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L’utilizzo del biofeedback per fronteggiare una crisi lavorativa

La ricerca scientifica svolta da Janka e Al. ha indagato l’efficacia di un training di biofeedback rivolto a un gruppo di crisis manager per la gestione dello stress dovuto a situazioni di crisi lavorativa.

Mariapia Ghedina

 

Cosa si intende con crisi lavorativa

La crisi lavorativa è un avvenimento esogeno o endogeno, improvviso e complesso, di tale virulenza da rischiare di pregiudicare la business continuity di un’azienda. Uno dei possibili esempi di una crisi lavorativa riguarda gli investimenti sbagliati in cui vengono assunte decisioni sottostimando i rischi e andando quindi in contro a conseguenze nefaste.

L’approccio “classico” degli anni 1980-2000 porta a considerare la crisi aziendale come un “male inevitabile ma necessario”, che assicura la selezione darwiniana delle organizzazioni.

Quando si verifica una crisi lavorativa, al fine di contrastare un eventuale crollo, diviene necessaria una grande tempestività nella risposta operativa e nella gestione dei flussi di comunicazione interni all’organizzazione.

Il ruolo del crisis manager

Alla fine del secolo scorso nasce negli Stati Uniti la figura professionale definita “Crisis Manager”, sempre più diffusa anche in Italia, che si occupa di gestire le situazioni delicate e complesse che si possono creare nelle aziende. Uno dei suoi ruoli principali riguarda la gestione dei rapporti con i media e il contenimento dell’effetto nefasto che una “perturbazione” può avere sulla credibilità aziendale.

Questa figura professionale deve garantire la massima flessibilità d’orario in modo da poter intervenire immediatamente qualora sia necessario.

Non esiste un percorso formativo unico per il crisis manager: può essersi istruito nell’ambito dell’ingegneria, della comunicazione o del management; tuttavia l’esperienza acquisita sul campo è in molti casi più importante del percorso di studi. Un crisis manager deve avere una grande capacità di adattamento, essere un bravo leader e avere ottime abilità di decisionali.

La crescita aziendale è fortemente legata ai tipi di crisi che il crisis manager si troverà a gestire e alle strategie utilizzate per reagire a tali emergenze.

Quando all’interno di un’organizzazione si verifica un’emergenza, le responsabilità che ricadono sul crisis manager, sommate alla rapidità necessaria per intervenire e per prendere decisioni, implicano livelli di stress altissimi.

Training di biofeedback per crisis manager

La ricerca scientifica svolta da Janka e Al. ha indagato l’efficacia di un training di biofeedback rivolto a un gruppo di crisis manager per la gestione dello stress. In questo studio è stata monitorata l’attività elettrodermica durante esercizi finalizzati all’acquisizione del controllo dell’attivazione simpatica, sia in condizioni di riposo, sia durante l’esposizione a fattori di stress visivi, acustici e cognitivi somiglianti alle reali situazioni di crisi. Il programma comprendeva nove sessioni di quarantacinque minuti per sei settimane.

Il training di biofeedback utilizzato si è dimostrato utile per prevenire l’overarousal autonoma nei momenti più difficili e nel facilitare il ritorno allo stato di attivazione di partenza. Si tratta di una tecnica che permette di aumentare la capacità allostatica, portando a conservare o riguadagnare l’equilibrio interno dell’organismo, anche quando le sfide situazionali sono estreme.

Il controllo della propria psicoattivazione appreso grazie al biofeedback non solo può ridurre il livello di stress soggettivo, ma anche la vulnerabilità alle malattie legate allo stress; può inoltre limitare il declino delle prestazioni professionali, garantire un’adeguata prontezza in caso d’imprevisti e migliorare la gestione del rischio.

Nelle interviste non strutturate condotte al termine del training, la maggior parte dei partecipanti ha dichiarato che l’obiettivo di diminuire lo stress era stato effettivamente raggiunto e che in numerose situazioni della quotidianità aveva utilizzato la modalità di rilassamento appresa.

Tramite la scala dello stress percepito, è stato inoltre valutato lo stress soggettivo: è diminuito in modo stabile e significativo nei manager che hanno ricevuto le nove sessioni di biofeedback. Tale cambiamento è rimasto stabile al follow-up avvenuto due mesi dopo il training.

I risultati indicano quindi che l’utilizzo del biofeedback nella gestione delle crisi lavorative è un metodo efficace per diminuire i livelli di stress, per contrastare la diminuzione delle proprie capacità e per prevenire le patologie connesse allo stress stesso oltre che, naturalmente, per fronteggiare le difficoltà aziendali.

Si può pertanto concludere che il biofeedback può costituire un metodo utile da inserire nei programmi di gestione dello stress rivolti ai crisis manager.

Piccoli crimini coniugali (2017) – Cinema e Psicologia

Piccoli crimini coniugali è un film del 2017 diretto da Alex Infascelli, tratto dalla’omonima piece teatrale di Éric-Emmanuel Schmitt, interpretato da Sergio Castellitto e Margherita Buy.

 

Piccoli crimini coniugali – La trama

A seguito di un incidente domestico Elia (Sergio Castellitto), scrittore di gialli, perde la memoria. La moglie (Margerita Buy) cerca di fargliela tornare. Ricostruisce la vita con lui, ma la verità non è mai quello che sembra. Il film Piccoli crimini coniugali è un gioco al massacro tra i due. Chiusi nella loro casa si confrontano e si scontrano, celebrano una redde rationem della loro vita insieme costruito sul parlato. Emergono molte ombre e pochi ricordi di affetti e tenerezze scambiate.

La supposta mancanza della memoria (Castellitto spaesato, sembra non ricordare nulla: né della casa, né del matrimonio, né di se stesso e neanche dell’opinione che la consorte ha di lui) interroga per rievocare, per ricostruire significati di comodo che vengono sgretolati dall’emergere di pensieri ed emozioni che affiorano dai più intimi recessi dell’animo dei protagonisti. I due sprofondano, si inabissano per far riemergere una danza armonica di coppia che si è trasformata nel tempo, con il passare degli anni, in un vorticoso avvinghiarsi su menzogne, colpe, verità soggettive, accuse reciproche e violenze. Lui non ha perso la memoria, lei lo ha colpito mentre era seduto sulla sua scrivania assorto nelle sue letture. Via via che si svela l’accaduto si manifestano le crepe e la narrazione si apre alle dinamiche di coppia.

Tra amore e rancore

Un rinfacciarsi di responsabilità, disconnessioni, maltrattamenti, trascuratezze, mancati riconoscimenti, uno spaccato della quotidiana vita di coppia che si snoda tra amore e rancore, tra perdono e colpa, tra insoddisfazioni e attrazioni, tra frustrazioni, delusioni, promesse non mantenute e rinunce.

Cosa tiene insieme, qual è il collante di una coppia logora da anni caratterizzati da tali dinamiche?

Il ricordo dell’innamoramento, la rievocazione di quel tempo perduto, così bello, così straniante, in cui non c’è memoria ma solo presente, un tempo eterno che sembra farci volare sopra il mondo, sospesi come in un famoso quadro di Chagall. Il confronto contundente, l’aggressività e la violenza dell’età matura si dissolve nel ricordo nostalgico dell’incontro e dell’innamoramento, di questo momento unico e irripetibile.

Un film crudo, Piccoli Crimini Coniugali, finanche cinico, in cui ci si può identificare e ci si può rispecchiare nell’uno e nell’altro protagonista di volta in volta, sicuramente un film che ci fa riflettere sulle dinamiche di coppia e ci interroga sul nostro modo di relazionarci.

 

PICCOLI CRIMINI CONIUGALI – Il trailer del film:

La corteccia visiva – Introduzione alla Psicologia

Le immagini sono decodificate inizialmente dal talamo e poi inviate alla corteccia visiva primaria o V1. Oltre all’area V1 primaria, vi sono aree secondarie che tramite l’area V2 ricevono e decodificano specifiche caratteristiche degli stimoli.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Visione e corteccia visiva

Negli esseri umani la visione è il senso più sviluppato, infatti gran parte delle aree cerebrali sono implicate nel riconoscimento e nella codifica degli stimoli visivi.

Gli stimoli visivi sono raccolti da aree della corteccia occipitale in base a caratteristiche diverse. Gli stimoli visivi provengono dalle retine dei due occhi, dove sono situati i recettori visivi: i coni, implicati nella ricezione della luce diurna e i bastoncelli, imputati alla luce notturna. Tali stimoli sono trasmessi da ciascun nervo ottico fino al cervello, dove si trasformano in immagini in movimento, multicolori, riconoscibili e rievocabili dalla memoria. Le immagini sono decodificate inizialmente dal talamo e poi inviate alla corteccia visiva primaria o V1. Oltre all’area V1 primaria, vi sono aree secondarie che tramite l’area V2 ricevono e decodificano specifiche caratteristiche degli stimoli.

Il cervello consente di vedere gli oggetti come sono realmente malgrado le deformazioni dovute alla prospettiva, alla distanza o ad altri fattori: la nostra mente integra le informazioni con la memoria, con le immagini corrette già incontrate nell’arco della vita. E i continui movimenti degli occhi sono indispensabili per ottenere una percezione attendibile della profondità, garantendo il perdurare dell’immagine. La vista, dunque, è molto più di una sommatoria d’informazioni raccolte dagli occhi, essa richiede un patrimonio di informazioni precedentemente acquisito anche attraverso altri organi di senso.

Struttura della corteccia visiva

La corteccia visiva primaria (V1), è nota anche come koniocortex o corteccia striata, è localizzata attorno e nella scissura calcarina del lobo occipitale. L’area V1 è altamente specializzata nel processamento dell’informazione riguardante la forma e la collocazione di oggetti statici o in movimento nel campo visivo.

La corteccia visiva primaria è anatomicamente equivalente alla diciassettesima area di Brodmann, (BA17). Le aree visive secondarie (V2-V3-V4) o extra-striate sono formate dall’area di Brodmann 18 e dall’area di Brodmann 19. Esiste una corteccia visiva per ogni emisfero cerebrale. La corteccia visiva dell’emisfero sinistro riceve segnali riguardanti il campo visivo di destra, e la corteccia visiva di destra riceve l’informazione proveniente dal campo visivo di sinistra.

L’area V1

L’area V1 di ogni emisfero riceve informazioni direttamente dal proprio nucleo genicolato laterale ipsilaterale. Le proprietà di risposta della maggior parte dei neuroni, man mano che si procede nello studio di V1 cambiano notevolmente, dalla sensibilità a barre, o linee, di diverso orientamento, o in movimento in diverse direzioni, e la specializzazione nel colore. Inoltre l’organizzazione in moduli e colonne che si ripetono, sembra essere una configurazione comune a tutte le aree visive corticali e sembra essere funzionale per rappresentare uno stimolo multidimensionale su una regione della corteccia dibimensionale. Le connessioni che si stabiliscono all’interno di V1 trasformano le informazioni in modo tale che la maggior parte delle cellule degli strati più esterni rispondono in modo più selettivo a stimoli nettamente più complessi.

L’area V2

L’area V2, nota anche come corteccia pre-striata, è la seconda area principale nella corteccia visiva e la prima regione all’interno dell’area associativa visiva. Riceve informazioni dall’area V1, sia dirette sia tramite il pulvinar, e invia forti connessioni alla V3, V4 e V5.

Anatomicamente, la V2 è divisa in quattro quadranti, che forniscono una mappa completa del campo visivo. Funzionalmente, la V2 ha molte proprietà in comune con la V1. Molti dei neuroni di quest’area sono regolati da caratteristiche visive semplici come l’orientamento, la frequenza spaziale, le dimensioni, il colore e la forma. Le cellule in V2 rispondono anche a varie caratteristiche complesse, come l’orientamento di contorni illusori e la disparità binoculare.

L’area V3

L’area V3 si trova di fronte alla V2 e si assume possa avere due o tre suddivisioni funzionali aventi diverse connessioni con differenti aree. La V3 dorsale è normalmente considerata come parte della corrente dorsale e riceve input dalla V2 e dall’area V1. Essa proietta alla corteccia parietale posteriore e può essere anatomicamente localizzata nell’area di Brodmann 19. La V3 ventrale, invece, ha connessioni più deboli con l’area V1, ma proietta informazioni alla corteccia temporale inferiore. Le V3 è deputata alla percezione della forma degli oggetti in movimento.

L’area V4 e V5

L’area V4 è una delle aree visive nella corteccia extrastriata. Essa è localizzata, nelle scimmie, anteriormente alla V2 e posteriormente all’area inferotemporale posteriore (PIT). Comprende almeno quattro regioni: V4 dorsale sinistra e destra e V4 ventrale sinistra e destra. Non è ancora conosciuta l’anatomia della V4 negli umani.

La V4 è la terza area corticale nel sistema ventrale, che riceve segnali dalla V2, invia connessioni alla PIT, impulsi alla V1, specialmente dall’area centrale. Inoltre ha deboli connessioni con la V5 e la circonvoluzione prelunata dorsale (DP).

L’area V5 è essenziale per elaborare informazioni relativa il movimento, mentre la V4 è deputata soprattutto ai colori, codificati secondo meccanismi di opposizione cromatica.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicologi: perché la formazione di ASPIC fa la differenza

Edoardo Giusti: “nella nostra scuola mettiamo al centro la ricerca scientifica insieme a molta pratica e orientamento al lavoro”

A.S.P.I.C., Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità, è un ampio gruppo fondato nel 1988 da Edoardo Giusti e Claudia Montanari, che attraverso le sue diverse consociate si occupa di diversi ambiti: psicologia (Aspic Psicologia), psicoterapia (Scuola di Specializzazione), counseling dell’età adulta e dell’età evolutiva (Scuola Superiore del Counselling, Università Popolare del counselling, Aspic per la Scuola), orientamento scolastico e professionale (Aspic Studenti), servizi per l’occupazione (Aspic Lavoro). Cuore di tutte le attività c’è la ricerca scientifica (Aspic Arsa). La sua offerta formativa è ampia.

 

Scuola di specializzazione in psicoterapia pluralistica integrata: ultimi giorni per iscriversi.

Il Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia Pluralistica Integrata offerto da Aspic offre una formazione basata sulla ricerca scientifica applicata a prova di evidenza e sul metamodello ASPIC ARSA. La scuola consente di conseguire il titolo di psicoterapeuta per trattamenti in setting individuale e di gruppo e, contemporaneamente, acquisire competenze specialistiche in psicologia clinica di comunità per interventi di salutogenesi, formazione, sviluppo ed empowerment nei gruppi, nelle organizzazioni, nelle comunità. “Quella di Aspicracconta Edoardo Giusti, fondatore di Aspic – è una scuola che offre insieme ricerca e molta pratica clinica, un training personale anche nel luogo di appartenenza, nuove prospettive di carriera, competenze utili nel mercato, affinità del modello alle proprie attitudini e caratteristiche personali, prestigio della scuola”.

Ci sono ancora alcuni posti disponibili per l’anno accademico 2018, che avrà inizio il 24 febbraio 2018 e si svolgerà in 10 weekend mensili durante l’anno. L’iscrizione si può effettuare anche durante l’abilitazione professionale, purché il titolo sia conseguito entro la prima sessione utile dall’inizio effettivo del corso. La specializzazione può essere svolta per il 50% nella propria sede di appartenenza. Sono disponibili alcune borse di studio parziali, la possibilità di svolgere delle collaborazioni professionali remunerate durante il ciclo formativo e la pubblicazione delle tesi più meritevoli.

Per informazioni:

ASPIC – Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica di Comunità e Psicoterapia Umanistica Integrata

Via Vittore Carpaccio, 32 – 00147 Roma

Tel. 065413513 – 065926770 – Tel./fax 065926763

Sito web: www.scuolaspecializzazionepsicoterapia.it – link al sito

Master in counseling psicologico e tecniche di coaching

Il Master annuale intensivo teorico-esperienziale, riservato esclusivamente a Psicologi, a laureandi e laureati in Psicologia (laurea triennale o specialistica/magistrale), fornisce le competenze e gli strumenti operativi fondamentali per la gestione di una relazione d’aiuto, dall’assessment iniziale alla conclusione dell’intervento di sostegno, basata sull’efficacia relazionale qualitativa.

Inizio corso (II Edizione): 27-28 gennaio 2018, sede: Roma.

Per info: tel. 06.51435434 – e-mail: [email protected]

Sito: www.aspicpsicologia.org – link al sito

ASPIC per la Scuola – Via Macinghi Strozzi, 42/A

Per saperne di più: link al sito

Corso gratuito di preparazione all’esame di stato professione psicologo – sessione di giugno 2018 a Roma e presso sedi    

Il Corso intende fornire strumenti, metodi e strategie di approccio all’Esame di Stato per una preparazione mirata e approfondita, ritagliata sulle peculiarità di ciascuna prova (include: teoria e didattica, esercitazioni pratiche e condivisione in gruppo, follow-up).

I partecipanti al Corso possono effettuare 3 colloqui gratuiti di orientamento ed empowerment per lo sviluppo professionale (info tel. 347 9289119).

Corso attivato anche presso le sedi territoriali autonome ASPIC in altre città (può essere prevista una quota di iscrizione).

Inizio corso: 23 febbraio 2018 (6 lezioni per un totale di 18 ore)

Sede: Roma – ASPIC Via Vittore Carpaccio, 32

Per info: tel. 347.9289119 – tel. 338.3953153 – [email protected]                                                

L’Identità biculturale: una risorsa per la creatività e il benessere psicologico

Il risultato di questa esposizione a stimoli cross-culturali è un largo aumento di individui con identità biculturale, persone che hanno internalizzato almeno due culture. Gli individui biculturali non fanno necessariamente parte di minoranze etniche, ma sono per lo più immigrati, residenti temporanei, rifugiati o semplicemente individui esposti ad una seconda cultura oltre a quella di appartenenza, e le hanno interiorizzate entrambe (Benet-Martínez & Haritatos, 2005; Nguyen & Benet-Martínez, 2007, 2010).

