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Lucia, una storia di depressione vissuta all’ombra del vulcano – Un caso clinico trattato con la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

I pazienti affetti da HIV presentano livelli di depressione almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta, con un tasso più alto nella popolazione femminile. I pazienti, tra il 4 e il 14% dei casi, mostrano un disturbo grave ed almeno il 30% di essi presenta segni di depressione.

 

Da un punto di vista psicologico e sociale, cancro ed infezione da HIV presentano diversi punti di contatto, sia a livello individuale che collettivo. A livello individuale entrambe le condizioni possiedono un carattere disumanizzante, poiché determinano una trasformazione dell’individuo e ne intaccano la propria dignità come persona. I significati della perdita dei propri ruoli e delle proprie funzioni, della minaccia e della sofferenza rappresentano infatti il denominatore comune delle due patologie. A livello collettivo, entrambe evocano angosce legate all’incontrollabilità e alla minaccia. In entrambi i casi, Il corpo può subire importanti alterazioni legate alla malattia stessa o alle terapie, con conseguenti modifiche della propria immagine corporea e cambiamenti importanti dei significati che a quelle parti del corpo vengono dati.

Ciò può avere ripercussioni su altre aree dell’esistenza, intaccando la propria identità temporale, lavorativa, familiare e sociale. A queste corrispondono importanti significati relazionali, poiché la malattia modifica il modo col quale la persona si percepisce rispetto agli altri e da questi è a sua volta percepita. A questo livello la malattia influenza enormemente la percezione che ciascuno ha di far parte del contesto nel quale vive. Il mantenimento di sentimenti di integrazione e appartenenza viene messo in pericolo a scapito di sentimenti di solitudine ed emarginazione che emergono in maniera tumultuosa.

Diversamente dalle patologie neoplastiche, all’infezione da HIV si associano significati diversi che si legano strettamente ad alcune variabili tipiche dell’infezione: le sue modalità di trasmissione, le sue caratteristiche cliniche e le sue conseguenze. L’infezione, tra l’altro, si è presentata come epidemia, quindi con un significato di diffusione e di contagio che ha indotto sensazioni generalizzate di pericolo nella popolazione e, di conseguenza, di bisogno di emarginare la fonte del pericolo. Inoltre, le modalità dell’infezione, specialmente agli inizi della diffusione del fenomeno, quando i gruppi colpiti (o, come venivano definiti, “a rischio”) erano gli omosessuali e i tossicodipendenti, ha determinato risposte sociali estremamente marcate di ostilità, discriminazione e ghettizzazione verso i soggetti sieropositivi.

In questi casi il paziente veniva in qualche modo considerato responsabile diretto della propria condizione.

HIV e Depressione

Nonostante la vastità delle opzioni terapeutiche a disposizione, la depressione rimane il più comune disturbo psicologico tra i pazienti affetti da HIV. I livelli di depressione fra questi soggetti appaiono essere almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta: dal 4 al 14% dei pazienti mostra un disturbo grave ed almeno il 30% segni di depressione. La presenza di una condizione depressiva va attentamente indagata sul piano clinico, in quanto essa è risultata associata a:

  1. più rilevante immunodepressione
  2. accelerata progressione di malattia (il paziente depresso è un paziente scarsamente aderente al trattamento e la bassa aderenza è una delle principali cause del fallimento terapeutico)
  3. aumentata disabilità
  4. minore sopravvivenza
  5. più elevata probabilità di morte

Di particolare interesse appare la correlazione fra depressione e sesso femminile. Già nella popolazione generale la percentuale di donne affette da depressione è doppia rispetto agli uomini, fra le donne sieropositive è quattro volte più elevata rispetto alle donne sieronegative (19% vs 5%). La presenza di sintomi depressivi fra le donne HIV positive è stata associata all’età compresa fra 30 e 50 anni, all’uso di sostanze stupefacenti, ad un basso reddito o all’appartenenza a minoranze etniche ma anche a condizioni cliniche quali una bassa conta dei linfociti CD4 o una viremia rilevabile o un trattamento terapeutico subottimale. Le donne HIV positive con elevati livelli di depressione hanno, infatti, minore probabilità di assumere la HAART e vanno più frequentemente incontro ad un outcome sfavorevole, spesso per situazioni cliniche non correlate all’infezione da HIV. La premorienza è addirittura doppia rispetto a donne con assenza o intermittenza di sintomi depressivi, anche in assenza di diagnosi di AIDS.

Un recente studio indaga la relazione tra il “silenzio su di sé” (inteso come evitamento della disclosure e quindi inibizione dei propri bisogni nelle relazioni interpersonali), fattori socioeconomici (istruzione, impiego e reddito) e resilienza in un campione di donne con HIV. Le donne con punteggi più bassi sul “silenzio su di sé” hanno riportato una resilienza significativamente maggiore rispetto alle donne con punteggi più elevati. Sebbene l’occupazione sia significativamente correlata ad una maggiore resilienza, il silenzio tende a predire la resilienza al di là dei contributi di occupazione, reddito ed istruzione (Dale et al., 2014). I risultati suggeriscono che gli sforzi di intervento e prevenzione mirati a ridurre il silenzio delle donne, l’inibizione dei loro bisogni e aspettative nei confronti degli altri siano strumenti preziosi per progredire verso il benessere e la realizzazione di sé, nonché promotori di opportunità lavorative.

In pazienti HIV + il riscontro di un disturbo della personalità è piuttosto frequente (20-40% dei casi). È stato dimostrato che una diagnosi psichiatrica a questo livello si associa a una più elevata prevalenza di disturbi depressivi in soggetti HIV +. Nei pazienti con tale disturbo il rischio di sviluppo di manifestazioni psicopatologiche successivamente all’infezione viene aumentato di circa sei volte e si correla ad una netta riduzione del livello di funzionamento soggettivo del paziente nel condurre la propria esistenza. Inoltre la depressione risulta associata a comportamenti a rischio quali sesso non protetto e si associa spesso ad assunzione di alcol. Nei pazienti sieropositivi il disturbo depressivo è fortemente associato ad aumentato rischio di mortalità per malattie cardiovascolari (Parruti et al., 2013). Aspetti psicologici possono agire sulla salute cardiovascolare sia attraverso meccanismi fisiopatologici, sia indirettamente in quanto si associano all’adozione di stili di vita nocivi per la salute come vita sedentaria, fumo, alcol, squilibri alimentari. Nella maggior parte degli studi presi in esame, i pazienti affetti da depressione dichiaravano che la malattia medica aveva esasperato tematiche legate alla colpa, alla vergogna, al senso di solitudine e stigma percepito.

I principali interventi

Markowitz (Markowitz et al.,1998) ha condotto un trial randomizzato di 16 settimane su 101 pazienti sieropositivi con diagnosi di depressione. I soggetti sottoposti a psicoterapia interpersonale hanno ottenuti maggiori benefici rispetto agli altri gruppi. Carrico e colleghi (2006) hanno visto che la combinazione di psicoterapia cognitiva e training sull’incremento dell’aderenza alle cure mediche dava ottime risposte in termini di riduzione della sintomatologia depressiva e conseguentemente una riduzione del rifiuto della terapia antiretrovirale.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità, con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma (Dimaggio et al.,2016). Rispetto alla Terapia cognitiva Standard, la TMI pone un’attenzione fondamentale alle disfunzioni metacognitive dei pazienti.

Sulla base dell’assunto che uno dei nuclei patogeni della personalità sia la difficoltà ad identificare gli stati mentali e utilizzare tale conoscenza per risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali, la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha sviluppato una serie di tecniche specifiche e di modalità di lavoro sulla relazione terapeutica atte a promuovere la metacognizione.

Recentemente è stata anche applicata con successo al caso di un uomo con sarcoma di Kaposi, neoplasia opportunistica AIDS correlata che, nonostante la gravità della situazione clinica non era aderente alla terapia antiretrovirale. Il paziente era anche affetto da un disturbo di personalità grave (Sofia et al., 2017). La Terapia Metacognitiva Interpersonale è stata adattata al caso clinico al fine di migliorare l’aderenza al trattamento e di ridurre i criteri diagnostici del disturbo di personalità.

La storia di Lucia

Illustriamo di seguito, in forma narrativa, il caso clinico di una paziente sieropositiva affetta da disturbo paranoide di personalità e scarsamente aderente alla terapia antiretrovirale.

Lucia è guidata nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, dei quali non è consapevole e che mette in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai suoi desideri, speranze e bisogni.

In termini di formulazione condivisa del caso, terapeuta e paziente arrivano a capire che: Lucia si sente vulnerabile ma teme l’abuso e l’inganno e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di minaccia. Per gestire il senso di paura e vulnerabilità utilizza coping disfunzionali quali la diffidenza, la fuga, l’isolamento talvolta attacchi verbali accompagnati da una maschera forzata oppure da silenzio ostentato. Questi comportamenti amplificano la rabbia e la costante paura dell’altro, con il conseguente sviluppo di un disturbo depressivo grave che ha portato all’interruzione della terapia antiretrovirale.

In corso di terapia, la paziente è stata aiutata a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza di essere danneggiata può essere parzialmente vera, ma riflette anche uno schema in cui si vede umiliata e sottomessa. Nella storia descritta, gli schemi si fondano sulla figura materna percepita come tirannica e su vissuti traumatici di violenza protratta dai propri partner oltre che per l’incontro con un virus vissuto come “potente e minaccioso”. Attraverso la relazione terapeutica, la paziente si sentirà compresa ed incoraggiata, imparerà a riconoscere i propri schemi interpersonali e sarà portata a valorizzare le parti di sé che funzionano, riconoscendo i propri punti di forza.

Tra gli aspetti tecnici citati, anche guided imagery, rescripting e role play utilizzati con l’obiettivo di modificare gli schemi all’interno dello spazio mentale. Nelle ultime fasi della terapia, la paziente riuscirà ad affrontare con serenità anche uno dei nodi più importanti della vita di questi pazienti: la comunicazione della propria sieropositività ai figli.

L’arrivo di Lucia è preceduto dalla telefonata di un collega infettivologo : “O la paziente è all’ennesima resistenza alla terapia antiretrovirale o mi prende clamorosamente in giro e la terapia non la prende. I suoi esami peggiorano, mi preoccupa. Lei non mi dice nulla. Ci vuoi parlare tu?”

Lucia entra in ambulatorio ridendo, grandi occhi scuri come il cappotto che indossa. Cappotto lungo, portato in pieno Maggio di una afosa mattina catanese. Lucia ha 50 anni ed è sieropositiva da 16 anni. Sul volto i segni evidenti di una dermatite seborroica.

Il cappotto indossato anche in estate “la protegge – lei dice- dalla pioggia nera di cenere vulcanica… Questa terra sottile vomitata dall’Etna è più insidiosa di quello che si pensa. E poi mi fa male alla pelle. Insomma….è difficile la vita sotto il vulcano, ti senti sempre sotto minaccia”.

I nostri primi incontri sono caratterizzati da un ostentazione della sua “onnipotenza”, della sua capacità di “fottere la vita”, nonostante le difficoltà.

Mi racconta che a 14 anni scappa di casa con il primo corteggiatore, a 15 anni ha la prima bambina, a 16 la seconda, a 17 ha la terza bambina.

Lui rapinava ma io non lo sapevo! Ma se li beveva tutti i soldi che rubava… sempre ubriaco fradicio era. Ma io avevo 3 bambine piccole, dove dovevo andare?”. Lucia non ha una narrativa che mette in evidenza dettagli intimi, non accede alle emozioni, sputa fuori eventi in cui è protagonista ai limiti della legalità. Nelle prime sedute non parla mai della sua malattia, vuole parlare di una “storia burocratica”, una vicenda con la vecchia datrice di lavoro a cui faceva le faccende domestiche. Era la seconda volta che le capitava di voler denunciare le persone presso cui lavorava.

La sua narrazione è confusa e frammentata, caratterizzata da sottili attacchi anche nei confronti della terapeuta. “E certo che la devo denunciare, di me se ne approfittano tutti….. ma ora lo vedrà cosa sono in grado di fare. Io senza avvocato cammino. Io, se decido di andare da un magistrato, ci vado da sola e ci so parlare meglio di lei che è laureata e meglio di qualsiasi altro avvocato”.

Difficile interromperla, difficile fermarsi a focalizzare le emozioni durante la seduta. Difficile stabilire un’alleanza terapeutica.

Come quella volta che da quel prepotente me la sono cavata da sola. Era proprietario di un locale e non pagava lo stipendio a mio marito da sei mesi…. Io avevo tre bambine piccole… ci sono entrata con la macchina dentro il locale, gli ho rotto tutte le vetrate al bastardo…. Poi è venuto a suonarmi a casa e mi ha chiesto se volevo essere la sua femmina. Ha capito dottoressa? Mi ha dato lo stipendio di mio marito direttamente nelle mani. Mi ha detto che non lo pagava perché si beveva tutto l’alcool del locale (il marito di Lucia era il cuoco del locale). Ma cosa le dovrei raccontare? Che mio marito stava con la peggio puttana di Catania, la più “viziosa”, lo sapevano tutti tranne io”.

Mentre parla scoppia a ridere e poi sembra trattenere il pianto ma scoppia a ridere più forte.

Il terapeuta TMI è un clinico attentissimo alla mimica facciale del paziente. In particolare, quando un’espressione nel volto del paziente cambia repentinamente o viene soffocata è bene segnalarla tempestivamente per permettere al paziente di individuare con maggiore precisione il pensiero collegato al suo stato emotivo. La fermo un attimo per chiederle cos’era quell’espressione subito dopo la risata, se stava per piangere… Nel caso di Lucia, la segnalazione dell’emozione è servita anche ai fini dell’alleanza terapeutica poiché la paziente si è sentita guardata con attenzione, e ha rivelato uno dei principali nuclei del suo schema interpersonale.

Dottoressa, sorriso fuori e buio dentro. Questa è Lucia!… Gli altri godono se io mostro il mio buio dentro, non lo posso fare vedere a nessuno. E meglio non dire niente e non fare vedere niente. E poi da quando ho saputo come sono…. Non posso essere più felice…Grazie a mio marito, ai suoi divertimenti. Dopo aver fatto una rapina, lo misero dentro a Favignana, io non ci andavo a trovarlo… Avevo 3 bambine piccole… E poi non lo volevo più… E mia madre mi diceva: “non si lasciano i mariti in carcere”… sempre lei ha deciso quello che si doveva fare. Un giorno mi arriva una lettera a casa, era lui. Mi scriveva: fatti le analisi, sono sieropositivo”.

Lucia ride e poi vorrebbe piangere. “Il giorno che ho fatto le analisi… il suo collega infettivologo balbettava, non sapeva come dirmelo e c’era mia madre a fianco che mi ripeteva: una cosa è certa, ora a tuo marito non lo puoi lasciare più, ora chi ti prende a te? Sei malata, sei una donna finita. Il dottore era in collera, io sono scappata. Non mi sono più presentata per anni… la terapia l’ho cominciata dopo… Ma io non sono qui per parlare. Sono qui perché voglio denunciare la mia ex titolare, lei mi può consigliare in questo senso oppure no?

Le dico che sono qui per aiutarla e cercheremo di capire perché si sente nelle condizioni di voler denunciare.

Mi ero fidata della mia titolare, le avevo confidato che mi avevano tolto l’utero e che mi ero sentita sola…Le mie figlie non sono neanche venute a trovarmi nel post-operatorio, eppure io le ho amate tanto. Il pomeriggio dopo mi trovavo a casa sua come sempre a fare le faccende domestiche. Suona suo fratello alla porta, lo faccio accomodare. In un secondo mi sono girata ed era nudo. Mi è saltato addosso e mi ha detto: so che adesso ci possiamo divertire. Ha capito? Me l’ha mandato lei a suo fratello. Quando mostro il mio buio gli altri se la godono sempre”.

Adesso piange disperata: “Non ne posso più, Lucia è stanca… di vivere contando solo su se stessa. A che serve parlare, a che serve prendere la terapia…. E’ meglio accelerare questa agonia, e mettere fine a tutto”.

