expand_lessAPRI WIDGET

Super Mario nella Terapia Metacognitiva Interpersonale – Narrativa & Psicologia

Loredana è una giovane donna apparentemente forte e decisa. Solare, con una smania addosso di dover far star bene gli altri, per poi perdersi nella ricerca della sua di felicità. Non a caso è un medico.

 

Si è presentata nel mio studio circa sei mesi fa, ancora ricordo quel giorno, aveva fatto forse due minuti di ritardo (se così si può chiamare) ed era mortificata oltre che trafelata! Mi chiarisce subito che mi ha contatta perché vuole “imparare a vivere le relazioni con più serenità” e mi spiega che per lei significa non sentirsi sottomessa, sfruttata e dipendente.

In questi sei mesi abbiamo parlato a lungo della relazione con Alberto, conosciuto un anno fa a casa di amici. Lo descrive come un tipo deciso, verbalmente aggressivo a volte, imprenditore di grande successo. Lo stima e ammira molto, ma la relazione è piuttosto complicata e Loredana sente che le “manca il fiato”. Oscilla tra il sentirsi poco per lui al percepirsi troppo in altri casi. E nessuna delle due situazioni è serena. La prima la porta ad assecondarlo, a sentirsi estremamente influenzabile; la seconda costretta e sfruttata: “Gli sto dando troppo per quello che merita“. È un’altalena continua che si ripete in ogni seduta.

Loredana sta male. In questi mesi abbiamo parlato della sua famiglia, del rapporto con i genitori, dei rapporti passati in cui ha sempre deciso lei di interrompere le relazioni, abbiamo analizzato gli eventi più recenti legati ad Alberto. Da queste narrazioni, in linea con la terapia metacognitiva interpersonale, abbiamo ricostruito uno schema interpersonale patogeno a partire dal desiderio di autonomia. Loredana vorrebbe assecondare i propri desideri ma: da una parte percepisce la reazione dell’altro che ostacola e controlla e porta una risposta del sé rabbiosa e orientata alla fuga dalla relazione con conseguente immagine di sé indipendente e capace; dall’altra percepisce l’altro sofferente, la reazione emotiva è legata al senso di colpa e ad un’immagine di sé di persona cattiva, dannosa che può per questo perdere l’amore della persona amata. In quest’ultimo caso si attiva l’accudimento invertito alla vista dell’altro che sta male e il conseguente timore di essere abbandonata o non voluta se non fa qualcosa per riparare alla sofferenza altrui.

Se dovesse rimanere sola sente di non essere al sicuro perché crede di non poter provvedere a sé stessa, di non esserne capace e prova paura. Loredana mi dice: “Mi immagino come Super Mario, il personaggio del videogioco, quando cade e sprofonda nel vuoto. Questo è per me la chiusura di una relazione… non aver fatto un salto abbastanza lungo per raggiungere l’altra sponda. Poi per carità la relazione, come il gioco, non è mica facile… gente che vuole ucciderti (ride) ma nel percorso a volte trovi pure dei funghi magici e ti senti grande, pieno di energie e vai avanti nonostante le insidie e gli ostacoli perché sai che poi riassaporerai quei brevi ma intesi momenti in cui ti senti al sicuro”.

L’ultima volta prima dell’estate l’ho vista in lacrime, dopo l’ennesima lite con Alberto, mi ripeteva “Non posso farcela, non ne sono capace, non sto bene da sola, non sto bene con qualcuno, non ne uscirò mai“. Doveva recarsi ad una cena con le amiche per salutarle prima dell’estate mentre l’ufficio di Alberto aveva organizzato all’ultimo minuto una cena con compagne/compagni al seguito. Lui ha un ruolo importante in azienda e ha “costretto” Loredana ad andare con lui: “Mi sono sentita in colpa perché ha iniziato a dirmi che le fidanzate degli altri non fanno così, aiutano il proprio compagno, sono presenti quando è necessario… non riuscivo a credere a quello che diceva, sapevo che non era così eppure… sono andata a quella cavolo di cena! Si può immaginare la discussione furiosa dopo”. Loredana ha chiaro lo schema ma al momento, com’è normale in questa fase della terapia, riesce a vedere di esserci stata dentro solo dopo l’abbassamento del tono emotivo.

Decido allora di fare un esercizio in immaginazione a partire da un episodio narratomi precedentemente con l’idea di attuare un reparenting e accedere alle parti sane. Loredana all’epoca aveva circa quindici anni e ricorda la madre che in lacrime le chiede di restare a casa perché ha bisogno di lei; ha discusso con il padre e non vuole rimanere sola. Nell’esercizio Loredana rivive la scena, sente nuovamente il senso di colpa, “un pugno allo stomaco”, e nel farlo troviamo inaspettatamente un elemento in più nella direzione del reparenting che avevo pensato di attuare: ricorda che la madre le aveva detto che poteva uscire, il viso abbattuto certo ma amorevole, ma che è la stessa Loredana a scegliere di non andare fuori con il ragazzo. Al termine dell’esercizio Loredana è scossa. “Loredana abbiamo visto un punto molto importante. Ha fatto una scelta mossa dal senso di colpa. Il timore che l’altro possa stare male e abbandonarla se non è una brava figlia, e oggi se non è una brava compagna, la spinge a reprimere ciò di cui lei ha bisogno. Ma lei può scegliere se assecondare questo senso di colpa o andare nella direzione di ciò che desidera”. Loredana ripensa all’episodio del passato: “Tornando indietro non so cosa farei oggi”. Le dico di contattarmi se non sta bene nei giorni successivi, perché non ci vedremo per circa tre settimane.

Il 5 settembre è di nuovo nel mio studio.

Loredana (L): sono partita alla fine…

Terapeuta (T): ah bene con Alberto allora? Parigi mi aveva detto…

L.: No… me ne sono andata a mangiare burritos in Messico! (Ride)

T.: Messico?!

L.: Sì ne avevo bisogno… Non sapevo più cosa volevo, o forse chi ero. Dopo l’ultima seduta ero molto confusa, per la prima volta ho come capito che potevo fare qualcosa, che non era così scontato dover per forza aiutare e limitarsi. Forse non volevo andare lì per un motivo preciso ma di certo dovevo fuggire. In fondo non è spesso cosi? Non sappiamo più se volevamo scoprire un posto nuovo o sotterrarne uno vecchio, non crede?

T.: Ora che mi ci fa pensare può capitare, crede sia questo il caso allora? Fuggire? E da cosa?

L.: Eh qui viene il bello (ride) forse da me stessa, non saprei… Dalla mia testa (ride di nuovo) come se parlare un’altra lingua ci cambiasse non solo la forma dei pensieri ma anche il contenuto! “Te echo de menos” come se dirlo così non significasse sempre “mi manchi”, come se quelle parole nuove potessero placare l’emozione che contengono.

T.: Una bella osservazione. Trovo curioso che abbia scelto proprio questa frase come esempio, mi vuole aggiungere qualcosa? Stava ripensando a qualcosa in particolare?

L.: Probabile… Be’ durante i miei viaggi ho sempre sentito la nostalgia di ciò che lasciavo quando ero in un posto nuovo e poi sentivo nostalgia di quel luogo o di quelle persone al ritorno. Come se non fossi stata mai presente nel momento che stavo vivendo. Ma con il capo girato dietro le mie spalle a guardare quello da cui mi ero allontanata, insomma l’opposto del pensiero mindful che abbiamo visto insieme (ride). Ho capito questo mentre camminavo sotto la pioggia con i vestiti appena ritirati in lavanderia in una stradina di Tulum. Sentivo la pioggia rinfrescante sulla mia pelle e mi sentivo libera. Avevo sbagliato strada e non ritrovavo l’albergo. Una sensazione bellissima di paura ma nello stesso tempo di gioia della scoperta e della libertà di essere sola. Di poter inevitabilmente pensare solo a me stessa senza sensi di colpa. L’angoscia della solitudine a braccetto con la felicità della libertà di essere chi vogliamo. Perdersi, ma forse è in quelle occasioni che ritroviamo noi stessi. Forse è questo il vero viaggio. Ma per perdersi è necessario cambiare strada e forse andare lontano. E soffrire forse. Almeno un po’. Cioè sentirsi più… non saprei dire… In bilico. Non so come quando ci alziamo velocemente e abbiamo un capogiro, ecco quella sensazione. Stai per cadere ma non cadi, ti sembra di essere in una realtà parallela ma sai di essere ancora in questo mondo. Ci sei e non ci sei. L’incertezza.

T.: Questo ha provato in quel momento? 

L.: Sì totalmente! In effetti quella sensazione l’ho provata più volte… Intendo l’incertezza, paura e libertà e poi anche poter costruire una nuova me. Nessuno mi conosceva, e probabilmente delle persone incontrate non rivedrò nessuno. Puoi essere cioè che vuoi, puoi mettere da parte la vergogna e vedere che succede ad essere diversa.

T.: In che modo ha provato questo? Si è sentita diversa in cosa?

L.: Lei lo sa, ne abbiamo parlato molto. Alberto conosce bene l’inglese e faccio andare avanti lui quando siamo all’estero. Be’ ero sola e l’italiano medio sa meno inglese di me (ride) mi sono dovuta fare carico di un gruppo di connazionali che avevano bisogno di qualcuno che parlasse per loro in aeroporto negli Stati Uniti. Che ridere! Io come guida!! Ci crede!?! (Ride ancora)

T.: Io si, me lo posso immaginare bene, anzi me lo immaginavo anche prima che diventasse la sua realtà. Probabilmente il senso del viaggio non era scoprire un luogo nuovo, ma una nuova parte di sé in relazione a quei luoghi. Far venire alla luce quello che temeva piuttosto che sotterrare il vecchio. 

L.: Si è stato così che ho capito che posso farcela. Che non succede nulla se sono sola e mi concedo la libertà di pensare solo a me stessa. Credo che avevo bisogno di provare che anche sola non succede nulla. Sono fuggita da alcuni cani che mi inseguivano in piena notte in un piccolo villaggio, ho messo da parte la vergogna parlando in lingue diverse, ho superato il disgusto tra sudore e alberghi non proprio puliti, e, nonostante la paura, ho nuotato a largo per poter ammirare le tartarughe marine nuotare sotto di me…

T.: Vedo una luce diversa nei suoi occhi mentre parla, felicità? 

L.: Sì felicità, la gioia di essere consapevole di avercela fatta. Si ricorda Super Mario? Mentre ero sull’aereo per andare ho sentito che ero caduta in quella sensazione di vuoto, paura, solitudine e forse senso di colpa per aver pensato solo a me…. non è stata una sensazione piacevole, ma poi mi sono detta che da lì si poteva risalire, che non era arrivato il momento del game over (ride). Ho respirato profondamente, sono uscita dalla mia mente guardandomi intorno, dicendomi che andava tutto bene e qualsiasi difficoltà potevo affrontarla, che si ero sola, era vero, e stavo andando lontano, vero anche questo ma mi stavo agitando perché mi soffermavo sopra questi pensieri, se li avessi lasciati sciolti mi sarebbe venuto un attacco di panico!

T.: Brava Loredana, vedo che ha attuato le tecniche viste insieme di detached mindfulness per gestire il rimuginio, deve essere stato veramente difficile emotivamente quel momento…

L.: Molto, oltretutto ero partita e non sapevo nemmeno se Alberto ed io eravamo ancora una coppia. All’aeroporto di Dallas ho iniziato a scrivergli, in quel momento avevo bisogno di sapere che c’era. Mi sono detta “ora hai bisogno di sentirlo, di essere in contatto, poi capirai che cosa fare, una cosa alla volta, procedi passo dopo passo” cioè mi rendo conto sempre di più che se mi metto a guardare la scalinata intera non arriverò mai. L’ho capito prima di salire sulla piramide nel sito di Uxmal. Ho fatto un gradino alla volta per arrivare alla vetta, e guardando solo quel gradino in cui mettevo il piede. Poi arrivata ho guardato il paesaggio ed è stato favoloso. Ho capito che è lo stesso per tutto comprese le relazioni. Se guardo troppo oltre mi spavento. Ho capito che dovevo fermarmi.

T.: Fermarsi? In che senso?

L.: Stavo mollando con Alberto, come ho sempre fatto nelle mie relazioni precedenti. Come nello schema. L’altro mi ostacola, mi arrabbio e cerco la fuga. È più semplice, no? Stare insieme a qualcun altro mi “costringe” ad assecondare e se non lo faccio l’altro sta male e non mi vuole. Poi, vista la nostra ultima seduta, ho capito che stavo rimettendo in moto le mie solite dinamiche viste insieme. E lì mi sono letteralmente fermata e mi sono presa la pausa messicana! Mi sono detta “ecco Lory di nuovo gli stessi comportamenti, la stessa paura che ti spinge ad allontanarti, fermati un attimo e rifletti”. Con Alberto stiamo insieme, ma sono andata via di casa. Ho capito che avevo bisogno di stare sola, di avere qualcosa di mio. Lui è rimasto senza parole ma ha capito. Ovvio che penso convenga anche a lui (ride)… il mio senso di non essere amata e amabile di certo non si elimina in sei mesi di terapia… ma il punto è che io sto meglio così devo ricostruirmi, ricompattarmi. Ho capito che la presenza continua mi affatica troppo perché oltre alle dinamiche relazionali devo gestire le mie e al momento non posso farcela, d’altronde bisogna essere anche consapevoli dei propri limiti no? Come ci siamo dette più volte

T.: Si Loredana è proprio così, ha fatto dei grandi passi in avanti, tanta consapevolezza sulle proprie dinamiche.

