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Collateral beauty: la metafora nella rielaborazione del lutto

Collateral Beauty: Ma che cosa è la bellezza collaterale? Come si può parlare di bellezza quando la tematica principale del film è la perdita di una persona cara?
La messa in scena architettata dai colleghi del protagonista mette in evidenza che Morte, Tempo e Amore sono strettamente collegati fra di loro.

Sharon Vitarisi, OPEN SCHOOL PTCR Milano

Il dolore del lutto nel film Collateral Beauty

Un giovane dirigente di nome Howard (Will Smith), pieno di passione, capacità creative e interpersonali, arriva al massimo della sua carriera lavorativa nel settore della pubblicità. Le sue motivazioni, la sua voglia di vivere e mostrare al mondo i suoi talenti si stronca per colpa di una grave tragedia personale: un lutto.

Il film Collateral beauty ci catapulta immediatamente all’interno del dolore del protagonista. Un lutto così grave da far perdere al giovane dirigente qualsiasi tipo di iniziativa, voglia di fare e di relazionarsi con le altre persone, conseguenze tipiche di uno stato depressivo molto grave da cui il protagonista non vede via d’uscita.

Ogni persona ha un suo modo differente e unico di reagire ai lutti. L’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara: solitamente si entra all’interno di uno stato di accettazione entro 18 mesi, cioè, al ritorno a una situazione confrontabile alla fase pre-lutto con un miglioramento del tono dell’umore e con un abbassamento delle problematiche psicosociali (Bonanno et al., 2002). Ciò nonostante, il lutto può diventare patologico quando l’individuo non riesce ad accettare che la morte è per l’essere umano inevitabile. Inoltre, Parkes (1980; Parkes e Weiss, 1983) ha evidenziato che la qualità della relazione che viene interrotta dalla morte influenza il percorso di elaborazione (lutto conflittuale).

Il DSM-5 ha proposto, per la prima volta, la diagnosi di “disturbo da lutto persistente complicato”, caratterizzata da desiderio persistente e nostalgia pervasiva della persona deceduta, profondo dolore e pianto frequente o preoccupazione per essa. La persona può anche essere preoccupata per il modo in cui la persona è deceduta. Gli individui, inoltre, esprimono con una certa frequenza l’idea di seguire il destino del morto. Per la diagnosi, il DSM-5 richiede 6 sintomi aggiuntivi, riguardanti la sofferenza reattiva alla morte.

Il lutto di Howard è entrato nella sua vita sconvolgendola completamente; la sua difficoltà nel superarlo si è evidenziata fin da subito all’interno della pellicola. Infatti, dopo aver messo la propria azienda in una situazione quasi catastrofica, i colleghi di Howard non vedono altra soluzione che farlo interdire per ottenere le quote della società.

L’incontro del protagonista di Collateral beauty con i personaggi di fantasia di Amore, Morte e Tempo

Dopo averle tentate tutte, cercano di far risvegliare Howard tramite una vera e propria messa in scena, architettata con l’aiuto di tre attori non professionisti. Questo viene in mente a uno dei co-protagonisti che, parlando con la madre ormai affetta da Alzheimer, capisce che per scatenare qualcosa in persone che non riescono più a vedere la realtà così com’è si deve per forza entrare nella loro visione del mondo attuale. Per farlo, utilizzano delle lettere scritte da Howard a tre personaggi di fantasia: Amore, Morte e Tempo.

Secondo il dirigente queste tre entità sono le responsabili del grave lutto subito, questo è l’unico modo che trova per dare senso alla situazione che Howard sta vivendo.
I tre personaggi gli appaiono sottoforma di sembianze umane e cercano di spiegare a Howard il senso del loro operato: stare nei loro panni è molto difficile, Morte deve continuamente fare i conti con l’ineluttabilità della fine, Tempo deve sopportare che le persone non sfruttino al meglio quello che lui offre e Amore vive una contraddizione, tra felicità e tristezza.

L’efficacia del gruppo terapeutico per l’esperienza del lutto

Vedere le tre figure materializzarsi davanti a sé fa credere a Howard di essere completamente pazzo e lo spinge a partecipare a dei gruppi terapeutici.
Il gruppo è uno strumento molto efficace per chi vive l’esperienza dolorosa di un lutto. La cosa più importante che si sperimenta in un gruppo terapeutico è arrivare alla consapevolezza del fatto che non si è soli ad affrontare una perdita così grande. All’interno della stanza prescelta, le emozioni di rabbia, tristezza, collera che alla persona che le sperimenta sembrano essere insopportabili, diventano condivise e comuni a tutti. C’è finalmente un luogo dove condividere la propria esperienza: un luogo sicuro che permette all’individuo di raccontare la propria storia di vita o semplicemente di ascoltare l’esperienza di perdita dell’altro.

Ciò che il gruppo terapeutico mette a disposizione è la condivisione di vissuti dolorosi che spesso vengono trattenuti con familiari e amici più stretti. Inoltre, contrasta la tendenza delle persone che stanno vivendo un lutto a isolarsi.

Nell’ultimo decennio la ricerca si è impegnata nel trovare esiti valutabili, per l’individuazione di criteri di base del modello di intervento utilizzato e per l’analisi di efficacia dei gruppi di auto mutuo aiuto. Ad esempio alcune evidenze circa l’efficacia dei gruppi di auto mutuo aiuto sono pubblicate ne La Rivista di Psichiatria n.6 – 2004 nell’articolo intitolato “Gruppi di auto mutuo aiuto: la valutazione dei benefici dal punto di vista dei partecipanti” promossa dall’ISS, Istituto Superiore di Sanità. In questo studio sono state effettuate valutazioni su diverse tipologie di gruppi terapeutici, compresi quelli sul lutto, tramite un questionario denominato V.AMA (Valutazione AMA). Il V.AMA è costituito da 15 item sulla qualità di vita e sui benefici percepiti dai membri dei gruppi di auto mutuo aiuto. Ciò che è emerso sono i benefici oggettivi della partecipazione ai gruppi, e la riproducibilità soddisfacente di questa metodologia di valutazione.

Il protagonista di Collateral beauty riscopre all’interno di questo percorso una strada per elaborare ciò che gli è successo. Sicuramente si evidenzia da subito che questa via verso l’accettazione sarà molto lunga e difficile per lui. Più che accettazione bisognerebbe parlare di adattamento; adattarsi a tutto quello che viene dopo la perdita della persona cara. Tornare alla propria vita senza quella parte essenziale a cui ci si era abituati ormai da molto tempo: una chiacchierata, uno scambio di opinioni, un abbraccio o una carezza sul divano. Tutto questo andava indirettamente a costruire un pezzo della propria identità che ora è del tutto sconvolta. Come diceva Bowlby (1979), le emozioni più laceranti vengono sperimentate in situazioni di costruzione, mantenimento e soprattutto di rottura dei legami affettivi. Le separazioni (perdite relative) e i lutti (perdite assolute), sono eventi che evidenziano maggiormente, in termini di elaborazione cognitiva ed emotiva, le dimensioni di significato personale più tipiche della nostra struttura, il nostro più profondo, nucleare, sentimento di noi stessi e del mondo. E questi sono i momenti in cui gli individui fanno gli sforzi più evidenti e più intensi per conservare integro il senso di continuità e di coerenza interna, cioè, la propria struttura identitaria, nonostante la perdita di quell’elemento che andava inevitabilmente a definirla.

Collateral beauty: che cos’è la bellezza collaterale?

Ma che cosa è la bellezza collaterale? Come si può parlare di bellezza quando la tematica principale del film è la perdita di una persona cara?
La messa in scena architettata dai colleghi del protagonista mette in evidenza che Morte, Tempo e Amore sono strettamente collegati fra di loro.

Morte equivale a una fine, un’incertezza all’interno di una vita frenetica che vorrebbe avere a disposizione più Tempo e molte volte queste due entità entrano in conflitto con Amore; Amore che ha dentro di sé un paradosso: ci innamoriamo per essere felici, ma dobbiamo sapere che quella felicità è sfuggente, può tramutarsi in qualsiasi momento in dolore, ma se non ci fosse la possibilità di amare non potremmo definirci umani. Amore piange e si dispera, si ricorda che Tempo e Morte la possono fermare in qualsiasi momento. E quindi cosa fare? Amare o non amare? Continuare a vivere oppure fermarsi in quella condizione di non-esistenza che il lutto porta con sé?

Secondo il grande filosofo L. Binswanger l’uomo ha la possibilità di scegliere tra due tipi di esistenza: autentica e inautentica. Se rispetta la propria autenticità, l’individuo può vivere in modo creativo e sviluppare le proprie potenzialità. La persona autentica è attiva ed incide sul mondo e nelle relazioni interpersonali, sa stabilire l’intimità (modo duale). La persona che vive un’esistenza inautentica rimane su un piano formale e superficiale (modo plurale). Essa rimane statica e immobile in quanto si allontana dalla sua più autentica dimensione esistenziale e perde l’occasione di sviluppare le proprie potenzialità. Binswanger sottolinea che questa scelta è determinata dal modo in cui ciascun individuo si sviluppa; questo dipende da una molteplicità di fattori, tra cui l’ambiente umano e sociale in cui egli è vissuto. Tuttavia egli, al di là dei condizionamenti del suo passato, degli stimoli esterni e degli impulsi può, comunque, autodeterminarsi e diventare artefice del suo destino.

Prendendo d’esempio il discorso di Binswanger è ora possibile cercare di approfondire il concetto di “ collateral beauty ”. Tutto ciò di cui l’individuo fa esperienza, dalle sue relazioni ai suoi successi, dall’amore, al tempo perduto o guadagnato, dal dolore fino alla morte, è l’insieme di un’esistenza ben precisa e articolata. È la ricerca di senso che guida la vita di un essere umano ed è proprio nel lutto che quei significati fino a quel momento raggiunti, sembrano sfumarsi per poi perdere valore. Tutto ciò che il protagonista ha raggiunto nel corso degli anni perde improvvisamente importanza. Howard cerca disperatamente un perché di quella morte, non rendendosi conto che quella ricerca esasperata lo stava facendo entrare in uno stato di esistenza inautentica.

Il lutto è un evento che compromette o minaccia gli scopi e gli obiettivi personali (Perdighe e Mancini, 2010) che si sono fino a quel momento perseguiti; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia tutto ciò che è connesso a questa perdita. Dopo la morte di una persona cara, per giungere alla fase di accettazione, l’individuo deve cercare di orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili (Perdighe e Mancini, 2010). Tornare, quindi, in una fase di esistenza autentica; cosa che ad Howard appare impossibile.
Un’esistenza è già di per sé fonte di estrema bellezza: le emozioni umane, le sensazioni e tutto ciò che riguarda la vita è un dono inestimabile. Ma quando il dolore della morte di una persona cara sopraggiunge, questa bellezza sembra perdersi, in una spirale di pensieri ed emozioni negative.

Concludendo, cosa significa bellezza collaterale è difficile da definire a priori poiché si dovrebbero prendere in considerazione molteplici punti di vista. Bisogna lasciarsi emozionare e guidare dalla pellicola di Collateral beauty, cercando una propria definizione di “bellezza nel dolore”.

Lo sviluppo del morbo di Alzheimer: il dibattito è ancora aperto

I recenti progressi nell’imaging cerebrale hanno permesso agli scienziati di mostrare per la prima volta il ruolo di una proteina chiave nella morbo di Alzheimer, la quale si diffonde in tutto il cervello e causa la morte delle cellule nervose. La possibilità di bloccare tale diffusione potrebbe impedire alla malattia di svilupparsi.

 

Gli studi sinora condotti sul morbo di Alzheimer

Si stima che 44 milioni di persone in tutto il mondo vivano con il morbo di Alzheimer, una malattia i cui sintomi includono problemi di memoria, cambiamenti nel comportamento e progressiva perdita di indipendenza. Questi sintomi sono causati dall’accumulo nel cervello di due proteine: beta-amiloide e tau. La prima è il principale peptide delle placche amiloidi, o senili e ha origine dalla proteina APP, Amyloid Precursor Protein. Si suppone che, con lo sviluppo della proteina beta-amiloide, si verifichi la diffusione della proteina tau, responsabile della diffusione delle cellule nervose e di conseguenza dell’eliminazione dei nostri ricordi e delle nostre funzioni cognitive.

Fino a pochi anni fa, era possibile esaminare l’accumulo di queste proteine esaminando il cervello solo nei malati del morbo di Alzheimer post mortem. Tuttavia, i recenti sviluppi nella tomografia a emissione di positroni (PET) hanno permesso agli scienziati di osservare il fenomeno dell’accumulo delle proteine nei pazienti ancora in vita. La procedura prevede l’iniezione di un ligando radioattivo, il quale si aggancia a una molecola tracciante che a sua volta si lega al bersaglio al fine di essere rilevato dallo scanner PET.

Le ipotesi sulla diffusione della proteina tau nel cervello

In uno studio pubblicato sulla rivista Brain, un team guidato da scienziati dell’Università di Cambridge descrive l’utilizzo di una combinazione di tecniche di imaging per osservare le correlazioni tra i modelli della proteina tau e il cablaggio del cervello di 17 pazienti con morbo di Alzheimer, rispetto al gruppo di controllo.

Su come la proteina tau si diffonda in tutto il cervello è stato per molto tempo oggetto di speculazioni tra gli scienziati e ciò ha portato alla formulazione di diverse ipotesi.

Una prima ipotesi nota come “diffusione transneuronale”, nasce da alcuni studi effettuati sui topi, ai quali veniva iniettata la proteina tau “umana” anormale e si osservava una rapida diffusione in tutto il cervello. Il limite era sottolineato dalla quantità superiore di proteina tau nel cervello del topo rispetto alla dimensione del cervello umano.

Una seconda ipotesi fa riferimento all’ipotesi della “vulnerabilità metabolica” e sostiene che la proteina tau venga prodotta localmente nelle cellule nervose, ma che alcune regioni abbiano una maggiore richiesta metabolica e quindi siano più vulnerabili alle proteine. In questi casi il tau è un indicatore di angoscia nelle cellule.

La terza ipotesi si riferisce al “supporto trofico” e suggerisce che alcune regioni del cervello siano più vulnerabili, non per una richiesta metabolica come avveniva nella seconda ma per una mancanza di nutrizione nella regione o di modelli di espressione genica.

Grazie agli sviluppi nella scansione PET, è ora possibile confrontare queste ipotesi.

Un nuovo studio sulle connessioni del cervello dei malati di Alzheimer

Cinque anni fa, questo tipo di studio non sarebbe stato possibile, ma grazie ai recenti progressi nell’imaging, possiamo verificare quale di queste ipotesi concorda meglio con ciò che osserviamo“, afferma il dott. Thomas Cope del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche presso l’ Università di Cambridge, il primo autore dello studio.

Il Dott. Cope e colleghi hanno esaminato le connessioni funzionali all’interno del cervello dei malati di Alzheimer – in altre parole, come erano cablati i loro cervelli – e hanno confrontato questo con i livelli di proteina tau presenti. Le loro osservazioni li hanno portati a propendere per l’ipotesi della diffusione transneuronale, dove la tau prodotta in una determinata area si diffonde in altre regioni ma è in contrasto con le previsioni delle altre due ipotesi.

Se l’idea della diffusione transneuronale è corretta, allora le aree del cervello che sono maggiormente collegate dovrebbero avere il più grande accumulo di tau e lo trasmetteranno alle loro connessioni. È lo stesso che potremmo vedere in un’epidemia di influenza. Ad esempio, le persone con le reti più grandi hanno più probabilità di prendere l’influenza e poi di trasmetterle ad altri, e questo è esattamente ciò che abbiamo visto“, dice il professor James Rowe, autore senior dello studio e aggiunge inoltre: “Nel morbo di Alzheimer, la regione del cervello più comune dove compare la proteina tau è l’area della corteccia entorinale, situata vicino l’ippocampo, la “regione della memoria”.

La conferma dell’ipotesi di diffusione transneuronale è importante perché suggerisce che potremmo rallentare o arrestare la progressione del morbo di Alzheimer sviluppando farmaci per impedire alle proteine tau di muoversi lungo i neuroni.

Il confronto con la paralisi sopranucleare progressiva

Lo stesso team ha esaminato anche 17 pazienti affetti da un’altra forma di demenza, nota come paralisi sopranucleare progressiva (PSP), una rara condizione che influenza l’equilibrio, la visione e la parola ma non la memoria. Nei pazienti con PSP, la tau tende a proliferare alla base del cervello piuttosto che in ogni parte. I ricercatori hanno scoperto che il pattern di accumulo di tau in questi pazienti supportava le seconde due ipotesi, la vulnerabilità metabolica e il supporto trofico, ma non l’idea che il tau si diffondesse attraverso il cervello. I ricercatori hanno anche preso pazienti in diversi stadi della malattia e hanno osservato come l’accumulo di tau abbia influenzato le connessioni nel loro cervello. Nei malati di Alzheimer, hanno dimostrato che quando il tau si accumula e danneggia le reti, le connessioni diventano più casuali e probabilmente questo potrebbe spiegare i ricordi confusi tipici di tali pazienti.

Nei pazienti con paralisi sopranucleare progressiva (PSP), le “autostrade” che trasportano la maggior parte delle informazioni in individui sani ricevono il maggior danno, il che significa che le informazioni devono viaggiare intorno al cervello lungo un percorso più indiretto. Questo potrebbe spiegare perché, quando viene posta una domanda, i pazienti con PSP possono essere lenti a rispondere ma alla fine arrivano alla risposta corretta.

The Place (2017) di Paolo Genovese – Recensione del film

The Place è un film da non perdere per chiunque faccia il mestiere di terapeuta. Il format si ripete per ciascuno dei personaggi: al tavolo di uno squallido bar dove siede per tutto il film un imperturbabile Valerio Mastandrea che non rivelerà mai il suo nome né null’altro di sé, si alternano personaggi che hanno delle richieste da fargli. 

 

The Place – La trama

La trama di The Place è presto risolta, essendo un format che si ripete per ciascuno dei personaggi: al tavolo di uno squallido bar dove siede per tutto il film un imperturbabile Valerio Mastandrea che non rivelerà mai il suo nome ( lo chiameremo dunque X) né null’altro di sé, si alternano personaggi che hanno delle richieste da fargli. X prende appunti e propone agli interlocutori di fare una specifica missione per raggiungere con certezza quanto desiderano. Le richieste riguardano un po’ tutto il panorama dei desideri degli umani: essere ricchi, diventare bella, salvare un figlio morente, ritrovare la passione con il proprio partner, recuperare la vista perduta, passare una notte di passione con una top model, guarire e ritrovare il compagno di una vita colpito da demenza, ritrovare Dio.

