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Ricordo di Jeremy Safran

Jeremy Safran, 66 anni, è stato ucciso da un rapinatore nella sua casa di Brooklyn. Sconvolti e addolorati siamo vicini a sua moglie Jenny e alle loro figlie. Jeremy era un amico, un uomo delicato e un ricercatore straordinario.

di Vittorio Lingiardi, SPR Italia

 

Jeremy Safran insegnava Psicologia alla New School for Social Research di New York, era direttore di ricerca al Beth Israel Medical Center di New York. È stato Presidente dell’International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy (IARPP) e da sempre socio attivo della Society for Psychotherapy Research (SPR). A lui, con Christopher Muran, dobbiamo le ricerche e le intuizioni più brillanti sull’alleanza terapeutica e sui meccanismi di rottura e riparazione che regolano la relazione terapeutica. Due suoi libri sono tradotti in italiano: Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (Laterza, 2003) e Psicoanalisi e terapie psicodinamiche (Raffaello Cortina, 2013).

“Non sono mai stato a mio agio nell’identificarmi esclusivamente in una tradizione terapeutica, e i miei scritti fanno trasparire una predilezione dello stare al confine tra i vari orientamenti”, scriveva. È vero, Jeremy ha saputo integrare non solo diverse anime (di ricercatore, di teorico e di clinico), ma anche diversi approcci scolastici (il cognitivismo, le teorie interpersonali, la psicoanalisi relazionale). Il pluralismo di Jeremy non è mai una semplificazione, bensì la capacità di cogliere significati condivisi in linguaggi differenti. Una delle cose che maggiormente colpisce chi legge i suoi lavori è l’impressione “evolutiva” del percorso, la capacità di esprimere attraverso i propri scritti le trasformazioni del proprio pensiero, a partire dalla lunga collaborazione con Leslie Greenberg all’inizio degli anni Ottanta.

L’integrazione non come fine da perseguire in modo ideologico, ma come risultato di una ricerca personale, clinica e concettuale. Ma è la ricerca sui processi di rottura e riparazione dell’alleanza a rappresentare la quinta essenza del suo pensiero e della sua proposta clinica. Nella sua concettualizzazione dei processi di rottura e riparazione, infatti, ritroviamo la sua attenzione per gli aspetti emotivi dell’esperienza di paziente e terapeuta, per la dimensione interpersonale del lavoro clinico, per il qui ed ora della relazione terapeutica. Il suo lavoro segna il passaggio da una concezione “buonista” dell’alleanza a una concezione dinamica e costruttivista: l’alleanza non come requisito a priori, ma come tensione processuale e negoziazione continua che in alcuni casi, per esempio nel trattamento di pazienti con disturbi gravi di personalità, può costituire il fine del trattamento stesso.

La concettualizzazione di alleanza proposta da Safran e Muran si basa su un’importante componente di verifica empirica, la Task Analytic Investigation, per cui il processo terapeutico è descrivibile come una sequenza di eventi che si ripetono come pattern identificabili nel corso delle sedute. Questo tipo d’indagine permette di costruire modelli clinici in grado di descrivere i diversi modi di rottura dell’alleanza (per ritiro o confrontazione) e gli stadi che ne caratterizzano la risoluzione. Il significato di ogni fattore tecnico può dunque essere compreso solo nel contesto relazionale in cui viene applicato, e le indicazioni tecniche fornite dagli autori non sono prescrizioni standardizzate di tipo manualistico, ma esperienze vissute nella cornice relazionale. Jeremy è stato capace di integrare le nostre diverse anime di teorici, di clinici e di ricercatori. Ha pensato clinicamente e ha verificato empiricamente le sue idee al fine di fornire nuove indicazioni alla pratica clinica.

Da tempo si era avvicinato alle filosofie orientali e in particolare al buddismo (tra i suoi lavori ricordo il libro del 2003 Psychoanalysis and Buddhism: An Unfolding Dialogue). Cercava di accettare e apprezzare le cose per quello che sono, non per passività, ma per coglierne l’essenza. Diceva che nell’accostarsi al paziente era necessario avere “la mente del principiante”. Ci mancherà immensamente e lo abbracciamo commossi nel ricordo della sua tensione spiriturale forte quanto la sua passione empirica.

Assessment in età evolutiva: aspetti strategici e procedurali – Report del convegno di Palermo

L’assessment in età evolutiva e la sua particolare complessità, sono stati il focus dei lavori nel convegno di Palermo del 21-22 aprile scorsi, condotto da Giuseppe Romano.

La psicoterapia cognitiva si occupa, fin dalle sue origini, di valutazione e trattamento dei disturbi psichici, lungo tutto l’arco di vita. In questo contesto l’Assessment, in quanto prima fase valutativa, si pone come momento indispensabile per indagare il funzionamento globale della persona, attraverso la raccolta di informazioni provenienti da diverse fonti (test, colloqui, osservazione del comportamento), al fine di potere migliorare la qualità di vita della persona, scegliere le modalità di psicoterapia più efficaci e decidere circa l’opportunità della presa in carico.

Condurre un buon assessment è un processo complesso e unico per ciascun paziente; l’età evolutiva pone specifici problemi, relativi alle peculiari modalità con cui il disagio si manifesta e al rilevante coinvolgimento dei genitori, fondamentale per una raccolta funzionale dei dati.

Di assessment in età evolutiva si è parlato nella due giorni di formazione organizzata il 21 e il 22 aprile scorsi dall’Istituto Gabriele Buccola (IGB), Scuola di Psicoterapia Cognitiva, sede di Palermo, corso aperto ai professionisti di tutti gli approcci.

Assessment in età evolutiva: le peculiarità

Apre i lavori il docente Giuseppe Romano, Psicologo, Psicoterapeuta e Docente presso l’IGB:

[blockquote style=”1″]Condurre un Assessment in età evolutiva è alquanto complesso. La complessità del periodo dell’età evolutiva, la necessità di dover acquisire informazioni da più fonti (giovane paziente, genitori, insegnanti, ecc.) e la scarsa disponibilità da parte del bambino e/o dell’adolescente a intraprendere un percorso di psicoterapia, rende difficile realizzare questa prima fase. Riguardo alla complessità della fase evolutiva è importante sottolineare come il livello di sofferenza provata dal bambino sia più che altro espresso in forma privata: ecco che i disturbi d’ansia nei piccoli sono spesso nascosti, mentre vi è un’inflazione enorme dei disturbi del comportamento. Per quanto riguarda invece la raccolta delle informazioni dalle fonti, il discorso si fa anche qui complesso: infatti ciò che viene riferito dalle madri, dalle quali solitamente proviene la richiesta di aiuto, può essere travisato dalle loro valutazioni soggettive su quale sia il problema del figlio. In particolare, mi ricordo di una madre che si lamentava del supposto comportamento problematico della figlia (eccessiva vivacità), ma non delle occasioni rappresentative di effettivo disagio, come quelle in cui questa stava in silenzio anche per tre giorni di fila in gita scolastica, poiché era solo la vivacità della piccola a creare in lei disagio[/blockquote]

Una raccolta di informazioni minuziosa, che non può lasciare nulla al caso, e che si avvale a tal fine altresì di specifici strumenti testistici, quali il Parental Bonding Instrument di Parker (utile nell’esaminare il costrutto dell’attaccamento nella dimensione dell’accudimento e dell’iperprotettività), al fine di trarre una concettualizzazione o formulazione del caso che orienti verso il da farsi.

[blockquote style=”1″]Un buon assessment ci permette di giungere alla formulazione del caso, un modello che fotografa, per così dire, il funzionamento del disturbo (quando compare, quali pensieri ed emozioni vengono attivati, che problemi apporta) così da inferire cause e meccanismi di mantenimento che contribuiscono alla sua fissazione nel tempo, ostacolando una risoluzione spontanea, con un’attenzione ai temi di vita centrali (le credenze ad esempio sull’unità familiare, da indagare con strumenti quali il genogramma). In una prospettiva cognitiva, il terapeuta indaga il profilo interno del disturbo, ovvero gli stati mentali e le credenze che rendono ragione del funzionamento del problema presentato, attraverso la ricostruzione degli ABC, o sequenza dei pensieri disfunzionali di Beck. Mi preme qui sottolineare come le conseguenze apportate dal disturbo vengano adoperate strategicamente per la fase di trattamento, per motivare il paziente a superare il problema, puntando l’attenzione, per esempio, sulle mani distrutte dal sapone. In ultimo, una buona formulazione del caso permette di ottenere informazioni sugli elementi della storia di vita del paziente che hanno favorito la nascita, l’insorgenza del problema (vulnerabilità storica) e su quelli che, oggi, rendono il soggetto vulnerabile a una ricaduta nel disturbo (vulnerabilità attuale)[/blockquote]

continua Romano.

Assessment in età evolutiva: il fondamentale coinvolgimento dei genitori

Una descrizione del problema che non trascura i punti di forza e l’analisi delle risorse utilizzate dal paziente per far fronte al disagio, e che coinvolge i genitori verso la presa di coscienza della disfunzionalità dei pensieri alla base del disturbo presentato dal figlio e la fattiva collaborazione lungo tutto il processo terapeutico.

[blockquote style=”1″]Ai genitori viene chiesto un lavoro di collaborazione attraverso cui sostituire i pensieri dannosi con altri più funzionali, comprendendo insieme le ragioni storiche o situazionali che rendono certe situazioni problematiche, al fine di acquisire nuove strategie comportamentali ed emotive di gestione del comportamento del figlio. I genitori vengono altresì chiamati a valorizzare e chiarire a sé stessi il reale contributo e operato dello psicologo, attraverso precisi accordi sulla frequenza degli incontri con il bambino/ragazzo e con i genitori stessi, nonché sui tempi di verifica dei risultati, alla ricerca eventuale di nuove strategie utili al benessere dell’intera famiglia[/blockquote]

conclude Romano.

Assessment in età evolutiva - Report del convegno di Palermo-foto1

Oltre la fragilità psicologica: la genetica del suicidio

Attualmente in tutto il mondo, il suicidio è una tra le prime tre cause di morte tra i soggetti della fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni. Ogni anno il suicidio causa circa un milione di morti; stando alle stime dei dati attuali e all’analisi dei dati epidemiologici mondiali, il numero sembrerebbe salire drammaticamente ad un milione e mezzo di morti nel 2020 (Who.int).

Mara Di Paolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

Introduzione: il suicidio tra aspetti psicologici, sociali e biologici

Nel 2000 circa un milione di individui è morta per suicidio, ma un numero di soggetti variabile tra le 10 e le 20 volte maggiore ha tentato il suicidio (Who.int). Questo significa, che in media ogni 40 secondi vi è una morte per suicidio e ogni 3 secondi un tentato suicidio al mondo.

Ma che cos’è il suicidio? Con il termine suicidio ci si riferisce ad una serie di comportamenti autolesivi, che se pur condividono le stesse motivazioni,vengono etichettati diversamente in base al livello di intenzionalità della ricerca della morte. Lungo un continuum che va dalla massima all’incerta intenzionalità nella ricerca della morte, troviamo: il suicidio, l’atto che porta alla morte, frutto di un pensiero volontario e consapevole; il mancato suicidio in cui la morte è stata schivata solo grazie all’intervento di fattori protettivi estranei al soggetto; il  tentato suicidio in cui l’intenzione suicidaria è sfumata e ambivalente; il parasuicidio in cui l’autolesione non è legata ad un certo ed evidente intento ad autosopprimersi.

Lo psichiatra Esquirol, nei primi dell’Ottocento, asseriva: “ritengo di aver dimostrato che un uomo non attenta alla propria vita se non è in delirio e che i suicidi sono degli alienati”. Questa tesi del suicidio a sfondo patologico è stata per molto tempo l’opinione dominante non solo tra i professionisti della salute mentale, ma anche tra le persone comuni. La tesi del suicidio a sfondo patologico è stata smontata nel corso del tempo in modo massiccio grazie al contributo di più studiosi, provenienti da ambiti diversi, non solo clinici, ma anche sociologici come le vaste indagini di Durkheim, oppure quelle orientate in senso psicoanalitico (Freud, Adler). Un ulteriore contributo lo hanno dato: Schwartz con il concetto di “Bilanzselbstmord” (un tirare le somme tra aspetti positivi e negativi dell’esistenza); Reichardt con l’assunto che il suicidio è comprensibile per “motivi psicologici normali”, Deshaies con l’atto di “psicologia totale”. Infine il contributo dello psichiatra Karl Jaspers che, antesignano di un approccio fenomenologico alla psichiatria, nel corso della prima metà del Novecento ha finalmente concluso che la malattia mentale non è condizione necessaria del fenomeno suicidale.

Da qui in poi molti altri contributi si sono sommati a questi e hanno fatto sì che ora si consideri il suicidio come un fenomeno molto complesso, determinato da un’eterogeneità di fattori e dall’interazione di questi. Infatti oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ritiene il suicidio come il risultato del combinato disposto di aspetti biologici, genetici, ambientali, culturali, sociali e psicologici.

Tale complessità fenotipica è espressa in maniera precipua nel modello-interpretativo a sovrapposizione di S. J Blumenthal (1988) che descrive cinque aree di vulnerabilità suicidaria:

  1. Disturbi psichiatrici: tra i pazienti con disturbi umorali che si suicidano possono esserci sia i depressi, che i bipolari, soprattutto i pazienti bipolari che non seguono una terapia sono a rischio suicidio. Tuttavia secondo uno studio recente dell’OMS, le malattie psichiatriche correlate con il suicidio sono: disturbi affettivi 30-65%, disturbi d’ansia e disturbi di personalità 10%, abuso di alcol e sostanze 25%, schizofrenia 4,9-13%, altri disturbi psichici 15%, disturbi del comportamento alimentare 1,8-7,3%, nessuna diagnosi psichiatrica 6%;
  2. Tratti di personalità;
  3. Fattori psicosociali e ambientali;
  4. Elementi genetici e familiari.

I sistemi neurobiologici, coinvolti nell’eziopatogenesi del comportamento suicidario sono: il sistema serotoninergico, il sistema noradrenergico, il sistema neuroendocrino e il sistema dopaminergico. La serotonina, la dopamina, la noradrenalina sono neurotrasmettitori monoaminergici, la loro presenza in determinate aree cerebrali è connessa a determinate funzioni. Alterazioni di questi sistemi, sono implicate nell’insorgenza di diverse psicopatologie come nei sintomi depressivi. Risulta così possibile che alcuni soggetti in cui siano presenti il maggior numero di questi fattori, siano considerati a rischio suicidio più di altri.

Un focus sui fattori genetici del suicidio

Il genotipo rappresenta la costituzione genetica di ciascun individuo, esso è diverso da soggetto a soggetto, tranne nei gemelli monozigoti, in cui è identico. Genitori e figli hanno il 50% del genotipo in comune, i fratelli compresi i gemelli eterozigoti, ne hanno in comune il 25-50% , mentre in generale da una generazione ad un’altra, la quantità di genotipo in comune si dimezza. Va precisato che quando si parla di diverso genotipo, ci si riferisce non ad avere geni diversi, ma possedere diverse varianti dello stesso gene, dette “alleli”. Uno studio familiare condotto da Tsung nel 1983, ha dimostrato che il rischio suicidio nei parenti di primo grado di pazienti psichiatrici era otto volte superiore a quello di persone sane. La metà dei pazienti affetti da diversi disturbi mentali e familiarità positiva per suicidio hanno almeno un tentato suicidio in anamnesi. Uno studio familiare successivo del 1985, di Egeland e Sussex, ha per la prima volta evidenziato che il ruolo della genetica nel suicidio potrebbe essere indipendente da malattie mentali.

Studi successivi hanno dimostrato che più persone con una storia familiare di tentati suicidi e suicidi, commettevano un suicidio in misura maggiore di persone con una storia familiare di psicopatologie senza suicidi in anamnesi, oltre ad aver riscontrato un tasso elevato di psicopatologie tra i bambini di genitori che commettevano un suicidio (Mitterauer et al. 1988; Qin et al., 2003, Runeson e Abserg, 2003). Inoltre i bambini di genitori con condotte suicidarie o una storia di comportamenti suicidari nei fratelli sono risultati essere più inclini a rischio suicidario (Brent et al; 2003). Questi studi familiari hanno dunque concluso che una storia familiare di suicidi è un maggior fattore di rischio suicidario, indipendentemente dalla psicopatologia. Gli studi gemellari confermano i risultati degli studi familiari, vedendo una predisposizione genetica per il suicidio.

Una metanalisi (Roy et al 1991), degli studi gemellari pubblicata in letteratura indica che la concordanza per comportamento suicidario nei gemelli monozigoti (gemelli geneticamente identici) è del 13,2% contro lo 0,7% dei gemelli eterozigoti (gemelli che condividono solo il 25%-50% del corredo genetico). Altri studi hanno dimostrato che il tasso di concordanza suicidaria varia nei gemelli omozigoti tra il 13,2% e il 25%, mentre per gli eterozigoti questo tasso si attesta tra lo 0,7% e il 12,8% (Glowinski et al 2001 et al, e Roy et Segal 2001).

La diagnosi del presunto rischio suicidario in base a questi studi gemellari è avvenuta in base ad una relazione tra suscettibilità genetica e disturbi psichici come depressione maggiore, disturbo antisociale di personalità, disturbo da stress post traumatico, attacchi di panico e abuso di sostanze. É necessario evidenziare che la condotta suicidaria è fortemente influenzata dall’interazione genetica e ambientale e che in questo ambito la concordanza fra gemelli omozigoti è ampiamente inferiore a quel 100%, che ci attenderemo se il comportamento fosse completamente sotto controllo genetico. Inoltre dobbiamo menzionare gli studi sulle adozioni, che supportano anch’essi le basi genetiche del comportamento suicidario, ma al contempo forniscono informazioni utili sul ruolo dei fattori ambientali nella patogenesi suicidaria. Uno studio del 1986 (Wender et al., 1986) ha comparato la funzione dei comportamenti suicidari, tra i genitori biologici di individui adottati, che presentavano una depressione maggiore e le famiglie adottive. Questo studio si è concluso osservando che il tasso prevalente di comportamento suicidario è quindici volte più alto tra i genitori biologici che tra quelli adottivi.

