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Movimenti oculari e ricordi: quale possibile legame?

Gli scienziati hanno dimostrato che il cervello utilizza i movimenti oculari per riattivare i ricordi del passato, questo potrebbe aprire la strada allo sviluppo di test visivi utili per l’identificazione precoce delle malattie neurodegenerative.

 

La rappresentazione visiva di ricordi passati e i movimenti oculari

Nello studio pubblicato di recente sulla rivista Cerebral Cortex, i ricercatori del Centro di Baycrest hanno osservato che, nel momento in cui il soggetto ricrea mentalmente un’immagine dettagliata vista in precedenza, vengono prodotti gli stessi movimenti oculari e i pattern di attività cerebrali simili alla prima volta in cui è stata osservata l’immagine.

Quando si ricorda qualcosa è come se il cervello risolvesse un puzzle e ricostruisse l’esperienza vissuta in quel momento. Il cervello utilizza i movimenti oculari per unire tra loro parti diverse della memoria in modo da fornire un’esperienza complessiva” sostiene Bradley Buchsbaum, autore senior dello studio.

In particolare, nello studio è stato utilizzato un algoritmo matematico per analizzare le scansioni cerebrali e i movimenti oculari di 16 soggetti di età compresa tra i 20 e i 28 anni.
Gli individui avevano il compito di osservare 14 immagini distinte per alcuni secondi, ricordando quanti più dettagli possibili. In una seconda fase, ai partecipanti è stato chiesto di ricordare le immagini riproducendole mentalmente all’interno di un rettangolo proiettato su uno schermo. Tramite l’imaging cerebrale e la tecnica dell’eye tracking i ricercatori hanno potuto catturare, simultaneamente, l’attività cerebrale e i movimenti degli occhi nel momento in cui i partecipanti memorizzavano e successivamente ricordavano le immagini mostrate.

I risultati hanno mostrato un pattern oculare e cerebrale simile, anche se “ridotto”, quando l’immagine veniva richiamata mentalmente dopo averla memorizzata. Analizzando i movimenti degli occhi e l’attivazione cerebrale i ricercatori hanno potuto identificare l’immagine che i soggetti stavano ricordando.

La spiegazione più probabile dei risultati ottenuti è rappresentata dal fatto che quando ricordiamo, il ricordo prodotto è una versione condensata dell’esperienza vissuta. Se ad esempio, una proposta di matrimonio avviene in due minuti, quando riproduciamo nella nostra testa questo ricordo lo riviviamo in un tempo molto più breve” afferma il Dottor Buchsbaum che continua “Il ruolo dei movimenti oculari appare estremante importante, questi infatti sono come un codice stenografico che il cervello decodifica per attivare la memoria”.

Le prospettive di ricerca future prevedono ulteriori studi per comprendere se siano i movimenti oculari a riattivare la memoria o viceversa. Una maggior comprensione di questa relazione causale potrebbe portare alla creazione di strumenti diagnostici che utilizzino i movimenti oculari al fine di scovare eventuali problemi mnestici, campanelli d’allarme per le malattie neurodegenerative.

I mass media in campagna elettorale: i meccanismi persuasivi

I mezzi di comunicazione di massa hanno un ruolo cruciale nell’informare il cittadino riguardo alle questioni politiche durante la campagna elettorale. L’articolo mira a evidenziare alcuni dei meccanismi persuasivi messi in gioco nell’odierna sofisticata comunicazione politica esercitata dai mass media, partendo dalle considerazioni avanzate da Nicoletta Cavazza ne “La persuasione”.

 

Il ruolo dei mass media nel periodo di campagna elettorale

Quotidianamente, utilizzando qualsiasi mezzo di comunicazione di massa, è probabile che ci si imbatta in una qualche discussione politica. In periodo di campagna elettorale poi, il dibattito politico naturalmente si accende, l’esposizione dei leader è massima e gli elettori indecisi cercano di formarsi un’opinione (o, seppur non cerchino di farsela, vengono comunque influenzati dai contenuti trattati).

Nei mesi precedenti le votazioni, quando conta veramente influenzare il comportamento di voto dei cittadini, possono essere impiegati diversi meccanismi persuasivi. Per quanto riguarda specificamente la televisione, il suo utilizzo politico si è evoluto ed è divenuto col tempo sempre più sofisticato. Inoltre, col passare degli anni, stiamo assistendo ad un’innegabile e progressivo indebolimento del senso di identificazione dei cittadini con un partito o un movimento politico, il che comporta una maggior predisposizione al cambiamento di opinione (Cavazza, 2006).

Questa predisposizione al cambiamento può trovare terreno fertile nella massiccia esposizione politica, una delle basi da cui partire per persuadere il cittadino. La comunicazione politica, tra le altre cose, cerca di indurre atteggiamenti, quindi delle valutazioni e degli orientamenti precisi nei confronti di temi, posizioni, candidati, partiti, ecc. Il fatto interessante è che questo non viene fatto unicamente argomentando delle posizioni, ma in larga parte è un processo indiretto che manipola la percezione delle priorità per il paese o della percezione del consenso di cui gode una data posizione (Cavazza, 2006).

Come i mass media possono influenzare i cittadini durante la campagna elettorale

Come già accennato, anche coloro che non intendono farsi un’idea politica precisa vengono influenzati dagli argomenti affrontati in tv, nei giornali, sul web o nelle radio. Affermo questo pensando al filone di ricerca che si è occupato di studiare il fenomeno di “agenda setting”, partendo dal presupposto che i media suggeriscono ai cittadini a cosa pensare, ipotizzando verosimilmente che l’attenzione data ai vari problemi dai mass media influisca sulla rilevanza che il pubblico attribuisce ai problemi stessi. Dunque, l’esposizione ai media influenzerebbe l’importanza attribuita alle questioni politiche e, di conseguenza, la motivazione all’elaborazione delle informazioni relative (McCombs e Shaw, 1972).

A questo punto, però, sta al cittadino analizzare in maniera approfondita le argomentazioni avanzate, magari anche tenendo a mente questo fenomeno. Comunque, indurre nel pubblico l’idea che alcuni temi siano più rilevanti di altri ha conseguenze molto importanti sui giudizi che poi formulano sui leader e sulle formazioni politiche, conseguenze che naturalmente possono influenzare il comportamento di voto.

Infatti, i giudizi e le decisioni vengono formulati sulla base di un sottoinsieme delle informazioni disponibili e, in particolare, su quel sottoinsieme che in un momento e in un contesto dato risultano più salienti e accessibili (Higgins e King, 1981).  Si pensi ad esempio al tema dell’immigrazione, divenuto uno dei più dibattuti in Italia durante le discussioni politiche, soprattutto in periodo di campagna elettorale. Un tema così delicato, di natura storico-sociale oltre che politica, è divenuto cavallo di battaglia e fulcro della campagna elettorale di alcune formazioni politiche, che addirittura indicano come obiettivo principale l’abbattimento dell’immigrazione clandestina. Ora, premesso che la tattica politica del “divide-et-impera” è molto antica (e dovrebbe ormai esser nota ai più) e che il flusso migratorio probabilmente si può controllare, ma non certo fermare, è chiaro che se il tema dell’immigrazione viene fatto percepire come preminente, il cittadino molto probabilmente sarà influenzato da colui che costantemente affronta quel tema, soprattutto se è politicamente indeciso o poco informato.  I temi costantemente al centro dell’attenzione dei telegiornali, dei giornali radio e dei quotidiani sono quelli che hanno un impatto maggiore sui giudizi che le persone formulano dei leader e dei partiti, diventando degli standard di giudizio.

Un altro effetto indiretto sulle opinioni dei cittadini è dovuto alla diffusione dei sondaggi. Secondo Ceri (1994) essi assolvono principalmente a tre funzioni: consolidare l’immagine positiva di un determinato candidato ed indebolire quella dell’avversario; la seconda riguarda l’induzione di un effetto di agenda setting, quindi di affermare il rilievo di alcune questioni politiche a discapito di altre; la terza riguarda l’induzione di consenso vero e proprio tramite i meccanismi dell’influenza maggioritaria, per cui  in situazioni di indecisione le persone tendono ad accordarsi alle posizioni assunte dagli altri, in modo particolare dalla maggioranza.

Da diversi anni, poi, assistiamo ad una deriva aggressiva della comunicazione politica, soprattutto televisiva e radiofonica, per la quale i dibattiti e le esternazioni dei politici sembrano sempre più finalizzati ad attaccare e squalificare gli avversari (e, ritornando al “divide et impera”, gli avversari non sono sempre soltanto politici), più che sostenere e argomentare una posizione. Questo probabilmente perché, come suggerito da alcuni esperimenti di laboratorio (Martin, 2004) e non solo dal senso comune, la propaganda negativa stimolerebbe una certa mobilitazione, dovuta al fatto che la campagna negativa aumenterebbe la consapevolezza sui problemi che il paese deve affrontare (la cui percezione è influenzata dall’agenda setting) e induce l’idea che la competizione fra i candidati sia ancora aperta (e quindi che il voto del singolo cittadino possa essere decisivo). Oggigiorno, la propaganda negativa, diffusa anche attraverso le cosiddette “fake news” sul web, sembra mirata a contrapporre gli esseri umani l’uno contro l’altro, mettendoli in concorrenza, con l’obiettivo “politico” di accaparrarsi una fetta di potere. La diffusione della paura, del senso di insicurezza, così come la costruzione di capri espiatori per le paure del popolo, mirano a suddividere i cittadini e a indurli ad affidare a un dato leader la risoluzione di determinati problemi.

Il dibattito politico affrontato in tv, anche a causa delle tempistiche televisive, raramente produce una maggior chiarezza su determinati argomenti negli spettatori, anzi. Spesso, in televisione, accade che le argomentazioni politiche passino in secondo piano rispetto al carisma, agli atteggiamenti o alle emozioni che comunica un leader politico. La televisione racchiude il mondo dello spettacolo e talvolta la politica si fonde con esso, con il rischio che vengano messe in primo piano le presunte qualità di un leader, piuttosto che guardare alla sua visione e al suo programma politico. L’elettore prima di andare alle urne ad esprimere il proprio voto deve essere informato ed in questo compito di informazione hanno un ruolo cruciale, ma non sufficiente, i mass-media.

Il cittadino deve quindi approfondire i temi autonomamente, trovando fonti di informazione affidabili (impresa talvolta ardua), per poter andare al voto con la consapevolezza di aver analizzato con razionalità e occhio critico determinate questioni politiche.

Le abitudini da cui ci piace dipendere. Algoritmi, azzardo, mercato, web (2017) – Recensione del libro

Il libro Le abitudini da cui ci piace dipendere scritto da Maurizio Fea analizza le conoscenze necessarie a comprendere le ragioni, scritte nella nostra natura biologica, che spieghino gli intrecci tra le propensioni della mente umana alla gratificazione e il gioco d’azzardo, il mercato, il web e i social network insomma tutte queste nuove sfaccettature di vita che ormai fanno parte della nostra realtà e i loro effetti sulla nostra quotidianità.

 

Comportamento e abitudini

Gran parte del nostro comportamento non è determinato da decisioni intenzionali e consapevoli bensì molto spesso i nostri comportamenti sono agiti dalle abitudini, quelle azioni svolte automaticamente che permettono di svincolarci dal controllo cosciente. Comportamenti avviati senza una scelta deliberata, in modo inconsapevole da stimoli interni o ambientali appresi che altresì hanno bisogno di attenzione per evitare di trasformarsi in compulsioni o dipendenza. Le abitudini sono comportamenti appresi perché attuati ripetutamente, rappresentano l’esito di scelte reiterate quanto basta a far svanire la necessità della scelta. L’automaticità, l’inconsapevolezza e il controllo ambientale conferiscono alle abitudini una grandissima efficienza e lasciano libere le risorse cognitive per compiti più complessi.

Le abitudini da cui ci piace dipendere: le nuove realtà di vita e i loro effetti

Il libro Le abitudini da cui ci piace dipendere scritto da Maurizio Fea edito FrancoAngeli analizza le conoscenze necessarie a comprendere le ragioni, scritte nella nostra natura biologica, che spieghino gli intrecci tra le propensioni della mente umana alla gratificazione e il gioco d’azzardo, il mercato, il web e i social network insomma tutte queste nuove sfaccettature di vita che ormai fanno parte della nostra realtà e i loro effetti sulla nostra quotidianità. Stiamo vivendo in un’epoca che pone le basi al modo in cui evolveranno i nostri cervelli, grazie alla formazione di abitudini che riempiono la vita a milioni di persone, e di cui c’è scarsa consapevolezza. Per limitarne rischi è necessario promuovere intelligenza critica e indirizzare gli sviluppi delle tecnologie e dei mercati, dando a questi ultimi delle cornici etiche entro le quali si possano valutare non solo cose come il rispetto della privacy, ma fondamentalmente la capacità di considerare l’uomo come fine e non come mezzo.

Fea in Le abitudini da cui ci piace dipendere affronta questo tema utilizzando uno stile interdisciplinare descrivendo le basi neurobiologiche che mediano le scelte e fissano le abitudini e la rigorosa analisi dei fattori sociali ed economici in cui queste prendono corpo e si evolvono per poi passare al piano piscologico in cui si descrive l’architettura materiale e informazionale dell’ambiente in cui si realizzano i comportamenti.

Affascinante e lungimirante apre gli occhi e mette in guardia sul futuro e sul cambiamento generazionale.

Roots and Leaves. Radici e sviluppi contestualisti in terapia comportamentale e cognitiva (2016) – Recensione

Roots and Leaves. Radici e sviluppi contestualisti in terapia comportamentale e cognitiva di Roberto Anchisi, Paolo Moderato e Francesca Pergolizzi è la definitiva autobiografia e al tempo stesso il manifesto programmatico di un gruppo di operatori dal ben preciso indirizzo culturale all’interno del panorama della psicoterapia cognitiva e comportamentale italiana: l’indirizzo contestualista.

 

Le radici del contestualismo nel libro Roots and leaves

Il libro Roots and leaves racconta le radici (roots) di questa scuola, di come si sia sviluppata nel mondo e in Italia. È una storia diversa dalla vulgata che prevede uno sviluppo lineare a tre ondate del cognitivismo clinico: dal comportamentismo alla psicoterapia cognitivo-comportamentale ai recenti sviluppi processualisti. Una storia in cui ogni ondata era un frutto maturo della precedente che germogliava senza conflitti e senza incomprensioni, anzi con la benedizione del predecessore.