X dopo aver consultato la sua agenda propone il compito per ottenere ciò che si desidera con certezza assoluta. Si tratta di compiti impegnativi ma non impossibili e a cui il soggetto è libero di aderire e a cui può sottrarsi in ogni momento: uccidere una bambina, violentare una donna, causare la rottura in una coppia felice, costruire una bomba e uccidere decine di persone, fare una rapina, rimanere incinta.

Le missioni in cerca di felicità dei singoli personaggi si intrecciano in modo avvincente che non rivelerò quantunque neppure una immagine riguardi l’esterno del setting e tutto lo si conosce attraverso le narrazioni che i protagonisti ne fanno di tanto in tanto ad X ( bell’esempio di film a basso costo e come il precedente “Perfetti sconosciuti” tutto giocato sulla recitazione di straordinari attori in un ambiente chiuso).

The Place (2017) – Trailer:

The Place – diverse chiavi di lettura

Non è qui interessante l’avvincente intrigarsi delle storie che mantiene fino all’ultimo la tensione seppure l’azione sia pari a zero, quanto piuttosto proporre alcune annotazioni che suggeriscono diverse chiavi di lettura. The Place è un film che appena finito lo si vorrebbe rivedere per assaporarlo meglio e seguire separatamente i diversi piani interpretativi.

Il più semplice è chiedersi quale sarebbe il proprio più profondo desiderio per scoprire quanto sia difficile definirlo e contemporaneamente se si sarebbe disposti a eseguire i compiti richiesti e dunque quanto la propria moralità sia a geometria variabile.

Via via poi si evidenzia che i desideri esplicitati rimandano ciascuno a qualcos’altro, sono per così dire strumentali per convergere poi tutti, se le proiezioni non mi offuscano, in un bisogno assoluto di amore e di riconoscimento.

Il secondo personaggio principale di The Placedopo Mastrandrea X, è la barista Angela, una Sabrina Ferilli davvero convincente, l’unica che non ha richieste da fare perché sta aspettando l’amore ed anche l’unica che vede realmente X e si interessa sinceramente a lui non per quello che può darle.

Ad un certo punto X che è schivo e distanziante seppure mai giudicante e rispettosissimo del libero arbitrio dei suoi postulanti le chiede “ma tu sei felice?” e lei risponde che non sono domande da farsi, è sconveniente come chiedere l’età ad una donna. Forse è davvero sconveniente nel nostro mondo rompere la cospirazione contro la razza umana di cui parla Ligotti e chiedersi se si è felici.

La migliore definizione del personaggio di X la dà lui stesso quando viene accusato, di fronte all’ennesima richiesta orribile, da uno dei postulanti di essere un mostro e lui risponde che piuttosto è “quello che dà da mangiare ai mostri”.

Se in un primo momento sembra che le richieste di X siano folli, troppo ardue e crudeli, a ben riflettere sono le richieste dei postulanti ad essere impossibili e a sfidare tutti i limiti mal tollerati della condizione umana.

The Place si conclude come il racconto della genesi: Dio stesso (X) è stanco di avere il carico di tutta questa infelicità umana generata dal continuo desiderare di “tutto essere e tutto possedere” e vuole dimettersi ed è Angela che sfogliando la sua fatidica agenda lo rassicura dicendo la frase che introduceva sempre l’assegnazione di un compito “Si può fare…..”.

Le analogie di setting e di stile con il ruolo di psicoterapeuta sono evidenti e c’è da imparare su come questi, nonostante si mostri emotivamente vicino ai suoi clienti, rimandi a loro ogni responsabilità di scelta, pur suggerendo di riflettere sui motivi che la inducono e mai essendo giudicante.

Mafia e psicopatologia. Crimini, vittime e storie di straordinaria follia (2017) a cura di G. Craparo, A. M. Ferraro, G. Lo Verso – Recensione del libro

La lettura di Mafia e psicopatologia. Crimini, vittime e storie di straordinaria follia, libro completo e sfaccettato, è raccomandata tanto agli specialisti, quanto alle persone interessate alla comprensione della psicologia della mafia, cioè, tutto sommato, alla comprensione tout court di ciò che questa drammatica realtà rappresenta nel nostro Paese.

 

La psicopatologia secondo Ian Hacking

Uno dei più importanti epistemologi delle scienze umane, Ian Hacking, sostiene da tempo che la psicopatologia deve essere considerata alla luce di quattro elementi: (1) la classificazione e i suoi criteri di applicazione; (2) le persone e i comportamenti che vengono classificati; (3) le istituzioni di riferimento; (4) la conoscenza, come punto di vista degli esperti e come punto di vista della comprensione popolare (Hacking, 2005).

Ciò significa in primo luogo che non esiste una classificazione psicopatologica e obiettiva, tantomeno atemporale (come è del resto noto anche dall’esistenza di storie dei sintomi mentali, quale Berrios, 1996). In secondo luogo, però, significa che la comprensione delle forme psicopatologiche è un processo dinamico che coinvolge l’esperto e lo deve portare a contatto con la realtà (familiare, sociale, istituzionale, geografica, storica) nella quale tali forme si esprimono. Lo stesso Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali ha da varie edizioni descritto una serie di sindromi culturalmente condizionate, salvo addirittura affermare nella sua ultima edizione (APA, 2013) che tutte le sindromi sono culturalmente condizionate, anche quelle comprese nella classificazione principale. Hacking ha però mostrato la grande fluidità della manifestazione psicopatologica, per esempio descrivendo il fenomeno dei Viaggiatori folli, sindrome diffusasi per un ventennio essenzialmente nella regione di Bordeaux. Chi ne era affetto sentiva il desiderio di raggiungere una meta lontana, entrava in una sorta di trance e ritrovava la coscienza di sé solo una volta raggiunta la meta desiderata, recuperando il ricordo di come l’aveva raggiunta solo sotto ipnosi. Esiste quindi una sorta di genius loci (e si potrebbe aggiungere di genius temporis) della psicopatologia.

Mafia e psicopatologia. Crimini, vittime e storie di straordinaria follia – Il profilo psicopatologico dei mafiosi

Si potrebbe affermare che una delle tesi di fondo del libro Mafia e psicopatologia. Crimini, vittime e storie di straordinaria follia curato da Craparo, Ferraro e Lo Verso costituisca una conferma evidente quanto inaspettata dell’impostazione di Hacking, in quanto il profilo psicopatologico dei mafiosi non corrisponde assolutamente a quello dei criminali comuni, ovvero alla psicopatia. Questo è infatti il risultato di un’importante ricerca condotta da Schimmenti, Caprì, La Barbera e Caretti (2014), che giustamente ebbe eco anche sulla stampa quotidiana e che viene ripresa in uno dei capitoli dello stesso libro. Gli autori, che si aspettavano di riscontrare punteggi particolarmente alti sulla scala di Hare che misura il livello di psicopatia (PCL-R) da parte di un gruppo di mafiosi in carcere, dovettero riscontrare risultati decisamente più bassi rispetto al gruppo di controllo, costituito da altri detenuti.

Nacque dunque l’esigenza di descrivere un profilo di personalità specifico per delle persone che potevano avere alle spalle azioni terribili, ma sembravano molto distanti dalle caratteristiche di individualismo, sfruttamento interpersonale e disinteresse per i rapporti stabili che caratterizza psicopatia e antisocialità. I mafiosi potevano persino provare senso di colpa come i semplici nevrotici, ma secondo modalità del tutto particolari:

Quello che pesava di più per questi individui non era aver commesso reati gravi, aver ucciso anche con metodi brutali (a volte, forse, senza neanche capire profondamente il senso del comando che avevano eseguito), ma il fatto di non esserci stato come padre per i propri figli e come compagno per la propria moglie, l’aver perso momenti fondamentali nella vita della propria famiglia perché reclusi lontani da casa o perché latitanti (Caprì et al., 2017, p. 23).

Gli autori propongono di usare per i mafiosi, dunque, la definizione (piuttosto idiosincratica) di “sociopatico”:

Il concetto di sociopatia rimanda infatti a una genesi sociale, piuttosto che personologica, della devianza, in cui è il contesto di sviluppo a generare matrici di significato basate su codici criminali (Caprì et al., 2017, p. 21).

In altre parole la patologia va attribuita all’ambiente caratterizzato dalla cultura mafiosa piuttosto che all’identità personale del singolo, che può perfino conservare una sua umanità, o almeno un’illusione di umanità. Il mafioso sarebbe dunque per certi versi simile al criminale nazista Adolf Eichmann descritto nell’evocato (anche se non citato) libro di Hannah Arendt La banalità del male. Eichmann, si ricorderà, era il responsabile del trasporto degli Ebrei verso i campi di concentramento nazista. Catturato in Argentina, fu processato e condannato a morte in Israele. Durante il processo, contrariamente alle attese, si presentò semplicemente come una persona che aveva compiuto il proprio dovere. Dopo tutto, con lui sì che i treni arrivavano in orario! Di fronte a un uditorio sconcertato, composto integralmente da parenti di persone che erano morte nei Lager anche a causa del suo lavoro, Eichmann arrivò persino a cercare comprensione per il suo più grande cruccio: malgrado la sua efficienza e coscienziosità non era neanche stato promosso al grado di colonnello.

Se un tale personaggio poteva essere immune dai sensi di colpa, perché del tutto in sintonia con la condotta richiesta dal contesto sociale di appartenenza, si comprende il monito che risuona dalle pagine della trasposizione romanzesca del caso Eichmann, cioè Le benevole di Jonathan Littell: «vi riguarda, vedrete che vi riguarda» (Littell, 2006, p. 6). E si comprende di riflesso anche cosa volevano dire le parole di Giovanni Falcone ricordate nell’Introduzione di Mafia e psicopatologia: la mafia sarà sconfitta quando sarà ridotta a un’organizzazione criminale, ovvero quando sarà abbattuto «il monolite etnico-antropologico-familiare» (Craparo, Ferraro e Lo Verso, 2017, p. 15) in cui è incastonata.

Le conclusioni della ricerca di Schimmenti (et al., 2014) ricevono una conferma in un altro capitolo del libro Mafia e psicopatologia (Craparo, David et al., 2017) che attesta l’impermeabilità di un gruppo di affiliati a Cosa nostra e camorra a categorie diagnostiche psichiatriche classiche. Lo stesso testo, peraltro, attira l’attenzione su un interessante cambiamento di paradigma rispetto al passato: i mafiosi, il cui “codice” impediva loro di fingersi pazzi fino a poco tempo fa, iniziano a provare a ottenere l’attestazione di infermità mentale, almeno per evitare l’insaprimento della condanna con il cosiddetto “41bis”.

La pazzia era piuttosto invocata dai mafiosi a carico di chi li accusava, in particolare dei pentiti. Pazzo doveva per loro essere ritenuto, per esempio, Leonardo Vitale, il primo pentito famoso, al quale, in Mafia e psicopatologia, dedica un capitolo specifico Girolamo Lo Verso (2017a), che degli studi psicologici sulla mafia è stato certamente l’antesignano (cfr., p. es., Lo Verso 1998; 2013; Lo Verso et al. 1999). La vicenda di Vitale costituisce un caso veramente singolare: l’uomo che per primo svelò la struttura e l’organizzazione della mafia venne fatto oggetto di diagnosi strampalate e di trattamenti assurdi. Vitale finì per capire che doveva fingersi pazzo per sopravvivere e venne in ultimo ucciso da un sicario allorché divenne chiaro (dalle conferme di Tommaso Buscetta) che le sue testimonianze erano in realtà attendibili.

Mafia e psicopatologia – La sofferenza delle vittime e dei loro parenti

La questione del rapporto tra mafia e psicopatologia può essere declinata anche in un senso diverso, dal punto di vista, cioè, della sofferenza causata alle vittime e ai parenti delle vittime. A questo argomento è dedicata una seconda parte, corposa, del libro Mafia e psicopatologia, dalla quale emerge «la necessità di predisporre interventi, servizi e politiche che possano aiutare i survivors a migliorare la qualità della vita, seriamente compromessa dall’esperienza traumatica» (Cannizzaro e Giordano, 2017, p. 105).

La terza parte di Mafia e psicopatologia ha per oggetto il difficilissimo rapporto tra mafia e clinica, ovvero alla possibilità di ottenere risultati significativi nella psicoterapia dei mafiosi. Qualcuno ricorderà certamente il paradossale rapporto tra Tony Soprano e la sua psicoanalista nella serie televisiva I Soprano, rapporto dal quale il boss trovava piuttosto la possibilità di un sostegno alla propria condotta criminale che lo spunto per rielaborare il significato della sua esistenza. Quel ricordo riecheggia singolarmente quando viene messa in evidenza «la capacità dell’organizzazione mafiosa di strumentalizzare qualunque elemento possa risultare per lei favorevole» (Lo Verso e Giunta, 2017, p. 132). In ogni caso, dalle diverse storie cliniche risulta con chiarezza «la necessità di una conoscenza-formazione specifica di queste peculiarità psico-antropologiche per gli psicoterapeuti ma forse per tutti coloro che hanno a che fare con il fenomeno [mafioso]» (Lo Verso, 2017b, p. 141).

Non si può che raccomandare la lettura di Mafia e psicopatologia. Crimini, vittime e storie di straordinaria follia, libro completo e sfaccettato, tanto agli specialisti, quanto alle persone interessate alla comprensione della psicologia della mafia, cioè, tutto sommato, alla comprensione tout court di ciò che questa drammatica realtà rappresenta nel nostro Paese.

L’area cerebrale dell’abenula e il comportamento sociale

Un nuovo studio condotto dai ricercatori della Roche di Basilea, in Svizzera, ha identificato una regione chiave nel cervello del circuito neurale che controlla il comportamento sociale. L’aumento dell’attività della regione chiamata abenula porta a problemi di carattere sociale nei roditori, mentre la diminuzione dell’attività della regione riduce questo tipo di problemi.

Lucia Marangia

 

L’alterazione del comportamento sociale nei disturbi dello spettro autistico e l’attività dell’abenula

Lo studio, pubblicato in Biological Psychiatry, suggerisce che le difficoltà sociali caratteristiche dei disturbi dello spettro autistico potrebbero essere correlate all’alterazione dell’attività in questo circuito.

Siamo entusiasti di questo studio in quanto identifica un circuito cerebrale che può svolgere un ruolo fondamentale nella ricompensa sociale” ha detto l’autore principale dello studio, Anirvan Ghosh. I risultati forniscono indizi su ciò che potrebbe essere alterato a livello cerebrale ed essere correlato a condizioni di sviluppo neurologico atipico come il disturbo dello spettro autistico.

Ricerche precedenti hanno collegato  la funzione sociale alla regione prefrontale del cervello. Il Dottor Madhurima Benekareddy e colleghi hanno indotto l’attivazione della regione prefrontale in esperimenti sui topi e hanno eseguito uno screening di tutto il cervello per scoprire quali regioni si attivavano contemporaneamente. I risultati mostravano cambiamenti dell’attività in regioni legate al comportamento emotivo, in particolare nell’abenula. L’aumentare l’attività dei neuroni nell’abenula riduceva il comportamento sociale dei topi. Il diminuire l’attività dell’abenula evitava i problemi sociali.

Le implicazioni dello studio

L’autore principale dello studio, il Dott Anirvan Gosh, ha dichiarato: “Comprendere come la funzione cerebrale alterata porti a carenze a livello sociale potrebbe aiutare a sviluppare nuove mirate terapie ad esempio per il disturbo dello spettro autistico”. I risultati hanno anche implicazioni per altri disturbi tra cui la schizofrenia e la depressione.  Il circuito incorpora regioni cerebrali coinvolte in ricompensa e piacere, portando gli autori a considerare che la disfunzione sociale potrebbe derivare da un ridotto appagamento derivante dall’interazione sociale.

John Krystal, direttore di Biological Psychiatry, ha affermato: “È interessante che il circuito coinvolto nel comportamento sociale in questo studio sia anche un circuito coinvolto nella depressione. Forse questo circuito rappresenta un percorso attraverso cui alcuni disturbi che presentano isolamento e riduzione delle relazioni sociali contribuiscono a depressione e stati d’animo negativi”.

Baby gang: quando la rabbiosa ricerca di autonomia e rassicurazioni sfocia nella violenza del branco

C’è poco da scavare nel fenomeno delle baby gang. Esaltazione in cui si fondono l’odio verso una vittima e la comunione nel gruppo con gli altri, finalmente non più estranei ma compagni, uniti nella vita e nella morte o forse solo in un pestaggio. 

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 20/01/2018

 

C’è poco da scavare nel fenomeno delle baby gang. Non c’è da scavare troppo per capire che siamo purtroppo in contatto con uno stato primigenio della socialità umana, quello della violenza di gruppo che consente –in una forma criminale, beninteso- di superare per un breve momento la sofferenza del vivere in cambio di un’illusoria condizione di esaltazione estatica. Esaltazione in cui si fondono l’odio verso una vittima e la comunione nel gruppo con gli altri, finalmente non più estranei ma compagni, uniti nella vita e nella morte o forse solo in un pestaggio. È la solita teoria del capro espiatorio, che abbiamo già esplorato ed è il solito monito a non tornare a una età antica che è bella solo nei libri di storia o al cinema (ricordate Il Gladiatore?) ma che a viverla davvero si rivela piena di violenza tribale. Le aristocrazie guerriere sono belle nelle fiabe lette al termine di una fiammeggiante cavalcata nelle foreste, mentre un incontro con loro nella vita reale somiglierebbe a un pestaggio o a un vandalismo in metropolitana nel buio delle sere d’inverno a danno degli sparuti viaggiatori delle ultime corse.

Queste baby gang sembrano una grottesca reincarnazione in un presente confuso di un passato che abbaiamo dimenticato. Non troppo diverse erano le bande di pastori/banditi che scorazzavano per il Lazio al tempo di Romolo e Remo e che vivevano in capanne sul colle Palatino. Quelle bande di reietti scacciati dagli altri villaggi alla lunga riuscirono a redimersi, non prima però di essersi procurati una compagnia femminile con metodi violenti che adombrano lo stupro -il ratto delle Sabine- poi fondendosi con le popolazioni circostanti latine e sabine e infine perfino procedendo a una fusione multietnica con gli stranieri oltre il Tevere, gli Etruschi. Un lieto fine, peraltro arrivato dopo secoli, alla fine del quale un’orda di maschi sbandati privi di ogni regola e legge si ritrovò a inventare il Diritto Romano dopo essere passati per tutte le fasi della civilizzazione: la legge della banda, poi il codice dell’onore e della reputazione di una élite guerriera raccolta intorno a un re e infine l’uguaglianza davanti alla legge di ogni cittadino. Nessuno più poté proclamarsi re e l’imperatore era solo un primo cittadino, il princeps.