A Lucia la maschera e la risata ostentata servono per “nascondere il buio dentro che non si può mostrare se no gli altri godono”, però mentre si narra lascia trasparire una mimica che copre il pianto. Farle notare quello che vedo mi permette di accedere alle sue emozioni e di parlarne in seduta. Attraverso la relazione terapeutica, Lucia si sente capita e parla di disperazione, angoscia, caduta nel baratro e desiderio di morte ogni volta che pensa al suo corpo “invaso” da uno straniero. Invasore che l’ha derubata della sua bellezza (la mia pelle adesso fa schifo) e della sua femminilità (questo coso mi ha reso l’utero marcio e io non sono più neanche donna). Non è più possibile godere, avere una vita facile, avere una vita affettiva. Il virus, mai nominato da Lucia, ha portato via con sé le sue attitudini sane e cioè la spensieratezza, la voglia di giocare, di farsi bella, di amare ed essere amata. Attorno a lei un mondo che la pone “vittima” di impostori (le persone presso cui lavora), stalker (gli uomini che incontra), truffatori (commercianti) e ancora una fauna di gente violenta, manesca e approfittatrice a cui si può rispondere solo con l’ostentazione della risata, con tentativi di attacco ma soprattutto con fughe e nuovi isolamenti per non farsi schiacciare ulteriormente e vivere sempre più ai margini.

La storia di Lucia è davvero piena di violenza.

Lo mostrano le memorie autobiografiche che riporta in seduta dopo aver riconosciuto le sue reali emozioni, memorie in cui ad essere quasi sempre protagonista è innanzitutto la madre, descritta come tirannica e ingiusta. Madre che non le concederà l’ultimo saluto alla salma del padre a cui Lucia è particolarmente legata, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Evento traumatico che la segna irrimediabilmente costringendola ad una lettura della mente degli altri assolutamente non flessibile.

“Mio padre è morto quando avevo 13 anni. Il buio nero, quello di cui parlavo prima, è iniziato lì.
Lo sa cosa ha fatto mia madre? Io avevo 7 fratelli che accudivo… lei lo sapeva che avevo un debole per mio padre… Quando mio padre è morto, tutti i miei fratelli lo hanno salutato. Mi ha chiuso in una stanza e mi ha detto che non potevo vederlo. Lo sapeva che ero la preferita, che lo amavo da morire, che avrei passato tutta la notte a baciare la salma… Ma non me l’ha fatto vedere. Quando mostro la mia debolezza, il mio buio oppure il mio bisogno di cure.. l’altro ci gode e mi pugnala apposta. Anche quando ho saputo la diagnosi e sono andata a vivere da mia madre… Separava le posate e non toccava mai il mio bicchiere e mi diceva sempre: e ora chi ti deve prendere a te che sei ridotta così. E allora sono andata via con un nuovo compagno, ed è nato Francesco.
Ma il papà di Francesco, quando vivevo a Torino mi picchiava, lavoravo solo io e mi veniva a picchiare anche nel locale in cui lavoravo. E allora qualche anno fa sono scesa di nuovo a Catania…

Dalla narrazione di Lucia sembra che la madre abbia proprio approfittato della sua debolezza per il padre e del suo momento di dolore per punire la sua preferenza ed impedire solo a lei tra tutti i figli di poter dare l’ultimo saluto al padre. E’ un dolore subito prendendo a calci la porta dietro cui era stata chiusa, è un dolore misto ad impotenza e rabbia, mai raccontato prima.

Da qui l’impossibilità nella sua vita di poter mostrare il buio, il suo dolore agli altri… “perché se mostri il buio gli altri godono”. Così come tutte quelle volte che la madre, dopo la notizia della sieropositività, la fa entrare nella sua casa, ma separa le sue posate, incellofanando tutto quello che ha a che fare con Lucia. “E io mi sentivo umiliata e schiacciata, impossibile per me riprendere il gusto di vivere.”

Durante i mesi siamo riuscite a fare luce sulle emozioni, a comprendere gli schemi principali legati ad una vita piena di violenza e siamo riuscite a compiere quella che in Terapia Metacognitova Interpersonale viene definita “Formulazione condivisa del funzionamento”.

Lucia desidera ancora essere amata e protetta. Negli anni, questa speranza è stata velata dalla paura dell’altro, capace di approfittare di lei, in genere teso ad umiliarla e sottometterla. A questo punto lei si è percepita “fragile” ed ha reagito agli eventi della vita con diffidenza e frequenti ritiri sociali (poca fiducia persino nell’infettivologo che la segue da anni, a cui non ha dichiarato la sua scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale, saltando spesso anche gli incontri ambulatoriali). Altre volte ha disprezzato e minacciato anche lei per sentirsi più forte, ma è stato in corso di terapia che ha capito che il suo desiderio poteva essere ascoltato, poteva parlare del suo dolore senza angoscia, senza quel terrore di essere pugnalata nel momento di maggiore vulnerabilità. Le chiedo se vogliamo provare a portare questa speranza anche fuori dalla nostra relazione per osservare meglio, adesso e con nuova consapevolezza quella che abbiamo definito “fragilità”… quel buio dentro…L’evento della morte del padre torna spesso nei nostri incontri. Quell’impossibilità dell’ultimo bacio, impedito dalla tirannia della madre e dalla ferocia della morte.

Le propongo l’ascolto di una canzone in seduta. Una canzone scritta propria da una nostra concittadina. Si chiama “L’ultimo bacio”, ed è una ballata malinconica, racconto di un addio.

Il brano nasce dalla paura di una Carmen Consoli bambina che, in rapporto di franca ostilità con la madre, immagina di essere abbandonata dal padre, suo unico compagno di giochi con il quale già da piccola condivideva la passione della chitarra. Come sottofondo della scena, il fischiare del vento sembra una sinfonia di violini. Il brano cita un verso del pezzo Piove (mille violini suonati dal vento…), portato al successo da Modugno, che era proprio il brano cantato dal padre di Carmen, quando la salutava la mattina prima di recarsi al lavoro.
Il brano le piace, e sente una “sorta di consolazione. Ma allora soffriva anche lei come me?

Le propongo, se vuole farlo in seduta, insieme a me di scrivere un finale diverso alla sua storia…. Quell’ultimo bacio al padre, lo può dare adesso se riusciamo a immaginare di essere dinnanzi a lui rievocando quella scena di tanti anni fa.

Lucia riesce a farlo, immagina di essere chiusa dentro la stanza ma stavolta di essere aiutata ad uscire dai suoi due fratelli minori. Immagina di avvicinarsi al padre, sempre scortata dai fratelli che la proteggono e di salutarlo come desiderava. Intanto la madre rimaneva “piccola, a guardarmi in lontananza”.

I mesi passano, il legame con il figlio Francesco la tiene fortemente ancorata alla vita. Lucia comincia a dare un nome alla sua malattia, riconosce che è importante assumere costantemente la terapia. Inoltre, è più serena.. c’è un altra buona notizia…Il padre di Francesco non la disturba più, l’hanno arrestato solo in questi giorni, per una denuncia per maltrattamenti che lei aveva sporto contro di lui circa 10 anni fa quando ancora vivevano a Torino (“Dottoressa, lo Stato ce l’ha fatta a darmi ragione…dopo 10 anni!”).

E’ successa una cosa nuova. C’è un “picciotto” del mio quartiere che lavora in pescheria che ogni tanto mi chiede di prenderci un caffè a casa mia. Ho la sensazione che sia una brava persona, ma poi penso che vuole penetrare nel mio appartamento per stabilirsi a casa mia e farsi mantenere da me, insomma un altro inganno… Lo so dottoressa, le mie vecchie esperienze …non mi fanno andare avanti. Non ci ho creduto più nella buona fede. Solo che stavolta volevo mettermi in gioco e volevo parlarne con lei per prendere una decisione. Mentre ero fuori casa per lavoro, si è presentato a casa mia. Gli ha aperto Francesco. E’ venuto munito di strumenti, e nell’arco di poche ore ha eliminato tutta l’umidità della casa. A Francesco ha detto che lo sospettava che a casa mia ci fosse tutta questa umidità, visto che mi vede sempre con il cappotto anche in estate. Niente… ha fatto il lavoro e se n’è andato. Io non l’ho incontrato, mi ha mandata a salutare con Francesco. Volevo ringraziarlo. Avevo paura, mi mancava il coraggio. Ieri sono scesa in Pescheria. Via Etnea era invasa di luce e colori, piazza Duomo piena di turisti. Un gruppo di questi ascoltava una guida che raccontava la storia della Cattedrale, dove sono conservati i resti di Sant’Agata! Allora mi sono fermata a guardare”.

Cosa – ho chiesto io – la guida turistica?”.

No, quel luogo. Racchiude le spoglie mortali di una donna martire, deturpata per il suo amore. Quel visino così bello, offeso da uomini senza Dio. La conosce la storia di Agata, dottoressa?

Certo, una delle prime vittime di femminicidio della storia. Una donna libera.

“Io ho pensato a quegli uomini”, dice Lucia.

Cioè, ha pensato a Quinziano e agli altri carnefici?” Le chiedo io.

No, stavolta no. Ho pensato agli altri uomini. Tutti gli altri. Quei due soldati che ne trafugarono i resti da Costantinopoli per riportarla a casa. Ho immaginato i catanesi che, svegliati nel cuore della notte dalle campane, si affacciavano e con i fazzoletti bianchi dai balconi ne salutavano il ritorno a casa. Ho pensato alla processione, dove centinaia di uomini con un “sacco” bianco portano in giro per la città questa “picciridda” sotto sole e pioggia, percorrendo kilometri spalla a spalla. Gente diversa: avvocati, muratori, disoccupati, per 3 giorni, solamente uomini che sanno amare. Ho pensato che per ogni pezzo di merda, ce ne sono altri cento disposti ad amarti. La vita qualche cosa di buono la restituisce. Ho pensato che questo buono io me lo posso prendere. E così sono scesa in pescheria e sono riuscita a ringraziarlo”.

E’ l’inizio della risalita. Francesco comincia a lavorare in un’autorimessa, e si fidanza con la figlia del portiere del palazzo. Invitano la fidanzata a cena e Lucia cucina per loro. “E’ una ragazza con gli occhi azzurri e limpidi come il mare, ed è innamorata del mio Francesco. Perché Francesco è bello come il sole ed è un ragazzo buono, Lucia ce la fa a fare le cose buone. Me lo sono cresciuto sola a Francesco.. è figlio mio. Dopo cena, abbiamo cantato al Karaoke fino a tardi e abbiamo riso per tutto il tempo. Glielo diciamo a Francesco che sono sieropositiva… Questi farmaci se devo prenderli ogni giorno prima o poi dovrà vederli… Allora mi aiuta a dirlo a mio figlio che sono sieropositiva?

Lucia ha una nuova abitudine, passeggiare sul lungomare di Catania gustandosi una granita alla mandorla. Jeans stretti mettono in evidenza un corpo ancora giovane. Da questa estate, la polvere lavica mista alla brezza marina arriva direttamente sulla sue braccia scoperte, liberate dalla protezione del cappotto ma senza farle male.

Facebook e autostima. L’immagine che abbiamo di noi stessi influenza i contenuti che mettiamo online

Un recente studio ha esaminato come il livello di autostima influenzi il tipo di presentazione che forniamo di noi stessi su Facebook, e come questo abbia effetti sul nostro benessere soggettivo.

 

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Computers in Human Behavior, persone con bassa autostima non sono a proprio agio nel fornire una presentazione autentica di sé stesse sul social network Facebook.

Le precedenti ricerche hanno dimostrato come Facebook sia un’arma a doppio taglio: il coinvolgimento nel social può influenzare sia positivamente che negativamente il benessere soggettivo.

Alcuni studi hanno riscontrato che forme di supporto sociale (ad esempio il ‘Mi Piace’) da amici di Facebook incrementano il benessere soggettivo, mentre altre ricerche hanno evidenziato che l’utilizzo di un atteggiamento competitivo da parte degli utenti di Facebook, fa sviluppare sentimenti di invidia che abbassano il livello di benessere soggettivo.

Jang, autore dello studio, riferisce:

[blockquote style=”1″]Avendo constatato la presenza di modelli contrastanti, si è deciso di verificare se il tipo di strategia adottata per presentare sé stessi online influenza la gratificazione che si ottiene dall’utilizzo del social network. In particolare se la gratificazione psicologica che deriva dall’utilizzo di Facebook, dipenda dal proprio livello di autostima[/blockquote]

Facebook e autostima: ci presentiamo in modo autentico o strategico?

I ricercatori hanno evidenziato due differenti modi in cui le persone possono descriversi sui social network: una presentazione autentica di sé ed una strategica. Nel primo caso viene fornita una descrizione veritiera di se stessi e della propria vita, nel secondo invece, le persone mostrano unicamente contenuti positivi della propria esistenza, in modo tale da creare un’impressione più favorevole di sé.

Nello studio è stato chiesto a 278 utenti di Facebook di pubblicare contenuti che riflettessero se stessi o in modo autentico o in un modo più strategico; in seguito a questa operazione i soggetti hanno compilato un questionario.

È emerso che, solo nelle persone con elevata autostima, e non per quelle con bassa autostima, ad una presentazione autentica di sé si associa maggiore felicità. Invece una presentazione strategica, rende felici sia persone con alta che con bassa autostima. Afferma Jang:

[blockquote style=”1″]I nostri risultati suggeriscono che gli utenti con bassa autostima, probabilmente utilizzano Facebook come mezzo per aumentare il proprio benessere soggettivo, mostrando online solo le caratteristiche più desiderabili. Gli individui con bassa autostima sono maggiormente riluttanti a condividere le proprie caratteristiche, perchè non sono sicuri della propria immagine e percepiscono sé stessi meno attraenti socialmente rispetto alle persone con alta autostima [/blockquote]

Usare Facebook per stare meglio? Funziona davvero?

Le persone percepiscono Facebook come un ambiente relativamente sicuro, in quanto gli utenti possono scegliere i propri amici e controllare cosa viene condiviso. Inoltre momenti d’imbarazzo sono minori e maggiormente controllabili, rispetto ad interazioni di persona.

Le persone con bassa autostima, quindi, utilizzano Facebook come mezzo per condividere aspetti di sé con caratteristiche maggiormente desiderabili e positive, per migliorare la loro attrattiva ed aumentare il loro benessere.

Lo studio presenta alcuni limiti. Non è ancora chiaro se il guadagno in termini di benessere per le persone con bassa autostima sia una conseguenza duratura o temporanea. Subito dopo la pubblicazione di messaggi o immagini si riscontra un incremento del benessere, ma questi benefici potrebbero scomparire nel tempo, anche rapidamente.

I giovani e l’alcol: vecchi vizi e nuove tendenze

Sono sempre di più i giovani, tra gli 11 e i 15 anni, che manifestano comportamenti nell’uso di alcol assimilabili al fenomeno che in letteratura viene definito Binge Drinking.

Bulgarelli Alessandra – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Modena

 

«Bevo. Come potrei altrimenti affrontare l’orrore esistenziale e continuare a lavorare?»

Questa giustificazione dell’uso e dell’abuso di alcol è stata chiama da Stephen King la “spiegazione Hemingway” ma si adatta in realtà a un gran numero di forti bevitori. Giustificare i propri vizi è senz’altro umano, ma ciò, a occhio clinico, svela la volontà di perpetrarli e suscita domande sulle loro radici profonde.

Scopo di questo articolo è quello di proporre un quadro sintetico, ma attuale, rispetto all’assunzione smodata di alcolici, ponendo attenzione in particolare alle abitudini, ai vizi e alle tendenze dei giovani e degli adolescenti rispetto al consumo di alcol. Oggi, infatti, il vizio alcolico è un fenomeno ampiamente diffuso tra i ragazzi e la “bevuta”, che conduce all’eccesso, assume svariate connotazioni di natura psicologica, sociologica e culturale, oltre a presentare modalità nuove, solo di recente formulazione nella letteratura, come quella del Binge Drinking. Indagare questi aspetti e comprenderne i meccanismi è la sola strada per attuare le necessarie strategie preventive che siano in grado di curare, per così dire, prima che si presenti il male e di anticipare con le giuste azioni informative e sanitarie quella che spesso diviene una terapia tardiva.

Alcol e giovani: i numeri del fenomeno

Con il termine alcolismo intendiamo «il cronico disordine comportamentale, caratterizzato dalla ripetuta ingestione di bevande alcoliche in eccesso rispetto agli usi dietetici e sociali della comunità, con gravi conseguenze sulla salute del bevitore e sul suo funzionamento psicosociale» (Janiri & Martinotti, 2008).

L’alcol presente nella birra, nel vino e nei liquori è alcol etilico, meglio chiamato etanolo. Si tratta di una vera e propria droga perchè agisce sul sistema nervoso in maniera del tutto simile alle sostanze psicotrope e stupefacenti che determinano dipendenza. Gli effetti disinibenti ed euforizzanti dell’ alcol tendono ad indurre con maggior facilità le persone a farne uso perchè la sostanza permette di modificare illusoriamente la percezione di se stessi e della realtà.

