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Il Coping Power Program per il trattamento multimodale del bambino difficile

Il Coping Power Program (CPP) è un programma di intervento di prevenzione secondaria e trattamento multimodale di comprovata efficacia rivolto alle famiglie e ai bambini di età compresa tra i 7 e i 14 anni per la gestione ed il controllo dell’aggressività, dell’impulsività e della rabbia.

Alessandra Bulgarelli, Elisa Lai – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze

 

Il Coping Power Program (CPP) (Lochman e Wells, 2002) è un programma di intervento di prevenzione secondaria e trattamento multimodale di comprovata efficacia (Lochman e Wells, 2004; van de Wiel et al., 2007; Zonnevyelle-Bender et al., 2007) rivolto alle famiglie e ai bambini di età compresa tra i 7 e i 14 anni per la gestione ed il controllo dell’aggressività, dell’impulsività e della rabbia.

Coping Power Program: le basi teoriche

Le basi teoriche del Coping Power Program, di matrice cognitivo-comportamentale e derivato dagli studi sull’eziologia dell’aggressività, sono fondate sul Contextual Social-Cognitive Model (Lochman e Wells, 2002). Tale modello teorico vede l’aggressività del bambino come la risultante diretta e/o indiretta di fattori di rischio ambientale sia sociale che legati al contesto familiare come ad esempio la presenza di conflitti tra i coniugi, depressione nella madre, rifiuto materno, stili educativi eccessivamente permissivi o autoritari, scarso supporto sociale, abuso familiare o extrafamiliare, maltrattamento, contesto urbano o culturale di tipo delinquenziale, basso stato socio economico ecc. (Lochman et al., 2008).

Secondo questo modello i fattori di rischio biologici (fattori genetici, complicanze neonatali, anomalie neurotrasmettitoriali, fattori genetici e temperamentali ecc) conducono allo sviluppo di un disturbo del comportamento dirompente in età evolutiva, esclusivamente se associati ai fattori di rischio ambientali sopracitati.

L’iterazione dei fattori di rischio biologici ed ambientali predispongono lo sviluppo di una modalità di elaborazione dell’informazione sociale distorta e deficitaria che induce il bambino (prevalentemente) a percepire e valutare i segnali sociali interpersonali come ostili e a reagirvi con condotte comportamentali aggressive (Lochman e Dodge, 1994); e inoltre a sviluppare delle strategie di Problem Solving interpersonale scarse ed inefficaci che gli inducono a valutare l’aggressività come l’unica e la più efficace possibilità da utilizzare per la modulazione emotiva e per la regolazione delle relazioni interpersonali (Lochman e Lenhart, 1993; Lochman e Wells, 2003). Più nello specifico tale modello teorico prevede, innanzi alla “situazione problema”, una continua e dinamica interazione reciproca tra:

  1. Lo stile cognitivo di valutazione (Appraisal);
  2. L’attivazione fisiologica indotta (Arousal);
  3. La risposta comportamentale attuata per fronteggiare la situazione (Problem Solving) (Williams et al., 2003).

Partendo dal modello teorico appena descritto gli autori svilupparono nel 1993 l’Anger Coping Program, un programma di gruppo di gestione della rabbia rivolto esclusivamente ai bambini, che è stato recentemente modificato ed ampliato, introducendo anche delle sessioni di gruppo di Parent Training, per originare il Coping Power Program (Lochman e Wells, 2002). Sebbene fosse stato originariamente ideato per l’applicazione al contesto scolastico viene utilizzato, attualmente con ottimi risultati, in numerosi contesti clinici europei (Van de Wiel et al., 2007; Zonnevylle-Bender et al., 2007).

Coping Power Program: la struttura degli interventi

Come già accennato precedentemente il Copig Power Program prevede anche una componente per genitori; il lettore interessato a questa ha a disposizione svariati articoli presenti in letteratura. (Muratori, Polidori, Ruglioni, Manfredi, Milone e Lambruschi, 2010; Muratori, Vaccaro, Farinella, Manfredi, Polidori, Ruglioni, Pezzica e Milone, 2012) e sul manuale CPP (Lochman et al., 2012).