Fu un percorso di secoli. Oggi invece i ragazzi delle baby gang ruzzolano al contrario nel fondo dell’inciviltà in pochi mesi. Si affacciano all’ adolescenza pieni di rabbia e di desiderio di affermazione e di autonomia e al tempo stesso bisognosi di rassicurazioni, di sentirsi accettati dai coetanei e trovano tutto questo in un gruppo a cui giurare fedeltà, in cui stabilire gerarchie basate sulla violenza e sulla predazione. Riproducono le dinamiche delle antiche società guerriere, non vedono una strada nel lavoro ma sperano di farsi largo percorrendo un destino di violenza. Vi sono perfino ragazze tra queste baby gang che si dedicano al vandalismo e all’aggressione di gruppo, così deludendo chi sperava nella funzione civilizzatrice del sesso femminile. Non era questa la parità che desideravamo.

Questo precipizio a ritroso non è una buona notizia. Non possiamo accontentarci dell’usuale lamentela della mancanza di prospettive e di speranze che le vecchie generazioni avrebbero riservato ai giovani, anche se molto di vero c’è in questo. Non bastano queste spiegazioni. Vi è una fascinazione propria della violenza che non dipende da nessuna mancanza e della quale dobbiamo essere consapevoli, ma in maniera diversa da quanto abbiamo fatto finora. Forse ci siamo troppo baloccati con Dioniso e con Nietzsche e con i vari pensatori che da un paio di secoli almeno hanno invocato da comode scrivanie una riscoperta delle radici animali dell’uomo, senza fare i conti che il Dioniso di Nietzsche non era un simpatico gaudente interessato al vino e all’amore ma un dio sanguinario attratto dalla strage e dal sangue. Il rito sacro a Dioniso era lo sparagmos, il sacrificio eseguito dilaniando a mani nude un animale o più raramente un essere umano, allo scopo di mangiarne le carni crude. Inebriandosi del fresco sangue della vittima, la Menade o l’iniziato ai misteri dionisiaci si riappropriava dello spirito primigenio della madre terra.

Questo desiderio di riappropriarsi della forza ferina è particolarmente intenso nell’adolescenza e in particolare in alcuni individui destinati a diventare i piccoli leader delle baby gang. Costoro nutrono un minore senso di colpa rispetto ai coetanei e questo gli consente di mettere in atto comportamenti antisociali o violenti, facendo da apripista per gli altri membri del gruppo. È la funzione iniziatoria e misterica dei capi. E la famiglia? Purtroppo quando la famiglia è debole, frammentata, con genitori poco autorevoli, allora maggiormente cresce la fuga dell’adolescente verso il gruppo. Sono dunque questi i due organi che devono reagire e arginare la forza destabilizzante dei gruppi di sbandati, la famiglia che deve tornare autorevole e la società che deve tornare a promettere un futuro ai giovani, affinché, come scriveva Cicerone, al termine di un lungo percorso di civilizzazione, “cedant arma togae, concedat laurea laudi”: “cedano le armi alla toga e alla fama ceda l’alloro [militare]”.

“RIPULITAMENTE”. Guida pratica per fare “pulizia” dei più comuni errori di pensiero (2017) – Recensione

L’autrice del libro Ripulitamente non fa altro che suggerirci e descriverci le modalità di pulizia dei pensieri, ossia come dare una spolverata a quelle reazioni soggettive provate di fronte agli eventi. Questo perché le nostre reazioni soggettive talvolta ci “bloccano”, impedendoci di proseguire in maniera funzionale qualora si verifichino delle situazioni da noi percepite come avverse.

Ripulitamente: Una guida per dare una ripulita ad alcuni pensieri

Un libro che consiglia di dare una “ripulita”. Ma una ripulita a cosa?

L’autrice del libro Ripulitamente non fa altro che suggerirci e descriverci le modalità di pulizia dei pensieri, ossia come dare una spolverata a quelle reazioni soggettive provate di fronte agli eventi.

Questo perché le nostre reazioni soggettive talvolta ci “bloccano”, impedendoci di proseguire in maniera funzionale qualora si verifichino delle situazioni da noi percepite come avverse.

Il modello ABC  e gli errori di pensiero

Il testo, ispirato alle teorie dei due autori capisaldi della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, ossia A. Beck e A. Ellis, segue un ordine ben lineare e preciso nella descrizione di alcuni aspetti che caratterizzano le loro teorie.

Inizialmente l’autrice si sofferma sulla descrizione del famoso ABC, esponendo accuratamente come un pensiero possa condizionare la conseguente emozione e il modo di agire, ponendo l’accento sulla facilità con cui si possa cadere in “errori di pensiero”, ossia convinzioni irrazionali che andrebbero in qualche modo poi smentite.

Segue un dettagliato elenco dei più comuni errori di pensiero. È da tener presente che non si tratta assolutamente di una semplice lista: ogni errore è accompagnato da un’esaustiva spiegazione, che enfatizza in particolar modo l’atteggiamento disfunzionale messo in atto dal soggetto che sperimenta il pensiero.

Il tutto mette alla luce una serie di comportamenti di fronte ai quali è impossibile non riconoscersi. Questo perché ognuno di noi almeno una volta nella propria vita ha sperimentato tali errori di pensiero.

Io devo assolutamente raggiungere quell’obiettivo!”, “So già come andrà a finire!”, “Non riuscirei mai a sopportare una situazione simile!”: tutte affermazioni che spesso saltano alla mente, peccato però che in qualche modo influenzano negativamente emozioni e azioni.

Sicuramente si tratta di pensieri alquanto comuni e frequenti, perciò spesso si potrebbe fare difficoltà nel riconoscerli.

Per tale motivo una parte del testo è dedicata proprio alle cosiddette “Idee Irrazionali” di Ellis, permettendo così al lettore di riuscire a identificarle.

Questo perché il libro non solo evidenzia i pensieri irrazionali, bensì anche i cosiddetti pensieri razionali che si contrappongono ad essi. Sarebbe infatti opportuno che ogni errore di pensiero riesca in qualche modo a trasformarsi secondo un’ottica più funzionale.

E se una parte del libro sembra essere più descrittiva, in seguito si parlerà di vera e propria clinica.

Infatti ogni errore di pensiero è riscontrabile in qualche disturbo psicologico.

Nocito si sofferma dettagliatamente su tutti i disturbi d’ansia esponendo in maniera schematica e lineare il circolo vizioso che li mantiene in vita.

E proprio grazie a tali schemi sarà possibile notare che ciascun disturbo è caratterizzato da una serie di errori di pensiero.

Compito del clinico sarà quello di intervenire su tali pensieri al fine di condurre il soggetto verso meccanismi più sani.

Segue lo stesso procedimento in merito al disturbo depressivo e al disturbo ossessivo compulsivo: l’autrice descrive disturbi e errori di pensiero associati, affiancandovi una serie di dettagliati esempi che indiscutibilmente aiutano il lettore a riconoscerli e attribuire loro la decisa importanza.

Ripulitamente: istruzioni per l’uso su come ripulire gli errori di pensiero

Infine l’ultima parte del testo è rivolta alle cosiddette “Istruzioni per l’uso”: dopo descrizione e collocazione dei comuni errori di pensiero è giusto anche in qualche modo provare a intervenire modificando, o per meglio dire “ripulendo”, gli eventuali pensieri irrazionali.

Nocito pone accento a tutti quegli interrogativi su cui sarebbe opportuno concentrarsi al fine di modificare le proprie convinzioni non funzionali. E non solo: l’autrice fornisce anche ottimi consigli per il terapeuta, il quale potrebbe trovarsi di fronte a quei soggetti con un modo di pensare disadattivo. Questo libro sarebbe per lui un’ottima guida.

Non mancano poi gli esempi relativi alla pratica terapeutica dell’autrice, esempi concreti che rendono il tutto di facile comprensione.

Le ultime pagine sono rivolte alle famose Emozioni, le quali inevitabilmente saranno influenzate dagli eventuali errori di pensiero. Anche su di esse sarà possibile intervenire qualora siano negative; l’autrice ci guida anche in questo, completando il tutto con delle utili schede operative che consentiranno al lettore o al terapeuta di sperimentarsi nelle pratiche di “Pulizia”.

Un libro schematico, lineare e scorrevole, che espone in maniera chiara e ordinata gli errori di pensiero rifacendosi alle famose teorie di Ellis e Beck.

Un’ottima guida alla pulizia dei pensieri negativi utile non sono a terapeuti che vogliano sperimentarsi con i propri pazienti, ma anche a soggetti che vogliano far luce sui propri modi di pensare non sempre funzionali.

Questo perché ogni tanto una rispolverata dai pensieri negativi è necessaria per tutti.

La mia ciclotimia ha la coda rossa (2017) – Recensione del libro

Lou Lubie racconta la sua storia in un fumetto dal titolo ” La mia cictotimia ha la coda rossa ” e ci conduce in un viaggio esplorativo, osservativo, commovente nella sua ciclotimia.

 

La metafora della volpe rossa nel libro La mia cictotimia ha la coda rossa

La ciclotimia è un disturbo bipolare di cui soffre circa il 6% della popolazione. Il più lieve tra i disturbi bipolari ma non per questo meno invasivo o destabilizzante.

Attraverso la Metafora della volpe rossa, l’autrice ci racconta la sua esperienza personale e ci “insegna” come si possa vivere con il proprio disturbo facendo anche cose meravigliose. In Questa graphic novel, pubblicata dalla casa editrice romana ComicOut, l’autrice racconta la sua esperienza, la travagliata ricerca di una diagnosi e di una cura, proponendo al lettore non solo numerose informazioni sul piano scientifico ma anche delle possibili soluzioni che vengono suggerite con ironia senza alcuna imposizione di verità assoluta.

Convivere con la ciclotimia

Il Testo offre uno spunto di riflessione e di analisi a clinici e pazienti (attraverso il percorso narrativo) diventando uno strumento che mostra come si possa convivere con la “volpe” che crea disordini nel cervello, come si possa addomesticarla, relazionarcisi o ignorarla a seconda delle situazioni che si vivono.

Alla continua ricerca di un equilibrio tra i suoi sbalzi d’umore , Lubie mette al centro la relazione con la volpe, i loro dialoghi, i compromessi e i numerosi tentativi di metterla a tacere e di non consentirle/consentirsi la distruzione di ogni suo progetto. In qualche modo ci indica una via relazionale e di confronto con la parte sofferente e spaventata che nega la gioia, nega la progettualità e a volte anche la stessa voglia di vivere.

Appassionante e illuminante come attraverso un fumetto, che per sua struttura linguistica e editoriale si mostra sintetico e immediato l’autrice con il suo tratto leggero e intenso sia riuscita a cogliere le sfumature di una patologia così delicata, spesso sottovalutata e di difficile diagnosi offrendo immagini spontanee di sofferenza, timore, preoccupazione ed euforia senza appesantire, colorando tuttavia la vita se pur difficile, con mille opzioni di resilienza.

Il trattamento EMDR nel disturbo da attacchi di panico

Le sensazioni riferite da ogni paziente dopo aver sperimentato attacchi di panico possono essere considerate di per sé un’esperienza traumatica (Faretta, 2001); è proprio questo ciò che ha portato a definire il trattamento EMDR come un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento per il disturbo di panico.

Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il panico come evento traumatico e utilizzo dell’EMDR

Le sensazioni riferite da ogni paziente dopo aver sperimentato almeno un attacco di panico possono essere considerate di per sé un’esperienza traumatica (Faretta, 2001); ciò che il soggetto percepisce durante una crisi di panico è “una forte paura, incontrollabile, che lascia la persona inerme”, questa sensazione viene seguita dalla percezione di perdere il controllo o di stare per morire. È proprio questo ciò che ha spinto Elisa Faretta a definire il trattamento EMDR come un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento per il disturbo di panico. L’ EMDR nel disturbo di panico può essere utile per: elaborare il ricordo degli attacchi di panico (il primo,il peggiore, l’ultimo); elaborare le situazioni scatenanti legate al panico nel presente e sostenere e rafforzare una prospettiva futura adattiva per affrontare situazioni legate ai sintomi (Faretta, 2012). In un suo recente studio pilota ha comparato l’ approccio EMDR con la CBT con l’obiettivo di valutare l’efficacia di un trattamento per il disturbo di panico con/senza agorafobia.

Il beneficio dei trattamenti è stato valutato sull’efficacia in termini di:

  • tempo (valutazione di quando avvengono i primi miglioramenti in termini di numero di sedute)
  • sulla stabilità in termini quantitativi (assenza di attacchi di panico alla conclusione della terapia nonché un mantenimento di benefici nel tempo)
  • sulla stabilità in termini qualitativi (nel rafforzare le abilità e capacità acquisite, per la prevenzione delle ricadute).

Il campione prevedeva 20 soggetti, 10 dei quali sono stati trattati con la terapia EMDR. Il piano terapeutico EMDR è sviluppato seguendo le 8 fasi previste dal protocollo standard, ma integrando alcune modifiche per intervenire sulle caratteristiche peculiari del Disturbo da attacchi di Panico. Tale protocollo modificato comprende:

  • a) una psicoeducazione sul Panico e sulle modalità utilizzate con l’ EMDR, con successiva scelta della stimolazione bilaterale (movimenti oculari o altre forme di stimolazione) più adatta alla persona attraverso l’esercizio del Posto al Sicuro;
  • b) definizione dei target da utilizzare (primo attacco di panico, il peggiore per il paziente, ultimo attacco di panico);
  • c) scelta dell’immagine più disturbante per ogni target, associata alla cognizione negativa, individuazione della cognizione positiva, individuazione dell’emozione associata all’immagine peggiore del target e infine collocazione del disagio nel corpo;
  • d) individuazione ed elaborazione dei ricordi traumatici legati alla storia personale del paziente;
  • e) lavoro sul presente con relativa rielaborazione dei fattori scatenanti;
  • f) lavoro di rafforzamento di azioni positive nel futuro.

Nonostante la varietà del campione in quanto a provenienza, età e status sociale, dalla raccolta dei dati di ciascun soggetto nella fase di assessment sono emerse delle similitudini, in particolare per quanto riguarda l’esordio del disturbo: “La maggior parte dei soggetti ha indicato come eventi scatenanti un lutto, una separazione, o episodi in cui hanno creduto di morire (per es., per soffocamento)” (Faretta, 2007).

Tuttavia, rimangono alcuni punti interrogativi e critici legati a diversi fattori:

  • un campione troppo piccolo per la generalizzazione dei risultati;
  • un’ assegnazione non casuale dei soggetti alle condizioni di trattamento;
  • uno sbilanciamento tra i due campioni rispetto alla percentuale dei soggetti agorafobici (CBT 56% vs EMDR 20%) ;
  • l’ assenza di valutatori indipendenti;

Essendo uno studio pilota, alla luce di questi limiti, si dovrebbero mettere a punto trial clinici controllati, utilizzando specifici strumenti di valutazione e ampliando il campione di soggetti. Tuttavia nonostante i limiti metodologici sovra riportati, lo studio pilota ha indotto i ricercatori ad interrogarsi su una possibile nuova metodologia di trattamento del disturbo.

Protocollo EMDR per il Disturbo da Attacchi di Panico di Marcia Whisman: i tre livelli di paura

Marcia Whisman vede il panico come “un’esperienza terrificante costituita da intense sensazioni fisiche, un senso di terrore o di imminenti conseguenze nefaste e da un’incapacità di comprenderne il motivo o l’origine” (2005). L’ acuita sensibilità del sistema nervoso, lo sconvolgimento emotivo e pensieri spaventosi (anche se distorti) su quanto gli accade sono i principali fattori dello svilupparsi di un comportamento evitante come meccanismo di reazione (Whisman, 2005). Gli obiettivi della terapia secondo Whisman consistono nell’istruire il paziente sul panico e sulla sua incapacità di realizzare le sue peggiori paure. Ciò che il paziente deve essere in grado di acquisire sono le capacità di:

  • gestione dell’ansia;
  • acquisire gradatamente un controllo sui sintomi ansiogeni;
  • desensibilizzare le cognizioni di paura che ha sviluppato.

L’obiettivo finale è quello di riportare il paziente alla piena funzionalità in modo da permettergli di trovarsi a suo agio in situazioni precedentemente temute”.

L’ EMDR per Whisman è una terapia efficace per desensibilizzare e rielaborare cognizioni di paura, fino a farle rientrare all’interno di un sistema di convinzioni più preciso e gestibile. Il protocollo EMDR viene da lui integrato con l’ ipotesi per cui la maggior parte dei pazienti soffre di tre livelli di paura; in assenza della paura di primo livello, il terapeuta può procedere al secondo livello, e così via. Una delle raccomandazioni dell’autore è di non procedere mai con l’ EMDR se il paziente entra in panico durante il trattamento, in quanto potrebbe perdere la capacità di elaborare al meglio il suo vissuto di paura; in questi casi, il terapeuta deve aiutare il paziente a calmare l’ ansia, elaborarla e quindi continuare con l’ EMDR. Ecco di seguito riportato il trattamento EMDR integrato alla teoria dei tre livelli di paura.

Primo Livello di Paura:

Paure immaginarie: queste paure provengono da attribuzioni fatte dal paziente sull’origine stessa del panico, radicate in funzione dell’arco di tempo trascorso dal primo attacco di panico e della mancanza di informazioni relative all’esperienza vissuta.

Impostazione EMDR – Immagine: il paziente dovrà ricordare e immaginare in modo dettagliato il primo o peggior attacco di panico come se dovesse rivederlo in un video.

Desensibilizzazione delle convinzioni catastrofiche: qui il terapeuta dovrà integrare le istruzioni fornite nella parte psicoeducazionale e lavorare su pensieri e su attribuzioni più razionali che riguardano l’ attacco di panico.

Passaggio alla fase successiva: si passa al secondo livello di paura quando il paziente crede fortemente che le sensazioni che prova durante un attacco di panico siano dovute alle proprie emozioni e all’adrenalina e non a un attacco di cuore o a un esordio psicotico.

Secondo Livello di Paura:

Paura della paura: questo livello è relativo all’ incapacità del soggetto di gestire gli attacchi di panico in modo funzionale.

Impostazione EMDR – Immaginare: il terapeuta chiede al paziente di ricordare un attacco di panico memorabile/rappresentativo oppure immaginare un attacco di panico che potrebbe verificarsi nel futuro. Il soggetto dovrà utilizzare le strategie suggerite dal terapeuta per fronteggiarlo (stai respirando, non stai per morire).

Passaggio alla fase successiva: si passa alla fase successiva solo una volta che il paziente avrà raggiunto la padronanza adeguata rispetto all’ attacco di panico immaginato o ricordato.

Terzo Livello di Paura:

Paura della prestazione: questo livello riguarda l’esposizione del soggetto alla situazione temuta.