Ogni anno, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono attribuibili, direttamente o indirettamente al consumo di alcol, il 10% di tutte le malattie, il 10% di tutti i tumori, il 63% delle cirrosi epatiche, il 41% degli omicidi, il 45% di tutti gli incidenti, il 9% delle invalidità e delle malattie croniche.

I giovani sono i più vulnerabili agli effetti sia fisici che mentali dell’ alcol e pertanto sono più esposti ai suoi rischi. I ragazzi tra gli 11 e i 15 anni sono orientati in numero sempre più crescente verso il modello che in America è chiamato Binge Drinking, cioè un abuso di alcol concentrato in singole occasioni. In particolare, gli episodi sono circoscritti al fine settimana: i ragazzi bevono in modo occasionale, alle feste, all’aperitivo o in discoteca, e raramente da soli. Questo comportamento ha effetti devastanti sulla salute in quanto l’organismo di un adolescente è ancora in completa evoluzione e l’alcol ha l’effetto di rallentare lo sviluppo mentale (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Attualmente, in letteratura, la definizione di Binge Drinking è ampiamente utilizzata. Wechsler, nell’ormai noto report del 1992 (Wechsler & Isaac, 1992), lo definì come «l’assunzione di cinque o più drink alcolici in una stessa serata da parte degli uomini e quattro o più per le donne».

Binge Drinking e Binge Drinker

Binge drinking letteralmente significa “bevute compulsive”. In realtà, non si tratta di una vera e propria tendenza legata all’alcool, quanto piuttosto di una tendenza rivolta alla ricerca dello “sballo”, ricercato ingerendo alcolici in quantità superiore al dovuto, solitamente a stomaco vuoto. È una tendenza pericolosa, rispetto alla quale non sempre il soggetto che manifesta Binge Drinking è consapevole delle conseguenze a cui può portare il suo comportamento.

Risulta opportuno descrivere il Binge Drinker sia sulla base della quantità di alcol ingerito che di frequenza d’attuazione del comportamento di abuso. Un episodio di Binge Drinking è caratterizzato dal consumo di 4 o più drink in una sola occasione per le ragazze e più drink per i ragazzi.

Dal punto di vista psicologico, è fondamentale ricordare che, al di là della sostanza ingerita, lo scopo principale delle abbuffate alcoliche è la perdita di controllo, l’ubriacatura. Spesso, dunque, la sostanza rappresenta solo un mezzo e non un fine.

I soggetti possono essere classificati in funzione del consumo alcolico (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008):

  • Non bevitore: abitualmente non consuma alcol o beve una o due volte all’anno
  • Bevitore sociale: beve normalmente alcol con una frequenza che va da 3 o 4 volte all’anno a 3-4 volte alla settimana, senza episodi di Binge Drinking nelle ultime 2 settimane
  • Binge drinker: da 1 a 4 episodi di Binge Drinking nelle ultime due settimane
  • Forte bevitore: più di 4 episodi di Binge Drinking nelle ultime 2 settimane

Le categorie del Binge Drinker possono essere utilizzate anche con soggetti non clinici nell’ambito della ricerca sul consumo e sugli stili di vita dei giovani e fanno riferimento soprattutto al comportamento attuato dal soggetto nell’unità di tempo presa in considerazione.

La prima intossicazione alcolica si verifica di solito intorno ai 13 anni, l’abuso tende poi ad intensificarsi durante l’adolescenza mostrando un picco massimo tra i 18 e i 22 anni, con un tasso più elevato in particolare tra i giovani studenti universitari. Esistono alcune differenze fondamentali nel consumo di alcolici, basate sull’etnia, sulla vicinanza a rivendite di alcolici, sulla presenza o assenza di norme sul consumo di alcolici. L’incidenza varia poi a seconda del sesso, con una la prevalenza del fenomeno tra i maschi: i ragazzi che tendono a mettere in atto comportamenti di Binge Drinking tre o più volte a settimana sono il 56%, contro il 43% delle ragazze. Le percentuali più rilevanti si registrano tra i maschi con un’età superiore ai 21 anni e tra le femmine tra i 12 e i 20 anni. Poi, in genere, la frequenza di fenomeni di bevute compulsive tende a diminuire (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Solo una bassa percentuale (22% per i maschi, 17% per le femmine) ha iniziato a bere alcolici in famiglia, sotto il controllo di un adulto. Il comportamento genitoriale è di particolare rilevanza nel far comprendere all’adolescente, sia dal punto di vista cognitivo che affettivo, la differenza tra l’uso e l’abuso di alcol. (Baiocco, D’Alessio, Laghi 2008)

Il modello di Fishbein (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008) ci permette di analizzare l’uso e l’abuso di alcol in relazione alle intenzioni personali degli adolescenti, a loro volta modulate dalla pressione sociale e dagli atteggiamenti. Secondo questo modello, la spinta al bere compulsivo viene determinata dalla “pressione sociale”, a sua volta dipendente dalle ipotesi normative, cioè dalle opinioni in merito alle aspettative di coloro da cui gli adolescenti desiderano approvazione. In secondo luogo, l’intenzione al bere sarebbe determinata dall’atteggiamento, cioè dalle aspettative che l’adolescente ripone sul fatto che l’assunzione alcolica determinerà un miglioramento del proprio stato affettivo.

Per quanto riguarda, infine, cià che nello specifico bevono i Binge Drinkers, le ricerche mostrano una prevalenza di super alcolici (36%), birra (22%), liquori (18%) e vino (16%) (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Perchè i giovani bevono? Diverse prospettive a confronto

Secondo la prospettiva della Social Cognition, l’abuso di alcol da parte degli adolescenti è legato all’utilizzo di strategie di coping disadattive (Bear, 2002). I giovani Binge Drinkers attribuirrebbero all’alcol la capacità di ridurre le tensioni e favorire le prestazioni sociali, questo li porta dunque con più probabilità a ricorrere all’alcol nelle situazioni percepite come stressanti. I maschi, in particolare, utilizzano uno stile di coping evitante, dove la modalità più utilizzata è quella che in letteratura si definisce “diversivo sociale”. Le ragazze, invece, utilizzano uno stile di coping emozionale, caratterizzato da ansia, rabbia, sensi di colpa rispetto agli stress da gestire. Di contro, i giovani di entrambi i sessi che fanno uso moderato di alcol utilizzano uno stile basato sull’analisi e sulla valutazione del problema quando ritengono tali stress “situazioni modificabili”. I Binge Drinkers, e ancora di più gli Heavy Drinkers (bevitori forti), considerano invece gli eventi stressanti come immodificabili e ricorrono spesso all’alcol, attribuendogli la capacità di evitare o persino di negare tali stress.

In maniera differente, uno schema interpretativo può spiegare l‘abuso alcolico ricorrendo al bisogno di colmare un vuoto esistenziale, tuttavia il fenomeno appare più complesso e, come nel caso di ogni dipendenza, anche il bere assume differenti valenze, che possiamo riassumere schematicamente in questo modo:

  • Socializzazione: quando aumentano le situazioni sociali per farlo (bar, feste con amici, discoteca), soprattutto se si trascorrono molte ore fuori casa o si ha molto tempo libero, l’assunzione di comportamenti di abuso alcolico tra i giovani aumenta. L’alcol viene spesso considerato dai giovani un mezzo per integrarsi socialmente e per ridurre la tensione, al contrario dei giovani adulti i quali dichiarano di bere per divertimento, per stare bene, per essere alla moda, per sembrare estroversi o semplicemente per combattere la noia. È importante rilevare come nella letteratura specializzata, proprio la “noia” viene assunta come principale causa dell’assunzione di comportamenti potenzialmente rischiosi per la salute, come l’uso di alcolici.
  • Trasgressione: la capacità del pensiero astratto, che si sviluppa proprio nell’adolescenza, porta a criticare i valori del mondo dell’adulto, l’autorità, le leggi, gli obblighi. Anche l’alcol, indicato tutt’ora come divieto, come limite del lecito oltre al quale l’adolescente può inoltrarsi solo trasgredendo, letteralmente “incamminandosi oltre” (lat. Trasgredior), assume l’aspetto di un comportamento di rottura, col quale l’adolescente esprime la propria debole opposizione a una realtà che fatica a riconoscere come propria. In tal modo, il giovane esprime la propria adesione ad un tipico archetipo occidentale della cultura adolescenziale: quello del trasgressore. Purtroppo, con tutti i rischi che questo comporta sulla salute.
  • Cultura del Rischio: esiste una “cultura del rischio” che spiega la valorizzazione che i giovani attribuiscono a gesti pericolosi, come l’assunzione di alcol, droghe, comportamenti sessuali estremi, ricerca di sensazioni forti. La cultura del rischio si presenta sfaccettata: secondo un’indagine condotta nel 2012 (Bastiani Pergamo & Drogo, 2012), alla domanda “perchè assumere rischi volontari?” il 90% dei giovani risponde: “per essere notati”, l’80%: “per sentirsi parte di un gruppo” e il 70%: per “vincere la paura”.

Da ultimo, uno sguardo agli studi sociologici ci porta a considerare l’abuso di alcol come strettamente collegato al concetto di devianza proprio di ogni società. Per questo nell’Ottocento l’alcolista era considerato un criminale, nella prima metà del Novecento un malato mentale e, solo nel dopoguerra, un soggetto in qualche modo malato e bisognoso di un programma di recupero.

Strategie terapeutiche, prevenzione e promozione della salute

Il concetto di prevenzione, intesa come semplice profilassi, cioè come educazione sanitaria legata alla cultura medica, ha sottolineato la necessità di un’educazione in grado di contrastare la visione dell’ alcol inteso come sostanza alimentare e che non etichetta come comportamenti “a rischio” il suo uso e il suo abuso. Tuttavia, la carenza di programmi di educazione alla salute ha portato la popolazione giovanile a ignorare i rischi dell’alcol (Pollo, 2012).

Appare quindi importante definire una vera e propria strategia di prevenzione rivolta alla diminuzione dei consumi alcolici e all’adozione di stili di vita sani nei giovanissimi. Fare prevenzione significa “produrre dei cambiamenti stabili nel tempo e che vanno al di là dell’intervento individuale. È necessario creare programmi che non si limitino a interventi riparativi e limitati nel tempo bensì che coinvolgano le persone e le rendano consapevoli delle loro scelte” (Bastiani Pergamo & Drogo, 2012).

Adolescenza: i cambiamenti nel comportamento sociale sono dovuti agli ormoni? – FluIDsex

Cosa determina i cambiamenti nel comportamento sociale durante l’ adolescenza? E’ davvero colpa degli ormoni? La risposta di un recente studio condotto a Buffalo.

 

E se non fossero gli ormoni sessuali rilasciati in pubertà a dettare i cambiamenti nel comportamento sociale degli adolescenti?

L’autore dello studio recentemente uscito sulla rivista Current Biology, Matthew Paul, assistente professore del Dipartimento di Psicologia dell’University at Buffalo (UB), ritiene che i cambiamenti sociali che si verificano durante il periodo dell’ adolescenza siano indipendenti dai cambiamenti ormonali.

E per dimostrare ciò, dato che pubertà e adolescenza insorgono contemporaneamente, è necessario separare i due processi. Non potendo scindere questi due processi in un soggetto umano, i ricercatori di questo studio hanno riprodotto questo processo di separazione sui criceti siberiani.

L’ adolescenza è risaputo essere un periodo critico. Le motivazioni che rendono tale periodo perturbato sono varie, tra cui lo sviluppo di un pensiero complesso dato dal pieno sviluppo cognitivo, il passaggio dallo status di bambino a quello di adulto e gli innumerevoli altri cambiamenti di carattere biologico, psicologico e sociale. Per quanto riguarda infatti, le relazioni, in questa fase di sviluppo l’attenzione si sposta dalla famiglia al gruppo dei pari.

Qual è la differenza tra pubertà e adolescenza?

È stato spesso ritenuto che questo insieme di variegati cambiamenti dipendano dalla pubertà, ovvero dall’aumento del rilascio di ormoni gonadici.

I co-autori dello studio Clemens Probst, studioso del Massachusetts General Hospital, Geert de Vries, professore alla Georgia State University e Lauren Brown, uno studente laureato alla UB, ricordano come in termini colloquiali pubertà e adolescenza vengano utilizzati come sinonimi, eppure sono due processi biologicamente distinti.

  • La pubertà è quel processo attraverso cui, in seguito all’attivazione dell’asse riproduttivo, le persone sviluppano, oltre alle caratteristiche sessuali secondarie, la capacità di riprodursi
  • L’adolescenza, invece, non si riduce ad un cambiamento prettamente ormonale e biologico, ma oltre a comprenderlo, include anche cambiamenti di carattere cognitivo, sociale ed emotivo.

Tutti i cambiamenti evolutivi dipendono dagli ormoni puberali?

Utilizzando i criceti siberiani, una specie animale di allevamento stagionale, il dr. Paul è stato in grado di controllare i loro tempi puberali.

I criceti siberiani nati all’inizio della stagione riproduttiva (quando le giornate sono lunghe) attraversano rapidamente i cambiamenti puberali per riprodursi nello stesso anno, a circa 30 giorni dalla nascita. Invece i criceti nati in ritardo (quando le giornate sono più brevi), subiscono un ritardo anche nell’ insorgenza puberale per evitare parti in pieno inverno. Infatti, l’ arrivo della pubertà per loro si attesta intorno ai 100 giorni di età.

Dati i presupposti della specie, il dr. Paul ha deciso di controllare sperimentalmente la luce che un criceto riceve e ritardare così l’arrivo della pubertà. Nel frattempo, il ricercatore ha osservato i comportamenti di passaggio dal gioco al predominio sociale (passo importante per i criceti siberiani per disperdersi, ovvero trovare il proprio territorio).

I criceti sono stati divisi in due gruppi, che affrontano il passaggio puberale in momenti differenti, in modo da consentire un’osservazione temporale dei comportamenti sociali sopracitati.

Comportamenti sociali e ormoni: i risultati dello studio

Il gruppo di ricerca ha scoperto che la transizione dal gioco alla dominanza si è verificata in entrambi i gruppi di criceti (sia quelli a lunga giornata sia quelli a breve giornata) nello stesso momento, indipendentemente dal momento puberale. In questo modo la transizione gioco-dominanza è avvenuta ben prima della pubertà, per i criceti del secondo gruppo, in cui la pubertà è iniziata a 100 giorni. Sostiene il dr. Paul:

[blockquote style=”1″]Questi risultati sono importanti anche per la salute mentale degli adolescenti. Comprendere i meccanismi alla base dello sviluppo adolescenziale fornirà informazioni sul perché così tanti disturbi mentali si presentano durante questo periodo della vita[/blockquote]

Inoltre, egli non sembra esser titubante nel creare questo parallelismo tra comportamento animale e umano, in quanto

[blockquote style=”1″]Il gioco è un comportamento importante in molte specie, in particolare i mammiferi. È conservato in modo evolutivo, nel senso che non è stato perso da un antenato comune in quanto le specie si sono staccate l’una dall’altra nell’albero evolutivo. Poiché il gioco è espresso in così tante specie, è probabile che stia svolgendo una funzione importante, anche negli umani. Suggerisce anche che ciò che impariamo dai nostri criceti sarà probabilmente vero per molte altre specie[/blockquote]

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Realtà virtuale: nuovo alleato del terapeuta CBT nel trattamento delle paranoie in pazienti con disturbi psicotici?

Secondo un nuovo studio pubblicato su The Lancet Psychiatry la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) basata sulla realtà virtuale può aiutare a ridurre la paranoia e apporta benefici sulla cognizione sociale nelle persone con disturbi psicotici.

 

I ricercatori hanno implementato un disegno di ricerca controllato e randomizzato di terapia cognitivo-comportamentale basata sulla realtà virtuale personalizzata in 116 pazienti con un disturbo psicotico e ideazione paranoide. La ricerca prevedeva sedici sessioni di terapia in realtà virtuale, ciascuna della durata di un’ora. I risultati alla fine delle sessioni sperimentali mostrano una significativa riduzione delle autovalutazioni riferite alla paranoia sia immediatamente dopo il trattamento che in seguito a un follow-up a 6 mesi. Al contrario, il gruppo di controllo trattato con cure classiche quali antipsicotici, consultazioni psichiatriche e trattamenti riabilitativi, ha mostrato un leggero aumento dei pensieri paranoici. Gli autori hanno notato anche modificazione nella cognizione sociale, osservando miglioramenti nel funzionamento interpersonale.

