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Lo yoga e la mindfulness per migliorare la salute emotiva nei bambini

Un nuovo studio della Tulane University ha evidenziato che praticare yoga e mindfulness aumenta il benessere dei bambini e la qualità della loro vita psicoemotiva.

 

Lo stress è un fattore rilevante nella salute dei bambini in età scolare che, spesso, si trovano a vivere situazioni quotidiane stressanti, come ad esempio la preoccupazione per il rendimento scolastico, l’esclusione sociale, il bullismo e problematiche legate ai compiti a casa.

Partendo da questo presupposto, una recente ricerca, pubblicata su Psychology Research and Behavior Management, ha cercato di indagare gli effetti dell’inserimento di attività quali lo yoga e la mindfulness all’interno di una scuola primaria americana. In particolare, i ricercatori hanno deciso di coinvolgere nello studio bambini frequentanti la terza elementare in quanto questo periodo del percorso scolastico rappresenta un momento cruciale di transizione per i giovani studenti: molti di loro, infatti, manifestano sentimenti ansiosi a fronte dell’aumento delle aspettative accademiche.

Lo studio: praticare attività di yoga e mindfulness a scuola

Dopo un primo screening basato sulla sintomatologia ansiosa, i bambini coinvolti nello studio sono stati suddivisi in due gruppi, a ciascuno dei quali è poi stato proposto un programma che prevedeva la partecipazione a diversi tipi di attività. 
Il gruppo di controllo, composto da 32 bambini, è stato coinvolto in attività di consulenza, o altri tipi di attività, sempre guidate da un assistente sociale scolastico, come previsto dal programma già attivo nell’istituto. Il gruppo di intervento, invece, costituito da 20 bambini, ha preso parte a semplici attività basate sui principi dello yoga e della mindfulness per otto settimane consecutive; le sessioni si svolgevano ad inizio mattina e comprendevano esercizi di respirazione, rilassamento guidato e diverse posizioni tradizionali dello yoga.

Il team di ricercatori ha dunque valutato la qualità del benessere emotivo in ciascun gruppo, prima e dopo l’intervento. Per farlo, hanno rivolto ai bambini diverse domande riguardanti la soddisfazione in varie aree della propria vita personale; una domanda riguardava la soddisfazione generale per la propria vita. Inoltre, è stata valutata la presenza di eventuali problemi emotivi, sociali e scolastici nel mese precedente la ricerca.

Conclusioni e limiti della ricerca

Sulla base dei dati raccolti, secondo gli autori, è possibile affermare che gli interventi basati sullo yoga, la meditazione o la mindfulness all’interno di un contesto educativo possono essere un utile strumento nel raggiungere un significativo miglioramento nella qualità di vita e nella sensazione di benessere percepito dai bambini.

Gli autori riconoscono anche che la ricerca presenta dei limiti sostanziali. Le condizioni di somministrazione sono risultate essere diverse nei due gruppi. I bambini del gruppo sperimentale hanno infatti partecipato alle attività in diversi momenti dell’anno scolastico, perciò la percezione personale della loro qualità di vita potrebbe essere stata condizionata non dalla variabile sperimentale quanto invece dai cambiamenti naturali avvenuti nel corso dell’anno. Un secondo problema è rappresentato dal fatto che le attività proposte prevedevano esercizi di yoga e mindfulness combinati, impendendo quindi di valutare se fosse responsabile del miglioramento trovato solamente una o entrambe le attività.

Identità cognitivista e livelli di integrazione

Rispondo al sistematico intervento di Ruggiero, Sassaroli e Caselli su State of Mind del 24 luglio 2017 La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”. Esso intendeva fare il punto sul ruolo della relazione nel processo terapeutico.

Silvio Lenzi – Direttore Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva – Sinesis Centro per la ricerca in scienze e terapie cognitive

 

Venivano presi in esame due aspetti principali: da un lato la natura variegata e complessa, ma solo saltuariamente decisiva, degli interventi relazionali (gli 11 interventi di area relazionale della Comprehensive Psychotherapeutic Interventions Rating Scale, CPIRS, Trijsburg et al., 2002); dall’altro la specificità dell’intervento col paziente difficile, che pure non si esaurisce negli aspetti relazionali stando alla disamina fornita di alcune terapie manualizzate per i Disturbi di Personalità: Mentalization Based Therapy (MBT, Bateman e Fonagy, 2006), Dialectical Behavior Therapy (DBT, Linehan, 1987), Schema Therapy (ST, Young, Klosko e Weishaar, 2003) e Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò, & Procacci, 2007).

In quello scritto si andava a mio parere di fatto a evidenziare, e a sanzionare, una sorta di deriva generale degli stili terapeutici “cognitivisti” che tendono – nel tempo aggiungerei io-  a perdere di vista la specificità e articolazione della metodologia esplicita e della tecnica, evidentemente a favore della cosiddetta componente relazionale, col rischio eclettico di appiattire e uniformare.

Ad esempio e ulteriore declinazione di questa tendenza era stata citata la soverchiante attenzione dedicata alla componente traumatica della psicopatologia e della patogenesi. In queste argomentazioni però i nostri autori andavano incontro a una sorta di shunt argomentativo, perdendo un po’ di vista la distinzione dei piani teorico e applicato, ovvero dei modelli clinici e psicopatologici da una parte e di teoria della tecnica e valutazione dell’efficacia dall’altro. Infatti non si può non constatare che gran parte degli interventi per il trattamento del trauma e della psicopatologia traumatica, considerata trasversale e ubiquitaria, sembrano proporre procedure decisamente tecniche, come ad esempio quelle della galassia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Shapiro, 2001) o anche della NET (Terapia dell’Esposizione Narrativa, Schauer, Neuer, Elbert, 2014).

Ma su come tentare di destreggiarsi tra questi livelli molteplici di argomentazione e discussione tornerò alla fine. Per ora insisto sul tema principale.

Anche l’attuale iniziativa di Sassaroli, Caselli e Ruggiero appare in linea con un ben preciso posizionamento generale. Infatti il “gloss” (the covert or overt purpose) del loro recente articolo comparso su State of Mind: Limiti e utilità della classificazione bottom up e top down si mostra chiaramente nella figura sottostante al titolo. Due frecce: una rossa diretta verso l’alto e una verde, diretta verso il basso, come monito alla pratica e allo sviluppo delle procedure nell’approccio cognitivista: freccia rossa cioè stop a quelle bottom up (associate a una prospettiva più relazionale) e via libera invece a quelle top down (associate ad un approccio più francamente cognitivista di “seconda ondata”, per etichettarlo alla Dimaggio).

Evidentemente le sfaccettature di una posizione “ideologica” e di intenti di questo tipo sono numerose e le implicazioni ancora di più variegate e su più piani. Basti pensare a quella di fondamentale importanza sulle linee guida, la loro redazione e il loro rispetto, evocata da Francesco Mancini – anche se mi verrebbe da dire la good practice e i rischi legali non coincidono linearmente con il rispetto di una linea guida.

Per questo il dibattito sembra crescere esponenzialmente risultando a volte difficile da seguire o confondente rispetto ai piani e ai contenuti. Per una sorta di moltiplicazione delle prospettive e non solo a motivo delle affermazioni retoriche e “ideologico divulgative”, che quasi per statuto non rendono giustizia al merito della materia su cui si esprimono e costringono i diretti interessati a reagire puntualizzando le proprie posizioni e dando vita ad un climax di argomentazioni di rimessa.

A questo punto anche per auto-chiarirmi alcune mie posizioni o per lo meno per consolidare le mie priorità, vorrei provare a mettere a fuoco alcuni punti che mi sembrano fondamentali di fronte alle provocazioni poste dalle tesi del gruppo Sassaroli, le quali, piaccia o no, vanno a evidenziare alcuni aspetti critici dei trend attuali della area cognitiva e cognitivo-comportamentale.

I. Etica della ricerca e posizione del terapeuta

Innanzitutto per quanto mi riguarda non va mai dimenticata la priorità espressa da Giancarlo Dimaggio (comunicazione in mailing list SITCC, 18 marzo 2018):

Mi interessa capire quali sono i fattori efficaci di trattamento e applicarli, perché fare il bene del paziente non significa fare ciò che si sa fare bene e per il quale si è stati formati, ma imparare a fare quello che fa il bene del paziente”.

Anche se a Dimaggio non sfuggirà che non è che il terapeuta agisca sempre direttamente a favore di un fattore efficace, con una specifica iniziativa (magari in linea con un protocollo per un disturbo che giustamente è stato diagnosticato, ma che non esaurisce certo la domanda del paziente e i possibili obiettivi terapeutici legati alla situazione del momento), ma piuttosto nell’articolazione d’insieme dell’intervento che spesso risulta più ricco che non la somma delle sue parti e che deve essere impostato alla luce di diversi fattori e variabili.

Ma al di là delle probabilmente scontate precisazioni e distinzioni non si può che partire dal fatto di essere aperti, evitando  –per lo meno nella pratica – il rigore del modello alla domanda espressa dal paziente e all’impegno a risolverla nel modo più efficace ed efficiente possibile (“l’impegno a far star bene il paziente”).

Certo questa priorità va dialetticamente confrontata col fatto che – accanto agli ideali proponimenti espressi da Camilla Marzocchi (comunicazione in mailing list del 16 marzo 2018) di vagliare tutte le tecniche disponibili per la soluzione di un problema- occorre necessariamente acquisire flessibilità e destrezza nella attuazione di una metodologia di base, secondo quanto enunciato ad esempio anche da Christopher Fairnburn, nella sua CBT-E per i Disturbi Alimentari: il principio di parsimonia ovvero fare poche cose ma bene (per lo meno in riferimento ad un nucleo centrale trans-diagnostico della procedura). E non ricorrere indiscriminatamente all’aggiunta di tante altre tecniche e procedure che possono risultare dispersive e fuorvianti. Ma anche qui occorre discernimento e stare attenti a non esagerare, altrimenti potremmo cadere in una deriva conservatrice come quella di Jon Allen (2012, Restoring Mentalizing. Treating Trauma With Plain Old Therapy, pag. 166) che propone il ritorno alla Plain Old Therapy di fronte all’evidenza che il terapeuta non può padroneggiare un numero sempre crescente di trattamenti e tecniche specialistici.

O forse questa strada è percorribile? Magari quello a cui Sassaroli, Ruggiero e Caselli richiamano potrebbe essere una sorta di equivalente cognitivista della terapia dialogica aggiornata (cioè letta alla luce dei recenti sviluppi teorici sulla metacognizione / mentalizzazione e più in generali sul funzionamento emotivo interpersonale), una sorta di elaborazione della conoscenza personale legata alla consapevole declinazione delle strategie di auto-osservazione e ristrutturazione della cognition, aggiornata ovvero riportata evoluzionisticamente alle sue molteplici componenti strutturali e funzionali. Non lo so. Confesso che nella mia testa questo orizzonte campeggia e talora non mi sembra così lontano da trovare una sua configurazione teorica e applicata scientificamente condivisibile e aggiornata allo stato dell’arte delle standardizzazioni metodologiche. Su questo possibile asse portante integrato delle metodologie cognitive torno più avanti. Per chi avrà la resistenza di esserci.

II. La distinzione tra mappa e territorio

Il riferimento a una procedura di base caratteristica di un approccio psicoterapico mi richiama una seconda priorità  -che è sì una petitio principii, ma a mio modo di vedere decisiva. Si tratta della necessità di tener presente nel proprio ragionare teorico e clinico la distinzione tra mappa e territorio, specie quando si parla dell’antinomia tra tecniche e relazione o tra processi bottom-up e top down. Mi spiego meglio: nel formulare o discutere di una metodologia terapeutica evidentemente ne descriverò solo alcuni aspetti, senza potere esaurire tutte le componenti implicate sia nel suo realizzarsi fattuale, sia nei processi cerebrali e mentali di coloro che la realizzano. Le antinomie in questione sono sicuramente presenti nella mappa di chi teorizza ma non allo stesso modo nel territorio. E quindi i giudizi e le speculazioni in merito ai diversi approcci riguarderanno le teorie dei terapeuti e non la sostanza dell’interazione psicoterapeutica – e quindi il giudizio globale su una metodologia.

Inevitabilmente, come in molti hanno già sottolineato, quando si interagisce in seduta, ad esempio in una conversazione che ha per tema il parlare di sé, o con aspetti legati ad altri formati interattivi – come quello della esercitazione con una tecnica immaginativa -, si coinvolgono inevitabilmente sia livelli di procedura che relazionali. E per comprendere validamente il processo terapeutico credo occorra tenere presenti tutte le caratteristiche di una conversazione terapeutica, quelle più immediate e procedurali da un lato e quelle più riflessive e semantiche dall’altro.

Per farmi capire anche un po’ bottom up attraverso le immagini, proporrei qui due figure per illustrare il doppio livello dei fenomeni della conversazione che invece vengono considerati come antitetici o escludentisi: una è la classica di Antonio Semerari sui processi metacognitivi attivati nella relazione terapeutica, l’altra si riferisce alla sintonizzazione interattiva propria di ogni conversazione (vedi le ricerche di Conversation Analysis ad es. Hutchby & Wooffitt, 1998; Perakyla et al. 2008) e ai processi anche intrapsichici di tipo rappresentazionale che implica.

Dialoghi Riflessivi - Lenzi

Protoconversazioni - Lenzi

Le generalizzazioni che fanno i terapeuti ovviamente non potranno non riguardare e illuminare in modo preminente ora l’uno ora l’altro di questi macro livelli, ma questo non vuol dire che non si stiano verificando anche gli altri e che non giochino un ruolo importante nel processo terapeutico e nel cambiamento ad esso collegato di una particolare metodologia presa in esame.

III. Ambiti di integrazione tra teoria e pratica

Quindi dopo aver chiarito che ci muoviamo in un contesto applicato con un mandato deontologico da cui non possiamo né vogliamo derogare, e dopo aver colto che le argomentazioni teoriche e le discussioni sono sì legittime e utili, ma anche parziali e non equivalenti all’oggetto di cui trattano (non si mangia un menu direbbero i sistemici) mi rimane da chiarire una terza ed ultima priorità o questione.

Come allora prendere in esame e valutare una metodologia terapeutica, da che punto di vista e con che linguaggi? E soprattutto: come formularla e costruirla? visto che con la propria conoscenza non si può per così dire prendere dappertutto, mentre quando operiamo ci attiviamo con tutto il nostro bagaglio cognitivo, emotivo, procedurale e contestuale (ovvero relazionale).

La mia argomentazione si rifà alle modalità di integrazione, e in particolare all’integrazione assimilativa di Messer riprendendo il mio intervento ad un simposio di Rosario Esposito al congresso della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale a Genova nel 2014: Elementi utili per il fronteggiamento della continua integrazione teorica e pratica a cui il terapeuta cognitivista è chiamato sul campo.

