Al primo Aprile sono passati due anni, e sempre due anni ci erano voluti perché la legge che sanciva la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) trovasse effettivamente attuazione e ancora due anni ci sono voluti perché tale questione, per lungo tempo agli onori della cronaca, venisse fondamentalmente dimenticata.
Raffaele Polin – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano
Per qualche tempo perfino nei telegiornali in prima serata capitava di vedere un servizio sulla “chiusura degli OPG” e di sentir riecheggiare le parole di Giorgio Napolitano che li definiva “estremo orrore”.
Poi l’attuazione della legge 81: gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiudono, ogni regione deve impegnarsi a prendersi carico dei propri pazienti psichiatrico-forensi, e così inizia la corsa alla costruzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), con le fisiologiche differenze regionali in termini di tempistiche ed efficienza. Qualche protesta da parte dei movimenti (Antigone e StopOPG su tutti…) che da anni chiedevano l’abolizione dei manicomi giudiziari ma che non si ritenevano soddisfatti della riforma, e poi l’oblio. Di come il cambiamento sia avvenuto, di come si sia gestita la costruzione prima e la messa a regime poi delle REMS, di come molti pazienti psichiatrico-forensi non fossero compresi nel disegno di riforma e siano quindi di fatto rimasti in carcere… di tutto questo si è saputo molto poco.
Avendo vissuto dall’interno questa trasformazione storica (al tempo svolgevo il tirocinio universitario presso l’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia) ed essendo ormai passati due anni da tale momento, ho ritenuto interessante ripercorrere il cammino che ha portato alla chiusura e proporre qualche riflessione a riguardo.
Chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: breve excursus storico
La riforma che ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha un antecedente, ben più noto, studiato ed emulato in vari paesi d’Europa; una rivoluzione culturale quasi più che una semplice riforma. Una sfida che ha reso la psichiatria italiana famosa nel mondo, che rappresenta la manifestazione migliore dell’avanguardismo culturale di cui ogni tanto il nostro paese è capace. Una legge che sotto alcuni aspetti ha peccato di eccessiva ideologizzazione, che per l’impeto e la fretta di essere portata a compimento ha dimenticato di considerare alcune delle conseguenze che la chiusura dei manicomi avrebbe avuto sulla vita dei pazienti e sulla società, che può essere ampiamente criticata nel caso se ne considerino gli aspetti meramente pratici, ma di cui non può essere messa in discussione l’originalità e la profondità intellettuale che ne ha fondato le premesse.
Una legge che, nonostante lui stesso ne abbia preso le distanze in alcuni momenti, ha un nome e un cognome: Franco Basaglia. La Legge Basaglia, o più propriamente Legge 180, fu approvata in parlamento il 13 Maggio nel 1978, in fretta e in anticipo rispetto alla complessiva legge sanitaria che istituì il Sistema Sanitario Nazionale e che vedrà la luce alla fine dello stesso anno. Dal punto di vista legislativo il passaggio era netto, dall’obiettivo di cura-custodia della legge che risaliva al 1904 alla negazione dell’equivalenza malattia mentale-pericolosità sociale (Basaglia, 1968).
Al contrario della grande rivoluzione che riguardava i manicomi, l’effetto sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari fu completamente assente. Essendo strutture controllate dal Ministero di Grazia e Giustizia e non da quello della Sanità come i manicomi civili, si ritrovarono in un vulnus che può essere letto, a seconda delle interpretazioni, come grave lacuna, opportunismo politico, incapacità di affrontare un problema complesso, calcolata dimenticanza o semplice contingenza. Fatto sta che la riforma riguardava la sanità, non la giustizia. Fondamentalmente si è compiuta una scissione che è stata definito un “paradosso italiano”, ovvero una situazione in cui per decenni hanno convissuto uno dei sistemi di assistenza psichiatrica territoriale tra i più radicali e avanzati del panorama internazionale e un sistema psichiatrico-forense di impianto ottocentesco (Andreoli, 2002).
