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La nascita del costrutto della co-ruminazione

La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale, dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici, sintomi esternalizzati, abuso alcolico nelle studentesse universitarie, accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo. 

Mara Di Paolo, Open school Studi cognitivi di Bolzano

 

Il costrutto della co-ruminazione

Il costrutto di co-ruminazione è nato nel 2002 nell’ambito della psicologia scolastica americana, ad opera della dottoressa Amanda J. Rose, per spiegare le differenze di genere negli adolescenti e nei giovani adulti rispetto ai risultati discordanti ottenuti in due filoni di ricerca, uno basato sull’amicizia e l’altro sul coping e il funzionamento emozionale.

Le ricerche sull’amicizia riscontravano, nella condivisione di vissuti emotivi e cognitivi, un processo in grado di favorire forti legami amicali (Camarena, Sargiani, Peterson, 1990, Wei, Russell e Zakalik, 2005), favorenti l’aiuto reciproco e la risoluzione positiva dei conflitti (Asher, Parker eWalker,1996, Greene 2009; Parker e Asher 1993). Al contrario gli studi sul coping e sul funzionamento emozionale mostravano come la ruminazione, ovvero il processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero astratto, ripetitivo e centrato su sensazioni e pensieri negativi fosse la causa di problemi emozionali, sia negli adulti ( Nolen- Hoeksema Morrow e Fredrickson, 1993; Nolen-Hoeksema, Parker e Larson, 1994; Nolen-HOeksema, Wisco e Lyubomirsky, 2008) che negli adolescenti (Hart e Thompson, 1997; Schwartz e Koening, 1996) e bambini (Broderick, 1998).

Questi dati erano confermati da ulteriori ricerche di genere che riscontravano nelle giovani donne e nelle adolescenti femmine, maggiori livelli di ansia e depressione nonostante nel genere femminile prevalessero maggiormente forti rapporti amicali diadici, caratterizzati da più alti livelli di self disclousure (Bhurmester e Furman, 1987; Camerena et.al 1990; Dindia e Allen 1992; Parker e Asher, 1993) rispetto ai giovani maschi che mostravano rapporti amicali basati esclusivamente sulla condivisione di interessi sportivi e una ridotta tendenza a discutere di problemi personali.

Il costrutto di co-ruminazione pertanto, nasceva per spiegare queste differenze di genere negli adolescenti e nei giovani adulti (Rose, 2002), indicando con tale termine quel processo interpersonale consistente in una discussione ossessiva e passiva dei propri problemi personali con un amico fidato (Balsamo, Saggino, et.al 2016). I co-ruminatori condividono frequentemente e ripetutamente con amici intimi, lo stesso o gli stessi problemi personali, speculando sui problemi in termini di cause e potenziali conseguenze e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano.

Gli effetti della co-ruminazione e l’analisi fattoriale del costrutto

La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale ( Calmes, Robertes 2008; et. al), dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici (Balsamo et. Al 2015), sintomi esternalizzati ( Tompkins; Hockett, et. Al 2011), abuso alcolico nelle studentesse universitarie (Ciesla et al. 2011), accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo (Byrd-Craven et.al 2008). Tuttavia, in letteratura diverse ricerche internazionali e nazionali si sono impegnate a considerare la portata di ciascuna caratteristica della co-ruminazione, suggerendo la possibilità dell’esistenza di componenti adattive e maladattive; sembra, infatti, che soprattutto il focalizzarsi sulle emozioni negative, induca un aumento di cortisolo (Byrd-Craven et al., 2008; 2011).

La dottoressa Rose, ha redatto il questionario Co-Rumination Questionnaire (CRQ; Rose, 2002), che comprende 9 aree di contenuto:
1. frequenza di discussione dei problemi;
2. discussione di problemi invece di impegni in altre attività;
3. incoraggiamento a discutere dei problemi dell’amico;
4. incoraggiamento dell’amico a discutere dei propri problemi;
5. discussione ripetitiva dello stesso problema;
6. speculazione sulle cause dei problemi;
7. speculazione sulle conseguenze dei problemi;
8. speculazione su aspetti incompresi del problema;
9. focalizzazione su sentimenti negativi.

La dottoressa Rose, in base a un’analisi fattoriale esplorativa in un campione di studenti universitari, ha concluso che la scala è rappresentata meglio da un fattore piuttosto che dai diversi fattori che identificano le 9 aree di contenuto (Rose, 2002).

Invece nel 2014 Davidson e colleghi con una ricerca su un ampio campione di studenti universitari americani, hanno concluso che risulta adeguata una struttura fattoriale gerarchica triadica di primo ordine, costituita da: rehashing (discussione dettagliata di un problema), mulling (desiderio di discutere continuamente di problemi), encouraging problem talk (la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività), le cui associazioni sono spiegate dal costrutto di secondo ordine della co-ruminazione. In particolare nello studio sopra descritto si sono riscontrate le correlazioni tra il fenomeno di rehashing e sintomi depressivi, l’encouraging problem talk e la distrazione per controllare pensieri sgradevoli. Inoltre, sia il rehashing che il mulling, sono significativamente associati alla ruminazione e alla mancanza di fiducia in se stessi (self-confidence). Tutti e tre i fattori sono associati a livelli alti di worry o rimuginio (Davidson et al., 2014).

Anche in Italia un gruppo di studio Balsamo, Saggino et al. nel 2015 ha esaminato in un campione italiano non clinico, la struttura fattoriale, l’invarianza fattoriale e la validità della versione italiana del CRQ, confermandone la struttura fattoriale, così com’è stata proposta nello studio americano di Davidson et al. (2014). Lo studio suggerisce sia la possibilità di impiegare lo strumento anche nella popolazione italiana, che l’importanza di esaminare specifiche componenti della co-ruminazione.

Concludendo, future ricerche saranno necessarie per replicare la struttura fattoriale in popolazioni diverse (bambini, adolescenti, anziani), per approfondire la comprensione sullo sviluppo della co-ruminazione e per interpretare le risposte al CRQ. Sarebbe altresì interessante indagare gli effetti delle sottoscale della co-ruminazione sulla sintomatologia ansiosa e depressiva e il meccanismo di funzionamento di queste relazioni ed esaminare come le sottoscale del CRQ siano associate allo sviluppo di sintomi internalizzanti ed esternalizzanti in termini prognostici.

Memoria di lavoro: quali sono i suoi limiti

L’esperienza quotidiana ci mette di fronte al fatto che la nostra capacità di memoria di lavoro è limitata. È impossibile tenere a mente tante cose in una sola volta.

 

I risultati di un nuovo studio sembrano spiegarci il perché: l’ “accoppiamento”, o sincronia, delle onde cerebrali tra tre regioni chiave del cervello si interrompe in modi specifici quando il carico visivo della memoria di lavoro diventa eccessivo. “Quando si raggiunge la capacità, c’è una perdita di accoppiamento di feedback” ha detto Earl Miller, professore di Neuroscienze presso il Picower Institute for Learning and Memory del Massachusetts Institute of Technology, tra gli autori dello studio. Questa perdita di sincronia significa che le regioni non possono più comunicare tra loro per sostenere la memoria di lavoro.

Scopo dello studio

La capacità massima della memoria di lavoro, ad esempio il numero totale di immagini che una persona può tenere in memoria nello stesso momento, varia da persona a persona, anche se in media corrisponde a circa quattro immagini.

Scopo di questo studio è stato quello di indagare cosa limita la capacità della memoria di lavoro.

Una migliore comprensione di questo aspetto, consentirebbe infatti anche di comprendere meglio la natura limitata del pensiero cosciente e i fattori implicati nelle prestazioni cognitive ottimali. Inoltre, i risultati potrebbero dirci di più su come i disturbi psichiatrici interferiscono con il pensiero. “Gli studi dimostrano che il picco di carico è inferiore negli schizofrenici e in altri pazienti con malattie o disturbi neurologici o psichiatrici rispetto alle persone sane” ha detto Pinotsis, altro autore dello studio. “Quindi, capire i segnali cerebrali al picco di carico può anche aiutarci a capire le origini dei disturbi cognitivi”.

Lo studio: indagine scientifica della memoria di lavoro

Lo studio, pubblicato sulla rivista Cerebral Cortex, si propone come un’analisi statistica dettagliata dei dati ottenuti presso il laboratorio di Earl Miller, ottenuti attraverso la registrazione di soggetti animali mentre erano impegnati in un gioco semplice. Nello specifico, venivano mostrate ai soggetti alcune immagini rispetto alle quali dovevano individuare l’esistenza di una differenza: inizialmente veniva presentato loro un gruppo di quadrati e, dopo la visione di una breve schermata bianca, veniva presentato un nuovo insieme di immagini quasi identico in cui un solo quadrato aveva cambiato colore. Il numero di quadrati coinvolti, quindi il carico di memoria di lavoro di ogni turno, variava in modo tale che a volte il compito superava la capacità di memoria di lavoro degli animali.

Durante lo svolgimento di questo compito, i ricercatori misuravano la frequenza e la tempistica delle onde cerebrali prodotte da gruppi di neuroni in tre regioni che presumibilmente avevano una relazione importante, sebbene ancora sconosciuta, sulla memoria visiva di lavoro: la corteccia prefrontale, i campi frontali dell’occhio e l’area intraparietale laterale.
Obiettivo dei ricercatori era quello di indagare il grado di comunicazione tra queste tre aree in relazione al loro pattern di attivazione in termini di onde cerebrali e di comprendere, in modo specifico, come ciò potesse cambiare quando il carico della memoria di lavoro aumentava al punto di superare il suo livello di capacità massima.

Conclusioni e sviluppi futuri

Usando sofisticate tecniche matematiche, i ricercatori hanno testato decine di varietà di accoppiamenti e sincronizzazioni tra le tre regioni cerebrali sopra indicate, ad alte e basse frequenze.

[blockquote style=”1″]Abbiamo modellato tutte le diverse combinazioni di feedback e segnali feedforward tra le aree e abbiamo aspettato di vedere dove avrebbero portato i dati.[/blockquote]

La struttura “vincente” si è dimostrata quella che meglio si adattava alle prove sperimentali. Da quanto emerso, si potrebbe dunque affermare che queste regioni cerebrali lavorino essenzialmente come un comitato, senza molte gerarchie, allo scopo di mantenere attiva la memoria di lavoro.

[blockquote style=”1″]Al picco del carico di memoria, i segnali cerebrali che mantengono i ricordi e guidano le azioni sulla base di questi ricordi, raggiungono il loro massimo. Al di sopra di questo picco, gli stessi segnali si interrompono.[/blockquote]

Superata la capacità massima della memoria di lavoro, l’accoppiamento della corteccia prefrontale ad altre regioni a bassa frequenza si ferma.

Anche altre ricerche sembrano suggerire che il ruolo della corteccia prefrontale potrebbe essere quello di impiegare onde a bassa frequenza per fornire il feedback che mantiene sincronizzato il sistema di memoria di lavoro. Quando questo segnale viene a mancare, l’intero processo si interrompe e questo permetterebbe di spiegare perché la capacità di memoria di lavoro ha un limite finito.

Già in precedenti studi Miller e i propri collaboratori avevano osservato che l’informazione neurale si degrada con l’aumento del carico della memoria di lavoro, ma non erano stati capaci di individuare in quale momento preciso tale funzione smettesse di funzionare.

Nonostante le importanti conclusioni a cui questo studio ci ha permesso di arrivare rispetto alla nostra conoscenza sulla memoria di lavoro, ancora molti sono gli aspetti che rimangono da indagare. Proprio per questo motivo, il “Miller Lab” è in continuo fermento e nuovi progetti di ricerca sono stati avviati. Sulla base dunque deigli ultimi risultati ottenuti nello studio che vi abbiamo raccontato, il team di ricerca che fa capo a Miller ha avviato un nuovo studio volto ad indagare come le tre regioni cerebrali implicate nei processi di memoria di lavoro interagiscono tra loro quando le informazioni devono essere condivise attraverso il campo visivo.

EMDR: Experimental and clinical notes – Conferenza con il prof. Van den Hout, 12 Aprile 2018

In questi ultimi anni si è avuto un gran parlare di traumi e terapia dei traumi, fatto che ha rinnovato l’attenzione per l’ EMDR, una delle terapie per i traumi. In questo clima merita particolare attenzione la conferenza EMDR: Experimental and clinical notes che il prof. Van den Hout ha tenuto il 12 aprile al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova.

Prof. Ezio Sanavio

 

Il sommario della conferenza EMDR: Experimental and clinical notes è sotto-riportato, come fornito dall’autore. Tra l’altro, egli mette in crisi la tesi corrente che l’ EMDR vada considerata uno dei trattamenti d’elezione per il Disturbo da stress post-traumatico, ma solo per uno dei suoi sintomi principali.

Marcel Van den Hout è professore di Psicologia clinica e psicopatologia sperimentale all’Università di Utrecht.

E’ noto per i suoi studi sui disturbi d’ansia e sul disturbo ossessivo e, in particolare, per aver individuato l’effetto paradossale dei controlli ripetuti (che già alcuni hanno denominato ‘effetto Van den Hout’): l’enorme quantità di controlli ossessivi non determina il potenziamento delle tracce mnestiche, come i pazienti potrebbero attendersi, ma decadimento della vividezza dell’immagine mentale, diminuzione della quantità di dettagli ricordati, abbassamento del livello di fiducia nell’accuratezza dell’immagine rievocata.

Recentemente il prof. Van den Hout ha allargato il suo interesse alla rievocazione delle memorie traumatiche, al disturbo post-traumatico da stress e al suo trattamento.

 

EMDR: Experimental and clinical notes – Abstract della conferenza

Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR)  was introduced as a treatment for Post- Traumatic Stress Disorder (PTSD). During EMDR sessions patients are asked to recall trauma memories while simultaneously making eye movements. Claims of clinical effectivity met with considerable skepticism from the scientific community. Still, in contrast to many other ‘power therapies’ that are not embedded in the scientific literature, EMDR survived controlled clinical tests and a series of critical meta-analyses show that EMDR ranks among the most effective treatments of PTSD. We wanted to unravel how EMDR yields its positive effects. I will present results from a series of experimental and clinical studies that we carried out from 2010 onwards.

