expand_lessAPRI WIDGET

Terapia Metacognitiva: il racconto di Adrian Wells – Report della Conferenza di Modena

Il 21 e 22 aprile Adrian Wells ha tenuto a Modena il seminario sulla Terapia Metacognitiva. L’evento è stato organizzato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi, che da sempre promuove il dialogo aperto tra differenti modelli teorici e di trattamento. Nel 2016, Studi Cognitivi aveva già ospitato il terzo congresso internazionale di Terapia Metacognitiva.

 

MCT Essentials

La conferenza, dal titolo “MCT Essentials”, ha guidato i partecipanti nella scoperta della Terapia Metacognitiva partendo da un’analisi della teoria e dei suoi concetti fondamentali e distintivi, per addentrarsi poi sempre di più nella pratica clinica.

Nel rispetto di quelli che sono i principi propri dell’approccio metacognitivo, Adrian Wells ha sviluppato le due giornate mantenendo l’equilibrio tra conoscenza ed esperienza. È stato così possibile per i presenti conoscere il modello e sperimentarne in prima persona tecniche ed interventi attraverso momenti di simulazione guidata in cui hanno ricevuto la diretta supervisione del Professor Wells.

“Il contenuto dei pensieri non ha importanza, ciò che è causa della sofferenza psicologica è il processo con cui noi ci approcciamo ai nostri pensieri”

queste le parole di Adrian Wells che raccontano le differenze rispetto al modello di trattamento classico della Terapia Cognitivo-Comportamentale. Una grande differenza rispetto a quello che molti di noi fanno nella loro pratica clinica e agli aspetti su cui lavorano con i propri pazienti.

Fin dalla prima giornata, è questo il concetto fondamentale che Wells chiede di non dimenticare e che ci porta verso una nuova comprensione della psicopatologia.

Rimuginio e Ruminazione, come processi di pensiero, acquistano un’importanza centrale nella comprensione della sofferenza del paziente. Come lavorarci? L’invito di Wells e della Terapia Metacognitiva è quello di non addentrarsi nel loro contenuto quanto piuttosto di andare ad indagare le metacredenze cognitive, positive e negative, che sostengono tali processi. È necessario portare il paziente verso una nuova modalità di approccio ai propri pensieri che gli consenta di non restare “incastrato” in un circolo ripetitivo e sterile di pensieri negativi, che altro non causano se non la sua sofferenza.

Terapia metacognitiva: protocolli di intervento

Nella seconda giornata il Prof. Adrian Wells ha illustrato i protocolli di intervento per disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia generalizzata, depressione e disturbo ossessivo compulsivo. La chiarezza e la semplicità che contraddistingue il suo modo di fare didattica è uno degli aspetti che sono stati più apprezzati; un altro è la generosità nel condividere il suo modo di lavorare con i pazienti; infine lo spazio dato alle esercitazioni e alla sperimentazione di tecniche e strumenti – come la detached mindfulness – o di parti di seduta.

Al di là delle specificità di trattamento di ogni disturbo, che si snoda in protocolli di 12 sedute, Wells tiene a sottolineare che la complessità del disturbo di cui ci occupiamo non presuppone o richiede un trattamento complesso. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, come terapeuti, sono pochi, solidi strumenti, una logica d’uso molto chiara, grande preparazione e rigore nell’applicazione. Tutto questo – e solo questo – insieme ad una solida base teorica e all’evidenza scientifica di efficacia ci consente di offrire un valido aiuto clinico al paziente e ci assicura un futuro come professionisti della salute.

La Sindrome Cognitivo-Attentiva

La presa di coscienza della Cognitive Attentional Syndrome (CAS) e di come e quanto rimuginio e/o ruminazione alimentino i sintomi è una delle parti fondamentali del trattamento di tutti i disturbi ed è possibile grazie al dialogo socratico. Questo percorso all’insegna della scoperta guidata alimenta una relazione di cooperazione tra paziente e terapeuta. Insieme possono muoversi in un clima caldo, per sperimentare ed apprendere come “lasciar andare” i pensieri, senza bloccarli in processi ricorsivi e maladattivi, che chiedono senza sosta “… e se …?” o “Perchè …?”.

Sapere come funziona spontaneamente la mente, scoprire che siamo noi a imporle un funzionamento che ci provoca ansia o tristezza, da o ridà al paziente quel controllo sulla sua vita che tentava di ottenere rimuginando o ruminando. Ne consegue, ad esempio, che non c’è trauma che non possa esser trattato con la terapia metacognitiva.

 

Terapia Metacognitiva - Adrian Wells a Modena 2


Cenni sulla Terapia Metacognitiva

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. L’approccio MCT  è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norma, van Emmerik e Molina, 2014).

La metacognizione è l’aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi attentivi e di pensiero. Molte persone hanno dirette esperienze metacognitive, per esempio quando sono incapaci di ricordare il nome di una persona pur sapendo di conoscerlo. Questo esempio chiarisce come le componenti metacognitive lavorino per informare una persona che un ricordo è immagazzinato da qualche parte nella memoria anche se le persone non sono in grado di ricordarlo. Molte altri aspetti della metacognizione operano al difuori della nostra coscienza.

Una delle caratteristiche dei disturbi psicologici come ansia e depressione è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare o tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi. Questa modalità di funzionamento viene definita Sindrome Cognitivo-Attentiva (cognitive attentional syndrome o CAS). La CAS consiste solitamente in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali. La CAS è controllata da credenze e regole metacognitive.

La Terapia Metacognitiva ha come obiettivo ridurre questo stile di pensiero, vale a dire rimuovere la CAS, e riportarla sotto il controllo cosciente. La MCT mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti. Protocolli di intervento basati sulla teoria metacognitiva sono stati sviluppati per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione (Wells, 2008).

Il docente

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico; è docente di psicologia clinica alla University of Manchester e professore presso la Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Adrian Wells è autore di oltre 200 articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi cognitivi e metacognitivi sottostanti i disturbi psicologici, in particolar modo relativi alla sfera dell’ansia e della depressione. La sua ricerca ha portato alla teorizzazione e alla validazione della Terapia Metacognitiva.

Je so’ pazzo (2018): il toccante documentario di Andrea Canova – Recensione

L’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo vive tanto nelle sue crudeli disumanità quanto nei momenti di arricchimento personale. Oggi la stessa struttura a Napoli vive della buona volontà e della professionalità di chi nel sociale ci crede e spende tempo e risorse.

 

[blockquote style=”1″]Unica finalità del manicomio giudiziario è la punizione di coloro, per la cui cura e tutela, medicina e giustizia dovrebbero esistere. [/blockquote]

Questa la frase di Franco Basaglia ad apertura del Documentario Je so’ pazzo del regista Andrea Canova, che emblematicamente riassume la criticità che accompagna storicamente il concetto di manicomio criminale e che ha condotto alla sua soppressione, alla luce proprio delle osservazioni di Basaglia sulla disumanità delle condizioni di vita in cui versavano i reclusi nelle strutture psichiatriche giudiziarie in cui lui stesso prestò servizio negli anni della sua carriera di psichiatra.

Sui concetti di cura, riabilitazione, sofferenza (e speranza) ruota di fatto l’intero documentario, che racconta, attraverso scene e suoni densi di pathos, la vita quotidiana dei detenuti dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo a Napoli, beneficiando della testimonianza diretta di Michele Fragna, ex detenuto, e della lettura degli stralci del diario tenuto nei suoi cinque anni di reclusione.

Sant’Eframo, Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario: lo racconta Michele Fragna

Sant’Eframo “un luogo per secoli inaccessibile, isolato dal quartiere da cui per anni si sentivano provenire urla strazianti a ogni ora del giorno”, “un luogo che adesso appartiene alla memoria di tutti”, dopo la sua dismissione nel 2008 e il ritorno alla luce nel 2015, sotto forma di Centro Sociale, “luogo di incontro, di solidarietà e di libertà”. Sant’Eframo, un luogo di comune, umana, sofferenza, da non stigmatizzare come insana, disumana pazzia poiché “i detenuti qui sono persone normali, come accadde per chi si rompe un braccio o una gamba, normali, con qualche problema”.

Ecco che lo spettatore viene accompagnato lungo le scene di normale vita quotidiana di un “popolo dimenticato”, con un solerte Michele Fragna che ricorda la “piatta regolarità [dove] i più fortunati lavoravano o facevano teatri o corsi professionali”, o il “grigio e maleodorante” ambiente in cui era costretto a vivere, immagine rafforzata dallo scorrere di immagini di pareti scrostate, pavimenti sporchi e spioncini che restano chiusi tutta la notte e che lasciano i detenuti prigionieri del buio pesto della notte dentro le celle minuscole.

Viene naturale essere progressivamente coinvolti nella testimonianza delle violenze fisiche e psicologiche a cui i detenuti erano sottoposti: detenuti picchiati, come abuso di potere, “tenuti legati con delle fascette a letti di ferro”, come metodo di contenzione, oppure che hanno visto nel suicidio la fine di orrori e di una vita “per cui non trovavano una logica e una soluzione”, come Enrico.

Testimonianze senz’altro toccanti, rese ancora più vivide dal suono metallico, a tratti inquietante, delle chiavi delle celle, e smorzate dalla lettura delle pagine del diario di Michele in cui questi invocava, ai tempi della sua detenzione, la forza di non arrendersi, la speranza di uscire, di trovare la pace e continuare la propria vita da uomo libero.

Uomini liberi, uomini riabilitati al legame sociale: riabilitazione, ricostruzione delle relazioni sociali, contro la disintegrazione delle stesse a opera del reato, sono queste le finalità garantite dai professionisti operanti nell’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario, tra cui psicologi, infermieri, psichiatri, che mettono in campo la loro “umanità oltre che professionalità”. Una “squadra” che Michele ricorda con un sorriso, operosa nell’organizzare le attività ricreative che si svolgevano all’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in particolare il teatro, in grado, come egli sottolinea, di “illuminare le sue giornate”.

L’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziariodi Sant’Eframo oggi è un Centro Sociale rivolto alla comunità

E se la memoria storica dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo vive tanto nelle sue crudeli disumanità quanto nei momenti di arricchimento personale, oggi la stessa struttura a Napoli vive della buona volontà e della professionalità di chi nel sociale ci crede e spende tempo e risorse.

Riqualificato come Centro Sociale, quello che una volta fu luogo di detenzione e oscurità oggi si propone come “luogo entro il quale sentirsi parte di una Comunità” come raccontato dagli operatori che svolgono la loro opera sociale. Attività libere, gratuite, “per chi non può permettersi di pagare il teatro o uno spazio sportivo”, che vanno dai campi di calcetto all’insegnamento della lingua italiana agli immigrati all’orientamento al lavoro.

Questa riqualificazione, se riconsegna dignità agli abusi subiti, mai dimenticati dai detenuti e dalla Comunità, non riesce tuttavia a togliere dagli occhi e dalla mente le immagini di degrado e umiliazione di chi il documentario l’ha visto, di chi ha udito la voce tremante di Michele nel racconto del suo “essere legato al letto, senza pietà, fino a quando non si calmava” o la storia di Vito De Rosa, recluso in una cella senza sedia per cinquantadue anni, e dei tanti altri reclusi di cui Michele dichiara di avere perso ogni traccia.

Un intrecciarsi di storie tristi e sofferenze oltremisura, rese e rinascite (come l’epilogo della vicenda di Michele, attualmente in libertà, dopo cinque anni di reclusione, e che conduce adesso una vita autonoma). Una catena di sofferenze umane inflitte da altri esseri umani e che rimanda all’osservazione iniziale di Basaglia sul ruolo curativo di medicina e giustizia, sul ruolo e la reale efficacia dei metodi punitivi, gratuitamente disumani e spersonalizzanti, sul senso etico e terapeutico del rispetto umano, non solo come diritto inalienabile, ma come misura educativa finalizzata alla cura e alla tutela tanto del detenuto quanto della Comunità in cui dovrà, una volta scontata la sua condanna, utilmente reinserirsi.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

Il lascito di Liotti

Per arrivare a idee così semplici su come curare il malessere psicologico ci sono voluti decenni e ancora non sono abbastanza diffuse. Giovanni Liotti e Fabio Monticelli partono dal buon maestro Darwin.

 

Chi soffre psicologicamente lo fa a partire da un buon motivo. Il comportamento umano è guidato da una serie di spinte – istinti li chiamavano – a sperare qualcosa nelle relazioni. Eccole di seguito:

  • Vogliamo che venga riconosciuto il nostro valore, così da stabilire l’ordine di accesso alle risorse: rango sociale.
  • Cerchiamo conforto in momenti di vulnerabilità: attaccamento
  • Ci muoviamo a prenderci cura di chi soffre: accudimento
  • Cerchiamo di essere parte di un gruppo, pena l’assenza di senso: appartenenza
  • Formiamo legami stabili che portino sensualità e piacere erotico: sessualità
  • Ci alleiamo per raggiungere scopi al di fuori dei nostri limiti individuali: cooperazione
  • Di importanza fondamentale: vogliamo esplorare l’ambiente in modo autonomo, innovare, scoprire. Guidati da arcaici nervi di rettile, usciamo dal territorio cercando risorse, diventiamo giocatori, scienziati, sognatori.