Giulia Loverde, Open School Studi Cognitivi di Modena

 

La migrazione è uno degli argomenti di attualità maggiormente discussi degli ultimi anni. L’opinione pubblica si sta formando pareri diversi su ciò che la stampa e il mondo politico riportano sull’argomento e i fenomeni di discriminazione e marginalizzazione degli immigrati stanno diventando sempre più numerosi e allarmanti. È altrettanto vero che un numero sempre maggiore di individui è esposto a più stimoli culturali, grazie alle nuove tecnologie e ad un contatto maggiore con culture diverse. Ma cosa sostiene la ricerca scientifica? E quali sono i risvolti per l’identità?

La migrazione è un fenomeno complesso che coinvolge diversi aspetti ed è indagabile a vari livelli. Inoltre numerosi studi affermano che il contesto in cui si realizza riveste un ruolo importante nel processo. La branca della psicologia che studia questi fenomeni è la psicologia sociale mentre, in un’ottica orientata all’individuo, ha fornito il suo contributo anche la psicologia clinica. Ma cosa accade quando un individuo migra dal suo paese verso un paese ospitante o più semplicemente è esposto a stimoli di carattere cross-culturale?

L’acculturazione e i suoi esiti

Vari fattori entrano in gioco in questo cambiamento che, non è solo uno spostamento fisico/di luogo, ma ha conseguenze psicologiche e relazionali. Sia gli individui migranti che gli individui ospitanti, hanno aspettative, credenze, valori diversi e compiono valutazioni su se stessi e sugli altri contribuendo alla creazione di differenti dinamiche tra i gruppi e differenti esiti per gli individui.

Quando in psicologia sociale si parla di acculturazione ci si riferisce a quel fenomeno che si verifica quando individui e gruppi di culture differenti si trovano in una condizione continuativa di contatto ravvicinato, con conseguenti cambiamenti negli schemi culturali originali di uno o di entrambi i gruppi da un lato, e cambiamenti per gli individui che ne fanno parte, dall’altro (Redfield, Linton e Herskovits, 1936). È importante notare che la natura del processo è bidirezionale: i cambiamenti avvengono sia per la cultura ospitante che riceve la migrazione, sia per la cultura di origine dei soggetti migranti (Berry, Sam, 1997). Oltre al livello collettivo riconosciamo un livello individuale: i processi di acculturazione implicano, infatti, trasformazioni non solo nelle culture dei gruppi che si confrontano, ma anche cambiamenti che riguardano la sfera psicologica degli individui (Graves, 1967).

I fattori in gioco nei processi di acculturazione sono vari e si distinguono in:
– collettivi: la condizione socio-economica del paese ospitante e quella del paese di origine, la situazione politica del proprio paese e di quella di arrivo, la lingua e la religione di entrambi i paesi coinvolti, gli atteggiamenti del paese ospitante verso la migrazione, il tipo di popolazione e i gruppi etnici presenti nel territorio ospitante, la rete sociale su cui il gruppo di acculturazione può contare nel contesto ospitante;
– individuali: le caratteristiche demografiche (sesso, titoli di studio, età) e culturali (la religione, la lingua), i fattori di natura psicologica (la motivazione che spinge alla migrazione, le aspettative riguardo al cambiamento), le strategie di coping utilizzate, le risorse individuali e sociali impiegate per affrontare il cambiamento, il grado di contatto con la cultura ospitante, il livello di mantenimento della propria cultura di origine, i livelli di discriminazione percepita, la percezione di vicinanza/lontananza con la cultura ospitante dalla cultura di origine.

La letteratura ha indagato gli effetti generati dalla diversa combinazione di questi fattori riscontrando che l’individuo può incorrere in: modificazioni comportamentali a seguito dell’apprendimento della nuova cultura (abitudini alimentari, apprendimento delle nuove norme sociali e linguistiche) o alla perdita della cultura di origine, e ai conflitti che possono generarsi tra i gruppi di culture diverse; processi di identificazione culturale (cambiamento di atteggiamento nei confronti della propria cultura etnica ed identificazione con la nuova cultura ospitante) ed anche difficoltà di adattamento psicologico e socio-culturale (conseguenze psicopatologiche: depressione, stress, disturbi psicotici, stress post-traumatico, scarsi livelli di autostima, difficoltà di integrazione e relazionali).

La letteratura e le ricerche si sono spesso concentrate sugli esiti negativi che questo processo può comportare, individuando i fattori che possono contribuire al malessere individuale, ai conflitti, allo stress da acculturazione e alle difficoltà di adattamento alla nuova cultura. Ma essere appartenenti a più culture diverse, ha solo riscontri negativi o potrebbe avere dei risvolti positivi per l’individuo? E quando, in questa condizione, si crea benessere per l’individuo?

Identità biculturale

Dal 1970, la migrazione internazionale è raddoppiata a livello mondiale. In aggiunta, le innovazioni tecnologiche hanno implementato la possibilità di costruire legami cross-culturali e di venire a contatto con diverse culture nel mondo mentre il numero delle famiglie e le coppie multiculturali è in crescita.

Il risultato di questa esposizione a stimoli cross-culturali è un largo aumento di individui biculturali, persone che hanno internalizzato almeno due culture. Gli individui biculturali non fanno necessariamente parte di minoranze etniche, ma sono per lo più immigrati, residenti temporanei, rifugiati o semplicemente individui esposti ad una seconda cultura oltre a quella di appartenenza, e le hanno interiorizzate entrambe (Benet-Martínez & Haritatos, 2005; Nguyen & Benet-Martínez, 2007, 2010). Un chiaro esempio di tali individui sono gli immigrati di seconda generazione, i figli delle famiglie migranti, i quali nati e vissuti nel paese ospitante per tutta la loro vita, sono stati esposti anche alla loro cultura di origine in famiglia o nei gruppi sociali. L’acquisizione di una mente multiculturale può avvenire, oggi più che mai, attraverso svariate e molteplici forme e modalità.

L’interiorizzazione di schemi culturali anche molto distanti e incongruenti tra loro avviene, infatti, con maggior frequenza e la consapevolezza e individualità della loro negoziazione dà origine ad ampie differenze interindividuali (Nguyen e Benet-Martínez, 2007).
Gli individui biculturali sono in grado di abbracciare i valori sia della cultura ospitante che di quella di origine utilizzando strategie di coping di entrambe le culture e compiendo scambi interculturali positivi. È parte della loro identità l’accettazione di entrambe le culture che li aiuta a funzionare appropriatamente in contesti multiculturali.

La biculturalità, in letteratura è stata spesso studiata come la capacità di adottare la cultura ospitante e di mantenere al contempo la propria cultura di origine. Questo approccio non ha tuttavia considerato la differenza tra l’adozione dei comportamenti più tipici di una cultura e il reale senso di appartenenza nei confronti di essa e la variabilità, quindi, tra individui biculturali (Nguyen e Benet-Martínez, 2007; Schwartz e Unger, 2010).

I cambiamenti legati al processo di acculturazione si realizzano, infatti, con modalità differenti, in modo indipendente e in tempi diversi in vari ambiti della vita. (Navas et al., 2007; Nguyen e Benet-Martínez, 2007). Di conseguenza, essi possono generare esiti diversi, in termini di bi-culturalità a livello identitario.

Secondo Benet-Martínez e colleghi (2002; 2005; 2007), l’ identità biculturale è una miscela unica, in quanto personale, influenzata da vari fattori (contestuali, situazionali, socioculturali e individuali). La ricercatrice sostiene che l’espressione e il processo di identificazione dell’ identità biculturale possano essere armoniosi o conflittuali (Benet-Martínez e Haritatos, 2005) sottolineando l’importanza della modalità con cui gli individui biculturali sperimentano e organizzano i loro differenti e talvolta opposti orientamenti culturali. Lo sviluppo di un’armoniosa identità biculturale può essere una risorsa per l’individuo poiché determina modificazioni a livello cognitivo che migliorano la flessibilità di pensiero, il benessere e l’adattamento del soggetto in vari contesti (Chen e Benet-Martinez, 2008).

Benet-Martínez insieme ad altri autori, ha sviluppato nel 2002 il Bicultural Identity Integration (BII), una misura che permette di verificare se e come gli individui percepiscono la loro identità culturale: nello specifico se compatibile e integrata oppure difficile da integrare. Il BII non è un costrutto unitario, ma composto da due componenti. La prima riguarda il grado di conflittualità tra le due culture (cultural conflict), la seconda prende in considerazione la distanza percepita tra di esse (cultural distance; Huynh, Nguyen, Benet-Martínez, 2011). La prima componente esprime la soggettività dell’individuo poiché informa sugli elementi legati all’affettività dell’esperienza biculturale. La percezione di armonia tra le due culture può essere impedita dall’influenza negativa di fattori stressogeni sia personali (vulnerabilità, ruminazione e rigidità emotiva) sia esterni (discriminazioni, pressioni culturali, difficoltà linguistiche e relazionali)

La seconda componente individua invece la percezione di distanza tra le due culture. Quando i livelli di questa componente risultano essere elevati, l’individuo esperisce le due culture come non sovrapponibili, dissociate e distanti l’una dall’altra. Nello specifico la percezione di distanza sembra essere legata sia ad un atteggiamento di separazione dalla cultura ospitante e di mantenimento della propria cultura d’origine sia all’identificazione con la cultura ospitante ma non con quella d’origine. Per queste relazioni è stata associata a concetti di acculturazione più tradizionali: gli atteggiamenti e i comportamenti.

Attraverso la componente di distanza percepita è possibile che l’individuo adotti entrambe le culture, ma con la volontà di mantenerle separate. Inoltre, sembra che la percezione di distanza sia maggiore nei primi periodi della permanenza nel contesto ospitante, mentre si affievolirebbe con il passare del tempo. In uno studio del 2005 (Benet-Martínez e Haritatos), questa componente e gli anni di permanenza sul territorio sono infatti negativamente correlati.

Tra i fattori individuali che influenzano la percezione di distanza culturale, emerge una bassa apertura individuale che può motivare la bassa capacità di incamerare nuovi valori e stili di vita contemporaneamente. I fattori esterni che influiscono su tale componente sono: l’esperienza di isolamento culturale, le pressioni contestuali e lo stress derivato dalla scarsa abilità linguistica dell’idioma ospitante.

L’ identità biculturale ha quindi una componente più affettiva e un’altra componente più cognitiva. Entrambe sono influenzate da fattori diversi: è importante il ruolo dell’esperienza soggettiva percepita dall’individuo rispetto al contesto in cui è immerso e quindi le sue caratteristiche personologiche, cognitive, le strategie di coping, ma anche fattori esterni quali i livelli di discriminazione, gli atteggiamenti di acculturazione adottati e le esperienze relazionali nel contesto ospitante.

L’identità biculturale: perchè è una risorsa e quando si realizza

Lo sviluppo di un’ identità biculturale armoniosa, è importante per il soggetto perché gli permette di avere un maggiore benessere psicologico, livelli di autostima più elevata e di percepire una minore discriminazione soggettiva e livelli minori di stress.

La modalità con cui gli individui sviluppano l’ identità biculturale e la percepiscono è molto importante per il loro benessere e per le risorse che da essa possono derivare. Gli individui con un’ identità biculturale armoniosa e coesa, (bassa percezione di distanza e bassa percezione di conflittualità tra le culture) mostrano maggiore capacità ideativa, maggiore complessità cognitiva, minore discriminazione percepita, maggiore creatività, maggiori abilità linguistiche e maggiore apertura nelle relazioni sociali (Benet-Martinez e al., 2006; Huynh, Nguyen, Benet-Martínez, 2011). Questi esiti sono probabilmente legati alla capacità dell’individuo di accettare aspetti contradditori ma anche di utilizzare le abilità acquisite in modo funzionale al contesto in cui sono immersi.

Un aspetto molto interessante riguarda, infine, il ruolo del contesto. Alcuni risultati hanno evidenziato che gli individui inseriti in contesti multiculturali o in cui la biculturalità era apprezzata e considerata un valore, manifestavano un’ identità biculturale armoniosa e un maggiore benessere psicologico (Nguyen e Benet-Martinez, 2007). Come evidenziato inizialmente, le variabili collettive, legate al contesto in cui si realizza l’acculturazione, sono importanti e generano esiti individuali e di gruppo diversi. Per quanto riguarda il gruppo ospitante, come suggerito dalla teoria di Tajfel, è presente una paura nel gruppo ospitante che i migranti non si adattino alla società che li accoglie, ma che piuttosto creino un contesto culturale separato che minacci l’unità culturale del Paese nel suo complesso e di conseguenza l’identità culturale degli individui che si definiscono anche rispetto alla loro cultura originaria minacciata. Questa minaccia percepita e le possibili reazioni avverse delle persone della società ricevente la migrazione, possono contribuire alla diminuzione di integrazione dell’ identità biculturale in tali gruppi etnici nelle comunità in cui il loro numero è relativamente ridotto, conducendoli a separarsi dal contesto culturale maggioritario.

Gli individui multiculturali e il ruolo della psicoterapia

I temi trattati suggeriscono l’importanza dello sviluppo di una mente multiculturale in un’epoca di globalizzazione, dove la facilità di spostamento e il contatto tra culture diverse è sempre più all’ordine del giorno. Vari fenomeni di grande attualità come la sequenza di attentati che si stanno susseguendo in Europa e nel mondo, le difficoltà di integrazione che i migranti stanno sperimentando, sono alcuni dei fatti per cui una lettura attraverso una chiave scientifica, potrebbe essere d’aiuto per il loro inquadramento. L’aumento dell’accettazione di una società multiculturale ed un atteggiamento di apertura verso le altre culture, dovrebbero divenire degli obiettivi a cui tendere, sia per un benessere personale che sociale. I fenomeni di isolamento sociale e di radicalità vissuti negli ultimi anni dai migranti, potrebbero essere influenzati anche dal contesto ospitante che spinge verso l’abbandono della propria cultura d’origine dei migranti per l’assimilazione alla cultura ospitante, la quale a volte non rispetta una parte identitaria centrale dell’individuo per la definizione di sé: l’appartenenza etnica. Oltre alla riduzione dei fenomeni di marginalizzazione dei migranti e dei conflitti tra gruppi etnici, vi sono, come abbiamo visto, vantaggi individuali come ampliate capacità cognitive e maggiori abilità di ragionamento. Ciò può aiutare, ad esempio, in ambiti di lavoro multiculturali sempre più comuni oggigiorno (es. grandi aziende con sedi dislocate e dipendenti trasfertisti).

In questo scenario come può collocarsi la psicoterapia? Il ruolo degli schemi cognitivi nel processo di identificazione con l’ identità biculturale, è per l’individuo centrale. Oltre a ciò, variabili personologiche come l’apertura nelle relazioni, l’abilità nelle interazioni e la capacità di gestione dello stress ne influenzano fortemente gli esiti. Una psicoterapia potrebbe, pertanto, essere orientata ad aumentare la tolleranza alle contraddizioni e a sviluppare la capacità individuale di riconoscimento funzionale degli stimoli culturali all’interno del contesto, in modo da poter aiutare l’individuo ad attivare lo schema culturale più adatto in quella situazione.

La capacità di lettura degli eventi, l’accettazione che la propria identità abbia più sfaccettature e che un individuo possa definirsi attraverso una pluralità di modi e non solo attraverso un incasellamento statico, potrebbero essere alcune delle tematiche da affrontare con il terapeuta. Inoltre, potrebbe essere utile fare un’indagine approfondita sulle credenze che non permettono l’adattamento nel nuovo contesto e sugli schemi cognitivi che non aiutano il paziente in questo processo. Infine, un assessment sul tipo di attaccamento sviluppato con gli adulti di riferimento e sulle modalità di interazione apprese in famiglia, potrebbero ampliare lo scenario e dare spunti di lavoro a livello personologico per aiutare il paziente a fronteggiare il malessere provato.

Concludendo, l’acculturazione è un fenomeno contemporaneamente intrapersonale, interpersonale e influenzato dal contesto. Pertanto, ulteriori approfondimenti empirici sull’intervento dei vari fattori che modificano questo processo, fornirebbero una maggiore comprensione dell’identità culturale e dell’adattamento individuale necessaria in un’epoca mutevole e dinamica.

Omofobia interiorizzata: la paura dell’essere e nell’essere omosessuale

L’ omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includere di routine l’assessment e il trattamento dell’ omofobia interiorizzata (Gonsiorek, 1982; Malyon, 1982; Montano, 2000; Stein & Cohen, 1984). Ciò è vero soprattutto per le persone omosessuali più giovani (ma non solo) che potrebbero avere bisogno di maggiore supporto nello sviluppo della loro identità gay o lesbica.

Una società eterosessista

Ho tantissimi amici gay!”
Oh, io li adoro!”

In molti avremo sentito o pronunciato questo tipo di frasi, apparentemente del tutto innocue e dal sapore “liberale” ma che in realtà palesano quanto ancora la nostra sia una società permeata da eterosessismo.
Un eterosessismo che viene appreso ed acquisito fin dalla nascita.
E’ infatti fin dalle prime fasi di vita e dunque ancor prima della scoperta della propria identità sessuale che ha luogo l’acquisizione, mutuata dall’ ambiente circostante ed interiorizzata, delle convinzioni di base riguardo al sesso, ai ruoli di genere e all’omosessualità. Allevare ed educare un bambino significa quasi sempre allevare quello che sarà nella prospettiva dei responsabili della sua formazione di base – genitori, parenti, scuola- un adulto eterosessuale.

