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L’universalità della musica e delle sue funzioni

Ogni cultura ama la musica e il canto e la musica assolve molti scopi diversi: accompagnare una danza, consolare un bambino o esprimere amore. Lo dimostra un nuovo studio sperimentale che supporta l’ipotesi di una universalità del linguaggio musicale come veicolo di emozioni.

 

L’universalità della musica

La musica è un linguaggio universale. Lo si sente ripetere spesso, perché i successi musicali travalicano le frontiere spesso senza bisogno di tradurre il testo e soprattutto perché in molte occasioni capita di verificare che le emozioni suscitate da un brano non dipendono dalla cultura in cui è stato prodotto.

L’affermazione è stata verificata in modo più preciso da un nuovo studio sperimentale pubblicato su “Current Biology” da Samuel Mehr della Harvard University e colleghi. I risultati della ricerca infatti dimostrano che esistono alcune strutture musicali intrinsecamente correlate alle emozioni che possono essere percepite da persone di culture molto diverse tra loro dopo aver ascoltato soltanto un brano molto breve.

Nell’esperimento, gli autori hanno chiesto a 750 utenti di Internet di 60 paesi di ascoltare brevi brani musicali, ciascuno della durata di 14 secondi. I brani sono stati selezionati in modo pseudo casuale e provenivano da un’ampia gamma di aree geografiche, in modo da rappresentare una vasta gamma di culture umane. Dopo l’ascolto di ogni brano, i partecipanti hanno risposto a sei domande su come percepivano la funzione di ciascun brano musicale secondo una scala di sei punti. In particolare, dovevano valutare se i brani fossero adatti per ballare, tranquillizzare un bebè, guarire una ferita, esprimere amore, esprimere un sentimento di lutto o raccontare una storia. In totale, i partecipanti hanno ascoltato più di 26.000 brani e fornito oltre 150.000 voti. I dati hanno dimostrato che, in media, l’idea dei partecipanti sulle canzoni corrispondeva alla sua funzione originale, anche se i soggetti non erano familiari e non conoscevano il brano precedentemente. Ciò dimostrerebbe secondo i ricercatori che esistono strutture musicali, che indipendentemente dalla cultura di riferimento vengono percepite e interpretate in modo universale in riferimento a una loro possibile funzione.

Un dato curioso è la relazione emersa tra ninne nanne e musica da ballo. “Non solo i partecipanti sono riusciti a identificare le canzoni adatte per queste funzioni meglio delle altre, ma le loro caratteristiche musicali sembrano opposte per molti aspetti”, ha spiegato Mehr. “Le canzoni ballabili generalmente avevano un ritmo più rapido, erano più complesse dal punto di vista ritmico e melodico ed erano percepite come più gioiose e più eccitanti, mentre le ninne nanne erano percepite come più tristi e meno eccitanti”.

Lo stress cronico in gravidanza porterebbe allo sviluppo della depressione post partum

Un recente studio cercato di stabilire un’associazione tra la depressione post partum e lo stress in gravidanza, ma a differenza di altri studi oltre alle variabili sociodemografiche, ostetriche e psicologiche ha indagato una variabile biologica dello stress: i livelli di cortisolo accumulati nel capello durante i tre trimestri della gravidanza.

 

La depressione post partum ha conseguenze importanti, in particolare sulla relazione mamma-bambino. Per questo motivo è fondamentale un intervento tempestivo ai primi segnali. A maggior ragione acquista grande importanza la prevenzione, con sempre più attenzione al periodo della gravidanza. Infatti, recenti studi hanno dimostrato che la depressione post partum può fare la sua comparsa già dal periodo della gestazione, come indicato anche dalle ultime modifiche del manuale diagnostico per i disturbi mentali (DSM V) dove tra i sottotipi del disturbo depressivo dell’umore rientra anche il disturbo depressivo a esordio nel peripartum, sostituendo la precedente dicitura di post partum.

Depressione post partum e stress in gravidanza

La depressione post partum colpisce circa il 10-15% delle mamme e sono numerose le ricerche che si sono occupate di individuare l’associazione tra questo disturbo e alcuni fattori di rischio, come precedenti disturbi psichiatrici, precedenti aborti, ansia e stress in gravidanza, e lo sviluppo dei sintomi della depressione post partum.

Un recente studio svolto dall’Università di Granada in Spagna, coordinato dalla professoressa Maria Isabel Peralta-Ramirez, ha però fatto un passo in più. Ha infatti cercato di stabilire un’associazione tra la depressione post partum e lo stress in gravidanza, ma a differenza di altri studi oltre alle variabili sociodemografiche, ostetriche e psicologiche ha indagato una variabile biologica dello stress: i livelli di cortisolo accumulati nel capello durante i tre trimestri della gravidanza.

I soggetti reclutati per lo studio sono state future mamme che hanno volontariamente partecipato allo studio, provenienti da tre centri sanitari e da un ospedale generale, mentre svolgevano le visite prenatali di routine. In totale il campione ha incluso 44 donne in gravidanza, seguite longitudinalmente durante i tre diversi trimestri e nel post partum. Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: un gruppo con sintomi di depressione post partum, con un punteggio pari o superiore a 10 all’EPDS (Edinburgh Postnatal Depression Scale), e un gruppo senza sintomi depressivi. Sono state escluse dallo studio donne con patologie prima o durante la gravidanza e gravidanze con malattia di Cushing, asma, farmaci steroidei, diabete o condizioni che potessero influenzare il livello di cortisolo.

Le variabili indagate dallo studio sono state:

  • dati socio demografici;
  • misure biologiche;
  • stress materno percepito;
  • sintomi psicopatologici;
  • stress specifico per la gravidanza;
  • depressione post partum.

La misurazione delle misure biologiche mirava a individuare l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, attraverso i livelli di cortisolo dei capelli. I segmenti di capelli prelevati sono stati di circa 3 cm: considerando un tasso di crescita medio di 1 cm al mese, 3 cm indicavano il tasso di cortisolo depositato nei tre mesi precedenti.

Lo stress psicologico delle mamme è stato rilevato tramite il Perceived Stress Scale (PSS), che indaga lo stress percepito nel mese precedente. È stato inoltre utilizzato il Prenatal Distress Questionnaire (PDQ) per indagare lo stress specifico per il periodo della gravidanza, rispetto a problemi medici, sintomi fisici, cambiamenti corporei, travaglio, parto, le relazioni e la salute del bambino.

I sintomi psicopatologici invece sono stati indagati attraverso la scala SCL-90-R. Lo strumento valuta 9 dimensioni: somatizzazione, ossessione compulsione, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ostilità, ansia fobica, ideazione paranoide e psicoticismo. L’EPDS è stato utilizzato per la valutazione dei sintomi della depressione post partum.

Le batterie di test self-report sono state somministrate alle donne nel primo, secondo e terzo trimestre e nel post partum, durante gli incontri di routine nei quali le donne hanno incontrato medici e ostetriche.

Cosa è emerso dallo studio

Come ci si poteva aspettare, il gruppo di donne con i sintomi della depressione post partum ha riportato punteggi maggiori all’EPDS (M= 13,50) rispetto al gruppo senza sintomi di depressione post partum (M= 4,75). È emersa un’associazione tra i sintomi della depressione post partum e lo stress in gravidanza. In particolare, sebbene i livelli di stress specifico per la gravidanza fossero più alti tra le donne con depressione post partum in tutti e tre i trimestri, solo nell’ultimo trimestre sono emerse differenze significative tra i due gruppi.

Rispetto ai sintomi psicopatologici, il gruppo di donne con depressione postnatale ha mostrato punteggi superiori in tutte le sottoscale dell’SCL-90-R durante i tre trimestri di gravidanza. Nello specifico queste mamme avevano punteggi clinici (superiori a 70) nelle sottoscale di somatizzazione, ansia fobica e psicoticismo nel primo trimestre; ansia fobica durante il secondo e terzo trimestre; somatizzazione, ossessione compulsione, ideazione paranoide e psicoticismo nel terzo trimestre. Tra i due gruppi di mamme invece le differenze significative sono emerse in particolare durante il primo trimestre per la sottoscala somatizzazione e durante il secondo trimestre per le sottoscale di somatizzazione, depressione e ansia (Tab.1).

Stress in gravidanza associato allo sviluppo di depressione post partum - Psicologia - Tab1

Tab. 1: differenze medie dello stress e dei sintomi psicopatologici con gli effetti di interazione tra gruppi e trimestri

 

Il risultato più interessante però è stata l’associazione tra i livelli di cortisolo dei capelli e i sintomi della depressione post partum. È emerso infatti che il gruppo di mamme con i sintomi della depressione postnatale aveva livelli più alti di cortisolo dei capelli durante tutti e tre i trimestri. Le analisi hanno inoltre permesso di vedere come i livelli di cortisolo nei capelli potevano prevedere il 21,7% della varianza dei sintomi depressivi nel post partum, nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza.

Considerazioni cliniche

Lo scopo dello studio era quello di individuare le variabili sociodemografiche, ostetriche, psicologiche e ormonali per prevedere i sintomi della depressione post partum. Mettendo a confronto un gruppo di mamme con sintomi di depressione post partum e un gruppo di mamme senza sintomi sono state individuate differenze significative, interessanti dal punto di vista clinico. Nello specifico le mamme che hanno manifestato sintomi di depressione post partum hanno anche riportato valori più alti di stress in gravidanza, stress percepito, sintomi psicopatologici e livelli di cortisolo durante i tre trimestri di gravidanza.

Le discrepanze tra i due gruppi rispetto alle variabili psicopatologiche hanno evidenziato che durante il primo trimestre sono emerse significative differenze rispetto alla sottoscala somatizzazione della SCL-90-R. Nel secondo trimestre le differenze hanno coinvolto le sottoscale di somatizzazione, ossessione compulsione, depressione e ansia. Per questi motivi sono emerse correlazioni anche tra le sottoscale di ansia e somatizzazione della SCL-90-R nei primi due trimestri di gravidanza con l’EPDS. Questi risultati sono andati a confermare altri studi della letteratura che hanno individuato la correlazione tra sintomi psicopatologici della SCL-90-R e la depressione post partum.

Lo studio ha individuato differenze sostanziali tra i due gruppi durante il secondo trimestre di gestazione anche rispetto allo stress specifico della gravidanza. Entrambe le misure dello stress (PDQ e PSS) sono state utilizzate nella valutazione dei livelli di stress durante la gravidanza, ma tra le due misure il PDQ è quello che è risultato più significativo, ma è anche quello che offre l’opportunità di valutare preoccupazioni legate alla gravidanza. Può essere quindi considerato un valore di stress più specifico per questo periodo di cambiamento per la donne e un migliore predittore di eventuali esiti negativi nel post partum.

Le misure biochimiche, cioè i livelli di cortisolo dei capelli, rappresentano invece i livelli di stress cronico, perché indagavano lo stress accumulato nei tre mesi precedenti, rilevati a cadenza trimestrale per tutta la gravidanza. I risultati dello studio mostrano come i livelli di cortisolo nel gruppo con sintomi di depressione post partum sono scesi dal primo al secondo trimestre ma sono saliti dal secondo al terzo trimestre, creando una forma a U se tracciati su un grafico, a differenza del del gruppo senza sintomi depressivi in cui la crescita di cortisolo è stata costante (Tab. 2).

Stress in gravidanza associato allo sviluppo di depressione post partum - Psicologia - tab. 2

Tab. 2: differenze dei  livelli di cortisolo dei capelli tra donne con depressione post partum e donne senza depressione post partum

 

Questo è stato il primo studio a riportare i livelli di cortisolo nei capelli durante tutta la gravidanza in un gruppo di donne con sintomi di depressione post partum, comparandoli a quelli ottenuti da un gruppo di donne senza sintomi ed è la novità che potrebbe far nascere nuove ricerche per utilizzare misure biologiche in ottica preventiva.

Quello che è emerso è che i livelli di cortisolo dei capelli erano più alti in tutti i trimestri nel gruppo con sintomi di depressione postpartum rispetto al gruppo senza sintomi ed erano significativamente differenti nel primo e nel terzo trimestre. Inoltre alti livelli di stress cronico in gravidanza nel primo e nell’ultimo trimestre sono risultati correlati alla depressione post partum e possono così essere utilizzati come indici predittivi della psicopatologia postnatale.

Conclusioni

In sintesi lo studio ha rilevato che alti livelli di stress in gravidanza sono associati ai sintomi della depressione postpartum. Nello specifico ha rilevato che la depressione post partum è correlata a:

  • sintomi psicopatologici nel primo e nel secondo trimestre di gravidanza;
  • elevato stress specifico della gravidanza nel secondo trimestre di gravidanza;
  • alti livelli di cortisolo (stress cronico) nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza.

Poiché i livelli di cortisolo dei capelli utilizzati dallo studio riflettono i livelli di stress nei tre mesi precedenti il prelievo del campione, si può affermare che il periodo di preconcezione e il secondo trimestre di gravidanza sono periodi particolarmente sensibili rispetto allo sviluppo dei sintomi della depressione postpartum, confermando quanto riportato da precedenti studi.

A questo proposito sembrerebbe opportuno svolgere interventi di screening efficaci rispetto allo stress in gravidanza per ridurre al minimo esiti psicopatologici avversi nel post partum.

Unendo i risultati del presente studio a quelli della recente letteratura, si evince che non solo già dalla gravidanza possano emergere segnali importanti associati alla depressione post partum, ma che le future madri possono sviluppare in gravidanza oltre alla depressione anche sintomi ansiosi e con maggior frequenza rispetto a quelli depressivi. Valutare la salute psicologica già nel periodo perinatale permetterebbe quindi agli operatori sanitari di prendere decisioni adeguate di intervento e fornire un prezioso aiuto nel sostegno della maternità.

Buprenorfina: dalla terapia del dolore al trattamento della dipendenza da oppiacei – Introduzione alla Psicologia

La buprenorfina è un farmaco semisintetico appartenente alla classe degli analgesici oppioidi. Si tratta di un derivato dalla tebaina, alcaloide derivato dal papavero da oppio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La buprenorfina utilizza i recettori oppioidi e agisce sulle vie del dolore inducendo analgesia e altri effetti sul sistema nervoso centrale simili a quelli prodotti della morfina. Essa è utilizzata come terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei durante un percorso di un trattamento medico e psicologico

Storia del farmaco

Fu sviluppata alla fine degli anni Settanta nel tentativo di individuare un analgesico che non producesse assuefazione.