I problemi psicologici cronici nascono dalla previsione che a fronte di questi nostri umani, ineludibili desideri, gli altri risponderanno in modo insoddisfacente. Vogliamo essere apprezzati: ci svaluteranno. Abbiamo bisogno di affetto: levati di torno. Vogliamo esplorare il mondo: fermo lì, resta nel tuo seminato, rispetta gli anziani. Speriamo di sentirci parte di una comunità: non sei dei nostri. In tutti questi casi, se manca la speranza in un destino diverso, la sofferenza è inevitabile.

La terapia che ne consegue parte da quest’idea semplice: il desiderio che hai è sensato, non ti posso promettere che si avveri, ma possiamo riaccendere la speranza.

 

Leggi anche:

L’Alleanza Terapeutica secondo la Prospettiva Cognitivo-Evoluzionista di Liotti e Monticelli

Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

Le nuove epidemie di morbillo in Europa – Infografica

Emergenza Morbillo - Epidemie Morbillo Europa - INFOGRAFICA - Stampaprint

È possibile nel 2018 parlare di un’emergenza morbillo nel bel mezzo dell’Europa? Pare proprio di sì, stando ai dati pubblicati nelle scorse settimane dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità. L’Ente internazionale, di fatto la massima autorità in materia, fotografa una situazione preoccupante: in un solo anno i casi di morbillo nel Vecchio Continente sono cresciuti del 400%, e ad aumentare è anche il numero delle vittime causate dalla malattia infettiva.

Basti aggiungere che ben 15 Paesi su 53 appartenenti alla regione europea hanno fatto registrare delle epidemie con più di cento casi. La situazione, insomma, appare tutt’altro che sotto controllo. L’infografica realizzata da Stampaprint Srl illustra tutti i dati riferiti a questo nuovo focolaio, ma non solo: l’Oms indica anche le probabili cause di quello che possiamo senza dubbio definire un inatteso e non gradito ritorno.

Adolescenti violenti contro i genitori: le cause e i possibili trattamenti terapeutici

L’ aggressività contro i genitori è diventata oggetto di interesse nel mondo accademico solo recentemente, rispetto ad altre forme di violenza privata; è importante capire le motivazioni che spingono a esibire comportamenti aggressivi contro i coetanei e i genitori e a diventare degli adolescenti violenti, e quali sono gli interventi più efficaci per prevenire e trattare questo tipo di problema.

 

I conflitti tra figli e genitori sono molto comuni nell’ adolescenza e le cause sono da ricondurre al risveglio di nuovi bisogni fisiologici e psicologici quali il desiderio di autonomia, l’eccitazione motoria ed un particolare interesse per l’immagine del proprio corpo.

L’ aggressività contro i genitori è stata attribuita anche a fattori di natura sistemica come le modalità comunicative disfunzionali in famiglia, l’aver assistito a episodi di violenza tra genitori, l’inadeguata canalizzazione di emozioni negative come la rabbia. Alcuni studiosi (Margolin, Baucom 2014) hanno tuttavia dimostrato che i comportamenti violenti degli adolescenti contro i propri genitori sono più diffusi tra i soggetti affetti da disturbi della condotta e da disturbi di personalità piuttosto che negli individui con sviluppo nella norma.

E’ stato dimostrato che in seguito a profonde influenze genitoriali negative, i bambini e gli adolescenti possono sviluppare dei disturbi nella sfera emotiva, come una scarsa regolazione delle emozioni, impulsività, scarica motoria della rabbia e della frustrazione (acting-out). Problemi nella sfera affettiva possono portare ad una bassa tolleranza allo stress con conseguenti reazioni disfunzionali in caso di litigi e conflitti.

Adolescenti violenti: quali i fattori di rischio?

Tra i fattori di rischio più comuni che influenzano lo sviluppo di comportamenti violenti nell’adolescenza e che rendono gli adolescenti violenti nei confronti dei genitori e non solo, ritroviamo:

  • educazione basata sulle punizioni corporee, sensi di colpa, denigrazione, derisione ed esasperata coercizione
  • frequenti litigi tra i genitori, soprattutto se violenti
  • violenza assistita
  • disregolazione emozionale (a partire dalla relazione diadica madre-figlio)
  • basso status socio-economico della famiglia
  • vulnerabilità (predisposizione all’affettività negativa, tratti temperamentali)
  • disturbi della condotta presenti durante l’infanzia
  • sesso (i maschi hanno una tendenza maggiore a sviluppare disturbi esternalizzanti rispetto alle femmine)
  • l’appartenenza a bande criminali
  • complesso edipico non superato
  • crescere senza genitori o con un genitore la cui autorità non è riconosciuta
  • difficoltà a inibire gli impulsi

Secondo alcuni studi longitudinali, nessuno di questi fattori di rischio preso singolarmente è responsabile dello sviluppo di comportamenti violenti, quanto una loro combinazione. L’individuazione precoce di alcuni tra questi fattori di rischio (ad esempio nell’infanzia o nella pre-adolescenza), può essere utile nel proteggere gli adolescenti dallo sviluppo di un disturbo antisociale di personalità.

Adolescenti violenti: dall’ acting-out ai casi estremi di omicidi intrafamiliari

Gli adolescenti tendono a comunicare i loro bisogni e le loro emozioni, così come i conflitti più profondi, principalmente attraverso l’azione. L’ acting-out infatti è uno dei meccanismi di difesa più utilizzati dai soggetti con disturbi esternalizzanti (l’ acting-out, per definizione, non è patologico, a meno che non rechi danno a sé e al prossimo- per approfondimenti sul tema dell’ acting-out si veda Lingiardi, Madeddu 2002). Anche nei casi di disturbi del comportamento come i Disturbi del Comportamento Alimentare o l’abuso di sostanze siamo in presenza di una prevalenza di acting-out, a testimonianza di un fallimento nel processo di mentalizzazione. Il proprio corpo diventa centrale nella mente dell’adolescente: colpito, graffiato, svuotato, amato e odiato, funge da mezzo di comunicazione e testimone di dolore e sofferenza interiori. Le azioni violente sul proprio corpo e sul corpo altrui portano con sé il significato della vendetta e della punizione come risultato di rabbia repressa e narcisismo ferito (Maggiolini 2014).

In tutto questo, centrale è anche il risveglio del Complesso Edipico quale configurazione primaria del sistema figlio-madre-padre già sperimentato nella primissima infanzia. Nel periodo edipico si assiste ad una rivalità e competizione con il genitore dello stesso sesso (complesso di Elettra per le femmine) ed un desiderio erotico (inconscio) nei confronti del genitore di sesso opposto. Per quanto la dinamica relazionale sottostante la configurazione edipica sia in larga parte inconscia, assume un ruolo importante nella conflittualità esasperata tra genitori e figli adolescenti.

In casi più estremi, ma fortunatamente isolati, la violenza contro i genitori può trasformarsi in omicidio, come gesto disperato di affrancamento dalla morsa di un genitore vessatorio o opprimente. Lo psichiatra italiano Vittorino Andreoli, studiando casi di adolescenti violenti e omicidi intrafamiliari, ha evidenziato che il più delle volte

La relazione con il genitore è chiaramente di natura nevrotica, basata su un legame di dipendenza in gran parte inconscia, che rende la presenza dell’altro necessaria e condizionante […] vi sono odio e amore, una relazione dalla quale non si può scappare perché il nodo non è logico-razionale ma radicato nel profondo della psiche. Diventa impossibile cancellare l’altro, la cui presenza è forte come un magnete, non lo si può eludere, lo si può solo uccidere (2002, p.24).

L’uccisione di cui parla Andreoli può essere intesa anche come eliminazione simbolica del genitore percepito come opprimente e invalidante, agendo sul suo corpo con violenza e brutalità.

Tra le motivazioni più profonde della ribellione violenta contro i genitori vi è un disperato bisogno di libertà: gli adolescenti non sopportano le restrizioni e le imposizioni dei genitori che sono sentiti come ostili ed egodistonici (dall’immagine di sé, dalle proprie emozioni e dai propri bisogni). Vergogna, umiliazione, psicopatologia, inadeguatezza genitoriale sono quindi elementi di cui tenere conto quando si cerca di comprendere le ragioni del comportamento degli adolescenti violenti.

Alcuni studi scientifici suggeriscono che gli adolescenti non sono in grado, quanto gli adulti, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e di calcolare il rischio. Queste caratteristiche possono essere di natura temperamentale (impulsività, ricerca di sensazioni, scarsa abilità decisionale). Inoltre i soggetti con ipofunzionalità della corteccia prefrontale esibiscono una marcata disinibizione comportamentale (Gennaro, Scagliarini 2007).

Il ruolo della comunicazione famigliare nello sviluppo di condotte violente

Secondo alcune teorie sulla comunicazione (Watzlawick, Jackson 1971; Laing 2002), gli adolescenti violenti e arrabbiati presentano delle difficoltà nel comunicare pensieri ed emozioni ai propri genitori: le famiglie disfunzionali utilizzano modalità interattive “patologiche” come i silenzi, espressioni ambigue, sguardi sfuggenti, incoerenza tra ciò che viene detto e ciò che viene mostrato. In gran parte dei casi, ciò che emerge da un’analisi approfondita delle dinamiche relazionali disfunzionali appartiene al registro dell’implicito, del non-detto, causando nella mente del figlio fantasmi di distruzione. La comunicazione patologica può influenzare i soggetti con predisposizione all’affettività negativa.

Adolescenti violenti contro i genitori: cosa si può fare?

Comprendere le ragioni che spingono gli adolescenti a diventare adolescenti violenti e a commettere azioni criminali è rilevante ai fini della pianificazione di strategie di prevenzione e trattamento. La prevenzione è un beneficio sia per il soggetto autore di violenze sia per la società (Huntley et al. 2017).

Come spiegato in precedenza, lo sviluppo del comportamento violento affonda le radici nelle dinamiche familiari disfunzionali e in fattori come disturbi di personalità, storie di abusi, impulsività, difficoltà nel regolare le emozioni, nella vulnerabilità biologica e in sistemi di attaccamento inadeguati.

L’intervento precoce può essere la chiave: inizialmente i figli possono evitare di parlare degli abusi dei genitori  perché non li vogliono tradire, per proteggere il senso di lealtà che tiene unita la famiglia (Onnis 2013). Tuttavia, incoraggiare i ragazzi (ma anche i genitori) a chiedere aiuto ai professionisti della salute mentale può rinforzare le azioni preventive e impedire l’esacerbazione della conflittualità intrafamiliare.

Tra gli interventi terapeutici più efficaci vi sono quello sistemico-familiare e il colloquio motivazionale. Lo scopo del primo approccio è quello di incoraggiare sia i figli che i genitori ad adottare modalità interattive prosociali basate sull’ascolto reciproco e sull’espressività emozionale, sull’accettazione e la comprensione dei rispettivi punti di vista. Il secondo, è uno strumento molto efficace che ha come scopo quello di promuovere nell’ adolescente uno stile di vita più salutare facendo leva sulle sue risorse interiori, capacità e abilità sia cognitive che emozionali. Il giovane viene stimolato a riflettere sulle proprie scelte e azioni, a immaginare comportamenti alternativi più funzionali al suo benessere e a quello altrui, attraverso feedback personali e l’implementazione di piani di cambiamento sotto la guida dell’operatore. Il colloquio motivazionale raggiunge risultati migliori quando viene coinvolta anche la famiglia.

Mancanza di coordinazione tra aree cerebrali? Possibile causa di disturbi dell’attenzione

I disturbi da deficit dell’attenzione potrebbero derivare da una compromissione della coordinazione tra alcune aree cerebrali.

 

I ricercatori del Case Western Reserve University School of Medicine, hanno scoperto che due regioni del cervello, la corteccia prefrontale e l’ippocampo, lavorano normalmente insieme per mantenere l’ attenzione. Contrariamente, la mancanza di sincronizzazione tra queste regioni cerebrali può portare a disturbi seri, tra cui il disturbo dell’attenzione , il disturbo bipolare e la depressione maggiore.

Le persone con deficit dell’attenzione hanno difficoltà a focalizzare e spesso mostrano comportamenti compulsivi.

Il nuovo studio suggerisce che questi sintomi potrebbero essere dovuti ad una disfunzione del gene ErbB4. L’attività di questo gene è già stata correlata, in ricerche precedenti, a diversi disturbi psichiatrici ma ora, secondo questo nuovo studio, si afferma che il gene ErbB4 sia necessario alla coordinazione di una cascata di segnali cerebrali indispensabili per sincronizzare la corteccia prefrontale e l’ippocampo.

Lo studio pubblicato su Neuron è stato condotto su topi ed ha coinvolto i processi di attenzione selettiva top-down. L’ attenzione può essere o “bottom-up” (dal basso verso l’alto), e si verifica quando alcuni input ambientali ci catturano indipendentemente dalla volontà, o al contrario “top-down” (dall’alto verso il basso), quando utilizziamo la capacità di selezionare determinati stimoli per un probabile vantaggio o premio.

L’ attenzione top-down è orientata quindi al raggiungimento dell’obiettivo e collegata alla messa a fuoco: le persone che non dispongono di un’ attenzione top-down efficiente sono ad alto rischio per il disturbo da deficit dell’ attenzione.

 

 

Assassine – Storie di (stra)ordinaria normalità (2017) di A. Ganci – Recensione del libro

Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità è un volume molto interessante sull’omicidio perpetrato dalle donne; lo confronta con quello maschile ed indaga la psicologia della parte più nera dell’animo umano.

 

Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità è un testo che attraversa la storia di donne comuni, che giungono alla violenza estrema.

