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Diversamente sano: Liberi di essere folli (2018) – Recensione del libro e intervista all’autore 

Diversamente Sano destruttura, infrangendo gli apparati teorici, il concetto di patologia mentale. Tutto ha origine da una domanda pungente: “Siamo proprio sicuri che quello che viene da tutti considerato come comportamento Patologico non sia in realtà una forma di potenzialità inespressa?

 

Una domanda che guida Antonio Cerasa, neuroscienziato e ricercatore CNR, vincitore del premio per la Divulgazione Scientifica “Giancarlo Dosi” 2017,  lungo questo nuovo ed interessante lavoro.

Le voci del libro Diversamente Sano siedono allo stesso tavolo, e sono quelle di un Neuroscienziato, uno Psicologo, uno Psichiatra ed un Sociologo. Insieme, per discutere in una nuova ottica (quella della psicologia positiva) di alcune tra le più moderne e particolari patologie della mente: ortoressia, fobia sociale, dipendenza affettiva, dipendenza patologica da internet, incontinenza emotiva, sindrome di Pollyanna.

Esplorando comportamenti considerati patologici, i 4 commensali si impegnano a ricercarne l’essenza, spogliando l’osservazione e le indagini interpretative dalle eccessive sovrastrutture teoriche di una società egodistonica, che tende a produrre costantemente distorsioni. Frustrazione, ricerca incessante di un’idea che armonizzi i bisogni individuali, insoddisfazione profonda: queste le caratteristiche della società contemporanea, nella quale i disturbi mentali crescono e si diversificano con una rapidità che inibisce l’efficacia delle classificazioni e che assottiglia, sfuma o ingloba i confini tra ciò che si ritiene “sano” e ciò che invece viene definito “malato”.

Saranno proprio i 4 ad ipotizzare l’esistenza ed a lanciarsi nella ricerca di un punto di EgoSintonia, sia nella malattia mentale che tra le proprie competenze e conoscenze; un confine, un tratto sottile nel quale normalità, psicopatologia e malattia psichiatrica si incontrano e che – se focalizzato – può permettere alla persona di vivere con maggior libertà la propria particolare attitudine.

Un lavoro decisamente ambizioso, Diversamente Sano, che consente di reinterpretare – e di porgere al lettore -ciascun comportamento in una nuova veste, anche alla luce delle ultime scoperte delle neuroscienze cognitive e delle ultime evidenze sociologiche ed epidemiologiche.

Un libro “estremo”, provocatorio, acuto, che rischia di farsi amare o detestare. Che sa parlare di confini e prova coraggiosamente a valicarli, che si radica nel contesto sociale contemporaneo per poterlo trascendere, che si impernia sulla psicopatologia per superarla: alla ricerca di una egosintonia smarrita, lungo il viaggio narrativo saranno le voci di 6 pazienti (immaginari?) a testimoniare la propria modalità di raggiungerla, attraverso il racconto della loro vita.

Diversamente Sano – Intervista all’autore Antonio Cerasa

Intervistatrice: Dottor Cerasa, come nasce questo libro?

 Dr. Antonio Cerasa: Diversamente Sano nasce da una semplice considerazione statistica. In branche mediche come la neurologia e la psichiatria, la ricerca scientifica da oltre 30 anni ha investito centinaia di miliardi di euro principalmente per la caratterizzazione biologica dei sintomi clinici. Questo sforzo mondiale ha prodotto un’enorme conoscenza, senza tuttavia contribuire sensibilmente al miglioramento della salute mentale dei pazienti. Diversamente Sano adotta il mood della corrente scientifica Americana “Psicologia Positiva”, per proporre un nuovo punto di vista in cui, accanto alla caratterizzazione biologica dei sintomi, si ritiene indispensabile un lavoro specialistico di potenziamento delle specifiche virtù e le capacità del paziente, poiché queste ultime possono contribuire a migliorare la qualità della vita e la riduzione dei sintomi.

Intervistatrice: Dunque un lavoro che appare provocatorio, oltre che decisamente interessante. Ci racconta quale aspetto di Diversamente Sano, a suo avviso, lo rende ulteriormente originale?

Dr. Antonio Cerasa: Il tratto distintivo di Diversamente Sano, rispetto alle migliaia di libri che parlano della malattia psichica, è che il saggio non è scritto in prima persona dall’autore, ma si sviluppa lungo più piani narrativi. La regia della comunicazione letteraria viene comunque lasciata ai pazienti, alle loro storie di vita, alle loro strategie di adattamento. Il piano (o meglio, tavolo) comunicativo dei  4 “commensali clinici” li vedrà invece offrire i rispettivi punti di vista e quindi le differenti competenze e lenti focali di osservazione, che tenderanno poi a convergere – con l’aiuto dei pazienti – nella ricerca comune dell’egosintonia.

Psicologia dello sport: ambiti e metodologie di intervento – Un seminario informativo a Palermo

Di queste profonde connessioni si occupa la Psicologia dello sport e dell’esercizio fisico, ambito scientifico che richiede allo psicologo una specifica professionalità e formazione, e che l’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana stimola e promuove attraverso l’istituzione di un apposito Tavolo tecnico, i cui risultati sono stati diffusi tra gli addetti ai lavori in occasione dell’incontro svoltosi a Palermo lo scorso 18 gennaio, nella sede del Coni.

 

Psicologia dello sport: le connessioni tra mente e corpo

Mens sana in corpore sano, recita una famosa frase, a enfatizzare lo stretto legame tra mente e corpo e il loro reciproco influenzamento in termini di salute (o malattia).
L’impatto positivo della mente sulla salute del corpo e, di converso, l’impatto positivo per un corpo “da tenere in forma”, da “allenare”, con cui “gareggiare” di una mente parimenti “allenata”, in grado di trainarlo verso obiettivi di successo.

Di queste profonde connessioni si occupa la Psicologia dello sport e dell’esercizio fisico, ambito scientifico che richiede allo psicologo una specifica professionalità e formazione, e che l’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana stimola e promuove attraverso l’istituzione di un apposito Tavolo tecnico, i cui risultati sono stati diffusi tra gli addetti ai lavori in occasione dell’incontro svoltosi a Palermo lo scorso 18 gennaio, nella sede del Coni.

Psicologia dello sport: seminario a Palermo

Il ruolo dello psicologo dello sport

Questo incontro si svolge a un anno e mezzo dall’istituzione del tavolo tecnico di Psicologia dello sport (TTPS) dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana (OPRS) fortemente voluto dal Presidente dell’OPRS Fulvio Giardina e che vede la partecipazione, tra gli altri del Coni nazionale– commenta Graziella Zitelli, Coordinatrice del Tavolo Tecnico di Psicologia dello sport e Consigliere OPRS – L’esigenza forte da cui nasce il Tavolo è di chiarire le competenze specifiche dello psicologo dello sport, da distinguere da altri professionisti che utilizzano competenze non psicologiche (ad esempio allenatori che svolgono impropriamente il ruolo di mental coach). Il nostro obiettivo è tutelare, da un lato, la professione e dall’altro il cliente e il suo benessere. Oggi la presenza dello psicologo definisce peraltro una squadra di qualità: la Federazione Italiana Gioco Calcio stabilisce che, per potersi definire squadra di calcio d’élite, una squadra deve prevedere quattro incontri con uno psicologo durante l’anno sportivo. Insomma, lo psicologo che si occupa di sport non può permettersi di improvvisare e deve essere a conoscenza degli spazi lavorativi che questo ambito apre, finalità principali di questo incontro informativo”.

E sulle specifiche competenze della figura dello psicologo, così come sui suoi confini, apre i lavori Fulvio Giardina, sottolineando che “lo sport coinvolge tutti, senza limiti di età, e che lo psicologo è chiamato a riconoscere i propri limiti, poiché non è un allenatore, e a programmare e valutare l’intervento sportivo”.

Approfondendo gli ambiti di applicazione propri della psicologia dello sport l’incontro ha quindi indagato le quattro aree di interesse per la disciplina, attraverso le relazioni dei componenti del Tavolo Tecnico.

Quando si pensa allo psicologo dello sport immediatamente si pensa al mental training; non negando l’importanza della componente mentale nella prestazione, tuttavia le aree di applicazione della psicologia dello sport sono varie – sottolinea Monica Monaco, psicologo, componente del TTPS – Tra queste è da ricordare la prevenzione, per esempio dei drop out dovuti alla demotivazione; esiste poi l’area della formazione, da rivolgere allo staff tecnico, ai dirigenti, o, nel caso di bambini, l’informazione indirizzata ai genitori. Per quanto riguarda infine l’intervento sulla prestazione, questa utilizza diverse tecniche psicologiche di potenziamento dell’atleta, senza perdere di vista il gioco di squadra”.

Prestazione dell’atleta e vittoria del gruppo come binomio indissolubile, a cui lo psicologo deve mirare, nel contempo massimizzando le risorse dell’atleta e analizzandone la personalità.

L’interesse della squadra è certamente prioritario, benché l’atleta debba trovare spazi per esprimersi – spiega Gabriele Grasso, psicologo, componente del TTPS – Ecco perché lo psicologo deve osservare scientificamente sia le relazioni all’interno della squadra sia tra gruppi, come tra la squadra e lo staff tecnico, al fine di modulare le variabili che influenzano la prestazione, come la gestione della leadership, che permette ai giocatori di raggiungere obiettivi condivisi e accrescere il senso di appartenenza alla squadra.”

Riguardo invece alle tecniche di mental training esse mirano a rafforzare le abilità che un giocatore deve possedere per effettuare una buona prestazione, come l’attenzione e la concentrazione sull’obiettivo, il controllo dell’arousal, la corretta gestione delle emozioni e le capacità di recupero dagli errori – continua Giuseppe Saia, psicologo, componente del TTPS – Tra queste si ricorda il training autogeno, le tecniche di respirazione e l’imagery, ovvero la visualizzazione del gesto in immaginazione, che facilita la messa in atto dello stesso”.

La mente quindi, come “guida” per prestazioni fisiche ottimali, ma anche come “cura” per il corpo, poiché la mente accelera il recupero fisico, anche dopo gravi infortuni, secondo quanto studiato dalla psicotraumatologia, altro ambito di interesse per lo psicologo dello sport.

La mente favorisce la guarigione, ma è vero anche che la ostacola, così la tensione nervosa agisce fisicamente anche su un arto dichiarato sano dal medico dopo un infortunio, e inoltre favorisce gli infortuni stessi– precisa Graziella Zitelli – A tal proposito le tecniche di respirazione risultano molto utili a prevenire gli infortuni”.

Un interesse per la prestazione, la cura, la valorizzazione del benessere psicofisico, delle aree funzionanti della persona che la Psicologia dello Sport rivolge a tutte le fasce di età e a tutte le condizioni psicofisiche (minori, anziani, disabili), attingendo alle nozioni della psicologia evolutiva, della psicogeriatria e dell’handicap, in stretta collaborazione con un team di professionisti come medici dello sport e nutrizionisti.

Una disciplina variegata che guarda alla prestazione, alla consapevolezza del movimento, al potenziamento delle parti sane del corpo, al gioco quale forma di piacere individuale ed espressione di appartenenza e di identità.

Un videogioco che aiuta a riflettere sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro

Il laboratorio “the Imagination, Computation and Expression” del Massachusetts Istitute of Technology, sezione “Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory, sotto la supervisione del professor Harrell, ha realizzato un nuovo videogioco chiamato Grayscale, per sensibilizzare i giocatori al problema del sessismo, delle molestie sessuali e tentativi di violenza sul luogo di lavoro sulla scia del recente movimento #MeToo.

 

Un videogioco sul sessismo e il mobbing sul posto di lavoro

Dal recente scandalo Wenstein che prometteva ruoli e fama alle giovani e inesperte attrici in cambio di favori e prestazioni sessuali, fino alle dichiarazioni delle attrici francesi come Catherine Deneuve sulla libertà degli uomini di poter corteggiare il genere femminile senza per questo essere etichettati come molestatori o peggio, hanno portato alla ribalta diverse problematiche relative ai rapporti uomo-donna, in particolare sul posto di lavoro.

Il laboratorio di tecnologia e intelligenza artificiale del Massachusset Istitute of Technology (MIT) ha recentemente perfezionato un videogioco, chiamato Grayscale, per simulare e quindi di conseguenza favorire la riflessione su situazioni di molestie sessuali, mobbing e iniquità di trattamento tra il genere maschile e femminile sul luogo di lavoro.

Il giocatore si trova a dover ricoprire il ruolo di impiegato per un’importante e prestigiosa società, la Grayscale dove però tutto è sui toni del grigio sia dal punto di vista dei rapporti con i colleghi sia dell’ambiente di lavoro.
Nello specifico il giocatore è un impiegato delle risorse umane che si interfaccia con il personale della società tramite messaggi e email.
Durante una mattinata di lavoro, riceve dei messaggi da parte di alcuni colleghi che gli segnalano, senza che ci sia alcuna ombra di dubbio, la presenza in ufficio di differenti atteggiamenti di sessismo, secondo il modello sociale di Fiscke e Glick (1996).

Nel loro modello sociale, Fiscke e Glick (1996) facevano riferimento alla nozione di sessismo ambivalente, che fa da quadro teorico al videogioco Grayscale, specificandone due tipi: uno “ostile”, una forma particolare e efferata di sessismo esplicito caratterizzato da discriminazione di genere e pesanti molestie sessuali, e un altro detto “benevolo”, più sottile e apparentemente positivo per il genere femminile, costituito dall’ errata credenza maschile per la quale è necessario aiutare la donna ritenuta non in grado o abbastanza brava da sola di occuparsi di “cose maschili” come aggiustare computer o amministrare un ufficio.

Quest’ultima forma anch’essa è oppressiva e discriminante perché fondata sulla credenza tale per cui il genere femminile sia poco adatto ad assumere ruoli di comando, di successo ma più esperto nell’occuparsi invece di “faccende emotive o di famiglia”.
Come impiegato alle risorse umane, il giocatore si trova a dover risolvere alcune questioni, a volte sottili di sessismo “benevolo”, riguardanti gli impiegati della società come il fatto che alcuni di loro si lamentano per la temperatura troppo bassa dei loro uffici o si lamentano e criticano l’abbigliamento di altri.

In particolare nell’email ricevuta, alcuni colleghi lamentano l’abbigliamento improprio e non adeguato alla politica della società di alcune colleghe: “le scrivo per segnalare che alcune donne si presentano sul posto di lavoro con un abbigliamento poco consono”.
A questo punto il “giocatore impiegato” deve stabilire se questo commento dei colleghi circa l’abbigliamento di alcune donne sia da approfondire perché effettivamente inappropriato e poco professionale o se invece gli sia stato segnalato in quanto potrebbe essere fonte di distrazione per alcuni colleghi uomini al lavoro.
Il giocatore, a questo punto, si trova a decidere se invitare tutti gli appartenenti alla società a seguire dettami del “dress code” previsti dalla società oppure avvisare le colleghe segnalate che qualcuno non ha gradito un loro modo di vestire che potrebbe fungere da distrazione per gli uomini.
Sulla base di alcuni messaggi, egli pertanto deve decidere se inviare email a tutto il personale o solo alle colleghe segnalate esibendo così una forma di sessismo “benevolo” chiedendo alle donne di vestirsi in modo diverso per non attrarre sguardi indiscreti.

Uno degli scopi del videogioco è di immergere il più possibile il giocatore all’interno della situazione e di riflettere sul fatto che spesso in questi casi non è sempre facile prendere una decisione in quanto ci si trova a dover anche prevedere le possibili conseguenze di ogni propria azione e scelta all’interno di un contesto professionale in cui sono coinvolte diverse persone sia di genere maschile che femminile.

È bene sottolineare che il giocatore dovrà prendere una decisione sulla base di commenti fatti da altri e non supportati da alcuna prova, considerando nel dettaglio se questi sono stati fatti sulla base di credenze sessiste da parte degli uomini o realmente le colleghe hanno violato le regole del “dress code” professionale.
È bene credere a tali commenti o indagare personalmente nel dettaglio la vicenda prima di inviare delle email senza all’inizio considerare i feedback degli altri colleghi?

L’idea innovativa del MIT è quella di costruire, sfruttando le moderne tecnologie e informatica e partendo da modelli delle scienze cognitive-sociali, degli strumenti utili e a portata di tutti, come i videogiochi, per aiutare le persone a interfacciarsi con le problematiche interpersonali più spinose e sottili, senza sfociare nell’opinione o nei pregiudizi comuni ma trovandosi ad impersonare un ruolo decisionale in ambito professionale.
In aggiunta a ciò è stato possibile per i ricercatori anche comprendere i processi decisionali dei soggetti partecipanti al gioco, come categorizzano e quali strategie di problem-solving applicano in questi contesti.

Mindfulness e carcere – Spunti di riflessione da Le mie prigioni di Silvio Pellico

Uno dei campi di applicazione della mindfulness ancora relativamente poco esplorato è il suo utilizzo con la popolazione carceraria. Al riguardo possiamo trovare degli interessanti spunti di riflessione nell’opera di una delle figure più importanti del panorama storico e letterario italiano: Silvio Pellico

Matteo Kettmaier – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Introduzione: i benefici della mindfulness

Con il termine mindfulness si intende uno stato mentale di attenzione consapevole tramite il quale giungere a un stato di lucidità maggiore riguardo i propri stati interni e l’ambiente circoscritto in relazione ad esso.

Originariamente mutuato da una tradizione meditativa buddista detta vipassana, nella pratica si traduce in una forma di meditazione, inizialmente guidata, che con l’esercizio la persona può attuare da sola. Numerosi sono i benefici della mindfulness, tanto da essere stata formalizzata in specifici protocolli clinici, oltre che aver trovato applicazione praticamente in tutti i campi di intervento psicologico.

Attualmente esiste una bibliografia sterminata al riguardo, in cui la mindfulness viene proposta come strumento per l’incremento dell’attenzione e del benessere emotivo in infanzia e in adolescenza, per la prevenzione delle ricadute nelle patologie da dipendenza, per affrontare la gravidanza, per la gestione della rabbia, per la gestione dello stress, per il benessere nella vita di coppia, oltre che, nella sua applicazione clinica, per la gestione di disturbi depressivi e ansiosi.

