expand_lessAPRI WIDGET

L’elaborazione del tatto nel cervello infantile: quando un tocco si trasforma in empatia

Tatto nei bambini: Un nuovo studio esplora le aree cerebrali in cui avviene l’elaborazione tattile, non solo quando è il bambino stesso ad essere accarezzato ma anche quando il bebè vede toccare la mano o il piede di un adulto. I ricercatori ipotizzano che questo potrebbe aiutare lo sviluppo di abilità evolutive e cognitive quali l’imitazione e l’empatia.

 

Lo sviluppo del tatto nei bambini

Il tatto è il primo dei cinque sensi a svilupparsi eppure gli scienziati conoscono ben poco della risposta cerebrale dell’infante a questo senso rispetto invece alle conoscenze che possiedono riguardanti ad esempio il modo in cui i bambini elaborano la vista del volto o il suono della voce materna.
Ora, attraverso l’uso di nuove e sicure tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori dell’Università di Washington sono stati in grado di comprendere l’elaborazione cerebrale del tatto negli infanti.

L’attivazione della corteccia somatosensoriale sia per il “tocco percepito” che per il “tocco osservato” dimostra che i bambini già a 7 mesi sono capaci di stabilire una connessione di base tra “sé” e “altro” che potrebbe essere alla base dell’imitazione e dell’apprendimento sociale.

Molto prima che i bambini imparino a parlare, il tatto risulta essere un canale cruciale per la comunicazione con il caregiver” ha detto l’autore dello studio Andrew Meltzoff, professore di psicologia e co-direttore dell’Institute for Learning & Brain Sciences, che ha continuato “Ora abbiamo gli strumenti per osservare la rappresentazione del corpo all’interno del cervello del bambino. Il modo in cui il senso del sé si struttura potrebbe essere compreso osservando le reti cerebrali specifiche in cui avviene l’elaborazione del tatto.

Per lo studio i ricercatori hanno osservato il cervello di bambini di 7 mesi utilizzando la magentoencefalografia (MEG), una tecnica che permette di catturare le immagini dell’attività cerebrale. Gli studiosi erano particolarmente interessati all’osservazione della corteccia somatosensoriale (un’area della corteccia cerebrale posta nella parte superiore dell’encefalo); è proprio in questa regione infatti che avviene l’elaborazione del tatto. Ogni parte del corpo è rappresentata in modo unico: un tocco alla mano per esempio è codificato in una posizione diversa lungo la corteccia somatosensoriale rispetto al tocco a un piede.

L’attivazione cerebrale dei bambini quando ricevono un tocco e quando lo osservano negli altri

Nel primo dei due esperimenti, il team ha misurato l’attività cerebrale dei bambini mentre ricevevano leggeri tocchi sulla parte superiore delle mani e dei piedi. I dati hanno mostrato che, il tocco della mano comportava l’attivazione dell’area corrispondente alla corteccia somatosensoriale in tutti i 14 bambini testati; la stessa attivazione si presentava, nella relativa area, quando veniva sfiorato il piede.
Il secondo esperimento ha indagato quello che si è definito “tocco osservato”: i bambini guardavano i filmati di una piccola asta che sfiorava la mano o il piede di un adulto. In questo caso l’attivazione della corteccia somatosensoriale generava una risposta più debole rispetto alla condizione di “tocco percepito”.

L’elemento essenziale emerso dallo studio è che entrambi i tipi di contatto vengono registrati nella stessa area del cervello, ciò potrebbe suggerire l’esistenza di regioni neurali condivise nelle condizioni di tatto osservato e percepito.

Meltzoff ha concluso “Prima ancora di nominare le parti del corpo, i bambini riconoscono che la loro mano è uguale a quella del genitore. La mappa neurale del corpo aiuta a connettere i bambini con gli altri, il riconoscimento che un’altra persona è “come me” può essere una delle prime intuizioni sociali del bambino. Questo riconoscimento, con la crescita, potrebbe trasformarsi nella capacità di comprendere gli stati emotivi delle persone, in altre parole: empatia”.

Desiderare un figlio: quando tutto ha inizio

Avere un figlio è solo il frutto della ragione e di una decisione ben ponderata? Ebbene, gli imprevisti capitano e alle volte un bambino arriva quando meno lo si aspetta, quando la situazione economica ancora vacilla, quando c’è ancora il mutuo da saldare o il contratto indeterminato lontano dalle aspettative. Il desiderio di maternità è qualcosa che irrompe nella vita e nella mente della coppia, anche quando non tutto è perfetto.

Introduzione

Diventare genitori. La nascita di un bambino è un evento che genera molteplici cambiamenti nella vita della donna e della coppia: alterazione del ciclo sonno-veglia, allattamento, diminuzione del tempo libero e per se stessi, necessità di conciliare lavoro e famiglia, dipendenza del bambino dal genitore in tutto e per tutto, assunzione di una nuova identità e di un ruolo tutto da scoprire.

Dicono che allevare un figlio sia il compito più difficile che possa esserci, il rischio di sbagliare e di sentirsi inadeguate è costantemente in agguato e se avessero scritto un manuale per diventare genitori perfetti sarebbe stato gradito e comperato velocemente dalla maggior parte delle mamme.

La verità è che, come molte avranno sperimentato nella propria vita quotidiana, non esiste un manuale con indicazioni perfette in qualunque situazione, perché ogni mamma e il suo bambino sono unici, con la loro storia, le loro emozioni e con la relazione che entrambi già dai primi giorni di vita del bambino andranno a costruire, giorno dopo giorno, passo per passo, errore per errore.

Questa rubrica intitolata “Mamme e papà si diventa” vuole essere una sorta di guida all’esplorazione dei vissuti psicologici, delle emozioni e delle ansie cui spesso si imbattono le mamme e i papà senza averne piena consapevolezza, allo scopo di poter dare loro un nome e di sentirsi meno “alieni” e meno sbagliati.

Il desiderio di maternità: da dove nasce?

Oggigiorno, la gravidanza è spesso cercata e desiderata da parte delle coppie ed è sempre meno il frutto della casualità o del fato, data la crescente diffusione dei metodi contraccettivi. In molti casi si tratta di una gravidanza programmata e stabilita sulla base della propria condizione lavorativa, economica e sociale. A volte mettere al mondo un figlio lo si rimanda talmente tanto da essere troppo tardi o ai limiti dell’età fertile. Le ragioni per cui ciò accade sono molteplici; più frequentemente si attende di raggiungere una maggiore stabilità economica o lavorativa o il compagno “giusto” non lo si incontra ancora.

Dunque, avere un figlio è solo il frutto della ragione e di una decisione ben ponderata?

Ebbene, gli imprevisti capitano e alle volte un bambino arriva quando meno lo si aspetta, quando la situazione economica ancora vacilla, quando c’è ancora il mutuo da saldare o il contratto indeterminato lontano dalle aspettative. Il desiderio di maternità è qualcosa che irrompe nella vita e nella mente della coppia, anche quando non tutto è perfetto.

Secondo Finzi e Battistin, la ragione si mescola con l’amore e le emozioni e il desiderio di maternità diventa qualcosa di spontaneo, naturale, condiviso e “sperato”.
Ed è proprio lì che tutto ha inizio; che sia programmato o meno ciò che spinge in molti casi ad avere un figlio è un desiderio di maternità forte che irrompe nella propria psiche.

Le motivazioni che spingono ad avere un figlio

La scelta di avere un figlio può avere varie motivazioni di natura intrapsichica, interpersonale, culturale e sociale. Ognuno attribuisce alla maternità e paternità differenti significati e progettualità individuali e di coppia.

A quel punto iniziano le fantasie, i sogni ad occhi aperti; la mente vaga e l’immaginazione si arricchisce sempre di nuovi scenari, suoni, immagini ed emozioni. È quello che in psicologia viene chiamato “bambino immaginario”, un bambino che inizia a prendere forma nella mente dei futuri genitori prima ancora che sia nato. Sarà con gli occhi chiari? Assomiglierà alla mamma? Sarà forte e sano? Sarà maschio o femmina? Nulla di questo si conosce ma nella propria mente tutto comincia ad acquisire forma, colori, suoni e il proprio mondo psichico ed affettivo comincia a fare spazio all’idea che un bimbo possa entrare a far parte della propria vita individuale e di coppia. Le fantasie sono spesso legate alla propria storia di vita, all’infanzia e diventano una proiezione dei propri desideri più nascosti.

Alcuni studi hanno indagato le motivazioni che spingono una coppia ad avere un figlio, secondo il modello della teoria dell’attaccamento, ipotizzando che la qualità della relazione con la famiglia di origine possa influenzare la decisione di generare un bambino. La relazione di attaccamento con i propri genitori può essere classificata secondo delle categorie a seconda dell’accudimento e della responsività di cui il bambino ha fatto esperienza nella propria infanzia: nello specifico l’adulto con uno stile di attaccamento sicuro ha fatto esperienza nella sua infanzia di un genitore sensibile, accudente e responsivo, capace di cogliere e di rispondere in modo adeguato e tempestivo ai suoi bisogni primari ed emotivi; l’adulto con uno stile di attaccamento insicuro ambivalente ha, invece, sperimentato una relazione per l’appunto ambivalente, caratterizzata da risposte contraddittorie o imprevedibili da parte del genitore di riferimento e per questo ha imparato a dover estremizzare le proprie reazioni per ricevere accudimento; lo stile di attaccamento evitante, infine, è presente nelle situazioni in cui il genitore è stato piuttosto distanziante, poco presente e affettuoso e il bambino ha imparato in fretta a diventare autonomo e autosufficiente. Nei casi di attaccamento insicuro sia l’immagine di sé che degli altri risultano compromesse.

Tali esperienze di attaccamento precoci, spesso si riflettono nelle relazioni di coppia e la stessa scelta di avere un bambino può essere influenzata da tali esperienze. In particolare, le relazioni di tipo insicuro ambivalente si caratterizzano per la presenza di un partner che richiede spesso accudimento da parte dell’altro partner e in questo caso un figlio può essere percepito come una possibile compensazione della propria insicurezza affettiva, anche se in realtà ciò non accade e la coppia può entrare in crisi. Il partner con attaccamento evitante, invece, si mostra spesso poco disponibile e affettuoso nei confronti dell’altro, avendo lui stesso fatto esperienza nella famiglia di origine di trascuratezza emotiva e scarso accudimento e questo ostacola la formazione di una famiglia a tutti gli effetti, in cui le relazioni si basano sulla fiducia, la comunicazione e la reciprocità; alle volte si preferisce, infatti, non avere figli. I partner con attaccamento sicuro, infine, sono coloro che riescono ad instaurare relazioni basate sulla reciprocità, sulla simmetria e sul confronto consapevole e questo crea le condizioni per la creazione di un buon nucleo familiare.

In altri casi, invece, il desiderio di maternità diventa soprattutto una scelta strumentale, allo scopo di risolvere problemi di coppia o per sanare un vuoto generato da una perdita personale.

Il desiderio di paternità

Ma non ci dimentichiamo che quando nasce un bimbo, nasce una mamma ma nasce anche un papà. Cosa accade nella mente degli uomini quando sta per arrivare un figlio? Fino a poco tempo fa, l’uomo si preoccupava principalmente di garantire la discendenza della propria famiglia e del proprio nome, si occupava soprattutto di mantenere economicamente la famiglia e l’educazione era spesso autoritaria e stabilita da lui stesso che svolgeva il ruolo di “capo-famiglia”, mentre le donne si occupavano principalmente della crescita e dei bisogni primari e affettivi dei bambini.

Perché invece oggi un uomo desidera avere un figlio? Secondo Finzi e Battistin, le motivazioni sono più frequentemente di natura affettiva e inconscia; il desiderio maggiore è quello di trasmettere il meglio di sé al proprio figlio, di dargli ciò che avrebbe voluto avere lui stesso e che non ha ricevuto. Un figlio diventa un prolungamento di sé e della propria identità; il desiderio di paternità si connota di elementi affettivi e personali legati alla propria storia di vita passata e presente e compaiono anche nella mente dei futuri papà, fantasie e sogni del proprio “figlio ideale”. In epoca attuale un figlio svolge spesso una funzione di realizzazione personale, approvazione e affermazione della propria identità sociale positiva.

Dunque, le motivazioni che possono portare alla decisione di avere un figlio e che possono far affiorare il desiderio di maternità e paternità sono molteplici, individuali e relazionali e spesso legate alla storia di vita e di attaccamento di ciascun partner.

Tra von Neuman e Turing: verso la complessità computazionale. Le coordinate scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero

Tra i più eminenti studiosi che hanno elaborato negli ultimi due decenni le coordinate teoriche e scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero, vi sono John von Neumann e Alan Turing che, tramite intuizioni e richieste, hanno influenzato il nostro modo di pensare riguardo al cervello.

Introduzione – La domanda

Nel corso della sua storia, l’umanità è stata affascinata da una domanda che è semplice da porre, ma di resistente risoluzione: «Come funziona il cervello
I dati relativi alla ricerca sul cervello sono esplosi in diversità e scala, fornendo una struttura informativa senza precedenti in entrambe le forme “anatomiche” (naturale e artificiale).
Tra i più eminenti studiosi che hanno elaborato negli ultimi due decenni le coordinate teoriche e scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero, vi sono John von Neumann e Alan Turing che, tramite intuizioni e richieste, hanno influenzato il nostro modo di pensare riguardo al cervello.
I processi di pensiero, e quindi l’intelligenza, sono meccanizzabili tramite programmi per computer?

La prospettiva von Neuman/Turing – Il calcolo

Per parlare di computazione, dobbiamo avere una rigorosa teoria di cosa sia e di cosa non sia. Per tale motivo la storia dell’informatica e delle scienze del cervello, ad un certo punto, si sono intrecciate.

Anche nei sistemi biologici (Palsson, 2006) è ormai consuetudine trattare le reti metaboliche, normative e di segnalazione come se fossero algoritmi o programmi. Ma nello specifico la computazione rimanda ad una natura materiale del pensiero. Nel suo manoscritto incompiuto The Computer and the brain, von Neumann (1958), discute se il cervello possa essere pensato o meno come una macchina informatica e identifica somiglianze e differenze tra il calcolo naturale e artificiale.

Per simulare, attraverso un insieme di regole di calcolo, alcuni comportamenti della struttura cerebrale degli esseri viventi, occorre conoscere la struttura del cervello umano e cercare di riprodurlo con un modello matematico (Bishop, 1995).
Neumann descrisse il computer come analogo a un cervello, con un input “organo” (simile ai neuroni sensoriali), un ricordo, un livello aritmetico, un “organo” logico (simile ai neuroni associativi) e un “organo” di uscita (simile ai motoneuroni).

Nello stesso periodo storico, Turing, nel suo articolo del 1950 su Mind, sosteneva che i dispositivi informatici potrebbero emulare l’intelligenza, portando alla sua proposta del test di Turing. Egli, durante la seconda guerra mondiale, credette che fosse necessaria una “macchina per combattere un’altra macchina” (l’enigma).