L’ autrice, cercando di analizzare la logica della mente criminale di queste assassine, attraverso la lente delle più recenti teorie criminologiche, ne analizza anche le ipotetiche cause scatenanti e le conseguenti vicende giudiziarie.

Assassine: le più famose donne serial killer

 Angela Ganci offre al lettore un’opportuna premessa sulla “banalità del male”: descrive le teorie sociologiche della criminalità femminile, partendo da quelle classiche e più datate, passando attraverso l’evoluzione storica del femminismo, per arrivare agli sviluppi attuali delle teorie di genere. Successivamente il testo si occupa prettamente di serial killer, cercando inizialmente di spiegarne il significato in senso generale; poi ne confronta le somiglianze e le differenze di genere. L’autrice descrive poi una classificazione delle donne serial killer, presentando per ciascuna di esse un caso di cronaca di riferimento, analizzandone nel dettaglio la storia: la vedova nera (il caso Belle Guinness), l’angelo della morte (gli orrori di Saronno), le assassine mentalmente disturbate (il caso Leonarda Cianciulli) ed infine le coppie assassine (il caso dei coniugi West).

La violenza in famiglia

La seconda parte del testo Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità si riferisce alla violenza attraverso l’analisi degli eventi formativi tenuti dallo studio di Psicoterapia e mediazione familiare dell’autrice, cercando di evidenziare che “il tema della violenza intrafamiliare diviene causa della vittimizzazione o del comportamento abusante messo in atto del vittimizzato.”

Numerosi gli argomenti dei seminari presentati nel testo che fanno riferimento al tema della violenza a danno dell’infanzia: l’autrice evidenzia il ruolo degli abusi fisici, psicologici e/o sessuali sul minore in termini di conseguenze a breve-lungo termine sulla sfera cognitiva, affettiva e dell’identità. Il tema all’abuso sui minori, si focalizza anche sulle misure giuridiche a difesa dell’infanzia violata e nell’ottica del diritto a una famiglia che possa assolvere alle sue funzioni curative. Interessanti anche i seminari dedicati alla violenza tra pari, al bullismo e al cyberbullismo, e agli attualissimi aspetti della psicologia dell’immigrazione.

Il contratto terapeutico

Parlo coi pazienti, supervisiono molti giovani colleghi, discuto casi durante le lezioni. L’esperienza è sempre la stessa, nessuno, davvero nessuno degli allievi o dei giovani colleghi mette in pratica una cosa: la formulazione e il continuo rinnovo del contratto terapeutico.

 

Giancarlo, la terapia va male, il paziente non risponde, non so più che fare. Gli ho spiegato che dovrebbe attivarsi, affrontare il sintomo attivamente, parlare diversamente con la moglie, il marito, il collega, ma niente, non fa niente.

Dopo questo discorso le reazioni del terapeuta sono spesso: scoraggiamento e impotenza, insieme all’idea di essere scarso. Irritazione verso il paziente. Facilmente: oscilla tra le due. E nessuna delle due è particolarmente benefica per il trattamento.

Mi chiedo sempre: il concetto di alleanza terapeutica, merita di essere ignorato così? È così ingiusto che un concetto così bello, utile, commovente nella sua semplicità, resti inosservato? Eppure è così: i terapeuti lo dimenticano.

L’ alleanza terapeutica ha tre componenti. Il bond, il legame. Che traduco come: passare un’ora in questa stanza insieme non è poi così male. E qui i terapeuti spesso ci arrivano. Poi c’è il goal, la meta, l’obiettivo. E qui i terapeuti ci devono arrivare. Il paziente entra in terapia e si definisce, si spera in modo congiunto, paritetico, collaborativo, dove si vorrebbe andare a parare. Varie declinazioni specifiche del concetto di ‘stare meglio’.

E infine casca l’asino. La terza componente. Se la scordano tutti. Eppure dovrebbe definire la terapia cognitiva. Ma se la scordano tutti. Il task, il compito. Lei vuole andare lì, siamo d’accordo, e per farlo sarà necessario che io faccia questo e lei faccia, tra una seduta e l’altra, quello. Ok? Stretta di mano?

La mano, i terapeuti di solito non la stringono. E la pagano cara questa mancata stretta.

Che significa? Che i terapeuti, giovani e meno giovani, esperti e meno esperti, cognitivisti e meno cognitivisti o non pensano proprio che la cura passa attraverso l’esecuzione degli homework, oppure lo sanno – fiuuu, meno male – ma pensano di dovere convincere il paziente a farli.

Una delle cose che trovo meno facili da tollerare nei colleghi è quando vogliono convincere i pazienti di qualcosa: insistono, pressano, spiegano, alzano la voce, rimproverano spesso con grande soddisfazione: ‘Eh, sapessi, ma io gliel’ho detto al paziente, sai? E sì, proprio non vuole capire, ma gliene ho cantate quattro’. Come canzone quasi quasi preferisco Anna Tatangelo.

No. La strada per la cura è un’altra. Il terapeuta crea il legame. Fatto? Definisce la meta. Fatto? E spiega al paziente che per raggiungere la meta bisognerà seguire una certa strada. Se quella strada non la vuole percorrere se ne può provare un’altra. Poi una terza. La quarta di solito non c’è o almeno io, come terapeuta, non la conosco.

Ecco, questo è il momento di formulare il contratto. Il terapeuta non deve spingere il paziente su quella strada, saggia, foriera di futuro e speranza, colma di salute, benessere e felicità. Il terapeuta la deve prefigurare quella strada, disegnarla nell’aria con ipnotici movimenti delle dita, evocarla, tracciarla su carta nel caso. E poi il contratto: ‘Senta, lei se la sente di fare questo viaggio al fine di arrivare a quell’approdo?’.

Il terapeuta bravo, a questo punto, fa una cosa strana. Respira. A lungo, profondamente, quasi un respiro mindful.

Respira. A lungo. E poi. Aspetta.

Il concetto chiave del contratto terapeutico è che il terapeuta aspetta. Spiega al paziente lo spiegabile, definisce il definibile. Ma poi chiede: ‘Questi passi le va di compierli? Se la sente? Ne è convinto?’. Alla fine, fatta la domanda.

Aspetta. Bravi, quello.

Adesso la terapia entra in uno stato di sospensione, un’attesa infinita dell’istante successivo. Il momento prima del calcio di rigore, dopo che il calciatore ha piazzato la palla sul dischetto, prima di tirare. Il pubblico trattiene il fiato. Il terapeuta trattiene il fiato.

Trattiene il fiato significa disciplina interiore, ovvero il terapeuta regola le sue tendenze a preoccuparsi, irritarsi, agire per essere efficace.

La terapia esce dallo stato di sospensione quando e solo quando il paziente dice: ‘Sì, lo voglio’. Ok, non è proprio come il matrimonio, ma il concetto è simile, se non dici sì a voce alta non risulti sposato.

I terapeuti saltano a piè pari tutta questa fase di attesa e di ascolto del sì definitivo del paziente. E quindi penano di fronte a pazienti passivi, confusi, oppositivi, sfidanti. Invece la soluzione è semplice: si tratta di scrivere e riscrivere continuamente il contratto.

Attenzione: il contratto non è quella cosa che si scrive, magari firmata col sangue, all’inizio del trattamento. Esattamente allo stesso modo dell’ alleanza, che va continuamente riparata dopo che si è rotta, il contratto va continuamente aggiornato dopo essere stato scritto e firmato. La terapia si evolve, cambiano le mete, cambiano i compiti e quindi si ridefinisce l’accordo.

Una mia giovane collega mi porta in supervisione un caso di una donna che entra in terapia con sintomi d’ansia. I sintomi in un certo grado migliorano con un insieme di affrontamento delle situazioni temute e tecniche per la riduzione del rimuginio. Lo scenario diventa quello di un problema interpersonale. La donna descrive il marito come distante, strafottente, verbalmente aggressivo e sprezzante. Ha due figlie piccole di cui fatica a occuparsi. Vorrebbe separarsi ma ha timore che se lo facesse sarebbe solo per dare ragione alla madre che pressa affinché lei lasci un uomo tanto orribile. Allo stesso tempo se non lo lascia si sente infelice. È in uno stato di paralisi, di scontentezza cronica. La terapeuta cerca di ricostruire gli schemi interpersonali maladattivi e con un po’ di fatica ci riesce. Lo scopo desiderato è quello di autonomia/esplorazione. Se si muove nella direzione di un desiderio proprio descrive l’altro come critico, sprezzante, punitivo e che l’abbandona. A quel punto risponde sentendosi inetta, incapace o abbandonata. Si attiva l’attaccamento e si sottomette per evitare l’abbandono. Ritorna a quel punto infelice e desiderosa di autonomia. Non esce dal circolo vizioso di mantenimento.

Passano alcuni mesi e la paziente non fa nessun passo. La terapeuta si dibatte, si preoccupa, si irrita, si accusa: “Perché la paziente non si muove, dove sto sbagliando? Però mi fa pure incazzare”.

Le dico: “Hai chiesto alla paziente qual è l’assetto desiderato? E soprattutto, come parte dei vostri accordi, quali azioni è disposta a fare per raggiungerlo”. “No”. “Prova”.

Lo fa. Glielo chiede. La paziente risponde. La terapeuta è sorpresa dalla risposta che ascolta: “Vede, è come se vivessi in una gabbia dorata. Avere il sostegno economico di mio marito e la presenza di mia madre è comodo e io non so se voglio rinunciare a questa comodità”.

Svelato l’arcano. La terapeuta voleva guarire la paziente, ma la paziente non le stava dando strumenti. Non aveva deciso di volere andare verso la metà.

La terapia è cambiata. La terapeuta si è rasserenata. E ha fatto la domanda più semplice del mondo. Una domanda fatta all’interno di uno stato relazionale di assoluta presenza, non una minaccia, un aut-aut. Sono qui, le resto e le resterò vicino, ma le chiedo: “Benissimo, mi rendo conto che la gabbia dorata può essere confortevole. Lo capisco, l’ho sperimentata anche io. Però se non vuole lasciarla, in terapia cosa possiamo fare? Che strumenti mi dà perché io possa condurla verso il benessere”.

Se i pazienti ascoltano quella domanda iniziano per la prima volta a pensare.

Gravidanza e infiammazione: quali conseguenze potrebbero esserci nei bambini?

L’infiammazione è una normale della risposta del corpo alle infezioni, allo stress cronico o all’obesità. Nelle donne in gravidanza, si ritiene che un’accentuata infiammazione aumenti il rischio di malattie mentali o problemi di sviluppo del cervello nei bambini. Quali? In che misura?

Lucia Marangia

 

Uno studio condotto dai ricercatori dell’OHSU di Portland, in Oregon, ha stabilito un legame tra l’infiammazione nelle donne in gravidanza e il modo in cui il cervello del neonato è organizzato in reti.

I risultati dello studio, pubblicati su Nature Neuroscience, potrebbero fornire strade promettenti per esplorare trattamenti potenzialmente in grado di modificare questi impatti negativi sulla funzione cerebrale neonatale.

Il gruppo di ricerca ha raccolto campioni di sangue da 84 donne a ogni trimestre di gravidanza, misurando i livelli di interleuchina, 6 (IL-6), un marker d’infiammazione, già noto per la sua influenza nello sviluppo del cervello del feto.

Quattro mesi dopo la nascita, hanno valutato il grado di imaging a risonanza magnetica funzionale. Hanno infine misurato le prestazioni della memoria di lavoro dei piccoli all’età di due anni, un fattore predittivo per la successiva riuscita negli studi e dell’eventuale presenza di disturbi mentali.

Gravidanza e infiammazioni: i risultati dello studio

I dati ricavati mostrano che le differenze nei marker d’infiammazione nelle madri erano direttamente associate a differenze nelle vie di comunicazione cerebrale appena formate, cosi come alla successiva memoria di lavoro a due anni di età. In particolare, i livelli d’infiammazione più alti della madre durante la gravidanza sono risultati correlati negativamente con la capacità di memoria dei bambini.

[blockquote style=”1″]È importante sottolineare che il risultato non significa che ogni esposizione all’infiammazione possa avere un impatto negativo sul bambino, tuttavia questi risultati offrono nuove possibilità di ricerca e possono aiutare gli operatori sanitari a pensare a come e quando l’infiammazione potrebbe avere un impatto sullo sviluppo dell’apprendimento a lungo termine del bambino e sulla salute mentale [/blockquote]

ha spiegato Alice Graham, coautrice dello studio. Un altro aspetto notevole dello studio, è lo sviluppo di un modello previsionale:

[blockquote style=”1″]Ora, disponiamo di un approccio basato anche sulla tecnica d’intelligenza artificiale noto come apprendimento automatico, che sulla base delle scansioni di risonanza magnetica funzionale, permette di risalire a livelli complessivi d’infiammazione durante la gravidanza[/blockquote]

ha aggiunto la ricercatrice. Inoltre

[blockquote style=”1″]Questa comprensione fornisce alcune informazioni sulle future prestazioni di memoria dei bambini, consentendo un precoce intervento clinico, se necessario[/blockquote] .

In futuro, gli autori intendono approfondire in che modo fattori presenti prima e dopo la nascita, come la società e l’ambiente, possono interagire per influenzare la funzione cognitiva nei bambini.

[blockquote style=”1″]Lo stress aumentato e la cattiva alimentazione sono considerati normali secondo gli standard odierni, ma influiscono notevolmente sui tassi di infiammazione in tutti gli esseri umani, non solo nelle mamme in attesa. Dobbiamo anche capire quali fattori portano a un più elevato livello d’infiammazione, e predisporre terapie mirate per ridurre i tassi d’infiammazione e l’impatto complessivo sul cervello in via di sviluppo[/blockquote]

ha concluso Graham.