Innanzitutto è necessario distinguere, come anche diceva Nino Carcione nella mail del 16 marzo (comunicazione della mailing list SITCC), tra integrazione tecnica e integrazione teorica, cosa che non era tanto tenuta presente nei corollari del discorso sulle elaborazioni bottom-up e top down fatto da Sassaroli e colleghi.

Certo con le integrazioni non bisogna comunque esagerare: infatti si rischierebbe, come ci diceva tempo addietro Giovanni Ruggiero, di fare la fine dell’astronomo Tycho Brahe, passato nell’oblio pur essendo il “capo dipartimento” di Keplero e avendo fatto lui la maggior parte delle scoperte rivoluzionarie attribuite poi a quest’ultimo. Infatti, per zelo integrativo con le teorie accreditate del tempo, Brahe si giocò la possibilità di formulare in modo chiaro la teoria eliocentrica, che pure emergeva dalle osservazioni che ebbe il merito di condurre in modo innovativo e sistematico. Ma questo mi pare un problema successivo, di politica e management della scienza e della ricerca, o di storiografia al limite, che al momento non ci riguarda.

In verità la distinzione tra integrazione tecnica e integrazione teorica è di importanza primaria e la sua necessità può essere colta meglio alla luce della distinzione tra descrizione (proposta teorica esplicita di una metodologia) e realtà dei fenomeni in oggetto. Dunque quando integriamo una tecnica o una procedura sicuramente ci muoviamo a livello territorio, in un campo più ampio di quello che possiamo discutere a livello speculativo e quindi non tutti gli eventi in gioco (cognitivi, emotivi, procedurali, di contesto) possono essere considerati.

A questa distinzione tra i due livelli di integrazione se ne aggiunge in verità un terzo, quello della integrazione assimilativa, che ha un carattere del tutto peculiare, utile a mio parere per trarre proponimenti pratici – ognuno i propri, pro domo sua, perché no? – dalle nostre discussioni. L’integrazione assimilativa consiste nell’incorporazione nell’approccio primario e di base del terapeuta di atteggiamenti, prospettive o tecniche tratte da un modello terapico differente.

Essa adotta una posizione contestualista per cui una tecnica terapeutica è vista non come a sé stante ma inserita in una cornice teorico terapeutica da cui deriva il proprio significato. Per esempio si pone che una tecnica comportamentale come la desensibilizzazione sistematica assuma un differente significato in una terapia psicodinamica o esperienziale. Così la tecnica gestalt delle due sedie usata da un terapeuta comportamentale può apparire come un training di assertività piuttosto che come una risoluzione esperienziale di un conflitto- intento questo tipico dell’utilizzo originario.

Questa forma di integrazione è stata supportata da alcuni e discussa da altri (ad esempio Lazarus 1991), che, da una posizione di eclettismo tecnico, non concorda col fatto che una tecnica sia mutata dalla sua nuova veste di applicazione e che necessiti ad esempio di una nuova validazione. Una data tecnica rimane la stessa a prescindere dalla teoria o terapia di origine o di importazione.

Il concetto di integrazione assimilativa rientra invece in una tradizione di pluralismo secondo cui una teoria o modello non preclude mai una integrazione alternativa delle evidenze. In effetti si ritiene che il modo migliore di tendere alla verità scientifica sia quello di appoggiarsi a teorie diverse favorendo il confronto tra le teorie stesse e tra teorie e prove. Al contrario la visione alternativa presume che vi sia una teoria unificata e preminente in attesa di essere scoperta e questo sia il compito degli integrazionisti.

IV. Background, Ground e Foreground per lo studio e la ricerca in psicoterapia

Alla luce di queste differenziazioni, volendo avanzare un ulteriore passo, mi sembra non sia illegittimo – e anzi sia addirittura opportuno – per una corrente di psicoterapia come quella cognitivista e per una società come la nostra non abdicare alla formulazione di un modello e di una proposta rigorosa di procedure psicoterapiche che sia coerente con le proprie premesse e i propri contenuti e anzi che le sviluppi e le aggiorni coerentemente al progredire – mi si lasci dire- dell’arte e della scienza.

Se poi all’aut aut tra le modalità di integrazione sostituiamo un et et, ecco che diventa possibile individuare dei precisi ambiti su cui formulare, con rigorosa differenziazione metodologica, integrazioni e proposte. Ad esempio formulandole nello specifico a partire dal ground di integrazione assimilativa sul campo, e confrontandosi con gli elementi provenienti dal background teorico scientifico di base e dal foreground della ricerca in psicoterapia, sia di esito che di processo, ovvero dal confronto darwiniano con protocolli e linee guida.

Una volta collocatele in modo rigoroso a livello metodologico, non dobbiamo però come studiosi e ricercatori esimerci da iniziative (anche identitarie) di questo tipo, magari in nome dell’adesione ad un mandato di aggiornata produttività di tendenza, che garantisce risultati anche cospicui, ma poi alla lunga dispersivi e meno fecondi.

Faccio in breve un esempio di come intendo questa formulazione sul ground, indicando quella che potrebbe essere una sorta di proposta “assimilativa”, di integrazione ed espansione della procedura di base della terapia cognitiva, l’elaborazione dell’attività cognitiva tra auto-osservazione/monitoraggio e ristrutturazione, (Dobson, 2009).

Tale espansione si articolerebbe nei seguenti punti:

–     Articolazione della procedura terapeutica di base (espansione delle attività di elaborazione conoscitiva) e degli aspetti conversazionali di sintonizzazione e posizionamento interpersonale legati ad esse

–     Estensione del target di elaborazione (concetto di cognition) agli aspetti emotivo esperienziali (già parte degli ABC contestuali), di elaborazione narrativa (già in parte implicata dagli ABC classici) e di agire comunicativo (già in parte considerata ABC comportamentali)

–     Definizione delle strategie di utilizzo della procedura e degli obiettivi terapeutici in relazione ai tipi di cambiamento perseguiti (cambiamento sintomatico, cambiamento etiologico o di processo, cambiamenti di contesto)

Per chi fosse incuriosito da questi temi rimando a un probabile workshop al prossimo congresso della SITCC nel settembre 2018 a Verona “Il caso clinico nel suo divenire: strumenti cognitivisti per la costruzione di un percorso terapeutico”, in cui descriverò come utilizzare le procedure di elaborazione conoscitiva per la costruzione sistematica e calibrata di un percorso terapeutico.

V. Conclusione: per non diventare macchine di Touring

La densità di quello che accade nella pratica terapeutica è espressione dell’agire di due persone che, concretamente e in un contesto specifico, si incontrano.

Da sempre la sfida della conoscenza umana è rendere ragione del concreto vivente, e la conoscenza scientifica, nell’ambito del rigore metodologico che la contraddistingue, certo non si sottrae – demandando a derive relativistiche magari impregnate di impressionismo filosofico- alla conoscenza di quello che accade in seduta e al tentativo di realizzarlo sempre più pienamente ed efficacemente. Dopo l’esempio di integrazione sulla procedura a livello del ground terapeutico, vorrei per finire accennare, dalle angolature di background e foreground che ancor più direttamente si rifanno alle acquisizioni e ai metodi della scienza, a quelli che per me sono due aspetti critici per le questioni dibattute.

Con questo saluto, ringraziando tutti e la SITCC per la possibilità di discussione che ci offre.
Senza di essa saremmo molto più indietro e anche più soli.

 

Una questione di Background

Un problema teorico con una ricaduta di fondamentale importanza per gli argomenti discussi credo sia quello relativo alla natura del linguaggio e dell’attività linguistica. Da queste questioni in parte dipende l’esito del confronto tra approcci più eclettici e anche ritenuti “relazionali”, sicuramente legati alla psicopatologia traumatica, e la possibilità di pratica efficace di una psicoterapia sistematica, vuoi che si tratti della Plain Old Therapy oppure anche una metodologia ampliata di elaborazione cognitivista.

La questione può essere posta a partire dalle due figure precedenti, e riguarda la possibilità che la conversazione terapeutica sia capace di “trascinare con sé” e integrare – ovvero di realizzare una adeguata azione terapeutica su – entrambi i livelli della elaborazione riflessiva e della elaborazione immediata (con conseguenze sui processi top down e bottom up), come sostengono in ambito dinamico Vivona e anche Eagle, Gallese e Migone (2007, 2009) o se, viceversa, come sostiene il gruppo di Stern, vi sia qualcosa di più oltre il semantico/cognitivo e i due livelli abbiano ambiti non solo privilegiati ma anche separati di elaborazione. Ambiti distinti che riguardano ad esempio a livello implicito la relazione in sé e per sé (qualunque cosa vogliamo intendere con questa espressione), che quindi viene a consistere anche fuori dal linguaggio e dalle procedure esplicite in terapia.

Si tratta di argomenti complessi, ma a livello di background credo che qui sia in ballo il nocciolo di tante questioni.

Questioni di Foreground

L’escursione sul piano del foreground della ricerca in psicoterapia la faccio con un test: chi è d’accordo o meno con i diversi punti ritenuti da Westen alla base degli studi randomizzati controllati. Non è recentissimo l’articolo (2004), ma Drew ci ha messo 4 anni per scriverlo. I punti sono ripresi da alcuni seminari e interventi a congressi di Paolo Migone.

Utilizzando la seguente lista di affermazioni valuti lo stile di adesione/attaccamento ai principi della ricerca quantitativa e di esito assegni un punteggio su una scala da 0 (del tutto falso) a 6 (del tutto vero).

1)     I processi psicologici sono altamente malleabili

2)     La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero

3)     I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta

4)     I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all’inizio della terapia quale è il loro problema

5)     Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati

6)     Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato.

Ecco le mie personali risposte:

Affermazione 1 > 5

Affermazione 2 > 3

Affermazione 3 > 4

Affermazione 4 > 3

Affermazione 5 > 6

Affermazione 6 > 5

 

E per finire le posizioni critiche di Westen, a testimonianza dell’ampia portata del dibattito e delle posizioni possibili.

Il pensiero di Westen è riportato tra parentesi: egli conclude che gli assunti di base degli EST non sono teoricamente neutrali e non sono stati testati o sono stati testati ma dimostrati falsi. O per lo meno possono essere discussi proprio sulla base della stessa ricerca come indicato tra parentesi.

1.     I processi psicologici sono altamente malleabili [viceversa non è dimostrato che lo sono, nel senso che sembra occorra molto tempo per modificarli]

2.     La maggior parte dei pazienti hanno un solo sintomo o possono essere trattati come se lo avessero: [viceversa i pazienti presentano sintomi plurimi e comorbilità – vedi anche il problema della effectiveness]

3.     I sintomi psicologici possono essere trattati a prescindere dalla personalità di chi li presenta [mentre è dimostrato che la personalità gioca un ruolo rilevante]

4.     I pazienti sono capaci e disponibili a riferire all’inizio della terapia quale è il loro problema [mentre spesso il problema responsabile del disagio viene compreso a trattamento inoltrato]

5.     Gli elementi di una terapia efficace sono separabili gli uni dagli altri e possono essere sommati [mentre non è dimostrato che una psicoterapia può essere “smantellata”, nel senso che il suo significato è diverso dalla semplice somma delle sue parti]

6.     Gli elementi efficaci di una terapia possono essere manualizzati e gli interventi specificati nel manuale sono causalmente correlati al risultato [mentre alcuni studi, utilizzando ad esempio il Psychotherapy Process Q-set [PQS], hanno dimostrato che in un trattamento anche facente parte di uno studio controllato vengono usati interventi appartenenti a manuali diversi, e anche che spesso non vi è correlazione tra il risultato e gli interventi prescritti dal manuale].

 

Il sistema limbico – Introduzione alla Psicologia

Il sistema limbico è costituito da un insieme di regioni appartenenti al sistema nervoso centrale, tra loro connesse. Agisce nell’integrazione dell’olfatto e della memoria a breve termine; svolge funzioni importanti in relazione alle emozioni, all’umore e al senso di autocoscienza. Svolge anche funzioni elementari come l’integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e neuroendocrino. Inoltre, alcune parti del sistema limbico sono coinvolte nei processi mnesici, viscerali, di difesa e riproduzione.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il lobo limbico rappresenta uno dei sei lobi che compongono gli emisferi telencefalici, unitamente al lobo frontale, parietale, occipitale, temporale e all’insula.

Il sistema limbico è costituito da un insieme di regioni appartenenti al sistema nervoso centrale, tra loro connesse. Nel sistema limbico sono comprese le strutture mesencefaliche, diencefaliche, telencefaliche, la regione settale, la regione preottica, l’ipotalamo, alcuni nuclei del talamo, l’area tegmentale ventrale, il giro del cingolo, il giro paraippocampico, l’ippocampo, l’amigdala, la corteccia olfattiva più tutti i fasci che connettono le diverse parti.

Il sistema limbico agisce nell’integrazione dell’olfatto e della memoria a breve termine; svolge funzioni importanti in relazione alle emozioni, all’’umore e al senso di autocoscienza. Il sistema limbico svolge anche funzioni elementari come l’integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e neuroendocrino. Inoltre, alcune parti del sistema limbico sono coinvolte nei processi mnesici, viscerali, di difesa e riproduzione.

Il sistema limbico è spesso confuso e soprannominato lobo limbico che in realtà costituisce solo una componente di tale sistema dopo che, con le recenti scoperte, si è stabilito come numerose attività attribuite al sistema limbico non corrispondono ai limiti anatomici del lobo limbico.

Il sistema limbico consta di una serie di proiezioni:

  • riceve proiezioni dopaminergiche dal mesencefalo in relazione ai fenomeni di gratificazione e all’effetto delle sostanze psicoattive
  • le proiezioni noradrenergiche, invece, sono convolte negli attacchi di panico, ansia, paura di morire, senso di soffocamento e sintomi inerenti alle crisi epilettiche della corteccia limbica
  • le proiezioni colinergiche sono fondamentali per il mantenimento della memoria e nel momento in cui si verificano delle lesioni di tali nuclei si presentano alcune forme di demenze
  • è strettamente connesso alla corteccia prefrontale, e per questo è coinvolto nei meccanismi di presa di decisione in risposta ad agiti emotivi.

Sistema limbico: l’ippocampo

L’ippocampo è contenuto nel lobo temporale, è formato dall’archicortex e da una continuazione del giro paraippocampico e della corteccia entorinale. Esso presenta una forma a “C” che gli permette di essere nominato “corno di ammone”. Nello spazio tra l’ippocampo e il subicolo è presente il giro dentato. Dall’ippocampo partono degli assoni che formano l’alveo, un velo di sostanza bianca racconta in un fascio, la fimbria, che superiormente forma le colonne del fornice.

L’ippocampo è costituito da 3 strati: uno profondo, lo strato lacunoso molecolare, prosecuzione dello strato molecolare della neocortex; uno composto da cellule piramidali, in continuazione con il 5° strato della neocortex, da cui partono le efferenze dell’ippocampo; uno delle cellule polimorfe in continuazione al 6° strato della neocortex. Il giro dentato, inoltre, presenta la stessa struttura a strati dell’ippocampo, ma al posto dello strato piramidale presenta uno strato granulare.