Ciò che propone la mindfulness è di rendere la persona maggiormente presente nel “qui ed ora” aumentando la capacità di distinguere tra emozione e pensiero e comprendere profondamente le relazioni che intercorrono tra queste due dimensioni della vita psichica. Così facendo è possibile scoprire, o riscoprire, le proprie risorse interne con le quali far fronte alle difficoltà quotidiane nonché a situazioni di disagio mentale più profonde.

L’applicazione della minduflness in carcere

Uno dei campi di applicazione della mindfulness ancora relativamente poco esplorato è il suo utilizzo con la popolazione carceraria.

Attualmente è stato proposto un progetto di intervento presso la casa circondariale di San Vittore a Milano. Tale progetto si propone di intervenire sullo stress e sul malessere insiti nella condizione di deprivazione della libertà al quale spesso si aggiungono fattori aggravanti quali: il sovraffollamento delle celle, la scarsità di attività praticabili, la condizione di incertezza riguardo ad eventuali ricorsi legali o richieste specifiche di assistenza. Va inoltre tenuto presente quanto spesso i rei provengano da situazioni di marcato disagio sociale e famigliare che, anche in soggetti che non presentano conclamati tratti di personalità antisociale, non permettono uno sviluppo socialmente adeguato delle capacità metacognitive e di lettura dei propri stati interni.

Un altro interessante documento sull’utilità della pratica meditativa in un carcere indiano è il documentario “Doing time doing Vipassana” reperibile cliccando qui.

La condizione-limite della reclusione carceraria si configura al contempo come una delle più difficili da accettare e una di quelle in cui è maggiormente necessaria la capacità di vivere e accettare il momento presente in quanto il pensiero costante della futura scarcerazione rischia di essere ulteriore fonte di frustrazione. Anche riguardo alla riduzione del rischio di recidiva la mindfulness può rivelarsi un eccellente strumento per la reintegrazione civica laddove associata a interventi specifici di riabilitazione.

Il ritorno nel mondo esterno, infatti, rischia di tradursi nel reinserimento in tessuti sociali criminosi qualora non sia stato effettuato un lavoro sulla motivazione del cambiamento e la consapevolezza dei meccanismi interni ed esterni risoltisi nel reato. Nel caso in cui tale rischio non sussista, colui che esce dal carcere si troverà comunque ad affrontare una realtà mutata con tutta la frustrazione che ne può derivare.

I prinicipi della mindfulness nell’opera di Silvio Pellico

Al riguardo possiamo trovare degli interessanti spunti di riflessione nell’opera di una delle figure più importanti del panorama storico e letterario italiano: Silvio Pellico, scrittore e patriota ad oggi parzialmente dimenticato. Nella sua opera più nota, Le mie prigioni, egli racconta la propria esperienza umana e spirituale durante il periodo di carcerazione presso la prigione dei Piombi di Venezia e la fortezza austriaca di Spielberg. Tale esperienza portò Silvio Pellico ad una profonda attività riflessiva segnata dalla riscoperta della fede cristiana.

Tra le righe di questo percorso esistenziale possiamo leggere un invito alla consapevolezza e all’accettazione del presente che richiama i principi della mindfulness.

Vediamo questo percorso nelle parole dell’autore:

Prima della mindfulness

In quell’assenza totale di distrazioni, l’affanno di tutti i miei cari, ed in particolare del padre e della madre allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile. (pag. 8)

In questo passaggio possiamo leggere la sofferenza del prigioniero nel momento in cui il suo pensiero è rivolto ad una realtà esterna sulla quale non può avere controllo. La “forza incredibile” del pensiero dei familiari sofferenti viene descritta quasi come un pensiero intrusivo, un’immagine vivida e dolorosa di una situazione riguardo alla quale non è possibile operare in alcun modo. Recentemente carcerato, Silvio Pellico brancola ancora in una confusione spirituale nella quale la risoluzione della sofferenza psichica sembra essere la “distrazione”. Come leggiamo nel passo seguente tale soluzione non è efficace.

Imparava ogni giorno un canto di Dante a memoria, e questo esercizio era tuttavia sì macchinale, ch’io lo faceva pensando meno a que’ versi che a’ casi miei. (pag. 18)

Tramite l’esercizio mnemonico c’è il tentativo di rimuovere i pensieri. Uno dei principi della mindfulness è proprio l’impossibilità di rimuoverli o sostituirli laddove ciò su cui si può operare è l’attenzione rivolta ad essi e la loro  interazione dinamica e reciproca sul tono dell’umore generale. L’esercizio è “macchinale”, occupa soltanto una parte del vissuto psichico lasciando libera la parte emotiva che rinforza in maniera biunivoca i pensieri dei “casi” riguardanti il dolore dei famigliari, l’incertezza del destino proprio e dei compagni dell’associazione dei “Federati” e la miseria della condizione attuale.

Religione e consapevolezza

La svolta positiva avviene con la ri-scoperta della religiosità che, nella specifica realtà della reclusione, non si presenta tanto nel suo aspetto precettistico quanto in quello di risorsa mentale, fede nella presenza di una realtà ultraterrena.

L’intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch’egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me (pag. 19)

Letto con la lente di un agnostico psicologismo, la presenza di Dio ci si presenta come “presenza a se stesso”, non una fuga maniacale dalla realtà che neghi le difficoltà presenti, bensì una capacità di stare nel momento, per quanto esso sia orribile. Tutto ciò è ancora più esplicito nel passo seguente:

Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie d’un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita. Io in meno d’un mese avea pigliato, non dirò perfettamente, ma in comportevole guisa, il mio partito. (pag.21)

Nelle parole del poeta piemontese troviamo espresse alla perfezione la scoperta della “dimensione dell’essere” contrapposta alla “dimensione del fare” la quale, completamente inibita dalle circostanze, non può che essere foriera di sofferenza. Tramite l’accettazione dell’impossibilità di usufruire delle “gioie del mondo” è possibile lavorare sulla “coscienza” e trovare un equilibrio, non perfetto, ma sufficientemente confortevole alla sopportazione. Il “vivere libero” rimane preferibile ma il continuo pensiero rivolto ad esso è doloroso, produce una dissonanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere o meglio, che si vorrebbe che fosse. Si potrebbe citare al riguardo anche il celebre passo dell’Amleto shakespeariano:

Amleto: Oh Dio! Io potrei essere confinato in un guscio di noce e credermi re di un spazio infinito… se non fosse che faccio brutti sogni.

Guildestern: I quali sogni sono appunto ambizione: infatti la sostanza stessa degli ambiziosi non è altro che l’ombra di un sogno.

Amleto: Il sogno stesso non è altro che un’ombra. (pag 135)

Se nella finzione teatrale il pensiero diventa manifestazione di fantasmi che si presentano ai sensi per reclamare vendetta, nelle memorie di Silvio Pellico esso è groviglio di emozioni dolorose legate da un feroce e totalizzante senso di impotenza. La risoluzione interiore avviene nel segno di un’esperienza della religiosità come risorsa che infonde un senso di autoefficacia anche laddove quasi ogni agentività è impedita:

Il mio impegno di acquistare una calma costante non movea tanto dal desiderio di diminuire la mia infelicità, quanto dall’apparirmi brutta, indegna dell’uomo, l’inquietudine. Una mente agitata non ragiona più: avvolta fra un turbine irresistibile d’idee esagerate, si forma una logica sciocca, furibonda, maligna: è in uno stato assolutamente antifilosofico, anticristiano. (pag. 49)

Non ancora mindfulness

Nonostante la scoperta di una strategia di coping adeguata, Silvio Pellico soffrirà ancora di ricadute in stati depressivi e ansiosi.

Di particolare interesse, ai fini del nostro discorso, quello che lui reputa la minaccia più grande alla ricerca della serenità nello spazio della cella, un’insidia così perniciosa da ispirargli pensieri di suicidio: le zanzare.

[…] il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n’era coperto, e l’ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per la finestra e facienti un ronzio infernale. Le punture di quegli animali sono dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, e si dee avere la perenne molestia di pensare a diminuirne il numero, si soffre  veramente assai e di corpo e di spirito. Allorché, veduto simile flagello, ne conobbi la gravezza, e non potei conseguire che mi mutassero di carcere, qualche tentazione di suicidio mi prese, e talvolta temei d’impazzare (pag 77)

Nella pratica della mindfulness è centrale il lavoro sul corpo: mediante la pratica del bodyscan ed esercizi di focalizzazione sul respiro, la meditazione porta ad una riconnessione con il proprio organismo come sede di sensazioni capaci di rivelare l’emozione del momento. La persecuzione delle zanzare nei confronti del carcerato che, ricordiamolo, giunge a pensieri coerenti con i principi della mindfulness ma non mette effettivamente in pratica il protocollo vero e proprio, ha un effetto talmente scompensante da indurre una disperazione così intollerabile da indurre pensieri disgreganti.

In questo paragrafo possiamo vedere la fragilità di una modalità di pensiero assimilabile alla mindfulness alla quale è mancato il fondamentale lavoro di integrazione delle esperienza somatiche, emotive e di pensiero. Nei casi di applicazione della mindfulness a pazienti sofferenti di dolore cronico il focus sull’aspetto di accettazione della condizione di sofferenza è centrale, Silvio Pellico arriva ad accettare la privazione della libertà mediante un lavoro di riflessione individuale che tralascia però la dimensione del corpo. Quando questo viene attaccato egli sembra non trovare le risorse per farvi fronte e l’intera struttura mentale sembra crollare verso la disgregazione definitiva della follia o la risoluzione suicidiaria.

Conclusioni

Sarebbe una forzatura vedere in Silvio Pellico un autentico precursore della mindfulness, come detto sopra, Le mie prigioni presenta un percorso di consapevolezza che giunge a concepire l’importanza dell’attenzione consapevole e della capacità di vivere nel momento presente ma senza il fondamentale lavoro sulla dimensione corporale.

E’ interessante, comunque, tenere presente il suo contributo come esempio di trait d’union tra tradizione occidentale cristiana e quelle filosofie orientali incentrate sulla disidentificazione di corpo-emozione-pensiero alle quali la mindfulness è ispirata.

La testimonianza di Silvio Pellico è ricca di spunti di riflessione attualissimi che spaziano in vari campi della dimensione pubblica e privata dell’esistenza. Uno di questi, che potrebbe trovare un’applicazione pratica, è quello della salute mentale nelle carceri. Tanto da un punto di vista strettamente umano, quanto da un punto di vista pragmatico, Pellico ci offre una chiave per affrontare il problema della condizione carceraria e della riabilitazione con tutti i limiti insiti nella cultura di riferimento della sua epoca.

Oggi, abbiamo i mezzi per progettare interventi strutturati e tra questi la mindfulness potrebbe dare dei risultati.

Amare la matematica rende i bambini più bravi?

La ricerca condotta su bambini delle scuole elementari, dai ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università di Stanford, ha scoperto che un approccio positivo alla matematica migliora la funzionalità dell’ippocampo (il centro cerebrale della memoria) durante l’esecuzione di compiti numerici.

 

L’interesse per la matematica correla con performance scolastiche migliori

Gli insegnanti hanno riscontrato da sempre performance migliori nei bambini che mostravano un maggior interesse per la matematica e che nel contempo si percepivano come abili matematici, tuttavia non era chiaro se questo fosse dovuto semplicemente a un’intelligenza superiore o ci fosse un’altra spiegazione.
Il nuovo studio ha mostrato una correlazione tra atteggiamento propositivo e prestazioni matematiche migliori da parte dei bambini, al netto del QI (quoziente intellettivo) e di altri possibili fattori interferenti.

L’atteggiamento è davvero importante, sulla base dei nostri dati un orientamento positivo nei confronti della matematica è importante tanto quanto il quoziente intellettivo” ha detto Lang Chen, autore principale dello studio.

Precedentemente alla ricerca, gli studiosi ipotizzavano che i centri di ricompensa presente nel cervello guidassero lo stretto legame esistente tra atteggiamento individuale e successo scolastico, in altre parole: individui con atteggiamenti migliori nei confronti dello studio erano più abili come studenti in quanto giudicavano l’attività gratificante o motivante. Sorprendentemente lo studio ha mostrato invece che il forte interesse per la disciplina e la percezione di essere capaci generavano maggiori abilità mnestiche e un coinvolgimento più efficiente delle capacità di risoluzione dei problemi.

I ricercatori hanno somministrato una serie di questionari a 240 bambini con un’età compresa tra i 7 e i 10 anni raccogliendo informazioni riguardo dati demografici, QI, capacità di lettura e di memoria di lavoro. L’abilità matematica dei bambini è stata misurata utilizzando prove riguardanti la conoscenza dei fatti aritmetici e la capacità di risolvere problemi. I bambini hanno anche risposto a domande circa il loro atteggiamento e interesse nei confronti della matematica e delle altre materie e riguardo la percezione delle loro abilità matematiche. Ai genitori è stato chiesto di descrivere le caratteristiche comportamentali ed emotive dei figli e il loro livello di ansia generale e specifica durante l’esecuzione dei compiti matematici.

I risultati mostrano che le prestazioni matematiche sono correlate ad un atteggiamento positivo nei confronti della disciplina anche dopo aver controllato statisticamente il QI, la memoria di lavoro, l’ansia generale e specifica e l’atteggiamento generale nei confronti dello studio. In linea generale il team ha potuto affermare che i bambini con un approccio negativo nei confronti della matematica raramente ottenevano buoni risultati nella materia, mentre quelli con atteggiamenti fortemente positivi ottenevano una serie di risultati gratificanti.

Avere un interesse per la matematica agisce sulla memoria e il sistema di apprendimento

Dall’analisi delle scansioni cerebrali, ottenute dalla risonanza magnetica (MRI) di parte del campione, gli scienziati hanno scoperto che quando un bambino risolveva un problema matematico, il suo atteggiamento positivo era correlato all’attivazione dell’ippocampo, un importante centro di memoria e apprendimento del cervello. Nessuna relazione si è invece osservata tra l’attivazione dei centri di ricompensa del cervello, tra cui l’amigdala e lo striato ventrale, e un approccio positivo del bambino. Le immagini MRI ottenute suggeriscono che l’ippocampo media il legame tra atteggiamento positivo e recupero efficiente dei fatti aritmetici dalla memoria, che a sua volta è associato a migliori capacità di problem solving.

Ritengo che sia davvero importante e interessante pensare che avere un atteggiamento positivo agisce direttamente sulla memoria e sul sistema di apprendimento. Alla luce dei dati, riteniamo che la relazione tra atteggiamento positivo e performance matematiche sia reciproca e bidirezionale: un buon atteggiamento apre le porte a risultati elevati, i quali aumentano la motivazione favorendo un atteggiamento ancora più positivo. In questo modo si crea un circolo di apprendimento” ha detto Chen.

I risultati potrebbero fornire una nuova strada per migliorare il processo di apprendimento e il rendimento scolastico come affermato da Menon, autore senior dello studio: “Il nostro nuovo lavoro suggerisce che le credenze dei bambini sulle discipline scolastiche e la loro percezione di auto-efficacia potrebbero essere utilizzate per apprendere con un approccio diverso e magari più efficace. Questi risultati appaiono importanti anche per i docenti e gli insegnanti, che dovrebbero mirare a trasmettere agli alunni la passione per la loro disciplina instillando nei bambini la convinzione di poter essere bravi in quel campo, promuovendo così nell’alunno un atteggiamento positivo e favorendo il processo di apprendimento”.

L’utilizzo del biofeedback per fronteggiare una crisi lavorativa

La ricerca scientifica svolta da Janka e Al. ha indagato l’efficacia di un training di biofeedback rivolto a un gruppo di crisis manager per la gestione dello stress dovuto a situazioni di crisi lavorativa.

Mariapia Ghedina

 

Cosa si intende con crisi lavorativa

La crisi lavorativa è un avvenimento esogeno o endogeno, improvviso e complesso, di tale virulenza da rischiare di pregiudicare la business continuity di un’azienda. Uno dei possibili esempi di una crisi lavorativa riguarda gli investimenti sbagliati in cui vengono assunte decisioni sottostimando i rischi e andando quindi in contro a conseguenze nefaste.

L’approccio “classico” degli anni 1980-2000 porta a considerare la crisi aziendale come un “male inevitabile ma necessario”, che assicura la selezione darwiniana delle organizzazioni.

Quando si verifica una crisi lavorativa, al fine di contrastare un eventuale crollo, diviene necessaria una grande tempestività nella risposta operativa e nella gestione dei flussi di comunicazione interni all’organizzazione.

Il ruolo del crisis manager

Alla fine del secolo scorso nasce negli Stati Uniti la figura professionale definita “Crisis Manager”, sempre più diffusa anche in Italia, che si occupa di gestire le situazioni delicate e complesse che si possono creare nelle aziende. Uno dei suoi ruoli principali riguarda la gestione dei rapporti con i media e il contenimento dell’effetto nefasto che una “perturbazione” può avere sulla credibilità aziendale.

Questa figura professionale deve garantire la massima flessibilità d’orario in modo da poter intervenire immediatamente qualora sia necessario.

Non esiste un percorso formativo unico per il crisis manager: può essersi istruito nell’ambito dell’ingegneria, della comunicazione o del management; tuttavia l’esperienza acquisita sul campo è in molti casi più importante del percorso di studi. Un crisis manager deve avere una grande capacità di adattamento, essere un bravo leader e avere ottime abilità di decisionali.

La crescita aziendale è fortemente legata ai tipi di crisi che il crisis manager si troverà a gestire e alle strategie utilizzate per reagire a tali emergenze.

Quando all’interno di un’organizzazione si verifica un’emergenza, le responsabilità che ricadono sul crisis manager, sommate alla rapidità necessaria per intervenire e per prendere decisioni, implicano livelli di stress altissimi.