Realtà virtuale in terapia: quali vantaggi offre?

Uno dei grandi vantaggi dell’utilizzo della CBT basata sulla realtà virtuale è quello che essa può essere utilizzata per aggirare alcuni limiti delle terapie più classiche basate sull’esposizione. Nelle impostazioni di realtà virtuale, infatti, l’ambiente e i personaggi possono essere totalmente gestiti dal terapeuta. Ad esempio, lo studio prevedeva lo svolgimento della terapia in 4 ambienti sociali virtuali: nel mezzo di una strada, su di un autobus, all’interno di un bar e in un supermercato. Il terapeuta era in grado di controllare le caratteristiche delle risposte di 40 avatar umani, consentendo in questo modo esercizi di trattamento personalizzati per ciascun paziente.

Gli autori hanno affermato che

[blockquote style=”1″]I pazienti comunicavano con il terapeuta durante la sessione di realtà virtuale descrivendo il pensiero paranoide che scaturiva nella situazione sociale inscenata, permettendo così di abbandonare i “safety behaviors” che solitamente questi pazienti mettono in atto: evitare il contatto oculare, mantenere la distanza e astenersi dalla comunicazione[/blockquote] .

I limiti maggiori della ricerca sono risultati essere: la presenza di un unico follow-up dopo 6 mesi che non ha permesso di stabilire gli effetti a lungo termine di questa forma innovativa di CBT. Inoltre, alcuni pazienti hanno rifiutato di partecipare alla ricerca poiché ritenevano l’ambiente virtuale troppo terrificante, per questo motivo il campione non include i pazienti più paranoici ed evitanti.

In conclusione, appaiono sicuramente necessarie ulteriori ricerche per indagare l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale all’interno della terapia cognitivo comportamentale, quello che si può affermare è che emergono dati a favore dell’utilizzo di questo tipo di terapia in pazienti con disturbi psicotici e paranoidi, oltre che con i pazienti ossessivo-compulsivi come affermano diversi studi presenti in letteratura.

Yoga e ritmo di respirazione: perchè aiutano a gestire ansia e paura

Uno studio pubblicato recentemente su Nature Communication ha dimostrato l’interazione tra pattern di neuroni appartenenti al sistema olfattivo, il comportamento e il ritmo respiratorio. Un’evidenza a favore delle pratiche di meditazione e di Yoga, legate alla respirazione ritmica, nell’alleviare i sintomi ansiosi.

 

Diversi studi (Yackle, Schwarz et al., 2017) avevano precedentemente sottolineato come la modulazione delle onde cerebrali potesse anche avvenire tramite i centri del tronco dell’encefalo relativi alla respirazione; tuttavia poco si sapeva sull’impatto della respirazione sui circuiti neurali tramite il sistema olfattivo.

Con ogni ciclo respiratorio, il flusso d’aria attiva l’attività neurale nel bulbo olfattivo (OB) e nelle cortecce olfattive tramite l’attivazione dei neuroni olfattivi meccano-sensitivi nell’epitelio nasale. Quando questi neuroni sono compromessi, le attività legate alla respirazione diminuiscono (Onoda & Mori, 1980).

Tuttavia recenti studi hanno evidenziato come il flusso d’aria sia in grado di influenzare i circuiti neurali in diverse aree cerebrali oltrepassando le vie olfattive: nei ratti, la corteccia prefrontale e l’ippocampo mostrano delle oscillazioni che sono strettamente associate con la respirazione, oscillazioni che subiscono interferenze quando i segnali olfattivi periferici vengono rimossi (Biskamp, Bartos & Sauer, 2017).

Da qui l’idea che le oscillazioni in queste regioni fossero modulate dai ritmi respiratori per mantenere l’omeostasi fisiologica (Kleinfeld, Deschênes et al., 2014).

Yoga e respirazione: cosa succede nel cervello?

Basse frequenze delle oscillazioni fanno in modo che avvenga la sincronizzazione delle regioni corticali con quelle sottocorticali; queste  vengono reclutate per differenti comportamenti come si osserva nella discriminazione di stimoli avversivi e nell’espressione della paura che si producono a seguito dell’interazione dinamica fra la corteccia prefrontale, l’amigdala basolaterale e l’ippocampo (Likhtik, Stujenske et al., 2014).

Specificamente, l’espressione comportamentale delle memorie di paura, come il freezing, è associata con le oscillazioni di 4-Hz del circuito che coinvolge la corteccia prefrontale e l’amigdala (Karalis, 2016).

Partendo da tutte queste evidenze, Ma, Moberly, Schreck e colleghi (2018) hanno investigato il ruolo della respirazione e del sistema olfattivo nei circuiti preposti alle risposte fisiologiche e comportamentali della paura e dell’ansia.

In particolare nel loro studio sui ratti, gli autori, concentrandosi sulla corteccia prefrontale prelimbica (plPFC), hanno combinato l’optogenetica, l’elettrofisiologia e i comportamenti animali con lo scopo di comprendere i meccanismi che consentissero a input olfattivi di modulare i ritmi respiratori e a sua volta di influenzare plPFC e i comportamenti di freezing (Ma Moberly, Schreck et al., 2018).

Dapprima i ricercatori hanno indotto nei ratti, tramite condizionamento, il freezing, addestrandoli ad associare un suono ad uno shock. È bene sottolineare che nei ratti, utilizzati negli esperimenti, l’attività cerebrale in plPFC e nel bulbo olfattivo (OB) è stata misurata tramite elettrodi mentre questi erano in stato di freezing.

Tramite la misurazione dell’attivazione di OB durante l’inalazione di un flusso d’aria, di plPDF e del comportamento di freezing, i ricercatori hanno osservato come quest’ultimo, il ritmo respiratorio e l’attività elettrica dei circuiti neurali fossero sincronizzati e coordinati letteralmente sulla stessa lunghezza d’onda, 4 Hz (Ma Moberly, Schreck et al., 2018).

I risultati dello studio

Lo studio di Ma, Moberly, Schreck e colleghi (2018) ha dimostrato come nei topi vi sia una sincronizzazione tra respirazione nasale e comportamento rafforzando l’ipotesi per cui la respirazione ha degli effetti su di esso e sulla regolazione autonomica prodotta dai circuiti predisposti alle reazioni di paura e ansia. Gli umani diversamente dai roditori sono in grado di modificare il ritmo e la frequenza respiratoria in modo volontario e consapevole tramite la meditazione e la pratica dello yoga.

Pertanto tale studio (2018) dimostrerebbe come effettivamente un cambiamento nella respirazione possa influenzare i circuiti neurali e autonomici e di conseguenza i comportamenti e gli stati emotivi.

Sarebbe interessante investigare quale specifico pattern di respirazione sia più efficace nell’influenzare l’attività cerebrale e gli stati emotivi e se realmente diversi tipi di frequenze respiratorie hanno effetti diversi su di essi.

Le memorie traumatiche nel Disturbo Ossessivo Compulsivo – Report del seminario internazionale dell’Università di Firenze

Lo scorso 21 marzo si è tenuto presso la sede del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze, un seminario internazionale incentrato sulla rassegna di alcuni dei più recenti sviluppi scientifici nell’ambito del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo complesso.

 

Ha introdotto il seminario il Professor Davide Dèttore (Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze), che ha illustrato come indagare l’eventuale presenza di aspetti traumatici nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), soprattutto in pazienti resistenti ai gold standard del trattamento indicati nelle linee guida internazionali (tipicamente psicoterapia CBT e farmaci serotoninergici), trovi giustificazione nelle evidenze scientifiche più recenti. Vari studi negli ultimi anni hanno suggerito, infatti, che un evento traumatico possa avere un ruolo nell’eziopatogenesi del Disturbo Ossessivo Compulsivo e, in altri casi, che possa esistere un legame tra quest’ultimo ed il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).

Il Dottor Jaime Delgadillo (Department of Psychology, University of Sheffield, UK) ha presentato alcuni trial randomizzati controllati che hanno evidenziato una sinergia positiva nel trattamento del DOC associando la terapia cognitivo-comportamentale standard (CBT) all’approccio terapeutico EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), efficace nel favorire la desensibilizzazione e la rielaborazione di ricordi traumatici o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo attraverso i movimenti oculari o delle stimolazioni tattili.

Il Dottor Nitsa Nacash (Department of Psychiatry, Chaim Sheba Medical Center, Tel Ashomer, Israel) ha illustrato alcuni studi in cui sono state utilizzate tecniche di Esposizione per il trattamento di ossessioni post-traumatiche.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da relazione

L’intervento del Professor Guy Doron (Baruch Ivcher School of Psychology Interdisciplinary Center Herzliya, Israel) è stato incentrato sulla presentazione di alcuni studi sulle memorie di conflitti relazionali in soggetti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo da relazione. Si tratta di una manifestazione particolare del DOC in cui le ossessioni sono incentrate sulla relazione o sul partner. Nel primo caso, le persone si sentono perseguitate da dubbi e preoccupazioni su ciò che provano nei confronti dei loro partner, sui sentimenti che i partner hanno nei loro confronti e su quanto la relazione sia o meno quella ‘giusta’. Nel caso di una sintomatologia focalizzata sul partner, invece, il nucleo delle ossessioni è rappresentato da caratteristiche fisiche del partner, da qualità sociali o ancora da aspetti quali, ad esempio, la moralità, l’intelligenza o la stabilità emotiva. I sintomi del DOC da relazione possono essere estremamente invalidanti e ingenerare costanti richieste di rassicurazione e rimuginii.

Sono inoltre stati identificati specifici fattori di vulnerabilità, quali particolari credenze disfunzionali, perfezionismo clinico, attaccamento insicuro, tratti narcisistici e/o borderline di personalità, instabilità del . Negli studi presentati, sono stati indagati in particolare l’esposizione alla conflittualità genitoriale e a quella tra genitori e figli. E’ emerso dai risultati come l’acquisizione di modelli relazionali negativi possa costituire un fattore predittivo rispetto allo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi, oltre a causare interferenze nel funzionamento relazionale e sessuale, credenze catastrofiche in ambito sentimentale e vulnerabilità dell’autostima.

Dissociazione e disorganizzazione in pazienti DOC

Il ruolo della dissociazione e della disorganizzazione dell’attaccamento in pazienti DOC resistenti è stato illustrato dal Dottor Fabio Monticelli (Centro Clinico De Sanctis, Roma), che ha evidenziato come in questo gruppo particolare di disturbi dissociativi giochino un ruolo fondamentale i Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI). Il genitore spaventante genera uno stato mentale di paura senza sbocco alla quale si può reagire solo in termini di attacco, fuga o dissociazione. Se contempliamo l’idea di uno “spettro psicopatologico dissociativo” in cui i due poli sono costituiti, rispettivamente, dall’attaccamento sicuro e da quello disorganizzato, in quest’ultimo si riscontreranno esperienze di dissociazione come, ad esempio, dissociazione cognitivo-affettiva o congelamento (freezing).

Gli studi presentati hanno messo in evidenza come nei casi in cui i sistemi motivazionali interpersonali siano multipli, scomposti e disorganizzati si riscontrino sintomi dissociativi. Pertanto, nel trattamento di questo particolare sottogruppo di pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo potrebbe essere utile strutturare un intervento differito, nel quale si proceda anzitutto a stabilizzare i sintomi dissociativi, senza perdere di vista l’importanza della relazione terapeutica che si instaura con questi pazienti. Solo successivamente alla stabilizzazione sarebbe possibile intervenire con le tecniche CBT indicate per il trattamento del DOC, come l’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP).

Conclusioni e ringraziamenti

A conclusione del seminario, il Dottor Gian Paolo Mazzoni (Studi Cognitivi, Firenze) ha presentato tre casi complessi di DOC con diversi livelli di intensità sintomatologica che sono stati trattati in setting differenti, rispettivamente in struttura residenziale, in contesto ambulatoriale ed in studio privato. In tutti e tre i casi è stata utilizzata la tecnica terapeutica EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per gestire le memorie traumatiche e superare le resistenze al trattamento, così come indicato in ricerche recenti, in base alle quali quest’ultima può essere utilizzata in associazione alla psicoterapia CBT standard o in forma singola.

Al momento i risultati emersi rispetto al trattamento dei dati clinici e di ricerca presentati nel corso del seminario possono contribuire a delineare nuove ed interessanti prospettive di intervento da incrementare e verificare sperimentalmente per la terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo complesso.

Questo seminario ha messo ancor più in evidenza, data la complessità sintomatologica e di trattamento del DOC, l’utilità della ricerca in questo ambito, al fine di riuscire a migliorare sempre di più la qualità e l’efficacia dei trattamenti. Inoltre é emersa, altresì, l’utilità di una formazione specifica e sempre più mirata per i clinici che intendano occuparsi di questo disturbo dalla struttura multiforme e complessa.

Un sentito ringraziamento va all’Università di Firenze, in particolare al professor Dèttore, per aver ospitato e presentato l’evento, agli organizzatori quali il Dottor Pozza ed a tutti gli ospiti italiani ed internazionali che sono intervenuti con i loro innovativi contributi.

Cognitivismo Clinico n. 2, Dicembre 2017: l’ editoriale – Ricerca e psicoterapia

Questo numero speciale di Cognitivismo Clinico è dedicato alla presentazione di sette lavori, sei dei quali sono tesi magistrali che hanno ricevuto il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva” indetto dalla sezione regionale Lazio della Società Italiana di Terapia Comportamentale Cognitiva (SITCC Lazio) nel 2017.

 

La SITCC è una società scientifico-professionale che ha come oggetto sociale la promozione delle attività che conducono a un approfondimento degli aspetti teorici, metodologici, clinici e applicativi nell’approccio cognitivo e comportamentale alle tematiche e ai problemi psicologici, psichiatrici e sociali. Tale mandato statutario rispecchia la profonda convinzione della necessità imprescindibile di collegare l’intervento terapeutico alle conoscenze sulle strutture e sui processi mentali messi in luce dalla ricerca scientifica in ambito psicologico e all’obbligo di proporre trattamenti di dimostrata efficacia. Al fine di incoraggiare e promuovere la ricerca in psicoterapia cognitiva e, più in generale, nella psicopatologia sperimentale, e contribuire alla diffusione di una cultura psicoterapeutica fondata sulla ricerca sperimentale, da due anni la SITCC Lazio organizza il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva” riservato a tesi magistrali inerenti ricerche sugli esiti e sul processo terapeutico in psicoterapia cognitiva, e sui processi psicologici che generano e mantengono la psicopatologia.

Non ha partecipato al concorso per il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva”, l’articolo “La mente non accettante” anche se deriva dalla tesi magistrale di Elio Carlo, relatore Francesco Mancini, perché la tesi è stata presentata dopo la chiusura dei termini per partecipare alla selezione.

In questo numero di Cognitivismo clinico verranno presentati sette lavori inerenti temi diversi, tra cui la procrastinazione, la ruminazione e il suo ruolo nella fobia sociale, il problema secondario nella fobia sociale, il disgusto nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, i bias di memoria nella Depressione, i processi cognitivi alla base della “mente non accettante”.

Cognitivismo clinico presenta le testi di Laurea premiate

  • Il lavoro di Salvatori sulla procastinazione

Nel primo lavoro Salvatori presenta un’interessante rassegna sulle origini della procrastinazione, sui relativi meccanismi psicopatologici e sulle tecniche di intervento cognitivo comportamentali. In particolare in questo lavoro si sottolinea la trasversalità di questo processo, che accomuna diverse forme di psicopatologia come fattore di vulnerabilità e di mantenimento.

  • La ruminazione nella fobia sociale: Aquino e Liguoro con Couyoumdjian

Il secondo lavoro presentato nell’ultimo numero di cognitivismo clinico da Aquino e Couyoumdjian è una ricerca che prende in considerazione il ruolo che la ruminazione ha nel mantenimento della fobia sociale. Nello specifico hanno confrontato un gruppo di fobici sociali con un gruppo di soggetti non clinici per verificare l’ipotesi di una differente variabilità cardiaca e attivazione fisiologica associata alla ruminazione post-evento.

Il terzo lavoro di Liguoro e Couyoumdjian esamina il ruolo della ruminazione come fattore di mantenimento della fobia sociale. Nello specifico viene indagato l’effetto della ruminazione sul valore personale e sul tono dell’umore, e si osserva come il pensiero ripetitivo incrementi stati emotivi negativi, pensieri negativi e autocritica.