Circuiti e fascicoli dell’ippocampo

L’ippocampo è coinvolto in diversi circuiti e riceve svariate afferenze. Quindi, è presente un circuito interno in cui dalla corteccia entorinale, tramite il subicolo, parte una proiezione al giro dentato. Dal giro dentato partono proiezioni che terminano sostanzialmente nello strato lacunoso formando i collaterali di Schaffer. Alla corteccia entorinale all’ippocampo giungono le informazioni sensitive-sensoriali e le informazioni circa le altre attività della corteccia. Altre fibre invece emergono nell’alveo e proseguono nella fimbria e quindi nel fornice. Il fornice nasce dal giro paraippocampico e circonda il talamo al di sotto del corpo calloso. I due fornici, di destra e sinistra, sulla linea mediana si uniscono a formare il corpo del fornice e attraverso questa unione le fibre di un lato possono passare all’altro lato. Ancora, in corrispondenza della commessura anteriore, il fornice si divide di nuovo in una colonna destra per l’ipotalamo di destra e una colonna sinistra per l’ipotalamo di sinistra, terminando nei nuclei mammillari. Una parte esigua del fornice costituisce il fornice pre-commessurale posto davanti alla commisura, da cui riceve altre afferenze ed emette ulteriori fascicoli.

L’ippocampo, tramite il fornice, riceve informazioni dai nuclei del setto, dai nuclei colinergici, dall’ipotalamo, dal talamo e dai nuclei del rafe serotoninergici, e proietta informazioni all’amigdala e al nucleo accumbens.

L’ippocampo è implicato nel processo di richiamo di un ricordo. Il ricordo è qualcosa che si costruisce volta per volta nell’ippocampo, e il suo recupero a memoria (attività mnesica) è una costruzione momentanea. L’ippocampo, inoltre, e’ centrale nelle epilessie essendone nella maggior parte dei casi il punto di origine.

Sistema limbico: il fornice

Il fornice è composto da sostanza bianca e rappresenta l’organo commessurale dell’ippocampo. Si trova sotto il corpo calloso ed è la continuazione dell’alveus e della fimbria che, piegando in avanti e in alto, formano le gambe del fornice. Le gambe continuano nel corpo, posto dorsalmente al talamo costituiscono l’unione delle componenti di destra e di sinistra del fornice. Anteriormente al talamo si formano le colonne del fornice: due fasci simmetrici che si portano in basso e si dirigono fino alla commessura anteriore, dividendosi in una porzione postcommessurale, che porta all’ipotalamo e precommessurale volta ai nuclei settali.

Le fibre trasversali sono presenti nella commessura del fornice compreso fra le due gambe prima che si fondano per formare il corpo facendo del fornice la formazione commessurale del sistema limbico.

Sistema limbico: l’amigdala

L’amigdala è posizionata nel lobo temporale tra l’ippocampo e l’area olfattiva, medialmente al margine anteriore del corno temporale del ventricolo laterale e inferiormente al nucleo lenticolare. L’amigdala è collegata alla corteccia frontale, temporale, al cingolo, dell’area olfattiva e all’ippocampo in entrambe le direzioni. L’amigdala riceve afferenze dai nuclei intralaminari del talamo e dalla formazione reticolare e dal tronco. Inoltre, presenta afferenze colinergiche dai nuclei della base, dopaminergiche dall’area tegmentale ventrale e dalla sostanza nera.

L’amigdala proietta, attraverso la stria terminale all’area preottica, alla regione del setto e all’ipotalamo anteriore, ai nuclei vegetativi del tronco encefalico tramite il fascicolo prosencefalico mediale. Altre fibre giungono alla regione del setto, al nucleo accumbens, al nucleo medio dorsale del talamo e al limen insulae.

Essendo parte del sistema limbico l’amigdala contribuisce alla componente emozionale. Infatti, essa è il punto da cui genera la paura. Coloro che subiscono un danno in tale area si presentano docili, o indifferenti verso gli stimoli emotigeni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Je so’ pazzo (2018) di A. Canova – Recensione del film documentario

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo.

 

Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. (Braudel)

Quand’anche fosse son pazzo, e allora?/ Mi rimane un tanto per essere felice/ Mi rimane un tanto per le mie sofferenze/ Mi rimane un tanto per dire ho un amico, per dire ti odio, ho paura/ ed altro ancora/ Mi rimane un tanto per dire: sono un uomo. (Michele Fragna – ex detenuto)

 

Il regista Andrea Canova ha realizzato il film Je so’ pazzo per Imbilico Teatro e Film, un documentario che racconta di uno spaccato di vita sociale di un quartiere di Napoli sviluppatosi intorno ad un manicomio che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazzo. Il collettivo, occupandolo nel 2015, l’ha rifondato, dandogli una nuova possibilità di vita nuova. Si percepisce chiaramente nel film l’alternarsi tra l’innovazione e la libertà del presente che spinge verso il futuro e l’immobilismo del passato.

All’interno di Sant’Eframo: da monastero a sede del collettivo Je so’ pazzo

Sant’Eframo fu antico monastero del ‘600, convertito in ospedale psichiatrico giudiziario nel 1978 a seguito della Legge Basaglia, e chiuso definitivamente nel 2008.

Nel 2015 un comitato di quartiere lo occupa e costituisce un collettivo di gestione.

Un’architettura abitata per anni da persone malate di disturbo psichiatrico che hanno commesso un reato, come Michele Fragna ex detenuto, ora narratore nel film documentario Je so’ pazzo. Ci guida attraverso i corridoi lunghi e stretti di una struttura per anni rimasta invisibile, abbandona e chiusa.

Lui stesso ci racconta così quel che ricorda di questa struttura:

Il colore predominante era il grigio, ora sono murales e tinte forti, dove prima era silenzio, ora sono risa di ragazzini che giocano a pallone, dove prima erano detriti, ora spunta un sottile strato erbaceo, dove prima era muraglia di separazione, ora è palestra di roccia, dove prima erano letti imbrattati di umori, ora c’è il suono di un violino, dove prima erano grida soffocate, il battere di cucchiai sulle sbarre, ora c’è uno strumento che suona, le voci che l’accompagnano.

Michele, come racconta lui stesso, entrò in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) all’età di ventidue anni con una diagnosi di schizofrenia paranoide e se la cavò con pochi anni di reclusione. Avere un motivo per vivere ogni giorno è ciò che gli permise di continuare a vivere tra fredde mura e sbarre e sperare di progettare un futuro al di fuori. Michele ci racconta anche le storie di amicizie nate nella disperazione ma divenute punto essenziale di contatto umano ed energia necessaria alla sopravvivenza.

L’OPG ospitava circa centottanta reclusi, nel documentario Je so’ pazzo si mostrano le celle e le scritte sulle pareti di coloro che lì hanno vissuto lungamente e in solitudine in una cella di due metri per tre.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO:

Je so’ pazzo: da reclusione a inclusione

Ora è tutto diverso: il collettivo ha permesso di riabitare luoghi infernali, ha ridato anima e vita a questo luogo dimenticato. Qui prima c’erano persone uscite dal mondo e recluse in un altro mondo. Ora qui troviamo adulti, giovani e bambini che contribuiscono a mantenere viva la memoria degli ex detenuti e a rielaborare il passato costruendo un senso comunitario.

Vengo qui perché nel quartiere non abbiamo un campetto da calcio – dice un bambino.

E come lui, nell’ex OPG, oggi trovano un senso di comunità e partenza molti altri ragazzi e adulti del quartiere.

Il collettivo è costituito da volontari che offrono la loro competenza professionale e il loro tempo a chiunque ne abbia necessità, a chiunque, bambino o adulto, straniero o italiano.

Dalle celle due metri per tre, alle macerie e da esse numerose stanze attrezzate che offrono servizi gratuiti: l’ambulatorio medico; le aule d’insegnamento per il doposcuola; il laboratorio di teatro; le “pizzicate”; la stanza dei violini; una biblioteca; la palestra di boxe, l’immancabile campo da calcetto e persino una parete attrezzata per il free climbing.

Qui si organizzano attività pomeridiane e feste il sabato e la domenica. Gli abitanti del quartiere non sentono più il rumore delle forchette sulle sbarre ma musica e grida di gioia.

Il collettivo Je so’ pazzo ha istituito qui un servizio di accoglienza ai migranti per aiutarli nel disbrigo delle pratiche. Si organizzano tavole rotonde per favorire discussione e scambio di opinioni e per continuare a interrogarsi sui vecchi significati e costruirne di nuovi.

Non è che sono pazzi, sono persone normali, soltanto che hanno un piccolo problema. Se tu ti spezzi una gamba ti devono chiamare zoppo?

Questo è quello che il collettivo Je so’ pazzo ha fatto concretamente nei fatti. Il regista ha fatto di più: ha integrato il passato con il presente, ha mostrato come dalla disintegrazione sociale può nascere l’integrazione, in altre parole ha raccontato il Possibile.

Fake news: perché le notizie false viaggiano più veloci di quelle vere su Twitter?

Uno studio, pubblicato recentemente su Science, di Vosoughi, Roy e Aral del dipartimento delle scienze dei media del Massachussets Istitute of Technology, ha mostrato come la diffusione delle fake news su twitter sia significativamente più veloce e su larga scala rispetto alle notizie vere, per tutte le categorie d’informazione, a causa del fenomeno del retweeting.

 

Il fenomeno delle “fake news” o notizie false, cioè quelle notizie che imitano nella forma i contenuti delle informazioni dei media ma che non hanno nulla del consueto processo organizzativo né dell’intento per cui quelle accurate vengono diffuse (Lazer, Baum, Benkler et al., 2018), ha acquisito notorietà a seguito delle elezioni presidenziali americane del 2016 che hanno portato al comando Donald Trump.

Questa vittoria politica da parte di Donald Trump, data per irrealizzabile fino all’ultimo dai sondaggi e dagli exit-pole diffusi tramite social network, ha evidenziato in modo marcato la potenziale pericolosità delle notizie inaccurate in quanto esse hanno abbattuto le barriere istituzionali contro la disinformazione nell’epoca di internet. Dal momento che le nuove tecnologie e piattaforme social consentono una diffusione rapidissima, su larga scala e in tempo reale, la pericolosità del fenomeno risiede nell’enorme portata che ha assunto riuscendo ad influenzare in modo profondo non solo decisioni in ambito politico ma anche finanziario (Rapoza, 2017) e a divulgare contenuti falsi su attacchi terroristici (Starbird, Maddock et al., 2014) e calamità naturali (Mendoza, Poblete et al., 2010) solo con un semplice twit.

Ma perché le notizie false viaggiano più veloci di quelle vere e perché le persone appaiono più propense a ritwittare informazione non vere e accurate?

Per rispondere a queste domande, lo studio di Vasoughi, Roy e Aral (2018) ha investigato la diversa diffusione di notizie verificate e di fake news tramite Twitter tra il 2006 e il 2017, prendendo come riferimento 126.000 storie twittate da 3 milioni di persone più di 4,5 milioni di volte.

I risultati sono stati a dir poco interessanti: le notizie false hanno una probabilità di essere ritwittate del 70% rispetto quelle notizie confermate e con fondamento, determinate dal confronto tra le cinque maggiori organizzazioni mondiali d’informazione. L’analisi, compiuta tramite un algoritmo, ha mostrato come le informazioni ritenute vere, con un range di accordo tra il 95 e il 98%, vengano diffuse più lentamente rispetto quelle false e vengano considerate e ritwittate da un bacino minore di utenti, mentre le news sulla politica e sulle cosiddette “leggende metropolitane” siano tra le più diffuse, con una velocità pari ad un contagio virale (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

In aggiunta a ciò, i ricercatori del MIT, autori dello studio, hanno evidenziato paradossalmente come gli utenti che maggiormente ritwittano notizie false hanno un numero minore di “follower” e a loro volta seguono pochi utenti e sono meno attivi su Twitter.

Per eliminare ogni tipo di distorsione nella traiettoria di diffusione delle news su Twitter, gli autori hanno inoltre distinto i dati provenienti dagli account di Twitter appartenenti a persone reali da quelli automatici-robotici, scoprendo che le notizie false erano prodotte soprattutto dagli account degli utenti “reali” anziché da quelli automatici, dimostrando come la causa di questa diffusione di notizie false sia dovuta al comportamento umano (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

Secondo Vasoughi e colleghi (2018), la ragione di tale rapidissima diffusione risiederebbe nella novità: sembra infatti che le false notizie rispetto a quelle confermate abbiano una componente maggiore di novità percepita dagli utenti che li attrarrebbe e che farebbe sì che le prime risaltino rispetto le seconde nel grande bacino dei tweet. Inoltre un’analisi delle parole scelte dagli utenti per i loro tweet e, quindi, del loro contenuto emotivo ha evidenziato come quelli falsi infondano paura, disgusto e sorpresa mentre quelli veri siano caratterizzati maggiormente da tristezza, anticipazione e fiducia (Vasoughi, Roi, Aral, 2018).

In conclusione gli esiti di tale ricerca hanno evidenziato come sia il comportamento umano a contribuire maggiormente alla diffusione di notizie false e pertanto gli interventi che possono essere messi in atto per contrastare la disinformazione dovrebbero essere caratterizzati anche dall’apprendimento di strumenti che aiutino gli utenti online a non accettare acriticamente le informazioni sulle piattaforme social (Lazer, Baum, Benkler et al, 2018).

Trauma complesso: quali sono le caratteristiche del Disturbo da Stress Post Traumatico? Come differenziarlo dal Disturbo da Trauma Cumulativo?

La diagnosi del Disturbo da Trauma Cumulativo non è ancora presente nel DSM V, ma gli esperti ne stanno delineando le caratteristiche, a partire dall’individuazione delle “Adverse Childhood Experiences”.

 

La diagnosi di Trauma Complesso non è attualmente riconosciuta dal DSM V, ma è al centro di un dibattito scientifico e culturale che rende la sua definizione ancora oggi controversa. La letteratura scientifica da anni si sta occupando di approfondire gli effetti a lungo termine dell’abuso, del maltrattamento e della trascuratezza nell’infanzia, sulla salute mentale e sull’organizzazione di personalità dell’adulto (Adverse Childhood Experiences – ACE Studies; Judith Herman, 1992; Felitti e Al., 1998; Briere e Spinazzola, 2005; van der Kolk, 2005; Cloitre e Al., 2009; Lanius, 2012). Il tentativo è anche di differenziarlo, attraverso i sintomi, dal Disturbo da Stress Post-Traumatico, che è legato all’esposizione ad un singolo evento di minaccia alla vita. La traumatizzazione cronica invece ha i sintomi più pervasivi e invalidanti, legati all’essere stati esposti a molti eventi traumatici nell’infanzia o nell’arco della vita adulta; in questo secondo caso si parla in clinica di “trauma cumulativo” (Briere e Spinazzola, 2005; Cloitre e Al., 2009).

