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Un nuovo modello per lo studio del cervello: il “micro-cervello”

Nel loro studio, riportato su Nature Physics, i ricercatori descrivono una metodologia sviluppata al fine di far crescere dei “micro-cervelli” da cellule umane che hanno permesso loro di seguire gli stessi meccanismi fisici e biologici alla base del processo di formazione delle rughe.

 

Al momento della nascita la maggior parte dei cervelli dei neonati si presenta già rugoso come una noce, in alcuni bambini appena nati invece il cervello appare come una “tabula rasa”. Tale difetto cerebrale prende il nome di sindrome del cervello liscio e comporta gravi carenze dello sviluppo e aspettative di vita marcatamente ridotte.

Il gene che causa questa sindrome ha recentemente aiutato i ricercatori del Weizmann Institute of Science ad indagare sulle cause della formazione delle rughe. Nel loro studio, riportato su Nature Physics, i ricercatori descrivono una metodologia sviluppata al fine di far crescere dei “micro-cervelli” da cellule umane che hanno permesso loro di seguire gli stessi meccanismi fisici e biologici alla base del processo di formazione delle rughe.

I micro-cervelli sono stati ottenuti da delle cellule staminali embrionali – i cosiddetti organoidi, introdotti nell’ultimo decennio dai Profs. Yoshiki Sasai in Giappone e Juergen Knoblich in Austria – e cresciuti in laboratorio.

Attualmente, il prof. Orly Reiner del Dipartimento di genetica molecolare del Weizmann Institute of Science afferma che il suo laboratorio, insieme a molti altri, ha abbracciato l’idea di coltivare gli organoidi ma, di risposta, il dott. Eyal Karzbrun, un membro del Reiner Lab, ha dovuto frenare il loro entusiasmo, sostenendo che le dimensioni ottenute erano tutt’altro che uniformi: assenza di vasi sanguigni, mancanza di un apporto costante di sostanze nutritive e interferenza dello spessore del tessuto con l’imaging ottico e il tracciamento del microscopio.

Di conseguenza dott. Karzbrun ha sviluppato un nuovo approccio per la crescita degli organoidi che permetterebbe di seguire il processo di crescita in tempo reale, attuando una limitazione della crescita sull’asse verticale. Questo tipo di approccio ha fornito un organoide a forma di “pita” – rotondo e piatto con uno spazio sottile nel mezzo, che consente di fornire sostanze nutritive a tutte le cellule. Grazie a questo sistema, a partire dalla seconda settimana di sviluppo del micro-cervello, le rughe cominciano ad apparire e poi a divenire più profonde. “Questa è la prima volta che il folding è stato osservato negli organoidi e pare che sia dovuto all’architettura del nostro sistema” sostiene il Dr. Karzbrun.

Le pieghe o le rughe su una superficie sono il risultato di instabilità meccanica, cioè forze di compressione applicate ad alcune parti del materiale. Quindi, per esempio, se c’è un’espansione irregolare in una parte del materiale, un’altra parte potrebbe essere costretta a piegarsi per poterla sopportare. Negli organoidi, gli scienziati hanno trovato tale instabilità meccanica in due punti: il citoscheletro – lo scheletro interno – delle cellule al centro dell’organoide contratto e i nuclei delle cellule vicino alla superficie espansa.

Mentre questo risultato era impressionante, il Prof. Reiner non era convinto che le rughe negli organoidi stessero davvero modellando le pieghe in un cervello in via di sviluppo. Così il gruppo ha sviluppato nuovi organoidi, questa volta con le stesse mutazioni portate dai bambini con la sindrome del cervello liscio. Il Prof. Reiner aveva identificato il gene LIS1 nel 1993 e ha continuato a studiare il suo ruolo nel cervello in via di sviluppo e nella malattia, che colpisce una su 30.000 nascite. Tra le altre cose, il gene è coinvolto nella migrazione delle cellule nervose al cervello durante lo sviluppo embrionale e nella regolazione del citoscheletro.

Gli organoidi con il gene mutato sono cresciuti fino alle stesse proporzioni del primo gruppo, ma hanno sviluppato poche pieghe e quelli che hanno sviluppato erano di forma molto diversa dalle normali rughe. Lavorando sul presupposto che le differenze nelle proprietà fisiche della cellula fossero responsabili di queste variazioni, il gruppo, con l’aiuto del Dr. Sidney Cohen del Dipartimento di Supporto alla Ricerca Chimica, ha studiato le cellule dell’organoide con il microscopio a forza atomica e ha notato che, in merito all’elasticità, le cellule normali erano circa due volte più rigide di quelle mutate.

Il Prof. Reiner afferma: “Abbiamo scoperto una differenza significativa nelle proprietà fisiche delle cellule nei due organoidi, ma abbiamo osservato differenze anche nelle loro proprietà biologiche. Per esempio, i nuclei nei centri degli organoidi si muovevano più lentamente e abbiamo notato differenze significative nell’espressione genica. Non è esattamente un cervello, ma è piuttosto un buon modello per il suo studio“.

I ricercatori hanno in programma di continuare a sviluppare il loro approccio, che ritengono possa portare a nuove conoscenze su altri disturbi legati allo sviluppo del cervello, tra cui microcefalia, epilessia e schizofrenia.

Razzismo come costruzione sociale

Per quanto un individuo possa agire in autonomia, sganciato da associazioni o movimenti, l’idea stessa di razzismo e di odio etnico rimanda ad un gruppo al quale riferirsi ed appartenere in opposizione a qualcun altro. È nei momenti di conflitto tra gruppi che questo tipo di fenomeno prende piede e si radicalizza, diventando a sua volta carburante per alimentare, amplificare e perpetuare tale scontro.

Carlo Boracchi, Alberto Mascena

 

L’incontro con l’altro e il razzismo

Occidente e Islam, hutu e tutsi, ariani ed ebrei, bianchi e neri, cattolici e protestanti, serbi e croati, autoctoni e immigrati, lombardi e terroni, indiani e cowboy. La discriminazione razziale ha da sempre declinato il concetto di “altro” in modi diversi, cambiando maschera e appoggiandosi a criteri anche molto differenti a seconda dei contesti storici, politici o geografici.

Il comune denominatore a questi molteplici esempi è però sempre il medesimo: l’incontro con la diversità diventa uno scontro, e l’altro è percepito come inferiore.

Come scatta questo meccanismo? Come si costruisce la discriminazione e, soprattutto, l’odio per l’altro?

Nessuno è razzista da solo. Per quanto un individuo possa agire in autonomia, sganciato da associazioni o movimenti, l’idea stessa di razzismo e di odio etnico rimanda ad un gruppo al quale riferirsi ed appartenere in opposizione a qualcun altro. È nei momenti di conflitto tra gruppi che il razzismo prende piede e si radicalizza, diventando a sua volta carburante per alimentare, amplificare e perpetuare tale scontro.

 

Il concetto di razza

Ma quando nasce l’idea di “razza” dato che oggi è scientificamente infondato il concetto di razza?

Il concetto di “razza” è proposto per la prima volta dal medico e viaggiatore francese Bernier nel 1684. Successivamente, saranno Linneo (1735) e Buffon (1749) a sviluppare maggiormente tale concetto. Entrambi questi studiosi ritenevano, infatti, di aver individuato delle specifiche caratteristiche morfologiche e fisiche che permettevano una chiara differenziazione dei gruppi umani in razze distinte.

Oggi tale definizione è stata tuttavia categoricamente scientificamente disconfermata: studi genetici, antropologici e antropometrici hanno rivelato l’impossibilità di definire differenti razze umane (come invece può avvenire parlando di cani o cavalli), favorendo la sua sostituzione con il termine “etnia”, che attribuisce le differenziazioni tra gruppi umani a fattori culturali e antropologici più che strettamente biologici.

Carlo Tullio-Altan individua cinque fattori costitutivi l’etnicità e che possono essere resi salienti attraverso forme di narrazione che li pongono come determinanti rispetto ad altri nascosti e trascurati.
Tali elementi sarebbero:
1) epos: la memoria storica esaltata e celebrata in un passato comune;
2) ethos: il complesso delle istituzioni e norme etiche e religiose;
3) logos: la lingua comune;
4) genos: trasfigurazione simbolica dei legami di discendenza comune;
5) topos: identificazione del gruppo con il territorio;
Quali di questi elementi vengano utilizzati e come siano plasmati risulta arbitrario e mutevole. Quando si parla di cultura, etnia e religione, non ci si riferisce a concetti reali, esistenti nel senso materiale del termine (come invece avviene per “tavolo”, o “mela”) ma costruiti e sostenuti grazie ad un accordo tra persone e declinati attraverso l’interazione sociale, a stretto contatto con il contesto storico-politico.

Il razzismo e il senso di superiorità rispetto agli altri

Stabilito questo, come si passa dalla definizione di un gruppo, alla discriminazione degli altri? Perché il nostro gruppo ci appare migliore degli altri?

Secondo Fabietti e Matera (1999), il razzismo oggi si fonda su una forma di narrazione del passato, una costruzione artificiale della memoria operata attraverso la selezione di ricordi e informazioni che esaltano alcuni specifici aspetti rispetto ad altri, collegati a costruire una storia utile a giustificare l’odio verso l’altro. Un passaggio chiave in questo processo è la creazione del concetto di “identità etnica”, che da concetto astratto, inesistente, finisce per essere percepita come un’entità reale, naturale. Secondo gli autori questo passaggio chiave avverrebbe attraverso processi esterni all’individuo (esasperazione delle differenze tra gruppi e minimizzazione delle somiglianze per dare realtà e sostanza all’identità etnica) e interni (costruzione del senso di appartenenza e riconoscimento dell’idea di etnia come di una cosa reale, esistente).

Concetti simili vengono espressi anche da Tajifel e Turner, con la loro “Teoria dell’identità sociale”, nella quale sostengono che quando si entra in contatto con soggetti appartenenti al nostro stesso gruppo sociale le differenze vengono minimizzate e le somiglianze accentuate, e specularmente, quando abbiamo a che fare con soggetti appartenenti ad un gruppo diverso dal nostro le differenze vengono sovraconsiderate, mentre le somiglianze tendono ad essere minimizzate o contestualizzate.

Se pensiamo ai casi di cronaca che costellano il panorama sociale attuale, ritroviamo diversi esempi di come l’azione criminosa possa essere intrepretata in modo molto differente, se a commettere il reato è un membro del nostro gruppo o di un altro: nel primo caso gli attributi negativi saranno legati alla singola persona, mentre nel secondo tendono ad essere letti come tipici di quel gruppo.
Le quattro affermazioni che seguono esemplificano ciò che abbiamo appena detto: “Un rom ruba perché tutti i rom rubano”; “Se un rom sventa un furto, è perché sarà lui ad essere particolarmente onesto (…o ne ha avuto qualche altro vantaggio…)”. Al contrario: “Se un mio concittadino ruba, è perché sarà lui ad essere un delinquente”; “Se un mio concittadino sventa un furto, è perché noi siamo gente onesta!”

La psicologia clinica come ha affrontato questa dinamica e cosa ne pensa del razzismo?

Ne “Il disagio della civiltà” (Freud, 1929) Freud parla di “narcisismo delle piccole differenze”, attraverso cui tenta di spiegare come la coesione intragruppale è costruita e mantenuta a partire dall’inferiorizzazione degli altri gruppi socialmente o geograficamente vicini, verso cui sono proiettate le istanze aggressive insite al gruppo stesso. Il gruppo che proietta può percepirsi “migliore” direzionando l’aggressività verso i gruppi che presentano delle minime “differenze”, i quali a loro volta diventano oggetto di disprezzo e ostilità.

In pratica Freud sostiene l’esistenza di un meccanismo di proiezione delle proprie parti negative all’esterno, sui gruppi più prossimi (anche perché più accessibili), attraverso il quale distinguiamo il nostro gruppo rispetto agli altri, e ci sentiamo gratificati nell’appartenervi.

Questa prospettiva spiega bene, ad esempio, l’intensa ostilità di alcune forme di campanilismo anche tra gruppi concentrati in un fazzoletto di terra, o la rancorosità spesso presente nei convertiti rispetto agli appartenenti al proprio gruppo religioso precedente.
Sempre nell’alveo della tradizione psicoanalitica non può essere trascurata l’interpretazione offerta da Wilhelm Reich, che nell’opera “Psicologia di massa del fascismo” pone attenzione al ruolo sociale svolto dalla sessualità e a tutte quelle dinamiche psicologiche che “affondano le loro radici nella parte irrazionale del carattere umano”. Conformemente al ruolo centrale attribuito all’energia orgonica nella concettualizzazione reichiana, l’ideologia razziale è intesa come “una tipica espressione caratteriale biopatica dell’uomo orgasticamente impotente”.

Reich include il razzismo tra le molteplici manifestazioni dell’irrazionalismo sociale, attraverso le quali dei soggetti incapaci di scaricare la propria eccitazione fisica e mentale, esprimono e canalizzano le istanze aggressive e la propria perenne frustrazione.

La teoria di Bateson

Naturalmente la psicoanalisi non è stata l’unica corrente psicologica ad affrontare il tema delle “differenze” e delle loro ripercussioni nelle relazioni tra soggetti e gruppi.
Uno dei maggiori autori ad aver affrontato questo tema è Gregory Bateson, che ha incentrato il concetto stesso di differenza alla base del processo conoscitivo umano, attraverso l’assioma per cui “l’informazione corrisponde sempre alla percezione di una differenza”.
Bateson rileva come la conoscenza non possa che procedere per distinzioni, per cui conoscere significa “conoscere attraverso le differenze”: “vi è un numero infinito di differenze […] da questa infinità noi ne scegliamo un numero limitatissimo, che diviene informazione. In effetti, ciò che intendiamo per informazione è una differenza che produce differenza”.
Secondo questo autore, più due gruppi interagiscono, più hanno bisogno di differenziarsi, rimarcando le rispettive caratteristiche idiosincratiche. È così che nasce la “schismogenesi”: la dinamica psico-sociale che porta due gruppi a discriminarsi l’un l’altro. Nella sua formulazione originaria di tale concetto, Bateson afferma che la “schismogenesi è un processo di differenziazione nelle norme comportamentali derivante dall’interazione cumulativa tra individui“.
Ciò significa in concreto che, come abbiamo già detto, più due gruppi interagiscono, più hanno bisogno di marcare le reciproche differenze.
Le modalità con cui i gruppi, una volta distintisi, interagiscono tra loro possono essere simmetriche (più l’altro si mostra aggressivo, più io mi mostro aggressivo) o complementari (più l’altro si mostra aggressivo, più io mi mostro pacifico).

Il conflitto avviene quando nell’interazione tra gruppi compare una sola delle due modalità, poiché si dà avvio ad un’escalation (simmetrica o complementare) insostenibile all’infinito, che culmina con lo scontro. Unica via d’uscita dall’escalation è il ricorso estemporaneo ad un’inversione di ruoli tra i gruppi o il cambio di modalità interattiva, utile a ridurre la quota di contrapposizione (“generalmente rispondo all’aggressività con l’aggressività, ma ora rispondo con la distensione” o “generalmente rispondo con l’accettazione, adesso invece mi oppongo”).
In assenza di tali momenti di riequilibrio della tensione tra gruppi (che Bateson individua nel rituale chiamato “Naven”) lo scontro è inevitabile.

A partire dalla premessa quindi che la mente non sia individuale, ma collettiva, generata cioè dall’interazione degli individui del sistema, secondo l’ottica batesoniana possiamo dire che “il razzista” altro non è che colui che esprime l’escalation conflittuale all’interno di un determinato gruppo, del quale ne incarna la componente più aggressiva nella modalità di confrontarsi con il diverso.
La discriminazione e la violenza altro non sono che l’espressione comportamentale di questa tensione, l’agito che incarna la percezione del soggetto.

Il razzismo come distinzione tra noi e loro all’interno dell’interazione sociale

Ciò che si può riconoscere come punto comune nelle elaborazioni di questi autori, appartenenti a discipline ed orientamenti diversi tra loro, è il pensiero che le differenze poste come cardine della distinzione“noi-loro” siano costruite dentro l’interazione sociale stessa, e che proprio quegli elementi su cui si avvia il processo di distinzione, diventino progressivamente sempre più marcatamente distanti.
Se tuttavia la distinzione è posta in modo arbitrario, essa potrebbe anche essere più facilmente trasformabile: una polarizzazione più significativa in un determinato momento storico, può diventare insignificante in un altro, smorzando il conflitto tra quegli specifici gruppi.

Se negli anni ’70 in Italia, il conflitto tra borghesi e proletari ha raggiunto livelli di tensione culminati nel terrorismo, questa stessa contrapposizione ha perso significato pochi anni dopo.

