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Multitasking e media multitasking: gli effetti su lavoro e apprendimento

Il multitasking, ovvero l’esecuzione di due compiti simultaneamente, è un fenomeno divenuto ormai consueto nella società odierna ed è considerato un modo per massimizzare i risultati. Molti ricercatori ne stanno però mettendo in dubbio l’efficienza.

 

Nell’ambito scolastico e in quello lavorativo il multitasking si è diffuso in maniera esponenziale ed è considerato da un vasto numero di persone una pratica utile per velocizzare e aumentare l’efficacia del proprio operato. Tuttavia molti ricercatori, attraverso l’analisi delle conseguenze che si verificano sull’attenzione e le prestazioni da essa dipendenti, esprimono pareri opposti circa la sua efficienza. Sappiamo infatti che le risorse attentive del nostro sistema cognitivo sono limitate e dunque un carico eccessivo di materiale da elaborare può condurre a un decremento nella performance di più compiti eseguiti simultaneamente.

Lo svolgimento di un compito presuppone un controllo cognitivo che può essere soggetto a interferenze ambientali, quindi la capacità di rimanere concentrati sugli stimoli target escludendone altri, inibendo inoltre certi tipi di risposte inappropriate, è la condizione necessaria per una corretta esecuzione. Pare quindi scontato ritenere l’unitasking (o single-tasking) il modo più efficace di lavoro; eppure il multitasking ha acquisito negli anni un valore tale da ritenerlo il modo migliore di approcciarsi alla moltitudine di attività alle quali la società moderna ci espone e alle quali difficilmente sappiamo (o vogliamo) sottrarci.

Multitasking e dispositivi tacnologici: il media multitasking

Il multitasking come fenomeno di massa è stato inoltre favorito dalla velocità con cui si sono diffusi i dispositivi tecnologici sia in ambito lavorativo che privato, per cui oggi si parla di media multitasking, definibile come lo svolgimento di due o più compiti, uno dei quali implica l’uso di un mezzo tecnologico (Lang & Chrzan, 2015). Laptop, smartphone e tablet hanno reso le comunicazioni istantenee, i compiti più veloci ed in generale hanno semplificato molti aspetti della nostra vita quotidiana, creando però un ambiente di enorme distraibilità. È proprio da questa constatazione che emerge il bisogno di studiare il multitasking e le ripercussioni che può avere sulle funzioni cognitive di un individuo, al fine di valutarne le conseguenze (positive/negative) sull’apprendimento (es: scuola, università) e sulla qualità delle prestazioni (es: la produttività di un lavoratore in un’azienda).

Media multitasking: effetti sull’ attenzione

Uno studio di Ophir e collaboratori (Ophir et al., 2009), ha mostrato quanto l’utilizzo costante del media multitasking conduca a un considerevole decremento dell’ attenzione e quindi ad una maggiore probabilità di distrarsi e di peggiorare le prestazioni a compiti che implicano il controllo cognitivo. Nello specifico, i ricercatori hanno reclutato un campione di soggetti suddividendoli (attraverso un questionario sviluppato dagli stessi autori) in due gruppi, uno costituito da individui che si servono in modo eccessivo del media multitasking (heavy media multitaskers), l’altro formato da individui che ne fanno uso moderatamente (light media multitaskers). In un secondo momento ad entrambi i gruppi è stato chiesto di sottoporsi ad una serie di compiti volti a valutare alcuni domini cognitivi (allocazione/filtraggio dell’ attenzione, switching, memoria di lavoro). I risultati ottenuti confermano quanto un uso esagerato del media multitasking induca un calo notevole nella qualità delle prestazioni dal momento che i soggetti “heavy” sono risultati essere maggiormente suscettibili alla distrazione (difficoltà nel discriminare stimoli rilevanti da quelli irrilevanti per l’esecuzione del compito), mostrando problemi nello spostare l’ attenzione da certe informazioni ad altre e nell’inibire risposte inappropriate, riportando inoltre un deficit nella gestione di rappresentazioni multiple nella memoria di lavoro.

Multitasking e media multitasking a scuola

Le indagini condotte nell’ambito dell’ apprendimento accademico hanno rivelato che da un lato l’introduzione dei dispositivi tecnologici come ausilio alla didattica (es: presentazioni in PowerPoint) ha favorito un aumento di motivazione, soddisfazione ed impegno tra gli studenti, dall’altro invece l’utilizzo dei laptop da parte dei ragazzi ha costituito una fonte irresistibile di distrazione. Sono molti infatti gli studenti che dichiarano di servirsi del media multitasking durante le ore di lezione, prendendo ad esempio appunti con i propri computer portatili e cedendo inevitabilmente alla tentazione di collegarsi ai social media (Facebook, Instagram ecc.). Il media multitasking in classe correla con un calo dell’ apprendimento che si traduce in una difficoltà di comprensione del materiale scolastico e, in generale, di un decremento nelle prestazioni accademiche.

Il fenomeno del media multitasking all’interno delle classi è stato dimostrato avere conseguenze negative in quanto la presenza di laptop può causare un decremento nell’apprendimento non solo al diretto utilizzatore, ma anche ai compagni che si trovano vicini nello spazio. Sana e colleghi (Sana et al., 2013) hanno condotto una ricerca attraverso due esperimenti mirati a verificare quanto il media multitasking durante le ore di lezione sia dannoso per gli studenti. Nel primo esperimento, due gruppi randomizzati di studenti universitari hanno assistito ad una lezione in classe e ad una metà di loro è stato chiesto in aggiunta di completare una serie di compiti online. Successivamente tutti i partecipanti sono stati sottoposti ad una verifica di comprensione del materiale (domande a risposta multipla e quesiti in cui è necessario applicare i concetti appresi durante la lezione per risolvere nuovi problemi) ed è stato osservato un punteggio significativamente più basso nel gruppo impegnato con il multitasking.

Media mutlitasking: conseguenze anche per i compagni che usano carta e penna

Sono stati poi reclutati nuovi studenti per partecipare ad un secondo esperimento in cui veniva chiesto loro di assistere ad una lezione (la stessa del primo esperimento) e prendere appunti con carta a penna: alcuni di loro erano strategicamente seduti in modo da poter vedere alcuni compagni impegnati nel multitasking sui loro computer portatili (a cui era stato chiesto di navigare in internet a loro piacimento e fingere di prendere appunti sulla lezione in corso), altri invece erano disposti in modo da non avere alcun tipo di distrazione digitale. Alla fine della lezione è stato condotto il test di verifica di comprensione del materiale; in aggiunta, agli studenti soggetti alla vista dei multitaskers, sono state poste domande in cui veniva chiesto quanto, secondo loro, fossero stati distratti nel vedere i compagni impegnati nell’utilizzo della tecnologia e quanto questo avesse ostacolato l’apprendimento del materiale. I risultati del test di verifica mostrano una performance significativamente peggiore da parte degli studenti esposti alla vista dei compagni impegnati nel media multitasking rispetto a coloro che erano lontani dalle fonti di distrazione; inoltre gli studenti esposti alla tecnologia dei compagni hanno ritenuto di essere stati distratti, ma non in modo eccessivo. Gli esperimenti di Sana e collaboratori confermano quindi lo svantaggio che deriva dall’utilizzo del media multitasking durante l’apprendimento di nuovo materiale, il cui effetto negativo si estende anche a chi si trova fisicamente vicino.

Nonostante sia largamente dimostrato dalla ricerca scientifica che l’essere umano possiede risorse attentive limitate e che occuparsi di due o più compiti simultaneamente può compromettere la qualità della prestazione, il multitasking viene oggigiorno considerato un modo efficace di approcciarsi ai molteplici compiti a cui l’individuo viene sottoposto quotidianamente. Non è ancora possibile stabilire con certezza se l’efficacia del multitasking sia un mito da sfatare o meno. È presumibile che questa modalità di lavoro abbia effetti altamente dannosi quando tutti i compiti richiedono la stessa quantità di attenzione e che invece la prestazione non risenta di alcun effetto negativo se i compiti secondari sono meno impegnativi rispetto al compito principale. Sarà dunque opportuno proseguire con la ricerca al fine di stabilire gli effetti del multitasking e come essi varino a seconda delle condizioni prese in esame.

Un selfie al giorno toglie lo psicologo di torno: gli effetti positivi della condivisione di foto sui social network

Scattarsi una foto al giorno e pubblicarla sui social network sembra favorire il proprio benessere personale.

 

Sul social network Instagram è possibile trovare milioni di foto sotto il tag #365. In questo modo, milioni di utenti pubblicano quotidianamente foto, condividendole con i propri amici o con un pubblico virtuale ben più vasto del giro di amicizie “reali”.

Così come avviene su Instagram, anche su social meno conosciuti in Italia, come Blipfoto, si verifica lo stesso fenomeno digitale.

Partendo da questa evidenza empirica, il dott. Liz Brewster della Lancaster University ed il dott. Andrew Cox della Sheffield University si sono interessati al fenomeno.

Lo studio sperimentale

I ricercatori hanno registrato, per due mesi, le foto scattate quotidianamente da 30 persone reclutate attraverso la pagina Facebook “friends of Blipfoto”. Inoltre, sono stati analizzati anche il testo inserito a capo della foto e le modalità con le quali i soggetti hanno interagito con gli altri utenti.

Da queste osservazioni etnografiche, supportate da interviste approfondite, è emerso che scattarsi una foto al giorno sembra migliorare il benessere nelle dimensioni della cura di sé, dell’interazione sociale, della riflessione su se stessi e dell’esplorazione delle novità.

I partecipanti allo studio hanno usato le proprie foto quotidiane per documentare ed adottare un atteggiamento riflessivo verso se stessi e tale atteggiamento è ritenuto dagli utenti stessi una forma di miglioramento del proprio benessere.

Lo studio inquadra il miglioramento del benessere come un processo attivo da parte dei soggetti, i quali creano significati e nuove concettualizzazioni di “salute”.

Volendo implementare lo studio, i ricercatori ritengono sia utile avere ulteriori dati sul contesto di vita dei partecipanti per comprendere meglio le aspettative sul proprio benessere. Sarebbe inoltre opportuno raggiungere un ampliamento del campione al fine di ottenere risultati più facilmente generalizzabili rispetto alla popolazione generale.

Quello che si augurano gli autori del presente studio è che i risultati possano aprire le porte ad ulteriori studi legati alle pratiche digitali.

Contesti di sviluppo della competenza sociale: la famiglia e il gruppo dei pari

Allo sviluppo sociale dei bambini concorrono in maniera ugualmente importante il rapporto con i genitori e la propria famiglia e il rapporto che, più avanti, si viene ad instaurare con il gruppo dei pari.

Valentina Pastore – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

Il bambino, già alla nascita, dispone di caratteristiche che lo predispongono alla costruzione di rapporti affettivi con gli altri. La famiglia è il primo contesto utile per la crescita fisica e lo sviluppo sociale del bambino. Le famiglie sono l’ambito ideale per l’educazione dei bambini: sono piccoli gruppi intimi, che facilitano l’apprendimento di regole di comportamento coerenti, sono inoltre legate a vari ambienti esterni nei quali i bambini possono essere gradualmente introdotti.

La famiglia è considerata l’unità di base nell’ambito della quale un bambino viene addestrato all’esistenza sociale (Schaffer, 1998). Le pratiche educative svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale di un soggetto, poiché contribuiscono a trasmettere valori e norme che porteranno l’individuo a diventare un adulto adeguatamente integrato all’interno della società di appartenenza (Grusec & Goodnow, 1994; Grusec, Goodnow & Kuczynski, 2000; Hoffman, 1994). Infatti il processo di interiorizzazione dei valori e delle norme avviene in un contesto in cui l’interazione delle esperienze sociali di vita dei figli con i genitori e con i pari, si unisce ai processi di strutturazione attiva degli uni e degli altri, che sono a loro volta un prodotto delle situazioni vissute (Wainryb & Turiel, 1993).

Il coinvolgimento di entrambi i genitori nell’educazione dei figli, la disponibilità e il grado di sostegno percepito dai figli, nonché un adeguato livello di comunicazione, sono tutti fattori che vanno a promuovere un sostegno strumentale ed emotivo ai figli (Rodrigo, Maiquez, Garcia et al., 2004). Come conseguenza è necessario adattare gli stili educativi sia alla personalità dei figli che alle esperienze e alle situazioni vissute (Mestre, Tur, Samper, Nàcher & Cortés, 2006).

È stato inoltre dimostrato che i genitori che trasmettono sostegno e affetto ai figli, utilizzano il ragionamento induttivo come tecnica di disciplina, insegnano la comunicazione in ambito familiare e stabiliscono norme di comportamento in famiglia, hanno maggiori possibilità di migliorare la competenza sociale, la collaborazione e l’autonomia nei propri figli (Alonso & Roman, 2005; Lila & Gracia, 2005).

La famiglia costituisce il nucleo primario nello sviluppo personale, emotivo, cognitivo e socio-affettivo del bambino

È proprio all’interno della famiglia che il bambino riceve le prime indicazioni su ciò che è bene fare o non fare, cosa è lecito e cosa invece non lo è, percependo così messaggi riguardo al valore e all’importanza delle proprie azioni.

Al giorno d’oggi i bambini trascorrono molto meno tempo con i genitori rispetto quanto avveniva in passato, ma ciò non significa che la famiglia stia perdendo il suo ruolo fondamentale di agente socializzante, anche se è necessario tenere in considerazione la presenza di altri importanti agenti di socializzazione, come il gruppo dei pari (Mestre, Tur, Samper, Nàcher & Cortés, 2006).

Il ruolo della famiglia nello sviluppo sociale dei propri figli comprende sia gli stili di disciplina adottati dai genitori, sia la trasmissione di rappresentazioni globali del funzionamento della realtà sociale, di conseguenza è possibile affermare che il processo di socializzazione ingloba sia aspetti di contenuto (che riguardano “ciò che si trasmette”) che di forma (che riguarda “come si trasmette”) (Molpeceres, Musitu & Lila, 1994).