L.: Si si è vero, è come se nel viaggio avessi applicato ciò che ci siamo dette in questi mesi, cioè più che applicato non saprei… provato forse. Super Mario per salvare la principessa Daisy deve tentare e ritentare. Ironia della sorte io da piccola con il mio Game Boy non ho mai finito il gioco così come non ho mai portato avanti una relazione tanto a lungo. Ora è arrivato il momento di godere del gioco senza l’angoscia di dover necessariamente salvare la principessa.

Manipolare le emozioni negative attraverso la stimolazione cerebrale

Una nuova ricerca, pubblicata su Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience e Neuroimaging mostra che le emozioni negative possono essere rafforzate o indebolite modificando l’eccitabilità del cervello. Utilizzando la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) (una particolare tecnica di stimolazione cerebrale) i ricercatori dell’Università di Münster in Germania, hanno scoperto che la stimolazione di tipo eccitatorio, rispetto a quella inibitoria, riduce maggiormente la risposta del cervello a immagini spaventose.

 

La stimolazione cerebrale può influenzare la regolazione emotiva

Cameron Carter, editore del Journal, in cui è stato pubblicato l’articolo ha detto: “Lo studio conferma che la modulazione della regione frontale nell’emisfero destro, influenza direttamente la regolazione delle informazioni emotive nel cervello in una modalità top-down. Queste scoperte evidenziano ed espandono l’ambito delle potenziali applicazioni terapeutiche della rTMS”.

Per confrontare gli effetti di una singola sessione di rTMS eccitatoria e inibitoria della corteccia prefrontale dorsolaterale, gli autori tedeschi hanno diviso 41 partecipanti sani in due gruppi ed hanno eseguito la tecnica mentre i soggetti osservavano volti paurosi, utilizzati per evocare emozioni negative o facce neutre per la condizione di controllo.

I risultati mostrano effetti opposti: la stimolazione eccitatoria diminuiva il processo di elaborazione visiva dei volti paurosi mentre quella inibitoria aumentava il processo sensoriale, allo stesso modo la rTMS eccitatoria riduceva i tempi di reazione impiegati dai partecipanti per rispondere agli stimoli e diminuiva l’arousal emotivo elicitato dai volti paurosi, la rTMS inibitoria invece aumentava entrambi questi processi.

L’autore senior Markus Junghöfer afferma “Questi risultati dovrebbero incoraggiare lo sviluppo di ricerche sui meccanismi di stimolazione magnetica della corteccia prefrontale dorsolaterale implicata tra gli altri anche nella depressione. ”

Proprio su questo versante, lo studio appare interessante: nella depressione infatti si osserva un’alterazione dell’elaborazione delle emozioni nella corteccia prefrontale dorsolaterale, che causa un’amplificazione delle emozioni negative e una riduzione di quelle positive. L’idea più diffusa oggi è che la stimolazione magnetica inibitoria a livello della corteccia prefrontale abbia effetti antidepressivi in quanto ridurrebbe l’elaborazione delle emozioni negative.

I risultati ottenuti da questa nuova ricerca suggeriscono invece che la rTMS eccitatoria potrebbe fornire una nuova via nel trattamento del disturbo depressivo.

Wonder: un film sulla diversità, l’inclusione e la famiglia – Recensione del film

Wonder è il film tratto dall’omonimo libro di R.J. Palacio . È un racconto trasversale che abbraccia diversi argomenti. Si spazia dal tema della diversità, dell’inclusione a tematiche quali la famiglia, il senso di sè, l’adolescenza. 

 

Wonder: la trama

Il personaggio principale è un bambino di 12 anni, August Pullman, per gli amici e familiari Auggie, che si trova all’ingresso della scuola media non avendo mai frequentato una scuola per via della sua condizione.

Auggie è affetto da una malattia congenita dello sviluppo cranio facciale, la sindrome di Treacher Collins, che comporta displasia orotomandibolare bilaterale e simmetrica, senza anomalie degli arti, associata a diverse anomalie della testa e del collo.

In questo caso il bambino è stato sottoposto a 13 interventi come riportato all’inizio del film proprio dal protagonista, alcuni per farlo respirare autonomamente altri per farlo sentire meglio, lasciando però sul viso cicatrici visibili. Questo fa sì che al bambino venga impartita un’ educazione domiciliare da parte della madre, una fumettista talentuosa che alla nascita di suo figlio, e viste le complicazioni smette di scrivere la tesi e si dedica a lui. Qui emergono il senso di protezione e di dovere della madre nell’ottica del prendersi cura inteso come “contenimento” , in quanto la madre si fa carico di paure, ansie e aspettative sue e del bambino fino a quando entrambi i genitori decidono che il bambino sia pronto e lo iscrivono in una scuola pubblica.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Le dinamiche genitoriali e familiari nel film Wonder

Qui entrano in gioco dinamiche di coppia e genitoriali che nel film sono velate dal legame molto forte tra i genitori. Quasi alla fine del film c’è una bella scena di complicità dove la madre serena porta a termine la tesi e torna a nuova vita forte della comprensione e del sostegno del marito.

Le dinamiche familiari si intrecciano con la storia della sorella del bambino, Via, una ragazza molto responsabile alla quale è stato chiesto di crescer in fretta e che mostra nei confronti di suo fratello protezione e dedizione.

Sono tanti i temi che si intrecciano nel film che viene raccontato da diversi punti di vista. Questo a sottolineare che a seconda delle prospettive la visone di una problematica è diversa.

Le emozioni di Auggie per l’ingresso alle scuole medie

Elemento portante è l’ingresso a scuola del bambino.
C’è la paura che suscita il diverso, o chi non ci somiglia; c’è il bullismo; il coraggio di iniziare un nuovo percorso e la voglia di affrontare il mondo essendo se stessi.

Il ragazzo “bullo” che muove insulti nei confronti di Auggie, all’inizio, forte del consenso di alcuni amici si ritrova ad essere solo nel momento della scoperta delle sue azioni, complice una famiglia poco sensibile che prende le sue difese senza comprendere il disagio del ragazzo.
Alla fine si sentirà dispiaciuto e consapevole dei propri errori e in una scena esternerà il proprio dispiacere al preside.

Auggie è un bambino forte ma al contempo pieno di ansie e paure che si scopre artefice di un cambiamento positivo dei suoi coetanei nella classe.
Questo cambiamento è sottolineato dal preside della scuola nel suo encomio finale dove cita alcuni passi di un autore fondatore della scuola che sottolineano come la forza di un cuore che trascina altri cuori è motivo di orgoglio e di importanza più di un’ opera di carità.

Alla tematica dell’inclusione si accostano ragazzi che si accingono all’adolescenza, già carica di significati per loro.

Conclusioni sul film Wonder

È un film che fa riflettere per i contenuti attuali e per il senso di sentirsi diversi in un’ epoca in cui la diversità è spesso associata a punto di debolezza.

In questo film la forza dimostrata da questa famiglia fa molto riflettere su quanto sia importante un senso di famiglia ben radicato. Non si fanno cenni al percorso di aiuto o sostegno della famiglia ma spicca il senso di unione tra loro, il rispetto e l’amore per Auggie e più in generale per la famiglia.

L’emozione di paura è assemblata nella corteccia prefrontale – Report dal convegno con Joseph Ledoux

Il 10 e 11 Febbraio si è svolto a Roma un interessante convegno intitolato Anxiety organizzato dalla Italian Psychoanalytic Dialogues e dalla International Neuropsychoanalysis Society; la main relation è stata tenuta da uno speaker d’eccezione, Joseph Ledoux.

 

Dopo almeno tre decenni dedicati allo studio dei correlati neurali di ansia e paura e dopo aver ben identificato il ruolo della amigdala, Joseph Ledoux (2017) ha formulato una versione aggiornata della sua teoria.

La tesi sostenuta da Joseph Ledoux merita di essere riassunta e diffusa perché pone qualche difficoltà all’ approccio bottom up alle emozioni. Ledoux parte da una osservazione: la parola “paura”, nel linguaggio comune fa riferimento al feeling che invade la nostra coscienza quando riteniamo di essere in pericolo, e la riconosciamo in noi stessi grazie alla introspezione, e negli altri per manifestazioni direttamente osservabili, come il freezing, la fuga, i tremori, le espressioni facciali. Invece, osserva Joseph Ledoux, con lo sviluppo delle neuroscienze il termine “paura” è utilizzato di solito in riferimento a uno specifico stato di attivazione del circuito neurale che coinvolge l’amigdala e che media tra gli stimoli minacciosi e le reazioni di difesa.

Per alcuni, riduzionisti eliminativisti, il riconoscimento del ruolo di questo circuito neurale consentirebbe di dar conto della esperienza della paura in modo oggettivo, senza far riferimento a descrizioni che utilizzano un linguaggio psicologico introspettivo considerato non oggettivo e inaccurato.

Altri ritengono che il sentimento soggettivo della paura sia istanziato nell’amigdala, vale a dire che essa sia il substrato della esperienza della paura. Un terzo approccio, quello proposto in precedenza da Joseph Ledoux stesso, ipotizza l’esistenza di due circuiti della paura, uno subcorticale e inconscio, l’altro corticale, prefrontale e conscio. Il primo, implicito, renderebbe ragione delle reazioni fisiologiche e comportamentali della paura, il secondo, esplicito, della esperienza soggettiva della paura.

Joseph Ledoux: tra paura e difesa

In realtà, suggerisce Ledoux, il termine “paura” va riservato soltanto alla esperienza conscia della paura, mentre il termine “paura” non andrebbe proprio utilizzato quando si parla del circuito sottocorticale che coinvolge l’amigdala. Questo andrebbe denominato, invece, circuito della difesa e della sopravvivenza, la cui attivazione non è una condizione necessaria e nemmeno sufficiente per provare l’emozione di paura. Infatti:

  • L’esperienza soggettiva di ansia e paura non correla bene con le misure di risposte fisiologiche e comportamentali di difesa
  • Pazienti con danni della amigdala non hanno le normali risposte fisiologiche alle minacce, ma hanno l’esperienza soggettiva della paura e del panico
  • Minacce processate soltanto a livello inconscio implicano un aumento della attività della amigdala e attivano risposte fisiologiche periferiche, anche quando la persona rimane inconsapevole della minaccia e non sperimenta la paura
  • L’esperienza della paura non è connessa ad un singolo circuito subcorticale ma anche a circuiti coinvolti nella termoregolazione, equilibrio dei liquidi corporei, regolazione della energia oltre a quelli più noti connessi con la difesa dai predatori.

In sintesi, Joseph Ledoux trae alcune conclusioni. Il termine “paura” va riservato all’esperienza conscia della paura e non va utilizzato per l’attivazione del circuito della amigdala. L’esperienza soggettiva della paura emerge in circuiti corticali come risultato della integrazione di informazioni nella memoria di lavoro, informazioni che riguardano rappresentazioni sensoriali e vari ricordi, informazioni che possono provenire anche dalla attivazione del circuito cerebrale che coinvolge l’amigdala e dedicato alla difesa e alla sopravvivenza, e anche dai feedback che provengono dalle risposte corporee.

Il circuito che coinvolge l’amigdala va denominato circuito di difesa e sopravvivenza e la sua attivazione non è una condizione né necessaria né sufficiente per l’esperienza soggettiva della paura. L’esperienza della paura è assemblata nella corteccia, in particolare in quella prefrontale, e non nelle strutture sottocorticali.

Può essere interessante aggiungere un dato emerso da un nostro esperimento (Couyoumdjian, 2016). L’ipotesi era che la riduzione della valutazione negativa della propria emozione di paura, in soggetti con fobia specifica, avrebbe ridotto la paura degli stimoli fobici. I partecipanti erano pazienti con fobia specifica e con un problema secondario, cioè valutavano negativamente se stessi per il fatto di avere la fobia. Ad esempio, molti di loro si giudicavano fifoni e vigliacchi. Con un intervento strettamente cognitivo, il doppio standard, abbiamo ridotto la valutazione negativa che davano di se stessi per la loro fobia.

Il risultato è stato che la reazione fisiologica (misurata tramite la Hearth Rate Variability) di fronte allo stimolo fobico si riduceva significativamente, ma non si modificava l’esperienza soggettiva di paura (misurata tramite Visual Analogue Scale introspettive).