 

Stress e performance atletica (2017) – Recensione del libro di Cesare Picco

Nel libro Stress & Performance Atletica, Cesare Picco affronta il tema delle relazioni tra lo stress e le prestazioni sportive dipingendo un quadro ben più complesso rispetto a quello basato solamente sulle informazioni riferite alle medie della popolazione.

 

Cesare Picco, infatti, parte dal presupposto che esistano le eccezioni alle regole, eccezioni rappresentate da atleti e sportivi il cui funzionamento non coincide con quello delineato dalle teorie formulate finora. L’autore, attraverso i cinque capitoli che compongono il libro Stress & Performance Atletica, accompagna il lettore nel mondo dello stress, dapprima introducendolo al concetto con riferimenti alle dottrine classiche, per poi entrare nella fitta rete di relazioni tra stress e performance atletiche.

Cos’ è lo stress?

Nel primo capitolo l’autore Cesare Picco presenta lo stress come un processo di adattamento ad un qualsiasi cambiamento, che deriva sia da un eccesso sia da una mancanza di stimolazione rispetto ad un livello ottimale. Per approfondire il tema, l’autore riporta nel dettaglio la Sindrome Generale di Adattamento, spiegando le fasi che attraversa il nostro organismo nel momento in cui reagisce a uno stress: la fase di allarme, suddivisa nelle sottofasi Shock e Contro-Shock; la fase di resistenza e la fase di esaurimento. Per ognuna di queste, sono indicate le variazioni che avvengono a livello corporeo ed endocrino. È poi esposta la sintomatologia legata allo stress, nei livelli fisico, comportamentale e psicologico. Cesare Picco si mostra attento a non lasciare nulla al caso, dedicando spazio anche a quella che definisce l’altra faccia della medaglia dello stress, ovvero la resilienza, spiegandone le varie componenti e i collegamenti con determinate caratteristiche di personalità. Si continua affrontando l’esperienza di flow, uno stato di immersione nell’attività in cui si raggiunge la prestazione ottimale.

È interessante notare come le spiegazioni in Stress & Performance Atletica siano chiarificate da numerosi esempi e riferimenti alla pratica atletica, che rendono molto più comprensibili i significati descritti.

Stress & Performance Atletica: come agisce lo stress sulle prestazioni sportive?

Nel secondo capitolo di Stress & Performance Atletica si inizia a collegare lo stress alle performance atletiche, partendo dalla rappresentazione della legge di Yerkes e Dodson, che mette in relazione il livello di stress provato con la bontà della performance, spiegando come le prestazioni migliori avvengano all’interno di una fascia intermedia di attivazione (eustress). È qui che Cesare Picco introduce le conoscenze derivanti dalla sua esperienza, spiegando come questa curva stress-performance non valga per tutti gli atleti. L’autore propone quindi cinque differenti curve, definite utilizzando nomi di motori: Motore a benzina, Motore a diesel, Motore a gas, Motore misto di tipo A, Motore misto di tipo B. Esplicitare al meglio e nel dettaglio l’ associazione tra stress e performance è basilare affinché ogni atleta possa identificare il proprio livello ottimale di attivazione, compresi coloro che si discostano dal funzionamento della maggioranza della popolazione. Sono ipotizzate cinque curve normali, non più una, nelle quali rientrano percentuali diverse di casi. Avere consapevolezza della posizione che si occupa nella propria curva in un determinato momento, continua l’autore, consente di mettere in atto strategie di ipo- o iper-attivazione che permettano uno spostamento verso la personale fascia ottimale di stress, massimizzando le possibilità di performance positive.

Anche qui si nota l’attenzione posta da Cesare Picco nel cercare di fornire una visione completa dell’argomento che comprenda anche gli aspetti negativi, ad esempio con la descrizione della sindrome del burn-out sportivo, illustrato nelle varie componenti, e dell’overtraining, il sovrallenamento, di cui si riportano i principali sintomi. In Stress & Performance Atletica, Cesare Picco accenna anche alle relazioni tra stress e altri fattori costituenti la vita di un atleta, come gli infortuni e l’ alimentazione.

Cosa sono le curve stress-performance?

Il terzo capitolo di Stress & Performance Atletica è dedicato all’esposizione vera e propria delle curve stress-performance menzionate precedentemente. Per ognuna di queste tipologie atletiche vengono riportate le principali caratteristiche, la fenomenologia corrispondente ai diversi livelli della risposta allo stress, secondo il modello della Sindrome Generale di Adattamento, e le indicazioni su come si concretizzino tali specificità nelle fasi dell’attività atletica, cioè allenamento/preparazione, pre-gara, gara e recupero. Vale la pena spendere due parole sulle diverse curve.

  • Il Motore a benzina rimanda alla condizione più diffusa tra gli atleti. Questi sono caratterizzati da una reazione psico-fisica allo stimolo veloce ma non immediata e da una resistenza di durata medio-lunga, che viene terminata dal soggetto prima che lo stress raggiunga picchi elevati, per permettere un buon recupero. Un soggetto di questa categoria è definito “All-Around Player”, un atleta che riesce ad essere performante in una molteplicità di situazioni e contesti e a livelli competitivi differenti. D’altro canto, lo svantaggio è proprio la difficoltà nel trovare quella specificità in grado di farlo emergere davvero.
  • L’atleta con il Motore a gas mostra un funzionamento migliore e una migliore prestatività quando scarsamente sollecitato. Il basso livello di stress deve però essere presente sia a livello sportivo sia extra-sportivo. È caratterizzato da una risposta immediata al cambiamento, che avviene cioè a bassi livelli di attivazione, e passa velocemente alla fase di resistenza e a quella di esaurimento, rendendolo poco efficace in situazioni che richiedono un impegno duraturo e nei momenti decisivi di alto stress. Le capacità dell’atleta sono inficiate negativamente da livelli di stress anche bassi.
  • Il Motore a diesel è caratterizzato da prestazioni buone sulla lunga durata e se stimolato abbondantemente. La risposta allo stress è tendenzialmente lunga, seguita da una fase di resistenza anch’essa prolungata che permette di gestire una grande mole stressogena o stress molto intensi e che si esaurisce, invece, con un repentino tracollo, seguito spesso da una sintomatologia fisica invalidante. La performance migliora all’aumentare dello stress ma, nel momento del decadimento, raggiunge livelli decisamente inferiori alle proprie capacità, generando effetti controproducenti per sé o per la squadra. Il grande vantaggio di riuscire ad essere molto efficienti in presenza di stress elevati si accompagna al rischio di incappare nella troppa attivazione che comporta la caduta libera delle proprie abilità.
  • Gli atleti con Motore misto A e B presentano prestazioni positive in due momenti, ai livelli di stress medio-basso e medio-alto, e prestazioni inferiori con attivazioni basse, medie e alte. Il primo tipo ha una partenza molto buona, cui segue un calo nella fase centrale dell’attività, per poi tornare a crescere sul finale, senza però riuscire più a raggiungere la qualità della prova iniziale. Il Motore misto B ha un andamento sovrapponibile che si differenzia solo per il fatto che la performance migliore si posiziona al secondo picco di performance positiva, ovvero a livelli medio-alti di stress, in modo speculare al tipo A.

Stress & Performance Atletica: il ruolo delle caratteristiche di personalità

Cesare Picco allarga il suo lavoro indagando alcune caratteristiche di personalità coinvolte nella percezione e nella gestione dello stress. Di esse sono descritte le varie proprietà e ne vengono spiegate le relazioni con e le influenze sulla prestazione. Di seguito è riportato un elenco delle componenti prese in esame:

  • autoefficacia: un atleta che ha fiducia nelle proprie capacità e si sente in grado di affrontare le sfide, percepirà meno stressanti gli eventi, si mobiliterà più facilmente e metterà in pratica soluzioni più efficaci;
  • ansia di tratto: la predisposizione a reagire in modo ansioso anche in situazioni poco attivanti;
  • vigoria psicologica: è composta da Commitment, la capacità di provare piacere in ciò che si fa, da Control, un approccio attivo alle situazioni stressanti, e da Challange, la considerazione dei cambiamenti e delle difficoltà come sfide positive;
  • locus of control: la personale interpretazione delle cause degli eventi, dei successi e degli insuccessi, come dipendenti da sé stessi o da fattori esterni;
  • comportamento di tipo A e B: in generale, le personalità A vivono stati affettivi e mettono in atto comportamenti volti a raggiungere nuovi obiettivi nel minor tempo possibile, mentre le personalità B affrontano la vita con tranquillità e meno ambizione;
  • sensation seeking: i “ricercatori di sensazioni” sono individui che necessitano di sperimentare un livello decisamente elevato di sensazioni e di emozioni;
  • alessitimia: una caratterizzazione cognitiva contraddistinta da una preponderanza di pensiero concreto/operatorio, a discapito della sfera emozionale, ideativa e onirica, dalla povertà nei rapporti sociali, da una rigidità posturale, da un’attenzione marcata a sintomi fisici specifici, da una difficoltà a leggere i propri e gli altrui sentimenti, da scarsa capacità introspettiva;
  • perfezionismo: tendenza a cercare standard elevati di prestazione, che può essere considerata un fattore predisponente al successo sportivo, ma che può anche sfociare in eccessiva autocritica e in uno stile di pensiero ruminativo;
  • ottimismo: una predisposizione che sembra incidere positivamente sulla risposta allo stress, ad esempio contrastando l’emersione di sintomatologia fisica stress-correlata;
  • apertura sociale: la presenza di relazioni significative e di rete sociale è un fattore protettivo nei confronti di eventi stressanti o nei momenti problematici della vita;
  • senso di coerenza: gli atleti con questa caratteristica percepiscono gli eventi della loro vita come comprensibili, gestibili e densi di significato;
  • affettività negativa/nevroticismo: consiste nello sperimentare frequentemente stati mentali interni negativi come insoddisfazione e rabbia;
  • pensiero autotelico: consente di trovare la motivazione nel praticare una determinata attività, per il piacere stesso provato durante lo svolgimento;
  • self-handicapping: strategia che identifica preventivamente i motivi, con causa esterna, per cui si potrebbe incappare in un fallimento;
  • paura di vincere: o Nikefobia, porta l’atleta a comportarsi in modo poco produttivo nei momenti decisivi.

È intuibile come tutte queste particolarità possano incidere sulla percezione e sulla gestione dello stress.

Una marcia in più per vincere

L’ultimo capitolo di Stress & Performance Atletica, infine, sottolinea i risvolti positivi che può avere una considerazione approfondita della relazione stress-performance nell’attività di ogni atleta. Il libro fornisce un ottimo contributo volto a massimizzare le possibilità di miglioramenti e di risultati positivi nell’attività sportiva. Delineare un profilo adeguato dell’atleta, permette di dare un significato alle reazioni manifestate nei diversi momenti costituenti lo sport e di aumentare la conoscenza di se stessi nell’ottica non solo di ottimizzare le prestazioni, ma anche di favorire il proprio benessere psico-fisico.

 

Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici – Report del convegno di Palermo

Obiettivo dell’ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI.

 

Etica, psicologia, medicina, diritto: discipline al servizio dell’umana sofferenza nel momento cruciale in cui essa esita nel passaggio verso l’altro aspetto della vita stessa, la morte, in quanto evento fisiologico, inevitabile, che necessita accompagnamento, supporto professionale, sociale ed emotivo.

Quali allora le competenze comunicative e terapeutiche da mettere in atto nel momento delicatissimo in cui la malattia cronica, terminale, diviene diagnosi clinica e in cui la “scelta” delle cure diviene determinante nel senso alto del “prendersi cura” del malato e dei suoi ultimi giorni? Ancora, quale ruolo concesso all’autonomia decisionale rispetto alla scelta stessa delle cure di fine vita da parte del paziente?

Queste in sintesi gli interrogativi mossi dalla Giornata Nazionale FADOI-ANIMO del fine vita, svoltasi il 7 aprile scorso a Palermo, con il Patrocinio del Ministero della Salute.

Il nostro obiettivo come ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI

commenta Maria Lucia Rita Di Grigoli, Referente Regionale ANIMO per la Sicilia.

Il fine vita: dimensione medica, psicologica e sociale

Il fine vita, inevitabile momento di conclusione del ciclo vitale in cui garantire la qualità della vita e la dignità del paziente, diviene aspetto etico imprescindibile, che si traduce, a livello medico, in adeguata nutrizione, idratazione, igiene del corpo e riduzione del dolore fisico attraverso sedazione e l’utilizzo delle cure palliative, ma anche in ascolto del disagio emotivo, familiare e sociale che ogni paziente porta con sé.

“L’obiettivo di una terapia del fine vita è rendere la vita residua la miglior vita possibile – precisa Roberto Garofalo, Medico Chirurgo, specializzato in Geriatria e Gerontologia e Cure Palliative dell’ASP di Palermo – Ciò implica anche l’evitamento dell’accanimento terapeutico, ovvero la messa in atto di cure inutili o sproporzionate, che causano solo sofferenza, come 15 o 20 compresse al giorno, e l’invito a circondare il malato dei suoi affetti, offrendo altresì assistenza domiciliare. Non esistono regole standard per la terapia, da individuare in base a ogni singolo paziente e il supporto deve coinvolgere la famiglia, il sociale, oltre gli aspetti medici, mettendo in chiaro che la guarigione è solo un’opzione terapeutica e bisogna puntare sulla qualità di vita, a prescindere dalla guarigione”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Fine vita aspetti psicologici etici e giuridici - Report congresso di Palermo IMM1

 

Fine vita aspetti psicologici etici e giuridici - Report congresso di Palermo IMM2

Immagini dal Convegno “Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici”

Comunicare la diagnosi di fine vita

Una qualità della vita che non può prescindere dalla collaborazione del paziente alle cure, garantita da una corretta comunicazione tra medico e paziente e medico e familiari, a partire dal delicato momento della comunicazione della diagnosi infausta.

