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Il tipo di relazione sessuale-affettiva influenza la scelta del contraccettivo – FluIDsex

La scelta dei metodi contraccettivi non dipende solo dalla loro efficacia. Essa dipende anche dal tipo di rapporto di intimità e fiducia che si ha con la persona con la quale si ha un rapporto sessuale o una relazione.

 

La sessualità non protetta è un’esperienza non rara e le conseguenze di questa condotta potrebbero essere gravidanze indesiderate e trasmissione di malattie, quali epatite, sifilide, herpes, AIDS, clamidia, gonorrea ed altre. L’unico tra i metodi contraccettivi capace anche di proteggere da malattie sessualmente trasmissibili è il preservativo, maschile o femminile, la cui efficacia (molto elevata) dipende dalle modalità di utilizzo dello strumento.

Un metodo come quello del backup control, che vede l’utilizzo di preservativo e altri metodi anticoncezionali (ormonali, ad esempio) può essere considerato la forma di protezione maggiore. Ma la scelta dei metodi contraccettivi non dipende solo dall’efficacia. Essa dipende anche dal tipo di rapporto di intimità e fiducia che si ha con la persona con la quale si ha un rapporto sessuale o una relazione, dal costo, dalla reperibilità e dalla facilità di utilizzo. Quando vi è intimità la scelta del metodo utilizzato può diventare una scelta che non riguarda più il singolo, ma diviene una scelta della coppia.

Uso dei metodi contraccettivi: uno studio su attività sessuale e relazione di coppia

All’Oregon State University è stato condotto uno studio longitudinale su 470 giovani adulti. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere ad una survey con domande sulla loro attività sessuale, sui propri partner, sull’uso dei metodi contraccettivi, sulla durata della relazione sessuale, sulla frequenza dell’attività sessuale e sull’esclusività. Sono stati inoltre misurati i livelli di impegno relazionale ed il processo decisionale sessuale (ruolo percepito di un individuo nelle decisioni riguardo all’uso dei metodi contraccettivi all’interno della coppia).

Dallo studio è emerso che il 41% dei partecipanti ha riferito di usare solo preservativi, il 25% metodi ormonali (pillole, anello vaginale, spirale IUD ormonale, etc.), il 13% un backup method ed il 21% ha dichiarato di non utilizzare nessun metodo di protezione dalle nascite e dalle malattie sessualmente trasmissibili (IST). Le scelte dei partecipanti allo studio dipendono dall’impegno percepito nella relazione e nella percezione del proprio ruolo nel processo decisionale rispetto alla vita sessuale. Dunque, la qualità e le dinamiche di una relazione sono importanti predittori dell’uso dei metodi contraccettivi.

Risulta inoltre che le decisioni rispetto ai metodi contraccettivi dipendono anche dal rischio percepito di contrarre malattie sessualmente trasmissibili o di una gravidanza, e questi due aspetti sembrano dipendere a loro volta da come le persone si sentono riguardano un particolare partner: quando la fiducia nella coppia aumenta diminuisce la paura di trasmissioni sessuali di malattie e così diminuisce a sua volta l’utilizzo del preservativo.

I risultati sono utili per ricordare ai professionisti della salute pubblica, tra cui medici, infermieri, ginecologi, sessuologi ed educatori sessuali come la comprensione della relazione che il paziente ha con il/i proprio/i partner sessuale/i diviene importante per inquadrare il comportamento del paziente stesso.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gli adolescenti e il brivido del rischio: i fattori neurologici e sociali alla base dei comportamenti impulsivi

Alla luce degli studi recenti, sorge spontaneo chiedersi se davvero gli adolescenti siano delle inarrestabili e autolesive macchine in corsa o se invece ci siano altri fattori coinvolti nella propensione al rischio in adolescenza.

 

L’adolescenza è un periodo estremamente delicato: solo nel 2015 si stimano circa un milione e mezzo di morti di età compresa tra i 10 e i 19 anni.

Più precisamente si calcola che la percentuale mondiale di decessi tra i 15 e i 19 anni sia del 35% più alta rispetto alla fascia di età che va dai 10 ai 14 anni, soprattutto per il genere maschile; le morti si verificano soprattutto a seguito di incidenti stradali, violenza interpersonale, autolesionismo e abuso di alcol o tabacco (Telzer et al., 2015).

Alcuni scienziati hanno teorizzato uno squilibrio nello sviluppo cerebrale degli adolescenti per spiegare i loro comportamenti impulsivi, promiscui e rischiosi. Il sunto centrale di tali teorie era che negli adolescenti le aree cerebrali legate all’impulsività e ad un’alta sensibilità alla ricompensa, specialmente in ambito sociale, fossero maggiormente attive rispetto a quelle prefrontali, più legate a processi cognitivi di controllo e inibizione dell’azione.

Da ciò l’idea che la mente adolescenziale fosse come una macchina in corsa folle con i freni bloccati.

Tuttavia a parere di Ted Satterthwaite, psichiatra e ricercatore in neuroscienze presso l’università della Pennsylvania, non tutti gli adolescenti mostrano questa propensione alla messa in atto di comportamenti autolesivi e rischiosi. In particolare una survey di Johnston e colleghi (2016) su un campione di 45 mila studenti statunitensi ha stimato come il 61% di questi tra i 17 e i 18 anni non abbia mai fatto uso di sigarette, e il 29% ha dichiarato di non aver mai bevuto alcol.

Sorge spontaneo chiedersi se davvero gli adolescenti siano delle inarrestabili e autolesive macchine in corsa o se invece ci siano altri fattori coinvolti nella propensione al rischio in adolescenza.

“L’adolescenza è un periodo delicato e vulnerabile ma non a causa del fatto che ci sia qualcosa di squilibrato nella mente dei ragazzi” (Ted Satterthwaite)

Studi recenti hanno iniziato a indagare e approfondire come i fattori sociali influenzino la propensione al rischio in adolescenza.

Steinberg, psicologo all’università di Temple, Philadelphia, tramite il compito “chicken game” in risonanza magnetica funzionale (2011), dimostrò come gli adolescenti fossero più propensi a mettere in atto comportamenti rischiosi e impulsivi quando veniva detto loro di essere osservati durante il compito, da un gruppo di pari.

Il “chicken game” è un videogioco che prevede che i ragazzi guidino nello scanner una macchina, attraversando 20 semafori in sei minuti. Nello studio di Steinberg, molti teenager decidevano di proseguire al primo semaforo rosso, altri aspettavano il verde. Un’interessante dinamica era rappresentata dal fatto che, quando ai teenager veniva detto di essere soli al momento di svolgere il compito, essi tendevano a rispettare i semafori con una frequenza simile ai giocatori adulti. Quando invece veniva detto loro, in modo menzognero, di essere osservati da un gruppo di pari, assumevano maggiormente comportamenti rischiosi che si accompagnavano ad una maggiore attivazione dello striato ventrale sensibile alla ricompensa.

Uno studio simile di Telzer e colleghi (2015) ha mostrato, al contrario, che l’informare i teenager di essere osservati dalle proprie madri, riduceva di molto la propensione a mettere in atto comportamenti rischiosi; tale riduzione si associava in risonanza magnetica funzionale all’attivazione dei circuiti prefrontali preposti all’inibizione dell’azione e al controllo cognitivo.

Un’altra ricerca di Peake e colleghi (2013) ha evidenziato come nei teenager l’esperienza dell’esclusione sociale da parte del gruppo dei pari giochi anch’essa un ruolo cruciale nella propensione a comportamenti rischiosi. In particolare sembra che i teenager che hanno vissuti di vittimizzazione o esclusione sociale siano maggiormente vulnerabili al rischio (Telzer, 2018).

La comprensione profonda dei contesti e delle situazioni che aumentano negli adolescenti la vulnerabilità ad assumere alcol o sostanze, a prendere decisioni sbagliate, rischiose o autolesive, può contribuire alla strutturazione di interventi di prevenzione rendendo possibile la realizzazione di contesti più positivi e di supporto.

Il gruppo dei pari può costituire una risorsa positiva per l’individuo, così come un elemento di vulnerabilità.

Uno studio di Hoorn e colleghi (2016), tramite videogioco, ha mostrato come i teenager a cui veniva chiesto di donare o tenere per sé una somma di denaro, tendevano a fare una donazione qualora approvati dal gruppo di amici, mentre se disapprovati tendevano con più frequenza a tenere per sé la somma di denaro. In aggiunta, tale studio ha sottolineato come la messa in atto di comportamenti prosociali da parte dei teenager fosse correlata con una maggiore attività di quelle aree cerebrali implicate allo stesso modo nel risk-taking, come il ventrale striato.

Quei soggetti maggiormente prosociali e che mostravano un’attivazione maggiore della regione ventrale dello striato tendevano a mettere in atto comportamenti più prudenti a lungo termine e ad essere meno vulnerabili alla depressione da adulti (Telzer et al., 2014).

Inoltre recenti studi hanno evidenziato come anche i fattori emotivi potrebbero influenzare e peggiorare le prestazione degli adolescenti in compiti di autocontrollo. Infatti nelle situazioni emotivamente neutre, gli adolescenti hanno delle prestazioni nei compiti cognitivi molto simili agli adulti, ma quando le situazioni presentate sono emotivamente negative o avversive, le prestazioni dei giovani nell’autocontrollo peggiorano (Cohen et al., 2016).

Di conseguenza prendendo in considerazione questa rassegna di studi, sembrerebbe che il risk-taking in adolescenza potrebbe riguardare una piccola porzione di teenager e non essere invece un fenomeno generalizzato a tutti gli adolescenti come si tende ingenuamente a pensare. Infatti ci sono evidenze che lasciano supporre come i processi che portano alla messa in atto di comportamenti rischiosi siano influenzati in larga parte dal contesto sociale e dai fattori emotivi.

Quali sono gli effetti dell’ossitocina sul cervello materno?

Un nuovo studio dell’Università finlandese di Tampere, ha rivelato che la somministrazione di ossitocina rafforza la risposta alle immagini dei volti di neonati e adulti nel cervello delle madri di bambini di 1 anno.

 

L’ ossitocina è un ormone che svolge un ruolo estremamente importante nel processo del travaglio, nell’allattamento e in generale nella cura del neonato.

L’influenza dell’ ossitocina nei legami sociali

L’influenza dell’ ossitocina sulla percezione dei volti, delle emozioni e di altre informazioni sociali è stata ampiamente studiata negli ultimi anni mediante la somministrazione dell’ormone per via nasale. Alcuni studi hanno dimostrato, ad esempio, che la somministrazione intranasale di ossitocina può aumentare il riconoscimento delle emozioni e l’attività cerebrale durante la percezione di un volto. L’ormone in questione quindi, sembra giocare un ruolo significativo nell’elaborazione delle informazioni interpersonali e nel mantenimento dei legami sociali.
Tuttavia ad oggi, sono stati condotti pochi studi volti ad indagare gli effetti dell’ ossitocina nelle madri di bambini piccoli.

Il ruolo dell’ ossitocina nell’elaborazione dei volti infantili

Mikko Peltola ricercatore dell’Academy Research dell’Università di Tampere e autore della ricerca ha affermato:

“Il principale contributo del nostro studio è quello di aver esteso la ricerca sperimentale riguardante l’ ossitocina alle madri di bambini piccoli che raramente sono incluse in questo tipo di ricerche”.

Lo studio aveva lo scopo di investigare se la somministrazione di ossitocina provocasse un effetto sulle risposte neurali in 52 donne finlandesi, divenute madri da un anno. Considerato il ruolo che l’ ossitocina riveste nell’accudimento, l’obiettivo specifico era quello di capire se gli effetti dell’ormone fossero maggiori in risposta all’elaborazione di volti infantili.