Training di biofeedback per crisis manager

La ricerca scientifica svolta da Janka e Al. ha indagato l’efficacia di un training di biofeedback rivolto a un gruppo di crisis manager per la gestione dello stress. In questo studio è stata monitorata l’attività elettrodermica durante esercizi finalizzati all’acquisizione del controllo dell’attivazione simpatica, sia in condizioni di riposo, sia durante l’esposizione a fattori di stress visivi, acustici e cognitivi somiglianti alle reali situazioni di crisi. Il programma comprendeva nove sessioni di quarantacinque minuti per sei settimane.

Il training di biofeedback utilizzato si è dimostrato utile per prevenire l’overarousal autonoma nei momenti più difficili e nel facilitare il ritorno allo stato di attivazione di partenza. Si tratta di una tecnica che permette di aumentare la capacità allostatica, portando a conservare o riguadagnare l’equilibrio interno dell’organismo, anche quando le sfide situazionali sono estreme.

Il controllo della propria psicoattivazione appreso grazie al biofeedback non solo può ridurre il livello di stress soggettivo, ma anche la vulnerabilità alle malattie legate allo stress; può inoltre limitare il declino delle prestazioni professionali, garantire un’adeguata prontezza in caso d’imprevisti e migliorare la gestione del rischio.

Nelle interviste non strutturate condotte al termine del training, la maggior parte dei partecipanti ha dichiarato che l’obiettivo di diminuire lo stress era stato effettivamente raggiunto e che in numerose situazioni della quotidianità aveva utilizzato la modalità di rilassamento appresa.

Tramite la scala dello stress percepito, è stato inoltre valutato lo stress soggettivo: è diminuito in modo stabile e significativo nei manager che hanno ricevuto le nove sessioni di biofeedback. Tale cambiamento è rimasto stabile al follow-up avvenuto due mesi dopo il training.

I risultati indicano quindi che l’utilizzo del biofeedback nella gestione delle crisi lavorative è un metodo efficace per diminuire i livelli di stress, per contrastare la diminuzione delle proprie capacità e per prevenire le patologie connesse allo stress stesso oltre che, naturalmente, per fronteggiare le difficoltà aziendali.

Si può pertanto concludere che il biofeedback può costituire un metodo utile da inserire nei programmi di gestione dello stress rivolti ai crisis manager.

Piccoli crimini coniugali (2017) – Cinema e Psicologia

Piccoli crimini coniugali è un film del 2017 diretto da Alex Infascelli, tratto dalla’omonima piece teatrale di Éric-Emmanuel Schmitt, interpretato da Sergio Castellitto e Margherita Buy.

 

Piccoli crimini coniugali – La trama

A seguito di un incidente domestico Elia (Sergio Castellitto), scrittore di gialli, perde la memoria. La moglie (Margerita Buy) cerca di fargliela tornare. Ricostruisce la vita con lui, ma la verità non è mai quello che sembra. Il film Piccoli crimini coniugali è un gioco al massacro tra i due. Chiusi nella loro casa si confrontano e si scontrano, celebrano una redde rationem della loro vita insieme costruito sul parlato. Emergono molte ombre e pochi ricordi di affetti e tenerezze scambiate.

La supposta mancanza della memoria (Castellitto spaesato, sembra non ricordare nulla: né della casa, né del matrimonio, né di se stesso e neanche dell’opinione che la consorte ha di lui) interroga per rievocare, per ricostruire significati di comodo che vengono sgretolati dall’emergere di pensieri ed emozioni che affiorano dai più intimi recessi dell’animo dei protagonisti. I due sprofondano, si inabissano per far riemergere una danza armonica di coppia che si è trasformata nel tempo, con il passare degli anni, in un vorticoso avvinghiarsi su menzogne, colpe, verità soggettive, accuse reciproche e violenze. Lui non ha perso la memoria, lei lo ha colpito mentre era seduto sulla sua scrivania assorto nelle sue letture. Via via che si svela l’accaduto si manifestano le crepe e la narrazione si apre alle dinamiche di coppia.

Tra amore e rancore

Un rinfacciarsi di responsabilità, disconnessioni, maltrattamenti, trascuratezze, mancati riconoscimenti, uno spaccato della quotidiana vita di coppia che si snoda tra amore e rancore, tra perdono e colpa, tra insoddisfazioni e attrazioni, tra frustrazioni, delusioni, promesse non mantenute e rinunce.

Cosa tiene insieme, qual è il collante di una coppia logora da anni caratterizzati da tali dinamiche?

Il ricordo dell’innamoramento, la rievocazione di quel tempo perduto, così bello, così straniante, in cui non c’è memoria ma solo presente, un tempo eterno che sembra farci volare sopra il mondo, sospesi come in un famoso quadro di Chagall. Il confronto contundente, l’aggressività e la violenza dell’età matura si dissolve nel ricordo nostalgico dell’incontro e dell’innamoramento, di questo momento unico e irripetibile.

Un film crudo, Piccoli Crimini Coniugali, finanche cinico, in cui ci si può identificare e ci si può rispecchiare nell’uno e nell’altro protagonista di volta in volta, sicuramente un film che ci fa riflettere sulle dinamiche di coppia e ci interroga sul nostro modo di relazionarci.

 

PICCOLI CRIMINI CONIUGALI – Il trailer del film:

La corteccia visiva – Introduzione alla Psicologia

Le immagini sono decodificate inizialmente dal talamo e poi inviate alla corteccia visiva primaria o V1. Oltre all’area V1 primaria, vi sono aree secondarie che tramite l’area V2 ricevono e decodificano specifiche caratteristiche degli stimoli.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Visione e corteccia visiva

Negli esseri umani la visione è il senso più sviluppato, infatti gran parte delle aree cerebrali sono implicate nel riconoscimento e nella codifica degli stimoli visivi.

Gli stimoli visivi sono raccolti da aree della corteccia occipitale in base a caratteristiche diverse. Gli stimoli visivi provengono dalle retine dei due occhi, dove sono situati i recettori visivi: i coni, implicati nella ricezione della luce diurna e i bastoncelli, imputati alla luce notturna. Tali stimoli sono trasmessi da ciascun nervo ottico fino al cervello, dove si trasformano in immagini in movimento, multicolori, riconoscibili e rievocabili dalla memoria. Le immagini sono decodificate inizialmente dal talamo e poi inviate alla corteccia visiva primaria o V1. Oltre all’area V1 primaria, vi sono aree secondarie che tramite l’area V2 ricevono e decodificano specifiche caratteristiche degli stimoli.

Il cervello consente di vedere gli oggetti come sono realmente malgrado le deformazioni dovute alla prospettiva, alla distanza o ad altri fattori: la nostra mente integra le informazioni con la memoria, con le immagini corrette già incontrate nell’arco della vita. E i continui movimenti degli occhi sono indispensabili per ottenere una percezione attendibile della profondità, garantendo il perdurare dell’immagine. La vista, dunque, è molto più di una sommatoria d’informazioni raccolte dagli occhi, essa richiede un patrimonio di informazioni precedentemente acquisito anche attraverso altri organi di senso.

Struttura della corteccia visiva

La corteccia visiva primaria (V1), è nota anche come koniocortex o corteccia striata, è localizzata attorno e nella scissura calcarina del lobo occipitale. L’area V1 è altamente specializzata nel processamento dell’informazione riguardante la forma e la collocazione di oggetti statici o in movimento nel campo visivo.

La corteccia visiva primaria è anatomicamente equivalente alla diciassettesima area di Brodmann, (BA17). Le aree visive secondarie (V2-V3-V4) o extra-striate sono formate dall’area di Brodmann 18 e dall’area di Brodmann 19. Esiste una corteccia visiva per ogni emisfero cerebrale. La corteccia visiva dell’emisfero sinistro riceve segnali riguardanti il campo visivo di destra, e la corteccia visiva di destra riceve l’informazione proveniente dal campo visivo di sinistra.

L’area V1

L’area V1 di ogni emisfero riceve informazioni direttamente dal proprio nucleo genicolato laterale ipsilaterale. Le proprietà di risposta della maggior parte dei neuroni, man mano che si procede nello studio di V1 cambiano notevolmente, dalla sensibilità a barre, o linee, di diverso orientamento, o in movimento in diverse direzioni, e la specializzazione nel colore. Inoltre l’organizzazione in moduli e colonne che si ripetono, sembra essere una configurazione comune a tutte le aree visive corticali e sembra essere funzionale per rappresentare uno stimolo multidimensionale su una regione della corteccia dibimensionale. Le connessioni che si stabiliscono all’interno di V1 trasformano le informazioni in modo tale che la maggior parte delle cellule degli strati più esterni rispondono in modo più selettivo a stimoli nettamente più complessi.

L’area V2

L’area V2, nota anche come corteccia pre-striata, è la seconda area principale nella corteccia visiva e la prima regione all’interno dell’area associativa visiva. Riceve informazioni dall’area V1, sia dirette sia tramite il pulvinar, e invia forti connessioni alla V3, V4 e V5.

Anatomicamente, la V2 è divisa in quattro quadranti, che forniscono una mappa completa del campo visivo. Funzionalmente, la V2 ha molte proprietà in comune con la V1. Molti dei neuroni di quest’area sono regolati da caratteristiche visive semplici come l’orientamento, la frequenza spaziale, le dimensioni, il colore e la forma. Le cellule in V2 rispondono anche a varie caratteristiche complesse, come l’orientamento di contorni illusori e la disparità binoculare.

L’area V3

L’area V3 si trova di fronte alla V2 e si assume possa avere due o tre suddivisioni funzionali aventi diverse connessioni con differenti aree. La V3 dorsale è normalmente considerata come parte della corrente dorsale e riceve input dalla V2 e dall’area V1. Essa proietta alla corteccia parietale posteriore e può essere anatomicamente localizzata nell’area di Brodmann 19. La V3 ventrale, invece, ha connessioni più deboli con l’area V1, ma proietta informazioni alla corteccia temporale inferiore. Le V3 è deputata alla percezione della forma degli oggetti in movimento.

L’area V4 e V5

L’area V4 è una delle aree visive nella corteccia extrastriata. Essa è localizzata, nelle scimmie, anteriormente alla V2 e posteriormente all’area inferotemporale posteriore (PIT). Comprende almeno quattro regioni: V4 dorsale sinistra e destra e V4 ventrale sinistra e destra. Non è ancora conosciuta l’anatomia della V4 negli umani.

La V4 è la terza area corticale nel sistema ventrale, che riceve segnali dalla V2, invia connessioni alla PIT, impulsi alla V1, specialmente dall’area centrale. Inoltre ha deboli connessioni con la V5 e la circonvoluzione prelunata dorsale (DP).

L’area V5 è essenziale per elaborare informazioni relativa il movimento, mentre la V4 è deputata soprattutto ai colori, codificati secondo meccanismi di opposizione cromatica.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicologi: perché la formazione di ASPIC fa la differenza

Edoardo Giusti: “nella nostra scuola mettiamo al centro la ricerca scientifica insieme a molta pratica e orientamento al lavoro”

A.S.P.I.C., Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità, è un ampio gruppo fondato nel 1988 da Edoardo Giusti e Claudia Montanari, che attraverso le sue diverse consociate si occupa di diversi ambiti: psicologia (Aspic Psicologia), psicoterapia (Scuola di Specializzazione), counseling dell’età adulta e dell’età evolutiva (Scuola Superiore del Counselling, Università Popolare del counselling, Aspic per la Scuola), orientamento scolastico e professionale (Aspic Studenti), servizi per l’occupazione (Aspic Lavoro). Cuore di tutte le attività c’è la ricerca scientifica (Aspic Arsa). La sua offerta formativa è ampia.

 

Scuola di specializzazione in psicoterapia pluralistica integrata: ultimi giorni per iscriversi.

Il Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia Pluralistica Integrata offerto da Aspic offre una formazione basata sulla ricerca scientifica applicata a prova di evidenza e sul metamodello ASPIC ARSA. La scuola consente di conseguire il titolo di psicoterapeuta per trattamenti in setting individuale e di gruppo e, contemporaneamente, acquisire competenze specialistiche in psicologia clinica di comunità per interventi di salutogenesi, formazione, sviluppo ed empowerment nei gruppi, nelle organizzazioni, nelle comunità. “Quella di Aspicracconta Edoardo Giusti, fondatore di Aspic – è una scuola che offre insieme ricerca e molta pratica clinica, un training personale anche nel luogo di appartenenza, nuove prospettive di carriera, competenze utili nel mercato, affinità del modello alle proprie attitudini e caratteristiche personali, prestigio della scuola”.

Ci sono ancora alcuni posti disponibili per l’anno accademico 2018, che avrà inizio il 24 febbraio 2018 e si svolgerà in 10 weekend mensili durante l’anno. L’iscrizione si può effettuare anche durante l’abilitazione professionale, purché il titolo sia conseguito entro la prima sessione utile dall’inizio effettivo del corso. La specializzazione può essere svolta per il 50% nella propria sede di appartenenza. Sono disponibili alcune borse di studio parziali, la possibilità di svolgere delle collaborazioni professionali remunerate durante il ciclo formativo e la pubblicazione delle tesi più meritevoli.

Per informazioni:

ASPIC – Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica di Comunità e Psicoterapia Umanistica Integrata

Via Vittore Carpaccio, 32 – 00147 Roma

Tel. 065413513 – 065926770 – Tel./fax 065926763

Sito web: www.scuolaspecializzazionepsicoterapia.it – link al sito

Master in counseling psicologico e tecniche di coaching

Il Master annuale intensivo teorico-esperienziale, riservato esclusivamente a Psicologi, a laureandi e laureati in Psicologia (laurea triennale o specialistica/magistrale), fornisce le competenze e gli strumenti operativi fondamentali per la gestione di una relazione d’aiuto, dall’assessment iniziale alla conclusione dell’intervento di sostegno, basata sull’efficacia relazionale qualitativa.

Inizio corso (II Edizione): 27-28 gennaio 2018, sede: Roma.

Per info: tel. 06.51435434 – e-mail: [email protected]

Sito: www.aspicpsicologia.org – link al sito

ASPIC per la Scuola – Via Macinghi Strozzi, 42/A

Per saperne di più: link al sito

Corso gratuito di preparazione all’esame di stato professione psicologo – sessione di giugno 2018 a Roma e presso sedi    

Il Corso intende fornire strumenti, metodi e strategie di approccio all’Esame di Stato per una preparazione mirata e approfondita, ritagliata sulle peculiarità di ciascuna prova (include: teoria e didattica, esercitazioni pratiche e condivisione in gruppo, follow-up).

I partecipanti al Corso possono effettuare 3 colloqui gratuiti di orientamento ed empowerment per lo sviluppo professionale (info tel. 347 9289119).

Corso attivato anche presso le sedi territoriali autonome ASPIC in altre città (può essere prevista una quota di iscrizione).

Inizio corso: 23 febbraio 2018 (6 lezioni per un totale di 18 ore)

Sede: Roma – ASPIC Via Vittore Carpaccio, 32

Per info: tel. 347.9289119 – tel. 338.3953153 – [email protected]                                                

L’Identità biculturale: una risorsa per la creatività e il benessere psicologico

Il risultato di questa esposizione a stimoli cross-culturali è un largo aumento di individui con identità biculturale, persone che hanno internalizzato almeno due culture. Gli individui biculturali non fanno necessariamente parte di minoranze etniche, ma sono per lo più immigrati, residenti temporanei, rifugiati o semplicemente individui esposti ad una seconda cultura oltre a quella di appartenenza, e le hanno interiorizzate entrambe (Benet-Martínez & Haritatos, 2005; Nguyen & Benet-Martínez, 2007, 2010).

Giulia Loverde, Open School Studi Cognitivi di Modena

 

La migrazione è uno degli argomenti di attualità maggiormente discussi degli ultimi anni. L’opinione pubblica si sta formando pareri diversi su ciò che la stampa e il mondo politico riportano sull’argomento e i fenomeni di discriminazione e marginalizzazione degli immigrati stanno diventando sempre più numerosi e allarmanti. È altrettanto vero che un numero sempre maggiore di individui è esposto a più stimoli culturali, grazie alle nuove tecnologie e ad un contatto maggiore con culture diverse. Ma cosa sostiene la ricerca scientifica? E quali sono i risvolti per l’identità?

La migrazione è un fenomeno complesso che coinvolge diversi aspetti ed è indagabile a vari livelli. Inoltre numerosi studi affermano che il contesto in cui si realizza riveste un ruolo importante nel processo. La branca della psicologia che studia questi fenomeni è la psicologia sociale mentre, in un’ottica orientata all’individuo, ha fornito il suo contributo anche la psicologia clinica. Ma cosa accade quando un individuo migra dal suo paese verso un paese ospitante o più semplicemente è esposto a stimoli di carattere cross-culturale?

L’acculturazione e i suoi esiti

Vari fattori entrano in gioco in questo cambiamento che, non è solo uno spostamento fisico/di luogo, ma ha conseguenze psicologiche e relazionali. Sia gli individui migranti che gli individui ospitanti, hanno aspettative, credenze, valori diversi e compiono valutazioni su se stessi e sugli altri contribuendo alla creazione di differenti dinamiche tra i gruppi e differenti esiti per gli individui.

Quando in psicologia sociale si parla di acculturazione ci si riferisce a quel fenomeno che si verifica quando individui e gruppi di culture differenti si trovano in una condizione continuativa di contatto ravvicinato, con conseguenti cambiamenti negli schemi culturali originali di uno o di entrambi i gruppi da un lato, e cambiamenti per gli individui che ne fanno parte, dall’altro (Redfield, Linton e Herskovits, 1936). È importante notare che la natura del processo è bidirezionale: i cambiamenti avvengono sia per la cultura ospitante che riceve la migrazione, sia per la cultura di origine dei soggetti migranti (Berry, Sam, 1997). Oltre al livello collettivo riconosciamo un livello individuale: i processi di acculturazione implicano, infatti, trasformazioni non solo nelle culture dei gruppi che si confrontano, ma anche cambiamenti che riguardano la sfera psicologica degli individui (Graves, 1967).