Non è propriamente così, e il libro racconta bene come il contestualismo, che a sua volta appartiene alla terza ondata processualista ma ne è solo una parte e non la esaurisce, nasca da una sorta di rivolta delle radici comportamentali contro lo stadio intermedio, la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Quello tra Beck e i comportamentisti fu un matrimonio meno felice di quel che sembrava, con uno dei coniugi, il comportamentismo, meno contento dell’altro e che per un po’ mise a tacere le sue perplessità a favore dei vantaggi che ne ricavava: l’esperienza clinica che Beck aveva e che invece i comportamentisti, va detto, avevano colpevolmente trascurato preferendo troppo fare solo i ricercatori accademici. La terza onda nasce anche da questo, dall’emancipazione dei comportamentisti che finalmente si sono dati intensamente all’attività clinica e hanno deciso di scrollarsi di dosso quel che non li convinceva nella tradizione beckiana.

Che si diventi più consapevoli di questo sviluppo contrastato e meno lineare è un bene per il cognitivismo italiano, troppo spesso catturato da una evoluzione diversa che attraverso il costruttivismo si avvicina sempre più alla psicodinamica, tentando un’integrazione con la corrente relazionale di quell’orientamento che è legittima, ma appartiene ad altre rotte e altri lidi rispetto al mainstream cognitivo e comportamentale.

La svolta del contestualismo

La svolta processualista invece, lungi dall’essere un’integrazione, somiglia per alcuni versi più a una potatura e a una semplificazione che però non pecca di semplicismo. Il processualismo –e al suo interno il contestualismo– non stanno tentando nessuna integrazione con concetti esterni alla tradizione cognitiva: non ci sono contaminazioni con procedure e modelli psicodinamici, relazionali, interpersonali e così via.

Semplificazione fino a un certo punto, intendiamoci. Il contestualismo è anche a sua volta una corrente affascinata dalla complessità, e questa complessità è appunto il contesto. Come tutte le complessità questa componente può piacere o non piacere, si può amare o odiare. Gli stessi autori ammettono che questo concetto è a rischio di scarsa operatività e di eccessiva flessibilità, uno di quei concetti che per spiegare troppo non prendono la mira su uno di quei colli di bottiglia riduzionisti che sono la forza della scienza occidentale, riduzionista e tecnologica. Sarebbe però ingeneroso non prendere atto anche della ricchezza di spiegazioni cliniche che ci concede il contestualismo, soprattutto nella formulazione del caso.

Gli sviluppi del contestualismo in Italia

Il secondo merito del libro Roots and leaves sta nella descrizione degli sviluppi, le foglie (leaves) del contestualismo in Italia, con la particolare attenzione che sempre ha prestato il comportamentismo italiano alle applicazioni sugli ostacoli clinici dell’apprendimento. I contestualisti, che sono i figli di quella tradizione, non la smentiscono e aggiungono a quella vecchia specializzazione una nuova attenzione ai vari disturbi classificati secondo il manuale DSM a cominciare dall’ansia, dimostrando così che la loro adesione al contestualismo non è ideologica e che, quando è il momento, sanno recuperare la lezione del vecchio Beck riguardo la preziosità delle diagnosi psichiatriche.

Un libro quindi raccomandabile, e l’unica critica che si può rivolgere è una certa prolissità e eccessiva abbondanza di capitoli, in un tentativo –comprensibile- di dare voce a tutti gli sviluppi del contestualismo italiano. È un difetto veniale: per ovviare basta leggere il ricco indice e scegliere quel che ci interessa.

Prevenzione dell’obesità infantile: gli interventi a scuola non bastano

In un nuovo studio nel Regno Unito, i ricercatori hanno cercato di stabilire se gli interventi a scuola di anti-obesità possano avere successo nell’aiutare i bambini a raggiungere un peso sano. Ciò che è emerso dai risultati, tuttavia, è che il programma di stile di vita sano che è stato proposto ha influito molto poco sulle variazioni di peso degli studenti, suggerendo che le scuole non possano, da sole, combattere l’obesità.

Lucia Marangia

 

Gli interventi a scuola contro l’obesità infantile

L’eccesso di peso nell’infanzia è un problema mondiale che colpisce circa 41 milioni di bambini di età inferiore ai cinque anni. Oltre ai problemi fisici e psicosociali in questi primi anni, il sovrappeso infantile è un importante fattore predittivo dell’obesità in età adulta.

In un nuovo studio nel Regno Unito, i ricercatori hanno cercato di stabilire se gli interventi a scuola di anti-obesità possano avere successo nell’aiutare i bambini a raggiungere un peso sano. Ciò che è emerso dai risultati, tuttavia, è che il programma di stile di vita sano che è stato proposto ha influito molto poco sulle variazioni di peso degli studenti, suggerendo che le scuole non possano, da sole, combattere l’obesità.

Lo studio è stato condotto dai ricercatori dell’Università di Birmingham e finanziati dal National Institute for Health Research (NIHR). L’obiettivo era quello di valutare il valore clinico e il rapporto costo-efficacia del programma, che includeva attività progettate per sostenere i bambini di età compresa tra sei e sette anni nel mantenere il loro peso a un livello sano. Tutto questo attraverso un’alimentazione sana e un’adeguata l’attività fisica.

Quasi 1.500 studenti di 54 scuole elementari hanno partecipato allo studio. Al momento dello studio sono stati raccolti alcuni dati: peso, altezza, percentuale di grasso corporeo, circonferenza della vita e pressione sanguigna. Lo studio, durato 12 mesi, prevedeva una sessione di attività fisica giornaliera di 30 minuti durante l’orario scolastico, nonché un programma interattivo di sei settimane in collaborazione con una squadra di calcio della Premiership. Le scuole hanno anche offerto alle famiglie l’opportunità di frequentare un laboratorio di cucina salutare ogni trimestre. Gli studenti avevano anche il compito di registrare il loro apporto dietetico e stimare regolarmente la loro qualità della vita, la loro accettazione sociale e l’immagine corporea. Queste misurazioni sono state riprese nuovamente a 15 e a 30 mesi, e sono state confrontate con gli studenti che non avevano preso parte allo studio. I risultati hanno mostrano che l’intervento non ha comportato una differenza significativa nello stato di peso dei partecipanti.

Conclusioni: gli interventi a scuola non bastano per prevenire l’obesità infantile

Questi studi dimostrano che le scuole hanno fatto dei progressi nel migliorare la qualità dell’alimentazione, promuovendo anche l’attività fisica, ma è necessario molto più lavoro per ottenere dei risultati significativi. Occorrono politiche più rigorose per fornire all’interno dell’orario scolastico un’ alimentazione meno ricca di grassi e più nutriente e più ore di attività fisica.

Depressione: persino i profumi non sono più gli stessi – Correlazioni tra sintomi depressivi e capacità olfattive

L’esame delle strutture cerebrali dei pazienti depressi ha messo in evidenza alcune modificazioni in strutture anatomiche implicate anche nella neurofisiologia dei processi olfattivi. Si potrebbe dunque supporre che nei pazienti depressi si verifica non solo un abbassamento del tono dell’umore, ma anche una diminuzione delle loro capacità olfattive.

 

Attualmente si stima che il 15% della popolazione mondiale soffra di disturbi mentali. Si ritiene, inoltre, che una percentuale compresa fra l’8% e il 12% abbia avuto un episodio depressivo nel corso del ciclo di vita. L’esame delle strutture cerebrali dei pazienti depressi ha messo in evidenza alcune modificazioni che si riscontrano a diversi livelli nel sistema prefrontale limbico. Molte di queste strutture anatomiche sono anche implicate nella neurofisiologia dei processi olfattivi. Alla luce di ciò, si può supporre che nei pazienti depressi si verifica non solo un abbassamento del tono dell’umore, ma anche una diminuzione delle loro capacità olfattive.

Keywords: depressione, funzioni olfattive, sistema limbico

Depressione: dal sistema limbico ai processi olfattivi

Attualmente si stima che il 15% della popolazione mondiale soffra di disturbi mentali (Atasanova e al., 2008; Prince e al., 2007). Si ritiene, inoltre, che una percentuale compresa fra l’8% e il 12% abbia avuto un episodio depressivo nel corso del ciclo di vita (Croy e al., 2014). Relativamente al genere, le donne sono più a rischio rispetto agli uomini e, fra le fasce d’età, quella dei giovani adulti, con un’età compresa fra 18 e 44 anni, ha una maggiore probabilità di ammalarsi di depressione (Hischfeld e Cross, 1982).

L’esame delle strutture cerebrali dei pazienti depressi ha messo in evidenza delle modificazioni che si riscontrano a diversi livelli nel sistema prefrontale limbico, ovvero nella corteccia orbitofrontale, nella corteccia cingolata anteriore e posteriore, nell’ippocampo, nell’amigdala, nell’insula e nel talamo (Hoflich e al., 2012).

Alcune di queste strutture anatomiche sono anche implicate nella neurofisiologia dei processi olfattivi. Infatti, le tecniche di neuroimaging hanno confermato che le emozioni e gli odori sono elaborati prevalentemente nelle stesse strutture cerebrali, quali l’ipotalamo, l’amigdala, la corteccia orbitofrontale e l’insula (Zald e Pardo, 2000). Questo è spiegato dal fatto che, a livello embriogenetico, il bulbo olfattivo dà origine al sistema limbico, che è responsabile dei processi emozionali (Kohli e al., 2016).

Nel cervello umano il bulbo olfattivo e l’ippocampo sono le uniche aree nelle quali è stata dimostrata una neuroplasticità postnatale, inclusa la neurogenesi (Altman, 1969; Boldrini e al., 2009). Relativamente agli episodi depressivi maggiori, diverse ricerche (Murray e al., 2008; Sahay e Hen, 2007; Snyder e al., 2011) hanno riscontrato che durante il loro decorso diminuisce il volume dell’ippocampo e la capacità di neurogenesi di esso. A questo riguardo, si ipotizza che l’azione di alcuni farmaci antidepressivi vada ad incrementare il volume dell’ippocampo e la sua capacità di neurogenesi (Boldrini e al., 2009).

Il bulbo olfattivo nei processi depressivi

Anche il bulbo olfattivo sembra implicato nei processi depressivi. Nei ratti, per esempio, la distruzione/rimozione del bulbo olfattivo determina una forma depressiva. Per spiegare tale fenomeno è stata avanzata l’ipotesi che la bulbectomia olfattiva crei una disfunzione nel sistema limbico (Song e Leonard, 2005). Ancora, gli studi di neuroimaging hanno dimostrato che esiste una riduzione del volume del bulbo olfattivo in pazienti che soffrono di depressione (Negoias e al., 2010). Alla luce di questo, si può ipotizzare che una disfunzione del bulbo olfattivo possa alterare non solo la funzione olfattiva, ma anche incrementare i sintomi depressivi (Negoias e al., 2010; Pause e al., 2001). Alcune ricerche, a tal proposito, hanno avanzato l’ipotesi che i trattamenti terapeutici per la depressione, sia farmacologici che psicoterapeutici, migliorano e incrementano le funzioni olfattive (Yuan e al., 2014; Naudin e al., 2012; Swiecicki e al., 2009).

In conclusione, si può supporre che nei pazienti depressi si verifica non solo un abbassamento del tono dell’umore, ma anche una diminuzione delle loro capacità olfattive (Taalman e al., 2017).

Quando il divorzio psicologico non si raggiunge: la guerra del legame disperante

Il divorzio, e la fine di un matrimonio in generale, rappresenta un importante momento di cambiamento che coinvolge l’intero progetto di vita di entrambi i coniugi. Questa fase comporta la riorganizzazione di tanti aspetti della propria esistenza e quotidianità: aspetti economici, abitazione, rete relazionale, immagine sociale.

 

Le sei dimensioni del divorzio di Bohannan

Nel 1973 Paul Bohannan ha elaborato sei dimensioni che coinvolgono la coppia al momento della separazione:

  • Divorzio emozionale: rappresenta lo scioglimento del progetto di vita comune costruito fino ad allora, dei sogni e delle speranze nati durante il tempo trascorso insieme.
  • Divorzio legale: lo scioglimento legale del vincolo.
  • Divorzio economico: cambiamento di status che può creare una condizione di disagio economico per uno o entrambi i coniugi.
  • Divorzio comunitario: abbandono dell’abitazione comune o allontanamento da amici e rispettive famiglie e più in generale della rete sociale costruita insieme.
  • Divorzio genitoriale: quando l’elevata conflittualità non permette di mantenere un accordo educativo nei confronti dei figli o avviene con essi una separazione intenzionale o per motivi di affidamento legale.
  • Divorzio psicologico: “separazione di sé dalla personalità e dall’influenza dell’ex coniuge” (Bohannan, 1973), ovvero imparare a vivere la propria vita senza l’altro.

La separazione della coppia giunge positivamente al termine quando entrambi i coniugi hanno accettato la fine del rapporto e ne hanno compreso le cause e le dinamiche implicite.

Tuttavia quando il matrimonio finisce contro la volontà di uno dei due coniugi, colui che lo subisce vive una condizione emotiva assimilabile al lutto (Gambini, 2010), termine che indica appunto “tutti quei processi psicologici, consci o inconsci, che vengono suscitati dalla perdita di una persona amata” (Bowlby, 1983); si tratta quindi di una esperienza di perdita che provoca un profondo dolore.

Il divorzio come lutto

Nel 2005 David Sbarra e Robert Emery, due psicologi americani, nel tentativo di approfondire tale sovrapposizione, hanno teorizzato il “modello ciclico del lutto”.

Tale modello prevede tre emozioni:

  • Amore, che implica nostalgia per la perdita o la segreta speranza che tutto possa tornare come prima; rimanere fissati su questa emozione determina la negazione psichica della separazione, nella speranza che possa avvenire una riconciliazione;
  • Collera, a causa della frustrazione subita, della sensazione di essere stato ingannato e del dolore percepito; questa emozione se non correttamente elaborata può portare ad attribuire all’altro tutte le colpe della separazione e i torti subiti; l’ex coniuge diventa così la causa della rovina della propria vita.
  • Tristezza, legata al sentimento di solitudine e sconforto che la separazione determina; una fissazione su questa emozione può provocare pensieri suicidari o stati depressivi, nei quali tutte le colpe della separazione vengono attribuiti a se stessi.