È quindi possibile, e certamente auspicabile, che proprio quelle categorie sulle quali si concentrano oggi le tensioni più violente, possano in un futuro prossimo diventare insignificanti. Ciò non escluderebbe tuttavia la loro sostituzione con un nuovo asse di discriminazione, secondo parametri che forse oggi ci risultano totalmente indifferenti, permettendo un avvicendamento di discriminazioni che può (forse) limitare l’escalation tra soggetti.

Questo a patto di non essere come i due protagonisti di una barzelletta sentita raccontare da Moni Ovadia: un vecchio Texano razzista (perché, a proposito di discriminazione, i texani “ovviamente” sono tutti razzisti…) si reca a New York e, salito sulla metropolitana, rimane folgorato vedendo davanti a sé due uomini indiscutibilmente neri come la notte. Non è tuttavia il colore della loro pelle, ciò che lo colpisce di più. Non è nemmeno il fatto che quei due uomini così indiscutibilmente neri, siano anche indiscutibilmente gay, dato che si tengono teneramente mano nella mano.
Ciò che lo colpisce e lo schifa ancora di più, è che quei due uomini così neri e così gay indossino la kippah e portino sotto il braccio libri scritti con caratteri indiscutibilmente ebraici, al che il vecchio Texano, un po’ frastornato da un simile concentrato umano, domanda a quei due: “Scusate, ma a voi non bastava essere semplicemente negri?”

Le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani adulti – La percezione delle molestie sessuali

Il gruppo di ricerca fluIDsex negli scorsi mesi ha lanciato una survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia; in questo articolo si farà riferimento all’argomento delle molestie sessuali.

 

Il gruppo di ricerca fluIDsex negli scorsi mesi ha lanciato una survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia.

I soggetti che hanno risposto alla survey sono stati 440, con età media di anni 22, di cui 274 persone di genere femminile e 166 di genere maschile; 125 persone omosessuali e 315 persone eterosessuali.

In questo articolo si farà riferimento unicamente all’argomento delle molestie sessuali. Gli altri risultati emersi sono stati pubblicati in precedenti articoli.

Molestie sessuali

Ogni comportamento di tipo fisico, verbale o non verbale, offensivo della dignità di una delle parti, fondato sull’appartenenza ad un genere o a carattere sessuale ed indesiderato da parte di qualcuno è considerabile molestia sessuale.

Le molestie sessuali, a differenza delle violenze sessuali, agiscono a livello psicologico. Alcuni di questi comportamenti possono essere apprezzamenti e sguardi insistenti, frasi equivoche-allusive ripetute, advance pesanti, mani appoggiate sul corpo altrui (come su una spalla o su un fianco) senza che vi sia un’intimità relazionale che ne giustifichi l’atto, inviti espliciti a rapporti sessuali in cambio di favori o ricatti di natura lavorativa o altra, e così via.

In questo studio la molestia sessuale è stata indagata basandosi sulla percezione che le eventuali vittime hanno avuto di una o più determinate situazioni capitate loro.

Il 67% delle persone eterosessuali di genere femminile che hanno partecipato allo studio ha dichiarato di sentirsi spesso vittima di molestie sessuali. La stessa dichiarazione è stata fatta dal 65% delle persone omosessuali di genere femminile e dal 53% delle persone omosessuali di genere maschile, contro solamente il 20% delle persone eterosessuali di genere maschile.

Da questi dati è emerso come vi siano delle persone più sensibili e/o più soggette a molestie sessuali in base al proprio genere ed in base al proprio orientamento sessuale: al primo posto troviamo il gruppo di genere femminile, eppure anche il gruppo maschile, nel caso in cui il proprio orientamento sessuale sia omosessuale anziché eterosessuale riporta un alto livello di vittimizzazione legato alle molestie sessuali.

Nonostante i soggetti del gruppo maschile eterosessuale si siano dichiarati meno soggetti ad essere vittime di molestie sessuali, anch’essi, sebbene più raramente, possono sperimentare situazioni di oggettivazione, in cui vengono privati della propria natura umana, per divenire oggetto nelle mani di qualcun altro.

Così, infatti, l’ex giocatore della NFL, Terry Crews, riporta la propria esperienza in cui è stato molestato da un agente nel passaggio alla sua nuova carriera di attore. In particolare, l’attore risponde ad una domanda in cui gli veniva chiesto come mai, grande e grosso com’è, innanzi alla molestia dell’agente non si è ribellato. Tale domanda sembra nascondere un pensiero preciso del pubblico: “se non gli hai tirato un pugno in faccia forse non eri così tanto contrario al suo tocco”.

La risposta di Crews si riferisce allo squilibrio di potere che, nel suo caso, da attore innanzi ad un agente importante, l’ha ostacolato nel rispondere aggressivamente: “Il tuo sogno è come il tuo bambino. I tuoi sogni, i tuoi obiettivi, le tue aspirazioni sono preziosi quanto i tuoi figli. E qualcuno lega il tuo sogno e gli punta una pistola alla testa e lo ucciderà se non lo farai, se non starai zitto. È una situazione di ostaggio, hai a che fare con un terrorista”.

Si ritiene importante citare questo caso, in quanto date le caratteristiche dei protagonisti è più facile comprendere quanto il fulcro del meccanismo delle molestie non sia guidato da una questione di forze e debolezze.

Spesso quando si viene molestati, nonostante il soggetto non venga necessariamente privato della possibilità di urlare, scappare o aggredire entrano in gioco non solo emozioni di rabbia, ma anche di vergogna e paura, capaci di bloccare l’agire in termini di opposizione.

Tuttavia, ad oggi, come emerso anche dalla survey lanciata, le vittime delle molestie sessuali sono principalmente di genere femminile.

A conferma di questi dati, si consiglia la visualizzazione del profilo di Rain Dove, una persona che sfrutta il proprio corpo per mettersi nei panni di diversi personaggi: si trucca, si veste e si atteggia secondo i canoni che la società detta, in modo da apparire oggi un uomo eterosessuale, domani una donna omosessuale e così via. La modella girando principalmente per l’America, ha potuto notare empiricamente quali siano le persone più soggette a molestie, quelle meno sicure e quelle che trovano vantaggio nel far parte della propria categoria di genere, orientamento e origine. In ordine dalla meno sicura alla più sicura e vantaggiosa: donne transessuali (di qualsiasi orientamento), donne eterosessuali, donne omosessuali/bisessuali, uomini omosessuali, uomini eterosessuali.

Come mai sono le persone di genere femminile ad essere primariamente vittime di molestie?

Uno studio condotto da Galdi e colleghi (2013) ha indagato come la programmazione televisiva che oggettivizza e degrada il corpo femminile può spronare gli uomini a impegnarsi in condotte sessualmente moleste.

Studi come questo (Aubrey, 2006) portano a ritenere il problema di carattere dunque prettamente pedagogico e sociale.

Eppure, la scienza ha evidenziato come anche una componente prettamente psicologica porti a sviluppare comportamenti sessualmente molesti. Attraverso il “Likelihood to Sexually Harass” (LHS) sono state trovate relazioni tra alte probabilità che gli uomini usufruiscano della possibilità di sfruttare sessualmente le donne (ad esempio assumerle in cambio di favori sessuali) e tratti di personalità. Inoltre, gli uomini con alti livelli di LHS oltre a presentare scarsi livelli di empatia, mantengono credenze contraddittorie sulla sessualità, sostengono rigidamente stereotipi dei ruoli sessuali e mostrano tendenze verso l’autoritarismo (Pryor et. Al, 1995). Si può dunque ritenere che il fenomeno sia abbastanza complesso e carico di componenti psicologiche, pedagogiche e sociali.

Ma quando una persona non presenta tratti psicologici, come una scarsa empatia, che possono predisporla maggiormente al compimento di molestie sessuali, come può succedere che non dia valore al consenso?

Con le parole di Hannah Arendt:

Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.

La società, con le sue regole e le sue credenze, talvolta può sostituirsi alle singole persone nell’atto del pensare e questo fenomeno porta ad ampie conseguenze.

I peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò che fanno. Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade (…) (Arendt, 1965-1966).

Evitare di riflettere su temi quali l’oggettivazione e rimanere, dunque, fruitori passivi di messaggi che pongono in risalto principalmente e talvolta unicamente il genere ed il corpo contribuisce alla sofferenza psicologica (APA, 2007) e all’ampliamento del fenomeno delle molestie fino ad arrivare all’ampliamento di quella cultura che Laurie Penny (2017), una giornalista inglese, chiama “cultura dello stupro”. Una cultura nella quale non è necessario che vi siano violenze sessuali quotidiane per esser definita tale, ma in cui si è arrivati ad accettare una libertà effimera, nella quale ci si illude di poter compiere la propria scelta, mascherando un’inesprimibile violenza quotidiana.

L’arma ideale contro una cultura del genere, perpetrata da uomini e donne, è il consenso.

Il consenso non è un oggetto. È uno stato dell’essere. (…) È un po’ come prestare attenzione. È un processo continuo. È un’interazione tra due esseri umani – La giornalista aggiunge che la cultura del consenso non è una cultura in cui basta essere salvi rispetto ad un potenziale stupro, ma una cultura in cui è lecito pretendere di più – “considerarsi reciprocamente esseri umani complessi dotati della facoltà di agire e di provare desiderio, non solo in un dato momento, ma in maniera continuativa. Adeguare le nostre idee di relazione e di sessualità al fatto che strappare un sì riluttante all’altro essere umano non basta. Bisognerebbe volere che l’altro dica “si” ancora e ancora. Perché la sessualità non dovrebbe ridursi a un dibattito su come farla franca in un modo che si possa definire consensuale.

Il consenso permetterebbe di uscire da una logica simile a quella del Panopticon, la prigione di Bentham, descritta da Foucault, la quale si basa su un diritto di veduta disuguale in base alla presenza o all’assenza di potere. Seguendo questo parallelismo, nella nostra società sembra che siano per la maggior parte (67%) donne quelle poste al centro della prigione, ovvero coloro che hanno ormai interiorizzato lo sguardo di una cultura in cui l’uomo detiene ancora il potere ed hanno imparato a comportarsi di conseguenza, sotto al peso di uno sguardo costante orientato al loro corpo.

 


 

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La terapia di Mindfulness per l’insonnia (MBTI) di Jason C. Ong – Principi e tecniche per dormire meglio

Il prof. Jason C. Ong ha sviluppato una Terapia basata sulla Mindfulness per l’insonnia (MBTI) , un innovativo intervento terapeutico di gruppo per il trattamento dell’ insonnia cronica.

 

Esiste nel mondo una specie di setta della quale fanno parte uomini e donne di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, razze e religioni: è la setta degli insonni, io ne faccio parte da dieci anni. Gli uomini non aderenti alla setta a volte dicono a quelli che ne fanno parte: ‘se non riesci a dormire puoi sempre leggere, guardare la tv, studiare o fare qualsiasi altra cosa’. Questo genere di frasi irrita profondamente i componenti della setta degli insonni. Il motivo è molto semplice; chi soffre d’ insonnia ha un’unica ossessione: addormentarsi

Con queste parole, Titta di Girolamo nel celebre film di Sorrentino “Le conseguenze dell’amore”,  interpreta benissimo il ruolo dell’ insonne con difficoltà all’addormentamento.

Insonnia: uno sguardo al problema

L’ insonnia è un problema diffuso tra gli adulti che danneggia le capacità cognitive e il sistema immunitario e può portare ulteriori disturbi mentali e patologie fisiche. Le conseguenze spesso sono anche sociali, come incidenti stradali, sul lavoro, diminuita produttività.

La “setta” degli insonni cronici in Italia arriva a comprendere quasi 9 milioni di persone (sondaggio eurodap), di cui il 40 % non “prende sonno” a causa di pensieri economici o familiari, e spesso come avviene per il protagonista del film, la preoccupazione di non dormire diventa essa stessa motivo dello stato di veglia.

Oltre alle ruminazioni cognitive le persone che soffrono d’ insonnia assumono poi comportamenti sbagliati che peggiorano la situazione, come l’abitudine di andare a letto prima, anche in assenza di sonno, e restare più a lungo a letto la mattina.

Secondo il Dr. Jason C. Ong, professore associato nel Dipartimento di Neurologia presso la Scuola di Medicina Feinberg della Northwestern University, più sforzo si fa affinché il sonno giunga e più si interrompe la naturale regolazione del sonno da parte del cervello.

Negli insonni la conseguenza di deprivazione del sonno, mancanza di energie ed umore basso, non facilita l’ascolto dei segnali del proprio corpo e l’autoregolazione. Più si impegnano a dormire seguendo a volte consigli su internet (tipo bere una camomilla, leggere un libro noioso) e più cresce l’ansia legata al fallimento.

La Mindfulness per l’insonnia (MBTI) do J. C. Ong

Il prof. Jason C. Ong ha sviluppato una Terapia basata sulla Mindfulness per l’insonnia (MBTI) , un innovativo intervento terapeutico di gruppo per il trattamento dell’ insonnia cronica.

La Mindfulness per l’insonnia unisce i principi e le pratiche della terapia di mindfulness con le strategie comportamentali della terapia cognitivo-comportamentale per l’ insonnia (CBT-I). L’intervento di gruppo utilizza meditazioni guidate, discussioni di gruppo e attività quotidiane svolte a casa. I partecipanti sono in grado di coltivare una maggiore consapevolezza di sé e modificare i loro pensieri e comportamenti malsani che riguardano il dormire per ridurre lo stress, l’ insonnia e altri disturbi del sonno.

Nel suo libro “Mindfulness-Based Therapy for Insomnia”, Jason C. Ong descrive le basi teoriche della Terapia basata sulla Mindfulness per l’insonnia e fornisce una guida pratica per i professionisti della salute mentale.

Da questo ricco manuale, dalle sue ricerche ed articoli pubblicati dal prof. Ong, ho estrapolato alcuni principi, suggerimenti e tecniche che possono essere di aiuto nel migliorare il rapporto con il sonno.

Prinicipi di Mindfulness per l’insonnia

Il Dr. Jason Ong individua 7 linee guida di Mindfulness per un sonno sereno e di qualità.

  1. La mente del principiante – Avere un atteggiamento mentale da principiante significa essere aperti e curiosi a nuovi modi di dormire, scoprendo diverse attività e cambiando routine. Ogni notte è una nuova notte.
  2. Non-sforzo – Mettersi d’impegno e forzandosi ad addormentarsi il più delle volte è controproducente. Il sonno è un processo naturale.
  3. Lasciare andare – Avere un ideale di sonno preciso porta a preoccuparsi delle conseguenze della mancanza di riposo. E’ consigliabile rilasciare ogni apprensione e permettere al sonno spontaneamente di giungere.
  4. Non-giudizio – Costruire un rapporto positivo con il sonno significa non criticare e non giudicare come negativo e avversivo lo stato di veglia. Fare amicizia con il proprio dormire.
  5. Accettazione – Riconoscere lo stato attuale di insonnia o di difficoltà ad addormentarsi è un primo passo importante nella scelta di come rispondere. Molte persone che hanno problemi a dormire si costringono e restare a letto. Invece accettare che non si è in uno stato di sonnolenza e che il sonno probabilmente non arriverà presto, porta alla scelta migliore di alzarsi dal letto e fare un’attività per stimolare l’arrivo naturale del sonno.
  6. Fiducia – La mente e il corpo sono capaci di autoregolarsi e recuperare la perdita del sonno. A volte un sonno breve e consolidato risulta più soddisfacente di un sonno frammentato e lungo e un debito di sonno può favorire un dolce dormire purché non sia forzato. E’ sempre una buona idea affidarsi al sistema interno e ascoltare i segnali del proprio corpo.
  7. Pazienza – È improbabile che la qualità e la quantità del sonno diventino subito ottimali. Pazientare e avere sempre fiducia nelle proprie capacità innate ripaga nel tempo con buoni risultati.

Avere uno scopo nella vita aiuta a dormire meglio

Aiutare le persone a coltivare uno scopo nella vita potrebbe essere una strategia efficace senza farmaci per migliorare la qualità del sonno, in particolare per una popolazione che combatte sempre di più contro l’ insonnia – sostiene il prof. Jason Ong.

Un suo recente studio del 2017 del Northwestern Medicine e il Rush University Medical Center sugli anziani, riporta che l’avere una buona ragione per alzarsi dal letto al mattino significa avere più probabilità di dormire meglio di notte, diminuendo del 63% le apnee notturne e del 52% la “sindrome delle gambe senza riposo”.

Una ricerca precedente aveva dimostrato che avere uno scopo nella vita in generale migliora il riposo. Questo è il primo studio a dimostrare che avere uno scopo e un obiettivo da raggiungere nella vita comporta un minor numero di disturbi del sonno e una migliore qualità del sonno e per un periodo di tempo lungo.

Lo scopo della vita è qualcosa che può essere perseguito e rafforzato attraverso le terapie di consapevolezza – sostiene il prof. Ong.