Questo tipo di esperienze traumatiche, che possono dare origine al Disturbo da Trauma Cumulativo, riguarda prevalentemente traumi interpersonali come l’abuso fisico e/o sessuale, l’abuso emotivo e il neglect, la violenza assistita e la separazione precoce, l’abbandono o il deterioramento della relazione primaria (a causa di malattie, droghe o detenzione) del caregiver.

Sono causa di traumatizzazione cronica anche esperienze di tortura, guerra, prigionia o migrazione forzata e in generale tutte le condizioni in cui lo stato di minaccia alla vita per se stessi o per i propri familiari resta attivo per un tempo prolungato, impedendo all’individuo ogni forma di protezione o difesa. Gli esiti psicopatologici di questo tipo di esperienze avverse, sono più complessi e pervasivi ed includono solo in parte i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico, ad oggi unica diagnosi riconosciuta ufficialmente.

Nel tentativo di definire ed includere nella diagnosi l’eziologia di questo tipo di disturbi psicopatologici, questo cluster di sintomi è stato descritto altrove come Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Herman, 1992) negli adulti o Developmental Trauma Disorder – Disturbo Traumatico dello Sviluppo (D’Andrea e Al., 2012; van der Kolk, 2005) nei bambini. Di seguito le caratteristiche identificate dagli autori:

immagine PTSD

Lo psicologo nelle organizzazioni: il benessere del singolo per il benessere di tutti

Lo psicologo in azienda contribuisce a rendere l’ambiente lavorativo un contesto sicuro e di scambio proficuo. Il vantaggio non è soltanto per il singolo individuo, indagare il benessere personale dei propri collaboratori è un atto quasi doveroso anche per il benessere aziendale.

 

Capita spesso che ricercando “psicologo aziendale” tra gli annunci di lavoro le uniche opportunità riguardino soltanto la ricerca e la selezione del personale. Quando si cerca, poi, una descrizione esaustiva delle funzioni principali dello psicologo nelle organizzazioni si incappa in tutto ciò che riguarda il coaching, la formazione, l’engagement, lo sviluppo delle skills personali, ecc.. L’articolo Psicologia del Lavoro: di cosa si occupa lo psicologo in azienda descrive in modo esaustivo i “pilastri” su cui si fonda l’intervento psicologico aziendale.

Tutti aspetti, questi, che sembrano riguardare il potenziamento di risorse e dinamiche (individuali e di gruppo) volte al miglioramento della prestazione lavorativa, alla creazione di un ambiente di lavoro favorevole, allo sviluppo delle relazioni e al perseguimento di obiettivi coerenti con la mission aziendale. Certo, questa prospettiva fa parte del cosiddetto Sviluppo Organizzativo (Krone & Clark, 1072) che ha dato una nuova visione all’organizzazione aziendale e al lavoro non più centrati solo su fatica e dovere ma che ha cominciato a includere tutti quegli aspetti fondamentali che fanno di un’azienda un contesto socialmente attento, attivo e dinamico.

Dagli anni ’70-’80 ad oggi siamo passati, infatti, dalla dimensione operativa e produttiva fronteggiabile con il progresso tecnologico alla necessità di migliorare la qualità della vita lavorativa (Beer & Walton, 1987) e la relazione persona-organizzazione sotto il profilo dell’equità (Sue, 1982). Allo stesso modo è nata l’esigenza di integrare appieno le skills personali con l’obiettivo aziendale e favorire l’azione collettiva (Huffington, Cole, & Brunning, 1997).

Perchè avere uno psicologo in azienda ?

Ma in che termini lo psicologo può e deve essere utile alla sfera individuale del “lavoratore collettivo”? Da un buon IO deriva un miglior NOI. Non soltanto un IO nelle relazioni, un IO interpersonale, ma un IO personale, intimo, che ha bisogno di un suo spazio per poi dare il meglio di sé nel contesto aziendale. La qualità dell’equilibrio psicofisico ha necessariamente ripercussioni sull’ambiente di lavoro (Gruneberg, 1979).
L’intervento dello psicologo in azienda può quindi aiutare a far luce su questi aspetti producendo conoscenza. La soddisfazione lavorativa del singolo è una buona base di partenza per comprenderne i comportamenti e in che modo sono correlati alla performance ma soprattutto al benessere dell’individuo.

Soddisfazione lavorativa: cosa si intende e cosa cerchiamo

Diversi autori si sono interrogati su questo aspetto e ne è derivato che la soddisfazione lavorativa può essere intesa come una reazione affettiva (emozionale) ad una serie di aspetti connessi al lavoro che risulta dal confronto dei risultati reali con quelli desiderati, aspettati, meritati (Cranny, Smith , & Stone, 1992). Tali aspetti includono ad esempio, il tipo di attività svolta e i suoi aspetti intrinseci, la retribuzione, la qualità della vita extra-lavorativa, l’autonomia e la possibilità di gestire il proprio tempo, i tratti di personalità, i valori, e così via…

Senza entrare troppo nel merito di ciascuno di questi elementi, prendiamo in considerazione in che termini la soddisfazione o meno di questi aspetti possa influire sulla performance (per un approfondimento si veda l’articolo La soddisfazione lavorativa: quanto la performance dipende da quanto siamo soddisfatti) e sul benessere personale. Gli studi finora condotti con l’ausilio di strumenti di indagine appositi (questionari) attestano che un lavoratore soddisfatto si impegna maggiormente nella propria attività migliorando di conseguenza la prestazione lavorativa (Schleicher, Watt, & Greguras, 2004). Quando una persona è soddisfatta a livello lavorativo si sente parte del gruppo e dell’organizzazione e vuole impegnarsi per questa perché ne percepisce il valore. Il coinvolgimento personale risulta elevato e ciò significa che alla soddisfazione lavorativa corrisponde anche un appagamento nella vita privata (Avallone & Paplomatas, 2005). Al contrario, in assenza di soddisfazione si palesano tutti quei comportamenti che non solo sono segnale di malessere e, a lungo andare, possono essere dannosi per la salute, ma inficiano anche la performance. L’insofferenza nell’andare al lavoro, l’assenteismo, il pettegolezzo, disturbi psicosomatici di vario genere (sonno, apparato digerente..), lentezza nelle azioni, ecc. sono tutti indicatori che qualcosa nel contesto lavorativo non sta andando nella giusta direzione.

I vantaggi di avere uno psicologo in azienda

Se consideriamo quindi che il posto di lavoro è l’ ambiente in cui passiamo più tempo durante l’ arco della giornata, capiamo bene che andarci con uno spirito sereno o sapere che è presente una figura professionale come lo Psicologo che da supporto e nell’ affrontare le difficoltà e funge da filtro con i vertici aziendali, rende l’ ambiente-lavoro un contesto sicuro e di scambio proficuo. Lo psicologo in azienda supporta i dipendenti nell’affrontare le difficoltà e funge da “filtro” con i vertici aziendali, con l’obiettivo di rendere l’ambiente-lavoro un contesto sicuro e di scambio proficuo.

Vien da sé che il vantaggio non è soltanto del singolo individuo e del suo equilibrio psicofisico. Sensibilizzare un dirigente ad indagare il benessere personale dei suoi collaboratori è un atto quasi doveroso anche per il benessere aziendale. A tal proposito si è sentito parlare di una figura che in America si è già affermata e in Italia sta prendendo piede pian piano: il manager della felicità. Il suo scopo è quello di saper ascoltare, capire i bisogni dei dipendenti, fornire intervalli momentanei alla routine lavorativa.

Il quesito quindi sorge spontaneo: gli psicologi del benessere hanno speranza?
Forse, se la felicità inizia ad essere un trend possiamo sperare che il lavoro diventi per molti un posto felice.

Musica e arti visive a scuola migliorano le capacità cognitive dei bambini

Le ore di musica nelle scuole di tutto il mondo sono state notevolmente ridotte. La mancanza di finanziamenti, dovuta alla crisi economica, fa sì che apprendere a suonare uno strumento diventi un lusso, piuttosto che una base educativa da elargire a tutti gli studenti. E’ una buona mossa per lo sviluppo cognitivo dei bambini?

 

Artur Jaschke della VU University di Amsterdam, Paesi Bassi, ha condotto uno studio al riguardo e ha affermato che

[blockquote style=”1″]nonostante le indicazioni rispetto agli effetti benefici della musica sulla cognizione, tale disciplina sta scomparendo dai programmi di studio generale[/blockquote]

E’ stato proprio questo il movente che ha spinto il gruppo di ricerca, composto anche dal dottor Henkjan Honing e dal dottor Erik Scherder, a condurre uno studio sugli effetti positivi dell’ educazione musicale sui risultati accademici.

Lo studio: quali sono gli effetti dell’educazione musicale sui bambini?

Lo studio longitudinale, il primo a larga scala condotto ad oggi, ha analizzato gli effetti positivi dell’educazione musicale su 147 bambini frequentanti diverse scuole primarie olandesi.

Le ore di educazione musicale sono state introdotte in base ad un metodo sviluppato dal Ministero della ricerca e dell’istruzione dei Paesi Bassi e ad un centro specializzato nell’educazione artistica, adattandolo al curriculum scolastico regolare: in questo modo tutte le scuole in oggetto hanno seguito il regolare curriculum di studi, introducendo alcune ore di lezione pratiche e teoriche di musica ed arti visive.

Prima dell’introduzione delle ore di lezione artistica (musicale e di arti visive) ed in seguito a 2 anni e mezzo da questa introduzione, i ricercatori hanno valutato le abilità cognitive (tra cui pianificazione, inibizione e abilità di memoria) e le prestazioni scolastiche dei bambini.

È emerso che i bambini che hanno seguito lezioni di musica hanno avuto significativi miglioramenti cognitivi applicabili allo studio, rispetto ai bambini che non hanno seguito tali lezioni. I miglioramenti maggiori sono stati registrati nel ragionamento basato sul linguaggio verbale, nella capacità di pianificazione, nell’organizzazione delle attività e conseguentemente nei risultati scolastici.

Come afferma il dottor Jaschke, i risultati ottenuti suggeriscono

[blockquote style=”1″]che le abilità cognitive sviluppate durante le lezioni di musica possono influenzare le abilità cognitive dei bambini, portando a prestazioni accademiche complessivamente migliori[/blockquote]

Inoltre, le lezioni di arti visive hanno mostrato di apportare un beneficio a livello della memoria visiva e spaziale a breve termine.

I ricercatori si augurano che il proprio studio possa contribuire a sottolineare l’importanza che le lezioni di musica e d’arte ricoprono nello sviluppo della cultura umanistica e generale degli studenti, oltre che nel loro sviluppo cognitivo.

Neurobiologia dell’ingiustizia. Cosa succede nel nostro cervello quando siamo vittime o spettatori di un comportamento ingiusto?

Un gruppo di ricercatori olandesi sì è posto l’obiettivo di indagare i meccanismi psicologici e neurologici che accompagnano le scelte punitive o riparative espresse a seguito di un’ ingiustizia, cercando di dare un contributo ad un tema così profondamente legato all’esperienza umana, ma ancora poco indagato dal punto di vista neurobiologico.

 

La ricerca si è posta come primo obiettivo quello di riuscire ad individuare i meccanismi neurologici alla base delle decisioni di punire i trasgressori e risarcire le vittime. Sulla scia delle ultime ricerche in materia, che hanno evidenziato come dietro ad un comportamento punitivo non ci sia un processo unitario ma un sistema articolato in diverse sottocomponenti, i ricercatori hanno poi voluto far luce sulla reazione di questo sistema a seguito di un’ ingiustizia a cui si è assistito o che ci ha coinvolti in prima persona.

Il recente interesse per la dimostrata influenza degli ormoni sui processi cognitivi, li ha indotti infine ad esplorare il ruolo dell’ossitocina non solo nelle situazioni in cui si soccorrono le vittime, avendo già altre ricerche individuato il ruolo facilitante di questo ormone nell’ambito di comportamenti prosociali, ma anche nelle circostanze che ci vedono impegnati a punire i trasgressori.

Per raggiungere questi obiettivi, il team di ricerca ha adottato un approccio esplorativo e multi-metodologico: la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’impiego farmacologico di ossitocina e quello che hanno chiamato Justice Game, un racconto con compiti di decision-making.

Il campione di ricerca ha visto coinvolti efficacemente 53 uomini con un’età media di 21 anni, 27 dei quali hanno ricevuto la dose di ossitocina e gli altri un placebo contenente tutti i principi attivi del farmaco ad eccezione del solo neuropeptide.

Il primo obiettivo di riuscire a comprendere meglio i meccanismi neurologici alla base della decisione di punire i trasgressori o di risarcire le loro vittime è stato raggiunto constatando che l’aumento dell’attività dello striato ventrale è correlata più con la decisione di punire chi si è comportato ingiustamente che con la volontà di ricompensare chi si trova svantaggiato. Inoltre la decisione di astenersi da condotte punitive è risultata correlata positivamente con un aumento di attività nella giunzione temporo-parietale, un’area coinvolta nell’empatia e nella capacità di mettersi nei panni altrui.

Il secondo obiettivo intendeva paragonare le ragioni psicologiche e l’attività del cervello ad esse associate, sottostanti la decisione di punire, e quanto severamente farlo, sia che si sia vittime dirette di un comportamento ingiusto sia che esso sia diretto ad un terzo. L’area del cervello dell’insula anteriore è risultata associata alla decisione di punire ma in misura maggiore se chi punisce è chi ha subito direttamente il torto. Nell’esperienza sociale l’insula è risaputo essere coinvolta nel processamento della violazione alle norme, pertanto i ricercatori sono giunti alla conclusione che la volontà di punire possa dipendere da questo tipo di considerazioni che assumono un carattere di maggiore severità nelle vittime piuttosto che negli osservatori.

In quest’ultimo caso i risultati della ricerca hanno invece evidenziato il possibile coinvolgimento di un’altra area cerebrale nelle decisioni punitive, la corteccia prefrontale dorsolaterale, che sommerebbe alle pure considerazioni di giustizia dell’insula anche informazioni addizionali circa le variabili del contesto in cui si verifica l’episodio di violazione delle norme. Così come in ricerche precedenti, anche in questo caso i ricercatori hanno evidenziato il coinvolgimento dell’amigdala in questo tipo di scenario, supportando l’ipotesi che questa regione del cervello codifichi l’arousal emotivo associato con il danno procurato a terzi.

Per quanto riguarda il ruolo dell’ossitocina, essa non è risultata aver alcun ruolo facilitatore, riscontrabile a livello neurologico e comportamentale, nell’ambito dei comportamenti di soccorso alle vittime, disconfermando i risultati di altre ricerche che descrivono il neuropeptide come un generale potenziatore di empatia e decisioni prosociali e altruistiche ma tale dato potrebbe anche dipendere dal ridotto campione di comportamenti positivi esaminati nell’ambito della ricerca.

L’ossitocina invece ha dimostrato di influenzare l’attività cerebrale e il comportamento di chi decideva di agire in senso punitivo: a livello comportamentale l’ossitocina ha aumentato la frequenza di punizioni di lieve entità, diminuendo la volontà di punire duramente sia nelle vittime dirette che negli spettatori.