I fattori in gioco nei processi di acculturazione sono vari e si distinguono in:
– collettivi: la condizione socio-economica del paese ospitante e quella del paese di origine, la situazione politica del proprio paese e di quella di arrivo, la lingua e la religione di entrambi i paesi coinvolti, gli atteggiamenti del paese ospitante verso la migrazione, il tipo di popolazione e i gruppi etnici presenti nel territorio ospitante, la rete sociale su cui il gruppo di acculturazione può contare nel contesto ospitante;
– individuali: le caratteristiche demografiche (sesso, titoli di studio, età) e culturali (la religione, la lingua), i fattori di natura psicologica (la motivazione che spinge alla migrazione, le aspettative riguardo al cambiamento), le strategie di coping utilizzate, le risorse individuali e sociali impiegate per affrontare il cambiamento, il grado di contatto con la cultura ospitante, il livello di mantenimento della propria cultura di origine, i livelli di discriminazione percepita, la percezione di vicinanza/lontananza con la cultura ospitante dalla cultura di origine.

La letteratura ha indagato gli effetti generati dalla diversa combinazione di questi fattori riscontrando che l’individuo può incorrere in: modificazioni comportamentali a seguito dell’apprendimento della nuova cultura (abitudini alimentari, apprendimento delle nuove norme sociali e linguistiche) o alla perdita della cultura di origine, e ai conflitti che possono generarsi tra i gruppi di culture diverse; processi di identificazione culturale (cambiamento di atteggiamento nei confronti della propria cultura etnica ed identificazione con la nuova cultura ospitante) ed anche difficoltà di adattamento psicologico e socio-culturale (conseguenze psicopatologiche: depressione, stress, disturbi psicotici, stress post-traumatico, scarsi livelli di autostima, difficoltà di integrazione e relazionali).

La letteratura e le ricerche si sono spesso concentrate sugli esiti negativi che questo processo può comportare, individuando i fattori che possono contribuire al malessere individuale, ai conflitti, allo stress da acculturazione e alle difficoltà di adattamento alla nuova cultura. Ma essere appartenenti a più culture diverse, ha solo riscontri negativi o potrebbe avere dei risvolti positivi per l’individuo? E quando, in questa condizione, si crea benessere per l’individuo?

Identità biculturale

Dal 1970, la migrazione internazionale è raddoppiata a livello mondiale. In aggiunta, le innovazioni tecnologiche hanno implementato la possibilità di costruire legami cross-culturali e di venire a contatto con diverse culture nel mondo mentre il numero delle famiglie e le coppie multiculturali è in crescita.

Il risultato di questa esposizione a stimoli cross-culturali è un largo aumento di individui biculturali, persone che hanno internalizzato almeno due culture. Gli individui biculturali non fanno necessariamente parte di minoranze etniche, ma sono per lo più immigrati, residenti temporanei, rifugiati o semplicemente individui esposti ad una seconda cultura oltre a quella di appartenenza, e le hanno interiorizzate entrambe (Benet-Martínez & Haritatos, 2005; Nguyen & Benet-Martínez, 2007, 2010). Un chiaro esempio di tali individui sono gli immigrati di seconda generazione, i figli delle famiglie migranti, i quali nati e vissuti nel paese ospitante per tutta la loro vita, sono stati esposti anche alla loro cultura di origine in famiglia o nei gruppi sociali. L’acquisizione di una mente multiculturale può avvenire, oggi più che mai, attraverso svariate e molteplici forme e modalità.

L’interiorizzazione di schemi culturali anche molto distanti e incongruenti tra loro avviene, infatti, con maggior frequenza e la consapevolezza e individualità della loro negoziazione dà origine ad ampie differenze interindividuali (Nguyen e Benet-Martínez, 2007).
Gli individui biculturali sono in grado di abbracciare i valori sia della cultura ospitante che di quella di origine utilizzando strategie di coping di entrambe le culture e compiendo scambi interculturali positivi. È parte della loro identità l’accettazione di entrambe le culture che li aiuta a funzionare appropriatamente in contesti multiculturali.

La biculturalità, in letteratura è stata spesso studiata come la capacità di adottare la cultura ospitante e di mantenere al contempo la propria cultura di origine. Questo approccio non ha tuttavia considerato la differenza tra l’adozione dei comportamenti più tipici di una cultura e il reale senso di appartenenza nei confronti di essa e la variabilità, quindi, tra individui biculturali (Nguyen e Benet-Martínez, 2007; Schwartz e Unger, 2010).

I cambiamenti legati al processo di acculturazione si realizzano, infatti, con modalità differenti, in modo indipendente e in tempi diversi in vari ambiti della vita. (Navas et al., 2007; Nguyen e Benet-Martínez, 2007). Di conseguenza, essi possono generare esiti diversi, in termini di bi-culturalità a livello identitario.

Secondo Benet-Martínez e colleghi (2002; 2005; 2007), l’ identità biculturale è una miscela unica, in quanto personale, influenzata da vari fattori (contestuali, situazionali, socioculturali e individuali). La ricercatrice sostiene che l’espressione e il processo di identificazione dell’ identità biculturale possano essere armoniosi o conflittuali (Benet-Martínez e Haritatos, 2005) sottolineando l’importanza della modalità con cui gli individui biculturali sperimentano e organizzano i loro differenti e talvolta opposti orientamenti culturali. Lo sviluppo di un’armoniosa identità biculturale può essere una risorsa per l’individuo poiché determina modificazioni a livello cognitivo che migliorano la flessibilità di pensiero, il benessere e l’adattamento del soggetto in vari contesti (Chen e Benet-Martinez, 2008).

Benet-Martínez insieme ad altri autori, ha sviluppato nel 2002 il Bicultural Identity Integration (BII), una misura che permette di verificare se e come gli individui percepiscono la loro identità culturale: nello specifico se compatibile e integrata oppure difficile da integrare. Il BII non è un costrutto unitario, ma composto da due componenti. La prima riguarda il grado di conflittualità tra le due culture (cultural conflict), la seconda prende in considerazione la distanza percepita tra di esse (cultural distance; Huynh, Nguyen, Benet-Martínez, 2011). La prima componente esprime la soggettività dell’individuo poiché informa sugli elementi legati all’affettività dell’esperienza biculturale. La percezione di armonia tra le due culture può essere impedita dall’influenza negativa di fattori stressogeni sia personali (vulnerabilità, ruminazione e rigidità emotiva) sia esterni (discriminazioni, pressioni culturali, difficoltà linguistiche e relazionali)

La seconda componente individua invece la percezione di distanza tra le due culture. Quando i livelli di questa componente risultano essere elevati, l’individuo esperisce le due culture come non sovrapponibili, dissociate e distanti l’una dall’altra. Nello specifico la percezione di distanza sembra essere legata sia ad un atteggiamento di separazione dalla cultura ospitante e di mantenimento della propria cultura d’origine sia all’identificazione con la cultura ospitante ma non con quella d’origine. Per queste relazioni è stata associata a concetti di acculturazione più tradizionali: gli atteggiamenti e i comportamenti.

Attraverso la componente di distanza percepita è possibile che l’individuo adotti entrambe le culture, ma con la volontà di mantenerle separate. Inoltre, sembra che la percezione di distanza sia maggiore nei primi periodi della permanenza nel contesto ospitante, mentre si affievolirebbe con il passare del tempo. In uno studio del 2005 (Benet-Martínez e Haritatos), questa componente e gli anni di permanenza sul territorio sono infatti negativamente correlati.

Tra i fattori individuali che influenzano la percezione di distanza culturale, emerge una bassa apertura individuale che può motivare la bassa capacità di incamerare nuovi valori e stili di vita contemporaneamente. I fattori esterni che influiscono su tale componente sono: l’esperienza di isolamento culturale, le pressioni contestuali e lo stress derivato dalla scarsa abilità linguistica dell’idioma ospitante.

L’ identità biculturale ha quindi una componente più affettiva e un’altra componente più cognitiva. Entrambe sono influenzate da fattori diversi: è importante il ruolo dell’esperienza soggettiva percepita dall’individuo rispetto al contesto in cui è immerso e quindi le sue caratteristiche personologiche, cognitive, le strategie di coping, ma anche fattori esterni quali i livelli di discriminazione, gli atteggiamenti di acculturazione adottati e le esperienze relazionali nel contesto ospitante.

L’identità biculturale: perchè è una risorsa e quando si realizza

Lo sviluppo di un’ identità biculturale armoniosa, è importante per il soggetto perché gli permette di avere un maggiore benessere psicologico, livelli di autostima più elevata e di percepire una minore discriminazione soggettiva e livelli minori di stress.

La modalità con cui gli individui sviluppano l’ identità biculturale e la percepiscono è molto importante per il loro benessere e per le risorse che da essa possono derivare. Gli individui con un’ identità biculturale armoniosa e coesa, (bassa percezione di distanza e bassa percezione di conflittualità tra le culture) mostrano maggiore capacità ideativa, maggiore complessità cognitiva, minore discriminazione percepita, maggiore creatività, maggiori abilità linguistiche e maggiore apertura nelle relazioni sociali (Benet-Martinez e al., 2006; Huynh, Nguyen, Benet-Martínez, 2011). Questi esiti sono probabilmente legati alla capacità dell’individuo di accettare aspetti contradditori ma anche di utilizzare le abilità acquisite in modo funzionale al contesto in cui sono immersi.

Un aspetto molto interessante riguarda, infine, il ruolo del contesto. Alcuni risultati hanno evidenziato che gli individui inseriti in contesti multiculturali o in cui la biculturalità era apprezzata e considerata un valore, manifestavano un’ identità biculturale armoniosa e un maggiore benessere psicologico (Nguyen e Benet-Martinez, 2007). Come evidenziato inizialmente, le variabili collettive, legate al contesto in cui si realizza l’acculturazione, sono importanti e generano esiti individuali e di gruppo diversi. Per quanto riguarda il gruppo ospitante, come suggerito dalla teoria di Tajfel, è presente una paura nel gruppo ospitante che i migranti non si adattino alla società che li accoglie, ma che piuttosto creino un contesto culturale separato che minacci l’unità culturale del Paese nel suo complesso e di conseguenza l’identità culturale degli individui che si definiscono anche rispetto alla loro cultura originaria minacciata. Questa minaccia percepita e le possibili reazioni avverse delle persone della società ricevente la migrazione, possono contribuire alla diminuzione di integrazione dell’ identità biculturale in tali gruppi etnici nelle comunità in cui il loro numero è relativamente ridotto, conducendoli a separarsi dal contesto culturale maggioritario.

Gli individui multiculturali e il ruolo della psicoterapia

I temi trattati suggeriscono l’importanza dello sviluppo di una mente multiculturale in un’epoca di globalizzazione, dove la facilità di spostamento e il contatto tra culture diverse è sempre più all’ordine del giorno. Vari fenomeni di grande attualità come la sequenza di attentati che si stanno susseguendo in Europa e nel mondo, le difficoltà di integrazione che i migranti stanno sperimentando, sono alcuni dei fatti per cui una lettura attraverso una chiave scientifica, potrebbe essere d’aiuto per il loro inquadramento. L’aumento dell’accettazione di una società multiculturale ed un atteggiamento di apertura verso le altre culture, dovrebbero divenire degli obiettivi a cui tendere, sia per un benessere personale che sociale. I fenomeni di isolamento sociale e di radicalità vissuti negli ultimi anni dai migranti, potrebbero essere influenzati anche dal contesto ospitante che spinge verso l’abbandono della propria cultura d’origine dei migranti per l’assimilazione alla cultura ospitante, la quale a volte non rispetta una parte identitaria centrale dell’individuo per la definizione di sé: l’appartenenza etnica. Oltre alla riduzione dei fenomeni di marginalizzazione dei migranti e dei conflitti tra gruppi etnici, vi sono, come abbiamo visto, vantaggi individuali come ampliate capacità cognitive e maggiori abilità di ragionamento. Ciò può aiutare, ad esempio, in ambiti di lavoro multiculturali sempre più comuni oggigiorno (es. grandi aziende con sedi dislocate e dipendenti trasfertisti).

In questo scenario come può collocarsi la psicoterapia? Il ruolo degli schemi cognitivi nel processo di identificazione con l’ identità biculturale, è per l’individuo centrale. Oltre a ciò, variabili personologiche come l’apertura nelle relazioni, l’abilità nelle interazioni e la capacità di gestione dello stress ne influenzano fortemente gli esiti. Una psicoterapia potrebbe, pertanto, essere orientata ad aumentare la tolleranza alle contraddizioni e a sviluppare la capacità individuale di riconoscimento funzionale degli stimoli culturali all’interno del contesto, in modo da poter aiutare l’individuo ad attivare lo schema culturale più adatto in quella situazione.

La capacità di lettura degli eventi, l’accettazione che la propria identità abbia più sfaccettature e che un individuo possa definirsi attraverso una pluralità di modi e non solo attraverso un incasellamento statico, potrebbero essere alcune delle tematiche da affrontare con il terapeuta. Inoltre, potrebbe essere utile fare un’indagine approfondita sulle credenze che non permettono l’adattamento nel nuovo contesto e sugli schemi cognitivi che non aiutano il paziente in questo processo. Infine, un assessment sul tipo di attaccamento sviluppato con gli adulti di riferimento e sulle modalità di interazione apprese in famiglia, potrebbero ampliare lo scenario e dare spunti di lavoro a livello personologico per aiutare il paziente a fronteggiare il malessere provato.

Concludendo, l’acculturazione è un fenomeno contemporaneamente intrapersonale, interpersonale e influenzato dal contesto. Pertanto, ulteriori approfondimenti empirici sull’intervento dei vari fattori che modificano questo processo, fornirebbero una maggiore comprensione dell’identità culturale e dell’adattamento individuale necessaria in un’epoca mutevole e dinamica.

Omofobia interiorizzata: la paura dell’essere e nell’essere omosessuale

L’ omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includere di routine l’assessment e il trattamento dell’ omofobia interiorizzata (Gonsiorek, 1982; Malyon, 1982; Montano, 2000; Stein & Cohen, 1984). Ciò è vero soprattutto per le persone omosessuali più giovani (ma non solo) che potrebbero avere bisogno di maggiore supporto nello sviluppo della loro identità gay o lesbica.

Una società eterosessista

Ho tantissimi amici gay!”
Oh, io li adoro!”

In molti avremo sentito o pronunciato questo tipo di frasi, apparentemente del tutto innocue e dal sapore “liberale” ma che in realtà palesano quanto ancora la nostra sia una società permeata da eterosessismo.
Un eterosessismo che viene appreso ed acquisito fin dalla nascita.
E’ infatti fin dalle prime fasi di vita e dunque ancor prima della scoperta della propria identità sessuale che ha luogo l’acquisizione, mutuata dall’ ambiente circostante ed interiorizzata, delle convinzioni di base riguardo al sesso, ai ruoli di genere e all’omosessualità. Allevare ed educare un bambino significa quasi sempre allevare quello che sarà nella prospettiva dei responsabili della sua formazione di base – genitori, parenti, scuola- un adulto eterosessuale.

Molto prima di avere una reale comprensione di cosa significhi essere omosessuale, i bambini hanno ricevuto un set d’informazioni eterosessiste che vengono codificate nella convinzione che essere gay o lesbica sia qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune (Antonella Montano 2010).

Questi atteggiamenti, pregiudizi e opinioni discriminatorie sugli omosessuali, a volte casuali ma comunque denigratori, basati su falsi stereotipi, usati in modo non del tutto consapevole o per scherzo, sono in grado di fissarsi nella mente di un bambino o adolescente come convinzioni di base (core beliefs), in una fase di crescita in cui l’individuo ricerca l’integrazione in un mondo regolato da molteplici dettami a cui conformarsi.

L’ omofobia e il pregiudizio anti-gay ostacolano e mettono in pericolo la formazione di un adolescente sano capace di costruirsi un’identità affermativa adulta.
In una società fortemente eterosissista è difficile riconoscere e sviluppare un positivo orientamento sessuale e poterlo svelare normalmente agli altri.
I gay e le lesbiche provano molto spesso sentimenti negativi verso loro stessi, una volta entrati in contatto con il loro essere omosessuale.
Questo perché hanno interiorizzato che l’eterosessualità equivale alla normalità e dunque il loro orientamento sessuale diverso dalla norma li pone nella condizione di sentirsi “sbagliati”.

Soprattutto per i soggetti che si trovano ai primi stadi del processo di formazione d’identità omosessuale, la percezione di un ambiente familiare e sociale repressivo può portare ad interiorizzare pensieri e sentimenti negativi nei confronti dell’omosessualità. Tali vissuti possono esprimersi sul piano psicologico attraverso la vergogna, il senso di colpa, la bassa autostima e la scarsa accettazione di sé.

L’ omofobia interiorizzata

L’ omofobia interiorizzata è dunque una componente importante nel disagio vissuto quotidianamente da gay e lesbiche e gioca un ruolo cruciale come fattore patogeno, essendo determinante nell’insorgenza di diversi disturbi emotivi. Essa può incidere sia sull’evoluzione delle malattie fisiche e mentali, che sulle scelte di prevenzione e cura (Montano, 2000; Williamson, 2000; McGregor et al., 2001).

L’ omofobia interiorizzata nelle persone gay e lesbiche può portare dunque ad alcuni problemi specifici come:
– elevata percezione dello stigma sociale;
– difficoltà nel fare coming out;
– credenza che l’omosessualità sia sbagliata, da rinnegare e nascondere;
– non accettazione della propria omosessualità perché causa di ansia, angoscia e tensione interiore, colpa e vergogna;
– non accettazione della propria sessualità che può portare a gravi disturbi sessuali;
– aumento della propria autoesclusione sociale;
– aumento di depressione e ansia;
– aumento di abuso di stupefacenti e alcol.

Ovviamente in tali dinamiche hanno una influenza rilevante anche le variabili psicologiche personali come la vulnerabilità ai condizionamenti familiari e ambientali e le strategie individuali messe in atto.

L’ omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includere di routine l’assessment e il trattamento dell’ omofobia interiorizzata (Gonsiorek, 1982; Malyon, 1982; Montano, 2000; Stein & Cohen, 1984).
Ciò è vero soprattutto per le persone omosessuali più giovani (ma non solo) che potrebbero avere bisogno di maggiore supporto nello sviluppo della loro identità gay o lesbica.

