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Il Desiderio nella Terapia Metacognitiva Interpersonale

Partire dal desiderio del paziente è utile al cambiamento o è di ostacolo alla terapia? Vi è una sostanziale differenza, infatti, tra desiderio e bisogno.

Di Antonio Scarinci

Pubblicato il 13 Apr. 2016

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto del rapporto con l’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

 

Dovremmo rendere conto di tutto quello che diciamo e scriviamo, parola per parola

Primo Levi

 

Uno dei bersagli terapeutici della terapia metacognitiva interpersonale è lo schema interpersonale, una struttura intrapsichica che organizza l’esperienza e il comportamento.

Lo schema è un ricordo generalizzato di come sono stati accolti i propri desideri nel passato, di quale grado di soddisfacimento hanno goduto e, nello stesso tempo, è un’aspettativa interiorizzata, una configurazione cognitivo-affettiva a carattere previsionale… che guida l’azione. (Dimaggio et al., 2013, pag. 15).

E’ espresso nei racconti del paziente con espressioni del tipo ‘Io desidero‘, ‘Io voglio’.

Questa struttura plasma i processi intersoggettivi e questi a loro volta, quando si ripetono, sono interiorizzati creando un ciclo interpersonale.

 

 

Il desiderio e gli schemi interpersonali

La struttura dello schema interpersonale parte dal desiderio del soggetto che si attiva in termini procedurali condizionali (se…allora…) segue la risposta dell’altro, la reazione del sé alla risposta dell’altro e la rappresentazione di sé in un processo circolare che può dare vita a schemi interpersonali patogeni.

Un esempio può chiarire meglio: desidero essere riconosciuta e amata così come vorrei (wish); se l’altro mi riconosce e mi ama così come desidero allora mi sento accudita e posso ritenere di aver trovato la persona con la quale vivere una relazione significativa e costruire un progetto di vita (se… allora…); l’altro non riesce a rispondere alle mie eccessive aspettative di accudimento (risposta dell’altro); avverto tristezza e senso di abbandono (reazione del sé alla risposta dell’altro); sono sbagliata, non amabile (rappresentazione del sé).

 

Intervento terapeutico: bisogna accogliere il desiderio del paziente?

L’intervento terapeutico ha come obiettivo, attraverso la rievocazione di memorie autobiografiche, di identificare gli elementi dell’esperienza soggettiva per ricostruire lo schema e arrivare a comprendere le ricorrenze del modo di relazionarsi che generano frustrazione e disagio. La promozione del cambiamento avviene attraverso la differenziazione e il lavoro sulle altre componenti della metacognizione al fine di costruire una visione più integrata del sé (Dimaggio et al., 2013).

Pur condividendo l’impostazione del modello epistemologico, occorre chiedersi se partire dal desiderio del paziente possa essere utile al cambiamento o piuttosto essere addirittura di ostacolo al processo terapeutico.

Vi è una sostanziale differenza, infatti, tra desiderio e bisogno.

Il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare si trasforma in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile.

Molte ricerche (Lorenzini, Scarinci, 2013) hanno messo bene in evidenza come il benessere non sia vincolato alla soddisfazione dei desideri, ma piuttosto a una visione eudemonica in cui alcuni bisogni fondamentali siano appagati. Considerando i sistemi motivazionali interpersonali a base innata, e facendo riferimento all’esempio sopra esposto, la paziente non riuscirebbe mai a sentirsi paga in una relazione se continuasse ad aspettarsi di essere accudita esattamente come vorrebbe e quindi sarà necessario, parallelamente alla soddisfazione del suo bisogno, non del suo desiderio, che riesca a imparare a tollerare una qualche frustrazione.

Nella storia evolutiva di ogni individuo l’identità e quindi l’integrazione e la coerenza del sé nasce da esperienze in cui la tolleranza alla frustrazione è conditio sine qua non di un buon adattamento a ciò che ci propone la realtà, spesso matrigna e poco propensa a rispondere alle nostre attese.

L’Io desiderante, viceversa, ha una sua inconsistenza legata alla pretesa di possedere e dominare in una condizione umana di finitudine che impone limiti.

Alcune ricerche hanno evidenziato come spesso le immagini positive maladattive compaiono proprio quando è presente la ricerca di soddisfazione di un desiderio (May et al., 2004, 2010). Alcuni approcci non a caso considerano l’accettazione e il distanziamento (detached) come strumenti terapeutici d’elezione nel trattamento di vari disturbi.

Uno degli obiettivi del modello della Self-Regulatory Executive Function (S-REF), ad esempio, è proprio quello di ridurre la discrepanza tra stati del sé desiderati e attuali. In condizioni adattive, l’attività della S-REF ha durata limitata, ma il desiderio, perché inappagabile, può prolungarne l’attivazione dando origine alla sindrome cognitiva-attentiva (CAS). L’attenzione selettiva, il rimuginio, la ruminazione, la memoria selettiva costituiscono forme di pensiero ripetitivo e perseverante che unitamente a comportamenti autoregolatori maladattivi e strategie di coping disfunzionali generano disagio (Wells, 2012).

Pensare che solo se l’altro si sintonizzerà perfettamente sui miei desideri, potrò sentirmi sicura di non essere abbandonata equivale ad avviare un ciclo interpersonale disfunzionale che porterà prima o poi all’abbandono. In sostanza la discrepanza tra ciò che desidero e ciò che è porta a sperimentare una mancanza – quindi a desiderare – che attiva stati emotivi negativi intensi, oltre a credenze metacognitive maladattive che tendono a rafforzare la dipendenza dalla soddisfazione del desiderio, con conseguente peggioramento degli stati emotivi e un aumento della probabilità di riprodurre comportamenti disfunzionali a scopo autoregolatorio.