I geni coinvolti nel comportamento suicidario

Molte ricerche da oltre trent’anni, hanno dimostrato e constatato l’implicazione genetica del sistema serotoninergico nel comportamento suicidario. Rilievi autoptici post-morten di soggetti suicidi depressi, hanno notato una riduzione dei trasportatori della serotonina, nella corteccia prefrontale ventromediale dell’ipotalamo, nella corteccia occipitale e a livello del midollo allungato. La funzione dell’amigdala, la quale è riccamente innervata da neuroni serotoninergici, che presenta un’elevata espressione dei recettori della 5-HT, appare anch’essa alterata nei soggetti a rischio suicidio. I geni coinvolti nella condotta suicidaria sono: il gene per il trasporto della serotonina, gene del SERT (Pollock et al. 2000; Aries et al., 2003), i geni dei recettori per la serotonina 5HT1A-5HT2A-5HT1B  (Wu et Comings, 1999), i geni della Triptofano Idrossilasi I-II (TPH1- TPH2) (Walther et al., 2003; Bach-Mizrachi et al., 2006) e il gene della MAO-A (Garpenstrand et al., 2002). I geni codificanti per il BDNF e il suo recettore NTRK2 (Neurotrophic Tyrosine Kinase Receptor, type 2) sono implicati nella regolazione e nella crescita dei neuroni serotoninergici (Perroud et al., 2008). Il polimorfismo più comune del gene del BDNF è il VAL66MET, uno studio del 2008 ha trovato una correlazione tra questo polimorfismo e violenti tentati suicidi e suicidi in persone con storie traumatiche infantili. La COMT è un enzima responsabile della degradazione delle monoamine, tra cui la noradrenalina. Alcune metanalisi hanno riportato un’associazione tra il polimorfismo COMT VAL158MET, ed il comportamento suicidario, correlato inoltre alla letalità dell’atto (Lachman et al. 1996).

In conclusione è importante sottolineare che la presenza di determinati polimorfismi genici da soli non condannano inevitabilmente l’individuo a condotte suicidarie, ma ciò accade solo con l’interazione e il contributo dell’ambiente, determinando così una vastissima eterogeneità fenotipica suicidaria. Se sulla genetica non è possibile intervenire direttamente, alterando “manualmente” il DNA genomico, è però vero che si può cercare di intervenire su tutti quei fattori ambientali che concorrono con la genetica a predisporre l’individuo al suicido.

 

“I don’t have Tourette, I have a cat in my head!”: la Sindrome di Tourette a casa, a scuola, a Roma! – Report dal Convegno

Il 20 aprile 2018, a Roma, presso la sala convegni del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), si è svolto il Convegno “ Sindrome di Tourette: a scuola, a casa, a Roma!”, presieduto da Francesco Cardona, dell’Università La Sapienza di Roma e Presidente del Comitato Scientifico della Tourette Roma Onlus e da Giuseppe Ruggeri, Direttore della Scuola di Psicoterapia Humanitas di Roma.

Barbara Svevi, Zina Fiorello, Chiara Caccia, Federica Bianchi e Stefano Terenzi

 

La Sindrome di Tourette e i Disturbi da Tic

In linea generale, è necessario premettere che, tra i disturbi del neurosviluppo, la Sindrome di Tourette (ST) è una condizione neurologica di cui è affetto circa l’1% della popolazione (J. Quezada, K. A. Coffman, 2018) ed è la forma più severa dei disturbi da tic. I sintomi includono principalmente i cosiddetti tic, motori e vocali, descritti come rapidi, aritmici, ricorrenti e con una manifestazione improvvisa ed involontaria (Cath D.C. et Al., 2011). Essi sono caratterizzati da un decorso variabile: l’età media di esordio è di 4- 6 anni e, nella maggior parte dei bambini il periodo di maggiore gravità giunge intorno ai 12 anni (DSM 5, American Psychiatric Association, 2014).

Quasi il 70% dei ragazzi che ha iniziato a “ticcare” prima dei 10 anni migliora con lo sviluppo: i tic diminuiscono in intensità e frequenza e, a volte, si estinguono quasi totalmente alla fine dell’adolescenza. Tuttavia, seppur per una bassa percentuale di individui, i sintomi persistono anche in età adulta o, addirittura, possono peggiorare con il progredire dell’età.

Dal punto di vista eziopatogenetico, la Sindrome di Tourette sembrerebbe essere influenzata da fattori genetici ed ambientali, la cui interazione ne favorirebbe l’insorgenza. In particolare, si ipotizza che la Sindrome di Tourette possa essere ricondotta a deficit a carico del sistema dopaminergico, tuttavia la natura di tali disfunzioni al momento risulta esser ancora controversa e dibattuta (Maia e Conceição, 2018).

Le manifestazioni della Sindrome di Tourette raramente sono gravi dal punto di vista medico, ma possono compromettere significativamente il funzionamento della persona sul piano sociale, con un importante impatto sulla vita quotidiana, in relazione alla gravità della sintomatologia (DSM 5, American Psychiatric Association, 2014).

Inoltre, le persone affette da Sindrome di Tourette possono presentare una comorbidità per altri disturbi, di tipo neuropsichiatrico. Vi è infatti un’elevata comorbidità con il Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (DDAI), con il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), con attacchi di rabbia, con il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP), con la Depressione e con i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA). Per la Sindrome di Tourette non esiste ancora una cura definitiva, ma fortunatamente alcune terapie, farmacologiche e non e spesso in associazione tra loro, riescono a garantire un adeguato controllo sintomatologico. Tra gli interventi di tipo non farmacologico, risulta essere di primaria importanza un intervento di tipo psicoeducativo nei confronti del paziente, della sua famiglia e delle persone a lui vicine, permettendo di ottenere ottimi risultati nel migliorare la qualità della vita.

La Sindrome di Tourette a Roma – Il convegno

Ad aprire il convegno sono Lucia Masullo – Presidente Tourette Roma Onlus – insieme al messaggio di Riccardo Breusa – Presidente Associazione Italiana Sindrome di Tourette (AIST), con cui la più giovane associazione Tourette Roma Onlus collabora nell’ottica di garantire sostegno ed assistenza ai soggetti affetti da Sindrome di Tourette e alle loro famiglie. La Tourette Roma Onlus, infatti, è un’associazione nata da poco grazie ad un gruppo di volenterosi genitori affiancati da professionisti che si occupano da anni dei disturbi da tic e delle problematiche ad essi associati. L’associazione ha come obiettivo il supporto alla genitorialità, il sostegno a tutte quelle famiglie che si trovano ad affrontare questo disturbo, la divulgazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, l’organizzazione di eventi, convegni ed altre attività di inclusione sociale ed infine il supporto legale ai suoi associati.

Tra gli ospiti presenti anche il Professor Zappella, membro onorario della Society for the Study of Behavioural Phenotypes (Londra) e della Società Italiana di Pedagogia, è stato Presidente della Associazione Italiana Sindrome di Tourette dal 1999 al 2003 e Vice Presidente della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile dal 1976 al 1978. Si vuole ringraziare anche la presenza del Magnifico Rettore dell’Università “La Sapienza” di Roma, il Professor Eugenio Gaudio, venuto a portare il suo sostegno ed apprezzamento per l’iniziativa.

Il primo intervento dal titolo “La sindrome in età evolutiva”, è quello di Francesco Cardona, Dipartimento di Neuroscienze Umane – Università “La Sapienza” di Roma e Direttore Scientifico dell’Associazione, il quale introduce la platea al tema illustrando gli aspetti salienti del disturbo, le caratteristiche dei tic, l’elevata comorbidità con altre patologie e la possibile fisiopatologia del disturbo.

Segue la relazione della Dott.ssa Roberta Pange, che illustra le conseguenze della Sindrome di Tourette sull’apprendimento e sulla carriera scolastica dei soggetti affetti dalla Sindrome. L’intervento mette in luce come i bambini affetti dal disturbo possano manifestare importanti ricadute in ambito scolastico, sia dal punto di vista degli apprendimenti, sia da un punto di vista relazionale e di inclusione sociale. Inoltre, pone l’accento sulla necessità di individuare un profilo neuropsicologico specifico, anche se i dati non sono univoci e sembrano esserci molte differenze tra adulti e bambini. Ad ogni modo, sottolinea la presenza di difficoltà attentive, di integrazione visuo-motoria, nella motricità fine e nella flessibilità cognitiva a differenza di un buon funzionamento delle abilità visuo – percettive e verbali. Infine, la presenza di altri disturbi in comorbidità delineano quadri ancor più complessi da gestire.

Successivamente, la Dott.ssa Tasmin Owem, psicologa dell’Eveline London Children Hospital di Londra espone un intervento sulla Misofonia, intesa come una reazione di fastidio, di avversione, di rabbia estrema provocata da specifici suoni, illustrando le possibili ipotesi sui meccanismi fisiopatologici correlate ai cambiamenti riguardanti la corteccia insulare anteriore e ai processamenti neuronali aspecifici e/o a maturazione atipica.

Cos’è l’esser abile e l’esser disabile? Quali sfide per la scuola dagli allievi con difficoltà e quali riflessioni nelle prospettive per l’inclusione?” E’ su queste riflessioni che è incentrato l’intervento rivoluzionario del Professore Fabio Bocci che offre il suo contributo su Abilismo e Neoliberismo:

Noi lo dobbiamo immaginare questo futuro… lo dobbiamo costruire – afferma il Professor Bocci.

Una risposta possibile ci viene fornita dall’intervento della Dott.ssa Germana Paoletti, co-fondatrice dell’Associazione Tourette Roma Onlus e Assessore alle politiche sociali, la quale illustra come la normativa possa essere usata come strumento metodologico e scolastico.

L’intervento della Dott.ssa Roberta Galentino, psicoterapeuta esperta di Sindrome di Tourette e membro AIST, Associazione Italiana Sindrome Tourette che opera sul territorio nazionale, intende offrire linee guida e strumenti concreti per professionisti del settore, terapisti e insegnanti al fine di riconoscere e progettare interventi per aiutare i ragazzi tourettici in ambito scolastico.

Tornando alla complessità e comorbidità dei disturbi da tic (DOC, DSA, ADHD) la Dott.ssa Paola Silvestri – Tourette Roma Onlus – illustra ai partecipanti i risultati di EMTICS, attraverso uno studio epidemiologico europeo.

Immediatamente successiva è la riflessione proposta dalla Dott.ssa Marina Romani – Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Umberto I Roma, che porta la platea alla scoperta della terra di mezzo tra Sindrome di Tourette e ADHD, dando alcuni strumenti operativi e consigli ai genitori e agli insegnanti sulle modalità per gestire i disturbi.

Il Dott. Mauro Ferrara, dell’Università “La Sapienza”, aggiunge come durante l’adolescenza spesso sia presente una condizione di disregolazione affettiva che, anche nelle patologie complesse come la Sindrome di Tourette, può sovrapporsi e modificare le espressioni cliniche tipiche della sindrome, talvolta complicando la risposta ai trattamenti efficaci.

L’ultima parte del convegno affronta i possibili trattamenti per la Sindrome di Tourette. La Prof.ssa Renata Rizzo, neuropsichiatra infantile e professoressa presso l’Università degli studi di Catania, illustrando l’importanza nella progettazione di programmi terapeutici personalizzati, individualizzati e del trattamento farmacologico nella Sindrome di Tourette, afferma:

It’s crucial to detect comorbidities in order to know their interplay and to disentangle the contribution of each to the patient’s impairment in every day life.

La Dott.ssa Monica Mercuri, psicologa-psicoterapeuta della scuola di psicoterapia cognitiva APC-SPC di Roma, spiega il ruolo della terapia cognitivo-comportamentale e dei protocolli, scientificamente dimostrati, efficaci nel controllo dei sintomi della Sindrome di Tourette e dei problemi ad essa correlati nei bambini.

The only way out is throught it” cita il Professor Rosario Capo, coordinatore della Didattica della Scuola di Psicoterapia Humanitas di Roma e Docente dell’Accademia di Neuropsicologia dello Sviluppo-ANSVI di Parma, spiegando come, attraverso il Parent Training, anche i genitori dei bambini con Sindrome di Tourette devono essere parte attiva del processo terapeutico che avviene soprattutto tramite il modeling e l’insegnamento diretto a ridosso degli eventi problematici. L’Esposizione e la Prevenzione della Risposta (ERP), la Pratica Negativa e l’Habit Reversal Training (HRT) sono considerati gli interventi di elezione per rendere i genitori partecipi al trattamento del figlio con lo scopo di sostenerlo e rinforzarlo nei suoi avanzamenti.

A chiudere l’evento è il Dott. Massimo Pasquini, professore di psichiatria alla Sapienza Università di Roma, che evidenzia le diverse manifestazioni cliniche della Sindrome di Tourette negli adulti affermando:

Non abbiamo dati EB disponibili per stabilire il decorso della Sindrome di Tourette negli adulti con età superiore ai 30 anni, clinicamente sappiamo che il disturbo tende a migliorare dopo i 25 anni, ma i sintomi che maggiormente sono presenti, e che creano disabilità in età adulta non sono i tic ma piuttosto le comorbidità psichiatriche.

Sicuramente all’interno della ricerca sulla Sindrome di Tourette sono ancora molte le sfide da affrontare. L’evento sottolinea lo scopo della Tourette Roma Onlus: la divulgazione, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica al tema e l’organizzazione di eventi come questo per permettere di portare avanti la grande battaglia dell’inclusione sociale e del supporto alle famiglie. A tal proposito, si vuole ringraziare per la numerosa partecipazione a questo convegno, con un pubblico interessato ed eterogeneo, composto non solo di esperti in materia, ma anche di genitori, insegnanti e professionisti di vari ambiti. Tale interesse spinge e motiva l’Associazione Tourette Roma Onlus, il Comitato Scientifico di cui dispone e le Associazioni con cui collabora a continuare ad impegnarsi nella realizzazione di progetti di questo ed altro genere.

 

Autoinganno: la menzogna verso se stessi a difesa dell’autostima

Autoinganno (self-deception): si può considerare come una strategia di coping messa in atto quando la realtà percepita risulta così differente dalla rappresentazione di sé ideale da sviluppare un “racconto alternativo” di se stessi, con l’obiettivo di ridurre il livello di indesiderabilità.

Definizione di Autoinganno: bugia o difesa?

Il Dizionario di Psicologia di U.Galimberti (1999) sotto la voce autoinganno riporta:

atteggiamento mentale di difesa attraverso cui l’individuo falsifica consapevolmente l’immagine che ha di sé per non perdere l’autostima o per non rinunciare al soddisfacimento di bisogni istintuali coscientemente rifiutati. Così facendo il soggetto riesce a raggirare la censura del super-io, offrendo a se stesso false motivazioni che giustificano ai suoi occhi i propri comportamenti ed i propri pensieri

“Sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare” sosteneva Niccolò Machiavelli; due soggetti che interagiscono, uno dei quali mente e l’altro accetta come vera l’affermazione. Nell’autoinganno siamo di fronte alla situazione in cui esistono un ingannato ed un ingannatore che corrispondono allo stesso soggetto, il quale si racconta a sé stesso in modo distorto, con l’obiettivo di raggiungere il nuovo stato desiderato; tale stato verrà utilizzato in futuro se si approccerà ad intenzioni interpersonali. Potremmo essere di fronte ad un eccesso di assimilazione a scapito dell’accomodamento, riferendosi alla teoria di Piaget.

Bugie, errori, menzogne e finzioni

Desimoni (2016) riflette sulla differenza tra bugia, errore, menzogna e finzione: per bugia intende il fenomeno per cui “si è a conoscenza della verità e intenzionalmente si dichiara il falso”, invece l’errore si verifica nel momento in cui il falso viene detto in buona fede per mancanza di conoscenza e di intenzionalità; invero con la menzogna si mente consapevolmente mentre “la finzione fa invece riferimento al fingere e al finto”. L’articolo prosegue con la differenza proposta da Lewiss & Saarni nel 1993, in cui gli autori distinguono le menzogne in:

  • bugie transitorie (di evitamento, di difesa, di acquisizione e bugie di autoinganno) legate all’appartenenza a specifiche età, ruoli e situazioni di vita
  • bugie caratteriali (pseudologie, di timidezza, di discolpa e bugie gratuite) riferite alla storia di vita del mentitore e alla sua personalità, dunque tendono ad essere più stabili, ricorrenti e pervasive

Autoinganno: protezione del sé a salvaguardia dell’autostima

Le bugie da autoinganno sono illustrate come protezione del sé, una sorta di “anestetico psicologico” con lo scopo di non avere consapevolezza del  funzionamento mentale, comportamentale o della coscienza di aspetti o situazioni della storia di vita che potrebbero produrre disagio.

Ho trovato interessante la definizione di De Cataldo e Gulotta (2009), i quali esplicitano l’autoinganno come

uno stato nel quale si determina una divergenza tra ciò che il soggetto che mente sa, sia pure a livello inconsapevole, e ciò che egli riconosce. Tale meccanismo impone di accettare il fatto che una persona creda allo stesso tempo ad una proposizione e alla proposizione che la nega.

Un aspetto importante del fenomeno dell’autoinganno (self-deception) riguarda la consapevolezza dell’atto; il soggetto che mente all’interlocutore è consapevole di non dire la verità, mentre nell’autoinganno il meccanismo mentale porta il soggetto ad accettare per vera una verità falsa al di fuori del quadro della consapevolezza.

La terminologia presa in prestito dalla logica formale viene in aiuto per esporre il meccanismo con maggior facilità. Possiamo definire A e B due agenti (soggetti diversi) che si scambiano proposizioni qualsiasi; A trasmette a B un messaggio che reca il contenuto propositivo. Nel caso dell’autoinganno invece i due agenti interagenti sono la stessa persona (A = A e B = A), la quale professa sia la credenza p (la proposizione vera) sia la credenza non-p (la proposizione falsa).

Il fenomeno dell’autoinganno prevede che il soggetto operi la censura del contenuto della credenza percepita come minacciosa; affinché avvenga la sostituzione, non è necessario acquisire una credenza opposta ma che la mente sia arricchita di ragioni in competizione con la credenza minacciosa e di pensieri che costruiscono una realtà contraria. L’autoinganno potrebbe così diventare un meccanismo di difesa finalizzato a ridurre o annullare la sofferenza mentale.

Relazione tra autoinganno e livelli di stress: sono inversamente proporzionali?

Interessante la ricerca di Tomaka (1992), il quale ha esaminato la relazione tra risposta psicofisiologica allo stress e tre misure di difesa, tra cui l’autoinganno. Le risposte allo stress furono registrate durante lo svolgimento di due compiti mentali aritmetici complessi. Come ipotizzato, i soggetti che presentavano alti livelli di autoinganno producevano una minore risposta psicofisiologica e giudicavano il compito come meno minaccioso.

Come sostiene Roberto Lorenzini (2017):

la visione che ciascuno ha di se stesso è il risultato, l’epilogo, della narrazione che si fa delle vicende della propria vita. Ognuno è il protagonista, positivo per chi sta bene e negativo per chi soffre, della storia che si racconta.