  • Il secondario nella fobia sociale: Morticcioli e Couyoumdjian

Anche il quarto lavoro di Morticcioli e Couyoumdjian prende in esame gli effetti del problema secondario nel mantenimento della sintomatologia della fobia sociale, tuttavia gli autori si concentrano sull’efficacia di alcune tecniche di intervento orientate alla riduzione del secondario. In sintesi, osservano che le tecniche di defusione risultano essere più efficaci rispetto all’esposizione.

  • Disgusto e DOC: Ferracuti e Couyoumdjian

Ferracuti e Couyoumdjian, nel quinto studio presentato su Cognitivismo Clinico, si propongono di differenziare i correlati psicofisiologici del disgusto morale confrontando soggetti con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e soggetti con DOC di Personalità. Effettivamente dai risultati i due disturbi si differenziano per attivazione di sistemi psicofisiologici con caratteristiche differenti.

  • Bias mnestici nel disturbo depressivo: Torre e Couyoumdjian

La sesta tesi magistrale qui presentata di Torre e Couyoumdjian ha indagato i bias mnestici nel disturbo depressivo indagandone l’associazione con gli stili di personalità di Blatt analitico e introiettivo. Gli autori hanno osservato che i depressi hanno difficoltà a ricordare singoli episodi passati, e mostrano un bias verso i ricordi a contenuto negativo, ciò riguarda soprattutto i depressi-dipendenti.

  • La mente non accettante: Mancini e Carlo

Infine, l’ultimo lavoro sviluppato da Mancini e Carlo presenta un interessante modello della “mente non accettante”, che comprende le strategie cognitive e gli stili di ragionamento che ostacolano il disinvestimento da scopi compromessi o minacciati. In altre parole, prendendo spunto dalla Hyper Emotion Theory e dalle ben note strategie cognitive precauzionali, gli autori forniscono una chiara lettura dei meccanismi cognitivi della “mente non accettante”, che sarebbero alla base dello sviluppo dei disturbi emotivi e, soprattutto, del loro mantenimento e aggravamento.

Sette: analisi psicologica dei meccanismi di affiliazione e affrancamento – Report dal webinar organizzato dall’OPL

Si è svolto lo scorso 18 aprile un interessante evento Webinar, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia e aperto ai professionisti di tutti gli Ordini regionali, che ha indagato il fenomeno delle sette e i meccanismi di affiliazione attraverso cui i nuovi adepti vengono “captati” all’interno delle sette, e realtà totalitarie, dotate di propri codici insindacabili e finalizzate all’attaccamento esclusivo agli ideali del gruppo settario.

 

Relatrice esperta la Dottoressa Lorita Tinelli, psicologo, specializzato in criminologia e fondatrice del CESAP, Centro Studi Psicologici Abusi Psicologici Onlus.

Il termine sette si riferisce alla funzione delle stesse, ovvero quella di separare, nel senso di un distacco dalle realtà sociali, alla guida di un leader con precise caratteristiche – precisa Tinelli.

Un fenomeno allarmante e che necessita di interventi di tipo psicoterapeutico e criminologico: ottomila le sette in Italia, 600 mila gli adepti in Italia e 500 milioni nel mondo, secondo un’indagine di Focus dell’Aprile 2006, all’origine di storici fatti di sangue. Resterà nella memoria collettiva il caso del reverendo Jim Jones, predicatore statunitense, che ordinò (e ottenne) il suicidio di massa di 909 membri della sua congregazione nello stato della Guayana, inclusi bambini per mano degli stessi padri. Cosa può aver spinto a tale decisione collettiva definitiva, quali i poteri carismatici di influenzamento e le finalità da attribuire al leader Jones e quali i meccanismi di controllo delle menti degli adepti?

In termini generali, finalità primaria del leader è l’indottrinamento dei suoi membri al fine di accentrare il poter su di sé, sfoderando uno spiccato narcisismo, e portando a un controllo totale dell’adepto, a vari livelli, compreso quello economico, con la frequente espoliazione dell’intero patrimonio dell’adepto o l’appropriazione dei proventi della sua attività professionale – sottolinea la docente – Nel caso Jones un genitore che decide di consegnare nelle mani del leader-predicatore il proprio figlio dimostra un totale controllo della sua mente e un’alienazione dal mondo e dalla sua funzione genitoriale. D’altronde anche i testimoni di Geova agiscono dimostrando una cieca acritica adesione alla dottrina del gruppo, quando proibiscono le trasfusioni e permettono la morte dei propri piccoli.

Un indottrinamento lento, quello delle sette, costante, inesorabile che si fonda sulle capacità seduttive del leader e sul sapiente utilizzo di tecniche di indebolimento della volontà, e che sfrutta personalità vulnerabili, malleabili, soddisfando bisogni di dipendenza affettiva.

Il leader di una setta ha precise caratteristiche che lo rendono seduttivo, in grado di vendere un prodotto che non c’è, alla ricerca di un solo vantaggio personale: si autodefinisce maestro, veggente, dedica molto tempo alla cura della sua immagine, inventando spesso anche storie false su di sé, come il possesso di lauree inesistenti, utilizzando uno stile linguistico ampolloso. Riguardo all’indottrinamento vengono utilizzati metodi scientifici per aggirare le difese psichiche, come la deprivazione del sonno, i digiuni, in grado di alterare lo stato di coscienza e facilitare l’indebolimento della volontà, oltre alle regole su chi abusare sessualmente. Ciò induce confusione mentale nei confronti di adepti di per sé vulnerabili, in particolari momenti di fragilità, che, in qualche modo, a fronte di una forza vacillante, sulla base di una scelta emotiva, sono spinti ad attribuire forza, verità, misticismo al guru, accettando fideisticamente tutto, compreso l’isolamento totale dalla famiglia e dagli amici, verso cui vinee indotta aggressività. Ben si comprendono i danni psicologici, che persistono anche dopo l’abbandono della setta: del 25%, infatti, è la percentuale di ex seguaci che soffrono di danni psicologici irreversibili, senza contare i danneggiamenti fisici che possono condurre alla morte continua Tinelli.

Nelle sette troviamo metodi comportamentali di influenzamento e convincimento a cui si affiancano tecniche psicologiche ben note nel campo della psicologia sociale, finalizzate alla persuasione e all’indebolimento delle capacità decisionali e di critica.

La tecnica dell’adescamento consiste nel dare al soggetto informazioni errate rispetto alla richiesta, aggiungendo particolari allettanti che poi verranno smentiti. Il vincolo psicologico nasce dalla credenza per il soggetto di avere preso liberamente una certa posizione, al punto da sentirsi vincolato a rispettarla, quindi a seguire la volontà e la dottrina del gruppo. Da ricordare anche la tecnica del piede sulla porta, che consiste nel coinvolgere il soggetto in un compito poco impegnativo (come la compilazione di un questionario) cui segue un altro più impegnativo. Ciò accade nei movimenti per lo sviluppo del potenziale che propongono innocui tests sulle proprie risorse personali su cui proporre dei corsi di miglioramento personale volti a colmare le carenze evidenziate dal test stesso, ma sempre più incalzanti e risolutivi rispetto al problema rilevato, e finalizzati alla dipendenza dal movimento stesso.

Un percorso di suggestione e induzione di una realtà “alternativa”, potremmo dire, che segue delle fasi specifiche, ben descritte dal modello di Steve Hassan: nella fase di decongelamento si inducono negli adepti dubbi sulla propria vita precedente, quindi vengono inseriti nuovi valori e “poteri”, come l’apprendimento di poteri magici per controllare l’ambiente o la convinzione dell’esistenza di vita ultraterrene, insomma una strutturazione di un nuovo ego più solido e forte che maschera quello precedente, e che costituisce un vero e proprio controllo del pensiero, su cui avviene infine una fissazione, un ricongelamento, una normalizzazione della “nuova vita”.

Controllo del pensiero certamente fondamentale, a cui si aggiunge un controllo del comportamento (abbigliamento per imitazione), un controllo emozionale e un controllo delle informazioni (non leggere o guardare certi programmi televisivi).

A fronte quindi della santificazione del leader che porta gli adepti a difenderlo anche a fronte di accuse di reato o di fallimenti nelle previsioni (come accade per le previsioni mai verificatesi sulla fine del mondo), frutto dell’adesione fideistica al gruppo, fonte di vita (al punto che l’espulsione equivale alla morte stessa), si pone un intervento di recupero complesso, che prevede per esempio la creazione di reti amicali, come coadiuvanti nel reinserimento sociale dell’adepto e nell’allontanamento dalla setta, e il supporto di professionisti, adeguatamente formati.

Per chi svolge la professione di psicologo non esistono corsi specifici all’interno dell’Università, per cui suggerisco una formazione eclettica per poter usufruire di strumenti operativi per la terapia, e l’appartenenza a realtà associative anche europee – conclude Tinelli.

Bullismo: un fenomeno in crescita. Come riconoscere episodi di bullismo e come intervenire

Un’importante preoccupazione con cui genitori e insegnati si trovano a fare i conti sono gli episodi di bullismo che, soprattutto tra gli undici e i tredici anni, si manifestano tra coetanei all’interno degli ambienti scolastici, ma anche sportivi.

Tale preoccupazione ha ragione di esistere soprattutto per il fatto che episodi di bullismo spesso si verificano lontano dalla supervisione degli adulti, ad esempio nei corridoi e nei bagni delle scuole, o negli spogliatoi nei contesti sportivi.

Con il termine bullismo ci si riferisce ad un insieme di comportamenti violenti, di natura intenzionale, che si protraggono nel tempo. Esso può essere di natura fisica, nel caso di agiti aggressivi e violenti nei confronti della vittima, o psicologica, che si manifesta attraverso pettegolezzi, prese in giro, ecc.. Esiste una forma di bullismo più indiretta, in cui il target dei comportamenti messi in atto dai bulli, non è la vittima, ma gli oggetti che ad essa appartengono. In questi casi, i bulli potrebbero nascondere o danneggiare oggetti che sono di proprietà della vittima, come nascondere i suoi libri o danneggiare il suo zaino.

Chi sono le vittime di bullismo?

Spesso atti di bullismo vengono prepetrati nei confronti di alcuni soggetti, piuttosto che altri, a causa dello stigma sociale, sulla base della razza, dell’orientamento sessuale, del genere o di altre caratteristiche. Da queste caratteristiche è possibile inferire che tali episodi vengano perpetrati nei confronti delle minoranze, che mostrano delle diversità, infatti, tra gli undici e i tredici anni, periodo in cui gli atti di bullismo raggiungono il loro apice, è presente un elevato conformismo tra gli adolescenti. Questo potrebbe spiegare come mai le minoranze vengano, in maniera sensibilmente più elevata, “prese di mira”.

Interventi e prevenzione

Sono state implementate diverse forme di interventi che si sono dimostrate utili nell’affrontare questa problematica. Innanzitutto, può essere molto importante portare avanti delle campagne di sensibilizzazione rispetto a tale fenomeno, che coinvolgano non solo gli studenti, ma anche i genitori. Ottenere la collaborazione e l’aiuto dei genitori è fondamentale, proprio perché episodi di bullismo sono difficili da scovare e si verificano spesso in contesti in cui gli adulti non possono esercitare la loro supervisione. Intervenire in maniera preventiva è spesso la scelta più saggia. Molte scuole, a tal proposito, adottano una politica anti-bullismo allo scopo di scoraggiare tale fenomeno, promuovendo invece la costruzione di un clima di classe basato sulla collaborazione e sulla messa in atto di comportamenti prosociali.

Data la rilevanza delle conseguenze negative a cui il fenomeno del bullismo sottopone tutti i suoi partecipanti, siano essi vittime, bulli oppure osservatori, è fondamentale che tale fenomeno non venga minimizzato o sottovalutato. Intervenire preventivamente sulla politica della scuola e sul clima di classe incide positivamente sul benessere e sul rendimento scolastico dei singoli alunni.

Farma party: la pericolosa moda delle feste a base di farmaci, sempre più diffusa tra gli adolescenti

Perché i farma party sembrano essere la nuova pericolosa moda degli adolescenti? Alcune caratteristiche adolescenziali correlano positivamente con la probabilità di mettere in atto comportamenti devianti o di utilizzare sostanze stupefacenti o, nel caso in esame, prodotti farmaceutici allo scopo di “sballarsi”.

Rachele Recanatini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I comportamenti devianti tra variabili biologiche e variabili psicosociali

I comportamenti cosiddetti devianti hanno alla base molteplici cause, che possono essere di tipo biopsico-sociale. Un atto considerato pericoloso, che viola le norme sociali, potrebbe infatti risultare multideterminato da una combinazione di variabili biologiche funzionali, come ad esempio un deficit a livello del lobo frontale, da processi psicologici, quali per ipotesi l’essere vittima di violenza e da fattori contestuali di riferimento, come l’instabilità economica (Baron, Richardson, 1994).

Durante il delicato periodo adolescenziale tali variabili risultano particolarmente significative, in quanto ricche di cambiamenti. A livello biologico si riscontra una notevole modificazione organica, nello specifico un decremento della sostanza grigia cerebrale nei lobi frontali e nella corteccia prefrontale, fenomeno chiamato “frontalization” (Rubia, 2000); un cambiamento proprio in quelle zone deputate al controllo degli impulsi, alla regolazione emotiva ed alla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni (Giedd, 2004); ciò indica come gli adolescenti siano maggiormente predisposti a fornire risposte comportamentali istintive (Yurgelun-Todd, 2006).

Le cause ambientali rivestono un ruolo altrettanto significativo. L’azione dell’ambiente appare maggiormente determinante sui minori rispetto agli adulti, a causa di una maggiore sensibilità agli stimoli esterni; infatti l’ambiente socioculturale di riferimento, ovvero l’insieme dei fattori sociali, culturali ed economici, le usanze e le abitudini, incidono profondamente sull’adolescente e sul suo eventuale comportamento antisociale (Monniello, Quadrana, 2010).

Il risk taking negli adolescenti

Numerose ricerche scientifiche sono ad oggi concordi nell’indicare come la delinquenza adolescenziale possa essere considerata una forma di “comportamento fisiologico”, che nella maggior parte dei casi regredisce in maniera spontanea (Zara, 2006). Le trasformazioni fisiologiche e psicologiche che avvengono a questa età, di fatto, incidono notevolmente sul desiderio di ribellione, di indipendenza e volontà decisionale, di contrasto con le figure di riferimento istituzionali e familiari, di accettazione nel gruppo dei pari. L’adolescente ricerca, per natura, forme di gratificazione immediata, subordinando la percezione e la valutazione delle conseguenze future (Zara, 2005). Il comportamento delinquenziale giovanile può essere visto come una modalità di risposta ad un cambiamento fisico e psicologico che l’adolescente spesso ha difficoltà a gestire, un’espressione di malessere esistenziale, una richiesta di attenzione, una curiosità di scoprire, una reazione alla frustrazione, un modo per uscire dalla noia, un sentirsi parte del gruppo.

L’insieme di tali caratteristiche definisce il concetto di risk taking, ovvero l’aumento dell’assunzione di rischio, atteggiamento tipicamente adolescenziale; un’attrazione per le sensazioni estreme, le emozioni forti, il coinvolgimento in attività pericolose, il senso di immediatezza degli agiti, la sfida verso l’autorità, la megalomania del sé ed il tipico pensiero dicotomico “tutto o niente” (Fuligni, 2002). Il sensation seeking e l’ impulse control sono costrutti alla base del risk taking adolescenziale (Lydon-Staley, Geier, 2017), e si riferiscono alla ricerca costante di sensazioni intense, che porta a voler superare i propri limiti e, spesso, a perdere il controllo.

Farma party: l’uso dei farmaci per “sballarsi”

Le caratteristiche adolescenziali elencate correlano positivamente con la probabilità di utilizzare sostanze stupefacenti o, nel caso in esame, prodotti farmaceutici allo scopo di “sballarsi”. Tale comportamento, così come altri collocabili approssimativamente tra i 12 ed i 18 anni d’età, potrebbe essere legato a cause di vario genere: l’imitazione ed il condizionamento del gruppo di appartenenza, la volontà di affermare il proprio sé ed auto-valorizzarsi, di proteggersi da eventuali insuccessi o di ridurre la consapevolezza (“non pensare”). Le sostanze scelte dai giovani sono in preponderanza facilmente recuperabili ed accessibili, rendono nell’immediato più disinibiti, euforici ed espansivi, ma provocano a lungo termine effetti drammatici quali ad esempio stati depressivi ed ansiosi, paranoia, pensieri psicotici e, in alcuni casi, pensieri di morte.