Tipicamente al termine di una relazione tali emozioni compaiono una per volta con forte intensità, con il tempo le stesse iniziano a diminuire di profondità tendendo sempre più a manifestarsi simultaneamente (Sbarra & Emery, 2005).

Se controllati, riconosciuti ed elaborati correttamente questi contenuti psichici possono portare ad una nuova rinascita e all’accettazione della separazione e del divorzio, in vista di un nuovo personale progetto di vita.

Solo così è possibile attuare il “divorzio psicologico” di cui parla Bohannan (1973).

Non tutte le coppie però riescono, a seguito della rottura del legame, a giungere ad un divorzio psicologico.

Il legame disperante

Alcune separazioni diventano, di fatto, impossibili: la paura di perdersi si trasforma in una guerra in tribunale e più in generale in una lotta continua che si alimenta di ogni minimo pretesto. Tale scontro nella mente dei coniugi dovrà portare ad un unico vincitore e alla conseguente punizione dell’altro.

Nasce così quello che Cigoli, Galimberti e Mombelli (1988) definiscono “legame disperante”.

Il legame disperante è ciò che non permette alla coppia di raggiungere il divorzio psicologico: il rapporto non può essere mantenuto in vita perché è distruttivo, ma spezzarlo comporterebbe una profonda angoscia, che deve essere evitata perché troppo dolorosa.

L’altro è considerato come il “male”, a cui vanno attribuite tutte le colpe, anche quelle personali. Ed è proprio questa logica che alimenta il desiderio di distruggerlo: dal punto di vista giuridico, economico e psicologico; al fine di vendicarsi del torto subito.

Per tali persone il giudice assume la funzione di dimostrare che «l’altro ha torto e io ho ragione»; mentre interventi di tipo clinico e terapeutico o di mediazione familiare, che sarebbero auspicabili, vengono rifiutati.

All’interno di questa fase non vi è spazio per l’elaborazione del dolore, che potrebbe condurre alla fine dei conflitti e all’inizio di una nuova vita per ciascuno degli ex coniugi.

Il divorzio legale poi comporta profonde trasformazioni materiali: problematiche economiche, il rientro nella propria famiglia di origine, solitudine.

Queste difficoltà oggettive si sommano a quelle psicologiche e si trasformano in ulteriori pretesti per arrivare allo scontro: ricatti per il mancato pagamento dei versamenti, sentimenti di frustrazione per la propria condizione materiale di vita, denunce.

In questa battaglia, incentrata sul desiderio di rivalsa, i figli rimangono sullo sfondo, non visti. Ed è in questo tipo di coppie ad alta conflittualità che “il disordine relazionale pervade l’area della genitorialità, chiamando un figlio, attraverso i suoi sintomi, a giocare la sua parte nel sistema” (Bogliolo & Bacherini, 2005)

Il divorzio genitoriale si trasforma nell’impossibilità di mantenere un accordo educativo nei confronti dei figli: il genitore perde la consapevolezza delle proprie responsabilità e dei propri compiti in relazione al ruolo di madre e padre.

Inoltre le difficoltà a scambiarsi informazioni relativamente ai figli, senza creare un’ulteriore occasione di scontro, si trasformano in vera e propria condizione di incomunicabilità i cui mediatori diventano spesso gli stessi figli: oltre alla breve telefonata, ai messaggi tramite segreterie telefoniche ed SMS, alla email e ai fax inviati tramite legali di parte, la coppia ricorre spesso ai figli, che devono portare con sé, quando si spostano dalla casa della mamma a quella del papà e viceversa, anche il carico dell’assenza di comunicazione genitoriale.

Tuttavia in questa condizione ciascuno dei due ritiene di essere il genitore più idoneo e pretende che ciò gli venga riconosciuto dal sistema giudiziario attraverso l’esercizio dell’affidamento.

Questa logica diventa ancora una volta pretesto per alimentare ulteriori conflitti che in questo caso si spostano all’interno dell’aula di tribunale che mettono in gioco ulteriori meccanismi, come quello ad esempio delle false denunce (“l’altro presenta stili di vita non idonei per un minore”, “l’altro è negligente nei confronti dei bisogni del figlio”, ecc…), nel tentativo di screditare l’altro coniuge e vincere la battaglia dell’affidamento.

L’impossibilità quindi di attuare un divorzio psicologico (Bohannan, 1973) e superare “la fase della collera”(Sbarra & Emery, 2005) impedisce una ridefinizione efficace dei propri ruoli genitoriali e il loro esercizio.

Anche i figli vivono la separazione dei genitori come un lutto: provano paura, si sentono disorientati per la perdita della loro quotidianità e delle loro certezze, vivono la tristezza di qualcosa che c’era prima e adesso non c’è più; provano rabbia per via dell’impotenza che sperimentano in tale situazione; attribuiscono spesso a sé la colpa dell’accaduto; vivono la vergogna, percepiscono la separazione dei propri genitori come qualcosa per cui essere imbarazzati agli occhi degli altri (Emery, 2008).

Infine il bambino sperimenta il senso di impotenza: spera inizialmente di riuscire a riunificare i genitori, ma il suo desiderio di onnipotenza si scontra ben presto con una realtà diversa.

Il persistere di una intensa conflittualità tra i genitori può provocare nel tempo disturbi profondi nei figli dal punto di vista psicofisico, relazionale e comportamentale e questo è il motivo per cui l’ intensa e prolungata conflittualità genitoriale è considerata una violenza psicologica che può sfociare in una vera e propria azione di mobbing genitoriale (Najman, Behrens, Andersen, Bor, O’Challagan & Williams, 1997)

Tale violenza si concretizza in azioni quali: indurre il figlio a scegliere un genitore a discapito dell’altro, con l’instaurarsi così di conflitti di lealtà, sentimenti di colpa, di inadeguatezza e di abbandono; utilizzare il figlio per ottenere informazioni sull’ex coniuge, il decidere se parlare o meno, se mentire o dire la verità, fa vivere loro un profondo conflitto di lealtà (Baker, 2010).

Superare una situazione di alta conflittualità come il divorzio richiede sicuramente un notevole lavoro su se stessi e sul proprio ruolo di genitore, è necessario attraversare la fase del dolore, accettarla, elaborarla e lasciare andare la propria sofferenza, iniziando a investire su di sé e sulle proprie risorse. Questo cammino è molto faticoso e talvolta è opportuno affidarsi ad un esperto che possa fare da supporto e facilitatore nelle dinamiche di coppia e personali.

Solo così è possibile sganciarsi dal proprio passato ed essere finalmente liberi di essere felici.

Che schifo, solo a guardare ho bisogno di lavarmi! Disturbo ossessivo-compulsivo e propensione al disgusto

Uno dei campioni clinici in cui è stato dimostrato che è presente un’alta propensione al disgusto, è quello di pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, in particolare con sintomatologia di paura della contaminazione.

Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Tutti noi, almeno una volta, abbiamo provato disgusto per qulacosa, dal cibo scaduto dimenticato nel frigo, alle notizie più scabrose lette sui giornali. Infatti la funzione primaria del disgusto è quella di difendere il proprio organismo da degli stimoli dannosi (Rozin & Fallon, 1987; Rozin, Haidt, & McCauley, 2000). Appare ovvio come essere disgustati dal latte scaduto ci evita di berlo e quindi stare male. Mentre il disgusto per situazioni sociali o fatti moralmente discutibili potrebbe avere la funzione di proteggere gli individui attraverso il mantenimento dell’ordine all’interno della comunità (Rozin & Fallon, 1987).

Questo articolo si propone di indagare i fattori che possono aumentare la vulnerabilità nel provare disgusto in contesti non elicitanti, cioè in contesti in cui il disgusto non sembra avere una funzione protettiva. L’importanza di questa analisi risiede nella possibilità che tali fattori possano portare a provare disgusto verso il proprio essere o agire. Quindi il trattamento efficace della vulnerabilità al disgusto potrebbe avere un valore preventivo.

Disgusto e Disturbo Ossessivo-Compulsivo: la paura della contaminazione

Uno dei campioni clinici in cui è stato dimostrato che è presente un’alta propensione al disgusto, è quello di pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, in particolare con sintomatologia di paura della contaminazione (Olatunji & Sawchuk, 2005). Infatti il 50% dei pazienti riporta come i comportamenti patologici verso l’igiene siano dovuti a un pensiero ricorrente di evitamento del contagio (Olatunji & Sawchuk, 2005). Inoltre, è stato ipotizzato che la propensione al disgusto stessa possa essere uno dei fattori di mantenimento della patologia (Olatunji & Sawchuk, 2005), se non persino uno dei fattori che aumentano l’incidenza di drop-out dei pazienti (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015).

Il disgusto è una delle sei emozioni di base (Ekman, 1993), con una risposta fisiologica precisa, l’attività parasimpatica che produce l’aumento della salivazione e nausea (De Jong et al., 2011), e un correlato neurale specifico, l’insula (Sprengelmeyer, 2007).

Inizialmente venne studiato come reazione di avversione verso certi cibi, quindi elicitanti disgusto, caratterizzati sia da aspetto fisico, che a carattere ideativo, che quindi riportano la conoscenza della provenienza di questi alimenti (Rozin & Fallon, 1987; Rozin, Haidt, & McCauley, 2000). La risposta comportamentale consiste nell’allontanamento dall’oggetto disgustoso, poichè potrebbe essere dannoso o contaminate, mantenendo il ruolo di difesa del corpo (Rozin & Fallon, 1987).

Esso può essere suddiviso in diversi domini, più sensoriali o culturalmente determinati, in base a quale tipo di stimolo li elicita: disgusto centrale, dalla natura animale, interpersonale, e morale (Rozin, 2009). Gli ultimi tre sono connessi a credenze cognitive, piuttosto che sensoriali, e riguardano rispettivamente: il contagio per la mortalità e la decomposizione, la distanza da chi è considerabile come disgustoso, e la preservazione di un ordine sociale (Rozin, 2009). Per ciò che concerne il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, la ricerca è maggiormente concentrata sul primo dominio, ovvero il disgusto centrale. È caratterizzato da 1) rifiuto dell’incorporazione orale, 2) senso di pericolosità dell’oggetto disgustoso, 3) e contaminazione potenziale che può produrre.

Il ruolo primario del disgusto centrale è quello del rifiuto del cibo, così la bocca acquisisce il ruolo di porta (Rozin & Fallon, 1987), e si rafforza la credenza che “si diventa quello che si mangia” (Rozin & Haidt, 2000). Data questa premessa, per quanto riguarda la contaminazione, maggiormente legata al tatto e alla vista, Rozin propone come due leggi magico-simpatetiche, possano regolarla: la legge del contagio, una volta che si è in contatto con qualcosa di contagioso, si rimarrà contaminati sempre; e la legge della similarità, due oggetti che appaiono uguali nella forma, lo saranno anche nella sostanza (Rozin & Fallon, 1987; Rozin & Haidt, 2000).

I pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo provano più disgusto degli altri? Come può essere misurata l’esperienza di disgusto in termini di differenze individuali? Va inanzitutto fatta una distinzione tra propensione al disgusto (PD), ovvero la facilità di un individuo di essere disgustato, e la sensibilità al disgusto (SD), ovvero l’intensità della valutazione negativa nel momento in cui si prova disgusto (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015).

Verranno proposti dei lavori che trattano la propensione al disgusto in campioni normali e con Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Per questo scopo, nella maggior parte degli studi, lo strumento utilizzato è la Disgust Scale Revised (Olatunji et al., 2009), che valuta l’inclinazione/propensione a provare disgusto in più domini: animali, prodotti del corpo, morte, violazioni del normale sviluppo, cibo, sesso, igiene, leggi simpatetiche (contagio improbabile). Nonostante ci sia stato l’interesse di proporre nuovi strumenti che meglio spieghino la variabilità delle risposte nei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Melli et al., 2015a), la variabilità risulta essere confondente per la concettualizzazione del disturbo, e di conseguenza per il successivo trattamento.

Il disgusto nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo: quali conseguenze nel trattamento?

Infatti, la letteraura scientifica, e di conseguenza la proposta di trattamento, si è concentrata su aspetti legati all’ansia nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo, ma se pensiamo al sintomo di paura del contagio, una domanda sorge spontanea: qual’è l’emozione che si vuole evitare? Cioè, il problema è la paura dello stimolo disgustoso, o la facilità di sentire il disgusto? La risposta a questa domanda dà ai clinici la possibilità di intervenire con trattamenti più efficaci. Entrambi i tipi di evitamento, della minaccia e del disgusto, generano compulsioni, ad esempio la pulizia, ma la risoluzione di tali comportamenti compensatori passa attraverso l’analisi di quale emozione li ha generati.

Per esempio in uno studio di Verwoerd e collaboratori (2013), è stato evidenziato che, in un campione non clinico, suddiviso per bassi o alti punteggi di evitamento del contagio, l’errore cognitivo riguarda la probabilità che uno stimolo sia minaccioso in base a quanto l’individuo si senta disgustato, avvalorando l’evitamento stesso. Si tratta quindi dello stesso errore cognitivo che si riscontra nella sintomatologia ansiosa: “provo ansia, allora c’è una minaccia” equivale a “provo disgusto, allora c’è una contaminazione”, con la diferenza che entrano in gioco emozioni diverse (Verwoerd et al., 2013). Quindi l’errore cognitivo sottostante l’evitamento potrebbe essere comune ai due tipi di esperienza emotiva.

Di seguito verranno riportate le evidenze nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo a favore di una distinzione tra evitamento in termini di paura in una situazione valutata come minacciosa, e tra evitamento della situazione che genera disgusto.

Innanzi tutto, studi clinici hanno appurato che l’affettività negativa, ansia e depressione, non sono dei fattori determinanti per il legame tra Propensione al Disgusto (PD) e sintomi di paura della contaminazione nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo, mentre è la PD stessa ad essere determinante (Olatunji et al., 2016, Melli at al., 2016, Melli et al., 2015b, Ludvick, Boshen & Neuman, 2015). Quindi l’ansia non è uno dei fattori che spiegano statisticamente questo legame.

In uno studio di Melli e collaboratori (2015a), gli autori hanno sviluppato una scala per distingure due dimensioni possibili all’interno di paura della contaminazione: l’evitamento del danno, e l’evitamento del disgusto, per verificare se la minaccia o se l’emozione stessa di disgusto generino l’evitamento in un campione di pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo. La scala è stata chiamata Contamination Fear Core Dimensions Scale (CFCDS), composta da 8 item, 4 per evitamento del danno e 4 per l’evitamento del disgusto. All’individuo è poi richiesto di dare un punteggio su scala Likert da 0 a 5 per ogni singolo item. Gli autori trovarono come l’evitamento del disgusto fosse associato al sintomo di contaminazione e al contagio mentale, mentre l’evitamento del danno fosse maggiormente associato al sintomo di responsabilità (Melli et al., 2015a).

