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Gli interventi e gli effetti della musicoterapia nelle demenze

L’aumento della popolazione anziana e l’allungamento della vita media ha comportato un incremento delle patologie legate all’invecchiamento, come ad esempio le demenze che rappresentano ormai una delle più grandi sfide di salute per l’umanità. La musicoterpia sembra essere un efficace strumento di cura

Federica Aloisio  – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La demenza è una sindrome clinica con differenti cause, caratterizzata dal deterioramento delle funzioni cognitive, comportamentali, sociali ed emozionali

(Van der Steen J.T. et al., 2017).

I sintomi possono essere raggruppati in tre grandi ambiti: aspetti cognitivi, aspetti funzionali e sintomi neuropsichiatrici. Il declino cognitivo può coinvolgere diverse aree: la memoria, il linguaggio, l’apprendimento, le funzioni esecutive, l’attenzione, il movimento, la cognizione sociale (APA, 2013). La forma di demenza più comune è quella di Alzheimer: il numero di persone che ne sono affette

ha raggiunto oltre 35 milioni in tutto il mondo nel 2013, e questo numero è stimato a triplicare nel 2050

(Hosseini S. M. et al., 2014).

Interventi di natura medica hanno dimostrato una limitata efficacia nel rallentare il declino cognitivo e, come riportato in letteratura, allo stato attuale non esiste un trattamento farmacologico capace di curare la demenza di Alzheimer (Algar K. et al., 2016).

Musicoterapia per la demenza

La limitata efficacia dei trattamenti farmacologici e la plasticità del cervello umano sono le due maggiori spiegazioni dell’interesse crescente per i trattamenti non-farmacologici che hanno lo scopo principale di sostenere ed attivare quelle funzioni mentali non completamente deteriorate, intervenendo sulle potenzialità residue e sul miglioramento della qualità di vita (Mendiola-Precoma J. et al., 2016; Fusar-Poli L. et al., 2017).

Uno dei più comuni approcci non farmacologici per il trattamento dei sintomi neuropsichiatrici, comportamentali e psicologici della demenza è l’uso della musica (Mitchell G. & Agnelli J., 2015).

L’utilizzo dell’effetto piacevole e rilassante, in alcuni casi “terapeutico”, della musica nelle persone malate affonda le sue radici in tempi molto lontani; esso nasce e si sviluppa prevalentemente in ambiente psichiatrico, ma ha allargato i suoi confini di applicazione alla geriatria e alla vasta problematica delle demenze.

La musica è caratterizzata da due aspetti positivi: il primo è la grande influenza che essa può avere sul tono dell’umore; il secondo aspetto è il forte potere mnestico in quanto riascoltare un brano può evocare con molta precisione un episodio della vita, ricostituendo il ricordo sia nella sua complessità cognitiva che emozionale

(Villani D. & Raglio A., 2004).

La musicoterapia, che fa parte delle Arti-Terapie, è un intervento non farmacologico che mira ad aumentare il benessere emotivo attraverso la stimolazione cognitiva e l’interazione sociale

(Craig J., 2014).

Musicoterapia: tipi ed effetti

Gli interventi di musicoterapia possono essere individuali o di gruppo e attivi o recettivi: attivi, in cui i pazienti sono invitati a fare esperienze dirette e creative; recettivi, dove viene privilegiato l’ascolto e l’aspetto della verbalizzazione successiva (Garrido S. et al., 2017). A tal proposito un recente studio mette in evidenza che l’intervento di musicoterapia recettiva è più efficace per alleviare i sintomi comportamentali e psicologici della demenza (Tsoi K.K et al., 2018).

Nonostante le difficoltà dovute al deterioramento cognitivo il mezzo sonoro-musicale costituisce una via privilegiata per arrivare direttamente al cuore e stimolare le parti sane del cervello delle persone interessate. Infatti, il paziente con demenza sembra conservare intatte certe abilità e competenze musicali fondamentali (intonazione, sincronia ritmica, senso della tonalità) come ha rilevato lo studio di Jacobsen in cui si evince che la memoria musicale si mantiene intatta più a lungo prima di essere intaccata da deterioramento cognitivo (Jacobsen J.H. et al., 2015).

Molti sono gli studi a supporto dell’applicazione della musicoterapia alla demenza.

Villani e Raglio sostengono che il suono e la musica attivino modalità espressive e relazionali arcaiche e che l’utilizzo della musicoterapia nella malattia di Alzheimer

può migliorare gli aspetti relazionali e ridurre i disturbi del comportamento

(Villani D. & Raglio A., 2004).

Esistono pubblicazioni in merito ad attività di musicoterapia svolte con malati di Alzheimer le quali dimostrano che gli stessi pazienti ne traggono benefici per diversi aspetti: la memoria a breve termine, il tono dell’umore, l’orientamento spazio-temporale, il senso di identità, le competenze espressive e relazionali.

Musicoterapia per la demenza: effetti sui sintomi comportamentali

Finora la ricerca si è concentrata principalmente sui sintomi comportamentali e psicologici della demenza (ovvero “BPSD”, da Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia), come agitazione, aggressione, irritabilità, depressione o apatia. I risultati sono promettenti, mostrando un effetto positivo su questi sintomi comportamentali (Ueda T. et al., 2013).

Nello specifico l’agitazione è un problema comportamentale molto comune nei pazienti con demenza e comprende una varietà di condotte quali ripetitività, irrequietezza, vagabondaggio ed aggressività. A tal proposito la revisione di Pedersen ha indagato la sua reale efficacia su questo tipo di sintomatologia; sono stati analizzati sia studi in cui era necessaria la partecipazione attiva del malato (cantare, ballare, battere le mani o suonare uno strumento) sia interventi di tipo ricettivo in cui al partecipante si chiedeva solamente di ascoltare musica. Nonostante il numero esiguo degli studi presi in considerazione è emerso che gli interventi musicali sono significativamente efficaci nel ridurre l’agitazione in questo tipo di pazienti (Pedersen S.K. et al., 2017).

In altri studi, la terapia musicale ha dimostrato di migliorare nei pazienti con demenza Alzheimer di grado lieve-moderato la memoria, l’orientamento e i sintomi ansioso-depressivi (Gallego & García, 2017). Un altro studio sottolinea come l’uso di strumenti a percussione da parte di anziani dementi istituzionalizzati è in grado di abbassare il livello di ansia sebbene il livello di agitazione sia rimasto invariato (Sung et al., 2012).

Seppure con qualche limitazione appare evidente che diversi studi nella letteratura avvalorano l’efficacia dell’approccio musicoterapeutico, soprattutto nei disturbi psico-comportamentali nelle demenze

In un recentissimo studio viene riportato che elevati livelli di cortisolo, l’ormone di regolazione dello stress, è associato a compromissioni cognitive. Quando il cortisolo è costantemente alto, la funzione cognitiva è compromessa e un alto livello di stress cronico induce depressione e ansia a livello psicologico (de la Rubia Ortì et al., 2018). I risultati dello studio del 2018 hanno dimostrato che dopo la musicoterapia i livelli di cortisolo decrescono e quindi diminuiscono significativamente il livello di stress, depressione e ansia, stabilendo una correlazione lineare tra la variazione di queste variabili e la variazione di cortisolo.

Musicoterapia per demenza: gli effetti sulle funzioni cognitive

Per quanto riguarda gli effetti della musicoterapia sulle funzioni cognitive, le ricerche hanno dimostrato che questo tipo di intervento può proteggere le funzioni cognitive nella demenza di tipo Alzheimer specialmente la memoria autobiografica ed episodica, la velocità psicomotoria, le funzioni esecutive e la cognizione globale (Herholz S.C. et al., 2013).

Lo studio di Chu e colleghi del 2014 ha dimostrato che la musicoterapia di gruppo, oltre a ridurre la depressione nelle persone affette da demenza, ritarda il deterioramento delle funzioni cognitive, in particolare della memoria a breve termine. Inoltre Gallego e altri ricercatori hanno osservato dei miglioramenti cognitivi dopo sei settimane di intervento di musicoterapia in particolare sulla memoria e l’orientamento (Gallego & García, 2017).

Nonostante le varie ricerche che forniscono prove dell’efficacia della musicoterapia nel preservare le funzioni cognitive nella demenza, in particolare di Alzheimer, i risultati non sono abbastanza convincenti: si ha bisogno di più studi clinici non solo per verificare l’effetto immediato, ma soprattutto quello a lungo termine (Fang R. et al., 2017; Van der Steen J.T. et al., 2017).

In aggiunta Fang afferma che la musicoterapia deve essere considerata una terapia complementare nel trattamento della demenza: gli interventi farmacologici non possono essere interrotti durante un intervento riabilitativo di musica e la musicoterapia deve essere avviata il più presto possibile in quanto l’effetto terapeutico della musica per la protezione delle funzioni cognitive non è significativo quando il grado di demenza è severo.

Un altro lavoro che mette in evidenza i limiti della musicoterapia, in particolare sulla cognizione, è la meta-analisi di Fusar-Poli che ha preso in considerazione non solo la cognizione globale, ma funzioni cognitive più specifiche come l’attenzione, il linguaggio, la memoria e l’abilità percettivo-motoria non evidenziando alcun effetto positivo su questi dominii (Fusar-Poli L. et al., 2017).

Quest’ultimo studio ha tuttavia dimostrato, in linea con quanto emerso da altre precedenti ricerche, che la musica è strettamente associata a forti sensazioni emotive e infatti attiva il sistema limbico che è coinvolto sia nella regolazione delle emozioni che nel controllo della memoria. Inoltre, il rapporto tra emozioni e musica può diventare molto più forte quando un professionista esperto è coinvolto nel trattamento (Fusar-Poli L. et al., 2017).

In conclusione si può asserire che la musicoterapia è un valido intervento complementare per il trattamento delle demenze, in particolare per i suoi effetti vantaggiosi sui sintomi comportamentali e psicologici, così come per il suo ruolo sociale ed emotivo. I possibili effetti sulla cognizione meriterebbero, invece, di essere meglio esaminati con studi e campioni più grandi, al fine di poter appurare l’efficacia della terapia musicale su tutti i piani, da quello psicologico-comportamentale a quello cognitivo, per un miglioramento complessivo della qualità di vita del paziente demente.

Quale emozione sto provando? Le difficoltà degli adolescenti nel riconoscere e discriminare le proprie emozioni

L’abilità di differenziazione emotiva, ovvero la capacità di discriminare i diversi tipi di emozione, varia in base alla fase di sviluppo.

 

Secondo una recente ricerca, gli adolescenti distinguono le emozioni negative in modo diverso rispetto ai bambini e agli adulti. Lo studio mostra come le esperienze emozionali varino a seconda dell’età e risponde al perché l’adolescenza risulta essere un periodo particolarmente vulnerabile nello sviluppo emotivo.

Lo studio sperimentale

Lo studio, pubblicato su Psychological Science, prevedeva la somministrazione di un compito di differenziazione emotiva a 143 partecipanti di età compresa tra 5 e 25 anni. I soggetti posti di fronte a diverse immagini raffiguranti scenari negativi, dovevano scegliere tra reazione emotive quali rabbia, tristezza, disgusto, paura e agitazione e quantificare l’intensità dell’emozione provata su una scala da 0 (per nulla) a 100 (moltissimo) in risposta a ciascuna figura.

Lo psicologo Erik Nook della Harvard University e autore dello studio afferma:

Abbiamo trovato una traiettoria di sviluppo piuttosto interessante per quanto riguarda la differenziazione delle emozioni. I bambini tendono a riferire di provare una sola emozione alla volta, gli adolescenti invece iniziano a sperimentare più emozioni contemporaneamente mentre gli adulti non presentano difficoltà nel differenziare le diverse emozioni che provano.

I risultati hanno mostrato una traiettoria di sviluppo non lineare riguardo la differenziazione delle emozioni negative: la capacità di differenziazione emotiva diminuisce in adolescenza rispetto all’infanzia per innalzarsi di nuovo con il passaggio nella prima età adulta. 
Come l’autore spiega, l’infanzia appare caratterizzata dalla tendenza ad indicare una sola risposta emotiva; al contrario gli adolescenti dichiarano di sperimentare diverse emozioni contemporaneamente senza però essere in grado di distinguerle. La scarsa differenziazione emotiva osservata in adolescenza potrebbe derivare dal fatto che i soggetti adolescenti sono poco abili nel concettualizzare le emozioni concomitanti, cosa che invece avviene in età adulta.

Nook spiega anche perché l’adolescenza sembra essere un periodo particolarmente complesso dal punto di vista emotivo: “L’adolescenza è un periodo di rischio elevato per l’inizio della psicopatologia. Grazie a questo studio sappiamo che è anche un periodo di maggiore confusione sul versante emotivo. Sarebbe interessante indagare la possibile correlazione esistente tra malattia mentale e instabilità emotiva: c’è il rischio che l’aumento di emozioni sperimentate in questo periodo renda più complicata la loro differenziazione e regolazione e che questo contribuisca allo sviluppo di disturbi mentali” e conclude “Spero che le nostre scoperte possano aiutare a chiarire il modo in cui la differenziazione emotiva varia nel corso dello sviluppo e quanto questo processo appaia complicato nello stadio adolescenziale”.

Disarmare il Narcisista

Disarmare il Narcisista: un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

 

Chi può dire di non avere mai incontrato nella propria vita un narcisista? Che sia il fratello, il fidanzato, il figlio, il collega di lavoro o una persona vicina a noi. Chi non si è almeno una volta sentito schiacciato? Chi non si è mai arrabbiato? Tutti abbiamo esperienza più o meno chiara di quanto sia difficile avere a che fare con un narcisista, di quanto sia difficile comunicare, farsi capire e ascoltare, rompere le difese che ostacolano un rapporto affettivo sereno, che ostacolano la “messa in circolo delle emozioni” .

Con 25 anni di formazione alle spalle e numerose certificazioni, Wendy Behary è fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Center del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy (ISST).

Come esperta sul disturbo narcisistico di personalità ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema. Tra questi anche “Disarmare il Narcisista” un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

È un libro che fornisce sia ai terapeuti che ai pazienti diversi strumenti per migliorare la conoscenza di sé stessi e imparare a “disarmare” il narcisista,  imparando a gestire la relazione in modo più consapevole senza subire la personalità dell’altro. In questo libro Wendy Behary ci fornisce un importante kit di strumenti pratici che ci aiutano a capire come gestire le sfide emotive che subentrano quando ci relazioniamo con qualcuno che non si relaziona con noi, così come accade con il narcisista.

Vincente in questo libro il fatto che l’autrice utilizza la cornice teorica sia della Schema therapy sia della neurobiologia interpersonale per far arrivare chiaro al lettore come il narcisista veda il mondo e quale sia la connessione tra relazioni interpersonali, mente e cervello. Ci spiega in modo comprensibile e semplice come le componenti biologiche combinate con le esperienze precoci possano plasmare in modo anche drammatico le nostre impressioni e le nostre credenze, e così diventa chiaro per il lettore come gli schemi maladattivi precoci possano essere simili a un boomerang che lo riporta spesso al punto di partenza nonostante i suoi sforzi.