In particolare, le terapie basata sulla Mindfulness per l’insonnia (MBTI) e le terapie di Accettazione e Impegno, Acceptance and Commitment Therapies (ACT), includono il riconoscere i valori e praticare la compassione che facilitano il raggiungimento di uno scopo nella vita.

Seguendo l’approccio dell’ ACT per individuare i propri sogni, aspirazioni e speranze di vita, chi soffre di disturbi del sonno potrebbe chiedersi:

  • Se mi sentissi più riposato cosa farei di più nella mia vita?
  • Se dormissi meglio in che modo la mia vita o i miei comportamenti sarebbero diversi?
  • Come cambierebbero le mie relazioni, se fossi meno stanco e nervoso?
  • Quale significato vorrei dare alla mia vita?

Esercizio di “trainspotting”

L’esercizio dell’osservazione dei treni trainspotting, proposto dallo psicologo del sonno Dr. Ong, può essere un buon punto di partenza per acquisire consapevolezza e lavorare sui pensieri ricorrenti associati all’insonnia. L’esercizio comporta di immaginare noi stessi in piedi su una piattaforma ferroviaria ad osservare i pensieri che passano come se fossero treni che sfrecciano davanti a noi in una stazione trafficata.

Inevitabilmente, la nostra mente vagherà e noi “prenderemo un treno” in corsa entrando in un pensiero e seguendolo. Questo è il momento in cui praticare la consapevolezza riconoscendo che siamo entrati in un treno e poi gentilmente e senza giudicarci per questo, scendiamo dal treno e torniamo alla piattaforma per continuare il nostro trainspotting.

Imparando ad osservare i pensieri piuttosto che interagire con loro o analizzare i loro contenuti, riusciremo a rapportarci con una mente frenetica in un modo diverso. Invece di cercare di liberare la mente per far sì che il sonno avvenga (il che non è probabile che funzioni) possiamo diventare allenatori della mente, limitando la lotta per controllare i pensieri e permettere al sonno di affiorare.

Conclusioni: l’importanza dell’essere compassionevoli

In base dunque ai nuovi studi e alle nuove tecniche possiamo cambiare approccio al sonno. Essere gentili e auto compassionevoli e concederci l’adeguato riposo considerandolo non come una “perdita di tempo” ma come un bisogno vitale necessario a preservare la nostra salute. E con la consapevolezza che un buon sonno equilibra il sistema cardiovascolare e immunitario, ci rende più stabili emotivamente e più efficienti. Oltre ad essere un ottimo alleato contro l’invecchiamento.

Cosa succede nel cervello di un bambino a seguito di un ictus perinatale?

Un infarto cerebrale in un bambino non ha lo stesso impatto duraturo di un ictus in un adulto: uno studio ha rivelato che, decenni dopo un ictus perinatale, adolescenti o giovani adulti colpiti utilizzano la parte destra del cervello per svolgere le funzioni linguistiche, tipicamente localizzate a sinistra.

 

La nascita è in generale un momento difficile per il cervello, durante questo evento infatti non è raro che un bambino subisca un ictus perinatale: almeno 1 su 4.000 bambini ne è colpito poco prima, durante o dopo la nascita.

Ictus perinatale e conseguenze a livello cerebrale: lo studio della Georgetown University

Uno studio condotto dai ricercatori del Centro Medico della Georgetown University ha trovato che soggetti adulti in passato colpiti da un ictus perinatale, utilizzano il lato destro del cervello per elaborare il linguaggio e svolgere altre funzioni ad esso connesso a seguito del danneggiamento dell’emisfero sinistro.

I 12 soggetti esaminati, di età compresa tra i 12 e i 25 anni, che avevano subito un ictus perinatale nell’emisfero sinistro, utilizzano la parte destra del cervello per svolgere le funzioni linguistiche, le quali, nonostante ciò, non mostrano deficit particolari. Gli unici segni rivelatori della precedente sofferenza cerebrale sono rappresentati dalle difficoltà che alcuni soggetti mostrano durante lo studio o ancora dalla compromissione della funzionalità della mano destra (in seguito al danno avvenuto nella parte cerebrale sinistra, responsabile del controllo corporeo controlaterale). Altri soggetti mostrano disturbi nel funzionamento esecutivo, sintomo comune negli individui con lesioni cerebrali. Nonostante ciò le funzioni cognitive di base, quali ad esempio la comprensione o la produzione linguistica, risultano nella norma.

Gli studi di imaging inoltre hanno mostrato l’attivazione di regioni cerebrali nella parte destra, in particolare in aree identiche ma specularmente opposte rispetto a quelle del linguaggio lateralizzate tipicamente a sinistra.

Questi giovani cervelli erano molto plastici, ciò ha permesso di trasferire le basi del linguaggio in un’area sana, questo però non sta a significare che nuove aree possano essere localizzate nel lato destro del cervello in quanto riteniamo che ci siano limiti molto importanti su dove le funzioni possano essere trasferite – ha chiarito la Newport, che ha continuato – Ci sono regioni specifiche che prendono il sopravvento, a seconda della particolare funzione, quando una parte del cervello è deficitaria. Ogni funzione, come il linguaggio o le abilità spaziali, è localizzata in una particolare regione che può essere utilizzata qualora l’area cerebrale primaria sia danneggiata.

Le prospettive future mirano ad estendere lo studio ad un gruppo più ampio di partecipanti con una storia di ictus perinatale e intendono investigare le conseguenze degli infarti cerebrali su entrambi gli emisferi oltre a scoprire quali altre funzioni, in aggiunta al linguaggio, possano venire allocate nelle aree cerebrali non danneggiate.

Il gruppo di ricerca collabora inoltre a studi che potrebbero rivelare le basi molecolari della plasticità neurale. L’intento risulta estremamente interessante in quanto una maggior conoscenza riguardo la plasticità cerebrale potrebbe avere importanti implicazioni nella riabilitazione dei soggetti adulti in seguito ad un ictus.

 

 

Ore 15:17 Attacco al treno (2018) – Recensione del film

15:17 Attacco al treno: Un film che narra una storia vera, dove tutto è reale, a partire dagli attori, gli stessi protagonisti della “missione” che valse ai tre l’onorificenza francese, dove la suspence del pericolo di morte incombente su cinquecento anime si intreccia costantemente al racconto retrospettivo della storia di vita di tre bambini e ragazzi assolutamente ordinari, ma proiettati su scelte di vita fondate sull’altruismo.

Trama del film 15:17 – Attacco al treno

Tre uomini, un’amicizia senza tempo e ruggine, che dura dai tempi remoti delle scuole elementari.  Un’amicizia “cameratesca”, fondata sulla condivisione di momenti ludici, delle baruffe per i primi amori e su ideali e sogni, innanzitutto il sogno dell’aiuto ai bisognosi. Questo il legame tra Alek, Spencer e Anthony, i protagonisti dell’ultimo film di Steven Spielberg, ORE 15:17 Attacco al treno, che racconta la gloria e il coraggio di tre uomini comuni che riuscirono, il 21 agosto 2015, a sventare l’attacco terroristico ideato da Ayoub El-Khazzani al treno ad alta velocità Thalys Amsterdam-Parigi su cui stavano viaggiando.

Un film che narra una storia vera, dove tutto è reale, a partire dagli attori, gli stessi protagonisti della “missione” che valse infine ai tre l’onorificenza francese, dove la suspence del pericolo di morte incombente su cinquecento anime si intreccia costantemente al racconto retrospettivo della storia di vita di tre bambini e ragazzi assolutamente ordinari, ma proiettati su scelte di vita fondate sull’altruismo (questo forse può costituire la loro eccezionalità e maturità, forse a tratti esageratamente sottolineata, in un ideale dell’Io di freudiana memoria a cui aspirare, faticosamente).

L’infanzia dei tre protagonisti

Ed ecco che il film Attacco al treno “parte dalle origini” con il racconto biografico dei tre bambini discoli, provenienti da famiglie modeste, con madri disperate e richiamate all’appello dai maestri per i comportamenti irruenti dei figli (in particolare Spencer), il bullo che colleziona punizioni e rimproveri, nel contempo valoroso sognatore di una vita militare in cui si esprime il senso sociale di una vita spesa per l’aiuto ai bisognosi. Sì, perché i tre amici di infanzia coltivano il desiderio di una vita al servizio della patria e Spencer coltiva il sogno di divenire aereosoccorritore, aiutando chi si trova in difficoltà, all’insegna di un comportamento prosociale, intriso di empatia e dovere morale, secondo gli insegnamenti di Bateson e Rogers. Un sogno che non conosce minacce, tentennamenti, anche se non sempre supportato dagli stessi amici “Fai quello che devi, non devi avere l’approvazione degli altri”, recita una voce di fondo, in piena sintonia con un senso pieno di autoefficacia, intesa come consapevolezza di essere capace di dominare specifiche attività, situazioni ed eventi, in accordo con la definizione di Bandura.

Un sogno che si alimenta di duri allenamenti fisici, puntuali scoraggiamenti, soprattutto per Spencer che, a causa del suo comportamento ribelle, non si attiene esattamente ai protocolli rigidi di una vita militare e più volte rischia di mettersi in pericolo pur di “combattere fino alla fine”, sfoderando un coraggio forse superiore alla prudenza che richiedono le situazioni di emergenza. Un comportamento senza timori che si dimostrerà essenziale nello scontro fisico con l’attentatore senza scrupoli dove la collaborazione dei tre amici risulterà preziosa nel tentativo di sventare una strage e mettere in salvo i feriti.

L’eroismo e il senso di responsabilità come qualità dei protagonisti

Eroismo, senso di responsabilità, sangue freddo, tutti ingredienti in grado di dare senso a un’esistenza, per certi versi vissuta nei rimproveri subiti e fatti a se stessi (Spencer che combina guai a scuola e delude la madre costantemente), e poi confortata dalla preghiera del perdono e della pace, recitata dallo Spencer bambino dopo i rimproveri materni “Signore, fai di me uno strumento di pace. Solo dando si riceve”. E nel senso del donare si può riassumere il film: un dono di un corpo insanguinato e ferito nella colluttazione con un attentatore senza scrupoli, il dono della vita restituita a chi probabilmente, la vita, l’avrebbe lasciata su un treno passeggeri.

Una visione quasi mistica, un’aderenza a un ordine morale che coincide con il bene della società, dove riecheggia la teoria di Kohlberg sullo sviluppo morale, in particolare riferita al livello post-convenzionale da lui descritto. “Perché nei momenti di crisi bisogna fare qualcosa. Rischiare la vita per la libertà. Bisogna aiutarsi tutti nella comunità umana”, frase toccante della cerimonia premiale all’Eliseo dove il presidente Hollande consegna  laLégion d’honneur agli eroi del treno, e che lascia lo spettatore affascinato dal coraggio di eroi del tutto comuni, spingendolo forse a riappropriarsi di uno spirito comunitario e altruistico, che vada al di là della tendenza al disimpegno morale nei contesti di emergenza, del tutto in contrasto con quanto stabilito dai noti esperimenti sociologici di Darley & Latané sulla diffusione della responsabilità.

Conclusioni

Ore 15:17 Attacco al treno, un film dove i colpi di scena (a partire dalla vita militare e dai suoi vincoli fino allo scontro violento con l’uomo armato del treno passeggeri) si uniscono a flashback intrisi di spiritualità o del racconto di una quotidianità giovanile spesa tra amori e amicizie, racconto che talvolta, a dire il vero, si prolunga oltremodo e che appare poco collegato alla trama dell’attentato, a cui, in verità, non resta che lo spazio di pochi minuti. Minuti che, a onor del vero, avrebbero meritato un tributo ben più ampio, ma che comunque simbolizzano il potere del bene di dominare il male e il potere dei sogni di realizzarsi, “perché forse tutti siamo chiamati, in qualche modo, a qualcosa di più grande”.

Autismo: un focus sull’Applied Behaviour Analysis (ABA)

Diversi sono gli approcci comportamentali impiegati nell’ ambito dell’ autismo, tra i più importanti troviamo: l’ ABA (Applied Behavior Analysis), il TEACHH (Treatment And Education Of Autistic And Related Comunication Handicapped Children) e il metodo Portage.

Mara di Paolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Introduzione: l’ autismo

La Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA) nel 2006, ha definito l’ autismo come: “una sindrome comportamentale, causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri” (Baird et al., 2003; Berney, 2000; Szatmari, 2003). L’ Autismo, pertanto, si configura come una  disabilità  “permanente” che accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se con un’espressività variabile nel tempo.

Diversi sono gli approcci comportamentali impiegati nell’ambito dell’ autismo, che descriveremo di seguito.

ABA (Applied Behaviour Analysis)

L’ ABA (Applied Behavior Analysis) ovvero l’analisi applicata del comportamento, si basa principalmente sui principi comportamentali del condizionamento operante, al fine di indurre un processo di normalizzazione, attraverso lo sviluppo di pattern comportamentali adattivi. Il luogo privilegiato di questo trattamento è il contesto in cui il bambino vive, casa sua, la sua scuola (Lovaas et al; 1990). In breve, le caratteristiche precipue di questo intervento sono:

  1. La programmazione di un intervento creato ad hoc per ciascun bambino, valutando le potenzialità e lacune, cercando di ampliare il repertorio comportamentale adattivo, riducendo il più possibile i comportamenti-problema.
  2. L’inizio dell’intervento è immediato. Si è osservato attraverso ricerche sull’efficacia di questo metodo, come l’efficacia sia direttamente proporzionale all’età d’inizio del trattamento (iniziare a lavorare con una bambino di 18 mesi è molto meglio che iniziare a lavorare con un bambino di 5 anni ) e l’intesività temporale.
  3. Il trasferimento dell’intervento ai contesti naturali. I genitori essendo sempre presenti agli incontri quotidiani del proprio bambino con i tecnici ABA conoscono le finalità del programma e possono anche loro mettere in pratica le modalità educative più consone.
  4. Il programma è intensivo sia nei termini di tempo, sia per il coinvolgimento di quante più persone siano quotidianamente a contatto con il bambino (genitori, fratelli, insegnanti, perenti, educatrici, etc..).

L’ Applied Behaviour Analysis verra’ ulteriormente approfondita nel paragrafo 2 di questo articolo.

TEACHH (Treatment And Education Of Autistic And Related Comunication Handicapped Children)

Il TEACHH  è una modalità di presa in carico globale del bambino con autismo (Schopler et al.; 1980). Il modello pone molta attenzione all’organizzazione degli spazi fisici, ai compiti materiali di tipo visivo-spaziale, all’organizzazione dell’ambiente e alla creazione di contesti facilitanti, al fine di rendere l’ambiente il più possibile adatto alle abilità del bambino. Ergo genitori, terapisti, educatori non devono limitarsi all’insegnamento di nuove abilità, ma anche nella facilitazione dell’uso indipendente delle abilità possedute. Bisogna prestare quindi molta attenzione a come si strutturano gli spazi fisici, la disposizione dei mobili e dei materiali all’interno dei vari contesti in cui il bambino quotidianamente vive. Il TEACHH programma minuziosamente le sequenze d’azione o attività, che si svolgono nel tempo come uno schema della giornata visualizzato composto da foto, oggetti, fotografie, agende, etc.. a seconda chiaramente della persona che ne usufruisce, questo permette di ridurre nel bambino la frustrazione o lo stress, che potrebbe provare di fronte all’incomprensione delle cose da dover fare. I genitori sono coinvolti all’interno del trattamento e concertati con i professionisti, ciascuno portatore di un proprio sapere e contributo, i genitori massimi conoscitori del figlio e i professionisti conoscitori della tecnica.

Metodo Portage

Il Metodo Portage (Bacci, Menazza, Vio, 2010) è un metodo educativo precoce, che fa leva essenzialmente sulla formazione dei genitori. Il programma ha preso il nome dalla cittadina in cui è nato, consisteva inizialmente in un intervento domiciliare per venire incontro alle esigenze delle persone, che non potevano muoversi da casa con frequenza, per raggiungere i vicini centri riabilitativi. Pertanto un operatore specializzato visitava una volta alla settimana la famiglia, per insegnare direttamente ai genitori i modi più idonei per facilitare lo sviluppo del figlio autistico. Per rendere più efficace l’intervento, alle famiglie venivano anche consegnate delle schede su cui lavorare che spiegavano le tecniche educative più efficaci. Inoltre ad ogni visita venivano valutati i progressi del bambino, le impressioni dei genitori e aggiornato di volta in volta il programma, in base ai dati rilevati, con obiettivi realistici e raggiungibili. Nel corso del tempo poi le visite si diradavano in modo da rendere sempre più autonomo ciascun genitore. Anche in Italia il programma si è rivelato assai flessibile, in quanto l’intervento non è volto solo a colmare il ritardo che il bambino ha accumulato, ma anche a prevenirlo. L’efficacia di questo metodo però dipende dalla precocità d’inizio (0-6 anni), anche se sono stati raggiunti buoni risultati con bambini di età superiore. Il programma non offre ricette immediate, ma necessita della flessibilità e dell’ingegnosità genitoriale nell’applicazione dei consigli educativi. Inoltre le attività domiciliari non risultano mai essere sostitutive dei programmi riabilitativi quali quelle del logopedista, del fisioterapista etc…

Un approfondimento sull’ Applied Behaviour Analysis (ABA)

L’ ABA (Applied Behaviour Analysis = Analisi Applicata al Comportamento) in termini generali è un insieme di procedure applicative che trovano fondamento nella teoria dell’ Analisi del Comportamento (Skinner, 1953). Tali procedure hanno riscontrato un grandissimo successo di impiego in vari ambiti, non solo clinico e riabilitativo ma anche nel settore economico ed organizzativo. Questa precisazione è doverosa per non correre il rischio di ridurre l’ ABA al solo metodo di trattamento per l’ autismo.