In a nutshell, this is what the data show and suggest:

  • EMDR can easily be studies in the lab. Its effects are reliable, not due to expectancy or experimenter bias and the effects are not only clear from self-report, but also from objective assessments.
  • The eye movements in EMDR are more than clinical folklore. They add to the effect of the procedure.
  • Still, there is nothing special to the eye movements: they can be replaced by any other task that distracts during trauma recall.
  • In contrast to claims by the founders of EMDR, effects of the procedure have nothing to do with ‘bilateral stimulation’ or promoting ‘interhemispheric communication’. Unilateral stimulation works as well.
  • During recall, memories become labile and susceptible to change. EMDR exploits this fact by taxing working memory during recall. This affects the nature of the long term trauma memory: it gets less lively and less emotional .
  • Some elements of EMDR are productive (e.g. distraction during recall), many elements are not productive (e.g. curious ways of ending the sessions) and some elements are counterproductive (e.g. making eye movements during recall of positive memories). The latter stand in worrisome contrast to the principle of non-nocere. (do no harm)
  • EMDR may be useful for the treatment of flashbacks (as in PTSD) and also for flash forwards (as in some anxiety disorders). The indication of EMDR however seems limited and there is no rational basis for its present proliferation beyond flash backs and flash forwards.

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista il Prof. Marcel Van den Hout durante il Congresso SITCC 2012

Hellblade: l’esperienza della malattia mentale attraverso un videogame?

E’ possibile sperimentare la schizofrenia attraverso un videogame? Accendete la vostra consolle, e accomodatevi nella testa della guerriera Senua, in Hellblade. La Dott.ssa Viola Nicolucci ne ha parlato nella conferenza “Psicologia, Tecnologia e Trasformazione”.

Secondo voi un videogioco può insegnare? Federico Pucci, in un articolo sul sito dell’Ansa, esordisce dicendo:

[blockquote style=”1″]Che il videogioco intrattenga, emozioni, coinvolga, è noto: ma può anche insegnare? [/blockquote]

Ebbene si, un videogioco può anche insegnare. A volte il potere didattico dei videogiochi è per lo più tradizionale, come nel caso dell’ultimo “Assassin’s Creed Origins” in cui, grazie alla modalità Discovery Tour – Antico Egitto, si può usufruire di un’esplorazione interattiva dell’Antico Egitto ai tempi di Cleopatra. Altre volte, dal punto di vista psicologico, un videogioco può allenare una serie di skill, incrementare l’efficacia del processo decisionale, favorire lo svilupparsi dell’intelligenza emotiva o portare alla luce temi sensibili da discutere apertamente quali il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza.

Di esempi, in quest’ultimo caso, ce ne sono diversi. Basti pensare a “Life is Strange”, videogioco prodotto dalla Dontnod e pubblicata dalla Square Enix. Ultimamente però la didattica dei videogiochi ha fatto un interessante passo in avanti. A tal proposito, vorrei cogliere l’occasione per parlarvi del lavoro della Dott.ssa Viola Nicolucci (psicoterapeuta dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte) che ho avuto l’onore di conoscere durante la conferenza “Psicologia, Tecnologia e Trasformazione” tenutasi il 26 gennaio 2018 a Torino. Il tema del suo argomento si focalizzava su Hellblade: l’esperienza della malattia mentale attraverso un videogame. Sperando di non tralasciare nulla cercherò di riportarvi fedelmente i concetti trattati dalla collega, avvalendomi delle risorse offerte dal Web al solo scopo di aiutarmi.

Cos è la Gamification? A cosa serve in un processo di comunicazione?

Prima di iniziare a parlarvi di “Hellblade: Senua’s Sacrifice”, vorrei introdurvi il concetto di “gamification”.  Il termine deriva dalla parola “Game”, cioè gioco, anche solo per semplice divertimento. La Gamification, traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni e dai principi alla base del concetto stesso di divertimento, rappresenta uno strumento molto efficace in grado di trasmettere messaggi di vario tipo. Il suo obiettivo è di applicare meccaniche ludiche ad attività che non hanno direttamente a che fare con il gioco; in questo modo è possibile stimolare e consolidare l’interesse attivo da parte degli utenti coinvolti sul messaggio che si vuole comunicare.
Per raggiungere questi obiettivi, il processo di communication design deve essere necessariamente ripensato per introdurre meccaniche e dinamiche di gioco, aggiungendo ai fattori tradizionali altri elementi trainanti (ancora, mutuate dal mondo del “gaming”) che possano attirare e ri-attirare l’interesse e l’attenzione dell’utenza su specifici contenuti.

Come si crea coinvolgimento? Ce lo spiega B.J. Fogg, padre della captologia

Anche in Hellblade le meccaniche e le dinamiche di gioco sono gli strumenti per “gamificare”: l’introduzione di concetti come punti, livelli, missioni e sfide incoraggia gli utenti ad investire il proprio tempo, spingendoli alla partecipazione, al coinvolgimento efficace, nonché aiutandoli a costruire delle relazioni all’interno del gioco. Perché la gamification funzioni sono essenzialmente necessarie due componenti: l’applicazione di dinamiche efficaci e l’uso delle giuste tecnologie. Ed in questo, B. J. Fogg, padre della Captologia (ovvero della scienza che studia i fenomeni che stanno nell’intersezione tra software e hardware da un lato, e i sentimenti e le attitudini umane scatenati dalla persuasione dall’altro) ci può spiegare parecchie cose. Grazie al modello sviluppato da Fogg, è possibile individuare tre fasi fondamentali: 1) fornire una motivazione, 2) fornire degli strumenti per partecipare, 3) offrire uno spunto da cui partire. Eccoli molto sinteticamente:

  1. Fornire una motivazione
    Bisogna dare alle persone un motivo per partecipare: il meccanismo del gioco e della sfida è profondamente radicato nella mente umana ed è uno stimolo potentissimo; affinchè funzioni è fondamentale che i giocatori abbiano davanti a loro un premio, una meta, un obiettivo che ne attiri l’attenzione e ne aumenti la determinazione
  2. Fornire degli strumenti per partecipare
    Perché la gamification funzioni è necessario che tutti i soggetti coinvolti abbiano a disposizione le stesse possibilità e gli stessi strumenti per andare avanti
  3. Offrire uno spunto da cui partire
    Ogni attività di gamification che si rispetti ha bisogno di un momento di avvio che funga da momento zero da cui far partire la sfida. Se tutte le meccaniche del gioco non si attivano in maniera coordinata, il rischio è che i partecipanti perdano rapidamente l’interesse in ciò che stanno facendo.

In Hellblade Senua’s Sacrifice ritroviamo tutte e tre queste fasi. Senza anticiparvi nulla vi inviterei a leggere il prosieguo dell’articolo benchè ci sia ancora un elemento di cui vi voglio parlare: l’avatar. La possibilità di rappresentare visivamente il proprio personaggio sottende alcuni meccanismi motivazionali come un maggior senso di autonomia e un maggior legame di tipo affettivo con il gioco. Diversi studi sull’avatar hanno prodotto interessanti ricerche tra cui l’Effetto Proteus.

Qual è la malattia mentale di Senua, guerriera di Hellblade?

Trattare un tema così delicato come quello della schizofrenia non è sicuramente un’impresa semplice, e finora l’ha fatto il cinema, non il mondo dei videogame.

Il primo tentativo è “Hellblade: Senua’s Sacrifice“, uscito nell’estate 2017 su PC, PS4 e a breve anche per Xbox One. Il videogioco presenta marcati riferimenti alla mitologia norrena: da protagonisti del gioco vestiamo i panni di Senua, guerriera celtica affetta da una grave forma di schizofrenia, esiliata dal suo villaggio perché ritenuta responsabile di funesti avvenimenti e pestilenze. La mente già fragile della ragazza è ulteriormente penalizzata dalle torture psicologiche indotte dal padre, che fin da piccola la sottopone a dei riti druidici per “liberarla” dalla sua maledizione. Dopo il ritorno dall’esilio Senua vede il suo amato Dillion, l’unico in grado di comprendere i suoi deliri, crocefisso barbaramente dall’attacco dei nordici, come sacrificio agli Dei. Lo shock sarà così forte da aggravare ulteriormente le condizioni di Senua, portandola in un perenne stato di psicosi in cui sente delle voci. Almeno inizialmente, il viaggio di Senua attraverso il fiume dei morti, non sembra essere esplicitamente legato alle sue psicosi. L’obiettivo della protagonista è difatti quello di liberare l’anima del suo adorato riconsegnando la sua testa a Hela, la Dea norrena dei morti e sovrana di Helheim. Il gioco si apre con un avviso piuttosto esplicito: lo sviluppo del titolo è avvenuto con l’ausilio di esperti in psichiatria e la consultazione di pazienti affetti da turbe psichiche.

Quale esperienza si fa in Hellblade?

Avviando la partita, iniziamo finalmente a scivolare lungo un fiume, guidando lentamente una rozza canoa, nei panni della tormentata Senua. Immediatamente giungono alle nostre orecchie un nugolo di sussurri: voci che si accavallano, discutono fra loro, deridono, guidano o rimproverano la protagonista come se noi non ci fossimo. La stessa protagonista parla di sé in terza persona, restituendo un senso di estraneità e scarsa autocoscienza. Il primo guizzo narrativo prende forma quando Senua parla anche con noi, trattandoci proprio come una delle sue tante “voci”. In questo modo entriamo subito nella mente della ragazza, stabilendo un rapporto sempre più intimo e morboso con la sua psiche malata. Nel video presente qui sotto avrete conferma di quanto vi ho detto.

(Hellblade: Senua’s Sacrifice – Intro: Only Voices)

Sentire le voci nella testa di Senua

Le voci di Senua, ottenute sfruttando l’audio 3D binaurale al solo scopo di renderle davvero realistiche, sono la concretizzazione di tutte le sensazioni che le riecheggiano in testa, siano esse un sottile ma avvertibile desiderio di morte, l’entusiasmo per una nuova scoperta, la paura del fallimento o il timore che tutto sia un inganno. Di tanto in tanto Senua sembra parlarci direttamente, raccontarci le sue paure, e testimoniare un desiderio di vendetta alternati ad attimi di abbandono integrale.
In un certo senso, è come se stessimo assistendo a una seduta psichiatrica, registrando con spirito voyeuristico le reazioni di una paziente. E forse il “viaggio” di Senua rappresenta proprio questo: una lunga e faticosa lotta per esorcizzare la sua malattia fatta di visioni, suoni, correlazioni apparentemente impensabili, percezione alterata dei colori e della realtà, fino a momenti in cui la mente si “spegne” e in cui non c’è alcun appiglio cui aggrapparsi.

Quale guerra combattiamo? Dentro o fuori la nostra testa?

Verso la fine dell’avventura, giunta al cospetto di Hela, divinità infernale, descritta come una donna bruciata per metà, Senua rivedrà la propria madre, che fu messa al rogo perché soffriva della stessa forma di psicosi che poi svilupperà anche lei. Tuttavia ci sarebbe da chiedersi, però, se questo momento di catarsi con la figura materna sia stato raggiunto davvero attraverso una sfida fatta di prove e battaglie, oppure se il viaggio della protagonista sia avvenuto solo ed esclusivamente nella sua mente. A un certo punto una delle voci nella testa della ragazza dice chiaramente che “le battaglie più difficili sono quelle combattute nella tua testa”. Potrebbe darsi, allora, che lo strano balletto di fendenti e affondi della protagonista, sia in realtà soltanto immaginato. Molto spesso, durante gli scontri, non si ha un’inquadratura di tutti i nemici che stiamo affrontando. Nel caso in cui un avversario attacchi Senua da un angolo cieco, saranno le voci ad avvertirla – “attenta alle spalle!” -, così che sia possibile eseguire un contrattacco col giusto tempismo. Eppure, se le voci esistono solo nella testa di Senua, e lei non sta vedendo il nemico pronto a colpire, come possiamo esserne informati? L’unica prospettiva plausibile è che tutto esista davvero solo nella sua mente.

Durante la progressione esplorativa del gioco Senua allucina rune luminose, con colori e luci che sono amplificati o attenuati. Attraverso queste rune la protagonista si ritrova a risolvere dei veri e propri puzzle, che implicano l’utilizzo di un aspetto della sua malattia mentale per “vedere le cose in modo diverso”. Tale particolarità si riferisce ad un fenomeno psicologico creativo chiamato apofenia, ed è qualcosa in cui tutti ci impegniamo. Si ritiene però che le persone con disturbi psicotici siano più abili in questo tipo di processo creativo e vi s’impegnino involontariamente più frequentemente. Affine al concetto di apofenia vi è quello di pareidolia. Tuttavia, di questi due aspetti, ve ne riparlerò poi verso la fine.

Perchè non stigmatizzare la malattia mentale

Tra gli extra inclusi in Hellblade: Senua’s Sacrifice è disponibile anche un video da che approfondirà il profilo psicologico della protagonista Senua. Per garantire una rappresentazione accurata, il team ha collaborato con Paul Fletcher, uno psichiatra e professore di Neuroscienze della salute presso l’Università di Cambridge nonché pazienti affetti da turbe psicotiche. Intitolato Hellblade: Senua’s Psychosis, questo video spiega il decorso della malattia, le sintomatiche principali e soprattutto un concetto fuori dalle righe, ovvero che stigmatizzare la malattia mentale non solo è controproducente per i soggetti affetti (che possono essere anche amici o parenti), ma anche dannoso nei confronti della conoscenza stessa, poiché approfondire e cercare di capire una situazione diversa dalla nostra può farci aprire gli occhi su cose che credevamo impossibili. Insomma, uno sprono ad aprire la mente e a vedere la vita in maniera diversa.

(Hellblade: Senua’s Sacrifice | Senua’s Psychosis Teaser | PS4 & PC)

Cos è l’apofenia? Chi la sperimenta?

Per spiegarvi il concetto di apofenia, mi servirò dei contenuti presi dal sito di Capuano. L’apofenia è la percezione spontanea di connessioni significative tra fenomeni che non hanno alcuna relazione tra loro. Il termine fu coniato dallo psichiatra tedesco Klaus Conrad, che lo descrisse come l’osservazione immotivata di connessioni da una precisa sensazione di anormale significatività. Per Conrad, l’apofenia è parte di un modello evolutivo della schizofrenia che comprende quattro fasi: Trema, Anastrofè, Apofenia (o Apofania) e Apocalisse. Nel vocabolario del suo inventore, dunque, il fenomeno è strettamente collegato a una forma patologica. Oggi, però, si tende a usarlo in maniera più estesa e indipendentemente da condizioni psichiatriche. Capuano continua dicendo che

[blockquote style=”1″]…c’è qualcosa nella nostra mente che fa sì che tendiamo a rinvenire connessioni significative tra eventi fra loro indipendenti[/blockquote]

Questo qualcosa può assumere talvolta una dimensione patologica, come quando qualsiasi correlazione tra eventi è assunta come significativa. Una situazione che si verifica in alcuni casi di schizofrenia e paranoia.