Hanno quindi dimostrato come queste due dimensioni siano distinte, sebbene correlate, ed entrambe parte della paura della contaminazione. Inoltre la forza dello studio riguarda l’attenzione posta a meccanismi motivazionali di evitamento della contaminazione, cioè se sia la motivazione a evitare di provare disgusto o la paura verso una minaccia (Melli et al., 2015a).

È il disgusto a scatenare l’evitamento o qualcos’altro? Per esempio, si è indagato il ruolo dei pensieri ossessivi come attivatori (Melli et al., 2016). I risultati hanno dimostrato come i pensieri ossessivi non siano di fatto mediatori, ma che ci sia una relazione diretta tra PD e paura del contagio. Ancor più interessante, gli autori hanno svolto lo studio con un campione di pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo, predicendo come nel campione generale solo coloro che presentavano il sintomo di contaminazione avrebbero mostrato questo pattern. Un risultato che sarebbe stato poco sorprendente se si fosse tenuto conto di un campione di soli pazienti con sintomo di contaminazione. Quindi gli autori hanno sottolineato come, in generale, durante il trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, nel momento in cui vi sia la presenza di paura per il contagio, vada tenuto conto della propensione al disgusto del paziente (Melli et al., 2016).

È quindi plausibile interrogarsi riguardo al ruolo della PD negli altri sintomi. In un lavoro di Olatunji e collaboratori (2016), composto da tre studi, in realtà si è visto come in base a quali misure si utilizzino, la PD può spiegare con più o meno forza sintomi di contaminazione o tutti gli altri sintomi. Infatti nel primo studio che analizza la propensione al disgusto attraverso la Disgust Scale, i sintomi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo attraverso il Padua Inventory, e l’ansia attraverso l’Anxiety Sensitivity Index-3, la DP spiegherebbe maggiormente i sintomi di contagio del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, ma mediata dall’ansia. Nel secondo studio proposto, la Disgust Scale per la PD, l’Obsessive-Compulsive Inventory OCI-R per i sintomi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo, e la Depression Anxiety Stress Scale per l’ansia, la relazione tra PD e sintomi di contagio non è significativamente diversa dalla relazione tra PD e tutti gli altri sintomi. Mentre nel terzo studio in cui si prende in considerazione sia PD che sensibilità al disgusto, e la sintomatologia DOC misurata attraverso la Dimensional Obsessive-Compulsive Scale DOCS, entrambe le dimensioni di disgusto sono collegate con più forza ai sintomi di non contagio, invece che alla contaminazione stessa (Olatunji et al., 2016).

Altri sintomi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e disgusto: quali relazioni?

Nonostante lo studio abbia sottolineato come il disgusto possa essere un mediatore nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo in generale e non solo della contaminazione, gli autori non distinguono quali siano gli altri sintomi coinvolti, e in quale entità. Effettivamente gli autori hanno anche messo in luce come, in base al tipo valutazione, i risultati cambino. Indipendentemente da tutto ciò, è anche plausibile che altri sintomi siano sì spiegabili in termini di disgusto, ma attraverso la mediazione di altri elementi.

Per esempio, se per il sintomo di eccessiva responsabilità, la PD possa essere mediata, o vada in parallelo, al tratto di colpevolezza (Melli et al., 2015b). Gli autori, al di la di controllare sia dimensioni affettive come ansia e depressione, hanno studiato un campione clinico discriminato attraverso la DOCS.  Con analisi di regressione, gli autori hanno trovato come il tratto di colpevolezza non predica la sintomatologia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, mentre la propensione al disgusto sia un predittore non solo della contaminazione, ma sorprendentemente anche dell’ossessione di simmetria e ordine. Mentre per sintomi come responsabilità degli errori e inaccettabilità dei pensieri non erano predette né dalla PD né dalla colpevolezza. Quindi si potrebbe ipotizzare che, attraverso la mediazione tra PD e ossessione della simmetria e dell’ordine, il paziente con DOC proverebbe disgusto e quindi metterebbe in atto le compulsioni per placare la sensazione di non essere completo, e quindi disgustoso, ma non per evitare una minaccia futura (Melli et al., 2015b).

Ma tale ipotesi non è ancora stata testata. La forza di tale articolo riguarda l’importanza che anche il disgusto possa elicitare i comportamenti compulsivi per placare la contaminazione, ma potenzialmente anche per altri sintomi del DOC.

Quindi, una volta appurato che la propensione al disgusto è in stretto legame con contaminazione, e forse con altri sintomi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, è lecito chiedersi se ci sono, e quali possano essere, dei mediatori cognitivi all’interno di questa relazione. Infatti, si è visto come, in un campione non clinico, un errore cognitivo sia presupporre che si possa essere contaminati in situazioni innoque (Verwoerd et al., 2013).

La contaminazione mentale

In uno studio di Melli e collaboratori (2014) si investiga se vi sia una componente di contaminazione mentale (CM), meccanismo cognitivo attraverso cui si prova disgusto senza che sia effettivamente presente un oggetto contaminante, dunque attivata anche solo dal pensare o ricordare qualcosa di disgustoso, sporco o immorale. Di conseguenza il paziente con Disturbo Ossessivo-Compulsivo può risolvere tale sensazione mettendo in atto una compulsione. In questo studio la contaminazione mentale è stata misurata attraverso la Vancouver Obsessional Compulsive Inventory – Mental contamination scale VOCI-MC. Gli autori trovarono che in un campione clinico di pazienti, con la presenza del sintomo di contaminazione, nel 61,9 % del campione era presente anche la contaminazione mentale. Ma ancor più interessante, se si inserisce come mediatore la contaminazione mentale, la correlazione tra PD e contaminazione nel DOC si rafforza (Melli et al., 2014). Gli autori hanno proposto che individui con un’ alta contaminazione mentale, nel momento in cui sono posti in una situazione innocua, possano sentirsi più disgustati di individui che hanno una bassa CM. Dunque hanno ipotizzato di testare se tali individui possano mettere in atto compulsioni compensatorie più intense o frequenti, e in caso affermativo creare proposte di trattamento più efficaci (Melli et al., 2014).

Ma questo risultato, e la successiva ipotesi, riguardano la contaminazione mentale senza che il campione sia stato sottoposto a una situazione, ma attraverso l’analisi statistica di mediazione tra diverse scale, la VOCI-MC, la DOCS per contaminazione, e la Disgust Proponsity Questionnaire. Potrebbe essere interessante integrare un disegno sperimentale, come quello degli scenari potenzialmente contaminanti di Verwoerd e collaboratori (2013), in un campione clinico, o in un campione con punteggi alti alla VOCI-MC.

Ma prima di testare il ruolo della contaminazione mentale in una situazione innocua, o nell’evocazione di un ricordo di qualcosa di dannoso, ne va chiarita la relazione con la PD e la contaminazione da contatto vera e propria. Infatti, una volta che si è distinto tra paura e disgusto per qualcosa di minaccioso, in termini di evitamento del danno o del disgusto (Melli et al., 2015a), la CM potrebbe agire solo su uno o su entrambi i tipi di evitamento (Melli at al., 2017).

In un campione di pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo, in cui vi erano pazienti con sintomi primari di contaminazione, vi è una forte correlazione tra CM, PD e evitamento del disgusto, che è significativamente maggiore di quella esistente tra CM, PD e evitamento del danno (Melli et al., 2017). Inoltre dall’analisi di mediazione e bootstrapping, la contaminazione mentale diminuise l’errore standard nella relazione tra PD e la paura di contaminazione basata sull’evitamento del disgusto, rispetto alla relazione senza mediatore. Dunque, i risultati suggeriscono che individui con alta PD in situazioni potenzialmente dannose/disgustose (contaminanti o moralmente inaccettabili), possono sentirsi contaminati mentalmente, e allo stesso tempo percepirsi molto disgustati, e entrambi i meccanismi potrebbero riattivarsi con il solo pensiero, o memoria, di quell’evento o eventi simili (Melli et al., 2017).

Riassumendo, tutti i lavori presentati riportano come il disgusto possa essere una dimensione fondamentale del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, in particolare:

  • pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo e sintomi di contaminazione hanno un’alta propensione al disgusto (Olatunji et al., 2016),
  • in base alla valutazione che si utilizza, e a quali sintomi si indagano, la propensione al disgusto è una componente diffusa del Disturbo Ossessivo-Compulsivo al di là dei sintomi di contaminazione (Olatunji et al., 2016, Melli et al., 2015b, Melli et al., 2016),
  • è possibile distinguere due tipi di evitamento dello stimolo disgustoso/contaminante, uno legato alla paura del danno/malattia, e uno legato all’evitamento del provare disgusto (Melli et al., 2015a),
  • in pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo e sintomi di contaminazione, la propensione al disgusto non sia mediata da pensieri ossessivi (Melli et al., 2016), o da tratti di colpevolezza (Melli et al., 2015b),
  • ma che un’altra distorsione cognitiva, la contaminazione mentale, possa essere un mediatore tra propensione al disgusto e evitamento del disgusto in pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Melli et al., 2014, Melli et al., 2017),
  • oppure che sia presente un errore cognitivo, ragionamento basato sul disgusto, in individui con un’alta paura della contaminazione (Verwoerd et al., 2013).

Quindi le valutazioni su che cosa possa essere disgustoso e contaminante nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo sono un’ enfatizzazione di normali meccanismi. Infatti, se pensiamo al modello di Rozin (1987, 2000, 2009), la funzione del disgusto è di allontanarsi, e quindi di evitare, lo stimolo dannoso. La valutazione se allontanarsi o meno si basa su due leggi che definisce “magiche”, quindi non provabili empiricamente. Le due leggi simpatetiche, infatti, “impongono” che: una volta in contatto con qualcosa di contagioso, si rimarrà contaminati sempre (legge del contagio); e due oggetti che appaiono uguali nella forma, lo saranno anche nella sostanza, quindi se uno è disgustoso e pericoloso, lo sarà anche l’altro (legge della similarità) (Rozin & Fallon, 1987; Rozin & Haidt, 2000). Appare ovvio come, se le due leggi sono applicate in contesti non così pericolosi, un individuo possa comunque magnificarle, e quindi avvertire un maggiore senso di pericolosità in termini di alta propensione al disgusto. Inoltre, se pensiamo al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, in cui è presente un ragionamento basato sul disgusto e/o contaminazione mentale, l’agito evitante o compulsivo appaiono come una possibile soluzione disfunzionale.

Tipi di evitamento e terapia

Da un punto di vista terapeutico, rilevare, e distinguere, quale evitamento il paziente metta in atto è fondamentale: da un lato attraverso l’estinzione di quei comportamenti appresi in termini di condizionamento pavloviano, adatta per quei sintomi generati dall’ansia, ma poco utili per la paura della contaminazione mediata dal disgusto, trattabile in termini di controcondizonamento (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015).

Infatti è stato ipotizzato che le reazioni al disgusto potrebbero essere mantenute tramite il condizionamento valutativo, ovvero il cambiamento della valenza di uno stimolo, dato dall’accoppiamento con un altro stimolo, attraverso una relazione di tipo astratto, quindi di pensiero. Tali relazioni astratte potrebbero essere le leggi magico-simpatetiche, ragionamento basato sul disgusto, e la contaminazione mentale (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015).

Se pensiamo all’ultima, la generazione di alta propensione al disgusto potrebbe essere data da un apprendimento di tipo referenziale, dove lo stimolo incondizionato non va a predire quello condizionato, ma è solo il suo riferimento, ovvero la sola presenza dello stimolo incondizionato genera una valutazione di quello condizionato, senza che questo sia effettivamente presente (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015). Quindi il trattamento non si baserà sull’estinzione, ma sul controcondizionamento: l’accoppiamento tra stimolo incondizionato vecchio e un nuovo stimolo condizionato a valenza positiva, per spezzare il legame precedente (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015).

Quindi, nonostante vi siano eviedenze di una relazione tra propensione al disgusto e Disturbo Ossessivo-Compulsivo, essa andrebbe maggiormente approfondita: 1) se la propoensione al disgusto appartiene solo alla paura del contagio, o se, in parte, anche ad altri sintomi; 2) quali possano essere altre distorsioni cognitive che rafforzano il legame, oltre a contaminazione mentale e ragionamento basato sul disgusto; 3) quali possano essere i contesti elicitanti, ovvero se situazioni neutre non disgustose possano attivare la propensione al disgusto nei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo; 4) e se esiste un legame diretto tra queste distorsioni e gli agiti compulsivi per risolverle. Infatti chiarire la relazione può dare indicazioni su quale trattamento possa essere più efficace per il disgusto (Melli et al., 2014), per esempio, se  interpretiamo il trattamento in termini di controcondizionamento di un apprendimento valutativo (Ludvick, Boshen & Neuman, 2015).

Inoltre, in letteratura, ci si è maggiormente concentrati sulla dimensione di disgusto centrale nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo, passaggio logico fondamentale se si tiene conto del modello di disgusto, e delle evidenze riportate sul DOC.

Nonostante può essere interessante indagare anche un’altra componente del disgusto, quello interpersonale. Ovvero, il disgusto interpersonale riguarderebbe la creazione di una distanza di chi è potenzialmente, o è, considerabile come disgustoso (Rozin & Haidt, 2000). Se pensiamo agli stimoli che normalmente lo generano, potrebbe essere plusibile che la valutazione del disgusto interpersonale nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo sia generata in termini di autoreferenzialità: è l’inviduo stesso lo stimolo disgustoso, oltre che gli altri. Gli stimoli che normalmente elicitano disgusto interpersonale possono essere suddivisi in quattro domini: stranezza (si riferisce al contatto con qualcosa di non familiare o di cui non si conosce l’origine), marchio morale (rifiuto di quegli individui che hanno condotte non accettabili), malattia (reazioni avversive verso i malati che ci ricordano la nostra vulnerabilità), sfortuna (repulsione per quegli individui che hanno subito una disgrazia), e in questi casi il contagio riguarda il rifiuto dell’acquisizione delle caratteristiche di quegli individui da rifiutare (Rozin & Haidt, 2000).