Stili educativi e sviluppo sociale

In riferimento agli stili educativi, interessante è la descrizione effettuata dell’autrice statunitense Diana Baumrind (1967). Per l’autrice, i genitori, a seconda delle pratiche educative utilizzate nei confronti dei propri figli, posso essere contemplati in tre categorie (Baumrind, 1967; 1971):

  • Genitori autorevoli o direttivi. In questa categoria rientrano tutti quei genitori che trasmettono norme comportamentali ai figli mediante ragionamenti, non impongono il proprio punto di vista al figlio ma tengono in considerazione il punto di vista di quest’ultimo favorendo in un certo senso l’autonomia nascente. Nello stesso tempo, questi genitori sono in grado di esprimere affetto e sostegno nei confronti dei figli, tenendo in considerazione i loro bisogni e le loro richieste.
    Questo stile educativo favorisce nei figli comportamenti di responsabilità, di indipendenza, di collaborazione e competizione leale con i pari. I bambini che vengono educati attraverso questo stile, manifestano nel tempo una maggiore autostima e autocontrollo, hanno buoni rapporti con i pari e sono orientati a comportamenti positivi (Hetherington & Parke, 1993).
  • Genitori autoritari. Contrariamente ai genitori descritti in precedenza, i genitori autoritari, impongono le norme ai propri figli e tentano di controllare i loro comportamenti mediante divieti e la coercizione sia fisica che verbale. Inoltre non dimostrano nessun interesse per le richieste e i bisogni dei figli, trattandoli con freddezza e dimostrando poco affetto nei loro confronti.
    Risultato di questo stile educativo, sono generalmente bambini tristi, vulnerabili allo stress e con bassa fiducia in se stessi, senza obiettivi precisi che alle volte manifestano condotte aggressive (Ibidem).
  • Genitori permissivi. Quest’ultimo gruppo di genitori utilizza una comunicazione delle regole molto ambigua, bassi livelli di calore emotivo e impartiscono la disciplina in modo incoerente.
    Questo modo di imporre la disciplina, provoca nei figli comportamenti poco equilibrati, bassa autostima, scarso autocontrollo e una tendenza ad essere impulsivi ed arroganti (Ibidem).

L’autrice afferma inoltre l’esistenza di un processo di sviluppo sociale dinamico, influenzato non solo dai genitori ma anche dal comportamento del bambino: attraverso il feedback, questo processo struttura e modifica gli stili parentali in modo da adattarsi alle necessità evolutive del bambino (Baumrind, 1989, 1991).

I risultati empirici hanno dimostrato che gli stili disciplinari non si presentano in modo “puro”, ma che essi si possono modificare e adattare nel tempo ai soggetti e alle circostanze, proprio grazie al loro carattere bidirezionale (Bandura, Caprara, Barbaranelli et al., 2003; Caprara & Zimbardo, 1996; Darling & Steinberg, 1993).

Successivamente, Maccoby e Martin (1983) hanno proposto che dalla combinazione dei diversi pilastri delle pratiche parentali, quali affettività, richieste e controllo, possano emergere tipi diversi di famiglie, ognuna con caratteristiche peculiari e con un proprio stile comunicativo (Maccoby & Martin, 1983). In particolare vi sono:

  • Famiglie autorevoli e reciproche, rette con un’autorità ferma e ragionata, costruite sulla base di modelli di comportamento chiari. I genitori manifestano in modo chiaro l’approvazione o il disaccordo a riguardo dell’educazione dei figli senza mostrare elementi di incoerenza e utilizzano una comunicazione aperta e bidirezionale. All’interno di queste famiglie si respira un clima caloroso che permette di passare dalla richiesta alla collaborazione (Sorribes & Garcia Bacete, 1996)
  • Famiglie autoritarie, caratterizzate da rigidità e inflessibilità, fanno rispettare le norme e le regole ai figli attraverso costrizioni e punizioni. Non viene data importanza alla comunicazione, la quale è solamente unidirezionale (dai genitori ai figli), unico interesse dei genitori è ottenere l’obbedienza dei figli (Berk, 1994)
  • Famiglie indulgenti sono caratterizzate da leggerezza, permettono ai propri figli di fare qualsiasi cosa senza imporre castighi e punizioni. Nonostante ciò la comunicazione all’interno della famiglia risulta aperta, affettiva e democratica.
  • Famiglie negligenti o indifferenti, all’interno delle quali i genitori dimostrano una certa indifferenza nei confronti della crescita dei propri figli, infatti non si interessano delle loro necessità e delle loro richieste (Berk, 1994)

Sviluppo sociale e relazioni con il gruppo dei pari

Degne di nota sono anche le relazione extrafamiliari in cui è coinvolto il bambino e che contribuiscono al suo sviluppo sociale, in particolar modo le relazioni che il bambino costruisce con i membri appartenenti al proprio gruppo. Le relazioni con i pari sono in grado di rivelare i meccanismi messi in atto per affrontare il mondo sociale. Questi meccanismi sembrano essere stabili negli anni e possono contribuire a prevedere lo sviluppo di futuri problemi di adattamento (Rubin, Bukowsky, Parker, 1998).

Allo scopo di differenziare le relazioni tra bambini rispetto a quelle con adulti, Hartup (1983, 1989) ha distinto le dimensioni di “orizzontalità” e “verticalità”. I bambini interagendo con gli adulti, sono coinvolti in relazioni verticali, caratterizzate da asimmetria, in quanto si stabiliscono tra partner che si trovano su due piani differenti, dal punto di vista sia delle competenze sia della posizione di potere occupata all’interno della relazione. L’adulto, trovandosi in una posizione di “superiorità” fornisce al bambino cure, sostegno, affetto oppure può impartire ordini manifestando un comportamento assertivo. Queste relazioni svolgono la funzione fondamentale di fornire protezione e sicurezza, da un lato, e di trasmettere conoscenze, dall’altro (Corsano, 2008). Le relazioni sviluppate con i coetanei sono invece di tipo orizzontale e quindi sono caratterizzate da simmetria, sono di tipo reciproco e finalizzate ad offrire al bambino l’opportunità di apprendere le abilità di cooperazione, competizione, condivisione e assunzione dei ruoli (Hartup, 1983, 1989). All’interno delle relazioni verticali i bambini si trovano in una condizione di inferiorità, solo le relazioni con i coetanei assicurano loro una posizione relativamente uguale in termini di potere, in quanto si presume che i pari hanno per definizione età, abilità e ruolo simili tra loro (Furman & Buhrmester, 1985).

Secondo Schaffer (2004) le relazioni tra pari appaiono particolarmente importanti per lo sviluppo successivo, proprio per la loro dimensione di orizzontalità.

Gli studiosi hanno affrontato i benefici della relazione tra pari nei bambini da due punti di vista: alcuni si sono soffermati sul fatto che stare con gli altri bambini aiuti ad acquisire capacità diverse, non necessariamente legate alla socializzazione; altri si sono invece concentrati sullo studio delle abilità necessarie per stare bene con gli altri e solo in un secondo momento hanno preso in esame gli esiti evolutivi legati a queste abilità (Di Norcia, 2009).

Nel primo filone di autori emerge l’importante contributo di Piaget (1932), il quale sostiene che le interazioni tra pari possono offrire un contesto unico per l’acquisizione di alcune abilità. Infatti nell’interazione con i coetanei i bambini sono chiamati a cooperare e ad accordarsi con qualcuno che è al loro stesso livello; in questo modo imparano ad assumere il punto di vista dell’altro. Da questi primi studi, ha iniziato ad emergere l’idea che l’interazione con i pari non favorisce solamente lo sviluppo sociale del bambino (Hartup, 1983) ma anche quello intellettuale (Carugati & Perret-Clermont, 1999).

Nella stessa direzione, Vygotskij (1934) riconosce il ruolo svolto dalle interazioni tra pari allo sviluppo intellettuale: l’autore evidenzia come le discussioni che possono sorgere all’interno del gruppo dei pari, possono aiutare il bambino a risolvere i problemi, le soluzioni vengono successivamente interiorizzate e fatte proprie dal bambino stesso (Di Norcia, 2009).

Harris (1995), propone una visione estremamente radicale dell’importanza della relazione tra pari. L’autore, giunge ad affermare che il comportamento dei genitori non ha alcun effetto poiché l’unico contesto significativo per lo sviluppo sociale dei bambini è quello dei pari; secondo quest’idea la socializzazione avviene in modo specifico per contesto e quindi il bambino impara dai genitori solo il comportamento da tenere in casa, mentre apprende dal gruppo di coetanei le norme culturali necessarie per vivere nell’ambiente esterno (Harris, 1995).

L’importanza della relazione tra pari è confermata dal fatto che la povertà delle relazioni durante l’infanzia predice successivi disagi a livello psichiatrico (Brown & Dodge, 1997; Kupersmidt & Coie, 1990; Parker & Asher, 1987).

Il contributo dei vari autori ha evidenziato che le buone relazioni tra coetanei favoriscono condizioni uniche per apprendere abilità che non si possono imparare dagli adulti (Di Norcia, 2009). Accanto a queste opportunità, le relazioni tra coetanei possono anche avere effetti indesiderabili. Infatti diversi studi hanno dimostrato che in alcune situazioni i coetanei possono veicolare contenuti non sempre positivi e potrebbero avere un ruolo determinante nel percorso verso la devianza. Basti pensare agli adolescenti che all’interno del gruppo dei pari, mettono in atto comportamenti a rischio come uso di droghe e azioni violente (Bonino & Cattelino, 2000).

Processi simili sono stati osservati anche tra bambini, frequentanti la scuola primaria o la scuola dell’infanzia, i quali mettevano in atto frequenti condotte aggressive con lo scopo di assumere un ruolo dominante e per essere accettati dai pari (Costabile, 1996; Boivin, Coie, Dodge, 1995; Rodkin et al., 2000).

Il modello della Schema Therapy applicato alla Depressione: uno studio su campione non clinico

L’ormai sempre più diffuso modello della Schema Therapy (ST, Young 2003) è stato applicato, con preliminari prove di efficacia, anche al trattamento dei sintomi depressivi e in particolare della depressione cronica.

 

Lo sviluppo del modello specifico per questo disturbo nasce con Huibers & Renner e si sviluppa ulteriormente grazie all’aggiuntivo contributo di Arntz (2013). Gli autori propongono un modello cognitivo di funzionamento per la depressione cronica che integra alcuni elementi della Schema Therapy, partendo dall’analisi della letteratura che ne identifica i principali fattori di rischio (sia distali che prossimali). In particolare questi riguardano:

  1. Esperienze precoci sfavorevoli (frustrazioni di bisogni emotivi fondamentali e stili parentali disfunzionali),
  2. Tratti di personalità patologici (riguardanti soprattutto tratti dei disturbi di personalità del Cluster C)
  3. Presenza di schemi maladativi precoci (abbandono, fallimento, deprivazione emotiva e altri).

Ulteriori fattori interpersonali disfunzionali come l’evitamento sociale o la mancanza di assertività, rappresentano aggiuntivi fattori di mantenimento del quadro depressivo. In seguito, diverse ricerche hanno studiato la presenza di schemi maladattivi in campioni clinici e non, osservando come chi avesse sintomi depressivi presentasse punteggi più elevati su tutti gli schemi maladattivi precoci, rispetto ai soggetti di controllo asintomatici.

Schema Therapy e depressione: il ruolo dell’evitamento

Nel tentativo di confermare queste evidenze e di indagare aspetti ancora inesplorati, il nostro lavoro si è prefissato l’obiettivo di approfondire i costrutti della Schema Therapy, cercando di analizzare il ruolo, ad oggi tralasciato, dei mode e degli stili di coping di evitamento, all’interno del quadro depressivo. In particolare il focus sui coping di evitamento è stato esaminato poiché individuato da Renner come un aspetto cardinale nel mantenimento del quadro depressivo.

In un campione di oltre duecento soggetti tratti dalla popolazione non clinica sono stati misurati le caratteristiche e la gravità di eventuali sintomi depressivi (Centre for Epidemiological Studies-Depression Scale, CES-d), la pervasività degli schemi disfunzionali (Young Schema Questionnaire-75, YSQ-75) e dei mode (Schema Mode Inventory, SMI) e la tipologia di stili di coping di evitamento (Young Avoidance Inventory, YRAI).

In una prima analisi sul campione totale, in accordo con la letteratura, abbiamo osservato una forte associazione positiva tra pervasività e gravità degli schemi, dei mode e dei coping evitanti e importanza della sintomatologia depressiva. In particolare, una prima analisi di regressione ha permesso di identificare negli schemi di inadeguatezza/vergogna, grandiosità, abbandono, standard elevati/ipercriticismo e deprivazione emotiva i principali predittori del livello di gravità del disturbo.

I mode che meglio spiegavano il quadro depressivo erano il bambino abbandonato/ vulnerabile e l’impulsivo e il mode del genitore esigente/con standard elevati (che rappresenta l’attivazione dello schema di standard elevati/ipercriticismo). Mentre, tra le varie strategie di evitamento, le modalità intra-psichiche predicevano meglio delle altre il punteggio nella CES-d. In una ulteriore analisi aggiuntiva, il campione totale di soggetti è stato suddiviso in due gruppi con bassi e alti punteggi nella CES-d (in base al punto percentile, rispettivamente sotto il 25° e sopra il 75°). In questo modo è stato possibile confrontare tra loro soggetti con bassi e alti livelli di depressione, dove nel secondo gruppo il punteggio medio nella scala depressiva è risultato particolarmente elevato (M=31.6, dove il cut-off clinico è pari a 23).

In linea con le attese iniziali e con la letteratura, i partecipanti depressi hanno riportato la presenza di schemi e mode disfunzionali più severi, rispetto al campione di controllo asintomatico, mostrando anche associazioni positive particolarmente elevate tra gli schemi di abuso/sfiducia e abbandono, i mode del protettore distaccato (ovvero, un coping di evitamento), del genitore esigente e del bambino abbandonato e arrabbiato/impulsivo. In una seconda analisi di regressione multipla condotta nel solo campione di soggetti depressi, la gravità dei sintomi veniva spiegata dagli schemi di abbandono, standard elevati/ipercriticismo, sottomissione e grandiosità per il 55% della varianza del punteggio ottenuto nella CES-d, mentre tra i mode il genitore esigente/con standard elevati (nuovamente null’altro che l’attivazione dello schema standard elevati/ipercriticismo) spiegava da solo il 24% del livello depressivo. Infine, la dissociazione e altre strategie di evitamento intra-psichiche spiegavano il 40% della varianza del punteggio nella CES-d.