Il concetto di apofenia va tuttavia ben oltre. Esso ci dice che la nostra mente tende naturalmente e normalmente a “mettere insieme” ciò che è separato, ad attribuire significati a cose che non ne hanno. Sono state fornite varie spiegazioni per questo curioso fenomeno. Secondo il neurologo svizzero Peter Brugger, gli esseri umani hanno la tendenza pervasiva a scorgere ordine nelle configurazioni casuali. Non solo, ma la propensione a vedere connessioni tra oggetti o idee senza alcuna relazione apparente tra loro accomuna fortemente la psicosi alla creatività. Apofenia e creatività potrebbero quindi essere viste come due facce della stessa medaglia.

Sappiamo sempre riconoscere l’apofenia?

Con un esperimento realizzato da Naftulin, Ware e Donnelly nel 1973, l’autore ci dimostra un caso concreto in cui si tende a desumere un significato da parole o situazioni che ne sono privi. I tre autori dell’esperimento scrissero un discorso strampalato che aveva ad oggetto la teoria matematica dei giochi applicata all’istruzione medica. Il discorso era pieno di neologismi, frasi insensate e contraddittorie. Un attore, assolutamente incompetente in materia, ebbe l’incarico di pronunciare il discorso di fronte a una platea composta da undici educatori, psicologi e psichiatri ai quali l’oratore era stato presentato come un esperto della materia. La videoregistrazione del discorso fu poi presentata a un gruppo composto da undici psichiatri, psicologi e assistenti sociali e in seguito a un terzo gruppo composto da trentatré educatori e amministratori. Al termine del discorso, a tutti fu chiesto di riempire un questionario per valutare il livello di gradimento di ciò che avevano appena udito. Sorprendentemente, la maggior parte dei partecipanti ai tre gruppi attribuirono un elevato punteggio di soddisfazione all’oratore, sottolineandone le abilità verbali, la conoscenza degli argomenti trattati e la buona disamina degli stessi. Che cosa era successo? Nonostante la loro esperienza, i componenti dei tre gruppi erano stati condizionati più dalla prestazione recitativa dell’attore, dallo stile espositivo e dalle motivazioni e aspettative di apprendere che dal contenuto del discorso stesso. Insomma, un setting adeguato e uno stile accattivante possono dare agli individui l’illusione di aver appreso significati che invece non esistono.

Cos è la pareidolia?

La pareidolia è un processo in cui uno stimolo visivo o sonoro, vago e casuale, viene erroneamente interpretato come una forma riconoscibile. Uno degli esempi più classici è probabilmente quello delle osservazioni delle nuvole. Chi di noi non ha trascorso del tempo a guardare le nuvole provando ad assegnare una forma ad ognuna? Il nostro cervello divide il mondo in schemi e quotidianamente prova a interpretarli in tutto il mondo che ci circonda. Quando proviamo a risolvere un problema, abbiamo bisogno di trovare somiglianze con qualche problema in precedenza risolto e questo ci aiuta perché risparmiamo tempo. La ricerca delle somiglianze (pattern recognition) è anche ciò che ci permette di distinguere i volti, i suoni (voci). La pareidolia è una caratteristica intrinseca dell’evoluzione del nostro cervello e dei centri adibiti al riconoscimento. Noi esseri umani, facciamo fatica a vedere forme casuali, cerchiamo sempre di associare un senso, qualcosa che il nostro cervello riconosce. Dove c’è solo una macchia, un’ombra, vediamo forme, volti e tutto ciò che arriva dalla nostra immaginazione. Le illusioni ottiche dei dipinti di Salvador Dalì o perché no il test delle macchie di Rorscharch, sono due esempi in cui utilizziamo la pareidolia.

immagini pareidolia

Tuttavia, qual è l’origine di questo processo? Le spiegazioni a questo fenomeno sono tante. Per esempio, Jeff Hawkins afferma che sia dovuto al fatto che noi esseri umani abbiamo la tendenza a stabilire degli schemi seguendo le nostre esperienze e le credenze. In pratica, il nostro cervello da un senso a ciò che vediamo dipendendo da ciò che abbiamo vissuto e dalle nostre aspettative. Carl Sagan ci propone al contrario un’altra teoria. Egli Afferma che sia dovuto ad una tecnica ancestrale di sopravvivenza, dato che in passato, distinguere i volti degli amici dai nemici era fondamentale per salvare la vita. Così, il nostro cervello si è andato perfezionando e attualmente sarebbe programmato per identificare volti umani usando pochissimi dettagli. Così potremmo riconoscere una persona a distanza, anche con poca luce.
Nel 2009 uno studio molto interessante appoggia la teoria di Sagan. In questo esperimento si è riscontrato che percepire volti umani in immagini confuse provoca un’attivazione della corteccia ventrale fusiforme, una risposta che si riscontra quando vediamo dei volti reali ma non quando vediamo degli oggetti. Gli scienziati ipotizzano che questa zona si è andata specializzando nel riconoscimento dei volti e agisce in modo praticamente automatico per, in seguito, dare tempo al cervello di percepire se il volto mostra ira e aggressività o se, al contrario, è un volto amico.

Dove troviamo pareidolia e apofenia in Hellblade?

In Hellblade Senua’s Sacrifice dove sono però evidenti la pareidolia e l’apofenia? Se visionerete il video di Youtube che vi ho postato verso la fine, soffermandovi esattamente al minutaggio 8:52 e al minutaggio 13:12, avrete ben chiaro dove appaiono questi due fenomeni di cui vi ho parlato.
Come potrete notare anche voi, in un primo momento, la protagonista riconosce un volto familiare all’interno della cascata dove è presente un volto roccioso. In seguito Senua riesce a trovare una relazione, un collegamento, tra una sua allucinazione visiva e un elemento della realtà. Quanto vi ho detto tuttavia è una mia riflessione personale che potrebbe essere, perché no, per voi alquanto opinabile.

(Hellblade: Senua’s Sacrifice Part 5 | Pareidolia)

Albert Bandura, la teoria dell’apprendimento sociale e il concetto di autoefficacia – Introduzione alla Psicologia

Albert Bandura è uno psicologo contemporaneo specializzato in psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione. Il lavoro teorico e clinico di Bandura è incentrato principalmente sulla teoria dell’apprendimento sociale e sul concetto di autoefficacia.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Albert Bandura: la vita

Albert Bandura è nato ad Alberta, in Canada, nella piccola città di Mundare. Era il più giovane di sei figli, due dei quali morirono in gioventù, uno in un incidente di caccia e un altro per la pandemia influenzale. I genitori di Albert Bandura erano laboriosi e autodidatti; trasferitisi dai paesi dell’est Europa in Canada iniziarono a lavorare presso terzi e poi, dopo aver acquistato una fattoria, coltivarono dei propri terreni.

La sua educazione scolastica, primaria e secondaria, era molto esplorativa e pratica, poiché la scuola che frequentava era guidata da due soli insegnanti e aveva risorse limitate da un punto di vista didattico. Bandura, però, vedeva questo limite come un vantaggio, poiché la sua curiosità gli ha concesso di approfondire concetti e teorie che gli permisero creare le fondamenta della sua conoscenza.

Dopo aver finito la scuola, Albert Bandura si recò allo Yukon per lavorare alla costruzione dell’autostrada dell’Alaska e al suo ritorno a casa, gli è stata offerta la possibilità di stare nella fattoria o continuare a studiare.

Vita professionale

Bandura iniziò l’Università della British Columbia e si appassionò presto alla Psicologia inserendola, inizialmente, nel suo piano di studi come disciplina complementare, ma ben presto divenne il suo principale interesse. Egli si innamorò all’istante di questa materia conseguendo la laurea in soli tre anni e ricevendo anche il premio Bolocan Award per la Psicologia. Ha continuato i suoi studi presso l’Università dello Iowa dove ha conseguito il Master e il dottorato.

L’Università dello Iowa, in quel periodo, era molto nota per le ricerche e i progressi nel campo dell’ apprendimento. Per questo, Albert Bandura, mentre studiava, conobbe Kenneth Spence con cui iniziò a collaborare. Fu inoltre influenzato anche dal pensiero del suo predecessore, Clark Hull, e dagli scritti di Neal Miller e John Dollard.

Bandura iniziò a svolgere esperimenti in cui si usavano immagini, e a livello teorico si appassionò al determinismo reciproco e alla rappresentazione. Di conseguenza, sviluppò una serie di competenze teoriche e analitiche che lo indussero a formulare una nuova cornice teorica volta alla valutazione del processo mentale.

Albert Bandura svolse un breve internato al Wichita Kansas Guidance Center e alla fine iniziò a insegnare alla Stanford University nel 1953, dove lavora ancora oggi.

Bandura, da subito, cercò di studiare come la teoria dell’apprendimento si potesse applicare ai fenomeni clinici ed effettuò un tentativo di concettualizzare tali fenomeni per consentirne la verifica sperimentale.

Durante questi anni a Iowa, incontrò Virginia Varns, un’istruttrice della scuola per infermieri, che successivamente sposò e dalla loro unione nacquero due bambine.

Dopo aver conseguito il Dottorato all’Università dello Iowa, si trasferì a Standford, dove iniziò ad occuparsi dello studio dei processi interattivi in psicoterapia e dei modelli familiari che generano comportamenti aggressivi nei bambini. I risultati del suo studio fornirono molte prove a supporto della teoria del modellamento, secondo la quale l’apprendimento avviene attraverso l’osservazione altrui, considerata centrale nello sviluppo della personalità di ciascun individuo. Tali evidenze vennero diffuse da Albert Bandura attraverso la pubblicazione di due libri: Adolescent Aggression (1959) e Social Learning and Personality Development (1963).

Il libro del 1986 Social Foundations of Thought and Action rappresenta, inoltre, il tentativo di sviluppare una teoria in grado di spiegare e chiarire tutti gli aspetti delle capacità umane, passaggio fondamentale, secondo Bandura, per comprendere lo sviluppo della personalità e il cambiamento terapeutico.

Teoria dell’apprendimento sociale

Bandura iniziò la ricerca concentrandosi sulla motivazione umana, l’azione e il pensiero e ha lavorato con Richard Walters per esplorare l’ aggressione sociale. Il loro studio ha sottolineato l’impatto dei comportamenti di modellizzazione e ha dato il via alla ricerca nell’area dell’apprendimento osservazionale.

Il suo studio più noto è l’esperimento chiamato bambola Bobo, dal nome commerciale del pupazzo gonfiabile usato.

Negli esperimenti erano coinvolti bambini, sia femmine sia maschi, di età compresa tra i 3 e i 6 anni, che, in un primo momento, erano seduti in una sala giochi all’interno della quale erano presenti: un adulto, vari giocattoli, tra cui una mazza, e Bobo. Succede che, in alcuni casi, l’adulto gioca per qualche minuto e ignora il pupazzo, in altri invece, prende quasi subito Bobo a martellate, molto veementi; in altri, l’adulto aggressivo, di volta in volta, è anche premiato o sgridato o lasciato senza conseguenze.

In un secondo tempo, il bambino è condotto in un’altra stanza, dove ci sono diversi giochi. Dopo due minuti, i giocattoli gli sono sottratti, dicendo che sono riservati ad altri bambini, e successivamente è riportato nella prima sala. A questo punto il bambino, che aveva assistito all’aggressione di Bobo da parte dell’adulto, manifesta un gioco di tipo aggressivo, conseguenza della sottrazione precedente dei giocattoli, e in particolare agisce la sua rabbia attraverso gesti ed espressioni verbali violente nei confronti del pupazzo Bobo, in misura assai superiore a quella espressa dai soggetti che non avevano assistito alla violenza da parte dell’adulto. Inoltre, è stato osservato che il comportamento aggressivo è molto più intenso nei maschi che nelle femmine e non emerge nessun effetto particolare, sull’espressione di aggressività nei bambini, in relazione al fatto che l’adulto sia stato o meno premiato o sgridato.

I risultati, dunque, mostrano che non si impara solo in base al meccanismo del premio e della punizione, come sostiene il comportamentismo, bensì anche per via dell’apprendimento osservativo o apprendimento vicario.

Albert Bandura si discostò dalla concezione comportamentista di apprendimento, in cui si associava l’ apprendimento all’esperienza diretta, dimostrando come dei nuovi comportamenti possano essere appresi mediante la semplice osservazione dei comportamenti altrui.

L’ apprendimento, dunque, per Bandura si basava sull’imitazione, resa possibile grazie al rinforzo vicario, per cui le conseguenze relative al comportamento messo in atto dal modello, ricompense o punizioni, hanno i medesimi effetti sull’osservatore. Inoltre, Albert Bandura coniò il termine modellamento, ovvero la modalità di apprendimento che entra in gioco quando il comportamento di un organismo, che assume la funzione di modello, influenza il comportamento di colui che lo osserva.

Bandura ha sottolineato che i bambini imparano in un ambiente sociale e spesso imitano il comportamento degli altri, questo processo è noto come teoria dell’apprendimento sociale.

Albert Bandura ha sviluppato la sua teoria cognitiva sociale da una visione olistica della cognizione umana in relazione alla consapevolezza e influenza sociale. Ha sottolineato che il comportamento è guidato da una combinazione di pulsioni, spunti, risposte e ricompense. Ad esempio, un bambino potrebbe mangiare cioccolatini e rafforzare questo desiderio se il genitore risponde allo stesso bambino mangiando anch’egli cioccolatini contemporaneamente.

Bandura analizzò anche le variabili che sono coinvolte nel processo di apprendimento, chiamando in causa i fattori cognitivi, da cui dedusse che le aspettative proprie e altrui sulle prestazioni esercitano un’influenza molto forte sui comportamenti, sulla valutazione di effetti e risultati e sui processi di apprendimento. A seconda se il successo o il fallimento siano attribuiti a cause interne o esterne, controllabili o incontrollabili, le reazioni affettive e cognitive che conseguono a tali risultati potrebbero variare.