Quindi è ipotizzabile che individui con Disturbo Ossessivo-Compulsivo possano avere anche un’alta propensione al disgusto interpersonale, data a sua volta da un probabile meccanismo di contagio mentale o di autoreferenzialità, che genera evitamento, o tentato controllo, del disgusto.

Tuttavia queste ultime speculazioni vanno al di là di ciò che è stato presentato in questo articolo, proposto per indagare i fattori che possono aumentare la vulnerabilità nel provare disgusto. L’analisi ha riportato evidenze a favore di un legame tra disgusto e Disturbo Ossessivo-Compulsivo, e ne ha messo in luce la peculiarità, importante per l’utilizzo di nuovi trattamenti, da integrare a quelli standard.

Le onde beta e la working memory: cosa ricordiamo e cosa dimentichiamo?

I ricercatori del Massachussets Istitute of Technology in un recente studio pubblicato su Nature Communications, hanno mostrato come le onde beta fungano da “cancelli” per la working memory, determinando quali informazioni debbano essere immagazzinate in memoria e quali invece valga la pena dimenticare.

 

Il ruolo delle onde beta

Il ritmo cerebrale beta funge da “freno”, stabilendo quali informazioni, conservate nella working memory per un breve periodo di tempo, debbano essere espresse e influenzare di conseguenza il comportamento dell’individuo” afferma Mikael Lundqvist, un post-dottorato al MIT, sezione Learning and Memory e autore principale dello studio pubblicato.

In uno studio precedente (2016), Lundqvist, Miller e colleghi avevano mostrato come l’attività elettrica combinata di milioni di neuroni nel cervello generava delle oscillazioni, definite ritmi cerebrali, ognuno dei quali con una frequenza specifica; avevano inoltre evidenziato come in particolare il ritmo gamma fosse associato alla codifica e al recupero mnestico.

Trovarono poi un aumento dei ritmi gamma quando si verificava un abbassamento dei ritmi beta o viceversa e che questi ultimi fossero anche associati alle cosiddette informazioni “top-down”, cioè quei segnali, provenienti dalla corteccia, che si generano quando il soggetto sta compiendo un compito nel quale è presente un obiettivo, con il fine di portarlo a termine seguendo quelle che sono le regole del compito stesso (Lundquist, Miller, Rose, Herman et al., 2016).

Le onde beta definiscono le informazioni da conservare nella working memory

Partendo da queste evidenze, i ricercatori ipotizzarono che i ritmi beta agissero da meccanismo consapevole di controllo e selezione di quella parte dell’informazione che deve essere estratta dalla working memory.

La Working Memory (WM), secondo i ricercatori, rappresenta un “blocco da disegno” che gli individui sono in grado di controllare consapevolmente; di fatto, riportano gli autori dello studio, si è in grado di scegliere a cosa pensare, scegliere quando “pulire” la Working memory e dimenticare alcune informazioni non essenziali.
Infatti è possibile tenere a mente delle informazioni e aspettare per prendere decisioni finché non se ne aggiungono altre che possano contribuire alla scelta.

Per testare questa loro ipotesi, i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale di alcuni animali, in particolare dalla corteccia prefrontale, sede della working memory; la registrazione veniva effettuata mentre gli animali erano impegnati in un compito di working memory.
All’inizio veniva fatto vedere loro un paio di oggetti, ad esempio, A seguito da B, poi veniva mostrato loro un altro paio di oggetti ed essi a quel punto dovevano stabilire se A fosse seguito da B ma non da C o se B non fosse seguito da A.
Gli animali erano istruiti a rilasciare una barra nel caso in cui avessero determinato la giusta sequenza (Lundqvist, Herman, Miller et al., 2018).
Da questo compito sperimentale, i ricercatori sono stati in grado di osservare l’attività cerebrale degli animali osservando come questa variava se l’animale stava compiendo il giusto accoppiamento o meno.

Se l’animale anticipava l’inizio della seconda sequenza, teneva in memoria l’oggetto A rappresentato da un aumento delle onde gamma; se al contrario l’oggetto visto era A, allora si osservava una “caduta” delle onde beta, come se l’oggetto A fosse stato tolto dalla working memory, perché in quel momento non gli serviva per compiere l’accoppiamento.
Subito dopo le onde gamma aumentavano di frequenza e a questo punto il cervello degli animali era in grado di fare uno switch sull’informazione riguardante l’oggetto B, che per la regola appresa, deve seguire A per determinare l’accoppiamento corretto.

Quest’interazione tra onde gamma e beta, a parere dei ricercatori, agisce come ci si aspetta agisca un meccanismo di controllo volitivo, cioè le onde beta fungono da cancello di accesso per le informazioni da tenere brevemente nella working memory.

Lo studio di Lundqvist, Herman, Miller e colleghi (2018) supporta l’ipotesi per la quale le onde beta supportano il meccanismo di controllo e selezione delle informazioni da “tenere a mente”.

Le informazioni che teniamo a mente non sono stabili come se avessimo tenuta accesa una luce, un pensiero, in realtà lampeggiano in attesa di essere selezionate e ogni volta ne lampeggia una a causa delle nostre onde cerebrali” (Tim Buschman, assistente professore di all’Università di Princeton).

Violenze a scuola: applicare le linee guida redatte al MIUR

COMUNICATO STAMPA

VIOLENZE A SCUOLA, SELLINI (AUPI): APPLICARE LE LINEE GUIDA REDATTE AL MIUR NEL LUGLIO 2017

“Esperti di tutti gli ambiti e discipline, docenti ma soprattutto psicologi hanno redatto insieme ai tecnici del Ministero dell’Istruzione e su input del sottosegretario, Vito De Filippo, un documento contenete le linee guida su cui lavorare per iniziare ad affrontare il tema del disagio a scuola. Il gruppo di lavoro è stato istituito nel luglio 2017 e a dicembre ha terminato le attività. Ora, dopo i recenti fatti di cronaca che testimoniano violenza e abusi a più livelli negli ambienti di studio e formazione, è quanto mai urgente dare seguito alle indicazioni contenute in quel documento e iniziare, da subito, con serie e puntuali iniziative di prevenzione”.

È quanto dichiara il segretario generale del sindacato degli psicologi italiani (AUPI) e presidente della società scientifica, Form – Aupi, Mario Sellini, a seguito dei recenti episodi di violenza a scuola.

“Lavorare sulle linee guida redatte al Miur – prosegue Sellini – ci consentirebbe di avere uno strumento formidabile per la rilevazione e l’individuazione dello Stress lavoro-correlato. Si tratta uno strumento immediatamente utilizzabile che consentirebbe di fotografare lo stato di benessere di tutti gli operatori scolastici. Perché non applicarlo? Eppure, la rilevazione dello stress lavoro correlato è legge dello Stato. Perché non dotare la scuola di uno strumento capace di dirci, per ciascun istituto scolastico e per tutto il personale, lo stato dell’arte? Noi psicologi siamo certi che la stragrande maggioranza delle realtà scolastiche siano immuni da rischi collegati allo stress lavoro correlato. Ma quello che noi potremmo definire uno screening servirebbe ad individuare quelle (poche) realtà che dopo uno studio potrebbero presentare problematiche tali da richiedere un intervento, monitorando, nel contempo, tutte le altre. Perché non utilizzare modi di fare prevenzione che hanno dato risultati importanti in altri campi?”

Per Sellini il bollettino di guerra delle violenze nella scuola si allunga ogni giorno di più, senza scatenare misure di prevenzione efficaci.

“Genitori che picchiano e minacciano gli insegnanti; insegnanti violenti (fortunatamente pochi) con gli alunni; ragazzi che vanno a scuola con il coltello tra i libri”.

Sono anni che gli Psicologi lanciano l’allarme. Sempre più la scuola diventa il luogo dove le frustrazioni presenti ed emergenti in strati sempre più ampi di popolazione trovano l’humus ideale nel quale attecchire.

“Personale scolastico (dirigenti, docenti, ota ecc.) sempre più soggetto a pressioni e a richieste che esulano dalla mission istituzionale. Una scuola alla quale viene chiesto di sopperire a tutte le carenze della società. Una scuola alla quale viene chiesto di educare e far crescere in modo armonico i ragazzi anche quando le famiglie e le altre agenzie sociali sono inesistenti o disattente.

Come contrastare questa violenza? Qualcuno preferirebbe la repressione, il pugno duro. Qualche altro propone le telecamere in ogni classe. Qualcuno addirittura si sbilancia e, perché no, i metal detector all’ingresso. Ma siamo proprio sicuri che questa sia la strada?”

Gli Psicologi dicono no. Non è questo il modo di fare prevenzione. Con le telecamere ed i metal detector non si costruisce una scuola del benessere.

Da qui la proposta di Sellini: “Ripartiamo dalle linee guida predisposte dal gruppo di lavoro e dalle proposte operative in esse contenute, in primis dalla rilevazione dello stress lavoro correlato. Iniziamo a fare una prevenzione finalmente efficace”.

L’autostima in età evolutiva: come si costruisce il valore di Sé nei più piccoli

I bambini con bassa autostima sono coloro che hanno sperimentato qualcosa che ha fatto interiorizzare loro il fatto che non sono degni d’amore.

Introduzione: gli altri nella costruzione di autostima

L’ autostima è un costrutto in continua evoluzione che si comincia a costruire fin dai primissimi anni di vita e rappresenta il valore che ogni soggetto attribuisce a se stesso. Tale valore non è pre-esistente, ma si costruisce mediante i rimandi che le persone significative (genitori, fratelli, nonni, parenti frequentati abitualmente) danno al bambino, cioè l’idea di se stesso del bambino viene plasmata dalle informazioni che egli riceve su di lui dall’esterno.

Ciò significa che quando i genitori supportano e sostengono il bambino nelle sue scelte, manifestano affetto facendolo sentire degno d’amore e vietano determinati comportamenti contrassegnando questi ultimi come sbagliati, senza dare giudizi di valore sul bambino stesso (vale a dire “quello che hai fatto è sbagliato” e non “tu sei sbagliato” o “sei cattivo”) concorrono per costruire nel loro figlio un’immagine positiva di sé. Tuttavia, crescendo, il bambino si scontrerà con una realtà ben diversa da quella familiare in cui la fiducia in sé stesso verrà messa a dura prova.

Autostima e scuola

L’ingresso scolastico è un momento spartiacque per vari motivi all’interno della vita di un bambino. Per la prima volta si troverà solo con figure d’accudimento molto diverse dai genitori, cioè gli insegnanti, con i quali stabilirà una relazione differente, sebbene intensa, che richiederà ulteriori capacità di gestione dei rapporti. Inoltre sarà ugualmente importante affrontare il confronto con i coetanei, con i compagni di scuola e con le altre figure scolastiche con le quali verrà in contatto. In accordo con il modello bio-psico-sociale la costruzione ed il consolidamento del costrutto dell’ autostima è dipendente da diversi fattori di natura personale, relazionale, sociale e culturale ed è proprio con il passaggio a scuola che questi fattori si presentano e si impongono. Il principale ostacolo che i bambini si trovano ad affrontare mettendo alla prova la loro autostima a scuola è il voto.

Compito delle figure educative, in questa fase, è evitare l’identificazione del valore personale con il voto in pagella. In alcuni bambini con tratti perfezionisti infatti, potrebbe scattare il pensiero “ho preso 5, quindi io valgo 5”, vale a dire che si consolida come distorsione cognitiva il pensiero “Io sono il voto che mi danno”. Infatti il grado di autostima è influenzato molto dalla credenza o meno di poter raggiungere un risultato desiderato e dalla consapevolezza o meno di poter efficacemente rimediare a un insuccesso.

Ciò dipende essenzialmente da ciò che viene chiamato “Locus of Control” o “Stile di attribuzione”. Quando un bambino ha uno stile di attribuzione esterno tende ad attribuire la causa dei suoi successi o insuccessi a fattori esterni da lui (Ad es. Ho preso un bel voto perché il compito era facile/sono stato fortunato – Ho preso un brutto voto perché il compito era difficile/la maestra ce l’ha con me). Mentre quando un bambino ha uno stile di attribuzione interno attribuisce a lui stesso gli esiti (ad es. Ho preso un bel voto perché ho studiato e mi sono impegnato – Ho preso un brutto voto perché stavolta non ho studiato bene). Ovviamente sarebbe auspicabile una commistione dei due stili in base ad una valutazione obiettiva, ma non sempre ciò si verifica con conseguenti ripercussioni sull’ autostima: dallo strutturarsi del senso di colpa, quando il locus of control è sempre interno, alla deresponsabilizzazione quando è esterno.

Come riconoscere una bassa autostima nei bambini e come mantenerla positiva?

I bambini con bassa autostima sono coloro che hanno sperimentato qualcosa che ha fatto interiorizzare loro il fatto che non sono degni d’amore. Può trattarsi di un vissuto di deprivazione affettiva o trascuratezza in famiglie problematiche o in famiglie dove l’affetto non viene espresso in modo caldo ed accogliente, o esperienze che sono state metabolizzate in maniera distorta (come gelosie verso i fratelli o genitori poco presenti a casa poiché molto impegnati sul lavoro) che fanno pensare al bambino di essere sbagliato o di non meritare affetto. In genere si riscontra in bambini con locus of control interno molto rigido, in cui lo stile di attribuzione degli eventi è centrato su se stessi e, conseguentemente, le cause di ciòche accade intorno a loro vengono ricercate all’interno della persona stessa. Tutto ciò si traduce in senso di colpa poiché se i genitori si pongono in un atteggiamento di distanza affettiva, per il bambino ciò è dovuto necessariamente a qualcosa che lui ha fatto. Ricordiamo, inoltre, che buona parte dell’infanzia è caratterizzata da un tipo di pensiero definito “egocentrico”. Il bambino coinvolge se stesso in tutti gli accadimenti che lo circondano,spiegando fenomeni di varia natura con l’intervento della sua volontà, incapace di cogliere la differenza fra il proprio pensiero e quello altrui. Si tratta di una tappa assolutamente normale dello sviluppo, tuttavia è bene tenere presente che il bambino utilizza le informazioni in suo possesso, per quanto frammentarie ed incomplete, conferendo loro un significato assoluto e che ciò può giocare a suo svantaggio quando si tratta di interiorizzare esperienze positive sul proprio sé.