Stili di attaccamento e autoinganno

Dal punto di vista ontologico, dalla ricerca di Gillath et al. (2010) emerge che l’attaccamento sicuro prevede la promozione dell’autenticità e della sincerità, aspetti che proteggono dall’insorgere delle problematiche relative alla menzogna, mentre l’attaccamento insicuro veicola varie forme di inautenticità e disonestà favorendo atteggiamenti difensivi rispetto la propria immagine.

Non bisogna sottovalutare la dimensione interpersonale di rimando alla natura del messaggio recepito dall’interlocutore: infatti le persone che tendono ad autoingannare se stesse vengono valutate negativamente dagli interlocutori stessi; questa valutazione può avvenire immediatamente o nel tempo.

È interessante la lettura proposta da Dings (2017) al concetto di autoinganno. Per affrontare la sua affermazione teorica pone come premessa che una delle teorie più influenti per spiegare come i soggetti si autoingannano si concentra sui pregiudizi cognitivi e percettivi, come l’errata interpretazione, l’attenzione selettiva e la selezione selettiva; meccanismo questo di natura prettamente soggettiva. Dings va oltre e sistematizza il concetto di autoinganno sociale, collegandolo alla teorizzazione filosofica esistente, ampliandone i potenziali meccanismi e ponendo come razionale l’utilizzo di altre persone per ingannare se stessi. Emerge quindi come il marker distintivo dell’autoinganno sociale sia l’uso strumentale di altre persone finalizzato al processo auto-ingannevole.

Per chi fosse interessato, invito a leggere la pubblicazione (Social strategies in self-deception, 2017) in cui l’autore offre una esauriente spiegazione del fenomeno con esempi mirati a comprenderne in maniera semplice i vari meccanismi del processo, differenziato in diverse strategie sociali.

Riduzione della dissonanza cognitiva

Una forma di autoinganno spesso utilizzata dalle persone è la riduzione della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), quel meccanismo per cui attribuiamo maggior valore al risultato della scelta effettuata quando sorge una contraddizione tra gli aspetti cognitivi e quelli comportamentali. L’esempio classico è il fumo: razionalmente si ha la consapevolezza che è dannoso fumare (aspetto cognitivo), ma il comportamento manifesto è quello di fumare. Per ritornare all’equilibrio si modifica la credenza sostenendo una serie di ragioni, come ad esempio “anche il mio medico fuma”.

Secondo la teoria costruttivista, la realtà esterna non esiste come dato oggettivo condiviso ma viene costruita da ciascuno di noi in base al proprio senso e significato. Quindi potremmo aspettarci che ogni soggetto abbia la propria visione del mondo, diversa da quella delle altre persone, e condurre l’ipotesi che l’autoinganno sia una operazione utilizzata nella fase di costruzione del reale, per far emergere quest’ultimo il meno dis-equilibrante possibile per il benessere psichico.

Autoinganno e dipendenze

È interessante notare come il costrutto dell’autoinganno venga utilizzato nella ricerca e nella clinica come elemento per rintracciare le problematiche inerenti le dipendenze da gioco d’azzardo. Emozioni quali la vergogna e la paura dello stigma e la minimizzazione delle problematiche sono i più comuni ostacoli per la ricerca di aiuto nei soggetti con dipendenze patologiche o comportamentali.

Nel 1991 Paulhus e Reid (Goldstein, 2017) svilupparono il BIDR (Balanced Inventory of Desirable Responding) allo scopo di valutare due tipologie di risposte socialmente desiderabili: impression management self-deceptive enhancement. Impression management valuta la tendenza a non descrivere comportamenti socialmente devianti e presentare un’immagine favorevole al pubblico, mentre Self-Deceptive Enhancement (SDE) si riferisce alla tendenza di sopravvalutare caratteristiche socialmente desiderabili.

Ulteriore aspetto del self-deceptive si riferisce alla natura delle conseguenze; non sempre la menzogna è un male. Come riportato in un articolo su State Of Mind (Schirru N., 2015), Vrij (2008) nelle sue ricerche suggerisce che è possibile uscire dal pregiudizio secondo il quale mentire sia sbagliato.

La natura della menzogna

Difficile definire la natura del mentire ed alcuni studiosi, tra filosofi, sociologi, scienziati cognitivi, lo definiscono un fenomeno psicopatologico, un comportamento non intelligente, altri invece come un comportamento indispensabile per la sopravvivenza del soggetto. L’autoinganno, come abbiamo visto, è la menzogna verso se stessi e nella discussione emerge che “anche mentire a se stessi viene considerato un modo per ingannare qualcuno, o in altre parole, proteggere la propria autostima.”

Così come è difficile cogliere la menzogna, lo stesso accade nei confronti della menzogna verso se stessi; un esempio letterario che mostra come tale difficoltà esista e possa essere alla portata di tutti è l’Errore di Otello. L’errore rappresenta la difficoltà di capire quanto sia arbitraria la relazione tra significante e significato; il protagonista del dramma sotto l’influenza della gelosia, non crede alla sua amata Desdemona che, accusata di tradimento, la consegna ingiustamente nel destino nefasto.

Le correlazioni tra alti livelli di autoinganno e psicopatologia

In ultima analisi, come sostiene Gorlin (2017), i soggetti che presentano alti livelli di autoinganno hanno esiti ed apprendimenti insoddisfacenti nelle prestazioni lavorative con conseguenze ipotizzabili di natura negativa rispetto l’impatto sociale. Inoltre ottengono punteggi alti nelle misurazioni del narcisismo e sintomatologia depressiva. Anche dagli studi di Paulhus (1998) e Compton et al. (1996) emerge che l’autoinganno si presenta nel soggetto in modo significativo con il narcisismo. Nelle stesse ricerche emerge che tale significatività è riscontrata anche in costrutti quali l’autostima e la positività difensiva.

 

Per concludere: l’autoinganno protegge il soggetto dalla realtà disagevole e sviluppa modalità cognitive per affrontare le conseguenze di scelte che potrebbero essere rilette portatrici di risultati diversi da quelli auspicati (dissonanza cognitiva), processi questi che non hanno come fine il malessere dell’altro, ma che potrebbero meritare il porsi come obiettivo la maggiore consapevolezza dei propri meccanismi al fine di evitare l’insorgere di realtà non-reali potenzialmente fondatrici di disagio sociale.

Binge drinking in gravidanza: figli a rischio di problemi di umore e abuso di alcool

Uno studio ha analizzato le conseguenze dell’uso disregolato di alcool per madre e figli. In particolare, il binge drinking durante la gravidanza e l’allattamento può rendere la prole più vulnerabile ai disturbi dell’umore e all’abuso di alcool da adolescenti.

 

Il binge drinking, dunque, da parte di madri incinte e in allattamento può compromettere la salute mentale della loro prole: a riportarlo è uno studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry. In questo studio eseguito sui ratti, i ricercatori italiani hanno scoperto che mentre il bere abituale è associato a comportamenti di tipo ansioso nelle madri e nella loro prole, il bere in maniera abbuffatoria o “binge” ha un effetto depressivo. Inoltre, le progenie delle madri che bevevano alcolici sono meno sensibili agli stimoli naturali, mostrano un comportamento più “disperato” e sono più vulnerabili all’abuso di alcool durante l’adolescenza. Questo è il primo studio a dimostrare che i cambiamenti innescati dall’uso dall’alcol eccessivo nelle madri possono essere trasmessi alle loro progenie.

Alcool in gravidanza: le conseguenze per le madri

Si presume comunemente che l’alcool venga facilmente sospeso durante la gravidanza, come raccomandato dai medici.

Ma questo non è sempre il caso dei bevitori abituali – afferma la dott.ssa Carla Cannizzaro, l’autrice principale dello studio – Le donne incinte potrebbero anche pensare che bere in modo intermittente sia meno dannoso del bere quotidiano.

Per esaminare le conseguenze dell’uso di alcool materno, in modo continuo o binge, Cannizzaro e collaboratori dell’Università degli Studi di Palermo hanno effettuato delle ricerche ricorrendo a campioni animali (ratti). Durante lo studio, ai ratti femmina in stato di gravidanza e in allattamento è stata somministrata acqua che conteneva alcol, così da riprodurre realisticamente le abitudini delle donne bingeer drinking. Al termine dello studio le madri ratti e la loro prole sono state sottoposte a una serie di test per valutare il loro livello di umore e comportamento.

Il binge drinking portava a profonde alterazioni dell’umore delle madri ratti, che mostravano comportamenti depressivi. Il bere continuo o abituale era invece correlato ad un aumento dei comportamenti ansiosi.

Alcool in gravidanza: le conseguenze per i figli

Sorprendentemente la progenie delle madri che bevevano alcolici era più vulnerabile all’abuso di alcool durante l’adolescenza. Questo potrebbe essere il risultato di un’esposizione all’alcol precoce, coerentemente a cambiamenti genetici trasmessi dalla madre, spiega Cannizzaro.

L’abuso di alcol o di altre droghe, in quantità croniche o eccessive, possono imprimere codifica genetica e promuovere modificazioni ereditabili.

La progenie delle madri che bevono alcolici ha anche mostrato basse risposte agli stimoli naturali, che di solito sono gratificanti, come lo zucchero, il cibo e il sesso; in assenza di alcol, invece, hanno mostrato un comportamento “disperato” in risposta a condizioni ambientali imbarazzanti.

L’uso di alcool cronico può disturbare l’omeostasi delle regioni del cervello rilevanti per la ricompensa – afferma Cannizzaro – Tale uso può portare a dipendenza, craving, perdita di controllo nell’uso della sostanza e gravi sintomi di astinenza quando è interrotto l’utilizzo della sostanza

Una possibile limitazione – in termini di generalizzazione dei risultati – di questo studio è stato il ricorso, nella fase di sperimentazione, a campioni animali; tuttavia, secondo i ricercatori, questo modello animale è particolarmente adatto per lo studio delle proprietà di dipendenza dei farmaci e delle sostanze e dei loro effetti sul cervello, tanto da poter essere una rappresentazione realistica di comportamento anche negli esseri umani.

Come afferma Cannizzaro:

L’alcol esercita un potente effetto sull’organismo, anche se consumato due o tre volte alla settimana in alte concentrazioni.

Vittime di stupro: quando la mancata ribellione va sotto processo. L’ignoranza della legge sui vissuti traumatici di chi subisce un’aggressione sessuale.

Qualche giorno fa, in Spagna, è stata emessa una sentenza che ha indignato il Paese provocando un’ondata di proteste. Nel 2016 un gruppo di cinque uomini violentò in branco una diciottenne durante la festa di San Firmino, a Pamplona (Ciai, 2018). Dato che la legge spagnola distingue fra abuso sessuale e stupro, dove nel primo caso si esclude violenza o intimidazione, la corte ha condannato gli imputati alla pena più lieve, adducendo come motivazione la mancata reazione della ragazza, che non si è ribellata, ma ha subito il drammatico evento stando ferma con gli occhi chiusi per tutto il tempo.

 

Un episodio analogo accadde a Torino nel 2017, quando l’imputato fu assolto dall’accusa di violenza sessuale proprio a causa della mancata reazione della vittima (Muntoni, 2017). La legge italiana, a differenza di quella spagnola, riconosce lo status di vittima a chi subisce un’aggressione sessuale, di qualunque natura: ogni atto sessuale non consenziente è considerato una violenza. E lo è, senza dubbio.

Tuttavia, l’applicazione della pena è ancora troppo suscettibile d’interpretazioni che rivelano la necessità di fare maggiore chiarezza, e forse anche maggiore cultura, sul trauma e i vissuti che lo accompagnano e sui comportamenti che ne conseguono, in questo caso l’immobilità e il silenzio. La vittima non reagisce perché sta subendo un trauma, non perché l’impatto dell’evento sia minimo.

Per chiunque si occupi di trauma è infatti evidente come questo genere di sentenze siano l’espressione di un enorme gap fra ciò che clinica e ricerca in ambito traumatologico hanno rivelato negli ultimi decenni e ciò che si riscontra nelle aule di tribunale, dove chi, peritus peritorum, emette le sentenze, ignorando ciò che avviene davvero nel cervello di una vittima di aggressione.

Che cosa succede, dunque, durante un’aggressione sessuale? Che cosa vive in quel momento chi la subisce?

La teoria polivagale di Stephen Porges (2014) ci aiuta a comprendere reazioni che a volte appaiono incomprensibili, incluse quelle che si notano in molte vittime di stupro. Quando ci si sente in pericolo, nel nostro cervello si attiva immediatamente il sistema di difesa. Immediatamente nel senso letterale del termine: questa reazione repentina, infatti, non è mediata dalle zone corticali, dalle funzioni superiori, ma si sviluppa nella parte evolutivamente più antica del cervello, il tronco encefalico, in cui hanno sede gli istinti che ci accomunano con gli altri animali.

Questo significa che le reazioni di difesa non sono il frutto di una decisione volontaria e razionale, ma sono automatiche, non controllabili e producono il comportamento che il cervello in quel momento ritiene più utile alla sopravvivenza. Quattro sono le possibili risposte del sistema di difesa: freezing, fight, flight e faint.

Il freezing, o congelamento, è immobilità tonica: è quello che succede al cervo in mezzo alla strada, che s’immobilizza quando arriva un’auto. In quel momento il corpo è bloccato, ma i muscoli sono in tensione, pronti a scattare non appena il cervello, sempre a livello automatico e involontario, avrà valutato il comportamento più utile alla sopravvivenza da mettere in atto. Nel frattempo l’immobilità consente di essere meno visibili ai predatori. Poi ci sono le reazioni di attacco (fight) o fuga (flight).

Faint, immobilità ipotonica

L’ultima, e più importante in relazione a questi casi di aggressione sessuale, è l’immobilità ipotonica (faint): quando nessuna delle reazioni precedenti pare utile a fronteggiare il pericolo, l’unica risposta possibile è la brusca riduzione del tono muscolare, accompagnata da una ridotta percezione di ciò che sta accadendo in quel momento, un distacco dall’esperienza. I centri inferiori si disconnettono da quelli superiori (Liotti e Farina, 2011). Come l’opossum pare morto sotto attacco del predatore, la vittima di aggressione perde il controllo del proprio corpo che collassa per l’attivazione del sistema dorso-vagale, a volte fino allo svenimento. Molte vittime di stupro raccontano proprio questo tipo di esperienza: si subisce l’aggressione senza avere più il controllo del proprio corpo, senza poter muovere un muscolo, senza poter nemmeno parlare o gridare. In alcuni casi l’esperienza dissociativa è talmente forte che ci si vede da fuori nella scena, come se stesse capitando a qualcun altro.

Questo è molto più frequente negli stupri di gruppo, dove il senso di pericolo per la propria vita e l’impotenza sono ancora più estremi. Ecco perché la giovane spagnola non ha gridato, non si è ribellata ai suoi aggressori. Non perché fosse consenziente, ma perché il suo sistema di difesa ha stabilito che restare immobile e non reagire fosse il modo migliore per sopravvivere in quella situazione.

Purtroppo il sistema giudiziario non tiene conto di tutto ciò e giudici e avvocati non sono sufficientemente informati sul trauma e i vissuti ad esso correlati. E’ un problema molto serio quello sollevato da certi casi di cronaca, che dovrebbero costringere a riflettere sulla necessità di lavorare alla costruzione e diffusione di una cultura del trauma che tuteli le vittime e, riconoscendone il danno, le aiuti ad affrontare il difficile cammino di superamento ed elaborazione del trauma stesso. Le sentenze assolutorie verso gli abusanti, infatti, non solo non rendono giustizia alle vittime, ma peggiorano l’impatto dell’episodio traumatico, amplificando emozioni di colpa e vergogna intrinsecamente connesse all’aggressione subita.

Inclusione e disabilità. L’importanza del lavoro di rete – Report del convegno di Carini

Si è svolto lo scorso 17 aprile, presso il prestigioso Castello di Carini, un evento formativo che ha analizzato il tema della disabilità, nell’ottica dell’inclusione sociale, ad opera dei vari servizi preposti, quali, a titolo esemplificativo, l’istituzione scolastica e i Servizi di Neuropsichiatria infantile.

 

L’evento, organizzato dalla Cooperativa Sociale Amanthea, con sede a Caccamo, specializzata nell’assistenza ai minori disabili, e patrocinato dal Comune di Carini, mettendo l’accento sull’importanza dell’integrazione dei servizi che si occupano della persona disabile, ha previsto l’intervento di varie figure professionali, testimoni a loro volta della rilevanza strategica dell’integrazione delle competenze professionali, quali psicologo, assistente sociale, medico.

[blockquote style=”1″]Il convegno nasce da una lettura dei bisogni del territorio, per conoscere e formarsi su un tema così delicato e che nel corso della vita può coinvolgere qualunque persona. Carini è un comune molto sensibile alla tematica della disabilità e questo ha permesso la realizzazione dell’evento, primo step per il coinvolgimento e la sensibilizzazione della persona, dei cittadini, al fine di fugare i luoghi comuni legati al termine disabile. Infatti, l’immagine della persona disabile richiama alla differenza rispetto all’immagine corporea normale, generando paura ed evitamento[/blockquote] commenta Angelo Barretta, psicologo, vice Presidente della cooperativa Amanthea.

Disabilità: l’impatto sui sibilings

Evitamento, distanziamento, timori che esistono non solo tra i soggetti normali, nel loro rapportarsi a una diversità incomprensibile e minacciosa, ma anche tra gli operatori stessi, sollecitati a intervenire come supporto in situazioni di elevata complessità e instabilità.

Sandra Giordano, psicologa, precisa:

[blockquote style=”1″]I disabili spingono a porci delle domande sul come ben operare, in particolare per gli insegnanti e gli operatori specializzati a scuola. A mio avviso il corretto e funzionale aiuto alle persone diversamente abili si fonda sulla strutturazione di un progetto globale di vita, a partire dalle prime fasi di sviluppo di una disabilità, che coinvolga le famiglie, i vicini di casa, la scuola, i servizi socio-sanitari, l’intera Comunità. È comune sentir dire a una persona disabile -Non ho amici, sono solo!- per cui ogni intervento non può prescindere dalla costruzione di una rete sociale di sostegno. In particolare l’intervento psicoeducativo attivato dalla scuola deve essere finalizzato a sviluppare le potenzialità del disabile, attraverso l’osservazione del comportamento: un intervento estensivo, globale, che si stende fino all’Università. Rispetto alle famiglie il lavoro da fare riguarda l’accettazione della disabilità del figlio che genera rabbia nei primi due anni dalla scoperta e che necessita di accompagnamento psicologico[/blockquote]

Oltre al disabile e ai suoi problemi quotidiani, grande attenzione meritano i fratelli, in particolare nella fascia di età che va dai sei a quindici anni, per le ricadute emotive che la disabilità del fratello o sorella ha su di loro.