La teoria dell’agire morale

La teoria dell’agire morale è una propaggine della sua teoria cognitiva sociale. Il comportamento morale è un prodotto dell’autoregolamentazione attivata in un contesto sociale. Bandura sostiene che le persone possono agire in modo umano o inumano. Il comportamento inumano diventa possibile quando una persona può giustificarlo. Questa giustificazione comporta una sorta di ristrutturazione cognitiva, che segue uno schema specifico. Il linguaggio igienizzante, che rimuove il peso della crudeltà da un’azione, è un componente chiave. Ad esempio, se il genocidio fosse visto come una normale conseguenza della pulizia di una razza sarebbe, dunque, eliminato l’aspetto fondante, ovvero la crudeltà di tale comportamento. Quindi, è come se si verificasse una sorta di giustificazione morale in cui si minimizza il danno causato all’altro e si sposta la responsabilità su un’altra persona o su un intero gruppo. Incolpare o disumanizzare la vittima è spesso un ingrediente chiave nelle azioni brutali volte a rendere moralmente accettabile qualcosa che non lo è affatto.

L’autoefficacia

Dalla teoria dell’apprendimento sociale, Albert Bandura estrapola il costrutto di autoefficacia (self – efficacy) che coniuga i principi del comportamentismo con quelli della deviazione cognitiva, ovvero l’individuo è capace di simbolizzare o di vicariare l’esperienza diretta, facendo previsioni su se stesso che gli consentono di autoregolarsi. Nello specifico, gli studi sull’efficacia percepita hanno contribuito a porre in rilievo le capacità di autoriflessione e di autoregolazione della mente umana.

La capacità di autoriflessione consente alla persona di analizzare le proprie esperienze, di riflettere sui propri processi di pensiero, di generare nuove capacità di pensiero e di azione.

La capacità di autoregolazione consente di dirigere e di motivare se stessi mediante obiettivi e incentivi, in base a standard interni, restando autonomi rispetto a ogni altro fattore esterno.

Il senso di efficacia personale, o autoefficacia percepita, è il prodotto di un sistema autoreferenziale e autoregolato che guida e dirige il comportamento, orienta il rapporto della persona con l’ambiente e pone le condizioni per lo sviluppo di nuove esperienze e capacità.

Quindi, con autoefficacia si intende la convinzione di poter avere successo o di fallire in una prestazione. A una bassa credenza di auto-efficacia corrispondono spesso comportamenti di evitamento, basse prestazioni o insuccesso, mentre la persona con alta auto-efficacia hanno buone possibilità di ottenere risultati soddisfacenti. Quindi, chi è convinto di riuscire in un obiettivo ottiene prestazioni superiori rispetto a chi, oggettivamente più capace, ma consapevole di non riuscire perché si auto-valuta negativamente.

Per questo, le persone che credono di poter superare un problema, fisico o mentale, sono più propense a farlo e sicuramente saranno in grado di raggiungere e portare a termine gli obiettivi che si prefiggono.

Albert Bandura è autore di molti libri e ha vinto numerosi premi, tra cui il Grawemeyer Award in Psychology nel 2008; inoltre, nell’elenco delle figure più influenti della psicologia moderna è al quarto posto dopo Skinner, Freud e Piaget.

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Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La CBT è efficace nei pazienti con malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT)?

Come migliorare la qualità della vita nei pazienti affetti da malattia di Charcot-Marie-Tooth? La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), secondo alcuni recenti studi, è una soluzione che può offrire benessere a queste persone.

 Ilaria Zeoli – Open School di San Benedetto del Tronto

La sindrome di Charcot-Marie-Tooth (CMT) è caratterizzata da una scarsa funzionalità dell’assone o della mielina, sostanza protettiva dello stimolo nervoso (Kagiava A. et al 2018). Questa mancanza causa atrofia muscolare e debolezza dei muscoli dei piedi, delle gambe e delle mani, perdita sensoriale, perdita dei riflessi, piedi cavi e scoliosi. Ma ci sono casi, seppur rari, che presentano anche una disfunzione del sistema nervoso centrale (SNC) associata a disartria, disfagia, atassia e persino afasia e sonnolenza  (Johnson NE. et al 2014).
E’ una sindrome rara, una patologia a carattere autosomico dominante, con polineuropatia sensitivo-motoria dovuta all’alterazione dei geni, alcuni dei quali ancora non noti. I primi a parlarne furono Jean-Martin Charcot, Pierre Marie, e Howard Henry Tooth da cui la patologia trae il suo nome. Da poco si sta studiando cosa può offrire la CBT alle persone affette da questa sindrome.

Quali sono i tipi di malattia di Charcot-Marie-Tooth? Quali sono i sintomi? Quando compaiono?

La diagnosi medica della malattia di Charcot-Marie-Tooth viene effettuata attraverso l’esame l’elettroneurografico, che permette di misurare la velocità di conduzione nervosa e l’ampiezza del potenziale motorio e sensitivo (Yanjuan Geng,  et al, 2014 ). La CMT più comune è quella di tipo 1 (CMT1) che interessa l’80% della casistica accertata (Arnold A. et al, 2005). La CMT può fare la sua comparsa tra i 10 e 20 anni ed è caratterizzata da deformità articolare a carico dei piedi, delle ginocchia, delle anche e della colonna vertebrale, che con il passare tempo sono causa di dolore nel paziente.
In altri casi la comparsa della patologia avviene in una fase più tardiva, durante l’età adulta, anche se già nell’età scolare le prestazioni motorie di chi ne è affetto risultano carenti. I segni più evidenti sono goffaggine nel cammino, tendenza ad inciampare per difficoltà alla dorsiflessione del piede, crampi ai polpacci. Con il passare del tempo il paziente tende anche a sollevare le ginocchia più del normale per evitare d’inciampare, tanto che il cammino viene paragonato a quello di un cavallo; per questo in tali circostanze si parla anche di deambulazione steppante (Louwerens JWK . 2018 ). Con il tempo ci può essere una diffusione al livello dei muscoli delle cosce, uno scarso controllo del ginocchio e frequenti cadute, fino a determinare il ricorso alla sedia a rotelle.
La malattia si estende in fase più tardiva alla mani. L’indebolimento è lieve e non determina un deficit funzionale, ma solo difficoltà ad abbottonare e sbottonare gli indumenti, ad usare chiusure lampo, quindi difficoltà nei gesti più minuti che richiedono una forza mirata e maggiore.

Malattia di Charcot-Marie-Tooth: comorbilità psichiatriche più frequenti

Chi è affetto da una forma più grave della patologia può avere una comorbilità con le patologie psichiatriche a causa di una qualità di vita restrittiva e compromessa (Rubinsztein JS et al., 1998). Studi più recenti sembrano confermare questa tesi. Pazienti con CMT presentano un rischio più elevato di sviluppare disturbi psichiatrici, in particolare la depressione, perché tali soggetti sembrano essere più suscettibili alle alterazioni della qualità della vita, che possono essere drammaticamente influenzate da limitazioni fisiche. Esiste, inoltre, una notevole correlazione tra i disturbi del sonno e la CMT.
Tuttavia una critica dei succitati studi consta nella diversità degli strumenti impiegati per valutare le variabili dipendenti e indipendenti. Pertanto, studi futuri dovranno mettere in campo metodologie omogenee per confermare statisticamente l’evidenza clinica (Cordeiro JL et al., 2014).

Come si cura la malattia di Charcot-Marie-Tooth? Quale può essere l’apporto della CBT?

Non essendo ancora disponibile una cura medica risolutiva, l’unica terapia in grado di migliorare le prestazioni funzionali (es. deambulazione, prensione) è il trattamento riabilitativo e psicoterapeutico. In particolare, un intervento riabilitativo importante è l’attività sportiva, uno strumento prezioso che porta ad abbattere le differenze sulla propria autonomia per le persone con difficoltà motoria. L’allenamento aerobico ha determinato, infatti, cambiamenti favorevoli in alcune misure di forza e attività funzionali: studi hanno rilevato cambiamenti positivi nella flessibilità della caviglia, nell’equilibrio, nell’agilità e nella mobilità (Sautreuil P et al, 2017). Ci sono, altresì, timori che l’esercizio fisico possa causare una debolezza da superlavoro (OW), caratterizzata da un progressivo indebolimento muscolare dovuto proprio all’esercizio fisico, al lavoro o alle attività quotidiane nelle persone con malattia da CMT (Giuseppe Vita et al, 2016). La maggior parte degli autori, comunque, incoraggia l’attività fisica nei pazienti CMT, ma raccomanda esercizi che non comportano un eccessivo sforzo del proprio potenziale (Knak KL et al, 2017).
Grande attenzione nel mondo scientifico viene suscitata dagli effetti della Psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT). La CBT aiuta a individuare i pensieri automatici e le credenze che ognuno di noi ha sulla realtà; in persone con una qualità di vita limitata, le emozioni negative sono spesso percepite dal soggetto come sintomi; la CBT può correggere i pensieri responsabili delle emozioni negative e favorisce l’integrazione con altri pensieri più funzionali al benessere della persona (Montano A., 2008). Essa è considerata l’unico intervento il cui effetto ha portato beneficio a sei mesi; non ci sono dati di follow-up che dimostrano un beneficio per tempi più lunghi. Attualmente non esistono prove circa i benefici con altri interventi psicosociali negli adulti con disturbi neuromuscolari. Sebbene alcuni abbiano cercato di valutare gli effetti di interventi psicosociali su disturbi neuromuscolari, i risultati e i benefici emersi sono quasi esclusivamente a breve termine.
I disturbi neuromuscolari in età adulta sono in aumento e anche per questo si rendono necessari risultati più chiari e definiti (Elaine Walklet et al, 2016). Apportare benefici fisici, psicologici e sociali alle persone affette da CMT può tradursi in un miglioramento della loro qualità di vita e in costi sanitari ridotti per la società.

Sindrome dell’ X Fragile: grazie alla ricerca potrà essere possibile diagnosticarla in età neonatale

Attraverso risonanza magnetica, è stato possibile dimostrare che i bambini affetti da sindrome dell’ X Fragile a livello neurologico presentano una sostanza bianca meno sviluppata rispetto ai bambini che non sviluppano la condizione. Si è mostrato così che ci sono differenze nel cervello, correlate alla sindrome dell’ X Fragile, riscontrabili molto prima di una diagnosi fatta di solito a tre anni.

 

Per la prima volta, i ricercatori della Scuola di Medicina dell’UNC (University of North Carolina) hanno utilizzato la risonanza magnetica per dimostrare che i bambini affetti da sindrome dell’ X Fragile a livello neurologico presentano una sostanza bianca meno sviluppata rispetto ai bambini che non sviluppano la condizione.

L’imaging di varie sezioni di sostanza bianca da diverse angolazioni può aiutare i ricercatori a concentrarsi sui circuiti cerebrali sottostanti, importanti per la corretta comunicazione neuronale.

Lo studio, pubblicato su JAMA Psychiatry, mostra che ci sono differenze nel cervello, correlate alla sindrome dell’ X Fragile, riscontrabili molto prima di una diagnosi fatta di solito a tre anni.

Finora, gli studi clinici sui farmaci non sono riusciti a dimostrare il cambiamento di trattamento in soggetti con sindrome dell’ X Fragile. Una delle sfide è stata l’identificazione di buone misure di esito del trattamento o di biomarcatori che mostrano risposta all’intervento.

Sindrome dell’ X Fragile: i risvolti dello studio

La sindrome dell’ X Fragile è una malattia genetica rara da ritardo mentale lieve-grave, che può associarsi a disturbi comportamentali e segni fisici caratteristici, ed è la causa ereditaria più comune della disabilità intellettiva nei maschi. I sintomi includono disabilità intellettive, problemi di interazione sociale, linguaggio ritardato, iperattività e comportamenti ripetitivi. Circa un terzo delle persone con sindrome dell’ X Fragile soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo dello spettro autistico.

Una delle cose più eccitanti delle nostre scoperte è che le differenze di sostanza bianca che osserviamo potrebbero essere utilizzate come un indicatore obiettivo per l’efficacia del trattamento – ha detto l’autore co-senior Heather C. Hazlett, PhD, assistente professore di psichiatria presso la UNC School of Medicina.

Per questo studio, Swanson, Hazlett e colleghi hanno utilizzato tecniche di imaging cerebrale in 27 bambini ai quali è stato diagnosticato il disturbo dell’X Fragile, e 73 bambini sani. I ricercatori si sono concentrati su 19 tratti di fibre della materia bianca nel cervello. Le fibre sono fasci di assoni mielinizzati – le lunghe parti di neuroni che si estendono attraverso il cervello o in tutto il sistema nervoso. Questi fasci di assoni collegano varie parti del cervello in modo che i neuroni possano comunicare rapidamente tra loro. Questa comunicazione è essenziale, specialmente per il corretto sviluppo neurologico durante l’infanzia.

L’imaging e l’analisi analitica hanno mostrato differenze significative nello sviluppo di 12 dei 19 tratti di fibra nei neonati con sindrome dell’ X Fragile fin da sei mesi di età. I bambini con X Fragile avevano tratti di fibra significativamente meno sviluppati in varie parti del cervello.

Questi risultati confermano ciò che altri ricercatori hanno dimostrato nei roditori: il ruolo essenziale dell’espressione del gene X fragile sullo sviluppo precoce della materia bianca nei bambini – ha detto il primo co-autore Jason Wolff, PhD, ex postdoctoral fellow presso UNC-Chapel Hill e ora assistente professore di Psicologia dell’Educazione presso l’Università del Minnesota – Il nostro lavoro evidenzia che il circuito della materia bianca è un obiettivo potenzialmente promettente e misurabile per l’intervento precoce, tuttavia, il raggiungimento dell’obiettivo dell’intervento infantile per la X Fragile richiederebbe probabilmente sforzi enormi di screening neonatale.

 

Guarire la frammentazione del Sé – Report dal Workshop con Janina Fisher, 7-8 Aprile 2018

Janina Fisher è una psicoterapeuta molto nota per la sua esperienza clinica e formativa nell’ambito del trauma. Nelle giornate del 7 e 8 Aprile 2018 ha tenuto un workshop, Guarire la frammentazione del sé, in cui ha affrontato il tema della dissociazione, con importanti riferimenti alla teoria dell’attaccamento, alle neuroscienze, alla mindfulness e ovviamente alla psicoterapia sensomotoria.