Nel 1978 fu brevettata e introdotta in Gran Bretagna con il nome commerciale di Temgesic. Negli anni ’80 ci furono i primi episodi in cui si denunciava l’assunzione di buprenorfina per via endovenosa e il suo abuso da parte di persone dipendenti da eroina.

Negli anni ’90 fu sviluppato il Subutex, brevettato per la prima volta in Francia per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Successivamente, nel 1999, la buprenorfina fu introdotta nel Regno Unito, nel 2000 in Germania e in Australia.

A tutt’oggi è presente in 30 paesi, e il Subutex è utilizzato in 17 paesi europei.

Di cosa si tratta

La buprenorfina deve essere prescritta da un medico del Servizio per le tossicodipendenze, che segue il paziente per il periodo della somministrazione. La buprenorfina è disponibile per la somministrazione orale, come compresse sublinguali, per la somministrazione parenterale, sotto forma di soluzione iniettabile e per la somministrazione topica, attraverso il cerotto transdermico.

Solitamente, si predilige la somministrazione sublinguale, via più efficace e sicura per la somministrazione di questo farmaco. Infatti, l’assorbimento per via orale è ostacolata dalla metabolizzazione di almeno l’80% della dose somministrata durante il primo passaggio epatico; invece, la via sublinguale ha un assorbimento che raggiunge l’80% con biodisponibilità assoluta del 30-50%. Il metabolismo è principalmente epatico attraverso meccanismi di glucuronazione e dealchilazione.

Trattamento attraverso buprenorfina

L’utilizzo della buprenorfina è indicato per il trattamento del dolore, sia acuto, sia cronico, da moderato a severo e di diversa origine e natura, compreso il dolore causato da patologie neoplastiche. Inoltre, la buprenorfina è utilizzata nei programmi di disassuefazione dagli oppioidi in adulti e adolescenti con più di 15 anni di età.

La dose di farmaco deve essere stabilita dal medico. Di solito, si inizia la terapia con piccole quantità di farmaco che gradualmente saranno aumentate dal medico fino al raggiungimento del dosaggio ottimale.

Effetti della buprenorfina

La buprenorfina è un oppioide avente effetti molto simili alla morfina, compresa sedazione, senso di nausea, depressione respiratoria, ma non comporta l’intensa sensazione di benessere iniziale simile all’eroina, il cosiddetto flash.

Inoltre, alti dosaggi del farmaco inducono cambiamenti duraturi nella dipendenza da varie droghe d’abuso e nella fase iniziale del trattamento sostitutivo sembra essere tollerata meglio del metadone, soprattutto in coloro che sono privi di una forte spinta motivazionale (Davids E, et al. Eur Neuropsychopharmacol 2004). La buprenorfina esercita anche una azione antidepressiva attraverso il blocco della disforia generata dalla stimolazione del recettore kspecifici e per questo è utile nel trattamento dei tossicodipendenti con diverse comorbidità psichiatrica.

Effetti collaterali

La maggior parte degli effetti indesiderati del farmaco sono: stitichezza, mal di testa, senso di affaticamento, insonnia e sonnolenza, nausea, inappetenza. Generalmente la sintomatologia iniziale è maggiormente letargica con sedazione, sonnolenza, cefalea, nausea e vomito, astenia, ansia. Così come accade per altri oppioidi la buprenorfina può essere oggetto di uso improprio o abuso. La dipendenza o astinenza da buprenorfina si manifesta con una sintomatologia dolorosa molto più intensa e persistente rispetto a quella dell’astinenza da eroina.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le implicazioni strutturali e psicopatologiche degli eventi stressanti infantili e recenti nei disturbi dell’umore

Gli eventi traumatici, sia infantili che recenti, rivestono un ruolo particolarmente importante nello studio della psicopatologia e dei disturbi psichiatrici in generale.

Aggio Veronica, Croci Martina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Gli eventi traumatici, sia infantili che recenti, rivestono un ruolo particolarmente importante nello studio della psicopatologia e dei disturbi psichiatrici in generale. Difatti, è noto a tutti come l’aver subito eventi avversi, anche di differente natura (es. neglect, abuso fisico, verbale), ha un notevole impatto sul benessere fisico e psichico. Poiché tali esperienze avverse includono una varietà di eventi, dai traumi più comunemente noti come maltrattamenti e abusi fino alla povertà e a condizioni di neglect psico-fisico, è naturale immaginare come la percentuale di persone che abbia dovuto esperire tali esperienze precocemente sia abbastanza alto. I dati stimano un’incidenza dei traumi sessuali che arriva fino al 34,1% in Italia (Castelli,2015): se includiamo dunque tutte le possibili tipologie di trauma i numeri diventano ancora più alti. Diversi studi hanno riportato come questi eventi avversi, in particolare se esperiti nei primi anni dello sviluppo, quindi durante l’infanzia, si correlino con un aumentato rischio di sviluppo di diverse patologie organiche, cosa meno scontata rispetto all’essere dei fattori predisponenti per problemi psicologici e patologie psichiatriche.

La recente psichiatria riconosce l’esistenza di una vulnerabilità biologica, ovvero l’insieme di fattori genetici ed ereditari, unita ad una vulnerabilità psicologica e sociale, intesa come la presenza di eventi di vita traumatici e l’ambiente circostante, familiare e sociale. Per questa ragione si parla di un modello bio-psico-sociale per quanto riguarda lo sviluppo di aspetti psicopatologici (Fassino et al., 2007).

Trauma psicologico

Tra gli eventi negativi che un soggetto può esperire nella propria vita il trauma occupa un posto prominente. Il trauma è definito come un’esperienza minacciosa per la vita o l’integrità fisica o psichica di un soggetto, vissuta in modo estremamente intenso in ambito emozionale dal soggetto stesso. L’ultima versione del “Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders” (DSM-5) specifica ulteriormente che il trauma è tale quando sussiste l’esposizione a rischio di morte reale, non solo percepito, o parimenti di grave lesione o violenza sessuale. Tale esperienza è considerata traumatica sia quando vissuta in prima persona sia indirettamente, ancor più se l’evento determina un’esposizione ripetuta o intensa (DSM-5, 2014). La caratteristica che si osserva con maggiore frequenza nel soggetto traumatizzato è la percezione dell’evento come una “frattura”, tale per cui il soggetto è in grado di segnalare un “prima” e un “dopo” nella propria vita con molta precisione. Ulteriormente, il soggetto vive l’esperienza traumatica in modo tanto intenso e negativo in ambito emotivo da impedire alla persona che la sperimenta di condurre la propria vita o percepire se stesso nello stesso modo in cui accadeva prima dell’evento (Onofri et al., 2016).

Eventi di vita negativi e psicopatologia

Gli eventi di vita negativi (es. traumi, lutti) sarebbero infatti da considerare fattori aspecifici (Felitti & Anda 2010) che potrebbero incrementare la possibilità di comparsa di qualsiasi malattia, oppure influenzarne sia il decorso che la prognosi, oppure, provocarne ricadute. L’aumento di questa probabilità può valere sia per sia per i disturbi d’ansia, sia per schizofrenia e disturbo bipolare, considerati gravi patologie psichiatriche ritenute conseguenti ad una marcata vulnerabilità biologica.

Tra gli eventi di vita infantili avversi vengono incluse tutte quelle esperienze vissute all’interno del contesto familiare prima della maggiore età tra cui l’abuso sia fisico che psicologico ricorrente, la presenza di una persona dipendente da sostanze stupefacenti o da alcool, la trascuratezza fisica ed emotiva (Felitti, 2013).

Nell’ultimo decennio, numerosi studi hanno portato diverse prove a favore dell’ipotesi che una precoce esposizione a degli eventi di vita stressanti, quali l’abuso sessuale e il neglect, si associ ad un marcato aumento della vulnerabilità per i disturbi psichiatrici tra cui la depressione maggiore, il disturbo bipolare, il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), l’abuso di alcol e sostanze, ed altre patologie organiche in età adulta, quali l’emicrania, l’obesità, patologie cardiovascolari ed il diabete. Gli eventi avversi infantili, rivestono un ruolo particolarmente importante, ed includono: l’abuso fisico e psicologico, il neglect, l’abuso alcolico e di sostanze da parte dei genitori, le violenze in ambito domestico, l’abuso sessuale, la separazione dal genitore e altre forme di perdita genitoriale. Diversi studi hanno dimostrato come l’aver sperimentato questi eventi aumenti il rischio di sviluppare stati depressivi, riducendo l’età di insorgenza, aumentando il tasso e la gravità dei tentativi di suicidio e riducendo il tasso di risposta agli psicofarmaci (Nemeroff, 2016). Gli eventi stressanti sono in grado di influenzare sia la salute psicofisica, quanto l’espressione, in età avanzata, di alcuni geni legati all’infiammazione (Levine, 2015), risultando in implicazioni a livello globale per l’individuo.

Gli effetti degli eventi stressanti a livello cerebrale

Gli eventi stressanti che avvengono precocemente nella vita sono rilevanti per la successiva psicopatologia anche perché vanno ad impattare su strutture cerebrali ancora in fase di sviluppo e maturazione (Calabrese, 2009). In base al momento in cui vengono esperiti, le strutture cerebrali coinvolte possono essere diverse: il fornice, il genu e lo splenio del corpo calloso e il fascicolo longitudinale superiore sono i fasci di sostanza bianca che completano per primi la propria maturazione e sono quelli maggiormente coinvolti negli studi MRI (Lebel, 2012).

A livello cerebrale, studi di risonanza magnetica hanno mostrato una generale riduzione dei volumi di materia grigia ed una ridotta integrità della sostanza bianca nei soggetti sani che avevano esperito degli eventi stressanti durante l’infanzia (Lim, 2014). Studi di MRI su bambini che erano stati cresciuti in orfanotrofio prima di essere adottati, mostrano una ridotta anisotropia frazionaria (FA, i.e., indice di integrità della sostanza bianca) rispetto a dei bambini non precedentemente istituzionalizzati in diversi fasci di sostanza bianca, fra cui il fascicolo uncincato, arcuato e il fascicolo longitudinale superiore bilateralmente (Govidan, 2010). I soggetti che hanno subito delle violenze verbali durante l’infanzia mostrano una ridotta FA a livello del fascicolo arcuato, del giro temporale superiore, del cingolo, dell’ippocampo e del fornice (Choi, 2009).

Non tutti gli eventi stessanti hanno però ricadute negative sulla persona: l’impatto che essi esercitano sugli aspetti psicobiologici dell’individuo dipendono dal periodo di vita in cui avvengono e dalla loro gravità. Gli eventi stressanti che avvengono durante la tarda infanzia ed adolescenza, se sono di entità moderata, promuovono lo sviluppo della regolazione dell’arousal e della resilienza, a superare meglio stress legati al lavoro e alla sfera sociale in età adulta (Gunnar 2009).

Le implicazioni degli eventi stressanti sui disturbi dell’umore

Nei pazienti affetti da disturbo dell’umore (i.e., depressione maggiore ricorrente, disturbo bipolare di tipo I e II), lo stress rappresenta il principale fattore precipitante, influenzando l’onset e l’andamento della patologia e promuovendo l’insorgenza di nuovi episodi depressivi sia immediatamente dopo l’evento stressante che anni dopo (Assari, 2016; Hayashi, 2015). Gli studi neuroimaging su pazienti unipolari e bipolari riportano un’alterazione diffusa a livello strutturale, concernente sia la volumetria di materia grigia che l’integrità della sostanza bianca. In un campione italiano di pazienti affetti da disturbo bipolare, è stata riportata una ridotta diffusività assiale (AD; i.e., rappresentativa della diffusività delle molecole di acqua parallelamente all’asse delle fibre) in molteplici fasci di sostanza bianca, tra cui il corpo calloso, la corona radiata, la radiazione talamica, il fascicolo longitudinale superiore, il fascicolo fronto-occipitale inferiore e il fascicolo uncinato (Benedetti, 2014). Nei soggetti unipolari gli ACE si associano ad una riduzione dei volumi di materia grigia a livello dell’ippocampo (Opel, 2014). In un campione di soggetti unipolari e bipolari, i soggetti che avevano esperito dei ACE risultavano deficitari in diversi domini cognitivi, mentre quei pazienti che non avevano esperito degli ACE in età infantile non mostrano delle differenze significative rispetto ai volontari sani, ciò dimostrando un effetto di moderazione degli ACE rispetto alle funzioni cognitive (Poletti, 2016).

 

Passione romantica e possibilità di scegliere e cambiare il proprio partner

Gli americani sono più appassionati dei giapponesi verso i propri partner, come mai? Perché vivono in un ambiente sociale in cui le persone hanno una più elevata mobilità relazionale, ovvero la libertà di scegliere il partner e successivamente lasciarlo e sceglierne un altro.

 

Lo studio è stato condotto in Giappone, dal dottorando di ricerca Junko Yamada e dal professor Masaki Yuki, della Hokkaido University.

L’ipotesi di ricerca ha trovato origine nell’evidenza emersa da studi precedenti a questo, in cui era appunto emerso che le persone del Nord America fossero più appassionate delle persone dell’Asia orientale (come giapponesi e cinesi). Eppure, ai ricercatori questo risultato sembrò incoerente con la teoria secondo cui gli americani degli USA sono individualisti e indipendenti, mentre gli orientali collettivisti e interdipendenti l’un l’altro.

Gli studiosi ipotizzano allora che sia la mobilità relazionale a determinare questa differenza passionale: gli americani vivono in una società con un’elevata mobilità relazionale, in cui le persone hanno una maggiore libertà di scelta di cambiare partner. Così i partner americani, in generale, possono sentirsi costantemente esposti al rischio di essere traditi e di essere circondati da rivali.

Sebbene la monogamia sia ancora la forma più comune nella società occidentale contemporanea, le relazioni romantiche a lungo termine devono affrontare un problema di conflitto tra mantenimento dell’impegno relazionale e la possibile ricerca di un partner alternativo.