Tali considerazioni generali relative all’adolescenza possono ben rappresentare un fenomeno in recente espansione in Italia, i cosiddetti farma party. Il termine pharma parties è stato ideato dai mass media americani per descrivere feste (parties) in cui adolescenti si scambiano ed ingeriscono casualmente alcuni prodotti farmaceutici (pharma), fino ad esserne intossicati. L’8 marzo 2002 questo termine compare per la prima volta nella rivista Public Opinion di Chambersburg, in Pennsylvania, che lo descrive come problematica che coinvolge vari paesi (Shafer, 2008). Da allora vicende legate ai farma party si sono diffuse su riviste e programmi televisivi in tutti gli Stati Uniti (Shafer, 2010).

Episodi simili ai farma party erano già stati descritti durante gli anni sessanta; nello specifico, un evento chiamato fruit salad party fu segnalato il 30 marzo 1966 in una edizione della famosa rivista The Sun, nel Massachusetts. La vicenda si riferiva ad una festa in cui alcuni adolescenti portarono tre pillole ciascuno che, mescolate in una ciotola, furono ingerite casualmente. La maggior parte dei giovani fu ricoverata in ospedale ed uno di essi rimase in coma. Non furono reperite informazioni certe, nomi dei protagonisti o tipologia specifica di farmaci assunti. Le notizie relative ai fruit salad parties continuarono durante tutti gli anni settanta; in alcuni casi, fonti non ufficiali riferirono che i farmaci furono nascosti all’interno di vera e propria frutta, che gli adolescenti mescolavano creando effettive “macedonie” (Shafer, 2008). Nella maggior parte dei casi i portavoce autorevoli erano rappresentati da poliziotti o “drug counselor”, i quali non mostrarono prove effettive ma riferirono elementi salienti ascoltati dai giovani direttamente coinvolti negli episodi in oggetto.

Dal primo decennio del ventunesimo secolo si possono trovare informazioni più dettagliate relative ai farma party o, come chiamati dai media, ai pharming parties o pharming. Così come durante la prima ondata di notizie, le fonti informative furono indirette, le statistiche assenti o ingannevoli, e non fu identificato alcuno specifico incidente. Nonostante ciò, tra il 2005 ed il 2006, vennero redatti numerosi articoli relativi al fenomeno in America, dove furono trasmessi perfino episodi di telefilm incentrati sull’argomento (CSI: NY – nel novembre 2005; Boston Legal – nel maggio 2006).

Nel giugno del 2006 l’editore della rivista statunitense Slate, Jack Shafer, iniziò ad investigare sui farma party, concludendo che il fenomeno era reale, popolare e in crescita, ma molto ben nascosto e poco conosciuto ai media. Sebbene studi internazionali indicano che più di un adolescente su cinque ha abusato di prescrizioni mediche (Institute for Good Medicine, 2008), non è ancora chiaro se queste feste, specificatamente organizzate per scambiarsi farmaci, contribuiscano a tali abusi. L’ente governativo americano FDA (Food and Drug Administration) ha di recente lanciato l’allarme, con l’obiettivo di regolare il commercio di medicinali negli Usa.

I protagonisti della nuova moda dei farma party sono adolescenti che rubano all’interno delle proprie abitazioni farmaci di ogni genere, per poi portarli alle feste dove vengono scambiati ed ingeriti in maniera casuale, spesso accompagnati dal consumo di alcol. I prodotti farmaceutici possono essere di qualsiasi tipologia: antinfiammatori, antidolorifici, fino ad arrivare a psicofarmaci quali ansiolitici, antidepressivi o inibitori dell’iperattività, che spesso sono reperibili nelle proprie case, in quanto utilizzati da familiari.

Le sostanze, durante i farma party, vengono dapprima condivise in una grande ciotola, per poi essere deglutite in un mix totalmente imprevedibile, come fossero caramelle. Le conseguenze del consumo casuale appaiono naturalmente gravissime: frequenti sono i ricoveri ospedalieri per avvelenamento ed intossicazione, che nei casi più gravi si traducono in decessi.

L’elemento che appare maggiormente assurdo ed incomprensibile di questi farma party risulta essere la randomizzazione sia della tipologia di sostanza che del dosaggio. I giovani racimolano ciò che riescono a trovare all’interno degli armadietti contenenti prodotti farmaceutici nelle proprie abitazioni, li portano con sé durante le feste, spesso appositamente organizzate, dove vengono ingeriti in maniera indiscriminata, fino a far perdere i sensi. In alcuni casi gli adolescenti leggono le etichette del farmaco o si istruiscono sul web per verificare gli effetti previsti, ma una volta versati nella ciotola risulta difficile differenziare – ad esempio – l’ossicodone o la benzodiazepina da un semplice antistaminico o antibiotico, soprattutto dopo aver assunto alcol. La pillola ingerita potrebbe essere qualsiasi sostanza.

È questo l’elemento dei che maggiormente suscita preoccupazione ed inquietudine: chi è solito utilizzare droghe, o commerciarle, fino all’avvento dei farma party non avrebbe accettato di condividere un oppiaceo con il rischio di ricevere in cambio un prodotto che allevia sintomi allergici. Ciò che attrae è invece propriamente l’assunzione del rischio nel provare effetti diversi ed imprevedibili. Sostanze farmacologiche da sempre vengono utilizzate dagli adolescenti per alleviare lo stress, rilassarsi o migliorare performance scolastiche. Ben diverso da quanto invece oggi sembra accadere durante i farma party. Tra i farmaci più diffusi ci sono le benzodiazepine, gli ipnotici, gli antidepressivi ed i farmaci a base anfetaminica, usati per ridurre lo stimolo della fame. All’elenco si possono aggiungere anche medicine anti-tosse poiché alcune contengono piccole dosi di oppiacei e, infine, gli antidolorifici.

Recentemente è giunta anche in Italia questa nuova folle moda. Un importante studio modenese ha analizzato i capelli di alcuni giovani con il gas cromatografico rilevando che circa il 10% dei campioni analizzati risultavano essere ragazzi di età inferiore ai vent’anni che assumono farmaci non prescritti dal medico. Tra i positivi, il 40% ha assunto ansiolitici ed il 30% antidepressivi (Studio Lab 2000, 2010).

Oltre i farma party: altre fenomeni pericolosi che riguardano gli adolescenti

La notizia rimanda per similitudine ad un’altra malsana abitudine, derivante anch’essa dagli Stati Uniti, ovvero il Binge Drinking: il consumo di alcol in maniera occasionale ed esagerata al di fuori dei pasti. Nel 2015, infatti, è proprio il Ministero della Salute che all’interno di un report al Parlamento redatto in relazione al consumo di alcol ed alle problematiche ad esso correlate, ne denuncia la diffusione. Nello stesso anno si diffuse sul web un’altra moda statunitense altamente pericolosa: la KylieJenner Challenge, ovvero la sfida a gonfiarsi le labbra infilandole nel collo di una bottiglia ed aspirando, alterando così la circolazione sanguigna in una zona ricca di capillari, provocando lividi e tagli profondi alla bocca, allo scopo di somigliare ad un personaggio famoso.

Ma che cosa spinge gli adolescenti ad assumere comportamenti altamente a rischio? Spesso la mancata tolleranza alla noia. Un recente studio rileva come il bere in maniera occasionale ed esagerata possa essere predetto dalla maggiore propensione ad annoiarsi tipica degli adolescenti (Biolcati et al., 2016). In alcuni casi, è una condizione di vittimizzazione a poter influenzare la delinquenza giovanile. Una ricerca recente indica che giovani poli-traumatizzati risultano significativamente più a rischio di comportamenti quali binge drinking, probabilmente a causa della difficoltà di autoregolazione, ponendoli come categoria altamente a rischio verso comportamenti problematici a lungo termine (Davis et al., 2018).

Cause diverse spingono dunque gli adolescenti alla ricerca di un elevato rischio e di sensazioni estreme allo scopo di divertirsi: una netta diminuzione del senso di responsabilità al fine di sentirsi potenti e sicuri, durante agiti di natura differente, come atti sessuali promiscui, violenza ed aggressività fisica, guida imprudente e in stato di ebrezza, binge drinking o, nel caso in esame dei farma party, assunzione sregolata di farmaci.

I farma party rappresentano una roulette russa in cui i farmaci, assunti in maniera esagerata, casuale ed associata al consumo di alcol, provocano gravissimi danni alla salute, fino al possibile decesso. Il rischio è amplificato dalla totale inconsapevolezza del tipo di compresse ingerite: antidolorifici, antinfluenzali, ansiolitici o antidepressivi combinati insieme hanno effetti devastanti sul cervello e sul corpo. In particolare, danni elevati vengono riscontrati a livello del sistema cardiocircolatorio, neurologico e cerebrale: l’abuso di benzodiazepine, ad esempio, può portare all’ipotrofia, ovvero alla riduzione del volume del lobo frontale, struttura deputata a molteplici funzioni cognitive, quali l’attenzione, il coordinamento e il controllo del comportamento volontario. Lesioni significativamente più gravi se le sostanze vengono assunte durante la fase adolescenziale di sviluppo e crescita psicofisica. Inoltre, l’associazione di alcuni psicofarmaci con l’alcol deprime ed indebolisce le funzioni neuro-psichiche. In un sempre maggior numero di casi, anche nel nostro paese, il desiderio di provare forti emozioni partecipando ad un farma party procura overdose letali.

Breve storia teorica della terapia cognitivo comportamentale tra funzionalismo e strutturalismo

Una versione un po’ diversa di come è nato il cognitivismo clinico racconta un’evoluzione non proprio armonica dal comportamentismo al cognitivismo, fino a quella che oggi viene definita “terza onda”.

 

In un articolo che abbiamo appena pubblicato sul Journal of Rational Emotive and Cognitive Behavior Therapy e che qui potete scaricare in formato pdf, presentiamo la nostra versione della storia del movimento cognitivo clinico – sia americano che italiano – di fronte alle sfide a cui è andato incontro degli ultimi anni, sia in termini di cosiddetta “terza onda” (vedi Dai contenuti ai processi mentali: la terza ondata della Terapia Cognitiva) che di integrazione con gli interventi relazionali (vedi La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”).

Narriamo un racconto un po’ diverso dalla storia del comportamentismo che si sarebbe armonicamente sviluppato in cognitivismo e che a sua volta sarebbe sfociato – un po’ meno armonicamente – nella “terza onda”. Nella nostra storia, invece, vi è una posizione iniziale che denominiamo “funzionalista” e che fu quella del comportamentismo e poi del primo cognitivismo teorico/sperimentale, ma non del cognitivismo clinico. La posizione funzionalista mostrò alcuni limiti pratici nelle applicazioni cliniche ma aveva in sé un rigore e una correttezza che poi in parte abbiamo trascurato a favore della significatività clinica. Beninteso, riteniamo che fosse un passaggio necessario e nessuna perdita è mai definitiva, tutto può essere recuperato.

Vi fu poi una prima forte crisi – non un’evoluzione armonica – che portò alla svolta clinica, cognitiva di Beck e costruttivista di Mahoney e Guidano, svolta che denominiamo “strutturalista” e che corrispose ad alcuni bisogni clinici concreti e che portò a un grande passo in avanti a cui non vogliamo rinunciare, ovvero la superiore efficacia specifica della terapia cognitivo-comportamentale per alcuni disturbi-bersaglio, ma che determinò anche – a nostro parere – alcuni fraintendimenti teorici su cui è bene riflettere, senza catastrofismi.

Noi proponiamo che la svolta cognitiva nella clinica non fu propriamente l’esatto corrispettivo della “rivoluzione cognitiva” che era avvenuta nel campo teorico-sperimentale. Essa fu anche un primo esempio, in parte felice ma non del tutto, d’integrazione tra concetti che non appartenevano all’impostazione funzionalista e alla sua attenzione per i processi mentali. Si introdussero concetti che ipotizzavano strutture sottostanti, soprattutto quelle centrate sul sé. E’ questo passaggio dalle funzioni mentali alle strutture psicologiche che ci fa chiamare questa evoluzione “strutturalista”.

Si noterà che in questa nostra storia il cognitivismo di Beck e il costruttivismo di Mahoney e Guidano sono raccontati nelle loro somiglianze e comunanze e non – come si fa di solito – nelle loro differenze.

La storia prosegue sostenendo che alcune caratteristiche “strutturaliste” di Beck, Mahoney e Guidano abbiano prodotto alcune conseguenze in parte positive ma con alcuni rovesci della medaglia. L’aspetto migliore fu quello che portò alla fioritura delle procedure efficaci di Beck e alle intuizioni cliniche sull’importanza della storia di vita di Mahoney e Guidano, insomma gli sviluppi esplorativi ed evolutivi tipici del costruttivismo in tutte le sue declinazioni.

Altri aspetti della svolta ci lasciano più perplessi. L’attenzione data alle credenze centrate sul sé – la cosiddetta self-knowledge – ebbe un grande valore clinico e pratico, ma spostò l’attenzione dei clinici lontano dai processi e dalle funzioni mentali a favore di concetti strutturali, come appunto il sé o i significati personali. I concetti “strutturalisti” come il sé erano forse più maneggevoli e intuitivamente comprensibili per il clinico. Questo però forse generò un interesse verso la storia di vita del paziente come scoperta di sé clinicamente promettente, ma anche a rischio di riduzione della terapia (e della relazione terapeutica) a un lavoro di scoperta esistenziale a due – terapista e paziente – emotivamente ricco ma operativamente vago e dalla efficacia non chiarissima, con scarsa attenzione alla condivisione contrattata con il paziente di un modello di funzionamento e di apprendimento di un funzionamento diverso.

Insomma, forse si perse qualcosa della rigorosità dell’impostazione funzionalista del cognitivismo e comportamentismo iniziale. Perdita parziale che forse contribuì al calo di fiducia nell’intervento esplicito sulle funzioni esecutive e consapevoli del paziente a favore di interventi provenienti da altre tradizioni, la cui integrazione nel cognitivismo/comportamentismo è – a nostro parere – ancora tutta da elaborare teoricamente.

La nostra storia si conclude con una descrizione forte della “terza onda” come recupero del funzionalismo – ovvero il recupero del rigore teorico del comportamentismo – tenendo però presente il meglio della seconda onda di Beck, Mahoney e Guidano, ovvero l’operatività clinica e non da laboratorio, applicata finalmente sul giusto bersaglio scientifico: i processi mentali.

Memoria autobiografica: scopi e funzioni nella nostra vita quotidiana

Negli ultimi anni la memoria autobiografica è stata oggetto di numerose ricerche che hanno avuto come focus concettuale il capire come essa agisca, qual è la sua finalità e perché alcuni episodi della propria vita sono meglio ricordati di altri.

 

Relativamente all’utilizzo della memoria autobiografica da parte degli individui, essa viene usata per tre scopi ben precisi, ovvero per pianificare i propri comportamenti presenti e futuri, per sviluppare la percezione della continuità della propria storia di vita, per avere cognizione delle interazioni sociali che si sono strutturate nel tempo (Bluck e al., 2005).

 

Primo scopo della memoria autobiografica: la pianificazione del comportamento

Riguardo alla prima funzione, è noto come l’esperienza passata, che entra a far parte della memoria autobiografica, serva a direzionare le condotte del presente e del futuro. In pratica, le informazioni desunte dalla propria storia di vita diventano un archetipo che dirige la capacità di decidere per il presente e per il futuro e fungono da ancora a cui l’individuo può aggrapparsi nei momenti di incertezza (Baddley, 1988; Bluck e al., 2005). Inoltre, le informazioni desunte dalla memoria di tipo autobiografico costituiscono una cognizione utile per capire il comportamento degli altri, inquadrandoli in una cornice di continuità e di prevedibilità, con l’obiettivo di capire meglio il contesto sociale nel quale si vive (Robinson e Swanson, 1990). In aggiunta, la memoria autobiografica ha una funzione di apprendimento che si palesa, soprattutto, in ambito morale, ossia le condotte del passato possono aiutare l’individuo a comportarsi diversamente, laddove i propri comportamenti sono stati fonte di sofferenza per l’alterità (Bluck e Gluck, 2004).