Molto prima di avere una reale comprensione di cosa significhi essere omosessuale, i bambini hanno ricevuto un set d’informazioni eterosessiste che vengono codificate nella convinzione che essere gay o lesbica sia qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune (Antonella Montano 2010).

Questi atteggiamenti, pregiudizi e opinioni discriminatorie sugli omosessuali, a volte casuali ma comunque denigratori, basati su falsi stereotipi, usati in modo non del tutto consapevole o per scherzo, sono in grado di fissarsi nella mente di un bambino o adolescente come convinzioni di base (core beliefs), in una fase di crescita in cui l’individuo ricerca l’integrazione in un mondo regolato da molteplici dettami a cui conformarsi.

L’ omofobia e il pregiudizio anti-gay ostacolano e mettono in pericolo la formazione di un adolescente sano capace di costruirsi un’identità affermativa adulta.
In una società fortemente eterosissista è difficile riconoscere e sviluppare un positivo orientamento sessuale e poterlo svelare normalmente agli altri.
I gay e le lesbiche provano molto spesso sentimenti negativi verso loro stessi, una volta entrati in contatto con il loro essere omosessuale.
Questo perché hanno interiorizzato che l’eterosessualità equivale alla normalità e dunque il loro orientamento sessuale diverso dalla norma li pone nella condizione di sentirsi “sbagliati”.

Soprattutto per i soggetti che si trovano ai primi stadi del processo di formazione d’identità omosessuale, la percezione di un ambiente familiare e sociale repressivo può portare ad interiorizzare pensieri e sentimenti negativi nei confronti dell’omosessualità. Tali vissuti possono esprimersi sul piano psicologico attraverso la vergogna, il senso di colpa, la bassa autostima e la scarsa accettazione di sé.

L’ omofobia interiorizzata

L’ omofobia interiorizzata è dunque una componente importante nel disagio vissuto quotidianamente da gay e lesbiche e gioca un ruolo cruciale come fattore patogeno, essendo determinante nell’insorgenza di diversi disturbi emotivi. Essa può incidere sia sull’evoluzione delle malattie fisiche e mentali, che sulle scelte di prevenzione e cura (Montano, 2000; Williamson, 2000; McGregor et al., 2001).

L’ omofobia interiorizzata nelle persone gay e lesbiche può portare dunque ad alcuni problemi specifici come:
– elevata percezione dello stigma sociale;
– difficoltà nel fare coming out;
– credenza che l’omosessualità sia sbagliata, da rinnegare e nascondere;
– non accettazione della propria omosessualità perché causa di ansia, angoscia e tensione interiore, colpa e vergogna;
– non accettazione della propria sessualità che può portare a gravi disturbi sessuali;
– aumento della propria autoesclusione sociale;
– aumento di depressione e ansia;
– aumento di abuso di stupefacenti e alcol.

Ovviamente in tali dinamiche hanno una influenza rilevante anche le variabili psicologiche personali come la vulnerabilità ai condizionamenti familiari e ambientali e le strategie individuali messe in atto.

L’ omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includere di routine l’assessment e il trattamento dell’ omofobia interiorizzata (Gonsiorek, 1982; Malyon, 1982; Montano, 2000; Stein & Cohen, 1984).
Ciò è vero soprattutto per le persone omosessuali più giovani (ma non solo) che potrebbero avere bisogno di maggiore supporto nello sviluppo della loro identità gay o lesbica.

Kahn (1991) sostiene che la risoluzione della formazione dell’identità omosessuale dipende dal superamento dell’ omofobia interiorizzata.
Shildo (1994) considera l’eliminazione dell’ omofobia interiorizzata come un importante obiettivo terapeutico e analizza le difficoltà nella concettualizzazione e misurazione di questa variabile. Inoltre, la riduzione dell’ omofobia interiorizzata può essere considerata un’importante misura del successo della terapia.

Come superare l’ omofobia interiorizzata

Per quanto riguarda il trattamento con clienti omosessuali, Sophie (1987) suggerisce delle strategie generali utili per affrontare e superare l’ omofobia interiorizzata. Ad esempio l’uso della ristrutturazione cognitiva, attraverso la quale il terapeuta può aiutare il cliente ad affrontare in modo positivo la sua difformità dai costrutti sociali dominanti, esplorando insieme tutti gli stereotipi e i falsi miti riferiti all’omosessualità (supportando la frequentazione di altri gay e lesbiche, intesa come ulteriore rinforzo al processo di ristrutturazione cognitiva).

E’ fondamentale inoltre promuovere un approccio neutrale all’identità omosessuale, inteso come apprendimento del fatto che essere gay o lesbiche è una delle possibilità date agli esseri umani, né preferibile né deprecabile rispetto all’essere eterosessuali.
Similmente, è utile lavorare sulla consapevolezza della propria identità sessuale, interpretata come modalità positiva per sentirsi parte di una comunità e non più individui isolati e oppressi (confrontarsi con altri gay e lesbiche rende il cliente meno vulnerabile e meno incline a sentirsi il solo a essere diverso e stigmatizzabile dalla società).

Il coming-out (dichiararsi apertamente, solo alla propria famiglia o all’intera cerchia delle conoscenze) è una strategia efficace per vincere l’ omofobia interiorizzata residua, un processo sicuramente difficile ma che una volta intrapreso rafforza l’autostima e fornisce lo stimolo per affrontare in modo costruttivo la rimodulazione della propria personalità.

In tale senso è importante promuovere l’abitudine all’omosessualità, cioè il raggiungimento della piena consapevolezza che l’omosessualità non è un fatto deprecabile o straordinario, ma solo uno dei modi di essere di una persona. L’orientamento sessuale infatti altro non è che una parte della nostra personalità che in alcun modo pregiudica il valore personale.

E’ solo attraverso il superamento delle assunzioni che fanno ritenere che l’omosessualità sia qualcosa di anormale e per questo censurabile, che i gay e le lesbiche possono dunque affrontare ed elaborare la loro omofobia interiorizzata.

Un software che analizza il linguaggio per predire la psicosi

Il linguaggio e la parola sono la fonte primaria di dati per gli psichiatri per diagnosticare e trattare i disturbi mentali. In un nuovo studio, i ricercatori (Corcoran et al.), usando un’analisi di elaborazione del linguaggio naturale sul computer, hanno mostrato che, tra i giovani di lingua inglese ad alto rischio di psicosi, la riduzione di base della coerenza semantica (il flusso di significato nella parola) e la complessità sintattica possono predire l’insorgenza della psicosi con una precisione elevata.

Uno strumento di analisi semantica del linguaggio dei pazienti con psicosi

Le analisi computerizzate del linguaggio sono state ottenute da diverse interviste con dei giovani a rischio in due differenti coorti – una a New York City con 34 partecipanti e l’altra a Los Angeles con 59 partecipanti – per i quali era nota l’insorgenza della psicosi entro i due anni successivi. La precisione delle analisi è stata di circa l’83%.

I ricercatori (Corcoran et al.) hanno identificato un classificatore vocale di apprendimento automatico, comprendente una minore coerenza semantica, una maggiore discrepanza in tale coerenza e un ridotto utilizzo di pronomi possessivi, con un’accuratezza dell’83% nel predire l’insorgenza della psicosi (intra-protocollo), invece, un’accuratezza incrociata di 79% della previsione di insorgenza della psicosi nella coorte di rischio originale (protocollo incrociato) e un’accuratezza del 72% nel discriminare il linguaggio di pazienti con psicosi di recente insorgenza da quelli di individui sani.
Ad ogni parola in ogni trascrizione è stata assegnato un vettore semantico; ogni parola è stata anche taggata rispetto alla sua funzione grammaticale.

L’algoritmo di apprendimento automatico classifica il discorso in base al fatto che sia caratteristico degli individui che svilupperanno la psicosi, al contrario di quelli che non lo faranno. In altri termini, l’algoritmo impara gli schemi sottostanti in un sottoinsieme di trascrizioni e poi in modo iterativo, prevedendo la classificazione (insorgenza di psicosi oppure no) in nuove trascrizioni non usate durante la fase di apprendimento.

Oltre all’analisi semantica del linguaggio e alla codifica di parti del discorso, il linguaggio può essere valutato anche rispetto ai logogrammi, alla prosodia, alla pragmatica, alla metaforicità e ai discorsi o alle conversazioni tra interlocutori. Analisi automatizzate del linguaggio naturale sono state utilizzate anche per caratterizzare altri disturbi del comportamento, tra cui ad esempio il morbo di Parkinson.

Considerati nel loro insieme, i risultati di questi studi supportano l’utilità e la validità dei metodi automatizzati di elaborazione del linguaggio naturale e suggeriscono che questa tecnologia ha il potenziale per migliorare la previsione dell’insorgenza della psicosi e di altri disturbi caratterizzati da disturbi della semantica e della sintassi. Più in generale, l’analisi linguistica automatizzata può essere un potente strumento in ambito neuropsichiatrico per diagnosi, prognosi e stime della risposta al trattamento.

La dieta MIND che rallenta il declino cognitivo

Alcuni ricercatori del Rush University Medical Center hanno creato una dieta, chiamata dieta MIND che può aiutare a rallentare notevolmente il declino cognitivo nei pazienti che hanno avuto un ictus, secondo una ricerca preliminare presentata il 25 gennaio all’Aternational Stroke Conference 2018 dell’American Stroke Association a Los Angeles. I risultati sono significativi perché i pazienti post-stroke hanno il doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alla popolazione generale.

 

I benefici della dieta MIND

La dieta, nota come dieta MIND, è l’abbreviazione di Mediterranean DASH Diet Intervention per il Ritardo Neurodegenerativo. La dieta è un ibrido tra le diete mediterranee e DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension). Entrambe sono state utilizzate per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari come ipertensione, infarto e ictus.

“Gli alimenti che promuovono la salute del cervello, come verdura, bacche, pesce e olio d’oliva, sono inclusi nella dieta MIND“, ha detto il dottor Laurel J. Cherian, neurologo vascolare e assistente professore nel Dipartimento di Scienze Neurologiche di Rush. “Abbiamo scoperto che ha il potenziale per aiutare a rallentare il declino cognitivo nei sopravvissuti all’ictus“.

Lo studio ha valutato la funzione cognitiva dei sopravvissuti, monitorando le loro diete.

La coautrice dello studio Martha Clare Morris, ScD, nutrizionista di Rush, e i suoi colleghi hanno sviluppato la dieta MIND sulla base di informazioni ricavate da anni di ricerche su alimenti e sostanze nutritive che hanno effetti positivi e negativi sul funzionamento del cervello. La dieta è risultata utile riducendo il rischio di declino cognitivo negli anziani che hanno aderito. Anche le persone che aderivano con poca costanza hanno ridotto il rischio di declino cognitivo.

In cosa consiste la dieta MIND

Per aderire e beneficiare della dieta MIND, una persona avrebbe bisogno di mangiare almeno tre porzioni di cereali integrali, una verdura a foglia verde e un altro vegetale ogni giorno – insieme a un bicchiere di vino – snack quasi tutti i giorni a base di noci, mangiare fagioli ogni due giorni circa, mangiare pollame e frutti di bosco almeno due volte a settimana e pesce almeno una volta alla settimana. La dieta specifica limita inoltre l’assunzione di cibi malsani, limitando il burro a meno di 1, 1/2 cucchiaini al giorno e mangiando meno di cinque porzioni alla settimana di dolci e pasticcini e meno di una porzione alla settimana di formaggio grasso intero, e fritto o fast food.

Sono stato davvero incuriosito dai risultati di un precedente studio MIND, che ha dimostrato che le persone che erano più aderenti alla dieta MIND funzionavano cognitivamente come se fossero 7,5 anni più giovani del gruppo meno aderente“, ha detto Cherian. “Mi sono chiesto se quei risultati fossero validi per i sopravvissuti all’ictus, che hanno il doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alla popolazione generale“.

Dal 2004 al 2017, Cherian e colleghi hanno studiato 106 partecipanti al progetto Rush Memory and Ageing che hanno avuto una storia di ictus con conseguente declino cognitivo. Hanno valutato le persone nello studio ogni anno fino alla loro morte o alla conclusione dello studio e hanno monitorato le abitudini alimentari dei pazienti.
I ricercatori hanno raggruppato i partecipanti in coloro che erano altamente aderenti alla dieta MIND, moderatamente aderenti e meno aderenti. Hanno inoltre esaminato ulteriori fattori noti per influenzare le prestazioni cognitive, tra cui età, sesso, livello di istruzione, partecipazione ad attività cognitivamente stimolanti, attività fisica, fumo e predisposizioni genetiche.

I partecipanti allo studio le cui diete hanno ottenuto il punteggio più alto nel punteggio di dieta MIND hanno registrato un tasso di declino cognitivo sostanzialmente più lento rispetto a quelli che hanno ottenuto il punteggio più basso. L’effetto stimato della dieta è rimasto alto anche dopo aver preso in considerazione il livello di istruzione dei partecipanti e la partecipazione alle attività stimolanti dal punto di vista cognitivo e fisico.

Secondo Cherian, anche studi precedenti hanno scoperto che folati, vitamina E, acidi grassi omega-3, carotenoidi e flavonoidi sono associati a tassi più lenti di declino cognitivo, mentre sostanze come i grassi saturi e idrogenati sono state associate a un maggior rischio di demenza.

Il nostro studio suggerisce che se scegliamo i cibi giusti, potremmo essere in grado di proteggere i pazienti che hanno avuto un ictus dal declino cognitivo“. Cherian avverte, tuttavia, che lo studio è stato osservativo, con un numero relativamente piccolo di partecipanti, e le sue scoperte non possono essere interpretate in una relazione di causa-effetto.

Questo è uno studio preliminare che si spera possa essere confermato da altri studi”, dice. “Per ora, penso che ci siano abbastanza informazioni per incoraggiare i pazienti colpiti da ictus a vedere il cibo come uno strumento importante per ottimizzare il loro funzionamento cognitivo e cerebrale“.

Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships – Interview with Dr. John Amodeo, author of the book

John Amodeo is a psychotherapist expert in love and couple, author of the book Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships, which won the Spirituality and Practice Award as one of the best spiritual books of 2013, as well as the 2014 Silver Independent Publisher Book Award in the relationship category. 

 

 Dancing with fire discusses relationships as a spiritual path in the dance of feeling and life. Drawing from his deep experience as a longtime therapist and meditator, Dr. Amodeo has given us a key to integrate personal growth with relational growth, learning to be a more healthy presence for others, but also for ourselves.

In these pages, the author invites us to look through the lens of Mindfulness. Dr John Amodeo shows us how to bring mindful, loving attention to all aspects of our intimacy, including the painful or difficult aspects. It teaches us to see, hear and embrace the vulnerable parts of ourselves and how this practice of “welcoming” creates a sense of empathy and unity with other human beings.

Starting from the conviction that the root of suffering is in isolation, what gives meaning to life are bonds, whether they are familiar, friendship or love.

It was an honor and a privilege for me to ask him some questions.

Interview with John Amodeo

Interviewer: Before reading the book, I immediately hit the title. Dancing with fire makes me think of something ancient and tribal, and even risky. What do you want to convey to the reader with this image?

Dr John Amodeo: The title came to me in a dream. I was seeing relationships as dancing with fire. Such deep passions get stirred within us. Strong longings for acceptance, connection, and love. We get burned when we don’t know how to dance with fire of our desires. Our longings can consume us when we don’t how to dance skillfully with them—engage with them in a wise, caring, mindful way.

Interviewer: You talk about authenticity and how this value improves the link with others. Being authentic also means being 100% yourself and exposing yourself and being vulnerable. As a therapist I know how difficult it is for people to accept and see their weaknesses, especially in their relationship. According to your experience, how is it done to be fully themselves and if this involves costs and compromises in the couple?

Dr. John Amodeo: It can feel very freeing to be authentic, to be ourselves. This means allowing ourselves to experience whatever we happen to be experiencing. Giving ourselves permission to feel sad, or afraid, or embarrassed, or angry—and take the risk to disclose this. Sometimes this means being vulnerable. It takes strength to be vulnerable; it’s not a weakness.

So we need to find resources within ourselves so that we can courageously reveal our authentic experience to another person. We need to find the inner strength to be real with people we want to feel close to.

This is how we create a climate for intimacy. Love and intimacy cannot be controlled. We can’t force or pressure people to love us or care about us. But we can take the risk to show our true feelings and wants. We can express ourselves in a clear, but gentle way. This often brings people toward us. It may feel scary to open up like this, but if we don’t, we risk losing our integrity and maintaining distance in our relationships.

Interviewer: I really like it when you talk about creating intimacy, which is not about sex or confidence, but about the climate of intimacy that develops when we feel “seen” on the other, listened to in depth and intimately connected.

Dr. John Amodeo: Yes, intimacy is created between two people who are willing to show themselves rather than hide. And we need to listen in a gentle and caring way to each other. There is a saying that God gave us two ears and one mouth for a reason. It is twice as hard to listen as it is to speak.

We can’t be “seen” unless we show ourselves. People may only see the image we project or the act we put on. To be truly seen in our essence begins by slowing down, finding some stillness inside, inquiring into what we are truly experiencing in the moment. It’s a kind of meditation or mindfulness practice to notice and honor whatever we’re feeling. Then we can chose to share that with a person we want to connect with.