 

 Janina Fisher è una psicoterapeuta molto nota per la sua esperienza clinica e formativa nell’ambito del trauma. È vicedirettrice del Sensorimotor Psychoterapy Institut e ha lavorato presso il Trauma Center, fondato da Bessel van der Kolk.

In queste due giornate formative la Fisher affronta il tema della dissociazione, con importanti riferimenti alla teoria dell’attaccamento, alle neuroscienze, alla mindfulness e ovviamente alla psicoterapia sensomotoria.

Il workshop prende il via con queste sue parole:

Possiamo dirci guariti nel momento in cui accettiamo noi stessi, ci perdoniamo per quello che è successo arrivando addiritura ad amarci.

Janina Fisher: quando l’attaccamento diventa traumatico

Ma è la qualità dell’ attaccamento da bambini a determinare l’ attaccamento che da adulti abbiamo verso noi stessi, la nostra capacità di consolarci e perdonarci. Ecco perchè Janina Fisher riprende la teoria dell’attaccamento con particolare attenzione agli effetti nocivi sullo sviluppo nervoso di un attaccamento traumatico. I genitori disponibili supportano i figli piccoli nella gestione delle loro emozioni più intense, aiutandoli a sviluppare un’ampia finestra di tolleranza (Siegel, 1999), un range all’interno del quale le diverse intensità di attivazione emotiva e fisiologica possono essere integrate senza interrompere la funzionalità del nostro sistema, permettendoci così di dare un significato alle esperienze integrando le informazioni del nostro mondo interno con quelle provenienti dall’esterno.

Se i genitori invece creano paura perchè abusano o trascurano, il bambino reagirà con impulsività o si paralizzerà restringendo così lo spazio in cui può fare esperienza di emozioni che si sente in grado di poter gestire. Traumi ripetuti o esperienze negative prolungate possono infatti compromettere la nostra capacità di sintonizzarci con il range ottimale di attivazione a favore di modalità di iper o ipo attivazione.

Il fallimento dell’ attaccamento genitoriale interferisce inoltre con l’interiorizzazione di un senso del Sé coerente: rinnegare bisogni che non possono essere soddisfatti o emozioni inaccettabili può essere adattivo ma il prezzo da pagare è l’alienazione dal Sé e la frammentazione.

Accanto così ad una parte che ha bisogno di continuare a funzionare nella quotidianità, c’è una parte emotiva che a sua volta può contare al suo interno diverse parti.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Janina Fisher: Guarire la frammentazione del Sé - Report dal workshop - IMM. 1

Imm. 1 – Strategie difensive delle Parti del Sé (Fisher, 2009)

Janina Fisher: Guarire la frammentazione del Sé- Report dal workshop - IMM.2

Imm. 2 – Le risorse delle Parti (Fisher, 2006)

 

Ognuna di queste parti dissociate strutturalmente si manifestano in reazioni difensive ma una delle cose più importanti da trasmettere ai pazienti è che non si tratta di parti “cattive” poichè ognuna nasconde in sé una risorsa, una sorta di dono di cui hanno bisogno tutti gli esseri umani. Ecco allora che anche la parte che attacca, che può essere quella che induce a gesti autolesivi, è anche quella che potrebbe invece darci coraggio per affrontare le situazioni più difficili.

La maggior parte di noi ignora l’esistenza di queste parti che nel corso della giornata si alternano in modo rapido sul palcoscenico del nostro mondo interno e allora la psicoterapia diventa l’opportunità per ascoltare questa comunità interiore che parla un linguaggio soprattutto di sensazioni e d’impulsi.

La prima giornata del workshop Guarire la frammentazione del Sé si chiude a tal proposito con la visione di un filmato di una terapia di coppia in cui Janina Fisher aiuta i partner a riconoscere proprio il ruolo delle loro parti bambine all’interno della loro relazione.

Guarire la frammentazione del Sé: il blending e unblending

All’avvio della seconda giornata del workshop, Janina Fisher ci parla del blending (fusione) per descrivere cosa accade quando un’emozione prende il sopravvento: il paziente suicidario per esempio spesso si fonde con la parte suicida, si identifica completamente con la disperazione ed è proprio questa identificazione a determinare la patologia. Il paziente deve essere invitato alla curiosità, una parola più volte ripetute da Janina Fisher in queste due giornate dell’incontro Guarire la frammentazione del Sé, per mettere in discussione l’idea che lui effettivamente sia la parte in cui si sente completamente immerso. Il terapeuta deve aiutare il paziente a capire che le emozioni più difficili sono solo emozioni di una o più parti di lui e per stare meglio dovrà imparare a distanziarsene.

Il terapeuta diventa allora un interprete simultaneo per tradurre nel linguaggio delle parti la narrazione del paziente che avviene invece in prima persona (“io faccio sempre degli errori” → “ecco la parte del bambino che pensa di sbagliare sempre”). Questo nuovo linguaggio incrementa la mindfulness, utile per disidentificarsi dal sintomo (“sono un fallimento” → “sta passando in me questo pensiero di fallimento”) in primo luogo perchè il semplice dirsi che una parte di noi è ansiosa, anzichè attribuire alla nostra intera persona questo stato emotivo, porta già ad una dimunizione del livello di ansia, avendo il linguaggio un effetto diretto sul corpo.

L’ unblending (scissione) è proprio questa capacità di notare una parte e disidentificarsi da essa in quanto una delle tante: si può notare un’emozione, una sensazione ed anche un pensiero senza necessariamente identificarsi in esso. Il passo successivo è comunicare empatia per la parte identificata, perché vogliamo che il paziente provi simpatia e desiderio di accudimento verso il bambino coraggioso che si è ribellato alla mamma aggressiva o verso il bambino che taceva per proteggersi dalla possibilità di cadere vittima di abuso.

Quando il paziente ha queste emozioni positive verso le sue parti è il momento buono per “riparare” l’attaccamento, per curare la memoria di una rottura precoce che si nasconde dietro a emozioni di vergogna, paura e tristezza. Se è vero che i ricordi che abbiamo sono codificati nelle reti neuronali e non possono cambiare è anche vero che possiamo creare nuove reti che fanno sì che il ricordo venga inserito in un nuovo percorso, conferendo quindi ad esso un finale diverso.

Lo scopo del lavoro con le parti è proprio questo: accettare quello che di brutto è accaduto ma darsi la possibilità di scrivere un lieto fine, “tenendo il nostro sé bambino nel marsupio del nostro sé adulto”.

Il workshop Guarire la frammentazione del Sé si è concluso dopo due giornate intense, ricche di spunti per migliorare la nostra parte “terapeuta” ma anche per far riflettere sulle nostre altre parti interne.

 

 

La vita segreta della mente (2017) – Recensione del libro di M. Sigman

“Come funziona il nostro cervello quando pensa, sente, decide” è il sottotitolo del lavoro del neuroscienziato argentino M. Sigman, edito da UTET. Una lettura facile e scorrevole per chi vuole guardare da vicino la biologia del cervello e come funziona la mente nella quotidianità.

Il testo scorre in modo semplice e per nulla semplicistico: si leggono esperimenti, prove, risultati e ricerche scientifiche proprio sul funzionamento della mente “quando pensa, sente e decide”. Sigman non si limita a quello dell’adulto, ma si addentra nell’ancora più oscuro e inesplorato cervello dei neonati. Vengono affrontati numerosi temi: come si formano le idee? Come prendiamo le decisioni? Come sogniamo? Come si trasforma il cervello e come noi cambiamo con lui?

Il libro è concepito come un viaggio nella mente, in cui convergono numerosi contributi di psicologia, neurobiologia, cinema, arte, matematica, linguistica, filosofia e tanto altro ancora. Si alternano capisaldi teorici e innovative scoperte, tra citazioni di grandi filosofi e di grandi luminari.

Aneddoti personali e riferimenti bibliografici si articolano contribuendo a spiegare (ergo comprendere) numerosi fenomeni comuni, ma non banali. Sei capitoli per poco più di 250 pagine si aprono con questi interrogativi: “Come pensano i neonati?” “Come nasce la coscienza?” “Come e quanto ci governa l’inconscio?” “Come scegliamo di fidarci?” “Cosa accade durante i sogni?” “Cosa rende il nostro cervello predisposto al cambiamento?” “Come possiamo mettere a frutto ciò che sappiamo sul pensiero per insegnare meglio”?

La mente dei più piccoli: come pensano i neonati?

Dopo aver esplorato vecchie e nuove concezioni di come funziona l’architettura della mente, l’autore chiarisce che il bambino non è un adulto in miniatura, ne una “tabula rasa” dove vengono inscritti apprendimenti e conoscenze, anzi. Il punto di vista di Piaget viene stravolto e viene rivisto un suo esperimento, annoverato tra i più importanti della storia della psicologia ovvero “A non B”.

Nella situazione sperimentale sopra citata, si mostra ad un bambino un oggetto in una posizione (A) e poi l’oggetto viene spostato in un’altra posizione (B). Il bambino continuerà a cercare nella posizione A nonostante veda lo spostamento. Secondo lo studioso francese la cosiddetta “permanenza dell’oggetto” avrebbe previsto un ragionamento che andasse oltre ciò che appare alla superficie dei sensi; pertanto questa facoltà non sarebbe sviluppata nei bambini di pochi mesi. Tuttavia, l’interpretazione attualmente più plausibile, alla luce degli studi odierni, è invece che i bambini (stiamo parlando di bimbi di 10 mesi) sanno che l’oggetto è stato cambiato di posto ma non sono in grado di utilizzare l’informazione, poiché possiedono un controllo volatile delle loro azioni; in altre parole non hanno sviluppato il controllo inibitorio. Sono concezioni copernicane che ribaltano la concezione del neonato e della sua mente, così come resoci dai precedenti studiosi, di cui Sigman riconosce il grande valore.

In seguito vengono affrontati i vari processi cognitivi nella loro genesi e nel loro sviluppo. E’ dimostrato che le capacità cognitive non si sviluppano in modo omogeneo, qualcosa nasce prima, qualcosa si sviluppa con il tempo.

Come si sviluppano i processi cognitivi nella mente del neonato?

Secondo quanto scrive Sigman, l’elaborazione dei concetti appare innata, mentre le funzioni esecutive appaiono appena abbozzate alla nascita.

Anche l’attenzione viene esaminata, tra le tante cose, come maturi molto prima il sistema che permette di orientare l’attenzione verso un nuovo elemento piuttosto che quello che permette di sganciarsene. Questo spiega perché sia così più complesso distogliere volontariamente l’attenzione; allo stesso tempo, spiega perché i bambini riescano a smettere di piangere quando vengono attratti da un altro stimolo nell’ambiente che richiami la loro attenzione.

Altro spazio viene dato al linguaggio a partire dall’idea rivoluzionaria della linguistica di Chomsky e da innumerevoli studi condotti su bambini di appena qualche ora di vita. Anche in questo caso i neonati non sarebbero assolutamente contenitori vuoti da riempire di nozioni, ma nascerebbero con predisposizioni già formate all’apprendimento del linguaggio. Valutando l’intensità di suzione, per esempio, ricercatori hanno notato come un neonato possa discernere tra suoni provenienti da lingue diverse. Il neonato avrebbe infatti un cervello universale per il linguaggio in grado di distinguere le differenze fonologiche di tutte le lingue; è con il tempo che poi si specializza sui fonemi propri della lingua madre.

Il libro prosegue raccontando come l’apprendimento avvenga in un modo assimilabile al processo del correttore automatico del T9 dei nostri smartphone e spiega perché imparare una lingua da adulti ci risulti più difficile. Da grandi diventiamo meno bravi ad ascoltare semplicemente i suoni ma restiamo più attenti ad apprenderne il significato a discapito della musicalità e dei suoni delle parole stesse (meccanismo invece utilizzato proprio dai bambini quando imparano a parlare).

Si susseguono descrizioni dello sviluppo di concetti sempre più complessi dimostrando di volta in volta, con esperimenti brillanti nella loro semplicità, come i bambini possano elaborare concetti astratti e sofisticati come quello di morale, di furto, di buono, cattivo, giusto e sbagliato. I bambini di 6 mesi infatti sono già in grado di inferire intenzioni, desideri bontà e cattiveria arrivando a dimostrare come la nozione di proprietà (in inglese mine) preceda quella di identità (in inglese me).

Come scegliamo? Come diamo fiducia agli altri nelle nostre decisioni?

Tramite racconti storici e scientifici, da Chrurchill a Turing, viene sviscerato il processo decisionale in numerosi suoi aspetti, tenendo di conto del valore dell’azione, del costo del tempo investito, dell’urgenza di rispondere in una chiara ottica neuronale

[blockquote style=”1″]Chi prende decisioni sa molto di più di quanto crede di sapere[/blockquote].

La stessa cosa varrebbe anche prendendo in considerazione tutte quelle scelte che prendiamo “di pancia” (che l’autore riporta con la parola spagnola “corazonada”): l’importanza delle risposte e degli indizi corporei sarebbero importanti messaggi dai quali partire per trarre informazioni dall’ambiente interno ed esterno, molto prima che il livello consapevole entri in funzione, in linea con gli ormai sempre più centrali approcci “bottom up”.  Vengono poi sviscerate le differenze tra decisioni utilitaristiche e deontologiche, tra neurobiologia ed esempi di dilemmi; vengono raccontati esperimenti geniali nella loro semplicità per spiegare meccanismi complessi come la fiducia nell’altro e la generosità.

Perché gli adolescenti sono soggetti a comportamenti più rischiosi?

L’adolescenza è notoriamente uno dei periodi di maggiore rischio e questo potrebbe essere spiegato anche dall’immaturità della corteccia prefrontale (deputata alla valutazione delle conseguenze future e all’inibizione degli impulsi); questo non spiega perché non siano i bambini (con la corteccia ancor più immatura) ad esporsi ai rischi più degli adolescenti.

Gli studi riportano che la percezione del rischio “dipenda” dalla zona cerebrale del “nucleus accumbens” del sistema limbico che corrisponde alla percezione del piacere edonistico e sessuale; studi infatti riportano che in presenza di eccitazione sessuale aumenta la predisposizione a comportamenti rischiosi o ritenuti inaccettabili a mente fredda e pertanto la risposta alla domanda potrebbe proprio unire questi due importanti dati noti: l’adolescenza è la simultaneità tra l’immaturità di sviluppo della corteccia e il consolidato sviluppo del nucleus accumbens che insieme fanno sì che vi sia la ricerca di rischio e piacere in assenza di un completo sviluppo di processi inibitori. Tutto ciò rappresenta un’ulteriore conferma all’ipotesi che lo sviluppo del cervello abbia un andamento tutt’altro che omogeneo.