Secondo scopo: garantire un senso di continuità e di stabilità del sé

Riguardo alla seconda funzione, la memoria autobiografica gioca un ruolo importante in quanto fornisce i costrutti necessari a creare una stabile e duratura immagine di sé. In altre parole, le notizie ricavate dalla propria autobiografia sotto forma di ricordi danno il senso di continuità che accompagna il proprio divenire. In pratica, malgrado l’individuo possa fare esperienze disomogenee e frammentarie nel suo arco di vita, la memoria di tipo autobiografico crea l’unitarietà dell’agire come specchio di un sé che si è costruito nel corso del tempo e questo assicura il senso dell’identità personale (Bluck e Alea, 2008).

Terzo scopo: sviluppare e mantenere le relazioni sociali

Relativamente alla terza funzione, ossia quella sociale, la memoria autobiografica serve a selezionare e a far perdurare le relazioni sociali. In altri termini, attraverso la memoria autobiografica il soggetto sceglie quali relazioni sociali coltivare e consolidare e quali, invece, recidere, in quanto i ricordi delle interazioni sociali passate divengono un’unità di misura con cui soppesare le nuove conoscenze sociali (Bluck e al., 2005; Rasmussen e Habermas, 2011).

L’utilizzo delle tre funzioni a cui è deputata la memoria autobiografica varia nel corso del ciclo di vita. Come differenti ricerche hanno evidenziato (Baltes e al., 2016; Vranić e al., 2018), esiste una differenza generazionale nell’uso della memoria autobiografica. Infatti, i soggetti più giovani (età media 28 anni) tendono ad utilizzare più frequentemente, rispetto alle persone più anziane (età media 60 anni), la memoria autobiografica per dirigere i propri comportamenti e per avere la continuità e la stabilità del proprio sé. Le stesse ricerche, inoltre, hanno mostrato che le donne si servono più degli uomini della memoria autobiografica per calibrare le proprie azioni.

In conclusione, la memoria autobiografica è adoperata per tre ragioni principali, ossia per meglio calibrare le proprie condotte, per sviluppare il senso del sé e per selezionare i rapporti sociali.

Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse (2017) di M. C. Strocchi, S. Raumer e T. Segato – Recensione del libro

Cosa porta una persona a diventare affettivamente dipendente da un’altra? Quali sono i tratti di personalità che contraddistinguono le vittime e i carnefici di relazioni basate su violenza e manipolazione? Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse cerca di rispondere a questi e a molti altri quesiti, già dalle prime pagine.

 

Sempre più frequenti, tra le pagine di cronaca nera, gli episodi di femminicidio: cambiano i nomi, i luoghi, i tempi ma la modalità tende a ripetersi. Un copione scritto infinite volte che vede come protagonisti due amanti, una coppia apparentemente normale a detta di vicini e conoscenti ma sui quali, man mano che si scava nella vita di coppia, piombano molte più ombre di quelle non viste dagli altri. Ombre pesanti, incatenanti come la gelosia, la manipolazione, la dipendenza affettiva e la violenza. L’epilogo è sempre lo stesso: lui, geloso e violento, che picchia, maltratta e uccide lei, dipendente da lui, la donna di cui si diceva innamorato, spesso compagna e madre dei suoi figli.

Quello presentato è il quadro più estremo di una relazione patologica, per nulla sana. Altri quadri di questo tipo di relazione, certamente non così estremi ma per nulla scevri da negativi impatti psicologici (e non solo), si dipingono tra le quattro mura domestiche, in cui tra i partner si instaura un perverso gioco di manipolazione e violenza. E a volte a farne le spese non sono solo le donne: anche gli uomini possono diventare vittime di una relazione asimmetrica, dipendenti dalla partner, soggiogati dai ricatti morali e materiali o dalla personalità dominante della propria compagna.

Cosa porta una persona a diventare affettivamente dipendente da un’altra? Quali sono i tratti di personalità che contraddistinguono le vittime e i carnefici di queste relazione d’amore surrogato? Cosa si può fare se pian piano ci si rende conto di essere imprigionati in una relazione del genere?

Liberarsi dalla dipendenza affettiva: perché si diventa dipendenti dall’altro?

Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse di Maria Cristina Strocchi, Sonny Raumer e Tullio Segato, cerca di rispondere a questi e a molti altri quesiti, già dalle prime pagine.

Il libro si apre con un’introduzione che cerca già di spiegare in che modo la società spinge le persone a diventare dipendenti dal proprio partner: in un’epoca caratterizzata da incertezza e cambiamenti repentini che difficilmente si è in grado di gestire, preferiamo seguire i sicuri binari del “accontentati di quello che hai” oppure “non lasciare la strada vecchia per quella nuova, sai quello che lasci ma non quello che trovi”. A ciò si aggiungono le vecchie regole di rapporto fondato sulla sopportazione reciproca, sulla fedeltà, sul rimanere insieme per i figli, per i genitori, per la casa, per i soldi o per la paura di rimanere soli.

Gli autori sottolineano come la dipendenza affettiva abbia due protagonisti: il dominato e il dominante, entrambi incatenati nel gioco della violenza e della manipolazione.

Cosa porta una persona a diventare dominato o dominante? Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse lo chiarisce fin da subito: al di là del ruolo che attualmente ricoprono, i partner che si incastrano in questo gioco di potere e sottomissione hanno sofferto nella loro infanzia, sebbene da adulti, pur avendo la stessa matrice, sviluppano modalità relazionali opposte.

Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse si divide in due parti: la prima si concentra sulla definizione di dipendenza affettiva, mentre la seconda illustra delle mosse pratiche per gestire le relazioni poco sane e crearne di nuove, più soddisfacenti.

La prima parte del libro, come anticipato, spiega cos’è la dipendenza affettiva. Tutti noi abbiamo sperimentato una condizione di dipendenza affettiva “sana”: da bambini, per esempio, quando i nostri genitori ci accudivano in modo affettuoso ed equilibrato, ma anche nel rapporto con il partner può manifestarsi un po’ di sana dipendenza dall’altro, a patto che ci si senta liberi di “fare e di essere” all’interno del rapporto di coppia.

Quando allora la dipendenza dall’altro diventa un problema? Lo diventa quando il partner rappresenta il nostro unico obiettivo di vita, quando pensiamo che possa essere l’unico che risolverà i nostri problemi personali, quando non abbiamo dell’altro una visione realistica (con pregi e difetti… e spesso questi ultimi sono evidentissimi ma negati), quando la nostra stessa esistenza viene messa in secondo piano rispetto a quella del nostro partner.

In Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse vengono presentate poi, in maniera dettagliata, le caratteristiche dei due protagonisti della dipendenza, partendo dalla vittima. Molto spesso donna, l’età è estremamente variabile. Quasi tutte però presentano dei tratti in comune: sono donne con scarsa autostima che cercano spasmodicamente la conferma dal partner di essere persone di valore; hanno paura dell’abbandono; attribuiscono a loro stesse la responsabilità del buon funzionamento della coppia. Spesso hanno una personalità dipendente che le porta a cercare negli altri le fonti di sostegno e affetto, di cui non possono fare a meno. Con il tempo queste persone riescono a consolidare questo “stile di vita” e divengono delle vere esperte nello scegliere partner incapaci di donare amore.

D’altro canto vi è il dominante, dai tratti narcisistici di personalità molto evidenti oppure si mostra debole, remissivo ma in grado di mettere in atto molti comportamenti di tipo manipolativo, utilizzando questa presunta debolezza per mettere in scacco il partner. I primi, più frequenti, sono persone con un senso grandioso di importanza, hanno bisogno di costante ammirazione, sfruttano gli altri per i loro scopi; Inizialmente persone di questo tipo possono realmente esercitare un certo fascino sugli altri. Con il tempo però questo velo d’apparenza cade e rimangono dei comportamenti deleteri, maleducati, che tendono a svilire il partner creando elevata conflittualità all’interno della coppia.

Gli autori continuano così illustrando quali sono le personalità più predisposte a diventare dominatrici e dominate, concentrando la loro risposta su personalità narcisistiche (quelle dominatrici) e dipendenti o border (quelle dominate).

Un capitolo è dedicato alle definizioni di manipolazione affettiva e di violenza, non solo fisica ma anche psicologica, spesso più subdola e più frequente nelle relazioni tra dominato e dominante. Seguono numerosi casi clinici che aiutano il lettore a comprendere meglio la multi-sfaccettatura del fenomeno.

A questo punto gli autori di Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse forniscono delle utili indicazioni su come valutare il livello di gravità della dipendenza dall’altro, basandosi soprattutto sulla motivazione al cambiamento di chi ne è vittima, sulla comoribilità con altri disturbi psichici o di personalità, sulle caratteristiche del partner e sulla condizione socio-economica.

La seconda parte del libro si concentra sulle mosse pratiche per liberarsi dalla manipolazione. In particolare viene descritto in che modo chiudere la relazione con un manipolatore violento e come difendersi in caso di bisogno (molto importante rivolgersi a professionisti e forze dell’ordine).

Vengono successivamente offerti degli esercizi pratici di autostima ed esercizi pratici per accettare, gestire e comunicare le proprie emozioni. Il focus si chiude poi su modalità e tecniche di comunicazione efficace, per esprimere i bisogni e le necessità e per difendersi dalla prepotenza altrui.

Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse è un libro che aiuta a comprendere quando dovrebbe attivarsi un campanello d’allarme nella relazione con l’altro. Al contrario di quanto il titolo possa lasciar intendere, è messo in evidenza quando è necessario rivolgersi a professionisti e forze dell’ordine per venir fuori da una relazione pericolosa e quando invece si può imparare in autonomia a interrompere i cicli disfunzionali messi in atto nella relazione con l’altro. Scritto in modo molto chiaro, ha il pregio di essere un testo di semplice lettura: nozioni di psicologia e psicopatologia diventano così accessibili a tutti, non solo ai professionisti del settore.

Social Network delle mie brame, chi è il più fragile del reame?

Cosa attira le persone sui Social Network? Quali sono i rischi psicologici profondi? Relazioni sociali e identità mediate sui Social dal punto di vista psicodinamico.

 

Facebook, Instagram ed altri Social Network sono ormai utilizzati quotidianamente in maniera più o meno assidua e hanno dilagato in poco tempo conquistando dai più piccoli ai più anziani. È interessante provare a capire che cosa ha attirato le persone su questi Social Network, ma anche quali sono i rischi psicologicamente più profondi, oltre ai ben più noti vantaggi, da un punto di vista psicodinamico.

Iniziamo con il dire che un Social come Facebook concede una possibilità unica nel suo genere: avere un profilo consente di essere parte di un “tutto sociale” senza investire in un contatto reale, vìs à vìs. La parola “virtuale”, in effetti, significa che esiste in potenza ma non si è ancora realizzato: siamo sul tagliente orlo della logica del “potenzialmente sì ma di fatto no”.

Social Network e relazioni: sé – sé virtuale – altro virtuale

Se si parte da questa premessa si può dedurre quale tipo di relazione con l’altro si instaura: una relazione che lo implica solo nella misura in cui questo fa da pubblico, da supporto all’Io, senza uno scambio relazionale vero e proprio. Un utilizzo dell’altro esclusivamente in funzione di oggetto e non di soggetto, in un contesto virtuale che trasforma le emozioni e reprime molte delle responsabilità etiche (per esemplificare basti pensare agli ormai numerosi casi di cyberbulling che sono tragicamente sfociati in suicidio).

Su Facebook ci si può esprimere senza avere l’obbligo di considerare ciò che esprimono gli altri, interpretare frasi e immagini secondo la propria esperienza e lo stato umorale del momento. L’autoreferenzialità è un aspetto dominante e produce quello che M. Franchi e A. Schianchi (2011) chiamano un rischio di isolamento solipsistico. Il rischio di isolamento è infatti alto ed è la quotidianità ad insegnarlo: basta osservare un qualsiasi contesto sociale ordinario per vedere come la nuova tecnologia cellulare sembri parte integrante del corpo; in altre parole, ironicamente, l’articolazione superiore non finisce con la mano, ma con lo Smartphone, lo sguardo è basso e l’attenzione è focalizzata lì. Si osservano persone raggruppate ma sole, ritirate in un mondo di “sé-sé virtuale-altro virtuale”.

Social Network e identità

Bruckman (1992) definisce i cyberplace come Facebook dei puri simulacri autoreferenziali. Questo spazio virtuale viene utilizzato spesso come un laboratorio per la propria identità, quello che l’autrice definisce “Identity Workshop”. Che cosa significa?

Se ci pensiamo, Facebook permette di incorniciare il Sé in un quadro che è possibile abbellire e levigare, smussandone con acquarello o candeggina gli aspetti inaccettabili. I Social Network come Facebook danno in effetti la facoltà di scegliere accuratamente il modo in cui presentarsi su questo “palcoscenico digitale”, tramite immagini, frasi, video, che vengono date in pasto al pubblico;

L’ aspetto narcisistico presente in ogni persona viene a patti con il voyeurismo di chi guarda la pagina profilo (E. Menduini, G. Nencioni, M. Pannozzo, 2011)

La componente voyeurista, e la sua gemella esibizionista, suggeriscono qualcosa nell’ordine di quella che in psicoanalisi viene chiamata perversione: sostanzialmente il paradosso dell’avere un bisogno viscerale di qualcosa dall’altro, ma volerlo ottenere senza passare dall’altro come soggetto.

Su questa linea notiamo che esiste una solida ed adesiva identificazione tra il Sé e l’Ideale, che trasforma il Soggetto in oggetto: questo risulta non soltanto dalla tendenza a pietrificarsi nell’immagine illusoria e perfetta del proprio profilo Social (che a sua volta tenta di copiare quella del canone sociale), ma anche dall’intenzione di voler proporre questo Sé come oggetto, nella sua massima esposizione sregolata di cui, inconsciamente si auspica, l’altro possa godere. Questo processo avviene in maniera prevalentemente ego-sintonica: se prendiamo ad esempio i profili Instagram più cliccati, proporre immagini di sé sessualmente esplicite è divenuto un vanto ed una qualità che vorrebbe incarnarsi. Probabilmente l’idea che questi soggetti hanno, e vorrebbero far passare, è che l’immagine profilo costituisca la realtà, o meglio, che quella sia la verità sul corpo e sulla loro identità. Questo serve a potersi dire “è così che sono”.

Social Network e immagine di sé perfetta

In alcuni casi la serie delle immagini proposte è serialmente tutta uguale: questo richiama qualcosa della ripetizione come godimento (inteso Lacanianamente come ripetitività spasmodica del sintomo) un voler essere ripetitivamente, ritualmente, statuariamente perfetti, non accettando la minima variazione che, umanamente, il corpo subisce di ora in ora per condizioni interne ed esterne. I cosiddetti “filtri” delle nuove applicazioni fotografiche servono proprio a questo: a togliere, forse denegare nei casi più gravi, ogni sbavatura, ogni differenza dall’Ideale. Il sembiante della foto perfetta viene confuso, mescolato con l’essere reale del soggetto.

L’annullamento della differenza tra essere e sembiante, tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce, […] avviene […] per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. È ciò che Cristopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l’espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come distruzione del fattore soggettivo. (M. Recalcati, 2010).

Da un punto di vista psichico strutturale, l’Immaginario dell’individuo in questi casi è sovra saturo, carico del peso dell’immagine identificatoria e ideale che non può né scalfirsi né modificarsi: il costo sarebbe quello di un crollo narcisistico, probabilmente depressivo.

Social Network e narcisismo

L’esasperazione dell’immagine, sempre più a ridosso del limite pornografico, sembra voler disperatamente gridare: “Guardami!”. L’ipotesi è, come accennato, che sia fortemente in gioco l’integrità narcisistica e, di conseguenza, esistenziale: Narciso, in fondo, specchiandosi in una fonte non cerca se stesso, ma se stesso arricchito dallo sguardo (…). Il mito di Narciso ricorda che, in alcuni soggetti psichicamente più fragili, esiste un legame tra l’amore e la conferma della propria esistenza: je t’aime = aime-moi ; je t’aime = j’existe (J. McDougall, 1976). L’impressione è che questi individui rischino la vita, che necessitino lo sguardo su di sé a tutti i costi, o il costo sarebbe quello della disintegrazione narcisistica. Tristemente, ma secondo la parte istintuale della nostra natura, l’ipersessualizzazione dell’immagine costituisce la via che attecchisce più facilmente, la via che può attirare più velocemente e più voracemente lo sguardo dell’altro.

Per dei motivi che andrebbero indagati più a fondo, questo interessa soprattutto il genere femminile:

Il corpo alla moda è il corpo che una donna deve avere per esistere come donna di fronte al sistema del grande Altro contemporaneo e al suo sguardo onnipervasivo. Sottolineo i due verbi: dovere e avere (M. Recalcati, 2010).