Impostazione EMDR – Immagine: ripercorrere con la mente l’esposizione da affrontare. La narrativa viene svolta dal paziente; viene chiesto al paziente di fermarsi in qualunque momento provi ansia: i movimenti oculari saranno diretti alla sensazione fisica e verranno ripetuti fino alla desensibilizzazione.

Passaggio all’ esposizione in vivo: l’esposizione in vivo dovrebbe avvenire al più presto possibile, seguita da due ulteriori esercitazioni in vivo prima della seduta successiva (possibile solo se il paziente è ora in grado di farcela da solo o se ha un partner di supporto).

Considerazioni conclusive

Dall’analisi dello studio effettuato da Faretta (2007) sono emerse quelle che possono essere considerate le principali modifiche e integrazioni apportate dall’autrice all’originale protocollo EMDR, elaborato da Shapiro. Queste possono essere ricondotte alla seconda e terza fase del trattamento. Durante la fase 2 è stata inclusa una psicoeducazione specifica sul panico, cioè, sulla sua natura e sugli aspetti fisiologici; la fase 3 (individuazione dei target) è mirata all’ individuazione degli eventi passati stressanti, oltre alla focalizzazione sul ricordo del primo attacco di panico, del peggior attacco di panico e infine dell’ attacco di panico più recente. Inoltre, vengono rintracciate le esperienze infantili che hanno fatto sperimentare al soggetto sensazioni come abbandono, umiliazione e paura. La ricerca ha rintracciato dei fattori predisponenti il disturbo di panico (Faretta, 2012), quali:

  • storie di separazione dalla famiglia
  • prolungata malattia di un genitore;
  • abusi da parte di un parente;
  • storie di abbandono.

L’insorgenza del Disturbo da Attacchi di Panico è quindi correlata alla riattivazione di esperienze traumatiche precedenti, comprese separazione, lutto, malattia o un periodo di stress prolungato.

A differenza di Faretta, Whisman sembrerebbe adottare un approccio che si basa su una priorità specifica: è essenziale trattare il panico prima del trauma poiché la persona non si sente al sicuro nel presente (Terrel, 2006). Infatti, il protocollo di Wishman predispone il soggetto all’attualizzazione delle esperienze del panico, e di quei pensieri che impediscono al sintomo di essere affrontato in modo razionale. Come Faretta, Whisman mette in evidenza come la psicoeducazione sul panico sia un elemento fondamentale per portare a termine il trattamento EMDR. Lo psicoterapeuta interviene a livello dei pensieri disfunzionali che portano il soggetto a adottare e automatizzare strategie di evitamento e a rafforzare la sintomatologia dovuta al panico.

Un’ altra importante variazione del protocollo sta nell’integrare l’esposizione dal vivo nel trattamento EMDR. Il terapeuta ha il compito di guidare il paziente seduta dopo seduta; l’autore precisa che l’esposizione in vivo dovrebbe avvenire al più presto, per facilitare l’integrazione dei comportamenti adattivi appresi. Ciò è possibile solo se il paziente è in grado di farcela da solo o se ha un partner di supporto (il terapeuta) che lo accompagna durante le esposizioni. I protocolli EMDR elaborati per gli attacchi di panico non prevedono l’utilizzo dell’ esposizione in vivo; solitamente questa tecnica viene impiegata nel trattamento delle fobie. Questo potrebbe diventare un buon punto di discussione: Whisman, infatti, sembra utilizzare un approccio al panico più comportamentale, tralasciando le componenti cognitive che Faretta inserisce all’interno del suo protocollo.

Faretta risulta essere in linea con il pensiero di Giannantonio (2009) che riporta l’importanza di raccogliere la storia di vita del paziente e inserirla all’interno del trattamento EMDR. Infatti, secondo l’autore, l’ EMDR fa da sfondo al tentativo del terapeuta di recuperare la storia di attaccamento e di riportarla in seduta attraverso il recupero di alcuni aspetti fondamentali che contraddistinguono il disturbo da attacchi di panico.

Il sesso inizia dall’attenzione verso il partner: ritrovare il desiderio sessuale nelle relazioni di lunga data

La messa in atto quotidiana di comportamenti sensibili e ricettivi nei confronti del partner di lunga data, sembrerebbe favorire l’intesa e il desiderio sessuale, soprattutto quando questi specifici atteggiamenti istillano nel partner la sensazione di essere di valore e parte di una relazione speciale.

 

Un recente studio di Birnbaum, professoressa di psicologia dell’Interdisciplinary Center in Herzliya, Israele, pubblicato sul Journal of personality and Social Psychology, ha dimostrato come la messa in atto quotidiana di comportamenti sensibili e ricettivi nei confronti del partner di lunga data, possa favorire l’intesa e il desiderio sessuale sia per gli uomini che per le donne, soprattutto quando questi specifici atteggiamenti istillano nel partner la sensazione di essere di valore e parte di una relazione speciale.

[…] L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta.” (1958) Così Don Fabrizio, celebre personaggio del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, descrive l’amore, sottolineando in modo molto chiaro come in una relazione affettiva, a parer suo, la passione e  il desiderio sessuale verso l’altro tenda a diminuire nel corso del tempo fino a spegnersi e a diventare cenere.

Dopo una lunga vita spesa insieme, caratterizzata da compleanni, discussioni, figli, problemi di lavoro ed economici, malattie, fastidiose faccende domestiche e quotidiane, suoceri, molte coppie spesso sono afflitte dal problema di come ritrovare e ricostituire quella passione, quel fuoco, quel desiderio sessuale, che ha caratterizzato i primi anni della loro relazione.

Come ritrovare il desiderio sessuale? Con la cura e la sensibilità verso il partner

Una possibile soluzione proviene da un recente studio di Birnbaum, professoressa di psicologia dell’Interdisciplinary Center e colleghi, pubblicato sul Journal of personality and Social Psychology, per il quale partner di lunga data possono riappropriarsi e far rifiorire la propria vita sessuale e la reciproca complicità di coppia imparando ad essere sensibili e ricettivi reciprocamente (Birnbaum et al., 2016).

In particolare Birnbaum e colleghi hanno indagato il legame tra comportamenti sensibili/ricettivi e desiderio sessuale con lo scopo di verificare se nelle relazioni romantiche-affettive di lungo termine alcuni specifici comportamenti del partner potessero influire sulla costruzione di un contesto di intimità per la coppia, caratterizzato da familiarità, connessione emotiva e comprensione, favorendo di conseguenza l’aumento del desiderio sessuale verso l’altro partner.

In tale studio, i ricercatori hanno condotto tre esperimenti per indagare se un partner sensibile e recettivo, cioè in grado di comprendere e riconoscere i bisogni, anche sessuali, dell’altro (che percepisce così di essere apprezzato, supportato genuinamente e investito di attenzioni), sia in grado di aumentare le esperienze quotidiane di intimità e di conseguenza incrementare il desiderio sessuale (Birnbaum et al., 2016).

Nel primo esperimento, sono stati reclutati dietro compenso 153 volontari, tra i 20 e i 40 anni, a cui è stato chiesto di discutere con i propri partner di un loro attuale problema. Va sottolineato che in realtà i partecipanti interagivano con i partner all’oscuro del fatto che questi fossero confederati, cioè collaboratori dei ricercatori, che mettevano in atto nei loro confronti differenti modalità di interazione e comportamenti, a seconda delle diverse condizioni sperimentali: comportamenti positivi, di validazione delle necessità del partner in quel momento (ad esempio “mi rendo conto che per te non debba essere stato facile e che hai dovuto passare un brutto momento”) oppure comportamenti negativi (“quello che hai passato non mi sembra poi così complicato”).

Successivamente è stato chiesto ai partecipanti, tramite self-report, di indicare se e quanto, durante l’interazione positiva o negativa con il “partner confederato”, avessero percepito comprensione e attenzione e come questo avesse influito positivamente o negativamente sul loro desiderio di volersi impegnare in preliminari o in rapporti sessuali con lui.

I risultati di questo primo esperimento hanno mostrato come le donne che avevano esperito un desiderio sessuale maggiore nei confronti del partner erano coloro che avevano avuto un’interazione positiva, sensibile/recettiva con il partner, rispetto a quelle che avevano avuto un dialogo negativo.

In aggiunta a ciò, diversamente da quanto osservato nelle donne, il desiderio sessuale maschile per la partner non è sembrato essere influenzato significativamente dall’ interazione positiva o negativa con lei.

Tali risultati hanno suggerito che il desiderio sessuale maschile, diversamente da quello femminile, potrebbe essere meno dipendente dagli atteggiamenti di intimità, sensibilità attuati delle loro partner e dall’interazione positiva avuta con loro (Birnbaum et al., 2016).

Nel secondo esperimento, i ricercatori hanno voluto in parte replicare le modalità del precedente esperimento inserendo però un’interazione faccia a faccia tra i partner con il fine di poter osservare online anche i comportamenti non verbali sia nella condizione di sensibilità/recettività che in quella negativa e collegarli eventualmente alle risposte sessuali dei partecipanti.

Sulla scia del primo esperimento, è stato chiesto ai partecipanti di discutere con il proprio partner di un recente episodio positivo e negativo accaduto loro e poi di stimare il desiderio sessuale per l’altro a seguito dell’interazione.

Sono stati replicati gli stessi risultati, con una caratterizzazione in più: oltre ad aumentare il desiderio sessuale per il partner maschile più sensibile/recettivo, le donne impegnante in un’interazione positiva hanno mostrato anche maggiori comportamenti non verbali di intimità verso il partner.

Infine nell’ultimo esperimento, i ricercatori hanno tentato di mostrare gli stessi risultati in un ambiente più naturale, quotidiano senza cioè la presenza di registrazioni o interazioni in laboratorio.

Per tale ragione, essi hanno chiesto a 100 coppie di documentare giorno per giorno, per sei settimane, il loro livello di desiderio sessuale nei confronti del partner e la qualità delle interazioni e del contesto di coppia, specificando se avessero la percezione di essere considerati di valore e degni di attenzione dal proprio partner.

Sia per le donne che gli uomini, percepire quotidianamente l’altro come comprensivo e sensibile nei confronti dei suoi bisogni era associato a livelli significativamente alti di desiderio sessuale; in aggiunta, questa percezione aumentava a sua volta la sensazione dei partner di sentirsi speciali e di valore, soprattutto nelle donne.

Lo studio di Birnbaum e colleghi (2016) ha sottolineato come la comprensione e il riconoscimento dei bisogni dell’altro sia tramite validazione emotiva che comportamenti di ascolto, vicinanza e affetto, aumentino il desiderio sessuale soprattutto quando questi atteggiamenti danno l’impressione che l’altro sia di valore e che una relazione sessuale con un partner così desiderabile e coinvolto nella relazione possa promuovere un legame speciale tra i due e quindi valga la pena coltivarlo, nonostante tutto.

Attaccamenti a scuola. Lo psicologo nel delicato rapporto tra i protagonisti del percorso educativo (2017) – Recensione del libro

Attaccamenti a scuola. Lo psicologo nel delicato rapporto tra i protagonisti del percorso educativo è un testo, nato dall’impegno corale delle psicoterapeute Mattioli, Di Marzo, Febbi e Martirani, capace di stimolare importanti riflessioni e diffondere buone pratiche nel contesto scolastico, ancora oggi, scarsamente vissuto come base sicura per le identità in divenire.

 

Attaccamenti a scuola. Lo psicologo nel delicato rapporto tra i protagonisti del percorso educativo è un lavoro che fiduciosamente riconosce alla scuola la possibilità di farsi prolungamento dell’attaccamento, inteso come “[…] l’esperienza su cui ogni essere umano fonda le proprie capacità conoscitive e predittive circa la natura umana, il senso delle relazioni e la propria identità” (Di Marzo, 2017, p. XXXI); un contributo che restituisce valore alla dimensione sociale dell’uomo, indispensabile poter costruire condizioni di benessere.

In questa direzione la professione psicologica assume una posizione importantissima e da potenziare, proprio alla luce delle testimonianze concrete di salute che va costruendo, dal nido alla scuola media superiore.

A questo scopo le autrici di Attaccamenti a scuola conducono gradualmente il lettore a cogliere, dapprima, le principali trasformazioni che caratterizzano l’individuo dalla prima infanzia all’adolescenza, in un secondo momento, il contributo dello psicologo nel sistema educativo.

Attaccamenti a scuola: il ruolo dello psicologo a partire dal nido

Con l’ingresso nel nido il bambino sperimenta la prima separazione dalle figure di riferimento, impara ad adattarsi al nuovo ambiente, conosce se stesso e il mondo attraverso il gioco e inizia a relazionarsi con i pari.

In questo ambiente, si ricorda nel libro Attaccamenti a scuola, l’attività dello psicologo è rivolta soprattutto agli adulti. I genitori ricevono aiuto nella fase d’inserimento, spesso contrassegnata da sentimenti ambivalenti suscitati proprio dalla prima separazione e piano piano diventano consapevoli e comprendono le reazioni dei bambini e quelle personali. Le educatrici, attraverso l’attività di supervisione, usufruiscono di uno spazio importantissimo per la conoscenza di sé, del proprio stile relazionale, delle proprie difficoltà e risorse, essenziale per svolgere al meglio un lavoro così delicato e carico di emozioni.

Dalla scuola d’infanzia l’ambiente familiare diventa meno esclusivo, il bambino si confronta con gli altri bambini e i loro bisogni, attraverso il linguaggio e il gioco impara a comprendere, comunicare e riconoscere le proprie e altrui emozioni. Queste ultime, ancora minimamente oggetto di interesse e integrazione con gli aspetti cognitivi, richiederebbero da parte della scuola, a partire da questa età, una maggiore considerazione. Questa visione assume ancora più valore di fronte alle crescenti sfumature di competenze e difficoltà che la scuola solleva e nei confronti delle quali si trova, talvolta, incredibilmente impotente. Si tratta di dare un’attenzione maggiore proprio ad attività in grado di favorire lo sviluppo delle emozioni, la loro conoscenza e la loro espressione, sin dalla più tenera età; un impegno comune a costruire relazioni positive per i bambini e gli degli adulti che si relazionano con loro.

Con il procedere della crescita il processo di identificazione del bambino con le figure genitoriali prosegue e nella scuola elementare è arricchito dalla presenza di altri adulti significativi, che congiuntamente alle interazioni con i pari, alleviano il dolore del distacco. Alla luce delle nuove competenze che si vanno costruendo, è più che mai auspicabile, da una parte, rinnovare l’interesse nei confronti dell’attività ludica libera per lo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino, dall’altra, incrementarlo nei confronti dell’educazione alla sessualità, per arrestarne una conoscenza confusa e distorta.

Le esperienze raccontate nel testo Attaccamenti a scuola diventano, infatti, per il lettore, genitore, insegnante, clinico o curioso, un’utile occasione attraverso cui conoscere l’importanza di promuovere attività arricchenti per tutti i protagonisti coinvolti e che richiederebbero maggiori opportunità per essere replicati.

Costruire un contesto relazionale positivo in continuità con quello familiare richiede il riconoscimento di una responsabilità comune, che riguarda gli operatori della scuola e genitori e in cui lo psicologo assume spesso una posizione di intermediario. L’ambiente scolastico, infatti, fa emergere ferite identitarie, genitoriali e professionali, che inquinano la comprensione del profondo punto di vista dell’altro. Lo psicologo attribuisce significato e valore alle esperienze di ciascuno traducendone i vissuti e riporta l’attenzione verso una prospettiva di corresponsabilità nei confronti di un progetto educativo che dovrebbe condiviso.

In questo modo la scuola diventa, con tutte le sue proposte, luogo di prevenzione e corretta informazione, di formazione per adulti e ragazzi, in cui, attraverso il confronto e la conoscenza, si costruiscono soluzioni e proposte d’intervento. Si risponde così con attenzione a fenomeni di prevaricazione, come il cyberbullismo e l’uso incontrollato di videogiochi, la dispersione scolastica, sintomatici di disagi talvolta complessi e spesso taciuti che riguardano i ragazzi in più ambiti della loro vita.

L’introduzione dei centri d’ascolto, con la legge n° 162 del 1990, realtà limitata ancora a pochi istituti, ha portato a scuola uno spazio di consulenza e informazione riservato ad alunni, insegnanti e genitori. Attraverso il centro d’ascolto lo psicologo si impegna ad accogliere le richieste valutando la possibilità di affrontarle nel contesto scolastico o inviando ai servizi sul territorio. Le richieste che vi giungono raccontano di storie d’amore, di rifiuti, di insicurezze, di insuccessi scolastici, di difficoltà di integrazione. Il testo Attaccamenti a scuola ne propone diverse aprendo al lettore la possibilità di accedervi in modo vivo.

È importante aggiungere che:

“…] lavorare con gli adolescenti è una forte spinta alla revisione dei personali percorsi adolescenziali e, a seconda della fase di vita che attraversiamo e degli adolescenti che ci troviamo davanti, saremo più o meno in grado di prendere le distanze dai problemi che ci presentano (Mattioli, 2017, p.74).

In una scuola in cui si respira la necessità di rinnovamento, anche l’interesse verso lo studio e lo stesso rendimento, oggetto di attenzione, preoccupazioni e timori da parte di adulti e ragazzi andrebbe riletto. La prospettiva metacognitiva ci insegna a riconoscere che dietro le etichette che suonano, ai ragazzi e non solo, come sentenze definitive, spesso, si nascondono difficoltà emotive, relazionali, organizzative, previsionali, frutto di situazioni ripetutamente mortificanti.

[…] Alcune parole negative, anche dette senza malvagità, senza pensare che possano ferire, restano incise profondamente e condizionano i comportamenti e le scelte future. Lo stesso possono fare le parole positive. Basta poco per ferire, ma a volte altrettanto poco per incoraggiare e restituire fiducia (Di Giorgio, 2017, p.101).

Per concludere, lo psicologo, in tutti i casi in cui è chiamato a svolgere la sua funzione di salute, s’impegna nella direzione di facilitare dinamiche relazionali che possano fungere da base sicura nel percorso di crescita degli allievi di ogni ordine e grado, contribuendo alla realizzazione di un’idea di scuola che promuove, sostiene e rende possibile la socializzazione, un’idea opportuna e condivisibile per la scuola del futuro.

Le funzioni cognitive nel paziente con dolore cronico

Negli anni sono apparsi in letteratura un numero crescente di studi che indagano le funzioni cognitive in pazienti con dolore cronico. I pazienti con dolore cronico non oncologico segnalano spesso difficoltà nella memoria, nella concentrazione e in altre funzioni cognitive rispetto ai pazienti che cercano il trattamento per altri problemi medici.