It’s very delightful and enlivening when two people feel safe enough to show their authentic selves to each other. A deep richness and connection can flow between them as they hold each other’s feelings with respect—and hold each other with respect, gentleness, and kindness.

Interviewer: You make a distinction between desire and craving. Can you say something more?

Dr. John Amodeo:  Buddhism teaches that craving creates suffering for us. But many people then think they are being spiritual if they eliminate their desires and longings. It is very human to have desires. I call them sacred longings. The path is not to suppress or minimize our longings but rather to engage with them in a wise and skillful way. For example, if we’re not feeling heard by a partner or friends, we can just try to let it go. We may think we have let it go and that we’re being very spiritual. But actually, we may be bypassing our human feelings rather than courageously acknowledging and showing them.

Craving tends to arise when we don’t recognize our true longings. We might drink or resort to some addiction when our human needs for connection are not being met. We may crave attention when we don’t know how to attend to ourselves in a caring way. We may crave power and recognition when we don’t recognize that what we really desire is simple kindness and caring from others.

Interviewer: For many people it is difficult to bond with someone, for fear of suffering or being abandoned. In a paragraph you say that “Rather than distance us from the relationship, Mindfulness can help us move toward them in various ways.” How does it help the relationship?

Dr. John Amodeo: For example, if we’re mindful that we’re afraid of rejection or fearful that we’ll feel shame or embarrassment to ask someone out on a date, we can hold those feelings gently. We can allow them to settle and perhaps feel some kindness toward ourselves.  We might then take the risk to reach out. If we’re rejected, we can let ourselves feel sad and be ok with that. It’s just sadness, which is a normal human feeling. It’s not the end of the world.

We become more willing to reach out and connect if we know we can deal with whatever happens. We can bring a gentle mindfulness to our feelings and be ok with ourselves.

Interviewer: Can you explain how focusing therapy works?

Dr. John Amodeo:  Focusing oriented therapy is about helping people feel safe enough to inquire into their true feelings and understand themselves in a deeper way.  It’s bringing mindfulness to one’s feelings and one’s body. Getting out of our repetitive and unhelpful thinking, not pathologizing ourselves, and simply being present for experience as it unfolds, Trusting the wisdom of our feelings.

People have different ways of using Focusing in therapy. I try to listen carefully and reflect back what I’m hearing and check whether I’m getting it right. I might invite them to slow down, take some time to notice what they’re feeling and see if any words or images arise that resonate with their inner experience.

It’s hard to say just a little bit about it. It’s an exploration of one’s inner experience, validating that, and being open what unfolds in the moment in the session. Sometimes new and powerful insights and understanding can arise.

Focusing can help our relationships because we can’t communicate clearly until we know what we are experiencing.

 

Dancing with fire: discovering the book

 Dancing with fire talks directly to our hearts with compassion, wisdom and courage. The way to write is warm and welcoming, as in a conversation with a wise and kind friend. Our common interests have brought me closer to this illustrious teacher. After my studies in Humanistic Psychology, I also approached Mindfulness and the continuous search for the integration of these two worlds, science and spirituality. Dr Amodeo has succeeded in a masterly way. He combines meditation and mindfulness with western approaches, such as Focusing therapy and Emotionally Focused Therapy in a coherent and enlightening way.

His love for others that transpires in every word of this beautiful book and in the words that he told me with enormous kindness, is the reflection of his life. A life dedicated to people and couples through years of therapy. He himself is a high example of personal spiritual life that he experiences in every exotic journey, in every meditative practice, in every intimate encounter.

This book is a treasure guide consisting of inner beauty and felt sense, to be read many, many times. An excellent book for therapists, meditators and anyone looking for a better life and a better relationship.

I’d like to give you one sense of his writing with a quote from his book.

Living with spiritual depth invite us to be mindful  of our feelings, dance with them skillfully, and share the rich texture of our felt experience with other. The give of being human endow us with the creativity capacity to convey the glistening nuances of our felt experiences – perhaps through an expressive glance, a radiant smile, a gentle touch, our tone of voice, or resonant word. If our communication is graciously received, we may glow in a shining moment of loving connection.

 

Disturbi mentali e stigma: quali sono le cause più accettate socialmente?

Uno studio della Baylor University sottolinea che sarebbe utile creare delle campagne di sensibilizzazione finalizzate a far conoscere le cause dei disturbi mentali per cercare di rimuovere lo stigma sociale.

 

Lo stigma sociale nei confronti dei disturbi mentali

Gli individui che sostengono le convinzioni biologiche riguardo le cause dei disturbi mentali, tendono anche ad approvare altre credenze, rendendo l’effetto complessivo delle credenze biologiche piuttosto contorto e talvolta negativo“, ha detto l’autore principale Matthew A. Andersson, Ph.D., assistente professore di sociologia presso il Baylor’s College of Arts & Sciences.

Lo studio, incentrato sullo stigma nei confronti di individui affetti da depressione, schizofrenia e alcolismo, è stato pubblicato sulla rivista Society and Mental Health della American Sociological Association. I risultati suggeriscono che le convinzioni sulle cause dei disturbi mentali potrebbero essere affrontate nelle campagne pubbliche e dai politici in modi diversi e più vantaggiosi di quanto non lo siano ora, secondo Andersson e la co-autrice Sarah K. Harkness, Ph.D., assistente professore di sociologia all’Università dell’Iowa.

Lo studio ha analizzato i dati del General Social Survey, somministrato da un team di ricercatori dell’Università di Chicago. Il sondaggio ha presentato ad un campione casuale di 1.147 intervistati, situazioni riguardanti individui affetti da sintomi di depressione, schizofrenia o alcolismo.

Gli intervistati hanno compilato un questionario nel quale veniva loro chiesto di scrivere quali, secondo loro, potessero essere le cause delle malattie mentali citate sopra.

Le cause maggiormente emerse sono 6:

1. Avere un carattere difficile
2. Uno squilibrio chimico nel cervello
3. Il modo in cui si è stati cresciuti
4. Circostanze stressanti nella vita
5. Un problema genetico o ereditario
6. il volere di Dio
Infine, per misurare lo stigma sociale, agli intervistati è stato chiesto quanto sarebbero disposti ad avere una persona con un problema di salute mentale:

(1) che si sposta nella porta accanto;
(2) che inizi a lavorare a stretto contatto con loro per un lavoro;
(3) che divenga parte della famiglia;
(4) trascorrere insieme una serata;
(5) diventarvi amico;
(6) che si trasferisca in una nuova casa-comunità nel proprio quartiere per le persone in quella condizione.

I risultati dello studio hanno fatto emergere che la convinzione più comune è che la depressione e la schizofrenia siano causate da diversi fattori combinati, come ad esempio squilibrio chimico a livello cerebrale, circostanze di vita stressanti e predisposizioni genetiche. Generalmente il campione non ha presentato convinzioni riguardo “cattivo carattere”, fattori educativi o religiosi quali cause di tali disturbi.

Al contrario, tra gli intervistati a cui è stato presentato lo scenario di un alcolizzato, la combinazione più comune di convinzioni sulle cause dell’alcolismo includeva l’avere un carattere difficile, la presenza di squilibrio chimico cerebrale, il modo in cui si è stati educati, stress e anomalie genetiche.

Lo studio è rilevante perché sottolinea quanto sottili ma ampiamente diffuse teorie sulla salute mentale possano contribuire a stigmatizzare chi soffre di un disturbo mentale, ha detto Andersson.

Riorganizzare le iniziative politiche anti-stigma intorno ai modelli di credenza che abbiamo collegato allo stigma può contribuire ad aumentare l’accettazione sociale delle persone che soffrono di questi disturbi.

Linee di ricerca future si propongono di approfondire altre credenze più specifiche sulle cause dei disturbi mentali, come ad esempio problemi coniugali o familiari, fattori di stress sul lavoro, varie disfunzioni cerebrali o specifici eventi di vita negativi.

Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships – Intervista all’autore Dr. John Amodeo

John Amodeo è uno psicoterapeuta esperto in amore e coppie, autore del libro “Dancing with Fire: A Mindful Way to Loving Relationships”, con cui ha vinto lo Spiritual and Practice Aware come uno dei migliori libri spirituali del 2013, nonché il Silver Independent Publisher Book Award 2014 nella categoria relazioni.

 

 Dancing with Fire tratta le relazioni come un percorso spirituale nella danza dei sentimenti e della vita. Attingendo alla sua notevole esperienza come terapeuta e meditatore di lunga data, il Dr. John Amodeo ci dà una chiave per integrare la crescita personale con la crescita relazionale, insegnandoci ad essere una presenza più salutare per gli altri, ma anche per noi stessi.

L’autore, in queste pagine, ci invita a guardare attraverso la lente della Mindfulness. Ci mostra come portare un’attenzione consapevole e amorevole su tutti gli aspetti della nostra intimità, compresi quelli dolorosi o difficili. Ci insegna a vedere, sentire e abbracciare le parti vulnerabili di noi stessi e come questa pratica di “accoglienza” crea un senso di empatia e unità con gli altri esseri umani.

Partendo dalla convinzione che la radice della sofferenza è nell’isolamento, ciò che dà significato alla vita sono i legami, che siano familiari, di amicizia o d’amore.

È stato un onore e un privilegio per me porgli alcune domande.

L’intervista a John Amodeo

Intervistatrice: Prima di leggere il libro, mi ha immediatamente colpito il titolo. Ballare con il fuoco mi fa pensare a qualcosa di antico e tribale, e anche rischioso. Cosa vuole trasmettere al lettore con questa immagine?

Dr. John Amodeo: Il titolo mi è venuto in sogno. Ho visto le relazioni come una danza con il fuoco. Ci sono passioni profonde che si agitano dentro di noi. Forti desideri di accettazione, unione e amore. Ci bruciamo quando non sappiamo ballare con il fuoco dei nostri desideri. E le nostre passioni possono consumarci quando non sappiamo danzare abilmente con loro – relazionarci con loro in un modo saggio, attento e consapevole.

Intervistatrice: Lei parla di “autenticità” e di come questo valore migliori il legame con gli altri. Essere autentici significa anche essere 100% se stessi, di esporsi e di essere vulnerabili. Io come psicoterapeuta so quanto sia difficile per le persone accettare e vedere le proprie debolezze, soprattutto nei rapporti. Secondo la sua esperienza, come si fa a essere pienamente se stessi? E se questa autenticità comporta poi costi e compromessi nella coppia.

Dr. John Amodeo: Ci si può sentire molto liberi nell’ essere autentici, nell’ essere noi stessi. Questo significa permetterci di esprimere ciò che proviamo. Dare a noi stessi il permesso di sentirci tristi, spaventati, imbarazzati, o arrabbiati – e correre il rischio di farlo vedere agli altri. A volte ciò comporta l’essere vulnerabili. Ci vuole coraggio per essere vulnerabili; non è una debolezza.

Abbiamo dunque bisogno di trovare le risorse dentro di noi che ci fanno coraggiosamente esprimere il nostro vissuto in modo autentico ad un’altra persona. Abbiamo bisogno di far emergere la forza interiore per essere veri con le persone che vogliamo avere vicino.

È così che creiamo un clima di intimità. L’amore e l’intimità non possono essere controllati. Non possiamo forzare o spingere le persone ad amarci o prendersi cura di noi. Ma possiamo correre il rischio di mostrare i nostri veri sentimenti e desideri. Possiamo esprimerci in modo chiaro, ma anche delicato. Questo porta spesso le persone ad avvicinarsi. Aprirsi in questo modo può far paura, ma se non lo facciamo, rischiamo di perdere la nostra interezza e di mantenere le distanze nelle nostre relazioni.

Intervistatrice: Mi piace molto quando parla di “creare intimità”, che non riguarda il sesso o la confidenza, ma il clima di intimità che si sviluppa quando ci sentiamo “visti” dall’altro, ascoltati in profondità e intimamente connessi.

Dr. John Amodeo: Sì, l’intimità si crea tra due persone che sono disposte a mostrarsi piuttosto che a nascondersi. Dobbiamo ascoltarci l’un l’altro in modo gentile e premuroso. C’è un detto che recita “Dio ci ha dato due orecchie e una bocca per una ragione”. È due volte più difficile ascoltare che parlare.

Non possiamo essere “visti” se non ci riveliamo per come siamo. Gli altri possono vedere solo l’immagine che presentiamo o le azioni che compiamo. Per essere veramente visti nella nostra essenza dobbiamo iniziare a rallentare, trovare un po’ di quiete interiore, indagare su ciò che stiamo realmente vivendo in quel momento. È una specie di pratica di meditazione o di mindfulness osservare e dare valore a tutto quello che sentiamo. Per poi scegliere di condividerlo con la persona con cui vogliamo entrare il relazione.

È molto piacevole e ravvivante quando due persone si sentono abbastanza sicure da mostrarsi reciprocamente. Una profonda ricchezza e connessione fluisce tra di loro mentre si scambiano i sentimenti con rispetto – e si trattano l’un l’altro con attenzione, disponibilità e gentilezza.

Intervistatrice: Lei fa una distinzione tra desiderio e brama. Può dirci qualcosa di più?

Dr. John Amodeo: Il buddismo insegna che la brama ci crea sofferenza. Ma molte persone sono convinte che per essere spirituali devono rimuovere i loro desideri e le loro volontà. È molto umano avere dei desideri. Io li chiamo sacri desideri. Il percorso non è quello di sopprimere o limitare i nostri desideri, ma piuttosto di relazionarci con loro in modo saggio e abile. Ad esempio, se non ci sentiamo ascoltati dal partner o dagli amici, possiamo semplicemente decidere di lasciar stare. Potremmo ritenere che il fatto di aver lasciato correre ci renda molto spirituali. Ma di fatto, così ignoriamo i nostri sentimenti umani piuttosto che riconoscerli e rivelarli coraggiosamente.

La brama tende a sorgere quando non siamo consapevoli dei nostri veri desideri. Potremmo ricorrere al bere sviluppando qualche forma di dipendenza quando i nostri bisogni di relazione non vengono soddisfatti. Potremmo richiedere attenzione quando non sappiamo come prenderci cura di noi stessi. Oppure potremmo cercare il potere e il riconoscimento quando non ammettiamo che ciò che veramente desideriamo è semplicemente la gentilezza e l’attenzione altrui.

Intervistatrice: Per molte persone è difficile legarsi, per paura di soffrire o di essere abbandonate. In un paragrafo lei dice che “Piuttosto che mettere delle distanze nelle relazioni, la Mindfulness aiuta ad avvicinare in vari modi.” Come fa la Mindfulness ad aiutare le relazioni?

Dr. John Amodeo: Ad esempio, se siamo consapevoli del fatto che abbiamo paura del rifiuto o quando temiamo di provare vergogna o imbarazzo nel chiedere un appuntamento a qualcuno, possiamo accettare delicatamente di avere queste emozioni.

Possiamo permettere ai nostri sentimenti di esserci e forse provare  un po’ di gentilezza verso noi stessi. Possiamo anche correre il rischio di “raggiungere” l’altro. Se invece veniamo respinti, possiamo essere tristi e stare bene con quello che c’è. È solo tristezza, che è una normale emozione umana. Non è la fine del mondo.

Noi siamo più disposti a raggiungere e connetterci con l’altro se sappiamo di poter affrontare qualsiasi cosa accada. Possiamo portare consapevolezza alle nostre emozioni in modo gentile e stare bene con noi stessi.

Intervistatrice: Può spiegare come funziona la terapia di focusing?

Dr. John Amodeo:  La terapia orientata al focus consiste nell’aiutare le persone a sentirsi sufficientemente sicure nell’ indagare sui loro veri sentimenti e capire se stesse in un modo più profondo. Portando consapevolezza alle proprie emozioni e al proprio corpo. Uscire dai pensieri ripetitivi e inutili, non patologizzare se stesse e semplicemente essere presenti nell’ esperienza mentre si manifesta, fidandosi della saggezza del proprio sentire.

Le persone hanno diversi modi di usare Focusing in terapia. Cerco di ascoltare attentamente e riflettere su ciò che sto ascoltando e verificare se ho capito bene. Posso invitarle a rallentare, a prendersi un po’ di tempo per osservare ciò che sentono e vedere se emergono parole o immagini che risuonano con la loro esperienza interiore.

È difficile spiegarlo in poche parole. È un’esplorazione della propria esperienza interiore, la convalida e l’apertura di ciò che si svolge nel momento presente della sessione di terapia. A volte possono nascere idee e intuizioni nuove e potenti.

La focusing può aiutare le nostre relazioni perché noi non siamo capaci di comunicare chiaramente fino a quando non sappiamo cosa stiamo provando.

 

Dancing with fire: alla scoperta del libro

 Dancing with fire parla direttamente al nostro cuore con compassione, saggezza e coraggio. Il modo di scrivere è caldo e accogliente, come in una conversazione con un amico saggio e gentile. I comuni interessi mi hanno fatto conoscere questo illustre maestro. Dopo gli studi in Psicologia Umanistica anche io mi sono avvicinata alla Mindfulness e alla ricerca continua dell’integrazione di questi due mondi, scienza e spiritualità. Il Dr Amodeo ci è riuscito in maniera magistrale. Unisce la meditazione e la mindfulness con gli approcci occidentali, come la terapia Focusing e Emotionally Focused Therapy in maniera coerente e illuminante.

Il suo amore per gli altri che traspare in ogni parola di questo bellissimo libro e nelle parole che con enorme gentilezza mi ha riferito, è il riflesso della sua vita. Una vita dedicata a persone e coppie attraverso anni di terapia. Lui stesso è un alto esempio di spiritualità che conosce pienamente la vita in ogni viaggio esotico, in ogni esperienza meditativa, in ogni incontro intimo.