L’ Applied Behaviour Analysis per l’ autismo può essere descritto come un insieme di procedure di intervento intensivo precoce, che applica i principi comportamentali, che hanno avuto una convalida scientifica, con l’obiettivo di promuovere i comportamenti adattivi e ridurre quelli problematici da impiegare con i bambini autistici (Cooper, Heron et Heward; 1989). Per fare ciò vengono, in seguito alla diagnosi emessa dalla neuropsichiatria infantile, raccolti preventivamente una serie di dati basati sull’ analisi comportamentale osservabile e quantificabile del bambino e su questa viene stilato un progetto d’intervento intensivo settimanale. È giusto ricordare che ABA (Applied Behaviour Analysis) per l’autismo è stata convalidata da diversi istituiti/enti nazionali ed internazionali tra cui: NIMH ( Ente Istituzionale Statunitense per la Salute Mentale), S.I.N.P.I.A (Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile), I.S.S. (Istituto Superiore della Sanità). Ad oggi è dimostrato che l’intervento precoce è maggiormente efficace se effettuato a livello anagrafico nei primi anni di vita, questo specialmente per la maggiore plasticità cerebrale dell’individuo che risulta essere massima rispetto ad altre fasi del ciclo di vita. Questo è comprensibile se riflettiamo sulla genesi neuronale e strutturale delle connessioni sinaptiche, che se pur geneticamente predeterminate sono vulnerabili all’impatto ambientale e possono altresì andare incontro a riorganizzazione funzionale allorquando ce ne sia necessità.

Diverse ricerche hanno appurato che un intervento precoce migliora la prognosi per i bambini con autismo, che iniziano il trattamento prima dei 5 anni (Fenske, Krantz, McClannhan;1985. Lovaas; 1987). Ulteriori studi hanno provato l’efficacia dell’intervento precoce con bambini tra i 4 e i 7 anni ( Eikeset, S. Jhar, E. Eldevik; 1999). Ciò è legato fondamentale a due fattori strettamente collegati tra loro:

  • La maggiore plasticità neuronale;
  • Il fatto che a 3 anni un bambino non ha imparato molto e non gli manca molto per raggiungere i suoi coetanei.

Progettando quindi un intervento intensivo ad hoc peculiare per ogni dato bambino autistico, da svolgersi nel contesto naturale (casa-scuola) è possibile concretamente indurre un processo di normalizzazione grazie ad una maggiore plasticità neuronale.

L’ Applied Behaviour Analysis (ABA) è l’ analisi applicata del comportamento che nell’ambito del trattamento per gli autistici si traduce in una modalità d’intervento educativa che nasce dall’applicazione dei principi comportamentali Skinneriani ed è finalizzata al superamento dei comportamenti problema e ad insegnare al bambino autistico ad apprendere, rendendo funzionale quanto appreso (Klevestrand, Isaksen, Gloersen e Ioersen, 1996).

L’ Applied Behaviour Analysis (ABA), per riuscire a fare ciò, combina diversi aspetti convalidati scientificamente in un pacchetto completo, ma altamente individualizzato a seconda del caso specifico, tra i metodi troviamo: NET (insegnamento nel contesto naturale-ecologico: casa, scuola, piscina, etc..), SEGNI (insegnamento di segni per comunicare), PECS (sistema di comunicazione tramite pittogrammi), DTT (insegnamento formale per prove discrete/strutturato), INCIDENTALE (imparare tramite stimoli).

Questo tipo d’intervento per quanto sia utilizzato con bambini autistici può essere anche utilizzato con bambini con Ritardo Mentale e Disturbi dello Sviluppo, dato che è caratterizzato da:

  • Ambiente di apprendimento positivo;
  • Validazione empirica (ricerca);
  • Coinvolgimento della famiglia (importante un Parent Training con i genitori);
  • Coinvolgimento della scuola;
  • Coerenza dell’educazione;
  • Intensività.

Le aree funzionali per l’ intervento ABA sono:

  • Comunicazione: partendo dai pre-requisiti si lavora sulla comprensione e produzione del linguaggio, fino alla formazione ed espansione delle frasi;
  • Socializzazione: si lavora prevalentemente a scuola quando ciò è possibile, e si cerca di passare dalla socializzazione nel piccolo gruppo al grande gruppo attraverso il supporto e la selezione di attività.
  • Gioco e Attività ricreative: nel gioco si lascia spazio al bambino anche in una dimensione “soliva” con l’ausilio di tecnologie, mentre nelle attività ricreative si cerca di creare socialità.
  • Abilità cognitive: dipendono dall’età anagrafica e sono connesse anche allo sviluppo scolastico.
  • Abilità scolastiche: riguardano sia le abilità cognitive, che sociali. In questo caso però si cerca di lavorare il più possibile con gli insegnanti su alcuni obiettivi, che gli stessi vorrebbero raggiungere.
  • Comportamento: riduzione dei comportamenti problema ovvero quelli che vanno a minare l’incolumità del bimbo, delle persone, o dell’ambiente. Le stesse stereotipie possono rappresentare un limite all’integrazione sociale e all’apprendimento pertanto esse stesse possono essere considerate comportamenti problema. L’eliminazione del comportamento problema è suggellata dalla sostituzione di un comportamento positivo sostitutivo, che viene scomposto e proposto in maniera accettabile e acquisibile al bambino.
  • Autonomia: si lavora sulla cura di sé per esempio a seconda dell’età anagrafica del piccolo si potrà lavorare sull’eliminazione del biberon oppure sul controllo sfinterico.

Tutti gli interventi qui esposti, seppur diversi, condividono alcuni elementi: sono tanto piu efficaci quanto preoci e intensivi (è fondamentale dunque una diagnosi precoce) e soprattutto è fondamentale che siano condivisi gli obiettivi con i genitori e i vari operatori che interagiscono con il bambino autistico.

La coppia e il sesso in gravidanza – Mamme e papà si diventa

Una domanda che molte donne si pongono è se e in che modo sia possibile fare sesso in gravidanza. Nella nostra cultura, fino ad alcuni decenni fa, si preferiva praticare l’astinenza nel timore che il rapporto sessuale potesse danneggiare il feto o generare aborti.

 

Attualmente, è ormai condiviso dalla comunità scientifica che non vi sono controindicazioni se si pratica sesso in gravidanza, tranne nei casi di gravidanze a rischio; andrebbe evitato solo nelle ultime settimane prima del parto (Imbasciati, 2015), infatti sia le contrazioni orgasmiche che la presenza di una sostanza simile alla prostaglandina contenuta nello sperma maschile possono favorire il travaglio.

Sesso in gravidanza: i timori delle coppie

Nonostante tale informazione sia ormai nota, la reazione delle coppie e in particolare della donna non è così scontata, anzi risulta influenzata da fattori psichici ed emotivi. Da un lato, infatti, nella società moderna la donna incinta ha riacquistato una sua femminilità e l’identità di donna tende ad essere conservata anche quando si acquisisce l’identità di madre, in un’ottica di maggiore unitarietà e armonia. Le neo-mamme continuano ad essere donne e compagne, oltre che mamme e questo risulta positivo per la vita di coppia (Finzi, 2011). Infatti, l’interruzione dei rapporti sessuali può far sentire il padre escluso dalla gravidanza; mantenendo l’intimità nella coppia, invece, il papà ha la possibilità di sentirsi parte del processo procreativo e questo aumenta la sua vicinanza sia alla donna che al bambino stesso.

Dall’altro lato, si osserva invece, come, nonostante le rassicurazioni mediche sulla possibilità di continuare a fare sesso in gravidanza, alle volte le coppie manifestino timori e sentimenti che impediscono che ciò accada. Questo perché il sesso, non è solo l’ incontro fisico tra due corpi, è soprattutto l’incontro tra due menti e alcuni eventi psichici possono intervenire per bloccare l’intimità. Mente e corpo sono interrelati in un processo di natura psicosomatica e il piacere sessuale scaturisce da molteplici emozioni e vissuti psicofisici. È possibile infatti percepire sensazioni fisiche sgradevoli o dolorose, che potrebbero portare all’astinenza e questo può essere legato a preoccupazioni o fantasie inconsce. Ad esempio, la presenza del bambino potrebbe essere percepita come l’essenza dell’amore e aumentare la sessualità nella coppia oppure può essere vissuta come un’invasione rispetto alla diade o una “spia” nel momento di intimità. Altri vissuti possono essere di esclusione da parte del papà dall’unione madre-bambino mentre la madre potrebbe sentirsi invasa dalla presenza del feto (Raphael-Leff, 2014).

Fare sesso in gravidanza: i benefici sul feto

Tali fantasie e timori sono assolutamente di natura psichica, in quanto fisicamente il bambino è al sicuro e non può subire nessun danno se si fa sesso in gravidanza. Anzi, in gravidanza l’eccitazione e il piacere della donna risultano spesso intensificati a causa dell’aumentata produzione ormonale e dell’elasticità della muscolatura. Alcune ricerche hanno anche dimostrato che una sana attività sessuale in gravidanza può avere un effetto positivo sul parto: infatti, le donne che hanno orgasmi in gravidanza hanno una probabilità minore di avere parti prematuri; inoltre, le prostaglandine contenute nello sperma aumentano le contrazioni uterine e possono favorire il travaglio. Anche il bambino sembra gradire la sensazione di benessere della mamma durante il rapporto sessuale, a causa del rilascio di endorfine che entrano subito in circolo.

Ciò che, dunque, può essere d’ostacolo al sesso in gravidanza sono le credenze e i falsi miti comuni o le dinamiche psichiche individuali o di coppia. Se presenti, approfondirle e comprenderne la natura può essere importante per vivere una sana e soddisfacente intimità sessuale anche in gravidanza.

Dunque, non esiste una regola su come debba essere vissuto il sesso in gravidanza; ogni coppia ha un proprio modo di vivere l’intimità che può modificarsi sulla base dei cambiamenti che la perinatalità comporta.

La stimolazione auricolare transcutanea del nervo vago (taVNS) per il trattamento della sintomatologia depressiva

Un’analisi condotta da Kong, Fang, Rong e colleghi, recentemente pubblicata su Frontiers in Psychiatry, ha mostrato come la stimolazione auricolare transcutanea del nervo vago (taVNS) sia in grado di ridurre in modo significativo alcuni sintomi caratterizzanti il disturbo depressivo maggiore (MDD) come l’ansia, il rallentamento psicomotorio, i disturbi del sonno e il senso di hopelessness.

 

Il nervo vago: che cos’è e come funziona

Il nervo vago (VN) è il nervo craniale più lungo e ramificato del corpo umano che dall’encefalo si estende nel tronco fino alla cavità addominale; facente parte di un intricato network neuro-immuno-endocrino, esso presiede al mantenimento dell’omeostasi di molteplici sistemi (Yuan, 2016).

Infatti grazie alle sue molteplici connessioni, funge da “controllo centrale”, integrando le informazione enterocettive provenienti dal sistema cardiovascolare, respiratorio e viscerale e rispondendo in modo appropriato, tramite modulazione, ai feedback che riceve.

Recenti studi hanno mostrato come il nervo vago sia altresì coinvolto nella regolazione infiammatoria, del dolore e dell’umore.

Per tale ragione, nel 2005 la US Food and Drug Administration ha approvato per la prima volta la stimolazione cervicale del nervo cranico come trattamento per alcune patologie tra cui la depressione cronica farmaco-resistente e l’epilessia refrattaria (Yuan, 2016).

La stimolazione transcutanea del nervo vago

Da quel momento sono stati sviluppati diversi metodi di stimolazione transcutanea non invasiva del nervo vago, in particolare due: il primo prevede l’applicazione nella zona cervicale di un semplice device chiamato GammaCore, il secondo invece prevede una stimolazione nella regione dell’orecchio.

Il razionale dell’applicazione di tale stimolazione vagale, tramite agopuntura o blandissimi impulsi elettrici, partendo dalla regione dell’orecchio (taVNS), si basa su numerosi studi di anatomia che dimostrano come il ramo auricolare del nervo vago sia distribuito per la maggior parte nella conca superiore e inferiore dell’orecchio incluso il canale uditivo esterno; pertanto queste aree rappresentano il target per la taVNS.

Un recente studio di Kraus e colleghi (2013), confrontando gli effetti evocati dalla taVNS con i segnali provenienti dalla fMRI, ha mostrato una significativa diminuzione di quest’ultimi per alcune regioni cerebrali come il giro paraippocampale, la corteccia cingolata posteriore e la parte destra del talamo a seguito della stimolazione del quadrante posteriore e anteriore del canale uditivo sinistro.

Tale risultato suggerisce che la taVNS in alcune zone specifiche dell’orecchio potrebbe modulare pattern cerebrali differenti che a loro volta potrebbero essere associati a differenti effetti; tuttavia future ricerche sono necessarie per indagare più dettagliatamente il legame tra specifiche aree cerebrali e differenti aree dell’orecchio.

Hein e colleghi (2013) furono i primi ad utilizzare la taVNS bilaterale su soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore trattato con antidepressivi.

I soggetti furono divisi in due gruppi che poi vennero confrontati tra loro: uno riceveva realmente la taVNS, mentre l’altro riceveva una stimolazione solo simulata.

Dal confronto i ricercatori mostrarono come nel gruppo dei soggetti realmente stimolati vi era stato un miglioramento significativo dei sintomi depressivi, misurati tramite il Beck Depression Inventory, dopo cinque sedute a settimana per due settimane, rispetto al gruppi di soggetti che non avevano ricevuto la stimolazione.

In aggiunta a tali risultati, uno studio clinico precedente di Rong e colleghi (2016) ha mostrato effetti della taVNS simili in soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore che erano stati istruiti a metterla in atto quotidianamente a casa: i pazienti che mettevano in atto la taVSN mostravano una diminuzione della sintomatologia depressiva nei punteggi della Hamilton Depression rating scale (Hamilton, 1960) in particolare per il rallentamento psicomotorio, i disturbi del sonno e la sensazione di hopelessness.

L’ipotesi dell’efficacia della taVNS per il disturbo depressivo maggiore

Secondo l’ipotesi eziopatologica del disturbo depressivo maggiore che associa la patologia ad una disregolazione del circuito limbico-corticale, le aree cerebrali coinvolte sarebbero associate a due componenti: una più vegetativa-somatica che coinvolge l’ipotalamo, l’amigdala, l’ippocampo, l’insula anteriore, l’altra più attentiva-cognitiva (dlPFC, la corteccia parietale inferiore) (Mayeberg, 1997).

Uno studio di Conway, Price e colleghi (2013) ha mostrato come il nervo vago abbia connessioni e influenze sia dirette che indirette sul circuito limbico-striato-talamico-corticale; a dimostrazione di ciò, la taVNS può produrre in ampia misura la modulazione dell’attivazione delle proiezioni terminali vagali “classiche” che si diramano fino l’insula anteriore, il locus coeruleus, l’ipotalamo, la corteccia cingolata anteriore, il nucleo del tratto solitario.

Altri studi hanno suggerito un ruolo di rilievo del nervo vago nella modulazione non solo dei circuiti cerebrali coinvolti nella depressione ma anche del sistema infiammatorio attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e l’inibizione dei glucocorticoidi delle vie infiammatorie periferiche (Bellavance, 2014).

In aggiunta uno studio di Cryan & Dinan (2012) ha evidenziato come la flora batterica intestinale possa influenzare alcune funzioni cerebrali, l’umore e il comportamento interagendo con il sistema nervoso centrale tramite meccanismi endocrini e immunitari.

In particolare è stato dimostrato come il microbiota intestinale sia essenziale per la modulazione della risposta comportamentale allo stress, come l’ansia e la depressione (Fung, Olson et al., 2017).

Il nervo vago pertanto potrebbe essere in grado anche di modulare le funzioni dei sistemi sopracitati producendo degli effetti sulla sintomatologia depressiva tramite l’influenza sull’asse microbiota-intestino-sistema nervoso.