L’aspetto interessante non è tanto l’indipendenza del vissuto di paura dalla reazione fisiologica, che è un fatto ben noto e ampiamente argomentato da Joseph Ledoux, quanto piuttosto che un intervento strettamente cognitivo abbia modificato la reazione fisiologica, che si presume essere sottocorticale, ma non l’esperienza soggettiva della paura, che si presume essere corticale.

L’esperienza TED: innovazione nella divulgazione scientifica

TED, acronimo di Technology, Entertainment and Design, è un’organizzazione no-profit che ben 33 anni fa, nel 1984, ha intrapreso la sua opera di divulgazione scientifica organizzando in America, nella Silicon Valley, una conferenza di quattro giorni in cui confluivano i tre grandi temi originari: tecnologia, intrattenimento e design.

 

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre”, diceva una delle menti più aperte e geniali che abbiamo conosciuto, Albert Einstein. Una mente aperta è una mente in grado di apprendere, di confrontarsi, di mettere in discussione idee, integrarle, cambiarle, rivoluzionarle. Per poter fare ciò, è necessario esporsi alla novità e considerare nuovi punti di vista. Il TED è un po’ tutto questo. Un’esperienza che ci permette di entrare in contatto con realtà molto distanti dalla nostra, che probabilmente non avevamo nemmeno mai considerato, con estrema semplicità.

Cos’è TED?

TED, acronimo di Technology, Entertainment and Design, è un’organizzazione no-profit che ben 33 anni fa, nel 1984, ha intrapreso la sua opera di divulgazione scientifica organizzando in America, nella Silicon Valley, una conferenza di quattro giorni in cui confluivano i tre grandi temi originari: tecnologia, intrattenimento e design. Dopo quella prima conferenza, dovettero passare circa sei anni prima che ne venisse organizzata un’altra (un vuoto dovuto principalmente a motivi economici). Nel 1990 però si ripartì con una nuova conferenza a Monterey, in California, per poi diventare un appuntamento annuale. I temi affrontati si allargarono, fino a comprendere le discipline più disparate, attraverso interventi indirizzati ad un uditorio aperto e curioso verso nuove scoperte e idee innovative. I relatori appartenevano alle categorie professionali più diverse, tra cui scienziati, filosofi, musicisti, uomini d’affari, leader religiosi, e molti altri ancora.

Fino al 2001, però, il TED rimase un’esperienza circoscritta alla sola città californiana. Quindi, tra il 2001 e il 2006 ci fu un’ulteriore grande apertura. Nacquero infatti tre rami del TED: TED Global, che annualmente organizza conferenze in tutto il mondo, TED Prize, che stanzia un premio da 1 milione di dollari per realizzare idee innovative in grado di migliorare il mondo (!), e TED Talk, che pubblica online i contributi migliori. A seguire, si formarono nuove forme di TED, tra cui il TEDx nel 2008, che replica il format del TED in eventi locali ed indipendenti, ed il TED-Ed nel 2012, che pubblica brevi video-lezioni sui temi più vari.

Attualmente, l’appuntamento annuale della TED Conference è a Vancouver, in British Columbia.

Come si può leggere sul sito web, la mission dell’organizzazione è sempre stata quella di diffondere al grande pubblico il sapere di menti curiose, in modo semplice e coinvolgente. Non a caso, il nome completo dell’organizzazione è TED – “Ideas worth spreading”, ovvero “idee che meritano di essere diffuse”.

Ormai moltissime città italiane organizzano fantastici eventi TED, basta cercare in uno dei siti internet riportati in bibliografia.

Esperienza TED la divulgazione scientifica tra realta distanti con estrema semplicita - Imm1

Imm1 – Foto scattata al TEDxRoma 2017. Speaker: Philip Zimbardo

Qual è il format del TED?

Il TED ha poche regole, ma chiare e precise.

Primo, ogni relatore ha a disposizione al massimo 18 minuti per parlare del suo argomento. Può sempre controllare lo scorrere del tempo tramite un counter che ha di fronte a sé sul palco.

Secondo, bisogna utilizzare un lessico semplice e di facile comprensione, non troppo tecnico, ma allo stesso tempo accattivante, in modo da farsi comprendere e far appassionare anche i non esperti del settore.

Terzo, è caldamente consigliato utilizzare supporti audio o video per essere il più possibile coinvolgenti.

Denominatore comune, infine, è il caratteristico pallino rosso entro i cui confini il relatore deve cercare di rimanere durante il suo intervento.

Non resta che farsi trascinare dagli entusiasmanti eventi TED!

Anche per i geni il tempo è importante – Ritmi circadiani e la trascrizione del DNA

Il detto “c’è una stagione per tutto” è molto usato e attualmente una nuova ricerca mostra che è calzante anche a livello molecolare! Uno studio del Salk Institute, in California, pubblicato sulla rivista Science, ha rilevato che l’attività di circa l’80 percento dei geni segue un ritmo giorno-notte in molti tipi di tessuti e regioni del cervello.

 

I ritmi circadiani dei geni

Mentre gli scienziati sanno da tempo che molti tessuti seguono questi cicli, detti ritmi circadiani, questo è lo studio più completo che collega queste tempistiche alla trascrizione genica (il processo di copiare il DNA nell’RNA per guidare l’assemblaggio delle proteine).

Questa è la prima volta che viene stabilita una mappa di riferimento dell’espressione genica quotidiana“, dice Satchidananda Panda, professore nel Laboratorio di biologia regolatoria di Salk e autore senior del giornale. “E ‘un quadro per capire come la disregolazione circadiana possa concorrere a causare molti disturbi fisici e mentali, con un enorme impatto sulla comprensione dei meccanismi o l’ottimizzazione delle cure“.

Utilizzando il sequenziamento dell’RNA, il team di ricerca ha monitorato l’espressione genica in dozzine di diversi tessuti primati non umani ogni 2 ore per 24 ore. Il team ha scoperto che ogni tessuto conteneva geni espressi a diversi livelli in base all’ora del giorno. Tuttavia, il numero di questi geni “ritmici” variava in base al tipo di tessuto: da circa 200 nei linfonodi pineali, mesenterici, midollo osseo e altri tessuti a più di 3.000 nella corteccia prefrontale, nella tiroide, nel muscolo gluteo etc.. Inoltre, i geni che sono stati espressi più spesso tendevano a mostrare più ritmicità o variabilità nel tempo.

Dei 25.000 geni nel genoma dei primati, quasi 11.000 erano espressi in tutti i tessuti. Di quelli (che per lo più governano le funzioni cellulari di routine, come la riparazione del DNA e il metabolismo energetico), il 96,6 percento erano particolarmente ritmici in almeno un tessuto, variando drasticamente durante il campionamento.

Nella maggior parte dei tessuti, la trascrizione genica ha raggiunto il picco al mattino presto e nel tardo pomeriggio e si è calmata la sera dopo cena, prima di andare a dormire. Con l’81,7 per cento dei geni codificanti proteine, che sperimentano un effetto ritmico, questo meccanismo di temporizzazione è molto più diffuso di quanto si sospettasse in precedenza.

Discussione dei risultati e implicazioni cliniche

Questi risultati forniscono nuove intuizioni che potrebbero influenzare il modo in cui la ricerca scientifica viene convalidata. Ad esempio, gli scienziati che cercano di replicare il lavoro precedente possono prestare maggiore attenzione a quando sono stati condotti specifici esami“, dice l’autore co-senior della carta Howard Cooper. Oltre a fornire nuove informazioni su nuovi metodi di ricerca, questo meccanismo di sincronizzazione molecolare potrebbe anche avere un impatto sull’efficacia dei farmaci. In futuro, i medici potranno fornire ai pazienti istruzioni più dettagliate su quanto spesso e in quale momento della giornata assumere determinati farmaci.

Dimostriamo che oltre l’80% dei target di farmaci approvati dalla FDA sono ritmici in almeno un tessuto“, dice Ludovic Mure, ricercatore dello staff di Salk.
L’atlante dell’espressione genica del team Salk potrebbe anche aiutare gli scienziati a chiarire come gli stili di vita che prevedono una disregolazione dei riti circadiani possano influire sulla salute umana. Questo potrebbe applicarsi ai lavoratori in turni o a chiunque si allontani regolarmente dal ciclo giorno-notte.

Questo è un elenco di come i geni sono espressi differenzialmente in diversi organi e questo ci fornirà un quadro per capire se il lavoro a turni e altre interruzioni cambiano il modo in cui i geni sono espressi“, ha detto Panda. “Per la precedente ricerca sul ritmo circadiano, non avevamo un riferimento, quindi è come avere un genoma di riferimento umano.”

La paura della Paura: conversazione con Sandra Sassaroli – Podcast –

La Dott.ssa Sandra Sassaroli, fondatrice delle scuole di Psicoterapia del gruppo Studi Cognitivi, ha partecipato alla trasmissione radiofonica Dialoghi in città.

 


Registrazione della puntata del 12 febbraio 2018 della trasmissione radiofonica “Dialoghi in Città”, a cura di Gennaro Matino. Ospite: Prof.ssa Sandra Sassaroli.


 

Argomenti correlati:

2° Summit Internazionale – Behavior Analysis e Autism in Higher Education: Advances e Opportunities, Stoccolma – Report

Si è tenuto nei giorni scorsi a Stoccolma il Secondo Summit su ABA, autismo ed educazione superiore. Il Summit ha visto la partecipazione di studiosi di analisi del comportamento di vari Paesi europei: Grecia, Regno Unito, Islanda, Norvegia e Svezia, e di chi scrive in rappresentanza dell’Italia.

 

Autismo e analisi comportamentale

Erano presenti alcuni colleghi di università statunitensi, Shahla Alai Rosales, James Todd, Samuel Odom e Gail McGee, oltre a Jim Carr, CEO del Behavior Analyst Certification Board, l’agenzia che ha sede negli Stati Uniti e certifica la formazione degli analisti del comportamento che lavorano nel campo dei trattamenti per l’autismo, accompagnato da Neil Martin, Responsabile dell’International Development del BACB.

Obiettivo del Summit era riunire ricercatori e studiosi internazionali per dibattere alcune questioni relative all’istruzione universitaria in riferimento all’analisi comportamentale e alla sua relazione con l’autismo, prendere in considerazione orientamenti in politica sanitaria e formare nuove partnership internazionali.

Data la familiarità dei partecipanti con i temi trattati, ogni presentatore ha potuto entrare direttamente in medias res, evidenziando tre o quattro questioni centrali che sono servite a promuovere una discussione produttiva tra tutti i partecipanti. I documenti, una volta redatti, saranno pubblicati su un numero speciale dell’European Journal of Behaviour Analysis.

2° Summit Internazionale su Analisi del Comportamento e autismo - Report

Che cosa è emerso dal Summit?

Due cose principalmente: una differenza radicale tra Stati Uniti e Unione Europea, e una sostanziale omogeneità tra paesi del Nord e del Sud Europa per quanto concerne i servizi per le persone con autismo e la formazione degli operatori per questi servizi.

In altre parole, abbiamo verificato una convergenza generale sulla tipologia di trattamenti comportamentali intensivi e precoci, necessari ed efficaci per l’autismo, pur applicati con modalità che presentano accenti differenti in termini di caratteristiche dei programmi: ad esempio modelli più direttivi e strutturati accanto a modelli più naturali ed ecologici. Negli Stati Uniti, tuttavia, manca un sistema di welfare paragonabile a quello presente nella maggioranza degli stati europei: pertanto il ruolo di diagnosi e cura, svolto in UE dai nostri diversi Servizi Sanitari Nazionali è prevalentemente assicurato da professionisti forniti e pagati da assicurazioni private, oppure da centri specializzati, finanziati da enti privati o dai singoli Stati.

Ricordiamo, en passant, che la necessità di garantire la preparazione professionale degli Analisti del Comportamento, nata pionieristicamente negli anni ’70, ma sviluppata a livello nazionale, grazie al prezioso lavoro di Jerry Shook, a cavallo della fine del secolo, nasce proprio su richiesta delle assicurazioni, che com’è noto, prima di scucire un dollaro, vogliono essere certe di pagare per qualcosa di realmente efficace. Del resto bisogna ricordare che erano rimaste scottate non molti anni prima dalla vicenda dei trattamenti psicoterapeutici psicoanalitici, lunghi, costosi e dimostratisi privi di efficacia.

Una profonda differenza esiste tra USA e UE per quanto riguarda la formazione universitaria degli Analisti del Comportamento. In nessun Paese europeo, almeno fra quelli presenti al Summit, ma mi sento di poter generalizzare l’affermazione anche agli assenti, c’è un riconoscimento formale del profilo dell’Analista del Comportamento, e conseguentemente della Certificazione del BACB. L’analisi del comportamento, come accade da noi in Italia, è insegnata all’interno di poche università e sotto mentite spoglie, all’interno del corso di Psicologia Generale. Non esiste una laurea in Analisi del comportamento, non esiste un profilo professionale di analista del comportamento a livello sanitario o socio sanitario.