In questo scenario la passione può essere considerata come un comportamento strategico volto alla rassicurazione dell’attuale partner. Così in Giappone, dove le relazioni sono più stabili a causa di una bassa mobilità relazionale, le persone sperimentano meno emozioni connesse alla possibilità di essere tradite o rifiutate e di conseguenza il comportamento passionale viene svuotato di un proprio ruolo strategico.

Lo studio: la mobilità relazionale in Occidente e Oriente

I ricercatori dell’Hokkaido University hanno intervistato 154 americani eterosessuali (78 uomini e 76 donne) e 103 giapponesi eterosessuali (65 uomini e 38 donne).

I partecipanti hanno risposto ad un questionario sulla mobilità relazionale romantica, uno sulla passione verso il partner ed un ultimo questionario sui comportamenti di impegno relazionali-romantici.

I risultati

Dai risultati è emerso che gli americani sono significativamente più appassionati nei confronti del proprio partner, rispetto ai giapponesi. Inoltre, dallo studio è emerso che più una persona è passionale e più aumenta la probabilità che il soggetto abbandoni volontariamente relazioni con altre persone del genere opposto.

Il gruppo americano ed il gruppo giapponese hanno mostrato differenze dal punto di vista del comportamento adattivo.

Il ricercatore Masaki Yuki ha commentato i risultati nel seguente modo:

Il nostro studio ha dimostrato l’importanza di considerare fattori socio-ecologici quando si studia il comportamento di accoppiamento umano. Inoltre, è stato dimostrato che un partner è più appassionato quando si ha più libertà di scelta. Tuttavia, ulteriori studi che coinvolgono altre nazionalità e background culturali andranno condotti prima di poter generalizzare i nostri risultati.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’amore può essere eterno? Un video emozionante del regista Michele Pastrello

Il benessere di un partner continua ad essere influenzato dall’altro anche dopo la morte di uno dei due, con la stessa intensità di quando era in vita.” Parola di Kyle Bourassa, il ricercatore dell’università dell’Arizona che ha pubblicato uno studio su Psychological Science a proposito dell’ amore che dura per sempre.

Michele Pastrello

 

L’ amore eterno: un video di Michele Pastrello

L’ amore dunque oltrepassa le barriere del tempo? Il regista Michele Pastrello propone la sua riflessione nel nuovo video emozionale e introspettivo Nexŭs (dal latino, “legame”). Il video inizia con una citazione da una famosa opera di Wilde: “Se non ci metti troppo, t’aspetterò per tutta la vita.” Un uomo anziano, nella sua vecchia casa, il mattino si alza, si veste elegantemente ed ogni giorno si prende cura del ricordo di una persona. Di una donna. E delle tracce della sua presenza. Un amore ancora intatto, fatto di tatto, di olfatto, di gesti, di riti. E di attesa e di essenza.

Dal video Nexus

Nexŭs è un video che pone domande che riguardano tutti: cosa rimane dell’amore quando la persona amata non c’è più? Domande a cui anche la scienza cerca di dare delle risposte. Ci hanno provato gli studi della neuroscienziata Bianca P. Acevedo che, con macchine per la risonanza magnetica, ha registrato l’attività cerebrale di innamorati di fronte a una foto di un amore lontano; ed è recente lo studio su un gruppo di anziani vedovi ad opera del ricercatore Kyle Bourassa dell’università dell’Arizona, in cui si asserisce che “le persone alle quali teniamo continuano a influenzare la nostra vita anche dopo essere morte“.

GUARDA IL VIDEO:

Nexŭs mette in emozionanti immagini l’attesa di un uomo anziano che aspetta (inconsapevole) il giorno in cui forse rincontrerà la sua amata. E che, in questa sospensione rituale, continuerà ad amarla. Nexus riassume quanto asseriva il filosofo austriaco Martin Buber: “La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore; al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in essi si manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento“.

Nexus Michele Pastrello video

 

L’amore, per la scienza almeno, è qualcosa di oscuro, per la Fisica non è né definibile né misurabile. Ma per il rinomato psicologo Abraham Maslow, il vero amore è il Being Love, cioè l’amore per essenza dell’altro. Maslow, noto per la Piramide di Maslow (la teoria per la gerarchizzazione dei bisogni per l’essere umano), nel 1962 asseriva di fronte allo scetticismo sull’incontrovertibile importanza dell’amore nella vita: a nessuno verrebbe in mente di porre in dubbio l’affermazione che l’uomo ha bisogno di iodio o di vitamina C. Vi ricordo che le prove del fatto che si ha bisogno d’amore sono esattamente del medesimo tipo.

Girato dal regista veneto Michele Pastrello, il micromovie ha una ulteriore peculiarità: ad interpretare l’anziano protagonista è il padre del regista stesso. Si chiama Angelo, ha 82 anni e non ha mai recitato prima in vita sua. Ma forse, tra le mura della sua casa, non c’è così tanto da recitare. Solo da ricordare.

Dove si fa l’amore? E in che momento della giornata? – L’educazione sessuale e affettiva all’ultimo anno della scuola primaria

Nell’ educazione sessuale e affettiva, le conoscenze trasmesse e le abilità relazionali promosse sono differenziate per fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Introduzione: l’ educazione sessuale

L’ educazione sessuale è una materia di insegnamento obbligatoria nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea; fanno eccezione alcuni, tra cui l’Italia. Nell’ educazione sessuale e affettiva, le  conoscenze trasmesse e le abilità relazionali promosse sono differenziate per fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’ educazione sessuale e affettiva precoce è concepita come una forma di prevenzione primaria delle gravidanze indesiderate e delle malattie sessualmente trasmissibili. Inoltre, previene forme di sfruttamento, coercizione e abuso sessuale, esamina pregiuzi e stereotipi legati all’identità di genere, previene discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Il laboratorio di educazione sessuale e affettiva all’ultimo anno della scuola primaria

Questo articolo è scritto sulla base della mia esperienza del laboratorio di educazione sessuale e affettiva proposto agli alunni dell’ultimo anno della scuola primaria; essi sono nel pieno della preadolescenza, una fase di passaggio a livello psichico, fisico, concreto. Durante l’intero anno scolastico, i bambini si trasformano, ma non tutti allo stesso ritmo: è usuale vederli cambiare in ragazzini che somigliano a giraffe sgraziate, oppure osservare differenze accentuate di altezza e robustezza fisica. Non ci sono solo differenze tra compagni di una stessa classe, ma anche nel medesimo alunno si può generare una disarmonia tra la crescita psichica e fisica: ci sono bambini con teste infantili avvitate su corpi da preadolescenti o viceversa, minuti, gracili e maturi pensatori.

Il passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria rappresenta un grande salto verso un nuovo ambiente, che, in quanto sconosciuto, viene sovente fantasticato come minaccioso. Dall’essere i più grandi, saranno catapultati in un mondo in cui saranno i più piccoli, gli allievi più “terribilmente” vicini all’infanzia rispetto agli altri che sono già dei ragazzi. Inoltre, questo salto li costringe ad affrontare la separazione dal gruppo classe e dalla maestra, un’esperienza che, per alcuni di loro, può entrare in risonanza con la questione delle separazioni coniugali, che sono sempre più frequenti.

Per tutte queste ragioni, il laboratorio di educazione sessuale e affettiva è proposto all’ultimo anno della scuola primaria. L’obiettivo è di affrontare i temi relativi alla crescita e alla sessualità in chiave relazionale.

Il percorso si snoda lungo alcuni incontri, i cui temi ripercorrono la vita di ciascuno e il “mistero” delle sue origini.

Il laboratorio è preceduto da un incontro di presentazione ai genitori, il cui obiettivo è di scoprire se l’argomento è già stato affrontato a casa e in che modo, che tipo di domande hanno fatto i bambini, eventuali difficoltà dei genitori o suggerimenti su temi da affrontare.

I bambini possono anche fare domande in forma anonima, che troveranno una risposta nello spazio del laboratorio. Il titolo di questo articolo riporta proprio alcune di queste domande anonime.

Il punto di vista dei genitori: le loro preoccupazioni legate all’incipiente adolescenza dei figli

L’incontro di presentazione del laboratorio di educazione sessuale e affettiva rappresenta una buona occasione di confronto tra i conduttori degli incontri e i genitori, e tra i genitori stessi.

I presenti esprimono in modo più o meno esplicito i loro pensieri e le loro preoccupazioni, a seconda del loro carattere. Solitamente, la discussione si concentra sul passaggio alle scuole medie inferiori e sul problema del bullismo. Alcuni sembrano chiedersi se i loro figli sopravviveranno a tale cambiamento, tanto che non è più chiaro a chi appartengano le paure, se a loro o ai figli. I partecipanti che hanno figli maggiori rassicurano gli altri: è un passaggio faticoso, ma fattibile, che ognuno di noi ha superato.

Il tema del bullismo meriterebbe un discorso a parte; sebbene sia sempre esistito, i mezzi di comunicazione di massa attuali lo hanno reso un fenomeno molto più pervasivo nella vita delle giovani vittime. Se un tempo ci si trovava a disagio o in difficoltà nella propria classe, era possibile ritagliarsi spazi completamente diversi e separati (attività sportive, ricreative, parrocchiali) in cui incontrare altri gruppi di coetanei con cui stare bene. Oggi, grazie al cellulare e ai social network, le derisioni o i commenti seguono i ragazzi dappertutto e a qualsiasi ora, senza pause e spesso senza filtri, purtroppo.

Altre questioni che i genitori suggeriscono di affrontare sono domande da parte dei figli sul cambiamento e sulla crescita puberale, sui rapporti amicali o amorosi con i coetanei.

Negli ultimi due o tre anni, c’è sempre qualche genitore che chiede di trattare, nel corso del laboratorio di educazione sessuale e affettiva, il rischio di adescamento sui social network da parte di pedofili e di ragionare con i loro figli sull’invio tramite cellulare di messaggi, immagini o video dal contenuto intimo/erotico.

Inoltre, alcuni genitori ritengono un importante oggetto di discussione gli eventi di cronaca come il femminicidio, la prostituzione minorile, oppure questioni politiche e valoriali come l’omosessualità e le pari opportunità. E’ impossibile tenere lontane le orecchie appuntite dei bambini dal telegiornale o dalle discussioni tra gli adulti e dunque le domande su tali argomenti sono (per fortuna) inevitabili; anzi, assolutamente non vanno ignorate, pena la generazione di una grande confusione nella testa dei bambini.

Il punto di vista dei figli: le domande anonime dei bambini su pubertà e sessualità

Molte delle domande scritte in forma anonima riguardano il modo in cui avviene il concepimento, la vita del bambino in gestazione e nel primo periodo dopo la nascita. Questioni attinenti e frequentemente poste sono la contraccezione, l’interruzione di gravidanza, le gravidanze gemellari, le malformazioni del feto ed eventuali disabilità.

Si trovano spesso domande sulla pubertà e sui cambiamenti del corpo, sull’arrivo e sulla convivenza con il ciclo mestruale. Alcune riflessioni virano su aspetti del mondo interno: i “bambini” osservano in se stessi, o se, li hanno, nei fratelli più grandi, sbalzi di umore più frequenti, complicazioni nei rapporti di amicizia e con i genitori, sentono battute maliziose un po’ oscure,  cominciano a provare nuovi imbarazzi relativi al corpo e un certo bisogno di riservatezza.

Alcune volte, richiedono informazioni sulla psicologia e sulla sofferenza mentale (domande sulla depressione, sul lutto, sull’autolesionismo).

Altri chiarimenti riguardano i sentimenti: come ci si accorge di essere innamorati? E come lo si comunica? Più raramente si ritrovano bigliettini che contengono confidenze, come il disagio e l’impotenza provata di fronte ai litigi dei genitori, la difficoltà a comprendere il mondo complicato delle relazioni adulte e i motivi per cui esse si interrompono.

Un’altra selva di domande che ha riempito la scatola più di recente riguarda il bullismo: i bambini si chiedono come riconoscerlo, perchè viene messo in atto, cosa fare per affrontarlo.

Non mancano mai domande sul significato di termini che indicano diverse attività sessuali (il bacio, il sesso orale, anale, la masturbazione), anche in gergo volgare; altre frequenti richieste di chiarimenti riguardano l’omosessualità, il travestitismo, il transessualismo, l’orgasmo.

Le domande sull’ipotetico inizio della propria vita sessuale e sul momento “giusto” sono quasi assenti; sono domande che ci si aspetta da studenti della scuola secondaria di primo grado, ma non bisogna trascurare il fatto che, alla fine dell’ultimo anno della scuola primaria, in genere almeno un’alunna ha già avuto il menarca e i tempi della crescita psicofisica sono accelerati.

Il punto di vista dei figli: le reazioni e le preoccupazioni dei bambini legate alla sessualità e alla crescita

I gruppi sono diversi di anno in anno; differiscono nella grandezza, nella maturità fisica e mentale, nel grado di introversione/esuberanza, nella quantità di informazioni che hanno (o credono di avere) sulla sessualità. Ovviamente, c’è sempre una certa eterogeneità su tutte queste variabili, il che è fonte di ricchezza, ma anche di confusione.

Si parte sempre da ciò che i partecipanti sanno già e da quello che desiderano sapere; nessuna delle loro domande viene ignorata, per quanto il senso di alcune attività sessuali adulte sia per loro incomprensibile.

I temi legati alla sessualità possono suscitare imbarazzo e alcune espressioni di disagio/disgusto; altre volte le reazioni variano dal “Lo sappiamo già!” al “A cosa serve sapere questi particolari??” A volte l’imbarazzo è nascosto da un apparente disinteresse. La pressione dei dubbi, dell’imbarazzo, l’intensità emotiva degli argomenti possono agitare notevolmente gli animi e generare una schiera di commenti fatti sottovoce all’amico più stretto. Se possibile, questi contenuti vengono messi in circolo all’interno del gruppo.

Tra gli argomenti che agitano maggiormente i bambini, ci sono i fatti di cronaca nera con cui entrano in contatto attraverso i telegiornali: il femminicidio, lo sfruttamento della prostituzione, soprattutto quella minorile, le aggressioni sessuali. Altri temi che suscitano discussioni provengono da altri programmi televisivi, soprattutto i reality show. In tali prodotti mass-mediatici, le emozioni e le esperienze intime sono sbandierate al loro massimo volume, così come i conflitti e le relazioni, comprese quelle amorose/sessuali. I bambini sono in grande difficoltà a distinguere tra ciò che è reale e ciò che può essere stato inventato. Non sanno valutare l’attendibilità delle fonti da cui provengono immagini e parole che possono metterli a disagio, spaventarli o provocare in loro un’eccitazione sessuale sconcertante e inappropriata.