Il Coping Power Program è un trattamento multimodale effettuato in setting di gruppo. Per quanto riguarda la struttura degli interventi con i bambini, il Coping Power Program si propone di sostenere i bambini nel modulare i segnali fisiologici delle emozioni e in particolare della rabbia, nel riconoscere il punto di vista altrui (perspective taking) nell’acquisire strategie per un maggior autocontrollo nel risolvere in modo adeguato situazioni conflittuali attraverso l’apprendimento di abilità sociali e di problem solving. Inoltre è previsto l’utilizzo di contratti comportamentali (chiamati “traguardi”) in cui vengono stabiliti obiettivi minimi scolastici (individuati durante gli incontri con insegnanti) al cui raggiungimento è associato un sistema a premi.

Tra i principali strumenti che vengono impiegati dal Coping Power Program si annoverano l’interazione di ogni partecipante con il gruppo dei pari e il role-playing. In particolar modo, il percorso di trattamento si basa su numerose attività di “provocazione strutturata” in cui i membri del gruppo fungono da attivatori emotivi per il bambino che in quel momento si sta esercitando nell’applicazione, ad esempio, di una tecnica di auto-controllo al fine di incrementare in vivo, durante una situazione in cui il bambino è emotivamente attivato, l’apprendimento delle tecniche di gestione della rabbia.

La componente dedicata ai genitori, invece, è strutturata in incontri di gruppo strutturati in sessioni di Parent Training che hanno l’obiettivo di sviluppare e potenziare le competenze genitoriali relative a diverse aree quali: la promozione dell’organizzazione e delle abilità di studio, la modulazione dello stress genitoriale, l’utilizzo di appropriate pratiche educative, l’incremento della comunicazione famigliare e la progettazione di momenti di condivisione con i figli.

 

Il modello trifasico di Pierre Janet per il trattamento del trauma

A Pierre Janet (1989/1911) si deve l’introduzione del Modello Trifasico: egli infatti, considerato oggi il padre della psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente.

 

Il trattamento delle sindromi trauma-correlate (PTSD, PTSD complesso, Disturbi Dissociativi) vede nel panorama scientifico attuale molti strumenti clinici dedicati e validati scientificamente per lavorare con pazienti che hanno vissuto storie di grave traumatizzazione.

Il nucleo centrale dei disturbi dissociativi è costituito infatti dalla “non realizzazione”, parziale o completa, degli eventi traumatici vissuti. La non realizzazione è più intensa nei casi di grave traumatizzazione avvenuta nell’infanzia, ma può essere molto persistente anche a seguito di eventi di minaccia alla vita vissuti in età adulta.

Questa “non realizzazione” è la principale causa della sintomatologia, poiché da un lato offre una difesa dal dolore, ma allo stesso tempo alimenta la divisione interna (dissociazione) peggiorando la sofferenza psicologica e il funzionamento della persona nella vita quotidiana, sia sul piano personale che relazionale. La cornice di lavoro è molto variabile a seconda della gravità della sintomatologia e dei rischi per il paziente, dunque è necessario rendere il percorso di cura graduale e adeguato alle capacità di elaborazione e di tolleranza emotiva che le persone portano in psicoterapia.

Pierre Janet (1989/1911), padre della moderna psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente. Da allora questo modello, detto Modello Trifasico, è rimasto lo standard di cura per il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso e per i Disturbi Dissociativi (Brown e Fromm, 1986; Courtois, 1999,2008; Herman, 1997; Howell, 2011; International Society for the Study of Trauma and Dissociation-ISSTD, 2011; Loewenstein e Welzant, 2010; van der Hart, 2006).

Modello trifasico

  • Fase 1 del Modello Trifasico: stabilizzazione
    Gli obiettivi terapeutici di questa fase riguardano la riduzione dei sintomi, la stabilizzazione del funzionamento nella vita quotidiana, l’iniziale lavoro di creazione di un’ alleanza terapeutica, l’iniziale lavoro di riconoscimento della parti dissociative e il contenimento delle emozioni soverchianti legate ai ricordi traumatici. La cura di sé, delle relazioni e delle principali attività quotidiane sono centrali in questa fase per aumentare senso di controllo e di autoefficacia nella gestione quotidiana.
  • Fase 2 del Modello Trifasico: elaborazione delle memorie traumatiche
    In questa fase il lavoro terapeutico è centrato sull’elaborazione dei ricordi traumatici, attraverso episodi specifici, immagini, aspetti sensoriali e cognitivi delle esperienze passate. L’integrazione dei ricordi traumatici che di volta in volta la persona riesce a tollerare, verso la soluzione dei legami di attaccamento disfunzionali con gli aggressori e verso la risoluzione delle fobie tra le parti dissociative, al fine di aiutarle ad essere più orientate al presente, riconoscendo i legami ma anche la distanza del passato traumatico rispetto alla vita quotidiana.
  • Fase 3 del Modello Trifasico: intergrazione della personalità e riabilitazione
    Gli obiettivi terapeutici di questa fase sono: rafforzare le risorse, accettare il cambiamento e il lutto per le perdite del passato, costruire relazioni più funzionali e nutritive, sviluppare un senso di sé unificato e costruire le capacità di vivere pienamente la vita quotidiana.