Gran parte del dibattito filosofico su questo problema si è incentrato sulla questione se le menti siano Turing-equivalenti (ossia, se esiste qualcosa che la mente può e che le macchine di Turing non possono fare).
Odiernamente, la questione che più sta a cuore agli scienziati cognitivi – e sulla quale la teoria computazionale della mente prende una posizione precisa – è se l’architettura della cognizione (umana) somigli in modo interessante all’architettura di quel particolare tipo di computer che è la macchina di Turing (Fodor, 1999).

Il concetto di Turing di una macchina di calcolo, a sua volta, ci mostra come collegare la sintassi alla causalità, in quanto è possibile progettare un meccanismo in grado di valutare qualsiasi funzione formalizzabile, ovvero delimitare la classe di funzioni che sono “computabili” nel senso tecnico di essere decidibili o valutabili dall’applicazione di una procedura o di un algoritmo. Molti processi fisici e biologici possono essere caratterizzati in termini algoritmici; non tutte le funzioni matematiche sono computabili in questo senso, e mentre questo fu conosciuto dai matematici nel 19° secolo, non fu fino al 1936 che Alan Turing propose una caratterizzazione generale della classe delle funzioni computabili. È in questo contesto che ha proposto la nozione di una “macchina di calcolo“, una macchina che fa le cose analoghe a ciò che un matematico umano fa per “computare” una funzione (Horst, 2011).
Turing stesso sembra aver pensato che una macchina operante in questo modo avrebbe fatto letteralmente le stesse cose che i compiti eseguiti dall’uomo fanno – che sarebbe “duplicare” quello che fa il computer umano.

Il pensiero di Vittorio Somenzi – La forma

Senza entrare nella complessa discussione che si svolgeva negli anni Cinquanta e Sessanta intorno al tentativo di stabilire analogie formali tra la struttura matematica dei concetti di informazione ed entropia (Corbellini, 1991), l’epistemologo italiano Vittorio Somenzi, suggeriva di attribuire al vivente “il ruolo di trasformatore della forma dello stimolo nella forma della risposta, la quale può variare o addirittura mancare, a seconda della forma assunta al momento dalle strutture interne del vivente, sia ereditaria o sia ambientale la causa di tale loro conformazione” (Somenzi, 1967). E continuava con una metafora particolarmente efficace. “Come il solco del disco è ‘un solo e medesimo solco, sia che lo si guardi al microscopio o che lo si percorra con una puntina collegata a un emettitore di suoni, così la forma di una rete di cellule nervose è ‘una sola e medesima forma’, sia che se ne osservi la geometria delle strutture molecolari, sia che se ne registri l’attività elettrica, sia che si esamini il comportamento dell’animale pilotato da tali cellule” (ibidem).
Per raggiungere tale livello, l’intelligenza artificiale ha modellato il cervello in termini di “forma”, tantoché la rete neurale (artificiale) è un modello computazionale per eccellenza.

Conclusioni – La risoluzione del problema

Questa dissertazione ha impegnato principalmente due chiavi di lettura: 1) Una procedura per la computazione (un modello matematico astratto) e 2) un’idea di “macchina programmabile” (in un parallelismo tra cervello naturale e artificiale).

Tuttavia le coordinate teoriche e scientifiche della visione materialistica delle basi naturali del pensiero, dopo decenni, percorrendo lo stesso tragitto teorico dei due matematici, procedono verso una teoria della complessità computazionale (una branca della teoria della computabilità) che studia le risorse minime necessarie (principalmente tempo di calcolo e memoria) per la risoluzione di un problema.

I problemi sono classificati in differenti classi di complessità, in base all’efficienza del migliore algoritmo noto in grado di risolvere quello specifico problema (Atallah Mikhail, 1999).

La matrice ACT. Guida all’utilizzo nella pratica clinica (2017) – Recensione del libro

La matrice ACT è un libro completo che mette il terapeuta al centro del processo, fin da subito, cercando di semplificare all’osso il linguaggio tecnico ed accompagnando il lettore nel vivo della pratica clinica.

 

In Italiano ci sono molti testi che parlano, a diversi livelli, di ACT (Acceptance and Commitment Psychotherapy) e di psicoterapia cognitivo comportamentale di terza generazione.

Molto spesso, in questi volumi, si fa riferimento ad altri testi che possano aiutare il lettore a comprendere meglio di cosa l’ ACT tratti e di come questa sia in definitiva una tecnologia, una tecnica e/o un’applicazione comportamentale /cognitiva del modello di base di riferimento che è la RFT (Relational Frame Theory).

A questa spiegazione generale, solitamente, non seguono, però, elementi pratici di collegamento all’ approccio RFT.

La matrice ACT – Restituire al linguaggio la funzione comunicativa

La matrice ACT è, invece, un libro completo che mette il terapeuta al centro del processo, fin da subito, cercando di semplificare all’osso il linguaggio tecnico ed accompagnando il lettore nel vivo della pratica clinica.

Kevin Polk, ideatore della Matrice, è riuscito a semplificare l’hexaflex (il diagramma di base dei processi ACT) nel diagramma della matrice.

La matrice ACT nasce da un’ idea semplice nell’applicabilità, quanto complessa a livello teorico, di restituire al linguaggio la funzione comunicativa, al di là dei significati percepibili derivati .

Questa sintesi è nata a partire dall’ esperienza di Polk per i contesti clinici nell’evocazione di ricordi traumatici, unitamente allo studio del Derived Relational Responding: Application for Learners with Autism and Other Developmental Disabilities (Barnes-Holmes, 2009), un libro che contiene degli esempi per coinvolgere i bambini in compiti di collocazione, per aiutarli ad acquisire abilità verbali, incluse le abilità di alto livello come il Perspective Taking.

Cos’è la matrice ACT?

Il libro La matrice ACT è una guida clinica dettagliata all’utilizzo della matrice Act.

La matrice è un diagramma che implica la capacità di notare un diagramma che gli autori hanno ritenuto utile al fine di attivare la flessibilità psicologica in contesti clinici e di gruppo.

Il costrutto nasce infatti dall’ esigenza di restituire uno strumento clinico più semplice del diagramma dell’ Hexaflex, risultato, a detta degli autori, poco pratico per i pazienti.

Quando si parla di matrice si fa riferimento alla costruzione di una vera e propria matrice grafica composta da due linee perpendicolari che organizzano 4 quadranti .

Il diagramma della matrice è composto da due linee perpendicolari. La linea verticale è la linea dell’esperienza. Quest’ ultima definisce la differenza tra gli aspetti della nostra esperienza che avvengono tramite i nostri cinque sensi e la parte della nostra esperienza che emerge dalla nostra attività mentale o dalle abilità introspettive.

La linea orizzontale è la linea del comportamento. Quest’ultima definisce la differenza tra azioni che hanno la funzione di allontanarci da esperienze indesiderate (per esempio muoversi via dalla paura) e azioni che hanno la funzione di avvicinarci a chi e a cosa è importante (per esempio muoverci verso ciò che amiamo).

La flessibilità cognitiva viene stimolata dalla matrice attraverso la ricontestualizzazione funzionale dell’esperienze: i comportamenti e le storie vengono inserite all’interno dei quattro quadranti formarti da due linee perpendicolari che favoriscono non solo abilità di distanziamento cognitivo, ma anche di perspective taking .

Tale operazione stabilizzante viene svolta attraverso la costruzione di frame (cornici) deittiche (io-tu), frame locativi (tu-qui; tu- Là) e frame temporali (Tu-qui-ora; Tu-là-allora; Tu-là-poi), tali da permettere un’osservazione consapevole della nostra esperienza.

Questo tipo di engagement con il paziente permette, secondo le teorie della RFT/ACT, di ridurre gli effetti di  fusione cognitiva con una narrazione pregressa di Sé, generalizzata con elementi di identità favorenti, verosimilmente, immobilità funzionale e/o appresa.

Se, come me, avete avuto la fortuna di partecipare ad un workshop di Benjamin Schonendorff, autore, insieme a Kevin Polk, Mark Webster e Fabian O.Olaz , di questo volume La matrice ACT, avrete sentito parlare della matrice ACT, come della possibilità di fare mindfulness e praticare l’ accettazione con le parole.

Assunto dell’ ACT, come in RFT (Relational Frame Theory) o in FAP( Functional Analytic Psychotherapy) è che le parole non si sprecano e devono essere inserite all’interno di cornici relazionali e verbali proprie del processo, ossia, il linguaggio, inteso come comportamento funzionale appreso che segue le regole dell’apprendimento per le funzioni, non solo di generalizzazione, ma anche di derivazione funzionale dal contesto in cui lo specifico comportamento verbale è stato appreso.

Secondo il modello teorico della RFT e di quello applicato della FAP e dell’ ACT, l’uso del linguaggio non è mai fine a se stesso e svolge sempre una funzione comunicativa nel senso stretto di comunicazione, ossia, alla possibilità, in psicoterapia di usare il linguaggio in un ottica funzionalista contestuale e non solo dialogica socratica.

Quando ci si approccia allo studio di testi di Terza Onda di matrice contestualista funzionale è importante sapere, infatti, che i presupposti teorici riguardano un’analisi a tre termini di tipo Skinneriana (Antecedente, Comportamento, Conseguente) e post Skinneriana di derivazione della risposta linguistica, dipendente dal contesto e funzionale al contesto stesso.

Per semplificare questo costrutto si potrebbe dire che nelle terapie di terza onda la cosa importante è far succedere le cose in un contesto controllato, anche con le parole, piuttosto che raccontare le cose, al fine di sviluppare competenze, piuttosto che spiegare contenuti.

La matrice ACT – L’ aikido verbale

All’interno della matrice ACT, tale utilizzo del linguaggio, viene definito dagli autori come Aikido verbale. L’ aikido verbale è la possibilità di usare il linguaggio del paziente all’interno di una cornice relazionale, in cui le parole del paziente non devono assumere una dimensione competitiva disfunzionale, bensì siano inserite in una cornice relazionale funzionale.

L’importanza di inserire le parole all’interno di una cornice relazionale è alla base del modello RFT dove l’uso delle parole non è legato soltanto ai significarti delle stesse, ma al significato nel contesto verbale in cui queste vengono dette e sono state apprese.

Gli autori sostengono che l’uso della matrice insegni ai pazienti a notare le loro scelte verso le cose importanti, rispetto alle scelte fatte per allontanarci da esperienze ritenute e valutate avversive.

Secondo l’ RFT/ACT, infatti, esistono almeno due livelli dell’esistenza, uno è quello percepito dai sensi e uno costruito dalle parole, o meglio, dalla tipicità dell’essere umano di nominare gli oggetti del mondo e da questi di derivare non solo reti semantiche, ma anche reti contestuali, in grado non solo di farci muovere verso le cose importanti per la nostra esistenza ma anche farci muovere lontano da esperienze avversive/punitive o semplicemente percepite tali.

In tale accezione il libro La matrice ACT fornisce una vera e propria guida pratica su come lavorare sul costrutto dei valori, così importante nell’ ACT, al fine di promuovere le scelte e la flessibilità psicologica, ma che troppo spesso viene difficilmente manualizzato dal terapeuta Act poco esperto.

Il valore è in ACT un’operazione stabilizzante in assenza di rinforzi contingenti e va ricercato e perseguito proprio in presenza delle difficoltà e del dolore,  per aiutare il paziente a scegliere quello che per lui è importante e non per essere lontano da quello che teme o dal dolore stesso.

La Matrice ACT è un manuale da applicare, leggere e studiare, è stato costruito molto bene ed è in linea con i manuali applicativi, ci sono domande per accertare la comprensione dei contenuti ed il protocollo è ampiamente manualizzato per sedute e presentato in base alle tipologie di pazienti, con i parametri per l’applicazione non solo ai casi singoli, ma ai minori, coppie e gruppi.

L’edizione Italiana è stata curata in maniera impeccabile dalla dottoressa Prevedini che ha condotto insieme al Dott. Schoendorff diversi workshop sulla matrice.

Il significato della metacognizione nella terapia metacognitiva interpersonale e nella terapia metacognitiva

Negli ultimi 20 anni la terapia cognitiva è andata incontro a numerose rivoluzioni sia in ambito teorico che in ambito clinico. Uno dei concetti di base della teoria cognitiva che ha subìto recenti sviluppi è quello di metacognizione, che troviamo protagonista sia nella terapia Metacognitiva Interpersonale che nella terapia Metacognitiva. Tuttavia, all’interno di questi due modelli, il concetto assume significati diversi, dalla definizione teorica alle implicazioni in ambito clinico.

Rossana Piron, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

La Metacognizione nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI)

Nel modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale, il concetto di metacognizione fa riferimento a tutte quelle funzioni mentali che permettono all’individuo di avere una rappresentazione degli stati mentali propri e altrui, di riflettere su di essi e di usare tali conoscenze per affrontare in modo efficace situazioni problematiche dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale (Di Maggio e Semerari, 2003).

Secondo questo approccio tutti noi compiamo continuamente atti metacognitivi per identificare e comprendere cosa proviamo, cosa ci spinge ad agire, e per formarci una visione integrata di noi stessi in relazione al mondo. Utilizziamo la metacognizione anche quando cerchiamo di capire gli stati mentali degli altri. La definizione di metacognizione con queste accezioni ha molto in comune con gran parte delle funzioni analizzate nell’ambito della Teoria della Mente, della cognizione sociale, dell’alessitimia e della mentalizzazione (Popolo et al., 2014).

La TMI nasce come chiave di lettura e strumento clinico per i disturbi di personalità, con particolare attenzione ai pazienti inibito-coartati. Questa tipologia di pazienti è caratterizzata da povertà narrativa, difficoltà di accesso alle proprie rappresentazioni e scarso senso di agency (Di Maggio et al., 2013). Secondo Di Maggio, Semerari e coll. (2007) è grazie al riconoscimento degli stati mentali propri e altrui che diventa possibile riflettere su di essi e compiere degli atti decisionali, risolvere problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare in modo efficace i propri desideri con gli altri.

Le funzioni metacognitive analizzate nella TMI sono tre, ognuna delle quali comprende specifiche sotto-funzioni che agiscono in modo relativamente indipendente e a un grado di complessità crescente.
1) Autoriflessività: si intende l’abilità di pensare, comprendere e ragionare sui propri stati mentali. E’ composta dalle sotto-funzioni di monitoraggio (capacità di identificare pensieri, credenze ed emozioni), differenziazione (capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni) e integrazione (abilità di mantenere una visione unitaria di sé, indipendentemente dall’alternarsi di stati mentali diversi).
2) Comprensione della mente altrui: fa riferimento alla capacità di comprendere e di riflettere sugli stati mentali degli altri. Comprende la sotto-funzione di decentramento, che consiste nella capacità di mettersi nei panni degli altri cercando di operare delle inferenze sui loro stati mentali indipendentemente dalla propria prospettiva, dal proprio coinvolgimento nella relazione e dal proprio modo di interpretare gli eventi.
3) Mastery: insieme delle modalità che il paziente mette in atto per fronteggiare le situazioni in modo consapevole. E’ un processo metacognitivo di controllo che consiste nell’utilizzare le conoscenze psicologiche per decidere, formulare strategie, risolvere i conflitti interpersonali. Il presupposto di base è la capacità di rappresentarsi gli stati mentali problematici o le situazioni conflittuali come problemi psicologici da risolvere in modo attivo.