Tutto questo discorso si applica amplificato al rapporto tra sessualità, internet e relazioni mediate dai social media, che, come il bullismo, meritano uno spazio dedicato di discussione.

La forza del gruppo

Nel gruppo di lavoro non serpeggiano solo le paure che derivano dall’esposizione senza filtri a un mondo reale (o virtuale) troppo crudo. Molti bambini hanno già discusso le notizie di cronaca con i genitori, hanno condiviso con loro le perplessità e le paure suscitate e sono pronti a farlo con i loro compagni. Guidati dagli adulti, riescono a elaborare un pensiero critico su ciò che hanno visto in televisione, su Youtube, o hanno sentito raccontare dall’amico dell’amico. Lavorano in piccoli gruppi autonomi per ideare strategie di fronteggiamento di situazioni rischiose.

Fanno riferimento alla propria esperienza di vita per descrivere emozioni e situazioni relazionali che hanno sperimentato. Inoltre, manifestano i loro sentimenti verso amici e familiari; il racconto della propria storia di vita, del percorso di crescita personale suscitano in ciascuno tenerezza e desiderio di progredire.

E se nella loro storia si sono verificati eventi dolorosi, come la separazione dei genitori, si generano movimenti di auto-mutuo aiuto. C’è sempre qualcuno che confida al gruppo la propria esperienza, e anche chi non si sente di farlo, trae beneficio dall’apertura altrui.

I rimandi dei genitori al termine del laboratorio

Dopo aver terminato il laboratorio di educazione sessuale e affettiva, è previsto un ulteriore incontro di confronto con i genitori e tra i genitori.

Alcuni riferiscono che i loro bambini a casa hanno raccontato un certo numero di particolari sul laboratorio. Altri riportano che il figlio ha chiesto conferma dei contenuti ascoltati al laboratorio, ponendo loro le stesse domande rivolte alla psicologa. La meraviglia e l’impatto emotivo di alcune scoperte possono generare il bisogno di una doppia verifica.

C’è sempre qualche genitore, evidentemente dalla prole estremamente riservata, che a questo punto riferisce che il figlio o la figlia non hanno detto una sola parola riguardo all’argomento. Alla fatidica domanda “Com’è andata?”, hanno ricevuto come risposta un laconico “… Bene …”.

La domanda successiva è spesso sulle strategie per incrementare il dialogo con figli che non prendono l’iniziativa e tendenzialmente non si aprono.

Uno stimolo per aumentare il dialogo è l’apertura da parte dei genitori stessi: ricordare che si è stati bambini, poi adolescenti, e raccontare aneddoti ed esperienze personali ai figli è un buon modo per iniziare a parlare. Se è vero che i tempi sono cambiati, l’evoluzione è accelerata, gli stimoli sono diversi, è pur vero che certe tematiche della crescita sono universali. Non c’è niente che suscita più interesse nei bambini che scoprire che gli adulti che li circondano e che hanno sempre conosciuto come tali, sono stati anch’essi bambini, con avventure simili e diverse dalle loro.

Inoltre, ciò che i genitori usualmente richiedono in occasione del laboratorio di educazione sessuale e affettiva sono corsi per loro, per prepararsi ad affrontare l’argomento con i figli. Il confronto tra genitori è un’ottima idea, dato che il principale punto di forza del gruppo è quello di non sentirsi soli di fronte a una difficoltà comune e di condividere le esperienze e le strategie per farvi fronte.

Alla scoperta delle funzioni cerebrali con un primo modello di cervello virtuale

Il cervello virtuale è in grado di combinare le misurazioni di un singolo paziente per produrre modelli personalizzati. Usando questi dati per simulare il cervello dei pazienti, il software agisce come un “microscopio matematico”, consentendo ai ricercatori di riprodurre le interazioni tra le cellule nervose che non possono essere misurate direttamente nell’uomo.

 

A cosa serve il cervello virtuale

Il compito di decifrare le molteplici funzioni del cervello in relazione alla sua struttura complessa richiede l’acquisizione di grandi quantità di dati da diverse fonti. Come i pezzi di un puzzle, questi dati devono quindi essere assemblati in simulazioni al computer che consentano ai ricercatori di comprendere i meccanismi coinvolti nelle funzioni cerebrali. Creato con questo obiettivo, il cervello virtuale è in grado di combinare le misurazioni di un singolo paziente per produrre modelli personalizzati.

Usando questi dati per simulare il cervello dei pazienti, il software agisce come un “microscopio matematico”, consentendo ai ricercatori di riprodurre le interazioni tra le cellule nervose che non possono essere misurate direttamente nell’uomo. Questo metodo consente ai ricercatori di utilizzare i dati del segnale cerebrale per trarre conclusioni sulle interazioni tra le reti neuronali che le producono.

Le prime sperimentazioni con il cervello virtuale

Lanciato nel 2012 come piattaforma di simulazione open source, il cervello virtuale è un progetto internazionale guidato dal Prof. Dr. Petra Ritter, del Dipartimento di Neurologia dell’Università Charité di Berlino e da due dei suoi colleghi di Toronto e Marsiglia. I ricercatori del BrainModes Group del Prof. Ritter hanno sviluppato un nuovo approccio, che prevede l’uso di un tipo di cuffia EEG per registrare l’attività elettrica del cervello dalla superficie del cuoio capelluto. I dati così ottenuti sono successivamente integrati in un modello di computer personalizzato, che simula l’attività cerebrale normalmente misurabile solo con l’uso di un grande scanner MRI. In realtà, questo modello è stato in grado di calcolare sei diverse caratteristiche dell’attività cerebrale. I precedenti tentativi su animali avevano richiesto procedure invasive e producevano solo risultati parziali. Il nuovo modello è stato in grado di produrre descrizioni dettagliate del modo in cui questi processi interagiscono per produrre specifiche funzioni cerebrali, confermando in tal modo l’ipotesi che l’inclusione di dati EEG nel modello computerizzato produca simulazioni più dettagliate dell’attività cerebrale. Consentendo ai ricercatori di descrivere processi cerebrali con risoluzione spaziale e locale migliorata, i dati EEG li rendono più facili da capire.

“Questo nuovo metodo di simulazione cerebrale ci consente di combinare le teorie su come il sistema nervoso funziona con misurazioni fisiche e integrarle in un unico modello completo che sia fisiologicamente che anatomicamente fondato”, spiega il Prof. Ritter. In molte delle scienze naturali, questo tipo di approccio si è rivelato estremamente utile sia nella formulazione di ipotesi che nella fase di verifica. Tuttavia, l’uso dei dati dei pazienti per produrre modelli individualizzati rappresenta uno sviluppo completamente nuovo e ha il potenziale di scoprire differenze individuali nel modo in cui il cervello funziona, sia nei pazienti che nei soggetti sani. Il prossimo passo sarà lo studio di gruppi più ampi di pazienti, nella speranza di decifrare i meccanismi alla base di condizioni come l’epilessia, l’ictus e la demenza.

Riassumendo la sua attuale ricerca, il Prof. Ritter afferma: “Questo software ha il potenziale per avvantaggiare direttamente i pazienti. Uno studio clinico attualmente in corso in Francia sta indagando come questa tecnologia possa aiutare a migliorare i risultati nei pazienti sottoposti a chirurgia epilettica. I neurochirurghi coinvolti sono in grado di ottimizzare i risultati attraverso una prima simulazione della procedura utilizzando un cervello virtuale del paziente“. Presto, il cervello virtuale potrebbe anche avvantaggiare la popolazione più ampia. L’app BrainModes – che è stata sviluppata dal Charité per l’uso con smartphone e tablet – funziona con i neuro-auricolari disponibili in commercio per consentire agli utenti di conoscere meglio il proprio cervello. Sotto la guida del Prof. Ritter, i ricercatori del Charité svilupperanno ulteriormente questa tecnologia, nella speranza di riuscire un giorno a controllare macchine, computer ed esoscheletri usando il potere della mente.

La localizzazione cerebrale del comportamento criminale: i codici del cervello che potrebbero aiutarci nella prevenzione e nel trattamento di condotte antisociali

In seguito ad una lesione cerebrale, alcuni pazienti mostrano dei comportamenti inusuali ed aggressivi, che potrebbero predisporre un soggetto al comportamento criminale. Sono casi rari, ma sembra che questi siano accomunati dagli stessi substrati neurologici: corteccia prefrontale mediale, corteccia orbitofrontale e la parte interna dei lobi temporali.

Daniele Fiorilli

 

Negli anni precedenti, alcuni studi hanno utilizzato delle tecniche di imaging per verificare le anomalie e i correlati cerebrali del comportamento criminale (Blake et al, 1995; Bufkin et al, 2005). Resta però da vedere in che misura queste anomalie incidano su determinati tipi di comportamento. Sono una causa? Fungono da compenso per una determinata funzione?

E’ bene precisare che non stiamo parlando di un rapporto diretto causa-effetto, bensì di lesioni cerebrali che potrebbero contribuire o predisporre un soggetto al comportamento criminale.

Quello che infatti sorprende negli studi che riguardano questo campo, è la relazione temporale che c’è tra lesione e comportamento. Basti pensare ad uno dei casi più famosi nel mondo della Psicologia e della Neurologia, quello di Phineas Gage, che dopo una lesione nella corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC) manifestò cambiamenti di personalità, fino alla messa in atto di comportamenti antisociali. Un altro caso è del soldato Charles Whitman, che uccise 16 persone in seguito alla comparsa di un tumore a livello del lobo temporale destro.

Comportamento criminale in seguito a lesioni cerebrali: lo studio di Darby e colleghi

In un recente studio Darby e colleghi (3, 2017) hanno mappato le lesioni cerebrali in 17 pazienti che hanno manifestato un comportamento criminale dopo (e solo dopo) che le lesioni si sono verificate. Questo perché i sintomi conseguenti a lesioni tendono a coinvolgere la connettività delle stesse regioni cerebrali. L’obiettivo dei ricercatori è stato quello di mappare le lesioni cerebrali per vedere se esse sono temporalmente associate al comportamento criminale.

I comportamenti criminali di cui i ricercatori hanno tenuto conto sono: frode, furto, stupro, aggressione e omicidio. Le 17 lesioni erano localizzate in regioni diverse (fig.1), in particolare:

  • 9 nella struttura mediale frontale o orbitofrontale;
  • 3 a livello del lobo temporale mediale / amigdala;
  • 3 nel lobo temporale anteriore;
  • 1 nella corteccia prefrontale dorsomediale;
  • 1 nello striato ventrale e in alcune parti della corteccia orbitofrontale.

 

Comportamento criminale le lesioni cerebrali che potrebbero determinarlo -Fig.1

Fig. 1: Lesioni associate temporalmente al comportamento criminale

 

Dai risultati possiamo vedere come le lesioni vadano a coinvolgere diverse regioni del cervello, ma tutte su una rete comune. Questa rete sembra essere implicata nei processi morali.

Tutto questo non vuol dire che ogni persona che presenta una lesione a livello di questa rete, manifesti poi un comportamento criminale. Fattori ambientali, sociali e genetici sono sempre da considerare all’interno della personalità degli esseri umani. I ricercatori tengono infatti a precisare che lo scopo dello studio è capire come la disfunzione cerebrale possa influire sul comportamento criminale; questi studi potrebbero infatti tornare molto utili nella prevenzione o addirittura nel trattamento di determinati soggetti.

L’interrogativo finale per cui è se la presenza di una lesione cerebrale può dirci se un soggetto è legalmente responsabile del comportamento. Medici, giudici, neuroscienziati si pongono spesso questa domanda.
Il paziente è responsabile? Deve essere punito allo stesso modo di un soggetto senza alcuna lesione?

Pensiamo per esempio ad un soggetto di 20 anni con un funzionamento cognitivo nella media, che è però incapace di sommare e sottrarre numeri (anche un semplice 2+2). Ci risulterebbe alquanto strano vero?! Una lesione cerebrale che coinvolge diverse aree del cervello, in particolare la regione posteriore sinistra, potrebbe causare acalculia: un difetto di calcolo sia mentale, sia scritto. In conseguenza di questa lesione i pazienti sono incapaci di compiere calcoli matematici.

Qual è quindi il confine che separa un comportamento criminale patologico, da uno conseguente a lesione cerebrale? Questo è un interrogativo a cui molte persone devono ancora saper rispondere.

Wonder: un film sentimentale su un bambino affetto da una deformazione facciale

Wonder è un film volutamente sentimentale, a tratti prevedibile, che strappa allo spettatore autentici sorrisi e inevitabili lacrime.
La sua intensità consiste nel raccontare verità semplici e fondamentali, che ogni tanto è necessario recuperare. E’ questo che lo rende un film da suggerire a tutti.

 

Info

Un film di Stephen Chbosky . Con Jacob Tremblay , Julia Roberts, Owen Wilson, Izabela Vidovic  – Drammatico – Stati Uniti – 2017

Trama del film Wonder

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di R.J. Palacio.
August (soprannominato Auggie) ha 10 anni ed è affetto da una grave deformazione facciale a causa della sindrome di Treacher Collins. Dalla nascita ha subito 27 operazioni chirurgiche, ma nessuna di queste gli ha restituito un aspetto normale. Deve frequentare la prima media e i suoi genitori decidono di iscriverlo a scuola per la prima volta: fino a quel momento ha infatti trascorso la sua esistenza all’interno delle rassicuranti mura domestiche, dove la madre gli ha fatto anche da insegnante. Entrando a scuola, Auggie si deve confrontare con il mondo esterno e con i coetanei.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Motivi di interesse

“Mi chiamo Auggie Pullman, l’anno prossimo comincio la prima media, e siccome non sono mai stato in una vera scuola, sono praticamente pietrificato ”.
Questa è la premessa di Wonder.

