente comprensibili all’uomo, ma che abitano in tutti i cuori umani. Così nel malato di mente scopriamo non qualcosa di nuovo e sconosciuto, ma il sottofondo del nostro stesso essere, la matrice dei problemi vitali attorno ai quali noi tutti lavoriamo” (Jung, 1908).

Un altro elemento di discontinuità della teoria di Freud è rappresentato inoltre dal rifiuto da parte di Jung del termine reminescenze infantili, che fu sostituito con l’accezione di pensiero arcaico: “le basi inconsce dei sogni e delle fantasie sono soltanto in apparenza reminescenze infantili. In realtà si tratta di forme di pensiero primitive o arcaiche basate sugli istinti, che come è naturale si manifestano più nettamente nell’infanzia che in seguito” (Jung, 1912).

L’autore ritrovò motivi senza tempo ed eternamente ricorrenti nei miti, nelle fiabe, nel folclore, che attestavano l’esistenza di simboli comuni a tutta l’umanità e la presenza delle cosiddette immagini primordiali. In questo senso, nella prefazione alla seconda edizione di Trasformazioni e simboli della libido (1912) egli scrisse: [blockquote style=”1″]accanto alle ovvie fonti personali, la fantasia creatrice dispone anche dello spirito primitivo, dimenticato e da lungo tempo sepolto con le sue immagini peculiari palesantisi nelle mitologie di tutti i tempi e di tutti i popoli.[/blockquote]

In particolare Jung osservò come già i bambini possiedono i rudimenti della formazione di miti, e su questa base fondò l’ipotesi della presenza nella psiche di un impulso creativo alla formazione di mitologemi, conclusione che Freud rifiutò sempre. L’autore affermava che “la coscienza umana ha sentito fin dalle sue prime fasi il bisogno di indicare in maniera palpabile, evidente, il dinamismo dell’evento psichico da essa percepito in rapporto al reale” (Jung, 1944).

[blockquote style=”1″]Il mito è l’espressione immaginativa di questo dinamismo rappresentato da sempre nella coscienza. Conoscere la trama di un mito significa avere la visione di un dinamismo che può emergere anche oggi nella sofferenza psichica del singolo (Aite, 1983).[/blockquote]

Verso una nuova teoria dell’immaginazione

La scoperta del significato simbolico della fantasia, fatta durante questo periodo di transizione, fu un risultato che anticipò gli sviluppi futuri e che portò al definitivo distacco dalla teoria dell’appagamento del desiderio sostenuta da Freud. “Il tutto mi investì come una frana, impossibile a trattenere. Solo più tardi mi resi conto dell’urgenza che si celava dietro tutto questo: era l’esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e delle sua visione del mondo. Lungi da me il pensiero di voler diminuire in qualche modo i meriti eccezionali di Freud nel campo dell’indagine della psiche individuale, ma il quadro concettuale nel quale egli costrinse i fenomeni psichici mi appariva insopportabilmente angusto” (Jung, 1912).

Nelle formazioni archetipiche della fantasia Jung individuò anche l’aspetto storico dell’inconscio. “Se tali fenomeni oggettivi e senza tempo non erano in origine parti costitutive dell’Io, dovevano essere ricercati nel materiale dell’inconscio: ne conseguiva un rovesciamento dell’approccio ai fenomeni psichici. Invece di dedurre il significato di una fantasia da materiale già noto come era tipico nella psicologia freudiana, Jung mise a punto un metodo di inchesta sulla formazione fantastica tale da determinare il significato centrale ancora ignoto” (Aite, 1983).

Era necessario comprendere le motivazioni e le strutture di pensiero da un punto di vista più ampio e questo richiese la costruzione di un nuovo metodo che Jung chiamò ermeneutico, in modo da poter garantire un’adeguata comprensione del significato delle formazioni fantastiche.

Il libro che segnò in tal senso il distacco del giovane Jung da Freud fu Trasformazioni e simboli della libido (1912), un testo nato dallo studio delle fantasie prodotte da una giovane donna in fase pre-psicotica, ma incontrata da Jung. Nel primo capitolo del libro l’autore confrontò le due principali modalità del pensiero: “quella diretta, acquisizione preziosa della coscienza, che delimita, chiarisce e si muove secondo concetti verbali ed ha una meta coscia da raggiungere; l’altra quella indiretta, che prende corpo in immagini ed è mossa da moventi inconsci” (Aite, 1983). Questa seconda forma di pensiero è il pensiero fantastico che è presente nei nostri sogni e fantasie, come nei gioche dei bambini, e che ha prodotto i miti e le favole che la tradizione ci tramanda. L’atto dell’immaginare divenne un “pensare e comprendere per immagini”, un pensiero improvviso, un’intuizione di un sentimento che ci orienta in modo diverso e illogico e che va al di là del nostro vedere e sentire il mondo esterno.

[blockquote style=”1″]L’immaginazione è l’attività riproduttiva o creativa dello spirito […] essa può esplicarsi in tutte le forme fondamentali dei processi psichici, nel pensare, nel sentire, nel percepire sensoriale e nell’intuire (Jung, 1948).[/blockquote]

Una nuova forma rispetto all’atteggiamento della coscienza che si differenzia dalla fantasticheria, la quale si configura invece come quella attività combinatoria cosciente che attuiamo quando siamo frustati o abbiamo un bisogno che non riusciamo a soddisfare.

Un elemento fondamentale per comprendere la teoria dell’immaginazione di Jung è l’esperienza del vuoto, di quella mancanza di risposta, che precede e determina il formarsi dell’immaginazione. Questo momento si presenta non solo nella psicopatologia, ma anche in tutte le espressioni della creatività umana.
“Davanti a un problema irrisolto che urge, davanto a uno stato d’animo soverchiante ed inesprimibile a parole, l’attività immaginativa può offrirci lo spunto nella forma di una visione nuova, o di una intuizione, o di una concatenazione di pensieri mai fatta che aprono una prospettiva. E’ qui, nel vuoto, che può emergere la creatività, quel pensare per immagini che ritroviamo in un poeta, in un pittore, in un ricercatore, e in cui tutti ci riconsciamo dato che apre una prospettiva che è di noi tutti” (Aite, 1983).

La fantasia: cosa la caratterizza?

Ciò che caratterizza la fantasia è il fare creativo della psiche. I personaggi che essa mette in scena sono, come sostiene Jung, un “Giano Bifronte”: “indicano il passato, quello che è dietro, ma anche quello che è avanti a noi nel futuro e sono il concretizzarsi in una situazione storica precisa, in un certo individuo, in un certo momento, di uno stato psicologico che, se è legato al passato, ha anche in sè i germi del futuro” (Aite, 1983).
Questo creare che mette insieme (Synballein) passato e futuro è l’attività simbolica specifica della psiche che si esprime per metafore. Questa energia, a seconda della coscienza, può o meno incidere e trasformare l’uomo insieme alla realtà che lo circonda.

[blockquote style=”1″]La psiche crea giorno per giorno la realtà, a questa attività non so dare altro nome che quello di fantasia (Jung, 1948).[/blockquote]

La conclusione alla quale l’autore ci conduce è l’idea che questa attività sia indissolubilmente legata alla nostra storia personale, a chi siamo e a chi diverremo : “Si direbbe che l’uomo, il quale cerca invano la sua esistenza e da ciò trae filosofia, ritrovi solo nell’esperienza della realtà simbolica la via del ritorno a quel mondo in cui egli non si sente straniero”.

La valutazione psicodiagnostica in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

L’ assessment o valutazione psicodiagnostica rappresenta un iter propedeutico all’intervento terapeutico: la raccolta di informazioni e dati orienta il terapeuta, dà origine ad una storia, e crea le condizioni per costruire con il paziente una relazione, un’ alleanza, basata sull’empirismo collaborativo.

 

“Qual è la sua difficoltà?”

Il paziente si rivolge a noi, psicologi e psicoterapeuti, con una domanda, implicita oppure esplicita, ma comunque una richiesta che deve essere, in primo luogo, accolta ed interpretata.

Presso Psicoterapia e Scienze Cognitive, scuola di specializzazione quadriennale in psicoterapia cognitivo comportamentale e centro di psicoterapia, si effettua una esauriente prima fase di inquadramento e valutazione psicodiagnostica, definita assessment, ovvero accertamento del problema.

La fase di assessment è decisiva, in quanto permette, attraverso l’utilizzo di modalità e strumenti specifici, quali ad esempio il colloquio, l’intervista, strumenti self-report (test autosomministrati a crocette), di raccogliere informazioni e prendere decisioni strategicamente orientate e fondamentali  per l’efficacia della fase successiva, il trattamento.

Perché l’ assessment in Psicoterapia?

La valutazione psicodiagnostica rappresenta un iter propedeutico all’intervento: la raccolta di informazioni e dati orienta il terapeuta, dà origine ad una storia, e crea le condizioni per costruire con il paziente una relazione, un’ alleanza, basata sull’empirismo collaborativo.