La terapia Metacognitiva Interpersonale agisce favorendo lo sviluppo delle funzioni metacognitive, a partire dalle più semplici che in terapia sembrano mal funzionanti. Si utilizzano tecniche specifiche mirate all’acquisizione stabile di un funzionamento metacognitivo. Per promuovere le singole funzioni non si segue un percorso lineare, ma è necessario muoversi avanti e indietro all’interno della terapia per rinsaldare funzioni precedentemente acquisite ma che possono risultare fallimentari in un contesto diverso.

La Metacognizione nella Terapia Metacognitiva (MCT)

Nella Terapia Metacognitiva di A. Wells la metacognizione non è vista come abilità o funzione, bensì come l’insieme dei fattori che governano la valutazione, il monitoraggio e il controllo delle cognizioni. Tali fattori si possono dividere in credenze, esperienze e strategie. Per credenze metacognitive si intende l’insieme delle idee e delle teorie che ognuno di noi ha rispetto al contenuto dei propri pensieri. Ad esempio, possiamo credere che alcuni pensieri siano dannosi per la nostra salute, oppure che ci accadrà qualcosa di brutto a causa di pensieri che abbiamo avuto nella mente. Le credenze influenzano l’importanza che attribuiamo ai pensieri e quindi hanno delle ripercussioni sulla modalità con la quale reagiamo a tali pensieri. Le esperienze metacognitive fanno riferimento alla modalità con la quale le persone valutano le situazioni e le sensazioni che riguardano la propria condizione mentale. Nella MCT si presuppone che giudicare negativamente i propri pensieri non faccia altro che alimentare la percezione della minaccia, condizione che porta a giustificare i successivi sforzi volti a monitorare il proprio pensiero. Infine, le strategie metacognitive sono l’insieme delle tattiche che gli individui mettono in atto per controllare e modificare i propri pensieri; ad esempio, concentrarsi sulla minaccia in modo da essere pronti ad affrontare tutti gli eventuali imprevisti.

La metacognizione non si limita quindi a un esercizio di autoconsapevolezza dell’esperienza interna, ma include l’autoregolazione del funzionamento mentale (Caselli, 2014). Questa definizione deriva dagli studi nell’ambito della psicologia dello sviluppo e, in seguito, ha trovato applicazione nella psicologia della memoria, nella psicologia dell’invecchiamento e nella neuropsicologia. Solo di recente è stato riconosciuto che la metacognizione è una base fondamentale per la maggior parte dei problemi psicologici (Wells, 2012).

L’idea che la metacognizione valuti, monitori e controlli il funzionamento cognitivo presuppone la distinzione tra due livelli di funzionamento mentale, un livello oggetto e un livello metacognitivo (Nelson e Narens, 1990). Nel livello oggetto gli individui considerano pensieri e credenze come dati di realtà, non sono in grado di distinguere ciò che appartiene internamente alla coscienza da ciò che appartiene alla realtà. Dal punto di vista clinico, questo tipo di funzionamento è un fattore di rischio perché ostacola la possibilità di modificare le credenze e le strategie che mantengono il malessere e perché favorisce la percezione di credenze e strategie come dati di realtà e non come scelte personali. Ad esempio, nella modalità oggetto il rimuginio è visto come atto necessario per risolvere problemi; trattandosi spesso non di problemi reali bensì di ipotesi negative sul futuro, questi problemi non possono essere risolti, quindi il rimuginio non può terminare e la regolazione dello stato d’ansia non può essere raggiunto.

L’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di trovare soluzioni, ma di raggiungere una posizione diversa, distaccata, rispetto ai propri eventi mentali. In questo caso, la soluzione consiste nel vedere il rimuginio come un atto volontario che riduce le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse. Per raggiungere questa consapevolezza occorre però spostarsi sul secondo livello di funzionamento, quello metacognitivo, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così a un’unica capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli, 2017).

Questa è la sostanziale differenza tra auto-consapevolezza e meta-consapevolezza, ovvero la consapevolezza di sé, così come la capacità di riflettere sugli stati mentali propri e altrui, può avvenire a un livello oggetto, cognitivo, oppure a un livello metacognitivo.

Infine, sempre secondo la MCT, il passaggio dal livello oggetto al livello metacognitivo non è frutto di una capacità più o meno sviluppata, ma è una funzione che tutti hanno, il punto è che spesso gli individui la utilizzano su certi pensieri e non su altri. L’obiettivo della terapia quindi non è sviluppare specifiche funzioni metacognitive, bensì mostrare agli individui che possiedono questa capacità e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, possono imparare a utilizzarla anche in risposta a quei pensieri che per loro sono particolarmente salienti o disturbanti. Ad esempio, gli individui possono scoprire che il rimuginio non è incontrollabile né necessario o utile per trovare delle soluzioni ai problemi, soprattutto per quelli che devono ancora realizzarsi nella realtà.
La Terapia Metacognitiva si è dimostrata particolarmente efficace nella cura dell’ansia e della depressione.

Infertilità inspiegabile? Se la tiroide funziona poco può influenzare le capacità di concepire

Sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism è stato pubblicato un nuovo studio che evidenzia la relazione tra una tiroide lievemente poco attiva (anche se la ghiandola funziona ai limiti bassi, ma all’interno di un range di normalità) e la possibile infertilità.

 

L’infertilità idiopatica

Quando una coppia non riesce a concepire, senza che vi sia alcuna causa precisa, essa viene definita infertilità idiopatica o inspiegabile.

L’infertilità, sia essa spiegabile o idiopatica è motivo di forte stress e di sofferenze emotive e relazionali. L’impossibilità di una genitorialità biologica può influire sulla qualità della vita ed il benessere di una persona o della coppia: ad ogni ciclo mestruale o ad ogni nuova nascita si rivive una forte sofferenza capace di segnare la quotidianità.

La tiroide e gli ormoni TSH

Gli ormoni TSH sono gli ormoni della ghiandola pituitaria o ipofisi, ghiandola che, oltre ad altre funzioni, si occupa della stimolazione della tiroide. Alti livelli degli ormoni TSH sono un buon segnale di una ghiandola tiroide ipoattiva (anche a livello lieve, ovvero subclinico). Questo avviene perché la funzione inibitoria degli ormoni tiroidei sulla secrezione di TSH risulta indebolita.

Lo studio sulla connessione tra la tiroide e la difficoltà a concepire

Lo studio ha rilevato che le donne che presentano infertilità inspiegabile hanno quasi il doppio delle probabilità di avere livelli più elevati dell’ormone TSH, rispetto alle donne che non presentano infertilità inspiegabile.

I ricercatori hanno analizzato i dati di pazienti di genere femminile di età compresa tra i 18 ed i 39 anni, diagnosticate con infertilità inspiegabile presso gli ospedali del sistema sanitario Health Partners di Boston. I fattori di inclusione sono stati i cicli mestruali regolari.

I ricercatori hanno esaminato e confrontato i livelli di TSH di queste 187 pazienti con quelli di 52 pazienti i cui partner riportavano una grave infertilità da fattore maschile.

I risultati mostrano come le donne con infertilità inspiegabile avevano livelli di TSH nel sangue significativamente più alti rispetto ai livelli delle donne con infertilità dovuta a causa nota. In particolare, il valore dell’ormone, nel doppio delle donne con infertilità inspiegabile rispetto alle altre, presentava un livello superiore a 2,5 mlU/L.

Futuri sviluppi

Il ricercatore Fazeli P.K. riassume i risultati nel seguente modo “Dal momento che ora sappiamo dal nostro studio che esiste un’associazione tra i livelli di TSH all’estremità superiore del range normale e infertilità inspiegabile, è possibile che un livello di TSH alto-normale possa avere un impatto negativo sulle donne che stanno cercando di rimanere incinte“. In base a quanto emerso, possibili futuri trattamenti per l’infertilità inspiegabile potranno considerare l’abbassamento dei livelli di TSH. La ricerca dovrà prima valutare quanto questo abbassamento sarà utile nel favorire il concepimento.

Incidente TRENORD a Pioltello: Dichiarazione di Riccardo Bettiga, Presidente Ordine Psicologi della Lombardia

COMUNICATO STAMPA: TRENORD a Pioltello: Dichiarazione di Riccardo Bettiga, Presidente Ordine Psicologi della Lombardia

PSICOLOGI IN PRIMA LINEA A SUPPORTO DELLE VITTIME

UNA RIFLESSIONE SUL SISTEMA DI INTERVENTO PSICOLOGICO NELLE EMERGENZE

Milano, 25 gennaio 2018 – Ogni situazione di emergenza porta con sé il trauma psicologico di un evento difficile da elaborare, nell’immediato, e complesso da gestire, nel futuro. Ogni emergenza è sempre anche psicologica: si tratta di un assioma che conferma la propria validità anche in queste ore, davanti al dramma dell’incidente ferroviario in corso a Pioltello (MI).

Non a caso, già dalle prime ore dell’incidente è stata attivata l’EPE (Equipe Psicosociale delle Emergenze) da parte dell’ASST Melegnano-Martesana, nel quadro della convenzione con la ATS di Milano: immediato è stato l’invio di una equipe di psicologi e assistenti sociali sul campo. Accanto alla rete sanitaria territoriale, si sono attivate anche le diverse strutture di emergenza che fanno capo direttamente a Regione Lombardia e Città Metropolitana di Milano. In particolare, all’interno della Protezione Civile è attiva una Squadra Psicosociale per le Emergenze che sta, fra l’altro, offrendo supporto psicologico specifico alle famiglie dei deceduti.

Nell’insieme, quindi, decine di psicologi iscritti all’Ordine degli Psicologi della Lombardia stanno operando all’interno delle diverse strutture che compongono la macchina dei soccorsi governato da Regione e Città Metropolitana.

Come Ordine non possiamo che ringraziare questi colleghi che, nel vivo dell’emergenza, esprimono la capacità sottile di interpretare la necessaria sinergia all’interno di una macchina rodata ma estremamente complessa. In questo senso, interfacciandosi con una pluralità di attori – dalla Protezione Civile alla rete sanitaria territoriale, dai Vigili del Fuoco all’AREU – gli psicologi lombardi confermano la straordinaria capacità di essere un ingranaggio fondamentale al servizio del benessere dei cittadini. Mettendo al servizio delle vittime e degli operatori capacità professionali e sensibilità personale.

Nel ricordare questo importante impegno sul campo della nostra comunità professionale, l’Ordine degli Psicologi della Lombardia lancia però un appello al governo di Regione Lombardia sottolineando come sia sempre più necessaria la creazione di una vera e propria cerniera strutturale regionale, capace di monitorare e coordinare tutta la filiera dell’intervento psicologico nelle situazioni di emergenza in modo ancora più chiaro, intelligibile e trasparente di oggi. Ciò allo scopo di:

–       migliorare l’efficacia di intervento di tutta la filiera;

–       evitare eventuali interventi sporadici poco organizzati;

–       attivare e valorizzare tutte le realtà disponibili in Regione Lombardia operanti nell’ambito della psicologia delle emergenze;

–       definire procedure ancora più estese, organiche e capaci di mettere a sistema tutto il potenziale contributo degli psicologi, ad oggi ripartito tra più soggetti ed equipe di intervento, il cui coinvolgimento è certamente prezioso ma migliorabile.

Crediamo sia importante che lezioni drammatiche come quelle che la cronaca torna oggi ad impartirci servano da monito per migliorare: siamo a disposizione, in questa ottica, a collaborare per fare sempre meglio e di più.

Ordine degli Psicologi della Lombardia


L’Ordine degli Psicologi – Nazionale o Regionale – è un ente pubblico che rappresenta e governa gli iscritti all’Albo degli psicologi.

Se l’Ordine, da un lato, è un presidio dello Stato a tutela della salute e del benessere dei cittadini, l’Albo è l’elenco pubblico di tutti gli psicologi abilitati ad esercitare regolarmente la professione a disposizione dei cittadini.

Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) è Riccardo Bettiga.

Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.opl.it.

Incontri per i familiari di pazienti con disturbo borderline di personalità: il programma family connections

Il programma family connections ha primariamente l’obiettivo di aiutare i familiari di pazienti con disturbo borderline a raggiungere il proprio equilibrio interiore e, solo successivamente, di favorire il sostegno psicologico del proprio caro. Il programma è strutturato in 6 moduli che comprendono interventi didattici sul disturbo e strategie basate sulla Dialectical Behavior Therapy standard (DBT; Linehan, 1993) per famiglie.

Martina Spelta, Valentina Pozzesi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Il disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità (BPD) è il disturbo di personalità più diffuso e il più studiato; inoltre sono i soggetti con disturbi di personalità che più utilizzano i servizi psicosociali. L’incidenza del disturbo nella popolazione generale è stata stimata tra il 0.7% e il 2% (Hoffman, 2007). La diagnosi di disturbo borderline di personalità (BPD) rivela un disturbo complesso, confuso, gravoso non solo per i pazienti stessi e i professionisti della salute mentale (Hoffman et al., 2005).

L’instabilità emotiva e comportamentale (comportamenti rischiosi e suicidari), la rabbia intensa, i problemi relazionali che presentano i soggetti con Disturbo Borderline di Personalità sono spesso causa di forte sofferenza anche per le persone a loro vicine, quali i familiari, gli amici e i coniugi. In particolare il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da difficoltà nella regolazione emotiva che ha un forte impatto sul senso di identità e sulle relazioni interpersonali del soggetto; chi è vicino a persone con disturbo borderline di personalità ne risente molto e, a sua volta, sono le persone che più influenzano l’individuo con il disturbo (Hoffman, 2007).

Si è osservato che i familiari di pazienti con disturbo borderline presentano un livello di distress psicologico più elevato rispetto alla popolazione generale e ai familiari di pazienti con un’altra condizione psichiatrica (Scheirs & Bok, 2007; Hoffman et al., 2005; Berkowitz & Gunderson, 2002; Hoffman & Hooley, 1998). Inoltre, a differenza di altri disturbi psichiatrici per i quali esistevano dei servizi di supporto per i familiari, i familiari di pazienti con disturbo borderline erano spesso trascurati (Glick & Loraas, 2001; Harman & Walso, 2001; Hoffman, Struening, Buteau, Hellman, & Neiditch, 2005). Non erano stati valutati dei programmi standardizzati per alleviare l’impatto di questo disturbo sui familiari di pazienti con disturbo borderline che spesso esperivano depressione, sensazione di lutto, carico familiare, e altri generi di distress (Berkowitz & Gunderson, 2002; Hoffman & Hooley, 1998; Hoffman et al., 2005).

Per questi motivi è stato sviluppato da un team di esperti americani che afferiscono alla NEA.BPD (National Education Alliance for Borderline Personality Disorder), il programma Family Connections (Fruzzetti & Hoffman, 2005). È un intervento evidence based manualizzato gratuito multi-famigliare della durata di 12 incontri settimanali condotto da familiari (o psicoterapeuti) che hanno ricevuto un training specifico con lo scopo di fornire ai partecipanti delle competenze utili al loro benessere e alla comprensione dei comportamenti del loro caro. Gli obiettivi del Family Connections sono (a) fornire le informazioni e le ricerche più recenti sul disturbo borderline (psicoeducazione psicodidattica), (b) insegnare strategie di coping individuali (c) e abilità familiari e (d) offrire l’opportunità di costruire una rete di supporto ai familiari di pazienti con disturbo borderline.