I ricercatori hanno utilizzo l’elettroencefalografia (EEG) per misurare le risposte neurali delle madri alla percezione visiva di facce di neonati e di adulti (stimoli sperimentali). Al fine di controllare le variabili sperimentali, prima di ogni misurazione veniva somministrata ossitocina, tramite l’utilizzo di uno spray nasale (condizione sperimentale) o una sostanza placebo (condizione di controllo).

I risultati hanno mostrato un aumento della componente N170 del segnale EEG in risposta alle facce dei neonati e degli adulti unicamente nella condizione sperimentale. La componente N170 riflette l’attivazione delle aree del cervello sensibili ai volti, suggerendo quindi che gli stimoli presentati attivavano queste aree con maggiore intensità solo dopo l’inalazione dell’ormone. L’analisi tuttavia non ha mostrato chiaramente se l’effetto dell’ossitocina fosse maggiore con i volti dei bambini o con le facce dei soggetti adulti.

Il professor Kaija Puura dell’Università di Tampere ha affermato:

“In futuro sarebbe interessante condurre ricerche studiando campioni più ampi al fine di determinare se l’ossitocina influenza specificatamente la sensibilità del genitore alle richieste del bambino”.

Maltese, un cantautore porzione “singolo”

Se un brano è figlio delle emozioni più profonde, allora Maltese ha trovato la “chiave” giusta per far musica d’autore: camminare, mano per mano con l’ascoltatore, su un viale dei sensi molto particolare, costruito da “porzioni singole” musicali.

 

Maltese: un cantautore che diffonde un nuovo modo di fare musica

Maltese è un cantautore torinese, noto per aver firmato pezzi importanti tra cui il diffusissimo Déjà vu e il suo è un progetto che si chiama, appunto, Single Portion. Un nuovo ed originale modo di fare e diffondere musica, pubblicare un singolo alla volta anziché far uscire un intero album. E’ evidente, che il suo slancio artistico e poeticamente anarchico, si muove verso una fruizione più libera della musica.

Maltese non vuole perdere il contatto con la realtà. Non vuole snaturarsi. Non vuole perdersi. E , soprattutto, non vuole veicolare sensazioni anche solo in minima percentuale diverse da quelle provate nel momento in cui, ad anima pura e gambe incrociate sull’universo, le stava creando. Si, perché Maltese non accetta di scendere a patti con le fredde leggi della statistica o dell’economia. No. Lui vuole condividere le sue idee, ovviamente per quanto possibile, nella stretta imminenza in cui le ha partorite. Una scelta onesta, coraggiosa. Un giuramento di fedeltà nei confronti di chi, nelle sue canzoni, potrebbe ritrovare se stesso. Ecco. Io credo che questo modo di “vendere” la propria arte, sia l’unico possibile in un contesto in cui tutto tende a sporcarsi di ipocrisia, finzione, apparenza.

I messaggi della musica di Maltese

Maltese, con le sue “monoporzioni” musicali mette al mondo brani e mondi fantastici che si connettono, senza derivazioni sterili e fuorvianti, al suo imminente presente, spezzando le catene di un immaginario statico e sterile. Arriva con forza, allora, il suo messaggio quando – con il suo primo singolo La legge delle cose, disponibile sul suo canale youtube e su tutte le piattaforme social – prende le distanze, con consapevole coerenza, dall’idea illusoria dell’amore eterno, accogliendone l’essenza più vera, quella che si muove sul filo del cambiamento, del distacco, della volubilità della vita.

Emblematico, il suo «Il mondo non si ferma tutto gira / tutto cambia questa è la Legge delle cose / non c’è respiro che sia eterno», passaggio intriso dal profumo dell’instabilità esistenziale. Ma anche in questo esporsi al vento della precarietà umana, torna a sorprendere, a fare un passo indietro. Torna più umano, più frangibile, quando supplica la sua donna di restare ancora al suo fianco, almeno «fino all’arrivo dell’inverno» per soddisfare l’esigenza terrena della condivisone. Del resto, sembra sussurrare alla sua compagna, se «hai già cambiato troppe volte la tua pelle per amore e con lo sguardo all’orizzonte hai perso l’ultima stagione» è solo per La legge delle cose, una regola astrusa che sconvolge progetti ma non uccide.

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I più comuni vissuti psicosomatici della gravidanza: cosa comunica il corpo

I sintomi in gravidanza di natura psicosomatica si manifestano quando alcune emozioni, ansie, conflitti non vengono accolti ed espressi e per questo vengono espressi attraverso il corpo. Le paure più frequenti sono quelle relative al parto, al timore di non essere delle brave madri o di perdere la propria vita precedente.

 

Le emozioni e i cambiamenti che caratterizzano la gravidanza

La gravidanza è un periodo nella vita della donna, caratterizzato da molteplici cambiamenti a livello sia fisiologico che psicologico e spesso essi risultano interrelati tra loro. Sin dalle prime fasi della gravidanza ci si interroga su come dovrebbe essere un buon genitore e se si sarà in grado di rispondere a tali modelli. In questo periodo più che mai si riattualizzano i ricordi legati alla propria infanzia e al rapporto con i propri genitori e possono riemergere conflitti non elaborati nelle fasi precedenti dello sviluppo (Imbasciati, Cena, 2015).

Ad essi, si associano dubbi, perplessità, ansie che se hanno la possibilità di emergere e di essere accettati ed elaborati per quello che sono, preservano maggiormente il benessere psico-fisico delle donne. Infatti, le mamme che tendono ad idealizzare completamente la nascita di un bambino, mettendo a tacere e negando eventuali preoccupazioni o vissuti ambivalenti che possono insorgere, sono quelle più a rischio di lievi disturbi (Finzi, Battistin, 2011). La soluzione può essere quella di porsi nei confronti della gravidanza e dei cambiamenti che essa porta con sé con un sentimento di accettazione dei molteplici e ambivalenti vissuti emotivi e psichici che possono emergere, senza temere o sopprimere eventuali paure, perplessità o ostilità che alle volte possono insorgere e che definiscono la complessità della maternità.

Da ciò si deduce come le modificazioni somatiche e i vissuti psichici si influenzino reciprocamente durante tutto il periodo della gravidanza e del parto. Sia il corpo che l’immagine di sé subiscono dei cambiamenti: l’aumento del peso, il senso di affaticamento, le modifiche apportate al proprio stile di vita possono essere vissuti dalle donne in modi differenti e alle volte può succedere che prevalga la sensazione di essere poco attraenti o il timore che non si riacquisterà più la propria forma fisica. In questo caso la propria identità femminile può risultare compromessa e il vissuto può essere quello di non accettazione di sé e del proprio corpo che cambia.

I sintomi in gravidanza

Uno dei sintomi in gravidanza che frequentemente lamentano le donne soprattutto nel primo trimestre sono le nausee: se da un lato sono legate principalmente ai cambiamenti ormonali tipici della gestazione, dall’altro sono alle volte espressione di sentimenti ambivalenti nei confronti della maternità; il timore degli sconvolgimenti che porta con sé l’arrivo di un bambino e la paura di non essere in grado di farvi fronte, possono comportare un’ambivalenza tra l’accettazione e il rifiuto della gravidanza e del bambino stesso (Benedek, 1952).

Un altro dei sintomi in gravidanza è l’ipersonnia, piuttosto frequente nel primo trimestre e può essere legata all’adattamento psico-fisico della donna allo stato gravidico ma può anche essere interpretata alle volte come un’identificazione con il feto o uno stato regressivo (Imbasciati, Cena, 2015).

Altri studi si sono, invece, soffermati sull’ansia e lo stress della mamma mettendoli in relazione con alcune possibili complicanze ostetriche, con il prolungamento del travaglio, con il basso peso del bambino alla nascita e con il parto prematuro (Standley e al., 1979; Bogetto e al., 2004, Paalberg e al., 1999). L’ansia e lo stress in gravidanza sembrano anche essere predittivi del temperamento difficile e di problemi comportamentali del bambino nei primi mesi e anni di vita.

I sintomi in gravidanza di natura psicosomatica, dunque, si manifestano quando alcune emozioni, ansie, conflitti non vengono accolti ed espressi e per questo vengono espressi attraverso il corpo. Le paure più frequenti sono quelle relative al parto, al timore di non essere delle brave madri o di perdere la propria vita precedente. Le preoccupazioni, i dubbi e i sentimenti ambivalenti sono molto comuni tra le donne in gravidanza, e talvolta possono generare stati ansiosi di diversa intensità o essere responsabili di alcune sintomatologie fisiche. Esprimerli, accoglierli, elaborarli in una dimensione sia individuale che di coppia costituisce un importante passo per salvaguardare il proprio benessere psico-fisico e quello del bambino.

Curo con il mio viso ma non lo conosco: l’integrazione tra Self Mirroring Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale nella disciplina interiore del Terapeuta

La tecnologia e la formazione sulla Self Mirroring Therapy vengono in aiuto del terapeuta nel raggiungere una disciplina interiore, attraverso una webcam verso di sé, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, per ottenere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Michela Alibrandi

 

Ciao Michela, che occhiaie stamattina! Sembri un panda! Ti senti bene?”. Esordisce cosi la prima paziente di un faticoso venerdì mattina. Qualche ora dopo, ripensando all’episodio, mi dico scolasticamente “Bene! Si è concessa di scherzare con me senza paura di offendermi, c’è ancora un po’ del suo accudimento ma non è così rilevante, tutto ok”.

Se mi focalizzo però sulle mie sensazioni, l’ ansia sottile con cui in quelle ore ho sbirciato la mia immagine riflessa, il pensiero ricorrente del 40° compleanno in arrivo, l’angoscia delle recenti notti insonni in allattamento, riconosco il timore sotteso, familiare, di non essere adeguata, risvegliato da quella frase.

Tutto ok? Per niente! Sul momento però non me ne sono accorta e sicuramente sono apparse sul mio viso espressioni inconsapevoli di ansia e irritazione che la paziente può avere colto, in maniera altrettanto inconsapevole.

Come funzionano gli Schemi Interpersonali

Queste dinamiche, in Terapia Metacognitiva Interpersonale, costituiscono materiale importantissimo di conoscenza e cura del paziente (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013)

Ogni essere umano viaggia nel mondo con il suo kit di Schemi Interpersonali, appresi e modificabili nell’arco dell’intera vita, che originano da desideri sani e universali (“wish”), come amare ed essere amato, appartenere al gruppo e cooperare, formare legami sentimentali e sessuali stabili, competere, esplorare ed essere autonomi.

A partire da queste motivazioni, e dalle risposte dell’altro ai propri desideri, la persona si approccia alla realtà, fa previsioni, interpreta e filtra le informazioni, ragiona sui propri comportamenti e le conseguenze ( “procedura se…allora” e “risposta dell’altro”: per esempio “se chiedo aiuto allora l’altro si arrabbierà” ). La risposta dell’altro (immaginata o reale ma interpretata alla luce dello schema), induce nella persona una strategia di coping (“risposta del sé alla risposta dell’altro”) di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale (proseguendo l’esempio: “se si arrabbia ha ragione perché non valgo niente”, tristezza, evitamento della relazione) ed una sottostante immagine di sé (in questo caso, “non amabile”).

Nella patologia, gli Schemi tendono ad essere negativi e totalizzanti, netti, difficili da mettere in discussione e generano emozioni molto intense nel paziente.

Gli Schemi del paziente entrano in gioco in tutte le relazioni, anche in psicoterapia, e si incontrano, a volte si scontrano, con quelli del terapeuta, mettendo in scena dei Cicli Interpersonali Disfunzionali tra i due protagonisti della seduta, dove il terapeuta incarna l’“Altro” del paziente e viceversa.