 

Le conseguenze psicologiche e psichiatriche della disoccupazione

Differenti ricerche hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una condizione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità. Inoltre, in condizioni di disoccupazione di lunga durata bisogna dare supporto con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato.

 

Attualmente molte persone in Europa vivono l’esperienza della perdita del lavoro, seguita da un periodo più o meno lungo di disoccupazione. Differenti ricerche negli ultimi anni si sono occupate di evidenziare le correlazioni che esistono fra disoccupazione e benessere personale. Studi epidemiologici svolti in ambito europeo e statunitense hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una situazione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità. Recenti ricerche hanno messo in evidenza che nella disoccupazione di lunga durata non solo bisogna dare supporto con gli ammortizzatori previsti dallo stato sociale, ma anche con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato. Questi interventi, afferenti all’ambito cognitivo – comportamentale, devono incrementare l’autoregolazione emotiva, le abilità comunicazionali e le capacità di coping, ritenuti fondamentali per il mantenimento del benessere nei momenti di difficoltà.

Keywords: recessione, disoccupazione, benessere, patologie mentali, autoregolazione emotiva, abilità comunicazionali, capacità di coping.

Disoccupazione e psicopatologia

Attualmente molte persone in Europa vivono l’esperienza della perdita del lavoro, seguita da un periodo più o meno lungo di disoccupazione. In alcuni paesi dell’Unione Europea la disoccupazione si attesta su valori percentuali abbastanza elevati, raggiungendo altissime percentuali per quel che riguarda la popolazione giovanile, la fascia di età al di sotto dei 25 anni. Differenti ricerche negli ultimi anni hanno evidenziato le correlazioni che esistono fra disoccupazione e benessere personale. Studi epidemiologici svolti in ambito europeo e statunitense hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una situazione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità (Harvey Brenner, 2016). Nello specifico, una disoccupazione di lunga durata è interrelata con un aumento del rischio di malattie cardiache, di ictus, di malattie mentali e incrementa, inoltre, la probabilità di suicidio (Vågerö e Garcy, 2016; Myles e al., 2017; Garcia e al., 2016).

Una condizione di minor introito economico, derivante dalla mancanza di lavoro, di fatto determina un minor ricorso ai percorsi di cura, ovvero il disoccupato di lunga durata sa di non avere le risorse per potersi curare. Questa consapevolezza ha degli effetti negativi sulla salute mentale, determinando sintomi depressivi, disturbi psicosomatici e abuso di alcol e droghe (Stuckler e al., 2009). Inoltre, il più basso livello di entrate, il più delle volte sotto forma di sussidi statali, produce delle ripercussioni a largo raggio sulla famiglia del disoccupato di lunga durata. Specificatamente, i figli dei disoccupati accedono a livelli più bassi d’istruzione e questo ha un riverbero sulla successiva possibilità d’impiego, creando nella prole un incremento della possibilità di divenire a propria volta disoccupati. Infatti, nella perdita del lavoro le prime categorie ad essere colpite sono quelle che presentano una bassa specializzazione, derivante da una minore istruzione (Stuckler e al., 2009).

Disoccupazione e interventi a supporto della salute mentale

Recenti ricerche hanno messo in evidenza che nella disoccupazione di lunga durata non solo bisogna dare supporto con gli ammortizzatori previsti dallo stato sociale, ma anche con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato (Urbanos-Garrido e Lopez-Valcarcel, 2015). A tal riguardo, sono stati sollecitati nelle economie europee più deboli degli interventi di questo tipo con l’obiettivo di preservare il benessere dei disoccupati (Santos e al., 2018). In tale ambito gli uomini appaiono più vulnerabili (Classen e Dunn, 2012): infatti, la condizione maschile di disoccupazione incrementa la disgregazione del nucleo familiare, con frequenti divorzi (Jalovaara, 2002), episodi di violenza domestica (Bowlus e Seitz, 2006) e un maggior numero di suicidi all’interno del nucleo familiare (Milner e al., 2013).