Il fondamento logico del programma family connections a supporto dei familiari di pazienti con disturbo borderline

Il fondamento logico alla base del Family Connections è stato il costrutto chiamato Expressed Emotion (EE, Hooley & Hoffman, 1999, Hoffman & Hooley, 1999) che è stato individuato come “fattore psicosociale di ricaduta” ed è stato l’impulso alla costruzione dei programmi per i disturbi dell’Asse I. Gli studi su EE individuano una correlazione tra la ricaduta del paziente e gli atteggiamenti e le convinzioni dei membri della famiglia sul paziente (Vaughn & Leff, 1976).

Negli studi di famiglia dell’Asse I, l’obiettivo iniziale era quello di abbassare alcune caratteristiche di EE o caratteristiche correlate dell’ambiente familiare che hanno mostrato che influenzano negativamente il corso del disturbo. È stato interessante notare che, quando si usava la stessa metodologia di ricerca con i pazienti disturbo borderline di personalità, i risultati erano contrari a quelli ottenuti per i disturbi di Asse I: più i membri della famiglia erano “emotivamente coinvolti” con il paziente, meglio il paziente stava nel corso di un anno della malattia. È stato significativo questo risultato perché ci dice che “aiutare i membri della famiglia a stare emotivamente con il paziente” può essere importante per il benessere del paziente (Zanarini, 2002). Il programma Family Connections è stato concepito con l’obiettivo di sostenere i membri della famiglia nei loro sforzi per essere emotivamente coinvolti con i loro familiari in modo efficace, per aumentare il proprio benessere e anche avere un effetto positivo sul parente con il disturbo borderline di personalità.

Le basi teoriche del family connections

Il programma Family Connections si basa su due modelli teorici ben noti. Il primo è il modello d Lazarus e Folkman (1984) sulle strategie per far fronte allo stress (strategie di coping) e di adattamento che si concentra sui punti di forza, sulle risorse e sulle capacità di adattamento dell’individuo. Tale modello si basa sull’ipotesi che quando l’individuo incorre in eventi negativi difficili e sfide di vita il suo funzionamento sia interrotto (Mechanic, 1995). Secondo Lazarus e Folkman l’individuo si adatta alla situazione grazie all’uso di strategie cognitive e comportamentali (Lazarus & Folkman, 1984). Applicando questo paradigma, possiamo dire che la malattia del familiare è un fattore di stress per il parente che ne altera la qualità della vita. Questi fattori richiedono l’utilizzo di risorse personali, come le abilità di coping, da parte dei familiari per far fronte alle difficoltà legate al disturbo di cui è affetto il familiare. L’apprendimento e lo sviluppo, quindi, di queste strategie di coping aiutano il membro della famiglia a gestire lo stress presente nell’ambiente familiare (Hoffman, 2007).

Il secondo modello su cui si basa il programma Family Connections è il modello di trattamento della terapia dialettico- comportamentale (DBT). Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia della DBT nel trattamento disturbo borderline di personalità (Linehan, 1993a; Linehan, Heard & Armstrong, 1993; Verheul, Van Den Bosch & Koeter, 2003). Nel programma Family Connections viene spiegata la teoria biosociale eziopatogenetica della DBT, e vengono utilizzate alcune abilità individuali insegnate ai pazienti nella DBT standard (Hoffman, Fruzzetti, & Swenson, 1999), e altre competenze sviluppate specificatamente per i membri della famiglia (Fruzzetti & Hoffman, 2002, Fruzzetti & Fruzzetti, 2003, Fruzzetti, 2006). Inoltre basandosi sulla dialettica dell’accettazione e del cambiamento della DBT, i familiari di pazienti con disturbo borderline acquisiscono competenze che promuovono una visione d’equilibrio tra i loro bisogni, da una parte, e le esigenze della persona cara dall’altra (Fruzzetti, Santiseban & Hoffman, in stampa, Fruzzetti & Iverson, 2006).

Il formato e la struttura di Family Connections sono stati formulati operando una sintesi di diverse modalità di trattamento: (1) i programmi di psicoeducazione familiare, un approccio che esiste da oltre 30 anni con altri disturbi psichiatrici (Anderson, Hogarty & Reiss, 1980); e (2) i programmi di educazione familiare, in particolare il “Family to Family”, creati dalla National Alliance for the Mentally Ill’s (NAMI; Dixon, Lucksted, Stewart, et al. 2004). La psicoeducazione familiare viene condotta da professionisti della salute mentale e prevede la partecipazione dei familiari e, in alcune fasi, anche dei pazienti. Nella seconda categoria di interventi, quella dell’educazione familiare, sono i caregiver a tenere, dopo opportuni training, interventi educativi rivolti unicamente ai conviventi dei pazienti (Martino, 2014).

Il programma Family Connections

Il programma di Family Connections ha primariamente l’obiettivo di aiutare i familiari di pazienti con disturbo borderline a raggiungere il proprio equilibrio interiore e, solo successivamente, di favorire il sostegno psicologico del proprio caro. “Non è egoismo – spiegano gli autori di Family Connections – Proprio come sugli aerei, questo corso aiuta a capire come indossare la maschera per l’ossigeno prima di aiutare gli altri!”.

Il programma è strutturato in 6 moduli che comprendono interventi didattici sul disturbo e strategie basate sulla Dialectical Behavior Therapy standard (DBT; Linehan, 1993) per famiglie. Nel modulo introduttivo viene fornito materiale informativo e le ricerche scientifiche più aggiornate sul disturbo borderline, oltre che essere spiegate le modalità degli incontri.

Nel secondo modulo viene svolta una psicoeducazione sull’eziologia del disturbo, sui trattamenti, sulla comorbilità e viene spiegato cosa si intende per disregolazione emotiva.

Il terzo modulo entra nel vivo della parte pratica-esperienziale: vengono insegnate abilità individuali e relazionali per favorire il benessere emotivo (gestione delle emozioni, mindfulness relazionale, riduzione del giudizio e della reattività alle emozioni negative).

Si prosegue con l’apprendimento di abilità familiari per migliorare la qualità delle relazioni familiari e le interazioni (ridurre i sensi di colpa e la rabbia, skills di accettazione nelle relazioni).

Il quinto modulo è dedicato a come mettere in atto la validazione di sé e degli altri. Nell’ultimo modulo vengono insegnate skills di gestione e soluzione dei problemi (definire accuratamente il problema, problem solving in collaborazione, scegliere in base alla situazione quando usare strategie di accettazione e di cambiamento). Ciascun incontro prevede (I) il riesame delle attività pratiche e degli esercizi dati la volta precedente, (II) la parte teorica e (III) uno spazio conclusivo dedicato alle domande e al confronto.

Come indicato dalle stesse linee guida internazionali (APA, 2001 & NICE, 2009) sul trattamento del disturbo borderline, il trattamento del DBP è possibile solo in un’ottica di approccio integrato che coinvolga anche i familiari di pazienti con disturbo borderline. Attualmente Family Connections è l’unico intervento gratuito di auto-mutuo aiuto, mentre esistono tre programmi familiari psicoeducativi: il Gruppo Familiare Multiplo (Gunderson, 1997), il Dialectical Behavior Therapy-Family Skills Training (Hoffman & Fruzzetti, 1999), il RenoProgram (Fruzzetti, 2006).

Studi di efficacia sul Family Connections

In uno studio condotto con 44 familiari di pazienti con disturbo borderline, la partecipazione al programma Family Connections ha portato alla riduzione del carico familiare, della sensazione di lutto e a un aumento delle capacità di controllo e gestione delle situazioni critiche al termine del percorso. Tali risultati si sono mantenuti anche a distanza di tre mesi (Hoffman, 2005).

Questo studio è stato replicato con 55 familiari di pazienti con disturbo borderline, valutati prima del percorso, immediatamente dopo e a tre mesi dalla conclusione del Family Connections. (Hoffman, 2007). È stato trovato che i familiari esperiscono un forte distress ma beneficiano di questo programma di gruppo semistrutturato: in particolare dalla valutazione effettuata subito dopo il termine degli incontri è emerso che il livello di carico familiare (soggettivo e oggettivo), la sensazione di lutto, la depressione diminuiscono mentre il senso di efficacia percepita nel far fronte alle situazioni è aumentato. Dal follow-up a tre mesi la sensazione di lutto è continuata a diminuire e il senso di autoefficacia ad aumentare, mentre il livello di depressione e il carico familiare non hanno mostrato cambiamenti rispetto alla valutazione immediatamente successiva alla conclusione del percorso.

Il Family Connections in Italia

Il Family Connections è nato negli Stati Uniti e ora è presente in 19 Paesi tra cui l’Italia grazie a una rete di volontari. In Italia, Family Connections viene effettuato gratuitamente in diverse città: Brescia, Milano, Genova, Roma, Fano. Ma è attualmente in diffusione anche in altre città, per ulteriori informazioni http://borderline-italia.it/

Prospettive future per la ricerca

Possiamo individuare tre obiettivi importanti per le future ricerche sul programma Family Connections: (i) sviluppare studi per valutare se la durata del programma Family Connections di 12 settimane sia ottimale, (ii) condurre studi controllati randomizzati per comprendere meglio i cambiamenti a lungo termine sul benessere dei familiari e (iii) determinare l’impatto indiretto del programma sulla gravità del disturbo borderline di cui è affetta la persona cara.

Per quanto riguarda il primo scopo, non sappiamo nulla sulla lunghezza ottimale del programma Family Connections. Forse offrire un corso avanzato o sessioni di “promemoria” potrebbe migliorare i risultati o aiutare a mantenerli. Oppure l’aggiunta potrebbe rafforzare le competenze acquisite o facilitare il coinvolgimento a una rete di supporto con gli altri familiari. La durata del programma stesso potrebbe anche essere variata. Forse un programma più lungo sarebbe più vantaggioso, o un programma più corto è sufficiente. In alternativa, un programma più lungo potrebbe essere percepito come troppo oneroso, e un programma più corto potrebbe durare troppo poco per apportare dei cambiamenti significativi.

È importante notare però anche che, nonostante gli studi precedentemente presentati siano robusti, rispettabili e affidabili, le dimensioni degli effetti sono nel complesso modeste per la maggior parte delle variabili considerate. Ulteriori ricerche sui meccanismi di cambiamento, sulla durata ottimale del programma e così via forniranno probabilmente indicazioni utili a migliorare il programma esistente. Quindi, anche se è chiaro che l’attuale struttura e i contenuti del programma Family Connections siano soddisfacenti per i partecipanti e producono miglioramenti nel loro benessere, c’è ancora la possibilità di migliorare. Inoltre, per una serie è necessario implementare un trial controllato randomizzato. Anche se è improbabile che il semplice passare del tempo possa essere responsabile dei cambiamenti riscontrati, devono essere considerati altri fattori non specifici. Solo confrontando il programma Family Connections con un programma alternativo sarà possibile misurare il vero impatto del programma Family Connections stesso. Dovranno essere identificate le componenti del programma responsabili dei miglioramenti.

Inoltre, sarà auspicabile effettuare studi con un follow-up a una distanza superiore ai tre mesi dal termine del percorso per valutare gli effetti su un più lungo periodo.
Infine, è importante esaminare l’impatto sulla persona con disturbo borderline di personalità che ha il fatto che i suoi familiari abbiano partecipato al programma Family Connections. In base al modello transazionale su cui si basa il programma, se i membri della famiglia imparano strategie di coping più efficaci, trovano un maggiore equilibrio, riducono la loro negatività e imparano a essere più attenti e validanti con i propri cari, ciò dovrebbe avere una ricaduta positiva sul benessere dei familiari di pazienti con disturbo borderline. Ma questo non è ancora stato valutato: potrebbe non esserci alcun effetto oppure potrebbe esserci un effetto negativo (Hoffman, 2007).

Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari (2017) di Maria Zaccagnino – Recensione del libro

Il libro Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari illustra la classificazione e la definizione nosografica dei disturbi del comportamento alimentare secondo il DSM5 soffermandosi sui fattori di rischio e di mantenimento.

 

 La prefazione del libro Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari di Maria Zaccagnino è stata curata da Isabel Fernandez presidente dell’Associazione EMDR Italia e dell’ EMDR Europe Association.

I disturbi del comportamento alimentare sono molto diffusi e difficili da trattare. Si stima che l’ Anoressia Nervosa abbia un tasso di mortalità secondo solo agli incidenti stradali tra i giovani.

Il libro Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari illustra la  classificazione e la definizione nosografica di questi disturbi secondo il DSM5 soffermandosi sui fattori di rischio e di mantenimento.

Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari – I diversi trattamenti

Sono presi in considerazione gli approcci che hanno fornito i maggiori risultati positivi nella cura. Nel primo capitolo l’autrice si sofferma a descriverli, facendo ampio riferimento sia alla letteratura sia alla ricerca sul tema. La teoria cognitivo-comportamentale transdiagnostica dell’alimentazione di Fairburn considera l’eccessiva focalizzazione sul peso, sulla forma del corpo e sul controllo dell’alimentazione il nucleo centrale psicopatologico e descrive i principali fattori di mantenimento presenti in questi disturbi: perfezionismo, bassa autostima, scarsa efficacia interpersonale, controllo e rimuginio.

La Family Based Treatment è centrata sulle dinamiche familiari.

La terapia EMDR ha come obiettivo sia la comprensione del significato dello sviluppo e del mantenimento del disturbo in relazione agli eventi di vita traumatici, sia la rielaborazione degli eventi stessi.

Questi sono gli approcci con maggiori evidenze empiriche positive, nonostante anch’essi presentano innegabili limiti.

Inoltre, si sottolineano in Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari l’utilizzo dell’intervento farmacologico, anche se gli esigui studi clinici randomizzati non ne abbiano ancora verificata l’efficacia, e alcuni studi di neurobiologia e genetica che forniscono evidenze riguardo ai fattori di rischio sia relativamente al ruolo della serotonina, sia ai geni del recettore 5HT2A.

Il ruolo delle esperienze traumatiche nei disturbi del comportamento alimentare

L’autrice, però, centra la sua prospettiva sui fattori ambientali e prende in considerazione la teoria dell’attaccamento e il ruolo dei  traumi implicati nell’insorgenza e nel mantenimento dei disturbi. Oggi è sempre più evidente che certe traiettorie di vita costellate da eventi avversi e traumatici abbiano un impatto devastante sullo sviluppo dell’individuo dando spazio a esiti psicopatologici. L’evento traumatico, lo sviluppo traumatico e il trauma relazionale precoce possono concorrere a determinare conseguenze sulla salute psicologica e a marcare stati dissociativi, rilevati da diversi autori, nei disturbi del comportamento alimentare.

I limiti dei trattamenti recepiti anche dalle linee guida internazionali (le linee guida NICE indicano solo raccomandazioni di grado C per i DCA) sono uno dei motivi che hanno spinto la Zaccagnino a mettere a punto e applicare un protocollo EMDR.

Dopo aver illustrato i principi guida, le otto fasi del protocollo standard, Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari descrive il protocollo d’intervento nell’anoressia nervosa e le sue varianti che comprendono anche un protocollo per i genitori. L’autrice ritiene che solo con un lavoro specifico sulla genitorialità è possibile spezzare il circolo vizioso che mantiene la patologia e favorire uno sviluppo funzionale e adattivo dei soggetti coinvolti.