Conseguentemente anche la certificazione BCBA non possiede un valore legale/formale. Per colmare questo vuoto è stata fondata SIACsa, la Società Italiana degli Analisti del Comportamento in campo sperimentale e applicato, che pubblica un registro di professionisti che hanno ottenuto una formazione professionale di alto livello, valutata e garantita da un Board Internazionale.
Esistono Master, universitari e non, che rilasciano diplomi, anch’essi privi di valore legale/formale, quindi valutabili esclusivamente sul piano della qualità della preparazione professionale che forniscono: ricordiamo che in Italia il termine Master è una sorta di catch-it-all che designa molte, troppe cose. Ma su questo argomento torneremo presto in un prossimo articolo.

L’ultima informazione che riporto da Stoccolma è che la rivista The Behavior Analyst, organo dell’Associazione per l’Analisi del Comportamento, non esiste più. È stata sostituita da Perspectives on Behavior Science An Official Journal of the Association for Behavior Analysis International. Il tempo ci dirà se questo cambio di titolo implica anche una differente linea editoriale. Di sicuro non c’è più spazio per “we few, we happy few” (S. Hayes, corrispondenza personale), e non è più tempo per l’arrogante scientismo che caratterizza alcuni sedicenti scienziati comportamentisti da noi altri.

Femminicidio: la psicologia di un delitto. Tratti personologici di vittima e carnefice.

Vi è una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima

Bulgarelli Alessandra, Lai Elisa – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

L’origine del termine Femminicidio

Il termine Femminicidio è un neologismo attestato solo da pochi anni che fa riferimento alla violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

Come “omicidio di una donna in quanto donna” appare il violento e brutalissimo retaggio di una cultura patriarcale arcaica, in cui la donna è vista come proprietà dell’uomo (MacNish,1827). Vi è dunque una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima (Barbagli, 2013). La violenza che non sfocia in un gesto che provochi l’uccisione della vittima può, all’interno del rapporto personale o familiare, essere traumatica e dare l’avvio a disturbi post-traumatici da stress. In letteratura, sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti.

Sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti.

  • La sindrome di Stoccoloma domestica (Domestic Stockholm Syndrome, DDS) é una condizione psicologica in cui una persona, vittima di un sequestro o di una condizione di restrizione della propria libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si realizza come meccanismo di coping per fronteggiare le violenze intime. Le vittime, continuamente concentrate su come sopravvivere in una situazione cronica di fortissimo stress, cercano di controllare il loro ambiente per evitare almeno le violenze più gravi. La loro attività di strategizing (trovare strategie) le induce così a concentrarsi sulla bontà del loro carnefice piuttosto che sulla brutalità. La vittima arriva a convincersi di dover stare con il carnefice al fine di proteggere i figli e i parenti dalla violenza, fino ad arrivare a pensare che la propria sopravvivenza sia completamente nelle mani del suo abusante e che l’unico modo per sopravvivere sia di essergli fedele (Reale, 2011).
  • La sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome, BWS), individuata dagli studi di Leonore Walker (Walker, 2007) è simile alla sindrome di Stoccolma, ma si iscrive all’interno di un “ciclo della violenza” che si articola in una prima fase di accumulo della tensione, una seconda fase di aggressioni e percosse, e una terza fase di cosiddetta “luna di miele”. Quest’ultima fase “amorosa” di sollievo in realtà amplifica il disagio creando nella vittima speranze illusorie sul fatto che il partner possa cambiare e la violenza possa cessare (Walker, 2007). La Walker afferma che tale sindrome è comune tra le donne gravemente abusate: tra gli elementi che rendono estremamente complesso il loro quadro è il non esaurimento della speranza che il partner cambi, la dipendenza economica dal partner, la convinzione di poter gestire un equilibrio familiare tra un un’esplosione di violenza e la successiva, la paura di rimanere sola, la perdita di autostima, uno stato di depressione o la perdita dell’energia psicologica necessaria a iniziare una nuova vita (Danna, 2007).

Identikit psicologico delle vittime di femminicidio

Tracciando un identikit psicologico delle vittime di femminicidio, si è osservato (Baldry, 2006) come la determinazione familiare e culturale della violenza possa innescare quel meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che le vittime presentano. In passato si parlava di vis grata puellis (Betsos, 2009) in particolare in materia di violenza sessuale, o di “destino anatomico” che impone l’umiliazione alla donna.

Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è spesso citato il concetto di “incapacità appresa” (De Pasquali, 2009). Secondo questa ricostruzione, chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile. Uno studio sperimentale condotto da Martin Seligman nel 1967 (Musumeci, 2012) ha dimostrato che il cane che viene rinchiuso in una gabbia e a cui viene somministrata una scossa elettrica, dopo ripetuti tentativi di fuggire sempre frustrati dal fatto che la gabbia non consente all’animale la fuga, rinunceranno a cercare di sottrarsi anche una volta che venga loro mostrato che la gabbia è stata aperta. Gli esseri umani si comportano in modo analogo, l’addestramento alla rinuncia e la rassegnazione potrebbe essere simile. Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza (che sfocia spesso in femminicidio) c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative, e gli abusanti lo sanno bene, tant’è vero che l’isolamento e la violenza economica sono forme di abuso abitualmente praticate: in questi casi, scomodare il “masochismo” o parlare di collusione per donne prive di alternative sociali ed economiche è solo aggiungere ingiustizia all’ingiustizia.

Un altro fenomeno che occorre considerare nell’illustrare le dinamiche di comportamento delle vittime di femminicidio è il “legame traumatico” (Betsos, 2009). Si tratta di un termine impiegato nella letteratura per descrivere un legame potente e distruttivo che è talvolta osservato tra le donne maltrattate e i loro abusanti o tra bambini e i loro genitori (Dutton & Painter,1981). Esso permette di descrivere dunque certe situazioni in cui i forti legami emotivi che si possono formare tra le vittime e i loro oppressori risultano in una complessa serie di relazioni abusanti, quali ad esempio la Sindrome di Stoccolma. Le condizioni necessarie quindi al verificarsi di un vincolo traumatico sono due: il fatto che una delle persone coinvolta nella relazione abbia una posizione di dominio sull’altra, e che il livello di abuso compaia e scompaia cronicamente. Il rapporto cioè è caratterizzato da periodi di comportamenti partecipativi e affettuosi da parte del partner dominante, alternati ad episodi di abuso intenso, che possono poi sfociare in casi di femminicidio.

Nel ciclo di comportamenti relazionali, attribuiti a legame traumatico, il “vittimizzatore” impone forti punizioni, poi dopo aver dato un rinforzo negativo, che censura il comportamento “irregolare” della vittima, dismette il comportamento punitivo e si sposta a gratificare la vittima con rinforzi positivi. Questo modello di punizioni e rinforzi positivi può costituire una forma particolarmente potente di double bind e legittimare così nella vittima la paura di essere feriti o uccisi come reazione a una qualche mancanza, a un qualche atto di sfida o di autonomia o a una non conformità alle regole imposte o previste.

I risultati delle ricerche e delle teorie di Donald Dutton e Susan Painter (Dutton & Painter, 2009) risultano convincenti per quanto riguarda il motivo per cui le donne rimangano in relazioni violente, relazioni il cui triste epilogo è spesso il femminicidio. I due autori hanno rivisitato molti studi e ricerche sull’argomento e sono giunti alla conclusione che l’elemento forte che spiega il permanere in una situazione di violenza è l’intermittenza dell’ abuso. Molte donne hanno infatti descritto con espressioni di soddisfazione e gratificazione i periodi di riconciliazione intercorsi tra i momenti di violenza. Questo modello si mostra in sé perverso, in quanto conduce inevitabilmente a ignorare il problema della violenza e a considerarlo un’eccezione, un momento di aberrazione del rapporto che rimane, nella percezione complessiva della donna, come positivo.

Per mantenere il sopravvento il carnefice manipola il comportamento della vittima e limita la sua libertà di scelta al fine di perpetuare lo squilibrio di potere. Qualsiasi minaccia all’equilibrio può essere controllata con un ciclo crescente di punizioni che vanno da intimidazioni a esplosioni vere e proprie di violenza. Il carnefice inoltre isola la vittima da altre fonti di sostegno, cosa che riduce la probabilità di individuazione dei comportamenti abusanti e la capacità di intervento su di essi; altera la capacità della vittima di ricevere un punto di vista diverso da quello dell’abusante rafforzando così il senso di dipendenza unilaterale (Dutton & Painter, 2009).

Gli effetti traumatici di tali relazioni violente possono includere la compromissione della capacità della vittima di una corretta autovalutazione delle risorse personali, portando a un senso di inadeguatezza e a una percezione di dipendenza dalla persona dominante.

Le vittime possono anche incontrare una serie di spiacevoli conseguenze sociali e legali nel rapporto con qualcuno che commette atti aggressivi, anche se esse stesse sono le destinatarie delle aggressioni. Molte spiegazioni teoriche come ad esempio alcune teorie psicodinamiche (Horowitz & Mardi, 2001) chiamano in gioco il concetto di masochismo (Millon, 2004), di coazione a ripetere (Freud,2006), per spiegare come determinate vittime colludano con gli atti di vittimizzazione, mostrando una propensione verso i rapporti abusivi e i legami traumatici. Alla base di queste teorie vi è la teoria dell’attaccamento insicuro (Bowlby, 2000) che si è determinato nella storia infantile e nelle relazioni con le figure parentali. Questo legame traumatico si configura come una sorta di «elastico, che nel tempo si estende lontano da chi abusa e, successivamente, torna indietro» (Magaraggia & Cherubini, 2013). Non appena l’effetto della reazione immediata del trauma si abbassa, la forza del legame traumatico si rivela attraverso sia l’incremento della focalizzazione degli aspetti positivi della relazione, sia in un successivo e improvviso cambiamento del punto di vista della donna sulla relazione: si altera infatti la memoria sugli abusi passati e la previsione del ripetersi degli abusi nel futuro.

Nella storia del legame traumatico troviamo un altro fattore essenziale alla sua formazione: la gradualità, ovvero l’incremento graduale degli eventi abusivi (Magaraggia & Cherubini, 2013). Questo incremento è simile «ad un lento veleno la cui portata lesiva non può essere percepita nell’immediatezza dei fatti. Esso coopera con una forma di adattamento, compatibile con la permanenza del rapporto più che con la fuga dal rapporto» (Millon,2004). Così nella storia di questo rapporto troviamo che, soprattutto all’inizio della relazione, gli eventi d’abuso non sono percepiti come un’anomalia e ad essi non viene attribuito inizialmente il carattere di gravità. Inoltre, gli atteggiamenti di contrizione da parte dell’uomo successivamente agli incidenti violenti operano al fine di rafforzare l’attaccamento affettivo in un momento in cui non vi è cognizione che l’abuso si ripeterà, si aggraverà e diventerà ineludibile. Il ripetersi di episodi di maggiore gravità tenderà poi a formare la convinzione nella donna che la violenza si ripresenterà a meno che non faccia qualcosa per prevenirla.

Il Profilo del Femminicida

Relativamente alle strutture di personalità dell’ uomo abusante e dell’ uomo che commette femminicidio molti criminologi (Dutton,1981) hanno sottolineato la presenza, in questo tipo di delitto, di criminogenesi e di strutture personologiche improntate a fattori quali la prepotenza, la possessività, la protervia magari compensatoria, forse dettata da panico di fronte alla prospettiva dell’abbandono, ma in ogni caso fondata sulla mancata considerazione dell’altro con i suoi diritti e le sue esigenze.

Elbow (Elbow, 1977) descrive l’aggressore domestico secondo quattro tipologie:

  • Il controllatore: colui che teme che il proprio dominio e la propria autorità siano messi in discussione e che pretende un controllo totale sugli altri familiari;
  • Il difensore: che non concepisce l’altrui autonomia, vissuta perciò come una minaccia di abbandono, e sceglie quindi donne in condizione di dipendenza;
  • Colui che è in cerca di approvazione e deve continuamente ricevere dall’esterno una conferma per la propria autostima, mentre qualsiasi critica scatena una reazione aggressiva;
  • L’incorporatore: colui che tende ad un rapporto totalizzante e fusionale con la partner, e la cui violenza è proporzionale alla minaccia reale o alla sensazione di perdita dell’oggetto d’amore vissuta come catastrofica perdita di sé.

Questi soggetti devono compensare la propria modesta autostima, ma talora dimostrano veri e propri sintomi psicopatologici. Si tratta di dinamiche in cui il rapporto si gioca sul duplice piano della fusionalità e della relazione dominante/dominato. Il soggetto è coinvolto in un rapporto che ha assunto per lui significato totalizzante: l’altro è così importante o “invadente” da essere ormai parte della vita e dell’identità stessa dell’attore. Altri autori ancora (Killmartin,1977) ravvisano fra i mariti violenti soggetti con disturbi di personalità, individui cioè con una preciso quadro diagnostico psichiatrico, per alcuni dei quali la violenza in famiglia non è che uno degli aspetti di un più generale pattern violento, mentre per altri il comportamento abusante di “controllo e potere” si esplicita solo entro le mura domestiche.