Il paziente ha delle aspettative sul terapeuta, guidate dai propri schemi, che moduleranno i pensieri, le emozioni e i comportamenti in terapia. A sua volta anche nel terapeuta si attiveranno i propri schemi con tutti gli elementi, ma a differenza del paziente, il terapeuta ne è consapevole (o dovrebbe esserlo), ha imparato a conoscerli, non se ne fa turbare ma li osserva in seduta serenamente e con curiosità, per poi rifletterci a casa, o nelle proprie supervisioni, utilizzandoli come fonte di informazione e di cambiamento per sé e per il paziente.

Come lavorare sui Cicli Interpersonali: la Self Mirroring Therapy

Bello, molto bello, ma come si arriva a questa disciplina interiore? La tecnologia e la mia formazione e ricerca sulla Self Mirroring Therapy mi vengono in aiuto e, non senza timore, decido di puntare una webcam verso di me, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, così da avere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Non si tratta di un semplice, per quanto efficace, videofeedback. La Self Mirroring Therapy è una tecnica che si applica in seduta con il paziente, che viene filmato nelle varie fasi della terapia (video 1) e poi filmato nuovamente mentre osserva e commenta il primo video (video 2). (Vinai, Speciale, 2013)

Osservandosi nel video 1, il paziente riesce a riconoscere meglio le proprie emozioni e a guardarsi con accettazione ed empatia, perché non implica più l’uso delle capacità autoriflessive, che spesso sono carenti, ma il sistema dei neuroni specchio, che viene normalmente impiegato in modo automatico e pre-riflessivo per comprendere le emozioni altrui ed empatizzare.

Tutto questo avviene in relazione stretta con un terapeuta esperto in Self Mirroring Therapy, che crea un clima disteso e di accettazione, ha in mente un progetto di cura e degli obiettivi sulla base dei quali seleziona e propone gli spezzoni di filmato più adatti, modula le emozioni del paziente, che a volte reagisce all’immagine di sé con sorpresa e spaesamento (mai, però, nella nostra esperienza, con rabbia o aggressività), sottolinea i suoi insight e li rafforza (Vinai, Speciale, Alibrandi, 2016)

Consapevole dei limiti dati dall’essere contemporaneamente “terapeuta del paziente” e “terapeuta o supervisore di me stessa”, l’esperienza di applicare la Self Mirroring Therapy su di me, alla ricerca dei Cicli Interpersonali Disfunzonali, è illuminante.

Self Mirroring Therapy: un caso clinico

Scelgo di registrare una seduta con un paziente “facile”, con cui sono a mio agio, dopo aver avuto il sospetto che questa mia rilassatezza fosse eccessiva, segnale di un probabile Ciclo Interpersonale Disfunzionale. Identifico le mie remore ad accendere la telecamera: se vedrò dei miei comportamenti che non mi piaceranno, potrei sentirmi incapace, scoraggiarmi e perdere energia nelle sedute successive, in uno Schema che recita, più o meno, “vorrei essere apprezzata, l’altro è critico, mi sento inadeguata, rispondo con il perfezionismo, se questa strategia fallisce e scopro dei difetti…è un disastro!

Dopo pochi minuti però dimentico la telecamera e tutto prosegue con naturalezza. Alla fine della seduta, rifletto sulle emozioni che ho provato e non ne identifico altre al di là della mia serenità, a parte qualche flash emotivo diverso che sul momento non reputo rilevante. Decido poi di guardare gli spezzoni di video relativi ai momenti più salienti, selezionati con i criteri con cui scelgo solitamente quelli da mostrare al paziente, ponendo l’attenzione sulla mia parte di “intervista doppia”, la mia faccia, e di videoregistrarmi mentre mi guardo (Self Mirroring Therapy).

Si alternano emozioni di curiosità benevola e di stupore. Una scena su tutte: il paziente con ansia sociale mi racconta di essersi avvicinato al bar dove lavora la ragazza che gli piace con l’intenzione di parlarle, in quel momento sul mio viso compare un’espressione tesa. “E’ l’interesse di sapere com’è andata a finire” mi direi, se non avessi il video che testimonia, in modo inequivocabile ai miei occhi, che è proprio ansia. Se non bastasse, mentre mi racconta di non essere riuscito perché gli sono tornate le solite paure, eccomi in una micro-smorfia di disappunto, che diventa per un attimo irritazione.

Il mio Schema dice “se non ce l’ha fatta dopo tanto tempo passato a parlarne con te vuol dire sei proprio scarsa, probabilmente di questo paziente non hai capito niente!”. I miei discorsi sono invece quelli corretti, da manuale, tanto che scelgo di abbassare l’audio, perché di fronte alle espressioni emotive le parole non hanno una grande importanza. Ho confermato al paziente il suo Schema: “se ti mostri debole, l’altro ti rifiuta”, tant’è vero che subito dopo lui cambia argomento, e sul suo viso compare per un attimo un’espressione di tristezza.

Resta ora da guardare il video 2, quello in cui ho ripreso le mie reazioni all’osservazione del video 1. Mi appaio totalmente rapita da ciò che sto osservando. Mi vedo mentre commento a voce alta. Sono buffa mentre ragiono: sposto lo sguardo verso l’alto, mi mordicchio un dito e borbotto discorsi incomprensibili tra me e me che diventano un’affermazione in maiuscolo quando tiro le conclusioni. Nel video 2 mi approccio alla registrazione della seduta con interesse scientifico ed esprimo riflessioni che suscitano altre riflessioni in me osservatrice, servirebbe un video 3 in una “never ending story” in cui non si finisce mai di imparare!

Ciò che però lascia davvero il segno, perché non mi è familiare, è vedermi mentre mi guardo con un’espressione benevola, curiosa, intenerita, non critica. Nel video 2 il mio sorriso è molto più pronunciato mentre guardo me stessa piuttosto che quando osservo il paziente. I timori che avevo all’idea di rivolgere la webcam verso di me si sono rivelati infondati: l’altro – me stessa – non è critico né sprezzante, anche in presenza di errori evidenti, ma vicino, interessato ed affettuoso, in una relazione che smentisce lo Schema mentre valida il sé.

Mi accorgo che ciò che definivo “disciplinare le emozioni” era in realtà ignorarle volutamente, talvolta inibirle, fino a perdere l’abitudine di sentirle, tutta concentrata sull’Altro, o a scappare da me. Una consapevolezza momentanea, a parole, che non corrispondeva ad una reale e profonda conoscenza. Vedermi benevola di fronte ai miei errori, invece, è un’esperienza molto più intensa, che contrasta con l’idea di un Altro ostile e giudicante. Nel video è immortalato un aspetto di me sano, creativo, divertito, che ha voglia di mettersi in gioco ed esplorare. Non è proprio questo ciò che desideriamo per i nostri pazienti: che facciano esperienza di parti di sé più sane e benevole, che possano gradualmente affiancarsi o sostituirsi a quelle che causano sofferenza? Allo stesso modo, il terapeuta che conosce e sperimenta degli aspetti nuovi e sereni di sé, un sé bendisposto, amichevole e costruttivo, si disingaggerà più velocemente dai Cicli Interpersonali Disfunzionali, o non se ne farà coinvolgere.

Decido di farmi un regalo: al posto della foto di mia figlia, userò come immagine di sfondo del cellulare un fotogramma di me con un’espressione benevola verso me stessa. La mia bimba se ne farà una ragione! Credo che sarà utile vederla spesso, durante la giornata, come un interessante promemoria: la disciplina interna è reale se diventa un assetto interiore costante di consapevolezza e relazione dinamica tra parti del sé, non relegabili al tempo della seduta (Salvatore, 2006). E può essere anche molto piacevole!

I fratelli aiutano a sviluppare l’empatia in infanzia

La ricerca ha mostrato come bambini con fratelli maggiori che mostrano più empatia, che sono più gentili, calorosi e solidali siano più empatici di coloro che hanno fratelli maggiori manchevoli di queste caratteristiche.

 

Sviluppo dell’ empatia: il ruolo dei fratelli e delle sorelle

Sin dalle prime fasi dello sviluppo, i bambini influenzano positivamente l’ empatia dei propri fratelli minori e maggiori. Così come i genitori, svolgono un importante ruolo nella vita dei più piccoli, fungendo da modelli ed aiutando i fratellini a conoscere il mondo. La ricerca ha infatti mostrato come bambini con fratelli maggiori empatici, gentili, calorosi e solidali siano più empatici di coloro che hanno fratelli maggiori manchevoli di queste caratteristiche.

Il presente studio si pone come obiettivo quello di esplorare il ruolo che l’ empatia dei fratelli maggiori possa avere sullo sviluppo dell’ empatia di quelli minori durante la prima infanzia, momento in cui le tendenze empatiche cominciano a svilupparsi. Lo studio, condotto dai ricercatori della Calgary University, della Laval University, della Tel Aviv University e della Toronto University su un gruppo di 452 coppie di fratelli canadesi e dalle loro madri prende in considerazione soggetti di etnia e background socio-economico diversificati.

L’ipotesi dei ricercatori israeliani e canadesi è la seguente: i livelli di empatia rilevati all’inizio dello studio nei fratellini di 18 e 48 mesi predicono dei cambiamenti direttamente proporzionali nei livelli di empatia nei 18 mesi successivi alla prima misurazione. I ricercatori per testare l’ipotesi hanno registrato le interazioni sociali quotidiane, mentre hanno chiesto alle madri di compilare dei questionari sui tipi di pratiche genitoriali vigenti in famiglia. L’ empatia dei bambini è stata misurata osservando le risposte comportamentali e facciali di ciascun fratello di fronte ad un ricercatore adulto che fingeva di essere angosciato (ad esempio in seguito alla rottura di un oggetto amato) o ferito (ad esempio dopo essersi schiacciato le dita in una borsa da ufficio).

Precedenti studi avevano dimostrato che fratelli maggiori e genitori svolgono il ruolo più significativo nell’influenzare la socializzazione dei più piccoli. Da questo studio emerge come anche il ruolo dei fratelli più giovani sia di cruciale importanza nello sviluppo empatico dei più grandi: l’influenza positiva dell’ empatia è un fenomeno reciproco tra fratelli minori e maggiori; le differenti pratiche genitoriali o il diverso status socio-economico non influiscono e non determinano alcuna differenza a riguardo. Nonostante ciò, più aumenta la differenza d’età più diventa efficace il ruolo del fratello maggiore come modello.

Confrontando inoltre le somiglianze ed eventuali differenze nell’instaurarsi di questo fenomeno in base all’età e al genere del fratello, i risultati non hanno mostrato particolari differenze, se non una che riguarda il gruppo fratelli minori/sorelle maggiori. In questo caso, infatti, i fratelli minori non hanno contribuito a cambiamenti significativi nell’ empatia delle sorelle maggiori.

Limiti e futuri sviluppi dello studio

L’utilità di questo studio sta nel sottolineare che tutti i membri della famiglia contribuiscono ad un positivo sviluppo dell’ empatia nei bambini. Sono i bambini stessi ad influenzarsi vicendevolmente, già dai primi momenti dello sviluppo, senza dover attendere la fase adolescenziale. Un importante passo successivo potrebbe essere quello di determinare se e come si possano coltivare maggiori tendenze empatiche nei bambini piccoli e se insegnando competenze empatiche ad un fratello minore e/o maggiore questo possa influenzare positivamente le competenze empatiche. Tale lavoro aiuterebbe anche ad affrontare la questione di come gli interventi familiari volti a promuovere esiti positivi dello sviluppo durante l’infanzia possano trarre beneficio dalle relazioni tra fratelli.