Misure di sicurezza e pericolosità sociale
Si è già anticipato che le importanti conquiste fatte grazie alla Legge 180 non hanno toccato se non molto tangenzialmente la realtà della psichiatria forense. Il punto è stato proprio che la vetta più alta toccata da Basaglia, convincere il mondo che il matto non è di per sé anche pericoloso, era effettivamente di molto più difficile riuscita nel momento in cui l’oggetto del discorso diventava proprio il “matto criminale”. E infatti la pericolosità sociale è a tutt’oggi il perno intorno a cui ruota la perizia e quindi il destino di un autore di reato riconosciuto infermo/seminfermo di mente. Prima di andare a vedere meglio come siano andate le cose credo quindi sia necessario fare un po’ di chiarezza sulle diverse posizioni giuridiche che ogni autore di reato può assumere, e in particolare spendere due parole sul costrutto di Misura di Sicurezza; è infatti sulla base di questo statuto, che a sua volta poggia sul concetto di pericolosità sociale, che si può distinguere ad esempio tra “internati” e “detenuti” e quindi comprendere da chi sarà composta la popolazione che, una volta fuoriuscita dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, andrà ad abitare le REMS.
ll sito del Ministero di Giustizia recita così:
Le misure di sicurezza sono sanzioni che si applicano nei confronti di autori di reato considerati socialmente pericolosi allo scopo di prevenirne il pericolo di recidiva. Si distinguono dalla pena in quanto:
- scaturiscono da un giudizio di pericolosità e non di responsabilità – infatti si applicano anche ad autori di reato non imputabili – e di probabilità di recidiva futura.
- non hanno funzione retributiva, ma solo una funzione rieducativa del reo.
Queste misure sono caratterizzate dall’indeterminatezza del loro termine in quanto legate alla prognosi di pericolosità
È fin da subito evidente come il problema sia inestricabilmente legato al concetto stesso di pericolosità sociale. Sulla pericolosità sociale sono state spese tante parole, sono sorti dibattiti accesissimi, e diversi autorevoli psichiatri e illustri uomini di legge si sono impegnati per un suo superamento, senza però mai riuscire a proporre un’alternativa soddisfacente. La mancata revisione del codice penale sull’applicazione delle misure di sicurezza, che rimangono competenza dell’autorità giudiziaria sebbene sia il personale medico a svolgerle nella loro pragmatica, evidenzia la confusione che la legge 81 non è riuscita a risolvere (Zanalda, Mencacci, 2013). Riassumendo al massimo, si possono individuare almeno due aspetti della pericolosità sociale macroscopicamente criticabili se non apertamente inaccettabili. Innanzitutto il fatto che non sia possibile produrre dati empiricamente e scientificamente solidi per certificare che un soggetto in futuro commetterà di nuovo reato, la valutazione di pericolosità sociale è in larga parte soggettiva e arbitraria. Le parole di Ferracuti in questo senso sono illuminanti:
La previsione di recidiva, ossia il giudizio di pericolosità sociale, viene ad essere fondato su elementi quali la personalità del reo, la natura del crimine, le modalità dello stesso, la gravità, progressione e consapevolezza di malattia. Questi parametri, di per sé, hanno scarso riscontro scientifico rispetto ad una possibilità di recidiva, che dovrebbe oltretutto essere previsione di recidiva specifica del fatto in esame. Ovviamente uno schizofrenico paranoide con personalità pre-morbosa di tipo antisociale è un soggetto che ha notevoli possibilità di essere valutato come socialmente pericoloso; tuttavia la valutazione dovrebbe essere effettuata solo sulla sua patologia mentale che ha dato luogo alla non imputabilità. Nel momento in cui si utilizza anche un criterio personologico si apre la strada a valutazioni che possono essere basate su stereotipi e pregiudizi. Per la predizione di comportamenti a lungo termine fattori attuariali e non certo psicopatologici hanno molte più probabilità di successo di previsione. (CriManScri, 2015)
L’altro tema per cui la pericolosità sociale è stata aspramente criticata è lo spazio che lascia alla possibilità che si verifichi quella situazione che nel tempo è stata definita “ergastolo bianco”. Su questa problematica hanno posto l’accento ampiamente tutti quei movimenti che reclamavano a gran voce la chiusura dei manicomi criminali. Per una più approfondita trattazione del tema rimando all’ormai celebre documentario-manifesto che Francesco Cordio ha realizzato per conto della Commissione d’inchiesta condotta dal Sen. Marino “Ergastolo bianco-O.P.G., dove vive l’uomo”. Doveroso sottolineare come con la legge 81 (la legge con cui sono stati chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari) sia stata introdotta un’importante modifica stabilendo che “le misure di sicurezza detentive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”.