Se molti familiari sostengono di non dire la verità al paziente perché morirebbe prima dei suoi giorni, la pratica clinica suggerisce invece che una diagnosi che altera drammaticamente la prospettiva di vita, comunicata con empatia, non in maniera brusca e frettolosa, e secondo modalità che infondono speranza, aumenta la collaborazione con il paziente e la qualità della sua vita. D’altronde l’atteggiamento empatico del medico e del paramedico è fondamentale per non far morire il paziente nella disperazione – spiega Valentina Bordino, Psicologo dell’ASP di Agrigento – Per comunicare con empatia la diagnosi è importante essere consapevoli dell’esistenza, nei familiari, di automatismi che li spingono a non voler sapere, corrispondenti alla negazione iniziale del trauma della malattia, secondo un modello a cinque fasi a cui segue la rabbia, la depressione e che auspicabilmente condurrà all’accettazione della malattia, secondo il modello di Elisabeth Ross.

Far accettare la morte al paziente e ai suoi familiari, cercando spazi di collaborazione, significa reinserirla nel ciclo vitale, curando con rispetto fino alla fine, accettando ciò che deve accadere – sottolinea ancora Valentina Vegna, Psicologa Area Emergenza Ospedale Civico di Palermo.

Accettazione e autonomia decisionale del paziente nel fine vita

Sull’accettazione (o meno) dell’inevitabile e delle cure che vi si accompagnano, si gioca tutto il dibattito odierno sul principio dell’autonomia decisionale del paziente.

Esso è legato agli aspetti legali ed etici di un’eventuale decisione di “sospensione delle cure” secondo quanto predisposto dalle modernissime Disposizioni Anticipate di Trattamento, emanate a gennaio del 2018.

Spiega Pietro Virgadamo, Professore Associato Istituzioni di diritto privato LUMSA di Palermo:

Il più noto Testamento biologico predispone che, nella piena capacità di intendere e volere, e in previsione di una malattia cronica che comporti il sopraggiungere dell’incapacità di intendere e volere, si possa esprimere se accettare o rifiutare trattamenti sanitari o accertamenti diagnostici. Molte le note critiche, in relazione al delicato confine concettuale con l’eutanasia, tra cui il ruolo dell’idratazione e della nutrizione artificiali che non è chiaro, dal testo di legge, se si debbano intendere come terapia (quindi da potere rifiutare) o mera sussistenza.

La genitorialità: una visione neuroscientifica

Per la prima volta, gli scienziati hanno analizzato i circuiti cerebrali implicati nella gestione del comportamento genitoriale nei topi.

 

Il team, guidato da Catherine Dulac dell’Howard Hughes Medical Institute, ha scoperto che oltre 20 diverse parti del cervello sono integrate in questo circuito: distinti gruppi di cellule all’interno di un centro di controllo genitoriale innescano i cambiamenti motivazionali, comportamentali e ormonali coinvolti nella cura dei piccoli di animali.

Non è ancora noto se gli esseri umani e altri animali condividano gli stessi circuiti cerebrali inerenti al pattern comportamentale del parenting identificati nei topi, ma i ricercatori sottolineano che altri neuroni, che sono stati identificati come responsabili del controllo di altri comportamenti essenziali nei roditori, esistono anche in altri vertebrati.

Identificare il modo in cui il cervello controlla il circuito neuronale del parenting potrebbe, un giorno, aiutare i ricercatori a escogitare dei modi per aiutare le madri nella creazione di un legame con i propri bambini in caso di depressione postpartum.

Lo studio: premesse e sviluppo

Ciò che ha incuriosito i ricercatori non è solo come i circuiti cerebrali controllano il comportamento genitoriale ma anche la distinzione fondamentale tra maschi e femmine. I topi femmine mostrano comportamenti materni indipendentemente dal fatto che abbiano o meno un cucciolo. I topi maschi, invece, non condividono quello stesso istinto genitoriale, a meno che non si siano accoppiati di recente; il loro comportamento abituale nei confronti dei giovani topi è l’aggressività, ma tre settimane dopo l’accoppiamento – circa il tempo in cui la potenziale prole sarebbe nata – le cose cambiano: “I maschi perdono la loro aggressività verso i cuccioli, e il loro comportamento sembra esattamente quello di una femmina”, sostiene Dulac.

Questi topi passano il loro tempo costruendo nidi, accalcandosi vicino ai cuccioli, pulendoli e tenendoli vicino. Diventano meno interessati a interagire con gli animali adulti e molto più interessati a interagire con i cuccioli. Anche i livelli degli ormoni cambiano.

Diversi anni fa, Dulac e il suo team avevano scoperto un gruppo di neuroni in una parte del cervello nota come area preottica mediale che coordina questi cambiamenti diffusi.

Per lo studio corrente, il team ha tracciato le connessioni da e verso queste cellule di controllo genitoriale, che producono tutte una molecola di segnalazione chiamata galanina. Le loro mappe hanno rivelato che l’hub genitore riceve segnali da 20 diverse regioni del cervello e trasmette le informazioni ad altrettante aree: ogni singolo neurone che produce galanina proietta in una sola di queste regioni cerebrali, suggerendo che sottoinsiemi di cellule controllano funzioni diverse. Per svelare questi ruoli, il team, insieme a Johannes Kohl, un assegnista di ricerca all’interno del laboratorio di Dulac, ha utilizzato strumenti basati sulla luce per manipolare l’attività di diversi insiemi di cellule: un insieme di proiezioni dal centro del controllo del pattern del comportamento genitoriale a una regione all’interno dell’area del cervello mediano premotoria chiamata sostanza grigia periacqueduttale. “Quei neuroni sono dedicati al controllo motorio della genitorialità, dice Dulac. Quando il team ha attivato questi neuroni, i topi hanno aumentato il loro accudimento nei confronti dei cuccioli, anche i maschi, che normalmente non hanno tale istinto. Spegnendo gli stessi neuroni si riduceva la toelettatura dei cuccioli sia nei maschi che nelle femmine.

Un’altra serie di neuroni galaninici invia segnali all’area tegmentale ventrale, una componente chiave del centro di ricompensa del cervello. L’attivazione di quei neuroni aumentava notevolmente la motivazione degli animali a interagire con i cuccioli. Quando il team ha attivato queste cellule, sia i topi maschi che femmine hanno scalato le barriere di plastica poste nella loro gabbia per raggiungere i cuccioli dall’altra parte. Attivare queste cellule non ha tuttavia avuto alcun impatto sul comportamento genitoriale degli animali. Questo è stato più chiaro in esperimenti con topi maschi, che hanno scalato la barriera solo per attaccare i cuccioli.

Il team ha anche mostrato che i neuroni galanici che si proiettano nell’amigdala, una regione a forma di mandorla nota per il suo ruolo nell’elaborazione emotiva, tengono i genitori concentrati sui loro cuccioli: i genitori rimangono concentrati ignorando i segnali sociali di altri adulti.

Inoltre, i segnali delle cellule inviate alla regione dell’ipotalamo, che si occupa della regolarizzazione degli ormoni, modulano gli ormoni legati al parenting: l’ossitocina, la vasopressina, e l’ormone di rilascio della corticotropina, ormone dello stress. Il team non ha riscontrato differenze drammatiche nel cablaggio dei circuiti genitoriali tra maschi e femmine ma continueranno a indagare su ciò che attiva il comportamento genitoriale post-accoppiamento dei maschi.

Conclusioni e sviluppi futuri

È interessante notare che, come dice Dulac, il circuito responsabile del pattern del comportamento genitoriale che il suo team ha scoperto condivide somiglianze organizzative con i neuroni del midollo spinale che controllano il movimento dei muscoli. Entrambi comprendono pool di celle coordinati ma distinti che controllano le funzioni discrete. Resta da vedere se i circuiti che sono alla base di altri comportamenti sociali condividono questa logica.

Lo yoga e la mindfulness per migliorare la salute emotiva nei bambini

Un nuovo studio della Tulane University ha evidenziato che praticare yoga e mindfulness aumenta il benessere dei bambini e la qualità della loro vita psicoemotiva.

 

Lo stress è un fattore rilevante nella salute dei bambini in età scolare che, spesso, si trovano a vivere situazioni quotidiane stressanti, come ad esempio la preoccupazione per il rendimento scolastico, l’esclusione sociale, il bullismo e problematiche legate ai compiti a casa.

Partendo da questo presupposto, una recente ricerca, pubblicata su Psychology Research and Behavior Management, ha cercato di indagare gli effetti dell’inserimento di attività quali lo yoga e la mindfulness all’interno di una scuola primaria americana. In particolare, i ricercatori hanno deciso di coinvolgere nello studio bambini frequentanti la terza elementare in quanto questo periodo del percorso scolastico rappresenta un momento cruciale di transizione per i giovani studenti: molti di loro, infatti, manifestano sentimenti ansiosi a fronte dell’aumento delle aspettative accademiche.

Lo studio: praticare attività di yoga e mindfulness a scuola

Dopo un primo screening basato sulla sintomatologia ansiosa, i bambini coinvolti nello studio sono stati suddivisi in due gruppi, a ciascuno dei quali è poi stato proposto un programma che prevedeva la partecipazione a diversi tipi di attività. 
Il gruppo di controllo, composto da 32 bambini, è stato coinvolto in attività di consulenza, o altri tipi di attività, sempre guidate da un assistente sociale scolastico, come previsto dal programma già attivo nell’istituto. Il gruppo di intervento, invece, costituito da 20 bambini, ha preso parte a semplici attività basate sui principi dello yoga e della mindfulness per otto settimane consecutive; le sessioni si svolgevano ad inizio mattina e comprendevano esercizi di respirazione, rilassamento guidato e diverse posizioni tradizionali dello yoga.

Il team di ricercatori ha dunque valutato la qualità del benessere emotivo in ciascun gruppo, prima e dopo l’intervento. Per farlo, hanno rivolto ai bambini diverse domande riguardanti la soddisfazione in varie aree della propria vita personale; una domanda riguardava la soddisfazione generale per la propria vita. Inoltre, è stata valutata la presenza di eventuali problemi emotivi, sociali e scolastici nel mese precedente la ricerca.

Conclusioni e limiti della ricerca

Sulla base dei dati raccolti, secondo gli autori, è possibile affermare che gli interventi basati sullo yoga, la meditazione o la mindfulness all’interno di un contesto educativo possono essere un utile strumento nel raggiungere un significativo miglioramento nella qualità di vita e nella sensazione di benessere percepito dai bambini.

Gli autori riconoscono anche che la ricerca presenta dei limiti sostanziali. Le condizioni di somministrazione sono risultate essere diverse nei due gruppi. I bambini del gruppo sperimentale hanno infatti partecipato alle attività in diversi momenti dell’anno scolastico, perciò la percezione personale della loro qualità di vita potrebbe essere stata condizionata non dalla variabile sperimentale quanto invece dai cambiamenti naturali avvenuti nel corso dell’anno. Un secondo problema è rappresentato dal fatto che le attività proposte prevedevano esercizi di yoga e mindfulness combinati, impendendo quindi di valutare se fosse responsabile del miglioramento trovato solamente una o entrambe le attività.

Identità cognitivista e livelli di integrazione

Rispondo al sistematico intervento di Ruggiero, Sassaroli e Caselli su State of Mind del 24 luglio 2017 La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”. Esso intendeva fare il punto sul ruolo della relazione nel processo terapeutico.

Silvio Lenzi – Direttore Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva – Sinesis Centro per la ricerca in scienze e terapie cognitive

 

Venivano presi in esame due aspetti principali: da un lato la natura variegata e complessa, ma solo saltuariamente decisiva, degli interventi relazionali (gli 11 interventi di area relazionale della Comprehensive Psychotherapeutic Interventions Rating Scale, CPIRS, Trijsburg et al., 2002); dall’altro la specificità dell’intervento col paziente difficile, che pure non si esaurisce negli aspetti relazionali stando alla disamina fornita di alcune terapie manualizzate per i Disturbi di Personalità: Mentalization Based Therapy (MBT, Bateman e Fonagy, 2006), Dialectical Behavior Therapy (DBT, Linehan, 1987), Schema Therapy (ST, Young, Klosko e Weishaar, 2003) e Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò, & Procacci, 2007).

In quello scritto si andava a mio parere di fatto a evidenziare, e a sanzionare, una sorta di deriva generale degli stili terapeutici “cognitivisti” che tendono – nel tempo aggiungerei io-  a perdere di vista la specificità e articolazione della metodologia esplicita e della tecnica, evidentemente a favore della cosiddetta componente relazionale, col rischio eclettico di appiattire e uniformare.