Molto bello il quadro che fa l’autrice del narcisista, un cavaliere maestro d’illusione, e molto utile l’esercizio presentato nella parte iniziale del libro che aiuta a identificare con quale tipo di narcisista si ha a che fare. Un importante riflettore viene posto sulla connessione emotiva come possibile via di soluzione della relazione, come motore per un cambiamento emotivo e mentale.

Il lettore è accompagnato nel capire come molto spesso gli ostacoli che gli impediscono di relazionarsi con il narcisista siano le proprie esperienze di vita e caratteristiche biologiche, e quindi i propri schemi. Molti sono gli strumenti, che con la lettura di questo libro, si acquisiscono per imparare a riconoscere e anticipare il momento in cui si rischia di cadere nei vecchi schemi maladattivi, dando maggior respiro e importanza alle sensazioni somatiche del momento.

Un passaggio verso l’apprendimento delle abilità di mindfulness come primo step del cambiamento, e tanti altri strumenti che accompagnano nel lungo e faticoso percorso di cambiamento della modalità di relazione, il confronto empatico, la compassione, lo stabilire dei limiti. E infine ancora l’autrice fa chiarezza su quali sono le strategie di comunicazioni maggiormente efficaci con il narcisista.

Un libro sicuramente da leggere non solo per chi ha a che fare con un narcisista, ma poi chi non ha a che fare almeno con un narcisista, ma anche per chi ha voglia di fermarsi a riflettere sui propri schemi e intraprendere un viaggio pieno di possibili spunti e strumenti per la conoscenza del sé e per migliorare le proprie relazioni.

Attività ludica infantile: dalla dimensione psicologica alle connotazioni neurobiologiche

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva.

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva. Nel gioco infantile si possono riconoscere differenti morfologie: ognuna con una finalità differente. Dal punto di vista sociale, la modalità di gioco cambia nel corso del tempo. Inizialmente il gioco dell’infante si situa nel rapporto diadico con la madre, successivamente il gioco dell’infante diviene triadico, ovvero si crea una triade ludica formata dalla mamma, dal bambino e dal giocattolo. A livello neurobiologico, il gioco sembra attivare tre circuiti, ovvero il circuito corticale esecutivo, il circuito sottocorticale limbico e il circuito somatosensoriale. L’attività ludica, inoltre, si ritiene possa incrementare la neuroplasticità delle aree del cervello coinvolte nei processi sensorio – motori.

Keywords: attività ludica, circuiti neuronali, neuroplasticità, sviluppo.

Attività ludica: come gioca il bambino?

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva (Thibodeau e al., 2016; Fung e Cheng, 2017). Nel gioco infantile si possono riconoscere differenti morfologie: ognuna con una finalità differente. C’è il gioco motorio, nel quale oggetto dell’attività ludica divengono il corpo e le prestazioni corporee (correre, saltare, arrampicarsi ecc.). La finalità di questo gioco è quella di facilitare l’acquisizione degli schemi motori di base (St George e al., 2016). Nel gioco sociodrammatico l’attività ludica investe i ruoli sociali che il bambino vede svolgere dagli adulti. L’obiettivo di questo gioco è quello di aiutare ad apprendere le caratteristiche dell’adultità e, al contempo, implementare il pensiero creativo attraverso l’esercizio della fantasia, che questo gioco comporta (Lillard e al., 2013). Ci sono poi i giochi cooperativi, che possono assumere le sembianze di giochi di squadra, attraverso i quali il bambino comprende che ogni giocatore ha un suo ruolo definito e che la riuscita del gioco dipende dalla cooperazione che si instaura. La finalità di questi giochi è quella di far apprendere le abilità sociali (Hassinger – Das e al., 2017). Da quanto detto, il gioco svolge un ruolo importante per la crescita del bambino, coinvolgendo più domini (cognitivo, emotivo, sociale, motorio).

Attività ludica: veicolo di sviluppo per il bambino

Dal punto di vista sociale, la modalità di gioco cambia nel corso del tempo. Inizialmente il gioco dell’infante si situa nel rapporto diadico con la madre ed è proprio la mamma, attraverso questa attività ludica, che agevola lo sviluppo del proprio figlio, promuovendo l’acquisizione di competenze comunicazionali, linguistiche, cognitive e sociali (Bernier e al., 2016). Successivamente il gioco dell’infante diviene triadico, ovvero si crea una triade ludica formata dalla mamma, dal bambino e dal giocattolo. Questa relazionalità triadica, come molte ricerche hanno evidenziato (Tomasello, 1999; De Schuymer e al., 2011), è importante per l’acquisizione degli aspetti simbolici del linguaggio e di tutti i simboli culturali che caratterizzano il contesto di appartenenza (Rodriguez, 2009). Attraverso l’oggetto di gioco si arricchisce la comunicazione fra infanti e adulti. Inoltre, l’esplorazione del giocattolo da parte del bambino svolge un ruolo fondamentale nel miglioramento delle abilità di problem solving e delle capacità attentive (Clearfield e al., 2014).

Attività ludica: attiva e aumenta la neuroplasticità di alcune aree cerebrali

A livello neurobiologico sono state condotte diverse ricerche per capire quali circuiti neuronali si attivano nelle situazioni di gioco. La maggior parte degli studi è stato realizzato sui ratti. In questi animali il gioco sembra attivare tre circuiti, ovvero il circuito corticale esecutivo, il circuito sottocorticale limbico e il circuito somatosensoriale. Il circuito corticale esecutivo, che è costituito dalla corteccia prefrontale e da quella orbitofrontale, si attiva per dirigere i movimenti individuali in risposta alle azioni di gioco del partner (Siviy e Panksepp, 2011). Il circuito sottocorticale limbico, costituito dall’amigdala, dall’ipotalamo e dal nucleo striato, è responsabile degli aspetti motivazionali ed emozionali che sono presenti nell’attività ludica (Burgdorf e al., 2007). Il circuito somatosensoriale, formato dalla corteccia somatosensoriale, dal talamo e dal cervelletto, controlla le performance motorie in ambito ludico (Byers e Walker, 1995). L’attività ludica, inoltre, sembra incrementare la neuroplasticità delle aree del cervello coinvolte nei processi sensorio – motori, come, ad esempio, la corteccia parietale (Gordon e al., 2002). In aggiunta, l’attività ludica implementa la neuroplasticità della zona mediana della corteccia prefrontale, che invia degli stimoli al sistema limbico, finalizzati al controllo dei comportamenti sociali (Cheng e al., 2008). Con la dovuta cautela che la comparazione fra specie diverse richiede, si può supporre che gli stessi circuiti cerebrali si attivano anche negli esseri umani durante l’attività ludica e viene incrementata la neuroplasticità nelle zone cerebrali menzionate (Neale e al., 2018). Questo spiegherebbe, insieme ad altri elementi, i benefici che il gioco apporta allo sviluppo cognitivo, emotivo, sociale e motorio dei bambini.

In conclusione, il gioco svolge un ruolo importante per la crescita del bambino, in quanto consente l’acquisizione di abilità e competenze in vari domini (cognitivo, emotivo, sociale ecc.). Questo dipende anche dal fatto che nell’attività ludica infantile sono attivati dei circuiti neuronali specifici.

L’incidenza del Diabete di Tipo 2 è influenzata dal proprio orientamento sessuale? – FluIDsex

La più alta incidenza di diabete di tipo 2 tra le donne lesbiche e bisessuali sembra poter essere spiegata in parte come il risultato di più alti fattori di rischio legati a tale patologia in questa popolazione, quali: obesità, fumo, alcol, ma anche all’esposizione a situazioni stressanti di discriminazione.

 

Uno studio longitudinale guidato da H.L. Corliss, professore della Graduate School of Public Health della San Diego University, California, ha indagato l’incidenza del diabete di tipo 2 in un gruppo di donne.

Il diabete di tipo 2 è il tipo di diabete più diffuso, il quale solitamente si sviluppa in soggetti di età matura e produce un incremento di livelli di glucosio nel sangue, a causa di una ridotta produzione di insulina o di una sua produzione inefficace (Al-Delaimy, Willett, Manson, Speizer & Hu, 2011).

Lo studio sperimentale

In uno studio recentemente pubblicato, che ha coinvolto 94.250 donne negli Stati Uniti, i ricercatori hanno scoperto che le donne lesbiche e bisessuali (LB) hanno più probabilità rispetto alle donne eterosessuali di sviluppare il diabete di tipo 2 nel corso del follow up dello studio a 24 anni.

I partecipanti erano 94.250 donne americane tra i 24 ed i 44 anni (ad inizio studio), valutate per una diagnosi di diabete di tipo 2, ogni due anni, per identificarne l’incidenza. Lo studio è durato 24 anni. Una variabile considerata è stata quella dell’orientamento sessuale: 1267 soggetti erano omosessuali o bisessuali, mentre 92983 eterosessuali.

Ciò che è emerso è che, nei 24 anni, le donne lesbiche e bisessuali hanno dimostrato di avere un rischio maggiore del 27% di sviluppare diabete di tipo 2, rispetto alle donne eterosessuali. Inoltre, le donne omosessuali o bisessuali sviluppano il diabete di tipo 2 in età più giovane rispetto alle donne eterosessuali e questo potrebbe esser dovuto ad un più alto indice di massa corporea nelle donne lesbiche e bisessuali.

Cosa ci dice lo studio?

Nonostante studi precedenti sul tema avessero ottenuti dati inconcludenti, il team di ricerca ha creduto ci fosse una ragione per sospettare tale differenza: “Le donne LB possono riportare disparità in condizioni di salute fisica cronica (incluso il diabete 2), in quanto i fattori di rischio legati ad essa sono più alti: obesità, fumo di tabacco, alcolici ed esposizioni a situazioni stressanti”, afferma Corliss.

Lo stress legato alla discriminazione e alla vittimizzazione rispetto alla violenza fisica e psicologica è nettamente più alto nel gruppo di donne lesbiche e bisessuali e questo fattore contribuisce indubbiamente a più alti tassi di problemi di salute. Infatti, “sebbene sia importante affrontare i fattori comportamentali come l’attività fisica, il comportamento sedentario e l’assunzione di cibo, questi fattori non sono sufficienti per eliminare le disparità delle donne LB nelle malattie croniche”, ha spiegato il team.

Così, un miglioramento della prevenzione pubblica nell’individuazione e gestione dell’obesità e di stili di vita malsani è necessario, insieme ad una consapevolezza dello staff medico rispetto alle componenti che contribuiscono a creare questo divario: una gestione dello stress legato all’appartenenza ad un gruppo minoritario e alle conseguenze che ciò comporta è impegno sociale, professionale e personale.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Genitori critici: il cervello dei bambini risponde diversamente agli stimoli emotivi

L’esposizione alla critica dei genitori influisce sul modo in cui i bambini elaborano e prestano attenzione alle espressioni facciali delle emozioni.

 

Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali.

I risultati dello studio suggeriscono che i bambini con un genitore critico potrebbero evitare di prestare attenzione ai volti che esprimono qualsiasi tipo di emozione. Questo comportamento potrebbe influenzare le loro relazioni con gli altri e, in ultima analisi, essere legato in qualche misura a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici.

Lo studio

I ricercatori hanno voluto esaminare in che modo l’esposizione alla critica dei genitori influisce sul modo in cui i bambini elaborano e prestano attenzione alle espressioni facciali delle emozioni.

Un strumento utilizzato per misurare l’attenzione è un marker neurale chiamato Late Positive Potential (LPP), che fornisce una misura di quanto qualcuno presta attenzione alle informazioni emotive come, ad esempio, un volto che è felice o triste.

I ricercatori hanno selezionato per questo studio genitori di bambini di età compresa fra i 7 e gli 11 anni, facendoli parlare dei loro figli per cinque minuti. Le affermazioni dei genitori sono state successivamente codificate per livelli di critica. In seguito sono state misurate le attività cerebrali dei bambini che, durante il test, osservavano una serie di immagini rappresentanti dei volti, ognuna con emozioni diverse.

I risultati emersi dimostrano che i figli di genitori molto critici mostravano meno attenzione a tutte le espressioni facciali emotive, contrariamente a figli di genitori meno critici.

È plausibile dunque che i bambini in stato di angoscia, con un genitore criticista, abbiano maggiori probabilità di ricorrere a strategie di coping evitanti, rispetto ai bambini che non hanno genitori criticisti. Il soggetto che subisce le critiche potrebbe sviluppare credenze psicopatogene, quali convinzioni di inadeguatezza personale, bassa autostima, sensi di colpa. Alla luce di questo risultato, una possibile spiegazione è che i bambini con genitori critici evitano contatti visivi per evitare o ridurre l’esposizione a espressioni critiche.

I ricercatori hanno l’obiettivo di implementare un nuovo futuro studio che andrebbe ad esaminare le reazioni in tempo reale che si sviluppano nel cervello dei bambini sollecitati da commenti positivi e negativi dei loro genitori.

L’itinerario criminologico di Melanie Klein: crimine e riparazione

Il presente contributo offre una disamina dell’itinerario criminologico della psicoanalista Melanie Klein e dell’attualità delle sue riflessioni sulle tendenze criminali e sulle tendenze alla riparazione nei bambini.

Gaetano Esposito

Agli inizi degli anni venti del Novecento anche la Germania conobbe il fenomeno dei serial killer e dei loro crimini efferati. Karl Denke era solito rapire e mangiare vagabondi per poi venderne la carne al mercato nero spacciandola per maiale; il più famoso Fritz Haarmann, “il lupo mannaro di Hannover”, tra il 1919 e il 1924 commise almeno 24 omicidi; abbordava ragazzi di strada, li violentava, li uccideva con un morso alla gola e terminava il suo macabro rito vendendo i loro indumenti.

In quegli stessi anni Melanie Klein compiva i suoi pioneristici studi sul mondo dei bambini sfatando il mito dell’infanzia come oasi di serenità e innocenza. Utilizzando la tecnica del gioco entrava in quel mondo e rinveniva conflitti, angoscia, sensi di colpa e tendenze distruttive.

Uno dei suoi piccoli pazienti immaginava di decapitare un bambolotto e di venderne il corpo a un immaginario macellaio affinché ne rivendesse i pezzi come carne da mangiare. Un altro dei suoi pazienti, Peter, giocando con due pupazzi, costruiva una storia in cui entrambi uccidevano padre e madre e ne mangiavano i corpi.

Le evidenti analogie tra le fantasie dei bambini e gli orrendi delitti commessi dai serial killer non potevano sfuggire alla grande psicoanalista che ne fece oggetto di studio ed espose i risultati della sua ricerca nel simposio tenutosi al British Psycoanalytical Society del 1927, con una relazione dal titolo significativo: Tendenze criminali nei bambini normali. Lo scopo dello scritto non era soltanto quello di dimostrare l’esistenza di tendenze criminali nei bambini normali ma anche quello di risalire all’origine dei conflitti che generano siffatte tendenze.

Il caso del piccolo Peter offrì alla Klein spunti di grande interesse. Il bambino immaginava che i due pupazzetti, rappresentanti egli stesso e il fratellino, erano in attesa della punizione da parte della madre per essersi comportati male ma la paura della punizione diventava così insopportabile da condurre i pupazzi a uccidere barbaramente padre e madre, i quali, resuscitati nella mente del bambino, tornavano e trucidavano, altrettanto barbaramente, i due figlioletti.