Ad ogni modo, dopo tanti dibattiti al riguardo, anche dopo la legge 81, è ancora la pericolosità sociale a determinare il futuro dei pazienti psichiatrico forensi, che diventano “internati” proprio quando in sede di processo il magistrato abbia decretato che il rischio di recidiva è consistente, che qualsiasi altra misura non sia adeguata a far fronte alla pericolosità del soggetto e che quindi si prevede il ricovero in REMS.
Se ciò non avviene e non si attribuisce quindi una misura di sicurezza al reo, il soggetto intraprende l’iter detentivo normale ed è per questo chiamato “detenuto”, senza togliere il fatto che possa comunque presentare disturbi psichiatrici. I detenuti possono essere distinti in tre macrocategorie: coloro la cui malattia mentale è sopraggiunta in carcere (art. 148 c.p.), i minorati psichici (art. 111 DPR 230/2000) e coloro per i quali l’infermita psichica debba essere accertata per un periodo di osservazione non superiore ai 30 giorni (art. 112 DPR 230/2000) (Ferracuti, Biondi, 2015).
La nascita della legge 81 e la nascita delle REMS
L’inizio del processo di deistituzionalizzazione prende il via ufficialmente col Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 1 Aprile 2008. Esso è governato da un principio, quello di territorialità, che ne influenza fortemente la direzione e che in particolare produce due importanti effetti (Cimino, 2014): la creazione delle “Articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere” (i cosiddetti “repartini”, sezioni di istituti penitenziari normali appositamente dedicati all’accoglienza di categorie di detenuti con problematiche di natura psichiatrica) e la differenziazione delle Misure di Sicurezza (tra misure detentive e non detentive). L’obiettivo fondamentalmente è quindi quello di iniziare a svuotare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e la modalità, in linea con la prima grande riforma psichiatrica di origine basagliana, è quella di riportare il maggior numero possibile di pazienti sul territorio; o nei casi in cui ciò non sia possibile nelle carceri ordinarie.
Nel frattempo le regioni si assumono la responsabilità della gestione sanitaria degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e cominciano a prevedere una prima distribuzione degli pazienti in modo che ogni istituto sia la sede per ricoveri di internati delle regioni limitrofe, così da stabilire rapporti di collaborazione preliminari per ulteriori fasi di avvicinamento degli soggetti alle realtà geografiche di provenienza.
È in questo scenario che irrompe l’inchiesta parlamentare condotta da Ignazio Marino e che susciterà tanto scalpore trasformando una situazione ai più completamente sconosciuta in un caso mediatico di una certa rilevanza. Nel 2011, nell’ambito di una inchiesta sul funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale, una commissione parlamentare visita i sei manicomi criminali presenti sul territorio nazionale mettendo in luce tutte le enormi criticità che li contraddistinguono. Non è di sicuro mia intenzione criticare l’inchiesta condotta né tantomeno il cambiamento, doveroso, e il processo di deistituzionalizzazione, sacrosanto; mi sembra altresì corretto indurre una riflessione sulla strumentalizzazione politica dell’esposizione pubblica che tale caso ha finito per assumere.
Così, sotto la pressione di una situazione che ogni giorno di più diventava politicamente imbarazzante e anzi prometteva sempiterna gloria a chiunque fosse riuscito a liberarsi di quell’ “estremo orrore” per sempre, si vara una legge “Disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari” con la quale si stabilisce un’apodittica data di chiusura, il 1 Febbraio 2013. In realtà i punti oscuri rimasti irrisolti, e senza i quali pensare a un’effettiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari diventa difficile, sono diversi e piuttosto strutturali e il risultato è che la data di chiusura verrà posposta per ben due volte; nel Marzo 2013 si differisce una prima volta la data al 1 aprile 2014, e successivamente di nuovo al 1 Aprile 2015: si era fissata una scadenza decisamente troppo ravvicinata.