Federica Aloisio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

Il dolore cronico

Il dolore è un fenomeno individuale e soggettivo che le persone sperimentano durante la propria vita e, spesso, rappresenta la ragione principale per cui si richiede assistenza sanitaria.

Per “dolore”, secondo l’International Association for the Study of Pain (IASP), si intende un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tessutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di tale danno.

La maggior parte dei dolori si risolve prontamente una volta che lo stimolo doloroso viene rimosso e l’organismo è guarito ma, se la malattia si prolunga o non regredisce completamente, il dolore persiste diventando cronico.

Il dolore cronico è stato generalmente definito come il dolore che persiste per un periodo di tempo specifico già determinato arbitrariamente (per es. 3 o 6 mesi, oppure al di là del periodo normale di guarigione). “Il dolore cronico invalidante è uno dei maggiori problemi socio-sanitari di proporzioni epidemiche; è la causa più frequente di sofferenza e di invalidità (menomazione) capace di danneggiare seriamente la qualità di vita” (Loeser, 2002).

Secondo i principali e più accreditati studi epidemiologici internazionali la presenza delle sindromi dolorose croniche varia tra 10,1% e 55,2% della popolazione; mediamente, essa è più elevata tra le donne che fra gli uomini, rispettivamente 39% e 31%, e aumenta con l’età, soprattutto dopo i 65 anni (Breivik et al., 2006).

Nella maggior parte dei pazienti, il dolore influisce negativamente sulla percezione della salute generale, interferisce notevolmente con le attività quotidiane, è associato a sintomi depressivi e/o ansiosi ed influenza negativamente i rapporti e le interazioni con gli altri (Froud et al., 2014). Proprio per questi motivi è necessaria una valutazione globale e una presa in carico della persona nella sua complessità.

Le funzioni cognitive nei pazienti con dolore cronico

Negli anni sono apparsi in letteratura un numero crescente di studi che indagano le funzioni cognitive in pazienti con dolore cronico.

I pazienti con dolore cronico non oncologico segnalano spesso difficoltà nella memoria, nella concentrazione e in altre funzioni cognitive rispetto ai pazienti che cercano il trattamento per altri problemi medici.

Grigsby e colleghi nel 1995 hanno confrontato le prestazioni di pazienti con dolore cronico con pazienti senza dolore su una varietà di compiti informatici progettati per valutare la velocità di elaborazione delle informazioni e la memoria a breve termine. I ricercatori hanno scoperto che i pazienti con dolore cronico avevano scarse performance rispetto all’altro gruppo (Grigsby et al., 1995). In un altro studio, il 54% dei pazienti inviati ad un centro di dolore hanno riferito problemi in alcune funzioni cognitive, quali la memoria a breve termine, la concentrazione e l’attenzione (McCracken & Iverson, 2001).

Lo studio di Schiltenwolf conferma il calo nella prestazione in prove di attenzione nei pazienti con lombalgia cronica (Schiltenwolf et al., 2014); queste alterazioni sono risultate anche in pazienti con fibromialgia: oltre il 50% dei pazienti con fibromialgia lamentano disturbi mnestici, di concentrazione e confusione mentale (Dick et al., 2002; Katz et al., 2004).

Inoltre i pazienti con dolore cronico riportano difficoltà nelle funzioni cognitive, quali l’apprendimento percettivo e la memoria, evidenziando alterate capacità di esecuzione dei compiti, rispetto ai gruppi di controllo (Oosterman et al., 2010).

I pazienti con dolore cronico hanno riportato anche uno scarso rendimento rispetto ai controlli sulle misure di screening cognitivo generale, come l’esame al Mini Mental State Examination (MMSE) (Oosterman et al., 2010). Da diversi dati di letteratura emerge infatti che la prevalenza di deficit cognitivo clinicamente rilevante è più alta in pazienti con dolore cronico rispetto alla popolazione generale (Rodriguez-Andreu et al., 2009).

Anche le funzioni esecutive risentono del dolore cronico. La funzione esecutiva definisce quei processi neurologici che consentono compiti cognitivi più complessi, quali la pianificazione, l’organizzazione, il controllo dei pensieri contrastanti, il comportamento diretto ad uno scopo, l’inizio di un’azione e il saper valutare le conseguenze delle azioni. Le performance dei pazienti con dolore cronico sembrano dimostrare che il controllo delle funzioni esecutive risente di questa tipologia di dolore (Moriarty et al, 2011).

Lo studio di Simons ha evidenziato che, da studi di imaging cerebrale in pazienti con dolore e in modelli di roditori, il dolore cronico è associato ad alterazioni anatomiche e funzionali nel cervello.

I ricercatori hanno infatti riscontrato che, come il dolore può causare deficit nei processi cognitivi degli esseri umani, altrettanto avviene nei roditori. Quest’ultimi possono eseguire una serie di prove che coinvolgono le “funzioni esecutive”, come la funzione decisionale, la memoria, l’attività di attenzione e il riconoscimento di oggetti, proprio come gli esseri umani e, inoltre, queste attività si basano su analoghe aree corticali prefrontali. E’ stato dimostrato che nei roditori, allo stesso modo degli esseri umani, il dolore interrompe i compiti di memoria di lavoro (Cardoso-Cruz et al., 2013).

Ricerche algologiche hanno individuato l’esistenza di connessioni tra le aree che trasmettono il dolore nel sistema nervoso centrale e la neurobiologia del dolore. Recenti scoperte neurobiologiche hanno infatti riscontrato nel dolore cronico un alterato biochimismo cerebrale locale ed una riorganizzazione corticale funzionale come conseguenza di processi di neuroplasticità. Gli studi morfo-metrici nel dolore cronico effettuati con la morfometria voxel (VBM), una tecnica di risonanza magnetica, indicano l’importanza della neuroplasticità nel dolore cronico.

Immagini di risonanza magnetica in diversi tipi di pazienti con dolore cronico mostrano che il cervello di questi individui è diverso rispetto a quelli di soggetti sani di controllo (Simons et al., 2014). L’anomalia più marcata, osservata attraverso gli studi, è una riduzione della materia grigia soprattutto nella corteccia prefrontale, nell’insula e nelle cortecce anteriore e nella metà del cingolo (Davis & Moayedi, 2013). Questa perdita è correlata con la durata del dolore cronico e spesso si normalizza con il trattamento.

Kuchinad e colleghi hanno individuato che nei pazienti fibromialgici c’è una perdita di sostanza bianca molto più importante rispetto ai controlli; inoltre ogni anno di fibromialgia corrisponde a 9,5 volte la perdita di sostanza grigia del normale invecchiamento (Kuchinad et al., 2007).

Apkarian nel 2004 ha condotto uno studio in cui ha individuato che i pazienti con lombalgia cronica hanno mostrato una riduzione del 5-11% del volume della materia grigia neocorticale rispetto ai soggetti di controllo privi di dolore cronico. L’entità di questa diminuzione è equivalente al volume della materia grigia perso in 10-20 anni di invecchiamento normale (Apkarian et al., 2004). Il volume diminuito è legato alla durata del dolore, ed indica una perdita di 1,3 cm di materia grigia per ogni anno di dolore cronico. La densità della materia grigia è stata ridotta nella corteccia prefrontale dorsolaterale bilaterale e nel talamo destro. I risultati dello studio di Apkarian implicano che il dolore cronico alla schiena è accompagnato da atrofia cerebrale e suggeriscono che la fisiopatologia del dolore cronico comprende i processi talamocorticali (Apkarian et al., 2004).

L’immagine seguente, tratta dallo studio di Apkarian, mostra una perdita di densità della materia grigia nei soggetti con lombalgia cronica. Nella figura A si evidenzia che la densità della materia grigia è bilateralmente ridotta. La figura B mostra un significativo decremento della densità della materia grigia nel talamo anteriore destro (Apkarian et al., 2004).

Dolore cronico e funzioni cognitive

Sulla stessa scia, una metanalisi del 2008 ha evidenziato che il dolore cronico può cambiare la struttura del cervello (May, 2008). I pazienti affetti da mal di schiena cronico, sindrome dell’intestino irritabile, fibromialgia, dolore da arto fantasma e cefalea tensiva cronica presentano alterazioni morfologiche cerebrali di tipo atrofico in alcune specifiche aree deputate alla percezione, all’elaborazione e alla modulazione del dolore. Queste alterazioni, attribuibili a fenomeni di neuroplasticità, sono state riscontrate nel giro cingolato, nella corteccia orbito-frontale, nell’insula e nella regione dorsale del ponte. Poiché sembra che i pazienti affetti da dolore cronico abbiano questa comune “impronta cerebrale” in aree coinvolte nella regolazione del dolore, ci si chiede se questi cambiamenti siano la causa o la conseguenza del dolore cronico.

Secondo May queste modifiche strutturali possono rappresentare il substrato neuro-anatomico della memoria del dolore. L’autore suggerisce che i cambiamenti della materia grigia osservati siano la conseguenza dei frequenti input nocicettivi che sono transitori all’inizio della sindrome dolorosa e poi diventano permanenti con il persistere della malattia ma che potrebbero essere reversibili a seguito di un’idonea terapia antalgica (May, 2008).

Il cuore depresso: la depressione nei pazienti con disturbi cardiaci

Il presente articolo intende approfondire, partendo dall’esperienza diretta con persone che soffrono di malattie cardiache, l’importanza della relazione e dell’attenzione alla relazione che si viene ad instaurare con i pazienti. Quest’ultima si esprime non solo attraverso atti medici ma parla anche attraverso altri canali legati alla sensibilità e all’intuizione delle persone che circondano il malato e al significato che il malato stesso dà alle cure a lui prestate in un momento così delicato.

Emilia Baiardo

 

Più di quanto il cuore sopporti

La preghiera “Possa io essere vivo quando morirò“ (Winnicott, C. ,1978), non ha soltanto a che fare con la morte fisica. Si riferisce al suo bisogno di vitalità sensibile anche nel bel mezzo del nulla, degli attacchi, delle catastrofi, della pazzia e di tutta una varietà di sofferenze (Eigen M., 1998 – La morte psichica).

A fronte di un aumento dell’incidenza di malattie cardiache nella nostra società, si evidenzia una consistente correlazione tra la sofferenza psicologica che segue la malattia coronarica e i numerosi casi di depressione riscontrabili nei pazienti affetti da tali patologie.

Spesso la letteratura tende ad affrontare il grave scompenso cardiaco dal punto di vista strettamente biologico, senza approfondire la dimensione umana e le numerose ripercussioni che la malattia stessa ha sulla qualità di vita del paziente. (Lane D.A., Chong A.Y., Lip G.Y.H., 2007). Ciò che il presente articolo intende approfondire, frutto dell’esperienza diretta con persone che soffrono di tali malattie, è l’importanza della “relazione” e “dell’attenzione” alla relazione che si viene ad instaurare con essi. Quest’ultima si esprime non solo attraverso atti medici ma parla anche attraverso altri canali legati alla sensibilità e all’intuizione delle persone che circondano il malato e al significato che il malato stesso dà alle cure a lui prestate in un momento così delicato.

Spesso sono ricordi, narrazioni, a tratti, nei momenti di maggiore malessere, anche confabulazioni che il paziente riferisce del suo passato o del suo presente.

“In questo sprofondamento nel mondo interno con la perdita di capacità ad investire nella vita, spesso il soggetto perde la sua coesione“. (Haynal, A. ,1980). In relazione alla percezione della propria morte e alla “perdita di sé“, Engel ha descritto, nel contesto delle malattie somatiche gravi, questa reazione depressiva, quale specifica risposta a una così grande perdita della salute.

Nell’articolo vengono presentati anche due momenti della terapia psicologica a indirizzo analitico con due pazienti affetti da grave scompenso cardiaco. In queste finestre si evidenzia come il sentimento depressivo del malato incida sulla sua qualità di vita e sui suoi comportamenti, anche attraverso percezioni della realtà alterate dalla paura e dalla disperazione.

Si è quindi tentato di evidenziare come il paziente affetto da grave scompenso cardiaco, in alcuni momenti drammatici della sua vita, possa arrivare a parlare attraverso il suo organo malato. Con loro, se si presta attenzione, si può sentire il cuore depresso che parla, che chiede, che prega .

Come afferma Luis Chiozza:

...ammalarsi è soffrire un processo che la scienza concepisce come prodotto di una causa…. Di solito ci si ammala in due maniere: una, acuta, che è transitoria e breve, e un’altra, cronica, più prolungata e lenta che può progredire, arrestarsi o regredire, a volte fino alla completa guarigione… (Chiozza, L. A. ,1988).

A fronte dell’approccio culturale, secondo la tradizione occidentale, che si esprime attraverso la scissione tra mente e corpo, scissione sulla quale si innestano, secondo Galimberti (1983), le varie “antitesi dei valori“, tra ideale e sensibile, anima e corpo, vero e falso, bene e male, anche l’approccio al malato rientra in questa dicotomia potendo quindi essere studiato sia dal punto di vista medico tradizionale che dal punto di vista psicologico. Del rapporto tra psichico e somatico Freud si occupo‘ già in uno scritto del 1890, nel quale contrappose all’orientamento medico tradizionale, quello più recente che considerava non solo l’azione del corpo sulla psiche, ma anche della psiche sul corpo. (Favaretti Camposampiero, F., Di Benedetto, P., Cauzer, M. ,1998).

Wilhelm Reich (1942) elabora la sua teoria della “identità funzionale antitetica degli stimoli psichici e somatici…” ; è colpito dal fatto che …“un’esperienza psichica possa provocare uno stato di agitazione corporea tale da alterare in modo duraturo un organo“. Winnicott (1976) definisce la psiche come “elaborazione immaginativa delle parti somatiche dei sentimenti e delle funzioni, cioe‘ della vita fisica“. Secondo l’Autore, le possibili interferenze in questo processo e il fallimento dell’integrazione del Sé da luogo ad un “falso sé“ che può utilizzare un pensiero sradicato dal suo rapporto col corpo, con le sue funzioni, con gli istinti.

Quando abbiamo a che fare con un paziente che soffre di una malattia somatica, nei primi approcci con lui raccogliamo sia la sua storia “clinica”, che riporta i sintomi e l’evoluzione della malattia di cui il paziente ha sofferto o soffre attualmente, considerandoli come processi che derivano da una causa biologica per la quale è ricoverato e sottoposto a cure, sia la sua storia “biografica”, che presta attenzione agli episodi e ai fatti della sua vita, fatti che hanno avuto un peso nella costruzione del suo carattere, nell’evoluzione dei suoi meccanismi difensivi, nella possibile origine della patologia che lo ha colpito. “La sovrapposizione delle due storie ci rivela come quello che le persone tacciono con le labbra, non solo sono solite esprimere con gesti e atteggiamenti, ma pure con lo stesso funzionamento dei loro organi“ (Chiozza, L. A. ,1988).

L’ Autore ha sviluppato un particolare procedimento Psicoanalitico denominato Studio Patobiografico, con la finalità di includere nella cura del malato ciò che la psicoanalisi può fare se si propone come fine immediato di agire sulla malattia somatica nel “tempo breve“ che la necessità impone. Da questo studio, è possibile estrapolare alcune considerazioni sulle dinamiche psicologiche dei pazienti consultati: è importante tenere presente che il malato “costruisce una fantasia inconscia ed una teoria cosciente sulla sua malattia e sulla maniera in cui potrebbe guarirsi“.., analogamente, in lui “esiste una quota di speranza inconscia, riguardo alla possibilità di guarigione“. Inoltre“ Esiste sempre un fattore efficace e specifico scatenante la malattia attuale, il quale coincide cronologicamente con l’apparizione di tale malattia. Identificarlo, aiuta a comprendere un pò di piu’ il significato che la malattia attuale simbolizza.“ (Chiozza, L. A. ,1988). Lentamente, quindi, la malattia cessa di essere un fatto inaspettato e indesiderato, totalmente estraneo al soggetto, ma attraverso una personale elaborazione che riguarda anche gli aspetti caratteriali, corporei, esperenziali del malato stesso, diventa parte del percorso di vita. A sostegno della capacità di rinnovamento Winnicott (1949a) afferma che:

un crollo psichico costituisce spesso una manifestazione di salute in quanto implica una capacità da parte dell’individuo di servirsi dell’ambiente che ha a disposizione, al fine di porre di nuovo alla base della propria esistenza il sentimento di essere reale.

Ma la strada che conduce a un cambiamento, non sempre si percorre e spesso si rimane aderenti a meccanismi difensivi che ci allontanano dalla consapevolezza. E in questo percorso mentale e inconsapevole, è possibile che ciò a cui la mente resiste possa arrivare più rapidamente il corpo, e in questo caso particolare un organo d’elezione del corpo, quale il cuore, un organo che nei momenti di maggiore disperazione del malato può manifestare una voce e un affetto propri. Nei colloqui con il paziente è importante fare attenzione ad alcuni aspetti, aspetti non solo forniti dal colloquio che intercorre, ma anche dalle sensazioni che il malato trasmette e il rapporto che si realizza con lui.

Come afferma Reich (1933):

(…) nella maggior parte dei casi non solo si sottovalutano il comportamento, il modo di esprimersi, lo sguardo, il linguaggio, la mimica, l’abbigliamento, la stretta di mano, ecc. dei pazienti dal punto di vista del loro significato analitico, ma il piu‘ delle volte vengono del tutto ignorati. ...Oltre ai sogni, alle associazioni, ai passi falsi e alle altre comunicazioni, dei pazienti, meritano particolare attenzione i loro atteggiamenti, cioè il modo in cui raccontano i loro sogni, commentano i loro passi falsi, producono le loro associazioni e fanno le loro comunicazioni…Il come è altrettanto importante …del che cosa dice il paziente.

Secondo quanto affermato da A. Lowen:

La malattia del corpo è, anch’essa, una forma di linguaggio. Il corpo rappresenta un veloce veicolatore dei movimenti transferali e controtransferali: Insieme al corpo rappresentano il ponte attraverso il quale le idee e le sensazioni fluiscono tra due persone . .. Solo con umiltà e animo puro è possibile accostarsi ai sentimenti intimi e profondi di un essere umano (Lowen, A. ,1993).

A questo punto è fondamentale evidenziare il concetto di fiducia che si viene a costruire, un’ alleanza terapeutica e solidale che consente al paziente di appropriarsi di strumenti atti ad emergere dai contenuti depressivi di cui rimane vittima. Ricordiamo che il paziente cardiopatico e depresso tende ad essere resistente nei confronti della terapia farmacologia proposta e scarsamente collaborante di fronte all’indicazione di modificare lo stile di vita in modo appropriato, aumentando così ancora la probabilità di eventi cardiaci o di morte. Le persone malate di cuore, spesso sono pazienti che provano ed esprimono contenuti di solitudine profondissimi di fronte all’esperienza della malattia che li sottopone dolorosamente ad un confronto con il destino vissuto avverso e ineluttabile. Ne consegue che i loro sentimenti di annichilimento, di avversità, di solitudine, non possono fare altro che indurre contenuti depressivi e di disperazione che ricadono prepotentemente sulla qualità di vita sulla relazione terapeutica e sulla fiducia in essa.