La forma dell’acqua (2018) di Guillermo del Toro: la psiche che condiziona il nostro sguardo sul mondo – Recensione del film

La psiche può condizionare profondamente il nostro sguardo sul mondo, la nostra weltanschauung, lo dimostra La forma dell’acqua, il film fantastico che Guillermo del Toro, dopo La Spina del Diavolo e il Labirinto del Fauno, torna a proporre al grande pubblico.

Pier Francesco Galgani

 

Le emozioni possono avere una forma? O meglio, ciò che custodiamo dentro di noi può influenzare i sensi tattili, visivi, olfattivi? Il nostro più intimo universo può sovvertire la realtà delle cose tanto da creare un legame indissolubile tra una donna e un essere d’aspetto sgradevole? Si. La psiche può condizionare profondamente il nostro sguardo sul mondo, la nostra weltanschauung. Lo dimostra La forma dell’acqua, il film fantastico (Oscar 2018 migliori lungometraggio, regia, colonna sonora e scenografia) che Guillermo del Toro, dopo La Spina del Diavolo e il Labirinto del Fauno, torna a proporre al grande pubblico.

La forma dell’acqua: la trama

Questa volta però, al centro della storia, sempre sopra le righe, mai banale e al limite del fiabesco, c’è il sentimento più antico del mondo e che, secondo molti, permette alla civiltà di continuare a sopravvivere: l’ amore. La trama de La forma dell’acqua è estremamente semplice: la nascita di un rapporto particolare e profondo che si origina tra due esseri molto simili.

Da una parte, Elisa, donna delle pulizie (interpretata dall’attrice britannica Sally Hawkins), priva della parola, intrappolata in una vita solitaria, con i giorni sempre uguali gli uni agli altri, nessuno scossone né diversivi. Nella sua esistenza, vuota come un deserto, la principale risorsa che le permette di continuare a vivere è il suo animo sensibile, chiuso in lunghi silenzi, pur in mezzo a folle gracchianti, ma pronto a farla rifugiare in fantasie e sogni ad occhi aperti, anche in pieno giorno.

Dall’altra, la creatura mostruosa, scoperta in Sudamerica e condotta negli Usa con la forza, dove in un laboratorio super segreto, il governo federale la studia e cerca di carpirne i segreti, in una rincorsa continua con Mosca, la patria del comunismo, che, solo pochi anni prima era riuscita a inviare il primo satellite nello spazio e poi il primo uomo in orbita, umiliando Washington e la sua classe dirigente.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM LA FORMA DELL’ACQUA:

 

Non sono pochi, durante il film La forma dell’acqua, i richiami alla competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la supremazia mondiale: la pellicola è infatti ambientata nei primi anni ’60, quando i contrasti tra le due superpotenze raggiunsero la massima intensità. Non manca il riferimento alla guerra delle spie – con i suoi omicidi improvvisi e atroci – e ad altri inequivocabili segni del momento. Emblematica, la voce del presidente Kennedy che pronuncia il discorso di avvio della crisi dei missili di Cuba, diffuso come un mantra nelle strade e nelle case della gente comune. Tensioni interne ed internazionali che trovano espressione nei toni cupi che informano i fotogrammi, a simboleggiare l’oscurità e la paura riflesse nel quotidiano di chi visse quell’epoca.

Anche l’immagine dell’essere, studiato da una torma di scienziati in camice bianco e con i tipici capelli a spazzola dei quegli anni, è un chiaro richiamo ai miti di quel periodo storico, come i leggendari alieni di Roswell che, secondo molti, dopo il tragico incidente del 1947, sarebbero stati esaminati per anni nelle gallerie sotterranee della mitica Area 51. Un essere metà uomo e metà pesce, sottoposto ad ogni genere di violenza ed esperimenti che, nella condizione di cavia da laboratorio, incapace a comunicare ed esprimere quello che prova ai suoi aguzzini se non con gemiti e risposte furibonde alle continue angherie, troverà il suo riscatto dapprima intrecciando un rapporto timoroso, ma pieno di comprensione con la muta Elisa, e poi trasformando quei timidi contatti, rivelatori di una inaspettata sintonia con la sognatrice umana, in un sentimento di amore.

I due protagonisti de La forma dell’acqua si trovano a fronteggiare condizioni di disagio purtroppo molto simili. Lui, sradicato da una bucolica realtà di acque e foreste amazzoniche, scaraventato in un mondo ostile e violento, in cui nessun essere umano ha i mezzi per – o, forse, non vuole – comprendere cosa provi o desideri. Un estraniamento dalla realtà, quello della creatura, favorito anche dalla diversità di aspetto e di modo d’essere. Difformità che genera un comportamento ambivalente nei suoi torturatori: da una parte un sentimento di paura istintiva, dall’altra la volontà di porre una barriera fatta di percosse e catene volta a tenere a bada non solo la sua forza fisica, ma anche le sue doti taumaturgiche, ben consapevoli di essere di fronte ad un essere destinato a distinguersi dalla massa e proprio per questo da soffocare, un po’ come accade spesso nelle opere di Franz Kafka.

La donna, solo in apparenza perfettamente integrata nella società americana del suo tempo, non ha, in realtà, un posto ben preciso nel mondo. Semplicemente non è, non ha un ruolo se non quello legato al suo lavoro. Solo una collega di colore e un vicino di casa misantropo e poco socievole si accorgono di lei e della sua esistenza. Per gli altri, è un essere anonimo che tenta di sollevarsi da un mondo che non le parla al cuore e che non fa nulla per accoglierla. La solitudine e le identiche condizioni di soggetti avulsi da una realtà che li respinge e li isola sono il fondamento da cui sboccia l’ amore tra due esseri esteriormente molto diversi: Elisa, la ragazza minuta e solitaria e la creatura, un ibrido tra uomo e pesce con sembianze mostruose, capace però di mostrare, con gli occhi e le espressioni del volto, un animo sorprendentemente umano.

La forma dell’acqua e l’amore verso il diverso

Il messaggio de La forma dell’acqua è evidente: l’ amore non può essere fermato, può nascere ovunque e tra chiunque e il diverso non è un qualcosa da temere o tenere lontano e isolare, poiché anch’esso può provare e donare amore. La scelta del regista di adottare dei contrasti tra luci e ombre per descrivere le tensioni internazionali di quegli anni, assume, poi, nel rapporto tra Elisa e la creatura, un significato molto diverso.

L’oscurità caratterizza la loro esistenza quotidiana, mentre la luce e i colori caldi e brillanti danno forma e sostanza ai momenti in cui i due si congiungono, ritrovando la loro essenza più pura. Molto toccante e piena di pathos, è la scena finale de La forma dell’acqua in cui gli amanti, finalmente liberi dalle costrizioni e dal dolore della realtà in cui sono costretti a vivere, si uniscono in un intenso amplesso che fa immaginare una loro ascesa negli abissi dove, come nella migliore tradizione delle fiabe, sarebbero vissuti felici e contenti.

Completano il cast la collega e amica di Elisa, Zelda, interpretata dall’attrice Octavia Spencer, che la sostiene sempre e comunque e che con la sua mimica facciale e i suoi occhi espressivi dà al film un tocco di ironia e talvolta di ilarità e Richard Jenkins, nei panni di Giles, il vicino di casa di Elisa e suo unico amico, insieme a Zelda, segretamente omosessuale e alle prese con altalenanti fasi della sua attività di designer pubblicitario. Una menzione a parte merita il cattivo della pellicola: il colonnello Strickland, capo del laboratorio dove venivano effettuati gli esperimenti sulla creatura e suo principale aguzzino. Ad impersonarlo, l’americano Michael Shannon, con le sue azioni al limite del paranoico e le sue movenze facciali nel contempo viscide e feroci. Ma i particolari che lo riguardano sono quelli più truculenti e, forse, meno adatti ad un lungometraggio che si muove sull’impronta di una nuova favola moderna.

Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche – Recensione

Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche, scritto da Nina Coltartpsicoanalista della British Psychoanalytical Society – viene pubblicato in italiano dopo venticinque anni dalla sua uscita. È una raccolta di contributi densi di uno spirito vocazionale profondo nei confronti di una professione contrassegnata da pensieri impensabili. Il manifesto di una teoria e di una pratica psicoanalitica nate da una consapevole e coraggiosa libertà di pensiero congiunta a una doverosa accettazione dell’inconoscibile.

 

Pensare l’impensabile e rendere noto l’ignoto in psicoanalisi

La “più indipendente degli indipendenti” consegna così al lettore il suo apporto, esclusivo e quanto mai attuale, su diversi temi del panorama psicoanalitico, poco esplorati, forse per un certo verso temuti e in linea con un progetto d’indagine temerario.

Sin dall’apertura del testo, affidata a una splendida poesia di Yeats, che anticipa e condensa il senso dell’intero libro, si scopre, incarnato nei versi del poeta, il viaggio misterioso in cui paziente e analista si imbarcano diretti verso una prospettiva di salute. Un inno alla complessità della professione psicoanalitica che attraverso il paradosso acquista un significato vivo e tangibile.

Nel contatto con ciò che è impensabile e che si muove lentamente nel buio del non noto, proprio come fa “una rozza bestia”, l’analista si trova nella posizione specifica di un atto di fede. A questo proposito Nina Coltart, riconoscendo l’aspetto ineffabile che appartiene alla professione psicoanalitica, una professione “precisa e profonda”, afferma: “[…] ogni ora con ogni paziente è anche, a suo modo, un atto di fede; fede in noi stessi, nel processo, e fede negli aspetti segreti, sconosciuti, impensabili nel nostro paziente che, in quello spazio che è l’analisi, arrancano aspettando il momento in cui sarà giunta infine la loro ora” (Coltart, 2017, p. 3).

Accostarsi a quelle zone d’ombra, significa, comprensibilmente, che ad essere sollecitati nell’analista non sono solo disorientamento e timore per la complessità con cui si confronta, ma, soprattutto, l’entusiasmo per la nuova nascita del paziente.  Un po’ come un funambolo in equilibrio sulla fune, dentro “l’atmosfera analitica” co-costruita dalla coppia, egli presta, con costanza, attenzione ai fattori che conserveranno il suo equilibrio e riserva uno sguardo benevolo verso i propri errori. È nell’ignoto “che muove verso il diventare noto” che l’analista scopre la creatività della propria tecnica e della propria intuizione.

È indubbiamente un lavoro di fede quello in cui sostando nel mondo interno del paziente, “dominato dall’anarchia”, egli attende che qualcosa prenda forma, astenendosi dal cedere a un comportamento imprudente e seducente e mettendo alla prova la sua “capacità negativa”.

L’attenzione, che rappresenta l’“impalcatura per ogni altra cosa”, come suggerisce Nina Coltart, costruita e affinata nel tempo, guida il lavoro e lo allontana dalla tendenza a vestire rigidamente un sistema di regole immutabili, “sacre”. Ad essa va riconosciuto il merito di favorire un monitoraggio costante, in cui l’analista può riconoscere l’influenza della personalità e delle maniere nel suo lavoro con il paziente e proteggersi dalla perdita di quella “freschezza”, propria dell’età giovanile, che tende a indebolirsi con l’avanzare di certezze indiscutibili; “quando piace il suono della propria voce, si è molto sicuri di avere ragione, si sviluppa la convinzione della propria autorità a pontificare e imporre il proprio punto di vista […]. Tutto ciò può essere – è – non solo molto noioso, ma anche antiterapeutico” (Coltart, 2017, p.99).

L’importanza della reciprocità e di sentirsi amati in psicoanalisi

La posizione di reciprocità umana è così, grazie all’ausilio dell’attenzione, riconosciuta e difesa, come quella di mutua scoperta e creazione condivisa. Si tratta di una conoscenza – quella verso cui tende l’analisi – che l’analista accetta nella sua intima natura, una conoscenza mai completamente afferrabile, mai completamente “alla sua portata”.