La somministrazione della taVNS ha una durata che va dai 30 minuti due volte al giorno a 15 minuti per cinque volte a settimana; tuttavia la frequenza e l’intensità per ottenere la “dose” giusta di taVNS per produrre degli effetti significativi sono ancora oggetto di numerosi studi in quanto diverse frequenze di questa stimolazione possono produrre dei cambiamenti diversi a livello cerebrale e un diverso rilascio neurotrasmettitoriale (Kong, Fang, Rong, 2018).

Riconciliare causazione cognitiva e causazione ambientale: un approccio funzionale alla cognizione

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione.

Davide Carnevali

 

È opinione diffusa che l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva siano in competizione tra loro e mutualmente esclusive. In questo articolo proveremo a sfatare questa convinzione, dimostrando come l’ approccio funzionale alla cognizione, fortemente enfatizzato dal programma di ricerca comportamentale sulle risposte relazionali derivate, il cui prodotto ultimo è la Relational Frame Theory, (Sidman & Tailby, 1982; Hayes, Barnes-Holmes & Roche, 2001; Törneke, 2010; Cassidy, Roche & O’Hora, 2010), abbia gettato le basi per una fruttuosa collaborazione tra entrambi gli orientamenti.

Analisi del comportamento e psicologia cognitiva: due isole dello stesso arcipelago

Fino ad aggi, la relazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva può essere paragonata alla relazione esistente fra tribù che vivono su isole remote appartenenti allo stesso arcipelago (Hughes, De Houwer, & Perugini, 2016). Questa mancanza di interazione non è sorprendente alla luce di ciò che è stato detto e scritto da entrambe le parti sulla relazione tra analisi comportamentale (o comportamentismo in senso più ampio) e psicologia cognitiva.

Gli psicologi cognitivi hanno creato il mito della “rivoluzione cognitiva” (vedi Watrin e Darwich, 2012, per un’eccellente revisione) che avrebbe comportato la fine del comportamentismo, in modo simile a quello in cui una specie animale viene soppiantata dall’avvento di un’altra nel corso dell’evoluzione naturale. Questo mito pretende di affermare la superiorità esplicativa della psicologia cognitiva rispetto all’ analisi del comportamento, considerando quest’ultima definitivamente estinta o comunque in via di estinzione. Le varianti di questo mito sono così diffuse nei libri di testo universitari introduttivi alla psicologia che, con ogni probabilità, la grande maggioranza degli psicologi laureati negli ultimi 20 anni sono beatamente inconsapevoli dei risultati o persino dell’esistenza dell’ analisi del comportamento (Hobbs & Chiesa, 2011).

Skinner, padre dell’ analisi del comportamento, da parte sua, ha fatto ben poco per favorire il riavvicinamento con la psicologia cognitiva, che considerava una psicologia descrittiva, infarcita di mentalismo (costrutti e rappresentazioni della realtà comportamentale) e priva di qualsiasi valore esplicativo (Skinner, 1990). Altri autorevoli analisti del comportamento (ad es. MacCorquodale, 1970; Anderson, Hawkins & Scotti, 2000; Gifford & Hayes, 1999; Palmer, 2006; Watrin & Darwich, 2012) hanno invece risposto alle critiche degli psicologi cognitivi, fornendo chiare ragioni a sostegno delle proprie posizioni o mettendo in rilievo le problematicità intrinseche a tali critiche. Per esempio, un problema spesso trascurato nelle critiche formulate dagli studiosi cognitivi, riguarda la relativa conoscenza del comportamentismo, il quale non è riducibile a un’unica e vera scuola psicologica in senso stretto, ma piuttosto fa riferimento a una famiglia di posizioni concettuali, all’interno della quale convivono posizioni profondamente diverse caratterizzate da opzioni metateoriche e teoriche talvolta contrastanti (Moderato & Ziino, 1994). Per queste ragioni è difficile capire quale rappresentazione ogni ricercatore abbia in mente quando si riferisce al comportamentismo per criticarlo (Moderato & Ziino, 1994). Sfortunatamente, queste repliche e argomentazioni sono state per lo più ignorate dagli psicologi cognitivi, forse in parte perché sono state pubblicate quasi esclusivamente su riviste specialistiche di analisi del comportamento che gli psicologi cognitivi semplicemente non leggono (Palmer, 2006). Alla fine, la mancanza di risposta nel merito d elle riflessioni esposte ha contribuito a rafforzare la percezione circa l’impossibilità di stabilire relazioni costruttive tra i sostenitori dei due orientamenti.

Una via di riconciliazione tra posizioni così distanti è stata tracciata recentemente da alcuni studiosi (De Houwer, 2011; Hughes & Barnes‐Holmes, 2016)., 2016) appartenenti a posizioni contestualiste ed empiriste (Morris,1988; Biglan & Hayes, 1996), in linea con una moderna visione dell’ analisi del comportamento. Tali autori sostengono che la psicologia funzionale (che include anche l’ analisi del comportamento) e la psicologia cognitiva sono allo stesso tempo fondamentalmente diverse e si sostengono a vicenda.

Analisi comportamentale e psicologia cognitiva tra explanandum e explanans

In sostanza, è stato proposto un quadro cognitivo-funzionale che colloca l’ analisi del comportamento e la psicologia cognitiva su diversi livelli di spiegazione. Ognuno di essi richiede di essere definito in termini di explanandum (ossia il fenomeno che deve essere spiegato) e dei rispettivi explanans (ossia l’insieme delle conoscenze utilizzate per spiegare un fenomeno). Da questo punto di vista, la psicologia funzionale e cognitiva si situano a diversi livelli di spiegazione proprio perché si concentrano su diversi explanandum ed explanans (Bechtel, 2008; De Houwer, 2011). Più precisamente, mentre la psicologia funzionale (analisi funzionale) mira a comprendere il comportamento in termini di relazioni di controllo (dette relazioni funzionali), rintracciando le variabili ambientali ritenute responsabili della sua emissione (Chiesa, 1994), la psicologia cognitiva (analisi cognitiva) mira invece a comprendere i processi mentali che mediano gli effetti comportamentali di un fenomeno psicologico, facendo appello a meccanismi mentali e/o a peculiari processi di elaborazione cognitiva (Gardner, 1985).

Consideriamo per esempio il paradigma del condizionamento classico di Pavlov e, nello specifico, l’impatto che la co-occorrenza di eventi stimolo (es. suono neutrale e shock elettrico) esercita sul comportamento osservato: la risposta di incremento della conduttanza cutanea elicitata dalla semplice presentazione del suono divenuto stimolo condizionale (Pavlov, 1927).

Da un punto di vista funzionale, è proprio il processo di interazione che coinvolge l’organismo durante la co-occorenza tra stimoli (il tono acustico neutrale e lo shock elettrico o stimolo incondizionale) che di per sé fornisce la spiegazione del cambiamento comportamentale riscontrato (ovvero l’aumento della conduttanza della pelle alla sola presenza del suono, in assenza dello shock elettrico). La spiegazione del comportamento (la risposta di conduttanza cutanea misurata) ha pertanto una genesi esternalistica intercettabile nella relazione di incessante interdipendenza che l’organismo stabilisce con il contesto e che fa da scenario alla manifestazione comportamentale osservata.

Gli psicologi cognitivi d’altro canto, vogliono spiegare l’ effetto comportamentale (il condizionamento classico e quindi l’impatto che la co-occorenza di stimoli esercita sul comportamento) e non il comportamento direttamente osservabile (l’aumento della conduttanza della pelle) e per far ciò chiamano in causa specifici meccanismi mentali. Ad esempio, per spiegare il condizionamento classico, gli psicologi cognitivi hanno proposto che gli accoppiamenti tono-shock producono un’associazione in memoria tra la rappresentazione del tono acustico e la rappresentazione dello shock elettrico. In questo modo, una volta che questa associazione si è formata, la sola presentazione del tono acustico sarà in grado di attivare non solo la propria rappresentazione, ma anche la rappresentazione dello shock elettrico, che a sua volta provocherà un aumento della conduttanza della pelle (Bouton, 1993). Ancora una volta, dunque, appare netta e mercata la distanza tra le due posizioni esplicative appena descritte.

Da un lato i ricercatori cognitivi non potranno mai essere soddisfatti da un’analisi funzionale di un fenomeno comportamentale, poiché la considerano una semplice descrizione. Dall’altra parte, i ricercatori funzionali ritengono di non aver bisogno di spiegare come la mente influenzi il comportamento, dal momento che la conoscenza di specifiche relazioni con talune variabili ambientali è ritenuta di per sé esauriente e sufficiente per predire e per influenzare il comportamento stesso. Questa visione dicotomica ha invalidato sul nascere una possibile fruttuosa comunicazione tra analisi del comportamento e psicologia cognitiva.

Certamente queste prospettive sono profondamente diverse anche perché fondate su punti di vista filosofici marcatamente differenti (Hayes, Hayes e Reese, 1988) e poco senso avrebbe negarle o minimizzarle. Tuttavia, come anticipato, è stata avanzata una via di riconciliazione ai fini di una collaborazione fondamentale per l’avanzamento e la parsimonia scientifici.

Verso un approccio cognitivo-funzionale

La proposta di un approccio cognitivo-funzionale capace di affidare obiettivi diversi alla psicologia cognitiva e all’ analisi del comportamento, permetterebbe infatti di eliminare tensioni, dissonanze e conflittualità tra i due modelli. Per esempio, dato che i meccanismi mentali di cui si occupa la psicologia cognitiva non esistono nel vuoto, ma sono sempre modellati dall’ambiente passato e attivati ​​dall’ambiente attuale, ne consegue che una vera comprensione dei meccanismi mentali (obiettivo della psicologia cognitiva) può realizzarsi solo se si tiene conto dell’ambiente (Fiedler, 2014) e degli effetti che esso esercita sul comportamento (obiettivo della psicologia funzionale e quindi dell’ analisi del comportamento). Sul versante clinico, per esempio, un’integrazione di questo tipo sembra intercettabile nel modello di concettualizzazione tutto italiano della LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero, 2015). La tendenza ad occuparsi della ricostruzione del processo di apprendimento nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e la svolta centrata sulle disfunzioni di processo mettono in evidenza la necessità di considerare modelli di concettualizzazione funzionalista del caso.

Viceversa, la psicologia cognitiva che genera continue previsioni su relazioni ambiente-comportamento (Zentall, 2001) potrebbe a sua volta contribuire allo sviluppo della psicologia funzionale. La letteratura cognitiva, infatti, è piena di effetti comportamentali che non compaiono nella letteratura corrente della psicologia funzionale e che possono essere collegati a principi funzionali generali. Pensiamo per esempio a tipici effetti di interferenza studiati dalla psicologia cognitiva come l’effetto Stroop, l’effetto Simon, l’effetto Navon, l’effetto Priming, o ad altri effetti come quelli di “tipicità” o di “distanza gerarchica” alla base dei processi di categorizzazione, o ancora ai più noti effetti placebo e nocebo a cui i ricercatori cognitivi fanno appello per comprendere la modulazione cognitiva ed emotiva dei sintomi. Gli psicologi che adottano un approccio funzionale, come gli analisti del comportamento, sono fortemente interessati a spiegare tali fenomeni identificando tipiche relazioni tra ambiente e comportamento, traducibili in termini di principi generali di funzionamento precisi e di ampia portata (Barnes-Holmes & Hussey, 2016) e scientificamente fondati su paradigmi sperimentali di laboratorio.

Dunque, in linea di principio, gli analisti del comportamento potrebbero usare le teorie cognitive per aumentare la propria conoscenza funzionale (vedi Barnes-Holmes & Hussey, 2016). Ad esempio, collegando il noto effetto Stroop “colore-parola” con il principio dello Stimulus control (definito in analisi del comportamento come controllo esercitato dallo stimolo sulla risposta comportamentale) i ricercatori funzionali, invece di focalizzarsi su presunte alterazioni nei meccanismi di elaborazione delle informazioni, potrebbero utilizzare questi dati empirici in merito all’effetto stroop come guide per approfondire l’analisi delle sorgenti contestuali che regolano le risposte attentive. In questo modo, i ricercatori funzionali cercheranno di influenzare tali risposte, attraverso una manipolazione sempre più precisa degli stimoli ambientali.

In particolare oggi, che la ricerca su linguaggio e cognizione (Relational Frame Theory; Hayes, Roche e Barnes Holmes, 2001) sta acquisendo interesse all’interno della comunità degli analisti del comportamento, adottare un approccio funzionale-cognitivo potrebbe offrire uno scenario di svolta importante sia sul versante sperimentale che su quello applicato. Infatti, a livello teorico, i ricercatori cognitivi hanno già esplorato le proprietà fondamentali di ciò che essi chiamano “conoscenza relazionale”, generando un’ampia, ricca e complessa letteratura sul tema, di cui gran parte degli analisti del comportamento potrebbe non essere consapevole, perdendo l’opportunità di analizzarla da un punto di vista funzionale.

Purtroppo, nonostante l’ampia sovrapposizione tra la ricerca in analisi del comportamento e in psicologia cognitiva, è quasi impossibile trovare riferimenti incrociato tra le due letterature. Questo, rende altamente probabile il proliferare di terminologie, teorie, ipotesi almeno in parte ridondanti, fatto dannoso in ambito scientifico.

Per tutte queste ragioni, l’adozione di un approccio funzionale-cognitivo, permetterebbe ai ricercatori cognitivi e a quelli provenienti dall’ analisi del comportamento di perseguire obiettivi diversi, ma che convergano nel promuovere la conoscenza circa il funzionamento psicologico degli esseri umani. Tale approccio potrebbe sancire l’esistenza di una relazione reciprocamente vantaggiosa tra il livello di spiegazione funzionale e quello cognitivo e fornire quel contesto meta-teorico ad oggi mancante in cui analisti del comportamento e psicologi cognitivi possono finalmente interagire in modo costruttivo ed edificante (possibilmente anche sulle riviste scientifiche!).

La lotteria per la vita: il fenomeno migratorio tra accoglienza e informazione – Report dal Convegno di Palermo

Quali le verità e le tragedie umanitarie e quali i luoghi comuni che ostacolano una visione chiara della migrazione, in taluni casi “remando contro” un’efficace politica di integrazione e instillando l’idea del migrante come pericolo, minaccia? Questi i temi caldi dell’evento formativo tenutosi a Palermo lo scorso 15 febbraio all’interno della cornice dell’Assemblea Regionale siciliana e dal titolo forte “La lotteria per la vita”.

 

Emergenza migranti, aiuti umanitari, assistenza, integrazione: termini comunemente legati al fenomeno migratorio che impegna le politiche sociali e la comunità tutta in azioni empatiche, incisive, tempestive, coordinate e orientate al benessere di esseri umani a cui, per varie ragioni, è stata sottratta la possibilità di una vita dignitosa.

Assistenza, vicinanza emotiva e pratica, concrete realtà favorite dall’opera di sensibilizzazione ai bisogni di chi ha perso tutto o rischia di perderlo: ecco il ruolo di una corretta informazione mediatica sul fenomeno, essenziale per una presa di coscienza collettiva della gravità della situazione che affligge queste popolazioni, che si traduca in reale supporto.

Chi sono allora e da cosa fuggono i migranti che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste, che, attraversando insidie e incertezze, scommettono su una “lotteria della vita” che restituisca loro il sogno di uomini liberi?

Quali le verità e le tragedie umanitarie e quali i luoghi comuni che ostacolano una visione chiara della migrazione, in taluni casi “remando contro” un’efficace politica di integrazione e instillando l’idea del migrante come pericolo, minaccia?

Questi i temi caldi dell’evento formativo tenutosi a Palermo lo scorso 15 febbraio all’interno della cornice dell’Assemblea Regionale siciliana e dal titolo forte “La lotteria per la vita”, a sottolineare le lotte disperate, senza punti fermi, di chi fugge dal conflitto e dalla morte per ricercare altrove un “porto sicuro”, nell’incertezza costante di potervi approdare in sicurezza, guadagnandosi la salvezza e una nuova e più dignitosa opportunità di vita.

Un evento che ha coinvolto esperti del settore, politici e giornalisti nell’intento comune di delineare la figura del migrante, sfatando il rischio di un’informazione parziale o ingannevole capace di creare falsi e pericolosi miti su quella che non può non definirsi a pieno titolo tragedia umana.

I migranti che sbarcano presso le coste siciliane provengono da differenti territori e sono mossi da motivazioni che variano dalle persecuzioni personali alle guerre alla povertà – spiega Guglielmo Mangiapane, fotoreporter della Reuters-LaPress – Molti scappano da un pericolo maggiore verso l’ignoto, percepito comunque come pericolo minore. Alcuni non hanno mai visto il mare, come accade per chi proviene dall’Africa Subsahariana, non sanno nuotare e la vista del mare rappresenta un momento estremo di gioia. Gioia che si tramuta spesso in dubbio su un dopo percepito come incerto, dopo un viaggio della speranza che lascia alle sue spalle morti, feriti, dispersi, mortificazioni corporali e umiliazioni, ma che ha anche portato nuove vite che nascono proprio su quei barconi improvvisati. Ecco il ruolo essenziale del mediatore culturale nel comunicare per primo problemi di salute e nel garantire un approdo meno traumatico possibile con una cultura nuova, con un ambiente da conoscere e a cui affidarsi”.