In generale si parla di situazione di assessment quando ad esempio si valutano dei candidati ad una selezione del personale, si esaminano degli studenti a scuola o all’università per saggiarne la preparazione, o si vedono dei pazienti al fine di stabilirne una diagnosi. Nello specifico, in riferimento alla psicologia e psicoterapia, la funzione principale del processo di assessment è rappresentata dal tentativo di comprendere il paziente e il suo mondo di significati, spiegarsi in che cosa consiste, come può essere nato e come si mantiene il problema che ci viene presentato. Si tratta in altre parole di:

  • Cercare di capire la difficoltà del paziente: la valenza e i significati che essa assume ai suoi occhi nella vita quotidiana e rispetto all’immagine che egli ha di se stesso, delle relazioni con gli altri, del proprio futuro;
  • Cercare di costruire un modello (nel linguaggio professionale) delle modalità di funzionamento del sistema-paziente e delle sue caratteristiche strutturali nel complesso;
  • Tentare di ricostruire i processi, le tappe e i momenti critici dello sviluppo che hanno condotto all’attuale struttura individuale;
  • Comprendere e spiegarsi la funzione che la sintomatologia svolge, al fine di organizzare un progetto di intervento clinico, laddove se ne verificassero le condizioni.

Procedure e strumenti della valutazione psicodiagnostica

Spesso i colloqui o le terapie iniziano proprio perché vi è una difficoltà che non si riesce a risolvere. Per questo motivo, la prima cosa da fare è accertare. Il racconto potrà iniziare con la descrizione di alcuni stati d’animo problematici o dolenti, oppure una serie di situazioni spiacevoli in cui ci si è trovati o ancora relazioni problematiche con le proprie figure di riferimento. Trattandosi di problemi di tipo psicologico è bene accompagnare questa prima fase di accertamento e di conoscenza iniziale con accertamenti diagnostici più formalizzati.

Il centro Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova si rifà all’approccio cognitivo comportamentale secondo il quale la valutazione psicodiagnotica non ha tanto l’intento di porre una diagnosi quanto quello di comprendere il funzionamento globale della persona per poterne migliorare la qualità di vita e scegliere le modalità di psicoterapia più efficaci.

E’ infatti fondamentale effettuare un accertamento anche per i pazienti che già conoscono la propria diagnosi. Infatti le diagnosi spesso sono delle etichette che descrivono, ma non sempre spiegano. È importante valutare in un’ottica funzionale – ovvero mettendo a nudo i rapporti causali tra pensieri, emozioni e comportamenti – i fattori specifici che sono alla radice del problema. Due pazienti con la stessa diagnosi possono avere comunque due problemi molto diversi tra loro e aver bisogno di trattamenti differenti.

Gli strumenti principali di cui può avvalersi il terapeuta per portare a termine l’ assessment sono: il colloquio clinico, l’intervista, e test self-report. In aggiunta, possono essere utilizzati numerosi altri strumenti standardizzati come inventari, checklist, schede di osservazione e diari.

Quale durata prevede un assessment?

Solitamente i primi colloqui di assessment (3-5 sedute, della durata di 50 minuti circa) hanno lo scopo di approfondire la conoscenza della persona che si rivolge al professionista.

Vengono dunque raccolte, in primo luogo, le informazioni biografico-anamnestiche, l’anamnesi del problema riportato, eventuali altre situazioni chiave collegate ad esso.

A tale scopo ci si avvale degli strumenti sopra elencati, a discrezione del terapeuta. Il lavoro si conclude con la restituzione al paziente di quanto emerso e la condivisione di un eventuale progetto terapeutico, dopo un’attenta concettualizzazione del caso e la formulazione di un piano terapeutico.

Il Centro clinico e la Scuola di specializzazione Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova danno una forte importanza alla valutazione psicodiagnostica, sia dal punto di vista del colloquio clinico che dal punto di vista della testistica, sia psichiatrica che psicologica che cognitiva. Ciò rappresenta una premessa fondamentale per l’organizzazione del progetto clinico e psicoterapeutico e per l’integrazione tra diverse figure professionali: lo psichiatra, lo psicoterapeuta individuale, l’invio in doppio setting ai gruppi, e così via.

Alleanza e gestione terapeutica del problema

A conclusione della fase di accertamento del problema vi è la concettualizzazione del problema da parte del terapeuta, cui fa seguito la fase di restituzione.

Essa permette la condivisione degli obiettivi terapeutici e rappresenta uno degli elementi fondamentali per promuovere e mantenere la cosiddetta alleanza terapeutica, ovvero la particolare relazione di collaborazione che si stabilisce tra un paziente e il terapeuta.

L’ alleanza rappresenta sia il punto di partenza del lavoro, senza il quale sarebbe difficile il procedere della psicoterapia, sia l’elemento che accompagna i due viaggiatori per tutta la durata del loro viaggio. A questo proposito Linehan (2012) ritiene che “il compito essenziale del terapeuta sia quello di riconoscere e legittimare gli stati mentali, le emozioni e le credenze del paziente”. Questo, nelle prime fasi della terapia, contribuisce alla costruzione di una relazione terapeutica costruttiva e accettante. Un importante punto della terapia cognitiva è la concettualizzazione del problema presentato e la sua restituzione al paziente, momento che precede il “contratto terapeutico” ma che già di per sé è una fase cruciale per creare tra il terapeuta ed il paziente un clima di fiducia ed un’ alleanza basata anche sulla condivisione tra terapeuta e paziente di una teoria del suo funzionamento mentale ancor prima che del suo disturbo.

Clinici di orientamenti diversi concordano che sicurezza e sintonizzazione o meglio una alleanza terapeutica, cioè quel clima di fiducia e collaborazione tipico delle relazioni di aiuto efficaci, sia indispensabile per avviare e mantenere una psicoterapia.

Accertare non è che l’inizio.

Il gusto e l’olfatto – Introduzione alla Psicologia

L’ olfatto e il gusto sono definiti sensi chimici poiché consentono di identificare le molecole odoranti, presenti nell’ambiente esterno, con le quali si entra in contatto respirandole o ingerendole. L’ olfatto e il gusto aiutano a identificare gli elementi esterni connotandoli di un particolare odore o sapore e, per questo, i due sensi sono indispensabili alla sopravvivenza individuale e della specie.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ olfatto, in primis, consente di riconoscere e attribuire odori diversi a un numero di molecole che varia da 1000 a 10.000. Per questo, la sensibilità del sistema olfattivo è tale da rilevare la presenza di un dato odore da una concentrazione di 107 molecole per 1 ml d’aria. Meno discriminativo è il senso del gusto, che riconosce solo cinque sapori fondamentali: acido, amaro, dolce, salato e umami, parola giapponese che indica il sapore gradevole della carne e degli alimenti contenenti glutammato. Quindi, per evocare una determinata sensazione gustativa è necessario avere una concentrazione che varia 1014 a 1020 molecole per 1 ml di soluzione.

Gli stimoli olfattivi e gustativi sono in grado di generare memorie associative che durano a lungo nel tempo, come nel caso di odori o sapori associati a immagini di eventi, persone e luoghi. Ad esempio nell’effetto Garcia, si associa l’odore e il sapore di un cibo a uno stato di malessere. La funzione di tale effetto è evitare in futuro l’ingestione di cibi potenzialmente dannosi per la salute.

Il sistema dell’ olfatto

Le molecole recettrici dei neuroni dell’epitelio olfattivo, proteine integrali di membrana con sette domini transmembranari, si legano a molecole odorose presenti nell’aria inspirata, dopo essersi dissolte nel muco che ricopre l’epitelio olfattivo. Ciascun neurone olfattivo utilizza una sola molecola recettrice, ma ognuna di queste molecole può legarsi a più molecole odorose e a sua volta ciascuna molecola odorosa è in grado di legarsi a più molecole recettrici e quindi a più neuroni olfattivi.

La diversa selettività percettiva dell’ olfatto è attribuibile alla specificità con la quale le molecole odorose attivano combinazioni di neuroni olfattivi, poiché a ogni molecola corrisponde una specifica combinazione.

Da ciascuna narice partono le informazioni olfattive che sono trasportate all’encefalo tramite il primo paio di nervi cranici. Ciascun nervo olfattivo è formato dagli assoni raggruppati in fascicoli, che attraversano la lamina cribrosa dell’etmoide ed entrano nella cavità cranica. Gli assoni dei neuroni che esprimono la stessa molecola recettrice si associano in fascicoli che terminano in zone specifiche del bulbo olfattivo, prima stazione intracranica delle vie olfattive. Il bulbo olfattivo, pertanto, contiene una mappa spaziale nella quale ogni regione corrisponde a una popolazione di neuroni identificati dalla stessa molecola recettrice. Questa mappa è simile in individui diversi e rimane costante nel tempo, malgrado i neuroni olfattivi rinnovino la loro organizzazione in funzione a un codice chimico di riconoscimento cellulare.

Nel bulbo olfattivo, gli assoni di neuroni olfattivi riguardanti la stessa molecola recettrice convergono su uno o due glomeruli fare sinapsi con le cellule mitrali e con quelle a pennacchio, cellule di proiezione deputate a elaborare e a trasmettere le informazioni olfattive ad altri centri cerebrali.