Kahn (1991) sostiene che la risoluzione della formazione dell’identità omosessuale dipende dal superamento dell’ omofobia interiorizzata.
Shildo (1994) considera l’eliminazione dell’ omofobia interiorizzata come un importante obiettivo terapeutico e analizza le difficoltà nella concettualizzazione e misurazione di questa variabile. Inoltre, la riduzione dell’ omofobia interiorizzata può essere considerata un’importante misura del successo della terapia.

Come superare l’ omofobia interiorizzata

Per quanto riguarda il trattamento con clienti omosessuali, Sophie (1987) suggerisce delle strategie generali utili per affrontare e superare l’ omofobia interiorizzata. Ad esempio l’uso della ristrutturazione cognitiva, attraverso la quale il terapeuta può aiutare il cliente ad affrontare in modo positivo la sua difformità dai costrutti sociali dominanti, esplorando insieme tutti gli stereotipi e i falsi miti riferiti all’omosessualità (supportando la frequentazione di altri gay e lesbiche, intesa come ulteriore rinforzo al processo di ristrutturazione cognitiva).

E’ fondamentale inoltre promuovere un approccio neutrale all’identità omosessuale, inteso come apprendimento del fatto che essere gay o lesbiche è una delle possibilità date agli esseri umani, né preferibile né deprecabile rispetto all’essere eterosessuali.
Similmente, è utile lavorare sulla consapevolezza della propria identità sessuale, interpretata come modalità positiva per sentirsi parte di una comunità e non più individui isolati e oppressi (confrontarsi con altri gay e lesbiche rende il cliente meno vulnerabile e meno incline a sentirsi il solo a essere diverso e stigmatizzabile dalla società).

Il coming-out (dichiararsi apertamente, solo alla propria famiglia o all’intera cerchia delle conoscenze) è una strategia efficace per vincere l’ omofobia interiorizzata residua, un processo sicuramente difficile ma che una volta intrapreso rafforza l’autostima e fornisce lo stimolo per affrontare in modo costruttivo la rimodulazione della propria personalità.

In tale senso è importante promuovere l’abitudine all’omosessualità, cioè il raggiungimento della piena consapevolezza che l’omosessualità non è un fatto deprecabile o straordinario, ma solo uno dei modi di essere di una persona. L’orientamento sessuale infatti altro non è che una parte della nostra personalità che in alcun modo pregiudica il valore personale.

E’ solo attraverso il superamento delle assunzioni che fanno ritenere che l’omosessualità sia qualcosa di anormale e per questo censurabile, che i gay e le lesbiche possono dunque affrontare ed elaborare la loro omofobia interiorizzata.

Un software che analizza il linguaggio per predire la psicosi

Il linguaggio e la parola sono la fonte primaria di dati per gli psichiatri per diagnosticare e trattare i disturbi mentali. In un nuovo studio, i ricercatori (Corcoran et al.), usando un’analisi di elaborazione del linguaggio naturale sul computer, hanno mostrato che, tra i giovani di lingua inglese ad alto rischio di psicosi, la riduzione di base della coerenza semantica (il flusso di significato nella parola) e la complessità sintattica possono predire l’insorgenza della psicosi con una precisione elevata.

Uno strumento di analisi semantica del linguaggio dei pazienti con psicosi

Le analisi computerizzate del linguaggio sono state ottenute da diverse interviste con dei giovani a rischio in due differenti coorti – una a New York City con 34 partecipanti e l’altra a Los Angeles con 59 partecipanti – per i quali era nota l’insorgenza della psicosi entro i due anni successivi. La precisione delle analisi è stata di circa l’83%.

I ricercatori (Corcoran et al.) hanno identificato un classificatore vocale di apprendimento automatico, comprendente una minore coerenza semantica, una maggiore discrepanza in tale coerenza e un ridotto utilizzo di pronomi possessivi, con un’accuratezza dell’83% nel predire l’insorgenza della psicosi (intra-protocollo), invece, un’accuratezza incrociata di 79% della previsione di insorgenza della psicosi nella coorte di rischio originale (protocollo incrociato) e un’accuratezza del 72% nel discriminare il linguaggio di pazienti con psicosi di recente insorgenza da quelli di individui sani.
Ad ogni parola in ogni trascrizione è stata assegnato un vettore semantico; ogni parola è stata anche taggata rispetto alla sua funzione grammaticale.

L’algoritmo di apprendimento automatico classifica il discorso in base al fatto che sia caratteristico degli individui che svilupperanno la psicosi, al contrario di quelli che non lo faranno. In altri termini, l’algoritmo impara gli schemi sottostanti in un sottoinsieme di trascrizioni e poi in modo iterativo, prevedendo la classificazione (insorgenza di psicosi oppure no) in nuove trascrizioni non usate durante la fase di apprendimento.

Oltre all’analisi semantica del linguaggio e alla codifica di parti del discorso, il linguaggio può essere valutato anche rispetto ai logogrammi, alla prosodia, alla pragmatica, alla metaforicità e ai discorsi o alle conversazioni tra interlocutori. Analisi automatizzate del linguaggio naturale sono state utilizzate anche per caratterizzare altri disturbi del comportamento, tra cui ad esempio il morbo di Parkinson.

Considerati nel loro insieme, i risultati di questi studi supportano l’utilità e la validità dei metodi automatizzati di elaborazione del linguaggio naturale e suggeriscono che questa tecnologia ha il potenziale per migliorare la previsione dell’insorgenza della psicosi e di altri disturbi caratterizzati da disturbi della semantica e della sintassi. Più in generale, l’analisi linguistica automatizzata può essere un potente strumento in ambito neuropsichiatrico per diagnosi, prognosi e stime della risposta al trattamento.

La dieta MIND che rallenta il declino cognitivo

Alcuni ricercatori del Rush University Medical Center hanno creato una dieta, chiamata dieta MIND che può aiutare a rallentare notevolmente il declino cognitivo nei pazienti che hanno avuto un ictus, secondo una ricerca preliminare presentata il 25 gennaio all’Aternational Stroke Conference 2018 dell’American Stroke Association a Los Angeles. I risultati sono significativi perché i pazienti post-stroke hanno il doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alla popolazione generale.

 

I benefici della dieta MIND

La dieta, nota come dieta MIND, è l’abbreviazione di Mediterranean DASH Diet Intervention per il Ritardo Neurodegenerativo. La dieta è un ibrido tra le diete mediterranee e DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension). Entrambe sono state utilizzate per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari come ipertensione, infarto e ictus.

“Gli alimenti che promuovono la salute del cervello, come verdura, bacche, pesce e olio d’oliva, sono inclusi nella dieta MIND“, ha detto il dottor Laurel J. Cherian, neurologo vascolare e assistente professore nel Dipartimento di Scienze Neurologiche di Rush. “Abbiamo scoperto che ha il potenziale per aiutare a rallentare il declino cognitivo nei sopravvissuti all’ictus“.

Lo studio ha valutato la funzione cognitiva dei sopravvissuti, monitorando le loro diete.

La coautrice dello studio Martha Clare Morris, ScD, nutrizionista di Rush, e i suoi colleghi hanno sviluppato la dieta MIND sulla base di informazioni ricavate da anni di ricerche su alimenti e sostanze nutritive che hanno effetti positivi e negativi sul funzionamento del cervello. La dieta è risultata utile riducendo il rischio di declino cognitivo negli anziani che hanno aderito. Anche le persone che aderivano con poca costanza hanno ridotto il rischio di declino cognitivo.

In cosa consiste la dieta MIND

Per aderire e beneficiare della dieta MIND, una persona avrebbe bisogno di mangiare almeno tre porzioni di cereali integrali, una verdura a foglia verde e un altro vegetale ogni giorno – insieme a un bicchiere di vino – snack quasi tutti i giorni a base di noci, mangiare fagioli ogni due giorni circa, mangiare pollame e frutti di bosco almeno due volte a settimana e pesce almeno una volta alla settimana. La dieta specifica limita inoltre l’assunzione di cibi malsani, limitando il burro a meno di 1, 1/2 cucchiaini al giorno e mangiando meno di cinque porzioni alla settimana di dolci e pasticcini e meno di una porzione alla settimana di formaggio grasso intero, e fritto o fast food.

Sono stato davvero incuriosito dai risultati di un precedente studio MIND, che ha dimostrato che le persone che erano più aderenti alla dieta MIND funzionavano cognitivamente come se fossero 7,5 anni più giovani del gruppo meno aderente“, ha detto Cherian. “Mi sono chiesto se quei risultati fossero validi per i sopravvissuti all’ictus, che hanno il doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alla popolazione generale“.

Dal 2004 al 2017, Cherian e colleghi hanno studiato 106 partecipanti al progetto Rush Memory and Ageing che hanno avuto una storia di ictus con conseguente declino cognitivo. Hanno valutato le persone nello studio ogni anno fino alla loro morte o alla conclusione dello studio e hanno monitorato le abitudini alimentari dei pazienti.
I ricercatori hanno raggruppato i partecipanti in coloro che erano altamente aderenti alla dieta MIND, moderatamente aderenti e meno aderenti. Hanno inoltre esaminato ulteriori fattori noti per influenzare le prestazioni cognitive, tra cui età, sesso, livello di istruzione, partecipazione ad attività cognitivamente stimolanti, attività fisica, fumo e predisposizioni genetiche.

I partecipanti allo studio le cui diete hanno ottenuto il punteggio più alto nel punteggio di dieta MIND hanno registrato un tasso di declino cognitivo sostanzialmente più lento rispetto a quelli che hanno ottenuto il punteggio più basso. L’effetto stimato della dieta è rimasto alto anche dopo aver preso in considerazione il livello di istruzione dei partecipanti e la partecipazione alle attività stimolanti dal punto di vista cognitivo e fisico.

Secondo Cherian, anche studi precedenti hanno scoperto che folati, vitamina E, acidi grassi omega-3, carotenoidi e flavonoidi sono associati a tassi più lenti di declino cognitivo, mentre sostanze come i grassi saturi e idrogenati sono state associate a un maggior rischio di demenza.

Il nostro studio suggerisce che se scegliamo i cibi giusti, potremmo essere in grado di proteggere i pazienti che hanno avuto un ictus dal declino cognitivo“. Cherian avverte, tuttavia, che lo studio è stato osservativo, con un numero relativamente piccolo di partecipanti, e le sue scoperte non possono essere interpretate in una relazione di causa-effetto.

Questo è uno studio preliminare che si spera possa essere confermato da altri studi”, dice. “Per ora, penso che ci siano abbastanza informazioni per incoraggiare i pazienti colpiti da ictus a vedere il cibo come uno strumento importante per ottimizzare il loro funzionamento cognitivo e cerebrale“.

Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships – Interview with Dr. John Amodeo, author of the book

John Amodeo is a psychotherapist expert in love and couple, author of the book Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships, which won the Spirituality and Practice Award as one of the best spiritual books of 2013, as well as the 2014 Silver Independent Publisher Book Award in the relationship category. 

 

 Dancing with fire discusses relationships as a spiritual path in the dance of feeling and life. Drawing from his deep experience as a longtime therapist and meditator, Dr. Amodeo has given us a key to integrate personal growth with relational growth, learning to be a more healthy presence for others, but also for ourselves.

In these pages, the author invites us to look through the lens of Mindfulness. Dr John Amodeo shows us how to bring mindful, loving attention to all aspects of our intimacy, including the painful or difficult aspects. It teaches us to see, hear and embrace the vulnerable parts of ourselves and how this practice of “welcoming” creates a sense of empathy and unity with other human beings.

Starting from the conviction that the root of suffering is in isolation, what gives meaning to life are bonds, whether they are familiar, friendship or love.

It was an honor and a privilege for me to ask him some questions.

Interview with John Amodeo

Interviewer: Before reading the book, I immediately hit the title. Dancing with fire makes me think of something ancient and tribal, and even risky. What do you want to convey to the reader with this image?

Dr John Amodeo: The title came to me in a dream. I was seeing relationships as dancing with fire. Such deep passions get stirred within us. Strong longings for acceptance, connection, and love. We get burned when we don’t know how to dance with fire of our desires. Our longings can consume us when we don’t how to dance skillfully with them—engage with them in a wise, caring, mindful way.

Interviewer: You talk about authenticity and how this value improves the link with others. Being authentic also means being 100% yourself and exposing yourself and being vulnerable. As a therapist I know how difficult it is for people to accept and see their weaknesses, especially in their relationship. According to your experience, how is it done to be fully themselves and if this involves costs and compromises in the couple?

Dr. John Amodeo: It can feel very freeing to be authentic, to be ourselves. This means allowing ourselves to experience whatever we happen to be experiencing. Giving ourselves permission to feel sad, or afraid, or embarrassed, or angry—and take the risk to disclose this. Sometimes this means being vulnerable. It takes strength to be vulnerable; it’s not a weakness.

So we need to find resources within ourselves so that we can courageously reveal our authentic experience to another person. We need to find the inner strength to be real with people we want to feel close to.

This is how we create a climate for intimacy. Love and intimacy cannot be controlled. We can’t force or pressure people to love us or care about us. But we can take the risk to show our true feelings and wants. We can express ourselves in a clear, but gentle way. This often brings people toward us. It may feel scary to open up like this, but if we don’t, we risk losing our integrity and maintaining distance in our relationships.

Interviewer: I really like it when you talk about creating intimacy, which is not about sex or confidence, but about the climate of intimacy that develops when we feel “seen” on the other, listened to in depth and intimately connected.

Dr. John Amodeo: Yes, intimacy is created between two people who are willing to show themselves rather than hide. And we need to listen in a gentle and caring way to each other. There is a saying that God gave us two ears and one mouth for a reason. It is twice as hard to listen as it is to speak.

We can’t be “seen” unless we show ourselves. People may only see the image we project or the act we put on. To be truly seen in our essence begins by slowing down, finding some stillness inside, inquiring into what we are truly experiencing in the moment. It’s a kind of meditation or mindfulness practice to notice and honor whatever we’re feeling. Then we can chose to share that with a person we want to connect with.

It’s very delightful and enlivening when two people feel safe enough to show their authentic selves to each other. A deep richness and connection can flow between them as they hold each other’s feelings with respect—and hold each other with respect, gentleness, and kindness.

Interviewer: You make a distinction between desire and craving. Can you say something more?

Dr. John Amodeo:  Buddhism teaches that craving creates suffering for us. But many people then think they are being spiritual if they eliminate their desires and longings. It is very human to have desires. I call them sacred longings. The path is not to suppress or minimize our longings but rather to engage with them in a wise and skillful way. For example, if we’re not feeling heard by a partner or friends, we can just try to let it go. We may think we have let it go and that we’re being very spiritual. But actually, we may be bypassing our human feelings rather than courageously acknowledging and showing them.

Craving tends to arise when we don’t recognize our true longings. We might drink or resort to some addiction when our human needs for connection are not being met. We may crave attention when we don’t know how to attend to ourselves in a caring way. We may crave power and recognition when we don’t recognize that what we really desire is simple kindness and caring from others.

Interviewer: For many people it is difficult to bond with someone, for fear of suffering or being abandoned. In a paragraph you say that “Rather than distance us from the relationship, Mindfulness can help us move toward them in various ways.” How does it help the relationship?

Dr. John Amodeo: For example, if we’re mindful that we’re afraid of rejection or fearful that we’ll feel shame or embarrassment to ask someone out on a date, we can hold those feelings gently. We can allow them to settle and perhaps feel some kindness toward ourselves.  We might then take the risk to reach out. If we’re rejected, we can let ourselves feel sad and be ok with that. It’s just sadness, which is a normal human feeling. It’s not the end of the world.

We become more willing to reach out and connect if we know we can deal with whatever happens. We can bring a gentle mindfulness to our feelings and be ok with ourselves.

Interviewer: Can you explain how focusing therapy works?

Dr. John Amodeo:  Focusing oriented therapy is about helping people feel safe enough to inquire into their true feelings and understand themselves in a deeper way.  It’s bringing mindfulness to one’s feelings and one’s body. Getting out of our repetitive and unhelpful thinking, not pathologizing ourselves, and simply being present for experience as it unfolds, Trusting the wisdom of our feelings.

People have different ways of using Focusing in therapy. I try to listen carefully and reflect back what I’m hearing and check whether I’m getting it right. I might invite them to slow down, take some time to notice what they’re feeling and see if any words or images arise that resonate with their inner experience.

It’s hard to say just a little bit about it. It’s an exploration of one’s inner experience, validating that, and being open what unfolds in the moment in the session. Sometimes new and powerful insights and understanding can arise.

Focusing can help our relationships because we can’t communicate clearly until we know what we are experiencing.

 

Dancing with fire: discovering the book

 Dancing with fire talks directly to our hearts with compassion, wisdom and courage. The way to write is warm and welcoming, as in a conversation with a wise and kind friend. Our common interests have brought me closer to this illustrious teacher. After my studies in Humanistic Psychology, I also approached Mindfulness and the continuous search for the integration of these two worlds, science and spirituality. Dr Amodeo has succeeded in a masterly way. He combines meditation and mindfulness with western approaches, such as Focusing therapy and Emotionally Focused Therapy in a coherent and enlightening way.

His love for others that transpires in every word of this beautiful book and in the words that he told me with enormous kindness, is the reflection of his life. A life dedicated to people and couples through years of therapy. He himself is a high example of personal spiritual life that he experiences in every exotic journey, in every meditative practice, in every intimate encounter.

This book is a treasure guide consisting of inner beauty and felt sense, to be read many, many times. An excellent book for therapists, meditators and anyone looking for a better life and a better relationship.

I’d like to give you one sense of his writing with a quote from his book.

Living with spiritual depth invite us to be mindful  of our feelings, dance with them skillfully, and share the rich texture of our felt experience with other. The give of being human endow us with the creativity capacity to convey the glistening nuances of our felt experiences – perhaps through an expressive glance, a radiant smile, a gentle touch, our tone of voice, or resonant word. If our communication is graciously received, we may glow in a shining moment of loving connection.