Il gioco, che si ripeteva sempre secondo le stessa modalità, evidenziava un nesso di circolarità tra gesti riprovevoli e punizioni, il che portava la Klein alla conclusione che “il desiderio di punizione”, che nel bambino è una causa determinante del suo continuo ripetere azioni riprovevoli, “si ritrova più o meno uguale nel criminale che continua a delinquere” (Klein, 2012, p. 30). Il bambino dunque sviluppa tendenze criminali quanto più teme di essere punito con altrettanta atrocità da parte dell’immaginario genitore che è l’oggetto delle sue fantasie aggressive.

Il senso di colpa del bambino, ingenerato da un Super – io altrettanto sadico, gioca un ruolo importante nella “coazione a ripetere continuamente azioni proibite”.

Riaffiora anche qui il criminale vittima del senso di colpa, evidente richiamo alla tipologia del delinquente per senso di colpa teorizzata da Freud nel 1916, reviviscenza a sua volta del nietzschiano “pallido delinquente”.

Ma Melanie Klein non si fermò alla generica, intuitiva definizione freudiana, spingendosi ben oltre nell’analisi delle tendenze distruttive nei bambini studiò il funzionamento del Super – io e il ruolo che rivestiva nella genesi dell’atto criminale. In particolare fu il caso di un piccolo paziente destinato a finire in riformatorio che offrì alla psicoanalista ulteriori elementi su cui riflettere.

Questo ragazzino di dodici anni, la cui madre era morta precocemente, era stato per lungo tempo sottoposto a continue violenze sessuali da parte della sorella e non riusciva ad avere rapporti con gli altri se non in maniera conflittuale. Le sue azioni criminose consistevano nello scassinare gli armadietti della scuola, nel rubare e nell’aggredire sessualmente le ragazzine della sua età. Secondo Melanie Klein la differenza tra questo piccolo delinquente e Peter, il ragazzino nevrotico, si radicava nel mancato sviluppo del Super – io che, nel primo ragazzo, era rimasto fissato al momento dell’esperienza dolorosa. Un Super – io primitivo e crudele produceva maggiore angoscia e dunque una forte rimozione che “bloccava ogni sbocco alla fantasia e alla sublimazione sicché non rimaneva altro che ripetere continuamente il desiderio e la paura in azioni dello stesso tipo di quelle subite” (Klein, 2012, p. 36).

Klein: l’atto criminoso conseguenza di un Super-io bloccato a uno stadio precoce

Melanie Klein si spingeva un gradino più avanti di Freud ipotizzando che l’atto criminoso trova la sua scaturigine nel senso di colpa e nell’angoscia azionate da un Super – io severo che operava in maniera diversa, essendo rimasto fissato a uno stadio precoce. Il crimine è dovuto dunque a un arresto dello sviluppo del Super – io e non alla sua carenza, come comunemente si crede. Naturalmente anche in questo itinerario criminologico, come in quello di Freud, i fattori sociali vengono sottovalutati e la loro importanza giudicata non rilevante.

Se le cause dello sviluppo criminale nel bambino si annidano nella evoluzione del Super – io, sull’analisi grava il compito, arduo e ambizioso, di modificare tale sviluppo e deviare le tendenze criminali allo stesso modo in cui si trattano le nevrosi. Il trattamento del delinquente si modella su quello delle altre patologie dell’anima, secondo il modello scientista di matrice positivista. L’analisi può guarire il ragazzo delinquente perché la delinquenza trova la sua origine in cause interne ai moti dell’anima e può riuscire nell’impresa perché non esistono bambini irrimediabilmente cattivi nei quali non si possa mobilitare la capacità di amare.

Ma che cos’è questa capacità di amare che l’analisi dovrebbe mobilitare e come si manifesta?

Nel Simposio tenutosi nel 1934 alla Medical Section della British Pasycoanalytical Society l’insigne psicoanalista tornò sull’argomento con una breve relazione dal titolo: Sulla criminalità. In questo breve scritto Melanie Klein ribadiva le conclusioni precedenti e avvertiva che anche nelle profondità della psiche del bambino delinquente si ritrova la capacità di amare. L’analisi del gioco aveva messo in evidenza che i bambini tormentati dall’angoscia distruggevano i giocattoli e ogni sorta di oggetti che si trovavano tra le mani ma poi, quando grazie all’analisi l’angoscia diminuiva, le tendenze sadiche ai attenuavano e il senso di colpa generava tendenze costruttive. Il bambino infatti si adoperava a ricostruire i giocattoli e gli oggetti che aveva distrutto (Klein, 2012, p. 75).

Klein: la tendenza a riparare che segue alla fase depressiva

Questa tendenza costruttiva, che la Klein chiamò tendenza a riparare, costituisce il sostrato della capacità di amare che nel delinquente è solo nascosta e rappresenta la sensazionale scoperta per la psicoanalisi infantile e non solo infantile. Ma da dove trae la sua origine questa tendenza a riparare?

Nello scritto “Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa” del 1948 Melanie Klein fece risalire il senso di colpa e la tendenza a riparare a una particolare forma di angoscia, che definì depressiva, la quale nasce dal male inferto agli oggetti d’amore. Nella fase depressiva il bambino avverte che “l’oggetto leso dai suoi impulsi distruttivi è una persona amata”, da qui la tendenza a riparare, a “ridar vita agli oggetti d’amore”. Questa spinta a riparare ha inoltre una funzione strutturante e benefica per l’Io in quanto “rendendo all’oggetto d’amore la sua integrità ed eliminando tutto il male che gli è stato fatto, il bambino si garantirebbe il possesso di un oggetto pienamente buono e stabile la cui introiezione rafforza il suo Io” (Klein, 2012, p. 96).

In sintesi il senso di colpa nasce dal male cagionato agli oggetti d’amore e attiva le tendenze riparatorie. L’angoscia depressiva, il senso di colpa e la spinta a riparare, secondo la Klein, emergono “solo quando i sentimenti d’amore per l’oggetto predominano sugli impulsi distruttivi”, cioè quando, potremmo dire in termini freudiani, le pulsioni di vita prevalgono su quelle di morte.

Il senso di colpa dunque genera due tendenze: quella distruttiva e quella riparatoria, due forze contrapposte la seconda delle quali si aziona quando prevalgono i sentimenti di amore; da qui l’arduo compito dell’analisi di attivare quella capacità di amare di cui Melanie Klein parlava nell’articolo del 1927 e che si traduce nel riparare l’oggetto – persona danneggiato.

Le scoperte di Melanie Klein offrono notevoli spunti di riflessione in un momento come quello attuale segnato dalla recrudescenza della criminalità infantile soprattutto in relazione a reati particolarmente violenti. L’insegnamento della Klein costituisce un monito per tutti coloro che operano nella giustizia minorile, pedagoghi, educatori, psicologi, giudici, i quali dovrebbero adoperarsi per stimolare forme di riparazione a favore della persona offesa dal reato, risvegliando così, quella capacità di amare che giace nascosta nel cuore di ogni criminale.

Le scoperte di Melanie Klein offrono un contributo di non poco rilievo anche all’odierno dibattito sulla giustizia ripartiva. Nella visione più moderna del reato questo costituisce un fatto sociale o meglio fatto relazionale, cioè un evento che incrina una relazione tra due individui, relazione che va ricostruita per quanto possibile.

In questa ottica di idee la riparazione crea un contatto tra reo e persona offesa al fine di eliminare o quantomeno di attenuare le conseguenze derivanti dal reato. Riparare significa riflettere sulla propria condotta, sui propri errori e adoperarsi per ricostruire la situazione antefatta al reato, fin dove possibile.

Riparare è dunque un gesto consapevole ed è molto più che risarcire il danno, gesto il più delle volte rispondente a un disegno calcolante dell’imputato.

Infine, nell’ottica del recupero del delinquente e della sua risocializzazione, la riparazione rappresenta forse la forma più alta e più concreta di rieducazione.

Le aspettative in gravidanza possono avere un effetto sullo sviluppo postnatale del bambino

Durante la gravidanza le madri si creano delle aspettative rispetto alle caratteristiche del proprio bambino, al modo di entrare in relazione con lui e rispetto al nuovo ruolo di genitore. Queste aspettative deriverebbero da diversi fattori, come la relazione della futura madre con i propri genitori, precedenti esperienze di aborto, depressione, ansia, etc.

 

Le fantasie e le aspettative che le madri hanno durante la gravidanza sul proprio bambino possono configurarsi come un importante fattore di protezione rispetto allo sviluppo dei propri figli ma possono anche rappresentare un fattore di rischio in presenza di distorsioni o polarizazzioni nelle aspettative. Ad esempio, se durante la gravidanza il figlio viene idealizzato nelle sue caratteristiche, è molto probabile che l’immagine idealizzata non coinciderà con le effettive caratteristiche del bambino, generando un forte senso di frustrazione o, peggio, di disprezzo.

A tal proposito, diversi studi hanno dimostrato che una rappresentazione idealizzata è tipica soprattutto durante le prime fasi della gravidanza e, normalmente, tali aspettative tendono a ridimensionarsi in previsione del parto, così che vi sia un migliore adattamento delle fantasie della madre con le reali caratteristiche del bambino.

Gli studi in letteratura

Numerosi studi hanno tentato di dimostrare l’esistenza di un legame tra il modo in cui i genitori pensano al proprio bambino durante la gravidanza e il loro comportamento postnatale. Queste ricerche hanno esaminato, attraverso interviste e questionari, i pensieri e le sensazioni dei futuri genitori riguardo al proprio bambino, durante la gravidanza.

Mediante l’utilizzo di tali strumenti di valutazione, i futuri genitori erano stati distinti sulla base delle loro rappresentazioni:

  • Genitori con rappresentazione bilanciata: mostravano un’anticipazione positiva della loro relazione con il bambino, presentavano rappresentazioni più equilibrate, data l’assenza di polarizzazioni (idealizzazione, svalutazione). Una caratteristica fondamentale di questi genitori, era la loro propensione a riconoscere il proprio figlio come dotato di una mente, con pensieri e sentimenti propri. Tale abilità è definita come Mind-mindedness.
  • Genitori con rappresentazione distorta: al contrario, descrivevano il proprio figlio mediante narrazioni ristrette, incomplete, incoerenti e idealizzate. Tali genitori non sembravano essere in grado di integrare diverse caratteristiche del bambino, aspetti positivi e possibili elementi negativi, così da formare una rappresentazione bilanciata e non idealizzata.

Dopo la nascita, i ricercatori hanno osservato e studiato le interazioni tra genitori e figli. Un elemento a cui hanno prestato particolare attenzione è stata la “sensibilità genitoriale”: ovvero la capacità di notare, interpretare e rispondere in modo tempestivo e appropriato i segnali dei bambini, ad esempio nel momento in cui esprimevano un bisogno/disagio.

I risultati di queste ricerche, secondo una recente meta-analisi svolta dal team dell’Università di Cambridge, hanno evidenziato una modesta associazione tra i pensieri e i sentimenti dei genitori sul bambino durante la gravidanza e la successiva interazione con il bambino, ma tali risultati sono stati rilevati soltanto nelle madri.

Sarah Foley, tra gli autori dello studio, sostiene che l’aver trovato una relazione tra l’atteggiamento di una madre nei confronti del suo bambino durante la gravidanza e le successive interazioni tra questi, rappresenta sicuramente un risultato fondamentale; ma, siccome questo legame è solo modesto, è probabile che sia parte di un processo più ampio in cui rientrano molti altri elementi importanti.

Il caffé caldo e l’incoscio cognitivo

Tutti i giorni decidiamo, orientiamo il corso della nostra vita e influenziamo quella degli altri. Dei motivi delle nostre scelte, ci spiega Bargh, siamo largamente ignari: avvengono nel dominio dell’inconscio cognitivo, lì dove si svolgono processi automatici, veloci, selezionati nel corso dell’evoluzione. 

 

Avete avuto un figlio da poco. La coppia di vostri amici no. La città in cui vivete è pericolosa. La città in cui vivono i vostri amici no. Sfortuna? Neanche per idea. Torniamo due anni indietro, eravate ancora fidanzati e neanche pensavate a fare un bambino. Viaggiate: mare, Provenza, tour delle cantine toscane. La vostra città era sicura. Cosa è cambiato? Niente, tranne che ora siete genitori, e all’improvviso il mondo vi appare pieno di pericoli. Notate minacce che prima non esistevano: bottiglie di birra per strada indicano rapitori. Feroci prese elettriche. I detersivi ghignano nella notte. Che significa? Che giudicate il mondo in un modo che dipende dalle vostre motivazioni – proteggere il figlio in questo caso – ed emozioni – qui è paura -. Ma accade a vostra insaputa.

Pensate di essere giudici razionali e affidabili del comportamento degli altri? Del tipo: io non mi sbaglio, le mie impressioni sono sempre giuste. E invece siete influenzabili dal caffè, senza neanche berlo. Purché sia americano, grande, in bicchiere di cartone. Dovete giudicare una persona che vi dicono avere certe caratteristiche. Vi hanno messo una tazza di caffè caldo in mano. Siete meglio disposti, quella persona ha più qualità positive. Se il caffè era freddo la stessa persona vi piace meno. Sì, potete obiettare, ma quando le cose contano veramente sono infallibile.

In realtà è anche peggio. Dovete giudicare le motivazioni di un criminale: ha agito a sangue freddo, in modo premeditato, o a caldo, impulsivamente. Nel primo caso sarete propensi a sbatterlo in carcere e buttare la chiave, nel secondo a concedergli attenuanti. Anni di galera di differenza. Bene, se la stanza dove vi trovate è fredda, gli attribuirete un omicidio a sangue freddo, se è calda penserete abbia ucciso sotto un’onda emotiva. Se mai ucciderò qualcuno, voglio essere giudicato in una stanza ben riscaldata.

Avete aree cerebrali che reagiscono al freddo e al tradimento nello stesso modo, l’insula per la precisione. Dante ha messo i traditori nei ghiacci eterni del Cocito per un buon motivo. Seguite il ragionamento? Lo stato del corpo influisce sulle vostre decisioni. Fuori dalla vostra consapevolezza, prima del vostro controllo.

Non è solo questione di caldo/freddo. Come dice il mio collega Francesco Mancini, se non avete avuto il tempo di lavarvi al mattino vi sentite sporchi e, senza saperlo, siete moralmente più tolleranti. Ho deciso: se commetto un crimine il processo sarà in una stanza calda con un giudice che si è macchiato la camicia di caffè – caldo naturalmente -. John Bargh nel potente A tua insaputa sostiene una tesi, solida: la nostra azione è in larga parte decisa a livello inconscio, orientata da fattori che ci sono oscuri. Questi fattori hanno un’influenza gigantesca su scelte, comportamenti, performance. Volete vincere le elezioni? Se siete conservatori seminate paura e disgusto. Il nome della rosa e Q di Luther Blissett (leggetelo) lo avevano detto. Quali sono le condizioni ottimali? La presenza contemporanea di immigrati, possibilmente sudati, e immondizia nelle strade. L’inspiegabile vittoria di Trump, nota Bargh, diventa più comprensibile.