La bassa autostima si manifesta con atteggiamenti di chiusura, tono di voce basso, scarsa voglia di mettersi in gioco, accentuata paura di sbagliare. Può manifestarsi, altresì, con forme psicosomatiche quali disturbi gastrointestinali, cefalee, disturbi di conversione, alterazioni del controllo sfinterico, sintomi della sfera alimentare. Ciò è dovuto alla natura essenzialmente passiva di coloro che hanno poca stima di sé. Infatti sono stati individuati dalla ricerca tre stili di comportamento che sono caratterizzati da profili comunicativi ben precisi:

  1. Il comportamento Passivo ovvero subire gli altri, non essere in grado di dire la propria opinione, avere difficoltà nel prendere decisioni, pensare che gli altri siano migliori di noi, avere paura del giudizio degli altri e richiedere la loro approvazione, non essere in grado di dire di “No” ad una richiesta.
  2. Il comportamento Aggressivo ovvero non rispettare o violare i diritti altrui, essere convinti di non sbagliare, attribuire i propri errori agli altri, iper-valutarsi, non accettare il punto di vista altrui, non cambiare la propria opinione anche di fronte all’evidenza dei fatti, colpevolizzare o inferiorizzare gli altri, arrogarsi il diritto di giudicare (solitamente questo tipo di comportamento è ciò che ritroviamo nei fenomeni di bullismo).
  3. Il comportamento Assertivo ovvero non subire gli altri, non permettere che gli altri siano aggressivi, accettare punti di vista differenti, essere pronti a modificare la propria opinione,non pretendere che gli si comportino in base alle proprie aspettative, non giudicare, non essere possessivi.

La bassa autostima porta ad un circolo vizioso di ciò che viene definito “impotenza appresa”. Svalutare se stesso e le proprie risorse porta il bambino a crearsi delle aspettative negative sui compiti che dovrà affrontare, condizionandolo nel pensiero e nei comportamenti (ciò comporta disagi come ansia da prestazione e scarsa motivazione data dalla distorsione cognitiva di pensieri come “Non sono capace”; “Non ce la farò mai” etc..) e causando inevitabilmente il fallimento del compito stesso. Ciò andrà a rinforzare il pensiero iniziale e le condotte di evitamento, favorendo lo stabilizzarsi di una bassa autostima.

Il mantenimento e lo sviluppo dell’ autostima dipende dalle esperienze positive di efficacia che il bambino sperimenta giorno dopo giorno. Nello specifico è bene prestare attenzione ai seguenti fattori:

  • I successi: ovvero tutte quelle volte che il bambino sente di essere riuscito in qualcosa;
  • L’autoefficacia: ovvero il senso di competenza, il sentirsi capace di fare;
  • L’accettazione del gruppo: ovvero il senso di apprezzamento da parte del gruppo dei pari e delle persone significative;
  • La soddisfazione: ovvero la sensazione che deriva dalla realizzazione delle proprie potenzialità.

Pertanto è importante insegnare ai nostri bambini a riconoscere le loro abilità e ad individuare i loro  limiti, sottolineando e rinforzando positivamente i loro successi (ricordiamoci che per quanto possano sembrare piccoli a noi adulti per loro si tratta di grandi traguardi), promuoviamo il senso di responsabilità che favorisce un corretto stile di attribuzione e stimoliamo l’espressione emotiva in maniera tale che i bambini possano imparare a riconoscere e controllare le emozioni negative che provano senza sentirsi sbagliati.

Il ruolo della metacognizione nel gioco d’azzardo patologico

Sono state condotte numerose ricerche per investigare il ruolo della metacognizione nel Gioco di azzardo patologico, le quali hanno portato a risultati interessanti. In uno studio di Lindberg e collaboratori (2011) è stata indagata la possibile relazione tra gioco di azzardo patologico, depressione e ansia.

 

Il gioco di azzardo patologico tra le addiction

Il gioco d’azzardo patologico (GAP o problem gambling) è ormai ampiamente considerato dalla comunità scientifica come un disturbo appartenente alle cosiddette addiction, comportamenti impulsivi volti al soddisfacimento di un bisogno fisico e/o psicologico che conducono, in un consistente numero di casi, a conseguenze negative in diversi ambiti della vita di un individuo.

Il termine addiction deriva dal verbo latino addicere che in italiano si può presumibilmente tradurre con “vincolare”, “obbligare” ed è stato inizialmente utilizzato senza uno specifico riferimento all’uso di sostanze. È solo da un secolo che il termine è stato impiegato per identificare un discontrollo comportamentale conseguente l’abuso di stupefacenti (Potenza, 2006), per poi essere esteso a quelle che oggi vengono chiamate nuove dipendenze (new addiction) che comprendono tutte quelle dipendenze, senza sostanza, le cui conseguenze riguardano costi sul piano emotivo ed interpersonale, oltre che professionale e finanziario.

A causa dell’aumento esponenziale che si registra nella popolazione generale, il Gioco di azzardo patologico è oggi oggetto di numerose ricerche volte ad identificare i fattori di vulnerabilità e di mantenimento alla base del disturbo ed individuare trattamenti specifici che possano essere applicati per la cura di tale dipendenza. Sebbene la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), considerata il principale trattamento evidence-based per il Gioco di azzardo patologico, abbia mostrato efficacia nella riduzione della frequenza dei comportamenti patologici di gambling e indice di astinenza maggiore (Toneatto, 2005), ad oggi una grande mole di ricerca si è focalizzata maggiormente sugli aspetti più prettamente metacognitivi del disturbo, sottolineando quanto le credenze metacognitive (Wells, 2012) siano implicate nel mantenimento del comportamento patologico preso in considerazione.

La metacognizione e il gioco di azzardo patologico

Il modello Self-Regulatory Executive Function (S-REF) proposto da Wells e Matthews (1996) infatti si basa sull’idea cardine secondo cui esistono una serie di credenze metacognitive responsabili dei disturbi psicologici e che esse causino il mantenimento della sofferenza attraverso strategie di coping maladattive che riguardano l’attenzione (es: monitoraggio della minaccia), il comportamento (es: evitamento) e la cognizione (es: rimuginio e ruminazione).

La metacognizione è stata quindi associata a numerosi problemi di natura psicologica tra cui depressione (Papageorgiou and Wells 2003), ansia, procrastinazione patologica, problemi alcol-correlati, dipendenza da nicotina (Spada, 2006a, 2006b, 2007, 2008, 2009). Partendo da queste considerazioni sono state individuate credenze metacognitive (es: incontrollabilità e pericolosità, bisogno di controllo dei pensieri) implicate nella sofferenza psicologica che vanno a mantenere e ad aggravare i disturbi sopracitati, per cui diventa di fondamentale importanza la loro identificazione e comprensione ai fini terapeutici.

A questo proposito sono state condotte numerose ricerche per investigare il ruolo della metacognizione nel Gioco di azzardo patologico, le quali hanno portato a risultati interessanti. In uno studio di Lindberg e collaboratori (2011) è stata indagata la possibile relazione tra gioco di azzardo patologico, depressione e ansia.

A 91 soggetti con Gioco di azzardo patologico è stata somministrata una batteria di test self-report che comprendeva il Metacognitions Questionairre 30 (MCQ-30), l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) e il South Oaks Gambling Scale (SOGS) il cui punteggio medio tra i partecipanti indicava un livello moderato di gioco di azzardo patologico. Le domande di cui si compone il SOGS vertono principalmente su due dimensioni del Gioco di azzardo patologico: conseguenze del gambling (SOGS-1) che riguardano per lo più problemi finanziari, e la natura del comportamento patologico messo in atto dal giocatore (SOGS-2) (Oliveira, 2002).

I risultati hanno rilevato che ansia, depressione e credenze metacognitive negative circa incontrollabilità e pericolosità sono significativamente associate alle conseguenze del gambling (SOGS-1); è stato inoltre osservato che le stesse variabili, in aggiunta alle sottoscale dell’MCQ-30 di fiducia nelle proprie capacità cognitive e bisogno di controllo dei propri pensieri sono predittori del comportamento patologico di gambling (SOGS-2).

Ulteriori analisi hanno riscontrato che le metacredenze rilevate attraverso l’MCQ-30 possono essere ritenute predittori del gioco di azzardo patologico indipendentemente da ansia e depressione, dimostrando di rivestire un ruolo cruciale a prescindere da sintomi ansiosi e depressivi.

Basandosi su questi risultati, Spada e collaboratori (2015) hanno compiuto ulteriori ricerche per comprendere in modo più esaustivo l’influenza della metacognizione sul Gioco di azzardo patologico ed in particolare hanno investigato quali siano gli scopi (goals) del gambling e quali siano i segnali di inizio e di fine del comportamento problematico messo in atto dal giocatore, facendo riferimento al modello teorico S-REF.

In questo studio per “scopo” si intende la finalità che il comportamento di gambling ha sulla regolazione cognitiva, ovvero la regolazione dei propri stati interni (Caselli, 2017), ed è stata indagato attraverso l’utilizzo della Metacognitive Profiling Interview (Wells, 2000), un’intervista semistrutturata che si compone di domande volte a tracciare il profilo metacognitivo dei soggetti.

I partecipanti allo studio (10 uomini con diagnosi di gioco di azzardo patologico) sono stati invitati a pensare ad un episodio recente di gambling e a riflettere sulla possibile presenza di pensieri negativi o stati emotivi indesiderati prima di giocare, valutando su una scala da 0 a 10 la valenza di questi pensieri/stati. Una volta elicitato l’episodio, l’intervistatore ha proceduto con le domande concernenti diverse aree della metacognizione: 1) credenze positive (es: Quale effetto credevi che il gioco avrebbe avuto sui tuoi sentimenti e pensieri?); 2) credenze negative (es: Sei riuscito ad esercitare il controllo sul gioco?); 3) scopi del gambling, segnali di inizio e fine (es: Hai utilizzato il gioco come strategia di gestione del disagio, preoccupazioni o pensieri negativi? Cosa ha segnalato che era giusto iniziare a giocare? Cosa ha segnalato che era giusto smettere di giocare?); 4) impatto del gambling sulla consapevolezza (es: Cosa è successo alla tua consapevolezza dell’ambiente circostante mentre stavi giocando?). Tutti i partecipanti hanno identificato una certa forma di pensiero perseverante come motivo principale per iniziare a giocare, come preoccupazioni economiche o familiari legate al gambling e le credenze positive riscontrate riguardavano principalmente l’efficacia del gioco nell’interrompere tale pensiero ripetitivo, mentre quelle negative l’incontrollabilità del gioco e il suo impatto sugli stati cognitivo-affettivi.

Circa gli scopi del gambling, 6 partecipanti hanno dichiarato di considerare il gioco come mezzo per risanare le difficoltà economiche, mentre 4 di loro come mezzo per migliorare lo stato cognitivo-affettivo. I partecipanti hanno inoltre affermato di non comprendere se e quando lo scopo era o meno raggiunto e che i segnali di inizio di gioco riguardavano l’idea di una possibile soluzione ai problemi o la sensazione che quello fosse il momento giusto per vincere. Tutti i partecipanti hanno riportato che il segnale di interruzione del gioco era rappresentato dall’esaurimento di denaro e che il gambling riduceva il senso di autoconsapevolezza.

I risultati di Spada e collaboratori sono in linea con il modello S-REF, dimostrando non solo che specifiche credenze metacognitive giocano un ruolo cruciale nell’insorgenza e mantenimento di comportamenti di addiction (Spada, 2013), ma che il gambling potrebbe essere considerato dai giocatori d’azzardo patologici come una strategia di coping per risolvere e/o regolare i propri stati interni (cognitivi e affettivi), con la conseguenza paradossale di incrementare la sofferenza psicologica ed i comportamenti disfunzionali associati, in un circolo vizioso che si automantiene.

Alla luce di queste nuove conoscenze circa la metacognizione e il ruolo importante che riveste nell’espressione di varie tipologie di addiction, una riflessione riguarda la possibilità che un primo intervento terapeutico di Terapia Metacognitiva (condurre il paziente verso una più chiara comprensione dei suoi processi mentali e fornirgli strategie adattive per interrompere i processi disfunzionali alla base della sua sofferenza quali rimuginio, ruminazione, soppressione dei pensieri ecc.), potrebbe essere utile nella riduzione dei comportamenti patologici tipici delle dipendenze e che un intervento più prettamente cognitivo-comportamentale che miri ad una ristrutturazione cognitiva (da applicare successivamente o in parallelo) potrebbe essere efficace nel diminuire il rischio di ricaduta.

La riduzione del comportamento patologico nell’addiction, attraverso la modifica e flessibilizzazione delle credenze che gli individui hanno circa i loro pensieri, delle modalità di rapportarsi con essi e di gestire gli eventi mentali che inducono ad agire in modo disfunzionale, potrebbe limitare la sintomatologia ansiosa e depressiva molto spesso riferita da questi pazienti, creando un terreno fertile per una terapia che aspiri ad una completa risoluzione delle problematiche emotive connesse al disturbo.

Peter Fonagy: la biografia e la teoria della mentalizzazione – Introduzione alla Psicologia

Secondo Peter Fonagy l’armonia nella relazione di attaccamento madre-bambino favorisce lo sviluppo del pensiero simbolico e la presenza di una base sicura contribuisce al processo di mentalizzazione precoce.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Chi è Peter Fonagy?

Peter Fonagy è nato a Budapest il 14 agosto del 1952 ed è uno psicologo clinico e psicoanalista. Ha studiato psicologia clinica presso l’University College di Londra, dove attualmente, è titolare della cattedra di psicoanalisi contemporanea, scienza dello sviluppo e direttore del dipartimento di psicologia clinica, dell’educazione e della salute. Inoltre, è direttore esecutivo dell’Anna Freud Center, formatore e supervisore alla British Psycho-Analytical Society, membro della British Academy, e dell’Academy of Social Sciences.
Fonagy ha ricevuto l’ Otto Weininger Memorial Award  per il suo contributo allo sviluppo della psicoanalisi contemporanea e per aver contribuito a migliorare il dialogo tra analisti e terapeuti cognitivisti.
Fonagy è autore di numerosi articoli e di oltre 16 libri.

La Teoria di Peter Fonagy

Fonagy ha fornito diversi contributi scientifici in vari campi, tra cui l’attaccamento. Egli ha approfondito, in particolare, il concetto di metacognizione o reflective self function, cioè funzione del Sé riflessivo o funzione riflessiva.
Con il termine mentalizzazione si fa riferimento ad una competenza metacognitiva dalla quale dipendono la capacità di comprendere le manifestazioni affettive altrui, la capacità di regolazione affettiva, di controllo degli impulsi e di automonitoraggio. Quindi, si tratta di processi psicologici che consentono di comprendere il proprio funzionamento e l’altrui in termini di stati mentali, cioè sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri.