Il passaggio a scuola, rappresenta per Auggie l’ingresso nel mondo. Per la prima volta si affaccerà alla vita e si confronterà con qualcuno che non lo proteggerà e non l’amerà incondizionatamente come i suoi familiari. Dovrà fare i conti con la sua diversità e con gli sguardi fissi sul suo volto. E tutto questo richiederà una grande dose di coraggio: sia da parte sua, che dei suoi familiari.

Dopo un’ampia introduzione interamente dedicata ad Auggie, il film si focalizza su alcuni personaggi secondari, assegnando maggiore completezza alla pellicola attraverso un’ esaustiva analisi del contesto e un approfondimento di alcune tematiche tipicamente adolescenziali. Dalla sorella frustrata per le molteplici attenzioni rivolte al fratello, all’inseparabile amica della sorella che in modo apparentemente inspiegabile si allontana, all’amico di scuola che Auggie scopre parlargli alle spalle in cerca dell’approvazione del grande gruppo.
Attraverso questi spostamenti, il regista descrive un quadro molto realistico, mettendo in evidenza che la crescita individuale di Auggie è inevitabilmente inserita nei vissuti stessi delle persone a lui vicine.

La forza di Wonder risiede nel rappresentare il difficile processo di formazione di un bambino, come effetto di un lavoro di squadra. La capacità del protagonista di affrontare i suoi pari, di tirare fuori le sue emozioni e di non demordere di fronte alle molteplici frustrazioni, indica il risultato di un impegno collettivo.

Ci sono due genitori consapevoli che manifestano le loro paure, ma non ne sono vittime. Entrambi mantengono uno sguardo costantemente fiducioso sul figlio, come a dirgli “tu ce la farai”. Accolgono i timori del bambino, ma non si spaventano di fronte a essi. Concedono ad Auggie la libertà di “proteggersi” sotto un casco da cosmonauta, per poi incoraggiarlo a toglierselo una volta approdato a scuola. Lo esortano e lo accompagnano a “spiccare il volo”, pur con tutte le preoccupazioni legate alla sua diversità.

C’è una sorella protettiva e premurosa che – al di là della frustrazione di sentirsi spesso la figlia “in secondo piano”- incoraggia Auggie ripetendogli sovente: “Non puoi nasconderti se sei nato per emergere”.

C’è il primo amico incontrato a scuola, che tradisce il protagonista per paura di essere escluso dal gruppo, ma poi lotta per riconquistare il rapporto e si assume la responsabilità di ciò che ha fatto.
E’ l’instancabile lavoro di squadra che contribuisce a rendere Auggie il bambino che è: gentile, determinato, combattivo, vitale e dotato di grande senso dell’umorismo.

Ci sono momenti in cui il protagonista ha voglia di arrendersi, perché tutto gli appare estremamente faticoso: si sente tradito, amareggiato, deluso. La sua diversità e le esperienze deludenti potrebbero facilmente spalancargli le porte del vittimismo e del compiangimento.
Ma alla fine è la fiducia in se stesso a prevalere, quella che gli è stata costantemente trasmessa dai suoi familiari e che gli verrà confermata dalle nuove amicizie. Quella che gli impedisce di cedere.
La sua gentilezza e la sua determinazione finiranno per conquistare tutti. E per Auggie ne sarà valsa la pena.

Indicazioni per l’utilizzo di Wonder

Wonder è un film volutamente sentimentale, a tratti prevedibile, che strappa allo spettatore autentici sorrisi e inevitabili lacrime.
La sua intensità consiste nel raccontare verità semplici e fondamentali, che ogni tanto è necessario recuperare.

E’ questo che lo rende un film da suggerire a tutti.
Ai bambini, perché affronta il tema universale della diversità, delle prese in giro e dell’amicizia.
Agli adulti in generale, perché ha il coraggio di mostrare le paure che chiunque può aver attraversato.
Ai genitori, perché mostra ciò che le madri e i padri dovrebbero rappresentare per un figlio: la base sicura. Uno sguardo fiducioso verso un figlio, lo aiuta a credere in se stesso, e credere in se stessi è ciò che può fare affrontare ogni difficoltà della vita.
Agli psicoterapeuti, perché la stessa fiducia è importante trasmetterla a ogni individuo che si incontra nel proprio percorso lavorativo.

Aspettiamo un bambino! Cosa accade nella mente dei futuri genitori?

Sto per diventare genitore! Come viene definita la gravidanza in psicologia? E cosa accade nella mente delle donne e della coppia quando si preparano ad avere un figlio?

Mamme e Papà si diventa #3

 

La storia individuale della gravidanza

Quando la donna scopre di essere incinta, il proprio mondo interiore si arricchisce di fantasie, sogni e previsioni attingendo dalla propria storia di vita. Ogni donna vive una “storia” interna diversa per ciascuna gravidanza: i ricordi, le speranze, i desideri derivanti dal passato e dalle prime relazioni cominciano ad affollare la mente della futura mamma in maniera specifica e irripetibile.

La Benedek descrive la gravidanza come un evento psicosomatico che comporta modificazioni di natura sia fisiologica che psicologica. La Bibring, invece, la definisce una “crisi maturativa”, un processo nel corso del quale si riattivano conflitti legati all’infanzia e si riattualizzano processi di identificazione inconsci con la propria madre. I conflitti infantili possono trovare una risoluzione in questo periodo di svolta e può verificarsi una rielaborazione delle proprie esperienze e il raggiungimento di un maggiore livello di integrazione. In altri casi, se il rapporto con la propria madre è stato caratterizzato da conflitti ed emozioni ambivalenti è possibile che tali vissuti emotivi si riattivino quando si diventa madri.

Secondo la Pines (1982), le donne in questa fase del ciclo di vita ridefiniscono la propria identità femminile, rivivono il processo di separazione-individuazione dalla propria madre e sperimentano una identificazione sia con la propria madre che con il feto: le future mamme sono allo stesso tempo figlie delle loro madri e diventeranno madri dei loro figli. Un nuovo ruolo che rende più complessa la propria identità: si diventa madri, oltre che essere ancora figlie, compagne e donne.

Anche i numerosi cambiamenti che caratterizzano la maternità vengono prefigurati nella mente delle future mamme in maniera differente. Avere un figlio significa essere disposti ad ascoltare e a rispondere ai numerosi bisogni del bambino, vedere ridotto il proprio tempo libero, passare notti insonni e acquisire un ruolo del tutto nuovo. Tali cambiamenti potranno essere accolti dalle mamme con entusiasmo e gioia o potranno veder prevalere emozioni di ansia o tristezza. Ognuno vive per questo una storia interna della gravidanza, individuale e che deriva al contempo dalla propria storia passata e dalle relazioni di cui ciascuno ha fatto esperienza.

Cosa accade nella coppia e a livello familiare?

Le realtà psichiche interne della madre e del padre derivanti dalla propria storia di vita e dalla personalità individuale di ciascuno e successivamente la realtà psichica del bambino si intrecciano e si arricchiscono a vicenda, definendo quello che sarà il modello relazionale familiare.

In psicologia, la transizione dalla coniugalità alla genitorialità, definita “transition to parenthood”, viene concepita come un processo complesso che deriva da un distanziamento dalla famiglia di origine, da un punto di vista sia relazionale che rappresentazionale. Si acquisisce un nuovo ruolo e le relazioni si complicano diventando trigenerazionali. Un figlio nasce, appunto, dall’incontro di storie e processi relazionali e intergenerazionali diversi. Ogni partner ha una storia che rivive nella quotidianità e che si palesa più forte che mai quando si diventa genitori (Imbasciati, Cena, 2015).

Nel passaggio dalla diade alla triade emerge il sistema interiorizzato di relazioni di ciascun genitore, il passato si intreccia con il presente e l’intrapsichico con l’interpersonale. In questa transizione diventa fondamentale fare spazio al bambino, non solo fisicamente ma anche mentalmente e le prime fantasie e sogni ad occhi aperti del “bambino immaginario” di cui si è parlato in “Desiderare un figlio: quando tutto ha inizio” definiscono il luogo mentale in cui la coppia si prepara ad accogliere un bambino.

Il periodo della gravidanza, dunque, consente ad entrambi i genitori di sviluppare nel loro mondo interno uno spazio adatto a riflettere sul bambino e sulla genitorialità. Questa fase può essere concepita come un processo psicologico di adattamento alla nuova realtà e di elaborazione delle trasformazioni rispetto alla vita precedente. E’ possibile distinguere tre periodi che definiscono la gravidanza in termini psicologici. Nel primo periodo, i genitori, quando scoprono di aspettare un figlio, ripensano alla loro infanzia, alle prime relazioni di attaccamento, all’accudimento ricevuto dai propri genitori e la madre può manifestare sentimenti ambivalenti nei confronti del feto, di gioia ma al contempo timori e dubbi; nel secondo stadio della gravidanza, la futura mamma inizia a percepire i primi movimenti fetali e a prendere consapevolezza che il feto è diverso da sé e con esso è possibile interagire e stabilire una relazione affettiva; nel terzo periodo, il bambino viene sempre più concepito come individuo separato e capace di interagire e la madre inizia a sviluppare una sorta di attaccamento con il proprio bambino.

Dunque, molteplici sono i cambiamenti a livello psicologico che avvengono durante la gravidanza, si rivivono esperienze passate, si riattualizzano e a volte rielaborano vissuti irrisolti. I nove mesi rappresentano, per questo, un tempo necessario non solo per l’accrescimento fetale, ma anche per la maturazione della consapevolezza del proprio ruolo genitoriale alla luce della propria storia di vita e di prefigurazione dei cambiamenti che la nascita di un figlio porta con sé.

Ogni coppia scrive e vive una storia diversa.

Una meta-analisi fa chiarezza sugli effetti dei videogames nel migliorare alcune abilità cognitive

Il training delle abilità con videogames è in grado di migliorare le abilità cognitive specifiche alle quali è destinato ma non offre benefici anche ad altri domini simili, dimostrando che il training è dominio-specifico (Sala, Gobet et al., 2018).

 

I videogames possono migliorare alcune abilità cognitive

I dati provenienti dalle ricerche sul training cognitivo tramite videogames hanno recentemente suscitato un acceso dibattito in particolare riguardo la sua efficacia nel potenziare e migliorare alcune abilità cognitive come: l’attenzione, le abilità visuo-spaziali, la working memory, le funzioni esecutive e il ragionamento (Green, Kattner et al., 2017).

In questo campo, le ricerche hanno prodotto svariati risultati e di fatto un generale disaccordo tra i ricercatori, in particolare per la questione della generalizzazione dell’apprendimento, cioè la possibilità di generalizzare ciò che è stato appreso in un contesto specifico ad altri diversi contesti (Barnett & Ceci, 2002).

L’apprendimento può essere esteso ad altre abilità e contesti?

È possibile quindi allenare le abilità cognitive, e se lo è, è possibile generalizzare quanto appreso a beneficio di altre abilità?
Per fare chiarezza su questo punto cruciale, anche con il fine di approfondire i meccanismi che permettono agli individui di acquisire e poi applicare un apprendimento, Sala e colleghi (2018) hanno analizzato nel dettaglio la letteratura e gli studi riguardanti i possibili benefici del training tramite videogames sulle abilità cognitive, partendo dai dubbi del Stanford Centre of Longevity e dell’Istituto Max Planck sezione Human Development.

Nella loro meta-analisi, Sala e colleghi (2018) sono partiti dalla distinzione, fatta in letteratura, tra near e fast Transfer cioè tra quell’apprendimento che si verifica per due domini, strettamente legati tra loro (near) e l’altro per cui il dominio di partenza dell’apprendimento e quello di destinazione sono solo vagamente collegati (far).

In particolare nella loro teoria, Thorndike e Woodworth (1901) propongoo che la generalizzazione dell’apprendimento sia una funzione della misura in cui due domini condividono caratteristiche comuni e che mentre il trasferimento “vicino” è abbastanza comune, quello “lontano” è più infrequente.

Come diretta conseguenza di ciò, ci si aspetta che gli effetti del training cognitivo siano limitati all’abilità oggetto del training e altre simili a questa, come nel caso degli scacchi o nell’acquisizione di un expertise in ambito musicale e sportivo, favorito soprattutto da anni e anni di esercizio e ore di lavoro (Knecht, 2003). Gli stessi risultati sembrano essere stati riscontrati nel training cognitivo, in cui l’addestramento di alcune abilità non sembra impattarne altre; in particolare sembra che questo principio si applichi soprattutto per quei compiti come n-back per il potenziamento della working memory e il training spaziale.

Tuttavia vi sono alcune evidenze del fatto che ci sia una relazione causa-effetto tra il training tramite gli action videogames e il miglioramento delle performance nell’ambito dell’attenzione selettiva dei giocatori (Green & Bavalier, 2003).

L’analisi della letteratura sull’argomento fatta da Sala e colleghi (2018) è costituita da tre meta-analisi: la prima cerca di valutare l’effettiva correlazione tra l’apprendimento di abilità tramite videogames e le abilità cognitive in una popolazione di giocatori, la seconda di testare eventuali differenze tra i giocatori di videogames e i non giocatori, in termini di abilità cognitive e infine la terza di esaminare gli effetti del training tramite videogames sulle abilità cognitive dei partecipanti.

In particolare la meta-analisi (Sala, Gobet et al., 2018) ha considerato come moderatori la misura delle abilità cognitive su due livelli: la frequenza (quante ore alla settimana) e il punteggio ottenuto dai giocatori.
Infine è stato presa in considerazione la tipologia dei videogames: action videogames (es. Mario Kart), non-action videogames (puzzle, giochi di strategia o role playing).

Le tre meta-analisi hanno in conclusione delineato un quadro nel quale esiste una debole correlazione tra le skills specifiche apprese dai videogiochi e le abilità cognitive, una poco significativa differenza sia tra i giocatori e i non-giocatori sia tra i partecipanti sottoposti ad un training tramite videogames e quelli del gruppo di controllo (Sala, Gobet et al., 2018).

I risultati di tale meta-analisi hanno evidenziato con chiarezza che è ben evidente un miglioramento di un’ abilità cognitiva se questa in particolare viene potenziata, favorendo di conseguenza l’expertise in quel particolare ambito, tuttavia a differenza di quanto mostrato dalla letteratura presa in considerazione, il trasferimento far tramite videogames non sussiste (Sala, Gobet et al., 2018).