La corteccia olfattiva primaria e secondaria

Gli assoni delle cellule mitrali e delle cellule a pennacchio percorrono il tratto olfattivo proiettando a diverse regioni inferiori dell’encefalo che costituiscono la corteccia olfattiva primaria. L’ olfatto, inoltre, è l’unico sistema di senso le cui proiezioni afferenti primarie raggiungono la corteccia primaria senza passare per il talamo. La corteccia olfattiva primaria (paleocorteccia) fa parte dell’allocorteccia ed è caratterizzata da una struttura tristratificata, più semplice e più primitiva di quella a sei strati tipica della isocorteccia (o neocorteccia). Essa include il tubercolo olfattivo, la corteccia piriforme della regione dell’uncus ippocampale, la corteccia entorinale e il nucleo corticale dell’amigdala. Per la forte convergenza di assoni del tratto olfattivo su singoli neuroni corticali, la mappa spaziale esistente nel bulbo olfattivo non si riproduce nella corteccia olfattiva primaria, che presumibilmente usa un diverso codice combinatorio per la distinzione degli odori.

La corteccia olfattiva primaria proietta a varie altre regioni corticali e a centri sottocorticali. Infatti, l’ippocampo e i nuclei profondi dell’amigdala ricevono proiezioni dirette dalla corteccia olfattiva primaria, destinate all’integrazione di memorie ed emozioni. Altre proiezioni della corteccia olfattiva primaria sono dirette al nucleus accumbens e ai nuclei profondi dell’amigdala e hanno il compito di collegare le informazioni olfattive con i centri del piacere e del dispiacere, della gratificazione e della punizione, che mediano anche a lungo termine le reazioni comportamentali di gradimento o di disgusto agli odori e ai sapori. Tramite l’amigdala, altre proiezioni della corteccia olfattiva primaria raggiungono l’ipotalamo, dove le informazioni olfattive possono interagire con i substrati nervosi primari delle attività endocrine e dei comportamenti alimentari.

Infine, la corteccia olfattiva primaria proietta alla corteccia olfattiva secondaria, che strutturalmente fa parte dell’isocorteccia e ha sede nella parte orbitale del lobo frontale. Le proiezioni dalla corteccia olfattiva primaria raggiungono la corteccia orbitofrontale sia direttamente sia indirettamente, tramite i nuclei profondi dell’amigdala e il nucleo medio-dorsale del talamo. La corteccia orbitofrontale, essendo la sede della convergenza delle informazioni dell’ olfatto e del gusto con quelle di altri sistemi di senso, integra a livello cognitivo la regolazione riflessa e istintiva del comportamento alimentare da parte dell’ipotalamo e di altri centri. Poiché l’organizzazione laterale delle vie olfattive è in buona parte non crociata, le informazioni provenienti da ciascuna narice sono elaborate prevalentemente nei centri corticali e sottocorticali dell’emisfero cerebrale dello stesso lato. Le connessioni fra i bulbi olfattivi e altre regioni olfattive dei due lati sono, peraltro, ampiamente assicurate da connessioni trasversali, e in particolare dalla commessura anteriore.

Il sistema del gusto

Nella bocca sono presenti i bottoni gustativi, capaci di individuare le proprietà chimiche di cibi e bevande e, attraverso una serie di tappe, le comunicano al cervello.

La via nervosa afferente che convoglia le informazioni dalla bocca al cervello è costituita da rami della branca mandibolare del nervo trigemino, ed è quindi del tutto distinta dalle vie afferenti propriamente gustative. Le afferenze trigeminali analizzano la consistenza, le dimensioni, la temperatura e la posizione nella cavità orale del cibo ai fini del controllo della masticazione e della deglutizione.
Sul trigemino sono presenti anche recettori termici e dolorifici attivati da cibi piccanti e da temperature elevate. Le acque minerali gasate con un forte contenuto di anidride carbonica stimolano, oltre ai recettori gustativi per il sapore acido, anche i nocicettori trigeminali.
Le sensazioni gustative pure, basate sui cinque sapori fondamentali, inoltre, segnalano la digeribilità e il valore nutritivo o tossico degli alimenti.

Le aree del gusto

Le sensazioni gustative sono distinte dal sistema nervoso in base all’attivazione di diverse combinazioni di recettori e di fibre afferenti alle aree centrali cerebrali che terminano nella parte rostrale del nucleo del tratto solitario nel bulbo. Da qui partono le proiezioni ascendenti dei neuroni di secondo ordine, destinate a raggiungere la componente parvocellulare del nucleo ventro-postero-mediale del talamo dello stesso lato o, in numero minore, del lato opposto.

Il nucleo talamico ventro-postero-mediale proietta alla corteccia gustativa primaria nella porzione granulare della corteccia dell’insula e del contiguo opercolo frontale. A sua volta, la corteccia gustativa primaria proietta alla corteccia orbitofrontale, direttamente oppure indirettamente, tramite la corteccia gustativa secondaria residente in porzioni disgranulari o agranulari dell’insula. La corteccia orbitofrontale integra le informazioni gustative e olfattive con le informazioni provenienti dai visceri e da tutti gli altri sistemi di senso, contribuendo alla regolazione cognitiva generale del comportamento alimentare. L’organizzazione della via gustativa è prevalentemente non crociata, cosicché disturbi del gusto susseguenti a lesioni encefaliche unilaterali colpiscono soprattutto la metà della lingua appartenente allo stesso lato della lesione.
Le aree gustative corticali ricevono informazioni anche dalla metà controlaterale della lingua, tramite le proiezioni ascendenti crociate e le connessioni fra le cortecce dei due lati assicurate dal corpo calloso.

Esiste una gerarchia a tre livelli dell’organizzazione nervosa che elabora le risposte comportamentali agli stimoli gustativi. Il primo livello è rappresentato dal nucleo del tratto solitario, che tramite risposte riflesse, di accettazione o rigetto, consente una distinzione relativamente grossolana fra sostanze potenzialmente nutrienti e sostanze potenzialmente tossiche. Il secondo livello, rappresentato dal nucleo talamico ventro-postero-laterale, dalla parte parvocellulare e dalla corteccia gustativa primaria, è deputato a una discriminazione fine fra gusti diversi e all’integrazione fra segnali puramente gustativi e segnali provenienti da altre modalità sensoriali, specialmente per mezzo delle afferenze trigeminali dalla bocca. Il terzo livello, rappresentato dalla corteccia gustativa secondaria dell’insula e soprattutto dalla corteccia orbitofrontale, presiede alle funzioni cognitive del gusto e alle interazioni con altri sistemi di senso e di controllo del comportamento.

La corteccia gustativa secondaria dell’insula riceve anche afferenze da altre modalità sensoriali e potrebbe svolgere funzioni che trascendono dalla sola analisi degli stimoli gustativi. La corteccia gustativa secondaria, infatti, riceve anche afferenze visive, da stimoli in cui sono presenti immagini legate a espressioni emotive o in cui è presente del cibo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Aggressività in età infantile: il ruolo delle funzioni esecutive 

Una nuova ricerca pubblicata su Frontiers in Behavioral Neuroscience ha indagato la relazione tra aggressività e funzioni esecutive scoprendo che bambini delle scuole primarie con ridotte capacità esecutive, quali pianificazione e autocontrollo, mostravano maggiore aggressività nel corso dell’infanzia.

Quale relazione esiste tra aggressività e funzioni esecutive?

L’aggressività durante l’infanzia può essere in parte dovuta a una maggiore tendenza alla rabbia nei bambini, ciò che è certo è che tali comportamenti aggressivi generano varie difficoltà non solo ai bambini ma anche alle persone che con essi si rapportano: genitori, fratelli e compagni di classe.

Le Funzioni Esecutive (FE) includono abilità cognitive che permettono al soggetto di raggiungere gli obiettivi prefissati modulando il proprio comportamento al fine di adattarsi alle diverse situazioni.
Studi precedenti avevano dimostrano come il comportamento aggressivo fosse correlato a Funzioni esecutive inferiori; tuttavia, pochi studi hanno esaminato il legame tra queste due componenti nel corso del tempo; inoltre, i vecchi studi non chiarivano le relazioni esistenti tra Funzioni esecutive e i tipi specifici di comportamento aggressivo.

In questo studio, i ricercatori dell’Università di Potsdam in Germania hanno studiato la relazione esistente tra Funzioni esecutive e i diversi tipi di aggressività nell’infanzia allo scopo di comprendere se i deficit di queste funzioni portino ad un comportamento aggressivo negli anni successivi.
Il gruppo di ricerca ha valutato i bambini di una scuola primaria in tre momenti: all’inizio dello studio, circa 1 anno dopo e a distanza di 3 anni. I bambini hanno svolto compiti comportamentali per valutare diversi aspetti delle loro Funzioni esecutive tra cui memoria, capacità di pianificazione e autocontrollo. Agli insegnanti è stato chiesto di registrare la tendenza dei bambini ai diversi tipi di aggressività: fisica, relazionale (esclusione sociale dei pari), reattiva (reazione aggressiva alle provocazioni) e proattiva (reazione aggressiva volontaria, senza provocazioni). I genitori invece dovevano completare un questionario che indagava la facilità con cui i bambini tendevano ad arrabbiarsi.