“Dentro” la mente: come funzionano coscienza, sogni e inconscio?

Anche argomenti come coscienza, sogno, inconscio trovano spazio e un nuovo tentativo di definizione. Si comincia ovviamente da Freud ma si parla del cervello e di come questo sia in grado di osservare e monitorare i suoi stessi processi, di controllarli, inibirli o modificarli in quello che viene chiamato “preludio alla coscienza”.

Nel capitolo “I viaggi della coscienza”, vengono presi in considerazione il sonno e il sogno, con ampio spazio dedicato alle alterazioni indotte da sostanze e su quali meccanismi di funzionamento si poggino le varie droghe, dalla cannabis alla cocaina all’ “ayahuasca”.

Qual’è il limite di età per apprendere? Le neuroscienze come possono aiutarci ad apprendere?

Sigman risponde scientificamente anche a domande interessanti come “C’è una età limite per apprendere? Si nasce talentuosi o si diventa?”. Si può apprendere a tutte le età e le difficoltà di apprendimento tardivo non dipendono da altro se non dal fatto che da grandi abbiamo forse meno tempo e meno motivazione di quanta ne abbiano i bambini.

L’ultima parte viene lasciata a sollecitare domande pratiche: come possono le neuroscienze e le loro sempre più innovative scoperte essere utili all’educazione e all’insegnamento? Va da sé che nell’ambito della dislessia la risposta, per esempio, sia già arrivata. La dislessia infatti non dipende da problematiche legate all’intelligenza o alla motivazione, ma proprio da una specifica difficoltà di regioni del cervello di mettere in connessione la visione con l’udito.

Nell’ultimo capitolo del libro vengono illustrate altre importanti asserzioni, ad esempio: come per apprendere occorra a volte dis-apprendere qualcosa; come il migliore insegnante sia spesso un compagno, alimentando l’importanza della “peer education” e riproponendo l’ipotesi di come questa tendenza ad insegnare possa essere innata.

Il libro è estremamente denso: domande, risposte, strumenti, citazioni, esempi, riferimenti. Quello che stupisce e diverte, è la facilità con cui tutto questo è riportato. Da Harry Potter a John Lennon, da Piaget a Platone passando per numerosi premi Nobel, con il filo conduttore supremo delle neuroscienze, il lettore ha la possibilità di accedere a concetti e questioni per niente banali, in modo intuitivo e semplice. Questo è solo uno dei grandi meriti dell’autore che in questo libro ha brillantemente riportato il lavoro di 20 anni di carriera densa di importanti riconoscimenti.

 

Scuola: l’intelligenza emotiva come prevenzione del disagio di bambini e adolescenti

A scuola, appare evidente il ruolo centrale che i processi affettivi giocano nell’organizzare l’esperienza e il comportamento. La scuola, in un’ottica di prevenzione, ci può aiutare nello sviluppo dell’ intelligenza emotiva.

Luisana D’Alessandro, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DI TRONTO 

 

Il costrutto di intelligenza emotiva

Il concetto di Intelligenza emotiva è stato introdotto da Salovey e Mayer (1990) per descrivere “la capacità che hanno gli individui di monitorare le sensazioni proprie e quelle degli altri, discriminando tra vari tipi di emozione ed usando questa informazione per incanalare pensieri ed azioni”.

Goleman, nel 1995, riprende tale concetto mediante la pubblicazione del suo libro ” Intelligenza emotiva ”; questo termine, secondo Goleman, include l’autocontrollo, l’entusiasmo e la perseveranza, nonché la capacità di auto-monitorarsi.
Questi concetti possono essere insegnati ai bambini, mettendoli nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro (Goleman, 1995).

Si afferma, che la famiglia è il primo contesto in cui apprendiamo gli insegnamenti riguardanti la vita emotiva. L’educazione emozionale opera, non solo attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate al bambino, ma anche attraverso i modelli che gli offrono mostrandogli come gestiscono i loro sentimenti e la propria relazione coniugale. Avere dei genitori intelligenti, sotto il profilo emotivo, è una fonte di beneficio per il bambino.
I bambini che imparano a gestire le proprie emozioni e a controllare i propri istinti tollerano meglio le situazioni stressanti, imparano a comunicare meglio i propri stati emozionali e sono in grado di sviluppare relazioni positive con la famiglia e gli amici e ottengono maggiori successi a scuola.

Intelligenza emotiva: la scuola come contesto di prevenzione

La scuola, in un’ottica di prevenzione, ci può aiutare in questo compito.
In un clima favorevole alla crescita, l’apprendimento è più profondo, procede più rapidamente, in quanto nel processo è investita l’intera persona, con sentimenti e passioni al pari dell’intelletto (Rogers, 1978).

A scuola, appare evidente il ruolo centrale che i processi affettivi giocano nell’organizzare l’esperienza e il comportamento. In ultima analisi, “non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva” (Galimberti, 2001).
L’analfabetismo emozionale rappresenta un fattore di rischio e pericolo per la società. L’esclusione o la marginalizzazione nei programmi scolastici di spazi da destinare alla formazione emozionale, è un indicatore negativo che può spiegare l’impotenza delle istituzioni scolastiche di fronte all’aumento delle difficoltà e del disagio, oltre all’insorgenza di alcuni disturbi fra gli adolescenti e i bambini (Mariani, 2001).

Il disagio giovanile, rilevabile in ambito scolastico, è inquadrato in “un insieme di comportamenti disfunzionali (scarsa partecipazione, disattenzione, comportamenti prevalenti di rifiuto e di disturbo, cattivo rapporto con i compagni, ma anche assoluta carenza di spirito critico), che non permettono al soggetto di vivere adeguatamente le attività di classe e di apprendere con successo, utilizzando il massimo delle proprie capacità cognitive, affettive e relazionali“. (Mancini e Gabrielli, 1998). La sofferenza psicologica, come evidenziato dalle ricerche in questo settore, può comportare stress, ricollegabile alle prestazioni scolastiche, comportamenti di angoscia e insicurezza, problemi di comunicazione, sintomi di tensione e assunzione di sostanze psico-attive (Baraldi e Turchi, 1990). Tutto ciò può sfociare in fenomeni rilevanti come bullismo, difficoltà d’ apprendimento, deficit di attenzione e iperattività o rifiuto della scuola; tali fenomeni rendono ancora più visibile l’impotenza dei genitori e degli insegnanti.

Goleman, nel suo libro Intelligenza emotiva, riporta l’esperienza di una scuola di San Francisco, con quindici alunni di quinta elementare. In questa scuola viene proposto un programma di alfabetizzazione emotiva; si richiede che “gli insegnanti e gli studenti si concentrino sul tessuto emozionale. La strategia consiste nell’utilizzare come argomento del giorno le tensioni e i traumi presenti nella vita dei bambini. Gli insegnanti parlano di questioni concrete: del dolore di sentirsi esclusi, dell’invidia e dei contrasti che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola” (Goleman, 1995). I programmi di alfabetizzazione emotiva proposti nell’ambito della prevenzione, hanno come obiettivo quello di consentire un’adeguata gestione dei sentimenti. Le finalità dello sviluppo dell’ intelligenza emotiva riguardano pertanto la conoscenza, l’acquisizione e la realizzazione delle competenze emotive relative a cinque aree: Consapevolezza di sé, Autocontrollo, Motivazione, Empatia, Abilità sociali.

Nello specifico:
1. Consapevolezza di sé: conoscere in ogni istante i propri sentimenti e le proprie preferenze e usare questa conoscenza per guidare i processi decisionali; avere una valutazione realistica delle proprie abilità e fiducia in se stessi.
2. Autocontrollo: gestire le proprie emozioni in modo che facilitino il compito in corso invece di interferire; essere coscienziosi e capaci di rimandare le gratificazioni per perseguire i propri obiettivi; saper ben fronteggiare la propria sofferenza emotiva.
3. Motivazione: usare le proprie preferenze più intime per spronare e guidare se stessi al raggiungimento dei propri obiettivi, come pure per aiutarsi a prendere l’iniziativa; essere altamente efficienti e perseverare nonostante insuccessi e frustrazioni.
4. Empatia: percepire i sentimenti degli altri, essere in grado di adottare la loro prospettiva e coltivare fiducia e sintonia emotiva con un’ampia gamma di persone fra loro diverse.
5. Abilità sociali: gestire bene le emozioni nelle relazioni e saper leggere accuratamente le situazioni sociali; interagire fluidamente con gli altri e usare queste capacità per guidarli, per ricomporre dispute, come pure per cooperare e lavorare in equipe.

L’ autoconsapevolezza rappresenta un aspetto centrale per capire la propria vita affettiva e favorire nel bambino tale consapevolezza, determina un consolidamento della capacità di valutare e regolare meglio quello che accade quando si è preda di un’emozione intensa e distruttiva.
Questo nuovo punto di partenza nell’introdurre l’alfabetizzazione nelle scuole fa delle emozioni e della vita sociale vere e proprie materie di insegnamento cosicché questi aspetti tanto rilevanti della vita quotidiana dell’alunno non vengono più considerati come intrusioni non pertinenti né come occasionale materia disciplinare (Goleman, 1995). Le lezioni possono apparire piatte, inadeguate a offrire una soluzione ai problemi che affrontano, ma sono assai significative. L’apprendimento emozionale mette le radici e fruttifica, dando risultati in futuro (Goleman, 1995). In sintesi, il repertorio comportamentale dell’uomo, secondo Goleman, è in buona parte determinato dalle emozioni (Goleman, 1998).

L’esigenza di progettualità, d’altra parte, trova spiegazione e conferma nelle più recenti ricerche psicologiche nell’ambito del disagio che sottolineano la necessità di offrire interventi sistematici di supporto e consulenza ai giovani (Mariani, 2003). Ciò deve avvenire proprio in riferimento alle problematiche della fase “autonoma e prolungata” dell’adolescenza, caratterizzata dall’attivazione di stati emozionali intensi, di sofferenza.

Fondamentale è “essere nella prevenzione” in quanto ci permette di costruire validi e profondi rapporti con i bambini e i giovani, antidoti del disagio.
Sintonizzarsi con gli alunni e con i figli, offrire loro le parole che identificano quello specifico stato emotivo, condividere il significato di ciò che sentono e di conseguenza analizzare le problematiche connesse e le possibili soluzioni è un’azione altamente educativa. Costituisce, infatti, un’occasione di riflessione e di confronto con sé e con l’altro, diminuendo il rischio di perdersi nella “sicurezza” offerta da qualsiasi forma di dipendenza (Mencaroni, 2013).

Se c’è una cosa da considerare, è l’importanza di guardare ai giovani con occhi liberi da ogni pregiudizio culturale, di ascoltarli aprendo la mente e il cuore, perché, se non si propongono valide alternative, “il giovane rabbioso di oggi è destinato a diventare l’uomo solitario e ostile di domani”. (D.Kindlon, M.Thompson, 1999).

E’ indispensabile, infine, riaffermare che “l’alfabetizzazione emozionale può per certi versi apparire come un esercizio banale, o comunque insufficiente a impedire le multiformi manifestazioni del malessere giovanile, ma l’obiettivo finale di formare nell’ambito scolastico esseri umani, in un clima di libertà e dignità, costituisce un traguardo fondamentale per il nostro futuro e per quello della scuola” (Vignati, 2000).

Il diffondersi di esperienze formative centrate sulla crescita emozionale, credo autorizzi la speranza in un futuro nel quale la scuola assumerà il compito educativo prevalente di promuovere qualità e attitudini come l’autocontrollo e la sicurezza di sé, l’esprimere i sentimenti, l’arte di ascoltare e di risolvere i conflitti, di cooperare, e tutte le altre abilità della vita emotiva.

Le anomalie cerebrali correlate all’ADHD sarebbero osservabili già in età prescolare

Lo studio, finanziato dal National Institutes of Health (NIH) americano e pubblicato sul Journal of International Neuropsychological Society, rappresenta il primo esame completo del volume cerebrale dei bambini prescolari con Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività (ADHD) e potrebbe aiutare a determinare nuovi modi per prevedere i bambini più a rischio di sviluppare il disturbo.

 

Il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività o ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è uno tra i disturbi più comuni diagnosticati durante la prima infanzia. Ad oggi, gli studi di valutazione dello sviluppo cerebrale strutturale nei bambini affetti hanno esaminato soggetti in età scolare, nonostante i sintomi si osservino anche in età prescolare.
Utilizzando la risonanza magnetica (RM) ad alta risoluzione e le misure cognitive e comportamentali, i ricercatori del Kennedy Krieger Institute hanno osservato lo sviluppo cerebrale di 90 bambini di età compresa tra i 4 e i 5 anni. I bambini facenti parte del campione sono stati selezionati con cura per consentire una miglior comprensione dei meccanismi cerebrali associati all’insorgenza del disturbo. Un’ulteriore sfida era rappresentata dalla strumentazione scelta: l’utilizzo della risonanza magnetica con questi bambini è complicato perché richiede l’immobilità per un periodo di tempo relativamente lungo. Per ovviare al problema i piccoli partecipanti sono stati sottoposti a una procedura di desensibilizzazione comportamentale personalizzata in cui si utilizzava uno scanner fittizio per preparare i bambini alle scansioni vere; con queste sessioni di preparazione l’efficienza del trial clinico è stato quasi del 90%.

I risultati indicano che le anomalie a livello della struttura cerebrale possono essere evidenti già nelle prime fasi dello sviluppo, in particolar modo si è osservato che i bambini in età prescolare con ADHD mostrano un volume cerebrale significativamente ridotto in più regioni della corteccia cerebrale, inclusi i lobi frontali, temporali e parietali, regioni tipicamente coinvolte nel controllo cognitivo e comportamentale.
Le evidenze trovate rappresentano la prima fase di uno studio longitudinale che seguirà i bambini fino in adolescenza con l’obiettivo di prevedere i soggetti che svilupperanno con più probabilità il disturbo nel corso degli anni.