Ad esempio e ulteriore declinazione di questa tendenza era stata citata la soverchiante attenzione dedicata alla componente traumatica della psicopatologia e della patogenesi. In queste argomentazioni però i nostri autori andavano incontro a una sorta di shunt argomentativo, perdendo un po’ di vista la distinzione dei piani teorico e applicato, ovvero dei modelli clinici e psicopatologici da una parte e di teoria della tecnica e valutazione dell’efficacia dall’altro. Infatti non si può non constatare che gran parte degli interventi per il trattamento del trauma e della psicopatologia traumatica, considerata trasversale e ubiquitaria, sembrano proporre procedure decisamente tecniche, come ad esempio quelle della galassia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Shapiro, 2001) o anche della NET (Terapia dell’Esposizione Narrativa, Schauer, Neuer, Elbert, 2014).

Ma su come tentare di destreggiarsi tra questi livelli molteplici di argomentazione e discussione tornerò alla fine. Per ora insisto sul tema principale.

Anche l’attuale iniziativa di Sassaroli, Caselli e Ruggiero appare in linea con un ben preciso posizionamento generale. Infatti il “gloss” (the covert or overt purpose) del loro recente articolo comparso su State of Mind: Limiti e utilità della classificazione bottom up e top down si mostra chiaramente nella figura sottostante al titolo. Due frecce: una rossa diretta verso l’alto e una verde, diretta verso il basso, come monito alla pratica e allo sviluppo delle procedure nell’approccio cognitivista: freccia rossa cioè stop a quelle bottom up (associate a una prospettiva più relazionale) e via libera invece a quelle top down (associate ad un approccio più francamente cognitivista di “seconda ondata”, per etichettarlo alla Dimaggio).

Evidentemente le sfaccettature di una posizione “ideologica” e di intenti di questo tipo sono numerose e le implicazioni ancora di più variegate e su più piani. Basti pensare a quella di fondamentale importanza sulle linee guida, la loro redazione e il loro rispetto, evocata da Francesco Mancini – anche se mi verrebbe da dire la good practice e i rischi legali non coincidono linearmente con il rispetto di una linea guida.

Per questo il dibattito sembra crescere esponenzialmente risultando a volte difficile da seguire o confondente rispetto ai piani e ai contenuti. Per una sorta di moltiplicazione delle prospettive e non solo a motivo delle affermazioni retoriche e “ideologico divulgative”, che quasi per statuto non rendono giustizia al merito della materia su cui si esprimono e costringono i diretti interessati a reagire puntualizzando le proprie posizioni e dando vita ad un climax di argomentazioni di rimessa.

A questo punto anche per auto-chiarirmi alcune mie posizioni o per lo meno per consolidare le mie priorità, vorrei provare a mettere a fuoco alcuni punti che mi sembrano fondamentali di fronte alle provocazioni poste dalle tesi del gruppo Sassaroli, le quali, piaccia o no, vanno a evidenziare alcuni aspetti critici dei trend attuali della area cognitiva e cognitivo-comportamentale.

I. Etica della ricerca e posizione del terapeuta

Innanzitutto per quanto mi riguarda non va mai dimenticata la priorità espressa da Giancarlo Dimaggio (comunicazione in mailing list SITCC, 18 marzo 2018):

Mi interessa capire quali sono i fattori efficaci di trattamento e applicarli, perché fare il bene del paziente non significa fare ciò che si sa fare bene e per il quale si è stati formati, ma imparare a fare quello che fa il bene del paziente”.

Anche se a Dimaggio non sfuggirà che non è che il terapeuta agisca sempre direttamente a favore di un fattore efficace, con una specifica iniziativa (magari in linea con un protocollo per un disturbo che giustamente è stato diagnosticato, ma che non esaurisce certo la domanda del paziente e i possibili obiettivi terapeutici legati alla situazione del momento), ma piuttosto nell’articolazione d’insieme dell’intervento che spesso risulta più ricco che non la somma delle sue parti e che deve essere impostato alla luce di diversi fattori e variabili.

Ma al di là delle probabilmente scontate precisazioni e distinzioni non si può che partire dal fatto di essere aperti, evitando  –per lo meno nella pratica – il rigore del modello alla domanda espressa dal paziente e all’impegno a risolverla nel modo più efficace ed efficiente possibile (“l’impegno a far star bene il paziente”).

Certo questa priorità va dialetticamente confrontata col fatto che – accanto agli ideali proponimenti espressi da Camilla Marzocchi (comunicazione in mailing list del 16 marzo 2018) di vagliare tutte le tecniche disponibili per la soluzione di un problema- occorre necessariamente acquisire flessibilità e destrezza nella attuazione di una metodologia di base, secondo quanto enunciato ad esempio anche da Christopher Fairnburn, nella sua CBT-E per i Disturbi Alimentari: il principio di parsimonia ovvero fare poche cose ma bene (per lo meno in riferimento ad un nucleo centrale trans-diagnostico della procedura). E non ricorrere indiscriminatamente all’aggiunta di tante altre tecniche e procedure che possono risultare dispersive e fuorvianti. Ma anche qui occorre discernimento e stare attenti a non esagerare, altrimenti potremmo cadere in una deriva conservatrice come quella di Jon Allen (2012, Restoring Mentalizing. Treating Trauma With Plain Old Therapy, pag. 166) che propone il ritorno alla Plain Old Therapy di fronte all’evidenza che il terapeuta non può padroneggiare un numero sempre crescente di trattamenti e tecniche specialistici.

O forse questa strada è percorribile? Magari quello a cui Sassaroli, Ruggiero e Caselli richiamano potrebbe essere una sorta di equivalente cognitivista della terapia dialogica aggiornata (cioè letta alla luce dei recenti sviluppi teorici sulla metacognizione / mentalizzazione e più in generali sul funzionamento emotivo interpersonale), una sorta di elaborazione della conoscenza personale legata alla consapevole declinazione delle strategie di auto-osservazione e ristrutturazione della cognition, aggiornata ovvero riportata evoluzionisticamente alle sue molteplici componenti strutturali e funzionali. Non lo so. Confesso che nella mia testa questo orizzonte campeggia e talora non mi sembra così lontano da trovare una sua configurazione teorica e applicata scientificamente condivisibile e aggiornata allo stato dell’arte delle standardizzazioni metodologiche. Su questo possibile asse portante integrato delle metodologie cognitive torno più avanti. Per chi avrà la resistenza di esserci.

II. La distinzione tra mappa e territorio

Il riferimento a una procedura di base caratteristica di un approccio psicoterapico mi richiama una seconda priorità  -che è sì una petitio principii, ma a mio modo di vedere decisiva. Si tratta della necessità di tener presente nel proprio ragionare teorico e clinico la distinzione tra mappa e territorio, specie quando si parla dell’antinomia tra tecniche e relazione o tra processi bottom-up e top down. Mi spiego meglio: nel formulare o discutere di una metodologia terapeutica evidentemente ne descriverò solo alcuni aspetti, senza potere esaurire tutte le componenti implicate sia nel suo realizzarsi fattuale, sia nei processi cerebrali e mentali di coloro che la realizzano. Le antinomie in questione sono sicuramente presenti nella mappa di chi teorizza ma non allo stesso modo nel territorio. E quindi i giudizi e le speculazioni in merito ai diversi approcci riguarderanno le teorie dei terapeuti e non la sostanza dell’interazione psicoterapeutica – e quindi il giudizio globale su una metodologia.

Inevitabilmente, come in molti hanno già sottolineato, quando si interagisce in seduta, ad esempio in una conversazione che ha per tema il parlare di sé, o con aspetti legati ad altri formati interattivi – come quello della esercitazione con una tecnica immaginativa -, si coinvolgono inevitabilmente sia livelli di procedura che relazionali. E per comprendere validamente il processo terapeutico credo occorra tenere presenti tutte le caratteristiche di una conversazione terapeutica, quelle più immediate e procedurali da un lato e quelle più riflessive e semantiche dall’altro.

Per farmi capire anche un po’ bottom up attraverso le immagini, proporrei qui due figure per illustrare il doppio livello dei fenomeni della conversazione che invece vengono considerati come antitetici o escludentisi: una è la classica di Antonio Semerari sui processi metacognitivi attivati nella relazione terapeutica, l’altra si riferisce alla sintonizzazione interattiva propria di ogni conversazione (vedi le ricerche di Conversation Analysis ad es. Hutchby & Wooffitt, 1998; Perakyla et al. 2008) e ai processi anche intrapsichici di tipo rappresentazionale che implica.

Dialoghi Riflessivi - Lenzi

Protoconversazioni - Lenzi

Le generalizzazioni che fanno i terapeuti ovviamente non potranno non riguardare e illuminare in modo preminente ora l’uno ora l’altro di questi macro livelli, ma questo non vuol dire che non si stiano verificando anche gli altri e che non giochino un ruolo importante nel processo terapeutico e nel cambiamento ad esso collegato di una particolare metodologia presa in esame.

III. Ambiti di integrazione tra teoria e pratica

Quindi dopo aver chiarito che ci muoviamo in un contesto applicato con un mandato deontologico da cui non possiamo né vogliamo derogare, e dopo aver colto che le argomentazioni teoriche e le discussioni sono sì legittime e utili, ma anche parziali e non equivalenti all’oggetto di cui trattano (non si mangia un menu direbbero i sistemici) mi rimane da chiarire una terza ed ultima priorità o questione.

Come allora prendere in esame e valutare una metodologia terapeutica, da che punto di vista e con che linguaggi? E soprattutto: come formularla e costruirla? visto che con la propria conoscenza non si può per così dire prendere dappertutto, mentre quando operiamo ci attiviamo con tutto il nostro bagaglio cognitivo, emotivo, procedurale e contestuale (ovvero relazionale).

La mia argomentazione si rifà alle modalità di integrazione, e in particolare all’integrazione assimilativa di Messer riprendendo il mio intervento ad un simposio di Rosario Esposito al congresso della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale a Genova nel 2014: Elementi utili per il fronteggiamento della continua integrazione teorica e pratica a cui il terapeuta cognitivista è chiamato sul campo.

Innanzitutto è necessario distinguere, come anche diceva Nino Carcione nella mail del 16 marzo (comunicazione della mailing list SITCC), tra integrazione tecnica e integrazione teorica, cosa che non era tanto tenuta presente nei corollari del discorso sulle elaborazioni bottom-up e top down fatto da Sassaroli e colleghi.

Certo con le integrazioni non bisogna comunque esagerare: infatti si rischierebbe, come ci diceva tempo addietro Giovanni Ruggiero, di fare la fine dell’astronomo Tycho Brahe, passato nell’oblio pur essendo il “capo dipartimento” di Keplero e avendo fatto lui la maggior parte delle scoperte rivoluzionarie attribuite poi a quest’ultimo. Infatti, per zelo integrativo con le teorie accreditate del tempo, Brahe si giocò la possibilità di formulare in modo chiaro la teoria eliocentrica, che pure emergeva dalle osservazioni che ebbe il merito di condurre in modo innovativo e sistematico. Ma questo mi pare un problema successivo, di politica e management della scienza e della ricerca, o di storiografia al limite, che al momento non ci riguarda.

In verità la distinzione tra integrazione tecnica e integrazione teorica è di importanza primaria e la sua necessità può essere colta meglio alla luce della distinzione tra descrizione (proposta teorica esplicita di una metodologia) e realtà dei fenomeni in oggetto. Dunque quando integriamo una tecnica o una procedura sicuramente ci muoviamo a livello territorio, in un campo più ampio di quello che possiamo discutere a livello speculativo e quindi non tutti gli eventi in gioco (cognitivi, emotivi, procedurali, di contesto) possono essere considerati.

A questa distinzione tra i due livelli di integrazione se ne aggiunge in verità un terzo, quello della integrazione assimilativa, che ha un carattere del tutto peculiare, utile a mio parere per trarre proponimenti pratici – ognuno i propri, pro domo sua, perché no? – dalle nostre discussioni. L’integrazione assimilativa consiste nell’incorporazione nell’approccio primario e di base del terapeuta di atteggiamenti, prospettive o tecniche tratte da un modello terapico differente.

Essa adotta una posizione contestualista per cui una tecnica terapeutica è vista non come a sé stante ma inserita in una cornice teorico terapeutica da cui deriva il proprio significato. Per esempio si pone che una tecnica comportamentale come la desensibilizzazione sistematica assuma un differente significato in una terapia psicodinamica o esperienziale. Così la tecnica gestalt delle due sedie usata da un terapeuta comportamentale può apparire come un training di assertività piuttosto che come una risoluzione esperienziale di un conflitto- intento questo tipico dell’utilizzo originario.

Questa forma di integrazione è stata supportata da alcuni e discussa da altri (ad esempio Lazarus 1991), che, da una posizione di eclettismo tecnico, non concorda col fatto che una tecnica sia mutata dalla sua nuova veste di applicazione e che necessiti ad esempio di una nuova validazione. Una data tecnica rimane la stessa a prescindere dalla teoria o terapia di origine o di importazione.

Il concetto di integrazione assimilativa rientra invece in una tradizione di pluralismo secondo cui una teoria o modello non preclude mai una integrazione alternativa delle evidenze. In effetti si ritiene che il modo migliore di tendere alla verità scientifica sia quello di appoggiarsi a teorie diverse favorendo il confronto tra le teorie stesse e tra teorie e prove. Al contrario la visione alternativa presume che vi sia una teoria unificata e preminente in attesa di essere scoperta e questo sia il compito degli integrazionisti.

IV. Background, Ground e Foreground per lo studio e la ricerca in psicoterapia

Alla luce di queste differenziazioni, volendo avanzare un ulteriore passo, mi sembra non sia illegittimo – e anzi sia addirittura opportuno – per una corrente di psicoterapia come quella cognitivista e per una società come la nostra non abdicare alla formulazione di un modello e di una proposta rigorosa di procedure psicoterapiche che sia coerente con le proprie premesse e i propri contenuti e anzi che le sviluppi e le aggiorni coerentemente al progredire – mi si lasci dire- dell’arte e della scienza.