Il lavoro che avviene nella stanza d’analisi può essere pensato allora come “il lavoro della capacità di amare”, un lavoro la cui essenza può essere rappresentata da una combinazione di elementi che hanno il pregio di far sentire il paziente importante, compreso e accolto. L’utilizzo della parola “amare” riflette qui attentamente tutte le sue sfumature. Per essere più precisi, Nina Coltart si riferisce all’amore trascendentale e in quanto tale riconosciuto anche come “ […] l’unico contenitore affidabile entro cui potremmo sentire odio, rabbia o disprezzo per periodi di tempo variabili” (Coltart, 2017, p.119).

Lo studio che l’autrice propone, con questo testo, del mestiere impossibile dello psicoanalista è molto interessante e articolato. Predilige l’analisi delle istanze psichiche, in particolare del Super-Io e di temi a esso legati come l’angoscia e la colpa; si addentra nell’evoluzione, nelle tipologie e nei rapporti dell’angoscia con l’Io, proponendo, inoltre la distinzione tra il senso di colpa inconscio e la vergogna; porta in primo piano le qualità organizzative dell’Io e quelle “benigne” del Super-Io e la natura inconscia delle stesse istanze.

Psicoanalisi, filosofia e religione

Nella genesi, nella trasformazione e nei significati che propone riguardo a questi e altri aspetti che sono propri dell’uomo, tenta in modo audace di far dialogare psicoanalisi, religione e filosofia.

Non le si può negare, a mio avviso, proprio come anticipa al lettore, quasi chiedendogli uno sforzo attentivo, di essersi assunta un compito nient’altro che semplice.

L’ambiguità è una caratteristica che ho ritrovato molto di frequente mentre cercavo di esplorare la storia del peccato e della coscienza nella società, tanto che sono giunta a ritenere che essa sia praticamente inseparabile dal sistema morale degli esseri umani” (Coltart, 2017, p.63). In questo viaggio che arriva fino ad oggi, Nina Coltart affronta i temi dello sviluppo morale, del peccato, della colpa, della sofferenza e della riparazione, tentando una sintesi di un’analisi molto ampia, attraverso esigui richiami ai contributi dei principali rappresentanti storici.

Partendo, dunque, dalla ricerca di senso che caratterizza l’uomo lungo tutta la sua esistenza – anche la propria – arriva a proporre un modello di lavoro psicoanalitico che risponde a una personale filosofia di vita e il cui punto chiave mi sembra proprio quello relativo all’utilità che le viene attribuita.

Lo stile dialogico impiegato, inoltre, rende il lettore costantemente interessato alle sue riflessioni e lo conduce verso la comprensione del modo in cui la sua prassi, che appare a tratti paradossalmente rigorosa e allo stesso tempo comprensivamente aperta al non consueto, si integri in modo coerente con quello che definisce un mestiere impossibile. Di fatto, alcune delle sue “sfide” cliniche, “la terapia con un paziente transessuale”, “il paziente silenzioso”, “l’analisi con il paziente anziano”, proponendo suggestioni su argomenti controversi, rappresentano la testimonianza viva dell’operazione funambolica di armonizzare “la regola” con la “spontaneità intuitiva”.

Per concludere, stare con i pensieri impensabili dei pazienti è un po’come un atto di fede che, per il suo fiducioso “ottimismo”, distingue la scelta vocazionale psicoanalitica dalle altre professioni. È un esercitarsi costante a stare in equilibrio con tutte quelle abilità che avanzano insieme in modo così paradossale e diverso a ogni nuovo incontro, conducendoci a preferire, come ricorda l’autrice, sempre l’autenticità, anche quando è scomoda e il suo esito imprevedibile, all’astuzia clinica.

I neonati sono in grado di apprendere regole astratte già da tre mesi

Secondo un recente studio della Northwestern University pubblicato su PLOS One, i bambini di tre mesi non riescono a sedersi e nemmeno a rotolare, ma sono già in grado di apprendere modelli semplicemente guardando il mondo che li circonda.

Lucia Marangia

 

Per la prima volta, i ricercatori mostrano che i bambini di 3 e 4 mesi possono rilevare con successo i modelli visivi e generalizzarli a nuove sequenze. La capacità di rilevare non solo gli oggetti e gli eventi, ma anche i rapporti tra loro, è la chiave per la sopravvivenza. Negli esseri umani questa capacità di identificare relazioni e schemi è molto sviluppata. Quando apprendiamo uno schema in un dominio, come il pattern di una serie di luci che si susseguono, siamo capaci di estrarlo, riconoscerlo e applicarlo a un altro dominio, come ad esempio un una serie di suoni o di stimoli tattili. Questa abilità, nota come apprendimento astratto delle regole”, contraddistingue il nostro stile percettivo e cognitivo.

A quale età iniziamo ad apprendere una regola?

Grazie a una ricerca precedente, possiamo affermare che i bambini di 4 mesi sono in grado di riconoscere regole astratte dai suoni del linguaggio parlato e da sequenze di toni. Tuttavia, basandoci sempre sui risultati di questi studi, sembra però che i bambini di pochi mesi non siano in grado di estrarre regole astratte a partire dai dati sensoriali provenienti dal dominio visivo.

Una nuova ricerca dei neuroscienziati del Weinberg College of Arts and Sciences della Northwestern ha apportato nuove evidenze rispetto a questo tema. Se si presentano gli stimoli ai bambini in un modo più appropriato per il loto sistema visivo, possono imparare visivamente le regole astratte.
I ricercatori hanno mostrato ai neonati 40 sequenze formate da tre immagini di razze di cani diverse. Per esempio, nel pattern “ABA” i bambini hanno visto un maremmano, un pastore tedesco e nuovamente un maremmano. I bambini hanno visto diverse sequenze ABA, e ogni volta con diversi tipi di cani. Successivamente i ricercatori hanno presentato ai neonati due nuove sequenze con nuovi tipi di cani che i bambini non avevano ancora visto. Gli elementi di ciascuna sequenza erano identici, solo lo schema in cui erano presentati differiva. Una sequenza seguiva lo stesso schema ABA (terrier, setter, terrier), l’altro uno schema differente AAB (terrier, terrier, setter).  Le significative differenze nei tempi di osservazione delle diverse sequenze evidenzia l’avvenuto apprendimento della regola da parte dei bambini.

I bambini sembrano stupirsi quando la regola che hanno appreso viene violata. Si aspettano che venga mostrato loro uno schema terrier, setter, terrier e rimangono spiazzati quando gli sperimentatori, cambiando lo schema appreso, presentano le immagini in modo diverso: terrier, terrier, setter. A differenza di tutti gli esperimenti precedenti, i bambini in questo studio potevano vedere tutte e tre le immagini contemporaneamente.

Apprendimento di regole: sistema uditivo vs sistema visivo

I ricercatori hanno concluso che il sistema uditivo astrae più efficacemente i pattern dalle sequenze che si sviluppano nel tempo (come l’ascolto del linguaggio o della musica), mentre il sistema visivo è più efficace nell’estrarre schemi da sequenze strutturate nello spazio. L’apprendimento uditivo è in grado di elaborare pattern come ABB o ABA solo ascoltandoli in una sequenza, mentre il sistema visivo ha bisogno di più tempo per contemplare tutte le informazioni contemporaneamente.
I risultati dello studio indicano che i bambini possono imparare tali regole astratte attraverso la visione fin dalla tenera età e che la capacità di base dell’apprendimento di regole astratte ha le sue origini nella primissima infanzia.

Settimana mondiale del cervello 2018: le iniziative a Bologna, dal 12 al 18 Marzo – Comunicato Stampa

Settimana del Cervello - logo

 

Settimana mondiale del cervello 2018: le iniziative a Bologna

Adesioni da 600 professionisti di 20 Regioni italiane. Centinaia di eventi e campagne per i cittadini

Dal 12 al 18 marzo 2018

 

Bologna, 7 Marzo 2018 – Dal 12 al 18 Marzo 2018 si tiene la “Settimana del Cervello” (“Brain Awareness Week”), campagna mondiale che diffonde le nuove scoperte neuroscientifiche al fine di arricchire il patrimonio di informazioni sui progressi e benefici della ricerca sul cervello.

Istituita nel 1996 dalla Dana Alliance for Brain Initiatives, ogni anno nel mese di Marzo la campagna vede coinvolti, in numerosi Paesi, migliaia di professionisti del settore (psicologi, neuropsicologi, psicoterapeuti, medici, biologi, neuroscienziati) in una celebrazione del cervello creativa e innovativa rivolta ai cultori e ai cittadini di tutte le età.

La campagna in Italia (“Settimana del Cervello”, terza edizione, www.settimanadelcervello.it) è organizzata e coordinata da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica partner della Dana Foundation che, dal 2007, funge da anello di congiunzione tra il mondo accademico e il pubblico interessato all’argomento.

Quest’anno in Emilia-Romagna sono previsti 53 eventi gratuiti ed aperti al pubblico. Per tutta la settimana a Bologna sarà possibile effettuare, dietro appuntamento, screening per Disturbi specifici dell’Apprendimento (DSA) con le dottoresse Nellia Arciuolo e Lisa Aragiusto e con le Dott.sse Ivana Mirra e Maria Vizzaccaro. Inoltre, un incontro informativo sui DSA sarà aperto a tutti, il giorno 12 Marzo alle ore 18.30, presso la Sala Comunale Livatino, Via Battindarno 127.

Per gli adulti sarà possibile, dal 12 al 16 marzo, effettuare una consulenza individuale gratuita per capire cosa succede al nostro cervello durante un attacco di panico e quali sono le modalità per superarli con la Dott.ssa Ornella Lastrina presso il Centro SalutePSy in Piazza dei Martiri 5/2.

Infine, la Dott.ssa Federica Campitiello e la Dott.ssa Ornella Lastrina condurranno un incontro di gruppo sulle emozioni per scoprire come identificarle e come gestirle, il 16 Marzo dalle ore 19.30 alle 21.00, per un massimo di 10 partecipanti, presso lo Studio SalutePsy in Piazza dei Martiri 5/2.

Il calendario locale completo è consultabile sul sito www.settimanadelcervello.it, dove è anche possibile iscriversi e trovare i contatti dei professionisti.

Settimana del Cervello anche online

La terza edizione della Settimana del Cervello si svolge anche online, attraverso una serie di post dal contenuto “più cervellotico che mai” che si possono seguire sulla pagina Facebook Settimana del Cervello. Le attività locali si possono invece seguire sulla pagina regionale Settimana del cervello – Emilia Romagna

Per saperne di più:

Patrocinio istituzionale:

  • ENPAP – Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Psicologi

Sponsor:

  • Istituto Santa Chiara srl
  • Cristalfarma

Patrocini gratuiti:

  • Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi
  • Università La Sapienza – Dipartimento di Psicologia
  • Comune di Bologna
  • State of Mind

Contatti:

Emilia Romagna

  • Psicologa Ornella Lastrina. Referente regionale. Tel: 327 5456022; email: [email protected]
  • Psicologa Nellia Arciuolo. Referente regionale. Tel: 320 7618944; email: [email protected]

Settimana del Cervello nazionale

  • Donatella Ruggeri, Psicologa OPRS, Founder @Hafricah.NET. Tel: 090 95 75 428; cel:  366 89 33 240; email: [email protected]
  • Elisabetta Grippa, Psicologa OPL, Content-manager @Hafricah.NET. Cel:  329 42 27 416; email: [email protected]

 

SETTIMANA DEL CERVELLO A BOLOGNA – IL PROGRAMMA:

Settimana del cervello 2018 le iniziative a Bologna, dal 12 al 18 Marzo

 

Limiti e utilità della classificazione bottom up e top down

Ultimamente nell’ambiente della terapia cognitivo comportamentale italiana e non si discute della contrapposizione tra processi top down e bottom up. I primi sarebbero quelli del pensiero esecutivo, consapevole, volontario, dichiarativo e quindi immediatamente verbalizzabile e infine processabile dal pensiero razionale. I processi bottom up invece sarebbero automatici, emotivamente carichi, associativi, inseriti nell’esperienza immediata e connessi con la sensorialità corporea ma non sempre immediatamente controllabili volontariamente (Kahneman 2011-2012; Martin & Sloman, 2013).

Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli

 

La classificazione ha i suoi cultori e i suoi detrattori, i suoi limiti e il suo valore, che è soprattutto euristico. I limiti di questo modo di ragionare sono vari. Ad esempio, se definiamo top down un modello metacognitivo come quello di Adrian Wells (2013), va osservato che Wells a sua volta non lavora sul “capire” razionalmente un contenuto distorto ma sul gestire diversamente alcuni processi mentali, tra cui l’attenzione. E per gestire questi stati attentivi Wells non si limita a “spiegare” ma assegna degli esercizi in cui il paziente apprende nella pratica a gestire diversamente le funzioni attentive. Sono esperienze anche queste.

Se parliamo di esercizi immaginativi notiamo che un esercizio di questo tipo può essere fatto in due modi: condividendo il razionale all’interno di una formulazione del caso anch’essa condivisa, oppure utilizzando l’esercizio per creare un’esperienza  con il paziente da valutare consapevolmente solo in un secondo momento. Noi crediamo che il modo migliore di farlo sia il primo, anche perché è difficile pensare a un intervento bottom-up laddove al paziente è chiesto di governare consciamente le proprie facoltà mentali, nel caso l’immaginazione. Questo significa che l’esercizio bottom-up s’inserisce in una cornice di concettualizzazione ed esecuzione top-down: le funzioni superiori decidono che certe esperienze vanno fatte e non solo sapute concettualmente.

Terzo scenario tra i tanti possibili: l’uso della relazione terapeutica. E in particolare l’uso delle varie situazioni critiche in seduta. Ad esempio l’esperienza condivisa alla Semerari oppure le rotture e riparazioni alla Safran e Muran (2000), e così via. In questo caso immaginiamo che il top down tenda a confinarsi in un’analisi a posteriori dell’accaduto relazionale che, come forse direbbe Liotti, ha solo la funzione di memorizzare nel top un intervento che però si è svolto tutto nel bottom in modo da poterlo facilmente riattivare quando necessario. Questo punto è quello che ci trova perplessi. In primo luogo è difficile comprendere il peso dell’intervento e della memorizzazione successiva né è sempre chiaro in modo operativo ove si situi maggiormente il processo terapeutico, nella componente relazionale in sé (bottom up) nella discussione esplicita successiva (top down) o nell’interazione tra le due.

Procedendo per questa strada, infatti, si finirebbe per diventare meno cognitivisti di Otto Kernberg (Kernberg, Yeomans, Clarkin e Levy, 2008). Il suo modello di psicoterapia focalizzata sul transfert, infatti, prevede che le pulsioni inconsce che emergono nella relazione di transfert siano davvero oggetto di lavoro terapeutico solo quando emergono al livello di conoscenza cosciente durante gli interventi di chiarificazione, confronto e interpretazione di transfert. In Kernberg c’è una valorizzazione del ruolo del pensiero cosciente che invece nei modelli relazionalisti si rischia di perdere, compresi i modelli relazionalisti cognitivi come quelli di Semerari e Dimaggio (Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò e Procacci, 2007), Liotti e Monticelli (2014) e Safran e Muran (2000).

Si potrebbe obiettare: poco male, se quella è la verità. Amicus Plato, sed magis amica veritas. Vero, ma noi non sappiamo ancora qual è la verità. Nel frattempo si procede a tentoni ma anche mantenendo una direzione. Non per cieca ideologia ma per ordine mentale e rigore metodologico. Chiamiamola sana ideologia: si verifica un’ipotesi alla volta e a fondo per evitare il rischio di testare un po’ tutto e in maniera insufficiente e al tempo stesso accogliere un po’ di tutto. Basta poco per passare dall’apertura all’ecclettismo deteriore.

Inoltre, ci sembra che un simile intervento, pur possibile, rischi di fare troppo aggio su elementi casuali, governabili solo a posteriori, non programmabili in un progetto terapeutico condiviso e tanto meno prevedibili in una formulazione del caso condivisa ma da vivere e utilizzare sul momento, come occasioni irripetibili che sicuramente il terapeuta esperto sa e deve saper utilizzare al volo.

Il rischio principale però è che così la componente artigianale non solo diventi di gran lunga prevalente (poco male, se questa è la realtà) ma peggio, che in una profezia che si auto-avveri si rinunci a cercare gli aspetti controllabili e replicabili della psicoterapia per accontentarsi di una abilità irriproducibile e tutta intuitiva. Ci si chiede inoltre anche quanto sia insegnabile una simile abilità e quanto sia scevra da distorsioni interpretative che dipendono più dalle idee del terapeuta che del paziente.  Tutto questo, s’intende, al di là di una doverosa attenzione da dare al come ci si sente in seduta.

Un altro rischio è che la ricerca si riduca alla descrizione di processi talmente complessi da non poter essere mai governati consapevolmente, con la conseguenza deprimente che da questo quadro non ci si potrà mai aspettare un miglioramento progressivo dell’efficacia terapeutica, ma solo un cristallizzarsi di un’arte sempre uguale a se stessa, incapace di progredire e addirittura non intenzionata a migliorare, che tende a trasmettersi sapienzialmente da maestro ad allievo in un rapporto ancora una volta artigianale nel senso peggiore del termine.

Il rischio di questa deriva è la riduzione della scienza psicoterapeutica e della professione dello psicoterapeuta a una posizione di consulente, esperto di elementi aspecifici, elementi facilmente replicabili da ogni professionista della relazione d’aiuto.  O ancora peggio, la riduzione della psicoterapia all’effetto placebo, che in fondo non è altro che l’insieme degli elementi che funzionano appunto in modo aspecifico. D’altro canto Wampold e Imel nel loro “Great Psychotherapy Debate” appena uscito nel 2015 parlano esplicitamente di un uso costruttivo e positivo del termine “placebo” per definire il lavoro psicoterapeutico. La psicoterapia come buon placebo: idea geniale o pillola indorata?

Per concludere, i termini top down e bottom up sono sicuramente molto limitati e limitanti e finiscono per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico, riconoscibile e operazionalizzabile. Quando fare questo? Quando per esempio il bottom up rischia di ridursi a un’esperienza emozionale correttiva unica, irripetibile, non programmabile e a rischio di essere vissuta come salvifica in un rapporto apparentemente paritario con un terapista che sembra un semplice artigiano, ma in realtà potrebbe essere più propenso a presentarsi come un sacerdote sapienziale e ieratico.

Al tempo stesso, occorre anche essere consapevoli che il compito storico della terapia cognitivo comportamentale è stato l’approfondimento del ruolo della direzione top down nel processo terapeutico e ci sembra giusto proseguire questo percorso. Inoltre ci sembra conveniente proseguire il lavoro nell’area in cui si è diventati storicamente più competenti ed esperti. Ed è anche vero che nel nostro gruppo di lavoro riteniamo che i processi top down siano realmente i più promettenti dal punto di vista clinico. Ma questa è un’altra storia e un altro articolo.

Formazione in Psicoterapia: Pratichiamo la Teoria – II Edizione – Milano 2018

PRATICHIAMO LA TEORIA

Ciclo di incontri di formazione in psicoterapia – II Edizione, Milano 2018

Il primo colloquio con diverse patologie

Studi Cognitivi offre un ciclo di incontri formativi di confronto fra modelli. La seconda edizione del ciclo di eventi “Pratichiamo la teoria” avrà come focus il primo colloquio in psicoterapia e il suo adattamento con diversi tipi di patologie. Ogni incontro presenterà le caratteristiche peculiari della patologia trattata e le modalità di indagine ad hoc. Dopo l’introduzione teorica, il docente effettuerà una simulata di seduta di un primo colloquio della patologia trattata.

Relatori

Dr. Giovanni Maria Ruggiero: Medico chirurgo, specialista in Psichiatria e Psicoterapia Cognitiva. Direttore di “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano e Bolzano. Responsabile Ricerca di “Studi Cognitivi”, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano, Modena e San Benedetto del Tronto. Docente presso Sigmund Freud University di Milano. Terapeuta MCT, Terapeuta e supervisore REBT. Autore e teorico del modello LIBET. E’ didatta SITCC, socio SPR.

Dott. Gabriele Caselli: Psicologo, Psicoterapeuta cognitivo e comportamentale e Dottore di Ricerca in Psicologia Clinica, ricercatore e didatta presso le scuole di specializzazione in psicoterapia cognitiva  del Network di Studi Cognitivi. Direttore della Scuola di Specializazione “Psicoterapia e Scienze Cognitive”. Specializzato in Terapia Metacognitiva presso l’MCT Institute di Manchester con il Prof. Adrian Wells e primo terapeuta metacognitivo italiano. Coordinator for curriculum and Teaching Instructor presso Sigmund Freud University di Milano. Autore e teorico del modello LIBET.

Dott. Walter Sapuppo: Psicologo, Psicoterapeuta cognitivo e comportamentale, Advance Therapist REBT, Adult Attachment Interview Certified Coder. E’ Tenured Lecturer in Psicologia Generale presso la Sigmund Freud University di Milano e docente presso le Scuole di Specializzazione del network di Studi Cognitivi. E’ socio ordinario SITCC e SPR.

Programma

Disturbo ossessivo-compulsivo e Rimugino

Dr. Ruggiero – 4 Aprile 2018 – Ore 18:00

Il rimuginio è un fenomeno cognitivo caratterizzato da un predominio di pensiero verbale negativo e da un’attività predittiva. Il rimuginio è un processo che ha un impatto fondamentale in diversi disturbi psicologi. E’ il cuore ad esempio dei disturbi d’ansia.

Anche nel disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) ha una valenza importante. Nel DOC le intrusioni attivano alcune credenze metacognitive, cioè pensieri relativi al significato e all’importanza della comparsa nella mente delle ossessioni. In quest’ottica il problema non è quindi avere dei pensieri intrusivi in mente ma il fatto che per i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo ciò diventa intollerabile, preoccupante, fonte di rimuginio, minaccioso.

Come condurre quindi un primo colloquio con un paziente che tende a rimuginare molto? Che tecniche adottare? Cosa è utile indagare?

Durante l’incontro verranno mostrate le caratteristiche principali di queste problematiche e le tecniche per indagarle. Infine il docente effettuerà dal vivo una simulata su un caso clinico con DOC e rimuginio.

ISCRIZIONE ONLINE 9998

 

Disturbi Alimentari

Dr. Sapuppo – 2 Maggio 2018 – Ore 18:00

Nel trattamento dei pazienti affetti da Disturbi Alimentari, i clinici si trovano spesso a fronteggiare un atteggiamento ambiguo e non sempre collaborativo che li costringe a una continua ridefinizione e negoziazione degli obiettivi terapeutici. Da un punto di vista clinico, inoltre, si rileva una frequente comorbilità con altri disturbi psichiatrici. Inoltre, lo stretto legame con aspetti biologici alterati (a carico dei sistemi cardio-circolatorio, osseo, gastroenterico, endocrinologico, ginecologico e neuropsicolgico) rende spesso necessaria una ridefinizione dei programmi terapeutici. In tale ottica, l’utilizzo di trattamenti efficaci, validati a livello internazionale, insieme a un’attenzione ad aspetti personologici peculiari, può consentire un management clinico maggiormente efficace nei vari livelli e contesti di cura. Durante l’incontro verranno mostrate le caratteristiche principali di queste problematiche e le tecniche per indagare le diverse caratteristiche. Infine, il docente effettuerà dal vivo una simulata su un caso clinico con Disturbo Alimentare.