I dati di questo lavoro supportano quanto emerso precedentemente in letteratura, come anche il modello di Renner (2013) e suggeriscono di porre particolare attenzione anche ai mode disfunzionali (come il genitore esigente/con standard elevati, il bambino abbandonato e quello arrabbiato/impulsivo) e alle strategie di evitamento intra-psichico, che sembrano avere un ruolo nel caratterizzare il funzionamento dell’individuo depresso. Pur tenendo conto dei limiti del presente lavoro (campione non clinico, utilizzo di strumenti self-report), questi dati, assieme agli altri, suggeriscono la possibilità di spiegare la depressione, la sua eziologia e il suo funzionamento, integrando gli elementi già noti indagati e trattati con la Terapia Cognitivo-comportamentale (TCC), con nuovi elementi e nuove tecniche provenienti dal modello della Schema Therapy.

L’utilizzo di un approccio emotivo-esperienziale come quello della Schema Therapy permette al terapeuta di intervenire, per esempio tramite la tecnica dell’imagery with resripting o la tecnica delle sedie, sui mode disfunzionali genitoriali o sugli stili di coping evitanti, con lo scopo di arginarli o de-potenziarli, promuovendo in parallelo l’appagamento dei bisogni emotivi fondamentali frustrati (accudimento, accettazione, incoraggiamento e così via) del paziente.

Rendimento scolastico: il modo in cui i genitori aiutano i figli può portare non solo ad aspetti positivi ma anche negativi

Nonstante tutte le azioni messe in atto dai genitori mirino ad aiutare i figli nello svolgimento delle proprie attività, tra cui anche quelle scolastiche, non tutti i tipi di aiuti forniti sono efficaci allo stesso modo.

 

Un recente studio svolto dalla University of Eastern Finland ha indagato l’associazione esistente tra l’assistenza fornita durante i compiti a casa e la motivazione nello svolgimento di quest’ultimi in bambini di scuola elementare. Lo studio ha inoltre preso in esame anche il legame tra l’aiuto offerto dai genitori e il rendimento scolastico dei figli.

Partendo dal presupposto che l’assistenza fornita durante i compiti a casa ha un impatto sul modo in cui i bambini portano a termine gli incarichi scolastici e, sebbene, tutte le azioni messe in atto dai genitori mirino presumibilmente ad aiutare i figli, non tutti i tipi di aiuti forniti sono però efficaci allo stesso modo.

Autonomia nei compiti e motivazione: il disegno sperimentale e i suoi risultati

Lo studio longitudinale condotto dall’Università finlandese ha rivelato che quando le madri offrivano maggiori opportunità di autonomia nei compiti, la motivazione dei bambini cresceva, al contrario tanto più le madri assistevano i figli, fornendo loro aiuti concreti, tanto più i bambini mostravano minor persistenza nello svolgimento del lavoro. Queste situazioni innescavano un circolo virtuoso nel momento in cui il comportamento indipendente del bambino incoraggiava le madri a ridurre l’aiuto superfluo, e si trasformava in circolo vizioso quando invece lo scarso impegno dei bambini costringeva le madri a essere sempre più disponibili.

Una possibile spiegazione di queste dinamiche è fornita dal professor Jaana Viljaranta, tra gli autori dello studio, che rifacendosi al costrutto di autoefficacia, afferma

Quando la madre fornisce al bambino l’opportunità di svolgere i compiti da solo invia al tempo stesso il messaggio che crede nella sua capacità di riuscire bene nell’attività intrapresa, tutto ciò infonde nel bambino fiducia nelle proprie abilità. Allo stesso modo, dando assistenza continua, specialmente se non richiesta dal bambino, il messaggio che si veicola è che la madre non crede nell’abilità del figlio di svolgere i compiti.

I risultati indicano anche una relazione tra i tipi di assistenza genitoriale e il rendimento scolastico dei bambini. Lasciare libero il bambino di mettere alla prova le proprie conoscenze e abilità porta al rinforzo dell’apprendimento e in generale a risultati scolastici migliori, al contrario offrire aiuto in modo incondizionato non solo si è visto essere correlato negativamente alla motivazione e alla persistenza nello svolgimento degli esercizi ma sembra predire anche scarse performance scolastiche.

Il professor Viljaranta ha concluso affermando che:

L’assistenza dei genitori nel lavoro scolastico per casa dovrebbe tenere in considerazione i bisogni oggettivi del bambino. Ovviamente il bambino va assistito quando vi è necessità, ma tale assistenza deve essere offerta a seguito di una richiesta formulata dal bambino stesso. L’aiuto concreto che il genitore può dare non è un qualcosa che dovrebbe essere reso automaticamente disponibile in ogni situazione ma solo quando veramente necessario.

In conclusione è possibile affermare che, secondo lo studio, non tutti gli aiuti forniti hanno riscontri positivi anzi, la modalità con cui il genitore fornisce l’aiuto appare estremamente importante. Da questa infatti sembra dipendere la motivazione e l’impegno che il bambino impiega nello svolgimento dei compiti per casa ed anche il suo profitto scolastico.

Psicoadvise: fare psicoterapia online

L’ offerta psicologica online è un fenomeno in continua trasformazione ed evoluzione, che tende ad aumentare costantemente e a strutturarsi in forme di comunicazione sempre più efficaci. Occorre porre molta attenzione però.

 

Nel panorama italiano sono presenti ad oggi molti siti in cui è possibile visionare le specializzazioni e le competenze professionali di numerosi psicologi; allo stesso modo è possibile trovare numerose App di stampo psicologico, in grado di offrire servizi diversificati. Tra le varie prestazioni è possibile individuare anche un certo numero di professionisti disponibili ad effettuare sedute psicologiche online, tuttavia tale servizio, fino ad oggi, non sembra essere tutelato: il paziente si deve fidare della professionalità del terapeuta, così come il terapeuta si deve fidare dell’onestà del paziente.

Non è sempre facile infatti l’identificazione dei veri professionisti. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine Psicologi, nel 2013, all’interno di quelle che sono le raccomandazioni sulle prestazioni psicologiche attraverso tecnologie di comunicazione a distanza, su 270 siti individuati ha estratto 544 nominativi, dei quali però 47 non risultavano iscritti all’Albo.

Questi dati confermano che il fenomeno delle prestazioni psicologiche online è un fenomeno che anche in Italia si sta evolvendo con rapidità e curiosità cominciando ad essere oggetto di sperimentazione e di ricerca, sollevando al tempo stesso, numerosi interrogativi di natura metodologica e deontologica.

In accordo con le linee guida fornite dai diversi Ordini professionali in materia delle consulenze online e in linea con lo sviluppo della tecnologia, ora anche gli psicologi avranno la possibilità di utilizzare i moderni canali digitali per fornire prestazioni professionali sicure, tutelando se stessi e l’utenza che utilizza tali servizi.

Psicoterapia online: nasce psicoadvise.it

Psicoadvise.it è la prima piattaforma in Italia dedicata esclusivamente alla psicoterapia online.

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La piattaforma controlla la veridicità dei dati forniti dallo psicoterapeuta (identità, iscrizione all’Ordine, titoli professionali etc.) e avvallerà l’iscrizione di quest’ultimo, solamente previo accertamento effettuato. Psicoadvise.it prevede inoltre, l’acquisizione dell’autorizzazione al trattamento dei dati personali e il consenso informato riguardo alle prestazioni offerte, in versione digitale.

L’obiettivo di Psicoadvise.it è quello di rendere facile e immediato l’incontro tra terapeuti e pazienti abbattendo le barriere geografiche e riducendo di conseguenza costi e tempi.

La piattaforma mette a disposizione degli utenti un’ampia scelta di psicoterapeuti così da rendere più semplice e accessibile la terapia e l’ascolto. Allo stesso tempo abbatte la concorrenza da parte dei professionisti e aumenta il panorama di possibilità di scelta da parte dell’utenza.

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Dogman (2018): tra assenza di colore e assenza di speranza, un destino che soccombe sotto il dolore di ciò che ci circonda – Recensione del film

Appena premiato a Cannes con il riconoscimento per il miglior attore protagonista, Dogman, il film di Garrone, liberamente ispirato al “delitto del canaro” che trent’anni fa scosse la periferia romana e l’opinione pubblica nazionale per la sua efferatezza, peraltro mai pienamente provata, riesce a salire di livello rispetto alla (mai) semplice narrazione di un evento. 

 

Il primo elemento che colpisce di Dogman è la capacità di costruire un ambiente visionario nella sua crudezza, all’interno del quale il flusso del racconto sembra armonizzare la disperazione del degrado. La città non ha nome, la periferia è romana, romanesca negli accenti dei suoi personaggi ma potrebbe essere l’estrema terra abbandonata di qualunque città impotente di fronte al proprio destino immobile. I colori sono cupi o assenti, le case diroccate nei significati che trasmettono mute, più che se avessero subito una guerra, la distruzione è nelle strade deserte in mezzo ai casermoni, nei palazzacci isolati da qualunque forma di vita. Una sintesi, si potrebbe immaginare, fra la spoglia solitudine di gomorriana memoria e l’alienazione lunare degli scenari post fine del mondo.

In questo inferno che non scalfisce il silenzio, si muovono, come ombre stanche, uomini la cui vita è l’unico bar, l’unica sala di giochi più o meno leciti, l’officina che ripara motori e smercia provvidenziale cocaina – viene da credere possa essere l’unica emozione riproducibile – e pochi negozi che non si capisce di quali clienti possano sopravvivere. Uno di questi è “ Dogman ”, toelettatura per cani, tanti cani, più cani che umani parrebbe. Come se affidarsi ai quattro zampe fosse l’unico modo per avere uno scambio con altre vite.

Il canaro è Marcello che, come gli altri abitanti del quartiere e in realtà molto di più, fino a conseguenze devastanti, subisce le vessazioni di Simone, gigantesco pugile cocainomane che dispone a piacimento del prossimo grazie alla violenza bestiale che nessuno riesce a fermare. Marcello non si limita a subirlo, sembra essergli amico non solo per paura ma anche per una sorta di benevola indulgenza verso l’omone stupido che pare avere nei suoi confronti altrettanta gentilezza, ruvida forse, ma percepibile. I due sembrano quasi capirsi, come se le loro solitudini potessero, proveniendo da mondi interiori opposti, diventare solidali. Simone ha bisogno di Marcello per la droga e lo risparmia dalla propria aggressività, dinamica resa ovvia e tragica dall’arrendevolezza senza condizioni del canaro. Quest’ultimo sopravvive alle mareggiate emotive del pugile placandolo con la polvere bianca e garantendo remissiva disponibilità alle scorribande di ordinaria criminalità notturna che Simone mette in piedi con qualche compare altrettanto triste.

I battiti del film Dogman sono regolari, paralleli allo scorrere di una vita consumata e degradante, nella quale ogni figura pare non poter fare nulla di diverso da ciò che fa e continuerà a ripetere, esattamente come i cani e la loro toeletta. Fino al crescendo della violenza, al ricatto inarrestabile che conduce Marcello a consegnarsi come vittima inerme senza mai perdere l’espressione di un’impotenza a tratti enigmatica, che nelle pieghe della storia inizia a rimuginare, a invertire la rotta, a rinforzarsi di una rabbia silenziosa e ragionata, poi manifesta ma ad ogni modo fredda, nei lenti movimenti che finiscono per avvolgere il carnefice di un tempo e nell’epilogo finale.

La narrazione del delitto è quasi elemento di contorno, marginale rispetto alla parabola di un uomo di fronte alla sopraffazione, minuscolo e poi spietato, buono e infine lucido nel tentare la sopravvivenza con le stesse carte della propria rovina, forse le uniche possibili in quel microcosmo espressione dell’universalità.

Sembra che Marcello comprima per tutta la vita il peso di dolori altri, di amarezze che si nascondono nel suo sguardo basso, nella voce sottile; sembra che ogni personaggio, nella luce obliqua di una periferia che è l’immagine di una realtà fuori dal mondo al centro del nostro mondo, nei riflessi metallizzati dell’assenza di colore e dell’assenza di speranza, percorra un destino che non può non infettarsi, soccombendo, dell’ansimare dolente di ciò che vive intorno a lui.

DOGMAN – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

Scampoli (2018) di R. Lorenzini: storie di vita simili a tagli di stoffa elegante, ma di misura insufficiente per un abito intero – Recensione del libro

Lorenzini nel libro Scampoli tratta diversi temi all’interno di una cornice narrativa ricca di intrecci mai scontati: l’incommensurabilità dei piani esistenziali; la costruzione soggettiva della realtà; l’avvicendarsi del caso nella vita di ognuno; gli amori che fioriscono e sfioriscono all’improvviso e che fanno da contrappunto all’esistenza altrimenti asfittica; la morte, signora di ogni destino, implacabile e presente nello svolgersi della vita dei protagonisti.

 

La trama si snoda in alterne e parallele vicende che si aprono improvvisamente alla comprensione quando il senso del racconto sembra ormai perduto, come quei raggi di sole che appaiono nei cieli plumbei dei paesi del nord Europa dopo un temporale.

I testi nascono dai racconti dei pazienti che Lorenzini ascolta “…a bocca aperta, con l’attesa incantata di un bimbo che aspetta una meravigliosa fiaba”. Le storie sono:

scampoli che non ce la fanno a diventare una vita e ricordano … tagli di stoffa elegante, ma di misura insufficiente per un abito intero: pezzi troppo belli per gettarli, ma troppo piccoli per bastare da soli.

Così troviamo Rosa e Mario, che celebrano 25 anni di vita insieme e si accorgono che presi dal timore di ferirsi non si sono mai incontrati restando per tutti quei lunghi anni due sconosciuti.

Un padre gonfio dei successi professionali e della sua ricchezza e un figlio trascurato e negletto, una mela marcia che si toglie la vita e rimuove un ingombro sul percorso luminoso del genitore.