 

Disturbi mentali e stigma: quali sono le cause più accettate socialmente?

Uno studio della Baylor University sottolinea che sarebbe utile creare delle campagne di sensibilizzazione finalizzate a far conoscere le cause dei disturbi mentali per cercare di rimuovere lo stigma sociale.

 

Lo stigma sociale nei confronti dei disturbi mentali

Gli individui che sostengono le convinzioni biologiche riguardo le cause dei disturbi mentali, tendono anche ad approvare altre credenze, rendendo l’effetto complessivo delle credenze biologiche piuttosto contorto e talvolta negativo“, ha detto l’autore principale Matthew A. Andersson, Ph.D., assistente professore di sociologia presso il Baylor’s College of Arts & Sciences.

Lo studio, incentrato sullo stigma nei confronti di individui affetti da depressione, schizofrenia e alcolismo, è stato pubblicato sulla rivista Society and Mental Health della American Sociological Association. I risultati suggeriscono che le convinzioni sulle cause dei disturbi mentali potrebbero essere affrontate nelle campagne pubbliche e dai politici in modi diversi e più vantaggiosi di quanto non lo siano ora, secondo Andersson e la co-autrice Sarah K. Harkness, Ph.D., assistente professore di sociologia all’Università dell’Iowa.

Lo studio ha analizzato i dati del General Social Survey, somministrato da un team di ricercatori dell’Università di Chicago. Il sondaggio ha presentato ad un campione casuale di 1.147 intervistati, situazioni riguardanti individui affetti da sintomi di depressione, schizofrenia o alcolismo.

Gli intervistati hanno compilato un questionario nel quale veniva loro chiesto di scrivere quali, secondo loro, potessero essere le cause delle malattie mentali citate sopra.

Le cause maggiormente emerse sono 6:

1. Avere un carattere difficile
2. Uno squilibrio chimico nel cervello
3. Il modo in cui si è stati cresciuti
4. Circostanze stressanti nella vita
5. Un problema genetico o ereditario
6. il volere di Dio
Infine, per misurare lo stigma sociale, agli intervistati è stato chiesto quanto sarebbero disposti ad avere una persona con un problema di salute mentale:

(1) che si sposta nella porta accanto;
(2) che inizi a lavorare a stretto contatto con loro per un lavoro;
(3) che divenga parte della famiglia;
(4) trascorrere insieme una serata;
(5) diventarvi amico;
(6) che si trasferisca in una nuova casa-comunità nel proprio quartiere per le persone in quella condizione.

I risultati dello studio hanno fatto emergere che la convinzione più comune è che la depressione e la schizofrenia siano causate da diversi fattori combinati, come ad esempio squilibrio chimico a livello cerebrale, circostanze di vita stressanti e predisposizioni genetiche. Generalmente il campione non ha presentato convinzioni riguardo “cattivo carattere”, fattori educativi o religiosi quali cause di tali disturbi.

Al contrario, tra gli intervistati a cui è stato presentato lo scenario di un alcolizzato, la combinazione più comune di convinzioni sulle cause dell’alcolismo includeva l’avere un carattere difficile, la presenza di squilibrio chimico cerebrale, il modo in cui si è stati educati, stress e anomalie genetiche.

Lo studio è rilevante perché sottolinea quanto sottili ma ampiamente diffuse teorie sulla salute mentale possano contribuire a stigmatizzare chi soffre di un disturbo mentale, ha detto Andersson.

Riorganizzare le iniziative politiche anti-stigma intorno ai modelli di credenza che abbiamo collegato allo stigma può contribuire ad aumentare l’accettazione sociale delle persone che soffrono di questi disturbi.

Linee di ricerca future si propongono di approfondire altre credenze più specifiche sulle cause dei disturbi mentali, come ad esempio problemi coniugali o familiari, fattori di stress sul lavoro, varie disfunzioni cerebrali o specifici eventi di vita negativi.

Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships – Intervista all’autore Dr. John Amodeo

John Amodeo è uno psicoterapeuta esperto in amore e coppie, autore del libro “Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships”, con cui ha vinto lo Spiritual and Practice Aware come uno dei migliori libri spirituali del 2013, nonché il Silver Independent Publisher Book Award 2014 nella categoria relazioni.

 

 Dancing with Fire tratta le relazioni come un percorso spirituale nella danza dei sentimenti e della vita. Attingendo alla sua notevole esperienza come terapeuta e meditatore di lunga data, il Dr. John Amodeo ci dà una chiave per integrare la crescita personale con la crescita relazionale, insegnandoci ad essere una presenza più salutare per gli altri, ma anche per noi stessi.

L’autore, in queste pagine, ci invita a guardare attraverso la lente della Mindfulness. Ci mostra come portare un’attenzione consapevole e amorevole su tutti gli aspetti della nostra intimità, compresi quelli dolorosi o difficili. Ci insegna a vedere, sentire e abbracciare le parti vulnerabili di noi stessi e come questa pratica di “accoglienza” crea un senso di empatia e unità con gli altri esseri umani.

Partendo dalla convinzione che la radice della sofferenza è nell’isolamento, ciò che dà significato alla vita sono i legami, che siano familiari, di amicizia o d’amore.

È stato un onore e un privilegio per me porgli alcune domande.

L’intervista a John Amodeo

Intervistatrice: Prima di leggere il libro, mi ha immediatamente colpito il titolo. Ballare con il fuoco mi fa pensare a qualcosa di antico e tribale, e anche rischioso. Cosa vuole trasmettere al lettore con questa immagine?

Dr. John Amodeo: Il titolo mi è venuto in sogno. Ho visto le relazioni come una danza con il fuoco. Ci sono passioni profonde che si agitano dentro di noi. Forti desideri di accettazione, unione e amore. Ci bruciamo quando non sappiamo ballare con il fuoco dei nostri desideri. E le nostre passioni possono consumarci quando non sappiamo danzare abilmente con loro – relazionarci con loro in un modo saggio, attento e consapevole.

Intervistatrice: Lei parla di “autenticità” e di come questo valore migliori il legame con gli altri. Essere autentici significa anche essere 100% se stessi, di esporsi e di essere vulnerabili. Io come psicoterapeuta so quanto sia difficile per le persone accettare e vedere le proprie debolezze, soprattutto nei rapporti. Secondo la sua esperienza, come si fa a essere pienamente se stessi? E se questa autenticità comporta poi costi e compromessi nella coppia.

Dr. John Amodeo: Ci si può sentire molto liberi nell’ essere autentici, nell’ essere noi stessi. Questo significa permetterci di esprimere ciò che proviamo. Dare a noi stessi il permesso di sentirci tristi, spaventati, imbarazzati, o arrabbiati – e correre il rischio di farlo vedere agli altri. A volte ciò comporta l’essere vulnerabili. Ci vuole coraggio per essere vulnerabili; non è una debolezza.

Abbiamo dunque bisogno di trovare le risorse dentro di noi che ci fanno coraggiosamente esprimere il nostro vissuto in modo autentico ad un’altra persona. Abbiamo bisogno di far emergere la forza interiore per essere veri con le persone che vogliamo avere vicino.

È così che creiamo un clima di intimità. L’amore e l’intimità non possono essere controllati. Non possiamo forzare o spingere le persone ad amarci o prendersi cura di noi. Ma possiamo correre il rischio di mostrare i nostri veri sentimenti e desideri. Possiamo esprimerci in modo chiaro, ma anche delicato. Questo porta spesso le persone ad avvicinarsi. Aprirsi in questo modo può far paura, ma se non lo facciamo, rischiamo di perdere la nostra interezza e di mantenere le distanze nelle nostre relazioni.

Intervistatrice: Mi piace molto quando parla di “creare intimità”, che non riguarda il sesso o la confidenza, ma il clima di intimità che si sviluppa quando ci sentiamo “visti” dall’altro, ascoltati in profondità e intimamente connessi.

Dr. John Amodeo: Sì, l’intimità si crea tra due persone che sono disposte a mostrarsi piuttosto che a nascondersi. Dobbiamo ascoltarci l’un l’altro in modo gentile e premuroso. C’è un detto che recita “Dio ci ha dato due orecchie e una bocca per una ragione”. È due volte più difficile ascoltare che parlare.

Non possiamo essere “visti” se non ci riveliamo per come siamo. Gli altri possono vedere solo l’immagine che presentiamo o le azioni che compiamo. Per essere veramente visti nella nostra essenza dobbiamo iniziare a rallentare, trovare un po’ di quiete interiore, indagare su ciò che stiamo realmente vivendo in quel momento. È una specie di pratica di meditazione o di mindfulness osservare e dare valore a tutto quello che sentiamo. Per poi scegliere di condividerlo con la persona con cui vogliamo entrare il relazione.

È molto piacevole e ravvivante quando due persone si sentono abbastanza sicure da mostrarsi reciprocamente. Una profonda ricchezza e connessione fluisce tra di loro mentre si scambiano i sentimenti con rispetto – e si trattano l’un l’altro con attenzione, disponibilità e gentilezza.

Intervistatrice: Lei fa una distinzione tra desiderio e brama. Può dirci qualcosa di più?

Dr. John Amodeo: Il buddismo insegna che la brama ci crea sofferenza. Ma molte persone sono convinte che per essere spirituali devono rimuovere i loro desideri e le loro volontà. È molto umano avere dei desideri. Io li chiamo sacri desideri. Il percorso non è quello di sopprimere o limitare i nostri desideri, ma piuttosto di relazionarci con loro in modo saggio e abile. Ad esempio, se non ci sentiamo ascoltati dal partner o dagli amici, possiamo semplicemente decidere di lasciar stare. Potremmo ritenere che il fatto di aver lasciato correre ci renda molto spirituali. Ma di fatto, così ignoriamo i nostri sentimenti umani piuttosto che riconoscerli e rivelarli coraggiosamente.

La brama tende a sorgere quando non siamo consapevoli dei nostri veri desideri. Potremmo ricorrere al bere sviluppando qualche forma di dipendenza quando i nostri bisogni di relazione non vengono soddisfatti. Potremmo richiedere attenzione quando non sappiamo come prenderci cura di noi stessi. Oppure potremmo cercare il potere e il riconoscimento quando non ammettiamo che ciò che veramente desideriamo è semplicemente la gentilezza e l’attenzione altrui.

Intervistatrice: Per molte persone è difficile legarsi, per paura di soffrire o di essere abbandonate. In un paragrafo lei dice che “Piuttosto che mettere delle distanze nelle relazioni, la Mindfulness aiuta ad avvicinare in vari modi.” Come fa la Mindfulness ad aiutare le relazioni?

Dr. John Amodeo: Ad esempio, se siamo consapevoli del fatto che abbiamo paura del rifiuto o quando temiamo di provare vergogna o imbarazzo nel chiedere un appuntamento a qualcuno, possiamo accettare delicatamente di avere queste emozioni.

Possiamo permettere ai nostri sentimenti di esserci e forse provare  un po’ di gentilezza verso noi stessi. Possiamo anche correre il rischio di “raggiungere” l’altro. Se invece veniamo respinti, possiamo essere tristi e stare bene con quello che c’è. È solo tristezza, che è una normale emozione umana. Non è la fine del mondo.

Noi siamo più disposti a raggiungere e connetterci con l’altro se sappiamo di poter affrontare qualsiasi cosa accada. Possiamo portare consapevolezza alle nostre emozioni in modo gentile e stare bene con noi stessi.

Intervistatrice: Può spiegare come funziona la terapia di focusing?

Dr. John Amodeo:  La terapia orientata al focus consiste nell’aiutare le persone a sentirsi sufficientemente sicure nell’ indagare sui loro veri sentimenti e capire se stesse in un modo più profondo. Portando consapevolezza alle proprie emozioni e al proprio corpo. Uscire dai pensieri ripetitivi e inutili, non patologizzare se stesse e semplicemente essere presenti nell’ esperienza mentre si manifesta, fidandosi della saggezza del proprio sentire.

Le persone hanno diversi modi di usare Focusing in terapia. Cerco di ascoltare attentamente e riflettere su ciò che sto ascoltando e verificare se ho capito bene. Posso invitarle a rallentare, a prendersi un po’ di tempo per osservare ciò che sentono e vedere se emergono parole o immagini che risuonano con la loro esperienza interiore.

È difficile spiegarlo in poche parole. È un’esplorazione della propria esperienza interiore, la convalida e l’apertura di ciò che si svolge nel momento presente della sessione di terapia. A volte possono nascere idee e intuizioni nuove e potenti.

La focusing può aiutare le nostre relazioni perché noi non siamo capaci di comunicare chiaramente fino a quando non sappiamo cosa stiamo provando.

 

Dancing with fire: alla scoperta del libro

 Dancing with fire parla direttamente al nostro cuore con compassione, saggezza e coraggio. Il modo di scrivere è caldo e accogliente, come in una conversazione con un amico saggio e gentile. I comuni interessi mi hanno fatto conoscere questo illustre maestro. Dopo gli studi in Psicologia Umanistica anche io mi sono avvicinata alla Mindfulness e alla ricerca continua dell’integrazione di questi due mondi, scienza e spiritualità. Il Dr Amodeo ci è riuscito in maniera magistrale. Unisce la meditazione e la mindfulness con gli approcci occidentali, come la terapia Focusing e Emotionally Focused Therapy in maniera coerente e illuminante.

Il suo amore per gli altri che traspare in ogni parola di questo bellissimo libro e nelle parole che con enorme gentilezza mi ha riferito, è il riflesso della sua vita. Una vita dedicata a persone e coppie attraverso anni di terapia. Lui stesso è un alto esempio di spiritualità che conosce pienamente la vita in ogni viaggio esotico, in ogni esperienza meditativa, in ogni incontro intimo.

Questo libro è una guida del tesoro fatta di bellezza interiore e sentire profondo, da leggere molte, molte volte. Un libro eccellente per terapeuti, meditatori e chiunque cerchi una vita migliore e relazioni migliori.

Per concludere vorrei dare un senso della sua scrittura con una frase tratta dal libro.

Vivere con profondità spirituale ci invita ad essere consapevoli dei nostri sentimenti, a ballare con loro abilmente e condividere la ricca trama del nostro vissuto con gli altri. Il dono dell’essere umano ci dota della capacità creativa di trasmettere le sfumature scintillanti delle nostre esperienze – può essere attraverso uno sguardo espressivo, un sorriso radioso, un tocco gentile, il nostro tono di voce o una parola risonante. Se la nostra comunicazione viene gentilmente accolta, risplendiamo in un momento luminoso di connessione amorevole.

Quando un figlio arriva all’improvviso – Mamme e papà si diventa

Sebbene oggigiorno un figlio sia sempre più spesso desiderato e la gravidanza in parte programmata, non ci dimentichiamo di quelle situazioni in cui un bambino arriva all’improvviso, in maniera del tutto imprevista, quando ancora non si pensava di volerne avere uno o quando ancora non ci si è rimessi in sesto dopo il primo figlio. A seconda dei casi, il concepimento di un figlio può generare gioia in entrambi i genitori, in uno dei due o in nessuno dei due.

 

Alle volte, la donna può non avere un compagno fisso o avere una relazione extraconiugale o con un uomo sposato. Altre volte un figlio arriva quando la relazione con il partner è ormai al capolinea. Che fare? Restare insieme per crescere il proprio figlio o lasciarsi? Il bambino può diventare uno strumento per rimettere insieme la coppia? Se il padre del bambino è sposato che decisione prendere?

In altri casi, la mamma potrebbe essere in età adolescenziale e per questo temere di perdere la sua giovinezza o che la sua esistenza venga sconvolta dall’arrivo di un bambino. A volte, questo vissuto culmina nella decisione di un’interruzione di gravidanza, in alti casi le donne sono determinate a portare avanti la gravidanza, nonostante le difficoltà.

All’opposto, un bimbo può arrivare quando la futura mamma è al limite dell’età fertile e potrebbe aver perso le speranze di avere un figlio. In questi casi, la maternità improvvisa può essere accolta con gioia e speranza, quasi come un dono al quale ormai si aveva rinunciato.

E non ci dimentichiamo delle donne che dopo diverse inseminazioni artificiali o auto-inseminazioni finalmente riescono a diventare madri e a realizzare un sogno dopo tanti ostacoli.

Ogni donna porta con sé una storia e vive la maternità in maniera unica, con vissuti ed emozioni contrastanti, frutto di rappresentazioni personali di sé, della storia di vita passata e della coppia genitoriale. A volte si tratta di un sogno d’infanzia che si realizza, altre volte arriva nonostante non ci si pensasse affatto; può avvenire per colmare un vuoto interiore o per risanare un rapporto di coppia; può arrivare dopo un lutto o un aborto o dopo vari tentativi; può essere legato a un bisogno di annullare un passato difficile e sperare in un futuro migliore.

Tuttavia, anche quando un bambino è desiderato, le emozioni che emergono quando si scopre di aspettare un figlio sono spesso ambivalenti e l’entusiasmo può essere accompagnato dalla paura di una nuova vita.

Ecco che diventare genitori ci appare come un mondo sempre più complesso, intriso di mille sfaccettature e come non mai quando si diventa genitori la propria vita passata e presente, le relazioni vissute e costruite nel tempo e quelle attuali, la personalità frutto di interazioni tra natura e ambiente affiorano e spesso culminano nella domanda: “Sarò un bravo genitore per questo bambino?”. Una domanda che spesso ricorre nella mente di chi ha un figlio e che ogni volta porta con sé ansie, incertezze e messa in discussione del proprio ruolo. Ma di questo ci occuperemo in successivi articoli della rubrica. Per il momento concludiamo dicendo che in base alle esperienze personali, la notizia di una gravidanza può essere accolta con gioia e speranza o con dubbi e tormenti interiori e ogni storia va esplorata e ascoltata senza giudizi e pregiudizi nella sua unicità.

 

Rifiuto scolastico: comprendere i fattori scatenanti e la sintomatologia per attivare interventi efficaci

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza e spesso da un’aperta opposizione ad andare a scuola e/o rimanervi per l’intera giornata (Kearney & Silverman, 1996).

Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo, Open School PTCR Milano

 

Paure e fobie: cos’è il rifiuto scolastico

Reazioni di ansia e di paura sono condizioni emotive molto diffuse sia nei bambini sia negli adolescenti (King, Muris & Ollendick, 2004). Si tratta di esperienze universali, riscontrabili in varie culture, aventi caratteri per lo più transitori ma che, talvolta, possono evolvere in un disturbo psicologico.

Durante la crescita, condizionamenti, fantasie ed immaginazione possono, infatti, assumere un ruolo progressivamente più rilevante nella genesi e nel mantenimento delle paure infantili, soprattutto a causa di una più complessa strutturazione del pensiero del bambino e quindi di una maggiore capacità di anticipare conseguenze future (Berto & Scalari, 1997).

Le paure possono essere considerate “una finestra” durante i periodi d’inevitabile adattamento che tutti i bambini devono attraversare; quindi tutti, nel corso del loro sviluppo, presentano paure e timori di varia natura (Brazelton & Greenspan, 2001). Si possono considerare tali paure e timori come veri e propri disturbi quando il funzionamento scolastico e sociale del bambino è fortemente compromesso (Phillips, 1978). Dagli studi di Cohen & Cohen (1993) ad esempio, si stima che tra il 10 e il 15% dei bambini e degli adolescenti presenterebbe un disturbo d’ansia. L’ansia, contrariamente ai timori e alle fobie, si riferisce ad uno stato avverso o spiacevole che coinvolge l’apprensione soggettiva e l’attivazione fisiologica.

La paura è una risposta normale ad una grande varietà di situazioni o oggetti. Nella sua forma più semplice, la paura è la sensazione o la condizione che si prova quando si è esposti a stimoli minacciosi reali o immaginati. Ovviamente, la paura ha una funzione adattativa e “ci predispone a reagire di fronte ad un pericolo esistente o ragionevolmente previsto” (Kanner, 1972, p. 580). Sebbene sia adattiva e necessaria per la sopravvivenza, le risposte alla paura diventano problematiche quando sono eccessive, persistono nel tempo e producono notevoli disagi per il bambino (Graziano, De Giovanni & Garcia, 1979; King, Hamilton & Ollendick, 1988; Morris & Kratochwill, 1983). Oltre a ciò che ci si aspetterebbe per l’età del bambino, queste paure problematiche sono spesso definite come fobie.

Possiamo partire dunque dalla definizione di fobie semplici: si tratta di paure intense e persistenti relative ad oggetti e situazioni, eccessive e irragionevoli, attivate dall’esposizione o anticipazione dello stimolo fobico. Sono generalmente associate a comportamenti evitanti, che possono produrre una marcata compromissione funzionale, a sintomi somatici (palpitazione, rossore o pallore, dispnea, tensione muscolare) e a sintomi comportamentali (pianto e rabbia) (Guidetti, 2007).

Si potrebbe dire che ogni fase dello sviluppo del bambino è caratterizzata da paure specifiche. Normalmente queste paure si estinguono progressivamente, secondo una sequenza temporale abbastanza specifica (Guidetti, 2007). Molte fobie sono circoscritte a contesti e situazioni specifiche, come appunto il rifiuto scolastico è legato al contesto della scuola.

La scuola è un ambiente stimolante che il bambino inizia a frequentare quotidianamente a partire dai sei anni di età. È un luogo di allenamento alla vita, alla scoperta di sé e alla conoscenza del mondo. Nasce per essere vissuto in modo sereno, però talvolta si trasforma in un teatro di timori, in una fonte di preoccupazioni e di un vero e proprio disagio che può riguardare bambini e adolescenti che sviluppano la cosiddetta “fobia scolare”. Oggi giorno è in aumento il numero delle famiglie che si trovano a dover affrontare per qualche periodo un rifiuto scolastico da parte di un figlio (Last et al., 1987).

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza e spesso da un’aperta opposizione ad andare a scuola e/o rimanervi per l’intera giornata (Kearney & Silverman, 1996).
Il rifiuto scolastico non rientra nella nosografia ufficiale sebbene da più parti sia riconosciuto come un disturbo invalidante.
Anche se in letteratura si è spesso usata l’etichetta di fobia scolare, attualmente si preferisce usare la definizione di “rifiuto scolastico” per identificare questo disturbo (Kearney & Silverman, 1996).

I primi riferimenti alla fobia scolare come un vero e proprio problema clinico sono dell’inizio degli anni ’40 ed è del 1965 (Kennedy, 1965) la distinzione tra due tipi di fobia scolare, con alcuni tratti in comune e altri invece distintivi. Tra i tratti comuni troviamo la frequenza di disturbi somatici, paura di separazione dalla madre, conflitti tra la famiglia e l’ambiente scolastico.

Rifiuto ansioso della scuola: eziologia e decorso

La fobia scolastica denominata anche “rifiuto ansioso della scuola” (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987) si riscontra nell’1-5% dei bambini che frequentano la scuola (Burke & Silverman, 1987).

Nonostante possa essere presente a qualsiasi età, esordisce con maggiore frequenza in bambini di 5-6 anni, di 10-11 anni o in adolescenti tra i 12 e i 15 anni, colpendo soprattutto i soggetti maschi e in genere figli unici, primogeniti o prediletti nell’80% dei casi (Ollendick & Mayer, 1984). Può essere considerata una forma di fobia sociale che insorge nei bambini che all’improvviso si rifiutano di andare a scuola e, qualora si tenti di portarceli, mostrano chiari disturbi d’ansia e attacchi di panico (Johnson, Falstein, Szurek & Svendsen, 1941). I due picchi più frequenti per il manifestarsi di questo problema sono le età che corrispondono a due fasi evolutive delicate per un bambino, cioè l’ingresso nella scuola primaria e il passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado e quindi tra i cinque e i sei anni e tra i dieci e gli undici anni (Egger, Costello & Angold, 2003).
Non sono state riscontrate differenze legate allo status socioeconomico (Last & Strauss, 1990; Baker & Wills, 1978).

Se un poco d’inquietudine e preoccupazione all’idea di andare a scuola è normale nei bambini, soprattutto nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, dalla scuola primaria alla secondaria, oppure al momento di un cambiamento di scuola o di uno degli insegnanti, è anche vero che la prolungata paura di andare a scuola, il rifiuto scolastico e soprattutto un prolungato evitamento dell’ambiente scolastico può costituire un danno importante sia sul breve che sul lungo periodo (King & Bernstein, 2001).

Sul breve periodo il fatto che il bambino non vada a scuola e non svolga in modo completo le attività previste per la sua classe può rallentare lo sviluppo cognitivo e intellettuale del bambino e creare una storia di criticità nel rendimento scolastico che a sua volta costituisce un potenziale fattore di rischio per gli anni successivi; i ridotti e a volte problematici contatti con i compagni non favoriscono un buon sviluppo delle competenze sociali innescando, in alcuni casi, un circolo vizioso di difficoltà relazionali ed, inoltre, aumentano anche le difficoltà all’interno del contesto familiare (Hersov, 1972; Last & Strauss, 1990; Naylor et al., 1994).

Sul lungo termine la difficoltà ad andare a scuola può portare ad uno stato di ansia cronica, allo sviluppo di un disturbo d’ansia, ad un basso livello di autostima, ad un basso livello culturale e alla difficoltà nel raggiungere il benessere personale e professionale in età adulta (Mayer, 2008; Bernstein et al., 2001; Buitelaar et al., 1994; Flakierska-Praquin et al., 1997; Kearney & Albano, 2000a).

Se non trattata adeguatamente e per tempo la fobia scolare può facilmente trasformarsi in un problema cronico con evidenti e ovvi effetti sullo sviluppo del bambino, e in alcuni casi potrebbe essere consigliata anche l’ospedalizzazione (King & Bernstein, 2001). In una ricerca svedese che ha seguito per più di vent’anni un gruppo di bambini con un rifiuto scolastico, si è potuto osservare che i bambini con questo problema da adulti si segnalavano per un maggior numero di contatti con le strutture psichiatriche, una più lunga permanenza nella famiglia di origine, un minor numero di figli rispetto alla media della popolazione (Flakierska-Praquin, Lindstrom & Gillberg, 1997).

Manifestazioni cliniche del rifiuto scolastico

Esiste un certo numero di bambini e di adolescenti per i quali “l’ambiente scolastico è una sofferenza, o comunque fonte di grandi difficoltà” (Bernstein GA, Garfinkel BD, 1986). Il rifiuto scolastico è riconosciuto come disturbo invalidante dal 2005 (Maillard, 2012).

Alcuni autori hanno osservato che i bambini con rifiuto scolastico presentano le seguenti caratteristiche comportamentali: a) gravi difficoltà a frequentare la scuola, che spesso provoca una prolungata assenza; b) disturbi emotivi gravi, compresa l’eccessiva paura, l’esplosione di rabbia o le lamentele di sentirsi malati quando si trovano di fronte alla prospettiva di andare a scuola; c) rimanere a casa sotto la protezione del genitore che deciderà quando il ragazzo dovrà frequentare la scuola; d) assenza di comportamenti antisociali come i furti, la menzogna e comportamenti violenti autodiretti o eterodiretti (Berg, Nichols & Pritchard, 1969).

Oltre a queste funzioni primarie, molti autori hanno descritto caratteristiche associate che possono aiutare a delineare diversi sottotipi di rifiuto scolastico.

Coolidge, Hahn e Peck (1957) ne distinguono due sottotipi: neurotico e caratteriologico. Questa distinzione (Waldfogel, Coolidge, & Hahn, 1957), è stata successivamente adottata da altri autori (ad esempio, Kahn & Nursten, 1962; Kennedy, 1965). In sostanza, essa discrimina tra ciò che è diventato noto come rifiuto scolastico tipo I e tipo II. Il rifiuto scolastico di tipo I, o la varietà nevrotica, è caratterizzato dalle seguenti caratteristiche (Kennedy, 1965): (a) il presente episodio è il primo; (b) inizio di lunedì, a seguito di una malattia del giovedì o del venerdì precedente; c) esordio acuto; (d) più prevalente nei primi gradi delle elementari; e) preoccupazione per la morte o per la salute fisica della madre; g) generalmente è presente una buona comunicazione tra i genitori; (h) madre e padre ben adeguati; (i) padre coinvolto nella gestione della famiglia e nell’educazione dei figli; (j) i genitori hanno una comprensione adeguata di ciò che il bambino sta vivendo.

Al contrario, il rifiuto scolastico di tipo II o caratteriologico, è caratterizzato da uno schema contrario: una graduale e insidiosa insorgenza in un bambino più grande in cui i temi di morte non sono presenti e i cui genitori sono notevolmente più difficili da coinvolgere, mostrano poca consapevolezza e comprensione del comportamento del bambino. Anche se questo non esaurisce tutti i sottotipi del rifiuto scolastico riportati in letteratura (es. Hersov, 1960, Weiss & Cain, 1964), è evidente che rappresenta un problema complesso ed eterogeneo (Atkinson, Quarrington e Cyr, 1985; Blagg, 1987; Ollendick & King, in stampa; Ollendick & Mayer, 1984).

I sintomi tipici di questa fobia in genere compaiono improvvisamente all’inizio dell’anno scolastico ed una volta scomparsi possono ricomparire, ad esempio, a seguito di una lunga assenza per malattia o dopo un periodo di vacanza. Se invece il sintomo compare in modo brusco, quando ormai la fase dell’inserimento è stata superata senza grosse difficoltà, allora si può pensare che la causa sia riconducibile ad un episodio specifico come ad esempio un evento stressante vissuto a scuola o a casa, un litigio con un compagno, problemi con un insegnante, malesseri fisici vissuti a scuola o ancora insuccessi nei compiti didattici (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987). Sembrerebbe allora che il problema sia la reazione, la conseguenza di un fattore scatenante e pertanto è opportuno indagare sulle cause che hanno innescato il rifiuto scolastico, al fine di poter trovare specifiche soluzioni e percorsi d’intervento mirati, precoci e quindi più efficaci (Pilliteri Senatore, 1995).

I sintomi più frequenti riscontrati sono la paura, gli attacchi di panico, il pianto, gli scatti d’ira e le minacce di autolesionismo (Bernstein et al., 1997). Col crescere dell’età i bambini adottano meccanismi difensivi sempre più sofisticati per rendere meno evidente l’angoscia e più frequentemente presentano sintomi di somatizzazione che possono comprendere cefalee, dolori addominali, vomito, astenia e perfino febbre. L’esistenza dei sintomi di malessere fisico, in questi casi, tende a diminuire in modo naturale nei giorni del fine settimana e in prossimità di vacanze (Kennedy, 1965).

Spesso, nei casi in cui un bambino è assecondato nelle sue richieste, rimanendo a casa, questo può assumere dei comportamenti diligenti e collaborativi: svolgerà tutti i compiti assegnati in classe con grande impegno, interesse e serenità, tanto da non presentare carenze nel rendimento scolastico anche a seguito di lunghi periodi di assenteismo. Ciò non toglie che l’assenza da scuola per periodi prolungati tende a generare una problematica secondaria di insicurezza rispetto alla conoscenza dei contenuti dei moduli svolti (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987; Pilliteri Senatore, 1995; Sperling, 1967).

Inoltre ci sono bambini che non vogliono andare a scuola per la paura delle aggressioni fisiche dei compagni violenti e dei bulli o perché, pur senza essere oggetto di attacchi fisici o psicologici, fanno molta fatica nelle relazioni con i compagni: circa un terzo dei bambini con rifiuto scolastico sono timidi nei confronti dei pari, hanno paura di essere presi in giro o hanno comunque delle relazioni conflittuali con i compagni (Egger, Costello & Angold, 2003). In altri casi ancora sono bambini particolarmente preoccupati delle interrogazioni, dei compiti in classe, dei compiti a casa o dello studio, spesso sono presenti dei tratti di perfezionismo eccessivo che rende difficile anche solo terminare un compito. In altri casi ancora il rifiuto scolastico è legato alla presenza di un disturbo dell’apprendimento.

I bambini con rifiuto scolastico spesso presentano significativi disturbi emotivi, soprattutto legati all’ansia e alla depressione (McShane et al., 2001).
I disturbi psichiatrici più comunemente presenti in comordibità sono l’ansia da separazione, la fobia sociale, la fobia semplice, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo post-traumatico da stress, il disturbo depressivo maggiore, la distimia e il disturbo dell’adattamento (Last & Strauss, 1990; McShane et al., 2001; Bernstein, 1991)

Il Funzionamento familiare e le origini del rifiuto scolastico

Molto spesso problemi all’interno del nucleo familiare possono essere la causa del rifiuto scolastico dei bambini (Fremont, 2003; Hersov, 1985; Waldron et al., 1975).

Interazioni familiari disfunzionali correlate al rifiuto scolastico sono la dipendenza eccessiva (invischiamento), il distacco o un numero esiguo di interazioni tra i membri della famiglia, l’isolamento del nucleo familiare rispetto all’ambiente esterno e un elevato grado di conflittualità (Kearney & Silverman, 1995).

Inoltre sono stati spesso riscontrati all’interno di queste famiglie problemi di comunicazione, problemi nelle assunzioni dei ruoli (soprattutto nelle famiglie con un unico genitore) e problemi di troppa rigidità e coesività tra i membri della famiglia (Bernstein & Borchardt, 1996; Bernstein et al., 1999; Steinhauer et al., 1984).

Bernstein et al. (1990b) hanno individuato delle difficoltà nel funzionamento familiare attraverso l’utilizzo del Family Assessment Measure (FAM) (Skinner et al., 1983), in particolar modo nelle subscale Assunzione dei ruoli e Norme e Valori. Le difficoltà nelle assunzioni dei ruoli riflettono una mancanza di accordo tra i membri della famiglia rispetto ai propri compiti e doveri e una mancanza di adattamento dei propri ruoli di fronte a nuove situazioni o col passare del tempo. (Steinhauer et al., 1984).

Molte volte una madre eccessivamente ansiosa, inconsciamente ed involontariamente, trasferisce nel figlio le proprie fobie andando ad indebolire l’autostima del figlio stesso, il quale giunge a credere di essere realmente “bisognoso di protezione”, ed incapace di fare da sé. In concomitanza, talvolta, accade che all’interno di questa dinamica familiare già disturbata e disturbante vi sia anche la figura di un padre poco presente o del tutto assente tanto da privare il figlio di quel modello di riferimento, in termini di identificazione, fondamentale per la costruzione di una personalità forte e sicura (Moraldi, 2012).

A queste caratteristiche, spesso, si aggiungono anche le influenze di particolari regimi educativi. Può accadere che alle spalle del bambino vi sia una famiglia estremamente tollerante. Avere due genitori indulgenti può tradursi, una volta entrati nel mondo della scuola, nella difficoltà d’interiorizzazione delle regole scolastiche e dei rimproveri delle maestre (Sperling, 1967).

Quando il problema del rifiuto scolastico nasce in modo secondario rispetto ad una relazione malsana tra madre e figlio e ad una dinamica familiare viziata, si è soliti parlare di rifiuto scolastico indotto. (Sperling, 1967).

Valutazione del rifiuto scolastico

Prima del lavoro di Kearney (2002, 2006), l’approccio diagnostico faceva riferimento al disturbo di ansia ed in particolar modo al disturbo di ansia da separazione (maggiormente tra i 6 e i 7 anni), mentre per altri essa poteva essere collegata ad un problema di fobia sociale e nei più grandi spesso era vista come riflesso di un problema di bassa autostima o di precoci sindromi depressive. L’aspetto nuovo che emerge nei lavori di Kearney è un approccio funzionale al rifiuto scolastico che permette per prima cosa di individuare quelle situazioni dove l’assenza a scuola non è legata a problemi di ansia ed in particolar modo cerca di comprendere e rilevare la funzione che il comportamento di rifiuto scolastico ha per il bambino.