La mentalizzazione

L’acquisizione di una buona mentalizzazione è strettamente legata allo sviluppo della teoria della mente che consente all’individuo di differenziare ciò che è da ciò si vorrebbe essere.
Un soggetto che non possiede un modello di teoria della mente, non sarà in grado di dare un senso ai comportamenti altrui, avvertendo una mancanza di controllo sulla propria vita e sull’ambiente circostante che si traduce in difficoltà a relazionarsi con gli altri in maniera adeguata.

Per comprendere la mentalizzazione non può essere trascurata la teoria dell’attaccamento; la funzione riflessiva è infatti mediata dalle relazioni di attaccamento con i caregiver, i quali devono essere, a loro volta, in grado di mentalizzare ed essere amorevoli e riflessivi, ponendo, in questo modo, le basi per un attaccamento sicuro.

Il bambino, inizialmente, non ha la capacità di discernere i contenuti mentali dalla realtà, ma li considera coincidenti. Tale capacità cognitiva è definita equivalenza psichica e consiste nell’effettuare un parallelismo tra tutto quello che è presente nella mente e il mondo esterno e viceversa.

La capacità di attribuire stati mentali intenzionali a se stessi e gli altri, però, non si sviluppa prima dei 4 anni di età.
Tuttavia, esistono dei segnali che fungono da precursori di tale attività, quali: indicare o guardare, controllare le reazioni della madre.
Tra i 6 e i 18 mesi, infatti, il bambino comincia a essere in grado di interagire mentalmente con il caregiver. Quindi, se la madre è in grado di rispecchiare lo stato emotivo presentato dal bambino, offre al figlio la possibilità di riconoscere ciò che egli stesso prova. Di conseguenza, la rappresentazione che la madre elabora dello stato affettivo del bambino, è interiorizzata dallo stesso tra le rappresentazioni del proprio Sé.
Se, al contrario, il rispecchiamento esercitato della madre è equivalente allo stato emotivo del bambino, la percezione che egli ha del proprio disagio può tramutarsi in una fonte di paura, amplificando l’emozione e perdendo così il suo potenziale simbolico.
Inoltre, se il rispecchiamento non si verificasse, o fosse contaminato dalla preoccupazione della madre, il processo di sviluppo del Sé sarà negativamente influenzato.

Secondo Fonagy l’armonia nella relazione di attaccamento madre-bambino favorisce lo sviluppo del pensiero simbolico e la presenza di una base sicura contribuisce al processo di mentalizzazione precoce.

L’equivalenza psichica

Oltre al concetto di equivalenza psichica, l’esistenza di una realtà psichica si realizza anche attraverso il  “far finta”, ovvero idee esperite come rappresentazioni senza essere sottoposte a un esame di realtà.
Questa modalità è espressa attraverso il gioco, in cui il bambino attribuisce significati agli oggetti.
Intorno al quarto, quinto anno di vita le modalità dell’equivalenza psichica e del far finta vengono sempre più integrate tra loro, e il bambino riesce a rappresentare gli stati mentali in quanto tali e riconosce che questi stessi stati costituiscono delle rappresentazioni che possono essere fallibili o modificabili, perché potrebbero essere diverse da quanto accade nella realtà.
Ovviamente in questo processo apparentemente semplice, il bambino necessita invece della presenza costante di un adulto che lo aiuti a sperimentare ripetutamente i suoi pensieri e i suoi sentimenti che devono, a loro volta, essere rappresentati nella mente del genitore, orientandoli nella realtà.

Durante il gioco, il caregiver sostanzia le idee e le emozioni del bambino creando un legame con l’ambiente esterno. Per questo, è necessario creare un legame con la realtà, individuando una prospettiva alternativa, che non è presente ancora nella mente del bambino.
Questo processo è determinante per favorire nel bambino la comprensione e l’accettazione delle due realtà, interna ed esterna, senza dover scindere il funzionamento dell’Io per mantenere una duplice modalità di pensiero. Lo scopo, dunque, è creare un continuum tra ciò che è presente in se stessi e la realtà circostante.
Quindi, la funzione riflessiva espressa dal genitore svolge un ruolo fondamentale nel processo di adattamento alla realtà, agevolando non solo lo sviluppo della capacità di gestire le proprie idee e i propri affetti, ma anche di riflettere prima di agire.
Insomma, lo sviluppo della capacità riflessiva infantile risulta essere direttamente influenzata dalle modalità relazionali espresse dal caregiver, come sensibilità, responsività e disponibilità, grazie alle quali il bambino impara e elaborare il mondo percettivo ed emotivo.

La presenza di un attaccamento sicuro, dunque, aiuta i bambini a usufruire di tutti quei processi interattivi sociali che agevolano la comprensione delle dinamiche interpersonali e di usare lo sviluppo di tutti quei processi metacognitivi, fondamentali per l’organizzazione del Sé.
Nelle famiglie in cui la capacità riflessiva del genitore è compromessa o nei casi di abuso infantile o trauma, viene meno la possibilità per il bambino di sperimentare i propri stati mentali attraverso l’identificazione con lo stato mentale dell’oggetto.

Secondo Fonagy per favorire la mentalizzazione è necessario focalizzarsi sull’importanza di condizionare i processi mentali allo scopo di modificare le rappresentazioni di sé e degli altri. Tutto questo serve per sviluppare rappresentazioni interne degli affetti volte ad aiutare il bambino a padroneggiare i propri sentimenti, distinguere l’interno dall’esterno, il reale dall’irreale, stabilire una reciprocità nel dare e avere, sviluppare la capacità di tollerare la frustrazione e posporre la gratificazione.

Lo scopo finale, secondo Fonagy, è sviluppare un processo in cui la mente è in grado di acquisire una maggiore conoscenza sul mondo, di pensare a se stesso e agli altri, e di mantenere questi processi stabili attribuendo significati a emozioni e situazioni incomprensibili.

La terapia basata sulla mentalizzazione

Fonagy e Bateman nel 2004 misero a punto la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT) ovvero la capacità di possedere pensieri riguardanti gli stati mentali come condizioni distinte, ma derivanti dal comportamento (Bateman & Fonagy, 2004).

La mentalizzazione, dunque, origina dal sentirsi compresi dalla figura di attaccamento attraverso l’ascolto e la comunicazione, presupposti su cui fondare la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.

Il disturbo di personalità, quindi, rappresenta il fallimento della comunicazione e della relazione di apprendimento, da cui si genera sfiducia nell’esperienza, non modificazione delle credenze sul mondo (di sé in relazione agli altri), e senso di isolamento.
Quando il paziente affetto da disturbi di personalità giunge in terapia, mostra questa sfiducia nei confronti del terapeuta e un grande senso di frustrazione. Per questo, il terapeuta proverà la stessa emozione che si tradurrà in sensazione di non essere ascoltato.
La terapia, quindi, ha lo scopo di creare le condizioni, aumentando la metacognizione, in cui la conoscenza possa essere implementata e generalizzata al mondo esterno, ponendo fine all’isolamento del paziente.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbo dello spettro autistico negli adulti e riduzione della risposta cerebrale quando si sente il proprio nome

Il gruppo di ricerca EXPLORA della Ghent University in Belgio mostra come la risposta più bassa del cervello all’udire il proprio nome non sia presente solo nei bambini a rischio di una diagnosi di autismo, ma anche negli adulti con una diagnosi di autismoLo studio è stato condotto dalla dottoranda Annabel Nijhof, sotto la supervisione dei professori Roeljan Wiersema e Marcel Brass. Questo studio non era mai stato condotto prima in individui adulti con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

 

La risposta cerebrale di chi è affetto da autismo quando sente il proprio nome

Solitamente quando si sente qualcuno pronunciare il proprio nome, a prescindere dal luogo in cui si trova, scatta una risposta orientativa forte e questo è considerato un aspetto importante e di successo per quanto riguarda le interazioni sociali. Le persone percepiscono l’udire il proprio nome come l’intenzione di un altro individuo di attirare la propria attenzione.
Studi precedenti hanno dimostrato come i bambini che sono a rischio di una diagnosi di autismo rispondono meno di fronte all’ascolto del proprio nome.
Questo potrebbe essere dovuto proprio al fatto che i sintomi principali del disturbo dello spettro autistico (ASD) riguardano l’interazione sociale e la comunicazione. Ed è proprio una diminuita risposta orientativa all’ascolto del proprio nome uno dei più forti predittori per lo sviluppo di un disturbo dello spettro autistico.

Il gruppo di ricerca EXPLORA della Ghent University in Belgio mostra come la risposta più bassa del cervello all’udire il proprio nome non sia presente solo nei bambini a rischio di una diagnosi di autismo, ma anche negli adulti con una diagnosi di autismo.
Lo studio è stato condotto dalla dottoranda Annabel Nijhof, sotto la supervisione dei professori Roeljan Wiersema e Marcel Brass. Questo studio non era mai stato condotto prima in individui adulti con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

Lo studio

Lo studio si è occupato del confronto tra un gruppo di adulti con disturbo dello spettro autistico e un gruppo di controllo, costituito da adulti senza una diagnosi di autismo.
I partecipanti allo studio sono stati posti in uno scenario sperimentale nel quale, mentre veniva registrata la loro attività cerebrale, venivano pronunciati i nomi propri dei soggetti, il nome di altri sconosciuti ed il nome di persone conosciute, senza che fosse chiesto loro di rispondere a questi richiami.

Risultati

Dai risultati è emerso che, come previsto, nei soggetti senza disturbo dello spettro autistico la risposta cerebrale all’udire il proprio nome, rispetto all’udire il nome di altri adulti, era molto più forte. Ma per quanto riguarda i soggetti con diagnosi di autismo questo effetto preferenziale nei confronti del proprio nome era totalmente assente.
A livello cerebrale, questa differenza del gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo era correlata ad una diminuita attività della giunzione temporale-parietale destra.
Studi precedenti si sono occupati di collegare la giunzione temporale-parietale destra ai processi di distinzione sé-altro e di mentalizzazione degli stati mentali altrui, processi esperiti diversamente dai soggetti con diagnosi di autismo, rispetto a soggetti senza questo tipo di diagnosi.

Applicazione dello studio

Questo studio è stato il primo a dimostrare la diversità di risposta nel cervello di adulti con disturbo dello spettro autistico all’udire il proprio nome, indicativi di deficit centrali nei processi di distinzione sé-altro, associati ad una disfunzione della giunzione temporale-parietale destra.
Questi risultati sono dunque molto importanti per aprire una serie di studi sulla possibilità di utilizzare la risposta neurale atipica al proprio nome come potenziale marker biologico dei disturbi dello spettro autistico.

Il prezzo del patriarcato. Uno studio israeliano sul sessimo: come il dominio maschile influenza negativamente il benessere di uomini e donne – FluIDsex

Uno studio condotto da Orly Bereket e Rotem Kahalon dell’Università di Tel Aviv, Israele, pubblicato sulla rivista di Springer Sex Roles, evidenzia come la polarizzazione maschile nei confronti delle donne, capace di ritrarle unicamente con una possibilità dicotomica “caste” oppure “promiscue”, influenza l’autonomia ed il benessere femminile e minaccia le relazioni intime eterosessuali.

 

Lo studio è stato condotto su 108 uomini israeliani eterosessuali, di cui il 77% minore di trent’anni ed il 55% single. I partecipanti tramite un questionario online hanno risposto ad una serie di domande, tra cui alcune sulla propria percezione della sessualità femminile, su eventuali legami tra castità/promiscuità femminile e tratti positivi/negativi, sulle loro relazioni e vite sessuali attuali e passate, se hanno oggettivato le donne e se si sono sentiti protettivi e paternalistici nei loro confronti.

I risultati hanno mostrato che il sostegno del predominio maschile influenza negativamente il benessere di uomini e donne rafforzando la disuguaglianza di genere, oggettivando le donne e limitando la loro sessualità. I partecipanti che sostenevano la dominanza maschile erano più inclini a ricreare una dicotomia femminile castità-promiscuità inconciliabile, ad oggettivare le donne sessualmente, esprimere un doppio standard che vede gli uomini più liberi sessualmente rispetto alle donne ed infine a mostrare un sessismo “benevolo” incentrato sui ruoli maschili più protettivi, rispetto a quelli tradizionali femminili, di cura.

Tale studio, avvenuto nel 2017 a Tel Aviv, e pubblicato nel 2018, dimostra come ancora alcuni uomini trovino il piacere sessuale e l’amore incompatibili. Tali credenze, come spiega il ricercatore Bareket influenzano la vita relazionale delle coppie eterosessuali:

Questi uomini possono avere difficoltà a sentirsi attratti dalle donne che amano, o amare le donne da cui sono sessualmente attratti, portando ad insoddisfazione cronica nelle loro relazioni sentimentali.

Date le conseguenze, i ricercatori invitano i terapeuti a riflettere sul patriarcato e sulla dicotomia sesso-amore con i propri pazienti. La terapia può utilizzare degli interventi psico-educativi, volti a riduzione del disagio relazionale, lavorando sul sessismo e sul dominio sociale, promuovendo empatia e rispetto verso gli altri.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

C’era una volta la prima volta. Come raccontare il sesso e l’amore a scuola, in famiglia, a letto insieme (2003) di Fabio Veglia e Rossella Pellegrini – Recensione del libro

C’era una volta la prima volta. Come raccontare il sesso e l’amore a scuola, in famiglia, a letto insieme è un libro scritto da Fabio Veglia e Rossella Pellegrini, della casa editrice Erickson. All’interno di questo piccolo manuale sulla sessualità troviamo le domande di migliaia di studenti delle scuole medie inferiori e superiori di tutta Italia.

Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Commetti il più vecchio dei peccati nel più nuovo dei modi.
William Shakespeare

 

 C’era una volta la prima volta. Come raccontare il sesso e l’amore a scuola, in famiglia e a letto insieme è un libro scritto da Fabio Veglia e Rossella Pellegrini, della casa editrice Erickson. All’interno di questo piccolo manuale sulla sessualità troviamo le domande di migliaia di studenti delle scuole medie inferiori e superiori di tutta Italia. I titoli dei capitoli di questo libro sono domande emblematiche, scritte dagli studenti in forma anonima e corrispondono alla sessualità reale, così come viene vissuta prima di essere discussa. Da qui si capisce l’esigenza degli autori di trovare un linguaggio semplice, comune e immediato per parlare di un tema che molto spesso viene visto come un tabù all’interno delle famiglie e delle scuole italiane.