Se poi all’aut aut tra le modalità di integrazione sostituiamo un et et, ecco che diventa possibile individuare dei precisi ambiti su cui formulare, con rigorosa differenziazione metodologica, integrazioni e proposte. Ad esempio formulandole nello specifico a partire dal ground di integrazione assimilativa sul campo, e confrontandosi con gli elementi provenienti dal background teorico scientifico di base e dal foreground della ricerca in psicoterapia, sia di esito che di processo, ovvero dal confronto darwiniano con protocolli e linee guida.

Una volta collocatele in modo rigoroso a livello metodologico, non dobbiamo però come studiosi e ricercatori esimerci da iniziative (anche identitarie) di questo tipo, magari in nome dell’adesione ad un mandato di aggiornata produttività di tendenza, che garantisce risultati anche cospicui, ma poi alla lunga dispersivi e meno fecondi.

Faccio in breve un esempio di come intendo questa formulazione sul ground, indicando quella che potrebbe essere una sorta di proposta “assimilativa”, di integrazione ed espansione della procedura di base della terapia cognitiva, l’elaborazione dell’attività cognitiva tra auto-osservazione/monitoraggio e ristrutturazione, (Dobson, 2009).

Tale espansione si articolerebbe nei seguenti punti:

–     Articolazione della procedura terapeutica di base (espansione delle attività di elaborazione conoscitiva) e degli aspetti conversazionali di sintonizzazione e posizionamento interpersonale legati ad esse

–     Estensione del target di elaborazione (concetto di cognition) agli aspetti emotivo esperienziali (già parte degli ABC contestuali), di elaborazione narrativa (già in parte implicata dagli ABC classici) e di agire comunicativo (già in parte considerata ABC comportamentali)

–     Definizione delle strategie di utilizzo della procedura e degli obiettivi terapeutici in relazione ai tipi di cambiamento perseguiti (cambiamento sintomatico, cambiamento etiologico o di processo, cambiamenti di contesto)

Per chi fosse incuriosito da questi temi rimando a un probabile workshop al prossimo congresso della SITCC nel settembre 2018 a Verona “Il caso clinico nel suo divenire: strumenti cognitivisti per la costruzione di un percorso terapeutico”, in cui descriverò come utilizzare le procedure di elaborazione conoscitiva per la costruzione sistematica e calibrata di un percorso terapeutico.

V. Conclusione: per non diventare macchine di Touring

La densità di quello che accade nella pratica terapeutica è espressione dell’agire di due persone che, concretamente e in un contesto specifico, si incontrano.

Da sempre la sfida della conoscenza umana è rendere ragione del concreto vivente, e la conoscenza scientifica, nell’ambito del rigore metodologico che la contraddistingue, certo non si sottrae – demandando a derive relativistiche magari impregnate di impressionismo filosofico- alla conoscenza di quello che accade in seduta e al tentativo di realizzarlo sempre più pienamente ed efficacemente. Dopo l’esempio di integrazione sulla procedura a livello del ground terapeutico, vorrei per finire accennare, dalle angolature di background e foreground che ancor più direttamente si rifanno alle acquisizioni e ai metodi della scienza, a quelli che per me sono due aspetti critici per le questioni dibattute.

Con questo saluto, ringraziando tutti e la SITCC per la possibilità di discussione che ci offre.
Senza di essa saremmo molto più indietro e anche più soli.

 

Una questione di Background

Un problema teorico con una ricaduta di fondamentale importanza per gli argomenti discussi credo sia quello relativo alla natura del linguaggio e dell’attività linguistica. Da queste questioni in parte dipende l’esito del confronto tra approcci più eclettici e anche ritenuti “relazionali”, sicuramente legati alla psicopatologia traumatica, e la possibilità di pratica efficace di una psicoterapia sistematica, vuoi che si tratti della Plain Old Therapy oppure anche una metodologia ampliata di elaborazione cognitivista.

La questione può essere posta a partire dalle due figure precedenti, e riguarda la possibilità che la conversazione terapeutica sia capace di “trascinare con sé” e integrare – ovvero di realizzare una adeguata azione terapeutica su – entrambi i livelli della elaborazione riflessiva e della elaborazione immediata (con conseguenze sui processi top down e bottom up), come sostengono in ambito dinamico Vivona e anche Eagle, Gallese e Migone (2007, 2009) o se, viceversa, come sostiene il gruppo di Stern, vi sia qualcosa di più oltre il semantico/cognitivo e i due livelli abbiano ambiti non solo privilegiati ma anche separati di elaborazione. Ambiti distinti che riguardano ad esempio a livello implicito la relazione in sé e per sé (qualunque cosa vogliamo intendere con questa espressione), che quindi viene a consistere anche fuori dal linguaggio e dalle procedure esplicite in terapia.

Si tratta di argomenti complessi, ma a livello di background credo che qui sia in ballo il nocciolo di tante questioni.

Questioni di Foreground

L’escursione sul piano del foreground della ricerca in psicoterapia la faccio con un test: chi è d’accordo o meno con i diversi punti ritenuti da Westen alla base degli studi randomizzati controllati. Non è recentissimo l’articolo (2004), ma Drew ci ha messo 4 anni per scriverlo. I punti sono ripresi da alcuni seminari e interventi a congressi di Paolo Migone.

Utilizzando la seguente lista di affermazioni valuti lo stile di adesione/attaccamento ai principi della ricerca quantitativa e di esito assegni un punteggio su una scala da 0 (del tutto falso) a 6 (del tutto vero).

1)     I processi psicologici sono altamente malleabili

2)     La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero

3)     I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta

4)     I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all’inizio della terapia quale è il loro problema

5)     Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati

6)     Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato.

Ecco le mie personali risposte:

Affermazione 1 > 5

Affermazione 2 > 3

Affermazione 3 > 4

Affermazione 4 > 3

Affermazione 5 > 6

Affermazione 6 > 5

 

E per finire le posizioni critiche di Westen, a testimonianza dell’ampia portata del dibattito e delle posizioni possibili.

Il pensiero di Westen è riportato tra parentesi: egli conclude che gli assunti di base degli EST non sono teoricamente neutrali e non sono stati testati o sono stati testati ma dimostrati falsi. O per lo meno possono essere discussi proprio sulla base della stessa ricerca come indicato tra parentesi.

1.     I processi psicologici sono altamente malleabili [viceversa non è dimostrato che lo sono, nel senso che sembra occorra molto tempo per modificarli]

2.     La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero: [viceversa i pazienti presentano sintomi plurimi e comorbilità – vedi anche il problema della effectiveness]

3.     I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta [mentre è dimostrato che la personalità gioca un ruolo rilevante]

4.     I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all’inizio della terapia quale è il loro problema [mentre spesso il problema responsabile del disagio viene compreso a trattamento inoltrato]

5.     Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati [mentre non è dimostrato che una psicoterapia può essere “smantellata”, nel senso che il suo significato è diverso dalla semplice somma delle sue parti]

6.     Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato [mentre alcuni studi, utilizzando ad esempio il Psychotherapy Process Q-set [PQS], hanno dimostrato che in un trattamento anche facente parte di uno studio controllato vengono usati interventi appartenenti a manuali diversi, e anche che spesso non vi è correlazione tra il risultato e gli interventi prescritti dal manuale].

 

Il sistema limbico – Introduzione alla Psicologia

Il sistema limbico è costituito da un insieme di regioni appartenenti al sistema nervoso centrale, tra loro connesse. Agisce nell’integrazione dell’olfatto e della memoria a breve termine; svolge funzioni importanti in relazione alle emozioni, all’umore e al senso di autocoscienza. Svolge anche funzioni elementari come l’integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e neuroendocrino. Inoltre, alcune parti del sistema limbico sono coinvolte nei processi mnesici, viscerali, di difesa e riproduzione.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il lobo limbico rappresenta uno dei sei lobi che compongono gli emisferi telencefalici, unitamente al lobo frontale, parietale, occipitale, temporale e all’insula.

Il sistema limbico è costituito da un insieme di regioni appartenenti al sistema nervoso centrale, tra loro connesse. Nel sistema limbico sono comprese le strutture mesencefaliche, diencefaliche, telencefaliche, la regione settale, la regione preottica, l’ipotalamo, alcuni nuclei del talamo, l’area tegmentale ventrale, il giro del cingolo, il giro paraippocampico, l’ippocampo, l’amigdala, la corteccia olfattiva più tutti i fasci che connettono le diverse parti.

Il sistema limbico agisce nell’integrazione dell’olfatto e della memoria a breve termine; svolge funzioni importanti in relazione alle emozioni, all’’umore e al senso di autocoscienza. Il sistema limbico svolge anche funzioni elementari come l’integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e neuroendocrino. Inoltre, alcune parti del sistema limbico sono coinvolte nei processi mnesici, viscerali, di difesa e riproduzione.

Il sistema limbico è spesso confuso e soprannominato lobo limbico che in realtà costituisce solo una componente di tale sistema dopo che, con le recenti scoperte, si è stabilito come numerose attività attribuite al sistema limbico non corrispondono ai limiti anatomici del lobo limbico.

Il sistema limbico consta di una serie di proiezioni:

  • riceve proiezioni dopaminergiche dal mesencefalo in relazione ai fenomeni di gratificazione e all’effetto delle sostanze psicoattive
  • le proiezioni noradrenergiche, invece, sono convolte negli attacchi di panico, ansia, paura di morire, senso di soffocamento e sintomi inerenti alle crisi epilettiche della corteccia limbica
  • le proiezioni colinergiche sono fondamentali per il mantenimento della memoria e nel momento in cui si verificano delle lesioni di tali nuclei si presentano alcune forme di demenze
  • è strettamente connesso alla corteccia prefrontale, e per questo è coinvolto nei meccanismi di presa di decisione in risposta ad agiti emotivi.

Sistema limbico: l’ippocampo

L’ippocampo è contenuto nel lobo temporale, è formato dall’archicortex e da una continuazione del giro paraippocampico e della corteccia entorinale. Esso presenta una forma a “C” che gli permette di essere nominato “corno di ammone”. Nello spazio tra l’ippocampo e il subicolo è presente il giro dentato. Dall’ippocampo partono degli assoni che formano l’alveo, un velo di sostanza bianca racconta in un fascio, la fimbria, che superiormente forma le colonne del fornice.

L’ippocampo è costituito da 3 strati: uno profondo, lo strato lacunoso molecolare, prosecuzione dello strato molecolare della neocortex; uno composto da cellule piramidali, in continuazione con il 5° strato della neocortex, da cui partono le efferenze dell’ippocampo; uno delle cellule polimorfe in continuazione al 6° strato della neocortex. Il giro dentato, inoltre, presenta la stessa struttura a strati dell’ippocampo, ma al posto dello strato piramidale presenta uno strato granulare.

Circuiti e fascicoli dell’ippocampo

L’ippocampo è coinvolto in diversi circuiti e riceve svariate afferenze. Quindi, è presente un circuito interno in cui dalla corteccia entorinale, tramite il subicolo, parte una proiezione al giro dentato. Dal giro dentato partono proiezioni che terminano sostanzialmente nello strato lacunoso formando i collaterali di Schaffer. Alla corteccia entorinale all’ippocampo giungono le informazioni sensitive-sensoriali e le informazioni circa le altre attività della corteccia. Altre fibre invece emergono nell’alveo e proseguono nella fimbria e quindi nel fornice. Il fornice nasce dal giro paraippocampico e circonda il talamo al di sotto del corpo calloso. I due fornici, di destra e sinistra, sulla linea mediana si uniscono a formare il corpo del fornice e attraverso questa unione le fibre di un lato possono passare all’altro lato. Ancora, in corrispondenza della commessura anteriore, il fornice si divide di nuovo in una colonna destra per l’ipotalamo di destra e una colonna sinistra per l’ipotalamo di sinistra, terminando nei nuclei mammillari. Una parte esigua del fornice costituisce il fornice pre-commessurale posto davanti alla commisura, da cui riceve altre afferenze ed emette ulteriori fascicoli.

L’ippocampo, tramite il fornice, riceve informazioni dai nuclei del setto, dai nuclei colinergici, dall’ipotalamo, dal talamo e dai nuclei del rafe serotoninergici, e proietta informazioni all’amigdala e al nucleo accumbens.

L’ippocampo è implicato nel processo di richiamo di un ricordo. Il ricordo è qualcosa che si costruisce volta per volta nell’ippocampo, e il suo recupero a memoria (attività mnesica) è una costruzione momentanea. L’ippocampo, inoltre, e’ centrale nelle epilessie essendone nella maggior parte dei casi il punto di origine.

Sistema limbico: il fornice

Il fornice è composto da sostanza bianca e rappresenta l’organo commessurale dell’ippocampo. Si trova sotto il corpo calloso ed è la continuazione dell’alveus e della fimbria che, piegando in avanti e in alto, formano le gambe del fornice. Le gambe continuano nel corpo, posto dorsalmente al talamo costituiscono l’unione delle componenti di destra e di sinistra del fornice. Anteriormente al talamo si formano le colonne del fornice: due fasci simmetrici che si portano in basso e si dirigono fino alla commessura anteriore, dividendosi in una porzione postcommessurale, che porta all’ipotalamo e precommessurale volta ai nuclei settali.