Benchè la percezione di ingiustizia sia il precursore non solo di discussioni da bar tra amici di vecchia data ma anche di conflitti di larga portata tra culture diverse, ancora poco si sa riguardo a come il cervello elabori l’ ingiustizia e quali sue aree e fattori esterni contribuiscano ai processi decisionali che ne derivano. Questa ricerca offre indubbiamente un prezioso contributo a colmare questa lacuna.

Parlami di Lucy (2018), molto più di un thriller psicologico – Recensione del film

Se il valore di un film si giudica anche dalle possibilità che lascia aperte al contributo soggettivo dello spettatore, Parlami di Lucy lascia certamente la sensazione che l’impegno investito nella sua visione non sia stato uno sforzo infruttuoso.

 

Parlami di Lucy: più di un semplice thriller psicologico

Definire Parlami di Lucy un thriller psicologico pare per la verità limitante, poiché la struttura narrativa gioca sul continuo scambiarsi e intrecciarsi di livelli del racconto che hanno sì a che vedere con l’incertezza, la suspense, ma forse non si risolvono mai, nemmeno con la svolta finale apparentemente definitiva.

Nella cornice di montagne dure e austere, nel microcosmo di una casa solitaria il cui ambiente umano non si espande mai oltre la stretta natura circostante e l’inizio – o la fine, a seconda che si voglia arrivare o fuggire – della strada sterrata che collega a realtà altre mai veramente descritte, in questa cornice si diceva, il contrasto fra non detto e sottinteso, fra incubo del sonno e incubo della coscienza non giunge mai ad una piena e liberatoria – o deludente, dipende dalle predilezioni dello spettatore – composizione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM PARLAMI DI LUCY:

Parlamy di Lucy: la trama

Nicole, protagonista del film Parlami di Lucy, madre tormentata da paranoie crescenti e paure reali, ospita in sé la disgregazione di un matrimonio, l’angoscia muta del tradimento sconosciuto, la manipolazione di una figlia ostaggio dei propri silenzi e delle ferite non risolte dagli adulti. Il pericolo incombe e non sempre è chiaro se sia ciò da cui Nicole vuole proteggere la bambina o ciò da cui la donna non riesce a proteggersi. In una spirale che ricorda il giro di vite jamesiano, la protagonista è al centro di eventi inspiegabili o forse spiegabili con una storia di fantasmi, i suoi. Non abbiamo certezza che la linea sottile che separa il reale dal perturbante sia davvero una separazione. Più spesso essa appare la vera chiave di lettura del racconto, quel confine che può essere superato e ripristinato seguendo sensazioni tanto aperte quanto al contrario diviene claustrofobica l’atmosfera narrativa.

Ci sono veramente presenze oscure? È il marito a far cadere accurati semi di follia nella mente della donna per poterla abbandonare impadronendosi della figlia e fuggendo con l’amante? Nicole protegge la bambina dalla malvagità di una trama soprannaturale, da un padre la cui freddezza potrebbe essere spietato calcolo o dolore inesprimibile, oppure non riesce a difenderla da un’altra minaccia che penetra senza poter essere raffigurata?

Forse Nicole, la sua mente fragile e l’incubo che la percorre sono davvero l’unica cosa che vediamo, che ci è raccontata in Parlami di Lucy; forse Lucy, chiusa negli occhi dritti, nella voce marmorea di una solitudine che nessuno riesce a lenire o che nessuno è realmente interessato a guardare, è lo schermo bianco sul quale gli adulti proiettano la sofferenza che si fa incubo.

Ma in quell’incubo è quasi tutto umano, poco o nulla assomiglia all’horror richiamato in alcune scene, poco o nulla rimanda a vissuti diversi da quelli di una tragedia che più sfugge più si consuma.

 

PARLAMI DI LUCY: LE IMMAGINI DAL BACKSTAGE DEL FILM

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM5

 

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM4

 

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM3

 

Parlami di Lucy (2018) tra fantasmi reali e immaginari -Recensione del film - IMM2

 

 

 

Nulla sfugge ai social: una spinta gentile per ricordarlo

Siamo nell’era della privacy assoluta, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato su internet.

 

La pioggia di dati prodotta da internet è inarrestabile e sta inesorabilmente cambiando le nostre vite, le nostre relazioni, l’amore, la nascita, la morte, la politica e l’economia. Attualmente si parla di una popolazione “data driven”, ovvero “guidata dai dati”, un fiume in piena che noi stessi produciamo.

I rapporti sono mediati da piattaforme, i processi decisionali dai computer più che dai dirigenti. Siamo nell’era della privacy assoluta, in cui si chiede che venga rispettato il diritto alla riservatezza della propria vita privata, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato.

Il 1° gennaio 2004, in Italia, è entrato in vigore il cosiddetto “Testo Unico sulla Privacy”, ovvero il Codice che raccoglie le disposizioni in materia di protezione dei dati personali (Codice in materia di protezione dei dati personali, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196). Il Codice garantisce che il trattamento dei dati si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, assicurando un elevato livello di protezione, nel rispetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed efficacia delle modalità previste per il loro esercizio, ma i comportamenti emessi dalla popolazione risultano essere contrari e incompatibili alla tutela richiesta (Citta & Della Banca, 2003).

I giovani espongono sui social i loro segreti più intimi, perché bisognosi della considerazione sociale di ciò che accade nelle loro vite, condividono fotografie per gioco o per rendere pubblica una relazione d’amore; i genitori inesperti della rete pubblicano foto di minori, installano senza consapevolezza sui propri smartphone applicazioni, allettati dalla parola “gratuita”. I professionisti mettono a rischio i loro contatti di lavoro attraverso lo scambio d’informazioni via e-mail con colleghi e clienti e scansioni di atti. L’uso delle più recenti tecnologie rende i dati sensibili indifesi di fronte ad attacchi esterni e spesso soggetti a incidenti informatici che compromettono il loro recupero. Tra amici o compagni di scuola si fanno strada molestatori e cyberbulli che, convinti di essere protetti dall’anonimato, colpiscono le persone più deboli.

In che modo internet sta ridisegnando la vita delle persone

Luciano Floradi, filosofo nell’Università di Oxford, in un’intervista speciale del TG1 andata in onda il 29 Gennaio 2017, pone l’attenzione sulle modalità attraverso cui internet sta ridisegnando in Italia le nostre vite, personali e pubbliche. Gradualmente, l’introduzione di device mobili nelle nostre vite sta conducendo verso un’identità perennemente “on line”.

La frequenza con cui si è connessi alla “rete delle reti” (internet) sta crescendo progressivamente: in qualsiasi contesto o momento del giorno e della notte, indipendentemente dall’età, si è perennemente on line (ISTAT, 2013). Internet viene utilizzato da fermi o in mobilità, portando l’uomo verso uno sviluppo di relazioni tra macchine più che tra persone, mediante applicazioni di messaggistica istantanea quali WeChat, WhatsApp, ecc..Nel marketing, attualmente, si parla di e-commerce, una forma di commercio i cui prodotti vengono venduti mediante Internet, il quale permette di raggiungere in modo veloce e a basso costo gli acquirenti, ma questa modalità di commercio ha portato a non incontrare neanche più i clienti (Gefen & Straub, 2004). A scuola il bambino viene monitorato in entrata e in uscita mediante il registro elettronico, gli insegnanti utilizzano la LIM (lavagna interattiva multimediale), su cui vengono proiettati contenuti digitali; telecamere appositamente posizionate all’interno delle istituzioni scolastiche monitorano la vita dei ragazzi. A Singapore, webcam e sensori invisibili sono sparsi per tutta la città, registrano e tracciano movimenti e comportamenti su autobus e nella vita quotidiana.

Una traccia rimane ovunque anche se tradisci il tuo partner, tra uomini e oggetti (acquisto di un regalo), tra oggetti e oggetti (es. le camere in hotel sono tutte controllate tramite smartcard). Tasse, proprietà, codici di accesso per visionare parti della propria vita, definiscono il valore professionale e personale dell’individuo.

Secondo alcuni antropologi che studiano i nativi digitali, in aeroporto la presenza di telecamere digitali permette di scansionare i volti, definisce il genere e l’etnia della persona e spesso vengono fermati i soggetti, sulla base di ciò che decide l’algoritmo. Nessuno si lamenta del controllo, viviamo in una società pragmatica, ma quanto siamo consapevoli che il diritto di privacy davanti alle relazioni in rete perde valore?

Anti fragilità vs fragilità delle relazioni reali

L’aver scelto un’identità sempre on line ha reso la popolazione dei nativi digitali più “controllante”: se si perde lo smartphone, grazie al segnale gps è possibile localizzarlo; in un posto in cui il collegamento dei mezzi è scarso, una connessione internet permette di localizzare l’auto più vicina grazie al servizio di car sharing. La Braun Research, società di ricerca di mercato, nel 2016 ha esplorato per conto della Bank of America le tendenze e i comportamenti di utilizzo dello smartphone con un sondaggio telefonico su 1004 persone di età superiore ai 18 anni in possesso di un cellulare. Il 59% dei soggetti intervistati afferma di possedere più di un dispositivo mobile.

L’uso che si fa dello smartphone è legato all’interazione con i propri figli, ottenere indicazioni, prendere appuntamenti, controllare le proprie finanze, prenotare viaggi, fare shopping e ordinare cibo. Questi comportamenti in realtà stanno portando la società in direzione contraria ai principi di anti fragilità (Taleb, 2013) e ciò non stupisce: le relazioni digitali comportano una fragilità nelle relazioni reali. La tecnologia e i dati aiutano a capire chi siamo e orientano l’uomo su dove andare, ancorandolo alla zona di comfort piuttosto cha spingerlo verso la scoperta autonoma dei pro e dei contro. I device digitali, via di accesso alla realtà della rete, dovrebbero essere di supporto e non sostituti.

Oggi il numero degli amici su Facebook è uno degli indicatori più significativi nella vita della persona, con la conseguenza di mettere implicitamente in secondo piano l’effettiva rete di relazioni intessute da un soggetto. Ciò va sommandosi a un altro elemento di fragilità ontologica ossia la mancanza di ridondanza: la quasi esclusività del mezzo digitale toglie di fatto all’individuo l’occasione di sperimentare le implicazioni ripetute della vita reale, le sollecitazioni improvvise ed esterne e non controllabili, necessarie alla crescita e al miglioramento personale. In alcuni casi può accadere che gli aspetti del reale e del virtuale si sovrappongono a tal punto che l’autonomia delle parti necessaria per una socialità anti fragile viene a mancare. In quest’ultimo caso, infatti, il virtuale non supporta il reale ma lo sincretizza diventandone causa di indebolimento: se muore una parte anche l’altra non sussiste. La mancata ridondanza nelle modalità di accesso e di contatto con la dimensione sociale rende il singolo oltremodo fragile. Ed è così che lo smartphone riesce a diventare indispensabile nelle nostre vite che non sono pronte ad affrontare un evento improvviso, un cigno nero (Taleb 2007), che inaspettatamente può far saltare il sistema, cambiando la routine vissuta dall’uomo.

L’era delle “face down people” e delle relazioni “filtrate dalla tecnologia”

La condizione della società contemporanea è descritta dal regista e animatore Steve Cutts, nel nuovo video di Moby & The Void Pacific Choir, nel brano “Are you lost in the world like me?”, uscito il 14 ottobre 2017.

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In questo video la coppia Moby-Cutts denuncia la dipendenza umana dagli schermi, con uno sguardo desolante. Le immagini rivelano come la centralità dell’individuo nella propria vita ha ceduto il posto alle relazioni “guidate dai dati”, in cui comportamenti come baciare, abbracciare, sorridere ecc. sono stati sostituiti da emoticon che comunicano sensazioni alterate e talvolta ambigue. Siamo nell’era delle “face down people”, persone che mantengono lo sguardo rivolto verso il basso, sullo schermo del telefono e si muovono immersi nello smartphone.

Wallace (2014) riporta alcuni casi limite. In Cina, due studenti hanno giocato a un gioco online per due giorni consecutivi: poi, una volta usciti di casa, nell’attraversare i binari nella vita reale, senza rendersi conto del cambiamento, sono stati uccisi da un treno che sopraggiungeva. Una giovane coppia in Korea si è occupata della figlia virtuale trascurando quella vera, che infine è morta. L’uso eccessivo di Internet porta progressivamente a difficoltà soprattutto nell’area relazionale dell’individuo, il quale viene assorbito dalla propria esperienza virtuale, rimanendo “agganciato” alla rete (Jamison, 2000).

È possibile pertanto parlare di dipendenza? Jerald J. Block (2008), in un articolo recente sull’American Journal of Psychiatry, afferma che l’Internet Addiction è un particolare tipo di disturbo compulsivo-impulsivo, il quale si manifesta attraverso i seguenti sintomi: desiderio irrefrenabile di connettersi al web (o comunque di stare davanti a un pc, tablet, smartphone) per chattare, giocare, mandare e-mail, frequentare siti porno. Il soggetto privo di internet diventa irritabile, nervoso e agitato e può facilmente cadere in forme di depressione: una vera e propria sindrome da astinenza. L’assuefazione a internet si manifesta nella forma di una progressiva permanenza davanti al pc/tablet sempre più lunga e ininterrotta, e nella ricerca di dispositivi hardware e software sempre più potenti e innovativi. Facebook è basato su un algoritmo simile a quello di Google, dà avvio a chat e relazioni, nelle quali la persona è immersa; l’algoritmo le ordina e le ripropone, tutto ridisegnato dal web. La relazione è filtrata dalla tecnologia. La velocità della chat brucia le relazioni: si crea la relazione prima che realmente avvenga. Le storie sentimentali da private diventano pubbliche.

La tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative indotta dalla diffusione di device e app digitali può essere un fattore di rischio trasversale per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.

Le app finora create (es. WhatsApp che permette di controllare gli accessi di ciascun utente) contribuiscono al sorgere di relazioni perverse, ipercontrollanti, che fanno sorgere nella mente del partner domande del tipo: “Cosa fa? Con chi chatta se non sta scrivendo a me? Come mai è ancora sveglia/o? Perché non mi scrive? Vuole escludermi dalla sua vita?”

Secondo alcune moderne teorie su pensiero e linguaggio, come l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, Strosahl & Wilson, 1999) e la Relational Frame Theory ( Hayes, Barnes-Holmes, & Roche, 2001), le strategie di controllo che avrebbero l’obiettivo di eliminare i disagi personali, hanno un ruolo centrale nell’esasperare la fisiologica sofferenza connessa all’essere umani. La psicopatologia sorgerebbe, quindi, nel momento in cui finalità e desideri di vita significativi a lungo termine, ad esempio persone e valori importanti, vengono sostituiti dall’obiettivo a breve termine di sentirsi bene, apparire bene e di difendere, nell’immediato, il proprio sé concettualizzato. Guidati da questi scopi a breve termine, effimeri per loro natura, i pattern comportamentali si restringono e si allontanano dai reali valori dell’individuo (Hayes et al., 1999).