Una visione che restituisce l’immagine di un bisogno estremo di cure, di libertà di espressione; una cornice di tristezza e coraggio per chi affronta traversate impervie.

Raccontare le reali storie di miseria e fuga, al di là di ogni pietismo o stigmatizzazione, è compito elevato di un’informazione al servizio dei cittadini, e un’informazione di questo tipo deve evitare errori grossolani che rischiano di diffondere falsi allarmismi, pregiudizi e che scandalizzi oltremodo sulla penosità in cui può versare la condizione umana.

Esiste un’informazione tendenziosa in grado di distorcere la realtà, per eccesso o difetto, della tragicità legata alla migrazione – racconta Lidia Tilotta, giornalista TGR Sicilia – È compito deontologico di noi giornalisti evitarla e segnalare un suo utilizzo improprio. Per esemplificare, preferire un’informazione da contabilità, puntando più sui numeri dei migranti sbarcati che sui loro vissuti, non sviluppa empatia e anzi produce allarmismi, se unita a termini come invasione epocale. Anche utilizzare termini come clandestino ha un effetto ghettizzante, così come enfatizzare crimini commessi da stranieri perché fa più scalpore. Si tratta peraltro di dati errati: l’Eurostat calcola, tra il 2008 e il 2015, un aumento delle denunce per crimini per gli italiani del 7% e una diminuzione dell’1% per gli stranieri. L’ottica in cui porsi inoltre non può essere inoltre quella caritatevole, sensazionalistica, pietistica, ma del diritto all’accoglienza, anche per evitare conflitti. Un’accoglienza reale significa diversità, arricchimento, mentre la paura per l’immigrato che delinque o ruba il lavoro genera odio, il quale allontana integrazione e accoglienza. E noi giornalisti abbiamo il compito di non fomentare un clima d’odio nella Comunità, una responsabilità che condividiamo con la politica”.

Gruppo: la nuova edizione del libro di Claudio Neri (2017) – Recensione

Claudio Neri torna con un’edizione aggiornata di un volume che è considerato un classico della psicoterapia di gruppo analitica, già tradotto in varie lingue nella sua prima edizione.

Igor Pontalti

Il gruppo non è la somma di singoli individui

Nella prima parte, dopo un essenziale excursus storico, si parte con la disamina del concetto di aggregazione di individui e correlandolo alle fasi iniziali di una terapia di gruppo, come questa aggregazione multiforme si organizzi psicologicamente fino a costituire un campo mentale che si rapporta in modo biunivoco con i vari partecipanti al gruppo costituendone qualcosa di diverso dalla semplice somma di esperienze individuali.

Questo processo è spesso poco analizzato e valorizzato nella psicoterapia di gruppo che abitualmente è concepita in ambito cognitivista. Il vantaggio è che nel libro di Neri tali “organizzazioni del palcoscenico prima dello spettacolo” sono descritte in modo lineare e ogni passaggio è semplificato con vignette cliniche con trascrizione delle sedute e schemi riassuntivi.

Le caratteristiche e il paradigma del gruppo terapeutico

Dopo questa importante premessa il libro entra nel campo vivo della terapia con una serie di concettualizzazioni  che descrivono i fenomeni in atto. Qui è forse il nucleo concettuale più importante e più utile per chi proviene da epistemologie differenti. Le persone in contesti diversi si rappresentano in modo diverso: il setting di gruppo trasforma il piano emotivo-cognitivo in modo che spesso il terapeuta individuale fatica a riconoscere il proprio paziente. Ma questa è anche la grande opportunità esplicativa e terapeutica di questo approccio.

Presentando  il “Manuale di psicoterapia sistemica di gruppo (2016)” su questa rivista  Annalisa Bertuzzi ha riportato i fattori terapeutici come individuati da Yalom nel suo centrale “Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo” (1974), dobbiamo immaginare che il libro di Neri contestualizza e scompone quei fattori terapeutici utilizzando una tecnica che parte dal vissuto dell’individuo per muoversi verso un livello interpersonale e multipersonale che lo porta a formulare dei concetti che inscrivono i fenomeni che avvengono nel gruppo e attorno allo spazio-tempo del gruppo, fondamentali per la possibilità di comprensione e quindi di cura e che altrimenti rimarrebbero oscuri o peggio attribuiti al movimento psicologico del singolo paziente.

L’epistemologia psicoanalitica da cui muove Neri lo porta a produrre delle metafore concettuali (campo, semiosfera, sistema protomentale, comunità dei fratelli, commuting, diffusione trans-personale, disposizione a stella) che non devono spaventare il lettore perché poste in modo logico e conseguente al procedere del gruppo e correlate da tanti esempi clinici esplicativi. Il lettore cognitivista è abituato ad altre epistemologie come il paradigma cognitivo-evoluzionista, il quale per esempio fornisce un altro tipo di metafore (trauma, dissociazione), ma leggendo il libro si renderà conto come l’esposizione di Neri completi ed integri i differenti sistemi.

Rimane da sottolineare l’utile glossario posto in appendice e a completezza dell’opera quattro brevi saggi sotto forma di intervista (La trasformazione di un gruppo in una istituzione cura di Marco Zanori, Terapeuticità del gruppo a cura di Stefania Marinelli, Gruppi nelle istituzioni e  Il Social Dreaming  a cura di Giorgia Dappelo) che propongono ulteriori campi di interesse da approfondire e che sembrano fare da ponte verso un nuovo saggio ancora nella penna dell’autore.

Utilizzo dei social network e peggioramento del rendimento scolastico?

I giovani che usano i social media (tra cui Snapchat, Instagram, Musically, Facebook) peggiorano nello studio scolastico rispetto a quelli che non li usano?

 

Gli studi sull’uso dei social media e lo studio

Un progetto di ricerca finanziato dalla German Research Foundation (DFG) ha esaminato 59 studi (condotti su circa 30000 giovani di tutto il mondo) che affrontano la correlazione tra uso dei social media e rendimento scolastico per trovare una risposta di fronte alle preoccupazioni riguardanti le presunte conseguenze dei social network sulle prestazioni scolastiche.

Gli studi analizzati presentano dati contrastanti: alcune analisi riportano gli impatti negativi dell’uso dei social media, mentre altri studi ne riferiscono l’influenza positiva. Infine, esistono studi che non hanno trovato alcuna relazione tra utilizzo dei social network e le prestazioni scolastiche.

Nello specifico questi sono i dati emersi:

Gli alunni che usano Instagram e social network durante lo studio e lo svolgimento dei compiti tendono ad avere risultati peggiori rispetto agli altri studenti. Una possibile spiegazione può risiedere nel fatto che compiere più attività contemporaneamente diventa dispersivo anziché produttivo.

Gli alunni che utilizzano intensamente i social media per comunicare con i compagni su argomenti relativi alla scuola (compiti, verifiche, etc.) tendono ad avere voti leggermente più alti dei compagni che non lo fanno.

Un piccolo effetto è stato riscontrato nei voti degli studenti che trascorrono molto tempo sui social network, pubblicando regolarmente messaggi e/o foto: essi ottengono voti leggermente inferiori rispetto agli altri studenti.

Gli alunni che sono molto attivi sui social media (ovvero coloro che pubblicano regolarmente contenuti sui propri profili social) non dedicano meno tempo allo studio rispetto a coloro che sono meno attivi sui social network.

In base ai risultati ottenuti, Markus Appel sostiene che “le preoccupazioni riguardanti le presunte conseguenze disastrose dei siti di social networking sulle prestazioni scolastiche sono infondate”. L’uso dei social media non sembra avere un impatto negativo significativo sui voti scolastici.

Il professor Appel consiglia comunque ai genitori di interessarsi ai social media e alle possibili attività online a cui i giovani aderiscono. Questo gli permetterà di comprendere le modalità di utilizzo dei social e di comunicare in modo più efficace con i propri figli.

Gli amici si somigliano: il nostro cervello è più in sintonia con chi è nostro amico

Uno studio ha messo in evidenza un altro aspetto affascinante dell’amicizia. Gli amici percepiscono il mondo in modo simile tra loro e hanno cervelli più in sintonia.

Lucia Marangia

 

Gli amici hanno cervelli simili tra loro e in sintonia

I ricercatori del Dartmouth College hanno dimostrato che è possibile prevedere con chi le persone sono più amiche, semplicemente osservando il modo in cui il loro cervello risponde alla visione di alcuni video clip. Durante l’esperimento, gli amici presentavano modelli di attività neurale più simili, seguiti dagli amici degli amici che, a loro volta, avevano un’attività neurale più simile rispetto alle persone meno affini. Secondo i ricercatori, lo studio è il primo nel suo genere: “Le risposte neurali a stimoli dinamici e naturalistici, come i video, possono darci una finestra sui processi di pensiero spontanei della gente man mano che si sviluppano” commenta la Dott.ssa Parkinson.

Lo studio ha analizzato le amicizie e i legami sociali all’interno di una coorte di quasi 280 studenti universitari. I ricercatori hanno stimato la distanza sociale tra coppie di individui sulla base di legami sociali reciprocamente segnalati. Successivamente, a 42 studenti è stato poi chiesto di guardare una serie di video mentre la loro attività neurale è stata registrata attraverso uno scanner funzionale con risonanza magnetica (fMRI). La serie di video osservata dai ragazzi comprendeva numerosi argomenti e generi, tra cui politica, scienza, commedia e video musicali. Ogni partecipante ha guardato gli stessi filmati, seguendo il medesimo ordine e con le stesse modalità. I ricercatori hanno poi confrontato le risposte neurali per determinare se le coppie di studenti che erano amiche presentassero un’attività cerebrale più simile, rispetto ad altre coppie del gruppo.

I risultati hanno dimostrato che la somiglianza della risposta neurale era più forte tra gli amici, e questo schema sembrava manifestarsi attraverso le regioni cerebrali coinvolte nella risposta emotiva, l’attenzione e il ragionamento di alto livello.
Anche quando i ricercatori controllavano variabili, come il fatto di essere mancini o destrimani, l’età, il sesso, l’etnia e la nazionalità, la somiglianza nell’attività neurale tra amici era ancora evidente.

Il team ha anche affermato che le somiglianze nella risposta alla risonanza magnetica funzionale potrebbero essere utilizzate per prevedere non solo se una coppia è amica, ma anche la distanza sociale tra i due soggetti.

Siamo una specie sociale e viviamo in continuo collegamento con gli altri. Se vogliamo capire come funziona il cervello umano, abbiamo bisogno di capire come funzionano i cervelli in combinazione – come le menti si modellano a vicenda“, ha detto l’autore Dr. Thalia Wheatley.

Prossima sfida per i ricercatori di Los Angeles sarà quella di comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda.

La dipendenza affettiva: tra letteratura e neurobiologia

Oggi, con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione che non solo facilitano le comunicazioni tra individui, ma permettono di tracciare anche i minimi dettagli di una persona, stiamo vivendo una trasformazione delle modalità con cui si manifesta la dipendenza affettiva (o love addiction), che tuttavia rimane un problema psicosociale da arginare.

 

Donne che amano troppo – Riflessioni sul libro

Nonostante la prima edizione di Donne che amano troppo della psicoterapeuta americana Robin Norwood risalga alla metà degli anni Ottanta, questo libro rappresenta un capolavoro di attualità. Come specificato nell’introduzione alla nuova edizione, cambiano i tempi, cambiano le modalità comunicative, cambia il grado di consapevolezza di avere un problema con l’amare troppo qualcuno, ma il “mal d’amore” descritto nelle pagine del libro è assolutamente moderno e debilitante così come in passato.

Se qualche decade fa una donna trascorreva giornate intere sdraiata nel letto, accanto al telefono fisso del suo appartamento nell’attesa di una chiamata da parte di un uomo di cui era ossessionata, o tentava di contattare amici o parenti nella speranza di avere notizie del suo amore, oggi, con i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione che non solo facilitano le comunicazioni tra individui, ma permettono di tracciare anche i minimi dettagli di una persona, stiamo vivendo una trasformazione delle modalità con cui si manifesta la dipendenza affettiva (o love addiction), che tuttavia rimane un problema psicosociale da arginare.

Per proporre qualche esempio, la stessa donna sdraiata nel letto con la cornetta del telefono vicino all’orecchio, ai tempi d’oggi controllerebbe spasmodicamente il cellulare, contemplando sul display il nome e numero dell’uomo che ama con il pensiero desiderante di chiamarlo (una sorta di craving, come un alcolista davanti alla porta di un’enoteca con il desiderio impulsivo di varcare la soglia del locale e cadere nuovamente nella sua dipendenza), oppure accederebbe a Whatsapp per verificare l’ora esatta del suo ultimo accesso (attivando meccanismi di ruminazione e rimuginio tali da mantenere attivo lo stato di allarme e angoscia), o ancora analizzerebbe accuratamente il suo profilo Facebook o Instagram alla ricerca di qualche indizio o prova della sua disonestà (foto ambigue, commenti fatti e/o ricevuti da altre possibili pretendenti e così via), il tutto in uno stato di attivazione fisiologica di ansia, paura, rabbia o tristezza che non fa altro che fomentare il disagio esperito. Per riassumere: mutano i tempi e i contesti ma non muta la dipendenza.

Nel libro, che è una raccolta di storie di donne (la maggior parte pazienti in cura dall’autrice) in balia di relazioni turbolente con uomini inaffidabili, egoisti e spesso con storie passate o attuali di abuso di alcol, la Norwood descrive egregiamente i vissuti emotivi di ciascuna delle protagoniste, focalizzando l’attenzione sulla loro infanzia spesso traumatica a causa da abusi fisici, sessuali o psicologici, questi ultimi comprendenti sia abusi verbali che trascuratezza nelle cure ricevute dalle figure di riferimento (neglect) che secondo alcuni importanti autori possono provocare veri e propri traumi nello sviluppo cognitivo-affettivo (Liotti G., Farina B., 2011).

Caratteristiche peculiari di molte donne descritte nelle pagine del libro riguardano un forte bisogno di controllo relazionale, l’autocolpevolizzarsi ed incrementare così il senso di sfiducia verso se stessa e la propria autostima (“è colpa mia se si è arrabbiato”, “non sono abbastanza attraente”) e l’illusione del “lui cambierà” e del “se gli sono necessaria o gli risolvo i problemi lui mi amerà”. A proposito della speranza (troppo spesso utopica) di veder cambiare il partner con la forza del proprio amore, diligenza, devozione e presa in carico delle sue problematiche (emotive, finanziarie ecc.), non è un caso che molte delle donne descritte nelle pagine del libro intrattengano o abbiano intrattenuto relazioni burrascose con alcolisti, molti dei quali, a causa della loro dipendenza patologica, non sono in grado di badare a se stessi e sono quindi ben disposti a delegare la propria vita a qualcuno di così efficiente e responsabile. La Norwood chiama queste donne coAlcoliste, in quanto parte del problema e fattori di mantenimento. È come se una dipendenza chiamasse un’altra dipendenza, alimentandosi l’un l’altra in un intreccio esplosivo che conduce a gravi conseguenze sul piano emotivo. L’autrice dedica un intero capitolo al racconto delle storie di alcuni di questi uomini, dei loro vissuti legati alla dipendenza da alcol e dalla necessità di trovare partner responsabili e capaci di cura e attenzione. Ma se il primo idillio d’amore offusca i sensi e la razionalità, ben presto le cose si complicano e gli aspetti personologici e comportamentali di entrambi giungono in superficie dando origine alle prime incomprensioni e rotture relazionali.

Tornando alle donne che amano troppo, la Norwood apre le prime pagine del suo libro con una frase rappresentativa di ciò che significa l’avere una dipendenza affettiva, dove la parola “dipendenza” può essere senza dubbio considerata analoga a tutte le tipologie di addiction con e senza sostanza: “Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo”.

Il libro viene proposto come manuale di auto-aiuto, nonostante sia la stessa autrice a consigliare vivamente un percorso psicoterapeutico volto all’accettazione del proprio passato e delle proprie fragilità, al fine di (ri)conquistare individualità e amore verso se stessi e riuscire così a darsi una direzione nella vita e renderla piena e soddisfacente a prescindere da ogni tipo di relazione sentimentale passata, presente o futura.