ISCRIZIONE ONLINE 9998

 

Alcolismo

Dr. Caselli – 23 Maggio 2018 – Ore 18:00

Le dipendenze patologiche fanno riferimento a diverse sostanze. La presenza di un disturbo correlato a sostanze si caratterizza per un uso continuativo nonostante l’insorgenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che generano elevato grado di difficoltà. Recentemente è stato studiato un nuovo modello (Modello Trifasico) (Caselli & Sapda) delle dipendenze patologiche che fa riferimento alla cornice teorica della Terapia Metacognitiva (Wells).

Durante l’incontro verranno mostrate le caratteristiche principali delle dipendenze patologiche e in particolare dell’alcolismo, le tecniche per indagarle alla luce del Modello Trifasico. Infine il docente effettuerà dal vivo una simulata su un caso clinico con alcolismo.

ISCRIZIONE ONLINE 9998

Informazioni

Partecipazione gratuita e aperta a professionisti che operano nell’ambito dei disturbi psichiatrici e psicologici, specializzandi in psichiatria, studenti di psicologia e di medicina e operatori della salute mentale.

Sede degli incontri

Gli incontri si svolgeranno presso: Sigmund Freud University Milano – Ripa di Porta Ticinese, 77-Milano

 

Direzione Scientifica: Dr.ssa Sandra Sassaroli e Dr. Giovanni Maria Ruggiero

Coordinamento Didattico: Dott.ssa Carolina A. Redaelli

Cartesio, il Disturbo Ossessivo Compulsivo e Dio

Ad una prima lettura Cartesio si rivela un uomo pieno di dubbi e di domande ed è curioso che l’incalzare di domande fosse in passato relegato e considerato “normale” nell’ambito della filosofia. A seguito di questa riflessione sarebbe utile forse riflettere su come la categorizzazione e l’inserimento di ogni sintomo in una casella ci abbia portato a non avere più una visione olistica dell’essere umano integrato in tutti gli aspetti di psiche, anima e corpo.

 

Mi sono trovata casualmente a leggere la quarta parte di questa opera di Cartesio, Le prove dell’esistenza di Dio e dell’anima umana, ossia i Fondamenti della Metafisica.

Famosa è la sua frase più celebre “Penso, dunque sono”, tuttavia è interessante analizzarne il processo di costruzione. È evidente ad una prima lettura che Cartesio fosse un uomo pieno di dubbi e di domande ed è curioso che l’incalzare di domande fosse in passato relegato e considerato “normale” nell’ambito della filosofia. A seguito di questa riflessione sarebbe utile forse riflettere su come la categorizzazione e l’inserimento di ogni sintomo in una casella, o di ogni patologia associata ad un etichetta ci abbia portato a perdere di vista la visione d’insieme, o meglio ancora a non avere più una visione olistica dell’essere umano integrato in tutti gli aspetti di psiche, anima e corpo. Ricordo qualche anno fa un paziente nella comunità psichiatrica dove lavoravo, che era completamente spiazzato perché in India era considerato un filosofo, un saggio e in Italia era considerato pazzo. Sarebbe per noi utile per recuperare una visione d’insieme, integrare le diverse conoscenze culturali e intercontinentali in materia di strumenti per la psicologia e per la psichiatria? O siamo troppo certi delle nostre ragioni per scendere a compromessi con i nostri dubbi? O forse potremmo provare ad abbandonare lo scetticismo ponendoci in una posizione di conoscenza senza giudizio? Tornando a Cartesio, inizialmente, durante la lettura, mi è sembrato di ascoltare qualcosa di molto simile alle infinite domande e rimuginii alle quali si assiste con un paziente ritenuto ossessivo in una stanza di psicoterapia.

Il filosofo apre il suo trattato mettendo sui due piatti della bilancia i due aspetti della vita, dei processi di conoscenza: la Verità e la Menzogna. Come stare nel giusto e nella perfezione? Dopo un incalzare di domande in cui arriva anche a dire chi sono io, dopo numerosi interrogativi su come avvicinarsi a qualcosa che fosse accostabile alla verità, tira fuori un idea che potrebbe essere uno strumento di lavoro per i terapeuti in termini di visualizzazioni e di concettualizzazioni. Egli decide di smetterla di cercare la verità e di capovolgere l’imbuto, il binocolo con cui aveva guardato fino ad allora, decise di considerare falso tutto ciò che genera un dubbio dentro di lui “pensai che dovevo fare il contrario, rigettare come assolutamente falso tutto ciò in cui potevo immaginare il minimo dubbio” .

Questo capovolgimento della visuale, questa estensione dello zoom, lo porta in maniera estrema, ma efficace, a considerare che gli uomini sbagliano ragionando e ancora dopo a capire che i pensieri possono valere quanto i sogni, che cambiano e si modificano di giorno come di notte, ma soprattutto lo conducono ad operare uno spostamento in cui si sostituisce il dubbio con la conoscenza.

Forse, come suggerisce Cartesio, la persona che riesce ad abbandonare ogni dubbio considerandolo portatore di falsità, a favore di un processo di conoscenza che si concentri sull’essere e non sul “potrebbe essere” si libera e si ritrova in quel modo d’essere del “penso, dunque sono” e allora non ha più senso “cosa penso” (inteso come mero e meccanico controllo ossessivo) e acquista valore il meccanismo del pensare in quanto tale. Non i contenuti ma il processo del pensare.

Spesso lavoriamo nelle stanze di psicoterapia per l’integrazione delle parti, Cartesio offre una visione e un’opportunità di capovolgere la prospettiva, dando al dubbio un ruolo talmente centrale tanto da farlo diventare normale. Nella normalità perde potenza e si trasforma in modo multidimensionale nelle varie istanze dell’essere umano.

Cartesio e la riflessione sul rapporto tra uomo e Dio

Inoltre Cartesio ci conduce in una intensa riflessione sul rapporto tra uomo e Dio, pur considerando il grado di soggettività religiosa, a me sembrerebbe che si parli di qualcosa che va oltre la religione e che offre uno spazio di recupero di un’identità spirituale che è dell’uomo a partire dalla sua nascita. Cartesio si interroga molto sul filo sottile che mette in connessione l’uomo con Dio, e a tal proposito si domanda: ma cosa lega l’uomo alla ricerca di una qualche perfezione? E in fondo cosa nel mondo è più perfetto dell’uomo? Egli trova nella natura una armonia e una perfezione che può a suo avviso aver preso forma da una perfezione spirituale e innata di cui l’uomo non è responsabile ma ne eredita il compito di curarsene. A tal proposito mi viene in mente che nella Cabbalà si dice che ogni essere umano è scintilla dell’eterno e allora cosa manca alla psicologia per legarsi alle trascendenza?

Non so se Cartesio fosse un Cabbalista, ma ha in comune con essa l’opinione che l’idea di Dio sia innata negli esseri umani, e essendo un’idea perfetta ne deriva che tale idea è introdotta nell’uomo dalla potenza e onnipresenza del divino. Il recupero di questa idea certa dell’esistenza di Dio (ossia il recupero della consapevolezza della propria spiritualità individuale), ci aiuterebbe a comprendere meglio forse alcuni aspetti deliranti o del pensiero magico che notiamo nelle narrazioni dei pazienti psicotici e/o ad entrare in relazione in generale con l’anima e la componente spirituale nostra e dei nostri pazienti. Ormai molte scienze che avevano escluso questo studio del divino stanno cambiando prospettiva e aprono le porte allo sconosciuto mondo spirituale. La fisica quantistica ad esempio si è aperta allo studio di questo mondo metafisico e spirituale, sarebbe una sfida anche per la psicologia concepire nei suoi studi e nelle tecniche la potenzialità della “particella Dio” e attingere dalla spiritualità e non dalla religiosità, delle metodologie di lavoro?

Salute in digitale: le app per il benessere psicologico

Sono state da poco rilasciate due app, Shim e Woebot, che cercano di migliorare il benessere psicologico degli utenti, riducendo (a detta degli sviluppatori) depressione, ansia e stress.

 

Ogni giorno sono innumerevoli le azioni che compiamo grazie allo sviluppo delle tecnologie digitali e all’intelligenza artificiale, pensiamo solo a tutti gli acquisti che possiamo fare con un click o a servizi come l’home banking che ci permette di effettuare pagamenti direttamente da casa o in mobilità.

E se facessimo ancora un passo oltre? E se, come nei classici film di fantascienza, con queste tecnologie noi potessimo interagire? Se fosse possibile parlare con loro? Se ci potessero anche rispondere? Non è più qualcosa di così lontano, anzi.

Woebot: l’app che aiuta a fronteggiare ansia e depressione

E’ da poco stata rilasciata una app chiamata Woebot (dall’inglese letteralmente ‘robot della sofferenza’) disponibile per tutti i sistemi operativi. Si tratta di un sistema che conversa con l’utente (chatbot), qualcosa di molto simile a Siri della Apple, ma che invece di rispondere a richieste su dove andare o come far qualcosa, tiene conversazioni sulla salute mentale ed il benessere.

Di matrice cognitivo-comportamentale, Woebot chiede alle persone come si sentono attraverso brevi conversazioni quotidiane; invia anche video e consigli utili a seconda dell’umore del momento e di come la persona risponde alle domande, infatti è in grado di tarare le sue risposte in base a ciò di cui si è parlato precedentemente.

Questo strumento è pensato per adolescenti e under 30, per avvicinarli alle conversazioni terapeutiche abbattendo il muro dello stigma sociale relativo a situazioni di disagio, stigma che può essere particolarmente influente sui più giovani. Woebot si colloca espressamente come strumento di auto-aiuto, di incoraggiamento e supporto ma, precisano i creatori, non intende assolutamente sostituirsi alla terapia vera e propria. E’ stata creata da un gruppo di giovani scienziati, ingegneri e psicologi, che hanno messo a disposizione le loro competenze tecniche e cliniche e hanno effettuato uno studio con l’Università di Standford (Fitzpatrick et al., 2017) in cui hanno testato l’efficacia della app. L’85% dei partecipanti di età compresa tra 18 e 28 anni che hanno utilizzato Woebot quotidianamente hanno riportato una significativa riduzione di sintomi di ansia e depressione già dopo due settimane, misurate attraverso la Patient Health Questionnaire (PHQ-9), la  Generalized Anxiety Disorder 7-item scale (GAD-7) e la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS).

Lo studio riporta degli evidenti limiti etici e metodologici: è stato finanziato dalla società produttrice della app Woebot, una delle autrici dell’articolo ne è la socia fondatrice, mentre per quanto riguarda l’aspetto metodologico il basso numero (70) e la selezione non casuale dei partecipanti (sono stati selezionati volontari in un campus universitario nell’area di New York di livello socioeconomico medio alto) oltre alla mancanza di un follow up, hanno reso poco generalizzabili i risultati, per cui gli Autori stessi sottolineano chiaramente l’esigenza di ulteriori studi per determinare se effettivamente questa app aiuti nella gestione di sintomi ansioso depressivi.

Shim: l’app per il supporto psicologico

Un altro studio (Ly et al, 2017), condotto stavolta in Svezia, ha testato una app chiamata Shim e simile a Woebot e creata per fornire supporto secondo le linee dell’approccio CBT. Anche in questo caso lo studio ha incluso un numero esiguo di partecipanti selezionati in maniera non random (28 volontari reclutati tramite annunci su social media e in università) e nessun follow up è stato fatto. I risultati hanno mostrano una diminuzione dello stress percepito secondo la Perceived Stress Scale-10 (PSS-10) e un aumento del benessere psicologico in generale misurato con la Flourishing Scale (FS) e la Satisfaction With Life Scale (SWLS).