Le fibre trasversali sono presenti nella commessura del fornice compreso fra le due gambe prima che si fondano per formare il corpo facendo del fornice la formazione commessurale del sistema limbico.

Sistema limbico: l’amigdala

L’amigdala è posizionata nel lobo temporale tra l’ippocampo e l’area olfattiva, medialmente al margine anteriore del corno temporale del ventricolo laterale e inferiormente al nucleo lenticolare. L’amigdala è collegata alla corteccia frontale, temporale, al cingolo, dell’area olfattiva e all’ippocampo in entrambe le direzioni. L’amigdala riceve afferenze dai nuclei intralaminari del talamo e dalla formazione reticolare e dal tronco. Inoltre, presenta afferenze colinergiche dai nuclei della base, dopaminergiche dall’area tegmentale ventrale e dalla sostanza nera.

L’amigdala proietta, attraverso la stria terminale all’area preottica, alla regione del setto e all’ipotalamo anteriore, ai nuclei vegetativi del tronco encefalico tramite il fascicolo prosencefalico mediale. Altre fibre giungono alla regione del setto, al nucleo accumbens, al nucleo medio dorsale del talamo e al limen insulae.

Essendo parte del sistema limbico l’amigdala contribuisce alla componente emozionale. Infatti, essa è il punto da cui genera la paura. Coloro che subiscono un danno in tale area si presentano docili, o indifferenti verso gli stimoli emotigeni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Je so’ pazzo (2018) di A. Canova – Recensione del film documentario

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo.

 

Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. (Braudel)

Quand’anche fosse son pazzo, e allora?/ Mi rimane un tanto per essere felice/ Mi rimane un tanto per le mie sofferenze/ Mi rimane un tanto per dire ho un amico, per dire ti odio, ho paura/ ed altro ancora/ Mi rimane un tanto per dire: sono un uomo. (Michele Fragna – ex detenuto)

 

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo. Il collettivo, occupandolo nel 2015, l’ha rifondato, dandogli una nuova possibilità di vita nuova. Si percepisce chiaramente nel film l’alternarsi tra l’innovazione e la libertà del presente che spinge verso il futuro e l’immobilismo del passato.

All’interno di Sant’Eframo: da monastero a sede del collettivo Je so’ pazzo

Sant’Eframo fu antico monastero del ‘600, convertito in ospedale psichiatrico giudiziario nel 1978 a seguito della Legge Basaglia, e chiuso definitivamente nel 2008.

Nel 2015 un comitato di quartiere lo occupa e costituisce un collettivo di gestione.

Un’architettura abitata per anni da persone malate di disturbo psichiatrico che hanno commesso un reato, come Michele Fragna ex detenuto, ora narratore nel film documentario Je so’ pazzo. Ci guida attraverso i corridoi lunghi e stretti di una struttura per anni rimasta invisibile, abbandona e chiusa.

Lui stesso ci racconta così quel che ricorda di questa struttura:

Il colore predominante era il grigio, ora sono murales e tinte forti, dove prima era silenzio, ora sono risa di ragazzini che giocano a pallone, dove prima erano detriti, ora spunta un sottile strato erbaceo, dove prima era muraglia di separazione, ora è palestra di roccia, dove prima erano letti imbrattati di umori, ora c’è il suono di un violino, dove prima erano grida soffocate, il battere di cucchiai sulle sbarre, ora c’è uno strumento che suona, le voci che l’accompagnano.

Michele, come racconta lui stesso, entrò in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) all’età di ventidue anni con una diagnosi di schizofrenia paranoide e se la cavò con pochi anni di reclusione. Avere un motivo per vivere ogni giorno è ciò che gli permise di continuare a vivere tra fredde mura e sbarre e sperare di progettare un futuro al di fuori. Michele ci racconta anche le storie di amicizie nate nella disperazione ma divenute punto essenziale di contatto umano ed energia necessaria alla sopravvivenza.

L’OPG ospitava circa centottanta reclusi, nel documentario Je so’ pazzo si mostrano le celle e le scritte sulle pareti di coloro che lì hanno vissuto lungamente e in solitudine in una cella di due metri per tre.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO:

Je so’ pazzo: da reclusione a inclusione

Ora è tutto diverso: il collettivo ha permesso di riabitare luoghi infernali, ha ridato anima e vita a questo luogo dimenticato. Qui prima c’erano persone uscite dal mondo e recluse in un altro mondo. Ora qui troviamo adulti, giovani e bambini che contribuiscono a mantenere viva la memoria degli ex detenuti e a rielaborare il passato costruendo un senso comunitario.

Vengo qui perché nel quartiere non abbiamo un campetto da calcio – dice un bambino.

E come lui, nell’ex OPG, oggi trovano un senso di comunità e partenza molti altri ragazzi e adulti del quartiere.

Il collettivo è costituito da volontari che offrono la loro competenza professionale e il loro tempo a chiunque ne abbia necessità, a chiunque, bambino o adulto, straniero o italiano.

Dalle celle due metri per tre, alle macerie e da esse numerose stanze attrezzate che offrono servizi gratuiti: l’ambulatorio medico; le aule d’insegnamento per il doposcuola; il laboratorio di teatro; le “pizzicate”; la stanza dei violini; una biblioteca; la palestra di boxe, l’immancabile campo da calcetto e persino una parete attrezzata per il free climbing.

Qui si organizzano attività pomeridiane e feste il sabato e la domenica. Gli abitanti del quartiere non sentono più il rumore delle forchette sulle sbarre ma musica e grida di gioia.

Il collettivo Je so’ pazzo ha istituito qui un servizio di accoglienza ai migranti per aiutarli nel disbrigo delle pratiche. Si organizzano tavole rotonde per favorire discussione e scambio di opinioni e per continuare a interrogarsi sui vecchi significati e costruirne di nuovi.

Non è che sono pazzi, sono persone normali, soltanto che hanno un piccolo problema. Se tu ti spezzi una gamba ti devono chiamare zoppo?

Questo è quello che il collettivo Je so’ pazzo ha fatto concretamente nei fatti. Il regista ha fatto di più: ha integrato il passato con il presente, ha mostrato come dalla disintegrazione sociale può nascere l’integrazione, in altre parole ha raccontato il Possibile.

Fake news: perché le notizie false viaggiano più veloci di quelle vere su Twitter?

Uno studio, pubblicato recentemente su Science, di Vosoughi, Roy e Aral del dipartimento delle scienze dei media del Massachussets Istitute of Technology, ha mostrato come la diffusione delle fake news su twitter sia significativamente più veloce e su larga scala rispetto alle notizie vere, per tutte le categorie d’informazione, a causa del fenomeno del retweeting.

 

Il fenomeno delle “fake news” o notizie false, cioè quelle notizie che imitano nella forma i contenuti delle informazioni dei media ma che non hanno nulla del consueto processo organizzativo né dell’intento per cui quelle accurate vengono diffuse (Lazer, Baum, Benkler et al., 2018), ha acquisito notorietà a seguito delle elezioni presidenziali americane del 2016 che hanno portato al comando Donald Trump.

Questa vittoria politica da parte di Donald Trump, data per irrealizzabile fino all’ultimo dai sondaggi e dagli exit-pole diffusi tramite social network, ha evidenziato in modo marcato la potenziale pericolosità delle notizie inaccurate in quanto esse hanno abbattuto le barriere istituzionali contro la disinformazione nell’epoca di internet. Dal momento che le nuove tecnologie e piattaforme social consentono una diffusione rapidissima, su larga scala e in tempo reale, la pericolosità del fenomeno risiede nell’enorme portata che ha assunto riuscendo ad influenzare in modo profondo non solo decisioni in ambito politico ma anche finanziario (Rapoza, 2017) e a divulgare contenuti falsi su attacchi terroristici (Starbird, Maddock et al., 2014) e calamità naturali (Mendoza, Poblete et al., 2010) solo con un semplice twit.

Ma perché le notizie false viaggiano più veloci di quelle vere e perché le persone appaiono più propense a ritwittare informazione non vere e accurate?

Per rispondere a queste domande, lo studio di Vasoughi, Roy e Aral (2018) ha investigato la diversa diffusione di notizie verificate e di fake news tramite Twitter tra il 2006 e il 2017, prendendo come riferimento 126.000 storie twittate da 3 milioni di persone più di 4,5 milioni di volte.

I risultati sono stati a dir poco interessanti: le notizie false hanno una probabilità di essere ritwittate del 70% rispetto quelle notizie confermate e con fondamento, determinate dal confronto tra le cinque maggiori organizzazioni mondiali d’informazione. L’analisi, compiuta tramite un algoritmo, ha mostrato come le informazioni ritenute vere, con un range di accordo tra il 95 e il 98%, vengano diffuse più lentamente rispetto quelle false e vengano considerate e ritwittate da un bacino minore di utenti, mentre le news sulla politica e sulle cosiddette “leggende metropolitane” siano tra le più diffuse, con una velocità pari ad un contagio virale (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

In aggiunta a ciò, i ricercatori del MIT, autori dello studio, hanno evidenziato paradossalmente come gli utenti che maggiormente ritwittano notizie false hanno un numero minore di “follower” e a loro volta seguono pochi utenti e sono meno attivi su Twitter.

Per eliminare ogni tipo di distorsione nella traiettoria di diffusione delle news su Twitter, gli autori hanno inoltre distinto i dati provenienti dagli account di Twitter appartenenti a persone reali da quelli automatici-robotici, scoprendo che le notizie false erano prodotte soprattutto dagli account degli utenti “reali” anziché da quelli automatici, dimostrando come la causa di questa diffusione di notizie false sia dovuta al comportamento umano (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

Secondo Vasoughi e colleghi (2018), la ragione di tale rapidissima diffusione risiederebbe nella novità: sembra infatti che le false notizie rispetto a quelle confermate abbiano una componente maggiore di novità percepita dagli utenti che li attrarrebbe e che farebbe sì che le prime risaltino rispetto le seconde nel grande bacino dei tweet. Inoltre un’analisi delle parole scelte dagli utenti per i loro tweet e, quindi, del loro contenuto emotivo ha evidenziato come quelli falsi infondano paura, disgusto e sorpresa mentre quelli veri siano caratterizzati maggiormente da tristezza, anticipazione e fiducia (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

In conclusione gli esiti di tale ricerca hanno evidenziato come sia il comportamento umano a contribuire maggiormente alla diffusione di notizie false e pertanto gli interventi che possono essere messi in atto per contrastare la disinformazione dovrebbero essere caratterizzati anche dall’apprendimento di strumenti che aiutino gli utenti online a non accettare acriticamente le informazioni sulle piattaforme social (Lazer, Baum, Benkler et al, 2018).

Trauma complesso: quali sono le caratteristiche del Disturbo da Stress Post Traumatico? Come differenziarlo dal Disturbo da Trauma Cumulativo?

La diagnosi del Disturbo da Trauma Cumulativo non è ancora presente nel DSM V, ma gli esperti ne stanno delineando le caratteristiche, a partire dall’individuazione delle “Adverse Childhood Experiences”.

 

La diagnosi di Trauma Complesso non è attualmente riconosciuta dal DSM V, ma è al centro di un dibattito scientifico e culturale che rende la sua definizione ancora oggi controversa. La letteratura scientifica da anni si sta occupando di approfondire gli effetti a lungo termine dell’abuso, del maltrattamento e della trascuratezza nell’infanzia, sulla salute mentale e sull’organizzazione di personalità dell’adulto (Adverse Childhood Experiences – ACE Studies; Judith Herman, 1992; Felitti e Al., 1998; Briere e Spinazzola, 2005; van der Kolk, 2005; Cloitre e Al., 2009; Lanius, 2012). Il tentativo è anche di differenziarlo, attraverso i sintomi, dal Disturbo da Stress Post-Traumatico, che è legato all’esposizione ad un singolo evento di minaccia alla vita. La traumatizzazione cronica invece ha i sintomi più pervasivi e invalidanti, legati all’essere stati esposti a molti eventi traumatici nell’infanzia o nell’arco della vita adulta; in questo secondo caso si parla in clinica di “trauma cumulativo” (Briere e Spinazzola, 2005; Cloitre e Al., 2009).

Questo tipo di esperienze traumatiche, che possono dare origine al Disturbo da Trauma Cumulativo, riguarda prevalentemente traumi interpersonali come l’abuso fisico e/o sessuale, l’abuso emotivo e il neglect, la violenza assistita e la separazione precoce, l’abbandono o il deterioramento della relazione primaria (a causa di malattie, droghe o detenzione) del caregiver.

Sono causa di traumatizzazione cronica anche esperienze di tortura, guerra, prigionia o migrazione forzata e in generale tutte le condizioni in cui lo stato di minaccia alla vita per se stessi o per i propri familiari resta attivo per un tempo prolungato, impedendo all’individuo ogni forma di protezione o difesa. Gli esiti psicopatologici di questo tipo di esperienze avverse, sono più complessi e pervasivi ed includono solo in parte i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico, ad oggi unica diagnosi riconosciuta ufficialmente.

Nel tentativo di definire ed includere nella diagnosi l’eziologia di questo tipo di disturbi psicopatologici, questo cluster di sintomi è stato descritto altrove come Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Herman, 1992) negli adulti o Developmental Trauma Disorder – Disturbo Traumatico dello Sviluppo (D’Andrea e Al., 2012; van der Kolk, 2005) nei bambini. Di seguito le caratteristiche identificate dagli autori:

immagine PTSD

cancel