Ma che libro è questo? Voi avete opinioni politiche ragionate, acute, dettate dai fatti. Non amate sentirvi dire che siete influenzati da emozioni, stati del corpo. E invece è così, piaccia o no. Fior di esperimenti dimostrano che è più facile fare adottare a un liberale idee conservartici che il contrario. Come? A un gruppo di studenti liberali era stata fatta immaginare la propria morte, gli psicologi possono essere sadici, nessun dubbio. Subito dopo hanno espresso opinioni più conservatrici su: pena di morte, aborto, matrimonio omosessuale. Per un po’, poi sono tornati a essere sé stessi. Qual è il motivo? Sotto condizioni di minaccia, impotenza e paura, tendiamo a mantenere lo status quo. Più o meno come quando ci nasce un figlio.

Ancora il disgusto. Vi chiedono di esprimere un giudizio in una stanza sporca? Sarete più intransigenti. Leggo il libro e capisco la mia severità morale nei pressi dei cassonetti di Roma.

C’è un senso evolutivo in tutto questo: assaggiare una bacca attraente mai ingoiata prima da fauci umane, può essere salvezza o, se la bacca è velenosa, morte. Il vostro amico di Neanderthal coraggiosamente ha mangiato ma, ops, ora non c’è più. La bacca diventa schifosa, e lo trasmetterete ai vostri figli. Il disgusto induce a evitare l’innovazione, con buone ragioni. Usate quella base evolutiva e sapete come influenzare le decisioni morali e politiche. Con qualche fatica anche i conservatori possono diventare, transitoriamente, progressisti. Basta indurre in loro un’idea di invulnerabilità. Svanisce la paura, si aprono al nuovo. Gli fate solo immaginare che possono volare? Restano conservatori.

I nostri valori coprono azioni che eseguiamo per altri motivi. Avete presente il detto: fa quello che dice il prete e non quello che fa? Non mi piace. La verità delle persone è nei gesti, non nei valori che declamano. L’esperimento del buon samaritano ne dà conferma. Con un pizzico di blasfemia, a Princeton hanno sottoposto a un test studenti di seminario. Stavano per tenere una lezione sulla parabola del buon samaritano. Era per loro importante e dovevano arrivare puntuali. “Sotto un portico, tutti gli studenti incrociavano una persona malvestita e accasciata per terra che aveva l’aria di stare male”. I seminaristi lo hanno aiutato? Quelli che avevano più fretta non l’hanno neanche notato! Qual era il loro impulso: la motivazione a essere apprezzati o l’altruismo del samaritano? Se glielo aveste chiesto avrebbero detto il secondo, del resto stavano per farci una lezione su. Invece l’ambizione li guidava con più forza e non ne erano, ormai lo avete capito, consapevoli.

Tutti i giorni decidiamo, orientiamo il corso della nostra vita e influenziamo quella degli altri. Dei motivi delle nostre scelte, ci spiega Bargh, siamo largamente ignari: avvengono nel dominio dell’inconscio cognitivo, lì dove si svolgono processi automatici, veloci, selezionati nel corso dell’evoluzione. Utili ma spesso fallaci. Motivazioni, emozioni, pregiudizi sono spinte che ci governano dal buio. Conoscere questi processi rende più liberi, saggi, avveduti. Dà più potere. I nostri giudici, avvocati, genitori, politici, medici, sanno qualcosa di questi meccanismi psicologici? Temo di no. Allora si possono tentare scommesse che permettono guadagni facili. Se politici progressisti illuminati invece di studiare Bargh si affidano a psicologi che passano tempo a rispolverare miti greci, vinceranno le elezioni? Io punto i soldi su Cetto La Qualunque.

La stabilità della propria percezione corporea dipende dall’età? Uno studio in realtà virtuale

Presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, è stato condotto uno studio in realtà virtuale per valutare eventuali differenze legate all’età nella percezione corporea, in seguito all’induzione d’illusioni.

Per lo studio sono state reclutate 40 persone di genere femminile, tramite un campionamento di convenienza a valanga: studenti frequentanti l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, sono stati invitati a prendere parte allo studio durante le ore di lezione e ad estendere l’invito a dei propri amici.

Percezione corporea: lo studio con un visore di realtà virtuale

I soggetti selezionati sono di genere femminile, hanno un’età compresa tra i 19 ed i 55 anni, non presentano malattie neurobiologiche né malattie psichiatriche (asse I DSM IV TR), nessuna condizione fisica che possa condizionare il peso/corpo (ad esempio gravidanza recente) ed un BMI compreso tra i 18.5 ed i 25.

Le 40 partecipanti sono state divise in due gruppi (il cui BMI medio non differiva) in base all’età: il primo gruppo composto da soggetti dai 19 ai 25 anni ed il gruppo due composto da soggetti di età compresa tra i 26 ed i 55 anni. Le partecipanti hanno indossato un visore di realtà virtuale per sperimentare un’illusione corporea articolata in due condizioni di 90 secondi ciascuna.

All’interno dello scenario virtuale vi era rappresentato il corpo di una donna di 25 anni (età media del campione) in piedi e con addome magro posto in una stanza priva di stimoli. Le donne potevano vedere il corpo della donna come se fosse il proprio. La forma dell’avatar poteva esser differente rispetto a quella delle partecipanti, infatti la circonferenza media delle partecipanti era circa di 84 cm nel gruppo 1 e di 79 cm nel gruppo 2 (deviazione standard di 8-10 cm), mentre quella del corpo avatar era di 74 cm circa.

Le due condizioni di illusione corporea sono state articolate nel seguente modo:

  • Condizione sperimentale, stimolazione visuotattile sincrona: lo sperimentatore stimola l’addome dei partecipanti con un pennello attaccato al dispositivo di tracciamento del movimento (Razer Hydra). La stimolazione sincrona permette al soggetto di vedere all’interno della stanza virtuale il proprio corpo “avatar” stimolato sull’addome da una mano avatar, in sincronia con la sensazione tattile percepita sul proprio corpo.
  • Condizione di controllo, stimolazione visuotattile asincrona: lo sperimentatore ha presentato un ritardo tra la stimolazione tattile sull’addome e l’input visivo nella realtà virtuale.

Percezione corporea: è più stabile con l’aumento dell’età?

All’inizio e successivamente ad ognuna di tali stimolazioni, i partecipanti hanno eseguito la stima della propria dimensione corporea: in particolare in questo compito ripetuto prima dell’immersione virtuale ed in seguito alle due condizioni sperimentale e di controllo, le partecipanti, poste di fronte ad un muro, senza guardare il proprio corpo, hanno stimato la distanza orizzontale tra la parte sinistra e destra del proprio corpo a diverse altezze (spalle, fianchi e addome), posizionando degli adesivi sul muro.

Un questionario per l’embodiment è stato somministrato in seguito alle due condizioni virtuali; si voleva indagare in particolare la padronanza del proprio corpo virtuale, la localizzazione di sé rispetto al corpo virtuale e il senso di agency.

Infine, gli sperimentatori hanno misurato l’effettiva lunghezza corporea delle partecipanti al termine dell’esperimento.

I partecipanti del secondo gruppo (età 26-55 anni) si sono dimostrate più resistenti ai cambiamenti indotti dall’illusione corporea, mentre i partecipanti del primo gruppo (19-25 anni) hanno sottostimato le dimensioni dei propri corpi (soprattutto ad altezza spalle e fianchi) in seguito alle condizioni sperimentali e di controllo.

Una possibile spiegazione data dal corpo di ricerca ha preso in considerazione come la rappresentazione corporea immagazzinata in memoria è più stabile nel secondo gruppo, così una minore plasticità della rappresentazione corporea dai 26 ai 55 anni può essere interpretata come un uso rigido di strategie predittive acquisite durante la vita, al posto di strategie adattive.

Futuri studi potranno essere condotti su campioni clinici di donne affette da disturbi alimentari, e la realizzazione dell’avatar potrebbe essere più ad hoc (ad esempio rappresentando diverse età); inoltre gli sperimentatori considerano di includere la valutazione di fattori psicologici quali l’autostima e la stima del proprio corpo, oltre all’uso di tecnologie che permettano di acquisire informazioni sull’esperienze corporee interne.

L’apporto di Giovanni Liotti alla psicotraumatologia e le strategie di controllo

Giovanni Liotti è considerato uno dei padri della psicoterapia cognitiva in Italia, insieme a Vittorio Guidano. Nel suo “Sviluppi Traumatici” tenta di approfondire la questione relativa alle problematiche post-traumatiche fornendo moltissimi spunti di riflessione e una lettura estremamente plausibile di alcune comuni forme di psicopatologia nel paziente post-traumatico.

 

Come nascono gli “Sviluppi traumatici“? I pazienti che arrivano in psicoterapia da storie traumatiche di sviluppo presentano quello che la Teoria dell’Attaccamento definisce “stile insicuro di attaccamento”. Molto schematicamente, definiamo stile insicuro di attaccamento uno stile relazionale esistente tra bambino e caregiver caratterizzato da una costante necessità di riconfermare e ricostruire la sintonizzazione emotiva da parte del bambino verso l’adulto (attaccamento ansioso/ambivalente, altresì categorizzato attaccamento C), oppure da un’assenza totale di ricerca della stessa da parte del bambino nei confronti del caregiver (attaccamento evitante, categorizzato attaccamento di tipo A). Esiste inoltre un terzo “modo” relazionale caratterizzato da emozioni sperimentate dal bambino contrastanti e incoerenti, definito dagli attaccamentologi “stile di attaccamento disorganizzato” (attaccamento D).

Sviluppi traumatici: Mary Ainswoth e gli stili di attaccamento insicuro

Nel corso dei famosi esperimenti, Mary Ainsworth all’interno della Strage Situation, osservò infatti una categoria di bambini che sembravano allo stesso tempo cercare e respingere il contatto con la madre. Questo perché spingevano in lui/lei due pulsioni istintuali (o mandati evolutivi) contrapposte, ovvero

  • la ricerca di un contatto necessario a garantire una sensazione di sicurezza
  • la paura di una vittima nei confronti del suo persecutore

La simultanea presenza di queste due tendenze nel bambino (avvicinarsi e allontanarsi) produceva un pattern di comportamento contraddittorio e incoerente, che i ricercatori definirono appunto disorganizzato. Nel tempo si è osservato come i bambini che sviluppavano uno stile di attaccamento disorganizzato fossero più soggetti a sviluppare in età adulta tendenze dissociative e tratti post-traumautici di personalità (maggiore sensibilità all’ambiente, emozioni veementi e disregolate, difficoltà relazionali, tendenza all’abuso auto-terapeutico di sostanze, ecc.).

Sviluppi traumatici e strategia regolativa

Nel suo lavoro “Sviluppi Traumatici”, Gianni Liotti approfondisce la questione ponendo al centro della sua riflessione teorica il concetto di “strategia regolativa”. Come può un bambino che viva in un contesto pericoloso e terrorizzante -si chiede l’autore- ottenere la vicinanza emotiva del care-giver, indispensabile per sopravvivere all’ambiente circostante?

Liotti ragiona sul fatto che un bambino per poter sopravvivere a un adulto psicologicamente abusante è obbligato a mettere in atto delle strategie di controllo. Queste potrebbero essere riepilogate come segue:

  • Strategia controllante/accudente – genitorializzazione: la tendenza definita da Liotti alla “genitorializzazione” implica lo sviluppare da parte del bambino una serie di competenze relazionali e comportamentali che gli consentano di prevedere il comportamento -imprevedibile- del care-giver. Una sorta di “progressione traumatica” in cui il bambino diviene iper-competente e iper-sensibile agli sbalzi del genitore, di fatto imparando a “contenerlo”. Immaginiamo per esempio un padre seduttivo/terrorizzante, magari con tendenza all’abuso di alcol e ad esplodere in scoppi di ira apparentemente immotivati. Se immaginiamo la vita di una bambina che cresca a contatto con una figura di riferimento del genere, dobbiamo pensare a quanto questa sia sottoposta, nel corso dello svolgersi della quotidianità, a uno sforzo anticipatorio del comportamento del padre stesso. Osservandoli in interazione noteremo come la bambina abbia imparato a conoscere ogni sfumatura caratteriale del care-giver e come riesca ad anticiparlo o manipolarlo al fine di garantirsi la sua protezione anche quando quest’ultimo manifesti pesanti alterazioni del carattere o sbalzi umorali. La genitorializzazione, l’autore esplicita, è dunque una strategia di controllo messa in atto laddove sia necessario per il/la bambino/a anticipare costantemente le mosse di un genitore abusante (più un generale, di una realtà o di un ambiente abusante), per contenere i danni prodotti sulla sua stessa salute psichica e allo stesso tempo garantirsi la sua protezione. L’autore sottolinea che un’inversione simile dell’attaccamento avrà dei costi futuri nei termini di una difficile creazione di rapporti stabili e in cui ci si possa affidare e aprire all’altro senza che questo voglia dire, nuovamente, sottoporsi a una possibile minaccia e a nuovi abusi.
  • Strategia controllante/punitiva: con questo Liotti intende sottolineare come all’interno di una diade bambino/care-giver in cui quest’ultimo manifesti comportamenti abusanti e discontrollati (“disorganizzati/disorganizzanti”) è possibile che il bambino sviluppi tendenze punitive che hanno a che fare con l’inversione non tanto dell’attaccamento (come prima si diceva), ma con un’attivazione del sistema motivazionale agonistico e lo spostamento della questione a livello di sistema di rango. E’ come se il bambino utilizzasse, per controllare l’adulto, il potere fornitogli da una posizione dominante in termini di rango. Osserviamo in questi casi una tendenza ad aggredire e ad imporre le cose da parte del bambino al genitore, letteralmente dominato/a dal figlio (o dalla figlia). Non a caso in questi casi al/alla figlio/a viene dato l’aggettivo di “tirannico/a”, per sottolineare quanto all’interno della diade genitoriale le cose abbiano subito una inversione, incentrata questa volta sulla dinamica di potere/rango. In questo caso il bambino diviene punitivo e severo verso il genitore al fine di anticipare e sopprimere le condotte disregolate vissute come intrusive e dolorose.

In “Sviluppi traumatici” Liotti sottolinea dunque come all’interno di stili di attaccamento cosiddetti “insicuri” e in particolare laddove vi sia una condotta disregolata, disorganizzata e disorganizzante da parte del care-giver, è possibile vengano messe in atto strategie di controllo ottenute imparando ad anticipare “le mosse” della figura traumatizzante, funzionali a stabilizzare e garantire una quota salubre di mastery all’interno della relazione.

L’autore sottolinea infine come la rappresentazione di sé come impotente e passivo all’interno della relazione, sia il vulnus, la ferita originaria dal quale il paziente sembri essere scappato nel corso dello sviluppo. Lo stato di vuoto dissociativo mentale, il senso di impotenza e di essere in balia di una realtà pericolosa, non controllabile e totalitarizzata dalla figura ingombrante di un care-giver abusante, sono ciò a cui il paziente avrà imparato a sopravvivere mettendo in atto strategie di coping, strategie regolative e strategie di controllo. Non dimentichiamo che per un bambino, la realtà è filtrata dagli occhi e dalla mente del care-giver: crescere in un ambiente traumatico significa quindi rappresentare la realtà tutta come pericolosa o imprevedibile, senza distinguere ciò che c’è “dentro casa” dalla realtà “esterna”, ma facendo un tutt’uno spaventoso e patogeno.