Rischi e potenzialità delle app per il benessere psicologico

Fatte le dovute premesse sulle limitazioni metodologiche, entrambi gli studi riportano anche analisi qualitative su quanto riportato dai soggetti molto utili per comprendere l’impatto, i rischi e le potenzialità dell’utilizzo di app come supporto al benessere in popolazioni non francamente cliniche. Le tematiche emerse possono essere ricondotte a diverse aree, che vanno dagli aspetti tecnici a quelli di contenuto. I partecipanti hanno dimostrato un reale interesse e coinvolgimento in questo strumento, arrivando a consultare fino a 12 volte in un giorno la app, diventata per alcuni una vera e propria routine grazie anche alla possibilità accedervi in qualsiasi momento.

I pregi principali sono il poter esprimersi, apprendere e riflettere su aspetti importanti della propria vita, poter parlare della propria giornata e sfogarsi su ciò che succede, avere l’incoraggiamento e il supporto in situazioni di incertezza. D’altro canto, i soggetti hanno evidenziato tra i difetti proprio il fatto che se da un lato Shim viene umanizzato e parlarci viene considerato alla stregua di una conversazione “umana”, dall’altro è deludente accorgersi dei suoi limiti e che si tratta solo di un chatbot poiché non è possibile portare la relazione ad un livello più profondo. Difetti quali la ripetitività di frasi o domande, oppure il fatto che non colga alcune sfumature del linguaggio, rendono alcune volte parlare con Shim artificiale in maniera troppo evidente, creando distacco e delusione perché non si può andare oltre nel rapporto.

Gli strumenti di conversazione automatica come Siri della Apple o Alexa di Amazon facilitano la nostra vita quotidiana offrendoci servizi e riducendo tempi e costi di molti processi. Cosa implica però applicare questi strumenti alla sfera del benessere psicologico è un discorso diverso che prende in considerazione più aspetti. La realtà virtuale permette di abbattere i costi e svincolarsi dallo stigma che accompagna il disagio mentale: la possibilità dell’anonimato e l’accessibilità direttamente da casa attraverso la propria connessione consentono di eludere la condivisione del proprio disagio con altri e di non dover affrontare le spese della terapia. Ma qui sta il punto.

Per quanto possano lenire alcuni sintomi e funzionare da sfogo nel quotidiano, questi strumenti non sono e non hanno nemmeno la pretesa di sostituirsi a percorsi di terapia, percorsi tenuti da professionisti in carne e ossa e che permettono la creazione di una alleanza terapeutica profonda e qualitativamente insostituibile. Gli Autori (Fitzpatrick et al., 2017; Ly et al., 2017) sottolineano chiaramente e senza ambiguità che le app possono avere funzione educativa e di supporto ma non di sostituzione della terapia. Mostrano di aumentare il coinvolgimento e l’aderenza al trattamento, di essere percepiti come strumenti utili e interessanti, di portare sollievo e benefici e sicuramente in un futuro non lontano saranno sviluppati sistemi sempre più raffinati e capaci di farci sentire capiti sebbene da una tecnologia automatizzata. Il momento in cui un robot si sostituirà ad un essere umano è però ancora molto lontano.

Gli effetti di programmi TV e reality show sulle aspettative delle donne incinte

I programmi televisivi sulla maternità esercitano una notevole influenza sulle aspettative di ciò che attenderà alle mamme al momento della nascita del neonato.

Lucia Marangia

 

I programmi tv e reality show possono cambiare la percezione e la gestione sulla gravidanza di una donna incinta. A dirlo è uno studio dell’Università di Cincinnati che, ha analizzato l’influenza di alcuni contenuti televisivi su un gruppo eterogeneo di donne di New York.

I ricercatori della UC, guidati dalla professoressa di Sociologia Danielle Bessett e da Stef Murawsky, hanno raccolto un campione di 64 donne incinte di differente status sociale, livello d’educazione e background etnico per comprendere il grado d’incidenza dei prodotti della tv sulle aspettative di gravidanza e nascita.

Le donne sono state interrogate riguardo le loro abitudini televisive. Il 44% di loro hanno rivelato non solo di aver guardato durante la gravidanza programmi TV su storie di gravidanze realmente accadute, ma anche che tali contenuti avevano influenzato le loro conoscenze riguardanti la maternità ed il parto.

Queste risposte sono state date per la maggioranza da donne poco scolarizzate, mentre la maggioranza delle partecipanti con livelli di scolarizzazione più alta hanno affermato di non dedicarsi alla visione di certi programmi televisivi.

In seguito a ulteriori domande, coloro che affermavano di non aver guardato o utilizzato la TV per ottenere informazioni sul parto, hanno palesato un comportamento contraddittorio. Quando è stato chiesto di descrivere dove hanno raccolto le loro informazioni, hanno ripetutamente fatto riferimento a situazioni mediche o scene relative agli ultrasuoni che avevano visto in programmi televisivi o persino film.

Secondo gli autori questo fenomeno sarebbe attribuibile in parte ad un “pudore” all’interno di certe classi sociali con alto grado d’istruzione che ritengono poco appropriato informarsi guardando la TV, ma evidenzia anche il potere sottile del mezzo televisivo nell’influenzarci con immagini e contenuti impattanti che giocoforza vanno ad influenzare la nostra percezione delle cose.

 

L’intelligenza emotiva. Che cos’è e come usarla (2017) di D. Walton – Recensione del libro

L’intelligenza emotiva è un libro dal linguaggio semplice e adatto a qualsiasi lettore, che affronta il tema dell’ Intelligenza Emotiva, intesa come un insieme di abilità e di capacità mentali che possono aiutare le persone a gestire con successo sia se stesse sia l’esigenza di relazionarsi agli altri.

 

Attraverso esemplificazioni, brevi questionari e numerosi esempi pratici, il libro L’intelligenza emotiva di David Walton offre spunti di riflessione interessanti e orientati al miglioramento dell’abilità di gestire l’impatto che le emozioni hanno sulle nostre relazioni con gli altri.

Secondo l’autore, l’ Intelligenza emotiva è composta da due forme di intelligenza: l’ intelligenza cognitiva (ossia l’abilità di pensare razionalmente, agire in maniera decisa e di gestire il proprio ambiente; comprende le abilità intellettive, analitiche, logiche e razionali) e l’ intelligenza sociale (ossia l’abilità di comprendere e di gestire le situazioni che coinvolgono altre persone; comprende la capacità di essere consapevole di se stessi, di capirsi, di gestire le relazioni e di comprendere il contenuto emotivo del comportamento).

L’intelligenza emotiva: gli aspetti che la compongono

Partendo da tale definizione, il libro analizza nello specifico i quattro aspetti che determinano l’ Intelligenza Emotiva, fornendo suggerimenti per migliorare ciascuna di queste aree:

  • La conoscenza di sé
  • La gestione delle proprie emozioni
  • La comprensione del comportamento e dei sentimenti degli altri
  • La gestione delle proprie relazioni (utilizzando capacità sociali efficaci)

Successivamente, L’intelligenza emotiva evidenzia gli aspetti più pratici e applicativi di questo tipo di intelligenza. Si parte dai luoghi di lavoro (l’ Intelligenza Emotiva è un fattore importante in una prestazione di successo, in particolare nelle vendite e nell’ambito gestionale, ma anche in altri ambiti legati al mondo del lavoro come la leadership per esempio), fino ad arrivare agli aspetti legati all’utilità del sviluppo di questo tipo di intelligenza durante l’età evolutiva, attraverso programmi scolastici di alfabetizzazione emotiva (per aiutare i bambini a imparare in modo efficace e per rendere la loro classe un luogo tranquillo e ottimista per imparare), e attraverso una genitorialità orientata allo sviluppo dell’ Intelligenza Emotiva.

Infine il testo si occupa del rapporto tra Intelligenza Emotiva e salute, evidenziando come la nostra salute e la capacità di rimanere in salute siano intimamente connessi al modo in cui gestiamo le nostre emozioni.

Un libro dal taglio molto pratico, dal linguaggio accessibile a tutti, che offre validi spunti per migliorare il nostro benessere attraverso il contributo dell’ Intelligenza Emotiva.

Terapia di coppia per amanti (2017) – Recensione del film

Terapia di coppia per amanti è un film del 2017 distribuito dalla Warner Bross. È una commedia a tratti insolita che racconta la storia di due amanti, Viviana e Modesto, ognuno con una famiglia, che si intravede attraverso i loro racconti nelle scene di vita quotidiana.

 

Terapia di coppia per amanti: i protagonisti

Di Modesto si sa qualcosa in più. Racconta di un padre assente nella sua infanzia che ora nel momento di confusione prende come consigliere e del quale rivaluta la figura anche se in maniera velata. È un uomo sulla quarantina sposato con un figlio,  amante della musica, di lavoro fa il chitarrista, figlio appunto di un musicista che gli ha dato il nome “per ripicca alla madre” come raccontato in una scena di Terapia di coppia per amanti, e del quale si porta dietro la notorietà nel mondo della musica. È un uomo a tratti un po’ bambino, con ansie e paura di una separazione dalla moglie che non riesce a lasciare e altrettante ansie e timori con l’amante Viviana, che ama e dalla quale non riesce a stare lontano. È proprio Viviana che lo sprona a suo modo, cerca di farlo emergere. Modesto si cela dietro battute, nasconde le sue paure.

Viviana è anche lei una moglie,  madre di un ragazzino di 16 anni, per il quale nutre molte ansie dettate da un incidente avuto dal ragazzo, e ne parlerà solo all’interno della terapia. Viviana al contrario di Modesto è analitica, consapevole delle sue paure e di quelle dell’amante e decide per entrambi di andare in terapia di coppia. Una terapia “strana” perché loro sono una coppia, ma una coppia di amanti.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM TERAPIA DI COPPIA PER AMANTI

Terapia di coppia per amanti: il ruolo dell’analista

Nella prima seduta dichiarano questo e trovano il terapeuta incuriosito da questa terapia di coppia per amanti, complice in questo caso anche la situazione dell’analista stesso. Anch’egli sposato e con un’amante. La terapia inizia e escono fuori dinamiche di coppia, di famiglia, di amanti. Si mescolano le vite dei personaggi ed il terapeuta entra in crisi sospendendo la terapia. In Terapia di coppia per amanti le dinamiche sono confuse e velate. Alla fine i due amanti prenderanno coscienza delle loro vite e lasceranno le rispettive famiglie per poi ritrovarsi di nuovo insieme.

Anche il ruolo dell’analista è insolito. E incuriosito dall’avere una coppia di amanti in terapia ma allo stesso tempo si lascia coinvolgere complice una relazione con una sua ex paziente. Ci sarà un momento in una seduta in cui cederà e si lascerà andare ad un commento del quale poi analizzerà i contenuti con un collega. Importante sottolineare la descrizione che fa di Modesto definendolo un sabotatore in quanto contrario alla terapia, trascinato dall’amante, fa di tutto per mandare all’aria la terapia, accordando una chitarra trovata a studio, invitando sotto falso nome l’analista ad un evento conscio della distanza da tenere fuori dalla terapia. Questo passaggio è ben analizzato e serve al protagonista per diventare consapevole delle sue paure.

Terapia di coppia per amanti è una commedia romantica che strappa risate, dove si vede una coppia innamorata incastrata in vite matrimoniali ormai finite che si ritrovano complici nelle risate che l’amore gli regala.

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