L’autrice dello studio Helena Rohlf ha affermato “Abbiamo scoperto che la presenza di deficit delle Funzioni esecutive aumenta la possibilità di aggressività fisica e relazionale nel corso degli anni: in particolare una ridotta funzionalità esecutiva all’inizio dello studio è associata ad una maggiore aggressività nell’anno successivo e anche nei tre anni seguenti. Abbiamo osservato anche che i deficit erano correlati nel tempo all’aggressività reattiva, ma non all’aggressività proattiva. La spiegazione di questo legame è rilevabile nella definizione stessa di quest’ultimo tipo di aggressività che viene denominata “aggressività pianificata” per il ruolo centrale delle funzioni esecutive. Perciò bambini deficitari in queste funzioni non sono abili nel comportamento pianificato e deliberato, tipico di questa aggressività, essi mostrano quindi bassi livelli di comportamenti aggressivi proattivi. Inoltre non abbiamo rilevato differenze di genere nel comportamento aggressivo, anche se tale atteggiamento è tipicamente più comune tra i bambini di sesso maschile, i legami tra funzione esecutiva, rabbia e aggressività sembrano essere simili per maschi e femmine”.

I risultati suggeriscono che aiutare i bambini ad aumentare la loro funzione esecutiva e a gestire la rabbia, tramite programmi di allenamento specifici, potrebbe ridurre la loro aggressività. Le direzioni di ricerche future sono volte a condurre ulteriori lavori per osservare l’estendibilità dei risultati anche a bambini con livelli di aggressività molto elevati.

Interazione genitori-figli: la sollecitazione in bambini con Sindrome di Down e Disturbo dello Spettro Autistico

Il presente articolo illustra un lavoro di ricerca il cui obiettivo è la descrizione di come la figura genitoriale interagisce sollecitando il proprio figlio in una condizione di gioco; in particolare il focus d’interesse è l’interazione nello sviluppo atipico, nella fattispecie l’interazione con bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico e da Sindrome di Down.

Alice Santoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Interazione genitori-figli in situazioni di sviluppo atipico: abstract

L’obiettivo del presente lavoro è la descrizione di come la figura genitoriale interagisce sollecitando il proprio figlio in una condizione di gioco. In particolare il nostro focus d’interesse è l’interazione nello sviluppo atipico.

L’ipotesi di partenza è che la patologia dei figli possa modificare significativamente i comportamenti d’interazione innati dei genitori.

Il campione della ricerca è costituito da trenta diadi madre-bambino e dalle altre rispettive diadi padre-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico e 25 diadi madre-bambino e padre-bambino con Sindrome di Down.

La raccolta dati è avvenuta attraverso l’osservazione di videoregistrazioni che ritraevano episodi di gioco sociale. La codifica è avvenuta attraverso lo strumento ObsWin ed uno specifico schema di codifica a nove livelli riportato successivamente in appendice (Child and Family Research,Venuti 1994; Bornestein 1988).

Per codificare i dati ottenuti è stato utilizzato il coefficiente statistico Kappa di Choen e per analizare i risultati il test per campioni indipendenti. Per valutare l’ipotesi di partenza è stato applicato il test di Levene di uguaglianza della varianza.

I risultati emersi confermano l’ipotesi di partenza, le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno infatti ad interferire, talvolta anche in modo significativo, sull’abituale comunicazione genitori-figli.

Interazione genitori figli

L’ interazione genitori-bambini è funzionale alla sopravvivenza. I differenti modi d’interagire consentono di stabilire una prossimità psicologica che funge da rampa di lancio per il futuro sviluppo del piccolo. Il legame assume fondamentale importanza soprattutto nei primi mesi di vita, durante i quali il bambino è maggiormente vulnerabile. La figura di accudimento, sia madre, padre o sostituto significativo, diviene indispensabile per garantire un equilibrato sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale.

Specificità e differenze nella relazione parentale

I modelli d’ interazione padre-bambino e madre-bambino mostrano sia delle differenze sia delle somiglianze nei comportamenti. Secondo alcuni autori le differenze sulle attitudini di cura non andrebbero ricercate nelle difformità sessuali, bensì nelle risposte alle pressioni sociali consolidate. Frodi e Lamb (1978) condussero uno studio di laboratorio nel quale venne indagata la risposta ad alcuni segnali emessi da bambini a loro estranei. Venivano monitorate le risposte elettrofisiologiche di madre e padre durante la visione di alcuni filmati. Lo studiò dimostrò che madre e padre risultavano ugualmente attivi e sensibili ai richiami del neonato e ne conseguivano medesimi comportamennti sociali. Certo esistono anche delle peculiarità; le madri prediligono attività di tipo intellettuale, e assolvono a compiti di cura fisica del bambino. I padri sono principalmente partner di gioco, con proposte che tendono ad essere più vigorose e stimolanti rispetto a quelle materne. Il padre diviene istitutore o modello di abilità e valori con un ruolo strettamente correlato dalla sfera normativa dettata dalla società (Paola Venuti, Francesca Giusti, 1996).

Questi studi dimostrano come le differenze siano riscontrabili a livello qualitativo e come il ruolo assunto dal genitore dipenda dal contesto sociale, dalla rete di relazioni, dalle credenze e dai valori di ciascun individuo.

Interazione e sviluppo-atipico

Le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno ad interferire sull’abituale comunicazione fra genitori-figli, rendendo così incapace il bambino di relazionarsi agli altri attraverso le modalità di relazione tipiche. A seconda della gravità della patologia possono essere presenti disfunzioni gravi, oppure le abilità del piccolo con sviluppo atipico possono essere intaccate solo parzialmente.

Sulla base di ciò è molto interessante comprendere quali strategie alternative vengono messe in atto dai genitori e figli per compensare il deficit. Numerosi studi sembrano sottolinerae che i genitori sono in grado di ricalibrare la loro soglia di rispondenza e attivazione di comportamenti utili, al fine di non deprivare di nulla il bambino. I genitori possono imparare a compensare, per lo meno in parte, le capactà interattive ridotte dei propri figli.

Com’è la relazione tra genitori e figli con Disturbo dello Spettro Autistico?

In letteratura le ricerche focalizzate su questo argomento sono poche poiché l’approfondimento riguardante questo campo d’indagine è recente. I deficit caratteristici dell’ autismo rendono difficoltoso lo scambio interattivo e lo svolgimento del proprio ruolo da parte del genitore. La relazione è influenzata dalle difficoltà presenti nello sviluppo comunicativo, vista la mancanza di reciprocità ed interazione del bambino. Altresì la mancanza della comparsa del gioco simbolico, descritto da Baron Choen (1987) come la capacità da parte del piccolo ad utilizzare oggetti in sostituzione di altri, l’attribuire ad essi caratteristiche non realmente esistenti ed il saper fingere giocando mina lo sviluppo semantico, concettuale e meta-rappresentativo. Il rapporto è compromesso anche dalla scarsa empatia del figlio, che non attiverà le risposte attese dai genitori. Alle classiche modalità messe in atto dai genitori non conseguiranno i comportamenti ideali che caratterizzano un bambino con sviluppo tipico. Tale comportamento va dunque a pregiudicare il corretto adattamento del bambino e produce una sensazione di frustrazione nei genitori. La poca responsività del bambino e la scarsissima apertura sociale modificano il modo in cui s’instaura la relazione conferendo ad essa un senso d’inadeguatezza. Per contrastare il senso di manchevolezza i genitori di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico sembrano avere una maggior tendenza al controllo ed alla direttività, mettendo in atto più tentativi per agganciare l’attenzione del piccolo soprattutto attraverso approcci di tipo fisico (Kasari, Sigman, Mundi, Yiriya, 1988; Lemanek, Stone, Fishel, 1993).

Com’è la relazione tra genitori e figli con Sindrome di Down?

Il legame che s’instaura nei primi anni di vita è segnato dai limiti dettati dal ritardo cognitivo che non permette sempre un legame intimo caratterizzato da sicurezza, in quanto vengono meno i prerequisiti necessari. Sebbene l’interazione dei bambini con Sindrome di Down risulti più ricca rispetto a quella dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, si rivela comunque carente rispetto a quella sviluppata dai bambini con sviluppo tipico. Inoltre sono presenti difficoltà comunicative, intellettive ed attentive (Stefano Vicari, 2007). Tutto ciò rende quindi difficile la creazione e la manipolazione delle idee, nonché l’organizzazione globale del proprio comportamento. A livello indiretto inoltre la poca reattività del bambino crea un ostacolo che non permette ai genitori di giungere ad una chiara interpretazione dell’atteggiamento del figlio. Generalmente i genitori per superare questa sfida reagiscono mettendo in atto un comportamento contraddistinto da un eccessivo coinvolgimento nelle cure del figlio. Talvolta la preoccupazione genitoriale si esprime con atteggiamenti intrusivi che, se esasperati, influiscono negativamente sullo sviluppo psichico del piccolo. Tale frustrazione potrebbe non permettere al bambino di raggiungere il più alto livello delle sue potenzialità. Anche in questo caso, come per i genitori dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, madre e padre di bambini con Sindrome di Down attuano comportamenti contraddistinti da una forte direttività (Jenelik Dominus, Dvorak Gijs, 2009).