Larsen di Caparezza: e il tuo acufene come lo chiami?

A maggio è uscito il video del singolo Larsen di Caparezza nel quale si chiarisce brillantemente cosa significa avere un acufene: una sorta di volatile, il manachino delizioso, che produce un fischio acuto con il movimento delle ali e che ci segue costantemente ovunque andiamo. Uno stalker insomma.

La canzone è uscita ormai da un anno circa nell’album Prisoner 709, disco che parla di una crisi d’identità, di contrapposizioni, di una crisi di certezze. Crisi sbocciata nel 2015 a seguito dell’insorgenza appunto dell’acufene (fruscio, fischio o simili che percepiamo all’interno dell’orecchio). Il numero 7 sta per Michele (nome dell’artista) mentre il 9 per Caparezza, lo 0 rappresenta la scelta continua: Michele o Caparezza? E nei vari capitoli dell’album si gioca tra due scelte sempre utilizzando termini con lo stesso numero di lettere, 7 e 9. La canzone Larsen va ad inserirsi nel capitolo Tortura nel quale si gioca sulla contrapposizione Perdono o Punizione.

Larsen: acufene come tortura per una colpa

Spesso ho sentito i pazienti affetti da acufene descrivere quello che stavano passando con il termine tortura. La tortura è prolungata nel tempo. Caparezza alla lettura dei forum dei pazienti acufenizzati ha sentito la pressione dell’eternità, del “per sempre”, quando ha letto “l’acufene non andrà mai più via”. Condannato all’ergastolo, per tornare alla metafora del prigioniero. E l’ergastolo e la tortura non rappresentano una punizione per ciò che abbiamo fatto? Michele è stato punito per essere entrato nel mondo della musica, per aver divorato album? Per aver assistito e fatto lui stesso concerti? In un’intervista dice di aver pensato:

possibile che io dovevo fare questo mestiere per arrivare a questa tortura?

“Perché è successo a me?” spesso i pazienti si fanno questa domanda. Nel testo della canzone ad un certo punto Caparezza dice che lo specialista gli dice

parla con l’orecchio chiedi scusa

perché se hai fatto qualcosa di sbagliato almeno cerchi di rimediare. Ma spesso anche se chiedi perdono in galera ci rimani. Il danno è fatto. E per quanto riguarda l’acufene in caso di trauma acustico rimediare è difficile, a volte impossibile. Ancora ricordo un paziente con acufene a seguito dell’esposizione sotto cassa ad un concerto. Non riusciva a perdonarsi per essere andato a quella serata.

Acufene: Caparezza ce lo descrive in Larsen

L’acufene, come la malattia mentale, non si vede. Non si ha una ferita, un’invalidità visibile. Per gli altri è difficile capire. Nel video questo concetto è espresso in maniera geniale quando mostrano un’intervista di Caparezza con l’uccello/acufene a suo fianco e poi l’immagine si allarga e viene mostrata l’intervista come la vedono gli spettatori dietro la camera da presa: il manachino delizioso non è visibile.

Nel testo della canzone vengono elencate tutte le maggiori difficoltà che affrontano le persone a seguito dell’insorgenza del tinnito. Problemi del sonno, difficoltà a percepire i suoni esterni, pensiero fisso (“primo pensiero al mattino l’ultimo prima di buttarmi giù dal terrazzo”) solo sull’acufene che cerca la nostra attenzione come quando si fischia ai taxi per chiamarli, “calo d’autostima” con depressione, rabbia e difficoltà di concentrazione. Poi la sofferenza per la mancanza di silenzio (bellissima la frase: “il suono del silenzio a me manca più che a Simon e Garfunkel”) e le difficoltà che si affrontano nella vita quotidiana tipo andare al cinema e, in particolare per i musicisti come Michele, non poter ascoltare la musica come prima.

Caparezza: le visite mediche per sconfiggere l’effetto Larsen

Un altro punto decisamente importante, descritto molto bene, è l’inizio delle visite mediche con analisi ed esami vari. In genere le persone con acufene acuto si rivolgono a tantissimi specialisti per far passare il disagio, per vederlo sparire, proprio come desidera anche Caparezza. E il più delle volte vengono deluse con la frase tipica “te lo devi tenere”. Vi immaginate? Andate da un medico con questo suono assurdo (per rendere l’idea l’effetto Larsen è lo stridio o fischio che si manifesta quando un microfono è troppo vicino oppure è direzionato verso il suo altoparlante), state male, sperate in qualcosa che vi faccia passare questa agonia e vi risponde così. E succede veramente, non so quante persone che ho visitato mi hanno riportato questa affermazione da parte del medico di turno. Facendo questo lavoro posso comprendere entrambe le parti: l’impotenza del medico, la sofferenza del paziente. Il punto è costruire un ponte tra questi e per fortuna sempre di più la figura dello psicoterapeuta permette questo ricongiungimento. Il terapeuta diventa sostegno allo specialista perché indica come approcciarsi al paziente e chiarisce anche quali possono essere i limiti del suo lavoro quando è presente una concomitante patologia psichiatrica/psicologica; per il paziente è un ascoltatore attivo che aiuta sia nella gestione di pensieri ed emozioni che ostacolano l’accettazione della patologia sia nel creare soluzioni concrete alla convivenza con l’acufene.

La prigionia dei pazienti, così come quella vissuta da Caparezza, è caratterizzata da trappole mentali. L’insorgenza del tinnito può portare alla messa in discussione dei propri valori, delle scelte di vita, della considerazione che abbiamo di noi stessi, della propria identità. Si siedono persone diversissime tra loro nel mio studio e spesso, per assurdo, l’acufene è l’argomento meno trattato dopo il primo incontro. L’acufene ha smosso qualcosa, ha catturato l’attenzione e forse, come per tante altre patologie, quando arriva ci offre l’opportunità di fermaci a riflettere su chi siamo ora e su quello che desideriamo per il nostro futuro. E magari ci fa vincere un disco di platino così rapidamente come mai successo prima.

Il bisogno di pensare di Vito Mancuso (2017) – Recensione del libro

Vito Mancuso, teologo e filosofo contemporaneo, ci prende per mano nell’intrigante e ardua impresa dell’esplorazione del pensiero. L’autore colloca nel desiderio la sorgente del pensiero.

 

Io sono convinto che questa vita sia per tutti un’odissea ma che un conto sia avere un’Itaca nel cuore e nella mente, un altro l’esserne privi. Si può vivere senza Itaca?

Il bisogno di pensare e desidare

Nel corso della lettura distinguiamo tra due estremi del concetto di desiderio: il desiderio bramoso da un lato, quello che spinge l’individuo a correre senza sosta verso l’ambizione più profonda e dall’altro lato, la ricerca di una totale assenza di desiderio, dove i bisogni e desideri si riducono all’essenziale e pertanto le paure e gli affanni che “fanno battere il cuore” si riducono. Che fare quindi? Da un lato l’assenza di desiderio porta all’ozio, dall’altro la forza del desiderio ci porta fuori da noi stessi, sbilanciandoci e facendoci sentire insoddisfatti. In questa dicotomia, Mancuso ci porta a sorpresa a prendere in considerazione l’esistenza di UN desiderio più grande possibile, al quale più efficacemente “aspirare”, termine che rimanda allo spirito (ad-spiritum) e a cui ricondurre la somma di tutti i propri desideri, in principio slegati tra loro. Mancuso esclude il distacco dal desiderio, perché lo considera linfa vitale per l’essere umano, che nella sua grandiosità è troppo piccolo per credere di aver già capito tutto su questa terra. Reprimere il desiderio vorrebbe dire reprimere la logica naturale dell’essere umano, che deve arrendersi al desiderio che è “l’essenza stessa dell’uomo” .

Leggendo questo libro troviamo spunti e riflessioni su quanto intensamente il pensiero pervada le vite di tutti gli esseri umani. E se appare impossibile una vita “senza pensieri”, diviene spesso insostenibile la pressione di un pensare costante, che domina l’individuo. Il bisogno di pensare talvolta diviene prigionia e talvolta illuminazione. L’essere umano sente il bisogno di trovare spiegazioni, ha bisogno di trovare senso a ciò che accade dentro e fuori da sé e qui interviene la conoscenza, che ha il compito di spiegare, letteralmente di “togliere le pieghe” a ciò che poi diviene spiegabile.

Il bisogno di pensare: ricerca di senso ed equilibrio

Se fosse cosi semplice, basterebbe quindi portare tutto al cospetto della conoscenza, ma sovente, albergano in noi concetti e sentimenti inspiegabili e quindi come detto prima: pieni di pieghe. Nella ricerca estenuante di spiegazioni, finiamo per arrenderci all’insoddisfazione del disequilibrio, condannandolo e demonizzandolo. La mente lavora alla ricerca snervante dell’equilibrio ambito, come se l’equilibrio fosse la risposta a tutto, come se fosse meta e conforto, ma tra queste pagine scopriamo che proprio nel disequilibrio si alimenta la sfida.

E allora esiste l’uniformità di pensiero? Esiste la meta, la pace dello spirito o l’epilogo sta nell’accettazione della contraddizione e dell’incoerenza del sé?

Questa lotta interiore, adeguatamente rivalutata e abbracciata, appare la primaria essenza di vitalità, di messa in discussione, perché “io non sono solo io” e quell’io stabile e immutabile, solido, imperturbabile, non esiste e rischia di divenire una meta frustrante e irraggiungibile. L’ Io è il risultato dell’evoluzione, esito di trasformazioni, conoscenze ed esperienze, pertanto l’essere umano non potrà pretendere di essere stabile, immutabile, ed equilibrato, perché il corso delle esperienze della vita porta necessariamente al disequilibrio.

Il rumore di fondo che produce la mente, risulta disturbante, talvolta assordante; i pensieri positivi, vengono oscurati dalle paure, dai fantasmi e dall’ego che protegge. Accanto al bisogno di pensare, ampiamente snocciolato nel testo, è doveroso citare il bisogno di non-pensare, che accomuna molti. Oggi ci ritroviamo impegnati, indaffarati, immersi nella società del “fare”, spesso convinti che quel naturale bisogno di pensare vada represso. Sentirsi S-pensierati, nel senso di senza preoccupazioni è il desiderio di molti, troppo occupati o troppo pre-occupati di ascoltare il contenuto di un pensiero, il bisogno di non pensare diviene necessità, perché pensare, talvolta diviene ossessione.

Questo testo fa pensare, fa osservare diverse strade, ma più di tutto fa esplorare un pensiero che unisce filosofia e teologia, in un danza elegante, fatta di significati, etimologie e citazioni.

Sia dunque che pensiamo molto o molto poco, sia che siamo consapevoli o no, sia che siamo avvolti nelle pieghe dell’inspiegabile o arresi ad esso, ciò che accomuna ogni essere umano è quella capacità unica e preziosa di pensare.

Bleah! Il senso del disgusto per proteggerci

Uno studio, pubblicato recentemente sul Royal Society’s Philosophical Transactions B journal dal gruppo di ricerca di Val Curtis, del dipartimento di igiene e medicina tropicale dell’Università di Londra, ha indagato il senso del disgusto e in particolare la teoria per la quale il disgusto rifletterebbe un meccanismo motivazionale che ci consente di evitare infezioni debilitanti o pericolose per la nostra salute.

Non è un caso che molti stimoli per i quali la maggior parte delle persone prova disgusto siano implicati nella trasmissione di malattie infettive, come ad esempio la saliva, fluidi vaginali e seminali, cibo infetto o marcio e comportamenti atipici o poco igienici (Curtis & Biran, 2001).

Disgusto: un’emozione protettiva

Il fatto che alcuni stimoli siano al contempo fonte di rischio per le infezioni sia elicitatori di disgusto ha condotto molti ricercatori del campo dell’etologia a teorizzare che questa relazione abbia un ruolo funzionale per la sopravvivenza degli animali e degli esseri umani, soprattutto adattivo nel motivare l’animale ad evitare tutto ciò che potrebbe contagiarlo o infettarlo (Tybur, Lieberman et al., 2013).

Tale teoria del disgusto definita di “evitamento del parassita” afferma che l’emozione del disgusto consentirebbe all’animale, tramite comportamenti di evitamento, di ridurre il contatto con patogeni o parassiti e che quest’emozione sia innata come meccanismo di difesa (Behringer, Butler & Shields, 2006).

Tuttavia questa teoria non è stata accettata unanimemente nel momento in cui è stata estesa agli esseri umani in quanto molti ritengono che il disgusto possa servire come forma di protezione dalla natura animale che l’essere umano è consapevole di avere e dal proprio senso di mortalità, oltre che come forma di conservazione dell’ordine morale socialmente accettato (Rozin, Haidt et al., 2009).

Altri invece ritengono che la reazione di disgusto sia funzionalmente integrata con il sistema immunitario (Schaller, Miller et., 2010) tanto che, soprattutto durante la gravidanza, periodo di maggiore vulnerabilità per la contrazione di infezioni, la sensibilità al disgusto tende ad aumentare (Fessler et al., 2005).

Disgusto: lo studio per verificare se è un segnale adattivo

Se il disgusto rappresenta un meccanismo difensivo che produce la messa in atto di un comportamento di evitamento dello stimolo patogeno, allora ne consegue che ci dovrebbero essere delle specifiche reazioni di disgusto nei confronti di differenti tipi di stimoli infettivi.

Per verificare questa ipotesi, per la quale il disgusto di fatto rappresenterebbe per gli esseri umani un segnale adattivo che consentirebbe all’intero organismo di predisporre un qualche tipo di comportamento adattivo e protettivo a fronte di stimoli specifici potenzialmente dannosi, Curtis e colleghi (2018) hanno indagato tramite survey il grado di disgusto per diversi item in un gruppo composto da circa 3000 volontari di origine caucasica, di prevalenza anglosassone.

I partecipanti sono stati chiamati ad indicare per ciascun item, creato dai ricercatori sulla base di categorie di trasmissione di malattie infettive, il proprio grado di disgusto, il tutto con l’intento di testare l’ipotesi che esisterebbe una struttura patogena a fattori che riflette le diverse modalità di trasmissione di una malattia (Curtis, de Barra, 2018).

L’analisi fattoriale condotta sui dati ha mostrato come il grado maggiore di disgusto dei partecipanti sia in particolare indotto da queste categorie di stimoli:

  • l’igiene
  • alcuni animali e insetti, come zanzare e ratti portatori di infezioni
  • comportamenti sessuali promiscui che aumentano le probabilità di contrarre una malattia sessualmente trasmissibile
  • alcuni aspetti fisici atipici, in particolare deformità del corpo
  • alcuni comportamenti come il tossire in modo convulso e respirare in modo anomalo
  • lesioni corporee, in particolare sulla pelle come pustole, vesciche e bolle purulente
  • cibi in fase di deperimento.