Nel libro la Norwood parla di donne ma è opportuno precisare che l’argomento trattato si può riferire anche agli uomini i quali possono sviluppare dipendenza affettiva che si origina da dinamiche relazionali disfunzionali. L’”amare troppo” è una condizione che può manifestarsi all’interno di qualsiasi genere sessuale di appartenenza e vittima e carnefice non si basano dunque su superficiali ruoli di genere, dal momento che ridurre il fenomeno esclusivamente alle donne sarebbe un atto alquanto semplicistico e sessista. Il libro quindi si può benissimo adattare a qualsiasi individuo in quanto la dipendenza affettiva può interessare qualsiasi persona a prescindere da età, sesso, religione, cultura e orientamento sessuale. É tuttavia probabile che per motivi psicologici e sociali la dipendenza affettiva si manifesti più di frequente nelle donne, ciò potrebbe essere dovuto a fattori predisponenti nelle donne e a fattori protettivi nei maschi e tali considerazioni necessitano di adeguate indagini clinico-scientifiche.

Aspetti neurobiologici della dipendenza

Negli organismi altamente evoluti di cui l’essere umano è l’esemplare maggiormente avanzato, il piacere rappresenta la spinta motivazionale all’azione (Caretti, La Barbera, 2010), per cui un comportamento che porta ad esperire una sensazione di piacere avrà più possibilità di essere reiterato.

Tale assunto è il punto di partenza da cui si origina una dipendenza patologica, dal momento che una sostanza di abuso o un comportamento compulsivo con iniziali conseguenze piacevoli attivano cascate di reazioni chimiche che coinvolgono circuiti cerebrali legati alla gratificazione e alla soddisfazione dei bisogni. I numerosi studi di neurobiologia sono tutti concordi nel ritenere il circuito meso-cortico-limbico il principale substrato neurale implicato nell’ addiction, e la dopamina come principale neuromodulatore. Infatti le aree di questo circuito costituito dall’area tegmentale ventrale e dal nucleo accumbens (striato ventrale) e parte della corteccia pre-frontale, giocano un ruolo cruciale nel sistema di rinforzo e ricompensa ed è stato osservato che una sostanza psicostimolante è in grado di iperattivare i neuroni dopaminergici presenti in questa porzione cerebrale provocando sensazioni di benessere e dando così alla sostanza di abuso una valenza edonica positiva (alto valore di salienza). Ciononostante, le ripetute scariche di dopamina (e la sua sovrapproduzione) all’interno di queste aree conducono in seguito ad un incremento della soglia di attivazione in grado di suscitare sensazioni positive associate alla sostanza, creando di conseguenza tolleranza e bisogno maggiore di dopamina all’interno del sistema della gratificazione. Inoltre studi di neuroimaging hanno osservato una sostanziale riduzione dei recettori D2 della dopamina nello striato in soggetti con addiction, in associazione ad una ipoattivazione della corteccia orbitofrontale (regione implicata nell’attribuzione della salienza degli stimoli e nei comportamenti compulsivi) e del giro cingolato (regione coinvolta nel controllo inibitorio, attenzione ed impulsività) (Volkow, 2007).

La riduzione dei recettori D2 e della normale attività dopaminergica causa quindi un deficit nei circuiti che regolano la gratificazione attraverso rinforzi naturali quali cibo, sesso e sonno, portando il soggetto con addiction a ricercare stimoli maggiormente capaci di attivare i circuiti della gratificazione; questo potrebbe spiegare il perché si assista, in coloro che abusano di sostanze, ad un progressivo disinteresse per le usuali attività naturali che fino a poco prima provocavano piacere. Senza piacere dunque non può esserci motivazione e se l’unico piacere diventa la sensazione esperita a seguito di somministrazione di stupefacenti o di un comportamento compulsivo, non rimane tanto difficile comprendere le basi all’origine del craving. Il ricordo dell’esperienza piacevole associato a stimoli in grado di rievocare tale esperienza mette in moto una serie di comportamenti volti al raggiungimento di quello che, a seguito di ripetute esposizioni, è diventato il bisogno primario, a discapito di tutte quelle attività piacevoli (e sane) dapprima praticate.

Oltre alla iperattivazione dopaminergica e al successivo decremento dei recettori D2, un’altra conseguenza  provocata dall’ addiction riguarda la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA), ovvero l’insieme delle strutture che modulano le nostre risposte allo stress. É stato osservato che la somministrazione cronica di sostanze d’abuso conduce alla disregolazione di HPA e che ciò provoca, durante un periodo di astinenza prolungata, un incremento del fattore di rilascio della corticotropina (CFR), dell’ormone adrenocorticotropo (ACHT) e del corticosterone nell’amigdala estesa (Koob, Le Moal, 2005). Questo potrebbe in parte spiegare le sensazioni di ansia e paura sperimentate dai soggetti in astinenza (l’amigdala è la principale struttura coinvolta nel circuito della paura) e l’incapacità di tali soggetti di far fronte in modo costruttivo a situazioni stressanti (la disregolazione di HPA manterrebbe attivo lo stato di stress rendendo difficile un adeguato problem-solving). Inoltre, in uno studio che investigava il legame intercorrente tra cure parentali durante l’infanzia e abuso di cocaina in età adulta è stato riscontrato che esperienze infantili negative (maltrattamenti/abusi, neglect) erano associate all’ addiction e a più alti livelli di cortisolo e ACTH, dimostrando una possibile associazione tra attaccamento e dipendenza patologica (Gerra G., 2009).

La dipendenza affettiva negli studi di neuroimaging

Descrivere la neurobiologia dei comportamenti di addiction, partendo dagli studi che hanno indagato le basi neuroanatomiche/neurochimiche alla base della patologia, è di estrema importanza dal momento che diverse ricerche hanno dimostrato similarità tra le varie dipendenze. Per tornare all’argomento principale dell’articolo, in studi di neuroimaging che hanno indagato le possibili aree cerebrali implicate nella dipendenza affettiva è stato osservato quanto tale fenomeno abbia alcune somiglianze con la dipendenza da sostanze. Infatti, Reynaud e collaboratori (2010) hanno comparato osservazioni cliniche e dati provenienti da studi di neuroimaging in soggetti con diverse tipologie di dipendenza che comprendevano abuso di sostanze, gambling patologico e dipendenza affettiva, osservando reazioni psicosomatiche analoghe e un simile pattern di attivazione cerebrale. Nel dettaglio, i soggetti con love addiction mostravano euforia e desiderio irresistibile in presenza dell’oggetto d’amore (o da stimoli associati), mentre in sua assenza era frequente notare umore negativo (fino all’anedonia) e disturbi del sonno. Per quanto riguarda le aree implicate, alcuni studi suggeriscono che la corteccia orbitofrontale e il giro cingolato anteriore siano regioni cerebrali coinvolte nella dipendenza affettiva, le stesse che mediano la dipendenza da sostanza, insieme a specifici neurotrasmettitori tra cui la dopamina (si ricorda che le cellule dopaminergiche si attivano in risposta a stimoli salienti e facilitano l’apprendimento condizionato tipico dei comportamenti di addiction con le motivazioni e compulsioni correlate). In aggiunta, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), Fisher e colleghi (2010) hanno osservato significativa attivazione nell’area tegmentale ventrale bilateralmente, nello striato ventrale e nelle cortecce orbitofrontale e prefrontale in soggetti che avevano subito un recente rifiuto da parte di un partner, i quali partecipavano ad un esperimento in cui venivano fatte vedere loro fotografie dei loro amati in vari contesti.

I dati provenienti dagli studi di neurobiologia forniscono importanti informazioni circa la natura delle dipendenze e del successivo craving, dimostrando che non vi sono sostanziali differenze per quanto riguarda le aree associate al comportamento di addiction, di qualsiasi forma si tratti.

Conclusioni: la neurobiologia delle donne che amano troppo

Partendo dall’analisi di un bestseller di fama mondiale e descrivendo in seguito gli effetti neurobiologici delle dipendenze patologiche, potrebbe ora essere possibile delineare le associazioni che intercorrono tra le donne descritte nel libro della Norwood e gli aspetti più prettamente scientifici che riguardano la dipendenza affettiva.

Infatti, molte delle protagoniste raccontano di come le relazioni con uomini “sbagliati” fossero per loro costanti stimoli e di come andassero in continua ricerca di quell’eccitazione sessuale ed emotiva che riuscivano a trovare esclusivamente in partner tendenzialmente inadatti. Alcune affermano come l’amore ed il rispetto ricevuto da un uomo buono, attento, responsabile e realmente interessato a loro fosse un’esperienza noiosa o comunque non abbastanza stimolante da farle rimanere in relazioni “sane” di quel tipo. É possibile che le scariche d’eccitazione sperimentate con gli uomini sbagliati descritti nel libro sia la ricerca di quelle cascate di dopamina osservate nei comportamenti di addiction con e senza sostanza, e che quelle sensazioni di malessere, anedonia, ansia e angoscia esperite a seguito di una separazione temporanea o di un vero e proprio abbandono (e che si accompagnano spesso a processi di ruminazione e rimuginio che mantengono attiva l’attenzione selettiva sull’oggetto-stimolo dell’addiction) siano analoghe all’esperienza di craving che si riscontra nelle dipendenze patologiche. Inoltre, dal momento che molte donne del libro provengono da contesti familiari altamente disfunzionali (genitori assenti, alcolisti, violenti, abusanti, trascuranti ecc.) e riscontrata una correlazione tra disregolazione dell’asse HPA e addiction, potrebbe essere possibile che anche nelle protagoniste delle storie raccontate dalla Norwood le esperienze infantili negative/traumatiche siano fattori predisponenti lo sviluppo di dipendenza affettiva, a causa dell’enorme carico di stress a cui sono state e continuano ad essere sottoposte.

Considerando i dati provenienti dalla ricerca neuroscientifica e le esperienze raccolte in “Donne che amano troppo”, sarebbe opportuno impegnarsi nello sviluppo e rinforzo di psicoterapie in grado di far fronte ai vissuti emotivi negativi di coloro che soffrono di dipendenza affettiva al fine di garantire a queste persone una qualità di vita migliore e una capacità di relazionarsi agli altri in modo più funzionale e adattivo.

La Terapia Cognitivo-Comportamentale potrebbe fornire soluzioni efficaci, attraverso moduli di intervento che producano risultati soddisfacenti, quali gestione di processi metacognitivi disfunzionali (Caselli, 2017), individuazione e superamento dei cicli interpersonali problematici (La Mela, 2014), potenziamento delle funzioni metacognitive e senso di agency (Di Maggio, 2013), riduzione dello stress attraverso programmi di mindfulness (Kabat-Zinn, 1990).

Risocializzazione e ravvedimento nel carcere per i minori. La parola al direttore dell’IPM di Palermo

L’ articolo 27 della Costituzione, sottolinea la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali e di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà.

 

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: così recita l’articolo 27 della Costituzione, sottolineando la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali, di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà.

Una funzione di reintegrazione sociale che, al di là di ogni intento puramente afflittivo, mira a dare fiducia, a promuovere crescita, sviluppo e senso di appartenenza, in particolar modo per i minori autori di reato.

Riabilitazione, promozione del benessere, progettualità educativa, pilastri su cui si fonda l’attività dell’Istituto Penale per i minorenni (IPM) di Palermo, fortemente sostenuta e coordinata dal Direttore Michelangelo Capitano.

Ai giovani, tra i 14 e i 18 anni, deve essere assicurata una crescita adeguata, non bisogna quindi interrompere i percorsi evolutivi in atto, semmai correggere quelli che si discostano dalla previsione delle norme – spiega Capitano – Il Codice di Procedura penale minorile (D.P.R. 448/88, uno tra i più avanzati e studiati al mondo, anche dopo 30 anni dalla sua emanazione) prevede una serie di misure atte a far uscire il minore autore di reato dal circuito penale nel più breve tempo possibile, senza però abbandonarlo alla propria sorte.

Ravvedimento e revisione critica delle scelte di vita: possibilità date da un carcere che educhi al legame sociale in quanto bene collettivo a cui tutti sono chiamati a contribuire, all’interno di un contesto di osservazione e trattamento mirati. Questa la ratio del carcere minorile, da considerarsi sempre come scelta estrema e solo per i reati gravi/gravissimi.

Il carcere per i minori è sicuramente la misura estrema voluta dalla legge, non tanto per preservare la società, quanto per consentire al minore di avere un periodo di riflessione e di poter elaborare, molte volte lontano da condizionamenti familiari e sociali, una propria aspettativa di vita, aiutato in questo, dalle professionalità coinvolte (educatori, polizia penitenziaria, assistenti sociali, psicologi, ma anche insegnanti e volontari) – continua Capitano – L’apporto di tutti è indispensabile per far comprendere le regole della convivenza civile, il rispetto dell’altro e la valorizzazione delle proprie abilità, al fine di vivere una vita all’insegna della legalità e del progresso. Una vita nuova a cui molti ragazzi rispondono con sfiducia, richiamando un senso di impotenza nelle proprie capacità, nel farcela, nonché di sfiducia verso una società considerata spesso nemica, non tutelante.

La risocializzazione nel carcere per i minori la parola al direttore dell'IPM di Palermo - Michelangelo Capitano

Michelangelo Capitano, Direttore dell’ IPM di Palermo

Una vita spesa nella legalità, in quanto monito interno, presa di coscienza profonda, empatica, della violazione dei diritti di un altro essere umano, obiettivo raggiunto attraverso il contatto diretto con la parte offesa.

Per far comprendere il significato di ravvedimento cito un episodio di qualche anno fa – racconta il Direttore – Avevamo invitato all’interno di un’iniziativa, alcuni funzionari di banca per un corso sull’imprenditorialità. A margine dell’incontro, uno dei funzionari ha cominciato a narrare il proprio vissuto durante una rapina subita tanto tempo prima, quello che aveva provato, la paura, i pensieri. A un certo punto un ragazzo, sempre più a testa bassa, si è avvicinato ed abbracciandolo gli ha detto “Grazie mi ha fatto capire quello che pensava”: era lui l’autore della rapina e in quell’abbraccio aveva voluto, fisicamente, fargli sentire la sua vicinanza emotiva. Elaborare il reato anche sotto questo punto di vista, del dolore della vittima, può essere una remora a ricommetterlo.

Quali sono nello specifico le attività rieducative dell’IPM di Palermo e che valenza formativa detiene il lavoro?

A oggi l’IPM di Palermo propone varie attività tese al reinserimento sociale, come scuola, formazione, sport, lavoro. Nel caso del lavoro alcuni ragazzi sono sposati, convivono, qualcuno ha figli e il limitato sostentamento della famiglia diventa un modo di sentirsi utili, parte integrante di una società che non li abbandona, dà loro fiducia, rispetto e responsabilità produttive, e rispetto alla quale modificare un atteggiamento classico volto al danneggiamento e al reato. Situazione dolente per la formazione professionale, sospesa da due anni in Sicilia, con grave danno ai ragazzi, che perdono un’occasione per poter acquisire una professionalità. Abbiamo attivato dei corsi professionalizzanti (edile, falegname/ferro, giardiniere) affidando ad alcuni artigiani il compito di passare le competenze del mestiere ricomponendo quel clima di andare a bottega nel quale l’imparare il mestiere comprendeva il rispetto del maestro, del cliente e del lavoro. Tante iniziative, ma il nostro vanto è sicuramente il laboratorio dolciario “Cotti in fragranza”, un biscottificio all’interno della struttura, ma fuori dalla sezione detentiva, pensato per i giovani che escono dall’istituto, per accompagnarli al loro reinserimento. I biscotti sono adesso presenti anche nella grande distribuzione; il processo produttivo è seguito dai ragazzi. I nomi dei biscotti (Buonicuore al mandarino, Parrapicca al limone e zenzero, Coccitacca alla cioccolata di Modica e arancia) sono stati scelti da loro, così come il packaging e le strategie industriali. Esistono poi tante altre collaborazioni con Istituzioni e con professionisti: voglio citare a titolo esemplificativo, il Museo Salinas con il quale abbiamo appena concluso un Corso di restauro di vasellame del II secolo a. C., e l’Istituto Zooprofilattico Siciliano (con un corso di caseificazione di prossima attivazione). Decine e decine di persone che hanno deciso di donare un po’ del loro tempo ai ragazzi dell’Istituto: e, come dico spesso proprio ai ragazzi, si può comprare quasi tutto, ma il tempo che ci viene dedicato – in qualunque momento – non si può comprare.

Il lavoro, anzi l’idea del lavoro, come deterrente di ulteriori reati in quanto garanzia di regole funzionali di vita, formazione alle abilità e alla loro spendibilità sociale, al rispetto di sé e dell’impegno preso, e non ultimo garanzia di sostentamento economico.

Ciò che vogliamo trasmettere ai nostri ragazzi è l’idea del lavoro. L’idea del lavoro significa capire che è dal lavoro che deve derivare il proprio reddito, il proprio tenore di vita; significa essere puntuale, mettere la massima attenzione in ciò che si fa per il rispetto e la valorizzazione di un’opportunità che viene offerta e non può essere data per scontata. Lavorare, con una remunerazione giusta, significa, per moltissimi ragazzi non dover delinquere. In tanti anni di lavoro non ho mai visto un ragazzo felice per aver commesso un reato, piuttosto ne ho visti tanti dispiaciuti per non esser riusciti a evitarlo.