 Una prima indicazione che fornisce il testo è di istituire servizi e protocolli specifici in regime di ricovero, perché i servizi offerti al momento non rispondono adeguatamente ai bisogni di cura di questi pazienti. Un’ulteriore componente importante del trattamento è la psicoeducazione con l’assunzione di base che i pazienti debbano essere responsabili del cambiamento.

Il protocollo di gestione delle condotte di alimentazione disfunzionali nell’anoressia nervosa ha come cornice concettuale la teoria dell’attaccamento e prevede come obiettivo principale, prima di applicare le fasi del protocollo EMDR, di raccogliere una dettagliata storia di vita del paziente e del suo attuale funzionamento con una valutazione particolare della sua storia d’attaccamento. Sono fornite indicazioni specifiche rispetto all’indagine da condurre con il paziente per la raccolta delle informazioni anche nelle aree del comportamento alimentare e dell’immagine corporea. Naturalmente occorre condurre l’assessment all’interno di una relazione terapeutica caratterizzata da un clima di sicurezza e fiducia in modo da mettere in evidenza le risorse e incrementare la motivazione al trattamento. Inoltre sono previsti colloqui con i genitori per la raccolta di informazioni e per un intervento psicoeducativo dove viene spiegata la funzione e il significato del sintomo.

Una parte importante dell’intervento si basa sulla spiegazione del lavoro che sarà condotto con le parti (parti fragili, parti che proteggono, parti controllanti, ecc.) e con il protocollo EMDR che presuppone un lavoro preliminare di stabilizzazione. L’obiettivo è di arrivare ad un’integrazione coerente e unitaria del paziente. La stimolazione bilaterale è operata sulla parte bambina (esercizio del prendersi cura; tecnica degli occhi amorevoli) che vive dentro la paziente e che ha vissuto esperienze traumatiche, cercando di capire la modalità disfunzionali del suo prendersi cura di sé per costruire modalità alternative. Una volta individuati i target della storia relazionale e del disturbo si procede con il protocollo EMDR standard sugli episodi stessi. Una tecnica utile a far emergere le parti è la tavola dissociativa del momento del pasto che consente di identificare le diverse parti del sé e immaginare un luogo d’incontro sicuro per farle dialogare dando spazio sopratutto alla parte del controllo con l’obiettivo di rendere l’alimentazione una situazione il più positiva possibile.

Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari – I DCA in età evolutiva

L’ultima parte del volume è dedicata a una specifica sezione dei disturbi alimentari in età evolutiva.

La partecipazione e la collaborazione dei genitori in un’ottica transgenerazionale si rende indispensabile per il trattamento EMDR, così che possano emergere vulnerabilità  dalla storia del genitore e dalle difficoltà relazionali con il figlio e di gestione della sua sintomatologia che rappresentano i target da trattare con le stesse modalità riportate in precedenza.

La ricerca scientifica e la pratica clinica sono concordi nel ritenere che i disturbi del comportamento alimentare hanno necessità di una presa in carico globale e di protocolli d’intervento validati. Il protocollo per l’anoressia nervosa e quello specifico sulla genitorialità presentati nel volume hanno come obiettivo quello di elaborare i traumi che si trasmettono di generazione in generazione.

La speranza è che la ricerca empirica confermi i risultati preliminari positivi circa l’efficacia dei protocolli proposti.

La proteomica: una nuova via per la diagnosi e la cura delle demenze

Una nuova ricerca suggerisce che particolari proteine, importanti nella comunicazione tra i neuroni, potrebbero essere la chiave per sviluppare interventi precoci nella cura di diverse demenze.

 

Una ricerca sulle proteine sinaptiche associate alle demenze

Una delle proprietà più affascinanti del cervello è la sua plasticità sinaptica che rappresenta la base per l’apprendimento e la memoria, abilità che declinano gravemente nelle demenze. La perdita sinaptica è fortemente correlata alla gravità della demenza e risulta estremamente importante nella malattia di Alzheimer, la forma più comune di demenza neurodegenerativa seguita dalla demenza a corpi di Lewy.

La nuova ricerca del Karolinska Institutet, che ha visto la collaborazione di studiosi provenienti da Svezia, Norvegia, Ungheria e Regno Unito, aveva lo scopo di indagare, negli anziani affetti da demenza, la disfunzione sinaptica e di comprendere il possibile impatto di questa sulla gravità sintomatologica nelle diverse diagnosi della malattia.

La ricerca suggerisce che particolari proteine pre e postsinaptiche abbiano un’importante impronta molecolare predittiva e discriminativa delle malattie neurodegenerative e che possano di conseguenza essere impiegate per ideare interventi precoci di cura, quali ad esempio la rigenerazione sinaptica” ha affermato Erika Bereczki, autrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Neurobiologia, Scienze della cura e della società dell’Istituto svedese.

Grazie al progresso tecnologico delle analisi di proteomica (lo studio su larga scala delle proteine) il team di ricercatori ha identificato le proteine sinaptiche chiave, alla base della disfunzione sinaptica, associate al grado di declino cognitivo caratterizzante le demenze.

La ricerca ha un’importanza notevole poiché è il primo studio proteomico quantitativo di tessuti cerebrali pre-frontali svolto post-mortem, gli studiosi sono stati in grado di profilare l’intero proteoma sinaptico del morbo di Alzheimer, del morbo di Parkinson con demenza e della demenza a corpi di Lewy.

Le implicazioni dello studio

Bereczki ha concluso “I nostri risultati mostrano meccanismi condivisi tra i diversi tipi di demenza con importanti implicazioni per lo sviluppo di marcatori prognostici e diagnostici e l’implementazione di nuovi interventi terapeutici per migliorare il decorso della malattia. L’attenzione deve essere posta sulla disfunzione sinaptica e in particolar modo sugli interventi terapeutici orientati alla riparazione e rigenerazione delle sinapsi che possono essere una valida alternativa agli attuali approcci di cura”.

Schema Therapy e CBT tradizionale nel trattamento del Doc: spunti per una possibile integrazione

Un interessante lavoro di recente pubblicazione mostra le potenzialità dell’integrazione tra Schema therapy e CBT tradizionale nel trattamento di pazienti con Doc cronico o di grado severo.

Olga Ines Luppino

 

Gli schemi e i mode disfunzionali dei pazienti con Doc

Basile e colleghi (2017) in un recentissimo lavoro pubblicato su Clinical Neuropsychiatry si sono proposti di indagare schemi, mode e stili di coping in un campione clinico di 34 pazienti con Doc (età media 33 anni; ds: 8,38; 12 femmine).

Dopo una prima valutazione clinica volta all’accertamento del quadro diagnostico, ad ogni soggetto sono stati somministrati, individualmente e in ordine bilanciato, una serie di questionari volti ad indagare la severità della sintomatologia ossessiva, favorire l’approfondimento dei livelli di colpa e disgusto, rilevare la specificità e la pervasività di schemi, mode e stili di coping.

I pazienti, comparati con un campione omogeneo per età di soggetti tedeschi sani, hanno riportato punteggi significativamente più alti in tutti gli schemi e i Mode disfunzionali.

I risultati ottenuti da Basile e collaboratori si sono mostrati in linea con il modello già proposto da Gross e colleghi (2012) che, a partire dall’analisi di due casi singoli, aveva concettualizzato il Doc in termini di Schema therapy mettendo in luce la presenza dei Mode Bambino vulnerabile e arrabbiato, del Mode Genitore esigente, critico e punitivo e di due principali Mode di coping: il Perfezionista Ipercontrollante e il Protettore Distaccato.

In accordo con il modello appena descritto, il campione clinico di Basile e colleghi ha mostrato una elevata presenza dei Mode Bambino vulnerabile, indisciplinato e arrabbiato così come del Mode Genitore critico e punitivo, tipicamente frutto dell’introiezione di regole o esperienze passate di punizioni e rimproveri e capace di spiegare la severità della sintomatologia ossessiva.

Coerente con la pervasività del Mode Genitore la presenza del Mode bambino vulnerabile, con le sue emozioni negative di tristezza, solitudine, colpa e vergogna tipicamente sperimentate in risposta a sentimenti di fallimento, isolamento e neglect emotivo così come a vissuti di punizione o di critica subita per non aver corrisposto alle aspettative.

Dai dati è emerso infine l’utilizzo da parte dei pazienti Doc di strategie di distacco e di evitamento emotivo capaci di impedire il contatto con vissuti emotivi spiacevoli e bisogni frustrati ad essi associati; tali strategie, tradotte dal Mode Protettore Distaccato, sarebbero precocemente sviluppate dai pazienti nel tentativo di sopravvivere all’interno di un ambiente invalidante, esigente e punitivo. Meno significativo, il ricorso ad un coping di Ipercompensazione del tipo Perfezionista Ipercontrollante che crea distanza dalle vulnerabilità attraverso la tendenza a stare “in controllo”.

L’integrazione della Schema Therapy con la CBT tradizionale

Di notevole interesse la lettura che gli autori danno dei loro risultati alla luce della possibile integrazione con l’intervento mediante protocollo CBT tradizionale.

Il modello cognitivo del Doc proposto da Mancini (2016) vede un evento trigger, come il contatto con uno stimolo contaminato o un pensiero proibito, quale innesco per il soggetto di una valutazione di minaccia/errore rispetto alla quale si sente responsabile. Questa prima valutazione lo spinge a compiere rituali comportamentali, mentali o di evitamento, trigger a loro volta di valutazioni di autocritica e di vergogna. I pensieri e le emozioni coinvolte nel modello descritto possono naturalmente intensificarsi tanto più il soggetto mette in atto comportamenti disfunzionali quali l’evitamento, il controllo dei pensieri, la ruminazione.

All’interno di una cornice teorica come quella proposta da Mancini, una concettualizzazione secondo la Schema Therapy può offrire, secondo Basile e colleghi, un contributo importante nella comprensione e nella spiegazione di come il Doc si sviluppi e si mantenga nel tempo. La Schema Therapy dà ragione al fatto che esperienze negative precoci possano divenire sensibilizzanti rispetto agli specifici contenuti cognitivi ed emotivi del Doc, in linea con il ruolo di primo piano che nella storia dei pazienti Doc giocano le esperienze negative precoci con le figure di accudimento primarie, ricordate come particolarmente critiche, punitive, tendenti a mostrare disprezzo e rabbia (Tenore, 2016).

Tali esperienze potrebbero risultare dunque centrali nello sviluppo della particolare sensibilità riscontrata nei pazienti Doc a punizioni e standard severi associati alla possibilità di errore, a loro volta capaci di generare sentimenti di colpa, un senso di responsabilità esagerata (Salkovskis 1985, 1989; Mancini & Gangemi, 2016) e il timore del fallimento.

Basile e colleghi sottolineano quanto esperienze del genere possano contribuire allo sviluppo di specifici schemi maladattivi precoci (Punizione, Fallimento, Inadeguatezza, Standard severi, Pessimismo e Vulnerabilità al pericolo) a cui si associa un estremo timore di catastrofe possibile e, conseguentemente, un estremo bisogno di controllo al fine di evitare che l’evento temuto possa accadere.

Il lavoro, nonostante qualche limite, apre la strada ad una concreta possibilità di integrazione della Schema Therapy con la CBT tradizionale nel trattamento dei casi di Doc severo o cronico, con una storia traumatica alle spalle o che presentano comorbidità con disturbi di personalità. La Schema Therapy, integrata alla CBT tradizionale per il trattamento del Doc, può certamente permettere una più approfondita comprensione circa l’etiologia e lo sviluppo del disturbo.

Benzodiazepine: i farmaci per ridurre l’ansia – Introduzione alla psicologia

Le benzodiazepine (BZD) sono una classe di farmaci aventi proprietà ansiolitiche, sedativo-ipnotiche, anticonvulsivanti, miorilassanti e anestetiche, e, soprattutto, sono in grado di ridurre l’ansia e le sue manifestazioni fisiologiche, come palpitazioni, sudorazione, colon irritabile, etc.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

A partire dalla fine degli anni ’50, le benzodiazepine hanno totalmente sostituito i barbiturici grazie ai minori effetti collaterali prodotti da chi le ingeriva regolarmente.

Le BZD essendo farmaci possono essere prescritti solo dal medico e la scelta del tipo di benzodiazepine dipende dal disturbo che è stato diagnosticato e dagli obiettivi che si vogliono raggiungere.

Benzodiazepine: la storia

Le benzodiazepine sono farmaci derivati dal clordiazepossido, sostanza introdotta negli anni ‘60, avente proprietà sedative e ipnotiche che variano a seconda della molecola.

La struttura del clordiazepossido, fu sottoposta a delle modificazioni nel tentativo di ottenere farmaci con caratteristiche migliori. Nel 1959 fu sintetizzato il diazepam, una benzodiazepina fino a 3-10 volte più potente del clordiazepossido. Il diazepam fu commercializzato nel 1963 con il nome commerciale di Valium.

Successivamente, la ricerca nel campo delle benzodiazepine ha continuato a svilupparsi, ottenendo numerose nuove molecole utilizzate ancora oggi.

Il meccanismo d’azione delle benzodiazepine

Le benzodiazepine agiscono stimolando il sistema GABA-ergico, cioè il sistema dell’acido γ-amminobuttirico.
Il GABA è un γ-amminoacido ed è il principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello. Il GABA si lega ai suoi specifici recettori: il GABA-A, il GABA-B e il GABA-C.

Sul recettore GABA-A è presente un sito di legame specifico per le BZD, che legandosi a questo sito specifico, attivano il recettore e promuovono la cascata di segnali inibitori indotta dal GABA stesso. L’azione naturale del GABA è, dunque, potenziata dalle benzodiazepine, le quali esercitano un’influenza inibitoria sui neuroni. Quindi, le benzodiazepine sono attive solo in ​​presenza del GABA e, di conseguenza, l’azione sedativa è limitata alla quantità di GABA presente, a differenza dei barbiturici, che agiscono direttamente sul flusso di ioni cloro.

Tipi di benzodiazepine

Le benzodiazepine possono essere classificate in funzione della loro emivita plasmatica, ovvero la durata d’azione che mostra il farmaco.

Si hanno BZD a emivita breve o brevissima, 2-6 ore. A questa classe appartengono il triazolam e il midazolam; emivita intermedia, 6-24 ore, a questa categoria appartengono l’oxazepam, il lorazepam, il lormetazepam, l’alprazolam e il temazepam; emivita lunga, 1-4 giorni, tra cui il clordiazepossido, il clorazepato, il diazepam, il flurazepam, il nitrazepam, il flunitrazepam, il clonazepam, il prazepam e il bromazepam.

Non esiste una corrispondenza diretta tra emivita plasmatica e rapidità d’azione, in quanto, alcuni farmaci sono metabolizzati in altri composti attivi che ne prolungano la durata d’azione.

Effetti collaterali

Le benzodiazepine sono considerati farmaci sicuri e sono dotati di una bassa tossicità. Inoltre, possiedono un elevato indice terapeutico, ovvero si ottengono buoni risultati sui pazienti.