Poco più di due anni fa quindi la legge 81 trova finalmente attuazione, e coloro che hanno una misura di sicurezza detentiva devono uscire dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed essere trasferiti nella REMS della Regione di competenza. A regime le REMS saranno trenta, per un totale di circa seicento posti disponibili, e si tratta in tutti i casi di strutture residenziali socio-sanitarie di piccole dimensioni; l’intenzione è stata quella di creare piccole residenze il cui obiettivo principale fosse quello di curare e non di recludere o punire. Il direttore è un medico psichiatra e l’equipe di lavoro è composta da personale di esclusiva pertinenza sanitaria e anche la costruzione e gestione delle strutture è in mano al Sistema Sanitario Nazionale. Per ogni paziente internato è definito, entro 45 giorni dal suo ingresso, un Progetto Terapeutico-Riabilitativo Personalizzato (PTRI) che deve essere controllato e aggiornato periodicamente. Le intenzioni sono ottime, e si può difficilmente trovarsi in disaccordo col fatto che la nuova legge, “oltre gli interventi strutturali, preveda attività volte progressivamente a incrementare la realizzazione dei percorsi terapeutico-riabilitativi, definendo prioritariamente tempi certi e impegni precisi per la dimissione di tutte le persone internate per le quali l’autorità giudiziaria abbia già escluso o escluda la sussistenza della pericolosità sociale, con l’obbligo per le Aziende Sanitarie Locali di presa in carico all’interno di progetti terapeutico-riabilitativi individuali (PTRI) che assicurino il diritto alle cure e al reinserimento sociale”. (Decreto Legge 25 Marzo 2013, n. 24)
Il problema è che la normativa che vincola la maggior parte dei fondi sulla realizzazione delle strutture non ha individuato specifiche risorse per il potenziamento dei DSM, sui quali ricade la maggior parte dell’onere di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Inoltre recentemente è stato approvato in Senato con il voto di fiducia al Governo Gentiloni un nuovo decreto legge sulla giustizia che rischia di vanificare gran parte del lavoro fatto in questi anni: di fatto si stabilisce che nelle REMS non andranno solo coloro per i quali è stata accertata l’infermità mentale al momento del reato, ma anche coloro per i quali l’infermità sia sopraggiunta in carcere (i “148”) e quelli in osservazione. Usando le parole di Marino: “con questo decreto legge si torna di fatto alla vecchia logica in cui tutti i rei con problemi di disturbi mentali finiranno nelle REMS, che diventeranno rapidamente sovraffollate e ingestibili; ovvero si tornerà ai vecchi Ospedali Psichiatrici Giudiziari. L’auspicio è che alla Camera e in un sussulto di responsabilità modifichino quanto fatto al Senato”. (Marino, 2017).
Considerazioni conclusive:
Personalmente ritengo che qualunque riforma, a maggior ragione se di tale portata, darà sempre spazio a polemiche e critiche, ci sarà sempre qualche aspetto che poteva essere affrontato meglio o che qualcuno avrebbe portato avanti in maniera diversa. Davanti a un tale cambiamento è evidente che non tutti potranno essere uniti nell’essere soddisfatti senza riserva alcuna di come esso sia avvenuto e degli effetti che produrrà. Anche perché, se è sempre vero che demolire è più facile che costruire, viviamo in un momento storico in cui la pars destruens affascina l’opinione pubblica molto più della pars costruens. Vorrei quindi provare a non soffermarmi sulle pur numerose e legittime critiche, “situazionali” mi verrebbe da dire, che possono essere mosse riguardo al processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e limitarmi a proporre una considerazione di ordine generale che mette in luce quello che a parer mio è stato un errore strutturale che ha influenzato negativamente tutto il processo.