Nel caso del disturbo di personalità si corre però il rischio della tautologia; i disturbi di personalità, infatti, si caratterizzano almeno in parte proprio perché chi ne è affetto si discosta dalla “norma” comportamentale e statistica, piuttosto che dalla “normalità” medica; si puo’ correre il rischio di effettuare una diagnosi di disturbo di personalità in presenza di delitti gravi.

Il DSM-5 fornisce la seguente definizione dei disturbi di personalità “La caratteristica essenziale di un Disturbo di Personalità è un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo […]. La valutazione del funzionamento della personalità deve prendere in considerazione l’ambiente etnico, culturale e sociale dell’individuo” (DSM-5, 2014).

Isabella Betsos (Betsos, 2009) distingue alcune tipologie di uomo abusante:

  • I narcisisti, che hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro. Questi soggetti si nutrono dello sguardo altrui, e più che di amore necessitano di ammirazione e di attenzione continua. Nella coppia, sono dominatori e attraenti, e cercano di sottomettere e isolare la compagna. Il narcisista cerca la fusione e ha bisogno di fagocitare l’altro.
  • I soggetti con “disturbo antisociale di personalità”, in passato denominati psicopatici e sociopatici. Essi soffrono di un disturbo di personalità caratterizzato principalmente da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, la messa in atto di azioni eteroaggressive; le persone con questo disturbo, infatti, non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, come ad esempio distruggere proprietà, truffare, rubare, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi, quali il mentire, il simulare, l’usare false identità, traendone profitto o piacere personale. Elemento distintivo del disturbo è, inoltre, lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni, per cui i soggetti con disturbo antisociale di personalità, dopo aver danneggiato qualcuno, possono restare emotivamente indifferenti o fornire spiegazioni superficiali dell’accaduto. Altre caratteristiche rilevanti del disturbo antisociale sono l’impulsività e l’aggressività. La prevalenza del disturbo antisociale di personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e l’1% nelle femmine.
  • Gli individui che presentano un “disturbo borderline di personalità” (DBP): tale quadro psicopatologico è caratterizzato da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Gli individui con disturbo borderline della personalità possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. I soggetti con disturbo borderline presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione: possono, ad esempio, dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”. I rapporti iniziano generalmente con l’idea che l’altro, il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono. Ma è sufficiente un errore, una critica o una disattenzione, che l’altro venga catalogato repentinamente nel modo opposto: minaccioso, ingannevole, disonesto, malevolo. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
  • I perversi narcisisti, allo stesso tempo più controllati e controllori, ma il controllo non è esercitato attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna. “Nei perversi è l’invidia a guidare la scelta del partner. Si nutrono dell’energia di quelli che subiscono il loro fascino. E’ per questo che scelgono le loro vittime tra le persone piene di vita, come se cercassero di accaparrarsi un po’ della loro forza. Oppure possono scegliere la loro preda in funzione dei vantaggi materiali che può procurare.” (Hirigoyen, M. 2006).
  • Le personalità paranoiche, coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale, e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici secondo i quali la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Costantemente sospettosi e diffidenti, temono complotti ai loro danni anche da parte del coniuge, e la loro gelosia talora sfocia nella patologia vera e propria. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa. Se minacciati di abbandono o abbandonati, nella migliore delle ipotesi metteranno in atto comportamenti di stalking senza però giungere all’uxoricidio.

Costanzo (Costanzo, 2003) individua nella gelosia il movente dell’ uxoricidio e del femminicidio, distingue una “gelosia di tipo competitivo” di quei soggetti che soffrono per aver perduto l’oggetto d’amore ma insieme sentono la perdita come una diminuzione della propria autostima, per i quali l’amore si fonda sulla dipendenza, e che sono incapaci di amore autentico perché tesi al soddisfacimento dei propri bisogni narcisistici, da un secondo tipo di uxoricidi per «gelosia di tipo proiettivo», i quali riversano sul coniuge i propri desideri non riconosciuti di infedeltà. Una terza forma di gelosia, segnata da una patologia vera e propria, è quella del coniuge gravato da delirio di gelosia, spesso accompagnata da cronico alcolismo (Costanzo, 2003).

Tra i fenomeni psicopatologici dell’etilismo cronico sono tipici i deliri di gelosia, cioè convincimenti erronei sull’infedeltà del partner, facilitati anche dalla diminuita efficienza sessuale: tale delirio risulta anche favorito dall’atteggiamento di rifiuto che generalmente si manifesta in famiglia nei confronti dell’etilista sia da parte del coniuge e dagli altri membri della famiglia (Ponti & Betsos, 2014).

Una possibile spinta motivazionale ai delitti contro la partner e al femminicidio potrebbe essere ricercata quindi nell’insicurezza sessuale: si tratta di delitti d’impeto che non riuscendo a sostenere un rapporto sessuale, uccidono la partner femminile e nel contempo distruggono quel simulacro angoscioso che rappresenta, per loro, il fallimento (Ponti & Betsos, 2014).

L’abuso di alcol è citato come fattore criminogenetico in generale e in particolare correlato alla violenza di coppia (Ponti & Betsos, 2014): il bere porta a sovrastimare l’ostilità e le minacce altrui, e questo a sua volta favorisce condotte aggressive. L’attribuzione di episodi violenti a stati di ebbrezza appare una tecnica di neutralizzazione, e anche il consumo di alcol non è che un sintomo, come la violenza, non un fattore casuale.

Combinando le dimensioni delle caratteristiche di personalità, della gravità delle violenze, Monroe e Stuart (Monroe & Stuart, 2004) descrivono:

  • un aggressore dominante-narcisista: per il quale la violenza è al servizio del controllo sulla partner al fine di affermare la propria fragile autostima;
  • il geloso-dipendente: che utilizza la violenza sempre in funzione del controllo, ma soprattutto nel timore dell’abbandono da parte della compagna;
  • gli aggressori antisociali: caratterizzati in realtà da diversi livelli di gravità, ma accomunati dalla caratteristica di praticare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, come pattern generale di violazione dei diritti altrui.

Distinzione non molto dissimile, proposta da Dixon e Browne (Baldry & Roia, 2003), è quella tra i violenti solo in famiglia, che risultano essere i meno gravati da disturbi psicopatologici; i disforici-borderline, segnati da sintomi patologici e in particolare da ansia, depressione, estrema labilità emotiva; e i generalmente disforici-antisociali che si configurano come i più violenti di tutti, caratterizzati da precedenti penali e abuso di sostanze ed eredi di quadri familiari violenti. Mentre per i primi la violenza è soprattutto di tipo espressivo, scaturisce cioè da emotività non controllata, per i disforici-borderline e i violenti-antisociali si tratta di violenza “strumentale”, dettata da specifiche finalità e premeditata.

Dixon e Browne sostengono che circa il 25% dei maltrattanti è costituito di violenti solo in famiglia, ma anche il 25% è costituito da violenti/antisociali, e alla terza categoria, i borderline/disforici, apparterrebbe il restante 25%. Questi tipi si differenzierebbero anche rispetto ad altri fattori, alcuni dei quali culturali, come il livello di violenza subita o a cui si è assistito durante l’infanzia, l’impulsività, la presenza o l’assenza di atteggiamenti che supportano o giustificano la violenza.

Statistiche italiane sul femminicidio

Per lo specifico quadro italiano, l’Istat informa (www.istat.it) che il partner violento è un soggetto fisicamente violento anche al di fuori della famiglia (35,6%), verbalmente violento anche al di là delle mura domestiche (25,7%). Inoltre nel 2006 il 74% degli autori di violenza era in partner o l’ex-partner della vittima, nel 2007 il 58% degli autori sono in partner o l’ex partner, nel 2008 il 54%, mentre nel 2009 il 63%, nel 2010 il 54% fino ad arrivare al dato rilevato lo scorso anno: il 65% degli autori è ora legato alla vittima da un rapporto sentimentale.

La correlazione tra l’uso degli smartphone e la felicità tra gli adolescenti

Uno studio californiano, condotto presso la San Diego State University, dal professore e psicologo Jean Twenge e dai suoi colleghi, ha indagato il collegamento tra il benessere degli adolescenti americani ed il tempo che passano sullo smartphone.

 

Gli adolescenti che usano di più gli smartphone sono meno felici

Twenge è autore del libro “iGen: perché oggi i ragazzi Super-connessi crescono meno felici e completamente impreparati per l’età adulta” (2017), un manuale sull’argomento social, adolescenza e infelicità.

L’autore ha iniziato questo tipo di studi rafforzato dalla letteratura che – per quanto cita l’autore- mostra un calo dell’autostima e della felicità dei giovani dopo il 2012, anno in cui la percentuale di americani che possedevano uno smartphone è salito oltre il 50%. Infatti, in seguito a questa diffusione massiva degli smartphone è stato registrato un declino delle attività sociali dirette ed un calo della qualità del sonno.

I ricercatori si sono serviti dei dati emersi da uno studio nazionale (americano) longitudinale (Monitoring the Future, MtF) (Johnston et al., 2016), in cui venivano indagati i seguenti aspetti: utilizzo di smartphone, tablet e computer, utilizzo di droghe e alcool e diversi altri aspetti. Partendo da questi dati Twenge e colleghi si sono basati su topic quali il tempo trascorso al cellulare, tablet e computer, il livello di felicità dei ragazzi e le loro interazioni sociali senza mediazione di social e smartphone.

È emerso che gli adolescenti americani più dediti all’utilizzo dello smartphone (giocando ai videogame e facendo uso dei social media) erano più infelici di quegli altri adolescenti che investivano il loro tempo in attività che non coinvolgevano l’utilizzo di cellulari, quali sport, lettura di riviste e interazioni sociali faccia a faccia, uscendo a giocare/chiacchierare con gli amici. I ricercatori credono che sia il tempo dedicato all’utilizzo degli smartphone a fare la differenza: gli adolescenti che hanno riportato maggiori livelli di benessere e felicità hanno dichiarato di utilizzare i digital media per meno di un’ora al giorno.

Non è l’astinenza da smartphone a determinare la felicità, ma indubbiamente l’infelicità aumenta costantemente all’aumentare del tempo passato davanti allo schermo.

In conclusione, citiamo le parole dell’autore: “Punta a non spendere più di due ore al giorno sui media digitali e cerca di aumentare la quantità di tempo che trascorri vedendo gli amici faccia a faccia e facendo esercizio fisico – due attività collegate in modo affidabile a una maggiore felicità“.

Le nuove frontiere della ricerca sulla Malattia di Huntington

Una nuova ricerca della Rockefeller University, mostra che le anomalie neurali della Malattia di Huntington, diagnosticata tipicamente verso i 40 anni, sono evidenti già in fase embrionale. La scoperta appare di estrema importanza in quanto potrebbe fornire nuove evidenze riguardo questa malattia fatale che interferisce con la normale funzionalità neurale.

 

La malattia di Huntington potrebbe avere origine nelle prime fasi dello sviluppo

La maggior parte delle persone affette dalla Malattia di Huntington mostrano i primi sintomi in età adulta: il campanello d’allarme è rappresentato da movimenti a scatti seguito, con l’avanzare della malattia, dalla comparsa della demenza sintomo tipico presente in questi pazienti.

La nuova ricerca suggerisce che questi sintomi potrebbero essere una manifestazione tardiva della malattia, che avrebbe origine precocemente addirittura nelle prime fasi dello sviluppo embrionale. Il team di ricercatori, ricreando cellule staminali embrionali umane, ha potuto osservare anomalie precoci a livello dei neuroni coinvolti nella malattia di Huntington; nell’articolo pubblicato su Development è stato descritto il modo in cui queste cellule formano grandi strutture anomale che non erano mai state osservate né associate precedentemente alla malattia.

La nostra ricerca suggerisce che l’incipit della malattia di Huntington si verifichi subito dopo la fecondazione. Questo comporta, ovviamente, delle conseguenze durante l’arco di vita in quanto la malattia si verifica decenni dopo la nascita, quando i sintomi si manifestano” ha detto Brivanlou, uno degli autori dello studio. La Còrea di Huntington è una delle poche malattie che presenta una causa genetica ben precisa: il 100% delle persone che presentano la mutazione del gene Huntington (HTT) svilupperà poi la malattia. La mutazione, che avviene a livello del DNA, fa sì che il gene responsabile produca una proteina più lunga del normale con sequenze ripetitive anomale. La ricerca sulla Malattia di Huntington ha finora utilizzato la sperimentazione animale, tuttavia gli scienziati non sono in grado di spiegare la funzione che il gene HTT svolge normalmente né tanto meno come la sua mutazione infici il funzionamento cerebrale.