Disgusto: funziona grazie alla vista

I risultati dello studio hanno parzialmente supportato l’ipotesi di partenza dei ricercatori ma hanno sorprendentemente suggerito che gli item con il grado maggiore di disgusto e potenzialmente dannosi non fossero categorizzati dalle persone sulla base di categorie mediche astratte e generali di rischio di contagio come indicava la letteratura precedente (trasmissione per contatto tra fluidi, tramite ingestione o funghi) ma sono categorie riconducibili a specifici oggetti riconoscibili come bolle purulente, vesciche, persone che mostrano segni visibili di malattia o scarso igiene personale e pratiche rischiose come il sesso promiscuo o l’ingerimento di cibo avariato (Curtis, de Barra, 2018)

Le categorie ben si associano con il punto di vista dei ricercatori per il quale il “sistema” non sopporterebbe di “vedere” microbi, parassiti o stimoli che sono diventati disgustosi a seguito del contatto con microrganismi patogeni.

A detta di Tybur, Çınar, Karinen e colleghi (2018) il disgusto, in termini evoluzionistici, si è sviluppato per consentirci la sopravvivenza consentendoci di evitare tutto ciò che potrebbe essere nocivo e potrebbe arrecarci un danno: ad esempio è stato osservato come le donne ritengano disgustosi alcuni comportamenti sessualmente promiscui a causa del fatto che questi potrebbero aumentare il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili e quindi il rischio di vedere ridotte le proprie capacità riproduttive e di portare a termine una futura gravidanza.

Al contrario una ricerca condotte da Simone Schnall (2008), ricercatore all’università di Cambridge e direttore del Mind, Body and Behavior Laboratory, evidenzia come il disgusto non sia tanto legato alla prevenzione di infezioni o malattie ma avrebbe lo scopo, in alcuni casi, di allontanarci da attività rischiose come il paracadutismo acrobatico, il rafting su discese, il gioco d’azzardo o il gambling finanziario.

Infatti sembrerebbe che le persone con un alta sensibilità al disgusto abbiano una percezione maggiore del rischio rispetto ad altri con una sensibilità ad esso minore.

Ad esempio situazioni rischiose da un punto di vista sociale, come il contraddire un’autorità o parlare di un argomento impopolare con un superiore, potrebbero essere vissute o percepite dalla persona che la esperisce come disagevoli e potrebbero essere considerate rischiose se in associazione con un’alta sensibilità al disgusto.

Ne va da se che la persona in questione considerandole disgustose in quanto rischiose, le evita.

Identity Report: il congresso di Roma sulla Psicopatologia dell’Identità

In data 25 maggio 2018, si è svolto a Roma, presso l’Aula Giubileo dell’Università LUMSA, il Convegno “IDENTITY REPORT – L’identità: concettualizzazioni teoriche a confronto, dati di ricerca, psicopatologia ed intervento clinico”. Il Convegno ha raccolto i contributi di alcuni tra i massimi esperti italiani sul tema della Psicopatologia dell’Identità.

I chairman del Convegno, Rosario (Rino) CAPO e Lisa Arduino hanno coordinato i lavori in modo efficace e stimolante, favorendo una dialettica viva e proficua tra i relatori e tra questi e il pubblico in sala.

Identità personale

La prima relazione in programma è stata realizzata da Santino Gaudio (Department of Neuroscience, Uppsala University Sweden) dove sono state messe in luce le modalità in cui il piano psicologico (personale) e quello neurobiologico (sub-personale) interagiscano nel determinare, nel corso dello sviluppo individuale, un senso di identità personale relativamente stabile e funzionale. Gaudio ha evidenziato, inoltre, i risultati ottenuti dal suo gruppo di ricerca, tramite procedure di neuroimaging, circa le strutture cerebrali maggiormente implicate nelle alterazioni dell’immagine corporea caratterizzanti i diversi Disturbi del Comportamento Alimentare. Rimane da capire fino in fondo se siano le strutture alterate in modo primario a determinare i disturbi più o meno gravi nel Sé Corporeo osservabili nei DCA o, piuttosto, alcune funzioni cognitive esasperate (attenzione selettiva, euristiche, ecc.) dagli scopi in gioco sovra-investiti (es.: non ingrassare per salvaguardare la propria autostima, controllo del peso e degli impulsi, buona immagine, ecc.) a determinare i fenomeni psicopatologici in oggetto e, come effetto dell’uso soverchio, anche le alterazioni funzionali e strutturali osservate nel cervello dei pazienti affetti da DCA.

Cristiano Castelfranchi: Identità come rappresentazione

La seconda relazione, tenuta da Cristiano Castelfranchi (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, ISTC-CNR Roma) dal titolo “L’identità come rappresentazione: struttura, funzioni, scopi, influenza sul comportamento”, ha evidenziato le varie sfaccettature e funzioni dell’identità e le loro implicazioni rispetto al benessere ed alla sofferenza psicologica e, in particolare: la funzione prospettica, quella motivazionale, valutativa, deontica e “di potere” e le strutture connesse alle appartenenze, alla biografia, alla teoria su di sé, alla narrazione di sé nel tempo, alla dimensione intima del sé, ecc.

Il senso di identità personale nei robot

Successivamente, nella relazione di Domenico Parisi (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, ISTC-CNR Roma) si è anticipata la possibilità, ancora implementata solo in parte presso i laboratori del CNR, di programmare un senso di identità personale nei robot (simulati al computer o realizzati fisicamente) al fine di comprenderne in modo più articolato le determinanti e le interazioni, più o meno funzionali, tra le varie sotto-strutture identitarie ben evidenziate precedentemente da Castelfranchi. Mentre, ad esempio, sarebbe eticamente problematico promuovere in un soggetto sperimentale umano un conflitto duraturo e profondo tra diverse “appartenenze identitarie”, al fine di osservarne le conseguenze sul suo benessere soggettivo e di verificare possibili vie di uscita cognitive, la stessa procedura sperimentale non creerebbe alcun problema etico se il soggetto della manipolazione empirica fosse un robot. Appena le tecnologie saranno sufficientemente sviluppate, dunque, quest’area di ricerca sarà estremamente promettente.

I conflitti intrapsichici tra scopi e la sameness

Nella relazione successiva, Francesco Mancini (Università Guglielmo Marconi Roma; Direttore Scuole APC-SPC) ha realizzato una brillante dissertazione circa i conflitti intrapsichici tra scopi e il loro rapporto con la sameness, ossia con il bisogno tipico degli esseri umani di mantenere un senso relativamente stabile di identità. Secondo Mancini non sarebbe plausibile l’idea di una mente separata in più istanze psichiche in conflitto e “tenuta insieme” dalla coscienza, costantemente impegnata nel tentativo di mantenere una sufficiente coerenza narrativa e progettuale. Piuttosto, secondo il relatore, i conflitti tra atteggiamenti differenti in contesti e contingenze diverse potrebbero essere agevolmente spiegati anche nell’ambito di una teoria unitaria della mente, come effetto di attivazione e disattivazioni di scopi in base alla loro urgenza momentanea o come il prodotto dell’azione di diverse funzioni cognitive: attenzione selettiva, iper-focalizzazione, temporal discounting, ecc.

Il concetto di identità nel contesto della Relational Frame Theory

Giorgia Manca e Roberto Mosticoni (Scuole APC-SPC), dal canto loro, hanno messo a fuoco le varie funzioni e sfaccettature dell’Identità all’interno di un quadro teorico Comportamentista moderno, basato sulla Relational Frame Theory (RFT): sameness, identificabilità, discriminazione degli stimoli e delle contingenze in base al loro rapporto con il pronome IO, riconoscimento della titolarità delle proprie azioni (autodeterminazione/autonomia), interrelazione tra identità e linguaggio, ecc. Gli autori hanno inoltre evidenziato le possibili ricadute psicopatologiche del misconoscimento e dell’invalidazione dell’identità, soffermandosi, in particolare, sul Disturbo Borderline di Personalità e sui possibili interventi psicoterapici, focalizzati appunto sull’identità, funzionali a gestire la sintomatologia clinica derivante proprio dalle frequenti e drammatiche storie di invalidazione della soggettività vissute da questi pazienti.

Il rapporto tra linguaggio e identià personale

Nella relazione di Giovanbattista Presti (Università Kore Enna; Presidente ACBS; IESCUM) è stato evidenziato ancora più approfonditamente, sempre muovendosi nell’ambito della RFT, come gli autori che lo hanno preceduto, ma anche rifacendosi agli apporti della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), il rapporto tra il linguaggio e l’Identità Personale. Presti ha messo in luce, nel corso del suo speech, come spesso gli esseri umani soffrano in modo soverchio per la “compromissione” di un sé eccessivamente concettualizzato (definito da etichette come, ad esempio: intelligente, perbene, vincente, ecc.), perdendo di vista che la vita offre sempre la possibilità di realizzare i propri valori esistenziali anche quando certe “etichette” verbali non trovano necessariamente “riscontro” e “conferma”.

Identità personale e idee deliranti

Roberto Lorenzini (Studi Cognitivi SBT; Scuole APC-SPC;) ha invece trattato un tema prettamente clinico di grandissimo interesse per gli psicoterapeuti: il rapporto tra le invalidazioni dei costrutti centrali e fondanti dell’Identità Personale (bellezza, brillantezza intellettuale, furbizia, specialità, ecc.) di un individuo e il possibile sviluppo di idee deliranti. Secondo l’autore, rifacendosi alla Psicologia dei Costrutti personali di G. Kelly, la mappa cognitiva di sé (identità), degli altri e del mondo, che l’individuo costruisce e revisiona costantemente nel corso della sua storia di vita, avrebbe la funzione principale di Massimizzare la Capacità Predittiva (MCP) e, dunque, una volta disconfermata nei suoi elementi fondanti, implicherebbe vuoti previsionali dolorosi e spaventosi, capaci di innescare la formulazione di spiegazioni deliranti circa il significato e la natura dell’evento invalidante, con la funzione di immunizzarne il potere scardinante della personale rappresentazione identitaria attraverso, appunto, esplicazioni alternative (eureka deliranti) che, seppur dolorose, sono in grado di riaffermare a tutti i costi e a dispetto di ogni controprova l’applicabilità dei costrutti centrali invalidati dall’evento avversivo recentemente sperimentato.

Identità e Auto-determinazione

L’intervento di Rino Capo (Coordinatore della Didattica Scuola Specializzazione Humanitas Roma; Scuola Specializzazione Psicosomatica Ospedale Cristo Re Roma; Istituto M.IN.D. Umbria), dal canto suo, ha evidenziato lo stretto rapporto strumentale tra l’Identità e l’Auto-determinazione (Agency o Self-determination). Nella sua trattazione l’autore ha mostrato la rilevanza evolutiva e in relazione al benessere soggettivo della realizzazione di un senso pieno di Agentività e sostanziale Autonomia e la necessità, per realizzare tale bisogno psicologico di base, di costruire primariamente una rappresentazione dettagliata, realistica (basata prevalentemente su esperienze in prima persona) ed approfondita della propria soggettività identificante, nel tempo e nello spazio (continuità del sé), e in relazione alla propria “unicità” (identificabilità). Per attualizzare un senso sostanziale di Self-determination, inoltre, il soggetto deve: (a) ritenere che la propria soggettività e il relativo progetto esistenziale (Sé Ideale e Valori Identitari) siano legittimi (“Ho il diritto di essere quello che sono”); (b) acquisire relativa libertà da vincoli concreti (anche economici oltre che interpersonali à aspettative altrui, invalidazioni, ecc.); (c) acquisire un funzionale senso di autoefficacia al fine di percepire di possedere i poteri sufficienti per realizzare il progetto personale di realizzazione di sé; (d) imparare a conoscere e gestire i propri stati interni (emozioni, impulsi, sensazioni, pensieri, ecc.) al fine di non avere timore di essi bensì, piuttosto, utilizzarli per conoscere meglio se stesso e le proprie preferenze ma, nel contempo, senza essere da loro “scosso” e “spinto reattivamente” lontano dai propri valori e scopi identitari solo per evitare dolori e sofferenze.

Identità e postrazionalismo

La relazione di Maurizio Dodet (Laboratorio di Psicologia Cognitiva Postrazionalista Roma) ha portato un’ipotesi originale e capace di incuriosire la platea, originariamente formulata da Vittorio Guidano oramai molti anni addietro. Il relatore ha sottolineato che nel contesto Postrazionalista il Sé più incarnato e “reale” è primariamente costituito da vissuti emotivi taciti che derivano dalle principali relazioni significative infantili ed adolescenziali e dagli eventi più rilevanti della propria storia di vita e che continuamente riaffiorano, momento per momento, attivati dalle contingenze attuali, perturbando non di rado la narrazione esplicita di sé e, dunque, generando potenziali paure ed avversioni per tali vissuti medesimi, in quanto misconosciuti o esplicitamente rifiutati. Compito principale del terapeuta sarebbe, dunque, per Maurizio Dodet, quello di aiutare il paziente a: (a) osservare senza paura ma con disponibilità le proprie perturbazioni emotive; (b) accettarle; (c) comprenderle nel contesto della propria storia (costruire una narrazione realistica e coerente di sé nel corso del tempo) e (d) gestirle al fine di amministrare le proprie scelte in modo più “vero” e funzionale sul piano dell’attualizzazione della propria identità personale.

Identità e disturbi del comportamento alimentare

L’ultima relazione, realizzata da Armando Cotugno (ASL RM1; Progetto TIDA; CCDS; ASTREA) ha ripreso il tema del primo intervento della giornata: i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e l’Identità. L’autore ha evidenziato come il corpo e le forme corporee possano diventare il primo e l’ultimo baluardo di identità personale per molti pazienti affetti da DCA, spesso invalidati sul piano della soggettività psicologica: non visti, squalificati, controllati in modo eccessivo (mortificazione dell’auto-determinazione e della libertà), ecc. Oltre al lavoro sintomatico (regolazione delle condotte alimentari e del peso), primo intervento necessario e spesso urgentissimo sul piano medico, generalmente l’intervento terapeutico più a lungo termine deve incentrarsi proprio sull’identità al fine di: (a) arricchirla in modo che non siano solo o prevalentemente il peso e le forme corporee a determinare il valore personale; (c) validarla; (d) attualizzarla in scelte autonome e “coraggiose”; (e) esprimerla e “difenderla” con assertività; ecc. Cotugno ha anche mostrato come la cultura dell’immagine stia influenzando in modo disfunzionale la strutturazione del Sé ideale degli adolescenti, schiacciandolo soprattutto su temi estetici e competitivi.

Coming out interiore ed esteriore

Il coming out interiore e il vivere la prima relazione omosessuale è fondamentale per un omosessuale perchè gli permette di definirsi tale. Dal momento in cui il coming out interiore è venuto già allo scoperto e non è rimasto velato, è il coming out esteriore il passo successivo del processo più generale di coming out. Ovvero l’uscire allo scoperto anche con gli altri. 