Claudio che rappresentandosi inadeguato cerca l’affermazione, il successo attraverso lo studio e la carriera lavorativa. Dopo averli ottenuti si ritrova in una stanza d’ospedale a fare la dialisi insieme a una donna affascinante conosciuta per caso qualche tempo prima. I due si innamorano, scoprono il presente, un tempo che non è promessa di altro, ma già realizzazione e dopo aver vissuto le loro stagioni da formiche si trasformano in cicale e assaporano finalmente con consapevolezza il piacere dell’esistenza.

Ed ancora ritroviamo un racconto che narra di una guerra combattuta con un’arma singolare: oscurando le stelle del cielo produce l’estinzione dei comunisti, sognatori e idealisti, mentre non nuoce ai pragmatici, cinici capitalisti. Chi vuole difendersi può riprodurre a casa artificialmente un cielo stellato e cercare conforto nell’abbraccio affettuoso di una “compagna”.

Si affacciano in altri capitoli Don Antonio e Alfonso, due vite parallele apparentemente contrapposte ma sottilmente embricate tra obbedienza e rivolta, amore e rabbia, fino ad essere accomunate da una fine illusoriamente drammatica; Fernando e Ilenia un emiplegico e una splendida ragazza che toccati dalla serendipidy intrecciano una stupefacente relazione; Giuseppe e Cecilia che costruiscono il loro amore nello studio medico di lui, pediatra più accudente nei confronti della mamma che del figlio. Il loro amore è poi vissuto fantasmaticamente in un letto d’ospedale dove staziona il medico per un banale incidente che gli procura la sindrome di locked in; infine Carlo, un re che a causa del suo orgoglio e della sua supponenza reitera una maledizione caduta sul suo regno quattrocento anni prima della sua reggenza.

Molto interessanti sono gli intermezzi tra un racconto e l’altro, ricchi di ironia e di paradossi. E proprio un intermezzo forse ci offre il significato profondo del testo:

“Ciò che mi tormenta non è la paura di dover morire alla mia esistenza, ma il pensiero che i desideri non si possono soddisfare, i desideri non si soddisfano mai, tutt’al più si perdono, e perdendo i propri desideri si diventa sempre qualcos’altro da se stessi”. O forse no, chissà?

Nel post scriptum Lorenzini chiude Scampoli con una nota personale, una confessione sui motivi del suo scrivere:

È una delle attività che più mi piace, quando lo faccio dimentico tutto il resto, perdo il senso del tempo e, se vengo distratto, provo irritazione.

Anche la lettura di ciò che scrive è piacevole e ricca di spunti che solo chi ascolta con rispetto e gratitudine le storie degli altri ed entra nella loro vita con discrezione per fornire aiuto riesce a trasmettere in modo così saliente.

Sport estremi: le motivazioni che spingono a ricercare il brivido del rischio

Sport estremi: perchè si scelgono e cosa ci spinge a ricercare il rischio, nella vita e nello sport. Un’indagine su un fenomeno in crescita

Elisa Simeoni

 

Il termine “sport estremi”, “extreme sport” o “sport ad alto rischio” entra a far parte del linguaggio italiano negli ultimi due decenni, indicando quelle attività sportive (come il parkour, il base jumping o il bungee jumping…), in parte riconducibili agli sport tradizionali, che possono essere definite da tre caratteristiche principali: l’individualità, l’espressione creativa e l’assunzione di rischi (Weber, 2002).

Sport estremi: un fenomeno in crescita

Già dagli anni 90 si assisteva ad una progressiva diversificazione delle attività sportive, passando dalla semplice pratica degli sport tradizionali (quali il calcio, il tennis, la pallavolo…) alla nascita di nuove discipline, come quelle estreme. Ed ora, sempre di più sono quelle persone, soprattutto tra i giovani, che, addentrandosi nella pratica dello sport estremo, hanno una marcata tendenza a ricercare il rischio, incorrendo spesso in incidenti mortali (Istat, 2000). Oggi, si può notare come la sfida non sia più con l’avversario, ma con sé stessi e con gli elementi naturali (siano essi il vento, l’acqua, la pendenza di una parete o una curva di una pista). Alla prestazione e al risultato si sostituisce ora il piacere del vissuto corporeo, dato dalla sperimentazione di sensazioni forti e inusuali e dal confronto con sé stessi (Ferrero Camoletto, 2005, 2008).

In un mondo che attribuisce all’autocontrollo e all’autoregolazione un grande valore, la partecipazione ad attività culturalmente considerate “rischiose”, consente al Sé e al corpo, di godere, almeno temporaneamente, dei piaceri del corpo “grottesco” o “primitivo”. (Lupton, 2003, pp. 180).

Il corpo diviene così un “contenitore del Sé” che permette di definire i chiari confini della propria identità, in un contesto sociale sempre più incerto e frammentato. Di fatto, il rischio appare legato alla rimozione della precarietà e alla sovranità individuale ricercata dal giovane o dall’adulto, nonostante la consapevolezza del pericolo esistente. Nello specifico, l’assunzione deliberata del rischio nell’adulto ben integrato, apparirebbe come un modo per ricordarsi il prezzo della propria esistenza e come una valorizzazione della leggerezza contro i vincoli della pesantezza della società odierna. Per il giovane, invece, apparirebbe soprattutto come un modo estremo per costruire il senso della propria vita e una scorciatoia per cercar di fronteggiare il dubbio e il caos nel quale è immerso (Ferrero Camoletto, 2005; Le Breton, 1991, 1995, 2002).

Sport estremi: una spiegazione psico-sociologica secondo le prospettive teoriche tradizionali

Analizzando gli studi che hanno cercato di dare una spiegazione psico-sociologica degli sport estremi, ci si accorge come nella maggior parte dei casi, il fattore personalità sia stato considerato il movente principale che spinge gli individui a praticare le attività estreme e a ricercare il rischio all’interno di esse; individui per lo più adolescenti, affascinati dall’individualità e dalla pericolosità intrinseca allo sport (Brymer, 2005; Brymer & Oades, 2009; Olivier, 2006; Simon, 2002). Pertanto, alcune ricerche hanno spiegato la partecipazione agli sport estremi come la realizzazione di un tratto di personalità deviante (personalità di tipo T, dove T sta per Thrill, ovvero brivido) che conduce l’individuo al bisogno di sperimentare una varietà di situazioni connotate da incertezza, novità e imprevedibilità. Questa branca di studi ha confrontato le differenze tra le persone comuni e gli amanti del brivido attraverso l’utilizzo di una curva rappresentativa della propensione a ricercare esperienze “No Limits”, dove all’estremo della curva venivano individuati i cosiddetti “Big T” ovvero persone caratterizzate dal bisogno di provare il brivido attraverso gli sport rischiosi (Self et al., 2007).

Le prospettive teoriche tradizionali hanno definito francamente patologici quegli individui che, scegliendo di praticare uno sport estremo e detenendo una relazione malsana con la paura, sarebbero patologici nella loro ricerca di rischio e nel loro desiderio di sfidare la morte.

Altre ricerche hanno invece preferito adottare una prospettiva psicoanalitica, considerando la partecipazione agli sport estremi come una malsana tendenza narcisistica. Gli individui narcisisti sarebbero spinti in questa direzione per via di alcune loro caratteristiche di personalità riconducibili ad esempio alla propensione a razionalizzare i comportamenti e i sentimenti ritenuti inaccettabili, a sopravvalutare le proprie capacità e a negare i propri limiti così come la propria vulnerabilità (Elmes & Barry, 1999; Hunt, 1996).

Sebbene siano stati utilizzati termini differenti per descrivere il narcisismo, esso può essere ricondotto sostanzialmente a due forme: quello “manifesto” (overt) e quello “celato” (covert) (Masterson, 1981; Wink, 1991).

  • La prima forma narcisistica, cosiddetta “overt” risulta essere la più diffusa e la più comunemente individuata in coloro che praticano attività ad alto rischio, in quanto include caratteristiche quali l’egocentrismo, l’arroganza, la vanità, l’indifferenza e la mancanza di empatia nei confronti degli altri. Nello specifico, il classico narcisista viene definito con “la pelle dura” in quanto tende a costruire uno scudo tra sé e gli altri per rendersi insensibile ma contemporaneamente nutre il bisogno di sentirsi potente e superiore rispetto agli altri, per nascondere, in realtà, un grande senso di inferiorità e di vuoto interiore. Volendo essere costantemente al centro dell’attenzione, è competitivo e desidera ottenere riconoscimenti e gratificazioni immediate che, se non arrivano, possono sfociare in un intenso sentimento di rabbia (Gabbard, 1989; Masterson, 1981; Wink, 1991). L’esempio concreto di uno sportivo appartenente a questa tipologia di personalità narcisistica è quello di Pipin Ferreras, famoso apneista cubano che nel suo scritto autobiografico “Nel blu profondo – Una storia di amore e ossessione”, parla della sua carriera e in particolare della morte della compagna Audrey Mestre, l’apneista francese, morta nel 2002 durante un tentativo di record “No Limits” in apnea, nelle acque della Repubblica Domenicana. In Ferreras si possono osservare le preoccupazioni relative alle fantasie di successo e l’invidia provata nei confronti degli altri sportivi famosi, che adora se gli sono utili ma svaluta rapidamente, passando a mettere in risalto i loro difetti, se capisce di non poter trarre da loro alcun vantaggio (Manca, 2009).
  • La seconda forma di narcisismo, quella “covert”, è invece meno palese, poiché riguarda un tipo di individuo inibito e apparentemente sensibile che nutre desideri di grandezza coltivati nel proprio mondo fantasmatico senza essere mai al centro dell’attenzione (Gabbard, 1989; Masterson, 1981; Wink, 1991).

Ci sono poi degli studi che hanno analizzato il tema dello sport estremo basandosi sulla ricerca di sensazioni, ovvero il bisogno di alcuni individui di vivere nuove esperienze, sensazioni intense e provare quel brivido di avventura ed eccitazione per contrastare la propria suscettibilità alla noia. Secondo Zuckerman, questa tendenza farebbe riferimento ad uno specifico tratto di personalità geneticamente determinato definito nel termine di “sensation seeking”, che se presente in maniera forte nell’individuo, conduce alla ricerca in modo costante del rischio. Infatti, tra gli individui è presente una differenza nell’ essere più o meno tolleranti agli elevati livelli di stimolazione, e di conseguenza avere una predisposizione a ricercarli, oppure, al contrario, ad evitarli (Zuckerman, 1983). Pertanto, le persone con alti livelli di sensation-seeking preferirebbero esperienze nuove ed intense oltre che avere una maggiore probabilità di attuare comportamenti a rischio come l’assunzione di droghe, alcol, guidare in maniera pericolosa, o in questo caso, la pratica degli sport estremi. Le persone con bassi livelli di sensation-seeking potrebbero invece nutrire disagio e trovare tali esperienze sgradevoli (Zuckerman, 2000).

In sintesi, secondo questo filone di ricerche, la partecipazione allo sport estremo verrebbe spiegata sulla base di un’attività edonistica, che spinge i cosiddetti “sensation seeker” a cercare il rischio per trarre divertimento e sperimentare emozioni forti. All’interno di questa categoria vengono collocati individui molto curiosi, con caratteristiche impulsive di personalità, tratti aggressivi e livelli di ansia piuttosto bassi (Slanger & Rudestam, 1997; Zuckerman, 2007).

Sport estremi: una spiegazione psico-sociologica secondo le prospettive teoriche recenti

Accanto agli studi che si focalizzano unicamente sull’individuo e sulle sue caratteristiche di personalità, talvolta considerate addirittura patologiche o devianti, si distinguono alcuni autori (Brown & Fraser, 2009; Brymer, Downey & Gray, 2010; Castanier, Le Scanff & Woodman, 2010) che di recente, focalizzandosi su differenti profili di personalità (anziché ricercarne una “uguale per tutti”), hanno voluto considerare l’esperienza vissuta dai praticanti, dando enfasi agli aspetti positivi dello sport estremo. Questo perchè gli individui sarebbero motivati anche da qualcosa di diverso rispetto alla semplice ricerca del rischio. Ad esempio, il tenace raggiungimento della vetta del Monte Everest da parte di George Mallory che ha portato alla sua morte nel 1924, non può essere considerato un evento perseguito da un Sensation Seeker, in quanto l’impresa comporta più fatica e concentrazione che adrenalina (Barlow, Woodman & Hardy, 2013). Vi sono persone che svolgono attività in cui subiscono privazioni, sofferenze e monotonia quotidiana, come accade nell’alpinismo, nel canottaggio oceanico o nelle spedizioni polari, attività che vengono spesso segnalate dagli stessi partecipanti come noiose e faticose, che richiedono una lunga pianificazione e preparazione e che non portano, peraltro, a nessun piacere (Lester, 2004; Woodman et al., 2010). Inoltre, i partecipanti coinvolti in attività simili all’alpinismo hanno dichiarato che il brivido è attentamente evitato in tali sforzi, poiché tipicamente associato ad una perdita di controllo e quindi ad un aumento del rischio che può portare a gravi lesioni o a morire (Kirkpatrick, 2011).

Per esaminare i motivi che impegnano le persone in attività sportive ad alto rischio ci si è poi concentrati sui costrutti della regolazione emotiva e dell’agency (Barlow et al., 2013; Castanier et al., 2010). La human agency (o agentività umana) viene definita da Bandura (1989) come la capacità dell’individuo di reagire non solo a stimoli esterni e biologici, ma anche di agire in modo attivo e trasformativo come attore sociale all’interno del contesto in cui vive, popolato da altri attori sociali. Essa si traduce nella facoltà di attuare azioni intenzionali mirate per raggiungere determinati scopi, indipendentemente dal loro esito.