[blockquote style=”1″]I sentimenti comuni ai sibling sono quelli di isolamento e trascuratezza, pressione dei genitori alla perfezione e sentimenti di vergogna per le stereotipie del parente. A questo si aggiungono la colpa per essere sani e la paura di sviluppare una disabilità, incertezze per il proprio futuro (se i loro figli svilupperanno la stessa disabilità) e dolore per le limitazioni del fratello o sorella. Tra le strategie terapeutiche che aiutano i sibling nella gestione di tali emozioni negative sono da ricordare i gruppi di incontro con altri sibling e l’attivazione di laboratori esperienziali attraverso i quali mettersi nei panni del disabile, empatizzando con la sua disabilità (per esempio mettersi su una gamba sola, sperimentandone le difficoltà) o dare libero sfogo alle proprie paure (esprimendo la propria rabbia per sentirsi esclusi dai genitori). È fondamentale dare a questi bambini o adolescenti spazi appositi per esprimere il proprio disagio, al di là di un mito familiare che li vorrebbe forti, solo perché senza handicap[/blockquote]

sottolineano Loredana Cicero e Santa D’Alessandro, psicologhe.

Disabilità e genitorialità

Accanto alle esigenze dei fratelli si affiancano, non meno rilevanti, le richieste dei genitori, spaventati, confusi, arrabbiati, a cui i servizi non possono che rispondere ancora con interventi di rete.

[blockquote style=”1″]Parlando dei servizi di Neuropsichiatria infantile essi risultano di enorme utilità nella gestione delle problematiche dei bambini e delle loro famiglie, in quanto multidisciplinari, ovvero includenti un’équipe di psicologi, assistenti sociali, pedagogisti, logopedisti, e integrati con il Terzo Settore e i Servizi sociali, seppur, spesso, con elevate criticità a livello di raccordo funzionale. L’importanza del lavoro multidisciplinare è evidente nella creazione di gruppi di genitori che vengono aiutati nella gestione della disabilità del figlio e nel fronteggiamento dei sentimenti diffusi di rabbia, confusione e disperazione conseguenti alla diagnosi. È altresì centrale il lavoro di collaborazione tra gli operatori mirante alla costruzione di un linguaggio condiviso per comprendere perché con quel bambino non si va avanti, attraverso riunioni settimanali, e includendo anche gli operatori che non lavorano con il bambino, per beneficiare di uno sguardo neutrale [/blockquote] spiega Alfonso Geraci, neuropsichiatra infantile.

Servizi di supporto e sviluppo delle potenzialità del disabile e di ristrutturazione dei legami familiari e sociali, che infine si diversificano per tipologia per soddisfare le esigenze particolari di ciascun disabile, nei suoi diversi contesti di vita.

Disabilità e inclusione

[blockquote style=”1″]Il territorio offre ai disabili servizi diversificati per favorire il loro benessere, come i servizi domiciliari di assistenza o sostegno economico e quelli residenziali, come le Comunità Alloggio o le CTA. Un benessere che deve riguardare anche la famiglia, in quanto prima cellula economico-educativa, favorente i processi di autonomia: non considerare la famiglia nel processo di aiuto equivale certamente a lavorare a metà[/blockquote]

– concludono Francesca Sunseri e Simona La Rosa, assistenti sociali –

[blockquote style=”1″]Una Comunità in rete solidale per supportare il disabile e la propria famiglia, sostanziando un’autonomia e un’autostima che divengono sostegno alle proprie fragilità affinché il disabile “si concentri su ciò che il suo handicap non impedisce di fare e non si rammarichi di ciò che non può fare[/blockquote]

Alcune foto del convegno

Inclusione e disabilità l'importanza del lavoro di rete nel convegno a Carini-foto 1

 

 

Trasposizioni. Il Glossarietto di psicoanalisi (2017) di Giuseppe Civitarese

Trasposizioni è il titolo del più recente libro italiano di Giuseppe Civitarese –  analista didatta della SPI, direttore della Rivista di Psicoanalisi dal 2013 al 2017 e figura di spicco della ricerca psicoanalitica a livello internazionale.

Francesco Capello

Ben quattro delle sue monografie sono state tradotte in inglese per la prestigiosa ‘New Library of Psychoanalysis’. Ora, quest’ultimo volumetto rappresenta in certo modo una ‘summa’ dei lavori precedenti, pur essendo d’impianto assai diverso. Nel segno della continuità ritroviamo qui alcuni ‘cavalli di battaglia’ del pensiero analitico di Giuseppe Civitarese: l’inconscio estetico, la narratologia, la teoria del campo di matrice postbioniana con le relative ramificazioni/implicazioni in sede clinica; un interesse costante e sensibile per tutto ciò che – nell’arte e nella vita di tutti i giorni, ma soprattutto in ogni seduta analitica –  ‘è ritmo’. Quel fondante ritmo di presenza e assenza, separazione e unisono, identità e differenza, figura e sfondo la cui modulazione sta alla base della possibilità di dare senso emotivo alle nostre storie – o meglio, di produrre continuamente senso tramite le narrazioni e gli intrecci di rappresentazioni che ad ogni istante, consapevoli o meno, costruiamo.

Trasposizioni: il ritmo e la scoperta di senso

È un’intuizione primigenia e corporea (artistica, insomma) sul significato affettivo del ritmo quella che anima molte di queste pagine, al cui centro è pure la generosa curiosità per le svolte di senso che la psicoanalisi presenta a chi si inoltra nei suoi sentieri di sorpresa e inquietudine (il libro concede democraticamente spazio a entrambe). Questa disponibilità al non-noto, già familiare ai lettori di Civitarese, va anche qui a braccetto con la passione per la cura: intesa, quest’ultima, come processo volto ad accrescere le funzioni della mente che potranno col tempo sostenere tali aperture al nuovo. Non a caso il libro è dedicato ‘ai miei pazienti’, che nella toccante poesia-lista ‘Oggetti smarriti’ si vedono simbolicamente restituire parti di sé ‘dimenticate’ e a lungo depositate nella stanza d’analisi. Con la grazia discreta di questi versi Civitarese allude a uno dei compiti cardinali della cura analitica: porgere ai pazienti attraverso le parole – parole che finalmente possono prendere il posto di ‘oggetti’ concreti– quote di vita, potenziale e creatività smarrite o forse mai ancora rivendicate (tra i vari ‘lost and found’ c’è… un plettro!).

Civitarese e la leggerezza

Ciò che rende questo glossarietto diverso dai libri che lo hanno preceduto sono la struttura asistematica, spesso felicemente aforistica, e ancor più il tono, che meno impegnato dai vincoli della prosa scientifica scopriamo improntato a una calviniana leggerezza – una mobilità mentale che ben presto contagia il lettore. Come ricorda citando Valéry il Calvino delle Lezioni americane, la leggerezza a cui ha senso ambire non è quella della piuma, soggetta alla forza dei venti, ma la più solida virtù degli uccelli: non si tratta, cioè, di una qualità passiva, ma della libertà di chi ha imparato a portare il suo peso e per questo può guardarsi attorno, decidere, spiccare il volo. La luce insolita e amabile di questi flash di pensiero, che ben si prestano anche a una lettura rapsodica, ha in questa leggerezza il suo fil rouge.

 

 


Trasposizioni (2017) di Giuseppe Civitarese – L’introduzione

Trasposizioni glossarietto di psicoanalisi. la nuova opera di G. CivitareseFrammenti di vignette cliniche, oggetti enigmatici, progetti, pensieri randagi, immagini, appunti di letture, rêverie; ma anche postille a film e mostre, ricordi, episodi della vita quotidiana, sommari di lavori da scrivere, dubbi, ossessioni: questo è un libro di trasposizioni. Riflesse alla luce della mia identità di psicanalista, esse nascono tutte da momenti in cui ho avuto l’impressione di intuire qualcosa di problemi affiorati nel lavoro quotidiano o di punti oscuri ma appassionanti della teoria. Un tratto comune a queste piccole epifanie è dunque il rapporto intenso che li lega all’esperienza di vita. In esse brilla sempre un’emozione; che sia di divertimento, stupore, gratitudine, tristezza, gioia.

Piccole ma non per questo meno significative, almeno per chi scrive, e comunque abbastanza da desiderare di farne dei piccoli doni, xenia appunto, per gli ‘ospiti’ di queste pagine, per i lettori. Se hanno a che fare con la lente della psicoanalisi è perché per me essa non rappresenta solo una professione ma il modo che ho scelto nel lavoro per sentirmi più umano e reale, e insieme di accostare il mistero di cosa vuol dire essere umani, e quindi anche dell’umanità dell’altro. In fondo, in una ricerca che prosegue sempre anche sotto- traccia con un misto di ansia e piacere rivivono, come in ciascuno, i momenti di luce e di ombra della relazione con l’oggetto che per la prima volta ha creato per noi il mondo.

In seconda battuta questo è un libro di conversazioni immagina- rie con alcuni degli autori più amati. Se per fare una mente occorre un’altra mente, poi per tutta la vita qualcosa di nuovo può solo nascere da momenti e da incontri fortunati. Oltre ad alcuni analisti e filosofi pago il mio tributo alla presenza discreta e ispiratrice di Roland Barthes e alla sua passione per l’haikù e per la scrittura aforistica; una certa pratica dell’intertestualità sia in senso generale, tra discipline e campi diversi del sapere, sia specifico, tra modelli di- versi di psicoanalisi, e un’attenzione alla funzione della citazione mi vengono da un’innata curiosità e da un antico interesse per Walter Benjamin; riflessi di una poetica della leggerezza e della rapidità mi derivano invece da Italo Calvino.

Inaugurato durante un viaggio Milano–Seattle, questo taccuino è stato ispirato in parte da un libro di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività. Durante il volo di andata, mentre ne scorrevo le pagine belle e difficili, mi sono sorpreso a osservare le nuvole perché avevano preso la forma di una vasta distesa di ghiaccio inondata di una luce abbacinante ma, per uno strano fenomeno, come composta di tanti rettangoli separati da profonde e regolarissime scanalature, proprio come i campi arati e variopinti che si vedono quando si sta per atterrare. Mi sembrò un’allegoria di ciò che Agamben stava provando a fare dialogando a sua volta con Hegel e Heidegger: con il loro aiuto, a perimetrare i campi dell’indicibile e del negativo. Dopo pochi minuti la forma delle nuvole mutò in quella di tante ninfee, come disegnate da Monet, ma di ghiaccio, e galleggianti nell’immenso stagno del cielo. Campi, ninfee che non esistono se non nel linguaggio e nella stupefacente possibilità che esso ci dona di poter trasporre tutte le cose.

Per me la psicoanalisi è questa capacità di saper attendere, di sor- prendersi; di lavorare nel luogo dell’inconscio, per definizione un luogo di negatività, e di esercitare una forma di scetticismo dolce: dopotutto un modo dell’ospitalità. Il glossarietto esprime così il mio stile di analista e di persona nel curare la sofferenza psichica e fa intravedere l’immaginario che lo alimenta.

È dunque un glossarietto ‘apocrifo’ perché le voci sono scelte su una base personale e spesso sono ‘controcorrente’; e pertanto non corrispondono, se non per caso, a quelle ‘canoniche’. Infine, pur nella loro varietà, al lettore attento apparirà senz’altro chiaro che esse si dispongono come altrettante tessere di un unico mosaico – e d’altra parte non è la frammentazione una figura dell’andamento liberamente associativo dell’analisi? –. Difatti i vari lemmi sono tutti legati da alcuni, pochi, fili essenziali, il principale dei quali è l’accensione del mentale e del sentimento della bellezza nella relazione d’oggetto, in sostanza un’indagine sul senso dell’essere.

Relazioni sane e adattive: come i genitori possono favorire lo sviluppo delle abilità relazionali nei bambini

All’interno del contesto familiare, la qualità delle relazioni assume un ruolo fondamentale. Essa, non solo determina il benessere dei membri della famiglia stessa, ma è molto probabile che quei pattern relazionali vengano interiorizzati e, successivamente, riproposti dai propri figli nelle loro relazioni.

 

Dato che delle buone abilità comunicative e la presenza di supporto sociale rappresentano dei fattori di protezione fondamentali rispetto a varie forme di psicopatologia, e influenzano anche il grado di soddisfazione e benessere in vari ambiti della vita (ad esempio, quello professionale e sentimentale) è importante che i genitori monitorino il modo in cui si relazionano tra di loro e con i figli, al fine di permettere a questi ultimi di acquisire le abilità sociali di cui hanno bisogno.

In particolare, la teoria evolutiva dell’apprendimento e degli affetti di Benjamin (2003) mette in evidenza tre diversi processi attraverso cui si interiorizzano le prime esperienze interpersonali in funzione di un attaccamento sicuro o insicuro.

Questi processi sono:

  • Identificazione: trattare gli altri nello stesso modo in cui siamo stati trattati. Nella misura in cui un individuo si è identificato fortemente con le figure di accudimento precoci, esiste la tendenza a comportarsi verso gli altri in modi che emulano come si sono comportati i caregivers nei confronti dell’individuo in via di sviluppo.
  • Ricapitolazione: significa reagire come se l’altro interiorizzato fosse ancora presente e avesse il controllo. In questo caso, ad esempio, è probabile che l’input interpersonale sia elaborato in maniera distorta, così che l’altro prossimale, come un amico, è vissuto come simile all’altro interiorizzato, come una figura di accudimento.
  • Introiezione: definita come trattare il sé come si è stati trattati dalle figure di accudimento.

In uno studio, Mengya Xia e collaboratori, hanno osservato che gli adolescenti che hanno precedentemente riferito un clima familiare positivo, da giovani adulti tendevano ad avere migliori capacità di problem solving e relazioni romantiche più soddisfacenti, rispetto a quelli che da adolescenti avevano riferito un clima familiare negativo, caratterizzato da relazioni familiari conflittuali. In più, diverse ricerche hanno dimostrato che i giovani adulti che posseggono le abilità per formare e mantenere relazioni sane, tendono ad essere più soddisfatti della loro vita e ad essere genitori migliori.

Data l’importanza per i figli di acquisire, nel corso dello sviluppo, delle abilità interpersonali sane e adattive, i genitori dovrebbero, in prima battuta, essere in grado di comunicare in maniera assertiva, di regolare le proprie emozioni come la rabbia, di impiegare strategie di coping adattive nella risoluzione dei conflitti, ed infine, di aiutare i propri figli ad acquisire tali abilità fondamentali nel determinare la loro qualità di vita.

 

 

Stress genitoriale: i vissuti interni e le emozioni nei genitori di bambini affetti da varie forme di psicopatologia

La severità dei sintomi dei bambini affetti da differenti forme di psicopatolgia è risultata associata allo stress genitoriale in vari studi. Ciò che sembra incidere sul livello di stress percepito dai genitori sarebbero in parte i sintomi tipici e caratteristici del disturbo ma anche difficoltà nella comunicazione o nella relazione.

Chiara Arlanch – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Stress genitoriale: genitori di bambini con Ritardo Mentale

I genitori di bambini con Ritardo Mentale quotidianamente devono affrontare molte sfide a causa dei deficit di tipo cognitivo, motorio, medico o psicopatologico, che solitamente danno luogo a forti reazioni emotive e preoccupazioni. Il bambino solitamente può avere un aspetto diverso rispetto ai suoi coetanei e mette in atto comportamenti diversi. Il genitore deve gestire tutti gli aspetti della vita del figlio e iniziano presto le preoccupazioni nell’adulto sul futuro del bambino. La presenza di un figlio con Ritardo Mentale può causare difficoltà coniugali nella coppia genitoriale: spesso le madri diventano iperprotettive verso il figlio e concentrano tutte le proprie attenzioni sul bambino, mentre i padri tendono ad allontanarsi dal problema, sia fisicamente sia mentalmente. Frequenti sono i tassi di separazioni e divorzi nei casi di genitori di bambini con Ritardo Mentale (Bornstein, 2002).

Molti fattori influenzano, infatti, le reazioni emotive di genitori di bambini con Ritardo Mentale, tra i quali le caratteristiche dei genitori stessi. E’ importante lo stile con cui il genitore gestisce le situazioni problematiche; il genitore può adottare un tipo di stile orientato al problem-solving, pianificando come risolvere le difficoltà quotidiane, impegnandosi a fondo e traendo insegnamenti dagli errori. Altri genitori possono adottare uno stile improntato sulle emozioni, in cui solitamente l’adulto nega le reazioni emotive che possono esserci verso il figlio oppure al contrario si focalizza solo sull’emotività negativa. Il primo tipo di stile di gestione porta a comportamenti adattivi maggiori rispetto al secondo (Turnbull et al., 1993).

I diversi tipi di reazioni che possono essere presenti tra madre e padre possono influire sul benessere del genitore: da molti studi è emerso come le madri sperimentino maggiore stress e minore senso di controllo della situazione rispetto ai padri (Bristol et al., 1988). Le madri sembravano reagire maggiormente a stimoli specifici, mentre i padri sono più concentrati su aspetti pratici delle problematiche quotidiane, specialmente sui costi economici necessari per gestire il figlio (Price-Bonham & Addison, 1978).

Possono essere cruciali anche le caratteristiche del bambino con Ritardo Mentale sui tipi di reazioni dei genitori; può essere importante ad esempio l’età del bambino. Il genitore in media presenta forti reazioni negative dopo la nascita e la diagnosi del bambino; le madri sono più preoccupate per le acquisizioni dei primi anni del bambino, anche se la preoccupazione permane nel periodo prescolare. Le reazioni emotive nel genitore ricorrono per tutta l’infanzia del bambino, ma anche durante la pubertà e l’età adulta del figlio. La maggior parte degli studi supporta l’ipotesi per cui con il passare del tempo la famiglia si adatta meglio alla situazione e impara a coesistere e gestire meglio le problematiche, ciò nonostante le famiglie hanno notevoli problematiche e le madri riportano alti livelli di stress (Bornstein, 2002)

Un altro aspetto rilevante per le reazioni emotive di questi genitori possono essere ad esempio le caratteristiche della famiglia, come il supporto sociale percepito. Spesso le famiglie con un bambino con Ritardo Mentale si sentono più isolate, ricevendo scarso supporto formale e informale: è emerso che ricevono meno supporto informale, ma che l’aiuto sia più intensificato e provenga in modo maggiore da parte di una cerchia ristretta di familiari e amici fidati (Kazak & Marvin, 1984). Per quanto riguarda il supporto formale Wikler e collaboratori (1981) hanno notato che vi sono differenze di prospettiva tra le famiglie e i centri di supporto: mentre i genitori sperimentavano preoccupazioni sia nell’età infantile sia negli anni successive, nei centri si fornisce più aiuto nei primi anni di vita nel bambino, non sempre venendo incontro a tutte le esigenze dei genitori (Wikler et al., 1981).

