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Je so’ pazzo (2018) di A. Canova – Recensione del film documentario

Il film documentario Je so’ pazzo racconta di Sant'Eframo, vecchio Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Il film mostra le celle e le scritte sulle pareti di coloro che lì hanno vissuto in solitudine. Ora il collettivo Je so’ pazzo ha permesso di riabitare questi luoghi infernali, ridando anima a questo luogo dimenticato

Di Alessia Incerti

Pubblicato il 19 Apr. 2018

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo.

 

Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. (Braudel)

Quand’anche fosse son pazzo, e allora?/ Mi rimane un tanto per essere felice/ Mi rimane un tanto per le mie sofferenze/ Mi rimane un tanto per dire ho un amico, per dire ti odio, ho paura/ ed altro ancora/ Mi rimane un tanto per dire: sono un uomo. (Michele Fragna – ex detenuto)

 

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo. Il collettivo, occupandolo nel 2015, l’ha rifondato, dandogli una nuova possibilità di vita nuova. Si percepisce chiaramente nel film l’alternarsi tra l’innovazione e la libertà del presente che spinge verso il futuro e l’immobilismo del passato.

All’interno di Sant’Eframo: da monastero a sede del collettivo Je so’ pazzo

Sant’Eframo fu antico monastero del ‘600, convertito in ospedale psichiatrico giudiziario nel 1978 a seguito della Legge Basaglia, e chiuso definitivamente nel 2008.

Nel 2015 un comitato di quartiere lo occupa e costituisce un collettivo di gestione.

Un’architettura abitata per anni da persone malate di disturbo psichiatrico che hanno commesso un reato, come Michele Fragna ex detenuto, ora narratore nel film documentario Je so’ pazzo. Ci guida attraverso i corridoi lunghi e stretti di una struttura per anni rimasta invisibile, abbandona e chiusa.

Lui stesso ci racconta così quel che ricorda di questa struttura:

Il colore predominante era il grigio, ora sono murales e tinte forti, dove prima era silenzio, ora sono risa di ragazzini che giocano a pallone, dove prima erano detriti, ora spunta un sottile strato erbaceo, dove prima era muraglia di separazione, ora è palestra di roccia, dove prima erano letti imbrattati di umori, ora c’è il suono di un violino, dove prima erano grida soffocate, il battere di cucchiai sulle sbarre, ora c’è uno strumento che suona, le voci che l’accompagnano.

Michele, come racconta lui stesso, entrò in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) all’età di ventidue anni con una diagnosi di schizofrenia paranoide e se la cavò con pochi anni di reclusione. Avere un motivo per vivere ogni giorno è ciò che gli permise di continuare a vivere tra fredde mura e sbarre e sperare di progettare un futuro al di fuori. Michele ci racconta anche le storie di amicizie nate nella disperazione ma divenute punto essenziale di contatto umano ed energia necessaria alla sopravvivenza.

L’OPG ospitava circa centottanta reclusi, nel documentario Je so’ pazzo si mostrano le celle e le scritte sulle pareti di coloro che lì hanno vissuto lungamente e in solitudine in una cella di due metri per tre.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO:

Je so’ pazzo: da reclusione a inclusione

Ora è tutto diverso: il collettivo ha permesso di riabitare luoghi infernali, ha ridato anima e vita a questo luogo dimenticato. Qui prima c’erano persone uscite dal mondo e recluse in un altro mondo. Ora qui troviamo adulti, giovani e bambini che contribuiscono a mantenere viva la memoria degli ex detenuti e a rielaborare il passato costruendo un senso comunitario.

Vengo qui perché nel quartiere non abbiamo un campetto da calcio – dice un bambino.

E come lui, nell’ex OPG, oggi trovano un senso di comunità e partenza molti altri ragazzi e adulti del quartiere.

Il collettivo è costituito da volontari che offrono la loro competenza professionale e il loro tempo a chiunque ne abbia necessità, a chiunque, bambino o adulto, straniero o italiano.

Dalle celle due metri per tre, alle macerie e da esse numerose stanze attrezzate che offrono servizi gratuiti: l’ambulatorio medico; le aule d’insegnamento per il doposcuola; il laboratorio di teatro; le “pizzicate”; la stanza dei violini; una biblioteca; la palestra di boxe, l’immancabile campo da calcetto e persino una parete attrezzata per il free climbing.

Qui si organizzano attività pomeridiane e feste il sabato e la domenica. Gli abitanti del quartiere non sentono più il rumore delle forchette sulle sbarre ma musica e grida di gioia.

Il collettivo Je so’ pazzo ha istituito qui un servizio di accoglienza ai migranti per aiutarli nel disbrigo delle pratiche. Si organizzano tavole rotonde per favorire discussione e scambio di opinioni e per continuare a interrogarsi sui vecchi significati e costruirne di nuovi.

Non è che sono pazzi, sono persone normali, soltanto che hanno un piccolo problema. Se tu ti spezzi una gamba ti devono chiamare zoppo?

Questo è quello che il collettivo Je so’ pazzo ha fatto concretamente nei fatti. Il regista ha fatto di più: ha integrato il passato con il presente, ha mostrato come dalla disintegrazione sociale può nascere l’integrazione, in altre parole ha raccontato il Possibile.

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Alessia Incerti
Alessia Incerti

Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • A. Canova (2018). Je so’ pazz (2018). Imbilico Teatro e Film
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