In riferimento ad un recente studio di Woodman et al. (2010) si può notare come individui impegnati in attività sportive come il canottaggio e l’alpinismo dispongono di una maggiore difficoltà a descrivere le proprie emozioni e ad entrare in relazione con gli altri (specialmente con il proprio partner). Il che condurrebbe entrambe le categorie di sportivi ad impegnarsi in sport ad alto rischio per fronteggiare le proprie difficoltà emotive piuttosto che a ricercare il rischio. Meichenbaum (1996) sostiene, infatti, che l’incremento dell’agency personale in un aspetto della propria vita, può avere un effetto positivo in un altro ambito della stessa, nella misura in cui i due ambiti abbiano caratteristiche simili. In questo senso, un aumento dell’agency personale nell’esperienza stressante ma allo stesso tempo romantica del canottaggio o dell’alpinismo, riuscirebbe a portare un aumento della propria agency anche nei rapporti di natura emotiva (in particolare la relazione d’amore con il partner), che in maniera analoga, si caratterizzano per lo stress e il romanticismo provato (Lester, 2004).

Tali studi sostengono che le attività ad alto rischio verrebbero ricercate perchè dotate di una funzione di compensazione per il partecipante, il quale, in questo modo, avrebbe l’opportunità di sperimentare la regolazione delle proprie emozioni e un agency non facilmente reperibile nella vita di tutti i giorni. L’ansia aspecifica, costante e generalizzata, percepita interiormente dall’individuo nel suo quotidiano, può passare ad un ansia esterna, specifica e identificabile, grazie alla paura esperita durante la pratica degli sport estremi (Castanier et al., 2010). La paura, infatti, a differenza dell’ansia, si configura come una risposta ad una minaccia ben precisa, facilmente sperimentabile all’interno dello sport estremo e controllabile dall’individuo attraverso la regolazione delle proprie emozioni in quanto esternalizzata (Gyurak, Gross, & Etkin, 2011; Sadock & Sadock, 2007). Se la regolazione emotiva avviene con successo, l’individuo riuscirà a diminuire la sua paura, trasferendo tale capacità di coping anche in altri ambiti di vita. In altre parole, l’individuo riuscirà ad affrontare gli stress prolungati incontrati nella propria quotidianità se si è sentito un agente delle proprie emozioni all’interno di un contesto di alta tensione per un prolungato periodo di tempo (Woodman et al., 2010). In questo senso, gli studi citati concettualizzano la ricerca del rischio attraverso lo sport estremo come un potenziale modello di sforzo umano per raggiungere uno stato futuro migliore, anziché come semplice ricerca di sensazioni (Barlow et al., 2013).

Interessante è anche il contributo di Taylor e Hamilton (1997) che ha spiegato l’attuazione dei comportamenti rischiosi come possibile mezzo per regolare l’affettività negativa attraverso la fuga dalla consapevolezza di sé. Secondo gli autori, le persone potrebbero utilizzare le attività ad alto rischio (come l’assunzione di droga o alcol) come strategie di fuga per distogliere l’attenzione da sé stesse e per non pensare al proprio malessere, almeno temporaneamente; un risultato trasportato recentemente anche negli sport estremi al fine di spiegare la propensione di alcuni atleti ad attuare comportamenti rischiosi in attività estreme già ad alto rischio (Castanier et al., 2010; Cazenave, Le Scanff, & Woodman, 2007).

Ulteriori ricerche, spingendosi oltre la semplice gratificazione fisiologica, hanno rilevato altre possibili spiegazioni all’implicazione negli sport estremi, ovvero:

  • il raggiungimento di obiettivi (come il diventare un insegnante)
  • la motivazione sociale (come l’interazione con gli altri atleti)
  • la ricerca della libertà
  • la fuga dalla noia
  • la connessione con l’ambiente naturale, e l’ottenimento di piacevoli sensazioni corporee cinestetiche, muovendosi in aria o in acqua.

Quindi, non tutto risulta patologico: lo sport estremo potrebbe portare ad esiti psicologici ed emotivi positivi, ad esempio alla trasformazione della paura in coraggio o lo sviluppo dell’umiltà (Brymer & Oades, 2009; Brymer & Schweitzer, 2012; Willig, 2008).

Sport estremi: le altre motivazioni oltre alla ricerca del rischio

In particolare, lo studio di Kerr e Mackenzie (2012) ha sostenuto che le motivazioni dei partecipanti implicati negli sport d’avventura appaiono multiformi, in quanto, mentre alcuni di essi condividono motivazioni comuni, altri si differenziano nelle loro ragioni, dandone un ordine diverso di importanza. Le diverse tendenze motivazionali possono dipendere sia dalle caratteristiche di personalità, che dal genere (essere uomo o donna) e dal livello di coinvolgimento nello sport (competitivo, professionale, ricreativo). Inoltre, si è rilevato che le motivazioni possono cambiare a seconda delle circostanze incontrate durante lo svolgimento dell’attività oppure nel corso del tempo, in base all’esperienza, alle competenze acquisite e con l’aumento dell’età. Per esempio, una persona potrebbe iniziare a fare kayaking per il semplice desiderio di provare l’adrenalina di scendere dalle ripide cascate dei fiumi, ma successivamente scoprire che la volontà di migliorare le proprie abilità sia in realtà la motivazione più forte.

Dall’analisi delle due prospettive teoriche si può notare come gli studi realizzati più recentemente abbiano favorito il passaggio da una concezione patologica e negativa dell’individuo e dello sport estremo ad una concezione più adattiva e positiva. Un traguardo raggiunto grazie all’utilizzo di strumenti qualitativi (quali self-reports e interviste) ma soprattutto grazie ad una comprensione più approfondita delle esperienze e delle differenze individuali.

I bambini preferiscono ascoltare la voce dei loro simili

I bambini in fase pre-verbale preferirebbero le voci dei coetanei a quelle dei genitori secondo un recente studio della McGill University.

 

Sono i suoni infantili ad attirare l’attenzione dei bambini, a dimostrarlo è un nuovo studio di un gruppo della McGill University.

Bambini: più attenzione alla voce dei coetanei

Anche se i bimbi apprezzano molto il modo in cui si relazionano a loro i propri genitori, tendendo a parlare con voci in falsetto, i neonati preferiscono ascoltare i suoni dei loro coetanei. Anche nella fase di pre-verbalizzazione, prima che possano formarsi suoni simili a sillabe come “ba ba ba”, i neonati tendono a riconoscere i suoni vocalici, ma tendono a soffermarsi su questi suoni quando essi vengono emessi dai bambini.

Gli studi di un gruppo di ricerca della McGill University mostrano la predilezione dei piccoli in fase di pre-verbalizzazione per i loro suoni vocali. Anche le migliori imitazioni delle mamme delle loro vocalizzazioni vocaliche, identiche nell’intonazione, non possono competere con la preferenza dei bambini per le loro proprietà vocali acustiche, formate unicamente dalla risonanza dei loro corpi molto piccoli.

Questo lavoro è nato da una collaborazione tra la dott.ssa Linda Polka, il dottor Matthew Masapollo e la dott.ssa Lucie Ménard, esperta di produzione del linguaggio.

Come ha sostenuto Linda Polka

L’accesso al linguaggio infantile, probabilmente includendo le vocalizzazioni di un bambino, sembra avere un impatto ampio e significativo, influenzando aspetti ricettivi, espressivi e motivazionali dello sviluppo del linguaggio

I ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti con dei bambini di cinque mesi per un nuovo studio, durante il quale hanno fatto ascoltare a ripetizione il suono di una vocale che imitava la voce di un adulto o di un bambino. I suoni sono stati creati usando uno speciale sintetizzatore.

Bambini: l’uso della voce avrebbe scopo esplorativo

Misurando quanto a lungo il suono riusciva a catturare l’attenzione del bambino, i ricercatori hanno scoperto che i bambini preferivano chiaramente il suono che imitava quello di un neonato. Nella media, i bambini hanno ascoltato il suono della vocale prodotto da un neonato circa il 40 per cento in più rispetto a quello dell’adulto.

La preferenza non era dovuta al fatto che il suono fosse familiare, i bambini che hanno preso parte all’esperimento ancora non avevano iniziato a parlare, quindi il suono emesso dal bambino che stavano ascoltando non faceva parte della loro esperienza auditiva quotidiana. Altri bambini hanno dimostrato il loro interesse in altri modi. Hanno ascoltato il suono prodotto dall’adulto con delle facce passive e neutrali. Ma quando hanno sentito quello del bambino, hanno iniziato a sorridere o a muovere le labbra. Sembravano pensare che questo fosse un suono che anche loro potevano fare, anche se probabilmente non avevano mai sentito nulla del genere prima.

Molto probabilmente, quando un genitore usa una voce più alta, come quella dei bambini, per parlare ai propri figli li sta preparando inconsciamente ad ascoltate la propria voce. Quando un neonato inizia ad emettere suoni molto spesso sta esplorando più che comunicando. Proprio per questo motivo i bambini, tendono a emettere vocalizzi soprattutto quando sono da soli, quando non c’è interazione con gli altri.

 

Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali (2018) di M. Bader – Recensione del libro

Eccitazione di M. Bader, ha lo scopo di capire perchè ci piace ciò che ci piace, anche nella sessualità. Perchè esserne consapevoli può aiutarci a viverla al meglio.

 

Cosa dicono di noi le nostre fantasie sessuali? L’ eccitazione segue delle vie che sembrano misteriose: sappiamo per esperienza cosa ci eccita, ma spesso non ne sapremmo spiegare il perché.

Il libro Eccitazione cerca di fare luce sulle ragioni recondite per cui ci piace ciò che ci piace, nell’ottica che la consapevolezza possa aiutarci a vivere meglio, raggiungendo sia maggiore soddisfazione sessuale che maggiore benessere a livello generale.

Michael Bader, l’autore, è un terapeuta che non si pone nell’ottica di curare le disfunzioni sessuali. Il suo scopo è, piuttosto, quello di comprendere le dinamiche relazionali più profonde dei propri pazienti, anche attraverso l’analisi delle fantasie sessuali.

Eccitazione: fondamentale sentirsi al sicuro

La premessa fondamentale è che per provare uno stato di eccitazione sessuale dobbiamo sentirci al sicuro; la sicurezza, il sentirci a nostro agio rispetto alla situazione in cui ci troviamo e a quello che stiamo facendo, sono condizioni necessarie per vivere una sessualità appagante. Questo vale anche nelle fantasie: le fantasie sessuali, sia che rimangano tali, sia che vengano agite nella realtà, presuppongono che la persona senta di essere in una condizione di sicurezza; è una regola che si applica anche alle fantasie che appaiono più bizzarre e rischiose.

Il senso di sicurezza di cui stiamo parlando, infatti, ha a che fare con delle dinamiche più profonde, che esulano dalla consapevolezza. Ad esempio Jan, il cui caso viene, come quello di altri pazienti, riportato a titolo di esempio, è una donna che si eccita al pensiero di essere presa con la forza da un uomo brutale, che la tratta come un oggetto per il soddisfacimento del suo piacere.

Jan, nel suo quotidiano, è una donna indipendente ed emancipata, una femminista impegnata nel sociale, e si vergogna profondamente di questa fantasia, perché la ritiene segno di debolezza, di una segreta tendenza al masochismo che contraddice tutto ciò che lei ritiene giusto.

Di fatto le cose stanno diversamente: Jan ha una visione di se stessa come di una donna molto forte, che rischia di travolgere gli uomini e che deve farsi carico di chi è più debole di lei; per eccitarsi ha bisogno di fantasticare un partner non meno forte di lei, che bilanci la sua forza e le permetta di lasciarsi andare, senza preoccuparsi d’altro: se lui penserà al suo piacere, lei potrà fare altrettanto.

Altro aspetto importante è che le persone, nel caso in cui fantastichino e agiscano fantasie sessuali di sottomissione, lo fanno per scelta: non perdono realmente il controllo della situazione. Di conseguenza, la premessa della sicurezza non è mai messa in discussione. Anche nel caso della complementare fantasia di dominio, il partner dominante, per eccitarsi, ha bisogno di sperimentare che il partner sottomesso si ecciti a sua volta, che gli piaccia il ruolo che ha scelto, non che lo subisca.

Eccitazione: il ruolo delle credenze su di noi e sugli altri

Il sesso rappresenta un ambito della vita in cui confluiscono tutti i nostri bisogni più profondi; la soddisfazione sessuale ha a che fare non solo con il corpo, ma anche con la mente. Questo significa che ciò che ci eccita è in relazione a quello che crediamo, all’immagine che abbiamo di noi stessi e degli altri, a ciò che abbiamo sperimentato fin dall’infanzia; noi chiediamo al sesso di farci vivere una condizione di appagamento in cui le nostre preoccupazioni, i timori e tutto ciò che interferisce con il benessere venga messo momentaneamente a tacere.

Questo tipo di equilibrio varia da persona a persona, rispondendo a logiche solo parzialmente generalizzabili. In altre parole, il nostro modo di vivere il sesso dice molto di noi, della persona che siamo e di come ci rapportiamo agli altri. In una relazione stabile parla anche dello stato della relazione, perché la sfera sessuale si intreccia con gli altri aspetti che caratterizzano il rapporto tra i partner.

Il fatto che sentiamo ciò che piace in modo spontaneo e diretto non vuol dire che il processo sottostante alle nostre preferenze sia così immediato: c’è un complesso equilibrio da creare che mette in gioco tante polarità complementari; il maschile e il femminile, per cominciare, e il modo in cui essi interagiscono dentro e fuori la camera da letto; l’intimità e la distanza, perché l’ eccitazione si nutre sia della scoperta e della novità – che permettono di vivere il sesso in modo egoistico, come soddisfazione dei propri bisogni – che dell’intimità, del conoscere e rispettare gusti e desideri del partner; il dare e il ricevere; il chiedere e il soddisfare.

Come in ogni sfera della vita possono verificarsi degli squilibri, di cui può essere difficile parlare. In questo senso l’autore del libro Eccitazione, terapeuta esperto, ci rassicura, ci esorta a non avere paura di conoscerci meglio, sfruttando al meglio il fatto che i nostri comportamenti sessuali dicono di noi molte cose importanti.

Capire meglio cosa ci piace e perché ci aiuta ad essere più sicuri e a superare il senso di inadeguatezza che ci impedisce di mettere a fuoco i nostri desideri, ottenendo ciò di cui abbiamo bisogno.