L’interazione genitori-figli in casi di sviluppo atipico – Lo studio

Campione, procedura raccolta dati e codifica

Il campione della ricerca è costituito da trenta diadi madre-bambino e dalle altre trenta corrispondenti diadi padre-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico, e da venticinque diadi madre-bambino e padre-bambino con Sindrome di Down. I bambini hanno un’età compresa fra i venti ed i sessanta mesi.

La fase di ricerca si è basata sull’osservazione di videoregistrazioni di diadi madre-bambino e padre-bambino impegnati in episodi di gioco sociale.

Inizialmente, per raggiungere un buon utilizzo e una buona conoscenza del codice (Child and Family Research, Venuti 1994; Bornestein 1988), mi sono concentrata sulla visione di diadi con sviluppo tipico e successivamente con il campione vero e proprio.

Le videoriprese, ciascuna della durata di dieci minuti, avvenivano in situazioni strutturate e con un set di giochi adeguati all’età: un servizio da tè, una palla, un trenino, dei libri illustrati, delle botticelle ad incastro, una bambola, una coperta ed un telefono giocattolo. Per codificare i dati si è utilizzato Obswin poiché permetteva che la codifica avvenisse in tempo reale.

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione genitori-figli - LIVELLI

Imm. 1 – I nove livelli di codifica per l’analisi degli episodi di gioco

Per codificare i dati si è utilizzato il coefficiente statistico di Kappa per garantire accuratezza ed affidabilità statistica alla classificazione.

Analisi dei dati

Per analizzare i dati è stato utilizzato il test per campioni indipendenti che permette, attraverso il confronto tra le medie dei due campioni lineari, di decidere se quest’ultimi provengano da due popolazioni diverse o meno. Per valutare questa ipotesi è necessario applicare il test di Levene di uguaglianza della varianza. Se l’ipotesi che le varianze siano uguali viene rifiutata, il procedimento risulterebbe inadeguato. Nelle successive tabelle (con * saranno indicati i dati significativi) saranno riportate unicamente le frequenze, tralasciando le durate della sollecitazione, in quanto risultano decisamente più  informative le prime. Non veranno valutati i valori della variabile 9, detta anche di default.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE TABELLE DELL’ ANALISI DEI DATI

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab1

Tab. 1 – Frequenze livelli di sollecitazione

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab. 2

Tab. 2 – Frequenze livelli di sollecitazione madri

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.3

Tab. 3 – Frequenze livelli di sollecitazione padri

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.4

Tab. 4 – Frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico

Sindrome di Down e Autismo come cambia l'interazione tra genitori e figli - Tab.5

Tab. 5 – Frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down

Conclusioni

I risultati emersi dallo studio evidenziano come i comportamenti d’interazione innati del genitore possano modificarsi, talvolta anche in modo significativo, a seconda delle differenti necessità dettate dallo sviluppo atipico dei propri figli. Le disfunzioni che scaturiscono dalla condizione patologica infantile vanno infatti ad interferire sull’abituale comunicazione genitori-figli.

Interessanti risultano inoltre le specificità di genere riguardanti i differenti approcci interattivi di madri e padri. Mettendo a confronto la tabella numero 4 (frequenze livelli di sollecitazioni nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico) e la tabella numero 5 (frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down) è possibile osservare come madri e padri rispettino i consolidati ruoli sociali, differenziando qualitativamente la modalità con le quali si relazionano al piccolo. Esaminando le sollecitazioni che avvengono con frequenza maggiore è possibile notare come i padri cerchino di agganciare l’attenzione del proprio figlio soprattutto attraverso l’utilizzo della variabile numero 3 in entrambi i casi di sviluppo atipico. Allo stesso modo le sollecitazioni che avvengono con maggior frequenza osservando esclusivamente i comportamenti delle madri sono tutte riconducibili alla numero 6. La madre dunque, a differenza del padre, anche nel caso di sviluppo atipico sollecita  maggiormente il piccolo a livello intellettuale piuttosto che ludico.

Dall’ analisi ottenuta dalla comparazione tra i gruppi (tabella 1: frequenze livelli di sollecitazione) sono emerse delle significatività riguardanti la variabile numero 5 e numero 7. La variabile numero 5 viene utilizzata maggiormente nel gruppo di bambini con Sindrome di Down, menre la 7 nel gruppo d bambini con Disturbo dello Spettro Autistico.

Osservando la tabella numero 2 (frequenze livelli di sollecitazione madri) le significatività emerse riguardano la variabile numero 1 e nuovamente la variabile numero 7. Come avveniva nella prima tabella, anche qui, la variabile numero 7 ha frequenza maggiore nel gruppo d bambini con Disturbo dello Spettro Autistico, mentre la 1 in quello dei bambini con Sindrome di Down.

Confrontando le sollecitazioni dei padri in entrambi i casi di sviluppo atipico (Tabella 3: frequenze livelli di sollecitazione padri) è emersa una significativa differenza a carico della variabile numero 5. Questo livello viene utilizzato maggiormente dai padri di bambini con Sindrome di Down.

Nelle ultime due analisi dove si sono confrontati i comportamenti di entrambi i genitori, ma separatamente per ognuna delle patologie dei figli, è emersa una significativa differenza solo nella tabella 4 (frequenze livelli di sollecitazioni nelle madri e nei padri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico), mentre nessuna nella tabella 5 ( frequenze livelli di sollecitazione nelle madri e nei padri di bambini con Sindrome di Down). La significatività riguarda la variabile 6 utilizzata con maggiore intensità da parte dei padri.

 

APPENDICE – Guarda qui lo schema di codifica del gioco a nove livelli 

Cosa avviene nel cervello quando muoviamo la testa?

I neuroscienziati del Sainsbury Wellcome Center hanno identificato un circuito nella corteccia visiva primaria del cervello (V1) che integra i segnali del movimento della testa e i segnali di movimento visivo. Lo studio, pubblicato su Neuron, spiega alcuni meccanismi con cui gli input visivi e vestibolari del cervello si sommano per consentire risposte comportamentali appropriate.

 

Il movimento della testa e l’attivazione del cervello

Nella vita quotidiana si muove costantemente la testa per osservare l’ambiente circostante. Per dare un senso alle informazioni che rientrano nello sguardo, è necessario tracciare la posizione della testa; questo si realizza con informazioni che provengono dagli organi di senso vestibolari, che si trovano nell’orecchio interno.

Il team di ricerca ha identificato che nella corteccia visiva primaria (area V1) i segnali vestibolari e i segnali visivi convergono. I segnali vestibolari provengono dalla corteccia retrospleniale, un’area cerebrale pensata per codificare informazioni critiche per la navigazione spaziale nel mondo circostante.

Il direttore associato del Sainsbury Wellcome Centre e direttore del progetto, il professor Troy W. Margrie ha commentato: “Dagli anni ’50 ci siamo concentrati sulla comprensione di come la direzione e la velocità degli stimoli sensoriali siano rappresentati dalla corteccia sensoriale primaria, dimostrando che questo processo corticale dipende dal contesto e coinvolge stimoli interni che segnalano il movimento“.

Per identificare dapprima le aree all’interno della V1 che potrebbero avere accesso ai segnali di testa-movimento, i ricercatori hanno utilizzato sonde di neuropixel all’avanguardia nel cervello di topi, ruotati passivamente. Le registrazioni iniziali sono state effettuate in completa oscurità per garantire che non vi fosse alcun input visivo e i dati hanno mostrato che i neuroni V1 di livello 6 (L6) trasmettono informazioni sul movimento della testa durante la rotazione.

Come avviene l’integrazione dei segnali di testa e di movimento visivo

La seconda parte dello studio, utilizzando registrazioni intracellulari, si è concentrata su quali aspetti del movimento della testa potrebbero essere codificati da tale attività. Lesionando i canali vestibolari e ruotando gli animali a varie velocità, gli autori hanno mostrato che la stragrande maggioranza dei neuroni V1 L6 riceve input sinaptici la cui attività fornisce una stima affidabile della velocità della testa.

Forse l’osservazione più sorprendente è stata la misura in cui questi segnali venivano rappresentati attraverso la rete locale. Anche se si è esplorata solo una piccola frazione dello spazio di stimolo vestibolare, quasi tutte le cellule hanno risposto“, ha osservato il professor Margrie.

Per studiare l’integrazione dei segnali di testa e di movimento visivo nelle singole cellule V1 L6, le registrazioni intracellulari sono state nuovamente ottenute attraverso i topi mentre questi venivano ruotati oltre uno stimolo visivo statico e poi confrontate con i dati delle rotazioni del topo al buio. È stato trovato che i neuroni L6 ricevono un insieme di input distinti da quelli che trasmettono le informazioni di movimento visivo e che questi segnali si sommano linearmente per distinguere il movimento interno da quello esterno e la loro combinazione.

La parte finale dello studio si è concentrata su una potenziale fonte dei segnali di movimento della testa. La corteccia retrospleniale (RSP), un’area del cervello coinvolta nella navigazione spaziale, è stata proposta come probabile candidata a causa della sua connettività monosinaptica con V1 L6 e della sua pertinenza funzionale. Per testare questa teoria, gli pseudovirus sono stati usati per indicare un segnale che permettesse la registrazione ottica degli stimoli di uscita dei neuroni RSP. I dati hanno mostrato che RSP fornisce un percorso plausibile per l’integrazione dei segnali di movimento della testa.