Sospettando che la malattia si presenti in modo diverso negli esseri umani, i cui cervelli sono molto più complessi degli animali, i ricercatori hanno posto l’attenzione sulle cellule. Utilizzando la CRISP (una tecnica di modificazione del DNA cellulare) gli scienziati sono stati in grado di creare una serie di cellule staminali embrionali identiche a quelle originali tranne che per il numero di ripetizioni presenti alle estremità dei geni HTT, responsabili della malattia. Il team ha scoperto che, mentre nel processo di divisione cellulare in genere ciascuna cellula conserva un solo nucleo, in alcune delle cellule mutate erano presenti fino a 12 nuclei. Questo ingigantimento influenzava la neurogenesi, ovvero la generazione di nuovi neuroni: più la mutazione cellulare presentava ripetizioni, più si osservavano neuroni multinucleati.

La necessità di trattamenti differenti nella malattia di Huntington

I trattamenti oggi impiegati per la cura della malattia di Huntington si focalizzano principalmente sul blocco dell’attività della proteina mutata HTT supponendo che la iper-attivazione di tale proteina provochi la morte cellulare; il lavoro del team newyorkese però volge verso una via opposta avanzando l’idea secondo la quale la causa sarebbe la mancanza di attività della proteina in questione. Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno creato linee cellulari in cui la HTT era completamente assente: queste cellule sono risultate essere molto simili a quelle coinvolte nella Còrea di Huntington confermando l’idea che sia la mancanza della proteina e non un eccesso di essa, a causare la malattia.

Alla luce di ciò, i risultati appaiono alquanto significativi in quanto evidenziano l’inefficienza e la dannosità dei trattamenti esistenti e la possibilità di svilupparne di nuovi. Le evidenze trovate possono essere un’utile risorsa per studiare ulteriormente le dinamiche cellulari e molecolari coinvolte non solo nella Malattia di Huntington ma anche nelle altre malattie neurodegenerative umane. Brivanlou ha concluso “Il nostro lavoro ipotizza un aspetto evolutivo della patologia mai considerato prima d’ora: la Còrea di Huntington potrebbe essere non solo una malattia neurodegenerativa ma anche una malattia del neurosviluppo”.

Quantum mind: un libro sulla fisica quantistica e le scoperte nella psicologia moderna

Quantum mind è un libro con un intento ardito; quello che si prefigge di fare l’ autore non è un compito facile ma nel complesso ci riesce molto bene. Il titolo, molto evocativo, rimanda immediatamente al tema che in questo lungo trattato (più di 500 pagine), viene affrontato e cioè una complessa disquisizione sulle implicazioni della fisica quantistica e le sue recenti scoperte nella psicologia moderna.

 

I temi della fisica quantistica e della spiritualità in Quantum mind

L’ autore Arnold Mindell ha conseguito un Master in Fisica al Massachussets Institute of Technology (MIT) di Cambridge e ha insegnato fisica nei corsi di “processwork” a Portland, Londra e Zurigo; inoltre nutre un profondo interesse per la psicologia e per lo sciamanesimo. E’ grazie alle esperienze fatte con le pratiche sciamaniche in diverse parti del mondo che giunge alle riflessioni esposte in Quantum mind.

Tutto il libro è un viaggio attraverso concetti molto complessi soprattutto per chi non è del campo inerenti la fisica quantistica, la matematica quantistica, lo sciamanesimo, la psicologia e la spiritualità. Il lettore che non ha esperienza di questi temi potrebbe sentirsi spaventato, ma qui risiede il bello di questo testo, tutti gli argomenti sono trattati in una maniera estremamente semplice, ricca di esempi che aiutano la comprensione, di esercizi che aiutano a fare piccole esperienze per poter saggiare le argomentazioni esposte. Nel libro vi è spazio anche per il lettore più curioso che necessita di approfondimenti tecnici su concetti matematici e fisici con molti rimandi nelle note ad argomenti più specifici.

Fisica, matematica e psicologia

Il Focus di Quantum Mind si concentra essenzialmente sul dimostrare come la fisica e la matematica che sembrano poter spiegare ogni fenomeno, in realtà sono in grado di descrivere solo una piccola parte della realtà, queste due discipline per poter trascendere il limiti della realtà materiale e spiegare fenomeni altrimenti incomprensibili necessitano della psicologia.

Al termine psicologia nel testo viene dato un senso molto lato indicando i peculiari aspetti dell’ esperienza umana costituita da emozioni, percezione, spiritualità, simbolismo etc.. A detta dell’ autore solo restituendo valore a quest’ultima e operando una congiunzione tra le due discipline possiamo comprendere fenomeni complessi appartenenti alla fisica quantistica e a esperienze spirituali profonde. Questa dualità non è mai esistita nella cultura dello sciamanesimo che dai suoi albori non ha mai operato una distinzione tra mondo materiale e spirituale e che quindi detiene comprensioni profonde che oggi la fisica dei quanti ci restituisce in termini scientifici.

Come si intuisce, il tema è ampio e complesso ma estremamente affascinante poiché in linea con un pensiero psicologico che sempre più si fa largo nella letteratura scientifica attuale. Rimando al fortunato lettore di questo testo l’ approfondimento sul tema. Mi limito a precisare ulteriormente che questo è un testo che affronta argomenti complessi, attraverso speculazioni scientifiche intente a operare una visione unificata dell’essere umano, utilizzando teoremi, formule e numeri.

Quantum Mind può essere un ottimo primo approccio al mondo della fisica quantistica e all’utilizzo di questa per approfondire la scienza dell’ essere umano.

L’universalità della musica e delle sue funzioni

Ogni cultura ama la musica e il canto e la musica assolve molti scopi diversi: accompagnare una danza, consolare un bambino o esprimere amore. Lo dimostra un nuovo studio sperimentale che supporta l’ipotesi di una universalità del linguaggio musicale come veicolo di emozioni.

 

L’universalità della musica

La musica è un linguaggio universale. Lo si sente ripetere spesso, perché i successi musicali travalicano le frontiere spesso senza bisogno di tradurre il testo e soprattutto perché in molte occasioni capita di verificare che le emozioni suscitate da un brano non dipendono dalla cultura in cui è stato prodotto.

L’affermazione è stata verificata in modo più preciso da un nuovo studio sperimentale pubblicato su “Current Biology” da Samuel Mehr della Harvard University e colleghi. I risultati della ricerca infatti dimostrano che esistono alcune strutture musicali intrinsecamente correlate alle emozioni che possono essere percepite da persone di culture molto diverse tra loro dopo aver ascoltato soltanto un brano molto breve.

Nell’esperimento, gli autori hanno chiesto a 750 utenti di Internet di 60 paesi di ascoltare brevi brani musicali, ciascuno della durata di 14 secondi. I brani sono stati selezionati in modo pseudo casuale e provenivano da un’ampia gamma di aree geografiche, in modo da rappresentare una vasta gamma di culture umane. Dopo l’ascolto di ogni brano, i partecipanti hanno risposto a sei domande su come percepivano la funzione di ciascun brano musicale secondo una scala di sei punti. In particolare, dovevano valutare se i brani fossero adatti per ballare, tranquillizzare un bebè, guarire una ferita, esprimere amore, esprimere un sentimento di lutto o raccontare una storia. In totale, i partecipanti hanno ascoltato più di 26.000 brani e fornito oltre 150.000 voti. I dati hanno dimostrato che, in media, l’idea dei partecipanti sulle canzoni corrispondeva alla sua funzione originale, anche se i soggetti non erano familiari e non conoscevano il brano precedentemente. Ciò dimostrerebbe secondo i ricercatori che esistono strutture musicali, che indipendentemente dalla cultura di riferimento vengono percepite e interpretate in modo universale in riferimento a una loro possibile funzione.

Un dato curioso è la relazione emersa tra ninne nanne e musica da ballo. “Non solo i partecipanti sono riusciti a identificare le canzoni adatte per queste funzioni meglio delle altre, ma le loro caratteristiche musicali sembrano opposte per molti aspetti”, ha spiegato Mehr. “Le canzoni ballabili generalmente avevano un ritmo più rapido, erano più complesse dal punto di vista ritmico e melodico ed erano percepite come più gioiose e più eccitanti, mentre le ninne nanne erano percepite come più tristi e meno eccitanti”.

Lo stress cronico in gravidanza porterebbe allo sviluppo della depressione post partum

Un recente studio cercato di stabilire un’associazione tra la depressione post partum e lo stress in gravidanza, ma a differenza di altri studi oltre alle variabili sociodemografiche, ostetriche e psicologiche ha indagato una variabile biologica dello stress: i livelli di cortisolo accumulati nel capello durante i tre trimestri della gravidanza.

 

La depressione post partum ha conseguenze importanti, in particolare sulla relazione mamma-bambino. Per questo motivo è fondamentale un intervento tempestivo ai primi segnali. A maggior ragione acquista grande importanza la prevenzione, con sempre più attenzione al periodo della gravidanza. Infatti, recenti studi hanno dimostrato che la depressione post partum può fare la sua comparsa già dal periodo della gestazione, come indicato anche dalle ultime modifiche del manuale diagnostico per i disturbi mentali (DSM V) dove tra i sottotipi del disturbo depressivo dell’umore rientra anche il disturbo depressivo a esordio nel peripartum, sostituendo la precedente dicitura di post partum.

Depressione post partum e stress in gravidanza

La depressione post partum colpisce circa il 10-15% delle mamme e sono numerose le ricerche che si sono occupate di individuare l’associazione tra questo disturbo e alcuni fattori di rischio, come precedenti disturbi psichiatrici, precedenti aborti, ansia e stress in gravidanza, e lo sviluppo dei sintomi della depressione post partum.

Un recente studio svolto dall’Università di Granada in Spagna, coordinato dalla professoressa Maria Isabel Peralta-Ramirez, ha però fatto un passo in più. Ha infatti cercato di stabilire un’associazione tra la depressione post partum e lo stress in gravidanza, ma a differenza di altri studi oltre alle variabili sociodemografiche, ostetriche e psicologiche ha indagato una variabile biologica dello stress: i livelli di cortisolo accumulati nel capello durante i tre trimestri della gravidanza.

I soggetti reclutati per lo studio sono state future mamme che hanno volontariamente partecipato allo studio, provenienti da tre centri sanitari e da un ospedale generale, mentre svolgevano le visite prenatali di routine. In totale il campione ha incluso 44 donne in gravidanza, seguite longitudinalmente durante i tre diversi trimestri e nel post partum. Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: un gruppo con sintomi di depressione post partum, con un punteggio pari o superiore a 10 all’EPDS (Edinburgh Postnatal Depression Scale), e un gruppo senza sintomi depressivi. Sono state escluse dallo studio donne con patologie prima o durante la gravidanza e gravidanze con malattia di Cushing, asma, farmaci steroidei, diabete o condizioni che potessero influenzare il livello di cortisolo.

Le variabili indagate dallo studio sono state:

  • dati socio demografici;
  • misure biologiche;
  • stress materno percepito;
  • sintomi psicopatologici;
  • stress specifico per la gravidanza;
  • depressione post partum.

La misurazione delle misure biologiche mirava a individuare l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, attraverso i livelli di cortisolo dei capelli. I segmenti di capelli prelevati sono stati di circa 3 cm: considerando un tasso di crescita medio di 1 cm al mese, 3 cm indicavano il tasso di cortisolo depositato nei tre mesi precedenti.

Lo stress psicologico delle mamme è stato rilevato tramite il Perceived Stress Scale (PSS), che indaga lo stress percepito nel mese precedente. È stato inoltre utilizzato il Prenatal Distress Questionnaire (PDQ) per indagare lo stress specifico per il periodo della gravidanza, rispetto a problemi medici, sintomi fisici, cambiamenti corporei, travaglio, parto, le relazioni e la salute del bambino.

I sintomi psicopatologici invece sono stati indagati attraverso la scala SCL-90-R. Lo strumento valuta 9 dimensioni: somatizzazione, ossessione compulsione, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ostilità, ansia fobica, ideazione paranoide e psicoticismo. L’EPDS è stato utilizzato per la valutazione dei sintomi della depressione post partum.

Le batterie di test self-report sono state somministrate alle donne nel primo, secondo e terzo trimestre e nel post partum, durante gli incontri di routine nei quali le donne hanno incontrato medici e ostetriche.

Cosa è emerso dallo studio

Come ci si poteva aspettare, il gruppo di donne con i sintomi della depressione post partum ha riportato punteggi maggiori all’EPDS (M= 13,50) rispetto al gruppo senza sintomi di depressione post partum (M= 4,75). È emersa un’associazione tra i sintomi della depressione post partum e lo stress in gravidanza. In particolare, sebbene i livelli di stress specifico per la gravidanza fossero più alti tra le donne con depressione post partum in tutti e tre i trimestri, solo nell’ultimo trimestre sono emerse differenze significative tra i due gruppi.