Raramente un sovradosaggio da BZD può avere esiti fatali, a meno che non siano stati contemporaneamente assunti altri farmaci o sostanze in grado di deprimere il sistema nervoso centrale, come barbiturici, oppioidi, alcool o droghe.

In ogni caso, si ricordano i seguenti effetti collaterali da esse prodotte: la sedazione eccessiva, la sonnolenza diurna, la confusione, la depressione, i disturbi della coordinazione, l’atassia e i disturbi della memoria, tra cui l’amnesia anterograda.

Le benzodiazepine possono presentare anche dei sintomi paradosso, come irritabilità, rabbia, collera, irrequietezza, etc.

La sedazione dell’ ansia comporta una certa riduzione della vigilanza, che a dosi elevate induce sonnolenza. Ciò comporta un maggior rischio di incidenti, automobilistici e sul lavoro.

L’alcol potenzia gli effetti collaterali appena elencati.

Chiaramente, anche le benzodiazepine, come altri psicofarmaci, provocano dipendenza fisica e psichica. Una volta che la dipendenza fisica si è instaurata una interruzione brusca del trattamento può portare all’insorgere di sintomi d’astinenza.

In ogni caso, la terapia deve essere sempre scalata gradualmente e non interrotta bruscamente. Infine, un uso prolungato di benzodiazepine porta a tolleranza verso la sostanza. Cioè si può andare incontro ad una riduzione degli effetti indotti dal farmaco, per cui è necessaria l’assunzione di dosi sempre maggiori per ottenere l’effetto desiderato.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Vincere denaro giocando d’azzardo: illusioni vs probabilità

Langer, psicologa dell’Università di Harvard, afferma che il gioco d’azzardo comporta nel giocatore la percezione illusoria di poter controllare il gioco; l’individuo finisce dunque per sovrastimare le sue probabilità oggettive di vincere.

 

Quando il gioco diventa d’azzardo

Il gioco d’azzardo ha da sempre occupato un posto importante in tutte le culture, società e classi sociali. Esiste da quando esiste l’umanità, non mancano infatti esempi di giocatori eccessivi nella storia: dagli imperatori romani Caligola e Nerone, fino, in tempi più recenti, a Fedor Dostojevskij. Da oriente a occidente, da nord a sud, in ogni cultura sono reperibili sia il gioco generico, sia il gioco denominato “d’azzardo”.

Da qualche anno assistiamo a una moltiplicazione dei tipi di gioco d’azzardo e il numero di giocatori cresce in rapporto all’aumento delle possibilità di partecipare a tali attività; questa accessibilità ha come corollario il fatto che i problemi connessi al gioco incrementino.
Attualmente un adulto su tre si dedica al gioco d’azzardo; per la maggior parte di essi è un’attività piacevole e divertente, ma alcuni sviluppano un atteggiamento patologico, ossia una vera e propria dipendenza.

Sono tre le condizioni necessarie affinché si possa parlare di gioco d’azzardo:

– il giocatore mette in palio una posta;

– una volta messa in palio non può più essere ritirata dal giocatore;

– il risultato del gioco si basa sul caso.

L’ultimo elemento è il punto cruciale del gioco d’azzardo: il caso implica l’impossibilità di controllare il risultato di un evento. Indica che il gioco non può prescindere dall’imprevedibilità, eppure non sempre il giocatore se ne rende conto.

Per il giocatore eccessivo, il gioco diviene fonte di eccitazione e rilassamento finendo con il comportare conseguenze nefaste per la propria vita. Chi non riesce a smettere di giocare, e quindi ha sviluppato una dipendenza, solitamente riporta di aver ottenuto una cospicua vincita nelle primissime volte in cui ha puntato una somma di denaro e questa informazione primaria ha influenzato la percezione delle successive possibilità di ricavo sovrastimandole. Anche le perdite vengono percepite in modo distorto, infatti è stato dimostrato che le persone riescono a quantificare correttamente quanto perdono nell’arco di pochi giorni, ma non in un intero mese, sottostimando quindi la quantità di soldi giocati.

L’illusione legata al gioco d’azzardo

Langer, psicologa dell’università di Harvard, afferma che chi gioca d’azzardo sviluppa la percezione illusoria di poter controllare il gioco; l’individuo finisce dunque per sovrastimare le sue probabilità oggettive di vincere. Un esempio d’illusione di controllo è stata studiata dallo psicologo Heslin nei casinò di Las Vegas: l’autore ha osservato che al gioco dei craps, quando i giocatori mirano a ottenere un punteggio elevato, lanciano i dadi con maggior forza rispetto a quando desiderano ottenere un punteggio più basso. L’illusione di controllo si traduce nell’energia trasmessa al dado quindi, in vari altri modi, l’individuo si convince che possano esserci delle strategie utili al fine di ottenere la vincita. Chi gioca vuole trarre vantaggio dalle puntate, ma il gioco ha un sistema di regole svantaggiose. A seconda dei giochi infatti, dal 2 al 50% della posta finisce nelle tasche dell’organizzatore. Eppure le persone tendono a perseverare nel gioco anche, e soprattutto, dopo continue perdite perché sentono il bisogno di dover compensare con una vincita, ma così facendo, statisticamente rischiano di dover rinunciare ad altre somme di denaro.

Il disturbo da gioco d’azzardo è un problema diffuso con importanti ripercussioni sulla società e sul singolo individuo. Quando s’instaura una dipendenza è difficile non emettere quel dato comportamento, per questo motivo una persona può arrivare a spendere tutti i suoi averi nella speranza di riprendere almeno una parte dei soldi persi, piuttosto che rivolgersi a uno specialista del settore.
“Data la rilevanza dei pensieri distorti nei giocatori d’azzardo problematici e la difficoltà a modificarli, può essere utile intervenire incrementando la consapevolezza in modo tale che queste persone possano fare i conti con le proprie distorsioni cognitive connesse al gioco d’azzardo ” (Toneatto).
La terapia con maggior efficacia terapeutica per il disturbo da gioco d’azzardo è la terapia cognitivo-comportamentale unita a specifiche tecniche quali la mindfulness.

L’eliminazione delle memorie per contrastare la dipendenza da cocaina

Un recente studio di Huang e colleghi, pubblicato sulla rivista Science, ha mostrato come l’attivazione del recettore β-adrenergico, che invia un segnale ai neuroni eccitatori della corteccia prefrontale infralimbica, promuova nei topi l’attenuazione dell’associazione tra droga e cue ambientale favorendo l’apprendimento per estinzione della ricerca della sostanza psicotropa, attenuando così il craving per la cocaina e la dipendenza da sostanze.

 

L’apprendimento per condizionamento alla base della dipendenza da sostanze

La dipendenza da sostanze è frutto di un processo di apprendimento associativo per il quale uno stimolo neutro acquisisce un valore motivazionale per il soggetto se ripetutamente associato all’uso di una sostanza (Hyman, Malenka, 2001) e va a consolidarsi così in memoria tale associazione; l’esposizione a stimoli condizionati dalla sostanza, che fungono da trigger per il soggetto dipendente, favorisce l’insorgenza e il mantenimento nel tempo del craving, cioè “un desiderio incontrollabile verso uno stimolo di rinforzo, inteso come elemento dell’ambiente in grado di attivare un comportamento di approccio verso l’elemento stesso” (Janiri et al., 2006).

Pertanto le memorie inerenti la sostanza, prodotte dall’associazione di uno stimolo ambientale con essa, giocano un ruolo cruciale nel mantenimento della dipendenza da sostanze e soprattutto aumentano il rischio di ricaduta nella sostanza, anche dopo un percorso di disintossicazione.

Le terapie basate sull’estinzione per ridurre il craving per la sostanza

Per tale ragione, le terapie cognitive basate sull’estinzione, cioè sull’esposizione ripetuta dello stimolo condizionato non seguito più dall’assunzione della sostanza, possono essere utilizzate per attenuare il craving per la sostanza psicotropa (Millan, Marchant, McNally, 2011).

Una notevole mole di letteratura neuro scientifica (Cosme, Gutman et al., 2016; Hafenbreidel, Twining, Todd & Mueller, 2015) ritiene che la corteccia prefrontale intralimbica (IL-PFC) sia l’area cerebrale fondamentale per l’apprendimento per estinzione e che giochi un ruolo nell’attenuazione della memoria originale, riducendo così il comportamento di ricerca della sostanza e prevenendo le ricadute quando si viene a contatto con cue ambientali associati alla sostanza.

Recentemente, a seguito della scoperta dell’importanza di questa specifica area cerebrale, la manipolazione farmacologica, favorente l’aumento delle funzioni cognitive di IL-PFC, viene considerata una buona strategia per incrementare l’efficacia della terapia cognitiva basata sull’estinzione (Huang, Li, Cheng et al., 2018).

In linea con la letteratura neuroscientifica sopra citata, lo studio di Huang e colleghi (2018) si propone di investigare più nel dettaglio, sui topi, il ruolo di IL-PFC nella formazione dell’apprendimento associativo di memorie legate alla sostanza tramite la manipolazione farmacologica dei recettori presenti in tale area, con lo scopo di attenuare l’associazione e promuovere l’estinzione del comportamento di ricerca e assunzione successiva della cocaina.

Lo studio prevedeva l’osservazione del comportamento dei topi a seguito della manipolazione farmacologica in IL-PFC in due compiti sperimentali basati su differenti paradigmi comportamentali: cocaine-conditioned place preference (CPP) e cocaine self administration (Huang, Li, Cheng et al., 2018).

Il paradigma cocaine-conditioned place preference (CPP) testa direttamente l’associazione tra l’ambiente e la sostanza psicotropa: dopo un training in cui i topi vengono condizionati alla ricerca della sostanza, si osserva una preferenza per l’ambiente (la gabbia) dove è avvenuta l’assunzione della sostanza.

Le esposizioni ripetute e successive dei topi ai luoghi che erano stati precedentemente associati con la cocaina senza però ricevere la sostanza innescavano il processo di estinzione e attivavano circuiti e aree cerebrali mediatori di questo processo, come la corteccia prefrontale infralimbica (IL-PFC).

Nello studio di  Huang e colleghi (2018), per dimostrare il coinvolgimento di  IL-PFC nell’apprendimento per estinzione, i ricercatori “allenarono” i topi tramite il paradigma CPP per la cocaina, cioè sostanzialmente andavano a generare una dipendenza da sostanze negli animali nei quali si creava un condizionamento tramite l’associazione mnestica gabbia-cocaina.

Dopo quattro giorni di training per innestare il condizionamento, il quinto prese avvio il processo di estinzione in cui ai topi venne somministrato, bilateralmente in IL-PFC, uno specifico farmaco (Huang, Li, Cheng et al., 2018).

È stato osservato che il farmaco esercitava un’azione di attivazione di specifici segnali preposti alla regolazione della plasticità sinaptica e mnestica, che a loro volta provocavano una cascata di reazioni chimiche che hanno condotto ad un significativo aumento di una sostanza in IL-PFC facilitante nei topi l’estinzione del condizionamento.

Tuttavia nella condizione sperimentale descritta poc’anzi, la manipolazione farmacologica avveniva per mano dello sperimentatore che dava ai topi la sostanza psicoattiva; utilizzando il paradigma cocaine self administration al contrario è stato possibile studiare i meccanismi cerebrali della dipendenza tramite un’auto-somministrazione della sostanza.

Quest’ultima poteva avvenire o tramite l’abbassamento di una leva da parte dell’animale o tramite l’esplorazione dell’ambiente tramite il naso (Huang, Li, Cheng et al., 2018), dopo la presentazione di un cue ambientale che poteva essere un suono o una luce.

Come nella precedente sessione, i topi venivano prima condizionati e successivamente si iniziavano i training per l’estinzione per diversi giorni, durante i quali avveniva la manipolazione farmacologica tramite l’iniezione di un farmaco.

Si è osservato che il farmaco provocava l’attivazione del recettore β-adrenergico in IL-PFC, che a sua volta induceva un’attivazione dei neuroni eccitatori, della medesima area cerebrale, che regolano l’apprendimento per estinzione di memorie legate alla ricompensa, cioè alla sostanza (cocaina).

Questi risultati, riportati da Huang e colleghi (2018) supportano la nozione che l’apprendimento per estinzione del comportamento di ricerca della sostanza è mediato da specifici recettori e segnali chimici; l’intervento di manipolazione farmacologica su tali reazioni ed eventi biochimici ha comportato l’impoverimento dell’associazione cocaina-gabbia (vedi CPP) e cocaina-cue ambientale (vedi cocaine self administration) favorendo così il processo di estinzione del comportamento di ricerca della sostanza (craving).

È bene sottolineare che tali studi sull’attenuazione delle associazioni mnestiche tramite il paradigma pavloviano del condizionamento classico, con manipolazione farmacologica sono ancora sperimentali e sono eseguiti sui topi; tuttavia in futuro, una volta indagati nel dettaglio i meccanismi neuronali che producono e mantengono la dipendenza da sostanze, sarà possibile intervenire non farmacologicamente sulle memorie consolidate per contrastarla.

Da Catania il Progetto “Mediterraneo: Aids e mediatori tra le terre”

La significativa presenza di stranieri in Italia e i continui flussi migratori mettono in primo piano l’esistenza di nuovi cittadini portatori di diritti, fra i più importanti quello alla salute; dal punto di vista sanitario, infatti, il profilo di salute degli immigrati si caratterizza per condizioni di disagio dovuto a fragilità sociale e persistenti problemi legati all’integrazione.

C. Desiderio, P. Uccellatore, S. Sapienza, M. Raspagliesi, S. Sofia 

 

 

Stranieri in Italia: il profilo di salute degli immigrati

Dal punto di vista sanitario, il profilo di salute degli immigrati si caratterizza per condizioni di disagio dovuto a fragilità sociale e persistenti problemi legati all’integrazione. Le condizioni di vita nei centri di accoglienza, dove si registra spesso sovraffollamento, rendono maggiormente vulnerabili questi gruppi di individui, spesso a rischio di malattie infettive.

Fattori aggravanti che rendono più esposte le popolazioni migranti sono il difficile accesso ai servizi sanitari e la non sempre adeguata accoglienza e fruibilità alle prestazioni, causate da barriere linguistiche e culturali e da una diversa rappresentazione del concetto stesso di malattia, salute e prevenzione. Gli stranieri in Italia, ma in generale tutti immigrati, pertanto, rappresentano una importante categoria di soggetti ai margini della prevenzione. Secondo gli ultimi studi condotti dalla SIMIT, un migrante su cinque si ammala di HIV solo dopo essere giunto in Italia. Per tale motivo è prioritario che il controllo e la prevenzione delle patologie infettive siano parte degli obiettivi fondamentali nella programmazione dei moderni sistemi sanitari, che devono avvalersi della cooperazione di gruppi di operatori in grado di mediare tra il sistema sanitario e lo straniero.

A tal proposito, il mediatore culturale con le sue competenze può fornire risposte efficaci ai bisogni dei soggetti stranieri in Italia promuovendo i servizi offerti dai diversi enti pubblici, e facilitando gli interventi messi in atto dalle istituzioni al fine di promuovere la presa in carico e la realizzazione di misure preventive destinate a tali gruppi. Fondamentale, quindi, formare nella popolazione immigrata una consapevolezza delle patologie infettive, in grado di tradursi in metodi più efficaci, che richiedono un’elevata adesione agli schemi terapeutici e un comportamento aderente per contenerne la diffusione.