I colloqui con i pazienti con malattia cardiaca: l’esperienza condotta presso il Reparto di Cardiologia dell’ ASL 1 Imperiese

Paziente di 63 anni. In lista di attesa per trapianto cardiaco. Paziente con aspettativa di vita della durata di 6 mesi. Il paziente è un grave cardiopatico che ha da diversi anni disturbi via via sempre più invalidanti. In occasione della proposta di trapianto di cuore da parte dei sanitari, si è sperato di poter affrontare tale proposta con largo anticipo, nel rispetto dei tempi di una elaborazione personale, senza lasciare in lui la sensazione di “perdita di tempo”. Il paziente non sentiva la sua malattia così grave e inizialmente appariva scarsamente collaborante e resistente a qualunque proposta terapeutica. Si trattava di un paziente con una corazza caratteriale in apparenza difficilmente scardinabile. Lasciava la sensazione di un possibile passaggio all’atto, qualora tale meccanismo difensivo fosse intaccato. Il concetto di corazza caratteriale introdotto da Reich nel libro “Analisi del carattere“, riconosce una sottostante rigidità caratteriologica parallela ad un atteggiamento psicologico corrispondente, il rischio è che si spezzi questa armatura lasciando emergere contenuti di angoscia molto profonda. Questo paziente aveva raggiunto una tale labilità nel suo equilibrio psicofisico come conseguenza della malattia, da lasciare poco margine a qualunque proposta di collaborazione e di relazione di aiuto e supporto.

Colloquio dopo tre mesi di relazione terapeutica il paziente è demoralizzato dell’attesa e della continua delusione per la mancanza di risposta dal Centro Trapianti dove è stato nuovamente inserito nelle liste. Il pensiero continua a tornare al precedente ricovero ed alla sensazione di aver perso una grossa opportunità nel momento in cui era stato dimesso, fuoriuscendo quindi drammaticamente dalla precedente graduatoria delle persone trapiantabili. Il decorso della sua elaborazione interna, pur mantenendo a tratti il contatto con la realtà, per il dolore provato, ha risvolti deliranti nei suoi ricordi, intaccando, nelle confabulazioni, sia la dimensione dello spazio che del tempo: ricordi che si sovrappongono a contenuti quotidiani, luoghi familiari che si sovrappongono alla stanza dell’ospedale; solo le relazioni affettive significative come i familiari riescono a colmare i vuoti e comprendere il senso dei suoi pensieri. Come afferma Luis Chiozza (1986) spesso si ritiene che la parte più importante dell’intelletto siano le idee, ma in realtà “Le uniche cose che, in senso stretto e rigoroso, importano, sono gli affetti…. L’affetto è l’importanza, la significanza del significato“.

Verso la fine della sua vita, quando la situazione clinica ha iniziato un declino evidente ed inarrestabile, il paziente si è ammalato psichicamente in modo molto grave e ha iniziato a delirare perdendo parzialmente il contatto con la realtà che lo circondava. “Le turbe del narcisismo… “ (quali possono essere le malattie somatiche gravi come in questo caso) ,“…possono esser fondate non soltanto su una perdita dell’investimento ma anche su una impossibilità di investire, o, meglio sulla perdita della capacità di investire .“ (Haynal, A. 1980.)

In modo disperato e delirante ha iniziato ad esprimere alte aspettative di guarigione, e a sviluppare una speranza incondizionata di fronte a qualunque proposta terapeutica. Per lui ogni atto terapeutico, anche una flebo somministrata nel reparto, rappresentava un trattamento estremamente rassicurante di presa in carico, di cura, di durata del ricovero, di “affiancamento” nel percorso e di garanzia di non abbandono. Il paziente con grave patologia cardiaca e una struttura caratteriale rigida, come in questo caso, è arrivato nel momento di maggiore disperazione, a utilizzare gli strumenti di cura e le manifestazioni della malattia, a scopo difensivo, per cui una abbondante minzione o un tremore diffuso hanno avuto esistenza come sintomi a sé stanti e non invece collegati alla malattia stessa, diventando quindi motivo di nuove preoccupazioni di altre malattie diverse da quella cardiaca. Frequentemente, di fronte a grandi dolori, il diniego inconscio, “la depersonalizzazione può essere considerata come una difesa contro affetti intollerabili“. (Haynal, A. ,1980 ).

Paziente 2 di 70 anni. Paziente con cardiopatia ischemica post-infartuale di una certa gravità. Si trattava di un forte fumatore con grande dipendenza dalla nicotina e nella sua vita aveva subito un grave lutto che lo aveva profondamente segnato compromettendogli la capacità di elaborazione della perdita. La sua patologia cardiaca viene spesso descritta dal paziente con tratti di eccessiva precocità, di arrivo inaspettato, imprevisto, con caratteristiche che lo hanno colto del tutto impreparato.

Colloquio nel corso della terapia psicologica all’interno del Reparto dove solitamente veniva ricoverato: descrive la sua malattia come una sorta di tradimento del corpo inducendogli forti regressioni e momenti di ipersensibilità a situazioni e fatti o anche nei confronti di spazi e ambienti che possono far insorgere in lui la sensazione di solitudine e di abbandono. Durante il colloquio, racconta di essersi trovato qualche giorno prima in una strada frequentata, ma solo da macchine in movimento e nessun pedone, e di essersi sentito male, aver avuto un forte attacco d’ansia, ed aver sviluppato l’intenzione di non voler più trovarsi in situazioni di isolamento così angoscianti e pericolose per la sua salvezza. Emergono fantasie di morte molto profonde, e contenuti di estrema vulnerabilità. Personalità estremamente dipendente, il suo stato depressivo evidenzia la sua impossibilità a reagire alla malattia . Come afferma A.Haynal, “L’affetto depressivo è dunque scatenato dalla perdita di qualcosa che fornisce la sicurezza di base e il benessere, al punto che ci si sente minacciati da questa perdita. Quando il conflitto interiore diventa troppo grande, l’individuo può abbandonare, rinunciare; egli entra allora nella costellazione della disperazione.“ (Haynal, A. ,1980).

Conclusioni

La letteratura sullo scompenso cardiaco tende a privilegiare i dati inerenti la dimensione somatica o biologica della malattia. A fronte della necessità di limitare per quanto possibile l’ospedalizzazione, si impone una più stretta e proficua collaborazione tra le diverse figure professionali. Tra queste collaborazioni si evidenzia la necessità dell’intervento psicologico di lettura e supporto per aiutare il paziente a dare voce a quella parte di sé carica di bisogni che chiede di essere ascoltata. “Ogni volta che compare un sintomo si perde qualcosa, e ogni volta che soffriamo di qualche malattia organica perdiamo quasi completamente la possibilità di accedere ai nostri sentimenti“ . (Chiozza , L. , 1988). L’esperienza di lavoro con pazienti affetti da gravi problemi cardiaci e l’attenzione a contenuti, gesti, affetti, che si evidenziano sia nei momenti empatici o di lettura controtransferale del vissuto del terapeuta, rappresentano una grande ricchezza di rilevazione, osservazione e comprensione dei fenomeni corporei in generale, ma soprattutto là dove l’organo malato è il cuore, si sperimenta una relazione umana molto pura, speciale anche nei momenti più difficili, che necessita di una particolare attenzione ai contenuti e a quanto espresso. Di fronte ad una malattia che “brucia“ il tempo, il cuore riesce a dare voce a contenuti profondi e drammatici della persona e della vita di quella persona, che probabilmente non sarebbero mai emersi. Come meglio descrive Luis Chiozza:

Il cuore è l’organo più adatto ad arrogarsi la rappresentazione delle emozioni, la cui rappresentazione particolare altri organi si aggiudicano …Il cuore, pertanto, si aggiudica la rappresentazione generale degli affetti ma, soprattutto, quella del tempo primordiale, che è il tempo dell’istante qualitativamente colorato da un tono affettivo che gli conferisce importanza…. Il cuore è rispetto al tempo, ciò che l’occhio è rispetto allo spazio….Quando diciamo che il cuore “ricorda“ o pre-sente, è perché gli aggiudichiamo la rappresentazione di un protoaffetto. (Chiozza, L. A., 1988).

I bambini con malattie somatiche croniche e il benessere mentale

Secondo uno studio recente pubblicato in BMJ Open, i bambini presentano comunemente segni di difficoltà psicologica subito dopo aver ricevuto una diagnosi che riguarda una condizione fisica cronica

Lucia Marangia

 

La scoperta di una malattia fisica cronica nei bambini e gli effetti psicologici

I ricercatori dell’Università di Waterloo hanno esaminato i bambini di età compresa tra i 6 e i 16 anni e tutti entro un mese dalla diagnosi di asma, allergia alimentare, epilessia, diabete o artrite giovanile.

Secondo le risposte dei genitori a un’intervista standardizzata, il 58% dei bambini è risultato positivo per almeno un disturbo mentale.

Questo è il primo studio nel suo genere per reclutare bambini con condizioni diverse, e così presto dopo la diagnosi. Questi risultati mostrano che il rischio per lo sviluppo di problematiche psicopatologiche è relativamente lo stesso tra i bambini con condizioni croniche fisiche di diversa entità, ha detto Mark Ferro, professore alla School of Public Health and Health Systems di Waterloo e Canada Research Chair in Youth Mental Health.

Indipendentemente dalla loro condizione, i bambini con problemi di salute fisica cronica subiscono un calo significativo della loro qualità di benessere mentale nei primi sei mesi dopo aver ricevuto la loro diagnosi, indicando la necessità di servizi di salute mentale nella fase iniziale.

Sei mesi dopo la diagnosi, il numero di bambini che mostravano segni e sintomi psicopatologici è sceso leggermente al 42%. I disturbi d’ansia erano più comuni, tra cui ansia da separazione, ansia generalizzata e fobie.

Secondo Alexandra Butler, studentessa laureata alla Waterloo e autrice principale dell’articolo, è possibile che il numero sia più alto molto presto perché c’è una certa incertezza attorno alla prognosi, o domande senza risposta sulla gestione e sul trattamento. I ricercatori hanno scoperto che l’età e il sesso non hanno avuto alcun impatto sui risultati.

Carl Gustav Jung, il padre della psicologia analitica – Introduzione alla Psicologia

Carl Gustav Jung diede vita alla psicologia analitica, secondo la quale lo scopo clinico è riportare il soggetto alla realtà liberandolo dai disturbi patogeni. Nel 1928, Carl Gustav Jung affermò che l’inconscio è composto da immagini, gli archetipi, che determinano lo psichismo, e la cui rappresentazione simbolica si esprime attraverso i sogni, l’arte e la religione. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

 Carl Gustav Jung nasce il 26 luglio del 1875 a Kesswil, sul lago di Costanza in Svizzera da Paul Achilles Jung (1842 – 1896), teologo e pastore protestante, e da Emilie Preiswerk (1848-1923) a Kesswil, nel cantone svizzero di Turgovia. Successivamente, la famiglia di Jung si trasferì a Sciaffusa e nel 1879 a Klein Hüningen, dove il padre diventò rettore della Pieve, esercitando poi anche la funzione di cappellano nel manicomio della città.

Carl Gustav Jung rimase figlio unico per nove anni, fino alla nascita della sorella, nel 1884, Johanna Gertrud, detta Trudi. Nel 1895 Jung si iscrisse all’Università di Basilea dove conseguì la laurea in Medicina nel 1902, sostenendo una tesi “Sulla psicopatologia dei fenomeni detti occulti” nella quale analizzò il caso di una giovane medium, sua cugina, e delle sue esperienze di spiritismo. Nel dicembre 1900 cominciò a lavorare all’istituto psichiatrico di Zurigo, il Burghölzli, diretto da Eugen Bleuler. Nell’inverno 1902-1903 Carl Gustav Jung fu a Parigi per frequentare le lezioni di Janet. Nel 1903 sposò Emma Rauschenbach, figlia di un ricco industriale, dalla quale ebbe quattro figli e rimase con lui fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1905 divenne libero docente all’Università di Zurigo, dove rimase fino al 1913. Tra il 1904 e il 1907 pubblicò vari studi sul test di associazione verbale e nel 1907 il libro Psicologia della dementia praecox.

Contemporaneamente, iniziò a lavorare nell’ ospedale psichiatrico di Zurigo, diventando un esperto di psicosi. In quegli anni, Carl Gustav Jung si appassionò alle osservazioni cliniche sulle associazioni verbali e studiò le idee fisse e i complessi. Nel 1907, dopo avere fatto pervenire a Freud il suo saggio “Studio diagnostico delle associazioni”, si recò a Vienna per incontrarlo. Fu il punto di avvio di un’amicizia profonda, che durò dal 1907 al 1913, e di una lunga corrispondenza, si scambiarono circa 359 lettere. Per Freud, Jung era il suo papabile erede e colui che avrebbe potuto portare la psicoanalisi fuori da Vienna. Carl Gustav Jung, però, aveva già sviluppato una concezione dell’inconscio e dello psichismo distante da quella freudiana, ed era in disaccordo sulle nozioni di sessualità infantile, di complesso di Edipo e libido, nonostante era totalmente affascinato dalla personalità di Freud e dalla sua opera.

Tra il 1907 ed il 1909, Jung fondò la “Società Sigmund Freud “di Zurigo e la rivista “Annali di ricerche psicanalitiche e psicopatologiche“, prima rivista ufficiale del movimento psicanalitico. Nel 1907, pubblicò “Psicologia della demenza precoce” e due anni dopo, accettando l’invito delle Clark University di Worcester nel Massachusetts, effettuò con Freud un giro di conferenze negli Stati Uniti. Tuttavia, nonostante continuava ad impegnarsi nella psicoanalisi, Carl Gustav Jung attestava ed approfondiva le sue teorie e la pubblicazione “Metamorfosi e simboli della libido” nel 1912, che diventerà nel 1953 “Metamorfosi del cuore ed i suoi simboli” definì la rottura definitiva con Freud.

La teoria di Carl Gustav Jung

La principale causa della rottura tra Jung e Freud fu il rifiuto, da parte di Jung, del pansessualismo freudiano, ovvero la concezione secondo cui al centro del comportamento psichico degli individui vi è l’istinto sessuale. Carl Gustav Jung sosteneva che il comportamento dell’uomo non è condizionato soltanto dalla sua storia individuale e come membro della razza umana, ma anche dalle sue aspirazioni e scopi; sia il passato come realtà, sia il futuro come eventualità, guidano il comportamento presente.

Carl Gustav Jung diede vita alla psicologia analitica, secondo la quale lo scopo clinico è riportare il soggetto alla realtà liberandolo dai disturbi patogeni. Nel 1928, Carl Gustav Jung affermò che l’inconscio è composto da immagini, gli archetipi, che determinano lo psichismo, e la cui rappresentazione simbolica si esprime attraverso i sogni, l’arte e la religione.

La personalità o psiche

La personalità è formata da un certo numero di istanze, separate ma interagenti tra loro. Queste istanze sono:

  • L’Io, ovvero la mente cosciente
  • L’Inconscio personale, formato dalle esperienze rimosse, da quelle troppo deboli per lasciare una traccia cosciente nella persona e dai complessi, che indicano un contesto psichico attivo i cui molteplici elementi, sentimenti- pensieri-percezioni-ricordi, sono unificati dalla comune tonalità affettiva (ad esempio il complesso materno).
  • Inconscio collettivo, base della psiche, struttura immutabile propria dell’insieme dell’umanità. Esso appare come il magazzino di tracce latenti provenienti dal passato ed è il residuo psichico dello sviluppo evolutivo dell’uomo, accumulatosi in seguito alle ripetute esperienze di innumerevoli generazioni. Quindi, dal momento che gli esseri umani hanno sempre avuto una madre, ogni bambino nasce con la predisposizione a percepirla e a reagire ad essa. L’esperienza personale è, dunque, influenzata dall’inconscio collettivo attraverso un’azione diretta sul comportamento dell’individuo sin dall’inizio della vita. Nell’inconscio collettivo sono presenti gli Archetipi, ovvero forme universali di pensiero dotato di contenuto affettivo. Tali forme di pensiero generano immagini o visioni che corrispondono, nel normale stato di vigilanza, ad alcuni aspetti della vita cosciente. Tra gli archetipi troviamo: l’animus, immagine del maschile; l’amima, immagine del femminile; il Selbst, il Sé, se stesso. Ad esempio il bambino eredita una concezione preformata di avere una madre, che in parte determina la percezione che egli avrà dalla propria madre. In tal modo, l’esperienza del bambino è il risultato finale di una predisposizione interna a percepire il mondo in un determinato modo e della reale natura che possiede questa realtà.
  • La Persona, ovvero una maschera che l’individuo porta per rispondere alle esigenze della società nella quale è immerso. Essa costituisce il ruolo che l’individuo svolge, cioè il compito che si attenda possa svolgere attraverso un ruolo sociale. La persona è rappresentato dalla personalità pubblica, quegli aspetti che si palesano al mondo o che l’opinione pubblica attribuisce all’individuo, in opposizione alla personalità privata che esiste dietro alla facciata sociale.
  • L’Ombra, consiste negli istinti animali ereditati dall’uomo nella sua evoluzione, ovvero il lato animalesco della natura umana.

I tipi psicologici

Nel 1921 Carl Gustav Jung pubblica il suo libro più importante, “Tipi psicologici”, in cui parla della personalità, o psiche, e attribuisce un posto centrale al Selbst (Sé), intorno a cui si raggruppano tutti gli altri sistemi psichici. Il Selbest funge da collante e garantisce alla personalità l’equilibrio e l’unità.

Jung concepiva la personalità come un sistema dotato di energia e parzialmente chiuso, perché a esso si aggiunge l’energia proveniente da fonti esterne. Per spiegare la dinamica della personalità, Jung ricorre al concetto della libido, che per Freud rappresentava un insieme di tendenze sessuali dell’uomo, mentre per Jung è sinonimo di energia psichica e può essere rivolta verso l’interno o verso l’esterno.

Jung individua quattro funzioni psicologiche:

  1. Il pensiero attraverso il quale l’uomo cerca di comprendere la natura del mondo e sé stesso e utilizza processi logici;
  2. Il sentimento, che rappresenta il valore delle cose in rapporto al soggetto e apporta dei giudizi di valore
  3. La sensazione che ha la funzione percettiva dei fatti o rappresentazioni concrete del mondo.
  4. L’intuizione, ovvero la percezione attraverso i processi dell’inconscio, e permette di elaborare modelli della realtà che esulano dai fatti.