Il professor Margrie ha osservato in conclusione: “Dati i nostri precedenti risultati anatomici e il suo ruolo nell’elaborazione spaziale, l’RSP è stata la nostra prima regione candidata: questi nuovi dati aumentano la possibilità che possano essere trasmessi vari tipi di informazioni spaziali attraverso un locus per la modulazione dipendente dal contesto della segnalazione sensoriale nella corteccia“.

Questa ricerca è stata sostenuta dal British Medical Research Council, Wellcome Trust e The Gatsby Charitable Foundation.

La schema Therapy con i bambini e gli adolescenti (2017) di Loose C., Graaf P., Zarbock G. – Recensione del libro

Nel testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti gli autori usano questa metafora: gli schemi sono atomi che si combinano a formare diverse molecole, i mode. Anche nella terapia con i bambini e gli adolescenti è fondamentale individuare mode, schemi, stili di coping e bisogno primario non soddisfatto.

 

Questo libro è per noi una gioia ma anche una sfida, per la prima volta a livello internazionale, presentiamo l’approccio della Schema Therapy (…) per l’ambito della terapia con bambini e adolescenti.

 

Questo è l’incipit dell’introduzione al testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti, atteso dagli psicologi dell’età evolutiva e dagli psicoterapeuti formati nella Schema Therapy, ideata da Jeffrey Young.

La psicopatologia secondo la Schema Therapy di Jeffrey Young

La Schema Therapy descrive la psicopatologia partendo dai principi fondamentali della psicologia clinica dello sviluppo (Heinrichs & Lohaus, 2011). Nello specifico occorre tenere presente un modello che comprenda l’esame dei seguenti elementi:

  • Fattori di rischio che possono influire o compromettere lo sviluppo emotivo, cognitivo e sociale del bambino fino all’emergere di disturbi psichici. Quali sono questi fattori di rischio? Fattori biografici e culturali del contesto familiare e socio-culturale. Ma anche fattori genetici e di vulnerabilità biologica.
  • Fattori di protezione. Che cosa favorisce lo sviluppo ottimale o cosa riesce a contrastare gli effetti dei fattori di rischio? La disponibilità di almeno una relazione funzionale con un caregiver affettivo è certamente la miglior protezione, oltre alla “robustezza biologica” e ad altri fattori sia personali sia di situazione.

Oltre al modello dei fattori di rischio è da tener presente il modello dei compiti evolutivi (Havinghurst, 1972) e il modello delle dimensioni e costellazioni temperamentali (Herpetz,2008). Nella Schema Therapy fattori di rischio, fattori protettivi, dimensioni temperamentali sono posti in correlazione con i bisogni primari. La frustrazione cronica dei bisogni primari (attaccamento-autonomia-autostima-gioia e divertimento) e del bisogno di coerenza interna, peggiora l’effetto dei fattori di rischio e dirige la psicopatologia. In che modo si sviluppa pertanto la patologia?

La frustrazione cronica dei bisogni e una scarsa coerenza di sé porta alla costruzione di specifici schemi. Essi possono essere definiti come un tentativo, poco funzionale, di soddisfare comunque il bisogno di coerenza ovvero di giungere a un coordinamento di tutti i processi mentali e neuronali per acquisire sicurezza e identità.

Ogniqualvolta un bisogno primario è frustrato si scatenano nel bambino reazioni emotive negative: rabbia, tristezza, paura. Se vissute ripetutamente e con elevata intensità è possibile che il bambino sviluppi un modo stereotipato di comportarsi in reazione a esse.

Abbiamo gli stili di coping o strategie di reazione. Si tratta delle classiche reazioni di allarme tipiche di tutti gli esseri viventi: fight-flight-freeze.

Ovvero con i termini della Schema Therapy:

  1. Stile di coping di iper-compensazione o reazione di attacco o aggressione o fight.
  2. Stile di coping basato su evitamento o reazione di fuga o flight.
  3. Stile di coping della sottomissione e resa o reazione di congelamento o freeze.

Lo schema secondo Jeffrey Young è dunque il risultato di un processo di apprendimento, è inteso come un insieme di ricordi, cognizioni, emozioni e reazioni corporee.

Young ha sviluppato il concetto di mode che definisce così: combinazione di schemi adattivi e maladattivi o di operazioni di schemi che sono attivi contemporaneamente in una persona (Young et al., 2005). Schemi e stili di coping si raggruppano come parti del sé, un modo disfunzionale è una parte del sé che è poco integrata con le altri parti del sé.

La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti: come applicare la Schema Therapy in ogni fase dell’età evolutiva

Nel testo La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti gli autori usano questa metafora: gli schemi sono atomi che si combinano a formare diverse molecole, i mode.

Anche nella terapia con i bambini e gli adolescenti è fondamentale individuare mode, schemi, stili di coping e bisogno primario non soddisfatto.

Nel testo gli autori illustrano come applicare la Schema Therapy in età evolutiva in ogni fase specifica. Troverete un capitolo per ogni fascia di età dal neonato fino al giovane adulto, nel quale sono descritti i compiti di sviluppo e i principi essenziali della terapia ma anche le tecniche e gli strumenti specifici per ogni età. L’uso dei pupazzi, delle storie, delle metafore e delle carte gioco e del role-play sono strumenti fondamentali dell’approccio con il bambino e l’adolescente; il lettore potrà conoscerli anche attraverso i numerosi casi clinici che gli autori hanno descritto nel manuale.

Volendo fare una sintesi dell’approccio con i bambini è possibile procedere come segue.

La prima tappa è: l’identificazione del mode. Potremmo dire al bambino “dobbiamo creare una squadra, chi sono i giocatori di questa squadra? Quali sono le emozioni che conosci di questa squadra?”.

La seconda fase è accedere al bambino vulnerabile. Un mode che si potrebbe presentare in questa fase è quello del bambino felice, l’altro è il mode del bambino vulnerabile. Al bambino vulnerabile dobbiamo dare tutto perché è il bambino che ha più bisogno di supporto, senza critiche. Ad esempio giocando con le marionette dobbiamo fare in modo che la parte del bambino vulnerabile abbia il pieno sostegno, il nostro obiettivo principale è dare a questa parte del bambino ciò che vuole e capire qual è il bisogno frustrato.

La terza fase riguarda il determinare la funzionalità dei mode del nostro paziente, ovvero riuscire ad individuare tutti i punti di forza e le difficoltà del bambino. Qualunque mode sia, una volta che è compresa la sua funzionalità del mode si procede a riorientare il mode, rafforzando i mode più funzionali e positivi e togliendo così forza alle componenti disfunzionali che determinano comportamenti problematici. Ogni mode ha aspetti funzionali e disfunzionali, ogni mode ha un suo senso, una sua ragion d’essere, non esiste un mode che sia solo sbagliato, bisogna trovare l’alternativa che possa svolgere un lavoro che questo mode non riesce a fare. Ultima fase è il trasferimento di questo nella vita di tutti i giorni, nessuna terapia ha senso senza che abbia un effettivo beneficio nella vita quotidiana.

Peter Graaf dedica uno specifico capitolo di La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti al lavoro con i genitori. Come sempre non è pensabile e non è efficacia fare psicoterapia con i bambini senza coinvolgere i genitori e in molti casi progettare un lavoro specifico con loro.

Nella maggior parte dei casi, spiega l’autore, il coaching dei genitori è una parte irrinunciabile del percorso terapeutico.

In Schema Therapy si usa l’espressione coaching genitoriale per indicare una forma di consulenza sullo sviluppo del bambino e sulla comprensione di come i propri schemi possano colludere con gli schemi dei figli. I genitori sono guidati anche verso l’individuazione dei propri schemi maladattativi, il comportamento problematico del figlio potrà essere visto anche come sintomo derivato dall’esistenza di schemi e mode disfunzionali in famiglia.

Strumenti e tecniche del coaching dei genitori sono la psico educazione, il role-play, la tavola della famiglia, il disegno, gli esercizi immaginativi e le letture specifiche.

E’ possibile un lavoro con i genitori in parallelo con la terapia del bambino ma anche sedute familiari o sedute con il bambino e un singolo genitore.

Gli autori descrivono, inoltre, quali aspetti generali indicano o controindicano il trattamento con quest’approccio.

Schema Therapy in età evolutiva: indicazioni per l’uso

Controindicazioni all’uso della Schema Therapy in età evolutiva:

  • In presenza di sintomi acuti e pericolosi (grave anoressia)
  • In presenza di sintomi psicotici.
  • In presenza di sintomi neurologici o gravi ritardi nello sviluppo.

Indicazioni all’uso della Schema Therapy in età evolutiva:

  • Il bambino non è ancora pronto per la terapia cognitivo comportamentale.
  • Il bambino non riesce a esercitare strategie di autocontrollo.
  • Il bambino tende a evitare emozioni e pensieri legati al comportamento problematico.
  • Il bambino non pensa di avere abbastanza risorse da affrontare le situazioni problematiche e non spera in un miglioramento.