Il progetto: Mediterraneo: Aids e mediatori tra le terre

Il Progetto “Mediterraneo: Aids e mediatori tra le terre” rientra nell’area dell’educazione dei mediatori culturali in sanità, con specifico riferimento alla relazione tra malattie infettive e immigrazione. Il progetto interprovinciale è stato realizzato a Catania, seguendo la metodologia tipica della ricerca-azione, caratterizzato da un iter formativo con l’intento di sviluppare una cultura di empowerment promossa da mediatori culturali e immigrati.

Il corso, rivolto a n. 20 mediatori culturali, ha avuto una durata complessiva di 60 ore, suddivise in attività didattica teorica e sessioni pomeridiane di tipo esperienziale dedicate alle dinamiche di gruppo. La formazione ha permesso di migliorare le conoscenze cliniche e psicologiche relative alle malattie infettive, con particolare interesse alla patologia dell’HIV/AIDS, e ha ottimizzato le competenze comunicative e relazionali dei mediatori culturali riguardo prevenzione, comportamenti a rischio, diagnosi precoce e cura di tale patologia nella popolazione migrante.

Obiettivo prioritario è stato quello di formare figure capaci di elaborare le discrasie connesse alla multiculturalità. È stata così delineate una figura di mediatore specializzato nell’ambito della sanità, capace di fornire aiuto qualificato nella lotta alle patologie infettive: il Cultural Assistant Counselor (CAC). Tale figura ha acquisito conoscenze e capacità specifiche, per consentire la sensibilizzazione degli immigrati, così da poter ottenere una maggiore diffusione delle conoscenze sull’HIV/AIDS sulle modalità di accesso ai servizi sociali e sanitari.

La comprensione della patologia dell’ HIV associata alle conoscenze e competenze del mediatore, può aiutare ad affrontare le problematiche sociali e sanitarie che derivano dal rapporto prevenzione HIV/immigrazione e dal rapporto HIV+/emarginazione, e contribuire alla loro risoluzione. I soggetti immigrati con diagnosi di HIV, infatti, devono far fronte non solo al problema della discriminazione sociale in quanto immigrati ma anche all’esclusione a causa della sieropositività.

La valutazione dell’impatto della formazione ha avuto luogo attraverso la sperimentazione di un modello, nel quale la liaison tra mediatori culturali e immigrati è stata di grande rilevanza e significatività. Questa fase del progetto è stata caratterizzata da incontri di gruppo, focus group tematici e momenti di discussione e confronto, gestiti dai CAC nel ruolo di testimone e moderatore tra le parti. Si è provveduto a formare dei gruppi composti da una massimo di dieci partecipanti, condotti dal CAC e supervisionati da uno psicologo, così da poter ottimizzare le possibili difficoltà individuate nella comunicazione intersoggettiva.

Riguardo la fase della sensibilizzazione, i CAC hanno somministrato un questionario (P.P.A) appositamente strutturato, corredato da colloquio, per indurre i migranti alla prevenzione e alla diagnosi precoce. Il questionario è costituito da items capaci di testare le conoscenze generiche che la popolazione migrante possiede al riguardo: le differenze tra Aids e HIV, le vie di trasmissione, le informazioni sulle precauzioni adeguate da attuare nei rapporti sessuali, i metodi di esecuzione del test ,la terapia antiretrovirale e l’importanza dell’aderenza terapeutica. il P.P.A. è una modalità semplice, capace di creare una significativa mappatura della problematica.

In 90 giorni, i C.A.C. hanno sensibilizzato oltre 350 soggetti stranieri. I risultati emersi mostrano che il 52% dei soggetti non conosce la differenza tra HIV e AIDS, il 48% non ha mai fatto il test HIV e circa il 31% non conosce le procedure essenziali per avviarsi alla gestione clinica. In riferimento alle vie di trasmissione del virus HIV, i soggetti non sono consapevoli che il contagio può avvenire anche attraverso il liquido amniotico (85%) e le secrezioni vaginali (44%). Inoltre, un dato significativo riguarda la presenza di soggetti che ignorano tra le vie di trasmissione più comuni: la via “spermatica” (n. 84 soggetti) e la via ematica (n. 63 soggetti). Solo il 29% dichiara di non essere disponibile a partecipare ad incontri di gruppo su HIV/AIDS, evidenziando resistenze psicologiche non ancora standardizzate.

I risultati estrapolati dai diversi strumenti utilizzati, sintetizzano non solo la complessità nell’affrontare la tematica in oggetto, ma di fatto sostanziano il bisogno di un approccio eclettico e multifattoriale nella gestione delle patologie infettive.

Il carattere innovativo del progetto si fonda su un lavoro di empowerment condotto dal team di progettazione/formazione e dai CAC. Il mediatore culturale ha interiorizzato competenze facilmente fruibili in ambito sanitario e ha sviluppato la capacità di promuovere un incremento notevole di interventi che possono essere effettuati anche in contesti in cui è possibile solo un approccio breve. Le spiccate finalità preventive del progetto hanno favorito l’accesso ai servizi e la fruibilità di prestazioni, che rappresentano elementi fondamentali per il miglioramento delle condizioni di salute degli immigrati, anche in riferimento a situazioni di particolare criticità sanitaria come l’HIV/AIDS. Le conoscenze e capacità acquisite durante il corso di formazione hanno permesso al CAC di sensibilizzare gruppi di immigrati e utilizzare le informazioni ricevute attivando una rete sociale più ampia.

Il gruppo di lavoro ha messo in luce le potenzialità del rapporto vis-à-vis come elemento caratterizzante per ottimizzare la relazione con i soggetti stranieri, i diversi stadi del progetto sono stati funzionali allo sviluppo dell’ultima fase conferendole spessore e significatività. Il noumeno progettuale si è rivelato valido, attendibile e significativo, in quanto ha messo in luce un modello di sensibilizzazione long acting all’interno della comunità migrante.

Il progetto prospetta l’urgente necessità di una medicina interculturale in grado di tradurre tra loro culture e malattie, luoghi e persone. L’irruzione del “Nuovo” esige nuove visioni, riflessioni critiche e, insieme ad esse, la disponibilità ad incrociare in modo inedito schemi conoscitivi e discipline quali la medicina, la psicologia e l’antropologia. Una buona formazione è quella che coinvolge i partecipanti nella definizione dei bisogni di ciascuno, fornendo loro gli strumenti per generare quella capacità autoriflessiva a produrre idee ed esperienze.

Il disegno narrativo condiviso. Disegnare e raccontare nella psicoterapia con i bambini (2017) – Recensione del libro

Il disegno narrativo condiviso. Disegnare e raccontare nella psicoterapia con i bambini è un libro di Gianluigi Passaro, in cui racconta come abbia fatto del Disegno Narrativo Condiviso (DNC) il suo principale strumento di terapia con i bambini.

 

Questa tecnica si concretizza nella creazione condivisa di “Puntastorie”, narrazioni simboliche di vere e proprie storie di vita riguardanti il piccolo paziente. Il raccontarsi è un concetto fondamentale nel panorama psicologico, un bisogno naturale dell’essere umano. La capacità auto-narrativa ha, infatti, la funzione di intessere le esperienze e gli episodi della propria vita in una trama che abbia continuità e coerenza, permettendo di attribuire un significato al proprio vissuto e garantendo un senso di identità personale integro e costante nel tempo.

Passaro spiega come il sintomo e il disagio psicologico in generale, emergano come una voce quando un evento non viene elaborato emotivamente e, di conseguenza, resta al di fuori della propria storia di vita. Prestare loro ascolto, continua l’autore, è una possibilità che abbiamo per riprendere le fila del nostro vivere. Raccontare in terapia è richiamare una traccia non ancora sperimentata a livello emotivo e investirla proprio di emozione, in modo che possa tramutarsi in ricordo e assumere la propria posizione in mezzo a tutti gli altri ricordi. Solo quando il sintomo torna nella trama della vita, abbandona il suo compito di messaggero e contribuisce a dare fluidità all’esperienza. La psicoterapia permetterebbe, in questo senso, di raccontare la propria storia, vestendola di nuovi significati ed equilibri.

Il disegno narrativo condiviso in terapia

Questo è, a grandi linee, ciò che si propone di fare il Disegno Narrativo Condiviso, un disegno creato a due mani da paziente e terapeuta, che si arricchisce man mano di contenuti simbolici, fino a diventare una vera storia.

Una componente sostanziale della tecnica del disegno narrativo condiviso è la coppia paziente-terapeuta. Il disegno condiviso è creato da una nuova identità che va ben oltre la somma delle due singole unità. Lo spazio della terapia diventa dunque quel luogo di cura in cui paziente e terapeuta sono essenziali l’un l’altro e sono legati da un rapporto di reciprocità e dalla condivisione di una storia terapeutica, i cui fili sono intrecciati da uno e dall’altro.

Nella psicoterapia, ogni soggetto porta in gioco la propria intimità personale e, dall’incontro delle due, nasce l’intimità della relazione. Proprio in questo spazio avviene la co-narrazione di storie e la co-attribuzione di significati concettuali ed emotivi.

Per introdurre la tecnica del disegno narrativo condiviso, Passaro spiega come ogni forma di comunicazione con i bambini sia riconducibile al gioco e come, circa dai due anni e mezzo di età, gli individui siano in grado di rappresentare graficamente vissuti e sensazioni. Fin da piccolissimi, infatti, mostriamo una naturale attitudine ludica alla narrazione e alle relazioni: giocare con un racconto e, attraverso questo, connettersi agli altri, garantisce una finestra che metta in comunicazione il mondo interno con quello esterno, i propri bisogni e desideri con un contesto sociale che può o non può soddisfarli. Vi è quindi una propensione spontanea a organizzare l’esperienza in forma narrativa, sia fantastica, sia ludica o autobiografica. In un disegno è possibile individuare diversi livelli di evidenze: il livello storico, che riporta i fatti; il livello fantasmatico, con tutto ciò che riguarda il mondo intrapsichico del bambino, come paure e desideri; il livello relazionale, che appartiene alla relazione terapeutica e che fa da contenitore agli altri due.

Il disegno narrativo condiviso è una tecnica grafico-narrativa in cui la coppia bambino-terapeuta racconta una storia e che si ispira alla tradizione psicologica e psicanalitica sul disegno infantile, soprattutto allo Scarabocchio di Winnicott. Il disegno, chiamato Puntastoria, comincia tracciando su un foglio punti casuali, per poi unirli con delle linee, creando figure geometriche chiuse. A questo punto, a turno, paziente e terapeuta disegnano negli spazi creati oggetti e personaggi inventati. Dopo aver colorato le immagini, il bambino crea un racconto in cui siano presenti tutti gli oggetti e i personaggi rappresentati, mentre il terapeuta lo trascrive su un altro foglio, per poi rileggerlo ad alta voce.

Il disegno narrativo condiviso è, per sua natura, simbolico e per questo ogni sua componente è fonte di informazione: le posizioni sul foglio, il tratto, la scelta dei soggetti disegnati, l’uso dei colori, tutto è rappresentativo e contribuisce a delineare un profilo del paziente.

Gli scopi nell’utilizzare questa tecnica possono essere molteplici: esplorare il livello grafico del bambino, le capacità intuitive e di problem solving, le competenze logiche, semantiche e narrative, l’emotività e l’intimità. Il racconto creato diventa una storia personale, con emozioni, desideri, paure, tutto ciò che ci rende vivi o che ci costringe a rinchiuderci. La Puntastoria permette al piccolo di avvicinare questi aspetti, di dare loro voce, di riconsiderarli ed elaborarli. Una Puntastoria, inoltre, fornisce considerazioni sul paziente in un determinato momento e, accostandola ad altre, è possibile valutare lo stesso percorso terapeutico. Una buona storia include già al suo interno la via del cambiamento e la terapia è lo spazio narrativo in cui questa storia può prendere forma. Mentre i fatti rimangono gli stessi, infatti, è il narratore stesso a mutare e a trovare, nella storia, una nuova via per accedere ai problemi e alle emozioni.

Il libro Il disegno narrativo condiviso. Disegnare e raccontare nella psicoterapia con i bambini, scritto in modo chiaro e fluido, senza l’eccessivo uso di tecnicismi, si articola in due parti principali. La prima descrive la tecnica del disegno narrativo condiviso, le modalità di realizzazione e il razionale teorico di riferimento; la seconda parte, invece, presenta casi clinici con Puntastorie costruite con il singolo bambino e insieme alla diade madre-bambino, unità importante per l’allargamento del setting terapeutico al nucleo famigliare. L’introduzione di estratti dei racconti e dei disegni stessi, inoltre, fornisce elementi che permettono al lettore di concretizzare i principi principali. Un testo interessante per chi sia incuriosito dagli aspetti ludici e simbolici del lavoro terapeutico, centrali nelle relazioni con i bambini.

Collateral beauty: la metafora nella rielaborazione del lutto

Collateral Beauty: Ma che cosa è la bellezza collaterale? Come si può parlare di bellezza quando la tematica principale del film è la perdita di una persona cara?
La messa in scena architettata dai colleghi del protagonista mette in evidenza che Morte, Tempo e Amore sono strettamente collegati fra di loro.

Sharon Vitarisi, OPEN SCHOOL PTCR Milano

Il dolore del lutto nel film Collateral Beauty

Un giovane dirigente di nome Howard (Will Smith), pieno di passione, capacità creative e interpersonali, arriva al massimo della sua carriera lavorativa nel settore della pubblicità. Le sue motivazioni, la sua voglia di vivere e mostrare al mondo i suoi talenti si stronca per colpa di una grave tragedia personale: un lutto.

Il film Collateral beauty ci catapulta immediatamente all’interno del dolore del protagonista. Un lutto così grave da far perdere al giovane dirigente qualsiasi tipo di iniziativa, voglia di fare e di relazionarsi con le altre persone, conseguenze tipiche di uno stato depressivo molto grave da cui il protagonista non vede via d’uscita.

Ogni persona ha un suo modo differente e unico di reagire ai lutti. L’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara: solitamente si entra all’interno di uno stato di accettazione entro 18 mesi, cioè, al ritorno a una situazione confrontabile alla fase pre-lutto con un miglioramento del tono dell’umore e con un abbassamento delle problematiche psicosociali (Bonanno et al., 2002). Ciò nonostante, il lutto può diventare patologico quando l’individuo non riesce ad accettare che la morte è per l’essere umano inevitabile. Inoltre, Parkes (1980; Parkes e Weiss, 1983) ha evidenziato che la qualità della relazione che viene interrotta dalla morte influenza il percorso di elaborazione (lutto conflittuale).

Il DSM-5 ha proposto, per la prima volta, la diagnosi di “disturbo da lutto persistente complicato”, caratterizzata da desiderio persistente e nostalgia pervasiva della persona deceduta, profondo dolore e pianto frequente o preoccupazione per essa. La persona può anche essere preoccupata per il modo in cui la persona è deceduta. Gli individui, inoltre, esprimono con una certa frequenza l’idea di seguire il destino del morto. Per la diagnosi, il DSM-5 richiede 6 sintomi aggiuntivi, riguardanti la sofferenza reattiva alla morte.