Stress genitoriale: genitori di bambini affetti da Disturbi Pervasivi dello sviluppo

Dalla letteratura riguardante i genitori di bambini con Disturbi dello Spettro Autistico è emerso che molto spesso sono riportati alti livelli di stress, anche se non tutti i genitori di bambini con questo disturbo li riportano. Johnson e collaboratori hanno condotto uno studio nel 2011 riguardante lo stress genitoriale, il funzionamento e la qualità di vita legata alla salute in famiglie con bambini e ragazzi (dai 2 ai 18 anni) affetti da Disturbi dello Spettro Autistico. I genitori riportavano un alto tasso di stress, dato anche dalle decisioni che quotidianamente dovevano prendere nella gestione del figlio e delle sue problematiche; lo stress poteva essere causato da vari fattori, tra i quali la qualità di funzionamento della famiglia, la qualità di supporto e relazioni sociali e il tipo di aspettative dei genitori (Johnson et al., 2011).

Lo studio di Davis & Carter (2008) ha analizzato lo stress di madri e padri di bambini con autismo più piccoli (di età media di 27 mesi) e i genitori hanno dichiarato alti livelli di stress. I problemi nelle abilità sociali e relazionali dei figli erano associati allo stress e a problematiche nell’interazione col bambino. Lo stress materno era associato a difficoltà di regolazione del bambino, mentre lo stress del padre era più associato a problematiche comportamentali (Davis & Carter, 2008).

I genitori di bambini con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo solitamente hanno maggiori livelli di stress genitoriale in confronto ad altri genitori con bambini a sviluppo tipico, ma anche in confronto a genitori di bambini con altre disabilità. Vari studi hanno indagato lo stress genitoriale in famiglie con bambini con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, utilizzando ad esempio il Questionnaire on Resources and Stress (QRS) di Holroyd o il Parenting Stress Index-Short Form (PSI-SF) di Abidin: è emerso che le famiglie di bambini con disturbi dello spettro autistico erano più stressate di famiglie senza bambini con questi disturbi (Johnson et al., 2011).

La severità dei sintomi dei bambini è risultata associata allo stress genitoriale in vari studi. In genitori di bambini affetti da questo disturbo sono i sintomi tipici e caratteristici del Disturbo dello Spettro Autistico a creare alto stress. Bebko e collaboratori (1987) ha rilevato che i fattori più stressanti per questi genitori erano proprio dei sintomi strettamente connessi al disturbo, come le difficoltà di comunicazione o nella relazione (Bebko et al., 1987). Phetrasuwan (2003) tramite una scala costruita per valutare appositamente lo stress genitoriale di famiglie con bambini autistici (Parenting Stress Scale: Autism) ha evidenziato che a recare maggiore stress nelle madri erano i timori fuori luogo dei bambini e la loro difficoltà ad adattarsi a cambiamenti anche minimi (Phetrasuwan, 2003).

Oltre alla severità dei sintomi autistici anche altri comportamenti problematici di questi bambini possono essere fonte di stress. I problemi comportamentali del bambino sono associati ad alti livelli di stress genitoriale, più del ritardo evolutivo. Ad esempio Lecavalier e collaboratori (2006) hanno mostrato come specifici problemi comportamentali erano più predittivi di alto stress rispetto ai comportamenti adattivi (Lecavalier et al., 2006). Possono influenzare lo stress anche fattori positivi: lo studio di Beck e collaboratori (2004) ha dimostrato che sia i problemi comportamentali sia le limitate competenze (in termini di comportamenti prosociali) erano associati ad alti livelli di stress e i ricercatori hanno sottolineato l’importanza di analizzare il contributo di comportamenti positivi e problematici indipendentemente (Beck et al., 2004).

La ricerca di Koegel e collaboratori (1992) suggerisce che potrebbe esistere un profilo caratteristico relativamente costante in genitori di bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico: nello studio emergono infatti specifiche aree di difficoltà nel crescere un bambino con Disturbo dello Spettro Autistico (Koegel et al., 1992). Le differenze riscontrate rispetto a genitori di bambini a sviluppo tipico sono state preoccupazioni per il futuro del bambino, per la sua capacità cognitiva e la sua autonomia e per la sua integrazione nella comunità. Holroyd e MacArthur (1976) hanno confrontato madri di bambini con questo disturbo con madri di bambini con Sindrome di Down: le madri di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico hanno affermato che i loro figli erano più dipendenti fisicamente da loro e meno autonomi (Holroyd & MacArthur, 1976).

La letteratura inoltre riporta che sembrano esserci delle aree specifiche di stress che possono aumentare lo stress genitoriale, ovvero delle situazioni che possono metterli in difficoltà, non solo in relazione alla severità dei sintomi del bambino. Lo studio di Koegel e collaboratori (1992) conferma che potrebbero esserci in queste famiglie delle restrizioni nelle opportunità e che questi genitori sono meno inclini a passare del tempo dedicandosi ad attività di piacere fuori casa, occupandosi maggiormente dell’accudimento del bambino all’interno delle mura domestiche (Koegel et al., 1992).

In letteratura è stato inoltre confrontato il livello di stress sperimentato da madri e padri e i risultati non sono univoci; alcuni studi riportano che le madri sperimentano in media maggior stress dei padri, come ad esempio due studi, che hanno valutato lo stress tramite il Questionnaire on Resources and Stress (QRS) (Herring et al., 2006). Queste evidenze sono state interpretate da molti come la conseguenza del ruolo più centrale assunto dalle mamme nell’accudire e seguire i bambini con Disturbo dello Spettro Autistico. Ricerche più recenti mostrano invece che lo stress sperimentato da madri e padri sia allo stesso livello, forse dovuto al fatto che con il passare del tempo i padri hanno sempre più assunto maggiori responsabilità nei confronti dei propri bambini con questo disturbo, con una più equa distribuzione dei compiti (Hastings et al., 2005).

La ricerca di Pottie e Ingram (2008) ha esaminato le strategie di gestione dello stress messe in atto da genitori di bambini con Disturbi dello Spettro Autistico, che hanno riportato il livello di stress quotidiano, le strategie di coping e il proprio tono dell’umore. I ricercatori distinguono i risultati in base agli effetti sull’umore positivo e su quello negativo. La ricerca ha evidenziato cinque tipi di risposte di coping (ovvero adottare strategie di problem-solving, ricerca di supporto sociale, attuare una riformulazione positiva, mettere in atto una regolazione emotiva, o una strategia di negoziazione o di ricerca di compromesso) che erano predittive di un aumento di tono dell’umore positivo. E’ inoltre emerso che quattro tipi di risposte (strategia di evitamento della situazione stressante, tentativo di distrarsi, strategia di allontanamento dagli altri e risposta di rassegnazione) portavano a un decremento di tono dell’umore positivo. La tipologia di sintomi presenti nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico e la distanza temporale dal momento dell’avvenuta diagnosi erano predittivi dell’umore quotidiano del genitore (Pottie & Ingram, 2008).

Stress genitoriale: genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento

I genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento hanno spesso molte fonti di stress quotidiane e la relazione genitore-bambino può essere influenzata negativamente in molti modi. I genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento infatti si preoccupano solitamente di come i loro figli si trovino a scuola, delle relazioni che instaurano con i pari e dei comportamenti problematici che i loro figli possono adottare. Questi genitori hanno alti livelli di stress, di frequente temono di non riuscire più a gestire i comportamenti dei figli e pensano che il problema del figlio sia diventato il centro delle proprie vite. La letteratura ha indicato maggiori livelli di stress per i genitori con bambini con Disturbi dell’Apprendimento rispetto ai genitori i cui bambini non hanno tale disturbo. Le madri di bambini con queste problematiche riportano minore soddisfazione in merito al loro ruolo genitoriale, al proprio rapporto di coppia e alti indici di divorzio. La ricerca ha messo in evidenza come questi genitori tendono a dare maggiori direttive e più riscontri negativi ai loro figli avendo uno stile più autoritario e meno supportivo. La letteratura ha inoltre evidenziato che sono presenti differenze tra madri e padri: questi ultimi in generale tendono a minimizzare l’entità del problema, percepiscono i figli con Disturbi dell’Apprendimento come meno problematici ed entrano meno in conflitto con loro, mentre le madri sperimentano più difficoltà nella disciplina e sono più stressate (Barkley et al., 1992).

In presenza di questi molteplici aspetti i genitori di bambini con Disturbi dell’Apprendimento si sentono solitamente soli, isolati e viene loro a mancare il supporto sociale di cui necessitano. Per questi genitori è importante ricevere comprensione empatica e accettazione da parte degli altri; ciò potrebbe aumentarne l’autostima e l’autoefficacia e ridurre il senso di colpa e la delusione sperimentati (Seligman, 1993).

Stress genitoriale: genitori di bambini con Disturbo da deficit di Attenzione/Iperattività

Nei bambini con ADHD sono frequenti scarsi risultati scolastici e inadeguato impegno nei compiti che sono interpretati dagli adulti come sintomo di pigrizia, scarsa responsabilità o opposizione. All’interno delle loro famiglie vi sono spesso conflitti, risentimenti e antagonismo: il fatto che i sintomi del bambino siano così vari fa credere al genitore che vi sia volontarietà alla base delle sue azioni. Il genitore è spesso in constante litigio col bambino, si creano così interazioni negative (American Psychiatric Association, 2000).

Lo studio di Johnston e Freeman (1997) ha indagato le attribuzioni e reazioni di genitori di bambini con ADHD di fronte a comportamenti di inattenzione, iperattività, opposizione e prosociali. E’ emerso che i genitori di bambini con questo disturbo percepivano i comportamenti di disattenzione, iperattività e opposizione come causati dall’interno e meno controllabili dal bambino; tendevano a vederli più stabili e a reagire in modo peggiore. Per quanto riguarda i comportamenti prosociali, questi genitori ne percepivano la causa come meno interna e meno stabile (Johnston & Freeman, 1997). I genitori di bambini con ADHD sperimentano maggiore stress rispetto ai genitori di bambini senza questo disturbo, inoltre percepiscono minore senso di efficacia ed è frequente in queste famiglie un alto tasso di conflitti coniugali, separazioni o divorzi (Sethi, 2012).

Mash e Johnston (1983) hanno confrontato genitori di bambini con ADHD e genitori di bambini a sviluppo tipico: i primi riportavano minore autostima e più alti livelli di stress genitoriale associati alle caratteristiche del bambino e a propri sentimenti di isolamento sociale e senso di colpa. I genitori di bambini con ADHD percepivano i propri figli come maggiormente problematici, ma percepivano anche di non avere delle buone competenze genitoriali. Emerge anche che l’autostima genitoriale delle madri è correlata alla percezione dei padri del proprio figlio come un bambino difficile. La maggiore fonte di stress è data dalle caratteristiche del bambino, in particolare dalla sua iperattività e distraibilità; le correlazioni tra lo stress riportato da madri e padri e le percezioni del figlio come un bambino difficile di madri e padri erano alte (Mash & Johnston, 1983).

Spesso la madre di un bambino con ADHD fa la scelta di lasciare la propria attività professionale per dedicarsi completamente alla gestione del figlio e della casa. Lo studio di Kvist e collaboratori (2011) mostra come i genitori di bambini con ADHD hanno una probabilità del 75% più alta di porre fine al proprio matrimonio e hanno in media meno opportunità lavorative. Il genitore deve affrontare il fatto che il bambino necessita di una gran quantità di tempo rispetto ad altri bambini; l’adulto deve essere spesso presente e guidare il bambino nelle varie attività quotidiane. Può essere problematico anche far svolgere a figlio semplici compiti come andare a dormire, prepararlo per andare a scuola, farlo mangiare o fargli fare i compiti. Nel genitore è frequente la frustrazione; si crea spesso un circolo vizioso di conflitti all’interno della coppia e incoerenze educative (Kvist, Nielsen & Simonsen, 2011).

I comportamenti del bambino sono spesso percepiti come fastidiosi e stressanti e suscitano nel genitore, che impartisce forme più severe di punizione, reazioni forti. Le madri di bambini con ADHD hanno interazioni meno positive, più stressanti e insoddisfacenti con i propri figli rispetto alle madri di bambini con sviluppo tipico. Per questi genitori avere un figlio con queste problematiche può essere fonte di stress, di bassa autostima e può modificare la percezione del genitore del proprio ruolo genitoriale, delle caratteristiche del bambino e del tipo d’interazione genitore-figlio (Mash & Johnston, 1983).

Stress genitoriale: genitori di bambini con problematiche emotive

I genitori di bambini con difficoltà emotive possono sperimentare numerose problematiche quotidiane, nel tentativo di assistere i figli a gestire i sentimenti negativi: essi dovrebbero infatti essere di supporto e tentare di insegnare loro strategie di gestione dell’emotività. I genitori di questi bambini variano molto nelle loro reazioni e possono essere supportivi o non supportivi: nel primo caso il genitore invita il bambino ad aprirsi e ad esprimere le proprie emozioni, aiutandolo a comprenderle e gestirle, mentre nel secondo caso il genitore tende a ridurre l’espressione di emozioni negative del bambino, facendogli capire di non apprezzare tale manifestazione o punendo il bambino. Un atteggiamento più di supporto da parte del genitore può influenzare positivamente la competenza emotiva e sociale del bambino, favorendo la comprensione delle emozioni e i rapporti sociali. Al contrario una reazione non supportiva del genitore può peggiorare le problematiche emotive del bambino, che non sente di avere la possibilità di esprimere le proprie emozioni negative. I padri nelle loro reazioni all’emotività negativa dei figli sono meno supportivi delle madri (Eisenberg et al., 1996).

Lo studio di Valiente e collaboratori (2007) ha mostrato che il tipo di reazioni che i genitori attuano nei confronti di manifestazioni di emotività negativa dei loro bambini influenza il livello di stress legato al ruolo genitoriale (Valiente et al., 2007). Nelson e collaboratori hanno inoltre evidenziato che lo stress della famiglia è associato al modo in cui i genitori interagiscono col bambino: più stress genitoriale sperimentano, meno supportive sono le reazioni e più usano metodi non supportivi per insegnare al bambino come esprimere i sentimenti (Nelson et al., 2009).

Conclusioni

In varie ricerche sembra essere emersa una maggiore vulnerabilità e stress in genitori di bambini affetti da questi tipi di patologie, rispetto ai genitori di bambini con sviluppo tipico. I genitori di bambini affetti da ognuno di questi disturbi presentano problematiche specifiche, che spesso emergono dalle ricerche, anche se la letteratura sembra essere più vasta su alcuni disturbi rispetto ad altri, in cui sarebbero utili ulteriori approfondimenti. In generali le madri sembrano presentare spesso maggiori livelli di stress e indici psicopatologici. Come sottolineato in letteratura in queste donne è frequente la presenza di stress, depressione ed altri sintomi; assillate dalle preoccupazioni e assorbite dall’organizzazione e gestione della vita del bambino, spesso trascurano se stesse e il proprio rapporto di coppia per concentrarsi soprattutto sulle esigenze del figlio.

Osservare i punti di debolezza nei genitori può essere un punto di partenza per comprendere le problematiche e il vissuto da essi riscontrati, con la speranza di poter prevedere forme di aiuto e sostegno che ne migliorino la qualità di vita.

Fidarsi dei pazienti (2016) di F. Gazzillo – Recensione di Giancarlo Dimaggio

Fidarsi dei pazienti di Francesco Gazzillo è, semplicemente, un libro che i terapeuti devono tenere sul comodino. Leggerlo. Rileggerlo. Impararlo. Applicarlo.

 

Se vogliamo curare i pazienti la nostra formulazione del caso deve essere di un’accuratezza finissima. Per arrivarci abbiamo bisogno di teorie adeguate, grazie alle quali ascolteremo i pazienti e riorganizzeremo il loro discorso in un modo che li farà sentire visti, accettati, capiti e accompagnati verso la salute, la rottura delle catene mentali che vincolano alla sofferenza.

E ci servono libri che ci spieghino il processo relazionale in terapia, quello che accade tra paziente e terapeuta. Libri che ci mostrino, senza oscurantismi, linguaggio iniziatico, idee strampalate, che il modo in cui il clinico si relaziona al paziente ha un impatto potenzialmente utilissimo sul suo funzionamento.

Fidarsi dei pazienti di Francesco Gazzillo è, semplicemente, un libro che i terapeuti devono tenere sul comodino. Leggerlo. Rileggerlo. Impararlo. Applicarlo.

Perché illustra una delle teorie più utili clinicamente che possiate trovare, la Control Mastery Theory. Sviluppata negli anni ’80 dagli psicoanalisti Joseph Weiss e Harold Sampson, ha una capacità ineguagliabile di spiegare la componente relazionale del processo di cura. La concettualizzazione del caso è formulata esattamente come voglio: chiara, affilata e soprattutto alla luce di una psicologia della salute.

Qual è l’idea? Che i pazienti siano motivati da desideri e spinte sani, funzionali, adattivi. Ma che covino una serie di credenze patogene su come gli altri risponderanno alle loro proposte relazionali. A causa di queste risposte reagiscono in una serie di modi: compiacendo, ribellandosi, estremizzando i comportamenti opposti, reprimendo i desideri sani. E a quel punto si fregano la possibilità di realizzare i propri desideri. Si tratta di credenze che i pazienti possono coltivare in piena coscienza, ma più spesso si tratta di automatismi, procedure relazionali inconsce, agite senza consapevolezza.

Più in dettaglio, l’idea è che ogni relazione interpersonale sia una specie di test. Come dice con chiarezza Gazzillo:

In tutto ciò che facciamo nelle nostre relazioni più o meno intime, e dunque anche in terapia, ci può essere almeno una dimensione di test… visto che vogliamo sentirci al sicuro per realizzare i nostri obiettivi e disconfermare le nostre credenze patogene, ogni volta che ci rapportiamo a un’altra persona facciamo tutto questo e stiamo attenti a vedere se e quanto la risposta dell’altro è in linea con i nostri bisogni (p. 34).

La teoria della cura, almeno per quanto riguarda la relazione terapeutica ha la stessa disarmante chiarezza. Il paziente testerà il terapeuta per vedere se quest’ultimo confermerà le sue credenze patogene o agirà disconfermandole e così facendo lo renderà libero di perseguire il suo desiderio sano con sicurezza e libertà. Grazie a questa teoria, e alle tante vignette cliniche che Gazzillo utilizza per illustrarla, il terapeuta, di qualunque orientamento sia, apprende strumenti per ragionare su come comportarsi quando il paziente lo critica, adotta comportamenti a rischio, salta le sedute, chiede un parere. Insomma, fa ragionare in un modo semplice, lucido e sensato sulla relazione di transfert.