Questo libro è una guida del tesoro fatta di bellezza interiore e sentire profondo, da leggere molte, molte volte. Un libro eccellente per terapeuti, meditatori e chiunque cerchi una vita migliore e relazioni migliori.

Per concludere vorrei dare un senso della sua scrittura con una frase tratta dal libro.

Vivere con profondità spirituale ci invita ad essere consapevoli dei nostri sentimenti, a ballare con loro abilmente e condividere la ricca trama del nostro vissuto con gli altri. Il dono dell’essere umano ci dota della capacità creativa di trasmettere le sfumature scintillanti delle nostre esperienze – può essere attraverso uno sguardo espressivo, un sorriso radioso, un tocco gentile, il nostro tono di voce o una parola risonante. Se la nostra comunicazione viene gentilmente accolta, risplendiamo in un momento luminoso di connessione amorevole.

Quando un figlio arriva all’improvviso – Mamme e papà si diventa

Sebbene oggigiorno un figlio sia sempre più spesso desiderato e la gravidanza in parte programmata, non ci dimentichiamo di quelle situazioni in cui un bambino arriva all’improvviso, in maniera del tutto imprevista, quando ancora non si pensava di volerne avere uno o quando ancora non ci si è rimessi in sesto dopo il primo figlio. A seconda dei casi, il concepimento di un figlio può generare gioia in entrambi i genitori, in uno dei due o in nessuno dei due.

 

Alle volte, la donna può non avere un compagno fisso o avere una relazione extraconiugale o con un uomo sposato. Altre volte un figlio arriva quando la relazione con il partner è ormai al capolinea. Che fare? Restare insieme per crescere il proprio figlio o lasciarsi? Il bambino può diventare uno strumento per rimettere insieme la coppia? Se il padre del bambino è sposato che decisione prendere?

In altri casi, la mamma potrebbe essere in età adolescenziale e per questo temere di perdere la sua giovinezza o che la sua esistenza venga sconvolta dall’arrivo di un bambino. A volte, questo vissuto culmina nella decisione di un’interruzione di gravidanza, in alti casi le donne sono determinate a portare avanti la gravidanza, nonostante le difficoltà.

All’opposto, un bimbo può arrivare quando la futura mamma è al limite dell’età fertile e potrebbe aver perso le speranze di avere un figlio. In questi casi, la maternità improvvisa può essere accolta con gioia e speranza, quasi come un dono al quale ormai si aveva rinunciato.

E non ci dimentichiamo delle donne che dopo diverse inseminazioni artificiali o auto-inseminazioni finalmente riescono a diventare madri e a realizzare un sogno dopo tanti ostacoli.

Ogni donna porta con sé una storia e vive la maternità in maniera unica, con vissuti ed emozioni contrastanti, frutto di rappresentazioni personali di sé, della storia di vita passata e della coppia genitoriale. A volte si tratta di un sogno d’infanzia che si realizza, altre volte arriva nonostante non ci si pensasse affatto; può avvenire per colmare un vuoto interiore o per risanare un rapporto di coppia; può arrivare dopo un lutto o un aborto o dopo vari tentativi; può essere legato a un bisogno di annullare un passato difficile e sperare in un futuro migliore.

Tuttavia, anche quando un bambino è desiderato, le emozioni che emergono quando si scopre di aspettare un figlio sono spesso ambivalenti e l’entusiasmo può essere accompagnato dalla paura di una nuova vita.

Ecco che diventare genitori ci appare come un mondo sempre più complesso, intriso di mille sfaccettature e come non mai quando si diventa genitori la propria vita passata e presente, le relazioni vissute e costruite nel tempo e quelle attuali, la personalità frutto di interazioni tra natura e ambiente affiorano e spesso culminano nella domanda: “Sarò un bravo genitore per questo bambino?”. Una domanda che spesso ricorre nella mente di chi ha un figlio e che ogni volta porta con sé ansie, incertezze e messa in discussione del proprio ruolo. Ma di questo ci occuperemo in successivi articoli della rubrica. Per il momento concludiamo dicendo che in base alle esperienze personali, la notizia di una gravidanza può essere accolta con gioia e speranza o con dubbi e tormenti interiori e ogni storia va esplorata e ascoltata senza giudizi e pregiudizi nella sua unicità.

 

Rifiuto scolastico: comprendere i fattori scatenanti e la sintomatologia per attivare interventi efficaci

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza e spesso da un’aperta opposizione ad andare a scuola e/o rimanervi per l’intera giornata (Kearney & Silverman, 1996).

Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo, Open School PTCR Milano

 

Paure e fobie: cos’è il rifiuto scolastico

Reazioni di ansia e di paura sono condizioni emotive molto diffuse sia nei bambini sia negli adolescenti (King, Muris & Ollendick, 2004). Si tratta di esperienze universali, riscontrabili in varie culture, aventi caratteri per lo più transitori ma che, talvolta, possono evolvere in un disturbo psicologico.

Durante la crescita, condizionamenti, fantasie ed immaginazione possono, infatti, assumere un ruolo progressivamente più rilevante nella genesi e nel mantenimento delle paure infantili, soprattutto a causa di una più complessa strutturazione del pensiero del bambino e quindi di una maggiore capacità di anticipare conseguenze future (Berto & Scalari, 1997).

Le paure possono essere considerate “una finestra” durante i periodi d’inevitabile adattamento che tutti i bambini devono attraversare; quindi tutti, nel corso del loro sviluppo, presentano paure e timori di varia natura (Brazelton & Greenspan, 2001). Si possono considerare tali paure e timori come veri e propri disturbi quando il funzionamento scolastico e sociale del bambino è fortemente compromesso (Phillips, 1978). Dagli studi di Cohen & Cohen (1993) ad esempio, si stima che tra il 10 e il 15% dei bambini e degli adolescenti presenterebbe un disturbo d’ansia. L’ansia, contrariamente ai timori e alle fobie, si riferisce ad uno stato avverso o spiacevole che coinvolge l’apprensione soggettiva e l’attivazione fisiologica.

La paura è una risposta normale ad una grande varietà di situazioni o oggetti. Nella sua forma più semplice, la paura è la sensazione o la condizione che si prova quando si è esposti a stimoli minacciosi reali o immaginati. Ovviamente, la paura ha una funzione adattativa e “ci predispone a reagire di fronte ad un pericolo esistente o ragionevolmente previsto” (Kanner, 1972, p. 580). Sebbene sia adattiva e necessaria per la sopravvivenza, le risposte alla paura diventano problematiche quando sono eccessive, persistono nel tempo e producono notevoli disagi per il bambino (Graziano, De Giovanni & Garcia, 1979; King, Hamilton & Ollendick, 1988; Morris & Kratochwill, 1983). Oltre a ciò che ci si aspetterebbe per l’età del bambino, queste paure problematiche sono spesso definite come fobie.

Possiamo partire dunque dalla definizione di fobie semplici: si tratta di paure intense e persistenti relative ad oggetti e situazioni, eccessive e irragionevoli, attivate dall’esposizione o anticipazione dello stimolo fobico. Sono generalmente associate a comportamenti evitanti, che possono produrre una marcata compromissione funzionale, a sintomi somatici (palpitazione, rossore o pallore, dispnea, tensione muscolare) e a sintomi comportamentali (pianto e rabbia) (Guidetti, 2007).

Si potrebbe dire che ogni fase dello sviluppo del bambino è caratterizzata da paure specifiche. Normalmente queste paure si estinguono progressivamente, secondo una sequenza temporale abbastanza specifica (Guidetti, 2007). Molte fobie sono circoscritte a contesti e situazioni specifiche, come appunto il rifiuto scolastico è legato al contesto della scuola.

La scuola è un ambiente stimolante che il bambino inizia a frequentare quotidianamente a partire dai sei anni di età. È un luogo di allenamento alla vita, alla scoperta di sé e alla conoscenza del mondo. Nasce per essere vissuto in modo sereno, però talvolta si trasforma in un teatro di timori, in una fonte di preoccupazioni e di un vero e proprio disagio che può riguardare bambini e adolescenti che sviluppano la cosiddetta “fobia scolare”. Oggi giorno è in aumento il numero delle famiglie che si trovano a dover affrontare per qualche periodo un rifiuto scolastico da parte di un figlio (Last et al., 1987).

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza e spesso da un’aperta opposizione ad andare a scuola e/o rimanervi per l’intera giornata (Kearney & Silverman, 1996).
Il rifiuto scolastico non rientra nella nosografia ufficiale sebbene da più parti sia riconosciuto come un disturbo invalidante.
Anche se in letteratura si è spesso usata l’etichetta di fobia scolare, attualmente si preferisce usare la definizione di “rifiuto scolastico” per identificare questo disturbo (Kearney & Silverman, 1996).

I primi riferimenti alla fobia scolare come un vero e proprio problema clinico sono dell’inizio degli anni ’40 ed è del 1965 (Kennedy, 1965) la distinzione tra due tipi di fobia scolare, con alcuni tratti in comune e altri invece distintivi. Tra i tratti comuni troviamo la frequenza di disturbi somatici, paura di separazione dalla madre, conflitti tra la famiglia e l’ambiente scolastico.

Rifiuto ansioso della scuola: eziologia e decorso

La fobia scolastica denominata anche “rifiuto ansioso della scuola” (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987) si riscontra nell’1-5% dei bambini che frequentano la scuola (Burke & Silverman, 1987).

Nonostante possa essere presente a qualsiasi età, esordisce con maggiore frequenza in bambini di 5-6 anni, di 10-11 anni o in adolescenti tra i 12 e i 15 anni, colpendo soprattutto i soggetti maschi e in genere figli unici, primogeniti o prediletti nell’80% dei casi (Ollendick & Mayer, 1984). Può essere considerata una forma di fobia sociale che insorge nei bambini che all’improvviso si rifiutano di andare a scuola e, qualora si tenti di portarceli, mostrano chiari disturbi d’ansia e attacchi di panico (Johnson, Falstein, Szurek & Svendsen, 1941). I due picchi più frequenti per il manifestarsi di questo problema sono le età che corrispondono a due fasi evolutive delicate per un bambino, cioè l’ingresso nella scuola primaria e il passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado e quindi tra i cinque e i sei anni e tra i dieci e gli undici anni (Egger, Costello & Angold, 2003).
Non sono state riscontrate differenze legate allo status socioeconomico (Last & Strauss, 1990; Baker & Wills, 1978).

Se un poco d’inquietudine e preoccupazione all’idea di andare a scuola è normale nei bambini, soprattutto nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, dalla scuola primaria alla secondaria, oppure al momento di un cambiamento di scuola o di uno degli insegnanti, è anche vero che la prolungata paura di andare a scuola, il rifiuto scolastico e soprattutto un prolungato evitamento dell’ambiente scolastico può costituire un danno importante sia sul breve che sul lungo periodo (King & Bernstein, 2001).

Sul breve periodo il fatto che il bambino non vada a scuola e non svolga in modo completo le attività previste per la sua classe può rallentare lo sviluppo cognitivo e intellettuale del bambino e creare una storia di criticità nel rendimento scolastico che a sua volta costituisce un potenziale fattore di rischio per gli anni successivi; i ridotti e a volte problematici contatti con i compagni non favoriscono un buon sviluppo delle competenze sociali innescando, in alcuni casi, un circolo vizioso di difficoltà relazionali ed, inoltre, aumentano anche le difficoltà all’interno del contesto familiare (Hersov, 1972; Last & Strauss, 1990; Naylor et al., 1994).

Sul lungo termine la difficoltà ad andare a scuola può portare ad uno stato di ansia cronica, allo sviluppo di un disturbo d’ansia, ad un basso livello di autostima, ad un basso livello culturale e alla difficoltà nel raggiungere il benessere personale e professionale in età adulta (Mayer, 2008; Bernstein et al., 2001; Buitelaar et al., 1994; Flakierska-Praquin et al., 1997; Kearney & Albano, 2000a).

Se non trattata adeguatamente e per tempo la fobia scolare può facilmente trasformarsi in un problema cronico con evidenti e ovvi effetti sullo sviluppo del bambino, e in alcuni casi potrebbe essere consigliata anche l’ospedalizzazione (King & Bernstein, 2001). In una ricerca svedese che ha seguito per più di vent’anni un gruppo di bambini con un rifiuto scolastico, si è potuto osservare che i bambini con questo problema da adulti si segnalavano per un maggior numero di contatti con le strutture psichiatriche, una più lunga permanenza nella famiglia di origine, un minor numero di figli rispetto alla media della popolazione (Flakierska-Praquin, Lindstrom & Gillberg, 1997).

Manifestazioni cliniche del rifiuto scolastico

Esiste un certo numero di bambini e di adolescenti per i quali “l’ambiente scolastico è una sofferenza, o comunque fonte di grandi difficoltà” (Bernstein GA, Garfinkel BD, 1986). Il rifiuto scolastico è riconosciuto come disturbo invalidante dal 2005 (Maillard, 2012).

Alcuni autori hanno osservato che i bambini con rifiuto scolastico presentano le seguenti caratteristiche comportamentali: a) gravi difficoltà a frequentare la scuola, che spesso provoca una prolungata assenza; b) disturbi emotivi gravi, compresa l’eccessiva paura, l’esplosione di rabbia o le lamentele di sentirsi malati quando si trovano di fronte alla prospettiva di andare a scuola; c) rimanere a casa sotto la protezione del genitore che deciderà quando il ragazzo dovrà frequentare la scuola; d) assenza di comportamenti antisociali come i furti, la menzogna e comportamenti violenti autodiretti o eterodiretti (Berg, Nichols & Pritchard, 1969).

Oltre a queste funzioni primarie, molti autori hanno descritto caratteristiche associate che possono aiutare a delineare diversi sottotipi di rifiuto scolastico.

Coolidge, Hahn e Peck (1957) ne distinguono due sottotipi: neurotico e caratteriologico. Questa distinzione (Waldfogel, Coolidge, & Hahn, 1957), è stata successivamente adottata da altri autori (ad esempio, Kahn & Nursten, 1962; Kennedy, 1965). In sostanza, essa discrimina tra ciò che è diventato noto come rifiuto scolastico tipo I e tipo II. Il rifiuto scolastico di tipo I, o la varietà nevrotica, è caratterizzato dalle seguenti caratteristiche (Kennedy, 1965): (a) il presente episodio è il primo; (b) inizio di lunedì, a seguito di una malattia del giovedì o del venerdì precedente; c) esordio acuto; (d) più prevalente nei primi gradi delle elementari; e) preoccupazione per la morte o per la salute fisica della madre; g) generalmente è presente una buona comunicazione tra i genitori; (h) madre e padre ben adeguati; (i) padre coinvolto nella gestione della famiglia e nell’educazione dei figli; (j) i genitori hanno una comprensione adeguata di ciò che il bambino sta vivendo.

Al contrario, il rifiuto scolastico di tipo II o caratteriologico, è caratterizzato da uno schema contrario: una graduale e insidiosa insorgenza in un bambino più grande in cui i temi di morte non sono presenti e i cui genitori sono notevolmente più difficili da coinvolgere, mostrano poca consapevolezza e comprensione del comportamento del bambino. Anche se questo non esaurisce tutti i sottotipi del rifiuto scolastico riportati in letteratura (es. Hersov, 1960, Weiss & Cain, 1964), è evidente che rappresenta un problema complesso ed eterogeneo (Atkinson, Quarrington e Cyr, 1985; Blagg, 1987; Ollendick & King, in stampa; Ollendick & Mayer, 1984).

I sintomi tipici di questa fobia in genere compaiono improvvisamente all’inizio dell’anno scolastico ed una volta scomparsi possono ricomparire, ad esempio, a seguito di una lunga assenza per malattia o dopo un periodo di vacanza. Se invece il sintomo compare in modo brusco, quando ormai la fase dell’inserimento è stata superata senza grosse difficoltà, allora si può pensare che la causa sia riconducibile ad un episodio specifico come ad esempio un evento stressante vissuto a scuola o a casa, un litigio con un compagno, problemi con un insegnante, malesseri fisici vissuti a scuola o ancora insuccessi nei compiti didattici (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987). Sembrerebbe allora che il problema sia la reazione, la conseguenza di un fattore scatenante e pertanto è opportuno indagare sulle cause che hanno innescato il rifiuto scolastico, al fine di poter trovare specifiche soluzioni e percorsi d’intervento mirati, precoci e quindi più efficaci (Pilliteri Senatore, 1995).

I sintomi più frequenti riscontrati sono la paura, gli attacchi di panico, il pianto, gli scatti d’ira e le minacce di autolesionismo (Bernstein et al., 1997). Col crescere dell’età i bambini adottano meccanismi difensivi sempre più sofisticati per rendere meno evidente l’angoscia e più frequentemente presentano sintomi di somatizzazione che possono comprendere cefalee, dolori addominali, vomito, astenia e perfino febbre. L’esistenza dei sintomi di malessere fisico, in questi casi, tende a diminuire in modo naturale nei giorni del fine settimana e in prossimità di vacanze (Kennedy, 1965).

Spesso, nei casi in cui un bambino è assecondato nelle sue richieste, rimanendo a casa, questo può assumere dei comportamenti diligenti e collaborativi: svolgerà tutti i compiti assegnati in classe con grande impegno, interesse e serenità, tanto da non presentare carenze nel rendimento scolastico anche a seguito di lunghi periodi di assenteismo. Ciò non toglie che l’assenza da scuola per periodi prolungati tende a generare una problematica secondaria di insicurezza rispetto alla conoscenza dei contenuti dei moduli svolti (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987; Pilliteri Senatore, 1995; Sperling, 1967).