Come sempre un buon colloquio clinico fornisce il miglior quadro della situazione.
Vi sono però alcuni questionari che possono essere utilizzati o costituire degli spunti interessanti relativamente alle aree da esplorare nel colloquio stesso: School Refusal Assessment Scale (SRAS, Kearney & Silverman, 1990; 1999) e School Refusal Assessment Scale Revised (SRAS-R, Kearney, 2002).
Questa scala è uno strumento specifico che permette di fare una diagnosi funzionale dei sintomi legati al rifiuto scolastico.

La School Refusal Assessment Scale Revised prevede un questionario per il bambino/ragazzo e uno per ambedue i genitori. Attraverso le risposte date, vengono analizzati i rinforzi positivi e negativi scatenati dal rifiuto scolastico. Kearney, infatti, propone una strategia di valutazione che evidenzia due tipologie di casi che si basano sul ricevere rinforzi positivi o negativi in seguito all’assenteismo da scuola. Questi danno luogo a quattro diversi quadri sintomatologici.
Infatti, sebbene si osservino varie forme di comportamenti esibiti dal bambino, le variabili che possono causare il problema e che lo mantengono sono essenzialmente quattro:
1. evitare oggetti o situazioni che generano un’ansia generale o emozioni negative;
2. evitare situazioni sociali avversive o valutative;
3. ottenere attenzione dalle figure significative;
4. perseguire rinforzi positivi tangibili fuori della scuola (guardare la tv, dormire, giocare, stare al computer, frequentare gli amici, consumare alcool o sostanze stupefacenti, frequentare sale da gioco, ecc).

Le diagnosi che più di frequente si associano ai quattro profili funzionali proposti da Kearney & Albano (2004) sono: per il gruppo che evita la scuola per cercare una maggiore attenzione dalle figure di riferimento è presente l’ansia da separazione; per i gruppi che rifiutano la scuola per sottrarsi a stimoli che sono valutati negativamente o per evitare situazioni sociali avversive o valutative si associa la diagnosi di depressione o di disturbo di ansia; per il gruppo che rifiuta la scuola per perseguire rinforzi esterni positivi, la comorbilità è con i disturbi della condotta o del comportamento oppositorio-provocatorio (Kearney & Albano, 2004).

Self-Efficacy Questionnaire for School Situations (SEQ-SS Heyne, King, Tonge et al., 2002).
Valuta la percezione che il bambino ha della sua capacità di fare fronte a situazioni potenzialmente ansiogene legate alla scuola, quali lo svolgere le attività scolastiche, il restare lontano dai genitori e dalle proprie figure di attaccamento. È meno validata ed usata rispetto alla precedente.

La valutazione completa delle paure e delle ansie dell’infanzia comprende misure di natura cognitiva, comportamentale e fisiologica (Barrios, Hartmann & Shigetomi, 1981), nonché l’analisi del contesto in cui si verificano. La strategia proposta da alcuni autori è quella di cominciare con un’ampia valutazione del bambino e del suo ambiente (ad esempio, la famiglia, la scuola, i coetanei) e procedere poi verso l’acquisizione di informazioni più precise riguardo alle caratteristiche dello stimolo, alle modalità di risposta, ai processi cognitivi, agli antecedenti e alle conseguenze, alla durata e alla pervasività delle fobie. Così la procedura di valutazione inizia con un’intervista comportamentale approfondita e utilizza un approccio multimodale, improntato sul problem solving (Mash & Terdal, 1981, Ollendick & Hersen, 1984).

La raccolta di tutte queste informazioni richiede un approccio collaborativo che includa oltre al bambino, i genitori e gli insegnanti così da avere un’attenta e completa analisi dei sintomi (Fremont, 2003). Non si può prescindere dal collaborare con la scuola, sia in fase di assessment che di trattamento, per garantire la risoluzione del problema (Patrizi & Isola, 2007).

Nel colloquio con gli insegnanti va indagata la presenza di problemi nell’inserimento sociale del paziente, l’andamento delle assenze, le relazioni con i pari, cercando anche di cogliere il clima della relazione con gli insegnanti stessi (Fremont, 2003). Si può cercare di sapere se sono avvenuti episodi potenzialmente stressanti precedenti all’inizio delle difficoltà del bambino (atti di bullismo, litigi con un compagno, problemi con un insegnante, malesseri fisici vissuti a scuola o ancora insuccessi nei compiti didattici, incidenti ecc.). Vanno raccolte le valutazioni degli insegnanti su eventuali difficoltà nell’apprendimento o sulla presenza di manifestazioni di ansia durante le interrogazioni o le verifiche. È utile chiedere se vi è stato un repentino calo nel rendimento scolastico nell’ultimo periodo (Patrizi & Isola, 2006).

Il metodo più diretto per valutare i comportamenti temibili e ansiosi è quello di osservare questi comportamenti nelle situazioni in cui si verificano. Nei sistemi di osservazione comportamentale, i comportamenti specifici che riflettono la paura sono definiti e registrati in modo operativo. Spesso questi sistemi sono altamente individualizzati e idiosincratici a particolari timori o fobie.

La scala di osservazione prescolare di ansia (POSA) sviluppata da Glennon & Weisz (1978) è un sistema di osservazione comportamentale che è stato sottoposto a valutazione psicometrica. Il POSA include 30 indici comportamentali specifici di ansia da osservare usando una procedura di campionamento standard. Gli indici comportamentali comprendono, ad esempio, mangiarsi le unghie, l’evasione del contatto visivo, il silenzio alle domande e la postura rigida. Per valutare l’affidabilità e la validità del POSA, i bambini prescolari sono stati osservati durante due sessioni di test cognitivi. La prima sessione è stata progettata per suscitare elevati livelli di ansia (madre assente); la seconda sessione è stata progettata per produrre bassi livelli di ansia (madre presente). Per quanto riguarda la validità dello strumento, è stato riscontrato che i punteggi POSA sono significativamente correlati con le valutazioni dei diari osservativi degli insegnanti e dei genitori dell’ansia dei bambini. Pertanto, i sistemi di codifica dell’osservazione del comportamento come il POSA risultano essere molto efficaci nello studio del comportamento di paure collegate al contesto scolastico (Katz, Kellerman & Siegel, 1980).

Interventi terapeutici del rifiuto scolastico

Sebbene non ci siano in letteratura studi sistematici sull’efficacia dei diversi protocolli e programmi d’intervento con i bambini con rifiuto scolastico, le ricerche presenti e i dati clinici suggeriscono una notevole efficacia dell’approccio comportamentale e cognitivo (Blagg & Yule, 1984; King et al., 1998; Last et al., 1998) e ciò è spiegato anche dal fatto che lo stesso modello sembra funzionare molto bene nelle terapie per i disturbi d’ansia in età evolutiva (Kendall & Di Pietro, 1995; Bissoli, 2007; Cunningaham et al., 2006; D’Ambrosio & Coletti, 2002; Mendlowitz, 2005; Sharon et al. 2006).

Il trattamento più efficace sembra, infatti, quello orientato principalmente alla riduzione dell’ansia di questi bambini e per questo diventa importante individuare in primo luogo le specifiche dinamiche comportamentali e cognitive che caratterizzano l’ansia di ogni singolo bambino. Gli aspetti più complessi che ruotano intorno al disturbo sono i circoli disfunzionali che non fanno altro che consolidare nel bambino la condizione emotiva legata all’ansia, i pensieri di autosvalutazione e la paura della vergogna, che lo rendono sempre più inibito e isolato, povero nelle abilità socio-cognitive, incapace di creare relazioni sociali, di codificare correttamente e prevedere i comportamenti altrui (D’Ambrosio & Coletti, 2002.)

Alcuni autori descrivono diverse strategie comportamentali che genitori e insegnanti dovrebbero conoscere e cercare di utilizzare nella pratica quotidiana dato che possono contribuire in generale all’interruzione o diminuzione di circoli viziosi dell’ansia e quindi in generale della sintomatologia.

Gli interventi di psicoeducazione con i bambini, ma anche con genitori e insegnanti, sono una chiave fondamentale per un intervento efficace (Tatem & Del Campo, 1995).

I bambini sono incoraggiati a parlare delle loro paure e ad identificare le differenze tra paura, ansia e fobie; vengono date informazioni utili per aiutarli a superare la loro paura di frequentare la scuola con esercizi da svolgere a casa e che saranno poi discussi nelle sedute successive; viene poi chiesto loro di tenere un diario quotidiano per descrivere le loro paure, pensieri, strategie di coping e sentimenti associati alle loro paure (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984; King & Bernstein, 2001).

Ai genitori vengono fornite strategie di gestione del comportamento, legate ad esempio al come accompagnare il bambino a scuola, fornendo un rinforzo positivo per la frequenza scolastica e diminuendo i rinforzi positivi legati al rimanere a casa (ad esempio, guardare la televisione o giocare con i videogame mentre si è a casa da scuola). I genitori beneficiano anche d’interventi che li aiutano a comprendere e ridurre la propria ansia e a capire il loro ruolo nell’aiutare i loro figli nell’ottenere cambiamenti efficaci (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984).
Gli incontri con gli insegnati prevedono specifiche raccomandazioni che li aiutano a prepararsi al ritorno del bambino, all’utilizzo dei rinforzi positivi e alla gestione degli aspetti accademici, sociali ed emotivi (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984).

L’utilizzo di tecniche più propriamente cognitive con i bambini, invece, ha l’obiettivo principale di modificare il pensiero disfunzionale (convinzioni irrazionali) sottostante il disturbo emotivo e comportamentale del bambino con rifiuto scolastico (ristrutturazione e modificazione delle strutture cognitive) e di conseguenza di ridurre gli stati mentali di catastrofizzazione, ipergeneralizzazione e attenzione selettiva alla base dell’interpretazione degli eventi (Lambruschi, 2009).

Le distorsioni cognitive sono particolarmente evidenti nei processi di pensiero dei bambini ansiosi. Ad esempio, Zatz e Chassin (1983) documentarono le cognizioni dei bambini ansiosi: essi non solo sviluppano pensieri negativi verso di sé (ad esempio, “sto facendo male, non faccio bene nel compito come gli altri: tutti normalmente fanno meglio di me”), ma attribuiscono meno dichiarazioni positive verso di sé (ad esempio, “io sono abbastanza capace per farlo, sto facendo il meglio che posso, faccio bene il compito come gli altri”). Stefanek et al. (1987) hanno individuato la presenza di simili schemi cognitivi rivolti al sé in bambini ansiosi e socialmente ritirati.

Probabilmente l’approccio cognitivo più frequente con i bambini ansiosi e spaventati è l’utilizzo di tecniche di auto-istruzione verbale (Kanfer, Karoly & Newman, 1975; Graziano & Mooney, 1980; Graziano, Mooney, Huber & Ignasiak, 1979). Nella prima applicazione di questo approccio, Kanfer et al. (1975) è stato usato un campione di bambini di 5-6 anni che avevano moderatamente paura del buio. Tre gruppi di bambini sono stati formati. Il primo gruppo ha provato ad utilizzare controlli attivi e dichiarazioni di competenza (ad esempio, “sono un ragazzo coraggioso e posso gestire il buio”); il secondo gruppo ha provato le dichiarazioni volte a ridurre la qualità avversa della stessa situazione di stimolo (ad esempio, “Il buio non è un posto così male”); e il terzo gruppo ha provato dichiarazioni neutre (ad esempio, “Maria aveva un piccolo agnello”). I gruppi di competenza e di stimolo non differivano significativamente l’uno dall’altro, suggerendo che le dichiarazioni adattative siano state acquisite in entrambe le condizioni.

L’intervento di modificazione dei pensieri disfunzionali è strettamente legato anche a programmi educativi sul riconoscimento, espressione e gestione delle emozioni per implementare la capacità di riconoscerle, saperle denominare e riflettere sul loro rapporto con gli eventi e i comportamenti conseguenti (Di Pietro, 1992).

Le tecniche di “ristrutturazione cognitiva” si basano su strategie “controargomentative” e di riformulazione dei pensieri disfunzionali attraverso situazioni di role-playing e simulazioni di diverse situazioni reali o immaginarie che provocano in genere disagio nel bambino, in cui proporre interpretazioni e conseguenze alternative rispetto ad eventi e stati mentali propri e altrui.

Già Shure & Spivak (1978) sottolineavano l’importanza di insegnare al bambino a pensare varie alternative prima di dare una risposta a situazioni interpersonali problematiche, immaginando la sequenza degli eventi che possono scaturire rispetto alle diverse soluzioni ipotizzate. In tal senso anche le tecniche di problem solving e training sulle abilità sociali sono strettamente finalizzate ad incrementare la consapevolezza del bambino delle situazioni problematiche, ad implementare l’autogestione delle emozioni e dei comportamenti alternativi e, quindi, a modificare l’interpretazione del problema.

Focalizzandosi sulle difficoltà del bambino il terapeuta può guidarlo attraverso il Problem Solving a:
1. Riconoscere gli elementi della situazione che sono percepiti come problematici;
2. Ipotizzare comportamenti diversi da quelli solitamente prodotti per risolvere il problema;
3. Scegliere le condotte che meglio soddisfino la soluzione del problema e applicare il pensiero consequenziale;
4. Mettere in pratica le soluzioni scelte e verificarne l’efficacia (D’Ambrosio & Coletti, 2002).

Clinicamente, i trattamenti comportamentali, in particolare le tecniche basate sull’esposizione e sulla desensibilizzazione sistematica, sono state utilizzate ampiamente per il trattamento dell’ansia basata sul rifiuto scolastico (Heyne et al., 2002; Blagg & Yule, 1984). La base per l’utilizzo di questo approccio è stata ricavata, nella maggior parte dei casi, dalla letteratura del trattamento per i disturbi d’ansia negli adulti, in particolare le fobie. Numerosi studi controllati di pazienti adulti fobici hanno dimostrato che l’esposizione graduale a temi o situazioni temute promuove la riduzione della paura e aumenta la capacità reattiva (Barlow & Beck, 1984).

Sulla base dell’ipotesi che l’ansia sia caratterizzata da attivazione fisiologica eccessiva, le tecniche di rilassamento sono spesso consigliate per i bambini ansiosi nelle scuole. Diversi tipi di rilassamento includono il rilassamento muscolare progressivo, il training autogeno, l’ipnosi e, più recentemente, il rilassamento comportamentale (Poppen, 1988). Il rilassamento progressivo, però, sembra essere stato il più influente (Jacobson, 1938): questa tecnica prevede l’alternanza di tensione e rilassamento dei principali gruppi muscolari, con la graduale eliminazione delle contrazioni e la pratica del rilassamento “passivo” (Bernstein & Borkovec, 1973; Wolpe, 1958). Le tecniche di rilassamento possono essere usate da sole nella gestione dell’ansia o in combinazione con altri interventi cognitivo-comportamentali (King, 1980).

Una volta raggiunti dei primi miglioramenti è consigliabile poi lavorare sul rinforzo dell’autostima del bambino, favorendo anche il potenziamento delle abilità di comunicazione, di gestione degli imprevisti e delle difficoltà scolastiche in modo da prevenire ricadute future (Diathine & Valenti, 1990).
In alcuni casi è possibile affiancare all’intervento cognitivo-comportamentale un trattamento farmacologico. I farmaci più usati nel trattamento del rifiuto scolastico sono gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), mentre le benzodiazepine, a causa degli effetti collaterali e dell’alto rischio di dipendenza, possono essere utilizzate solo per poche settimane (Riddle et al., 1999).

Come suggerito da Silverman e colleghi (Burke e Silverman, 1987; Kearney e Silverman, 1990), può essere che il trattamento del rifiuto scolastico sia prescrittivo, dato che diversi bambini rispondono diversamente a tipi di trattamento alternativi. Ad esempio, le diagnosi specifiche di disturbo d’ansia associate al rifiuto scolastico, nonché l’età del bambino, la durata e il grado di assenteismo scolastico e le variabili familiari, possono influenzare la risposta al trattamento. La ricerca futura, usando campioni più grandi, dovrebbe esaminare queste possibilità.

Conclusioni

Delle tante paure riportate dai bambini, alcune sono particolarmente maladattive nell’ambiente scolastico, ad esempio l’ansia da prestazione, l’ansia sociale e il rifiuto scolastico. Fortunatamente, una serie di procedure di riduzione della paura sono state utili nel trattamento dei bambini ansiosi.

Mentre gli approcci cognitivi-comportamentali sono preferiti per l’ansia da prestazione e l’ansia sociale, approcci basati sull’esposizione graduale sono stati utilizzati nel trattamento del rifiuto scolastico. La logica sottostante per l’utilizzo di queste procedure è l’esposizione graduale agli stimoli che inducono la paura (King et al., 1988; Marks, 1987). Questo è un principio importante per gli psicologi scolastici e gli insegnanti al fine di arrivare ad una migliore comprensione del disturbo. Frequentemente, utilizziamo involontariamente trucchi come evitare il comportamento problematico, la protezione e la rassicurazione verbale, che rafforzano le paure e le ansie del bambino; al contrario, devono essere adottati comportamenti attivi per esporre il bambino agli stimoli che inducono la paura in modo che la paura possa essere ridotta (King, Ollendick, & Gullone, in stampa).

D’altra parte, molte pratiche didattiche favoriscono la riduzione della paura (Johnson, 1979; King et al., In stampa). Anche l’atmosfera o il clima della classe gioca un ruolo molto importante e quindi l’insegnante dovrebbe tenere in stretta considerazione questo aspetto. La misura in cui il bambino è disposto ad affrontare esperienze che provocano ansia (esposizione) dipende fortemente da questo fattore contestuale. Naturalmente, ci sono strategie più specifiche che gli insegnanti applicano in classe quotidianamente e che favoriscono la riduzione della paura. Ad esempio, i bambini ansiosi nelle prove di discorso e di lettura davanti ai compagni sono spesso incoraggiati a lavorare su questi compiti in piccoli gruppi (Johnson et al., 1971; Muller & Madsen, 1970).

Soprattutto, è essenziale che i bambini, i genitori, gli insegnanti e gli psicologi scolastici lavorino come una squadra nella gestione di questi disturbi (Blagg, 1987). Sebbene ci sia ancora molto da fare a scuola e in altri ambienti con bambini ansiosi, è evidente che questi disturbi richiedono una valutazione multimodale e programmi di trattamento integrati.

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