Quanto affermato nei paragrafi precedenti evidenzia come l’attuale comunità sociale/verbale favorisca, anche attraverso la diffusione di device e app digitali, proprio queste strategie di controllo, che rappresentano una soluzione a brevissimo termine (ad esempio so sempre che cosa sta facendo il mio partner, i miei amici, ecc.) e un grave problema nel medio-lungo termine (l’assenza della possibilità di monitorare costantemente le attività altrui mi fa sentire perso, disorientato, instabile, sopraffatto, e mi spinge ad agire in modo discontrollato e pericoloso per me e per gli altri, ecc.). Questo eccesso di controllo sulle esperienze interne negative viene chiamato evitamento esperienziale e si traduce in tutti quei comportamenti che la persona mette in atto per allontanare da sé emozioni e sensazioni difficili, indipendentemente da quanto questi comportamenti impediscano alla persona di perseguire scopi significativi e gratificanti più ampi.

La ricerca scientifica mostra come la tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative possa essere un fattore di rischio trasversale per la salute psicologica. Solo per citare alcuni dati, le persone con elevato evitamento esperienziale tendono a sviluppare con maggior probabilità i sintomi del disturbo da stress post traumatico dopo un’esperienza traumatica (Marx e Sloan, 2005). La loro qualità di vita nel corso degli studi universitari risulta peggiore (Hayes et al., 2004); presentano un maggior numero di disturbi psicologici e rischiano di commettere più errori in ambito lavorativo (Bond e Bunce, 2003).

La capacità di aprirsi e accettare pensieri e sentimenti difficili, e di impegnarsi in azioni efficaci e di valore, sembra quindi predire il successo in diversi aspetti della vita degli esseri umani. Viceversa, l’evitamento esperienziale costituisce un importante fattore di rischio in termini di salute psicologica (Biglan, Hayes e Pistorello, 2008). In molti modi, quindi, incluso l’utilizzo pervasivo di rete, social e device, la nostra società rischia di creare un terreno fertile per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.

Foto, video, chat sono tutti elementi che lasciano dati sensibili ovunque. La cura dei dati è affidata a internet che, come una grande tribù priva di presenza fisica, opera una condivisione di informazioni. La distanza scompare, e come nelle caverne il corpo rimane nudo: i dati sono allo scoperto. Si tratta di tribù virtuali che condividono i loro corpi sotto forma di dati e quando i singoli componenti si ammalano anche la tribù si ammala perché ogni cosa è condivisa online. Le app sono diventate gradualmente applicazioni capaci di accomunare persone che hanno gli stessi interessi (cene, viaggi..), i “gruppi chiusi” di Facebook e i gruppi WhatsApp stanno creando una forma di tribalismo istantaneo, in cui l’identità dell’individuo si scioglie in quella collettiva: si verifica uno scambio di emozioni forti, di pensieri condivisi e il bisogno di relazione porta a chattare, fare battute, innamorarsi in un mondo virtuale. I comportamenti delle persone appartenenti ai social seguono regole ben precise: c’è un influencer e tutti lo seguono, il cosiddetto capobranco al quale ci si affida nei “like” o in votazioni relative a specifiche tematiche.

Il libro The Filter Bubble (Pariser, 2011) porta l’attenzione sui principali servizi web, dal motore di ricerca Google alle notifiche degli amici di Facebook e fa notare al lettore come questi hanno la tendenza a offrire all’uomo una visione su misura del mondo, personalizzata in base alle proprie aree di navigazione e interessi, manifesta in maniera diretta o dedotta in automatico dal sistema. Se da un lato tutto ciò rappresenta un vantaggio, dall’altro lato è un rischio. Il rischio, di cui parla il testo, è che l’uomo finisca per chiudersi in una bolla. Una bolla che ha l’effetto di isolare l’uomo dalla società, facendogli perdere la percezione della collettività nel suo insieme, orientandolo verso la costruzione di relazioni personali ideali più che reali. La società, informata solo in apparenza, pian piano si sta chiudendo all’interno di una bolla guidata da algoritmi che difficilmente permettono l’accesso al caos, rischio, incertezza, avventura e disordine, elementi che permettono all’uomo di crescere ed evolversi. Si è fragili e poco resilienti agli shock. La ridefinizione dei contesti e della frequenza di utilizzo dei propri dispositivi mobili potrebbe permettere all’uomo di uscire da questa bolla esponendosi alla realtà che lo circonda, compiendo scelte utili e funzionali per sé e per chi lo circonda.

Una “protesi cognitiva” semplice e veloce per aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online Daniel Kahneman, psicologo Israeliano e Premio Nobel per l’Economia nel 2002, ha messo in luce nel suo lavoro come l’ambiente in cui ci si muove possa  esercitare un’importante influenza sulle scelte dell’uomo, che ne sia consapevole o meno (Kahneman, 2012). Un’ipotesi di intervento in tal senso che permetta agli individui di ricordare l’importanza della privacy e la tutela dei propri dati è l’applicazione del nudging, l’insieme di principi basati sulle scienze del comportamento, che spinge gentilmente le persone nel processo decisionale verso scelte coerenti con i propri valori individuali e collettivi. Il nudging lavora sull’ “architettura delle scelte” ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo. Aumenta la probabilità di emissione di un comportamento lavorando sugli antecedenti; influenza un comportamento prevedibile senza utilizzare punizioni o incentivi economici (Sunstein & Tahler, 2008).

Lo studio condotto da Castleman e colleghi (2013) in contesto universitario ha mostrato l’efficacia dei remainder nell’incremento delle iscrizioni. Il remainder è una “protesi” cognitiva che ci ricorda, in momenti specifici, la possibilità di compiere una scelta (ad esempio condividere o meno specifiche informazioni). Esso è utile quando i comportamenti non sono influenzati da un’elevata motivazione, o quando la persona deve processare diverse informazioni e può aumentare la probabilità che essa dimentichi di compiere una determinata azione.

Sarebbe utile e funzionale pertanto inserire come screen del proprio smartphone, pc/tablet un reminder contenente l’immagine di un lucchetto o la dicitura “nulla sfugge ai social” per ricordare alle persone l’esistenza e l’importanza della privacy, per aumentare la consapevolezza che tutto ciò che viene caricato online e reso disponibile alla grande tribù digitale di appartenenza, rimarrà per sempre nel web. Attraverso questo intervento le persone sono orientate verso il compiere o meno una scelta: condividere o no qualunque tipologia di foto, video, conversazione ecc.. in tempo reale. Tale intervento non richiede costi esosi, è semplice e veloce da applicare ma potrebbe aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online, tutelando sé stessi, gli altri e il concetto di privacy.

Quello che la mente dice: l’influenza dei pensieri e il concetto di defusione

L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ha portato l’attenzione sulla fusione col pensiero, e la sua controparte, la defusione. Praticare la defusione significa non lasciarsi agganciare dagli eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà.

 

Funzionalità dei processi di pensiero

Il pensiero e i suoi processi possono essere considerati tra le funzioni che, in stretta connessione con il linguaggio, consentono all’uomo di sostenere prestazioni altamente intelligenti. Lo sviluppo di alcune aree cerebrali ci ha permesso di evolverci, sviluppare abilità cognitive complesse e diventare abili pensatori. Grazie alla corteccia prefrontale, ad esempio, siamo in grado di generare nuovi comportamenti esplorando diverse alternative, ci è possibile immaginare, valutare le soluzioni possibili per il raggiungimento dei nostri obiettivi. Il nostro cervello opera però non solo manipolando e soppesando esperienze e sensazioni fisiche reali, ma si serve anche di rappresentazioni e astrazioni della realtà, ovvero di concetti che pone al centro dei processi di pensiero e ragionamento (Skoyles, Sagan, 2003). Il diffuso interesse per tali capacità dell’essere umano ha da sempre spinto gli studiosi ad approfondire i meccanismi che sottendono processi quali il prendere decisioni, il problem solving, le attività di valutazione e di giudizio che continuamente mettiamo in atto per muoverci nel mondo.

La fusione col pensiero: quando le credenze corrispondono a realtà

Ma cosa succede quando ci “fondiamo” con i nostri pensieri, immagini mentali, previsioni più o meno pessimistiche? Iniziamo a credere che questi corrispondano alla realtà e guardiamo al mondo attraverso di essi, come attraverso un filtro che altera il modo in cui vediamo le cose. Molti dei significati che emergono da questa fusione coi pensieri non ci aiutano a vivere pienamente, anzi, ci fanno credere che ci sia qualcosa di preoccupante, spaventoso, minaccioso da cui difendersi. Sappiamo che di fronte ad una potenziale minaccia la complessità delle nostre menti ci consente di trovare soluzioni creative, di risolvere problemi, di rispondere agli ostacoli che si frappongono tra noi e i nostri obiettivi.

La mente è una risolutrice di problemi e pertanto tenta anche di proteggerci da ciò che per noi rappresenta un pericolo; tutto ciò è funzionale all’evoluzione e alla sopravvivenza, ma in alcuni casi può generare un’inversione nella direzione della sofferenza psichica. In questi casi la mente propone soluzioni a problemi che non si sono ancora presentati e che probabilmente non si verificheranno mai, risponde a preoccupazioni e dubbi dettati da credenze distorte su se stessi o sugli altri, da previsioni su ciò che di brutto potrebbe accadere, da idee di fallimento o idee negative di altro genere; in sostanza, si tratta di storie che la mente racconta e che portano a costruire soluzioni disfunzionali, evitamenti, rinunce, tentativi di controllo inflessibili e rigidità. Così avviene che a volte ci sentiamo bloccati, quasi fisicamente incapaci di muoverci verso un obiettivo per noi importante. Magari perché giudichiamo le nostre capacità di farcela in maniera brutalmente – e irrealisticamente – critica, magari perché diamo per scontato il fallimento, o ancora perché “prevediamo” un epilogo negativo, sicuri che si realizzerà la peggiore delle ipotesi, trovando giustificazioni al nostro comportamento che siano in linea con tali convinzioni. È in un simile scenario che i pensieri possono talvolta svolgere un ruolo chiave nel produrre situazioni di stallo e sofferenza soggettiva, e non è tanto – o non solo – il loro contenuto a causare dolore o a impedirci di perseguire i nostri scopi, quanto il modo in cui ci rapportiamo ad essi.

Fusione e defusione nell’ Acceptance and Commitment Therapy

A questo proposito, l’approccio cognitivo-comportamentale cosiddetto di terza generazione e, in particolare, l’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT), hanno portato l’attenzione su un concetto particolarmente esplicativo di quanto finora descritto: la fusione, e la sua controparte, la defusione. La fusione consiste nell’essere “incollati” alle esperienze interiori, quali pensieri o emozioni, e guardare il mondo attraverso le loro lenti; praticare la defusione significa invece non lasciarsi agganciare da questi eventi interni, ma apprendere a notare i pensieri distinguendoli dalla realtà (Polk, Schoendorff, Webster, Olaz, 2016). I concetti di fusione e defusione sono connessi all’idea di base che il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento. Con la pratica della defusione è possibile riconoscere che i pensieri sono appunto parole, storie, discorsi che si presentano nella nostra mente ma che non necessariamente sono veri, possono esserlo ma non dobbiamo credergli automaticamente. Possiamo concedergli tempo e attenzione solo se sono utili, ma nessun pensiero, per quanto doloroso, rappresenta una minaccia reale (Harris, 2010).

Per questo alcune tecniche dell’ Acceptance and Commitment Therapy volte a promuovere la defusione si fondano sull’utilizzo di strategie verbali che consentono alla persona una descrizione della propria esperienza per ciò che è: invece di pensare “io non posso farlo” e rendere questo pensiero una verità assoluta, si può trasformare questa affermazione in “ho il pensiero di non poterlo fare”. L’intero lavoro sul processo di defusione prevede che si vada, parallelamente, ad intervenire sulla capacità della persona di accettare quei pensieri per lei disturbanti.

Come scrive Harris (2010, p.53):

Rapportati ai tuoi pensieri in modo nuovo, così che abbiano un impatto e un’influenza molto minori su di te. […] essi perderanno la capacità di spaventarti, preoccuparti, stressarti o deprimerti. E man mano che imparerai a praticare la defusione dai pensieri inutili, come le convinzioni che ti limitano e l’autocritica feroce, essi avranno molta meno influenza sul tuo comportamento.

La defusione è quindi, nell’ Acceptance and Commitment Therapy, la risposta alla fusione cognitiva. Si tratta in sintesi di un processo nel quale le persone arrivano a sperimentare i pensieri semplicemente come pensieri, eventi passeggeri che non bisogna necessariamente controllare (Dahal, Stewart, Martell, Kaplan, 2013).

Anche se il concetto di defusione è solo uno dei processi previsti dall’ ACT e va quindi inserito e letto in un contesto più ampio e completo, anche osservarlo singolarmente stimola importanti riflessioni. Avvicinarsi alla consapevolezza che i pensieri possano essere visti in questa prospettiva può rappresentare infatti un punto di partenza per la comprensione dei comportamenti e delle forme di sofferenza che sempre più spesso interessano la nostra società. È utile quindi introdurre noi stessi all’idea che anche la mente mente, e che a volte è bene allenarsi a guardare le cose dalla giusta distanza, “giocare” con i pensieri ingombranti trattandoli per quello che sono, parole, perché – citando Shakespeare – “non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale” (Amleto, atto II, scena II).

AlterEgo: un nuovo strumento per riuscire a comunicare senza parlare

Alcuni ricercatori del Massachussetts Istitute of Technology (MIT) hanno sviluppato un sistema, chiamato AlterEgo, in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto di chi lo indossa per rispondere a domande che non sono state esposte esplicitamente tramite verbalizzazione.

 

Pensa silenziosamente ad una domanda e io ti risponderò.
Questo potrebbe sembrare un trucco magico, in realtà è ciò che promette di fare AlterEgo, un dispositivo in grado di decodificare i piccoli movimenti muscolari del volto per rispondere a domande che sono rimaste silenziose e inespresse nella mente di chi lo indossa. Attenzione, non legge la mente, ma il principio è molto simile.

AlterEgo: come funziona

Kapur e Maes (2018) hanno sviluppato un device computerizzato in grado di “leggere” e poi esprimere ciò che il soggetto verbalizza nella propria mente, senza però che sia espresso a parole. Il sistema, chiamato AlterEgo, è costituito da un apparecchio indossabile che si estende dall’orecchio alla bocca, appoggiato all’osso della mandibola, ed è associato ad un programma computerizzato.

In particolare, l’apparecchio contiene una serie di elettrodi in grado di rilevare i segnali neuromuscolari della mandibola e del volto determinati dalle verbalizzazioni interne che si verificano quando il soggetto pensa a ciò che sta per esternare. Questi segnali neuromuscolari, invisibili all’occhio umano, una volta rilevati vengono trasmessi ad un sistema di machine-learning che è stato progettato per associare specifici segnali a specifiche parole.