Il clinico esce dal libro e ha capito una cosa: che deve essere di parte. Sapere riconoscere qual è il piano sano, adattivo, il desiderio che il paziente persegue. E supportarlo, validarlo, fare capire con le parole e con le azioni che lo sostiene. In questo modo il terapeuta si scolla di dosso le attribuzioni schema-dipendenti che il paziente gli aveva affibbiato e permette al paziente stesso di vivere le relazioni con un senso di curiosità, scoperta e libertà.

Se non sono stato abbastanza chiaro: un volume del genere ha la stessa importanza degli scritti di Safran e Muran sulla relazione terapeutica e sulla rottura e riparazione dell’ alleanza. Ora sono stato abbastanza chiaro.

Qualche nota personale

A metà degli anni ’90 Joseph Weiss tenne un seminario all’Associazione di Psicologia Cognitiva. Erano presenti cognitivisti e psicoanalisti e quel giorno nessuno era interessato alla scuola di appartenenza. Weiss parlava un linguaggio che veniva fuori pari pari da Piani e strutture del comportamento di Miller, Galanter e Pribram. Lui non lo sapeva, i cognitivisti sì. Lì cognitivismo e psicoanalisi andavano a braccetto.

Qualche anno fa presentavo qualcosa, credo sotto l’ala della scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università La Sapienza. Durante il mio intervento parlai di una mia paziente, mi pare di ricordare fosse narcisista. Francesco Gazzillo faceva da discussant. Fece vari interventi. A un certo punto gli chiesi se avesse conosciuto la paziente perché mi stava dicendo cose su di lei che io non avevo detto! Ed erano tutte giuste. Per fare osservazioni come quelle ci vogliono intelligenza e acume clinico. E una teoria solida come la roccia. Intelligenza e acume clinico sono qualità personali. La teoria solida come una roccia era la Control Mastery Theory.

Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi (2017) di C. Jesurum – Recensione del libro

Nel libro Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi, la psicoanalista e psicoterapeuta Costanza Jesurum affronta una questione importante: come orientarsi nel vasto panorama della psicologia, delle psicoterapie e degli orientamenti teorici che le contraddistinguono?

 

Una domanda che caratterizza sia la ricerca di chi per la prima volta si orienta verso un percorso terapeutico, ma che interessa anche chi lo ha già intrapreso e sta sviluppando una curiosità verso il mondo della psicologia e della psicoterapia.

In Dentro e fuori la stanza l’autrice ripercorre alcune delle domande più frequenti dei non addetti ai lavori, rendendo maneggevoli al lettore alcuni aspetti non sempre di facile comprensione, anche in ragione dell’immagine pubblica frammentata che le psicoterapie contribuiscono a creare nel loro essere scarsamente comunicanti e a volte in competizione l’una con l’altra.

Come nasce la figura dello psicologo? Quali differenze si possono riscontrare rispetto ad altre figure sanitarie che si occupano di salute mentale, come ad esempio lo psichiatra? Quali informazioni sarebbe necessario raccogliere rispetto alla formazione del professionista a cui ci si affida? Funziona la psicoterapia? Che cosa permette di raggiungere un cambiamento?

Costanza Jesurum utilizza le evidenze scientifiche sull’efficacia delle psicoterapie per rispondere al dubbio che accompagna fin dalle prime battute l’avvio di un percorso terapeutico e la possibilità di costruire un’alleanza di lavoro produttiva: le diverse ricerche nell’ambito hanno dimostrato che la psicoterapia produce benefici, e la validità terapeutica è rappresentata secondo la sua definizione dalla “possibilità di costruire un orizzonte di senso, con un nuovo vocabolario e una nuova sintassi per parlare della propria vita, e per dare nome alle proprie scelte”.

Dentro e fuori la stanza: cosa chiede lo psicoterapeuta? Perchè?

Affrontate queste incertezze, l’autrice di Dentro e fuori la stanza ci propone un’analisi delle strane richieste che gli psicoterapeuti fanno ai propri pazienti all’inizio e durante il percorso. Sviscera quegli aspetti che più facilmente possono suscitare molte perplessità sia dentro che fuori dalla stanza di cura come la questione del pagamento delle sedute, la definizione della frequenza degli incontri, gli accordi rispetto a quelli saltati, la durata e l’invio di un proprio famigliare.

Sembra così che Costanza Jesurum sia ben riuscita nel suo proposito di fare un po’ di ordine nella confusione di tanti pazienti e di amici e famigliari degli stessi.

[blockquote style=”1″]ho provato a fornire le risposte alle domande che più spesso mi sono state poste, cercando di includere, per quanto mi fosse possibile, anche sguardi teorici e approcci da me più lontani, e nel pensare a queste risposte ho messo insieme cosa possiamo avere in comune noi terapeuti di diverse scuole[/blockquote]

In questo senso, di Dentro e fuori la stanza colpisce quanto, fornendo risposte chiare e mai semplificate, il lettore possa riuscire ad integrare con successo quella visione spesso troppo caleidoscopica della psicologia e delle psicoterapie.

Soldi e matrimonio fanno la felicità? Come lo status economico e civile influenza il benessere psicologico

Soldi, felicità e..matrimonio: è questa la combinazione perfetta? Il benessere psicologico delle persone varia in base allo status economico e civile? Il matrimonio fa bene alla salute?

 

Uno studio condotto in America ha verificato come le coppie sposate che guadagnano meno di 60.000 dollari all’anno a coppia (all’incirca 50.000 euro – tale cifra è da intendersi all’interno del contesto in cui lo studio è avvenuto, ovvero quello americano, in cui, il costo della vita è più alto rispetto a quello del contesto italiano) hanno meno sintomi depressivi rispetto a coloro che non sono sposati e che guadagnano la stessa cifra da soli. Un ulteriore dato emerso dallo studio mostra come le coppie che guadagnano cifre superiori a 60.000 dollari non mostrano lo stesso stato di benessere mentale delle coppie con reddito inferiore a questo.

Soldi, felicità e.. risorse coniugali

Il presupposto teorico dell’analisi condotta dai ricercatori, dott. Carlson e dott. Lennox Kail della Georgia State University, è il modello delle risorse coniugali. Secondo tale modello il matrimonio fornisce risorse sociali, psicologiche ed economiche capaci di promuovere il benessere dei coniugi. La salute conseguente al matrimonio può esser dovuta ad un aumento delle risorse economiche grazie alla messa in comune della ricchezza e di conseguenza questo può condurre ad un maggiore benessere dovuto ad un miglioramento della nutrizione, dell’opportunità di cure mediche e all’accesso ad altre risorse utili a migliorare la salute (Ross, Mirowsly e Goldsteen, 1990).

Il presente studio è recentemente stato condotto presso la Georgia State University, basandosi sui dati del Changing Lives Survey degli americani, un’indagine nazionale longitudinale composta da interviste con 3.617 adulti negli Stati Uniti di età compresa tra 24 e 89 anni. La Changing Lives Survey indaga differenti elementi, tra cui aspetti sociologici, psicologici, mentali e fisici.

Il ricercatore principale dello studio, il dott. Ben Lennox Kail, ha analizzato i dati emersi dalla survey creando dei gruppi in base allo stato civile:

[blockquote style=”1″]Abbiamo esaminato le interrelazioni tra matrimonio, reddito e depressione, e ciò che abbiamo scoperto è che il beneficio del matrimonio sulla depressione è fruibile dalle persone con livelli di reddito medio o basso[/blockquote].

Dallo studio emerge, dunque, che le persone sposate e con reddito medio-basso sperimentano meno sintomi di depressione (riferendosi gli sperimentatori a livelli di depressione subclinica, i quali seppur non clinicamente rilevanti, impattano sulla salute e sulla felicità del soggetto).

Il dato più rilevante emerso è che non è il matrimonio di per sé ad essere associato alla riduzione di sintomi depressivi, ma l’esito di benessere è concausato sia dallo status civile sia da quello economico.

I ricercatori hanno ipotizzato che tali risultati dipendano dal fatto che coloro il cui reddito personale o di coppia è alto hanno già abbastanza risorse sulle quali investire per la propria felicità. Per quanto riguarda, invece, coloro il cui reddito è medio-basso, il matrimonio di per sé rappresenta un senso di sicurezza finanziaria, dettato dalla probabile messa in comune delle risorse coniugali.

Madre e bambino: qual è il loro legame? Ce lo dice un nuovo strumento: l’ NVA

Le interazioni tra madre e bimbo oggi possono essere studiate attraverso un nuovo strumento, il Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction- NVA.

 

Nel corso degli ultimi trent’anni sono stati messi a punto diversi strumenti per l’osservazione strutturata delle interazioni diadiche. La maggior parte di esse erano finalizzate alla descrizione e valutazione della sensibilità materna nel contesto della relazione madre-bimbo nel corso della prima infanzia (Cassibba & van Ijzendoorn, 2005).

L’utilizzo della videoregistrazione ha dato un grande contributo al miglioramento delle tecniche osservative e ha permesso la creazione di strumenti finalizzati a una sempre maggior correttezza nella valutazione. Ha anche dimostrato il suo grado di efficacia, non solo nell’ambito di ricerca, ma anche in ambito clinico nell’osservazione, nella diagnosi e nel trattamento delle problematiche infantili inscrivibili nei disturbi della relazione e dell’ attaccamento (Ainsworth et al., 1978; Riva Crugnola, 2007).

Un limite di questi strumenti riguarda la difficoltà di interpretazione delle categorie e delle dimensioni di valutazione che tendono a essere piuttosto ampie e globali, difficilmente fruibili in assenza di un’ampia esperienza clinica da parte di chi li utilizza.

Come viene osservato il legame madre e bimbo attraverso l’NVA?

Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction- NVA è uno strumento per l’osservazione strutturata, la valutazione e la codifica di sequenze videoregistrate di interazioni tra il caregiver e il bimbo nei primi tre anni di vita, dove per caregiver si può intendere anche un educatore, un terapista o un insegnante.

La struttura della codifica NVA permette all’osservatore di valutare separatamente i comportamenti dell’adulto e quelli del bimbo, ponendoli sempre in relazione tra loro.

In questa prospettiva il Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction-NVA (Moioli, 2008; Moioli et al., 2010, 2014) si propone di integrare gli aspetti informativi presenti nelle scale già esistenti in letteratura, fornendo

  • categorie comportamentali (livello microanalitico) maggiormente specifiche e descrittive, più facilmente rilevabili per operatori che lavorano nell’ambito dell’osservazione infantile
  • sette tipologie qualitativamente corrispondenti (livello macroanalitico) con le quali definire la modalità interazionale del genitore e del bambino, una volta rilevate le dimensioni comportamentali microanalitiche

La tecnica di rilevazione e codifica dei comportamenti prevede la ricerca di corrispondenza fra ciò che si osserva e un’ampia varietà di risposte pre-organizzate, a loro volta classificate nelle sette dimensioni categoriali o aree di valutazione:

  1. lo sguardo
  2. la mimica facciale e azioni del viso
  3. i gesti delle mani e delle braccia
  4. la postura corporea, l’uso del corpo e dello spazio
  5. l’uso della voce
  6. l’uso delle parole (dai 12 mesi)
  7. l’uso degli oggetti e del gioco (playing tool) – il momento del pasto (feeding tool)

All’interno di ciascuna area si individuano i comportamenti suddivisi e organizzati a loro volta in tre categorie di “avvicinamento” e tre di “allontanamento” dallo stile relazionale centrale: stile “sensibile” per l’adulto e stile “partecipativo” per il bambino.

NVA è strutturato in modo da collocare al centro le modalità interazionali adeguate, che considerate insieme presentano una doppia polarità negativa: se uno dei 2 (madre o bimbo) va nella direzione della presa di distanza, l’altro va verso l’avvicinamento eccessivo e l’intrusività. I punteggi ottenuti sulla base delle osservazioni rilevate permettono di fare delle riflessioni sia a livello categoriale (per es. categoria con un punteggio più alto o più basso), sia a livello dimensionale, andando a descrivere il profilo specifico di caregiver e bambino.

Legame madre e bimbo: le informazioni offerte da NVA per la gestione diagnostica e terapeutica

NVA offre agli operatori due diversi tipi di valutazione:

  • “NVA Playing tool” per la codifica delle interazioni di gioco
  • “NVA feeding tool” per la codifica delle interazioni tra caregiver e bambino durante il momento del pasto dalla fase dello svezzamento in poi (Moioli, 2017).

Dalla codifica emergono due profili:

  • Il primo profilo è basato sulle frequenze con le quali si presenta uno stile di comportamento ed è visualizzato a livello grafico-quantitativo ponendo a confronto i comportamenti di entrambi i soggetti dell’interazione.

Legame madre-bambino: da oggi è possibile codificarlo con l'NVA- Immagine 1

 

  • Il secondo profilo permette di confrontare gli stili di interazione di caregiver e bambino rispetto alle soglie di rischio e grave rischio di comportamenti problematici differenziati nelle varie aree.

Legame madre-bambino: da oggi è possibile codificarlo con l'NVA - Immagine 2

Un ulteriore vantaggio di questo sistema è rappresentato dalla possibilità di ottenere valori descrittivi per le diverse dimensioni categoriali mettendo in luce quali sono gli eventuali punti di forza o di debolezza della diade.

Lo schema di codifica si pone dunque come uno strumento in linea con la letteratura esistente, in grado di coniugare un’osservazione maggiormente microanalitica basata sulla rilevazione di specifici comportamenti con la possibilità di ottenere informazioni globali e dimensionali sulla coppia genitore-bambino. In particolare, consente di focalizzare in modo dettagliato i punti critici e le risorse delle modalità di interazione materna e di risposta del bambino, mostrandosi particolarmente utile nell’ambito dei progetti di intervento o di screening precoce del rischio.

Questo nuovo sistema di codifica delle interazioni soddisfa pertanto il bisogno di trovare una sintesi capace di restituire al clinico delle indicazioni sempre più dettagliate e precise su come “stanno insieme” genitore e bambino (Stern, 1995).

Le informazioni raccolte dall’analisi codificata delle interazioni consentono una restituzione al genitore o all’adulto precisa ed efficace supportando la tecnica del video feedback (revisione condivisa e commentata del video dell’interazione stessa al genitore).

NVA è uno strumento appositamente pensato e studiato per poter essere utilizzato da operatori sanitari anche non medici e la tecnica proposta ha lo scopo di ridurre al minino il rischio di interpretazione dell’interazione.

Legame madre bimbo: NVA e altri strumenti a confronto

A differenza di altri metodi di classificazione delle interazioni (Biringen, 2008; Crittenden, 1998) il sistema di codifica NVA centra l’attenzione sull’effetto che le azioni dell’uno hanno sull’altro, su ciò che è visibile. Delle 7 categorie definite sia per il bambino sia per l’adulto, ne definiamo una centrale che include i comportamenti di una coppia genitore-bimbo funzionante dove si osserva che i due condividono in pieno lo stesso progetto di gioco con un piacere condiviso.

Da questa categoria centrale (adulto “sensibile” e bambino “partecipativo”) si distanziano con intensità crescente tre categorie che descrivono comportamenti di “avvicinamento” (controllante, intrusivo/reattivo e aggressivo/violento) e tre categorie che descrivono comportamenti di “allontanamento” (collaborante, passivo e espulsivo/escludente).

Recenti applicazioni dello strumento hanno messo in evidenza il contributo che l’analisi codificata delle interazioni adulto-bambino ha apportato in ambito di prevenzione e di sostegno della genitorialità in condizioni di rischio, ad esempio depressione post-partum e genitorialità in adolescenza (Ierardi et al., 2018; Moioli et al., 2016; Riva Crugnola et al., 2009) e non rischio come i percorsi post-partum di accompagnamento alla crescita (Riva Crugnola, 2007; Vigorelli, 2005).

Ulteriori contributi riguardano la valutazione diagnostica e la programmazione terapeutica di bambini della fascia 0-3 con ritardo del linguaggio, sospetto spettro autistico, mutismo selettivo, sospetta iperattività, difficoltà nella gestione del momento del pasto (Caiati et al., 2016; Dosi et al., 2017; Moioli, 2014; Silvano et al., 2018). Alcuni studi sono stati effettuati anche per comprendere e migliorare l’intervento di terapia neuropsicomotoria nelle interazioni madre – bimbo nel caso di bambini con Sindrome di Down e nascita pretermine (Broggi et al., 2014).

Inoltre la compilazione condivisa della codifica NVA permette di affinare le riflessioni dell’equipe multidisciplinare nelle supervisioni di casi clinici.

Prospettive future per l’NVA

La definizione multidimensionale dello strumento fornisce al clinico e al ricercatore la possibilità di cogliere diversi profili funzionali relativi alla diade genitore-bambino o adulto-bambino.

Gli ambiti di applicazione coinvolgono lo screening precoce, la definizione diagnostica, la pianificazione dell’intervento terapeutico e la valutazione della sua efficacia. Significativo può essere inoltre l’apporto del NVA nel dibattito scientifico sul ruolo della sensibilità diadica nel processo di trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento (van Ijzendoorn & Bakermans-Kranenburg, 2018; Zimmermann, 1999).

Le nuove droghe: i catinoni sintetici, dal mefedrone alla flakka – Introduzione alla psicologia

Tra le nuove droghe, sempre più di frequente, si sente parlare dei catinoni sintetici, tra cui troviamo anche mefedrone e flakka, ovvero delle molecole ottenute in laboratorio note anche come sali da bagno, appartenenti al gruppo delle designer drugs.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Si tratta di sostanze che determinano una forte sensazione di eccitazione, comunemente chiamata “sballo”. La particolarità di queste droghe, però, è quella di avere un’azione analoga a quella del catinone naturale, molecola ottenuta dalla pianta del Khat.

I catinoni sintetici agiscono a livello del sistema nervoso centrale, determinando una forte sensazione di eccitazione. Da qualche tempo i catinoni sono diventati un vero e proprio fenomeno sociale, anche in Italia.

Tra i catinoni sintetici, il più importante e maggiormente utilizzato, è il mefedrone, nome in gergo Mafalda, che emula il meccanismo d’azione del catinone naturale. Oltre a questo esistono tanti altri catinoni sintetici, come: il pentedrone cloridrato, il metilone cloridrato e altre varietà di scarsa qualità che non causano effetti particolarmente duraturi ed eccitanti.

Meccanismo d’azione

I catinoni agiscono al livello sinaptico della noradrenalina, della dopamina e della serotonina, stimolando il rilascio di questi neurotrasmettitori.

Il mefedrone, inoltre, è due volte più potente del metilone come transporter di substrato, poiché aumenta maggiormente i livelli extracellulari di dopamina e serotonina, similmente a quanto causato dall’MDMA. Il potenziamento della trasmissione dopaminergica fa presupporre un elevato potenziale di abuso. Al pari di quanto avviene con l’MDMA, inoltre, la ripetuta somministrazione di dosi elevate causa deplezione del patrimonio cerebrale di serotonina, dipendenza e assuefazione.