Il risultato più significativo mostrato dalla meta-analisi riguarda il fatto che esiste una mancanza nella generalizzazione dell’apprendimento tra domini differenti di abilità acquisite tramite training attraverso i videogames.

Il training delle abilità è in grado di migliorare le abilità specifiche alle quali è destinato ma non offre benefici anche ad altri domini simili, dimostrando che il training è dominio-specifico (Sala, Gobet et al., 2018).

Adults for children: la genitorialità nei servizi psichiatrici – Report dal Convegno della ASST Niguarda

Il 1 febbraio 2018 presso l’Aula Magna della ASST Niguarda di Milano si è un tenuto il secondo Convegno Nazionale dal titolo “Adults for Children: la genitorialità nei servizi psichiatrici”. Diverse figure professionali, che da anni lavorano nell’ambito della prevenzione con i figli di genitori con disturbi psichici, hanno preso parte al convegno, che ha visto la partecipazione anche di Karin van Doesum (psicologa e ricercatrice presso la Radboud University Nijmegen) e di Randi Talseth (segretario generale della Voksne for Barn Association di Oslo).

 

Introduzione al convegno: l’importanza della prevenzione e del lavoro di rete

Il dott. Alberto Zanobio (Responsabile SS di Psichiatria Comunità 2 della ASST Niguarda), Maria Carla Gatto (Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano) e Mauro Percudani (Direttore DSM e Dipendenze della ASST Niguarda) introducono i lavori, illustrando come la ricerca e la letteratura sia nazionale che internazionale dimostrino come la presenza di una patologia psichica in uno o in entrambi i genitori abbia un impatto significativo sulla salute mentale dei figli e questo determina la necessità di proporre progetti di prevenzione. L’obiettivo, secondo Maria Carla Gatto, è quello di curare senza allontanare il minore dalla famiglia, attraverso un lavoro di rete e di collaborazione tra Tribunale, Centri Psicosociali e Servizi Sociali, al fine di garantire un intervento precoce. Tali interventi dovrebbero coinvolgere e occuparsi dell’intero nucleo familiare, non solo del genitore o del bambino.

Minori e genitorialità difettosa: il trauma relazionale – Intervento del dott. Mattioni

Il primo intervento al Convegno spetta al dott. Alfredo Mattioni (Psicologo, Psicoanalista e Direttore SSD di Psicologia della ASL della Valle D’Aosta) e porta il titolo “Minori e genitorialità difettosa: il trauma relazionale”. Mattioni nel suo discorso spiega cosa voglia dire essere genitori in un’ottica psicologica e quando la genitorialità si rivela sana e quando, invece, sfocia in una genitorialità perversa. Egli sottolinea quanto sia difficile il lavoro dei genitori, in quanto essi non possono determinare il futuro dei propri figli e non possono considerare i figli come un prolungamento narcisistico di sé, investito di desideri e sogni personali. La genitorialità sana richiede la capacità di accettare i propri limiti in quanto genitori e affrontare i conflitti e i problemi che sono comuni a tutte le famiglie. Il dott. Mattioni propone un continuum per mostrare dove possono collocarsi i genitori rispetto al proprio ruolo e al rapporto con i figli: ad un estremo si colloca la genitorialità ideale, quella perfetta alla quale si tende ma mai raggiunta, all’estremo opposto si colloca la genitorialità perversa, in cui i bambini sono vittime di sfruttamento, abuso, violenze, maltrattamento, sono costretti ad andare in guerra o a sposarsi quando ancora bambini; nel mezzo si colloca la relazione genitore-figlio caratterizzata da vulnerabilità, in cui ci siamo tutti noi e che comprende anche la genitorialità psichiatrica. Il nostro ruolo in quanto professionisti, in quest’ottica, può essere di tutela del minore e di monitoraggio della genitorialità. Subito dopo, Mattioni ripercorre la storia di alcuni modelli educativi del passato improntati sulla violenza e sul controllo, per poi arrivare a quella che dovrebbe essere l’attuale concezione della genitorialità: non esistono il minore e il genitore singolarmente, la genitorialità è un processo a spirale dettato dalle interrelazioni tra bambino e genitore. Pur essendo quella tra genitore e figlio una relazione asimmetrica, non bisogna dimenticarsi che l’altro è una persona per non correre il rischio di esercitare male il proprio potere.

Dati epidemiologici relativi ai genitori portatori di bisogni psichiatrici

Il secondo intervento è quello della dott.ssa Flavia Baccari (ASL di Modena) che riporta alcuni dati e aspetti epidemiologici relativi ai genitori portatori di bisogni psichiatrici. I dati della fonte SIEP relativi al 2015 ci dicono che in Lombardia l’1,6% della popolazione ha avuto contatti con un Centro Psico-sociale. Mentre l’ISTAT ci fornisce i dati relativi alla prevalenza dell’ansia e della depressione che si aggirano rispettivamente attorno al 4,4% e al 7,3%. È stata successivamente effettuata una stima dei figli di pazienti che accedono ai CPS: in Italia sarebbero circa 36.520,5 (di età tra 0 e 26 anni) e in Lombardia 7.503,9. I dati sono, dunque, piuttosto alti e qualcosa si può e si deve fare a favore di questi bambini.

Interventi di prevenzione per i figli di genitori con disturbi psichiatrici nel panorama europeo

Il terzo intervento spetta alla dott.ssa van Doesum, la quale fornisce inizialmente alcuni dati relativi alla trasmissione dei disturbi psichici di generazione in generazione. Il 40% degli adulti con disturbi psichici sembra avere almeno un genitore affetto da un disturbo mentale. Più a rischio sembrano essere le ragazze e se entrambi i genitori sono affetti da un disturbo mentale c’è un rischio ancora maggiore di sviluppare a propria volta un disturbo di natura psichica o sociale. Vengono in seguito illustrati i principali interventi preventivi che possono coinvolgere il genitore o il bambino o entrambi. Gli obiettivi principali sono di: prevenzione di disturbi nei bambini aumentando la loro competenza sociale e la resilienza, supporto alla genitorialità, riduzione delle situazioni stressanti a cui è esposto il bambino e informazione di ciò che accade a casa. Gli interventi sui bambini sono variegati: gruppi di gioco e dialogo, brochure e video informativi, siti web, programmi online, gruppi su Facebook. Viene poi descritto nel dettaglio l’intervento “Squeake said the mouse” per bambini tra 4 e 8 anni con genitori affetti da disturbi psichici o dipendenze patologiche, che prevede incontri di gruppo per bambini e incontri in compresenza con i genitori. Gli interventi preventivi per i genitori consistono invece in: Family Talk per insegnare ai genitori a comunicare coi figli del disturbo, Child Talk che coinvolge i bambini, gruppi per mamme o genitori, siti web, corsi online, forum e videoclips. Infine, vengono illustrati gli interventi per gli operatori che consistono in case management, supporto a infermieri e medici, brochure, video, siti web, training Child Talk. Si propone, dunque, un approccio onnicomprensivo, che coinvolge gruppi di età e target diversi, interventi individuali o online. Conclude la dott.ssa che la prevenzione dovrebbe iniziare già in gravidanza, quando i genitori stanno per aspettare un figlio.

Il Progetto Semola dell’Associazione Contatto

Nell’intervento successivo, la dott.ssa Tasselli (Responsabile del Progetto Semola dell’Associazione Contatto onlus), ha appunto illustrato il Progetto Semola attivo già da 5 anni a Milano. La dott.ssa ha inizialmente esposto i principali fattori di rischio e i vissuti emotivi del bambino con un genitore affetto da un disturbo psichico e gli obiettivi principali del loro progetto: riflettere sulla situazione familiare, sostenere gli adulti nella funzione genitoriale, informare i figli, aiutare i genitori a comunicare. L’intervento psicoeducativo rivolto a bambini tra 6 e 16 anni prevede dei colloqui con una psicologa e un’educatrice. Il metodo prevede 2 possibilità: il Let’s Talk che prevede da 1 a 3 incontri con i genitori e il Family Talk che comprende incontri solo col genitore, solo con il bambino e con tutta la famiglia.

Gli interventi attivi nel primo anno di vita del bambino

Dopo la pausa, l’intervento della dott.ssa van Doesum verte sugli effetti della malattia mentale del genitore sul bambino già in gravidanza e nel primo anno di vita. A maggior ragione sono richiesti interventi precoci di tutela del bambino e della relazione madre-bambino. Le mamme depresse tendono ad essere più ansiose, irritabili, comunicano meno con il bambino e quest’ultimo tende a piangere di più, a sorridere di meno, a sviluppare una relazione di attaccamento insicuro e a manifestare un temperamento difficile. Per questo, in Olanda, viene proposto un intervento mamma-bambino fino ai 12 mesi di vita del bambino che prevede visite domiciliari e si basa sul video-feedback, allo scopo di migliorare e aumentare le interazioni tra il genitore e il bambino, fornire supporto pedagogico e il modeling. Tali interventi sembrano essere efficaci nell’aumentare la sensibilità e la responsività del genitore e le competenze socio-emotive del bambino e la possibilità di sviluppare una relazione di attaccamento sicuro.

La legge norvegese sulla comunicazione della malattia mentale del genitore al bambino

L’intervento successivo è quello della dott.ssa Talseth, la quale ribadisce l’importanza di comunicare con i bambini sulla salute mentale dei genitori e ha esposto la legge che vige in Norvegia rispetto al diritto del bambino di conoscere la condizione del proprio genitore, previo consenso della famiglia.

Il Progetto europeo Children and Adolescents of Parents with Mental Disorders (CAPMeM)

Interviene a questo punto il dott. De Girolamo (direttore scientifico IRCCS Fatebenefratelli di Brescia), il quale fornisce ulteriori dati epidemiologici, relativi all’incidenza e all’impatto dei disturbi mentali dei genitori sui loro figli. Viene anche esposto il Progetto Europeo Children and Adolescents of Parents with Mental Disorders (CAPMeM) che vede la collaborazione di ben 34 Paesi europei.

La trappola del fuorigioco

Concludono la giornata, gli interventi di Stefania Buoni (cofondatrice di Mybluebox) e di Carlo Miccio che presentano il romanzo “La trappola del fuorigioco”, scritto dallo stesso Carlo Miccio e che narra di come ha vissuto in prima persona un bambino di 10 anni il rapporto con il proprio padre affetto da disturbo psicotico, mettendo in evidenza i suoi vissuti di confusione e colpa.

Conclusioni

Un Convegno davvero interessante, che offre notevoli spunti di riflessione e che risveglia il bisogno di collaborare in un’ottica di prevenzione e tutela dei bambini con un genitore affetto da disturbi psichici.
Come dice un proverbio africano “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.

Dal Basso in Alto (e Ritorno…) di La Rosa e Onofri (2017) – Recensione del libro

Dal Basso in Alto (e Ritorno…): Cecilia La Rosa e Antonio Onofri potrebbero avere scritto uno dei testi più rappresentativi e influenti degli ultimi anni del cognitivismo clinico italiano che fa capo alla SITCC, la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva; un libro che bene rappresenta quella che è ormai la direzione principale di questo ambiente scientifico e clinico dalla lunga storia e tradizione.

 

Dal Basso in Alto: un libro che descrive gli interventi clinici cognitivo-evoluzionisti più recenti

L’intento degli autori sembra quello non solo di fornire un quadro esaustivo degli interventi clinici di tipo corporeo e senso-motorio, ma anche di legarli strettamente al paradigma cognitivo-evoluzionista e traumatico elaborato negli anni da Gianni Liotti e dai suoi principali collaboratori, Benedetto Farina e Fabio Monticelli (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2014). Intento che riesce bene attraverso una disanima attenta dell’ancoraggio neuroscientifico del modello cognitivo-evoluzionista con le teorie Panksepp, Jackson e Porges, il tutto sotto l’egida olimpica di Pierre Janet, nume tutelare di questa corrente di pensiero clinico di importanza ormai sempre crescente.

Una volta inserita la chiave di volta teorica nell’incrocio tra neuroscienze e mente, le conseguenze cliniche di tipo motorio e sensoriale sono logiche, ed è qui che il libro di La Rosa e Onofri dà il suo meglio, spiegando dettagliatamente le procedure e gli interventi più efficaci e fruttuosi. Non si tratta però di sola tecnica, poiché il ventaglio clinico si inserisce in una concezione della mente coerente e convincente, la mente come stato intuitivo ed emotivo che a quel livello va regolata e curata.

I vari protocolli più in voga di quella corrente sono passati in rassegna, anche in questo caso non secondo una logica di accumulo ma seguendo un percorso che parte dall’EMDR, le tecniche di eye movement desesitization reprocessing, passa per gli interventi senso-motori e sfocia nella mindfulness, che svolge un po’ il ruolo, a quanto pare, di contenitore finale e superiore delle elaborazioni più corporee e motorie, a smentire chi pensa che nell’orientamento cognitivo-evoluzionista si tenga conto solo degli interventi bottom-up e non di quelli top-down. D’altro canto, non a caso il libro di La Rosa e Onofri si chiama: “ Dal Basso in Alto (e Ritorno…)“.

Particolare importanza riveste in questo testo il concetto di trauma, interpretato come esperienza psicopatologica per eccellenza e applicato ai veri scenari clinici con intelligenza e sensibilità cliniche. E se c’è il trauma c’è anche, inevitabilmente, la dissociazione, come non può essere altrimenti in un ambiente clinico e scientifico che legittimamente considera Pierre Janet e non Freud il più acuto esploratore dei misteri della sofferenza psichica.

Insomma, La Rosa e Onofri hanno prodotto qualcosa che mancava da sempre e che finalmente può soddisfare un bisogno psicoterapeutico crescente: il manuale clinico del paradigma cognitivo-evoluzionista finalmente pratico e capace di parlare alle necessità concrete e quotidiane degli psicoterapeuti.

Eiaculazione precoce: eziopatologia e trattamento cognitivo-comportamentale

L’ eiaculazione precoce (PE) è la disfunzione sessuale più comune tra gli uomini (Patrick et al., 2005). Alcuni professionisti della salute ritengono che sia l’argomento più discusso in medicina sessuale (Jannini & Porst, 2011). L’ eiaculazione precoce colpisce il 20-30% degli uomini ed è caratterizzata dalla perdita o dall’assenza di controllo eiaculatorio, accompagnata spesso da difficoltà interpersonali e stress (Patrick et al., 2005).