Trascorrere del tempo all’estero aiuta a comprendere meglio chi siamo

Un anno sabbatico all’estero aiuterebbe, secondo i ricercatori della Rice University, ad avere più fiducia in noi, aiutandoci a sviluppare un “self concept” più chiaro.

 

L’idea di prendere un anno sabbatico per poter comprendere meglio che strada si vuole intraprendere nella propria vita, è spesso derisa. Ma se quel tempo è trascorso in un paese straniero, può solo essere d’aiuto. E se si possono trascorrere anni, tanto meglio.

Self concept: sarebbe più chiaro dopo esser stati all’estero

Hajo Adam della Rice University (Stati Uniti), ha guidato ciò che il suo team definisce la prima indagine empirica sugli effetti che il vivere all’estero ha sul proprio “self concept” – ovvero la chiarezza e la fiducia che le persone mostrano nel definire “chi sono”.

Dal momento che oggigiorno le persone trascorrono sempre più tempo all’estero, per motivi di lavoro o di studio, e considerato che esperienze di vita “transitorie”, come avere un nuovo lavoro o divorziare, sono sempre più associate ad una mancanza di chiarezza su chi siamo, è importante approfondire questo concetto, sostiene l’autore.

I ricercatori hanno effettuato diversi studi con un campione di 1874 persone. Nel primo studio sono stati selezionati online 296 soggetti, dei quali la metà aveva vissuto all’estero ad un certo punto della propria vita. I soggetti hanno completato una scala sulla chiarezza del proprio self concept di 12 item, in cui bisognava indicare quanto si era o non si era d’accordo su item come: “In generale, ho una sensazione chiara di chi sono e cosa sono” oppure “Raramente provo sensazioni di conflitto tra diversi aspetti della mia personalità”. Coloro che avevano vissuto all’estero hanno mostrato possedere un self concept più chiaro.

Anno sabbatico all’estero: le conferme dello studio

La domanda che i ricercatori si sono posti è: questo risultato deriva dal fatto che questo tipo di persone sono più propense a seguire opportunità all’estero?

Per scoprirlo, hanno reclutato altre 261 persone, delle quali 136 avevano vissuto all’estero. I restanti non l’avevano ancora fatto ma avevano programmato di farlo entro circa 9 mesi. Oltre alla scala sul self concept, i partecipanti hanno completato una valutazione sulle “credenze di sé”, con item quali: “Ho capito se le mie relazioni con gli altri sono guidate dai miei valori o seguono i valori delle persone che mi circondano”; “Sono riuscito a determinare se la mia personalità è definita da chi sono veramente o dalla cultura in cui mi trovo”.

I partecipanti che avevano già vissuto all’estero avevano un self concept più chiaro rispetto agli altri che avevano solo pianificato un trasferimento all’estero, e questo è stato spiegato statisticamente dai punteggi più alti nei test sulle credenze di sé. Ciò suggerisce che trascorrere tempo all’estero incrementa lo sviluppo di credenze su di sé, portando ad una maggiore chiarezza del proprio self-concept.

La correlazione tra tempo passato all’estero e chiarezza del self concept

Altri studi condotti dai ricercatori (inclusi quelli con studenti provenienti da dozzine di paesi diversi) hanno portato a concludere che è il totale del tempo trascorso all’estero, piuttosto che il numero dei paesi in cui si è vissuto, che permette di avere una maggiore chiarezza circa il proprio self concept (il tempo trascorso dei soggetti era in media di 3,3 anni). La maggiore chiarezza permette anche di avere un vantaggio pratico: gli studenti internazionali che avevano trascorso più tempo all’estero hanno riferito di essere più sicuri rispetto alla direzione della propria carriera professionale.

Il fatto che abbiamo trovato un supporto per le nostre ipotesi in diverse popolazioni mette in luce l’importanza che il vivere all’estero ha sul nostro self conceptscrivono i ricercatori – La presente ricerca è la prima a mostrare che vivere fuori può modificare aspetti strutturali del concetto di sé.

Altre ricerche hanno scoperto che vivere all’estero può influenzare il contenuto della descrizione che una persona fa di sé, per esempio con l’aggiunta di parole come “avventuroso”. Nuovi risultati suggeriscono anche che il vivere lontano dal proprio ambiente culturale permette di rivedere cosa è importante o meno a livello personale, e che questo porta ad un aumento della chiarezza e della fiducia sull’idea di sé.

L’articolo si conclude con una citazione di un libro del 1919 intitolato ‘Diari di viaggio di un filosofo’ scritto dal filosofo tedesco Hermann von Keyserling:

Il percorso più breve verso se stessi porta in tutto il mondo.

I ricercatori aggiungono:

Dopo 100 anni le nostre ricerche hanno fornito prove a sostegno di questa idea.

Fenomenologia e prassi dell’ascolto in psicologia giuridica – Report dal Convegno di Palermo

Minori dalle infanzie problematiche, vittime di trascuratezze e violenze, bambini contesi, abusati o essi stessi autori di abusi: questo il filo conduttore della Giornata di Studio svoltasi il 15 maggio scorso presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo e che ha riunito, in un fitto dialogo, il mondo della Psicologia e della Giurisprudenza

 

Minori dalle infanzie problematiche, vittime di trascuratezze e violenze, bambini contesi, abusati o essi stessi autori di abusi: in ogni caso, soggetti disconosciuti nei propri bisogni affettivi e identitari, figli di famiglie le cui competenze genitoriali carenti necessitano di essere rafforzate attraverso azioni competenti di professionisti esperti nell’ascolto e nella ri-progettazione di un percorso evolutivo compromesso, irto di problematicità, ma al contempo di potenzialità di sviluppo, legate alla giovane età.

Questo il filo conduttore della Giornata di Studio svoltasi il 15 maggio scorso all’interno dell’Aula Baviera presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo e che ha riunito, in un fitto dialogo, mondo della Psicologia e della Giurisprudenza nel compito di delineare le buone prassi a cui ogni professionista deve adeguarsi per garantire al minore ascolto, tutela, cura e benessere delle relazioni, innanzitutto all’interno del delicato territorio dei procedimenti di adottabilità, quindi in quello della valutazione delle competenze genitoriali e del conflitto separativo.

L’ascolto di un minore può essere distorto, negato, laddove per definizione un minore è titolare di diritti, primo tra i quali il diritto all’ascolto, quale momento alto di cura e protezione del minore – apre i lavori Serena di Marco, Psicoterapeuta e Giudice Onorario Tribunale per i Minorenni di Palermo – In particolare mi riferisco al bambino adottabile il cui ascolto permette di valutare la sua motivazione al progetto adottivo nonché la capacità di distinguere una famiglia sana da una non sana. È importante sottolineare quanto la capacità di discernimento di un minore in stato di adottabilità e, per definizione, vittima di legami disfunzionali, sia diminuita a causa dei traumi vissuti. Attraverso un ascolto attento, inoltre, il bambino può immaginare un futuro diverso, che nel contempo lo proietta in uno spazio incerto, ignoto, relativo a una famiglia perduta e a una ancora non acquisita, conosciuta.

Marika di Trapani, psicoterapeuta, aggiunge:

Anche nella valutazione delle competenze genitoriali il ruolo del consulente tecnico di ufficio è di creare una cornice valutativa dei bisogni del minore, attraverso un ascolto attivo, partecipato, cogliendo le risorse del conflitto genitoriale e indagando la struttura di personalità dei genitori, nell’ottica di mantenere con entrambi una continuità relazionale.Da qui la necessità di un’attenta analisi degli atti documentali, l’osservazione domiciliare e i colloqui individuali con il minore.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DELL’EVENTO:

La prassi dell'ascolto in psicologia giuridica - Report dall'evento - IMM 1

La prassi dell'ascolto in psicologia giuridica - Report dall'evento IMM 2

Figura non meno importante dello psicologo, l’avvocato, ha il dovere deontologico di cura del minore e di attenzione al suo superiore interesse, soprattutto se questi è vittima di separazione conflittuali, all’interno di dinamiche familiari nocive. In questo caso l’ ascolto impossibile, almeno in quanto divieto di contatto diretto con il minore, riveste una funzione protettiva del suo benessere.

Il Codice deontologico dell’Avvocato sancisce il divieto di contatto con il minore – sottolinea Marta Barresi, Avvocato – In questo contesto il minore non può essere alleato di una guerra che spesso un genitore porta avanti contro l’altro, per cui l’avvocato non deve mai colludere con il cliente, che lo spinge, per esempio, a parlare con il figlio desideroso di collaborare per risolvere i litigi tra mamma e papà, o peggio parteggiare per il papà o la mamma, quindi suggestionato a difendere un genitore a scapito dell’altro.

E ancora, l’ ascolto che cura quale compito congiunto di Psicologia e Giurisprudenza nei confronti tanto di bambini vittima di abusi che di autori di reato.

Se parliamo di minore abusato non possiamo trascurare il fatto di trovarci di fronte a un compito di ascolto complesso e coinvolgente – spiega Rosanna Militello, psicoterapeuta – Se vivere dentro la non invasione dei confini e il giusto calore è fondamentale per una sana crescita, ben si comprende il vissuto tragico del minore abusato e le risonanze emotive forti degli operatori dell’ascolto. Di fronte a questi vissuti, l’operatore deve porsi la domanda: Come mi pongo io di fronte alle cose sporche? Come posso supportare un bambino oltraggiato, con un Sé frammentato, incapace di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato? Ecco che un lavoro di analisi personale è quanto mai importante per creare la giusta distanza e non lasciarsi travolgere da racconti scomodi, sull’onda dell’impeto dell’Io ti salverò. Ecco la necessità di porsi in un’ottica fenomenologica perché gli esperti non sono mai neutrali e noi operatori stessi possiamo essere vittime di brutture che possono pregiudicare il lavoro fin dall’inizio. Empatizzare con la sofferenza, ma anche distanziarsi scientificamente dalle rivelazioni: l’operatore deve porsi in un’ottica falsificazionista e valutare adeguatamente i racconti che si qualificano come falsi abusi.

Ancora la risonanza emotiva, la gestione delle emozioni di chi si prende cura risultano al centro dei compiti di una psicologia che voglia definirsi davvero curativa, supportiva, per gli autori di violenza.

Chi è il minore abusante? Se volessimo delinearne un profilo, sicuramente alcune aree distintive sono l’alessitimia, da cui la distanza emotiva dal reato, un sistema di attaccamento carente e il disimpegno morale – spiega la Professoressa Angela Maria Di Vita, già Professore Ordinario di Psicologia Dinamica dell’Università degli Studi di Palermo – Curare l’ascolto del minore abusante significa permettergli la costruzione di una bugia, ovvero la messa in atto, molto frequente, di meccanismi di minimizzazione del reato e di attribuzione di colpa alla vittima, compendiata nella frase “Mi ha sedotto”. Un ascolto che può destare inquietudine nell’operatore, fastidio, a tal fine, affinché lo spazio di ascolto non rischi di essere giudicante, moralistico, pena la non costruzione di un’alleanza terapeutica, sicuramente suggerirei la creazione di gruppi di operatori al fine di condividere la risonanza emotiva provocata dalla rivelazione dell’abuso. Inoltre molto utile è l’utilizzo di gruppi terapeutici rivolti ai minori che, attraverso la condivisione di storie di altri abusanti, che hanno già iniziato un processo di ravvedimento, permettano di fornire una visione altra, riflessiva, rispetto all’agito del reato, su cui l’influsso del gruppo è determinante.

Non meno rilevante l’attenzione al minore dal punto di vista di un’informazione sul processo penale quale atto di sincerità in grado di aprire spazi di collaborazione con la giustizia e ravvedimento interiore.

E’ essenziale che il minore venga informato sul processo penale, in particolare in merito alla durata e fatto che sarà ascoltato più volte, In questi casi l’ascolto del minore dovrebbe avvenire il meno possibile, perché l’ascolto reiterato approfondisce il trauma – dice Maria Vittoria Randazzo, Procuratore della Repubblica presso Tribunale per i Minorenni di Palermo – Curare il minore autore di reato, ascoltare i suoi bisogni, implica una molteplicità di aspetti, quali proporre un avvocato che funga da interfaccia con la spersonalizzazione tipica del processo. D’altra parte è importante informare il minore circa la responsabilità delle sue dichiarazioni, a partire dai quattordici anni, stimolando nel contempo la sua appartenenza a un processo penale a carattere pubblico che mira a ristabilire la giustizia, la riparazione del danno e la sua reintegrazione nella società.

Persuadere attraverso il linguaggio: la forza del linguaggio emotivo

Da quali componenti è formato un messaggio persuasivo? Questa è la domanda che si sono posti gli esperti di diversi campi, dai pubblicitari, ai politici, agli esperti di salute pubblica.

 

Ed è a questa domanda a cui i ricercatori, Matthew Rocklage ed i colleghi Derek Rucker e Loran Nordgren della Kellogg School of Management della Northwestern University, hanno cercato di dare risposta.

Il linguaggio emotivo come mezzo di influenza sociale

Gli studiosi della scuola americana hanno sviluppato la propria domanda di ricerca basandosi sulle teorie che indagano la funzione sociale delle emozioni, ipotizzando che le persone sfruttano il linguaggio emotivo come mezzo di influenza sociale.

Lo studio, a cui hanno partecipato 1285 persone divise in due gruppi, è stato condotto tramite una piattaforma online. Ad ogni partecipante è stata inviata una foto di un prodotto disponibile su Amazon.com ed alcune specifiche tecniche del prodotto.

Alle persone appartenenti al primo gruppo è stato chiesto di scrivere una recensione a cinque stelle capace di convincere i lettori ad acquistare il prodotto, mentre alle persone appartenenti al secondo gruppo è stato chiesto di scrivere una recensione a cinque stelle che descrivesse le caratteristiche positive del prodotto.

I dati sono stati analizzati attraverso un software per l’analisi linguistica quantitativa e successivamente i ricercatori si sono occupati di quantificare quanto fossero emotive, positive e negative, le recensioni scritte dai partecipanti.