Ho trovato il manuale La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti ricco di strumenti e casi clinici ma anche di un’esaustiva parte teorica esplicativa dei principi della Schema Therapy, pertanto utile a psicologi e psicoterapeuti che lavorano con l’infanzia ma ancora non formati nelle tecniche di J.Young.

 

Aborto e lutto perinatale: il dolore della perdita di un figlio

La perdita di un figlio in gravidanza o nell’immediato post-partum è un evento luttuoso, che comporta una serie di reazioni psicologiche e comportamentali. Spesso il lutto perinatale è un’esperienza traumatica che richiede del tempo per essere elaborata.

 

La perdita di un figlio in gravidanza o nell’immediato post-partum è un evento luttuoso, che comporta una serie di reazioni psicologiche e comportamentali. Si utilizza l’espressione lutto perinatale per indicare la morte di un figlio che avviene tra la ventisettesima settimana di gestazione e i primi 7 giorni di vita del bambino. Gli eventi che comportano la perdita di un figlio nel periodo perinatale sono molteplici e comprendono l’aborto spontaneo, l’interruzione volontaria o terapeutica della gravidanza, la morte intrauterina e la morte subito dopo il parto.

Le fasi del lutto perinatale

Quando si perde una persona cara e, dunque, anche quando viene a mancare un bambino non ancora nato o appena dato alla luce, si attivano diversi vissuti emotivi che caratterizzano le diverse fasi del lutto (Ravaldi, 2009). La prima fase è quella dello shock e della negazione e caratterizza i primi giorni dopo aver ricevuto la notizia della perdita; stordimento, incredulità e negazione sono le emozioni e i vissuti più comuni. Segue la fase della realizzazione, in cui si inizia a prendere consapevolezza della perdita e a prendere contatto con l’esperienza del dolore e può comparire il senso di colpa associato al pensiero che qualcosa poteva essere fatto per evitare la perdita. La terza fase è quella della protesta, in cui compare l’emozione della rabbia, il sentirsi vittime di un’ingiustizia e si possono ricercare delle colpe e responsabilità nei medici, nel contesto ospedaliero, ecc. Segue la fase della disorganizzazione, in cui possono comparire depressione e tendenza all’isolamento e all’evitamento di alcune situazioni legate alla genitorialità; si pensa sia meglio non parlarne e far finta con gli altri che nulla sia successo. Talvolta l’isolamento può essere messo in atto anche nei confronti del partner, soprattutto se i due genitori hanno un modo differente di vivere il dolore. Solo dopo aver attraversato tali fasi ed il dolore associato ad esse è possibile accedere alla fase della riorganizzazione e accettazione, la sofferenza comincia ad attenuarsi, la ricerca della solitudine e l’evitamento si riducono e pian piano si ricomincia a coltivare interessi ed è possibile che ricompaia il desiderio di maternità.

Il lutto perinatale come esperienza traumatica per la famiglia

Da questo si deduce che la perdita di un figlio è spesso un’esperienza traumatica che richiede del tempo per essere elaborata e avviene mediante l’attraversamento del dolore emotivo, dell’angoscia e di pensieri disturbanti, dei ricordi e dei flashback associati all’evento. Il livello della sofferenza può essere intenso e la durata variabile.

Essere ascoltate, comprese, validate e contenute emotivamente diventa fondamentale per non sentirsi sole in quest’esperienza di dolore e per poter giungere ad attribuire un senso condiviso all’evento vissuto. Il lutto perinatale comporta l’interruzione della genitorialità e della relazione di attaccamento con il proprio bambino; per questo il processo di rielaborazione può durare da 6 mesi a 2 anni e talvolta purtroppo può trasformarsi in un lutto complicato non elaborato o può comportare l’insorgenza di un disturbo psichico, tra cui la depressione o il disturbo post traumatico da stress.

La ferita può restare aperta anche tutta la vita se non si riesce a darle un significato. Tentare di consolare i genitori in lutto consigliando di riprovarci o ricordando che hanno già altri figli, qualora presenti, non attenua la sofferenza dei genitori che hanno subito la perdita di un figlio; essi hanno bisogno di vivere il proprio dolore per poi giungere gradualmente all’accettazione della perdita. Alcuni riti, quali dare sepoltura al bambino non ancora nato e andare al cimitero possono aiutare ad elaborare tale dolore, a non negarlo e a prendere contatto con l’esperienza vissuta. Il lutto vissuto non deve diventare un tabù, una vergogna, anzi è opportuno che se ne parli e si pianga il bambino perso senza vergogna o pudore.

È importante anche ricordare che alle volte quando avviene un lutto perinatale, vi sono anche fratelli o sorelle che non vedono arrivare il fratellino tanto atteso. Molti genitori pensano che sia pericoloso o dannoso esporre i bambini all’esperienza della morte; per questo tendono ad evitarlo o a minimizzarlo. Questo in realtà impedisce ai bambini di poter vivere e condividere il dolore della perdita con gli adulti e in particolare con i genitori. Si sostiene, invece, che sia importante fornire ai bambini informazioni e spiegazioni semplici e veritiere sull’accaduto, in modo tale che possano anch’essi elaborare e integrare tale esperienza e i vissuti che ne conseguono nell’ambiente protetto e sicuro della famiglia.

Dunque, per elaborare e giungere emotivamente all’accettazione del lutto perinatale è opportuno darsi tempo, vivere il dolore, condividerlo e provare a dargli un senso. Esperienze di supporto psicologico o di gruppi di mutuo-aiuto possono essere una risorsa che può accompagnare la coppia in un processo di elaborazione. Talvolta è possibile ricorrere alle tecniche dell’EMDR  o della terapia senso-motoria per il trattamento dei disturbi post-traumatici che possono eventualmente insorgere dopo l’esperienza traumatica del lutto.

La malattia invisibile. Diagnosi e terapia della fibromialgia – Report Congresso di Palermo

Il 17 marzo si è svolto a Palermo il Congresso di aggiornamento promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e dall’Università degli Studi di Palermo, avente come oggetto di analisi la valutazione diagnostica e il trattamento della fibromialgia.

 

Si è svolto lo scorso 17 marzo a Palermo, nella prestigiosa cornice di Palazzo Steri, il Congresso di aggiornamento promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e dall’Università degli Studi di Palermo ed avente come oggetto di analisi la valutazione diagnostica e il trattamento della fibromialgia, sindrome cronica dolorosa riconosciuta nella sua specificità nosografica solo nel 2010, nell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione mondiale della Sanità.

Un evento innovativo, dal punto di vista di un’informazione scientifica finalizzata a delineare le caratteristiche di una patologia ancora poco nota e a tracciare l’efficacia dei trattamenti neuronali e psicologici attualmente disponibili.

Ad aprire i lavori la lectio magistralis del Professore Massimiliano Oliveri, neurologo e professore ordinario di neuroscienze cognitive all’Università degli Studi di Palermo, che sottolinea la caratteristica neuronale distintiva della fibromialgia nella perdita della capacità di modulazione del dolore.
“Nella fibromialgia i processi inibitori del dolore non risultano adeguatamente funzionanti, con una riduzione del neurotrasmettitore inibitorio GABA, con il risultato che i processi eccitatori prendono il sopravvento, nello specifico l’eccitazione della corteccia motoria – spiega Oliveri – Da tale constatazione scientifica derivano i trattamenti di neuro modulazione più adeguati, che consistono nell’eccitazione delle aree motorie, finalizzata all’attivazione del GABA e della serotonina verso le vie discendenti. Dobbiamo riconoscere due fondamentali sistemi trattamentali: la stimolazione magnetica ad alta frequenza diretta alla corteccia motoria, utile se applicata per un periodo di due settimane, tutti i giorni, benchè il dolore tenda a ricomparire, e la stimolazione elettrica transcranica, i cui risultati di efficacia risultano ancora limitati. È altresì da sottolineare come ai trattamenti di tipo neurologico si debbano affiancare trattamenti psicologici e, se necessario, farmacologici”.

Fibromialgia: quali sono i sintomi

A procedere nella descrizione approfondita dei sintomi specifici della fibromialgia la relazione del Dr. Piercarlo Sarzi Puttini, Professore a contratto in Reumatologia presso l’Università degli Studi di Milano.
“La fibromialgia, con una prevalenza femminile dal 2% all’8%, è una sindrome clinica contraddistinta da un insieme di sintomi eterogenei quali un dolore muscoloscheletrico cronico e diffuso, rigidità, affaticamento cronico, disturbi del sonno, in una percentuale che arriva al 90% dei casi, disturbi della memoria e della concentrazione, ansia, depressione, con generale scadimento della qualità di vita e costi socio-economici diretti e indiretti. Insomma, il cervello del fibromialgico è di venti anni più vecchio rispetto a un cervello di un soggetto sano. Nonostante i progressi nella gestione del dolore, bisogna dire che a oggi il dolore cronico rimane un problema irrisolto in molti Paesi”.