Il carcere quindi come misura rieducativa efficace, ma sempre nell’ottica di un’ultima ratio a cui deve essere sempre preferita un’azione massiccia di prevenzione dei reati.

La permanenza in un istituto penale per i minorenni è una misura residuale nella legislazione italiana. Si devono creare occasioni per far diventare questa misura ancora più residuale. Si deve agire prima, con una prevenzione nei quartieri, nelle scuole. Spesso si dice che la prevenzione costa, ma quanto costa, non esclusivamente in termini economici, la commissione di un reato? Qual è il prezzo del dolore della vittima, del dolore dei familiari, del dolore dello stesso reo, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della società? Qual è il prezzo che paghiamo tutti, per un ragazzo che deve stare in carcere tanti anni, qual è il prezzo per un reato che non consente un’azione riparatoria, un tornare indietro? È necessaria un’attenzione politica al mondo dei giovani in un’ottica di lotta alla povertà educativa e sociale perché questa aumenta le diseguaglianze economiche, non permettendo la piena inclusione sociale con alti costi per la società: da questo punto di vista la vicinanza del Sindaco Orlando, dell’Assessore Mattina, ma anche del Consiglio Comunale di Palermo mi fanno ben sperare per il futuro di questa Città. L’auspicio, per il nostro lavoro, è di riuscire a restituire alla società dei buoni cittadini preparati ad affrontare la vita con la dignità di uomini liberi – conclude Capitano.

Quando le cognizioni influenzano le amicizie tra bambini

I ricercatori del dipartimento di psicologia dello sviluppo dell’Università dell’Illinois hanno indagato quali siano gli aspetti capaci di predire la qualità dell’amicizia tra bambini.

 

Le intenzioni attribuite ai pari influenzano la qualità delle amicizie

Le amicizie giocano un ruolo importante nell’adattamento psicologico e comportamentale dei bambini, in particolare questo aspetto diventa fondamentale durante il passaggio alla fase adolescenziale.

L’ipotesi dei ricercatori è che ciò che i bambini pensano riguardo alle intenzioni dei loro pari (ad esempio, benigne o ostili) e le emozioni che provano a riguardo possano influenzare la qualità delle proprie amicizie.

I partecipanti allo studio sono stati 913 bambini (di cui 50% femmine e 50% maschi, di età compresa tra i 9 ed i 12 anni) ed i loro amici. I soggetti sono stati osservati durante attività interattive in cui sono stati presentati scenari definiti dai ricercatori negativi e ambigui (esempio: computer rotto da un pari), nei quali veniva chiesto come interpretare l’intenzione del pari a seconda dello scenario presentato (esempio: “Il pari intendeva rompere il computer o è stato un incidente?”). I ricercatori hanno interpretato i risultati che attribuivano intenzionalità al pari come pregiudizio ostile, mentre i risultati che si riferiscono ad un’assenza di intenzionalità del pari come pregiudizio benigno.

È stata inoltre indagata l’intensità emotiva, intesa come la tendenza del bambino a sperimentare ed esprimere emozioni forti.

È emerso che coloro che, all’età di 9-10 anni, attribuivano intenzionalità al comportamento del pari e riportavano alti livelli di intensità emotiva, all’età di 11-12 anni vivevano interazioni più negative. Mentre, un pregiudizio di attribuzione di natura più benigna all’età di 9-10 anni, combinato con un’alta intensità emotiva, prevedeva un’interazione positiva tra pari all’età di 11-12 anni.

Come mai l’intensità emotiva riveste un ruolo così importante, se combinata a pregiudizi ostili o benigni? Per gli autori, l’intensità emotiva può servire da carburante che stimola il comportamento, ma solo la tipologia di pregiudizio (ostile o benevolo) può determinare la direzione dell’interazione.

Così, per i bambini che hanno un pregiudizio ostile è più probabile che agiscano e si impegnino in interazioni negative con gli amici quando tale pregiudizio è alimentato da intense emozioni. Allo stesso modo, i bambini che hanno un pregiudizio benigno intraprenderanno un comportamento più positivo con i pari, specialmente quando tale pregiudizio è alimentato da emozioni intense”, ha detto McElwain.

Una possibile spiegazione, che però non trova conferma nel presente studio e potrà dunque costituire un futuro sviluppo incentrato su specifici comportamenti, riguarda l’ipotesi che coloro che percepiscono le interazioni tra pari come benigne all’età di 9-10 anni, potrebbero successivamente iniziare comportamenti pro-sociali e condividere più interazioni positive, mentre coloro che percepiscono le interazioni come ostili, potrebbero essere più predisposti ad attaccare i propri amici e/o ritirarsi dalle interazioni.

L’importanza di riconoscere e ridimensionare i pregiudizi verso gli altri

Tale studio riveste un ruolo importante in quanto alcune amicizie sono una grande risorsa contro lo stress, mentre altre possono costituire elementi di conflitto e rivalità.

I genitori e gli insegnanti possono contribuire ad aiutare i bambini nello sviluppo di relazioni di qualità.

Spiegare quanto emerso a genitori ed insegnanti può aiutare loro a comprendere questo aspetto e lavorarci sopra, riconoscendo i pregiudizi ostili e minimizzandoli. Nell’arco temporale che precede l’adolescenza i bambini iniziano sempre più a riflettere sui propri pensieri e le distorsioni cognitive si aprono a possibili cambiamenti. Chen aggiunge: “Gli adulti possono aiutare i bambini, che mostrano cognizioni negative, modellando le opinioni positive sugli eventi negativi quando la situazione lo richiede. Un esempio potrebbe essere quello di dire al bambino: «Non penso che intendesse versare il latte sui tuoi compiti. È stato un incidente»”.

Spesso, un primo buon passo nel minimizzare i pregiudizi è riconoscere che esistono. “Durante l’adolescenza, i bambini sono sempre più in grado di discutere e riflettere sulle proprie cognizioni, quindi, questo periodo di sviluppo, in particolare, può essere uno in cui le cognizioni negative e le distorsioni sono aperte ai cambiamenti“, spiega McElwain.

Sogno e desiderio in Eyes Wide Shut – Recensione del film

La pellicola Eyes Wide Shut esplora i vissuti emozionali, le gelosie, i timori, i segreti di una tipica coppia americana. Credo però che l’elemento saliente possa essere ravvisato in quella che definirei come una “parabola del desiderio”.

Raffaele Fasano

 

Eyes Wide Shut: la trama del film

Avvicinarsi all’analisi dell’ultimo lavoro del grande cineasta americano Stanley Kubrick risulta un’ esperienza insieme malinconica e affascinante per chi come il sottoscritto ha amato ogni suo lavoro, dal più acerbo “The killer’s Kiss” all’indecifrabile “2001: A space odissey”. La malinconia di un ultimo incontro con uno dei più grandi personaggi del XX secolo, le ultime volontà artistiche e concettuali di un uomo che ha indagato ogni angolo della natura umana, si mescola con la fascinazione che questo ultimo lavoro esercita sullo spettatore, travolto da oniriche visioni di desideri liberati, colpe celate che dividono la scena della coscienza dei due protagonisti del film Eyes Wide Shut, Bill ed Alice, un torbido mistero di sesso e perversione che rapisce lo sguardo e la mente di uno spettatore agognante, impaurito, condotto da una regia maniacalmente attenta a disegnare sullo schermo una lenta, a tratti stancante, discesa nell’inferno di un matrimonio che si confronta con i propri fantasmi.

Siamo in bagno all’inizio del film Eyes Wide Shut, Bill ed Alice si stanno preparando per andare ad una festa natalizia, la loro figlia piccola Helene dorme nell’altra stanza. Lei è nuda, si osserva allo specchio, elemento questo molto ricorrente nella pellicola in quanto luogo del riconoscimento di sé, lui la cinge da dietro, rinnovando la conquista del corpo e dell’amore di lei. Assistiamo ad una classica manifestazione di intimità tra due giovani sposi, belli, innamorati e felici. La sera stessa questo idillio sarà messo alla prova, durante la festa, sotto forma di due procaci ragazze che cercano di attirare Bill, e di un attempato e misterioso signore che esprime la sua volontà di possessione nei confronti di Alice. Entrambi resistono alla tentazione del tradimento, ma eccitati e incuriositi dalle trame dell’attrazione sessuale, giocano con i loro seduttori, in un gioco di sguardi e gesti che invita e disillude. La sera, tornati a casa, si ricongiungono facendo l’amore.

È questo il primo incontro con il tema della sessualità, presente in tutta la pellicola. I due protagonisti conoscono le possibilità attrattive dei propri corpi, invitano alla seduzione, sono pronti a svestire i panni della moglie e del marito, e a lasciar emergere le nudità consapevoli delle proprie pulsioni. Il sesso è un tema forte dell’opera, che si manifesta in questo frangente come pura e semplice soddisfazione sessuale, il desiderio di soddisfacimento che vuole estinguersi nel raggiungimento dell’oggetto desiderato. È un tipo di soddisfacimento che esaurisce la tensione del soggetto attraverso la scarica, è in altri termini un tipo di desiderio che richiede la soddisfazione immediata, assimilabile al bisogno. Probabilmente nel fare l’amore i due protagonisti rispondono in qualche modo alla tensione sessuale creatasi negli assalti ai loro corpi, oggetti del desiderio di altri.

La sessualità si manifesta in una forma diversa in una scena successiva, quando Alice confessa, in preda ai fumi della marijuana, di aver provato una forte attrazione sessuale per un ufficiale della marina intravisto alcuni anni addietro. La donna, semi vestita, ammiccante e aggressiva, descrive le sue voluttuose fantasie al marito, che rimane estremamente scosso dalla scena. Ricevuta una telefonata, Bill lascia la moglie e si reca al capezzale di un paziente in fin di vita. Inizia qui il percorso parallelo dei due protagonisti, l’uomo inizia un’odissea che lo porterà fino alla misteriosa orgia nella villa, la donna si addentra nelle sue fantasie sognando l’ufficiale della marina.

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Il doppio sogno

Ci sono due elementi che simbolicamente spiegano la circostanza per cui la donna rivela la sua fantasia al marito. Innanzitutto la droga, che sembra agire come una sorta di liberazione della parola, annebbiando il suo giudizio, portandola a dare voce ad un antico desiderio fino ad allora celato, quasi come uno scacco dato all’attività censoria della veglia. Inoltre la notte, che nel film è segretamente presente quale metafora insieme della discesa nell’oscurità, negli inferi della mente che sfugge alle regole, e del sonno, come attività che libera lo spazio del sogno, l’esplorazione dei propri desideri repressi, l’agognata soddisfazione di essi nell’attività onirica.

Durante la notte la donna sogna infatti di avere un rapporto sessuale con l’ufficiale, appagando in maniera onirica così il suo antico desiderio. L’uomo, al contempo, si avventura negli spazi di una New York estremamente simbolica e onirica, che si configura come una sorta di sogno ad occhi aperti, che si fa luogo della possibilità di soddisfazione onirica per Bill. Avrà così la possibilità di vendicarsi del tradimento fantasticato dalla moglie, prima con una donna di nome Marianne, innamorata da tempo di lui, poi con una prostituta, ma entrambe le volte l’uomo sarà richiamato alla realtà, che gli impedirà di cedere alla soddisfazione del suo desiderio. Successivamente, attraverso varie peripezie, si trova in una villa, dove si sta svolgendo un’orgia fanatica di rapporti sessuali, corpi nudi donati indiscriminatamente, l’identità protetta da una maschera. È questo il momento più onirico di tutta la pellicola, con l’orgia che si configura quale spazio del più incontrollato desiderio sessuale, dove il corpo spogliato dei vestiti e dell’identità può essere privato di ogni sua connotazione sociale, ogni dettaglio culturale, facendosi strumento e oggetto della più sfrenata soddisfazione sessuale. È in questo spazio che l’uomo troverà la più vivida manifestazione del suo desiderio sessuale, insieme alla condanna, esercitata simbolicamente da un officiante dalle sembianze cardinalizie, una sorta di grande inquisitore che veste i panni di una realtà che legifera sulle più sfrenate condotte.

Il deciso richiamo alla teoria del sogno di Sigmund Freud si ravvisa in questo elemento onirico del film. Gli avvenimenti salienti avvengono durante la notte, al calare dell’oscurità, in opposizione alla calda e apparente serenità familiare del giorno. È durante la notte che la tentazione sessuale scuote i sensi dei protagonisti, durante la notte essi si confessano a se stessi e al proprio partner, ed è sempre durante la notte che, entrati nello spazio del sogno, si abbandonano alla soddisfazione del proprio desiderio. La scena filmica appare inoltre rovesciata, gli elementi si presentano ignari delle proprie contraddizioni, i personaggi si muovono senza apparente volontà, quasi trasportati dagli eventi. Troviamo ancora numerosi elementi che appaiono opposti rispetto alla veglia, come ad esempio i due giapponesi svestiti nel negozio di costumi che il giorno successivo incontreranno Bill, vestiti di tutto punto.

Il desiderio nel film Eyes Wide Shut

La pellicola Eyes Wide Shut esplora i vissuti emozionali, le gelosie, i timori, i segreti di una tipica coppia americana. Credo però che l’elemento saliente possa essere ravvisato in quella che definirei come una “parabola del desiderio”. Nel primo atto di seduzione descritto in precedenza, i corpi dei protagonisti sono fatti oggetto dell’attrazione dell’altro, delle due ragazze e dell’uomo alla festa. È questo un desiderio che si avvicina più propriamente al bisogno biologico, secondo cui il corpo agognato è schiacciato sulla definizione di oggetto desiderabile per alcune caratteristiche, che può appunto soddisfare il soggetto. Ma che tipo di desiderio sta esprimendo Alice al marito nella scena della confessione? E che tipo di desiderio vivifica Bill nella sua angosciante odissea newyorchese?

In queste scene di Eyes Wide Shut assistiamo ad una problematizzazione del desiderio sessuale esperito dai due protagonisti. È innanzitutto un desiderio inconscio, non manifesto, che seppur espresso è simbolicamente collocato nelle scene notturne, elemento descritto in precedenza. Nella sua “Interpretazione dei sogni” Freud definisce tre tipi di desiderio che possono suscitare un sogno: il primo tipo è suscitato di giorno e può non trovare appagamento in seguito a circostanze esterne, il secondo può emergere durante la veglia ma essere represso, il terzo può provenire dall’inconscio. Perché il terzo tipo di desiderio possa dar origine ad un sogno deve collegarsi ad un pensiero esperito durante la veglia, che sia in qualche modo associato al desiderio rimosso. Nel caso dei due protagonisti, gli avvenimenti della festa suscitano in maniera inequivocabile un certo tipo di eccitazione sessuale, che collegandosi ad antichi pensieri repressi, danno origine ad un ritorno di fantasie sessuali nascoste. È per questo che Alice assume un’ aria totalmente sconosciuta al marito ad esempio, come se fosse dominata da un’altra parte di sé, mai mostrata al proprio partner. In questo caso si tratta di un altro tipo di desiderio quindi, un desiderio di natura sessuale sì, ma inconscio, represso, relegato nell’oscurità, che può esprimersi solo attraverso le leggi del processo primario.

La donna assume un’ espressione stranita, sognante, le sue membra sono contratte, sembra essa stessa un sogno. Allo stesso modo Bill attraversa una New York oscura, evocativa, che seguendo le leggi di costituzione del sogno descritte da Freud si configura come una manifestazione mascherata di un contenuto nascosto. L’orgia in questo senso può essere configurata come la massima espressione delle funzioni del sogno, quale completa distensione del principio di piacere, di quel principio cioè che aspira al più totale soddisfacimento, sfuggendo all’esame di realtà. Alice si abbandona anch’essa al principio di piacere, soddisfacendo in maniera fantasticata il suo desiderio. Il desiderio descritto in questa fase è separato in Freud dal concetto di bisogno, è un desiderio come detto inconscio, che risponde alla sola legge del principio di piacere. Tale principio è uno dei due poli che regola l’attività psichica dell’essere umano, in contrapposizione al principio di realtà che sottopone la nostra vita al controllo morale, etico e sociale. Se non imbrigliato, l’inconscio sarebbe libero di esprimere incondizionatamente i suoi soddisfacimenti pulsionali, con la conseguente impossibilità di una vita stabile e in armonia con gli altri. In questo senso il confronto finale dei due coniugi si configura come un ritorno nella sfera della realtà, attraverso la piena accettazione dei rispettivi vissuti di desiderio e il consapevole ritorno sottomesso alle leggi della società, simbolizzata nella scena finale di Eyes Wide Shut dalla famiglia felice in prossimità del Natale, luogo caldo e rassicurante che allontana l’oscurità.

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