Andrea Goldoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Che cos’è l’ eiaculazione precoce?

L’ eiaculazione precoce incide su diversi aspetti della vita maschile, come soddisfazione sessuale, autostima sessuale, controllo eiaculatorio, livelli di stress interpersonale e relazioni sentimentali. E’ stata inoltre associata a una serie di effetti psicologici negativi quali ansia e depressione, riguardanti chi ne è affetto ma anche i partner (Rosen, Althof et al., 2008). L’ eiaculazione precoce può costituire un fattore significativo di stress all’interno della coppia, e causare un abbassamento della qualità di vita, dell’autostima, e dell’autoefficacia. Negli uomini single può influenzare negativamente la motivazione a cercare un partner.

La diagnosi di eiaculazione precoce rappresenta una sfida, in quanto molti professionisti della salute non possiedono informazioni sufficienti riguardo i criteri da utilizzare e le opzioni di trattamento (Brock et al., 2009). Inoltre parlare di eiaculazione precoce solleva la questione su quale sia effettivamente un tempo di eiaculazione adeguato.

Già nel 1917 Karl Abraham descriveva l’ eiaculazione rapida, da lui definita ejaculatio praecox. Durante le prime decadi del ventesimo secolo, l’ eiaculazione precoce era considerata, specialmente nella teoria psicoanalitica, come una nevrosi legata a conflitti inconsci, e veniva trattata attraverso l’analisi (Abraham, 1917; Stekel, 1927). Nel 1943, la visione totalmente psicologica di Adler venne messa in discussione da Bernhard Schapiro, un endocrinologo tedesco, che considerava l’ eiaculazione precoce come un disturbo psicosomatico, affermando che le eiaculazioni rapide erano causate da fattori sia biologici che psicologici. Inoltre propose per la prima volta la suddivisione del disturbo in due tipologie, Tipo B e Tipo A. Nel 1989 Godpodinoff rinominò le due tipologie come lifelong (primaria) e acquisita (secondaria).

Tipologie di eiaculazione precoce

L’ eiaculazione precoce primaria è una sindrome caratterizzata da un insieme di sintomi caratteristici, che includono un’eiaculazione rapida durante quasi ogni rapporto sessuale, in un tempo compreso tra 30 e 60 secondi nella maggior parte dei casi (80%) o tra 1 e 2 minuti (20%), con ogni o quasi ogni partner sessuale, e a partire dai primi rapporti sessuali. L’ eiaculazione precoce acquisita consiste in un’eiaculazione rapida che insorge durante il percorso di vita, spesso a carattere situazionale, a fronte di precedenti esperienze eiaculatorie normali. (Waldinger, 1998; McMahon, 2002).

Nella letteratura scientifica sono presenti diverse definizioni dell’ eiaculazione precoce, poiché non vi è un accordo univoco sulle sue caratteristiche. Al fine di migliorare il confronto tra i vari studi, Waldinger et al. hanno introdotto il parametro dello IELT, il tempo di latenza eiaculatoria intravaginale, definito come il tempo che trascorre tra l’immissione intravaginale e l’inizio dell’eiaculazione. Waldinger riporta che la maggior parte degli uomini che cercano attivamente trattamento per l’ eiaculazione precoce primaria, circa il 90%, eiacula entro un minuto di penetrazione. Ricerche e studi osservazionali di uomini affetti da eiaculazione precoce hanno dimostrato che IELT pari o inferiori a un minuto hanno una prevalenza di circa 2,5% all’interno della popolazione generale, ma una percentuale di uomini con IELT nella norma riferisce di essere affetta da eiaculazione precoce (Patrick et al, 2005; Waldinger et al, 2005a, 2009).

Per tenere conto di questa diversità, Waldinger e Schweitzer (2006b, 2008) hanno proposto una nuova classificazione dell’ eiaculazione precoce nella quale sono distinti quattro tipologie sulla base della durata dello IELT, della frequenza con cui vengono riferiti gli episodi e dei momenti di vita in cui avvengono. In aggiunta all’ eiaculazione precoce primaria e acquisita, questa classificazione include quella variabile e quella soggettiva. Gli uomini con eiaculazione precoce variabile sperimentano occasionalmente un’eiaculazione prematura. Ciò non deve essere considerato come un disturbo, ma come una naturale variazione del tempo di eiaculazione, normalmente presente negli uomini (Waldinger, 2013). Gli uomini con eiaculazione precoce soggettiva invece riferiscono di essere affetti da eiaculazione precoce mentre in realtà hanno un tempo di eiaculazione normale o addirittura più esteso del normale (Waldinger, 2013). Il riferire la presenza di eiaculazione precoce da parte di questi uomini è probabilmente legato a fattori psicologici e/o culturali. Le costanti eiaculazioni anticipate della eiaculazione precoce primaria suggerirebbero la presenza di una disfunzione neurobiologica sottostante, mentre l’ eiaculazione precoce acquisita sarebbe più legata a fattori medici e psicologici.

Serefoglu et al. (2010, 2011) hanno confermato l’esistenza di questi quattro sottotipi in un campione di uomini turchi. Recentemente, Zhang et al. (2013) e Gao et al. (2013) utilizzando una metodologia simile hanno riportato la presenza dei quattro sottotipi anche in un campione di uomini in Cina. In futuro, la ricerca continua su questa nuova classificazione potrebbe portare a una migliore conoscenza dell’ eiaculazione precoce e a definizioni più precise. (Waldinger & Schweitzer, 2008).

Definizione di eiaculazione precoce e sintomi

Ad oggi, una delle definizioni più utilizzate in ambito clinico è quella fornita dal DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013):

A. Una modalità persistente o ricorrente di eiaculazione che si verifica durante i rapporti sessuali, circa un minuto dopo la penetrazione vaginale e prima che l’uomo lo desideri.
Nota: Anche se la diagnosi di eiaculazione precoce può essere applicata a individui impegnati in attività sessuali non intravaginali, non sono stati stabiliti specifici criteri di durata per queste attività.
B. I sintomi dei Criterio A devono essere presenti come minimo per circa 6 mesi e devono essere provati in tutte o quasi tutte (circa il 75-100%) le occasioni di attività sessuale (in determinate circostanze situazionali o, se generalizzato, in ogni circostanza).
C. I sintomi del Criterio A causano nell’individuo un disagio clinicamente significativo.
D. La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un disturbo mentale non sessuale o come conseguenza di un grave disagio relazionale o di altri significativi fattori stressanti e non è attribuibile agli effetti di una sostanza/farmaco o di un’altra condizione medica.

Specificare se:
Permanente: Il disturbo è presente da quando l’individuo è diventato sessualmente attivo.
Acquisita: Il disturbo inizia dopo un periodo di funzionamento sessuale relativamente normale.

Specificare se:
Generalizzata: Non è limitato a determinati tipi di stimolazione, situazioni o partner.
Situazionale: Si verifica solo con certi tipi di stimolazione, situazioni o partner.

Specificare gravità attuale:
Lieve: l’eiaculazione si verifica entro circa 30-60 secondi dopo la penetrazione vaginale.
Moderato: l’eiaculazione si verifica entro circa 15-30 secondi dopo la penetrazione vaginale.
Grave: l’eiaculazione si verifica prima dell’attività sessuale, all’inizio dell’attività sessuale o entro circa 15 secondi circa dalla penetrazione vaginale.

Le possibili cause dell’eiaculazione precoce

Storicamente ci sono stati diversi tentativi di spiegare le cause dell’ eiaculazione precoce, attraverso teorie sia biologiche che psicologiche. Nel 1970 William Masters e Virginia Johnson, due sessuologi americani, hanno postulato che la eiaculazione precoce sia il risultato di un comportamento appreso, rigettando il punto di vista psicoanalitico di Adler e quello psicosomatico di Schapiro. Sostenevano che l’eiaculazione rapida fosse collegata ai primi rapporti sessuali, in quanto esperienze iniziali connotate da rapidità ed ansia e potevano condizionare gli uomini ad eiaculare velocemente. Non sono stati tuttavia effettuati studi che abbiano messo a confronto le prime esperienze di condizionamento fra uomini con eiaculazione precoce e uomini senza il disturbo, per cui non si può sapere se le esperienze di condizionamento sono specifiche per gli uomini con eiaculazione precoce.

Nel 1998, Waldinger et al. hanno postulato che l’ eiaculazione precoce primaria sia una disfunzione determinata neurobiologicamente e geneticamente, correlata a una ridotta neurotrasmissione serotoninergica e all’ipersensibilità e iposensibilità di specifici recettori 5-HT. Waldinger ha quindi respinto le precedenti ipotesi psicologiche e comportamentiste riguardanti l’eziologia e la patogenesi della eiaculazione precoce primaria. Studi recenti suggeriscono che in alcuni uomini variazioni neurobiologiche e genetiche potrebbero contribuire all’eziopatologia della eiaculazione precoce primaria, e che tale condizione potrebbe essere mantenuta e aggravata da fattori psicologici e ambientali (Janssen et al., 2009).

La eiaculazione precoce acquisita è dovuta generalmente ad ansia da prestazione sessuale (Hartmann et al, 2005), problemi psicologici o relazionali (Hartmann et al., 2005), disfunzione erettile (Laumann et al., 2005), occasionalmente prostatite (Screponi et al., 2001), ipertiroidismo (Carani et al., 2005) o ad astinenza e disintossicazione da farmaci prescritti (Adson e Kotljar, 2003) o consumati a scopo ricreativo (Peugh e Belenko, 2001). Gli uomini affetti da questa problematica sono generalmente anziani, hanno un indice di massa corporea (BMI) più elevato, ed hanno una maggiore incidenza di patologie in comorbilità rispetto agli uomini affetti da eiaculazione precoce primaria, variabile e soggettiva, come ipertensione, disturbo del desiderio sessuale, diabete mellito, prostatite cronica e disfunzione erettile.

L’ansia è stata indicata come causa da diversi autori ed è tuttora comunemente considerata come una delle cause più probabili, nonostante l’evidenza empirica a supporto sia piuttosto scarsa (Jern et al., 2009; Janssen et al., 2009). Diversi autori ipotizzano che l’ansia attivi il sistema nervoso simpatico e riduca la soglia di eiaculazione (Janssen et al., 2009).

Effetti dell’eiaculazione precoce sulla coppia e sulla qualità di vita

Le disfunzioni sessuali femminili presenti nella partner (come anorgasmia, desiderio sessuale ipoattivo, avversione sessuale, disturbi dell’eccitazione sessuale, e disturbi da dolore sessuale, come il vaginismo, potrebbero essere correlati alla eiaculazione precoce acquisita (Dogan e Dogan, 2008).

L’ eiaculazione precoce infatti può riguardare non solo chi né è affetto, ma anche il/la partner. Nel momento in cui una coppia affronta la eiaculazione precoce la situazione viene definita asincrona (Jannini & Porst, 2011, p.301). Una coppia asincrona può fare sesso anche molto frequentemente, ma la qualità del rapporto è assente o ridotta. Il partner non affetto da eiaculazione precoce può sentirsi deluso o irritato dal fatto che l’altro raggiunga l’orgasmo molto prima. E’ come se non ci fosse sincronizzazione, e questo crea una situazione frustrante per la coppia. Se la qualità del sesso è scarsa a causa dell’eiaculazione precoce, il partner che ne è affetto potrebbe sperimentare emozioni negative, che potrebbero portare a una risposta fisica sfavorevole. Così come in molte disfunzioni sessuali, è il significato che viene conferito al disturbo a poter influenzare il rapporto di coppia (Graziottin et al, 2011, p.306).

Nel momento in cui i significati attribuiti al disturbo portano a rabbia e delusione, sorgono conflitti di coppia che creano un senso di separazione sessuale tra i due partner.

Gli studi che hanno messo a confronto gli uomini affetti da eiaculazione precoce con quelli che non hanno il disturbo hanno mostrato una differenza marcata nella qualità di vita tra i due gruppi. In uno di questi studi, sono stati scelti 1,587 uomini affetti e non affetti da eiaculazione precoce e sono state poste loro domande riguardanti la loro vita personale e il senso generale di soddisfazione di vita. Per valutare accuratamente gli uomini, è stato impiegato un test chiamato Premature Ejaculation Profile (PEP). Gli uomini affetti da eiaculazione precoce hanno riportato un livello maggiore di stress, bassa autostima, livelli ridotti di funzionamento sessuale e un livello ridotto di qualità di vita (Graziottin et al., 2011, p.305). Gli uomini single possono essere influenzati dai sentimenti di imbarazzo legati al disturbo, tanto da rinunciare al corteggiamento. Il disturbo ha un impatto considerevole sulla vita degli uomini, che hanno una probabilità più alta di sviluppare una disfunzione erettile a causa delle emozioni di vergogna.

Graziottin et al. (2011) hanno indagato le differenze presenti in donne legate a un partner affetto da eiaculazione precoce rispetto a donne legate a uomini privi del disturbo. Il desiderio sessuale, la lubrificazione e gli orgasmi erano significativamente peggiori nelle donne legate a un partner con eiaculazione precoce, e il 52% di loro ha riportato problemi di orgasmo, mentre per le donne legate a un partner senza disturbo la percentuale è stata del 23%.

Il trattamento dell’eiaculazione precoce: un approccio cognitivo-comportamentale

Del 20-30% di uomini affetti da eiaculazione precoce, solo il 1-12% ha riferito di aver ricevuto trattamento (Patrick et al., 2005, p.359). Cercare un trattamento può rappresentare fonte di imbarazzo e le opzioni di trattamento potrebbero non essere chiare. Sono presenti forme di trattamento basate sui farmaci, sulla psicoterapia, o su una combinazione delle due cose (Steggall, Fowler, & Pryce, 2008, p.365).

Rowland et al. (2010) affermano che una delle opzioni migliori sia quella di abbinare la terapia farmacologica a una psicoterapia, e che quest’ultima sia l’intervento d’elezione per le forme di eiaculazione precoce naturale e soggettiva.