Gli interventi proposti, afferenti all’ambito cognitivo – comportamentale, devono incrementare l’autoregolazione emotiva e le abilità comunicazionali, ritenuti fondamentali per il mantenimento del benessere nei momenti di difficoltà (Creed, Machin e Hicks, 1999). In aggiunta, tali programmi di supporto psicologico devono implementare le capacità di coping di ogni disoccupato: infatti, moltissime ricerche (Blau e al., 2013; Sadeh e Karniol, 2012; Sojo e Guarino, 2011) hanno sottolineato che gli individui che hanno perso il lavoro mantengono più a lungo il loro benessere in funzione delle capacità di coping che posseggono.

In conclusione, gli Stati più colpiti dai processi recessivi in ambito economico, con conseguente incremento del numero dei disoccupati, dovrebbero approntare, oltre che degli ammortizzatori sociali, anche degli interventi terapeutici volti a salvaguardare il benessere dei disoccupati.

Trattamento delle fobie: è possibile utilizzare la tecnica dell’esposizione senza che il paziente ne sia consapevole?

Nonostante l’ esposizione sia la tecnica d’elezione nel trattamento della fobia specifica e di altri sintomi ansiosi, spesso rappresenta per i pazienti un ostacolo troppo grande determinando anche l’interruzione del percorso terapeutico.

 

Un recente studio di Taschereau-Dumouchel, Cortese, Chiba, Knotts e colleghi, apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha testato la possibilità di utilizzare la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e metodi di rinforzo neurale su pazienti, per ridurre l’attivazione psicofisiologia fobica senza la necessità di esporli direttamente nel contesto modificando in modo inconsapevole l’attività neurale.

La terapia basata sull’ esposizione è uno degli approcci più efficaci nel ridurre l’ansia, il panico e i comportamenti di evitamento nei confronti di specifici oggetti, situazioni o contesti, come nel caso della fobia specifica (Craske, 2014).

L’ esposizione è una tecnica che consiste nel far entrare in contatto l’individuo con ciò che più teme per consentirgli di esperire gli stati d’ansia e paura, estremamente invalidanti e spiacevoli, che solitamente la situazione elicita e che egli vive come intollerabili. L’obiettivo di tale tecnica, infatti, è quello di dimostrare all’individuo ansioso che è possibile fronteggiare la situazione fobica e sopravvivere a quegli stati psicofisiologici che lo mettono molto a disagio, modificando al contempo le proprie credenze disfunzionali circa l’impossibilità di far fronte a quello stimolo avversivo.

L’ esposizione risulta essere efficace nei confronti dei disturbi d’ansia in quanto consente all’individuo di apprendere che affrontando la sua paura non accadrà nulla di spaventoso, prendendo consapevolezza delle proprie risorse (Craske, 2014).

Lo scopo di tutto questo è ridurre le reazioni di ansia e paura e contrastare i comportamenti di evitamento che i pazienti ritengono essere le uniche soluzioni praticabili per non esperire più quegli stati psicofisiologici così negativi.

Proprio per queste ragioni spesso l’ esposizione si presenta come una sfida non facile da affrontare e molti pazienti, nonostante siano guidati gradualmente da psicoterapeuti, interrompono prematuramente il percorso terapeutico a causa delle prime difficoltà che sorgono: essi infatti sono poco motivati a voler riprovare le sensazioni sgradevoli che gli stimoli avversivi evocano in loro, nonostante siano assolutamente consapevoli, grazie alla psicoeducazione, che questo sia l’unico modo per ridurre l’ansia, la paura e per riappropriarsi della propria esistenza.

Esposizione: è possibile praticarla senza che il soggetto ne sia consapevole?

È possibile dunque esporre il soggetto al proprio stimolo fobico, senza che egli ne sia consapevole, evitando così che abbandoni il percorso di terapia?

Taschereau-Dumouchel e colleghi (2018) hanno voluto testare questa ipotesi utilizzando un metodo chiamato iperallineamento e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per verificare l’efficacia pre e post-trattamento.