C’era una volta la prima volta si pone come obiettivo l’educazione alla sessualità ad ogni età e in ogni situazione di vita: “rassicura chi è in crisi sulla propria vita sessuale o sulla possibilità di educare quella degli altri, ma anche per mettere in crisi chi è troppo sicuro di sé”.

Inoltre, permette una riflessione sulle emozioni che la sessualità suscita, come rabbia, vergogna, tristezza e divertimento, per entrare in contatto con le sue diverse sfaccettature.

Gli autori mettono in gioco la loro professionalità sul tema, raccontando, mettendosi dal punto di vista dell’adolescente che sta sperimentando una fase di vita molto turbolenta e piena di riflessioni sul proprio corpo.

C’era una volta la prima volta: come raccontare e raccontarsi

Una parte del libro C’era una volta la prima volta viene dedicata ai consigli per i genitori ed educatori che vogliono comunicare e parlare di sessualità con i propri figli o allievi. L’idea di fondo è riconoscere come il sesso sia parte integrante della vita di ogni individuo e che si deve innanzitutto accettare questa condizione per poter evitare le censure e false informazioni, andando verso un’idea di sessualità migliore e più appagante. Partire dalla propria responsabilità di genitore o educatore, apprendere come entrare in contatto con la propria sessualità è il primo passo per trovare il modo più adeguato per parlarne agli altri e con gli altri.

Ciò che si sottolinea in questa parte è la necessità di trovare un linguaggio comune con cui poterne parlare, non troppo scientifico, non troppo scontato, tenendo a mente quello del corpo, che secondo gli autori è quello più immediato per parlare d’amore.

Un altro capitolo è riservato ai ragazzi che vogliono parlare di sesso con gli adulti. Sottolineano l’importanza della comunicazione, di trovare un adulto competente che riesca a rispondere e contenere dubbi e confusione, perché una scarsa informazione sulla sessualità potrebbe comportare delle conseguenze difficili da gestire.

Le dimensioni della sessualità

La prima parte di C’era una volta la prima volta si conclude con la spiegazione di quelle che gli autori definiscono “dimensioni della sessualità”. Gli autori fanno presente il loro punto di vista, dicendo che la sessualità non è il principale motore o organizzatore della vita umana, ma che può connotare qualsiasi esperienza della nostra vita.

Si inizia questo viaggio all’interno della sessualità parlando della dimensione riproduttiva, quella che garantisce la continuità della specie umana; il bisogno riproduttivo è una spinta innata insita in ogni individuo.

La seconda è la dimensione ludica, cioè, la parte più divertente della sessualità, dove al suo interno essa si trasforma in un gioco. Se si rimane solamente all’interno di questo lato del sesso si rischia di “accontentarsi, di rimanere all’interno di una caverna, in una realtà virtuale” che ha poco a che vedere con la totalità di questa esperienza.

La dimensione sociale, quella dello “stare insieme” ad un’altra persona, rende la sessualità un bisogno di costruzione e condivisione con l’altro. Qui si sgancia dalla sua missione primordiale di riproduzione, e dal semplice gioco amoroso.

Successivamente troviamo la dimensione semantica: siamo proprio lì, dove avviene l’amore. Il sesso inizia ad essere un incontro fra due corpi che necessita di una coscienza condivisa con l’altro.

Fino ad arrivare alla dimensione narrativa, all’interno della quale nasce una storia. “Nei racconti generiamo senso e significato per la vita” ed è proprio in questa realtà che si inizia a fare l’amore generando un racconto che viene condiviso con l’altro.

Infine, l’ultima, ma non meno importante, è la dimensione procreativa. Dopo aver raccontato una storia si ha il bisogno di introdurre un nuovo piccolo personaggio. Dall’amore si passa all’atto creativo di introdurre un bambino nella propria vita ed iniziare a generare nuovo senso e significato.

Parliamo di sessualità

Quanti buchi ha la donna? Perché hanno sempre voglia di quella cosa lì? Quanti orgasmi si fanno con un pieno?

Queste sono solo alcune domande che gli adolescenti italiani si sono posti mettendoli davanti a persone competenti che hanno voluto parlare di sessualità fino in fondo, con il giusto linguaggio e le giuste metodologie.

Le altre le troverete nel libro, e ognuna di esse va a comporre un capitolo di psicoeducazione sulla sessualità. Il linguaggio usato, come detto in precedenza, è intuitivo, semplice, spiega cose complesse senza giri di parole e analisi scientifiche. Mette in condizione il lettore di percepire che l’educazione sessuale non è semplice prevenzione o informazione: l’educazione sessuale è educare alla vita, alla coscienza di sé e dell’altro. La sessualità diviene qualcosa di comprensibile sia per gli educatori/genitori, sia per gli adolescenti. In ogni pagina si cerca un luogo comune e lo si scompone per trovare chiarezza e comprensione.

Inoltre, C’era una volta la prima volta porta il lettore a entrare in contatto non solo con le problematiche legate alla sfera sessuale, ma anche con i piaceri e le emozioni positive. Fare sesso non deve essere un problema, un punto spiacevole della vita che viene affrontato con ansia e perplessità, ma un atto naturale e cosciente che può portare sensazioni di piacere e anche di responsabilità verso se stessi e l’altra persona.

In conclusione, questo libro è sorgente di informazioni, domande, riflessioni e metodologie utili quando si inizia a parlare di sessualità, sia a scuola, che in famiglia. Aiuta a riconoscere le varie sfaccettature di questo tema così delicato ma fondamentale. Porta un punto di vista fresco e genuino, emozionando il lettore con parole e metafore intuitive e accessibili a tutti.

Genitori, educatori, adolescenti o semplicemente persone comuni che vogliono comunicare con sé stessi e con gli altri della sessualità, possono leggere C’era una volta la prima volta per educarsi, emozionarsi e riflettere sul sesso, per essere poi in grado di mettere in pratica quanto appreso. Nella propria intimità, oppure, davanti a un pubblico assetato di domande che ha bisogno di essere guidato nel percorso di conoscenza di sé e della propria sessualità.

Virtuale e familiare: come gestire l’utilizzo dei dispositivi tecnologici da parte dei bambini

Sempre più spesso mi capita di essere interpellata sull’utilizzo degli schermi da parte di bambine e bambini. Ecco perchè ho iniziato ad occuparmi della questione e a cercare di capire, andando dietro al nostro tempo e cercando insieme di anticiparlo, come aiutare i genitori che si trovano a dover gestire una delle forze apparentemente più ingestibile di questa epoca: il virtuale.

 

Come posizionarsi di fronte all’utilizzo di telefoni, computer e tablet?

In un convegno dello scorso settembre (Waimhbl,2017)  i colleghi psicologi presenti hanno dimostrato come adottare una posizione clinica vuol dire non giudicare gli adulti che si occupano di educazione (genitori, nonni, baby sitter, maestri, etc.) ma sostenerli, spiegando loro in quale fase della crescita si trova il bambino per capire i suoi bisogni specifici.

Se si pensa ai primi mesi di vita, è evidente che per crescere si ha bisogno di toccare gli oggetti, metterli in bocca, odorarli, manipolarli, poi lanciarli, riprenderli, in pratica farli propri. La visione passiva impedirebbe dunque di sperimentare il mondo in modo attivo, di vivere la sensazione concreta di poter agire su di esso. Si può allora riflettere insieme sul fatto che il tempo passato davanti ad uno schermo permette di utilizzare solo due sensi: vista e udito. Che cosa succede allora se non si usano tutti e cinque i sensi? Come professionisti dell’infanzia, non si puo ignorare che numerose ricerche dimostrano e confermano i pericoli della televisione e dell’uso dello schermo in particolare prima dei tre anni (Ripamonti, 2016).

Tutto il tempo passato davanti agli schermi non è “perso” ma è di certo un tempo in cui non vengono utilizzate le capacità primordiali che sono innate per il gioco e adeguate all’età.

Secondo il report tecnico dell’AAP (American Academy of Pediatrics (Reid Chassiakos et al., 2016) bisogna considerare che per un bebé di pochi mesi, il ritmo rapido delle immagini, dei colori e dei suoni sono di una intensità largamente superiore alle stimolazioni abituali della sua vita quotidiana. Uno schermo acceso cattura l’attenzione ma rischia di renderlo eccitato, agitato e di nuocere alla sua concentrazione. Ci tengo a sottolineare che rischia: ciò significa che utilizzare un tablet per giocare non equivale necessariamente a compromettere il suo apprendimento, ma certamente a disinvestire nella relazione, con gli altri e con se stessi.

Relazione con se stessa e con se stesso

Il gioco è fondamentale per sviluppare creatività e capacità creative, intellettuali ma anche emotive; giocare permette di confrontarsi con l’apprendimento e il divertimento ma anche con due punti essenziali, purtroppo spesso dimenticati, se non rimossi: la noia e la solitudine. La bambina e il bambino devono poco a poco imparare a sostenere l’assenza, il vuoto e la monotonia; nel caso di un tablet, ecco un oggetto esterno che riempie, in modo facile e immediato, il vuoto interno, impedendo di poter restare all’ascolto delle proprie emozioni e di gestire ogni piccola e grande frustrazione.

L’uso frequente delle nuove tecnologie non sembra aiutare lo sviluppo della capacità sociali del bambino. Il tablet rischia di scoraggiare l’interazione sociale in anni nei quali nel cervello avvengono importanti sviluppi neuronali e neurogenerativi. Una prima conseguenza, derivante dall’isolamento nel quale si immergono bambini rapiti dal loro gadget tecnologico, è una minore capacità nella comunicazione (Solo Tablet, 2013).

Dunque, meno gioco reale in solitudine, meno gioco reale in compagnia.

Relazione con gli altri

Le esperienze intersoggettive tra madre, padre e figlio ma anche tra fratelli e sorelle contengono emozioni condivise che permettono al bambino e alla bambina la sintonizzazione con l’altro,  in modo tale che le esperienze piacevoli siano amplificate e che quelle negative siano ridotte e contenute, con una intenzione congruente per capirsi e stare bene.

E’ possibile osservare nelle nostre stesse famiglie come la comunicazione quotidiana si intrecci ormai sempre più frequentemente con il tempo dello schermo: le conversazioni telefoniche dirette e vocali si sommano alle interazioni che avvengono tramite le applicazioni. Il risultato è che figli non solo passano sempre più tempo davanti ad uno schermo, ma vedono i propri genitori farlo, negli orari e nei momenti in cui prima si era “irraggiungibili”.

I momenti adatti e consacrati alla relazione diventano sacri allora per ogni membro della famiglia!

Nessun programma televisivo può avere lo stesso valore di una parola veramente indirizzata ad un figlio, ad una figlia e aggiungerei che i piccoli hanno tanto bisogno che si racconti loro delle storie, quanto i grandi hanno piacere nel farlo.

Secondo i colleghi che si occupano di studiare l’argomento (Waimhbl, 2017) non esiste ancora sufficiente letteratura scientifica per poter arrivare a confermare le ipotesi sulla tossicità degli schermi ma è evidente, ad ogni livello, il rischio del tempo sottratto alle interazioni sociali.

Insomma, fra familiare e virtuale non si dovrebbe compiere una scelta: il virtuale può e deve essere utile a costruire il familiare. Come ci ha insegnato Donald Winnicott, non esiste un bambino: esiste una relazione.

Nuove cellule staminali sono state trovate nel cervello degli adulti

Gli autori del presente studio sono riusciti a rintracciare per la prima volta le singole cellule staminali e la loro progenie neuronale all’interno del cervello adulto. Questo studio fa luce su come i nuovi neuroni vengano prodotti durante l’intero arco della vita.

 

Come si formano le nuove cellule staminali nel cervello adulto

La generazione di cellule nuove si pensava finisse al termine dello sviluppo embrionale, tuttavia recenti ricerche hanno dimostrato che il cervello adulto può generare nuove cellule per tutta la vita. Una delle aree in cui questo accade è l’ippocampo, una struttura cerebrale implicata in molti dei processi di apprendimento e memoria, svolge un ruolo importante nella formazione delle memorie esplicite e nella trasformazione della memoria a breve termine in memoria a lungo termine.

In un nuovo studio pubblicato su Science, il laboratorio di Sebastian Jessberger, professore del Brain Research Institute dell’Università di Zurigo, ha mostrato per la prima volta il processo attraverso il quale le cellule staminali neurali si dividono e i neuroni neonati si integrano nell’ippocampo del topo adulto. Lo studio, condotto da Gregor Pilz postdoc e dalla studentessa di dottorato Sara Bottes, ha utilizzato l’imaging in vivo a 2 fotoni e l’etichettatura genetica delle cellule staminali neurali per osservare le divisioni delle cellule staminali nel momento in cui si sono verificate, e per seguire la maturazione delle nuove cellule fino ai due mesi.

Osservando le cellule in azione e nel tempo, il team ha mostrato come la maggior parte delle cellule staminali si dividono solo per pochi round prima che maturino nei neuroni. Questi risultati offrono una spiegazione sul perché il numero di cellule appena nate diminuisce drasticamente con l’avanzare dell’età. “In passato era ritenuto tecnicamente impossibile seguire le cellule staminali monocellulari nel cervello nel corso del tempo, data la profonda localizzazione dell’ippocampo nel cervello“, ha detto Jessberger.

Ha aggiunto che la svolta è stata resa possibile solo formando una squadra interdisciplinare. “Siamo stati fortunati che un gruppo di collaboratori, tra cui Fritjof Helmchen del Brain Research Institute e David Jörg e Benjamin Simons dell’Università di Cambridge, si siano uniti per mettere insieme le loro competenze nell’imaging cerebrale profondo e nella modellazione teorica, che ci ha permesso di ottenere e interpretare i nostri dati.”

Lo studio ha risposto a domande di lunga data, ma i ricercatori hanno affermato che questo è solo l’inizio di molti altri esperimenti volti a capire come i nostri cervelli siano in grado di formare nuove cellule per tutta la vita. “In futuro, speriamo di essere in grado di utilizzare cellule staminali neurali per la riparazione del cervello – ad esempio per malattie come l’invecchiamento cognitivo, il morbo di Parkinson e l’Alzheimer o la depressione maggiore“, riassume Jessberger.

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