 

 

La trappola dei nostri desideri

Spesso non riusciamo a distanziarci dai nostri stati mentali, non li lasciamo andare e venire, ma restiamo intrappolati in essi, soprattutto quando vogliamo piegare la realtà ai nostri desideri. Non riusciamo a considerare i nostri stati interni come eventi, semplicemente pensieri o emozioni, piuttosto siamo propensi a combatterli o ad allontanarli, così facendo mantenendoli e rendendoli disfunzionali.

La mancanza dell’oggetto cui è rivolta l’appetizione spinge l’essere nel territorio delle possibilità, la cui realizzazione, però, non è mai né seriamente progettata né realmente attesa (Heidegger, 1927) perché quel ricordo generalizzato di come sono stati accolti i propri desideri nel passato, cui o non è stata data risposta o è stato sempre risposto (troppo di buono o troppo poco di buono), lascia una memoria di eterna insoddisfazione.

Il desiderio, infatti, come sostiene Freud (1899) è legato alle tracce mnestiche che riproducono fantasie di appagamento. La dimensione desiderante s’inscrive in una proiezione dell’avvenire che tende a evitare la frustrazione e a ottenere gratificazione.

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto dell’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

Quando il bambino piange perché desideroso di ricevere cibo, la madre interpreta la sua domanda e risponde al bisogno di essere sentito, compreso e riconosciuto, di essere accudito e questa relazione tra sé e altro costituisce la dimensione interpersonale della coscienza (Liotti, 1994).

La categoria che discrimina tra desiderio e bisogno è la necessità, ma ciò di cui necessita l’uomo e di cui non può fare a meno è la relazione che dà senso e significato. Infatti, la condizione essenziale dell’esistere, presuppone che siano soddisfatti i bisogni primari, altrimenti non vi sarebbe esistenza (Montefoschi, 1977). Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto possibile d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario che il paziente riesca a distinguere, quindi, il desiderio dal bisogno e i bisogni indotti (falsi bisogni) dai bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli dell’avere, possesso, avidità, potere, affermazione (Fromm, 1976) che possono manifestarsi in forme e contesti diversi.

D’altra parte assistiamo a un forte incremento della prevalenza dei disturbi di personalità che vengono diagnosticati nella sezione terza del DSM5 (2013) in termini di funzionamento della personalità al livello del Sé, (identità, autodirezionalità) e al livello interpersonale (empatia e intimità) e relativamente a tratti patologici su 5 domini (Affettività negativa vs Stabilità Emotiva; Disinibizione vs Coscienziosità; Psicoticismo vs Lucidità mentale; Distacco vs Estroversione; Antagonismo vs Disponibilità) che danno vita a 25 tratti o dimensioni.

Rispetto a queste dimensioni non possiamo tacere l’influenza che la cultura dominante esercita, una cultura liquida che rivendica la piena libertà di appagare desideri. La personalità di base definita come costellazione delle caratteristiche congeniali con la gamma totale delle istituzioni di una cultura si costruisce all’interno di un universo simbolico segnato da relazioni Io-Oggetto in cui è difficile incontrare l’Altro.

Basterebbe elencare alcuni criteri diagnostici dei disturbi di personalità (sfruttamento interpersonale, cioè, si approfitta degli altri per i propri scopi; manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione; un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi d’iper-idealizzazione e svalutazione; disonestà, come indicato dal mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri ripetutamente, per profitto o per piacere personale; eccessiva dedizione al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e delle amicizie…) per rendersi conto che l’incremento della loro prevalenza ha radici fondate nel regno seducente dell’effimero che produce desiderio e una piena libertà individuale di ricerca del piacere. Ogni forma di legame è spezzata e negativa, frammentazione e dispersione punteggiano identità precarie e fluttuanti (Bauman, 2006; 2007).

L’abito che indossa l’uomo moderno si è trasformato: da pellegrino in cammino insieme con gli altri verso una meta a turista che consuma velocemente il mondo attraente, fino a divenire vagabondo costretto continuamente a lasciare il proprio mondo inospitale.

Un modello terapeutico, peraltro molto apprezzato e le cui procedure affinate nel tempo sono accurate e rigorose, che pone grande attenzione alla cura della relazione terapeutica, ritenuta a ragione un asse portante del trattamento dei disturbi di personalità, crediamo non possa non tenere in considerazione queste notazioni che potrebbero portare maggiore chiarezza e un’evoluzione, anche se minimale, del modello.

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Antonio Scarinci
Antonio Scarinci

Psicologo Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition (DSM 5). Washington, D.C.: APA.
  • Bauman, Z. (2006). Vita liquida. Laterza, Bari.
  • Bauman, Z. (2007). Modus-vivendi. Laterza, Bari.
  • Dimaggio et al. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Cortina, Milano.
  • Freud, S. (1899). L’interpretazione dei sogni. In Opere, Boringhieri Torino, 1966, Vol. III.
  • Fromm, E.(1976). Avere o essere? Mondadori, Milano 1977.
  • Heidegger, M.(1927). Essere e tempo. Utet, Torino, 1978.
  • Liotti, G. (1994). La dimensione interpersonale della coscienza. La Nuova Italia Scientifica, Roma.
  • Lorenzini, R., Scarinci, A. (2013). Dal malessere al benessere. Attraverso e oltre la psicoterapia. Angeli, Milano.
  • May, J. et al. (2004). Image of desire: cognitive models of craving. Memory, 12, 447-461
  • May, J. et al. (2010).Visuospatial tasks suppress craving for cigarettes. Behavior Research and Therapy, 48, 476-485.
  • Montefoschi, S. (1977). L’uno e l’altro. Feltrinelli, Milano.
  • Wells, A. (2012). Terapia metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione. Eclipsi, Firenze.
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