Inoltre ci sono bambini che non vogliono andare a scuola per la paura delle aggressioni fisiche dei compagni violenti e dei bulli o perché, pur senza essere oggetto di attacchi fisici o psicologici, fanno molta fatica nelle relazioni con i compagni: circa un terzo dei bambini con rifiuto scolastico sono timidi nei confronti dei pari, hanno paura di essere presi in giro o hanno comunque delle relazioni conflittuali con i compagni (Egger, Costello & Angold, 2003). In altri casi ancora sono bambini particolarmente preoccupati delle interrogazioni, dei compiti in classe, dei compiti a casa o dello studio, spesso sono presenti dei tratti di perfezionismo eccessivo che rende difficile anche solo terminare un compito. In altri casi ancora il rifiuto scolastico è legato alla presenza di un disturbo dell’apprendimento.

I bambini con rifiuto scolastico spesso presentano significativi disturbi emotivi, soprattutto legati all’ansia e alla depressione (McShane et al., 2001).
I disturbi psichiatrici più comunemente presenti in comordibità sono l’ansia da separazione, la fobia sociale, la fobia semplice, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo post-traumatico da stress, il disturbo depressivo maggiore, la distimia e il disturbo dell’adattamento (Last & Strauss, 1990; McShane et al., 2001; Bernstein, 1991)

Il Funzionamento familiare e le origini del rifiuto scolastico

Molto spesso problemi all’interno del nucleo familiare possono essere la causa del rifiuto scolastico dei bambini (Fremont, 2003; Hersov, 1985; Waldron et al., 1975).

Interazioni familiari disfunzionali correlate al rifiuto scolastico sono la dipendenza eccessiva (invischiamento), il distacco o un numero esiguo di interazioni tra i membri della famiglia, l’isolamento del nucleo familiare rispetto all’ambiente esterno e un elevato grado di conflittualità (Kearney & Silverman, 1995).

Inoltre sono stati spesso riscontrati all’interno di queste famiglie problemi di comunicazione, problemi nelle assunzioni dei ruoli (soprattutto nelle famiglie con un unico genitore) e problemi di troppa rigidità e coesività tra i membri della famiglia (Bernstein & Borchardt, 1996; Bernstein et al., 1999; Steinhauer et al., 1984).

Bernstein et al. (1990b) hanno individuato delle difficoltà nel funzionamento familiare attraverso l’utilizzo del Family Assessment Measure (FAM) (Skinner et al., 1983), in particolar modo nelle subscale Assunzione dei ruoli e Norme e Valori. Le difficoltà nelle assunzioni dei ruoli riflettono una mancanza di accordo tra i membri della famiglia rispetto ai propri compiti e doveri e una mancanza di adattamento dei propri ruoli di fronte a nuove situazioni o col passare del tempo. (Steinhauer et al., 1984).

Molte volte una madre eccessivamente ansiosa, inconsciamente ed involontariamente, trasferisce nel figlio le proprie fobie andando ad indebolire l’autostima del figlio stesso, il quale giunge a credere di essere realmente “bisognoso di protezione”, ed incapace di fare da sé. In concomitanza, talvolta, accade che all’interno di questa dinamica familiare già disturbata e disturbante vi sia anche la figura di un padre poco presente o del tutto assente tanto da privare il figlio di quel modello di riferimento, in termini di identificazione, fondamentale per la costruzione di una personalità forte e sicura (Moraldi, 2012).

A queste caratteristiche, spesso, si aggiungono anche le influenze di particolari regimi educativi. Può accadere che alle spalle del bambino vi sia una famiglia estremamente tollerante. Avere due genitori indulgenti può tradursi, una volta entrati nel mondo della scuola, nella difficoltà d’interiorizzazione delle regole scolastiche e dei rimproveri delle maestre (Sperling, 1967).

Quando il problema del rifiuto scolastico nasce in modo secondario rispetto ad una relazione malsana tra madre e figlio e ad una dinamica familiare viziata, si è soliti parlare di rifiuto scolastico indotto. (Sperling, 1967).

Valutazione del rifiuto scolastico

Prima del lavoro di Kearney (2002, 2006), l’approccio diagnostico faceva riferimento al disturbo di ansia ed in particolar modo al disturbo di ansia da separazione (maggiormente tra i 6 e i 7 anni), mentre per altri essa poteva essere collegata ad un problema di fobia sociale e nei più grandi spesso era vista come riflesso di un problema di bassa autostima o di precoci sindromi depressive. L’aspetto nuovo che emerge nei lavori di Kearney è un approccio funzionale al rifiuto scolastico che permette per prima cosa di individuare quelle situazioni dove l’assenza a scuola non è legata a problemi di ansia ed in particolar modo cerca di comprendere e rilevare la funzione che il comportamento di rifiuto scolastico ha per il bambino.

Come sempre un buon colloquio clinico fornisce il miglior quadro della situazione.
Vi sono però alcuni questionari che possono essere utilizzati o costituire degli spunti interessanti relativamente alle aree da esplorare nel colloquio stesso: School Refusal Assessment Scale (SRAS, Kearney & Silverman, 1990; 1999) e School Refusal Assessment Scale Revised (SRAS-R, Kearney, 2002).
Questa scala è uno strumento specifico che permette di fare una diagnosi funzionale dei sintomi legati al rifiuto scolastico.

La School Refusal Assessment Scale Revised prevede un questionario per il bambino/ragazzo e uno per ambedue i genitori. Attraverso le risposte date, vengono analizzati i rinforzi positivi e negativi scatenati dal rifiuto scolastico. Kearney, infatti, propone una strategia di valutazione che evidenzia due tipologie di casi che si basano sul ricevere rinforzi positivi o negativi in seguito all’assenteismo da scuola. Questi danno luogo a quattro diversi quadri sintomatologici.
Infatti, sebbene si osservino varie forme di comportamenti esibiti dal bambino, le variabili che possono causare il problema e che lo mantengono sono essenzialmente quattro:
1. evitare oggetti o situazioni che generano un’ansia generale o emozioni negative;
2. evitare situazioni sociali avversive o valutative;
3. ottenere attenzione dalle figure significative;
4. perseguire rinforzi positivi tangibili fuori della scuola (guardare la tv, dormire, giocare, stare al computer, frequentare gli amici, consumare alcool o sostanze stupefacenti, frequentare sale da gioco, ecc).

Le diagnosi che più di frequente si associano ai quattro profili funzionali proposti da Kearney & Albano (2004) sono: per il gruppo che evita la scuola per cercare una maggiore attenzione dalle figure di riferimento è presente l’ansia da separazione; per i gruppi che rifiutano la scuola per sottrarsi a stimoli che sono valutati negativamente o per evitare situazioni sociali avversive o valutative si associa la diagnosi di depressione o di disturbo di ansia; per il gruppo che rifiuta la scuola per perseguire rinforzi esterni positivi, la comorbilità è con i disturbi della condotta o del comportamento oppositorio-provocatorio (Kearney & Albano, 2004).

Self-Efficacy Questionnaire for School Situations (SEQ-SS Heyne, King, Tonge et al., 2002).
Valuta la percezione che il bambino ha della sua capacità di fare fronte a situazioni potenzialmente ansiogene legate alla scuola, quali lo svolgere le attività scolastiche, il restare lontano dai genitori e dalle proprie figure di attaccamento. È meno validata ed usata rispetto alla precedente.

La valutazione completa delle paure e delle ansie dell’infanzia comprende misure di natura cognitiva, comportamentale e fisiologica (Barrios, Hartmann & Shigetomi, 1981), nonché l’analisi del contesto in cui si verificano. La strategia proposta da alcuni autori è quella di cominciare con un’ampia valutazione del bambino e del suo ambiente (ad esempio, la famiglia, la scuola, i coetanei) e procedere poi verso l’acquisizione di informazioni più precise riguardo alle caratteristiche dello stimolo, alle modalità di risposta, ai processi cognitivi, agli antecedenti e alle conseguenze, alla durata e alla pervasività delle fobie. Così la procedura di valutazione inizia con un’intervista comportamentale approfondita e utilizza un approccio multimodale, improntato sul problem solving (Mash & Terdal, 1981, Ollendick & Hersen, 1984).

La raccolta di tutte queste informazioni richiede un approccio collaborativo che includa oltre al bambino, i genitori e gli insegnanti così da avere un’attenta e completa analisi dei sintomi (Fremont, 2003). Non si può prescindere dal collaborare con la scuola, sia in fase di assessment che di trattamento, per garantire la risoluzione del problema (Patrizi & Isola, 2007).

Nel colloquio con gli insegnanti va indagata la presenza di problemi nell’inserimento sociale del paziente, l’andamento delle assenze, le relazioni con i pari, cercando anche di cogliere il clima della relazione con gli insegnanti stessi (Fremont, 2003). Si può cercare di sapere se sono avvenuti episodi potenzialmente stressanti precedenti all’inizio delle difficoltà del bambino (atti di bullismo, litigi con un compagno, problemi con un insegnante, malesseri fisici vissuti a scuola o ancora insuccessi nei compiti didattici, incidenti ecc.). Vanno raccolte le valutazioni degli insegnanti su eventuali difficoltà nell’apprendimento o sulla presenza di manifestazioni di ansia durante le interrogazioni o le verifiche. È utile chiedere se vi è stato un repentino calo nel rendimento scolastico nell’ultimo periodo (Patrizi & Isola, 2006).

Il metodo più diretto per valutare i comportamenti temibili e ansiosi è quello di osservare questi comportamenti nelle situazioni in cui si verificano. Nei sistemi di osservazione comportamentale, i comportamenti specifici che riflettono la paura sono definiti e registrati in modo operativo. Spesso questi sistemi sono altamente individualizzati e idiosincratici a particolari timori o fobie.

La scala di osservazione prescolare di ansia (POSA) sviluppata da Glennon & Weisz (1978) è un sistema di osservazione comportamentale che è stato sottoposto a valutazione psicometrica. Il POSA include 30 indici comportamentali specifici di ansia da osservare usando una procedura di campionamento standard. Gli indici comportamentali comprendono, ad esempio, mangiarsi le unghie, l’evasione del contatto visivo, il silenzio alle domande e la postura rigida. Per valutare l’affidabilità e la validità del POSA, i bambini prescolari sono stati osservati durante due sessioni di test cognitivi. La prima sessione è stata progettata per suscitare elevati livelli di ansia (madre assente); la seconda sessione è stata progettata per produrre bassi livelli di ansia (madre presente). Per quanto riguarda la validità dello strumento, è stato riscontrato che i punteggi POSA sono significativamente correlati con le valutazioni dei diari osservativi degli insegnanti e dei genitori dell’ansia dei bambini. Pertanto, i sistemi di codifica dell’osservazione del comportamento come il POSA risultano essere molto efficaci nello studio del comportamento di paure collegate al contesto scolastico (Katz, Kellerman & Siegel, 1980).

Interventi terapeutici del rifiuto scolastico

Sebbene non ci siano in letteratura studi sistematici sull’efficacia dei diversi protocolli e programmi d’intervento con i bambini con rifiuto scolastico, le ricerche presenti e i dati clinici suggeriscono una notevole efficacia dell’approccio comportamentale e cognitivo (Blagg & Yule, 1984; King et al., 1998; Last et al., 1998) e ciò è spiegato anche dal fatto che lo stesso modello sembra funzionare molto bene nelle terapie per i disturbi d’ansia in età evolutiva (Kendall & Di Pietro, 1995; Bissoli, 2007; Cunningaham et al., 2006; D’Ambrosio & Coletti, 2002; Mendlowitz, 2005; Sharon et al. 2006).

Il trattamento più efficace sembra, infatti, quello orientato principalmente alla riduzione dell’ansia di questi bambini e per questo diventa importante individuare in primo luogo le specifiche dinamiche comportamentali e cognitive che caratterizzano l’ansia di ogni singolo bambino. Gli aspetti più complessi che ruotano intorno al disturbo sono i circoli disfunzionali che non fanno altro che consolidare nel bambino la condizione emotiva legata all’ansia, i pensieri di autosvalutazione e la paura della vergogna, che lo rendono sempre più inibito e isolato, povero nelle abilità socio-cognitive, incapace di creare relazioni sociali, di codificare correttamente e prevedere i comportamenti altrui (D’Ambrosio & Coletti, 2002.)

Alcuni autori descrivono diverse strategie comportamentali che genitori e insegnanti dovrebbero conoscere e cercare di utilizzare nella pratica quotidiana dato che possono contribuire in generale all’interruzione o diminuzione di circoli viziosi dell’ansia e quindi in generale della sintomatologia.

Gli interventi di psicoeducazione con i bambini, ma anche con genitori e insegnanti, sono una chiave fondamentale per un intervento efficace (Tatem & Del Campo, 1995).

I bambini sono incoraggiati a parlare delle loro paure e ad identificare le differenze tra paura, ansia e fobie; vengono date informazioni utili per aiutarli a superare la loro paura di frequentare la scuola con esercizi da svolgere a casa e che saranno poi discussi nelle sedute successive; viene poi chiesto loro di tenere un diario quotidiano per descrivere le loro paure, pensieri, strategie di coping e sentimenti associati alle loro paure (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984; King & Bernstein, 2001).

Ai genitori vengono fornite strategie di gestione del comportamento, legate ad esempio al come accompagnare il bambino a scuola, fornendo un rinforzo positivo per la frequenza scolastica e diminuendo i rinforzi positivi legati al rimanere a casa (ad esempio, guardare la televisione o giocare con i videogame mentre si è a casa da scuola). I genitori beneficiano anche d’interventi che li aiutano a comprendere e ridurre la propria ansia e a capire il loro ruolo nell’aiutare i loro figli nell’ottenere cambiamenti efficaci (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984).
Gli incontri con gli insegnati prevedono specifiche raccomandazioni che li aiutano a prepararsi al ritorno del bambino, all’utilizzo dei rinforzi positivi e alla gestione degli aspetti accademici, sociali ed emotivi (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984).

L’utilizzo di tecniche più propriamente cognitive con i bambini, invece, ha l’obiettivo principale di modificare il pensiero disfunzionale (convinzioni irrazionali) sottostante il disturbo emotivo e comportamentale del bambino con rifiuto scolastico (ristrutturazione e modificazione delle strutture cognitive) e di conseguenza di ridurre gli stati mentali di catastrofizzazione, ipergeneralizzazione e attenzione selettiva alla base dell’interpretazione degli eventi (Lambruschi, 2009).

Le distorsioni cognitive sono particolarmente evidenti nei processi di pensiero dei bambini ansiosi. Ad esempio, Zatz e Chassin (1983) documentarono le cognizioni dei bambini ansiosi: essi non solo sviluppano pensieri negativi verso di sé (ad esempio, “sto facendo male, non faccio bene nel compito come gli altri: tutti normalmente fanno meglio di me”), ma attribuiscono meno dichiarazioni positive verso di sé (ad esempio, “io sono abbastanza capace per farlo, sto facendo il meglio che posso, faccio bene il compito come gli altri”). Stefanek et al. (1987) hanno individuato la presenza di simili schemi cognitivi rivolti al sé in bambini ansiosi e socialmente ritirati.

Probabilmente l’approccio cognitivo più frequente con i bambini ansiosi e spaventati è l’utilizzo di tecniche di auto-istruzione verbale (Kanfer, Karoly & Newman, 1975; Graziano & Mooney, 1980; Graziano, Mooney, Huber & Ignasiak, 1979). Nella prima applicazione di questo approccio, Kanfer et al. (1975) è stato usato un campione di bambini di 5-6 anni che avevano moderatamente paura del buio. Tre gruppi di bambini sono stati formati. Il primo gruppo ha provato ad utilizzare controlli attivi e dichiarazioni di competenza (ad esempio, “sono un ragazzo coraggioso e posso gestire il buio”); il secondo gruppo ha provato le dichiarazioni volte a ridurre la qualità avversa della stessa situazione di stimolo (ad esempio, “Il buio non è un posto così male”); e il terzo gruppo ha provato dichiarazioni neutre (ad esempio, “Maria aveva un piccolo agnello”). I gruppi di competenza e di stimolo non differivano significativamente l’uno dall’altro, suggerendo che le dichiarazioni adattative siano state acquisite in entrambe le condizioni.

L’intervento di modificazione dei pensieri disfunzionali è strettamente legato anche a programmi educativi sul riconoscimento, espressione e gestione delle emozioni per implementare la capacità di riconoscerle, saperle denominare e riflettere sul loro rapporto con gli eventi e i comportamenti conseguenti (Di Pietro, 1992).

Le tecniche di “ristrutturazione cognitiva” si basano su strategie “controargomentative” e di riformulazione dei pensieri disfunzionali attraverso situazioni di role-playing e simulazioni di diverse situazioni reali o immaginarie che provocano in genere disagio nel bambino, in cui proporre interpretazioni e conseguenze alternative rispetto ad eventi e stati mentali propri e altrui.

Già Shure & Spivak (1978) sottolineavano l’importanza di insegnare al bambino a pensare varie alternative prima di dare una risposta a situazioni interpersonali problematiche, immaginando la sequenza degli eventi che possono scaturire rispetto alle diverse soluzioni ipotizzate. In tal senso anche le tecniche di problem solving e training sulle abilità sociali sono strettamente finalizzate ad incrementare la consapevolezza del bambino delle situazioni problematiche, ad implementare l’autogestione delle emozioni e dei comportamenti alternativi e, quindi, a modificare l’interpretazione del problema.