Il pensiero e il sentimento sono denominati funzioni razionali, poiché fanno uso del ragionamento. La sensazione e l’intuizione sono funzioni irrazionali, perché basate sulla percezione del concreto e del particolare.

Carl Gustav Jung distingue due tipi di atteggiamenti: introversione, in cui si orienta l’energia psichica verso il mondo interiore, pensieri ed emozioni; l’estroversione in cui si orienta la sua energia verso il mondo esteriore, fatti e persone. Ambedue questi opposti atteggiamenti sono presenti nella personalità, ma di regola uno di essi è dominante e cosciente, mentre l’altro è subordinato e inconscio. Le funzioni psicologiche si sviluppano, dunque, in ciascun individuo in maniera diversa e derivano da una alternanza tra introversione ed estroversione, processo che conduce all’unità della personalità attraverso il gioco della metamorfosi. L’oscillazione tra un estremo o l’altro determinano il manifestarsi di un diverso tipo psicologico.

Jung individuò il principio di equivalenza, secondo il quale se un valore diviene più debole o scompare, la quantità di energia a esso legata non andrà perduta per la psiche, ma riapparirà in un nuovo valore, e quello di entropia, ovvero la distribuzione di energia nella psiche tende a un equilibrio o armonia. Fra due valori di diversa forza, l’energia tenderà a passare dal più forte al più debole fino a raggiungere uno stato di equilibrio. Tutta l’energia psichica di cui la personalità dispone è utilizzata per due fini generali: svolgimento del lavoro necessario al mantenimento della vita e alla propagazione della specie. Queste due funzioni istintive raggruppano gran parte dell’energia, e la rimanete può essere impiegata in attività culturali e spirituali.

Lo sviluppo

Per Carl Gustav Jung lo sviluppo può svolgersi in senso progressivo ovvero soddisfacente per l’io, se riesce a rispondere alle richieste dell’ambiente esterno e ai bisogni dell’inconscio. Invece, se un evento frustrante dovesse interrompere il movimento progressivo dell’io, la libido non potrà più essere investita in valori orientati verso il mondo o estroversi, di conseguenza regredirà verso l’inconscio legandosi a valori introversi e portando al manifestarsi di disagio mentale.

Il fine ultimo dello sviluppo, secondo Jung, è determinato dall’autorealizzazione. Per raggiungere questo scopo è necessario che le diverse istanze della personalità si differenzino ed evolvano completamente determinando una personalità sana. Il processo attraverso il quale si raggiunge tale stato è detto processo di individuazione. La funzione trascendente permette di conciliare i poli opposti dei diversi sistemi e di operare per raggiungere la totalità perfetta. L’energia psichica può essere spostata attraverso la sublimazione, ovvero spostamento dell’energia dai processi primitivi, istintivi e meno differenziati, a processi altamente spirituali, culturali e maggiormente differenziati.

Gli ultimi anni di Carl Gustav Jung

Carl Gustav Jung, negli ultimi anni della sua vita, si dedica essenzialmente all’attività psicoterapeutica privata, a lunghi viaggi, alla rielaborazione delle sue teorie e alla stesura di saggi. L’approccio terapeutico di Jung consiste, in breve, nel riconciliare le forze opposte all’interno della personalità, non solo estroversione ed introversione, ma anche sensibilità e intuizione, emozioni e pensiero razionale. Attraverso la comprensione dell’integrazione tra inconscio personale e inconscio collettivo, la terapia permette di arrivare ad uno stato di individuazione o interezza di sé.

Nel 1944 si trasferisce nuovamente a Basilea dove ottiene la cattedra di Psicologia medica. Il 6 giugno del 1961, Carl Gustav Jung muore a Kusnacht, sulle rive del lago, nei pressi di Zurigo dove ha trascorso i suoi ultimi anni. La sua casa è ancora oggi meta di pellegrinaggi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La connessione tra auto-compassione e maggiore benessere psicologico e cognitivo – Ricerca

Analisi recenti della psicologia positiva hanno dimostrato un’importante connessione tra auto-compassione (self-compassion) e maggiore benessere psicologico e cognitivo.

Luciano Cavallo School of Psychology, University of East London

 

L’autocompassione migliora il benessere dei dipendenti

Un programma di formazione online é a disposizione gratuitamente nel ramo della tesi sottostante.

L’obiettivo è di esaminare come l’allenamento quotidiano di 5 – 10 minuti di autocompassione possa migliorare il benessere dei dipendenti. Auto-compassione si riferisce ad un atteggiamento positivo nei confronti della propria persona in situazioni di vita difficili. Questo tratto di personalità ha dimostrato di essere un efficace fattore protettivo che ha portato ad una maggiore capacità di recupero emotivo e benessere.

Informazioni dettagliate sul progetto di ricerca sono disponibili su http://www.applied-positive-psychology.ch/ fino al 15 Aprile 2018 in lingua inglese e tedesco usando la scala del benessere di Dr. Ryff (SPW; Ryff & Singer, 1998) come anche la scala di autocompassione SCS di Dr. Neff (Neff, 2003). Il sito web non contiene elementi pubblicitari e il contenuto del sito web è strutturato in modo semplice.

La Sindrome Premestruale: riflessione sulla relazione con i disturbi affettivi

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte gravi e disabilitanti.

Federica Bonazzi – Gianfranco Marchesi

 

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. In molti studi i ricercatori hanno tentato di tracciare un profilo psicologico specifico delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale giungendo, a volte, a risultati contrastanti. L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte così gravi e disabilitanti dal punto di vista affettivo, cognitivo e delle prestazioni, da essere sovrapponibili a quelli riferiti da pazienti affetti da depressione.

Introduzione

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. Si stima che la percentuale di donne in età fertile afflitta in modo serio da questo disturbo vari dal 2% al 10%, mentre la percentuale di donne che riferisce sintomi più lievi oscilla, a seconda degli studi, dal 30% all’80%. (Beni et al., 2000 ).

Le superstizioni, le credenze religiose e mitiche hanno attraversato i secoli portando con sé il concetto che la donna è impura, pericolosa ed imprevedibile a scadenze mensili, concetto che può in parte spiegare perché, fino a non molto tempo fa, i disturbi che le donne esperivano prima della mestruazione siano stati del tutto ignorati dalla scienza e trascurati dalla donna stessa.(Beni et al., 2000 ). È stato nel corso del XX secolo che, dapprima con una definizione generica di “tensione premestruale” e successivamente con l’adozione del termine “Sindrome Premestruale“, che questi sintomi hanno via via acquisito una propria dignità nosografica. Nel 1987 la Sindrome Premestruale è diventata una categoria diagnostica a sé stante ed è stata introdotta nella sezione dei “Disturbi Depressivi Non Altrimenti Specificati” della III Edizione Rivisitata del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III-R) e ridefinita come “Disturbo Disforico della Tarda Fase Luteinica” (LLPDD) nel tentativo di standardizzarne i criteri diagnostici che, nel corso degli anni, avevano abbracciato un elevatissimo numero di sintomi (APA, 1987). Attualmente, il DSM-IV-TR (APA, 2000), rifacendosi alla PMS, parla di “Premenstrual Dysphoric Disorder” e lo include in appendice B “Criteri e Assi utilizzabili per ulteriori studi”.

Sindrome Premestruale: cenni storici

Per molto tempo le donne sono state abituate a ritenere i disturbi derivanti dalla Sindrome Premestruale (PMS) come un’inevitabile sofferenza facente parte della vita, dell’essere donna e, di conseguenza, si sono considerate tenute ad accettarli senza porvi alcun rimedio. Sin dall’antichità, le modificazioni somatopsichiche associate a questa fase del ciclo mestruale sono state fonte di pregiudizio; già nella “Storia Naturale” di Plinio si legge infatti che le donne in età fertile venivano considerate impure e causa di danni alle coltivazioni, ai frutteti, agli animali domestici e che erano ritenute incapaci di controllare i propri impulsi a causa dell’effetto delle oscillazioni ormonali sulla psiche.

Fu Robert I. Frank che, nel 1931, riferendosi alla “tensione premestruale” descrisse un quadro clinico vero e proprio caratterizzato da sintomi sia fisici che psichici. Egli collegò questi disturbi alla fase luteinica del ciclo e li attribuì alla ritenzione, nell’organismo femminile, di ormoni sessuali che aveva rinvenuto in quantità inferiori alla norma nelle urine nelle donne in fase premestruale.

Il termine di “Sindrome Premestruale” è stato introdotto nel 1953 da Greene e Dalton e ad essa sono stati attribuiti, da allora, più di 150 sintomi che vanno ad abbracciare ambiti multidisciplinari: dalla ginecologia all’endocrinologia, dalla dermatologia alla neuropsichiatria. Nella sua accezione più ampia la Sindrome Premestruale può essere definita come “la ricorrenza ciclica, nella fase luteinica del ciclo mestruale, di una combinazione di disagio fisico, psicologico e/o di cambiamenti comportamentali di gravità sufficiente a condurre ad un deterioramento delle relazioni interpersonali e/o ad un’interferenza con le attività normali” (Reid R.L., 1985).

Sulla Sindrome premestruale sono fiorite successivamente le più varie ipotesi interpretative e terapeutiche. D’altro canto, il suo impatto sociale crescente è dimostrato dal riconoscimento che tale categoria diagnostica ha assunto sul lavoro (come fattore di assenteismo) ed in ambito giuridico (essendo utilizzata sia nelle cause di divorzio ed affidamento di minori, sia, come attenuante, nei processi per atti criminali, da rapine ad omicidi).

Ipotesi Diagnostica

Nonostante i numerosi tentativi di inquadrare nosograficamente la Sindrome Premestruale, le controversie non sono state facilmente superate e, nel 1983, si è costituito un gruppo di studio americano per definire uniformemente i criteri temporali e clinici dei disturbi psichici ad essa associati. Nel 1988 la Sindrome Premestruale è stata inclusa dall’American Psychiatric Association nel DSM-III-R e rinominata “Disturbo Disforico di Tarda Fase Luteinica” (LLPDD) (APA, 1987). Attualmente, lo stesso gruppo di studio ha modificato ulteriormente il nome del LLPDD che, nel DSM-IV TR, è definito come “Disturbo Disforico Premestruale” (PMDD) ed è compreso, come esempio di disturbo depressivo, tra le patologie che richiedono un ulteriore studio. Nell’ultima versione, rispetto a quella precedente, sono state aggiunte, tra i sintomi, la “sensazione soggettiva di essere senza controllo” e, tra i criteri diagnostici, l’esistenza di un periodo senza sintomi che corrisponde alla settimana successiva alle mestruazioni (APA, 1994). A tutt’oggi, anche se la diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale è stata inclusa nel DSM-IV, sono veramente pochi gli articoli pubblicati che utilizzano questi criteri; la maggior parte di essi si rifà ancora a criteri generali di Sindrome Premestruale.

Il DSM-IV TR stabilisce che, per porre diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale, ci devono essere almeno cinque sintomi uno dei quali deve essere di ordine psichico fra umore depresso, ansia intensa, labilità affettiva, irritabilità e perdita di interesse per le attività abituali. I sintomi devono insorgere nel corso della settimana antecedente la comparsa delle mestruazioni ed iniziare a diminuire pochi giorni dopo l’inizio delle mestruazioni stesse. La durata di tali disturbi può variare pertanto da qualche giorno fino a due settimane. I sintomi cessano poi con la comparsa del ciclo mensile o poco dopo, per lasciare spazio ad un intervallo completamente libero da sintomi. Questi disturbi sono pertanto strettamente correlati al ciclo mestruale e, secondo questo criterio, la diagnosi può essere formulata allorquando la sintomatologia riferita retrospettivamente dalla donna si ripresenta regolarmente nella maggior parte dei cicli per diversi anni e viene confermata da valutazioni prospettiche durante almeno due cicli sintomatici. La diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale richiede, inoltre, che il disturbo non sia l’esacerbazione di una patologia psichiatrica preesistente quale Disturbo Depressivo Maggiore, o Disturbo di Panico, Disturbo Distimico, o un Disturbo di Personalità, né possa essere attribuito ad una condizione medica o ginecologica (endometriosi, fibromi, menopausa o anomalie endocrine) sottostante.

Cenni fisiologici

Nelle donne in età fertile la mestruazione indica sia il culmine che il rinnovamento di un ritmo neuroendocrino mensile estremamente complesso, che ha come fine ultimo la liberazione di un ovulo e la predisposizione dell’ambiente uterino ad accogliere e a consentire l’instaurarsi di una gravidanza. Il ciclo mestruale si suddivide in due parti: la fase follicolare e la fase luteinica. La fase follicolare, che corrisponde alla prima metà del ciclo ed inizia con la mestruazione, è caratterizzata dalla maturazione di numerosi follicoli ovarici sotto l’influenza degli ormoni follicolo-stimolante e luteinizzante.

Da questo gruppo di follicoli, uno solo emerge, a metà della fase follicolare, come dominante (o graafiano) e come principale fonte di secrezione di estradiolo nella fase follicolare tardiva. Dopo l’ondata di secrezione di gonadotropine della fase preovulatoria, ha luogo l’ovulazione che segnala l’inizio della seconda parte del ciclo mestruale, la fase luteinica. Ciò che resta dell’ovulo non fecondato è il corpo luteo che, secernendo estradiolo e progesterone, determina il picco di tali ormoni che si osserva 5-8 giorni dopo il picco delle gonadotropine (Vaitukaitis e Coll., 1984).

La Sindrome Premestruale può esordire a qualunque età dopo la prima mestruazione, ma l’età media riconosciuta in diversi studi è di 26 anni. Con il tempo, verosimilmente a causa delle continue oscillazioni ormonali, la sintomatologia tende a peggiorare e a protrarsi per un periodo di tempo via via maggiore. Le donne che riferiscono con minore frequenza disturbi da Sindrome Premestruale sono infatti quelle che sono state esposte di meno alle suddette fluttuazioni grazie ad un numero maggiore di gravidanze o all’assunzione di contraccettivi orali. L’isterectomia senza l’asportazione delle ovaie non allevia i sintomi premestruali più marcati, la cui comparsa può essere documentata dalle modificazioni dell’escrezione urinaria degli steroidi sessuali ( Beni et al., 2000).

Ipotesi Eziologiche

È opinione ormai accettata che la Sindrome Premestruale sia dovuta ad una concomitanza di diversi fattori, socioculturali, psicologici e biologici che, agendo sinergicamente, ne determinano il quadro clinico.

Fattori socioculturali

Come già accennato nell’introduzione di questo lavoro, le credenze, gli atteggiamenti culturali e religiosi radicati nei confronti delle mestruazioni, hanno ancora oggi importanza determinando, nella maggior parte delle donne, una predisposizione negativa a questa fase del ciclo riproduttivo (Monechi, 2004). In un’indagine su come le mestruazioni vengono percepite dalla donna stessa, si è evidenziato come esse siano ritenute un evento comunque negativo durante il quale il sesso femminile esperisce sintomi fisici e psichici, la cui entità viene sovente sopravvalutata. Nella Sindrome Premestruale, inoltre, accade quanto si è visto accadere anche nella menopausa: l’esperienza materna di queste fasi del ciclo riproduttivo influisce in modo determinante sull’atteggiamento che avrà la figlia. Così, se una madre ha vissuto in modo traumatico ed imbarazzato il proprio menarca e non ha preparato adeguatamente la figlia, oppure se ha contribuito ad assecondare la vergogna e le limitazioni del comportamento che spesso vi vengono associate, la stessa figlia sarà più propensa a mettere in atto gli stessi atteggiamenti negativi. Non meno importante è, per una donna, il ruolo del proprio compagno nel confermare il rifiuto delle mestruazioni trattandole alla stregua di una malattia (Beni et al., 2000).

Fattori Psicologici

In molti studi i ricercatori hanno tentato di tracciare un profilo psicologico specifico delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale giungendo, a volte, a risultati contrastanti. Alcuni, infatti, riscontrano un disagio più accentuato in chi non accetta il ruolo femminile tradizionale; altri riferiscono che questa sintomatologia è maggiore nelle donne più tradizionaliste e conservative.

Generalmente, le donne con Sindrome Premestruale sono comunque più dubbiose, più apprensive ed emotivamente instabili, con poca autostima, poca fiducia in se stesse ed un forte bisogno di conferme da parte degli altri. Secondo uno studio del 1989 di Harrison e coll., se è possibile isolare un preciso gruppo di donne che risponde ai criteri del DSM per la Sindrome Premestruale, coloro le quali richiedono aiuto e trattamento per disturbi attribuiti alla Sindrome Premestruale, sono ad alto rischio per uno o più disturbi psichiatrici concomitanti e dovrebbero essere valutate attentamente.

Molto spesso la Sindrome Premestruale viene associata alla presenza di fattori stressanti concomitanti e ciò va a sostegno di una genesi prevalentemente psicologica del disturbo. Tuttavia alcuni Autori (Trunnel e coll., 1988), confrontando un gruppo di donne affette da Sindrome Premestruale con un gruppo di controllo, non hanno trovato che le prime attribuivano sentimenti negativi a particolari eventi biologici né che avevano, verso tali eventi, atteggiamenti particolari. Questa scoperta conferma l’esistenza di un disturbo specifico della fase luteinica, il quale si sviluppa su di una base libera da malattie psichiatriche ed è in contrasto con le teorie psicologiche e socioculturali fin qui esposte.

Fattori biologici

Le teorie che hanno cercato di spiegare l’origine biologica dei disturbi psico-fisici in corso di Sindrome Premestruale sono molteplici e, verosimilmente, tale sindrome non presenta un meccanismo eziopatogenetico univoco.

Tra le ipotesi più accreditate vi è quella che attribuisce importanza agli steroidi gonadici, estradiolo e progesterone, le cui oscillazioni regolano il ciclo mestruale. Già Frank (1931) imputava i disturbi in fase premestruale ad un eccesso di estrogeni e, sulla base di questa teoria, egli trattava le donne affette da Sindrome Premestruale con ovariectomia o con l’applicazione di radiazioni sulle gonadi femminili allo scopo di ridurre l’entità della loro secrezione. Tuttavia, la seconda metà del ciclo mestruale è caratterizzata da un declino del livello degli ormoni sessuali, pertanto questa teoria non può essere confermata. Ciononostante, la clinica sottolinea una stretta correlazione tra sintomatologia e fasi del ciclo riproduttivo ed è ormai accreditata l’azione di estrogeni e progesterone sul tono dell’umore: i primi lo migliorano in fase preovulatoria mentre il secondo ha un’azione sedativa e lievemente depressogena.