Ribadisco, a costo di risultare ripetitivo, che ritengo l’inchiesta svolta dalla commissione parlamentare un evento straordinario, che ha dato alla psichiatria forense uno scossone talmente violento da non poter essere ignorato fornendo così l’input necessario a un cambiamento di cui non si poteva più fare a meno; ha sbattuto in faccia a tutti noi gli orrori di cui gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari si erano macchiati e ci ha resi consapevoli del fatto che fosse impensabile andare avanti in quella direzione. Proprio per questo motivo trovo sia un peccato che tale denuncia non abbia dato vita a un dialogo costruttivo e maturo ma si sia presto trasformata in una guerra ideologica tra vecchio ordinamento e nuovo corso, con entrambi gli schieramenti arroccati a sostenere rigidamente la versione più radicale e fanatica di entrambe le prospettive (“dopo due mesi di Rems scapperà il primo morto e capiranno perché esistevano gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la contenzione” – “No opg! No rems! No psichiatria!”). Lo schierarsi aprioristicamente “contro” tutto ciò che ricordava lontanamente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non ha permesso di discernere criticamente il marcio da ciò che invece poteva rappresentare una risorsa, e così si è buttato via tutto indistintamente.
È un peccato ad esempio che tutti coloro che hanno prestato servizio per anni nei servizi di psichiatria forense non siano stati minimamente interpellati in fase di dismissione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e costruzione delle REMS. Possibile che gli unici ad aver avuto a che fare con questa categoria così particolare di pazienti negli ultimi 30 anni non siano stati interrogati sulle caratteristiche che secondo loro doveva avere la struttura che li avrebbe ospitati e in generale il processo di cura che li avrebbe visti coinvolti? o riguardo difficoltà che erano state riscontrate e su come sarebbe stato possibile secondo loro superarle sfruttando il cambiamento in atto? Da un momento all’altro è partita la caccia alle streghe: chiunque avesse lavorato in un Ospedali Psichiatrici Giudiziari era colluso con un sistema che per anni aveva torturato i pazienti, e qualunque preoccupazione per la sicurezza (tema che non può non essere posto nel momento in cui si sta parlando di soggetti autori di reato…) era vista come sadico tentativo di coercizione; la psichiatria stessa veniva fatta convergere, quasi fosse assimilabile ad un Treno ad Alta Velocità, in quell’insieme di elementi che negli ultimi anni i movimenti “NO” hanno combattuto.
Infine ci tengo quantomeno ad abbozzare e mettere sul tavolo un discorso che però merita delle riflessioni ulteriori una trattazione a parte, quello sulle Articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere. Entro il 30 Giugno 2012 infatti in ciascuna regione è stata resa obbligatoria per legge l’attivazione, in almeno uno degli Istituti Penitenziari del proprio territorio, di una specifica sezione per la tutela intramuraria della salute mentale delle persone ivi ristrette. Queste articolazioni dovrebbero concorrere operativamente al superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, poiché garantiscono l’espletamento negli Istituti ordinari delle osservazioni per l’accertamento delle infermità psichiche e previene l’invio in Ospedali Psichiatrici Giudiziari o in CCC nei casi di persone con infermità psichica sopravvenuta nel corso della misura detentiva o condannate a pena diminuita per vizio parziale di mente (fondamentalmente di tutti i detenuti…). Uso volontariamente i verbi al condizionale perché in realtà la realizzazione di tali sezioni speciali è ancora solo un utopia in molte regioni italiane.
Personalmente sono convinto che se si devono trovare delle problematiche e muovere delle critiche al processo di deistituzionalizzazione nel suo complesso, allora è proprio a tali Articolazioni che bisogna guardare. Mentre la situazione per il paziente internato è cambiata radicalmente con la riforma, per i detenuti la questione è rimasta fondamentalmente invariata; e il confine che separa una situazione dall’altra, se si considera la questione da una prospettiva psicopatologica, è spesso piuttosto labile.
Di nuovo, più di 35 anni dopo la legge Basaglia che lasciò fuori i “folli rei” dal disegno di riforma, si ha l’impressione che un problema piuttosto evidente sia stato (volontariamente?) dimenticato per manifesta incapacità ad affrontarlo.