La terapia cognitivo-comportamentale è uno degli approcci più utilizzati per il trattamento dei disturbi sessuali, anche per l’eiaculazione precoce (Mohammadi et al., 2013). Il trattamento di questo disturbo comprende tre componenti generali: (a) la componente educazionale, nella quale si affrontano argomenti come anatomia e fisiologia sessuale, orgasmo ed eiaculazione, il ruolo dell’ansia, i meccanismi di condizionamento e il meccanismo di funzionamento dell’ eiaculazione precoce. Viene generalmente condotta in presenza del/della partner; (b) la componente comportamentale, che comprende l’apprendimento e l’applicazione di tecniche come lo squeeze, lo start-stop e il rilassamento; (c) la componente cognitiva, che riguarda l’esplorazione e la modifica delle cognizioni che possono predisporre al disturbo, oltre che costituire fattori precipitanti e di mantenimento, come le credenze che generano ansia.

La componente educazionale può includere informazioni sulla prevalenza della eiaculazione precoce e sullo IELT medio nella popolazione generale al fine di correggere false credenze e miti legati al disturbo. Inoltre può comprendere informazioni riguardanti varie attività sessuali appaganti alternative al coito, in modo da estendere il repertorio sessuale della coppia, assieme a strategie per affrontare l’evitamento dell’attività sessuale e l’indisponibilità al dialogo con il/la partner relativo a tematiche sessuali. Queste strategie educative sono studiate per fornire motivazione al trattamento farmacologico, ridurre l’ansia da prestazione, e attuare una prima modifica degli schemi sessuali maladattivi.

Una delle tecniche comportamentali più utilizzate nel trattamento dell’eiaculazione precoce è quella dello squeeze, o compressione (Masters e Johnson, 1970). Durante l’autostimolazione, nel momento in cui l’eiaculazione sembra inevitabile, viene applicata una pressione sotto il glande attraverso il pollice, l’indice e il medio. Tale operazione inibisce l’eiaculazione e dovrebbe essere ripetuta diverse volte prima di lasciarsi andare all’orgasmo.

In un secondo momento può essere applicata durante la stimolazione da parte del/della partner. Rappresenta uno step nell’apprendimento del controllo eiaculatorio, che successivamente può essere ulteriormente affinato tramite la tecnica dello stop-start (Seman, 1956). Tale tecnica consiste nel fermarsi e ritirare il pene durante il coito, nel momento in cui l’uomo percepisce di essere prossimo all’eiaculazione e di non poter più controllare il riflesso eiaculatorio. Il rapporto viene ripreso quando sente di aver recuperato completamente il controllo.

Per quanto riguarda la componente cognitiva, le osservazioni cliniche e i modelli teorici enfatizzano l’importanza delle strutture cognitive centrali (schemi o credenze centrali) sui processi sessuali disfunzionali (Carey, Wincze e Meisler, 1993; McCarthy, 1986; Rosen, Leiblum e Spector, 1994; Sbrocco e Barlow, 1996). Il modello cognitivo-affettivo di Barlow (1986) postula che l’interazione tra l’arousal del sistema nervoso autonomo (attivazione simpatica) e le interferenze cognitive svolga un ruolo centrale nel determinare risposte sessuali funzionali e disfunzionali.

Sbrocco e Barlow (1996) e Wiegel, Scepowski e Barlow (2007) hanno ulteriormente sviluppato il modello originale, affermando che la vulnerabilità degli schemi è una delle componenti principali implicate nelle disfunzioni sessuali. Sbrocco e Barlow (1996) ipotizzano che gli individui affetti da una disfunzione sessuale abbiano solitamente un insieme di credenze sessuali irrealistiche e inaccurate e assumano un atteggiamento rigido e inflessibile. Nel momento in cui questi standard di riferimento elevati e irrazionali non sono soddisfatti possono sorgere implicazioni personali catastrofiche, che facilitano lo sviluppo di una visione di sé negativa (self-schema negativo) e predispongono l’individuo allo sviluppo di difficoltà sessuali. La ristrutturazione di tali schemi negativi può portare a miglioramenti nelle disfunzioni, a un atteggiamento più positivo nei confronti del sesso, a maggiore piacere sessuale e a un miglioramento della relazione di coppia.

Il bullismo subito durante lo sviluppo è un fattore di rischio per la salute mentale in adolescenza

In un recentissimo studio condotto presso l’Università Canadese McGill (Montréal), dal gruppo di ricerca esperto di comportamenti suicidari guidato dalla dottoressa Marie-Claude Geoffroy, è emerso che il rischio di sviluppare problemi legati alla salute mentale è doppio negli adolescenti che hanno subito atti di bullismo da parte dei pari durante lo sviluppo.

 

Gli effetti sulla salute mentale e fisica della violenza subita

Lo studio ha esaminato i dati del Quebec Longitudinal Study of Child Development (QLSCD) di 1363 bambini nati nel 1997/1998 e seguiti fino all’età di quindici anni. Al giorno d’oggi questa analisi longitudinale è alla quarta fase e si occupa di indagare vari aspetti, tra i quali le relazioni affettive, i comportamenti a rischio, la motivazione scolastica e l’aspirazione professionale, la violenza ed il bullismo subiti e perpetrati, la salute mentale e quella fisica (Istitut de la statistique Québec, 2002, 2010, 2015).

Nel dettaglio, lo studio della dottoressa Geoffroy, partendo dai dati del Quebec Longitudinal Study, si è focalizzata sulla salute mentale dei ragazzi e sull’autodenuncia di vittimizzazione subita da parte dei pari (dai 6 ai 13 anni), categorizzata successivamente dai ricercatori in tre range di vittimizzazione: assente/bassa, moderata e grave.

I risultati mostrano come chi ha subito una grave vittimizzazione ha il doppio delle probabilità di riportare sintomi depressivi o forme depressive conclamate e tre volte tanto la probabilità di riportare sintomi ansiosi, rispetto a coloro che hanno subito bassa vittimizzazione o nulla. Il dato più rilevante è che, sempre in rapporto ai ragazzi che hanno subito bassa o nulla vittimizzazione, coloro che hanno subito grave vittimizzazione hanno quasi quattro volte tanto la probabilità di tentare il suicidio o di presentare pensieri suicidari.
Invece, i soggetti che avevano subito moderata vittimizzazione non riportavano un rischio maggiore di problemi legati alla salute mentale.

Questo studio è un’ulteriore conferma del fatto che la prevenzione di una grave vittimizzazione, tramite iniziative anti-bullismo, è importante per il benessere psicologico di molti soggetti. I dati infatti parlano di percentuali che si aggirano intorno al 60% di soggetti che denunciano di subire atti di bullismo da parte dei pari nei primi anni di scuola. La percentuale si abbassa con il passare degli anni ed i soggetti che lamentano grave vittimizzazione continuano ad essere bullizzati fino alle scuole superiori.
Dato che questi atti di bullismo sembrano, per la maggior parte dei casi, verificarsi già dai primi anni di scolarizzazione, gli interventi di prevenzione sarebbero utili come interventi pre-scolastici.

Entrate e uscite dalla depressione: gli schemi maladattivi sottostanti

La depressione non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade. Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

 

Ti svegli e già la vita non ha senso. Alzarsi costa fatica. Un senso di stanchezza, fatica, sfiducia nel futuro. Il mondo è enorme, incombente e tu non hai le forze per affrontarlo. Vorresti restare a letto. A volte lo fai, al diavolo tutto, lasciatemi stare, io non ce la faccio. E tanti altri sintomi correlati: dormire poco o dormire troppo. Un senso di irrequietezza, agitazione, a volte brutti pensieri: vorrei farla finita.
Questa è, in estrema sintesi, la depressione, il male oscuro, il male del secolo, una roba pesante ad avercela.

Il mondo degli psichiatri e degli psicoterapeuti ci ragiona su tanto, ci sono molti modi di affrontarla psicoterapeuticamente e farmacologicamente, è ragionevole essere ottimisti: la depressione si cura. Magari ritorna, ma le ricadute si possono prevenire o possono essere affrontare prontamente e il loro impatto alla fine è limitato.

Il clinico sveglio però sa una cosa: la depressione non è una malattia a sé stante. Sì, ci sono persone che hanno un’alterazione biologica del tono dell’umore, che tende verso il basso. Loro sì, hanno la depressione. Ma non vi fate ingannare. Quando leggete sui giornali che tizio ha fatto questo e quest’altro perché aveva la depressione non è vero. E soprattutto, se vi diagnosticano la depressione… un attimo! La depressione, dicevo, non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade.
Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Come funziona il meccanismo?

Andiamo direttamente con un esempio.
Desidero essere apprezzato. Dentro di me penso di valere poco. Prevedo che gli altri mi giudicheranno. Questo mi dà ansia nell’attesa del giudizio, vergogna se mi espongo all’occhio critico, tristezza dopo che rimango a fare i conti con il mio scarso valore. Rinuncio a espormi, perdo occasioni di fare progressi, si restringe la vita sociale. La vita perde sapore, significato. Mi deprimo. Un quadro del genere, per esempio lo trovate nel disturbo evitante di personalità.

Desidero essere amato. Penso di meritarlo poco e di non essere in grado di sostenere da solo la mia debolezza. Prevedo che l’altro sarà indisponibile o mi abbandonerà. Quando sento l’abbandono mi sento solo, sperduto, l’idea di non essere amabile è confermata. Mi butto giù. Perdo iniziativa, mi paralizzo. Mi deprimo.
Un quadro del genere lo trovate per esempio nel disturbo dipendente di personalità.

Desidero sicurezza. Penso di essere vulnerabile, fragile, feribile. Prevedo che gli altri saranno ostili, minacciosi, umilianti, mi inganneranno, mi schiacceranno. Se vedo segni di aggressione, e li vedo facilmente anche se non ci sono, perché sono sempre in guardia, mi metto in difesa. A volte attacco, ma soprattutto mi chiudo, mi ritiro, mi isolo. Prendo le distanze dal mondo, vivo nel bunker, allarmato isolato. Mi deprimo.
Un quadro del genere è tipico delle personalità paranoidi.

Potrei continuare. È chiara l’idea? Per curare la depressione, nella maggior parte dei casi, bisogna riconoscere e trattare il disturbo di personalità sottostante. In questo modo la cura va alla radice e si prevengono le ricadute. E si previene il rischio di interruzione precoce del trattamento.
Se si cura solo la costellazione di sintomi, sempre che ci si riesca, è facile che il problema appaia ancora. E noi clinici attenti vogliamo mirare all’esito migliore possibile.

Freud o l’interpretazione dei sogni – Recensione dello spettacolo al Teatro Piccolo di Milano

Se è vero che siamo fatti della stessa natura dei sogni, quali sogni avranno attraversato la mente del temerario che per primo si è avventurato in quei territori sconosciuti e insidiosi?

 

Sulla scia di questa domanda Federico Tiezzi si spinge per affrontare l’ardua scommessa di portare in scena l’indicibile e l’irrappresentabile, il mondo onirico e il suo esploratore sommo, Sigmund Freud, pioniere di quel “dangerous method” capace di scardinare le porte più segrete e blindate pur di arrivare all’origine della sofferenza dell’anima.

Come raccontare tutto questo a teatro? La sfida congiunta di Tiezzi e del drammaturgo Stefano Massini, artefici al Piccolo Teatro Strehler dell’affascinante “Freud o l’interpretazione dei sogni” (repliche fino all’11 marzo), è duplice. Da un lato dare corporeità e umanità a quei primi grandi sognatori di cui Freud poco ci dice, ma a cui tanto deve in quanto fornitori di quella “materia prima” necessaria a edificare la sua scienza rivoluzionaria. Dall’altro, il tener conto del percorso ardimentoso che lui stesso ha da affrontare per inoltrarsi nei limacciosi meandri della psiche.

Memore dell’intuizione di Jung, “solo chi è ferito può curare“, Tiezzi affianca nello spettacolo il racconto e l’analisi dei sogni dei pazienti a quelli del loro sommo indagatore. Che riflettendosi nello specchio oscuro del transfert conosce e riconosce nevrosi e pulsioni inconfessabili e inconfessate, da codificare e incastrare con perizia sperimentale in un rebus enigmatico.

Nei severi panni di Sigmund Freud, Fabrizio Gifuni restituisce l’animo tormentato di un uomo di scienza alle prese con il dubbio, di un medico che procede per tentativi, dilaniato da conflitti, turbamenti, sensi di colpa. Tanto da arrivare talora, vedi gli incontri con il paziente Ludwing R. (Marco Foschi) o con la signora Elga K. (Sandra Toffolatti, a veri match, degni di un ring. Da cui anche lui, il Grande Mago dell’anima, ne esce con le ossa rotte, uomo in crisi tra uomini in crisi di una Bella Époque ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Il valzer di silhouettes che apre lo spettacolo evoca il fascino crepuscolare di un’Austria Infelix, dove la lieta malinconia degli Strauss cede già il passo alle ambigue luminescenze di “Verklärte Nacht” di Schoenberg, composta nel 1899, stesso anno in cui Freud scrive la sua “Interpretazione dei sogni“.

Quella Notte Trasfigurata pervasa da ossessioni di eros e di morte, diventa sulla scena lo spazio delle visioni, degli incubi, delle allucinazioni. Dalle tante porte che lo scandiscono, entrano lucertoloni verdastri, vagoni ferroviari affollati di ragazzi d’oro, cortei funebri che trascinano bare traballanti, incapaci di trovare una via d’uscita… E Freud stesso si ritrova tra loro, Edipo nudo, angosciato di non riuscire a seppellire suo padre.

Come angosciati e nudi sono gli uomini e le donne che bussano a quello studio affollato di tappeti e preziose statuette antiche, approdo estremo di un patire inconsolato, dove si arriva per interrogare l’oracolo. Talora la risposta salvifica arriva, talora no. L’acume di Freud coglie nel segno, ma non sempre medica le pene. Capire non basta a consolare. A volte chi soffre si sente solo una pedina di un gioco dell’indagine dove a vincere è solo il banco. E allora Tessa W. (Elena Ghiaurov) accusa lo “stregone” di usare il loro dolore per mettere a punto le sue teorie.

Un girotondo di esistenze perdute, talora ritrovate, talora smarrite per sempre. Un lungo viaggio dentro la testa di Freud, nel cuore di tenebra dell’io, del teatro, di un’Europa in disperata ricerca di una nuova identità.

Giuseppina Manin

Freud o l’interpretazione dei sogni – Teaser (VIDEO):

 

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