Il lutto di Howard è entrato nella sua vita sconvolgendola completamente; la sua difficoltà nel superarlo si è evidenziata fin da subito all’interno della pellicola. Infatti, dopo aver messo la propria azienda in una situazione quasi catastrofica, i colleghi di Howard non vedono altra soluzione che farlo interdire per ottenere le quote della società.

L’incontro del protagonista di Collateral beauty con i personaggi di fantasia di Amore, Morte e Tempo

Dopo averle tentate tutte, cercano di far risvegliare Howard tramite una vera e propria messa in scena, architettata con l’aiuto di tre attori non professionisti. Questo viene in mente a uno dei co-protagonisti che, parlando con la madre ormai affetta da Alzheimer, capisce che per scatenare qualcosa in persone che non riescono più a vedere la realtà così com’è si deve per forza entrare nella loro visione del mondo attuale. Per farlo, utilizzano delle lettere scritte da Howard a tre personaggi di fantasia: Amore, Morte e Tempo.

Secondo il dirigente queste tre entità sono le responsabili del grave lutto subito, questo è l’unico modo che trova per dare senso alla situazione che Howard sta vivendo.
I tre personaggi gli appaiono sottoforma di sembianze umane e cercano di spiegare a Howard il senso del loro operato: stare nei loro panni è molto difficile, Morte deve continuamente fare i conti con l’ineluttabilità della fine, Tempo deve sopportare che le persone non sfruttino al meglio quello che lui offre e Amore vive una contraddizione, tra felicità e tristezza.

L’efficacia del gruppo terapeutico per l’esperienza del lutto

Vedere le tre figure materializzarsi davanti a sé fa credere a Howard di essere completamente pazzo e lo spinge a partecipare a dei gruppi terapeutici.
Il gruppo è uno strumento molto efficace per chi vive l’esperienza dolorosa di un lutto. La cosa più importante che si sperimenta in un gruppo terapeutico è arrivare alla consapevolezza del fatto che non si è soli ad affrontare una perdita così grande. All’interno della stanza prescelta, le emozioni di rabbia, tristezza, collera che alla persona che le sperimenta sembrano essere insopportabili, diventano condivise e comuni a tutti. C’è finalmente un luogo dove condividere la propria esperienza: un luogo sicuro che permette all’individuo di raccontare la propria storia di vita o semplicemente di ascoltare l’esperienza di perdita dell’altro.

Ciò che il gruppo terapeutico mette a disposizione è la condivisione di vissuti dolorosi che spesso vengono trattenuti con familiari e amici più stretti. Inoltre, contrasta la tendenza delle persone che stanno vivendo un lutto a isolarsi.

Nell’ultimo decennio la ricerca si è impegnata nel trovare esiti valutabili, per l’individuazione di criteri di base del modello di intervento utilizzato e per l’analisi di efficacia dei gruppi di auto mutuo aiuto. Ad esempio alcune evidenze circa l’efficacia dei gruppi di auto mutuo aiuto sono pubblicate ne La Rivista di Psichiatria n.6 – 2004 nell’articolo intitolato “Gruppi di auto mutuo aiuto: la valutazione dei benefici dal punto di vista dei partecipanti” promossa dall’ISS, Istituto Superiore di Sanità. In questo studio sono state effettuate valutazioni su diverse tipologie di gruppi terapeutici, compresi quelli sul lutto, tramite un questionario denominato V.AMA (Valutazione AMA). Il V.AMA è costituito da 15 item sulla qualità di vita e sui benefici percepiti dai membri dei gruppi di auto mutuo aiuto. Ciò che è emerso sono i benefici oggettivi della partecipazione ai gruppi, e la riproducibilità soddisfacente di questa metodologia di valutazione.

Il protagonista di Collateral beauty riscopre all’interno di questo percorso una strada per elaborare ciò che gli è successo. Sicuramente si evidenzia da subito che questa via verso l’accettazione sarà molto lunga e difficile per lui. Più che accettazione bisognerebbe parlare di adattamento; adattarsi a tutto quello che viene dopo la perdita della persona cara. Tornare alla propria vita senza quella parte essenziale a cui ci si era abituati ormai da molto tempo: una chiacchierata, uno scambio di opinioni, un abbraccio o una carezza sul divano. Tutto questo andava indirettamente a costruire un pezzo della propria identità che ora è del tutto sconvolta. Come diceva Bowlby (1979), le emozioni più laceranti vengono sperimentate in situazioni di costruzione, mantenimento e soprattutto di rottura dei legami affettivi. Le separazioni (perdite relative) e i lutti (perdite assolute), sono eventi che evidenziano maggiormente, in termini di elaborazione cognitiva ed emotiva, le dimensioni di significato personale più tipiche della nostra struttura, il nostro più profondo, nucleare, sentimento di noi stessi e del mondo. E questi sono i momenti in cui gli individui fanno gli sforzi più evidenti e più intensi per conservare integro il senso di continuità e di coerenza interna, cioè, la propria struttura identitaria, nonostante la perdita di quell’elemento che andava inevitabilmente a definirla.

Collateral beauty: che cos’è la bellezza collaterale?

Ma che cosa è la bellezza collaterale? Come si può parlare di bellezza quando la tematica principale del film è la perdita di una persona cara?
La messa in scena architettata dai colleghi del protagonista mette in evidenza che Morte, Tempo e Amore sono strettamente collegati fra di loro.

Morte equivale a una fine, un’incertezza all’interno di una vita frenetica che vorrebbe avere a disposizione più Tempo e molte volte queste due entità entrano in conflitto con Amore; Amore che ha dentro di sé un paradosso: ci innamoriamo per essere felici, ma dobbiamo sapere che quella felicità è sfuggente, può tramutarsi in qualsiasi momento in dolore, ma se non ci fosse la possibilità di amare non potremmo definirci umani. Amore piange e si dispera, si ricorda che Tempo e Morte la possono fermare in qualsiasi momento. E quindi cosa fare? Amare o non amare? Continuare a vivere oppure fermarsi in quella condizione di non-esistenza che il lutto porta con sé?

Secondo il grande filosofo L. Binswanger l’uomo ha la possibilità di scegliere tra due tipi di esistenza: autentica e inautentica. Se rispetta la propria autenticità, l’individuo può vivere in modo creativo e sviluppare le proprie potenzialità. La persona autentica è attiva ed incide sul mondo e nelle relazioni interpersonali, sa stabilire l’intimità (modo duale). La persona che vive un’esistenza inautentica rimane su un piano formale e superficiale (modo plurale). Essa rimane statica e immobile in quanto si allontana dalla sua più autentica dimensione esistenziale e perde l’occasione di sviluppare le proprie potenzialità. Binswanger sottolinea che questa scelta è determinata dal modo in cui ciascun individuo si sviluppa; questo dipende da una molteplicità di fattori, tra cui l’ambiente umano e sociale in cui egli è vissuto. Tuttavia egli, al di là dei condizionamenti del suo passato, degli stimoli esterni e degli impulsi può, comunque, autodeterminarsi e diventare artefice del suo destino.

Prendendo d’esempio il discorso di Binswanger è ora possibile cercare di approfondire il concetto di “ collateral beauty ”. Tutto ciò di cui l’individuo fa esperienza, dalle sue relazioni ai suoi successi, dall’amore, al tempo perduto o guadagnato, dal dolore fino alla morte, è l’insieme di un’esistenza ben precisa e articolata. È la ricerca di senso che guida la vita di un essere umano ed è proprio nel lutto che quei significati fino a quel momento raggiunti, sembrano sfumarsi per poi perdere valore. Tutto ciò che il protagonista ha raggiunto nel corso degli anni perde improvvisamente importanza. Howard cerca disperatamente un perché di quella morte, non rendendosi conto che quella ricerca esasperata lo stava facendo entrare in uno stato di esistenza inautentica.

Il lutto è un evento che compromette o minaccia gli scopi e gli obiettivi personali (Perdighe e Mancini, 2010) che si sono fino a quel momento perseguiti; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia tutto ciò che è connesso a questa perdita. Dopo la morte di una persona cara, per giungere alla fase di accettazione, l’individuo deve cercare di orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili (Perdighe e Mancini, 2010). Tornare, quindi, in una fase di esistenza autentica; cosa che ad Howard appare impossibile.
Un’esistenza è già di per sé fonte di estrema bellezza: le emozioni umane, le sensazioni e tutto ciò che riguarda la vita è un dono inestimabile. Ma quando il dolore della morte di una persona cara sopraggiunge, questa bellezza sembra perdersi, in una spirale di pensieri ed emozioni negative.

Concludendo, cosa significa bellezza collaterale è difficile da definire a priori poiché si dovrebbero prendere in considerazione molteplici punti di vista. Bisogna lasciarsi emozionare e guidare dalla pellicola di Collateral beauty, cercando una propria definizione di “bellezza nel dolore”.

Lo sviluppo del morbo di Alzheimer: il dibattito è ancora aperto

I recenti progressi nell’imaging cerebrale hanno permesso agli scienziati di mostrare per la prima volta il ruolo di una proteina chiave nella morbo di Alzheimer, la quale si diffonde in tutto il cervello e causa la morte delle cellule nervose. La possibilità di bloccare tale diffusione potrebbe impedire alla malattia di svilupparsi.

 

Gli studi sinora condotti sul morbo di Alzheimer

Si stima che 44 milioni di persone in tutto il mondo vivano con il morbo di Alzheimer, una malattia i cui sintomi includono problemi di memoria, cambiamenti nel comportamento e progressiva perdita di indipendenza. Questi sintomi sono causati dall’accumulo nel cervello di due proteine: beta-amiloide e tau. La prima è il principale peptide delle placche amiloidi, o senili e ha origine dalla proteina APP, Amyloid Precursor Protein. Si suppone che, con lo sviluppo della proteina beta-amiloide, si verifichi la diffusione della proteina tau, responsabile della diffusione delle cellule nervose e di conseguenza dell’eliminazione dei nostri ricordi e delle nostre funzioni cognitive.

Fino a pochi anni fa, era possibile esaminare l’accumulo di queste proteine esaminando il cervello solo nei malati del morbo di Alzheimer post mortem. Tuttavia, i recenti sviluppi nella tomografia a emissione di positroni (PET) hanno permesso agli scienziati di osservare il fenomeno dell’accumulo delle proteine nei pazienti ancora in vita. La procedura prevede l’iniezione di un ligando radioattivo, il quale si aggancia a una molecola tracciante che a sua volta si lega al bersaglio al fine di essere rilevato dallo scanner PET.

Le ipotesi sulla diffusione della proteina tau nel cervello

In uno studio pubblicato sulla rivista Brain, un team guidato da scienziati dell’Università di Cambridge descrive l’utilizzo di una combinazione di tecniche di imaging per osservare le correlazioni tra i modelli della proteina tau e il cablaggio del cervello di 17 pazienti con morbo di Alzheimer, rispetto al gruppo di controllo.

Su come la proteina tau si diffonda in tutto il cervello è stato per molto tempo oggetto di speculazioni tra gli scienziati e ciò ha portato alla formulazione di diverse ipotesi.

Una prima ipotesi nota come “diffusione transneuronale”, nasce da alcuni studi effettuati sui topi, ai quali veniva iniettata la proteina tau “umana” anormale e si osservava una rapida diffusione in tutto il cervello. Il limite era sottolineato dalla quantità superiore di proteina tau nel cervello del topo rispetto alla dimensione del cervello umano.

Una seconda ipotesi fa riferimento all’ipotesi della “vulnerabilità metabolica” e sostiene che la proteina tau venga prodotta localmente nelle cellule nervose, ma che alcune regioni abbiano una maggiore richiesta metabolica e quindi siano più vulnerabili alle proteine. In questi casi il tau è un indicatore di angoscia nelle cellule.

La terza ipotesi si riferisce al “supporto trofico” e suggerisce che alcune regioni del cervello siano più vulnerabili, non per una richiesta metabolica come avveniva nella seconda ma per una mancanza di nutrizione nella regione o di modelli di espressione genica.

Grazie agli sviluppi nella scansione PET, è ora possibile confrontare queste ipotesi.

Un nuovo studio sulle connessioni del cervello dei malati di Alzheimer

Cinque anni fa, questo tipo di studio non sarebbe stato possibile, ma grazie ai recenti progressi nell’imaging, possiamo verificare quale di queste ipotesi concorda meglio con ciò che osserviamo“, afferma il dott. Thomas Cope del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche presso l’ Università di Cambridge, il primo autore dello studio.

Il Dott. Cope e colleghi hanno esaminato le connessioni funzionali all’interno del cervello dei malati di Alzheimer – in altre parole, come erano cablati i loro cervelli – e hanno confrontato questo con i livelli di proteina tau presenti. Le loro osservazioni li hanno portati a propendere per l’ipotesi della diffusione transneuronale, dove la tau prodotta in una determinata area si diffonde in altre regioni ma è in contrasto con le previsioni delle altre due ipotesi.

Se l’idea della diffusione transneuronale è corretta, allora le aree del cervello che sono maggiormente collegate dovrebbero avere il più grande accumulo di tau e lo trasmetteranno alle loro connessioni. È lo stesso che potremmo vedere in un’epidemia di influenza. Ad esempio, le persone con le reti più grandi hanno più probabilità di prendere l’influenza e poi di trasmetterle ad altri, e questo è esattamente ciò che abbiamo visto“, dice il professor James Rowe, autore senior dello studio e aggiunge inoltre: “Nel morbo di Alzheimer, la regione del cervello più comune dove compare la proteina tau è l’area della corteccia entorinale, situata vicino l’ippocampo, la “regione della memoria”.

La conferma dell’ipotesi di diffusione transneuronale è importante perché suggerisce che potremmo rallentare o arrestare la progressione del morbo di Alzheimer sviluppando farmaci per impedire alle proteine tau di muoversi lungo i neuroni.

Il confronto con la paralisi sopranucleare progressiva

Lo stesso team ha esaminato anche 17 pazienti affetti da un’altra forma di demenza, nota come paralisi sopranucleare progressiva (PSP), una rara condizione che influenza l’equilibrio, la visione e la parola ma non la memoria. Nei pazienti con PSP, la tau tende a proliferare alla base del cervello piuttosto che in ogni parte. I ricercatori hanno scoperto che il pattern di accumulo di tau in questi pazienti supportava le seconde due ipotesi, la vulnerabilità metabolica e il supporto trofico, ma non l’idea che il tau si diffondesse attraverso il cervello. I ricercatori hanno anche preso pazienti in diversi stadi della malattia e hanno osservato come l’accumulo di tau abbia influenzato le connessioni nel loro cervello. Nei malati di Alzheimer, hanno dimostrato che quando il tau si accumula e danneggia le reti, le connessioni diventano più casuali e probabilmente questo potrebbe spiegare i ricordi confusi tipici di tali pazienti.

Nei pazienti con paralisi sopranucleare progressiva (PSP), le “autostrade” che trasportano la maggior parte delle informazioni in individui sani ricevono il maggior danno, il che significa che le informazioni devono viaggiare intorno al cervello lungo un percorso più indiretto. Questo potrebbe spiegare perché, quando viene posta una domanda, i pazienti con PSP possono essere lenti a rispondere ma alla fine arrivano alla risposta corretta.

cancel