Mark Mahone, autore principale dello studio ha affermato: Lo studio conferma che l’ ADHD è una condizione che presenta manifestazioni a livello sia fisico che cognitivo. La nostra aspirazione è quella di riuscire a riconoscere i primi sintomi, cerebrali e comportamentali, maggiormente associati al disturbo e perché no, identificare gli aspetti dello sviluppo precoce che possono condurre a miglioramenti. Comprendere ciò che accade nel cervello può portare a creare interventi mirati e preventivi nei bambini piccoli per ridurre gli esiti negativi o addirittura invertire il corso di questa condizione.

I percorsi clinici della Psicologia – Metodi strumenti e procedure nel SSN (2018) – Recensione del libro a cura di Daniela Rebecchi

Negli ultimi anni in Italia si assiste ad un incremento dei problemi di salute mentale, in particolare dei sintomi di ansia e depressione,  soprattutto nella fascia di età giovanile. Come far fronte al fenomeno?

Sara Sgambati

Questo dato sulla salute mentale indica innanzitutto la necessità di interventi adatti ai bisogni emergenti e specifici delle singole popolazioni di utenti.

“I percorsi clinici della psicologia” rappresenta il continuativo e prezioso lavoro condotto sul campo degli stessi professionisti psicologi-psicoterapeuti dell’AUSL di Modena che hanno contribuito a scrivere il volume. Il libro vuole essere un utile strumento per l’attività clinica svolta con un metodo strutturato, basato su evidenze scientifiche e linee guida, che propone procedure d’intervento validate per i problemi di salute trattati nelle diverse realtà sanitarie. Al suo interno viene descritta la realtà del Servizio di Psicologia dell’Ausl di Modena, attivo da 15 anni, operante in modo trasversale tra i Servizi e tra i Dipartimenti.

Psicologi e psicoterapeuti nel SSN per la salute mentale

Il volume è diviso in tre parti: nella prima è definita la premessa in base alla quale è nato il libro, ovvero il ruolo della Psicologia all’interno del Sistema sanitario Nazionale. In quella centrale viene posta l’attenzione sull’appropriatezza degli interventi e le valutazioni di esito, necessari per un’operatività ed una professionalità che permettano di adeguare le evidenze al contesto operativo. L’ultima è la parte più operativa, ove vengono delineati i percorsi clinici delle diverse problematiche e/o disturbi rilevanti nel contesto sanitario per l’intervento sulla salute mentale.

A questo proposito, sono proposti protocolli operativi specifici dell’età adolescenziale come nel capitolo “Diagnosi e trattamento sugli adolescenti con sintomatologia di tipo depressivo lieve e moderata”, o propri di una particolare fase del ciclo di vita in “Valutazione e trattamento della depressione in gravidanza e nel post-partum”, o ancora di una dipendenza in “Valutazione e trattamento del gioco d’azzardo patologico”.

Inoltre sono approfonditi ambiti specifici di intervento che suggeriscono esperienze quali: interventi di gruppi psicoeducativi per i familiari di pazienti con disturbo borderline della personalità, o specifici dell’ambito ospedaliero come i trattamenti psicologici per pazienti affetti da patologie cardiache, o ancora su un problematica emergente quale il percorso di accompagnamento al cambiamento per uomini autori di violenza di genere in ambito intrafamiliare. Ogni percorso si declina in studi di evidenza e linee guida fino alla valutazione finale dell’intervento, proponendo strumenti tra cui testistiche da poter utilizzare.

Dalla lettura del libro si coglie quanto, grazie ad un’organizzazione e ad un coordinamento dell’attività psicologica, possano divenire operativi degli interventi disciplinari e professionali di comprovata efficacia e scientificità e quanto questi possano integrarsi e raccordarsi con altre discipline e con altri professionisti sui bisogni e sulle richieste dei pazienti e delle loro famiglie. Si coglie il valore aggiunto che i professionisti sono riusciti a realizzare, per una attività psicologica e psicoterapica che si rapporta con le altre discipline, per la progettualità di interventi di prevenzione e cura e soprattutto per offrire risposte ai pazienti e ai loro familiari con attenzione ai benefici e ai costi che questo comporta.

In ricordo di Giovanni Liotti e delle sue lezioni

Una di quelle notizie difficili da accettare, una notizia ricevuta in una chat di gruppo. Una chat con alcune colleghe ex allieve di Studi Cognitivi che, come me, hanno avuto la fortuna di assistere ad alcune lezioni del Prof. Gianni Liotti. Inutile descrivere il dispiacere in cui tutte siamo piombate subito dopo aver ricevuto la notizia, poi il silenzio, un silenzio dovuto.

Tutti noi abbiamo apprezzato le sue lezioni, dettagliate e organizzate nei minimi particolari, per consentire a chiunque lo ascoltasse di capire la sua teoria e gli importanti risvolti a livello clinico. Argomento centrale delle sue lezioni erano il trauma complesso e i sistemi motivazionali, tematiche che il prof Gianni Liotti ha sempre studiato e su cui ha tanto scritto e pubblicato, fino a diventare famoso in tutto il mondo, tanto da farci invidiare siffatta mente da accademici e clinici d’oltreoceano.

Eppure le sue lezioni erano molto di più: erano uno spalancare le porte su piccoli universi di psicologia, una chiave per leggere con mente da clinico il mondo che ci circonda, anche i suoi aspetti più piccoli e apparentemente banali.

Il curriculum del prof Liotti lo precedeva, e chiunque lo abbia incontrato almeno una volta ne capisce il motivo. Eppure, tra le tante nozioni che ci ha trasmesso, ho un ricordo in particolare che credo mi accompagnerà a lungo nella professione: il prof. Liotti spiegava il primo incontro con un paziente traumatizzato, descriveva in che modo una sua paziente si faceva del male per non sentire un dolore più grande, quello del trauma subito in tenera età. Nel sentire la descrizione di quegli agiti autolesionistici, molti degli studenti presenti hanno assunto un’espressione di paura, spaventata. È stato allora che il prof Liotti ha detto:

“non dovreste reagire così dinnanzi a chi vi racconta tanto dolore, bisognerebbe pensare che è una persona che soffre e che quello è l’unico modo che ha per gestire la sofferenza”.

È una frase che forse molti studenti si sentono ripetere dai propri didatti, ma il tono di voce con cui fu detta da Liotti mi ha ricordato l’estrema importanza di non essere giudicante, mai, dinnanzi alla sofferenza altrui. Perché, si sa, il più delle volte se si diventa degli illustri studiosi, si è dei grandi clinici di partenza. E per essere grandi clinici, non si può non essere persone sensibili ed empatiche. La prosodia, l’espressione con cui Liotti ci ha rivolto quelle parole sono state un grande insegnamento di cosa significa essere empatici.

Credo che tutti noi, specializzandi seduti in platea ad ascoltare le sue parole, tenderemo a ricordare le sue lezioni come delle esperienze di grande formazione non solo curriculare. Sebbene ne sia grata, ritengo di aver avuto la sfortuna di assistere a poche lezioni di Liotti, penso ai suoi studenti e ai suoi colleghi più stretti, alla perdita che ciò rappresenterà per loro e che il mio dispiacere non sia che una minima parte della loro più grande tristezza. D’altra parte penso, però, che se un didatta ti colpisce e ti resta dentro anche solo dopo poche lezioni, vale la pena ricordare a tutti che persona speciale fosse.

 

Ed è così che mi piacerebbe ricordarlo. In piedi dietro a una cattedra, a godersi il meritato applauso per la sua grande lezione.

 

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista Gianni Liotti per State of Mind nel 2014:

 

Mind wandering nelle persone con ippocampo danneggiato

Mind wandering: è possibile per le persone che hanno l’ippocampo danneggiato? Le scoperte di una recente ricerca del team guidato da Cornelia McCormick

L’ippocampo è una struttura che si trova in entrambi i lati del cervello, nello specifico nei lobi temporali, vicino alle orecchie. Gioca un ruolo importante nella memoria e nel pensiero riferito al passato e al futuro. Proprio questo ha portato una squadra di ricercatori, guidata da Cornelia McCormick al Wellcome Center for Human Neuroimaging, a chiedersi se le persone con danni ad entrambi gli ippocampi siano ancora capaci di mind wandering, partendo dal presupposto che quando sogniamo ad occhi aperti, spesso si tratta di cose che abbiamo fatto o che intendiamo fare. Inoltre: se questi pazienti riescono a vagabondare con la mente, il contenuto dei loro pensieri è diverso da quello dei pazienti sani?

Mind wandering e ippocampo: come si è svolta la ricerca

I ricercatori hanno seguito 6 pazienti maschi con danno bilaterale dell’ippocampo per due giorni durante le ore diurne, occasionalmente chiedendo loro di riferire a cosa stavano pensando e confrontando le loro descrizioni con quelle ottenute da 12 controlli sani. I pazienti con ippocampo danneggiato vagavano con la mente quanto i controlli sani, ma la forma e il contenuto del loro vagare erano molto diversi.
I ricercatori hanno seguito controlli e pazienti (che avevano lesioni piccole ma altamente specifiche all’ippocampo, causate da una forma di encefalite) mentre stavano frequentando un laboratorio psichiatrico dove per due giorni si sono sottoposti a scansioni cerebrali e altri test. Per venti volte al giorno (della durata di 8 ore), i ricercatori hanno domandato ai partecipanti: “A cosa stavi pensando poco prima che te lo chiedessi?”, le risposte venivano immediatamente trascritte. La domanda veniva posta ai partecipanti durante i periodi tranquilli della giornata in cui il vagabondaggio mentale è più probabile.

I risultati della ricerca: le differenze sulla memoria episodica

Codificando le risposte, i ricercatori hanno trovato tassi estremamente elevati di mind wandering – definito come avere pensieri disimpegnati dal mondo esterno (o percettivamente “disaccoppiato”) – tra i pazienti e i controlli, di circa l’80-90%.
Le risposte dei partecipanti rilevano che i pensieri della mente dei pazienti erano molto diversi dai controlli sani. Mentre il mind-wandering dei controlli era per lo più episodico (su eventi passati e presenti) e consisteva in scene visive, il vagabondaggio mentale dei pazienti era in gran parte semantico (sui fatti) e verbale. “Le piccole lesioni selettive del loro ippocampo hanno drammaticamente influenzato la natura del loro vagabondare mentale”, hanno detto i ricercatori.
Questo contrasto nel mind-wandering tra i pazienti e i controlli è giustificato dai test neuropsicologici che hanno rilevato nei pazienti una memoria episodica alterata, ma normale in tutte le altre sfaccettature mnemoniche, compresi i test della memoria di lavoro; quindi è altamente improbabile che fossero incapaci di ricordare i loro pensieri vagabondi.
Sappiamo dalla ricerca fatta con persone sane che la mente che vaga dipende dall’attività in una rete di regioni del cervello nota come “rete modalità predefinita“, che include l’ippocampo. Inoltre, le persone che segnalano viaggi mentali particolarmente ricchi e dettagliati tendono ad avere una connettività più forte tra i loro ippocampi e altre regioni chiave della rete in modalità predefinita.

Tuttavia, questo nuovo studio è il primo a suggerire con forza che un ippocampo intatto è necessario per un “normale” vagabondaggio mentale che coinvolge il viaggio nel tempo mentale e scene visive vivide. I risultati completano anche altre ricerche che dimostrano che i pazienti con danni dell’ippocampo si sforzano di immaginare il passato e il futuro quando vengono incoraggiati a farlo, rivelando che questa menomazione si estende al contenuto del loro pensiero spontaneo.
 
[blockquote style=”1″]Mostrando che l’ippocampo gioca un ruolo causale in un fenomeno onnipresente come il vagabondaggio mentale, questo studio ridefinisce il suo ruolo tradizionalmente percepito nella memoria episodica, ponendolo al centro nelle nostre esperienze mentali quotidiane[/blockquote]

concludono i ricercatori.

Ricordo di Gianni Liotti

È mancato Gianni Liotti, un amico e un importante esponente nell’ambiente scientifico della terapia cognitivo comportamentale italiana e internazionale.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Gianni Liotti fu socio fondatore della SITCC, la Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale, e portò in Italia un modo innovativo e curioso di tentare di mettere in relazione ciò che veniva dalla ricerca evolutiva, dalle neuroscienze, dagli studi sul funzionamento dell’affettività con il mestiere di psicoterapista in un periodo in cui l’unico paradigma psicoterapeutico accettato era quello della psicoanalisi. Questo tentativo d’integrazione è stato il suo codice più costante e innovativo. Leggere e studiare scienza a tutto tondo e integrare ciò che appariva nuovo e interessante con la clinica e con la costruzione del progetto psicoterapeutico.

Dopo la collaborazione iniziale con Vittorio Guidano che fruttò l’importante libro del 1983, Gianni Liotti sviluppò il suo modello di psicoterapia cognitiva evoluzionista, dapprima delineandone le basi teoriche (1994, 2001) e poi elaborando gli aspetti clinici con i suoi collaboratori (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2014). Le idee di Liotti si basavano sugli studi neuroscientifici di Michael Gazzaniga, Michael Tomasello, Daniel J. Siegel e molti altri. Si tratta del modello della mente relazionale, ovvero della mente come entità che prende vita nell’interazione sociale e interpersonale. Questo modello è anche evoluzionista perché teorizza che è nel passato evolutivo che possiamo trovare alcune delle prove che la cognizione nasca e si sviluppi solo nella dimensione interpersonale della coscienza.

Tra gli esempi di nascita della mente relazionale che Gianni Liotti amava ricordare, c’era frequentemente quello dell’atto primordiale di indicare la preda. Nella notte dei tempi un Homo Sapiens indicò una preda da cacciare a un suo compagno. Quel complesso atto cognitivo che fu riconoscere un animale, indicarlo al compagno e significare, per mezzo di quell’atto, una complessa azione di caccia, cattura e uccisione di una preda -legata a sua volta a sofisticate intenzioni pratiche, sociali e cognitive, come cucinarla, procurare da mangiare al proprio gruppo, ottenere rispetto e onore nella tribù e così via- avvenne soprattutto attraverso un episodio interpersonale: io che indico a te –amico mio- e ti propongo una cosa da fare assieme. Al di fuori di quella interazione non sarebbe possibile alcuna cognizione e non era e non è possibile l’esistenza di una mente. Come è noto, non sempre eravamo d’accordo con le sue idee cliniche ma ci piace ricordarlo così, mentre ci raccontava questa storia antichissima e piena di poesia.