 

Il termine coming out designava un tempo il rito dell’entrata in società delle giovani femmine, ovvero la presentazione alla comunità di una particolare giovane che entrava a far parte del mondo degli adulti. A partire dagli anni ’30, soprattutto nei Paesi di origine anglosassone, tale termine venne usato nel senso di “uscire allo scoperto”, soprattutto da parte di persone omosessuali: si tratta di quel processo che porterà una persona a dichiarare apertamente la propria identità sessuale, non solo agli altri, ma anche a se stesso.

Seguendo la definizione riportata da Barbagli e Colombo (2007), la terminologia di coming out è usata attualmente sia nel linguaggio comune che nel linguaggio scientifico, e fa riferimento a “quel lungo, difficile e doloroso processo che va dal primo desiderio omoerotico alla dichiarazione della propria identità”.

Come si arriva al coming out

La possibilità di effettuare un coming out subentra nel momento in cui nell’omosessuale vi è una corrispondenza tra sentimenti, comportamenti ed identità di ordine sessuale (Garelli, 2000; Chiari, Borghi, 2009). Tutto ciò si interseca con caratteristiche sociali che direzionano, socioculturalmente, questo processo di interpretazione e riconoscimento del proprio orientamento sessuale.

Gli stessi Barbagli e Colombo riferiscono che il coming out non è un processo che si manifesta soltanto nel momento in cui lo stesso emerge, ma un lungo percorso che ha origine nell’infanzia. Non sono rari, infatti, i ricordi d’infanzia degli omosessuali (riportati dagli intervistati della ricerca di Barbagli e Colombo del 2007) che fanno riferimento a dei giochi che, ad esempio, ritenevano inappropriati per la propria identità sessuale, ma che nonostante ciò davano loro piacere; molte volte erano costretti a negare il piacere che provavano nei loro confronti proprio perché li ritenevano inappropriati alla loro identità sessuale. La questione infantile di natura omosessuale poteva essere ben arginata per i limiti che l’età imponeva, cosa che risulta invece inappropriata quando un adolescente inizia a provare intensi sentimenti omoerotici. Essendo che le ricerche (Saraceno, 2003; Barbagli e Colombo, 2007) hanno messo in evidenza che la maggior parte delle persone omosessuali hanno provato per la prima volta attrazione per una persona dello stesso sesso proprio durante l’adolescenza, bisogna sottolineare l’importanza di questa fascia di età in quel processo che poi porterà al vero e proprio coming out.

Durante l’adolescenza, gli oggetti di attrazione omoerotica sono talvolta persone al di fuori dell’ordinario, come le star del cinema o della televisione, ma possono essere anche persone appartenenti al proprio mondo familiare, come un parente, un insegnante o un compagno di scuola. Queste infatuazioni durante l’adolescenza determinano una concettualizzazione molto specifica di ciò che riguarda il coming out: se da un lato, infatti, gli adolescenti sono sempre tentati di uscire allo scoperto, dall’altra le caratteristiche socioculturali impongono il mantenimento del segreto. Tutto ciò porta molto spesso a romantiche fantasie omoerotiche che possono essere considerate come il precursore di quella che poi sarà l’omofobia internalizzata (Barbagli, Colombo, 2007). È senza dubbio rilevante il fatto che l’adolescenza accresca ed accentui quel sentimento di mutamento e di diversità degli omosessuali, poiché è il periodo che più di tutti va contro e si allontana dalle consuetudini della società.
Possono passare parecchi anni dal momento in cui si verifica la prima attrazione omoerotica, generalmente durante l’adolescenza, ma anche durante l’infanzia, al momento in cui si attua un vero e proprio atto sessuale con la persona prescelta. Il periodo che intercorre tra l’attrazione omoerotica, l’atto sessuale e il coming out, passa per quell’ulteriore sotto processo del coming out esteriore che è quello di tipo interiore: ovvero la capacità dell’omosessuale di dire a sé stesso che è omosessuale, andando contro le caratteristiche socioculturali stereotipate (Corbisiero, 2010).

Differenze di genere: maschi e femmine alla scoperta della propria omosessualità

Dalle recenti ricerche (ad esempio Saraceno, 2003) emerge che ogni persona omosessuale giunge al coming out interiore in maniera molto diversa rispetto ad un’altra, poiché possono essere seguite diverse tappe per raggiungere il medesimo obiettivo.

Da un punto di vista generale passa qualche anno dal momento in cui si hanno i primi rapporti (sia omosessuali che, nella maggior parte dei casi, eterosessuali), al momento in cui ci si dichiara omosessuali definitivamente. Occorre distinguere, pertanto, quelle persone che hanno sempre avuto un orientamento sessuale verso le persone dello stesso sesso e quelle che invece lo hanno scoperto solo dopo aver provato esperienze sessuali con persone eterosessuali. L’adolescenza può essere per questo definita come un periodo di sperimentazione in cui si cerca di capire qual è il vero orientamento sessuale che appartiene alla persona (Pietrantoni, Prati, 2011). Barbagli e Colombo (2007) definiscono questa sperimentazione nei termini di un diverso grado di fluidità sessuale che può subire diverse manifestazioni in base alla storia personale, alla società ed alla cultura cui si appartiene.

In maniera più schematica, Pietrantoni e Prati (2011) identificano due modalità prototipiche circa il riconoscimento della propria omosessualità: nella prima, che è più frequente nelle donne, la consapevolezza è successiva a esperienze eterosessuali tratteggiate come altrettanto significative, l’enfasi è sul contesto e sulla relazione, la sessualità è fluida e l’omosessualità può non essere irreversibile né esclusiva; nella seconda, più frequente negli uomini, vi è la contrapposizione etero-omo, i desideri sono percepiti come già presenti nell’infanzia e il compito della persona è stato quello di accettare la propria vera natura.
In maniera più specifica, per quanto riguarda le femmine l’autodefinizione come lesbica è dettata dalla consapevolezza graduale di sentimenti provati verso le persone dello stesso sesso. Questo è dovuto anche al fatto che le lesbiche incontrano meno ostacoli, rispetto ai maschi, nel loro tentativo di esplorare le persone del loro stesso sesso (Bertone, 2009). Le amicizie femminili sono infatti caratterizzate, al contrario di quelle maschili, da contatti fisici, scambi di effusioni eterosessuali, dove il bacio di natura eterosessuale è considerato sì come un atto omosessuale, ma in funzione di ciò che si farà da adulte con un uomo: è chiaro che in questo clima le femmine ritrovano una più proficua e graduale espressione del loro innamoramento omosessuale rispetto ai maschi (Pietrantoni, Prati, 2011).

Si evince, pertanto, che il genere è un forte organizzatore dei modelli di relazione, identità e comportamento omosessuale (Corbisiero, 2010). Ad esempio, gay e lesbiche fanno uso di strategie differenti per la gestione dello stigma sociale omofobo per evitare di essere emarginati o etichettati: gli uomini gay tendono ad evitare costantemente il coinvolgimento affettivo al fine di minimizzare l’importanza dell’esperienza sessuale con altri uomini (probabilmente per derivazioni particolari di origine socioculturale), al contrario delle donne lesbiche (Bertone, 2009).

Dal coming out interiore al coming out esteriore

Uno dei modelli più citati in letteratura per la descrizione e spiegazione del coming out interiore è il modello di Cass (1984) che schematizza il processo in questo modo: confusione di identità (chi sono?); comparazione (sono diverso/a); tolleranza (probabilmente sono gay/lesbica); accettazione (sono omosessuale); orgoglio (sono fiero di essere omosessuale); sintesi (la mia omosessualità è una parte di me)

Il coming out interiore e il vivere la prima relazione omosessuale è fondamentale per un omosessuale perchè gli permette di definirsi tale. Dal momento in cui il coming out interiore è venuto già allo scoperto e non è rimasto velato, è il coming out esteriore il passo successivo del processo più generale di coming out. Ovvero l’uscire allo scoperto anche con gli altri.

Ci sono vari fattori sociali che possono facilitare o ostacolare il processo di coming out esteriore, come l’età, il genere, la regione e il comune di nascita, il titolo di studio, l’educazione religiosa ricevuta; altri che invece possono influire, come la generazione di appartenenza, l’adesione alla morale cattolica, l’intensità del desiderio erotico omosessuale e le caratteristiche familiari (Barbagli e Colombo, 2007; Bertone, 2009).

L’atto di dichiararsi agli altri come omosessuali, pertanto, varia molto, anche in questo caso, in funzione del contesto e delle caratteristiche dei destinatari e delle persone verso cui il coming out vuole essere messo in atto. Barbagli e Colombo (2007) affermano, in relazione alle loro ricerche, che è più facile che la dichiarazione di omosessualità venga fatta a gruppi paritetici piuttosto che a gruppi gerarchici, quindi con gli amici e i compagni piuttosto che con i familiari.

La scelta della prima persona a cui dire di essere omosessuali comporta un certo qual peso all’interno di tutto il processo di coming out. Il momento della prima confidenza segna anche l’inizio della decisione di uscire allo scoperto, poiché il processo continuerà anche dopo che la prima confidenza sarà stata fatta (Saraceno, 2003). L’interlocutore ideale deve essere una persona vicina, comprensiva e aperta ad accettare l’omosessualità della persona, in modo tale da non mettere in discussione o turbare la relazione affettiva che è presente tra i due (Barbagli e Colombo, 2007; Saraceno, 2003). L’85 % delle persone, secondo la ricerca di Barbagli e Colombo (2007), inizialmente preferisce dichiarare la propria omosessualità agli amici rispetto ai familiari, probabilmente perché vi è la speranza di essere più compresi e meno giudicati. Dopo gli amici seguono gli stessi familiari, e quindi gli insegnanti, i sacerdoti, gli psicologi e i medici. In pratica l’uscita allo scoperto avviene prima con i gruppi primari e poi con quelli secondari (Bertone, 2009).

I processi decisionali sul dirlo o non dirlo sono frutto di una complessa valutazione costi-benefici: tra gli svantaggi di un outing vi sono i timori delle reazioni negative, di essere target di pregiudizi o di scarsa impellenza, ma dall’altro lato il vantaggio è rappresentato dalla voglia di sentirsi autentici e di richiedere aiuto.

Con Pietrantoni e Prati (2011) possiamo distinguere tre tipi di coming out esteriore: il primo è il tipo più implicito, dove la persona non nasconde la sua relazione ma non ne parla con nessuno e pensa che gli altri lo abbiano capito; il secondo è il “confessionale”, quando ovvero la persona sceglie di dirlo ad altri opportunamente selezionati, in un’atmosfera intima; il terzo è quello di tipo più spontaneo: la persona riferisce serenamente di essere omosessuale senza farsi particolari problemi sul suo status.

Come cambiano le amicizie dopo il coming out

Dal momento in cui viene manifestata apertamente la propria natura omosessuale, i gay e le lesbiche modificano naturalmente anche l’intrecciarsi ed il mantenimento delle relazioni amicali cui è stato riferito. Ciò che viene messo in evidenza dalle ricerche è che si verifica una netta preferenza per amici sia dello stesso sesso che dello stesso orientamento sessuale, sia per quanto riguarda le lesbiche che per quanto concerne i gay (Saraceno, 2003). Le amicizie diventano sempre più selezionate e si instaurano solo quando vi sono le condizioni per poterlo fare, un po’ come avviene nelle amicizie tra eterosessuali. Ciò che, invece, fa da equilibrio nell’instaurarsi di un’amicizia tra omosessuale ed eterosessuale è la capacità di non enfatizzare la categorizzazione sociale quando non è rilevante, cosa che apporterebbe in maniera inevitabile la messa in atto di comportamenti di derivazione omofobica (Bertone, 2009).

Una problematica che può presentarsi tra amici è relativa alle possibili attrazioni sessuali che si possono scatenare tra eterosessuali ed omosessuali dichiarati, che spesso vengono messi a tacere per timore di rovinare la stessa amicizia (Chiari, Borghi, 2009). Ne consegue una limitazione dei comportamenti e dei rapporti poco aperti e sinceri, specialmente per quanto riguarda le donne lesbiche e le donne eterosessuali. Tra omosessuali ed eterosessuali possono invece manifestarsi più frequentemente evitamenti sociali per la paura che la persona omosessuale possa “provarci”. Pertanto, stando a quanto detto finora, nell’amicizia tra due donne o due uomini di diverso orientamento sessuale vi è sempre la possibilità che una delle due o uno dei due s’innamori dell’altra o dell’altro (Pietrantoni, Prati, 2011).

Non sempre però il coming out determina derivazioni relazionali amicali negative tra omosessuali ed eterosessuali; vi sono infatti dei casi, denominati come fag hag nei Paesi anglosassoni, in cui le donne eterosessuali apprezzano la compagnia delle donne lesbiche o degli uomini gay; in quest’ultimo caso l’interesse comune per gli uomini potrebbe favorire il fronteggiamento di un contesto sociale potenzialmente sessista ed omofobo (Barbagli, Colombo, 2007).

Le difficoltà di fare coming out

Dichiararsi omosessuali al di fuori della famiglia di origine e della sfera delle amicizie cui si appartiene è ancora più complesso poiché è molto facile ricadere in reazioni negative, sia di tipo fisico o verbali, e di rifiuto. In tale mondo si può includere anche la scuola e il lavoro, dove spesso e volentieri l’omosessuale è obbligato a “modulare” la propria dichiarazione e i propri atteggiamenti al fine di prevenire eventuali reazioni negative (Lingiardi, 2007). Tali evidenze non si manifestano soltanto in periodo adolescenziale, ma anche in periodo infantile, dove possono essere presenti frequenti comportamenti di bullismo scolastico dettato da comportamenti omofobi e da stereotipi sociali e culturali (Pientrantoni, Prati, 2011).

Per potersi dichiarare omosessuali in ambienti ostili senza usare la condotta verbale, molti utilizzano delle tecniche indirette, come non nascondere i propri comportamenti, invitare a casa gli amici non nascondendo certi tipi di libri o di vestiti, oppure farsi pubblicare la propria foto su riviste o siti internet di gruppi dichiaratamente gay (Saraceno, 2003).

Esistono quindi molti modi con cui il coming out può essere effettuato, anche a vari livelli, in base alle possibilità che la società offre. Non è raro, per contro, che le reazioni al coming out all’interno dell’ambiente sociale non siano positive e, talvolta, aumentino proprio in seguito al coming out; questi fattori possono intensificare l’emarginazione dell’omosessuale e vari problemi di natura sociale. Occorre anche dire, però, che le reazioni individuali non sempre sono così negative come quelle di origine sociale, poiché spesso si vedono persone che condannano l’omosessualità in un ambiente sociale ma in una dimensione privata hanno amici omosessuali con i quali mantengono degli ottimi rapporti (Bertone, 2009).

Lo stigma sociale dell’omofobia

Troiden (1979) ha offerto una prospettiva molto interessante del processo di coming out esteriore che sottolinea, in quattro stadi, le caratteristiche della risposta strategica allo stigma sociale in cui un omosessuale è, direttamente o indirettamente, inserito.

In un primo stadio di “sensazione”, che è collocato nella pubertà, l’omosessuale vive sentimenti di marginalità e di alienazione dagli altri.