AlterEgo inoltre include un paio di cuffiette che trasmettono vibrazioni all’orecchio interno tramite la mandibola: dal momento che tali cuffiette non ostruiscono il canale auricolare, consentono al sistema di trasmettere informazioni a chi lo indossa senza che quest’ultimo sia distratto dalla “conversazione interna” o senza che esse interferiscano con l’esperienza uditiva di chi lo indossa. Il device è così parte di un più generale sistema computazionale che, in aggiunta, permette all’individuo di porre domande non verbalizzate e ricevere, dal computer, risposte silenziose anche a problemi computazionali complessi come è stato osservato in soggetti che utilizzavano AlterEgo durante una partita di scacchi.

[blockquote style=”1″]Lo scopo di tutto è stato quello di costruire un device di accresciuta intelligenza per rispondere ad una nostra domanda: è possibile creare una piattaforma computerizzata che sia più interna, che fonda la macchina artificiale con l’essere umano in una qualche maniera così da ottenere un’estensione della nostra cognizione?[/blockquote]

(Arnav Kapur, laureato al Media Lab del MIT, uno degli sviluppatori del sistema)

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Perchè nasce AlterEgo: quali possono essere gli utilizzi possibili

Fondamentalmente non siamo più in grado di vivere senza i nostri cellulari o i nostri apparecchi digitali, tuttavia, al momento, l’utilizzo di questi apparecchi non garantisce il massimo grado di efficienza.

Durante una discussione, per trovare argomenti rilevanti alla conversazione, è necessario prendere il cellulare, immettere la password se necessario, aprire un’applicazione o immettere una keyword per tentare di trovare l’informazione che si sta cercando, il tutto però interrompendo la conversazione con l’altro e costringendo la persona a focalizzare la sua attenzione sull’apparecchio e non più sull’interlocutore.

AlterEgo, secondo i suoi sviluppatori, nasce con l’intento di fornire alle persone un nuovo tipo di esperienza che consenta loro di beneficiare e di accedere in tempo reale, sul momento, alle informazioni migliori da utilizzare in una conversazione tramite un sistema veloce ed intelligente.

L’idea che le verbalizzazioni interne avessero correlati fisici risale agli anni 50 del Novecento, mai fino ad ora era però stata esplorata l’idea di decodificare le verbalizzazioni interne o “subvocalizzazioni” tramite un computer e un algoritmo.

Il primo passaggio è stato quello di determinare quale punti del volto costituissero una fonte dei segnali neuromuscolari più rilevanti, trovando che quattro specifici elettrodi su sedici, appoggiati alla mandibola, fossero in grado di distinguere parole subvocalizzate. Una volta selezionati gli elettrodi sulle porzioni salienti del volto, i ricercatori hanno iniziato a raccogliere dati tramite pochi task computazionali con un vocabolario piuttosto limitato, circa 20 parole (Kapur, Kapur & Maes, 2018). Ad ogni singolo task, i ricercatori del MIT hanno poi associato correlati neurali per trovare correlazioni tra particolari segnali neuromuscolari e specifiche parole.

Ricerche future dovranno raccogliere dati e creare delle applicazioni con un vocabolario molto più ampio e ricercato che possa consentire un giorni di compiere una completa conversazione.

I benefici dei sistemi come AlterEgo

Innanzitutto device simili ad AlterEgo potrebbero consentire di comunicare senza che vi sia il bisogno di verbalizzare e pertanto, secondo gli sviluppatori, permetterebbero di trasmettere informazioni in situazioni e in ambienti con un massiccio inquinamento acustico come ad esempio una cabina di pilotaggio di una portaerei o in fabbriche in cui i lavoratori per protezione indossano già delle protezioni per le orecchie. Un altro loro uso potrebbe riguardare i pazienti che sono stati sottoposti a interventi chirurgici invasivi che hanno compromesso la loro capacità di vocalizzare o comunicare normalmente a causa ad esempio di tumori ossei alla mandibola.

Mariah Carey, meglio un coming out che un pass away

Mariah Carey ha ammesso alla rivista People di soffrire da molti anni di disturbo bipolare II (la forma più attenuata, quella con episodi ipomaniacali invece che maniacali).

 

Quando mi chiedono che musica mi piace di solito rispondo in modo abbastanza riduzionistico “i cantautori italiani” con riferimenti ai grandi classici della musica d’autore (Guccini, De Andrè, Gaber, Capossela, etc.) o talvolta mi spingo a citare anche Dylan e qualche collega anglofono. In realtà il mio cuore musicale ospita anche singole canzoni che con quel mondo lì non c’entrano proprio niente e tra questi alcuni brani di Laura Pausini (anche questo per certi aspetti è un coming out…) e la canzone When you believe, interpretata magistralmente dalla buonanima di Whitney Huston e da Mariah Carey. La buonanima di Whitney Houston rientra purtroppo in quella lunga e macabra lista di artisti morti degli ultimi anni, che hanno perduto la propria battaglia personale con gravi disturbi psichiatrici o con qualche forma di dipendenza (non solo le classiche droghe, ma anche antidolorifici oppiacei, il cui abuso è diventato recentemente endemico negli Stati Uniti). Di questa sorta di “second wave” di decessi, che ormai compete con il famigerato “club dei 27” e con i martiri del rock di fine anni 60, fanno parte anche Prince, Dolores O’Riordan, Chris Cornell e Chester Bennington.

Di fronte a questa terribile lista di perdite di grandissimi artisti, il coming out di Mariah Carey che ha ammesso alla rivista People di soffrire da molti anni di disturbo bipolare II (la forma più attenuata, quella con gli episodi ipomaniacali invece che maniacali) paradossalmente risuona quasi come una buona notizia. La condivisione pubblica della propria condizione, sicuramente ben ponderata dopo anni di riflessioni, assume un grande significato e denota sicuramente una buona dose di consapevolezza e di capacità di tolleranza della vergogna e del giudizio altrui.

Recentemente ho avuto l’occasione di prendere parte a un corso di psicoeducazione sul disturbo bipolare (Colom e Vieta, 2016), una terapia di gruppo molto strutturata (purtroppo in Italia ancora poco diffusa) che ha la finalità di aiutare il paziente a riconoscere precocemente i sintomi prodromici delle ricadute e di gestire al meglio il disturbo. In uno dei primi incontri c’è proprio un piccolo spazio dedicato a citare bipolari “famosi”, con il messaggio che la malattia non deve essere per forza un limite. In questo senso il coraggioso racconto di Mariah Carey, una delle cantanti più note al mondo con duecento milioni di dischi venduti, rappresenta sicuramente un’iniezione di speranza per le persone affette da questo disturbo. La cantante ha raccontato di soffrire di disturbo bipolare da 17 anni e fa alcuni riferimenti alla sintomatologia degli episodi ipomaniacali come l’insonnia, l’irritabilità e l’iperattività (“Per molto tempo pensavo di avere un grave disturbo del sonno. Ma non era normale insonnia e non stavo sveglia a contare le pecore. Lavoravo, lavoravo e lavoravo… Ero irritabile”). Racconta di come la malattia l’abbia fatta sentire isolata per anni, come ulteriore conferma che il problema dello stigma delle malattie psichiatriche sia ancora una triste realtà anche in paesi apparentemente avanzati come gli Stati Uniti.

Uno dei passaggi sicuramente più pregnanti dell’intervista è quando la cantante dice “Ma mi rifiuto di lasciarmi definire o controllare dalla malattia”, una frase che probabilmente è una delle conquiste di un percorso psicoterapico personale. Speriamo che altri artisti seguano l’esempio di Mariah Carey. Ma soprattutto, lunga vita a Mariah!

Parla, mia paura (2017) – Recensione del libro di Simona Vinci su attacchi di panico e depressione

Cosa sono gli attacchi di panico? Cos’è la depressione? Il racconto autobiografico di Simona Vinci ci parla del suo percorso di lotta e cambiamento.

 

In “Parla, mia paura” Simona Vinci rende accessibile a tutti un tema difficile da trattare, esponendo le proprie difficoltà attraverso un racconto in prima persona; offre molteplici occasioni di rispecchiamento per chi ha sperimentato o si trova a sperimentare attacchi di panico e stati depressivi.

Ci parla di un fenomeno sempre più in espansione, qualcosa che va oltre i momenti di tristezza, paura, spaesamento, che vanno e vengono. Secondo le stime dell’organizzazione mondiale della sanità, il 4,4% della popolazione mondiale soffre di depressione e il 3,6% di disturbi d’ansia (la “grande famiglia” di cui fa parte anche l’attacco di panico), con una maggiore incidenza sulle donne rispetto agli uomini. In Italia soffrirebbero di ansia e depressione circa 7 milioni di persone (nello specifico: il 5% della popolazione soffrirebbe di disturbi d’ansia e il 5,1% di depressione). In pratica ogni 10 persone incontrate almeno una soffre di ansia e depressione, ma nonostante ciò difficilmente ce ne parlerà.

Simona Vinci, nel ripercorrere gli anni della sua vita, ricorda come inizialmente non abbia parlato con nessuno dell’esperienza sconvolgente che stava vivendo con gli attacchi di panico:

[blockquote style=”1″]l’impressione di cadere, di precipitare in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di morire[/blockquote]

Nel momento in cui prese la decisione di chiedere aiuto lo fece con un senso di vergogna, preoccupata che altri lo potessero scoprire. Prima come donna e poi anche come madre, narra di come la sua crescita personale si sia intrecciata con momenti faticosi e dolorosi. Lo fa attraverso una modalità che non risulta autoreferenziale, ma piuttosto di ricerca, includendo il lettore; c’è spazio per la sua storia ma anche per quella di tanti altri che si stanno chiedendo cosa significa soffrire d’ansia e di depressione. Forse, nel tentativo di offrire un senso di vicinanza e di comprensione tipico del automutuoaiuto, l’autrice ci tiene a rimarcare la soggettività che caratterizza le diverse modalità in cui si può vivere questa forma di disagio. Simona Vinci è capace di mettere da parte ogni pregiudizio, anche quello più diffuso nei confronti di chi si affida anche a cure psicofarmacologiche.

Descrive così un cambiamento che passa attraverso la richiesta di aiuto e lo sviluppo di una maggiore consapevolezza rispetto alla propria condizione e alle proprie possibilità. Con grande autenticità non disconosce il ruolo personale nel costruirsi barriere e ostacoli immaginati, ma individua nella narrazione di sè una chiave fondamentale per poter aprire la porta della propria gabbia. Una narrazione che non avviene in solitaria ma che prevede, come in psicoterapia, un interlocutore capace di attivare un ascolto profondo di quel racconto.

L’autrice dedica un intero capitolo, “La stanza dell’analista”, al racconto delle preziose scoperte che avvengono grazie al percorso terapeutico che faticosamente decide di intraprendere, un periodo di trasformazione che riconduce al rapporto con le proprie paure.

Disturbi del comportamento dirompente: tratti calloso-anemozionali e basi neurali

I Disturbi del Comportamento Dirompente, le cui più note espressioni si ritrovano nel Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC), sono patologie con sviluppo precoce che possono evolversi in più gravi disordini comportamentali appartenenti alla sfera della personalità antisociale.

 

Nello studio dei Disturbi del Comportamento Dirompente sono state considerate diverse variabili che vanno da fattori biologici a quelli più prettamente psicosociali e sono state proposte osservazioni psicologiche e neuroscientifiche in grado di descrivere in parte i meccanismi all’origine delle difficoltà comportamentali riscontrate durante lo sviluppo.

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta (DC) possono trovarsi in associazione, dal momento che è stato osservata, in modo significativo, la presenza di comportamenti oppositivo-provocatori in giovani che hanno successivamente sviluppato problemi di condotta, tuttavia non ci sono consensi unanime a conferma del fatto che un Disturbo Oppositivo Provocatorio presente durante l’infanzia avrà necessariamente un’evoluzione in un Disturbo della Condotta.

La classificazione del Disturbo Oppositivo Provocatorio

Diversi autori hanno avanzato proposte di classificazione del Disturbo Oppositivo Provocatorio sulla base di aspetti temperamentali e comportamentali che variano da soggetto a soggetto e che possono successivamente presentare manifestazioni problematiche nella condotta. Burke e colleghi (2010) hanno suddiviso il disturbo in due tipologie: il DOP negative affect con facilità ad impermalosirsi, arrabbiarsi e ad essere dispettoso, spesso associato a psicopatologia depressiva, e il DOP opposition con tendenza alla perdita di calma, alla sfida e alla discussione e primariamente associato a problemi di condotta.

Similmente Stringaris e Goodman (2009) hanno proposto tre sottogruppi. Il primo, il DOP irritable, si caratterizza per essere facilmente infastidito, arrabbiato e risentito, e le manifestazioni comportamentali riguardano principalmente scoppi d’ira frequenti; il DOP headstrong, testardo, vìola le regole, discute con gli adulti, infastidisce intenzionalmente gli altri dando spesso loro la colpa delle proprie azioni; infine, il DOP hurtful rivela connotati aggressivi e di insensibilità. É chiaro che tali suddivisioni abbiano carattere per lo più descrittivo, in quanto è possibile che diverse manifestazioni temperamentali e comportamentali si sovrappongano l’una con l’altra creando patterns specifici per ciascun soggetto; ciononostante considerare tali aspetti in modo distinto potrebbe aiutare a comprendere più nel dettaglio il disturbo in tutte le sue varianti psicopatologiche e proporre interventi appositi.

I Disturbi del Comportamento Dirompente e i tratti calloso-anemozionali

Un altro fattore preso in considerazione nello studio dei Disturbi del Comportamento Dirompente riguarda i tratti calloso-anemozionali (callous-unemotional, CU), da sempre considerati elementi cruciali nella psicopatia (Frick, 2008) e caratteristici di quei soggetti, bambini e adolescenti, che mostrano mancanza di senso di colpa, mancanza di empatia e superficialità emotiva, e che possono ritenersi un sottogruppo specifico di Disturbi del Comportamento Dirompente con rischio aumentato di evoluzione in personalità antisociale.

I tratti calloso-anemozionali sono stati presi in esame per comprendere i motivi alla base della disregolazione emotiva che si ritrova in alcuni soggetti con problemi di condotta mentre in altri no, e il ruolo che riveste l’aggressività in tali manifestazioni emotive. L’insensibilità ai vissuti degli altri, l’assenza di senso di colpa e quindi la tendenza alla manipolazione che si ritrova nei soggetti con tratti calloso-anemozionali, conducono all’idea che l’aggressività sia strumentale al raggiungimento dei propri scopi (aggressività proattiva) e dunque è raro assistere a disregolazioni emotive eccessive. Viceversa, individui con problemi nella sfera della condotta che non presentano tratti calloso-anemozionali, mostrano un’aggressività di tipo reattivo che si palesa a seguito di situazioni sociali attivanti (provocazioni, umiliazioni ecc.) ed è stata associata a contesti ambientali sfavorevoli ed a inefficienza nelle cure parentali (Wootton, 1997). La difficoltà nella regolazione emotiva potrebbe trovare origine in una forte suscettibilità a situazioni sociali emotivamente attivanti che si traduce in agiti impulsivi a seguito dei quali il bambino/adolescente, senza tratti calloso-anemozionali, potrebbe provare pentimento.