Banksy - Trolley Hunters - 2006
Banksy – Trolley Hunters – 2006

 


Giovanni Maria Ruggiero intervista Gianni Liotti per State of Mind nel 2014:


 

 

Gianni Liotti - SITCC 2012
Gianni Liotti, Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero durante il congresso SITCC 2012 a Ginevra

La regolazione emotiva: sopprimere le emozioni negative può aiutarci a stare meglio?

Un recente studio sembra suggerire che la regolazione emotiva può influire significativamente sui propri sentimenti e sui propri ricordi emotivi. Tutto ciò potrebbe condurci verso nuove modalità di intervento per la depressione.

 

Un recente studio, pubblicato sulla rivista Neuropsychologia, ha indagato come la regolazione emotiva influisce su sentimenti e ricordi negativi. I risultati ottenuti sembrano suggerire la possibilità di sviluppare nuovi metodi di intervento terapeutico per il trattamento della depressione. Spesso i famigliari di pazienti depressi consigliano loro di evitare di soffermarsi troppo sulle emozioni negative e di “andare oltre”, ma compiere questo passaggio non è così semplice.

Nel presente studio, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi, di cui uno di controllo, da 17 soggetti ciascuno, ed è stata monitorata l’attività cerebrale dei soggetti tramite risonanza magnetica funzionale. Il monitoraggio è avvenuto mentre i partecipanti svolgevano un compito di valutazione dell’immagine. Le immagini, 180 in totale, sono state scelte in base ai contenuti neutrali o appositamente create per suscitare emozioni negative. Al primo gruppo è stato chiesto ai partecipanti di sopprimere volontariamente, attraverso esplicite indicazioni, le emozioni negative insorte durante la valutazione della negatività delle immagini. I partecipanti del secondo gruppo, invece, hanno ricevuto delle indicazioni in grado di suscitare la soppressione non consapevole delle emozioni insorte in seguito alla valutazione della negatività delle immagini.
A distanza di una settimana dalla somministrazione delle immagini, i ricercatori hanno misurato gli effetti a lungo termine delle immagini negative sulla memoria episodica.
In questo modo, sono stati dunque esplorati sia gli effetti immediati, ovvero l’esperienza emotiva, sia gli effetti a lungo termine, ovvero la memoria episodica, della regolazione emotiva.

Regolazione emotiva: è possibile sopprimere le emozioni negative?

È emerso come la soppressione esplicita (primo gruppo) sia stata capace di ridurre le valutazioni emotive delle immagini negative. A livello neurale, la soppressione esplicita si mostra con una diminuzione dell’attività nell’amigdala e nel giro frontale inferiore. È stato inoltre registrato come entrambe le forme di soppressione siano associate ad una ridotta connettività funzionale tra amigdala-ippocampo e tra giro frontale inferiore-ippocampo, aree del cervello deputate alla codifica di ricordi emotivi.
Tali risultati permettono un avanzamento nella conoscenza dei meccanismi della soppressione emotiva implicita ed esplicita circa la percezione e la memoria, suggerendo l’impatto che essi hanno sui meccanismi top-down e bottom-up coinvolti nelle interazioni cognizione-emozione.

Inoltre, i risultati dello studio dimostrano come gli effetti immediati (esperienza emotiva) cambiano se la soppressione è esplicita piuttosto che implicita, in base al modo in cui il cervello elabora le immagini. Solo i partecipanti che hanno soppresso esplicitamente le proprie emozioni negative si sono sentiti meglio durante la visualizzazione delle immagini negative.
Gli effetti a lungo termine (memoria episodica), invece, risultano simili sia in un caso che nell’altro. A distanza di una settimana dalla visualizzazione delle immagini, infatti, sia la soppressione esplicita sia quella implicita hanno ridotto la capacità dei partecipanti di ricordare le immagini.

Il presente studio ed i risultati ottenuti forniscono alcune informazioni utili per aiutarci a capire come sia possibile fronteggiare i sintomi della depressione o di altri disturbi dell’umore in quanto “sopprimere le emozioni sembra ridurre i ricordi negativi, sia che lo si faccia consapevolmente o inconsciamente”, sostiene Katsumi.
Eppure, non sempre è possibile per tutti rifarsi alla soppressione esplicita, in quanto è un processo che richiede uno sforzo significativo dal punto di vista cognitivo e spesso le persone in condizioni cliniche non hanno le energie per attingere alle proprie risorse cognitive.

Il comportamento prosociale: come può cambiare in seguito a un trauma cranico

E’ possibile che due veterani di guerra, entrambi con trauma cranico causato da uno sparo, attuino un comportamento prosociale completamente differente tra loro: uno tende a donare il proprio denaro alle entità sociali in cui crede, e l’altro punisce le istituzioni che non lo rappresentano?

 

La risposta a queste differenze comportamentali si basa su aree cerebrali, che dopo essere state danneggiate durante la guerra del Vietnam non funzionano più come dovrebbero. Per chiarire questi meccanismi, un team di neuroscienziati guidati da Oliveira-Souza, autori di una ricerca pubblicata su Brain, hanno studiato il comportamento altruistico – azioni a beneficio degli altri – nei veterani del Vietnam.

Gli effetti del trauma cranico a livello comportamentale

Sappiamo che il trauma cranico può cambiare diversi domini di comportamento, alterando il comportamento sociale o la memoria, ad esempio, a seconda di quali aree del cervello sono state danneggiate. Tuttavia, mappare la relazione tra aree del cervello e comportamento può essere difficile, specialmente per comportamenti complessi come l’ altruismo. I veterani di guerra costituiscono un’opportunità unica per rivelare una relazione causale tra il modo in cui specifiche aree del cervello sono coinvolte nel comportamento prosociale.

Questo studio, che appartiene al filone di un’iniziativa di ricerca avviata durante gli anni ‘80 mirata a studiare le i cambiamenti del cervello nei veterani di guerra, comprendeva 94 veterani di guerra con trauma cranico con penetrazione e 28 del gruppo di controllo coinvolti comunque nei servizi di guerra in Vietnam ma senza lesioni cerebrali.

Tutti i partecipanti venivano sottoposti a un esame del cervello tramite tomografia computerizzata (TC), un metodo non invasivo che consente di indagare i danni cerebrali.

Oltre all’analisi computerizzata, i veterani venivano coinvolti in un compito di decisione altruistica al fine di individuare le loro capacità di ragionamento morale. In questo test, a ciascun partecipante veniva richiesto di donare o punire 30 organizzazioni di beneficenza coinvolte in importanti questioni sociali, come l’aborto e il controllo delle armi.

Ogni decisione (donare o punire) costava $ 1, mentre evitarli comportava risparmiare. Nel compito di decisione, le donazioni e le punizioni sono in genere decisioni altruistiche: comportano l’elargizione dei propri fondi per avvantaggiare terze parti.

Questo test è diverso dagli altri perché ci consente di approfondire le loro intenzioni morali, dal momento che donano o puniscono ciò che ritengono giusto o sbagliato – spiega Ricardo de Oliveira-Souza, neurologo del D’Or-Institute for Reasearch and Education.

Il comportamento prosociale nel cervello

Collegando le prestazioni dei partecipanti al test alle loro lesioni cerebrali, gli scienziati hanno scoperto che i veterani che hanno punito di più hanno mostrato lesioni bilaterali nella corteccia prefrontale dorsomediale. D’altra parte, una minore punizione era associata a lesioni nella corteccia sinistra temporo-insulare e destra perisilviana. Tuttavia, le decisioni di donare a una determinata organizzazione sono state associate a lesioni in altre aree del cervello.

L’aumento delle donazioni era legato a lesioni bilaterali nella corteccia parietale dorsomediale, mentre la diminuzione delle donazioni è stata osservata nei veterani che avevano sofferto danni nelle parti posteriori dell’emisfero destro, tra cui il solco temporale superiore e il giro medio-temporale.

Le nostre scoperte rivelano che abbiamo due distinti circuiti cerebrali che entrano in azione in una situazione morale: uno di loro punisce, l’altro dona – sottolinea Oliveira-Souza.

Precedenti studi hanno evidenziato l’importanza di queste aree cerebrali per determinare il senso di moralità e giustizia nei confronti degli individui o dei gruppi sociali. Secondo gli autori, il presente studio rafforza l’idea che le decisioni altruistiche e il comportamento prosociale emergano da complessi processi cognitivi che entrano in azione durante una decisione morale, ad esempio se si è a favore o contro i diritti civili.

Speriamo che imparando di più sui meccanismi cerebrali del comportamento altruistico e del relativo comportamento prosociale possiamo promuovere i comportamenti sociali positivi che le famiglie desiderano, in particolare nei pazienti in riabilitazione per diverse forme di disturbi neurodegenerativi o lesioni cerebrali – dice Jordan Grafman, Brain Injury Research Program, Shirley Ryan AbilityLab, Chicago, USA.

In futuro, gli autori si aspettano di valutare soggetti giovani e le donne con il compito di decisione altruistica, al fine di indagare la possibile presenza di differenze nei circuiti cerebrali della moralità legati al sesso e all’età.

 

Favorire un’efficace gestione delle emozioni nei bambini

L’acquisizione della capacità di regolazione emotiva in età evolutiva si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche, migliorando la qualità di vita dei bambini.

 

Le emozioni assumono un ruolo centrale nella vita degli esseri umani. Lo stato emotivo determina, in modo sostanziale, lo stato di benessere o malessere delle persone e ne influenza le azioni. Ad esempio, alcuni comportamenti disfunzionali come abbuffate, agiti aggressivi, abuso di sostanze, promiscuità, autolesionismo e disturbi internalizzanti come ansia e depressione, sono generati da un’inefficiente regolazione delle emozioni. Per questo motivo, per i genitori risulta fondamentale aiutare i propri figli ad acquisire abilità di regolazione emotiva efficaci, che incidano positivamente sul loro stato di benessere fisico e psicologico.

L’acquisizione di utili modalità di gestione dei propri stati emotivi in età evolutiva, si configura come un importante fattore di protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche, migliorando decisamente la qualità della vita dei bambini. Ecco alcuni suggerimenti efficaci:

  • Auto- regolazione emotiva sana: i bambini sono ottimi osservatori e tendono a imitare i comportamenti e le reazioni dei propri genitori. Mantenere un atteggiamento calmo e coerente, evitando, ad esempio, di urlare o assumere atteggiamenti intimidatori, a seguito di determinati comportamenti dei bambini (come non sistemare i giocattoli o sporcare casa), può incidere molto nell’aiutare i propri figli a imparare la regolazione emotiva e l’autocontrollo.
  • Riconoscere e validare le emozioni: è importante che i genitori, e in genere gli adulti, facciano attenzione allo stato emotivo dei bambini. In particolare, un atteggiamento giudicante e poco empatico risulta disfunzionale e può spingere i bambini a reprimere le loro emozioni, in quanto etichettate come “sbagliate”. Al contrario, un atteggiamento empatico degli adulti che riconosce e valida l’esperienza emotiva dei bambini, comunica che tutte le loro emozioni sono importanti e che queste, seppur alcune volte possano risultare scomode, non sono pericolose e possono essere gestite. A seguito di interventi empatici da parte dei genitori, i bambini iniziano ad accettare ed elaborare le proprie emozioni, ottenendo una migliore consapevolezza e controllo emotivo.
    Data l’importanza di questo atteggiamento, fondamentale anche all’interno di setting terapeutici, ritengo sia molto utile riportare l’esempio esposto da O’Brien: sei al parco, ed è ora di partire, quindi dai ai tuoi figli un avvertimento: “Ancora cinque spinte nell’altalena e poi è ora di andare”. A questo punto, i bambini spesso si arrabbiano; quindi, il compito dell’adulto è quello di convalidare i loro sentimenti dicendo: “So che ti stavi divertendo. Dobbiamo andare, ma possiamo tornare un altro giorno o possiamo giocare con i tuoi giocattoli a casa”. In altri casi, se il comportamento dei bambini è pericoloso, si può dire: “So che ti piace, ma non è sicuro. Mi dispiace che tu sia arrabbiato (o triste, o deluso) … “.
  • Limita le loro azioni ma non le loro emozioni: quando i bambini sperimentano un’emozione, ad esempio rabbia, dire loro di calmarsi o punirli non cambierà il fatto che loro si sentano arrabbiati. Al contrario, interventi di questo tipo comunicano al bambino che le sue emozioni sono “cattive” o “sbagliate”, così, quest’ultimo cercherà di reprimerle con conseguenze dannose sul proprio sviluppo. Un approccio decisamente migliore è insegnare loro le abilità per gestire le emozioni.
    Un altro fattore fondamentale è porre una netta distinzione tra le azioni e le emozioni che proviamo. In particolare, è importante insegnare ai propri figli che non possiamo scegliere le nostre emozioni, ma possiamo scegliere il modo in cui ci comportiamo; ad esempio, va bene arrabbiarsi, ma non è giusto colpire gli altri o lanciare gli oggetti.
  • Lascia che ti parlino: un’altra strategia che favorisce un buona regolazione emotiva è incoraggiare il bambino a parlare delle sue esperienze, come eventi accaduti a scuola o in altri contesti, con i pari e con gli adulti. Comunicare, non solo la descrizione dell’evento, ma il modo in cui i bambini si sono sentiti, il loro vissuto interiore e le loro reazioni, favorisce una maggiore elaborazione e organizzazione dell’esperienza, che li aiuta a esprimere e lasciar andare tristezze, paure o rabbia legate all’evento stesso. Questa strategia rappresenta un fattore di protezione, eliminando la possibilità di traumi irrisolti ed emozioni represse che tendono a ripresentarsi in futuro, incidendo negativamente sul benessere.
  • Aiutali a trovare sbocchi emotivi salutari: un’importante strategia che incide positivamente sulla qualità di vita, implica apprendere come incanalare le emozioni negative in modi positivi e costruttivi. Avere uno sbocco emotivo sano, come ballare, suonare uno strumento, dipingere, scrivere o intraprendere uno sport, consente al bambino, non solo di rilasciare qualsiasi emozione repressa, incidendo positivamente sulla loro salute mentale, ma anche di migliorare la propria vita sociale.

Non è possibile decidere che emozioni sperimentare, ma possiamo insegnare ai nostri figli come gestirle, guidandoli verso una modalità di auto- regolazione emotiva, in modo tale che queste non vengano vissute come pericolose, in quanto al di fuori della sfera del controllo. Sperimentare le emozioni in maniera adattiva incide positivamente su uno sviluppo sano del senso del sé, sulla salute mentale e sul benessere sociale.

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