Nonostante le recensioni fossero ugualmente positive nel loro linguaggio, dai risultati è emerso che i partecipanti hanno usato un linguaggio emotivo quando cercavano di convincere i lettori a comprare un prodotto rispetto a quando stavano scrivendo una recensione a cinque stelle senza l’intento di persuadere l’acquirente.

È inoltre emerso che il passaggio all’utilizzo di un linguaggio più emotivo sembra essere compiuto in maniera automatica, piuttosto che essere il risultato di una scelta deliberata da parte del soggetto.

Infine, tale linguaggio emotivo è stato utilizzato nel caso in cui i partecipanti cercavano di persuadere anche acquirenti considerati “razionali”, Rocklage afferma infatti:

I nostri risultati indicano che esiste una connessione abbastanza forte tra persuasione ed emozione nella mente delle persone che continuano ad usare l’emozione anche di fronte ad un pubblico con cui tale approccio potrebbe ritorcersi contro.

Proseguire la ricerca sull’associazione emotività-persuasione può essere sicuramente interessante e, una tra le strade percorribili, secondo Rocklage potrebbe essere capire se tale associazione sia trasferibile o meno in vari contesti.

Per esempio, sarebbe interessante studiare se le persone tendono ad usare un linguaggio meno emotivo in una riunione di lavoro o quando scrivono una lettera formale di raccomandazione, oppure la loro tendenza ad utilizzare un linguaggio carico di emotività resta invariata a prescindere dal contesto.

Promozione del cambiamento e apparenti ricadute. Integrare il lavoro top-down e bottom-up in Terapia Metacognitiva Interpersonale

Ogni psicoterapia con pazienti con Disturbi di Personalità non segue un andamento lineare e una volta arrivati ad alcuni obiettivi di realizzazione personale, di contatto relazionale e di solidità nell’immagine positiva di sé, il raggiungimento degli obiettivi successivi non è affatto scontato.

 

Giulia ha 40 anni, finalmente ha un lavoro, non ancora uno di quelli in cui utilizzare le sue qualità di biologa, ma discretamente remunerato e in ogni caso un buon trampolino di lancio per cercare il lavoro a cui realmente aspira. Nella sua storia ci sono un padre assente, che nei pochi momenti di presenza le ha ricordato con disprezzo e freddezza quanto poco valesse e quanto lei e sua madre non potessero neanche pensare di ambire a una vita di soddisfazione e successo; ed una madre casalinga, mai realizzata, che non si è mai ribellata e che vive da eterna adolescente. Il senso d’incapacità, inettitudine e impotenza rendevano impensabile l’idea di trovare un lavoro e inarrivabile la sua conquista. Ha lavorato sull’immagine di sé inetta e indegna e oggi non solo ha un lavoro, ha instaurato un ottimo rapporto con la figlia del suo compagno, ha lasciato la casa dei genitori affrontando il senso di colpa per l’ira del padre e la solitudine della madre, sta comprando casa. Fino a due anni fa tutto questo era inimmaginabile. Eppure, anche se accede a sentimenti di contentezza e serenità, quando ci fermiamo ad individuare e descrivere le emozioni e le sensazioni positive alternative allo stato di sofferenza, riesce a malapena a coglierle e prevalgono il senso di colpa quando si paragona a coloro che soffrono, il senso di insoddisfazione per quello che manca ancora al proprio lavoro e sentimenti di solitudine e abbandono nella relazione con il compagno.

Antonio proviene da una storia di abbandoni precoci e ripetuti da parte della figura materna, sanati con comportamenti caotici e colpevolizzanti da parte di quest’ultima. Attualmente ha recuperato quello che lui stesso chiama “il mio proprio mio”, uno stato in cui è a contatto con i propri desideri e mette in atto azioni concrete per perseguirli, ha riscoperto la sua parte creativa, si sta realizzando nel lavoro. Eppure ogni volta che ci fermiamo ad osservare emozioni e sensazioni di contentezza per sé stesso, amorevolezza, sicurezza, orgoglio verso di sé, Antonio entra in uno stato profondamente angoscioso transitando in maniera repentina nel panico.

Sofia negli anni matura un’immagine di sé indegna, insicura, incapace nelle cose pratiche e nelle relazioni, oscillando ripetutamente tra relazioni con uomini presenti ma fragili e dipendenti e relazioni con uomini indisponibili, con i quali vive i momenti intensi che cerca ma che, a causa della distanza emotiva, alimentano l’immagine negativa di sé. Grazie alla terapia, anche Sofia ormai ha strutturato un’immagine di sé nuova incentrata sulla sicurezza, sul senso di amabilità, sul diritto ad esistere, e, nel quotidiano, il senso di indegnità precedente ormai è solo un ricordo. Ma quando conosce finalmente un uomo presente sul piano pratico e sul piano emotivo, solido e amorevole che le conferma l’immagine di sé positiva, le rappresentazioni negative riaffiorano e inizia un dramma in cui, nei modi più creativi e disparati, quasi distrugge la relazione attraverso gelosie, colpevolizzazioni ed esplosioni rabbiose. E dopo essere riuscita ad arginare queste reazioni e ad accedere finalmente ad un senso di sicurezza nella relazione di coppia, inizia a soffrire terribilmente quando decidono di comprare casa e hanno un bambino.

Cosa ci dicono questi esempi? Cosa succede nelle fasi avanzate di psicoterapia?

Questi pazienti si trovano tutti in una fase avanzata di cambiamento in cui il loro modo di vedere sé stessi e gli altri è in gran parte cambiato e diventato più benevolo. Eppure, proprio quella realizzazione tanto desiderata e per la quale hanno lavorato in psicoterapia con motivazione e collaborazione costituisce il fattore scatenante di una nuova sofferenza.

Si tratta di ricadute? Oppure la terapia non è più efficace? O ancora queste persone non possono andare oltre certi obiettivi?

Non si tratta di nulla di tutto ciò. La letteratura ci dice come la psicoterapia dei Disturbi di Personalità preveda, oltre alla messa in discussione e la presa di distanza dagli schemi disfunzionali, anche la costruzione di parti di sé più funzionali (Livesley, 2003) e che questo secondo obiettivo sia spesso più difficile e richieda più tempo rispetto al precedente (Dimaggio et al., 2013). In questa fase i pazienti entrano maggiormente in contatto con i propri desideri, vivono relazioni in cui esprimerli, esplorano nuove realtà e lasciano che la propria azione sia guidata da schemi basati su un’immagine positiva di sé e non patogena. Compito del terapeuta in questa fase è aiutare il paziente a notare, espandere e tenere in memoria le nuove esperienze adattive, cariche di emozioni positive (Fredrickson, 2001; Greenberg, 2002).

Ma, come è facile notare nei casi descritti precedentemente e osservare in molte terapie con Disturbi di Personalità, sottolineare, lasciare spazio, enfatizzare questi aspetti adattivi può non essere un percorso libero da sofferenza, anzi. Ogni psicoterapia con pazienti con Disturbi di Personalità non segue un andamento lineare e una volta arrivati ad alcuni obiettivi di realizzazione personale, di contatto relazionale e di solidità nell’immagine positiva di sé, il raggiungimento degli obiettivi successivi non è affatto scontato.

Siamo sempre nel vivo della psicoterapia, nel pieno della possibile attivazione degli schemi interpersonali patogeni che anzi, quanto più si accede a un reale cambiamento, vengono sfidati e quindi sollecitati.

Nessuna rottura dell’alleanza quindi, nessun fallimento psicoterapeutico, nessun ostacolo che ci dica che più di tanto in là il paziente non possa andare. Stiamo parlando di una nuova fase di terapia che non è in discesa, ma terapia a tutti gli effetti se non, in molti casi, uno dei momenti più difficili e lenti di tutto il processo psicoterapeutico.

Di fatto siamo di fronte ad un apparente paradosso: da un lato la terapia è nel momento di promozione del cambiamento e quindi il focus è su agency, esposizione alle emozioni e immagini positive, sul dare voce ai propri desideri, sperimentare nuove azioni, ampliare le relazioni sociali; dall’altro ci troviamo di fronte ad un paziente che vive un nuovo crollo delle funzioni metacognitive, in particolare della differenziazione ovvero dell’essere preso all’improvviso da rappresentazioni negative di sé-con-gli altri che tende a prendere per vere. Nello stato di malessere, quindi, i pazienti faticano nuovamente ad acquisire distanza critica dalle rappresentazioni patogene.

Cosa facciamo nella Terapia Metacognitiva Interpersonale in questi momenti?

In linea con le procedure decisionali (Dimaggio et al., 2013) riformuliamo il contratto terapeutico (si veda anche l’articolo di Dimaggio: Il contratto terapeutico) su questa nuova fase, iniziamo ad esplorare i contenuti di questa sofferenza, arricchiamo la formulazione degli schemi interpersonali o ne individuiamo di nuovi. Anche l’attenzione alla relazione terapeutica, come in tutte le fasi di terapia, è costante.

Ma questo non basta. Arrivati a questo punto della psicoterapia, il lavoro sulla consapevolezza, sugli schemi e sulla differenziazione è importante ma può fare da sfondo e da contenitore ad un lavoro più specifico: il lavoro sul corpo! In questa fase il lavoro sul corpo diventa centrale ed è finalizzato a sciogliere le memorie corporee legate agli schemi e ad ampliare gli stati mentali positivi per abitarli e renderli più stabili (Ogden, 2016; Van Der Kolk, 2015)

Lo facciamo integrando la psicoterapia individuale con percorsi individuali o di gruppo che abbiano il corpo come principale focus di azione. A seconda, quindi, delle diverse esigenze della persona che abbiamo davanti possiamo spaziare dall’EMDR alla Terapia Sensomotoria, alla Mindfulness, a tecniche importate dalla Terapia Gestalt, in un’integrazione continua tra il cosiddetto lavoro top-down e quello bottom-up.

Il caso di Sofia

Delle tre storie che abbiamo presentato ci focalizziamo per brevità sull’evoluzione della psicoterapia di Sofia.

La paziente, mediante l’integrazione del lavoro di Terapia Metacognitiva Interpersonale con pratiche di Terapia Sensomotoria e di Mindfulness, ha potuto recuperare e sciogliere memorie corporee di allarme a seguito di costanti e ripetute negazioni di vicinanza relazionale da parte dell’altro dopo attimi di contatto intimo. Per prima cosa, Sofia ha esplorato le proprie reazioni corporee in esercizi di osservazione della vicinanza e lontananza relazionale, di orientamento dello sguardo all’esterno per poi restringerlo su di sé, di assunzione nel corpo di atteggiamenti di assertività.

In questo modo ha riconosciuto nel corpo l’attivazione di una spinta a chiudersi nelle relazioni, a sottrarsi al contatto per poi compensare questa chiusura con una spinta altrettanto forte a cercare emozioni intense. Ha inoltre preso coscienza di segnali di un dolore ancora molto vivo nel corpo, di fronte alla percezione del disprezzo su un qualunque viso altrui.

A questo punto, aumentata la capacità di monitoraggio della sofferenza fino a quel momento inaccessibile, abbiamo potuto richiamare il suo schema interpersonale patogeno legato all’idea di sé indegna e Sofia stessa ha iniziato a guardarlo in maniera più distaccata.

Sofia ha visto di nuovo e più chiaramente il proprio desiderio di sentirsi amata ma che esso fosse sorretto da un’immagine nucleare di sé non-amabile. A fronte di questo prevedeva che se avesse mostrato il bisogno di amore e cure l’altro avrebbe risposto allontanandola, rifiutandola, tradendola. Queste anticipazioni generavano come risposta del sé il potenziamento dell’idea di sé come non-amabile e indegno, che portavano Sofia a sentirsi vuota. A questo punto la chiusura relazionale, prendere distanza dall’altro, era il coping patogeno che da un lato la proteggeva, dall’altro aumentava il senso di non amabilità. Il vuoto aumentava a causa dell’assenza di relazione e quindi Sofia per gestirlo adottava come coping la ricerca di emozioni forti come euforia o rabbia.

Abbiamo enfatizzato questa possibilità di osservare l’attivazione del proprio schema interno in quanto evento psichico e non come realtà, attraverso delle pratiche di Mindfulness applicata agli schemi e quindi ai Disturbi di Personalità (Ottavi, Passarella et al, 2016). Continuando con pratiche sensomotorie finalizzate al recupero delle risorse non completamente sviluppate durante la crescita, Sofia ha iniziato ad accedere a stati più duraturi di leggerezza, gioia e calore inizialmente negati o facilmente sostituiti da emozioni negative, poi sempre più duraturi. In altre parole, Sofia ha vissuto esperienze corporee che contrastavano, in maniera viscerale e profonda, il senso di vuoto, l’inadeguatezza, la vergogna e la rabbia fino ad arrivare a quello che ora descrive come “un sorriso interiore”.

Queste sensazioni finalmente più accessibili le abbiamo infine riportate all’immagine di sé percepita questa volta come degna, solita e competente per poi tornare a lavorare sulla messa in atto di azioni in linea con questa nuova immagine di sé e il nuovo stato corporeo ed emotivo. Questo, in ultima analisi, ha ridotto l’intensità della reazione di fronte allo sguardo sprezzante dell’altro.

Sofia farà sempre i conti con il suo schema e le attivazioni corporee ad esso legate? Forse sì. Ma possiamo dire che lo farà in maniera più consapevole e meno intensa e con un bagaglio di nuove memorie corporee e cognitive che le consentono di scegliere in maniera più libera e consapevole come agire.

E così credo sia prezioso constatare quanto da apparenti ricadute possa nascere uno dei momenti più belli e risolutivi dell’intero percorso di guarigione.

Il favoloso mondo di Amélie: risorse e criticità psicologiche della protagonista – Recensione del film

Amélie, protagonista del film che porta il suo nome, Il favoloso mondo di Amélie, riesce a cavarsela nonostante una storia di vita un po’ complessa. Grazie alle sue preziosissime risorse.

 

Amélie Poulain, la premurosa e sognatrice cameriera del famoso caffè parigino di Montmartre, si presenta al pubblico appena vent’enne fuggita da un contesto famigliare glaciale e distanziante da cui trae, tuttavia, non solo la generosità verso gli altri ma anche l’umiltà e la brama di fantasia, qualità che la portano a concentrarsi sul benessere altrui e a tralasciare spesso i propri bisogni emotivi.