Aspetti cognitivi e strumenti terapeutici

Sugli aspetti cognitivi della fibromialgia, e sugli strumenti terapeutici, si è quindi concentrata la relazione del Dr. Massimiliano Curatolo, psicologo.
“A livello cerebrale nella fibromialgia si riscontra una significativa riduzione del volume encefalico, della dopamina a livello presinaptico e della sostanza grigia – sottolinea Curatolo – Una situazione che si traduce in tutta una serie di deficit cognitivi riassumibili nel concetto di nebulosità mentale, quali difficoltà nell’attenzione, nella memoria, in particolare verbale, spaziale e a lungo termine, rallentamento dei tempi di reazione e alterazione delle funzioni esecutive, che determina deficit nella capacità decisionale. Dal punto di vista dei trattamenti la stimolazione elettrica transcranica permette di ottenere un miglioramento dei sintomi deficitari a carico di memoria e attenzione”.

A concludere le relazioni non poteva mancare la disamina delle componenti affettive della fibromialgia, nella misura in cui la componente ansioso-depressiva è da considerarsi correlato classico della patologia, in una genesi multifattoriale in cui le componenti psicologiche, quali traumi psichici, hanno altresì un ruolo, insieme a componenti di tipo medico, come traumi fisici, incidenti, infezioni.

“Al momento le cause della fibromialgia non sono note, anche se tra le ipotesi multifattoriali più accreditate sono inclusi traumi fisici e psicologici, come lutti. Resta comunque certo che la diagnosi di fibromialgia porta con sé correlati di tipo ansioso e depressivo – spiega la Dr.ssa Sandra Giordano, psicologa – La malattia è devastante e può innescare un drammatico effetto domino che non risparmia il lavoro, la famiglia, la comunità, la vita di coppia e la percezione del futuro. Si tratta di una malattia invisibile: chi ne è affetto non di rado viene definito malato immaginario, benchè la sua sia una sofferenza tangibile, scandita continuamente dalle parole Sto male, in un racconto di sé che la terapia ha il compito di cambiare in maniera più funzionale. Un’azione terapeutica che si scontra con lo scetticismo dei pazienti verso medici e farmaci, infatti non di rado vengono riportati insuccessi e insoddisfazioni per le terapie seguite. Dal punto di vista del trattamento molto importante è il gruppo psicoeducativo, composto da non più di venti pazienti e due terapeuti, e della durata massima di venti sedute, in cui, assegnato un tema, questo viene discusso, con la finalità di contenere le ansie della patologia e di portare a casa con sé informazioni utili. Riguardo invece ai gruppi di mutuo aiuto essi risultano efficaci nella misura in cui permettono la libera circolazione di emozioni e vissuti e la condivisione di esperienze simili, benchè, nel caso della fibromialgia, sia necessario prevedere una terapia individuale, viste le esigenze di visibilità e di richiesta di attenzioni che i pazienti portano. Grazie infine alla psicoterapia di gruppo è favorita la narrazione della storia di vita dei pazienti e la messa in gioco nello psicodramma”.

La fibromialgia, una patologia al confine tra cervello e mente, emozioni e cognizione, che richiede aggiornamento scientifico, sensibilità clinica, multi-professionalità, affinché il lamento somatopsichico di chi soffre non resti relegato a questione di pura immaginazione e isterica richiesta di attenzioni, prolungando le sofferenze di chi ha diritto a un ascolto che cura e a una cura basata sull’ascolto di un paziente che sempre resterà, nell’ottica di un’alleanza terapeuticamente fondata, il massimo esperto dei propri disagi.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale ottiene prove di efficacia in un trial clinico randomizzato

Popolo e Dimaggio (2016) hanno disegnato e manualizzato un approccio breve, 16 sedute, psicoeducazionale ed esperienziale, denominato TMI-Gruppo (TMI-G). L’idea dalla quale tale approccio partiva è che la metacognizione, essendo in buona parte contesto-dipendente, può essere allenata in contesti semi-naturali come il gruppo.

 

Sviluppare modelli di trattamento. Manualizzarli. Verificarli empiricamente. La forza del cognitivismo nel bene e nel male è sempre stata questa. È una mission che ha portato prima a disegnare la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Semerari, Popolo, Carcione e Nicolò, 2007). Poi a manualizzarne le procedure, in particolare per i pazienti con prevalente inibizione comportamentale ed emotiva (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013).

A quel punto siamo passati alla verifica empirica. Una prima serie di casi singoli (Dimaggio et al, 2017) e una multiple baseline case series (Gordon-King, Schweitzer & Dimaggio, 2018) hanno dato preliminari prove di efficacia.

Il passaggio successivo era tentare uno studio randomizzato di efficacia, forti anche degli esiti notevoli di un recente trial in cui i Metacognition Oriented Social Skills Training (disegnati dal nostro Paolo Ottavi) si sono dimostrati nettamente superiori ai Social Skills Training tradizionali (Inchausti et al., 2018).

Insieme (Popolo & Dimaggio, 2016) abbiamo quindi disegnato e manualizzato un approccio breve, 16 sedute, psicoeducazionale ed esperienziale, denominato TMI-Gruppo (TMI-G). L’idea dalla quale partiva è che la metacognizione, essendo in buona parte contesto-dipendente (Semerari, 1999) può essere allenata in contesti semi-naturali come il gruppo. L’idea è che la metacognizione peggiori proprio quando la persona è guidata da scopi personalmente rilevanti ed è guidata da previsioni negative (schemi interpersonali) riguardo al loro raggiungimento. “Desidero essere amato, mi aspetto che l’altro mi rifiuti. Desidero essere apprezzato, mi aspetto che l’altro mi critichi”.

Quindi le persone soffrirebbero a causa dell’attivazione di questi schemi e in quei casi le abilità metacognitive, necessarie per aumentare la possibilità che l’assetto relazionale sia buono, cadono.

Siamo partiti dall’idea che fosse utile:

  1. spiegare ai pazienti quali siano i sistemi motivazionali interpersonali che li guidano, a partire dall’elaborazione fatta dai nostri colleghi italiani (Giovanni Liotti, Giovanni Fassone, Antonella Ivaldi, Benedetto Farina, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Cecilia La Rosa e tanti altri);
  2. che sotto l’attivazione di questi sistemi le persone provano determinati pensieri ed emozioni e si comportano in certi modi.

A partire da questa conoscenza di sfondo, la parte psicoeducazionale del programma, i pazienti erano invitati a raccogliere episodi narrativi specifici problematici durante i quali erano stati guidati da quello scopo/sistema motivazionale (e.g. agonismo, appartenenza, esplorazione).

La metacognizione, come dicevamo, va allenata nei contesti naturali. Questa è la parte esperienziale del programma. I pazienti erano invitati al role-play degli episodi selezionati, volto prima a comprendere gli stati mentali, propri e degli altri, e successivamente a mettere in atto forme più efficaci e adattive di problem-solving guidato da un’ aumentata comprensione metacognitiva della relazione. In altre parole a migliorare la mastery!

TMI-Gruppo: quale efficacia?

A quel punto era il momento di testarne l’efficacia.

Raffaele Popolo insieme a Daniela Rebecchi e ai colleghi del Servizio Psicologia Clinica DSM AUSL di Modena ha condotto un trial randomizzato con gruppo di controllo. 10 pazienti hanno ricevuto 16 sedute di TMI-Gruppo e 10 sono stati in lista d’attesa+treatment as usual (TAU). I risultati sono stati ottimi. Nel gruppo TMI-Gruppo 8 pazienti su 10 hanno completato il programma. Non ci sono stati effetti avversi neanche nei due drop-out (per altro dovuti a motivi di organizzazione). Il gruppo TMI-Gruppo si è dimostrato chiaramente superiore nel migliorare i sintomi e il funzionamento interpersonale dei pazienti rispetto al gruppo di controllo. La magnitudine del cambiamento era ampia. La metacognizione, come previsto, è migliorata in modo significativo nel solo braccio TMI-Gruppo (TMI-G), in particolare per quanto riguarda autoriflessività e mastery. I risultati si sono mantenuti al follow-up (Popolo et al., 2018).

Con questo studio la TMI, in particolare nella forma TMI-G entra a buon diritto nelle terapie per i disturbi di personalità empiricamente supportate, anche se naturalmente il livello di prove empiriche è solo iniziale. Sulla base di una power analysis, abbiamo valutato che è necessario uno studio randomizzato con almeno 20 pazienti per braccio. Di conseguenza è da poco iniziato un nuovo studio randomizzato di efficacia nello stesso sito del precedente.

In parallelo, a Saragozza è in corso uno studio pilota di efficacia (10 pazienti) per valutare la possibilità di replicare i risultati e disseminare l’approccio in altri paesi. In Norvegia è in corso uno studio simile, con la TMI-Gruppo applicata in più unità psichiatriche. È attualmente in corso di approvazione etica e finanziamento un largo studio randomizzato multicentrico internazionale (Spagna come paese di base, Italia, Norvegia, Australia e Scozia).

TMI-G: Riassumendo

È possibile sviluppare in Italia trattamenti soggetti a verifica empirica? Sì. Fatto.

È possibile testarli? Sì, fatto.

È efficace un trattamento per i disturbi di personalità basato sulla comprensione dei propri schemi interpersonali e sul miglioramento della metacognizione? Sembra proprio di sì.

Servono più prove empiriche a supporto della sua efficacia? Sì, le stiamo raccogliendo.

La metacognizione aumenta nel corso di trattamenti orientati al suo miglioramento? Decisamente sì!

cancel