Rispetto ai sintomi psicopatologici, il gruppo di donne con depressione postnatale ha mostrato punteggi superiori in tutte le sottoscale dell’SCL-90-R durante i tre trimestri di gravidanza. Nello specifico queste mamme avevano punteggi clinici (superiori a 70) nelle sottoscale di somatizzazione, ansia fobica e psicoticismo nel primo trimestre; ansia fobica durante il secondo e terzo trimestre; somatizzazione, ossessione compulsione, ideazione paranoide e psicoticismo nel terzo trimestre. Tra i due gruppi di mamme invece le differenze significative sono emerse in particolare durante il primo trimestre per la sottoscala somatizzazione e durante il secondo trimestre per le sottoscale di somatizzazione, depressione e ansia (Tab.1).

Stress in gravidanza associato allo sviluppo di depressione post partum - Psicologia - Tab1

Tab. 1: differenze medie dello stress e dei sintomi psicopatologici con gli effetti di interazione tra gruppi e trimestri

 

Il risultato più interessante però è stata l’associazione tra i livelli di cortisolo dei capelli e i sintomi della depressione post partum. È emerso infatti che il gruppo di mamme con i sintomi della depressione postnatale aveva livelli più alti di cortisolo dei capelli durante tutti e tre i trimestri. Le analisi hanno inoltre permesso di vedere come i livelli di cortisolo nei capelli potevano prevedere il 21,7% della varianza dei sintomi depressivi nel post partum, nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza.

Considerazioni cliniche

Lo scopo dello studio era quello di individuare le variabili sociodemografiche, ostetriche, psicologiche e ormonali per prevedere i sintomi della depressione post partum. Mettendo a confronto un gruppo di mamme con sintomi di depressione post partum e un gruppo di mamme senza sintomi sono state individuate differenze significative, interessanti dal punto di vista clinico. Nello specifico le mamme che hanno manifestato sintomi di depressione post partum hanno anche riportato valori più alti di stress in gravidanza, stress percepito, sintomi psicopatologici e livelli di cortisolo durante i tre trimestri di gravidanza.

Le discrepanze tra i due gruppi rispetto alle variabili psicopatologiche hanno evidenziato che durante il primo trimestre sono emerse significative differenze rispetto alla sottoscala somatizzazione della SCL-90-R. Nel secondo trimestre le differenze hanno coinvolto le sottoscale di somatizzazione, ossessione compulsione, depressione e ansia. Per questi motivi sono emerse correlazioni anche tra le sottoscale di ansia e somatizzazione della SCL-90-R nei primi due trimestri di gravidanza con l’EPDS. Questi risultati sono andati a confermare altri studi della letteratura che hanno individuato la correlazione tra sintomi psicopatologici della SCL-90-R e la depressione post partum.

Lo studio ha individuato differenze sostanziali tra i due gruppi durante il secondo trimestre di gestazione anche rispetto allo stress specifico della gravidanza. Entrambe le misure dello stress (PDQ e PSS) sono state utilizzate nella valutazione dei livelli di stress durante la gravidanza, ma tra le due misure il PDQ è quello che è risultato più significativo, ma è anche quello che offre l’opportunità di valutare preoccupazioni legate alla gravidanza. Può essere quindi considerato un valore di stress più specifico per questo periodo di cambiamento per la donne e un migliore predittore di eventuali esiti negativi nel post partum.

Le misure biochimiche, cioè i livelli di cortisolo dei capelli, rappresentano invece i livelli di stress cronico, perché indagavano lo stress accumulato nei tre mesi precedenti, rilevati a cadenza trimestrale per tutta la gravidanza. I risultati dello studio mostrano come i livelli di cortisolo nel gruppo con sintomi di depressione post partum sono scesi dal primo al secondo trimestre ma sono saliti dal secondo al terzo trimestre, creando una forma a U se tracciati su un grafico, a differenza del del gruppo senza sintomi depressivi in cui la crescita di cortisolo è stata costante (Tab. 2).

Stress in gravidanza associato allo sviluppo di depressione post partum - Psicologia - tab. 2

Tab. 2: differenze dei  livelli di cortisolo dei capelli tra donne con depressione post partum e donne senza depressione post partum

 

Questo è stato il primo studio a riportare i livelli di cortisolo nei capelli durante tutta la gravidanza in un gruppo di donne con sintomi di depressione post partum, comparandoli a quelli ottenuti da un gruppo di donne senza sintomi ed è la novità che potrebbe far nascere nuove ricerche per utilizzare misure biologiche in ottica preventiva.

Quello che è emerso è che i livelli di cortisolo dei capelli erano più alti in tutti i trimestri nel gruppo con sintomi di depressione postpartum rispetto al gruppo senza sintomi ed erano significativamente differenti nel primo e nel terzo trimestre. Inoltre alti livelli di stress cronico in gravidanza nel primo e nell’ultimo trimestre sono risultati correlati alla depressione post partum e possono così essere utilizzati come indici predittivi della psicopatologia postnatale.

Conclusioni

In sintesi lo studio ha rilevato che alti livelli di stress in gravidanza sono associati ai sintomi della depressione postpartum. Nello specifico ha rilevato che la depressione post partum è correlata a:

  • sintomi psicopatologici nel primo e nel secondo trimestre di gravidanza;
  • elevato stress specifico della gravidanza nel secondo trimestre di gravidanza;
  • alti livelli di cortisolo (stress cronico) nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza.

Poiché i livelli di cortisolo dei capelli utilizzati dallo studio riflettono i livelli di stress nei tre mesi precedenti il prelievo del campione, si può affermare che il periodo di preconcezione e il secondo trimestre di gravidanza sono periodi particolarmente sensibili rispetto allo sviluppo dei sintomi della depressione postpartum, confermando quanto riportato da precedenti studi.

A questo proposito sembrerebbe opportuno svolgere interventi di screening efficaci rispetto allo stress in gravidanza per ridurre al minimo esiti psicopatologici avversi nel post partum.

Unendo i risultati del presente studio a quelli della recente letteratura, si evince che non solo già dalla gravidanza possano emergere segnali importanti associati alla depressione post partum, ma che le future madri possono sviluppare in gravidanza oltre alla depressione anche sintomi ansiosi e con maggior frequenza rispetto a quelli depressivi. Valutare la salute psicologica già nel periodo perinatale permetterebbe quindi agli operatori sanitari di prendere decisioni adeguate di intervento e fornire un prezioso aiuto nel sostegno della maternità.

Buprenorfina: dalla terapia del dolore al trattamento della dipendenza da oppiacei – Introduzione alla Psicologia

La buprenorfina è un farmaco semisintetico appartenente alla classe degli analgesici oppioidi. Si tratta di un derivato dalla tebaina, alcaloide derivato dal papavero da oppio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La buprenorfina utilizza i recettori oppioidi e agisce sulle vie del dolore inducendo analgesia e altri effetti sul sistema nervoso centrale simili a quelli prodotti della morfina. Essa è utilizzata come terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei durante un percorso di un trattamento medico e psicologico

Storia del farmaco

Fu sviluppata alla fine degli anni Settanta nel tentativo di individuare un analgesico che non producesse assuefazione.

Nel 1978 fu brevettata e introdotta in Gran Bretagna con il nome commerciale di Temgesic. Negli anni ’80 ci furono i primi episodi in cui si denunciava l’assunzione di buprenorfina per via endovenosa e il suo abuso da parte di persone dipendenti da eroina.

Negli anni ’90 fu sviluppato il Subutex, brevettato per la prima volta in Francia per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Successivamente, nel 1999, la buprenorfina fu introdotta nel Regno Unito, nel 2000 in Germania e in Australia.

A tutt’oggi è presente in 30 paesi, e il Subutex è utilizzato in 17 paesi europei.

Di cosa si tratta

La buprenorfina deve essere prescritta da un medico del Servizio per le tossicodipendenze, che segue il paziente per il periodo della somministrazione. La buprenorfina è disponibile per la somministrazione orale, come compresse sublinguali, per la somministrazione parenterale, sotto forma di soluzione iniettabile e per la somministrazione topica, attraverso il cerotto transdermico.

Solitamente, si predilige la somministrazione sublinguale, via più efficace e sicura per la somministrazione di questo farmaco. Infatti, l’assorbimento per via orale è ostacolata dalla metabolizzazione di almeno l’80% della dose somministrata durante il primo passaggio epatico; invece, la via sublinguale ha un assorbimento che raggiunge l’80% con biodisponibilità assoluta del 30-50%. Il metabolismo è principalmente epatico attraverso meccanismi di glucuronazione e dealchilazione.

Trattamento attraverso buprenorfina

L’utilizzo della buprenorfina è indicato per il trattamento del dolore, sia acuto, sia cronico, da moderato a severo e di diversa origine e natura, compreso il dolore causato da patologie neoplastiche. Inoltre, la buprenorfina è utilizzata nei programmi di disassuefazione dagli oppioidi in adulti e adolescenti con più di 15 anni di età.

La dose di farmaco deve essere stabilita dal medico. Di solito, si inizia la terapia con piccole quantità di farmaco che gradualmente saranno aumentate dal medico fino al raggiungimento del dosaggio ottimale.

Effetti della buprenorfina

La buprenorfina è un oppioide avente effetti molto simili alla morfina, compresa sedazione, senso di nausea, depressione respiratoria, ma non comporta l’intensa sensazione di benessere iniziale simile all’eroina, il cosiddetto flash.

Inoltre, alti dosaggi del farmaco inducono cambiamenti duraturi nella dipendenza da varie droghe d’abuso e nella fase iniziale del trattamento sostitutivo sembra essere tollerata meglio del metadone, soprattutto in coloro che sono privi di una forte spinta motivazionale (Davids E, et al. Eur Neuropsychopharmacol 2004). La buprenorfina esercita anche una azione antidepressiva attraverso il blocco della disforia generata dalla stimolazione del recettore kspecifici e per questo è utile nel trattamento dei tossicodipendenti con diverse comorbidità psichiatrica.

Effetti collaterali

La maggior parte degli effetti indesiderati del farmaco sono: stitichezza, mal di testa, senso di affaticamento, insonnia e sonnolenza, nausea, inappetenza. Generalmente la sintomatologia iniziale è maggiormente letargica con sedazione, sonnolenza, cefalea, nausea e vomito, astenia, ansia. Così come accade per altri oppioidi la buprenorfina può essere oggetto di uso improprio o abuso. La dipendenza o astinenza da buprenorfina si manifesta con una sintomatologia dolorosa molto più intensa e persistente rispetto a quella dell’astinenza da eroina.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le implicazioni strutturali e psicopatologiche degli eventi stressanti infantili e recenti nei disturbi dell’umore

Gli eventi traumatici, sia infantili che recenti, rivestono un ruolo particolarmente importante nello studio della psicopatologia e dei disturbi psichiatrici in generale.

Aggio Veronica, Croci Martina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Gli eventi traumatici, sia infantili che recenti, rivestono un ruolo particolarmente importante nello studio della psicopatologia e dei disturbi psichiatrici in generale. Difatti, è noto a tutti come l’aver subito eventi avversi, anche di differente natura (es. neglect, abuso fisico, verbale), ha un notevole impatto sul benessere fisico e psichico. Poiché tali esperienze avverse includono una varietà di eventi, dai traumi più comunemente noti come maltrattamenti e abusi fino alla povertà e a condizioni di neglect psico-fisico, è naturale immaginare come la percentuale di persone che abbia dovuto esperire tali esperienze precocemente sia abbastanza alto. I dati stimano un’incidenza dei traumi sessuali che arriva fino al 34,1% in Italia (Castelli,2015): se includiamo dunque tutte le possibili tipologie di trauma i numeri diventano ancora più alti. Diversi studi hanno riportato come questi eventi avversi, in particolare se esperiti nei primi anni dello sviluppo, quindi durante l’infanzia, si correlino con un aumentato rischio di sviluppo di diverse patologie organiche, cosa meno scontata rispetto all’essere dei fattori predisponenti per problemi psicologici e patologie psichiatriche.

La recente psichiatria riconosce l’esistenza di una vulnerabilità biologica, ovvero l’insieme di fattori genetici ed ereditari, unita ad una vulnerabilità psicologica e sociale, intesa come la presenza di eventi di vita traumatici e l’ambiente circostante, familiare e sociale. Per questa ragione si parla di un modello bio-psico-sociale per quanto riguarda lo sviluppo di aspetti psicopatologici (Fassino et al., 2007).