Il favoloso mondo di Amélie: un’infanzia con poco calore

Fin da bambina, la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie impara a rifugiarsi in un mondo parallelo e surreale, ma alquanto significativo, nel quale la vicina di casa in coma non è in grave pericolo di vita, ma ha deliberato spontaneamente di esaurire le ore di sonno per dedicarsi ad altre attività e i suoi pupazzi inermi e sorridenti non sono altro che gli unici amici bisognosi del suo aiuto. Così la piccola apprende la non-disponibilità delle proprie figure genitoriali incapaci di trasmetterle una vicinanza emotiva ma una prontezza a fornire quelle cure necessarie per garantirle una buona salute e istruzione. All’improvviso accade un evento che stravolge la sua infanzia e in un battito di ciglia, Amélie si ritrova improvvisamente sola con un padre che aggrava la distanza dalla figlia fino ad isolarsi in contemplazione della moglie scomparsa. Il clima familiare, quindi precipita in una comunicazione pressoché assente e la solitudine effettiva e percepita aumenta notevolmente.

Amélie: adolescente che aiuta gli altri

In tarda adolescenza, però, la giovane protagonista de Il favoloso mondo di Amélie riesce ad allontanarsi facilmente dal contesto famigliare, trovando un lavoro e abitando da sola, elementi che dimostrano che la ragazza ha delle risorse che le impediscono di cadere nella trappola dell’accudimento compulsivo verso il padre, bensì di cogliere l’occasione per individuarsi e talvolta intrattenersi con le fantasie relative al mondo e alle persone. I rapporti di Amélie, però, non sembrano soddisfacenti: qualche uomo che se ne va, poche amicizie, e un’imperdibile occasione per soddisfare i propri bisogni aiutando i più deboli.

Infatti, la scatoletta dei desideri ritrovata per caso non è un oggetto qualsiasi, bensì lo specchio della propria infanzia perduta e sofferta che per un altro bambino è stata presumibilmente piacevole, forse il pezzo migliore della propria vita; pertanto ritrovare quella persona e restituirgli il testimone di quei tempi lieti è una missione, un bisogno impellente di procurare felicità ad uno sconosciuto e implicitamente a se stessa per averlo realizzato. In tutti gli atti di bontà commessi, Amélie non vuole ricevere un ringraziamento o un apprezzamento, il giudizio degli altri non appare centrale, ma lo è il prendersi cura e il tentare di colmare il dolore. E così regala videocassette all’anziano vicino che non può spostarsi per una malattia congenita, accompagna un non-vedente descrivendo meticolosamente ciò che accade intorno a loro, illude la signora Wallace dell’amore corrisposto del marito che, nella realtà, è fuggito con l’amante insensibile nei suoi riguardi, ecc. In sostanza la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie vorrebbe aggiustare “i pasticci” degli altri, rifiutando di confrontarsi con i suoi.

Amélie: giovane che scopre le sue risorse

Innamorata di quello sconosciuto che racimola fototessere scartate, Amélie si trova in mezzo ad una battaglia: seguire i sentimenti, correre il rischio o continuare a sognare e allontanarlo? In questo senso la sensibilità al rifiuto dell’altro le consente di tenersi a distanza per non esporsi: il gioco, però, dura poco, e Amélie è costretta ad affrontare la reazione di Nino e l’eventualità di soffrire scoprendosi con le sue fragilità. La vicinanza emotiva appare temuta e al tempo stesso ricercata ed infine la giovane colpisce lo spettatore, supera le paure e si lancia nella storia sentimentale come le aveva consigliato Dufayel.

Nonostante i trascorsi famigliari di distanza e freddezza, Amélie si lascia andare ad una relazione sentimentale potenzialmente soddisfacente: oltre alle risorse personali, la giovane è stata aiutata dalle altre figure significative alternative alla famiglia, primo tra tutti “l’uomo di vetro”. Lui la perturba, portandola a riflettere sui limiti della propria vita e sull’eccessivo investimento nella dimensione altruistica che da un lato le procura il piacere di aggiustare le vite degli altri, dall’altro la allontana dai problemi personali che non risolverà nessuno al suo posto, nonché sul senso di solitudine maturato fin da bambina. Malgrado la modalità infantile e bizzarra con la quale prova a gestire le emozioni perturbanti, la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie presenta una personalità abbastanza flessibile che la porta a rivisitare le sue credenze e ad integrare nuove esperienze in un senso di sé più ampio, senza quindi ricorrere rigidamente all’autosufficienza compulsiva e al desiderio impellente e persistente di soccorrere i deboli, rinunciando all’esplorazione di sé.

IL FAVOLOSO MONDO DI AMELIE – IL TRAILER IN ITALIANO:

Parental monitoring: un importante fattore di protezione contro i comportamenti a rischio in adolescenza

Il termine parental monitoring si riferisce a quell’insieme di comportamenti messi in atto dai genitori e finalizzati a controllare e conoscere le attività svolte dai propri figli. 

 

L’ adolescenza rappresenta una delle fasi più delicate nel ciclo di vita di un individuo. All’interno di questa fase, sono diversi i compiti evolutivi a cui l’adolescente deve far fronte, tra cui: adattarsi ai cambiamenti corporei, raggiungere una maggiore indipendenza dai genitori, integrarsi all’interno del gruppo dei pari, instaurare le prime relazioni sentimentali, etc.

Il fatto che l’adolescente sia in grado di affrontare tali compiti evolutivi è fortemente influenzato dalla presenza, nella sua vita, di fattori di rischio e di protezione. I primi si riferiscono a quell’insieme di fattori personali, familiari, sociali, ambientali che influenzano negativamente lo sviluppo dell’individuo; i secondi, invece, raccolgono tutte quelle variabili che favoriscono una crescita sana della persona e che riducono la possibilità del giovane di incorrere in percorsi disfunzionali.

Parental Monitoring: come influenza il comportamento degli adolescenti

In particolare, il parental monitoring (o “monitoraggio genitoriale”) si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diversi comportamenti dannosi, come la fame emotiva, l’abuso di sostanze e alcol e altri comportamenti devianti.

Il termine parental monitoring si riferisce a quell’insieme di comportamenti messi in atto dai genitori e finalizzati a controllare e conoscere le attività svolte dai propri figli. Tali strategie si possono distinguere in dirette e indirette:

  • Strategie dirette: comprendono tutti quei comportamenti indirizzati direttamente ai figli, come regole, domande, suggerimenti, punizioni
  • Strategie indirette: includono comportamenti come la ricerca di informazioni relative alle attività e alle amicizie del figlio, oppure le domande poste agli amici del figlio

Il parental monitoring, in altre parole, include l’insieme di tutte le pratiche educative nonché la predisposizione dei genitori alla creazione di un dialogo aperto con i propri figli.

Un recente studio

A tale proposito, uno studio longitudinale condotto da Christopher Holmes e colleghi ha voluto indagare la relazione esistente tra la qualità delle relazioni tra adolescenti e genitori rispetto alla messa in atto di comportamenti a rischio in età adulta.

I risultati hanno evidenziato che una migliore qualità dell’interazione tra genitori e adolescenti rappresentava un fattore di protezione fondamentale rispetto alla messa in atto di comportamenti a rischio. In particolare, gli autori, utilizzando l’fMRI, hanno osservato che una migliore comunicazione genitore-figlio nella prima adolescenza era associata a una maggiore connettività della rete di salienza anteriore (ASN) in età adulta.

Tale risultato è di estrema importanza in quanto sottolinea l’idea che buone abilità di parental monitoring influenzano lo sviluppo cerebrale a lungo termine. In particolare, una maggiore connettività ASN è stata associata a un consumo di alcol e a una fame emotiva inferiore. Inoltre, i risultati dello studio sembrano dimostrare che un elevato grado di parental monitoring è indice di quanto i genitori si interessano e si impegnano al fine di garantire una crescita sana ai propri figli.

Molestie sessuali sul posto di lavoro: quando le vittime sono gli uomini

Si stima che più di 3 milioni di uomini abbiano subito molestie sessuali nella loro vita in Italia. Per la prima volta un questionario sulle violenze rileva anche quella subita dagli uomini.

 

Il report dell’Istat del 13 febbraio 2018 dal titolo “Le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro”, illustra i risultati dell’indagine campionaria sulla “Sicurezza dei cittadini” effettuata nel 2015-2016. La raccolta dati è avvenuta dal mese di ottobre 2015 fino al mese di giugno 2016 tramite interviste telefoniche e faccia a faccia su un campione di 50.350 individui da 14 a 65 anni.

Come già accennato, la novità dell’indagine, che si svolge ormai da anni (precedenti edizioni nel 1997-1998, 2002 e 2008-2009), riguarda la natura delle vittime rilevate; non solo donne, come nelle edizioni passate, ma anche uomini. Le molestie considerate sono avvenute sia nei tre anni precedenti l’intervista sia nel corso della propria vita.

Quando si parla di molestia, ossia la

sensazione incresciosa di pena, di tormento, di incomodo, di disagio, di irritazione, provocata da persone o cose e in genere da tutto ciò che produce un turbamento del benessere fisico o della tranquillità spirituale […] (Treccani)

si fa riferimento alle molestie verbali, l’esibizionismo, i pedinamenti, le telefonate oscene e le molestie fisiche sessuali; subire la visione di foto o immagini pornografiche, le proposte o i commenti osceni o inappropriati e il furto di identità su internet e sui social network.

Molestie sugli uomini: i risultati dell’indagine

Dal report emerge la stima in 3.754.000 soggetti di genere maschile tra coloro che hanno subito molestie a sfondo sessuale nel corso della loro vita (18,8%), e 1.574.000 negli ultimi tre anni (6,4%). Un dato interessante riguarda le donne, le quali mostrano una tendenza negativa nel tasso di vittimizzazione dal 2008-2009 al 2015-2016, passando da 3.778.000 (18.7%) a 2.578.000 (12.8%). I risultati non solo rispondono in modo affermativo alla domanda posta inizialmente, ma offrono anche lo scenario attuale in cui gli uomini sono maggiormente vittimizzati rispetto alle donne.

I perpetratori delle molestie a sfondo sessuale nella maggioranza dei casi sono uomini, per il 97% delle vittime di genere femminile e per l’85.4% nel caso di vittime maschili; alcune vittime, soprattutto nelle molestie perpetrate in internet sugli uomini, vengono molestate sia da uomini sia da donne.

Le tipologie di molestia maggiormente effettuate nei confronti degli uomini sono quelle verbali, il pedinamento, la molestia fisica e l’esibizionismo; il numero di volte in cui il soggetto subisce molestie presenta maggior riscontro in “da 2 a 5” per le molestie verbali, visione di oggetti pornografici e molestie sui social network; mentre “una sola volta” per le telefonate oscene, molestie fisiche, atti di esibizionismo, pedinamento, e furto di credenziali nei social network.

Rispetto alla geografia italiana, le molestie verbali sugli uomini raggiungono il massimo al Sud (9,0%) e nelle grandi città con oltre 50mila abitanti (11,6%), mentre al Centro Italia e al Nord-est gli uomini sono più frequentemente vittime di molestie fisiche.

Gli uomini con un titolo di studio medio alto hanno subito più molestie, mentre chi possiede la licenza elementare o ha ultimato le medie inferiori presenta un tasso di vittimizzazione maggiore per le molestie che avvengono sui i social network.

Le molestie con contatto fisico comprendono tutte quelle situazioni in cui si è stati avvicinati, toccati o baciati contro la propria volontà; i maschi sono più molestati fisicamente delle femmine da parte di estranei e conoscenti, mentre le femmine sono maggiormente molestate da colleghi e datori di lavoro, nonché amici e vicini di casa.

Un dato interessante è la percezione della gravità del fenomeno, percepito grave dalle donne, lieve o assente dagli uomini. Questi ultimi mostrano percentuali più elevate rispetto alle donne nel definire situazioni in cui non sono riusciti ad essere in grado di identificare il/la molestatore/trice.

I mezzi per molestare le vittime maschili variano rispetto il genere del soggetto perpetratore: gli uomini utilizzano maggiormente le telefonate oscene ed i pedinamenti, mentre le donne le molestie fisiche, le telefonate ed i messaggi osceni, la visione di immagini sessuali o materiale pornografico e molestie tramite i social network.

I luoghi dove gli uomini dichiarano di essere maggiormente molestati sessualmente sono pub, bar, cinema, teatro, ristorante e le discoteche. Le donne invece sono maggiormente molestate sui mezzi di trasporto e in strada.

Molestie sugli uomini: conseguenze e azioni di prevenzione

Non bisogna assolutamente sottostimare o sottovalutare le conseguenze delle molestie sessuali rivolte agli uomini in quanto le ripercussioni psicologiche e fisiche sono le stesse che si verificano nei soggetti di genere femminile, con ripercussioni sia nella sfera personale sia nella sfera professionale/sociale.

Come riportato nell’articolo di State of Mind Quando lo stalking viene perpetrato da una donna (Zedda, 2018):

Purtroppo gli uomini tendono a non denunciare o parlare dell’essere vittima […]

e alla motivazione si può attribuire il significato di valore considerando come la cultura “machocentrica” contemporanea possa rendere oggetto di scherno un uomo vittimizzato per molestie sessuali.

E’ bene incoraggiare le vittime di genere maschile a parlare con famigliari e amici delle situazioni dalla connotazione molesta al fine di non essere isolati nella sofferenza; inoltre è bene incaraggiarli a rivolgersi alle forze dell’ordine e/o ai professionisti incaricati di portare sollievo e benessere, per arginare il fenomeno prima dell’instaurarsi delle problematiche di salute tipiche (es. ansia, paura, insonnia, problemi dell’apparato gastrointestinale, depressione, isolamento, alterazioni dell’alimentazione, ecc.).

Anche gli aspetti della prevenzione e lo sviluppo di centri e professionisti dediti all’ascolto delle problematiche maschili sono di importanza strategica, soprattutto considerando che il lavoro svolto nella prevenzione per il mondo femminile ha portato buoni risultati nell’attenuare il fenomeno.

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