Tale correlazione potrebbe riguardare un effetto ritardato degli steroidi sessuali sul ricambio, nei centri ipotalamici, dei neurotrasmettitori. Questi, infatti, modulano gli ormoni riproduttivi e potrebbero indurre i sintomi di una sindrome premestruale o anche influire sui centri di controllo dell’umore e del comportamento. Altre ipotesi sulle disfunzioni endocrine, riguardano un deficit di progesterone in tarda fase luteinica, un alterato rapporto estrogeni/progesterone o un’alterazione del suo metabolismo. I livelli più bassi di progesterone riscontrati in alcune donne affette da Sindrome Premestruale, riflettono un’alterata funzionalità del corpo luteo che insorge a causa del suo mancato sviluppo. Una secrezione inadeguata di progesterone in fase luteinica, dovuta a difetti di secrezione, metabolizzazione, escrezione e ad interazione con altre sostanze (alcune prostaglandine favoriscono la luteolisi e quindi riducono la secrezione di progesterone), è stata associata con un livello di soglia del dolore più basso in alcune donne, le stesse che traggono beneficio dalla terapia con progestinici. Anche un eccesso di testosterone è stato correlato alla Sindrome Premestruale, ma i risultati dei vari studi non sono stati univoci (Beni et al., 2000).

Un’alterazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, con un eccesso di quest’ultimo e conseguente maggior riassorbimento di sodio, e quindi ritenzione idrica, è stata chiamata in causa nella sintomatologia della Sindrome Premestruale, considerando il fatto che molte donne lamentano proprio ritenzione idrica e gonfiore come disturbi principali. Le variazioni dell’umore potrebbero essere dovute all’influenza che questo asse ormonale ha sui neurotrasmettitori cerebrali. La fluttuazione dei livelli di estradiolo è risultata correlata alle vampate di calore, all’umore depresso e alla mancanza di sonno.

Si è anche considerata l’influenza della prolattina, i cui livelli sono più alti nelle donne affette da Sindrome Premestruale, come fattore eziopatogenetico in questo disturbo. Tale ormone, oltre ad avere un’azione diretta sulla mammella, a carico della quale molte donne lamentano disturbi in corso di Sindrome Premestruale, agisce anche sulle ovaie, causando un’alterazione del corpo luteo con conseguente deficit di progesterone (Beni et al., 2000).

Secondo l’ipotesi che imputa la Sindrome Premestruale all’azione dei neuropeptidi centrali, le donne affette da Sindrome Premestruale avrebbero un’alterata secrezione ed un’ipersensibilità alle beta-endorfine, le quali hanno un effetto stimolante su prolattina ed inibente sulle gonadotropine, ed ai peptidi alfa-MSH, subordinati alla secrezione ciclica di steroidi ovarici, nel corso della fase luteinica del ciclo. In queste donne la secrezione di beta-endorfine, più bassa, agirebbe, in fase luteinica, sulla modulazione del tono dell’umore, sul comportamento e sulle interazioni neurotrasmettitoriali a livello ipotalamoipofisario (Beni et al., 2000).

Altri fattori eziopatogenetici di ordine biologico indicati per spiegare la Sindrome Premestruale, sono la ridotta disponibilità di vitamina B6 ed un deficit di prostaglandine: la prima è un importante cofattore nella trasformazione metabolica di acidi aminici ed è coinvolta nella decarbossilazione del 5-idrossitriptofano a 5-idrossitriptamina e dopamina; le seconde agiscono causando vasodilatazione e ritenzione idrica durante il ciclo mestruale (Beni et al., 2000).

Tra le ipotesi biochimiche cui si è prestata recentemente maggiore attenzione per spiegare la Sindrome Premestruale, c’è quella delle alterazioni del sistema serotoninergico (Halbreich e Tworek, 1993) che, come è noto, è coinvolto nella percezione del dolore, nella depressione, nell’assunzione di cibo e nel comportamento aggressivo. Ricerche effettuate in vitro su piastrine (le quali hanno diverse analogie biochimiche e farmacologiche con i terminali pre-sinaptici contenenti serotonina) per valutare alterazioni ciclo-correlate della serotonina, hanno dimostrato un’influenza in senso inibitorio degli steroidi sessuali su queste con una riduzione della ricaptazione di serotonina ed un suo ridotto livello ematico. La maggior parte degli studi ha riscontrato una riduzione della ricaptazione della serotonina limitata alla fase luteinica, secondo alcuni Autori a causa di un ridotto numero di trasportatori di membrana per la serotonina o di un’alterazione del gradiente ionico transmembrana (Ashby et al., 1988). Inoltre, dal momento che le modificazioni di ricaptazione della serotonina da parte delle piastrine sono contemporanee alla sintomatologia, è possibile che siano ad essa causalmente correlate. È stato anche visto che la somministrazione di agonisti serotoninergici induce un’elevazione del tono dell’umore; per contro, la somministrazione di sostanze che diminuiscono l’attività della serotonina, provoca irritabilità ed evitamento sociale, sintomi che ritroviamo nella Sindrome Premestruale. Queste medesime alterazioni vengono trovate anche in altri pazienti psichiatrici, nei depressi e nei maniaco-depressivi, aspetto che giustifica ancor di più la correlazione fra serotonina e sintomatologia nella Sindrome Premestruale (Bhatia et al., 2002).

Alcuni ricercatoi hanno anche studiato altri neurotrasmettitori: Parry et al.,(1989) in un loro lavoro su dopamina e noradrenalina, hanno evidenziato come, nel liquido cefalo-rachidiano, i livelli del metabolita MetossiIdrossiFenilGlicole (MHPG) siano significativamente più elevati nella fase luteinica di pazienti affette da Sindrome Premestruale rispetto a controlli sani, suggerendo un ruolo del sistema noradrenergico in questa sindrome. Un ruolo non bene definito potrebbe essere attribuito anche all’Acido Gamma-Aminobutirrico (GABA), i cui livelli sono più bassi, in particolare in fase luteinica, nelle donne con Sindrome Premestruale.

Indubbiamente, tra le donne affette dalla sindrome, si può riscontrare l’alterazione di uno o più sistemi ormonali o neurotrasmettitoriali sopracitati, ma rimane da determinare se queste siano primarie o secondarie alla sindrome stessa. Inoltre, non è chiaro se le teorie sopra citate siano significative per la genesi della forma più severa della sindrome premestruale, e quali di esse siano rilevanti ai fini della comprensione delle variazioni del tono dell’umore (Beni et al., 2000).

Relazione tra Sindrome Premestruale e disturbi affettivi

L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte così gravi e disabilitanti dal punto di vista affettivo, cognitivo e delle prestazioni, da essere sovrapponibili a quelli riferiti da pazienti affetti da depressione (Bhatia et al., 2002). Il fatto stesso che i sintomi più spesso riferiti siano prevalentemente di ordine psichico, affettivi in particolare (depressione, disforia, irritabilità, ansia), ha fatto propendere per l’esistenza di una correlazione tra Sindrome Premestruale e disturbi psichiatrici specifici. Nonostante il DSM-IV-TR sottolinei la possibilità di fare diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale solo quando non vi sono altri disturbi psichiatrici sottostanti, molte donne che richiedono una cura per disturbi premestruali gravi hanno un sottostante disturbo psichiatrico non diagnosticato, o sono già in cura per un altro disturbo di questo tipo. La donna che lamenta disturbi premestruali, e che per questi cerca aiuto, va pertanto attentamente valutata al fine di distinguere chi ha modificazioni severe del tono dell’umore e del comportamento in fase luteinica da chi ha invece in atto uno o più disturbi mentali tali da necessitare di una valutazione diagnostica completa ed una cura adeguata.

Diversi studi hanno valutato il rapporto tra disturbi dell’umore e Sindrome Premestruale ma i loro risultati, avendo adottato criteri diagnostici differenti e spesso basati sulla valutazione retrospettiva della sindrome premestruale, non sono sempre univoci. Fra le indagini che hanno utilizzato criteri uniformi, quattro (vedi in DeJong e coll., 1985) hanno riscontrato una prevalenza di “depressione premestruale” in circa il 65% delle donne con patologia depressiva, valore significativamente più elevato di quello rinvenuto nei controlli o nelle donne con altra patologia psichiatrica.

Se è di frequente riscontro clinico un peggioramento della sintomatologia premestruale nelle donne affette da depressione maggiore, può sembrare che quelle affette da entrambi i disturbi abbiano un peggioramento della sintomatologia depressiva in fase premestruale. In realtà si è visto che, in alcune donne, i disturbi da Sindrome Premestruale persistono nonostante l’impiego di un trattamento efficace che porta alla risoluzione dei sintomi depressivi (Yonkers e coll., 1992). Ciò va a sostegno della concomitanza di due disturbi separati piuttosto che di un peggioramento di un episodio depressivo già in atto. Un’ulteriore conferma a questa teoria viene da studi biochimici sulle variazioni circadiane della secrezione endogena di cortisolo, ormone che rappresenta un indice di depressione endogena (Mortola e coll., 1989). Dal confronto tra donne affette da Sindrome Premestruale, donne appartenenti a un gruppo di controllo asintomatico e donne affette da depressione maggiore, si evince che la secrezione giornaliera di cortisolo è sovrapponibile nei primi due gruppi, mentre nel terzo raggiunge picchi più elevati e, caratteristicamente, non va incontro ad un periodo di quiescenza tra le ore 18.00 e le 24.00. Le pazienti con Sindrome Premestruale presentano in fase luteinica, sulla base della valutazione psicometrica effettuata, un livello di tensione, rabbia, confusione e perdita di energia sovrapponibile a quello riferito dalle pazienti depresse. Il grado di depressione delle prime risulta sì elevato nella stessa fase del ciclo, e significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo, tuttavia è sempre inferiore a quanto si riscontra in caso di Depressione Maggiore. La Sindrome Premestruale e la Depressione Maggiore risultano pertanto due entità cliniche distinte sulla base delle misurazioni biochimiche effettuate. Ciò può essere dovuto a differenze nella patofisiologia delle due sindromi o al fatto che i cambiamenti a carico dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che si rinvengono nella Depressione, richiedono un periodo di tempo più lungo per manifestarsi rispetto alla durata di un episodio affettivo in corso di Sindrome Premestruale (Beni et al., 2000).

Halbreich ed Endicott, in un lavoro non pubblicato del 1983, hanno riscontrato una diagnosi lifetime di depressione maggiore nel 57-100% delle donne che riferivano una PMS. Secondo uno studio svolto da DeJong e coll.( 1985 ), le donne che riferivano una sintomatologia premestruale affettiva che non veniva confermata da valutazioni quotidiane, avevano un alto tasso (58%) di patologia depressiva. Quelle che, invece, confermavano la loro PMS con gli stessi criteri, avevano una percentuale di disturbi dell’umore più bassa rispetto alle prime, ma sempre piuttosto elevata (30%). Graze e coll. (1986) hanno riscontrato che il 37% delle pazienti affette da PMS da loro seguite, sviluppava un episodio di depressione in un periodo di tempo medio di circa 3 anni.

Le ipotesi che si possono azzardare sulla relazione tra le due sintomatologie, depressiva e premestruale, vanno da una sensibilizzazione, provocata dalla Sindrome Premestruale, a stimoli che, in donne geneticamente predisposte, potrebbero slatentizzare lo sviluppo ed il decorso di un episodio affettivo maggiore, ad un disturbo affettivo ciclo-correlato determinato da un disturbo dell’umore precocemente insorto.

Oltre alla conferma della correlazione tra Sindrome Premestruale e disturbi affettivi, alcuni studi hanno valutato il legame con altre patologie psichiatriche, riscontrando una incidenza di disturbi di personalità (di asse II secondo il DSM-IV TR), intorno al 10%, valore che non si discosta molto da quello rinvenuto in campioni costituiti da popolazione generale. Il disturbo di personalità più frequentemente rappresentato è quello evitante (Pearlstein et al., 1997). Secondo alcuni Autori, che hanno trovato la presenza del disturbo di personalità evitante solo nel gruppo di età superiore ai 30 anni, la spiegazione a questo riscontro potrebbe essere che le donne affette da Disturbo Disforico Premestruale sviluppino, con l’andare del tempo, questi tratti del carattere come particolare modo di reagire ai cambiamenti correlati al loro ciclo mestruale (De Ronchi et al., 1999).

Alcuni studi hanno valutato campioni costituiti da gemelli per verificare se la sintomatologia da Sindrome Premestruale è ereditaria. In effetti, si è riscontrata una modesta ereditabilità di tale sindrome ed una sua lieve dipendenza dall’ambiente familiare (Kendler e coll., 1998). Secondo questi studi, i processi biologici geneticamente determinati che influenzano la Sindrome Premestruale, sono debolmente correlati a quelli che influenzano il rischio di depressione maggiore. Inoltre, i sintomi premestruali sembrano avere una stretta correlazione eziologica con le caratteristiche stabili nel tempo della depressione.

Sintomi Fisici

Sebbene i criteri dei diversi DSM prendano in considerazione solo i sintomi psichici, la maggior parte dei clinici considera i sintomi fisici altrettanto importanti per la diagnosi (Morrison, 1997). I sintomi che si presentano con maggior frequenza sono:

  • Dolore e tensione al seno;
  • Aumento di peso di qualche chilo che può essere percepito come “ un’esplosione” dell’addome o un gonfiore alle caviglie (edema);
  • Il sonno e l’appetito possono aumentare o diminuire rispetto al solito;
  • Presenza di cefalee e dolori ai muscoli o alle articolazioni.

Contrariamente a quello che si crede generalmente, il dolore associato alle mestruazioni (dismenorrea) non è considerato un sintomo della Sindrome Premestruale. Qualunque siano i sintomi della paziente, questi compaiono e scompaiono regolarmente con “il periodo del mese” che caratterizza la Sindrome Premestruale. Tipicamente, i sintomi iniziano circa una settimana prima delle mestruazioni e scompaiono una volta che il flusso inizia realmente, anche se le variazioni individuali possono essere molteplici (Morrison, 1997).

Sintomi Psichici

Le donne che soffrono di Sindrome Premestruale spesso lamentano stanchezza; viene riferita frequentemente anche una sensazione soggettiva di ansia e depressione.Altri disturbi dell’umore includono irritabilità o collera, improvvise crisi di pianto e un’eccessiva sensibilità all’eventualità di essere rifiutate. Se ai problemi relativi al sonno e all’appetito menzionati in precedenza si sommano anche minore energia, problemi di concentrazione, perdita di interessi per attività solitamente piacevoli, si capisce perché venga spesso erroneamente formulata una diagnosi di disturbo dell’umore.
Un altro errore clinico da evitare è il seguente: una paziente che soffre di un vero disturbo dell’umore o d’ansia, che peggiora intorno al periodo delle mestruazioni, non dovrebbe essere diagnosticata come Sindrome Premestruale, senza che prima non siano stati trattati con successo i disturbi dell’umore (Morrison, 1997).

Il rischio suicidario nei pazienti con anoressia nervosa

Il suicidio è una delle principali cause di morte tra le persone con anoressia nervosa: dal 3 al 20% dei pazienti con questo disturbo dell’alimentazione tentano il suicidio nell’arco della propria vita, mentre in una percentuale compresa tra 1 e 5,3% lo portano a termine (Franko et al., 2006).
Secondo Sullivan, rappresenta la seconda causa di morte per anoressia nervosa dopo le complicazioni del disturbo alimentare (Sullivan, P.F., 1995).

Anoressia nervosa e rischio di suicidio: la presenza di sintomi ansiosi e depressivi e impulsività

Nelle persone con questa patologia non sono solamente i sintomi depressivi a incidere nel tentativo di suicidio, ma anche i tratti ansiosi e l’impulsività.

Tra i vari disturbi del comportamento alimentare (DCA) vi sono differenze relative alla frequenza dei tentativi di suicidio, sono infatti molto più comuni tra i pazienti con anoressia nervosa rispetto a quelli con bulimia nervosa (Franko et al., 2006). I risultati confermano che una parte sostanziale di persone con anoressia nervosa tenta il suicidio rischiando effettivamente di perdere la vita. I clinici che si occupano di DCA per tutta la durata del trattamento dovrebbero porre attenzione non solo al rischio suicidario, ma anche alla presenza di comorbilità tra vari disturbi come, ad esempio, depressione, abuso di sostanze o impulsività. Come è noto, non tutti i tentativi di suicidio sono realmente finalizzati a porre fine alla vita; tra i pazienti con anoressia nervosa l’intenzione di morire durante un tentativo di suicidio si riscontra nel 78,3% dei casi, di questi, il 56,5% pensava che sarebbe morto.

Gli studi dimostrano che chi tenta il suicidio presenta, oltre a eventuali sintomi depressivi, una o più delle seguenti psicopatologie: disturbo di panico, disturbo da stress post-traumatico, abuso di sostanze o dipendenza, disturbi di personalità del cluster B e, infine, disturbi del controllo degli impulsi tra cui autolesionismo, furto e taccheggio. Queste persone sono anche caratterizzate da bassa autodeterminazione, numerosi evitamenti e alti livelli d’impulsività come dimostrato dai punteggi più elevati sulla sottoscala cognitiva della Barrett Impulsivity Scale. Emerge inoltre una maggiore gravità dei sintomi del disturbo secondo la Yale-Brown-Cornell Eating Disorder Scale rispetto a coloro che non avevano tentato il suicidio. Questi profili di comorbilità e di caratteristiche di personalità riguardano una percentuale piuttosto alta di coloro che hanno riferito che il loro tentativo era stato impulsivo anziché premeditato.

Tra le persone che pensano di uccidersi il 25,4% agisce con una premeditazione accurata, il 25,4% con una premeditazione moderata e ben il 49,2% d’impulso. Mediamente fra coloro che tentano il suicidio solo la metà viene ricoverata in ospedale: il 46,4%. Alla domanda in merito ad altri eventuali disturbi al momento del tentato suicidio, l’81,2%. riferisce che il tentativo si era verificato durante un episodio depressivo, il 17,4% riporta abuso di alcol al momento del gesto, l’8,7% dichiara di abusare di sostanze e il 5,8% fa invece riferimento ad altre patologie. Dallo studio che ha riportato questi dati non sono emerse segnalazioni di disturbo bipolare o psicosi (Franko et al., 2006). Tra le persone che soffrono di anoressia e che hanno tentato il suicidio almeno una volta, l’87,1% ha sofferto di depressione maggiore nel corso della vita: questo implica in loro un rischio quattro volte maggiore di togliersi effettivamente la vita (Bulik et al., 1999).

La lotta contro lo stigma del suicidio è centrale ed essenziale ai fini di un’efficace attività di prevenzione suicidaria in quanto questo gesto si alimenta di pregiudizi che costituiscono l’ostacolo più forte nel trattare i comportamenti autolesivi (Erlangsen et al., 2011).

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