Il primo verbo servile ha a che fare con un imperativo categorico che non appartiene alla potenza del Super-Io, ma alla predominanza dell’Es come pura spinta al godimento. Il secondo, avere, è in contrapposizione con l’essere del Soggetto: egli non la possibilità di essere a partire dalla mancanza, ma solo di avere come direttiva di esistenza che si basa sul possedimento di un oggetto, il quale, una volta perso, lascia un vuoto che non può essere significato, simbolizzato, pensato o mentalizzato.

Per meglio comprendere la questione sul corpo si può partire dalla

[…] figura clinica dell’isteria, che non insegna solo che il corpo parla e parla là dove soffre, nei sintomi, nelle cifrature enigmatiche scritte sulla carne del corpo, ma anche che il corpo sfugge sempre ad ogni disegno della padronanza dell’Io. Il corpo isterico rivela, infatti, una plasticità camaleontica, metamorfica, imprevedibile che l’Io non può affatto governare. Questo aspetto del corpo isterico ci pone di fronte non a una patologia ma ad una verità: il corpo non è mai una proprietà del soggetto. È l’illusione filosofica di una certa fenomenologia – e in gran parte ormai della donna moderna – pensare che io sono il mio corpo e che il mio corpo è ciò che io più profondamente sono, ovvero pensare che io non ho ma sono il mio corpo (M. Recalcati, 2010).

In questo modo si spiega lo spasmodico utilizzo del corpo come strumento goduto e godibile, di cui una delle conseguenze risulta molto spesso la mancanza, riscontrabile nella clinica, di sintomi che siano metaforici; il “sintomo dell’avere” non parla, devasta direttamente il corpo somatico, senza mediazioni rappresentative.

Se tutto ciò può dare uno spunto al lavoro psicologico e terapeutico, vale la pena considerare il ruolo che può avere l’utilizzo dei Social Network in persone psicologicamente già fragili da un punto di vista strutturale e narcisistico, oltre a cogliere precocemente i campanelli di allarme di un utilizzo scorretto di queste piattaforme virtuali soprattutto nei giovanissimi e negli adolescenti.

Je so’ pazzo (2018) – Recensione del documentario di A. Canova sull’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli

“Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura medicina e giustizia dovrebbero esistere”.

 

Con queste parole di Franco Basaglia si apre il documentario di Andrea Canova. Sant’Eframo Nuovo è un ex OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ricavato da un vecchio monastero e dismesso nel 2008 perché ritenuto inagibile. Dopo 7 anni di abbandono, nel 2015, mentre in Italia si chiudevano gli altri OPG, l’edificio è stato riaperto e occupato per essere trasformato in un centro sociale nel senso letterale del termine, una casa del popolo, un punto di incontro per tutti.

Per secoli luogo inaccessibile, isolato dalla vita del quartiere, teatro di disgregazione delle relazioni e di annichilimento dell’essere umano, è diventato uno spazio di libertà e di apertura alla comunità.

Je so’ pazzo: Sant’Eframo raccontato da Canova

Andrea Canova scandisce il suo racconto con l’alternarsi di immagini dei nuovi spazi pieni di colore del centro sociale, che hanno ripreso vita grazie ai numerosi progetti di accoglienza e sostegno alla comunità, e le immagini di stanze vuote, grigie e abbandonate che Michele, un ex internato, attraversa narrando, nelle pagine del suo diario, durante gli anni della sua detenzione. Michele è uno dei fortunati, perché ha trascorso in Ospedale Psichiatrico Giudiziario “solo” 5 anni e non ha subìto gravi abusi. Altri non sono stati così fortunati e hanno trascorso in quelle condizioni la maggior parte della loro vita. La durata della reclusione in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, infatti, non era stabilita in modo definitivo, ma le misure di sicurezza potevano essere prorogate fino a trasformarsi di fatto in “ergastoli bianchi”. Molti, troppi, non sono riusciti ad adattarsi a vivere da reclusi e dimenticati e hanno trovato nel suicidio l’unica via di fuga.

Ospedale psichiatrico giudiziario: la testimonianza di Michele

Michele racconta la vita e l’alienazione degli internati, gli abusi di potere, le violenze, la difficile convivenza forzata in spazi ristretti, in cui regnavano gli odori acri e la mancanza d’igiene, la solitudine dolorosa. Dalle sue parole, dai suoi diari, dalle sue lettere, dai versi delle sue poesie emerge lo spaccato di una realtà che il mondo esterno ha cercato di ignorare, di cui ha cercato di liberarsi confinandolo fra quelle mura. Poche tracce della memoria di Sant’Eframo sono sopravvissute agli anni di abbandono e gli scritti di Michele sono la testimonianza più significativa della sua storia dimenticata.

Je so’ pazzo: la rinascita, oggi

All’orrore di questo “carcere disumano” e del suo “popolo di dimenticati” fa da contraltare il coraggioso tentativo del collettivo di trasformare quei luoghi in uno spazio di accoglienza per tutti. Numerosi volontari mettono a disposizione professionalità, impegno e umanità per costruire una vera e propria comunità. E’ stata allestita una palestra, ci sono corsi di teatro, di ballo, un corso di italiano per immigrati, una camera popolare del lavoro, un ambulatorio medico e supporto psicologico. I ragazzi vengono qui a studiare, vengono aiutati a fare i compiti, giocano a pallone e in questo modo si tengono lontani dal “fare guai” per strada.

I colori dei murales, il suono della musica, i concerti fanno da cornice alle iniziative sociali. L’opera del collettivo dell’ex Ospedale Psichiatrico GiudiziarioJe so’ pazzo” è la testimonianza di un grande impegno a trasformare quello che per lunghi anni è stato teatro di continue violazioni di diritti umani in luogo di accoglienza e sostegno alle persone, un impegno affinché “non ci siano più esseri umani di serie B”.

 

JE’ SO PAZZO – IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

 


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Affido familiare: accogliere il minore in difficoltà, sostenendo la sua famiglia d’origine

Diversamente dall’ adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’ affido familiare consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

 

Affido familiare: definizione e differenze con l’ adozione

Diversamente dall’ adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’ affido familiare consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

In Italia l’istituto dell’ affido familiare è regolamentato dalla legge 149/01, in cui si afferma il diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia e, in mancanza di essa, a poter fruire delle cure di una famiglia altra, che possa quindi esercitare una funzione vicariante. Attualmente i minori in affidamento in Italia sono circa 16.800, si tratta pertanto di un fenomeno estremamente diffuso nel nostro Paese, che riguarda tutte le fasce di età e comprende tanto gli affidi etero-familiari quanto quelli intra-familiari (Moretti et al., 2009).

L’ affido familiare, pertanto, si configura come intervento di accompagnamento e supporto alla famiglia di origine, avendo come obiettivo il successivo rientro del minore nel contesto familiare naturale. Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia, l’intervento di affido familiare avviene ad opera dei servizi territoriali di Tutela Minori su incarico dell’Autorità Giudiziaria Minorile, che è garante della protezione dei più piccoli in casi di potenziale pregiudizio.

Ma in quali situazioni è richiesto un intervento di tal genere? Tra le più frequenti troviamo: la malattia di un genitore, la sua carcerazione, la fragilità psicologica o anche la psicopatologia di un genitore.

Le potenzialità dell’ affido familiare sono numerose, ma in esso sono insiti altrettanti rischi. Inserirsi in una nuova famiglia, può significare per il bambino conoscere e sperimentare stili di attaccamento nuovi, andando così a modificare i propri Modelli Operativi Interni, utili a comprendere se stesso e il mondo che lo circonda. In tal senso l’ affido si configura come un’esperienza correttiva e positiva, capace di interrompere i precedenti cicli interpersonali disfunzionali interiorizzati dal bambino nella sua famiglia di origine.

Tuttavia l’ affido familiare porta i suoi protagonisti a fare i conti con una perdita: il minore viene separato dalla famiglia di origine e a volte dal suo intero contesto di vita. Perdita dunque delle abitudini ma anche dei suoi riferimenti.

Dall’ affido all’ adozione: la legge del 15 Ottobre 2015

Il 15 ottobre 2015 è stata approvata la Legge che sancisce il diritto alla continuità degli affetti da parte dei minori che vivono l’esperienze dell’ affido familiare.

L’ approvazione è stata ottenuta dopo una lunga attesa e un lungo lavoro da parte di moltissime associazioni che hanno spinto per il riconoscimento della continuità degli affetti stabilita dal bambino con le figure affettive che si sono prese cura di lui nel periodo dell’ affidamento familiare.

La legge definisce che la famiglia che accoglie un bambino in affido, nel caso in cui si presenti una situazione di adottabilità del minore, potrà inoltrare richiesta di adozione del minore grazie al riconoscimento della continuità affettiva stabilita tra loro.

La legge si configura come un superamento della parte della legge 184/1983 che impediva l’ adozione del minore da parte degli affidatari, anche quando era presente un legame affettivo positivo e funzionale alla crescita del bambino. Un punto questo che stonava con l’attenzione che la legge 184/1983 dava al diritto del minori di vivere in famiglia, grazie all’affidamento famigliare e all’adozione. Si può facilmente comprendere come ciò avesse un effetto deleterio sulla vita del bambino e delle famiglie affidatarie, proprio perché interrompeva la continuità affettiva consolidata nella famiglia e decretava un ulteriore separazione dalle persone che erano diventate dei sostituti genitoriali, un’ulteriore perdita.

La legge sulla continuità degli affetti finalmente interviene su questo punto permettendo alla famiglia affidataria di inoltrare richiesta di adozione del minore o di mantenere i contatti con egli nella situazione in cui, invece, venga adottato da un’altra famiglia.

Un altro aspetto assolutamente degno di note è il riconoscimento del diritto della continuità affettiva anche quando il bambino rientra nella famiglia d’origine o viene adottato da un’altra famiglia: la legge, infatti, stabilisce che è importante garantire momenti di incontro volti a mantenere la continuità affettiva del bambino nei confronti della famiglia affidataria.

E’ inoltre tutelato il riconoscimento del diritto del minore di essere ascoltato in merito alle decisioni che riguardano la sua vita: quindi il bambino potrà essere ascoltato dal giudice e potrà esprime il proprio parere in relazione a qualsiasi proposta degli operatori e giudici che riguarda la possibilità di rientrare nella sua famiglia d’origine, o di essere adottato dalla famiglia affidataria o da un’altra famiglia e di mantenere i contatti con la famiglia affidataria come definito dall’art. 12 della Convenzione sui diritti dell’infanzia.

Con la legge sul diritto alla continuità degli affetti si interrompe finalmente il processo di perdita dolorosa che sembrava caratterizzare la vita dei bambini in affido familiare.

Comunità per minori o affido familiare?

Dibattiti molto accesi sono avvenuti sull’opportunità o meno di inserire bambini, soprattutto quando molto piccoli, in comunità per minori. Da più autori è stato affermato come non sia opportuno, ad esempio, inserirvi bambini e ragazzi che dovranno restarvi a lungo, sostenendo l’importanza di privilegiare l’ affido familiare perché ritenuto un contesto relazionale più vicino alla normalità, più affettivo e più stabile.

Certamente l’ affido etero familiare può essere una risposta adatta per un bambino con esperienze di inadeguatezza, trascuratezza e relazioni distorte nella sua famiglia d’origine; tuttavia l’ affido non è sempre un percorso facilmente praticabile e spesso non sempre si riescono a reperire famiglie affidatarie adeguate e necessariamente preparate ad accogliere i minori allontanati dai loro precedenti contesti di vita. Capita inoltre che problematiche a volte molto gravi, come ad esempio un abuso o un grave maltrattamento, possono rendere difficile un affido familiare per le complesse dinamiche vissute e i susseguenti problemi che si dovranno affrontare. A volte sono i ragazzi stessi a non essere pronti ad un affido da parte di un adulto semi-sconosciuto che in breve tempo diventa “la tua famiglia”

 

 

Psicologi in Zona: focus sul tema della crescita. Il ritorno a Maggio a Milano dell’iniziativa organizzata dall’OPL – Comunicato Stampa

Ordine degli Psicologi della Lombardia:

A Maggio torna a Milano Psicologi in Zona. Focus sul tema della crescita.

Ascolto dei bisogni e informazione: questo l’obiettivo degli psicologi volontari a disposizione di famiglie, insegnanti e ragazzi su questioni come bullismo e la violenza intrafamiliare.

 

Realizzato in sinergia con i Municipi di Milano, il progetto porterà gazebo itineranti in tutte le zone della città, in prossimità delle scuole primarie e secondarie.

 

Milano, 26 aprile 2018 – La psicologia come strumento accessibile, necessario e vicino ai bisogni delle persone: è questo il senso dell’iniziativa Psicologi in Zona, che nel mese di maggio porterà decine di psicologi volontari in tutti i quartieri della città di Milano.

Nello specifico, questa nuova edizione di Psicologi in Zona è dedicata ai temi della Crescita e dell’Età Evolutiva, che sempre più vanno configurandosi come momenti di straordinaria vulnerabilità ed esposizione a rischi quali bullismo, cyberbullismo, dipendenze, etc. Per questa ragione, ogni settimana, i gazebo OPL si alterneranno in 2 diverse zone di Milano, vicino a istituti e comprensori scolastici.

La cronaca e la nostra esperienza professionale ci dicono che l’età infantile e adolescenziale necessitano di una riflessione profonda. Non solo in termini di patologia, ma di evoluzione e crescita dell’individuo. OPL porterà quest’anno gli psicologi proprio nei luoghi di formazione dei ragazzi – le scuole – con l’obiettivo di incrociare i bisogni dei giovani e quelli degli adulti che se ne occupano. La psicologia può e deve essere un alleato di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, per facilitare processi di ascolto, dialogo e intervento in ottica di prevenzione e gestione di gravi situazioni di disagio – commenta Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Dati Psicologi in Zona 2017

A dare una forte indicazione sull’opportunità di dedicare Psicologi in Zona 2018 al tema della Crescita sono stati gli stessi cittadini, che, nella scorsa edizione dell’iniziativa, hanno manifestato la propria preoccupazione proprio rispetto all’età dell’infanzia e dell’adolescenza.

Nel seguito alcune cifre relative a Psicologi in Zona 2017:

  • 120: gli psicologi volontari coinvolti;
  • 1.200 circa: i cittadini coinvolti (70% donne);
  • 19%: percentuale di cittadini che hanno segnalato i problemi dell’età evolutiva e il bullismo come le aree di maggiore criticità e più bisognose di supporto psicologico. Al secondo posto, la questione dell’invecchiamento (14%).

Bullismo e Violenza Intrafamiliare: gli strumenti di sensibilizzazione

In occasione di Psicologi in Zona, OPL presenta due importanti strumenti di sensibilizzazione e divulgazione di base, realizzati in collaborazione con CISMAI (Coordinamento Italiano Servizi Maltrattamento all’Infanzia), Università Cattolica del Sacro Cuore e AIAF Lombardia (Associazione Avvocati per Famiglia e Minori):

  • Violenza intra-familiare: articolato in 7 domande allo psicologo, il documento chiarisce in che termini, con quali tempi e con quali possibili strumenti è importante proteggere i minori dagli scontri violenti tra genitori;
  • Decalogo per gli adulti per battere il bullismo: dal ruolo degli ‘spettatori’ alla complicità del silenzio, dall’impatto delle giustificazioni all’importanza del coordinamento, OPL mette a fuoco 10 linee guida, per contrastare più efficacemente bullismo e cyberbullismo.

All’interno dei gazebo itineranti, sarà possibile incontrare i professionisti, comprendere meglio le proprie necessità in relazione alle diverse discipline della psicologia e conoscere le diverse possibilità di intervento psicologico disponibili sul territorio.

Questo il calendario degli appuntamenti con Psicologi in Zona:

Psicologi in Zona- Calendario 2018

Maggiori informazioni sul sito e sulla pagina Facebook di OPL.

Ordine degli Psicologi della Lombardia

L’Ordine degli Psicologi – Nazionale o Regionale – è un ente pubblico che rappresenta e governa gli iscritti all’Albo degli psicologi. Se l’Ordine, da un lato, è un presidio dello Stato a tutela della salute e del benessere dei cittadini, l’Albo è l’elenco pubblico di tutti gli psicologi abilitati ad esercitare regolarmente la professione a disposizione dei cittadini. Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) è Riccardo Bettiga. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.opl.it.

 

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