Nel secondo stadio, denominato “confusione di identità”, corrispondente al periodo dell’adolescenza vero e proprio, vi sono degli iniziali sentimenti che possono avere a che fare con l’omosessualità. Gli omosessuali possono reagire o con il diniego, o adottando fantasie, o sradicando le emozioni che sentono, o attraverso l’evitamento consapevole dei pensieri, comportamenti e fantasie omosessuali. Un’altra particolare forma di strategia difensiva è la ridefinizione situazionale, quando ovvero uno specifico sentimento viene relativizzato a una determinata situazione e non viene generalizzato.

Nel terzo stadio dell’assunzione dell’identità, che avviene generalmente nella tarda adolescenza, l’identità omosessuale viene pienamente riferita a sé e agli altri. Lo stigma dell’omofobia, anche di tipo internalizzato, viene evitato attraverso o l’allineamento alla comunità (vi è una più attiva partecipazione alla vita comunitaria) o con la ridicolizzazione dell’esperienza eterosessuale, oppure ancora con la capitolazione, quando nonostante la persistenza di desideri omosessuali, stigmatizzano definitivamente la propria omosessualità.

Nell’ultimo stadio, invece, “la partecipazione”, viene messa in risalto, nel migliore dei casi, una prospettiva diversa dell’omosessualità, intesa non più come stigma sociale, ma come modo di vivere nuovo. Le principali caratteristiche sono l’autoaccettazione e confortevolezza con il ruolo e l’identità omosessuale che poi porteranno, o ne saranno conseguenza, al coming out definitivo.

In conclusione

Riconoscersi omosessuali non è pertanto un processo semplice, ma spesso lungo e doloroso, vissuto come una profonda rottura rispetto ad una prospettiva di vita in cui si dava per scontata e tutto era organizzato in funzione dell’eterosessualità. È un processo non soltanto relativo alla formazione dell’identità sessuale, ma anche un processo di formazione dell’identità della persona nel suo complesso (Saraceno, 2003; Garelli, 2000).

In definitiva, stando a quanto detto fin qui, il coming out esprime una concomitanza di eventi importanti nella vita di ogni omosessuale: innanzi tutto il “venir fuori” pubblicamente, svelandosi ad ogni tipologia di “altro”, ma anche venire fuori nei confronti di se stessi e riuscire a rifiutare termini offensivi, riuscire a disfarsi dei vari bias sociali e dei relativi pregiudizi, sostituendoli con interpretazioni di affermazione, rispetto ed integrazione a tutti i livelli (Bertone, 2009).

Esistono naturalmente, come emerge dalle ricerche sociologiche recenti (vedi Bertone, 2009 o Barbagli e Colombo, 2007) una complessiva grande varietà di percorsi di vita, da quelli più lineari e stabili a traiettorie molto più fluide e circostanziali. Se si seguono i modelli sopra esposti, si ha l’idea di una definizione della propria omosessualità in termini abbastanza lineari, ma fondamentalmente il percorso di definizione, sia interiore che esteriore, della propria omosessualità è abbastanza contorto nella maggior parte dei casi. Vi è molto spesso, ad esempio, una iniziale commistione di esperienze eterosessuali ed omosessuali che allungano i tempi di definizione della propria identità, come sopra è stato accennato, e di conseguenza tutto il processo di coming out (Bertone, 2009).

Nonostante molti omosessuali decidano di fare coming out, molti altri preferiscono mantenere il segreto, a volte soltanto in alcune cerchie di relazione. Accade infatti che molte persone preferiscono mantenere un’immagine diversa sul luogo di lavoro, più consona ai dettami sociali. Per raggiungere questo obiettivo del “segreto” sono due, secondo Barbagli e Colombo (2007), le strade che possono essere percorse. La prima riguarda il seguire un copione da eterosessuale, comportandosi come se non fossero omosessuali con i colleghi. La seconda strada, invece, è più semplice e riguarda quei casi in cui la persona non si dichiara omosessuale, ma nemmeno cerca di farsi passare per eterosessuale, mantenendo una stretta separazione tra sfera privata e sfera lavorativa.

Scoperti particolari segmenti di DNA che causerebbero la morte dei neuroni nel Morbo di Alzheimer

Una nuova ricerca svela il meccanismo attraverso il quale l’accumulo progressivo di proteina Tau all’interno del cervello contribuisce alla morte delle cellule nel morbo di Alzheimer.

 

Studiando più di 600 soggetti, gli scienziati hanno scoperto per la prima volta un’associazione tra la presenza di proteina Tau all’interno delle cellule cerebrali e l’attività di particolari sequenze di DNA, gli elementi trasponibili, che potrebbero innescare la neurodegenerazione tipica del morbo di Alzheimer.

Il Dottor Joshua Shulman, professore di neurologia al Baylor College of Medicine in Texas, ha chiarito che la caratteristica principale del morbo di Alzheimer è l’accumulo di proteina Tau all’interno dei neuroni che porta come conseguenza la progressiva morte cellulare. 
Sebbene la ricerca sia impegnata da molto tempo nel ricercare i meccanismi che portano all’accumulo di questa particolare proteina all’interno del cervello, non è ancora del tutto spiegato come questi aggregati conducano alla morte neuronale.

Ciò che i ricercatori hanno osservato in questo studio è che i neuroni con accumulo di proteina Tau al loro interno, sembrano presentare una maggiore instabilità genomica. Shulman ha spiegato: [blockquote style=”1″]Con instabilità genomica ci si riferisce ad una maggiore tendenza del DNA ad avere alterazioni nel materiale genetico come ad esempio mutazioni. Questo significa che il genoma non funziona correttamente. L’instabilità genomica sembra essere alquanto importante perché si è vista essere una tra le possibili cause di diverse malattie, quali ad esempio il cancro. Il nostro studio ha indagato una possibile relazione causale tra l’eccesso di proteina Tau e la conseguente instabilità genomica nella malattia di Alzheimer.[/blockquote]

Studi precedenti sulle malattie neurodegenerative avevano suggerito che i tessuti cerebrali dei pazienti non solo mostravano instabilità genomica ma erano caratterizzati anche da neuroni che presentavano l’attivazione di elementi trasponibili. 
Gli elementi trasponibili sono frammenti di DNA che si comportano in maniera simile ai virus: possono infatti creare copie di sé stessi, inserirsi nel genoma e causare mutazioni. La maggior parte di questa elementi è dormiente o disfunzionale tuttavia alcuni di questi possono attivarsi in tarda età o in determinate condizioni mediche.

Lo studio

Collaborando con i colleghi David Bennett di Chicago e Philip De Jager della Columbia University, Shulman ha potuto condurre questo studio longitudinale su una popolazione di più di 600 soggetti. Ciò che si è fatto è stato identificare, tramite un software creato appositamente, la presenza di elementi trasponibili attivi nei cervelli postmortem, creando un profilo di espressione genica per ogni singolo soggetto; è stata poi calcolata, attraverso un’analisi statistica, l’eventuale correlazione tra la quantità di proteina Tau presente nelle cellule e la quantità di elementi trasponibili. 
I ricercatori hanno riscontrato un forte legame tra i due elementi, trovando sorprendentemente un’attivazione diffusa di elementi trasponibili in tutto il genoma.

Ricerche precedenti inoltre, avevano dimostrato l’effetto distruttivo della proteina Tau sull’architettura del genoma. Su tale punto Shulman ha specificato: “Il fatto che gli aggregati Tau distruggano la struttura del DNA potrebbe essere un possibile meccanismo che causa l’attivazione degli elementi trasponibili nella malattia di Alzheimer. Tuttavia gli studi compiuti sull’uomo stabiliscono solo un’associazione tra l’accumulo di proteina Tau e l’attivazione di elementi trasponibili senza dichiarare un legame di causalità. Per determinare se la proteina causi effettivamente l’attivazione degli elementi abbiamo condotto delle ricerche che studiano il moscerino della frutta”.

In effetti gli studi sul modello animale hanno rivelato che l’accumulo di proteina Tau ha portato all’attivazione di elementi trasponibili suggerendo che la proteina possa potenzialmente mediare l’attivazione degli elementi e causare quindi la neurodegenerazione.

Il Dottor Shulman ha concluso affermando: [blockquote style=”1″]C’è ancora molto lavoro da fare, riteniamo però che la nostra ricerca abbia rivelato nuove e importanti informazioni utili per la comprensione dei meccanismi causali nel morbo di Alzheimer.[/blockquote]

Una vita come tante: uno sguardo crudo e reale sul trauma e l’abuso infantile – un libro che ogni psicoterapeuta dovrebbe leggere

Non so se il il libro Una vita come tante di Hanya Yanagihara, edito da Sellerio, sia un libro principalmente sull’amicizia come ci avvisa la quarta di copertina, certo in parte lo è, l’amicizia di quattro uomini dal college alla maturità, ma troppo disomogenee le amicizie tra questi uomini, amicizie indelebili ma anche rabbiose, protettive, invidiose, ogni amicizia dentro il libro è una amicizia diversa. So però che questo è un romanzo che tutti i clinici tutti gli psicoterapisti devono leggere. 

 

Il libro ha 4 protagonisti ma in realtà emerge quasi dall’inizio una voce sola, fino alla fine quando nelle ultime pagine appare la voce di un altro dei molti protagonisti che in modo straziante ma non senza speranza chiude il libro.

La voce principale è quella di Jude, ragazzo dal passato terribile, abusato e geniale che diventa un grande avvocato, ricco, adorato dai suoi amici, colleghi e da chiunque lo conosca, ma che non sa come vivere una vita possibile avendo fratture traumatiche incancellabili.

La prima cosa che mi ha colpito mentre lo leggo è l’insostenibilità degli abusi subiti in infanzia e adolescenza da Jude, e penso a quanto noi clinici tendiamo a parlare sempre di abusi, come se l’abuso del nostro paziente (e a volte di noi stessi) fosse il peggior abuso possibile, il padre presente ma ubriacone, la mamma aggressiva, i rimproveri.. ecco leggendo la storia di Jude mi rendo conto che alcuni abusi non sono paragonabili ad altri (la gravità degli abusi è tale che la personalità e l’emotività di Jude, ma anche il suo corpo, ne sono distrutti per sempre) abitano completamente da un’altra parte. Queste realtà sono maggiormente presenti in chi vive nelle realtà carcerarie o nei luoghi di protezione dell’infanzia violata.

E questa è cosa che noi clinici dobbiamo ricordare sempre. Dare i pesi giusti e misurare l’entità dei traumi dei nostri pazienti con rispetto ma anche accuratezza.

Chi è Jude?

La descrizione psicologica di Jude, del suo continuo parlare con se stesso, dello stato di autocolpevolizzazione, vergogna, rabbia, sfiducia nei rapporti con le persone che lo amano, che vivono per renderlo felice, è così ben raccontata che vale la pena di armarsi di coraggio e attraversare la lettura di questo libro letterariamente imperfetto, ma straordinario. Alcune pagine, ve lo dico subito, sono intollerabili, la descrizione di ciò che un bambino non protetto può subire dagli adulti, è insostenibile anche alla lettura. Ma il processo di autocura che Jude (nonostante le innumerevoli ricadute di autolesionismo e rabbia,) non smette mai di fare, è una lezione di psicopatologia dell’abuso in forma letteraria indimenticabile.

La storia di amicizia tra Jude e William è un esempio di come l’affetto e la presenza, vissute come minacciose e impossibili da tollerare, lasciano traccia, alla lunga e con pazienza, ma non diventino mai scontate, non permettano mai di mettersi realmente al sicuro.

Nell’arco del libro Jude cambia, rimane impossibile o quasi da avvicinare, ma ragiona, comprende, vede le sue ferite non solo come colpa e corresponsabilità, ma anche come qualcosa che deve tenere sotto controllo e lontano, per potere avere momenti di relativa pace.

Jude a volte fa anche rabbia al lettore, per la sua ripetitività,la sua ruminazione pessimistica ininterrotta, la sua difficoltà a cambiare idea, il suo riconoscere quanto ha ottenuto come risultato non di una fortuna pazzesca ma della sua genialità e della sua competenza amicale e professionale, per le sue pretese verso chi ha vicino, unite sempre ai “mi dispiace” manipolativi.

Ma il libro non è solo Jude, ci sono i suoi incontri, le persone che per sempre riescono a stargli a una distanza che riesce ad accettare, anche se con momenti di rabbia e rifiuto li sfida, mente e si nasconde. E ci sono i crudeli che incontra da adulto e che lo segnano in modo cruento, proprio per la conferma che lui è sbagliato, diverso, perduto.

Qual è l’insegnamento di questa storia?

Alla fine, in questa New York mondana e piena di persone eventi e parole e relazioni, tutti e quattro gli amici del nostro libro hanno grandi successi seguendo i loro talenti. Tutti hanno case meravigliose e occasioni e vittorie. Tutti rimangono vicini tra di loro pur con alternanze negli anni legate a liti, sfide, difficoltà e gelosie. E tutti si portano dietro i tormenti di infanzie imperfette.

Certo difficile nel mondo non romanzesco immaginare un passato come quello di Jude nel più famoso penalista di New York, sono salti sociali quasi impossibili da immaginare nel mondo selettivo delle università americane, ma tant’è i romanzi sono favole e tutto può accadere. Anche se questa favola ci lascia l’amaro in bocca e la fine è pacificata ma non lieta, così come il racconto delle difficoltà e dei limiti oggettivi delle cose che i clinici (e gli amici, e i parenti) possono fare.

Questo libro è stato salutato come un libro importante dal mondo intellettuale omosessuale americano, perché le relazioni dominanti, importanti, cruciali dal punto di vista dell’interesse e dell’intimità avvengono sostanzialmente tra uomini, le donne sono sempre e solo sfondo.

Ma il sesso in questo libro non è quasi mai allegro, di comunicazione e condivisione, anzi del sesso, viene raccontata la vena sopraffattoria, violenta, non legata all’omosessualità ma alla violenza sull’indifeso. Per Jude, il desiderio amoroso, affettivo e sessuale che il suo amico ha per lui, il desiderio di vicinanza, la pazienza, la passione, sono consolazioni ma richiedono troppa fiducia e sono troppo dolenti, appartengono a un mondo di condivisione e vicinanza che è addirittura impossibile da immaginare, tanto meno accettare.

Anche di questo Jude si farà una colpa. Una delle cose interessanti del libro è proprio il racconto dell’impossibilità (la difficoltà) di sciogliere negli abusati il nodo della vicinanza sessuale e affettiva, anche in condizioni di sicurezza assolute.

Ma il libro è anche un libro sull’impossibilità di accettare un lutto ingiusto e inaspettato, sui tempi terribili che richiede questa operazione, sul fatto che per qualcuno è semplicemente vietata.

Si un libro dolce e crudele, i personaggi che lo abitano ci restano attaccati per lungo tempo, non ci consola né come persone né come terapisti. Noi ci culliamo nella tentazione di enfatizzare il nostro ruolo, le nostre competenze, l’importanza per i nostri pazienti. Lo siamo, lo facciamo con amore e passione ma spesso l’incontro è oscuro e non dimentichiamoci che può essere anche impossibile.

Questo libro non si riesce a lasciare né dimenticare e ci tira giù per sempre dalle nuvole narcisistiche in cui ci piace pensare di vivere.

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