Disturbi del Comportamento Dirompente: esiste una causa biologica?

Da un punto di vista neuroscientifico, sono stati condotti molti studi che hanno suffragato l’ipotesi di una causa biologica alla base dell’insorgenza del Disturbo Oppositivo Provocatorio e del Disturbo della Condotta.

Sappiamo che il bambino, affinché sviluppi capacità sociali che gli permettano di far parte di un gruppo, deve accrescere la sensibilità agli stimoli-ricompensa che lo spingano a mettere in pratica con maggiore probabilità comportamenti ritenuti socialmente adeguati e, allo stesso tempo, ha la necessità di imparare ad astenersi da comportamenti inappropriati attraverso un’adeguata elaborazione delle conseguenze che certi tipi di comportamento avranno su di sé e sugli altri.

Disturbi del Comportamento Dirompente e sensation seeking

Recenti ricerche forniscono dati a sostegno di una ridotta sensibilità alla ricompensa in soggetti con Disturbi del Comportamento Dirompente (DOP o DC) e ciò potrebbe spiegare il perché tali soggetti ricerchino costantemente sensazioni forti (sensation seeking) attraverso la trasgressione di regole e, in generale, attraverso comportamenti socialmente inadeguati: le normali attività fonte di piacere in soggetti sani (come la condivisione, il gioco ecc.) non produrrebbero il medesimo effetto piacevole rendendo dunque necessaria la ricerca di sensazioni di grado più intenso. La difficoltà nell’elaborazione della ricompensa e il fenomeno di sensation seeking potrebbero trovare origine dalla riduzione dell’attività della corteccia orbitofrontale che è stata riscontrata in soggetti con Disturbo della Condotta, dal momento che questa area è deputata all’elaborazione degli stimoli associati a ricompensa e una sua disfunzione potrebbe favorire la propensione alla frustrazione e conseguenti agiti aggressivi (Blair, 2004).

È stata inoltre osservata una ipoattivazione del sistema autonomo che interessa la frequenza cardiaca a riposo, la quale associata a disfunzioni dei circuiti della ricompensa fornirebbe spiegazioni aggiuntive circa la difficoltà da parte di soggetti con Disturbo della Condotta ad esperire sensazioni piacevoli per attività che soggetti sani giudicano piacevoli e avere quindi una tendenza a comportamenti delinquenziali (fino a vera e propria antisocialità) per far fronte a sensazioni di noia.

L’ emozione di paura

Anche l’inibizione di comportamenti ritenuti socialmente inopportuni riguarda aree cerebrali specifiche, la cui attività è risultata deficitaria in soggetti con Disturbo della Condotta. Un bambino, affinché comprenda l’impatto di alcuni comportamenti verso se stesso e verso gli altri, e quindi impari a valutare in maniera appropriata stimoli negativi, ha bisogno di sviluppare la capacità di prevedere le ripercussioni sfavorevoli a seguito di determinati comportamenti e ciò può essere agevolato da una certa sensibilità all’emozione di paura. L’emozione di paura, come le altre emozioni di base, possiede una forte funzione informativa circa l’ambiente esterno (gli altri, il mondo) e interno (vissuti personali, stati mentali) e come tale può influenzare il modo in cui ci comportiamo e rapportiamo con i nostri simili. Una buona elaborazione della paura è estremamente importante al fine dell’adattamento, in quanto ci preserva da agiti e situazioni che potrebbero minare la nostra sicurezza, sia fisica (pericoli ambientali/situazionali) che psichica (allontanamento/esclusione sociale), rivestendo dunque un ruolo vitale per la sopravvivenza.

A livello neurobiologico, a spiegazione della mancata acquisizione di consapevolezza dei propri agiti socialmente negativi, è stata osservata una riduzione di sostanza grigia nell’amigdala (principale aree di elaborazione della paura) in adolescenti con problemi di condotta con e senza psicopatia, molti dei quali mostravano comorbilità con il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). L’insensibilità all’emozione di paura è causa di aumentato rischio di problemi nella socializzazione, poiché non cogliendo i segnali informativi che fornisce tale emozione, sarà difficile per il bambino o adolescente inibire comportamenti pericolosi. La ridotta capacità di cogliere segnali interni (“questo comportamento è rischioso, potrei farmi male”) ed esterni (“capisco che quel bambino ha paura a causa di un mio comportamento, rischio di essere escluso”) o ancora l’incapacità di prevedere esiti negativi futuri (“questo comportamento potrebbe provocare conseguenza negative per me stesso, meglio non metterlo in atto”), aumenta il rischio di sviluppare gravi problemi di socializzazione che potrebbero incrementare la sensazione di esclusione e una riprovevole immagine di sé (“sono cattivo, nessuno vuole stare con me”).

Il ruolo delle funzioni esecutive nei Disturbi del Comportamento Dirompente

Sempre da un punto di vista neuroscientifico, l’inibizione di comportamenti socialmente inopportuni a favore di comportamenti pro-sociali, necessita di un controllo cognitivo che viene attuato attraverso le funzioni esecutive. Le funzioni esecutive sono quei processi mentali quali attenzione, pianificazione, memoria di lavoro, inibizione di risposte inappropriate, flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti ambientali, decison making, il cui compito principale è quello di ottimizzare le risorse mentali ed il comportamento in un ambiente in continuo mutamento.

La porzione cerebrale sede delle funzioni esecutive è la corteccia prefrontale, sebbene esistano moltitudini di interconnessioni neuronali tra aree frontali ed aree sottocorticali coinvolte anch’esse nel controllo inibitorio, decision making e attenzione, oltre che nel circuito della ricompensa. In soggetti con Disturbi del Comportamento Dirompente, in particolare con Disturbo della Condotta è stata trovata una riduzione di sostanza grigia nelle aree prefrontali; in aggiunta, una ipoattivazione nei lobi frontali è stata ripetutamente associata a violenza, nello specifico è stato riscontrato che un danno alla corteccia orbitofrontale porta ad aggressività impulsiva (Brower, 2001).

Disturbi del Comportamento Dirompente: l’importanza dell’ambiente

Come in molti disturbi psicopatologici, i Disturbi del Comportamento Dirompente presentano cause multifattoriali ancora non del tutto chiare e spiegabili. La neurobiologia fornisce una chiave di lettura importante nella comprensione di queste manifestazioni comportamentali invalidanti da un punto di vista sociale e psichico, le quali possono avere una prognosi favorevole se individuate per tempo e trattate con terapie mirate.

Ad esempio, molti studi hanno ipotizzato un ruolo cruciale dell’ambiente nel plasmare i tratti calloso-anemozionali, presupponendo che insensibilità e mancanza di empatia, in associazione ad agiti aggressivi, siano il prodotto di una storia evolutiva caratterizzata da abuso o rifiuto da parte delle figure genitoriali, incapaci di accudire la prole o apertamente maltrattanti. Crescere in un ambiente privo di vicinanza e intimità, rende difficile lo sviluppo di capacità empatiche e abilità sociali; deficit d’empatia in aggiunta a fattori di vulnerabilità biologica vanno così a facilitare l’insorgenza di gravi disturbi comportamentali, i quali a loro volta condurranno il soggetto a una progressiva esclusione sociale, incrementando il rischio di un’evoluzione antisociale.

Un’intervento tempestivo che aiuti l’individuo ad incrementare l’empatia, sostenendolo nello sviluppo di una Teoria della Mente e nell’accrescimento delle abilità sociali, intervenendo inoltre sul contesto e sulle dinamiche familiari, è un passo fondamentale affinché la prognosi risulti favorevole e il bambino/adolescente tragga benefici a livello psicologico e sociale.

Bambini piccoli e attesa: a che età imparano?

Oltre 40 anni dopo il Marshmallow Test, un team di ricercatori polacchi ha compiuto uno studio, che ha testato la capacità di gratificazione differita in bambini piccoli mostrando che le differenze individuali nell’autoregolazione comportamentale sono evidenti già a 18 mesi. 

Il Test dei Marshmallow è uno degli esperimenti classici della psicologia del comportamento. Ideato da Walter Mischel, intendeva testare l’abilità di ritardare la gratificazione immediata -per ottenerne una maggiore in seguito- dei bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni; in questo modo è stato introdotto il concetto di gratificazione differita.

L’autrice dello studio Marta Bialecka-Pikul e il suo gruppo di ricerca hanno reclutato 130 piccoli partecipanti di 18 mesi e i loro genitori per replicare l’esperimento di Mischel. I ricercatori hanno seguito la procedura sperimentale originale: un dolcetto era posto su un tavolo di fronte al bambino che, vista la tenera età, sedeva in grembo al genitore a cui era chiesto espressamente di non intervenire in alcun modo; dopo ciò lo sperimentatore abbandonava la stanza per farvi ritorno dopo 60 secondi. La ricerca è stata ripetuta una seconda volta, quando i bambini avevano 24 mesi, aumentando il tempo di attesa a 90 secondi.

Da bambini la resistenza alle tentazioni aumenta con l’età?

I risultati mostrano come a 18 mesi il 23% del campione resisteva alla tentazione mentre invece a 24 mesi la percentuale saliva al 55%. Dalle analisi appare una traiettoria di sviluppo molto chiara: la maggior parte dei bambini che avevano ceduto alla tentazione nella prima fase riuscivano nell’impresa a 24 mesi mostrando di aver acquisito un maggior autocontrollo con l’avanzare del tempo. La tendenza a “retrocedere” invece era rara: solo l’8% infatti di coloro che avevano svolto la prova con successo a 18 mesi fallivano nel re-test.

Un elemento interessante emerge dalla codifica dei video: sono stati rilevati infatti 20 diversi tipi di comportamenti manifestati durante l’attesa tra i quali: osservare il dolce, manipolarlo, parlare del piacere che si proverebbe nel mangiarlo, distrarsi, toccare il proprio corpo o quello del genitore. Gli autori hanno raggruppato questi comportamenti formando 4 categorie principali:

  • attenzionale e basata sul movimento
  • comunicativa
  • focalizzata sulla ricompensa
  • non specificata (agitarsi e fare rumori).

Tra tutte, la prima categoria era fortemente correlata al successo nel compito in entrambe le fasi sperimentali come hanno affermato gli stessi ricercatori:

[blockquote style=”1″]Guardarsi attorno, focalizzare l’attenzione su altri oggetti o toccare sé stessi si è rivelato essere l’insieme di comportamenti che hanno aiutato maggiormente i bambini durante l’attesa [/blockquote]

Le evidenze emerse suggeriscono che già a 18 mesi i bambini affrontano attivamente il compito, non risultando partecipanti passivi alla procedura ma anzi applicando diversi comportamenti con vari gradi di efficacia. Quello che si è osservato solo nella fase dei 24 mesi è che i piccoli partecipanti mostravano meno attenzione alla ricompensa, attuando gli altri tipi di comportamento ed in particolar modo lo spostamento dell’attenzione.

Gli autori hanno concluso affermando che l’abilità di gratificazione differita nei bambini piccoli è in gran parte dovuta a un insieme di comportamenti attenzionali che vengono utilizzati come strategie di autoregolamentazione, le quali si svilupperebbero proprio durante il secondo anno di vita.

Correlazioni fra quantità e qualità del sonno e performance scolastiche nell’adolescenza

Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano: le ore di sonno diminuiscono ma il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. Questi cambiamenti si ripercuotono sul rendimento scolastico: la diminuzione delle ore di sonno e riposo è correlata a scadenti performance scolastiche.

 

Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano. Questo è dovuto ad una variazione dei meccanismi neurofisiologici, che regolano il sonno e il ritmo circardiano. Solitamente gli adolescenti vanno più tardi a letto, cambiando le abitudini che avevano nella fanciullezza. In ragione di ciò le ore di sonno diminuiscono con il progredire dell’età, anche se il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. I cambiamenti relativi alla quantità e alla qualità del sonno si ripercuotono sul rendimento scolastico. In pratica, una diminuzione delle ore di sonno e del tempo dedicato al riposo è correlata a delle performance scolastiche scadenti.

Keywords: adolescenza, quantità e qualità del sonno, performance scolastiche.

Sonno: cosa cambia negli adolescenti

Nel periodo adolescenziale le abitudini relative al sonno cambiano. Questo è dovuto ad una variazione dei meccanismi neurofisiologici, che regolano il sonno e il ritmo circardiano (Galvan e al., 2012). Solitamente gli adolescenti vanno più tardi a letto, cambiando le abitudini che avevano nella fanciullezza. In ragione di ciò le ore di sonno diminuiscono con il progredire dell’età, anche se il bisogno di ristoro derivante dal sonno rimane lo stesso. Molti adolescenti riferiscono in ricerche condotte a tale scopo (Spilsbury e al., 2015) che la quantità delle loro ore di sonno non è sufficiente per dare loro la sensazione di aver riposato bene.

L’ adolescenza, inoltre, corrisponde al periodo in cui si comincia la scuola secondaria di secondo grado e questo induce dei cambiamenti di vita che incidono sulle ore di riposo. In pratica, gli adolescenti frequentano degli istituti scolastici che sovente sono ubicati ad una distanza maggiore dalla loro abitazione rispetto alla scuola secondaria di primo grado dei precedenti anni scolastici, per cui per raggiungere la nuova scuola devono alzarsi prima al mattino. Parrallelamente aumenta anche l’impegno e il tempo dedicato ai compiti a casa e ciò sottrae tempo allo spazio riservato all’eventuale riposo pomeridiano.

In aggiunta, gli adolescenti spendono parte del loro tempo ad utilizzare gli strumenti elettronici, in particolare lo smarthphone. Recenti ricerche hanno dimostrato una correlazione significativa fra uso eccessivo dello smarthphone e peggioramento della qualità del sonno (Hysing e al., 2015), con relativi riverberi negativi sulle abituali attività quotidiane.

Qualità del sonno e rendimento scolastico

Per questo motivo, molti ragazzi vivono una condizione di deprivazione del sonno nel corso della settimana, come molti studi hanno messo in evidenza (Boschloo e al., 2013; Sivertsen e al., 2014). Tali variazioni relative alla quantità e alla qualità del sonno si ripercuotono sul rendimento scolastico. Innumerevoli ricerche hanno evidenziato che una diminuzione delle ore di sonno e del tempo dedicato al riposo è correlata a delle performance scolastiche scadenti (Dewald e al., 2010; Perkinson – Gloor e al., 2013).

Nello specifico, gli effetti della mancanza di sonno inficiano le abilità neuropsicologiche degli adolescenti (Jones e harrison, 2001), la loro capacità di autoregolazione (Turnbull e al, 2013) e di autocontrollo (Digdon e Howell, 2008).

In conclusione, si può affermare che esiste una correlazione diretta nel periodo adolescenziale fra quantità e qualità del sonno e performance scolastiche (Nije Bijvank e al., 2017).

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