Storia

Il primo catinone ad essere sintetizzato è stato il mefedrone, nel 1929 in Francia. La sostanza è apparsa sul mercato illegale nel 2003, ad opera di uno sperimentatore noto con il nickname di Dr. Zee che l’ha pubblicizzato sul sito internet The Hive. La prima significativa diffusione del mefedrone è avvenuta in Inghilterra e in Olanda, in concomitanza con la riduzione della disponibilità di MDMA sul mercato illegale. Il mefedrone è circolato legalmente in molti stati europei prima di essere inserito nella tabella delle legislazioni nazionali sugli stupefacenti. Inoltre, era usato anche come sostanza per esperimenti o come fertilizzante per piante, prima di essere dichiarato illegale.

Sintesi e produzione

La sintesi del mefedrone e degli altri catinoni sintetici è relativamente semplice ed è simile a quella dell’MDMA. Esso è sintetizzato soprattutto in estremo Oriente, Cina, Birmania ed India, ma sono stati scoperti laboratori clandestini anche in Italia.

Il mefedrone, generalmente, si presenta in forma di polvere bianca o chiara, eccezionalmente in forma di compresse.

Modalità di assunzione

Il mefedrone e gli altri catinoni sintetici possono essere assunti per via orale, per via intranasale o sniffati, per insufflazione, e possono essere iniettati per via intramuscolare o endovenosa. Il dosaggio del mefedrone varia a seconda da come è assunto.

Effetti e dosaggio del mefedrone e dei catinoni sintetici

Gli effetti del mefedrone e degli altri catinoni sintetici sono spesso indicati come simili a quelli dell’MDMA e della cocaina. In verità si tratta di un’interpretazione non del tutto veritiera, malgrado vi siano catinoni in grado di rimandare agli effetti dell’MDMA, come il metilone. In ogni caso, sono sostanze dotate più di un effetto stimolante che enctatogeno.

Il mefedrone presenta una composizione chimica diversa da quella dell’MDMA e manifesta i suoi effetti prima di quelli dell’ecstasy, ovvero dopo solo 15 minuti e li esaurisce più rapidamente. Per questo, l’assunzione di mefedrone per via intranasale presenta un rischio di abuso maggiore e ancor più l’assunzione per via endovenosa. Generalmente, si sente bisogno di assumere una nuova dose già dopo 45-120 minuti, in relazione alla rapidità di insorgenza dell’effetto.

Come per le altre droghe, gli effetti del mefedrone sugli esseri umani possono essere distinti in:

  • Positivi: euforia, elevazione del tono dell’umore, stimolazione fisica e mentale, sensazione di empatia e di apertura, maggiore tendenza alla socializzazione e desiderio di parlare con altri, rapida salita, vissuta come gradevole. Sono necessari tra i 15-40 minuti per il massimo effetto a stomaco vuoto;
  • Neutri: modificazioni generiche dello stato di coscienza, riduzione dell’appetito, midriasi, vampate di calore, tremori, pelle d’oca, sensazione di energia, alterazioni della temperatura corporea, sudorazione, tachicardia ed aumento della pressione arteriosa;
  • Negativi: forte desiderio di una nuova dose, per vivere nuovamente il piacere della salita veloce dell’euforia, cambiamenti sgradevoli nella temperatura corporea, sudorazione e brividi, palpitazioni, sensazione soggettiva di tachicardia, riduzione della memoria recente, insonnia, trisma (contrazione dolorosa dei muscoli della mascella), bruxismo (drighignamento dei denti), contrazioni muscolari improvvise, nistagmo (movimenti involontari laterali degli occhi), vertigini ed altri disturbi dell’equilibrio, in casi estremi vasocostrizione severa che richiede trattamento farmacologico. Ovviamente, gli effetti negativi sono amplificati dall’assunzione contemporanea di alcol o altre sostanze.

Le reazioni psicotiche associate all’uso di mefedrone insorgono più frequentemente nella pratica dello slamming, assunzione endovenosa in corso di chemsex. In qualche caso queste manifestazioni mentali possono essere severe e richiedere lunghe ospedalizzazioni e alcune ulteriori settimane per la totale remissione dei sintomi. Oltre al delirio di persecuzione, possono essere presenti aggressività, allucinazioni e grave stato di agitazione.

Nei casi di intossicazione più gravi, possono comparire convulsioni, iponatremia, ipertermia, rabdomiolisi (con possibile evoluzione in insufficienza renale acuta), coagulazione intravascolare disseminata ed insufficienza epatica acuta, che possono condurre al decesso.

La flakka: nuova moda nel mondo della droga

Una delle droghe correlate ai catinoni è sicuramente la flakka. Un nome che da qualche tempo finisce sempre più abitualmente sui giornali per via delle notizie che arrivano soprattutto dall’America. I cristalli di flakka sono utilizzati nei paesi americani da tantissimi giovani e gli effetti sono molto importanti. Si tratta di cristalli che possono essere utilizzati in vario modo: sia per via endovenosa sia sniffati, oltre che fumati o strofinati leggermente a livello dei bulbi oculari.

Gli effetti della flakka sono importanti e talvolta impressionanti per un essere umano. Notizie provenienti dall’America parlano sempre più frequentemente di tossicodipendenti che in seguito all’assunzione di flakka sviluppano una forza fisica notevole tanto da non riuscire ad essere bloccati da un paio di persone. Senza dimenticare l’enorme eccitazione che la flakka è capace di creare, così come numerose allucinazioni o anche stati confusionali.

Sono stati registrati anche diversi numeri di morti per via della flakka in quanto è stato visto come questa droga possa portare in pochissimo tempo ad un enorme sovraccarico cardiaco. Da un punto di vista fisiologico, l’assunzione di questa droga determina allucinazioni e deliri, oltre a stati di ipertensione marcati, paranoia, psicosi, aumenti della secrezione di adrenalina, aggressività, forza fisica e soprattutto un elevato rischio di morte.

La flakka nacque qualche anno fa in sostituzione delle amfetamine per studenti che cercavano sostanze energizzanti viste le limitazioni poste su quest’ultime dal Governo Nazionale.

Ciò che comunque gli esperti tendono a sottolineare in merito a questo nuovo tipo di droga è la capacità di venirne a contatto molto facilmente, e, soprattutto, il prezzo assai ridotto con cui si può acquistare tale droga. Per questo motivo, si sta iniziando un’opera di informazione in merito alla flakka, per farla conoscere e limitarne, di conseguenza, i danni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicoterapia on line? Da oggi c’è la piattaforma Psicoadvise.it

Nasce psicoadvise.it, dedicata esclusivamente alla psicoterapia online. Psicoadvise.it è la piattaforma che permette agli psicoterapeuti di aprire il proprio studio digitale e agli utenti di poter scegliere la propria consulenza via video, scegliendo la persona che più si addice alle proprie necessità: un incontro attraverso il video, facile, discreto, immediato ma soprattutto professionale e certificato. 

 

Come nasce questo progetto?

In Europa e negli Stati Uniti, diverse realtà private e pubbliche stanno già investendo sulla promozione di interventi online e sull’indagine delle loro caratteristiche. Siamo tutti immersi nella “quarta rivoluzione industriale” (espressione usata per la prima volta alla Fiera di Hannover nel 2011 in Germania) e siamo tutti spettatori di uno storico cambiamento. Anche la sanità ora è in rete: con il termine “eHealth“, infatti, s’intende l’utilizzo di strumenti basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per sostenere e promuovere la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il monitoraggio delle malattie e la gestione della salute e dello stile di vita.

La psicoterapia online porta a risultati positivi quanto quella tradizionale faccia a faccia?

L’utilizzo delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia potrebbe portare a importanti sviluppi per il futuro della psicoterapia? Sembrerebbe di si!

Sono stati effettuati numerosi studi con l’obbiettivo di valutare l’esito degli interventi psicologici online e tali ricerche sono volte principalmente ad individuare se gli interventi online portino a miglioramenti clinici rispetto a gruppi di controllo offline.

Tendenzialmente tali studi hanno mostrato risultati incoraggianti. Si rilevano infatti miglioramenti significativi nei soggetti che hanno partecipato a diversi interventi psicologici online, con una gamma di disturbi clinici che includono disturbi di panico (Klein & Richards, 2001), disturbi alimentari (Robinson & Serfaty, 2001), disturbi post-traumatici da stress e in casi di lutto (Lange, van de Ven, Schrieken, & Emmelkamp, 2001). Alcuni ricercatori di Zurigo, in uno studio nel 2013, hanno addirittura superato le loro aspettative, osservando alla fine del trattamento online, una remissione della depressione nel 53% dei pazienti trattati con psicoterapia online e nel 50% dei pazienti trattati con psicoterapia tradizionale faccia a faccia. Jedlicka e Jennings (2001) hanno infine analizzato i racconti di 11 coppie che hanno partecipato ad una terapia di coppia via webcam: non risultavano differenze significative tra la conduzione online e quella in vivo, considerate ugualmente efficaci.

Sulla base degli studi di efficacia e in linea con quelli che sono gli sviluppi della tecnologia e, in particolar modo, quelli relativi alle procedure diagnostiche e terapeutiche, ora anche gli psicologi hanno la possibilità di utilizzare i moderni canali digitali non solo a fini di informazione o di pubblicità, ma per fornire prestazioni professionali.

La psicoterapia online su psicoadvise.it

L’obiettivo di psicoadvise.it è quello di creare un unico luogo in cui l’incontro tra terapeuti e pazienti avvenga in maniera semplice, senza limiti geografici ma in linea con le proprie disponibilità e i propri bisogni.

La piattaforma mette a disposizione della comunità un vasto panorama di professionisti certificati così da rendere più semplice e accessibile la terapia e l’ascolto. Allo stesso tempo abbatte la concorrenza e consente agli psicoterapeuti un accesso alla professione immediato ed economico.

Psicoadvise.it garantisce l’idoneità degli psicoterapeuti e fornisce loro una serie di servizi dedicati, tra cui un sistema di fatturazione automatizzato, sicuro e di facile utilizzo. Grazie alla tecnologia peer to peer inoltre, i dati delle connessioni saranno sicuri e non lasceranno traccia nel web, per garantire ai pazienti il massimo della privacy.

Iscriversi è semplice, così come è facile effettuare la ricerca di un terapeuta che più si avvicini alle proprie esigenze, grazie ad un attento sistema di filtri e a un calendario personale sempre aggiornato. Provalo subito ed entra anche tu a far parte della naturale evoluzione della psicoterapia.

 

Per informazioni:

Lucia, una storia di depressione vissuta all’ombra del vulcano – Un caso clinico trattato con la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

I pazienti affetti da HIV presentano livelli di depressione almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta, con un tasso più alto nella popolazione femminile. I pazienti, tra il 4 e il 14% dei casi, mostrano un disturbo grave ed almeno il 30% di essi presenta segni di depressione.

 

Da un punto di vista psicologico e sociale, cancro ed infezione da HIV presentano diversi punti di contatto, sia a livello individuale che collettivo. A livello individuale entrambe le condizioni possiedono un carattere disumanizzante, poiché determinano una trasformazione dell’individuo e ne intaccano la propria dignità come persona. I significati della perdita dei propri ruoli e delle proprie funzioni, della minaccia e della sofferenza rappresentano infatti il denominatore comune delle due patologie. A livello collettivo, entrambe evocano angosce legate all’incontrollabilità e alla minaccia. In entrambi i casi, Il corpo può subire importanti alterazioni legate alla malattia stessa o alle terapie, con conseguenti modifiche della propria immagine corporea e cambiamenti importanti dei significati che a quelle parti del corpo vengono dati.

Ciò può avere ripercussioni su altre aree dell’esistenza, intaccando la propria identità temporale, lavorativa, familiare e sociale. A queste corrispondono importanti significati relazionali, poiché la malattia modifica il modo col quale la persona si percepisce rispetto agli altri e da questi è a sua volta percepita. A questo livello la malattia influenza enormemente la percezione che ciascuno ha di far parte del contesto nel quale vive. Il mantenimento di sentimenti di integrazione e appartenenza viene messo in pericolo a scapito di sentimenti di solitudine ed emarginazione che emergono in maniera tumultuosa.

Diversamente dalle patologie neoplastiche, all’infezione da HIV si associano significati diversi che si legano strettamente ad alcune variabili tipiche dell’infezione: le sue modalità di trasmissione, le sue caratteristiche cliniche e le sue conseguenze. L’infezione, tra l’altro, si è presentata come epidemia, quindi con un significato di diffusione e di contagio che ha indotto sensazioni generalizzate di pericolo nella popolazione e, di conseguenza, di bisogno di emarginare la fonte del pericolo. Inoltre, le modalità dell’infezione, specialmente agli inizi della diffusione del fenomeno, quando i gruppi colpiti (o, come venivano definiti, “a rischio”) erano gli omosessuali e i tossicodipendenti, ha determinato risposte sociali estremamente marcate di ostilità, discriminazione e ghettizzazione verso i soggetti sieropositivi.

In questi casi il paziente veniva in qualche modo considerato responsabile diretto della propria condizione.

HIV e Depressione

Nonostante la vastità delle opzioni terapeutiche a disposizione, la depressione rimane il più comune disturbo psicologico tra i pazienti affetti da HIV. I livelli di depressione fra questi soggetti appaiono essere almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta: dal 4 al 14% dei pazienti mostra un disturbo grave ed almeno il 30% segni di depressione. La presenza di una condizione depressiva va attentamente indagata sul piano clinico, in quanto essa è risultata associata a:

  1. più rilevante immunodepressione
  2. accelerata progressione di malattia (il paziente depresso è un paziente scarsamente aderente al trattamento e la bassa aderenza è una delle principali cause del fallimento terapeutico)
  3. aumentata disabilità
  4. minore sopravvivenza
  5. più elevata probabilità di morte

Di particolare interesse appare la correlazione fra depressione e sesso femminile. Già nella popolazione generale la percentuale di donne affette da depressione è doppia rispetto agli uomini, fra le donne sieropositive è quattro volte più elevata rispetto alle donne sieronegative (19% vs 5%). La presenza di sintomi depressivi fra le donne HIV positive è stata associata all’età compresa fra 30 e 50 anni, all’uso di sostanze stupefacenti, ad un basso reddito o all’appartenenza a minoranze etniche ma anche a condizioni cliniche quali una bassa conta dei linfociti CD4 o una viremia rilevabile o un trattamento terapeutico subottimale. Le donne HIV positive con elevati livelli di depressione hanno, infatti, minore probabilità di assumere la HAART e vanno più frequentemente incontro ad un outcome sfavorevole, spesso per situazioni cliniche non correlate all’infezione da HIV. La premorienza è addirittura doppia rispetto a donne con assenza o intermittenza di sintomi depressivi, anche in assenza di diagnosi di AIDS.

Un recente studio indaga la relazione tra il “silenzio su di sé” (inteso come evitamento della disclosure e quindi inibizione dei propri bisogni nelle relazioni interpersonali), fattori socioeconomici (istruzione, impiego e reddito) e resilienza in un campione di donne con HIV. Le donne con punteggi più bassi sul “silenzio su di sé” hanno riportato una resilienza significativamente maggiore rispetto alle donne con punteggi più elevati. Sebbene l’occupazione sia significativamente correlata ad una maggiore resilienza, il silenzio tende a predire la resilienza al di là dei contributi di occupazione, reddito ed istruzione (Dale et al., 2014). I risultati suggeriscono che gli sforzi di intervento e prevenzione mirati a ridurre il silenzio delle donne, l’inibizione dei loro bisogni e aspettative nei confronti degli altri siano strumenti preziosi per progredire verso il benessere e la realizzazione di sé, nonché promotori di opportunità lavorative.

In pazienti HIV + il riscontro di un disturbo della personalità è piuttosto frequente (20-40% dei casi). È stato dimostrato che una diagnosi psichiatrica a questo livello si associa a una più elevata prevalenza di disturbi depressivi in soggetti HIV +. Nei pazienti con tale disturbo il rischio di sviluppo di manifestazioni psicopatologiche successivamente all’infezione viene aumentato di circa sei volte e si correla ad una netta riduzione del livello di funzionamento soggettivo del paziente nel condurre la propria esistenza. Inoltre la depressione risulta associata a comportamenti a rischio quali sesso non protetto e si associa spesso ad assunzione di alcol. Nei pazienti sieropositivi il disturbo depressivo è fortemente associato ad aumentato rischio di mortalità per malattie cardiovascolari (Parruti et al., 2013). Aspetti psicologici possono agire sulla salute cardiovascolare sia attraverso meccanismi fisiopatologici, sia indirettamente in quanto si associano all’adozione di stili di vita nocivi per la salute come vita sedentaria, fumo, alcol, squilibri alimentari. Nella maggior parte degli studi presi in esame, i pazienti affetti da depressione dichiaravano che la malattia medica aveva esasperato tematiche legate alla colpa, alla vergogna, al senso di solitudine e stigma percepito.

I principali interventi

Markowitz (Markowitz et al.,1998) ha condotto un trial randomizzato di 16 settimane su 101 pazienti sieropositivi con diagnosi di depressione. I soggetti sottoposti a psicoterapia interpersonale hanno ottenuti maggiori benefici rispetto agli altri gruppi. Carrico e colleghi (2006) hanno visto che la combinazione di psicoterapia cognitiva e training sull’incremento dell’aderenza alle cure mediche dava ottime risposte in termini di riduzione della sintomatologia depressiva e conseguentemente una riduzione del rifiuto della terapia antiretrovirale.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità, con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma (Dimaggio et al.,2016). Rispetto alla Terapia cognitiva Standard, la TMI pone un’attenzione fondamentale alle disfunzioni metacognitive dei pazienti.

Sulla base dell’assunto che uno dei nuclei patogeni della personalità sia la difficoltà ad identificare gli stati mentali e utilizzare tale conoscenza per risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali, la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha sviluppato una serie di tecniche specifiche e di modalità di lavoro sulla relazione terapeutica atte a promuovere la metacognizione.

Recentemente è stata anche applicata con successo al caso di un uomo con sarcoma di Kaposi, neoplasia opportunistica AIDS correlata che, nonostante la gravità della situazione clinica non era aderente alla terapia antiretrovirale. Il paziente era anche affetto da un disturbo di personalità grave (Sofia et al., 2017). La Terapia Metacognitiva Interpersonale è stata adattata al caso clinico al fine di migliorare l’aderenza al trattamento e di ridurre i criteri diagnostici del disturbo di personalità.

La storia di Lucia

Illustriamo di seguito, in forma narrativa, il caso clinico di una paziente sieropositiva affetta da disturbo paranoide di personalità e scarsamente aderente alla terapia antiretrovirale.

Lucia è guidata nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, dei quali non è consapevole e che mette in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai suoi desideri, speranze e bisogni.