Trauma psicologico

Tra gli eventi negativi che un soggetto può esperire nella propria vita il trauma occupa un posto prominente. Il trauma è definito come un’esperienza minacciosa per la vita o l’integrità fisica o psichica di un soggetto, vissuta in modo estremamente intenso in ambito emozionale dal soggetto stesso. L’ultima versione del “Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders” (DSM-5) specifica ulteriormente che il trauma è tale quando sussiste l’esposizione a rischio di morte reale, non solo percepito, o parimenti di grave lesione o violenza sessuale. Tale esperienza è considerata traumatica sia quando vissuta in prima persona sia indirettamente, ancor più se l’evento determina un’esposizione ripetuta o intensa (DSM-5, 2014). La caratteristica che si osserva con maggiore frequenza nel soggetto traumatizzato è la percezione dell’evento come una “frattura”, tale per cui il soggetto è in grado di segnalare un “prima” e un “dopo” nella propria vita con molta precisione. Ulteriormente, il soggetto vive l’esperienza traumatica in modo tanto intenso e negativo in ambito emotivo da impedire alla persona che la sperimenta di condurre la propria vita o percepire se stesso nello stesso modo in cui accadeva prima dell’evento (Onofri et al., 2016).

Eventi di vita negativi e psicopatologia

Gli eventi di vita negativi (es. traumi, lutti) sarebbero infatti da considerare fattori aspecifici (Felitti & Anda 2010) che potrebbero incrementare la possibilità di comparsa di qualsiasi malattia, oppure influenzarne sia il decorso che la prognosi, oppure, provocarne ricadute. L’aumento di questa probabilità può valere sia per sia per i disturbi d’ansia, sia per schizofrenia e disturbo bipolare, considerati gravi patologie psichiatriche ritenute conseguenti ad una marcata vulnerabilità biologica.

Tra gli eventi di vita infantili avversi vengono incluse tutte quelle esperienze vissute all’interno del contesto familiare prima della maggiore età tra cui l’abuso sia fisico che psicologico ricorrente, la presenza di una persona dipendente da sostanze stupefacenti o da alcool, la trascuratezza fisica ed emotiva (Felitti, 2013).

Nell’ultimo decennio, numerosi studi hanno portato diverse prove a favore dell’ipotesi che una precoce esposizione a degli eventi di vita stressanti, quali l’abuso sessuale e il neglect, si associ ad un marcato aumento della vulnerabilità per i disturbi psichiatrici tra cui la depressione maggiore, il disturbo bipolare, il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), l’abuso di alcol e sostanze, ed altre patologie organiche in età adulta, quali l’emicrania, l’obesità, patologie cardiovascolari ed il diabete. Gli eventi avversi infantili, rivestono un ruolo particolarmente importante, ed includono: l’abuso fisico e psicologico, il neglect, l’abuso alcolico e di sostanze da parte dei genitori, le violenze in ambito domestico, l’abuso sessuale, la separazione dal genitore e altre forme di perdita genitoriale. Diversi studi hanno dimostrato come l’aver sperimentato questi eventi aumenti il rischio di sviluppare stati depressivi, riducendo l’età di insorgenza, aumentando il tasso e la gravità dei tentativi di suicidio e riducendo il tasso di risposta agli psicofarmaci (Nemeroff, 2016). Gli eventi stressanti sono in grado di influenzare sia la salute psicofisica, quanto l’espressione, in età avanzata, di alcuni geni legati all’infiammazione (Levine, 2015), risultando in implicazioni a livello globale per l’individuo.

Gli effetti degli eventi stressanti a livello cerebrale

Gli eventi stressanti che avvengono precocemente nella vita sono rilevanti per la successiva psicopatologia anche perché vanno ad impattare su strutture cerebrali ancora in fase di sviluppo e maturazione (Calabrese, 2009). In base al momento in cui vengono esperiti, le strutture cerebrali coinvolte possono essere diverse: il fornice, il genu e lo splenio del corpo calloso e il fascicolo longitudinale superiore sono i fasci di sostanza bianca che completano per primi la propria maturazione e sono quelli maggiormente coinvolti negli studi MRI (Lebel, 2012).

A livello cerebrale, studi di risonanza magnetica hanno mostrato una generale riduzione dei volumi di materia grigia ed una ridotta integrità della sostanza bianca nei soggetti sani che avevano esperito degli eventi stressanti durante l’infanzia (Lim, 2014). Studi di MRI su bambini che erano stati cresciuti in orfanotrofio prima di essere adottati, mostrano una ridotta anisotropia frazionaria (FA, i.e., indice di integrità della sostanza bianca) rispetto a dei bambini non precedentemente istituzionalizzati in diversi fasci di sostanza bianca, fra cui il fascicolo uncincato, arcuato e il fascicolo longitudinale superiore bilateralmente (Govidan, 2010). I soggetti che hanno subito delle violenze verbali durante l’infanzia mostrano una ridotta FA a livello del fascicolo arcuato, del giro temporale superiore, del cingolo, dell’ippocampo e del fornice (Choi, 2009).

Non tutti gli eventi stessanti hanno però ricadute negative sulla persona: l’impatto che essi esercitano sugli aspetti psicobiologici dell’individuo dipendono dal periodo di vita in cui avvengono e dalla loro gravità. Gli eventi stressanti che avvengono durante la tarda infanzia ed adolescenza, se sono di entità moderata, promuovono lo sviluppo della regolazione dell’arousal e della resilienza, a superare meglio stress legati al lavoro e alla sfera sociale in età adulta (Gunnar 2009).

Le implicazioni degli eventi stressanti sui disturbi dell’umore

Nei pazienti affetti da disturbo dell’umore (i.e., depressione maggiore ricorrente, disturbo bipolare di tipo I e II), lo stress rappresenta il principale fattore precipitante, influenzando l’onset e l’andamento della patologia e promuovendo l’insorgenza di nuovi episodi depressivi sia immediatamente dopo l’evento stressante che anni dopo (Assari, 2016; Hayashi, 2015). Gli studi neuroimaging su pazienti unipolari e bipolari riportano un’alterazione diffusa a livello strutturale, concernente sia la volumetria di materia grigia che l’integrità della sostanza bianca. In un campione italiano di pazienti affetti da disturbo bipolare, è stata riportata una ridotta diffusività assiale (AD; i.e., rappresentativa della diffusività delle molecole di acqua parallelamente all’asse delle fibre) in molteplici fasci di sostanza bianca, tra cui il corpo calloso, la corona radiata, la radiazione talamica, il fascicolo longitudinale superiore, il fascicolo fronto-occipitale inferiore e il fascicolo uncinato (Benedetti, 2014). Nei soggetti unipolari gli ACE si associano ad una riduzione dei volumi di materia grigia a livello dell’ippocampo (Opel, 2014). In un campione di soggetti unipolari e bipolari, i soggetti che avevano esperito dei ACE risultavano deficitari in diversi domini cognitivi, mentre quei pazienti che non avevano esperito degli ACE in età infantile non mostrano delle differenze significative rispetto ai volontari sani, ciò dimostrando un effetto di moderazione degli ACE rispetto alle funzioni cognitive (Poletti, 2016).

 

Passione romantica e possibilità di scegliere e cambiare il proprio partner

Gli americani sono più appassionati dei giapponesi verso i propri partner, come mai? Perché vivono in un ambiente sociale in cui le persone hanno una più elevata mobilità relazionale, ovvero la libertà di scegliere il partner e successivamente lasciarlo e sceglierne un altro.

 

Lo studio è stato condotto in Giappone, dal dottorando di ricerca Junko Yamada e dal professor Masaki Yuki, della Hokkaido University.

L’ipotesi di ricerca ha trovato origine nell’evidenza emersa da studi precedenti a questo, in cui era appunto emerso che le persone del Nord America fossero più appassionate delle persone dell’Asia orientale (come giapponesi e cinesi). Eppure, ai ricercatori questo risultato sembrò incoerente con la teoria secondo cui gli americani degli USA sono individualisti e indipendenti, mentre gli orientali collettivisti e interdipendenti l’un l’altro.

Gli studiosi ipotizzano allora che sia la mobilità relazionale a determinare questa differenza passionale: gli americani vivono in una società con un’elevata mobilità relazionale, in cui le persone hanno una maggiore libertà di scelta di cambiare partner. Così i partner americani, in generale, possono sentirsi costantemente esposti al rischio di essere traditi e di essere circondati da rivali.

Sebbene la monogamia sia ancora la forma più comune nella società occidentale contemporanea, le relazioni romantiche a lungo termine devono affrontare un problema di conflitto tra mantenimento dell’impegno relazionale e la possibile ricerca di un partner alternativo.

In questo scenario la passione può essere considerata come un comportamento strategico volto alla rassicurazione dell’attuale partner. Così in Giappone, dove le relazioni sono più stabili a causa di una bassa mobilità relazionale, le persone sperimentano meno emozioni connesse alla possibilità di essere tradite o rifiutate e di conseguenza il comportamento passionale viene svuotato di un proprio ruolo strategico.

Lo studio: la mobilità relazionale in Occidente e Oriente

I ricercatori dell’Hokkaido University hanno intervistato 154 americani eterosessuali (78 uomini e 76 donne) e 103 giapponesi eterosessuali (65 uomini e 38 donne).

I partecipanti hanno risposto ad un questionario sulla mobilità relazionale romantica, uno sulla passione verso il partner ed un ultimo questionario sui comportamenti di impegno relazionali-romantici.

I risultati

Dai risultati è emerso che gli americani sono significativamente più appassionati nei confronti del proprio partner, rispetto ai giapponesi. Inoltre, dallo studio è emerso che più una persona è passionale e più aumenta la probabilità che il soggetto abbandoni volontariamente relazioni con altre persone del genere opposto.

Il gruppo americano ed il gruppo giapponese hanno mostrato differenze dal punto di vista del comportamento adattivo.

Il ricercatore Masaki Yuki ha commentato i risultati nel seguente modo:

Il nostro studio ha dimostrato l’importanza di considerare fattori socio-ecologici quando si studia il comportamento di accoppiamento umano. Inoltre, è stato dimostrato che un partner è più appassionato quando si ha più libertà di scelta. Tuttavia, ulteriori studi che coinvolgono altre nazionalità e background culturali andranno condotti prima di poter generalizzare i nostri risultati.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’amore può essere eterno? Un video emozionante del regista Michele Pastrello

Il benessere di un partner continua ad essere influenzato dall’altro anche dopo la morte di uno dei due, con la stessa intensità di quando era in vita.” Parola di Kyle Bourassa, il ricercatore dell’università dell’Arizona che ha pubblicato uno studio su Psychological Science a proposito dell’ amore che dura per sempre.

Michele Pastrello

 

L’ amore eterno: un video di Michele Pastrello

L’ amore dunque oltrepassa le barriere del tempo? Il regista Michele Pastrello propone la sua riflessione nel nuovo video emozionale e introspettivo Nexŭs (dal latino, “legame”). Il video inizia con una citazione da una famosa opera di Wilde: “Se non ci metti troppo, t’aspetterò per tutta la vita.” Un uomo anziano, nella sua vecchia casa, il mattino si alza, si veste elegantemente ed ogni giorno si prende cura del ricordo di una persona. Di una donna. E delle tracce della sua presenza. Un amore ancora intatto, fatto di tatto, di olfatto, di gesti, di riti. E di attesa e di essenza.

Dal video Nexus

Nexŭs è un video che pone domande che riguardano tutti: cosa rimane dell’amore quando la persona amata non c’è più? Domande a cui anche la scienza cerca di dare delle risposte. Ci hanno provato gli studi della neuroscienziata Bianca P. Acevedo che, con macchine per la risonanza magnetica, ha registrato l’attività cerebrale di innamorati di fronte a una foto di un amore lontano; ed è recente lo studio su un gruppo di anziani vedovi ad opera del ricercatore Kyle Bourassa dell’università dell’Arizona, in cui si asserisce che “le persone alle quali teniamo continuano a influenzare la nostra vita anche dopo essere morte“.

GUARDA IL VIDEO:

Nexŭs mette in emozionanti immagini l’attesa di un uomo anziano che aspetta (inconsapevole) il giorno in cui forse rincontrerà la sua amata. E che, in questa sospensione rituale, continuerà ad amarla. Nexus riassume quanto asseriva il filosofo austriaco Martin Buber: “La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore; al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in essi si manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento“.

Nexus Michele Pastrello video

 

L’amore, per la scienza almeno, è qualcosa di oscuro, per la Fisica non è né definibile né misurabile. Ma per il rinomato psicologo Abraham Maslow, il vero amore è il Being Love, cioè l’amore per essenza dell’altro. Maslow, noto per la Piramide di Maslow (la teoria per la gerarchizzazione dei bisogni per l’essere umano), nel 1962 asseriva di fronte allo scetticismo sull’incontrovertibile importanza dell’amore nella vita: a nessuno verrebbe in mente di porre in dubbio l’affermazione che l’uomo ha bisogno di iodio o di vitamina C. Vi ricordo che le prove del fatto che si ha bisogno d’amore sono esattamente del medesimo tipo.

Girato dal regista veneto Michele Pastrello, il micromovie ha una ulteriore peculiarità: ad interpretare l’anziano protagonista è il padre del regista stesso. Si chiama Angelo, ha 82 anni e non ha mai recitato prima in vita sua. Ma forse, tra le mura della sua casa, non c’è così tanto da recitare. Solo da ricordare.

cancel