Focalizzandosi sulle difficoltà del bambino il terapeuta può guidarlo attraverso il Problem Solving a:
1. Riconoscere gli elementi della situazione che sono percepiti come problematici;
2. Ipotizzare comportamenti diversi da quelli solitamente prodotti per risolvere il problema;
3. Scegliere le condotte che meglio soddisfino la soluzione del problema e applicare il pensiero consequenziale;
4. Mettere in pratica le soluzioni scelte e verificarne l’efficacia (D’Ambrosio & Coletti, 2002).

Clinicamente, i trattamenti comportamentali, in particolare le tecniche basate sull’esposizione e sulla desensibilizzazione sistematica, sono state utilizzate ampiamente per il trattamento dell’ansia basata sul rifiuto scolastico (Heyne et al., 2002; Blagg & Yule, 1984). La base per l’utilizzo di questo approccio è stata ricavata, nella maggior parte dei casi, dalla letteratura del trattamento per i disturbi d’ansia negli adulti, in particolare le fobie. Numerosi studi controllati di pazienti adulti fobici hanno dimostrato che l’esposizione graduale a temi o situazioni temute promuove la riduzione della paura e aumenta la capacità reattiva (Barlow & Beck, 1984).

Sulla base dell’ipotesi che l’ansia sia caratterizzata da attivazione fisiologica eccessiva, le tecniche di rilassamento sono spesso consigliate per i bambini ansiosi nelle scuole. Diversi tipi di rilassamento includono il rilassamento muscolare progressivo, il training autogeno, l’ipnosi e, più recentemente, il rilassamento comportamentale (Poppen, 1988). Il rilassamento progressivo, però, sembra essere stato il più influente (Jacobson, 1938): questa tecnica prevede l’alternanza di tensione e rilassamento dei principali gruppi muscolari, con la graduale eliminazione delle contrazioni e la pratica del rilassamento “passivo” (Bernstein & Borkovec, 1973; Wolpe, 1958). Le tecniche di rilassamento possono essere usate da sole nella gestione dell’ansia o in combinazione con altri interventi cognitivo-comportamentali (King, 1980).

Una volta raggiunti dei primi miglioramenti è consigliabile poi lavorare sul rinforzo dell’autostima del bambino, favorendo anche il potenziamento delle abilità di comunicazione, di gestione degli imprevisti e delle difficoltà scolastiche in modo da prevenire ricadute future (Diathine & Valenti, 1990).
In alcuni casi è possibile affiancare all’intervento cognitivo-comportamentale un trattamento farmacologico. I farmaci più usati nel trattamento del rifiuto scolastico sono gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), mentre le benzodiazepine, a causa degli effetti collaterali e dell’alto rischio di dipendenza, possono essere utilizzate solo per poche settimane (Riddle et al., 1999).

Come suggerito da Silverman e colleghi (Burke e Silverman, 1987; Kearney e Silverman, 1990), può essere che il trattamento del rifiuto scolastico sia prescrittivo, dato che diversi bambini rispondono diversamente a tipi di trattamento alternativi. Ad esempio, le diagnosi specifiche di disturbo d’ansia associate al rifiuto scolastico, nonché l’età del bambino, la durata e il grado di assenteismo scolastico e le variabili familiari, possono influenzare la risposta al trattamento. La ricerca futura, usando campioni più grandi, dovrebbe esaminare queste possibilità.

Conclusioni

Delle tante paure riportate dai bambini, alcune sono particolarmente maladattive nell’ambiente scolastico, ad esempio l’ansia da prestazione, l’ansia sociale e il rifiuto scolastico. Fortunatamente, una serie di procedure di riduzione della paura sono state utili nel trattamento dei bambini ansiosi.

Mentre gli approcci cognitivi-comportamentali sono preferiti per l’ansia da prestazione e l’ansia sociale, approcci basati sull’esposizione graduale sono stati utilizzati nel trattamento del rifiuto scolastico. La logica sottostante per l’utilizzo di queste procedure è l’esposizione graduale agli stimoli che inducono la paura (King et al., 1988; Marks, 1987). Questo è un principio importante per gli psicologi scolastici e gli insegnanti al fine di arrivare ad una migliore comprensione del disturbo. Frequentemente, utilizziamo involontariamente trucchi come evitare il comportamento problematico, la protezione e la rassicurazione verbale, che rafforzano le paure e le ansie del bambino; al contrario, devono essere adottati comportamenti attivi per esporre il bambino agli stimoli che inducono la paura in modo che la paura possa essere ridotta (King, Ollendick, & Gullone, in stampa).

D’altra parte, molte pratiche didattiche favoriscono la riduzione della paura (Johnson, 1979; King et al., In stampa). Anche l’atmosfera o il clima della classe gioca un ruolo molto importante e quindi l’insegnante dovrebbe tenere in stretta considerazione questo aspetto. La misura in cui il bambino è disposto ad affrontare esperienze che provocano ansia (esposizione) dipende fortemente da questo fattore contestuale. Naturalmente, ci sono strategie più specifiche che gli insegnanti applicano in classe quotidianamente e che favoriscono la riduzione della paura. Ad esempio, i bambini ansiosi nelle prove di discorso e di lettura davanti ai compagni sono spesso incoraggiati a lavorare su questi compiti in piccoli gruppi (Johnson et al., 1971; Muller & Madsen, 1970).

Soprattutto, è essenziale che i bambini, i genitori, gli insegnanti e gli psicologi scolastici lavorino come una squadra nella gestione di questi disturbi (Blagg, 1987). Sebbene ci sia ancora molto da fare a scuola e in altri ambienti con bambini ansiosi, è evidente che questi disturbi richiedono una valutazione multimodale e programmi di trattamento integrati.

Elogio della ribellione (2016) di Lamberto Maffei – Recensione del libro

Nel libro del 2016 di Lamberto Maffei, Elogio della ribellione, viene descritta la situazione nella quale vive il nostro cervello: la solitudine. La tecnologia e la globalizzazione nella quale siamo immersi ha creato, paradossalmente, questa situazione di profonda solitudine. Facilmente connessi, siamo sempre più distanti e Maffei, in questo libro, spiega neurobiologicamente quali sono le conseguenze di questa situazione paradossale.

 

In questo spirito di inquietudine e di rivolta mi capita di pensare che questo essere vicini a tutti e a tutto abbia distrutto o danneggiato la meraviglia del nuovo, dell’incontro e quando si perde il dono della meraviglia si diventa poveri.

 

Elogio della ribellione – Il paradosso della tecnologia: connessi, ma distanti

Dopo l’ Elogio della lentezza (2014), il neurobiologo Lamberto Maffei concentra di nuovo le sue riflessioni sulla condizione dell’essere umano a partire da considerazioni di tipo neuroscientifico. Il protagonista del libro Elogio della ribellione, anche in questo caso, è il cervello umano e il mondo che lo circonda, dal momento che – citando il filosofo Martin Buber – Maffei ricorda che «è difficile la vita di un io senza un tu». Ma cosa ne è di questo “tu” nel mondo globalizzato nel quale ormai siamo immersi? La conseguenza è il paradosso della tecnologia: la solitudine del cervello. Questo infatti viene continuamente stimolato e questo eccesso di stimoli provoca un’attività frenetica del cervello stesso a cui viene impedita la libertà di pensiero e riflessione.

L’essere umano e il suo cervello stanno vivendo una situazione paradossale in cui, nonostante ci sia la continua possibilità di essere sempre connessi agli altri, ci si trova ad essere profondamente distanti. Scrive magistralmente il neurobiologo Maffei: «è la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri strumentali informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri». In questa solitudine siamo immersi tutti indistintamente, dai giovani agli anziani, che sono quelli maggiormente tagliati fuori da uno sviluppo tecnologico senza pari, rapido, che non offre tempo di raggiungerlo.

Velocità VS Lentezza. La sconfitta del pensiero lento e la vittoria del consumismo

È da questa rapidità dello sviluppo tecnologico che continua la riflessione di Maffei nel libro Elogio della ribellione. La facilità con cui ad oggi si comunica ha contribuito al processo di globalizzazione ed inevitabilmente a quello di omologazione che incide – negativamente – sulla nostra Libertà di essere diversi, dall’omonimo saggio del neurobiologo. La velocità della comunicazione influenza anche il cervello umano «spostandone il funzionamento sul pensiero rapido a discapito di quello lento che sta alla base della riflessione e della decisione responsabile».

Sembra non esserci più tempo per sederci e riflettere, ma tutti sono calati in una dimensione veloce e il più delle volte nevrotica, fatta di un continuo consultare l’orologio per non perdere nemmeno un minuto di questa folle corsa. La velocità è tanto cara alla società per un ovvio motivo: si sposa con il consumismo. Il cosiddetto pensiero rapido è strettamente correlato a questo, o meglio, ne rappresenta la diretta conseguenza. Il consumismo si basa infatti su immagini che vengono colte dal nostro emisfero destro che è fonte del pensiero rapido. L’individuo, sembra non affidarsi più all’emisfero sinistro, padre del pensiero lento e quindi di scelte legate a una riflessione.

Il cervello globalizzato: la perdita dell’individualità

Continuando nella lettura del libro Elogio della ribellione di Lamberto Maffei, un altro punto interessante dei suoi studi e ricerche è il cervello globalizzato. Prima di addentrarci nella descrizione di questa nozione, è bene specificare un’altra questione direttamente collegata. L’essere umano è dotato anche di un “cervello collettivo” che è alla base della comunicazione tra individui.

In altri termini: il cervello è unico e differente per ogni individuo, ma al contempo presenta numerose somiglianze con gli altri individui a livello strutturale e funzionale. Il motivo? Queste somiglianze permettono di comprenderci. Oltre a queste però, ci sono delle differenze che sono frutto della plasticità cerebrale e che ci rendono individui unici e soprattutto liberi di essere diversi. Il potere della plasticità però può essere anche negativo. Spiegandoci meglio: dal momento che l’esterno e le esperienze hanno un forte impatto sul nostro sistema nervoso, ne consegue che, immersi in questa società consumistica e veloce, il nostro cervello collettivo diventa un “cervello globalizzato” che conduce ad un’omologazione universale. È emblematico l’esempio compiuto da Maffei a questo proposito. Citando il Vangelo di Matteo e “parabola dei ciechi”, riportando il dipinto di questa fatto da Bruegel (p.39) sottolinea come, seguendo ciecamente l’omologazione e abbandonando la nostra “libertà di essere diversi”, si rischia con ogni probabilità, di cadere in una “globalizzazione del pensiero”.

Un aspetto fondamentale del ragionamento alla base del testo Elogio della ribellione di Lamberto Maffei è che non si sta assumendo una posizione di opposizione allo sviluppo tecnologico, al contrario, gli strumenti tecnologici sono un’invenzione unica, è l’uso eccessivo e spasmodico che se ne fa a creare un problema che va ad incidere sulla nostra biologia. Leggendo direttamente le sue parole: «gli strumenti sono oggetti creati dal lavoro del cervello umano e come tali sono meravigliosi, essi, tuttavia, quando si integrano col corpo e ne diventano protesi indistinguibili dai tessuti originari, possono interferire con la biologia e passare da oggetti e soggetti, da schiavi a padroni e cambiare la nostra umanità, le nostre reazioni all’ambiente e le nostre relazioni sociali».

È proprio in questa trasformazione da soggetto ad oggetto che si innesta il senso di ribellione in Lamberto Maffei alla luce anche della conseguenza di ciò in ambito educativo. Ciò che si sta vivendo è un interesse alla formazione a discapito dell’informazione ed è per questo che le materie umanistiche, sotto la spinta del fare subiscono una sorta di mutilazione, quando in realtà sono alla base della formazione della personalità di un individuo.

La necessità di un “cambiamento antropologico radicale”

Dopo un excursus sull’importanza del sonno e su quanto questo – in una società che richiede velocità – venga meno, il neurobiologo Maffei considera possibile un “cambiamento antropologico radicale” solo grazie alla consapevolezza delle profonde capacità del cervello umano. La ribellione a cui si riferisce e che offre il titolo al suo saggio, è un tipo di ribellione che consiste nell’acquisizione di consapevolezza della propria biologia e di come è attraverso il rapporto con gli altri, attraverso l’apertura incondizionata all’alter che si può offrire una possibilità di cambiamento.

È proprio nelle conclusioni del libro Elogio della ribellione che il discorso si incentra nuovamente sull’educazione e sulla scuola dal momento che è soprattutto qui che si ha la possibilità di offrire stimoli all’individuo, stimoli che lo rendono consapevole della propria plasticità e delle conseguenze del consumismo. È l’educazione che permette agli individui di comprendere quanto sia necessario e fondamentale fare uso consapevole sia del pensiero rapido che di quello lento.

Concludiamo la presente recensione facendo ricorso ad un’altra citazione tratta dall’ Elogio della ribellione che riassume il concetto di “ribellione” e il senso dell’intero libro:

La ribellione sociale non può e non deve essere espressione della parte emotiva del cervello o del cervello rapido più istintuale che decide senza considerare tutte le variabili della situazione; la libertà come la ribellione devono essere espressione del cervello lento, della razionalità, del cervello del tempo e del linguaggio, del colloquio con l’altro.

Intervista a Matthieu Villatte, psicologo, ricercatore e ACT peer-reviewed trainer 

Matthieu Villatte è psicologo, ricercatore e ACT peer-reviewed trainer riconosciuto dall’ACBS, autore di diverse importanti pubblicazioni, tra cui il libro Mastering the Clinical Conversation Language as Intervention, scritto con Jennifer Villatte e Steven Hayes ed edito per Guilford Press nel 2015. Uno dei valori che muove il suo lavoro è quello di facilitare lo scambio di conoscenze ed esperienze sulla Relational Frame Theory fra ricercatori e clinici, per promuovere interventi clinici evidence-based esperienziali ben agganciati alla ricerca di base sul linguaggio umano.

Intervista di Nicola Lo Savio

Dal 16 al 18 Marzo 2018 Matthieu Villatte sarà a Palermo, ospite dell’Istituto Tolman, per il workshop “RFT: il linguaggio che cura. Potenziare il colloquio clinico”. L’evento è patrocinato da IESCUM e ACT-Italia, e mira a sviluppare nel clinico una maggiore sensibilità nel leggere il linguaggio del paziente e un uso più preciso e intenzionale del linguaggio del terapeuta, grazie alla conoscenza dei principi della Relational Frame Theory (RFT), recente programma di ricerca sul linguaggio e la cognizione umana.

Matthieu Villatte è psicologo, ricercatore e ACT peer-reviewed trainer riconosciuto dall’ACBS, autore di diverse importanti pubblicazioni, tra cui il libro Mastering the Clinical Conversation Language as Intervention, scritto con Jennifer Villatte e Steven Hayes ed edito per Guilford Press nel 2015. Uno dei valori che muove il suo lavoro è quello di facilitare lo scambio di conoscenze ed esperienze sulla Relational Frame Theory fra ricercatori e clinici, per promuovere interventi clinici evidence-based esperienziali ben agganciati alla ricerca di base sul linguaggio umano.

Intervista a Matthieu Villatte

Intervistatore: Grazie mille Matthieu per questa intervista e per aver accettato il nostro invito per il workshop a Palermo a marzo 2018. E’ la tua terza volta in Italia, dopo il tuo intervento al congresso 3G Mindfulness, acceptance, compassion organizzato da ACT-Italia, dove ci siamo incontrati lo scorso marzo. Durante la tua presentazione al congresso ho notato quanto sia importante per te promuovere il dialogo tra ricercatori e clinici sulla RFT. Che valore ha per te questo aspetto?

MV: Nel passato la RFT è stata considerata una teoria di interesse solo per coloro che svolgevano ricerca di base. Con l’uscita del libro Learning RFT di Niklas Törneke e grazie al contributo di diversi clinici esperti in RFT, negli ultimi otto anni la prospettiva è cambiata: si è iniziato a considerare la conoscenza della Relational Frame Theory di grande utilità per la pratica clinica. Piuttosto che considerare la RFT come semplice teoria alla base dell’ACT, possiamo pensarla come un vero e proprio strumento della pratica clinica. Probabilmente per i clinici non è essenziale avere una completa conoscenza della RFT. Certamente conoscere alcuni principi di base di questa prospettiva comportamentale sul linguaggio e la cognizione umana, può aiutarli ad essere più precisi ed efficaci nel loro lavoro. Inoltre, la conoscenza di tali principi favorirebbe un maggior dialogo tra ricercatori e clinici, che condividerebbero lo stesso linguaggio.

Intervistatore: Negli ultimi anni nella comunità CBS ho notato un crescente sforzo nel collegare gli interventi clinici direttamente alla ricerca di base sulla RFT. Molti autori si muovono in questa direzione, e tu sembri in linea con questo processo. In che modo, secondo te, conoscere e usare i principi della RFT può fare la differenza per un clinico?

MV: Credo che conoscere la RFT possa davvero aiutare i clinici ad essere più precisi nel loro uso del linguaggio in terapia. La RFT identifica le unità funzionali del linguaggio, dei repertori di comportamento che chiamiamo relational framings, che possiamo scegliere di utilizzare in modo intenzionale come strumenti nel nostro colloquio clinico. Ad esempio, da recenti ricerche sull’uso clinico della RFT, sappiamo che presentare un’azione come parte di un processo (frame gerarchico) è più efficace per aumentare la motivazione e la soddisfazione, rispetto a presentare la stessa azione come condizione necessaria per il raggiungimento di un obiettivo. Sappiamo anche che mettere in relazione gerarchica le esperienze psicologiche rispetto al sé (es. i miei pensieri come parte di me), aiuta a gestire le esperienze stressanti meglio, rispetto a quando le stesse sono poste in una relazione di opposizione (es. io non sono il mio pensiero). Conoscere la RFT aiuta a scendere ad un livello di precisione maggiore senza usare un linguaggio tecnico con i pazienti. Ad esempio, quando il tuo cliente sente le tue parole “Questo colloquio di lavoro è a servizio di cosa…?”, da clinico tu sai che stai lavorando per favorire una relazione gerarchica. Insomma, si può essere più precisi e insieme più naturali, perché si è in grado di attivare i processi chiave nel colloquio. Conoscere la RFT può aiutare i clinici anche ad integrare tecniche provenienti da diversi modelli di psicoterapia, poichè la RFT non opera allo stesso livello di questi modelli. La RFT clinica è più un modo di ragionare, piuttosto che un set di tecniche. Aiuta a pensare in termini comportamentali al vostro utilizzo del linguaggio in terapia.