In termini di formulazione condivisa del caso, terapeuta e paziente arrivano a capire che: Lucia si sente vulnerabile ma teme l’abuso e l’inganno e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di minaccia. Per gestire il senso di paura e vulnerabilità utilizza coping disfunzionali quali la diffidenza, la fuga, l’isolamento talvolta attacchi verbali accompagnati da una maschera forzata oppure da silenzio ostentato. Questi comportamenti amplificano la rabbia e la costante paura dell’altro, con il conseguente sviluppo di un disturbo depressivo grave che ha portato all’interruzione della terapia antiretrovirale.

In corso di terapia, la paziente è stata aiutata a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza di essere danneggiata può essere parzialmente vera, ma riflette anche uno schema in cui si vede umiliata e sottomessa. Nella storia descritta, gli schemi si fondano sulla figura materna percepita come tirannica e su vissuti traumatici di violenza protratta dai propri partner oltre che per l’incontro con un virus vissuto come “potente e minaccioso”. Attraverso la relazione terapeutica, la paziente si sentirà compresa ed incoraggiata, imparerà a riconoscere i propri schemi interpersonali e sarà portata a valorizzare le parti di sé che funzionano, riconoscendo i propri punti di forza.

Tra gli aspetti tecnici citati, anche guided imagery, rescripting e role play utilizzati con l’obiettivo di modificare gli schemi all’interno dello spazio mentale. Nelle ultime fasi della terapia, la paziente riuscirà ad affrontare con serenità anche uno dei nodi più importanti della vita di questi pazienti: la comunicazione della propria sieropositività ai figli.

L’arrivo di Lucia è preceduto dalla telefonata di un collega infettivologo : “O la paziente è all’ennesima resistenza alla terapia antiretrovirale o mi prende clamorosamente in giro e la terapia non la prende. I suoi esami peggiorano, mi preoccupa. Lei non mi dice nulla. Ci vuoi parlare tu?”

Lucia entra in ambulatorio ridendo, grandi occhi scuri come il cappotto che indossa. Cappotto lungo, portato in pieno Maggio di una afosa mattina catanese. Lucia ha 50 anni ed è sieropositiva da 16 anni. Sul volto i segni evidenti di una dermatite seborroica.

Il cappotto indossato anche in estate “la protegge – lei dice- dalla pioggia nera di cenere vulcanica… Questa terra sottile vomitata dall’Etna è più insidiosa di quello che si pensa. E poi mi fa male alla pelle. Insomma….è difficile la vita sotto il vulcano, ti senti sempre sotto minaccia”.

I nostri primi incontri sono caratterizzati da un ostentazione della sua “onnipotenza”, della sua capacità di “fottere la vita”, nonostante le difficoltà.

Mi racconta che a 14 anni scappa di casa con il primo corteggiatore, a 15 anni ha la prima bambina, a 16 la seconda, a 17 ha la terza bambina.

Lui rapinava ma io non lo sapevo! Ma se li beveva tutti i soldi che rubava… sempre ubriaco fradicio era. Ma io avevo 3 bambine piccole, dove dovevo andare?”. Lucia non ha una narrativa che mette in evidenza dettagli intimi, non accede alle emozioni, sputa fuori eventi in cui è protagonista ai limiti della legalità. Nelle prime sedute non parla mai della sua malattia, vuole parlare di una “storia burocratica”, una vicenda con la vecchia datrice di lavoro a cui faceva le faccende domestiche. Era la seconda volta che le capitava di voler denunciare le persone presso cui lavorava.

La sua narrazione è confusa e frammentata, caratterizzata da sottili attacchi anche nei confronti della terapeuta. “E certo che la devo denunciare, di me se ne approfittano tutti….. ma ora lo vedrà cosa sono in grado di fare. Io senza avvocato cammino. Io, se decido di andare da un magistrato, ci vado da sola e ci so parlare meglio di lei che è laureata e meglio di qualsiasi altro avvocato”.

Difficile interromperla, difficile fermarsi a focalizzare le emozioni durante la seduta. Difficile stabilire un’alleanza terapeutica.

Come quella volta che da quel prepotente me la sono cavata da sola. Era proprietario di un locale e non pagava lo stipendio a mio marito da sei mesi…. Io avevo tre bambine piccole… ci sono entrata con la macchina dentro il locale, gli ho rotto tutte le vetrate al bastardo…. Poi è venuto a suonarmi a casa e mi ha chiesto se volevo essere la sua femmina. Ha capito dottoressa? Mi ha dato lo stipendio di mio marito direttamente nelle mani. Mi ha detto che non lo pagava perché si beveva tutto l’alcool del locale (il marito di Lucia era il cuoco del locale). Ma cosa le dovrei raccontare? Che mio marito stava con la peggio puttana di Catania, la più “viziosa”, lo sapevano tutti tranne io”.

Mentre parla scoppia a ridere e poi sembra trattenere il pianto ma scoppia a ridere più forte.

Il terapeuta TMI è un clinico attentissimo alla mimica facciale del paziente. In particolare, quando un’espressione nel volto del paziente cambia repentinamente o viene soffocata è bene segnalarla tempestivamente per permettere al paziente di individuare con maggiore precisione il pensiero collegato al suo stato emotivo. La fermo un attimo per chiederle cos’era quell’espressione subito dopo la risata, se stava per piangere… Nel caso di Lucia, la segnalazione dell’emozione è servita anche ai fini dell’alleanza terapeutica poiché la paziente si è sentita guardata con attenzione, e ha rivelato uno dei principali nuclei del suo schema interpersonale.

Dottoressa, sorriso fuori e buio dentro. Questa è Lucia!… Gli altri godono se io mostro il mio buio dentro, non lo posso fare vedere a nessuno. E meglio non dire niente e non fare vedere niente. E poi da quando ho saputo come sono…. Non posso essere più felice…Grazie a mio marito, ai suoi divertimenti. Dopo aver fatto una rapina, lo misero dentro a Favignana, io non ci andavo a trovarlo… Avevo 3 bambine piccole… E poi non lo volevo più… E mia madre mi diceva: “non si lasciano i mariti in carcere”… sempre lei ha deciso quello che si doveva fare. Un giorno mi arriva una lettera a casa, era lui. Mi scriveva: fatti le analisi, sono sieropositivo”.

Lucia ride e poi vorrebbe piangere. “Il giorno che ho fatto le analisi… il suo collega infettivologo balbettava, non sapeva come dirmelo e c’era mia madre a fianco che mi ripeteva: una cosa è certa, ora a tuo marito non lo puoi lasciare più, ora chi ti prende a te? Sei malata, sei una donna finita. Il dottore era in collera, io sono scappata. Non mi sono più presentata per anni… la terapia l’ho cominciata dopo… Ma io non sono qui per parlare. Sono qui perché voglio denunciare la mia ex titolare, lei mi può consigliare in questo senso oppure no?

Le dico che sono qui per aiutarla e cercheremo di capire perché si sente nelle condizioni di voler denunciare.

Mi ero fidata della mia titolare, le avevo confidato che mi avevano tolto l’utero e che mi ero sentita sola…Le mie figlie non sono neanche venute a trovarmi nel post-operatorio, eppure io le ho amate tanto. Il pomeriggio dopo mi trovavo a casa sua come sempre a fare le faccende domestiche. Suona suo fratello alla porta, lo faccio accomodare. In un secondo mi sono girata ed era nudo. Mi è saltato addosso e mi ha detto: so che adesso ci possiamo divertire. Ha capito? Me l’ha mandato lei a suo fratello. Quando mostro il mio buio gli altri se la godono sempre”.

Adesso piange disperata: “Non ne posso più, Lucia è stanca… di vivere contando solo su se stessa. A che serve parlare, a che serve prendere la terapia…. E’ meglio accelerare questa agonia, e mettere fine a tutto”.

A Lucia la maschera e la risata ostentata servono per “nascondere il buio dentro che non si può mostrare se no gli altri godono”, però mentre si narra lascia trasparire una mimica che copre il pianto. Farle notare quello che vedo mi permette di accedere alle sue emozioni e di parlarne in seduta. Attraverso la relazione terapeutica, Lucia si sente capita e parla di disperazione, angoscia, caduta nel baratro e desiderio di morte ogni volta che pensa al suo corpo “invaso” da uno straniero. Invasore che l’ha derubata della sua bellezza (la mia pelle adesso fa schifo) e della sua femminilità (questo coso mi ha reso l’utero marcio e io non sono più neanche donna). Non è più possibile godere, avere una vita facile, avere una vita affettiva. Il virus, mai nominato da Lucia, ha portato via con sé le sue attitudini sane e cioè la spensieratezza, la voglia di giocare, di farsi bella, di amare ed essere amata. Attorno a lei un mondo che la pone “vittima” di impostori (le persone presso cui lavora), stalker (gli uomini che incontra), truffatori (commercianti) e ancora una fauna di gente violenta, manesca e approfittatrice a cui si può rispondere solo con l’ostentazione della risata, con tentativi di attacco ma soprattutto con fughe e nuovi isolamenti per non farsi schiacciare ulteriormente e vivere sempre più ai margini.

La storia di Lucia è davvero piena di violenza.

Lo mostrano le memorie autobiografiche che riporta in seduta dopo aver riconosciuto le sue reali emozioni, memorie in cui ad essere quasi sempre protagonista è innanzitutto la madre, descritta come tirannica e ingiusta. Madre che non le concederà l’ultimo saluto alla salma del padre a cui Lucia è particolarmente legata, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Evento traumatico che la segna irrimediabilmente costringendola ad una lettura della mente degli altri assolutamente non flessibile.

“Mio padre è morto quando avevo 13 anni. Il buio nero, quello di cui parlavo prima, è iniziato lì.
Lo sa cosa ha fatto mia madre? Io avevo 7 fratelli che accudivo… lei lo sapeva che avevo un debole per mio padre… Quando mio padre è morto, tutti i miei fratelli lo hanno salutato. Mi ha chiuso in una stanza e mi ha detto che non potevo vederlo. Lo sapeva che ero la preferita, che lo amavo da morire, che avrei passato tutta la notte a baciare la salma… Ma non me l’ha fatto vedere. Quando mostro la mia debolezza, il mio buio oppure il mio bisogno di cure.. l’altro ci gode e mi pugnala apposta. Anche quando ho saputo la diagnosi e sono andata a vivere da mia madre… Separava le posate e non toccava mai il mio bicchiere e mi diceva sempre: e ora chi ti deve prendere a te che sei ridotta così. E allora sono andata via con un nuovo compagno, ed è nato Francesco.
Ma il papà di Francesco, quando vivevo a Torino mi picchiava, lavoravo solo io e mi veniva a picchiare anche nel locale in cui lavoravo. E allora qualche anno fa sono scesa di nuovo a Catania…

Dalla narrazione di Lucia sembra che la madre abbia proprio approfittato della sua debolezza per il padre e del suo momento di dolore per punire la sua preferenza ed impedire solo a lei tra tutti i figli di poter dare l’ultimo saluto al padre. E’ un dolore subito prendendo a calci la porta dietro cui era stata chiusa, è un dolore misto ad impotenza e rabbia, mai raccontato prima.

Da qui l’impossibilità nella sua vita di poter mostrare il buio, il suo dolore agli altri… “perché se mostri il buio gli altri godono”. Così come tutte quelle volte che la madre, dopo la notizia della sieropositività, la fa entrare nella sua casa, ma separa le sue posate, incellofanando tutto quello che ha a che fare con Lucia. “E io mi sentivo umiliata e schiacciata, impossibile per me riprendere il gusto di vivere.”

Durante i mesi siamo riuscite a fare luce sulle emozioni, a comprendere gli schemi principali legati ad una vita piena di violenza e siamo riuscite a compiere quella che in Terapia Metacognitova Interpersonale viene definita “Formulazione condivisa del funzionamento”.

Lucia desidera ancora essere amata e protetta. Negli anni, questa speranza è stata velata dalla paura dell’altro, capace di approfittare di lei, in genere teso ad umiliarla e sottometterla. A questo punto lei si è percepita “fragile” ed ha reagito agli eventi della vita con diffidenza e frequenti ritiri sociali (poca fiducia persino nell’infettivologo che la segue da anni, a cui non ha dichiarato la sua scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale, saltando spesso anche gli incontri ambulatoriali). Altre volte ha disprezzato e minacciato anche lei per sentirsi più forte, ma è stato in corso di terapia che ha capito che il suo desiderio poteva essere ascoltato, poteva parlare del suo dolore senza angoscia, senza quel terrore di essere pugnalata nel momento di maggiore vulnerabilità. Le chiedo se vogliamo provare a portare questa speranza anche fuori dalla nostra relazione per osservare meglio, adesso e con nuova consapevolezza quella che abbiamo definito “fragilità”… quel buio dentro…L’evento della morte del padre torna spesso nei nostri incontri. Quell’impossibilità dell’ultimo bacio, impedito dalla tirannia della madre e dalla ferocia della morte.

Le propongo l’ascolto di una canzone in seduta. Una canzone scritta propria da una nostra concittadina. Si chiama “L’ultimo bacio”, ed è una ballata malinconica, racconto di un addio.

Il brano nasce dalla paura di una Carmen Consoli bambina che, in rapporto di franca ostilità con la madre, immagina di essere abbandonata dal padre, suo unico compagno di giochi con il quale già da piccola condivideva la passione della chitarra. Come sottofondo della scena, il fischiare del vento sembra una sinfonia di violini. Il brano cita un verso del pezzo Piove (mille violini suonati dal vento…), portato al successo da Modugno, che era proprio il brano cantato dal padre di Carmen, quando la salutava la mattina prima di recarsi al lavoro.
Il brano le piace, e sente una “sorta di consolazione. Ma allora soffriva anche lei come me?

Le propongo, se vuole farlo in seduta, insieme a me di scrivere un finale diverso alla sua storia…. Quell’ultimo bacio al padre, lo può dare adesso se riusciamo a immaginare di essere dinnanzi a lui rievocando quella scena di tanti anni fa.

Lucia riesce a farlo, immagina di essere chiusa dentro la stanza ma stavolta di essere aiutata ad uscire dai suoi due fratelli minori. Immagina di avvicinarsi al padre, sempre scortata dai fratelli che la proteggono e di salutarlo come desiderava. Intanto la madre rimaneva “piccola, a guardarmi in lontananza”.

I mesi passano, il legame con il figlio Francesco la tiene fortemente ancorata alla vita. Lucia comincia a dare un nome alla sua malattia, riconosce che è importante assumere costantemente la terapia. Inoltre, è più serena.. c’è un altra buona notizia…Il padre di Francesco non la disturba più, l’hanno arrestato solo in questi giorni, per una denuncia per maltrattamenti che lei aveva sporto contro di lui circa 10 anni fa quando ancora vivevano a Torino (“Dottoressa, lo Stato ce l’ha fatta a darmi ragione…dopo 10 anni!”).

E’ successa una cosa nuova. C’è un “picciotto” del mio quartiere che lavora in pescheria che ogni tanto mi chiede di prenderci un caffè a casa mia. Ho la sensazione che sia una brava persona, ma poi penso che vuole penetrare nel mio appartamento per stabilirsi a casa mia e farsi mantenere da me, insomma un altro inganno… Lo so dottoressa, le mie vecchie esperienze …non mi fanno andare avanti. Non ci ho creduto più nella buona fede. Solo che stavolta volevo mettermi in gioco e volevo parlarne con lei per prendere una decisione. Mentre ero fuori casa per lavoro, si è presentato a casa mia. Gli ha aperto Francesco. E’ venuto munito di strumenti, e nell’arco di poche ore ha eliminato tutta l’umidità della casa. A Francesco ha detto che lo sospettava che a casa mia ci fosse tutta questa umidità, visto che mi vede sempre con il cappotto anche in estate. Niente… ha fatto il lavoro e se n’è andato. Io non l’ho incontrato, mi ha mandata a salutare con Francesco. Volevo ringraziarlo. Avevo paura, mi mancava il coraggio. Ieri sono scesa in Pescheria. Via Etnea era invasa di luce e colori, piazza Duomo piena di turisti. Un gruppo di questi ascoltava una guida che raccontava la storia della Cattedrale, dove sono conservati i resti di Sant’Agata! Allora mi sono fermata a guardare”.

Cosa – ho chiesto io – la guida turistica?”.

No, quel luogo. Racchiude le spoglie mortali di una donna martire, deturpata per il suo amore. Quel visino così bello, offeso da uomini senza Dio. La conosce la storia di Agata, dottoressa?

Certo, una delle prime vittime di femminicidio della storia. Una donna libera.

“Io ho pensato a quegli uomini”, dice Lucia.

Cioè, ha pensato a Quinziano e agli altri carnefici?” Le chiedo io.

No, stavolta no. Ho pensato agli altri uomini. Tutti gli altri. Quei due soldati che ne trafugarono i resti da Costantinopoli per riportarla a casa. Ho immaginato i catanesi che, svegliati nel cuore della notte dalle campane, si affacciavano e con i fazzoletti bianchi dai balconi ne salutavano il ritorno a casa. Ho pensato alla processione, dove centinaia di uomini con un “sacco” bianco portano in giro per la città questa “picciridda” sotto sole e pioggia, percorrendo kilometri spalla a spalla. Gente diversa: avvocati, muratori, disoccupati, per 3 giorni, solamente uomini che sanno amare. Ho pensato che per ogni pezzo di merda, ce ne sono altri cento disposti ad amarti. La vita qualche cosa di buono la restituisce. Ho pensato che questo buono io me lo posso prendere. E così sono scesa in pescheria e sono riuscita a ringraziarlo”.

E’ l’inizio della risalita. Francesco comincia a lavorare in un’autorimessa, e si fidanza con la figlia del portiere del palazzo. Invitano la fidanzata a cena e Lucia cucina per loro. “E’ una ragazza con gli occhi azzurri e limpidi come il mare, ed è innamorata del mio Francesco. Perché Francesco è bello come il sole ed è un ragazzo buono, Lucia ce la fa a fare le cose buone. Me lo sono cresciuto sola a Francesco.. è figlio mio. Dopo cena, abbiamo cantato al Karaoke fino a tardi e abbiamo riso per tutto il tempo. Glielo diciamo a Francesco che sono sieropositiva… Questi farmaci se devo prenderli ogni giorno prima o poi dovrà vederli… Allora mi aiuta a dirlo a mio figlio che sono sieropositiva?

Lucia ha una nuova abitudine, passeggiare sul lungomare di Catania gustandosi una granita alla mandorla. Jeans stretti mettono in evidenza un corpo ancora giovane. Da questa estate, la polvere lavica mista alla brezza marina arriva direttamente sulla sue braccia scoperte, liberate dalla protezione del cappotto ma senza farle male.

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