Intervistatore: Durante i 3 giorni di workshop a Palermo insegnerai ai clinici ad usare il linguaggio in modo intenzionale ed esperienziale per produrre effetti terapeutici al di là di specifici modelli di trattamento. Questi effetti terapeutici hanno a che fare con i due scopi centrali dell’intervento di cui parli nel tuo libro MCC: migliorare la sensibilità flessibile al contesto e promuovere la coerenza funzionale? Puoi dirci qualcosa a riguardo?

MV: Certamente. Come dicevo, penso che la RFT clinica sia più un modo di ragionare più che un modello di psicoterapia. Questo modo di pensare, o framework basato su processi generali e di base, è organizzato su due scopi generali, sviluppare una sensibilità al contesto flessibile, che potremmo definire in modo semplice come consapevolezza e flessibilità, e la coerenza funzionale, definibile come una modalità di pensiero pragmatico e integrativo. Vogliamo aiutare i pazienti ad essere più flessibili e consapevoli, vogliamo aiutarli a pensare in termini di ciò che funziona per vivere una vita ricca di senso, mentre integrano le loro diverse esperienze psicologiche, piuttosto che tentare di sopprimerle. Come notate tutto questo assomiglia all’Acceptance and Commitment Therapy (ACT): è naturale dal momento che la RFT clinica è radicata sulla stessa scienza e filosofia su cui si basa l’ACT, il contestualismo funzionale. Ma ritengo la portata della RFT clinica più ampia dell’ACT. L’ACT può essere integrata nella RFT clinica, così come altre terapie della terza onda, come la DBT o la FAP. Tecniche provenienti da modelli differenti possono essere anch’esse integrate nel framework più ampio della RFT clinica, qualora siano utili a sviluppare una maggiore e flessibile sensibilità al contesto e la coerenza funzionale.

Intervistatore: Un proverbio dice che il diavolo sta nei dettagli. Da una prospettiva RFT possiamo dire che la psicopatologia, o meglio, il modo in cui l’uomo resta bloccato (paziente o terapeuta) è da scoprire tra le pieghe del nostro linguaggio. Durante il workshop quali strumenti ci insegnerai per sfuggire alle trappole del linguaggio?

MV: Si, abbiamo già detto che la RFT aiuta i clinici ad usare il proprio linguaggio come primo strumento di intervento in modo più preciso e intenzionale, ma aiuta anche a leggere meglio il linguaggio del paziente. Possiamo usare la RFT per concettualizzare le difficoltà del paziente. Ad esempio, se un paziente mette in relazione la propria motivazione a fare un’azione soltanto con termini che richiamano un rinforzatore negativo, esterno e specifico, il clinico orientato dalla RFT sa che sarà necessario sviluppare l’abilità del paziente di connettere le sue azioni con un rinforzatore positivo, intrinseco e generalizzato. Il clinico porrà molta attenzione ai cambiamenti nel linguaggio usato dal paziente come fosse un marker, un indicatore dei suoi progressi nel tempo. Nel workshop, impareremo ad analizzare il linguaggio del cliente per guidare il nostro intervento.

Intervistatore: Uno degli strumenti più interessanti che ci presenterai sarà l’uso di interventi basati sulle diverse dimensioni del perspective taking (proiettivo, riflessivo, egocentrico, allocentrico). Come mai ritieni così utile il lavoro sul perspective taking e i frame deittici in terapia?

MV: Il perspective taking, che viene attivato attraverso il framing deittico, è davvero uno strumento di linguaggio potente nella pratica clinica. Aiuta il paziente a guardare alle sue esperienze da diverse angolature, che permettono di vedere aspetti che non si erano considerati in passato. Ci si può proiettare nel futuro o nel passato, ci si può mettere nei panni di qualcun altro e sviluppare empatia o imparare dalle esperienze di qualcun altro. In stanza di terapia possiamo anche cambiare di sedia per rendere il processo più concreto. Nel workshop, dedicheremo una consistente parte del nostro tempo ad imparare, attraverso il ricorso ai role-play, l’uso del perspective taking per sviluppare la consapevolezza dei pazienti.

Intervistatore: L’anno scorso sei venuto in contatto con la comunità italiana interessata all’ACT e alla RFT, che con ACT-Italia è una delle comunità più impegnate all’interno del movimento dell’ACBS. Cosa potresti suggerire alle persone che a Palermo entreranno in contatto per la prima volta con un intervento clinico basato direttamente sulla RFT?

MV: Vorrei dire che se siete interessati ad integrare diverse tecniche provenienti da differenti modelli piuttosto che applicare un set specifico di regole, e se vi interessa usare un colloquio naturale nel contesto di terapia, e magari volete usare dei principi empiricamente fondati come quelli comportamentali, questo workshop fa al caso vostro!
Indipendentemente dalle vostre conoscenze e dal livello di esperienza, potrete trarre dei benefici da questo workshop. Non vi chiederò di abbandonare ciò che sapete già che funziona nella vostra pratica clinica. Vi aiuterò, piuttosto, ad integrare il tutto in una cornice più ampia, che, magari, vi renderà anche più aperti a differenti tecniche e prospettive. Questo workshop può solo aggiungere qualcosa al vostro lavoro, non toglierà nulla.

Intervistatore: Grazie Matt, allora ti aspettiamo il 16-17-18 marzo a Palermo.

MV: A presto, ci vediamo a Palermo.

Portare con sé un oggetto che profuma del proprio partner aiuta a ridurre i livelli di stress

All’ Università della British Columbia, la dott.ssa Marlise Hofer, del dipartimento di psicologia, ha condotto uno studio pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology su come il profumo del proprio partner possa aiutare a ridurre i livelli di stress.

 

Lo studio è stato condotto su 96 coppie di eterosessuali. Agli uomini è stata data una t shirt da indossare per un giorno intero, astenendosi dall’utilizzo di deodoranti e profumi, dal fumare e dall’assumere cibi che influenzano il profumo naturalmente prodotto dal corpo umano. Le magliette sono state successivamente congelate per preservare l’odore fino al momento della seconda fase dello studio, in cui alle donne sono state casualmente assegnate delle magliette da annusare.

Le magliette assegnate potevano essere state indossate dal proprio partner, da un altro uomo oppure potevano non essere state indossate ed i soggetti sperimentali non erano a conoscenza di chi le avesse indossate o meno.

Inoltre le donne sono state sottoposte ad uno stress test (un finto colloquio di lavoro e un compito di matematica) all’inizio e al termine del quale hanno risposto a domande sul proprio livello di stress e fornito un campione di saliva, successivamente analizzato per misurare i livelli di cortisolo (l’ormone dello stress).

I risultati hanno mostrato come le donne che hanno annusato la camicia del proprio partner riportavano livelli di stress più bassi sia prima sia dopo il test, e che questi livelli si abbassavano ulteriormente se le donne erano consapevoli del fatto che la t shirt annusata fosse effettivamente quella indossata dal proprio compagno.

Invece, le donne che hanno annusato la maglietta indossata da un estraneo hanno riportato livelli di stress più alti.

Una possibile spiegazione di questo fenomeno, data dall’autrice Hofer, è di tipo evoluzionistico: sin dall’infanzia i bambini temono gli estranei, soprattutto di genere maschile, e per questo un odore maschile non conosciuto scatena una risposta di tipo attacco-fuga capace di incrementare i livelli di cortisolo.

I risultati di questo studio sono ritenuti utili dall’autore senior dello studio, Frances Chen, soprattutto in un’epoca come quella d’oggi in cui i viaggi ed i cambiamenti sono all’ordine del giorno. In quanto le variazioni sono fonti di stress e la possibilità di portare con sé un oggetto del proprio amato può aiutare a gestire con minor stress le nuove sfide lontano da casa.

 

Il gioco aguzza l’ingegno! L’importanza del gioco nello sviluppo del bambino

Se per i genitori il gioco dei bambini è un’attività semplicemente divertente che può completare o riempire le giornate del piccolo, tenendolo impegnato ad imparare o a sperimentare, per il bambino è un compito arduo che richiede un impegno cognitivo ed esperienziale importante.

Raffaele Falcone

I giochi dei bambini non sono giochi e bisogna considerarli come le loro azioni più serie.
(Michel De Montaigne)

 

L’obiettivo di questo articolo è di rendere comprensibili le metodologie, le dinamiche e le motivazioni che possono celarsi dietro un dato comportamento di gioco dei bambini. Per affrontare la crescita del gioco e dell’interazione con il bambino c’è bisogno di soffermarsi su di un aspetto che permea l’interazione stessa e che a sua volta modifica e struttura la risposta verbale o comportamentale del bambino. Ogni bambino gioca e si relaziona in base a quelle che sono le sue peculiari modalità: il gioco dei bambini per quanto è sperimentazione, parte da una visione che il bambino interiorizza di quelle che sono le indicazioni e i comportamenti che indirettamente, con il proprio fare, i genitori gli prospettano.

Un bambino è come un piccolo marinaio; che vuole imparare ed apprendere, guardando e vivendo il quotidiano. Un marinaio che ha bisogno di qualcuno che gli indichi l’orizzonte.

Il suo piccolo porto sicuro è costituito dalla famiglia, che non solo deve nutrirlo e difenderlo, ma deve cercare di ricreare intorno a lui l’ambiente più adeguato a fargli vivere a piccoli passi, quello che sarà il suo futuro.

Il gioco dei bambini: la condivisione con l’adulto

Il gioco dei bambini viene visto come un esercizio ludico che bisogna sperimentare e conoscere per sviluppare ed incrementare le proprie competenze ed il proprio sviluppo psicologico. Non da meno risulta importante il supporto che proprio i genitori possono mettere in atto tramite la supervisione condivisa e la partecipazione attiva al gioco, al fine di diventare non un semplice compagno della attività ludica, ma parte stessa di quel momento.

Questo passaggio risulta molto importante e stimolante sia per i bambini che per gli adulti perché dà modo di vivere insieme un’esperienza: per i bambini è un apprendimento della modalità di gioco, un contenimento che lo stimola a entrare nel meccanismo della condivisione; per i genitori è un momento piacevole in cui scaricarsi della vita faticosa di adulto e tornare bambino per qualche attimo.

Il gioco all’interno dell’ambiente familiare può poi essere esportato e proposto nell’attività con i pari.

Questa modalità di condivisione aiuta il bambino a sentirsi più contenuto emotivamente avendo il genitore accanto a sé, con cui può relazionarsi e con il quale può confrontarsi senza preoccuparsi dell’accettazione.

Ogni età ha i suoi giochi e ad ogni età il genitore dovrebbe adattare la propria partecipazione in funzione del livello di abilità motorie e cognitive che il bambino ha raggiunto. Per il genitore la crescita degli interessi del bambino e la relativa scoperta di giochi nuovi e “diversi” è un momento delicato: perché non si trova più nella condizione di organizzare o preparare un gioco per il suo bambino ma si ritrova a giocare con il suo bambino. Oltre che unicamente e semplicisticamente formale, questa differenza porta con sé altre caratteristiche che spaziano dal coinvolgimento educativo alla responsabilizzazione del comportamento che il proprio figlio si ritrova ad avere in attività relazionali.

La partecipazione al gioco dei bambini, se da un lato può essere vista dall’adulto come un’attività in cui prevale come obiettivo la felicità del bambino (perciò il gioco di per sé diventa simpatico o un buon gioco, se il bambino risponde sorridendo, con gioia o con coinvolgimento) racchiude in sé una strategia che lo stesso bambino farà sua generalizzandola come modalità relazionale positiva. Diventa un momento, uno spazio, in cui il bambino ha modo di rapportarsi serenamente al genitore che non deve, come durante la giornata, contestualizzare e/o porre rimedio a qualche pianto o qualche attività, ma è uno spazio in cui il bambino si ritrova vicino un genitore che da lui non vuole altro che condivisione. Questa parola tanto usata, va presa nel suo significato più ampio possibile.

Il bambino impara che un genitore che sa giocare con lui non lo fa per fargli raggiungere una prestazione di cui essere fiero, ma lo fa per il semplice fatto di poter godersi quel momento che forse aspettava da tutta la giornata.

I bambini non sono semplicemente piccoli uomini che devono raggiungere obiettivi di sviluppo nei tempi statistici, sono prima di tutto esseri umani che hanno bisogno di vicinanza affettiva e di supervisione attiva e partecipe al loro sviluppo.

La serenità e la felicità non deve essere sin da subito un obiettivo da raggiungere; inizialmente, forse, è il prerequisito per potersi sentire in grado di poter affrontare le sfide cognitive che lo sviluppo ci pone davanti, ma poi bisogna vivere proprio con gli occhi di quel bambino le sorprese e le sfide che lo sviluppo riserva.

La Vita di Galileo nell’opera di Brecht: l’importanza della ricerca della verità

La ricerca della verità è uno dei temi chiave della Vita di Galileo, l’opera teatrale di Bertold Brecht, che forse molti ricordano grazie alla magnifica messa in scena di Giorgio Strehler.

 

Le resistenza del mondo ecclesiastico alle scoperte di Galileo Galilei

Siamo nel 1610. Galilei, docente di matematiche a Padova, scopre che in Olanda è stato inventato il telescopio. Lo scienziato pisano non perde tempo: perfeziona lo strumento e, per la prima volta, lo punta verso il cielo. Servendosi dell’arnese, scopre fenomeni celesti che confermano il sistema copernicano. Galileo, colto dall’entusiasmo, si presenta al Collegio romano, la più alta istituzione scientifica dell’epoca, per dimostrare la fondatezza delle sue ricerche. Con l’amico Sagredo, pochi giorni prima, ironizza: “Li agguanterò per il collarino e li pianterò davanti al mio telescopio […] Io chiederò loro soltanto di credere ai loro occhi.”

Le speranze dello studioso svaniscono presto. Monaci ed aristotelici rifiutano di guardare il cielo con il cannocchiale. La verità, così evidente per Galilei, non la è altrettanto per l’autorità religiosa. Per emergere ha bisogno di conoscenza. Ma soprattutto, una volta esplicitata, la verità porta con sé conseguenze e responsabilità. Il Collegio non può credere al sistema eliocentrico, che spazzerebbe via un’idea radicata nella società fino al Seicento: l’uomo – la Terra – è al centro del mondo.

Fino a quel momento essere scienziato voleva dire essere prima teologo. Laddove per anni ha dominato la fede, oggi – grazie a Galilei, l’inventore del metodo scientifico – domina il dubbio. L’elemento alla base delle ricerche attuali, nel campo della medicina, della fisica, della chimica dove si procede per tentativi, e dove ogni cosa è vera fino a prova contraria.

La ricerca della verità esaltata dell’opera teatrale di Brecht

Il Galileo di Brecht se la prende, non tanto con Aristotele, ma con gli aristotelici: Aristotele non ce l’aveva il telescopio! Il filosofo di Stagira non poteva arrivare a tali conclusioni, perché non esistevano ancora gli strumenti. Non a caso, nella quarta scena, Galilei pronuncia queste parole: “La verità è figlia del tempo. La verità non sempre è assoluta, talvolta è in fieri, in perenne divenire, muta a seconda del periodo storico.”

In questo caso non è accettata, tanto che, nell’undicesima scena del testo di Brecht, Galileo è convocato a Roma dall’Inquisizione. E’ il 22 giugno 1633: lo scienziato, non appena l’autorità gli mostra gli strumenti di tortura, rinnega la sua dottrina della rotazione della Terra. Dopotutto, è un essere umano con debolezze e paure. Vive fino alla morte in una villa nei dintorni di Firenze, prigioniero dell’Inquisizione. Quando Andrea, il suo studente prediletto, lo va a trovare, forse un po’ deluso dall’abiura del maestro, scopre qualcosa.

Lo scienziato continua le sue ricerche, ma ha il dovere di consegnare tutto ciò che scrive alla Chiesa. Dove sta il colpo di scena? Di ogni pagina che scrive fa una copia, che da tempo aspetta di consegnare ad Andrea, che esclama: “Avete nascosto la verità contro il nemico!”. La scienza, risponde lo studioso, non ha che un imperativo: contribuire alla scienza.

Andrea partirà per l’Olanda, dove le ricerche di Galileo potranno essere finalmente pubblicate. Anche negli ultimi momenti del testo teatrale riaffiora il concetto da cui siamo partiti: ciò che è chiaro ed evidente, come la verità, spesso non si vede. Il giovane viene fermato dalle guardie, che controllano tutto il bagaglio, senza prestare attenzione all’unico libro che Andrea tiene in mano. Se non lo nasconde significa che non c’è da preoccuparsi, pensano scioccamente le autorità. Naturalmente, si tratta del saggio che il ragazzo ha appena ricevuto in dono dal grande scienziato. Così, i Discorsi delle nuove scienze di Galileo Galilei oltrepassano i confini d’Italia.

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