Nello specifico, lo scopo dello studio sperimentale, condotto in doppio-cieco in sei sessioni, è stato quello di sviluppare un metodo del tutto inconsapevole in grado di “riprogrammare” le risposte psicofisiologiche elicitate dagli stimoli avversivi bypassando il disagio psicofisiologico causato da un’ esposizione fatta in modo consapevole.

Per lo studio sono stati reclutati 29 partecipanti subclinici e sono state presentate loro più di 3 mila immagini, alcune delle quali emotigene, cioè in grado di elicitare nei soggetti un certo livello di arousal, altre aventi invece una valenza neutra. Ciò ha consentito ai ricercatori di confrontare, iperallineare, tramite risonanza magnetica funzionale, l’attivazione fisiologica legata a specifiche immagini emotigene con specifici pattern cerebrali coinvolti nel processamento di stimoli fobici ed ottenere dei profili legati alla paura relativi a determinate immagini (Taschereau-Dumouchel et al., 2018).

Un passo oltre: cosa succede in pazienti con diagnosi di fobia specifica?

A seguito della costruzione di questi profili “di paura” tramite l’iperallineamento, i ricercatori hanno voluto testare se fosse possibile generalizzare questi profili a pazienti con una diagnosi di fobia specifica e al tempo stesso verificare l’accuratezza dell’iperallineamento.

Per testare tale ipotesi, i ricercatori hanno reclutato 17 pazienti con fobia specifica, in particolare di animali (serpenti ecc.), che sono stati sottoposti a sei sessioni, distribuite in 5 giorni, di cosiddetto “rinforzo neurale” nelle quali i partecipanti osservavano solo le immagini neutre a seguito di un rinforzo monetario.

In queste sessioni di rinforzo, i ricercatori hanno allineato i pattern di attivazione neurale con le medie delle risposte neurali registrate nei soggetti subclinici con le immagini emotigene (Taschereau-Dumouchel et al., 2018). È bene sottolineare che per tutta la durata delle sessioni ai soggetti veniva misurata la conduttanza cutanea come misura fisiologica dell’arousal emotivo.

Dopo le sei sessioni di training, nei pazienti si è osservata una riduzione dell’arousal fisiologico e amigdalico suggerendo una diminuzione generale delle reazioni legate alla paura, senza però che ad essi fossero mai presentate immagini emotigene-avversive (Taschereau-Dumouchel et al., 2018).

Dal momento che lo studio è stato condotto in doppio cieco, nessun partecipante era a conoscenza dell’intento dello studio.

Conclusioni

In conclusione, al di là della complessità della metodologia proposta dallo studio, Taschereau-Dumouchel e colleghi (2018) hanno investigato l’opportunità di utilizzare i recenti sviluppi della risonanza magnetica funzionale per creare un nuovo metodo basato sull’attivazione e sul rinforzo neurale da utilizzare negli approcci psicoterapeutici per i disturbi d’ansia.

Questo studio, per primo, ha evidenziato come le risposte fisiologiche specifiche legate alle paura possono essere ridotte in modo inconsapevole tramite la tecnica dell’iperallineamento senza esporre l’individuo a stimoli fobici.

Preoccupazioni per il peso o la forma del corpo, paura di aumentare di peso, sentirsi grasso e esiti del trattamento in pazienti con anoressia nervosa: uno studio longitudinale

Nel campo dei disturbi dell’ alimentazione la ricerca non ha ancora chiarito se la preoccupazione per l’immagine corporea rappresenti una caratteristica chiave della psicopatologia o più semplicemente un epifenomeno.

Selvaggia Sermattei

 

Infatti, mentre alcuni autori hanno recentemente proposto di considerare l’ anoressia nervosa (AN) come un mero disturbo dell’ immagine corporea, altri ritengono che questa concettualizzazione sia riduttiva e semplicistica rispetto alla natura multifattoriale del problema. Per quanto la revisione della storia del disturbo mostri come la paura del peso sia stata descritta raramente fino al 1930, ad oggi, c’è evidenza in letteratura della relazione fra il timore di aumentare di peso e un più alto livello di psicopatologia nell’ anoressia nervosa e sul ruolo della preoccupazione per l’immagine corporea nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione.

Di fatto, la moderna teoria transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione considera la preoccupazione per l’immagine corporea una caratteristica clinica che deriva direttamente dall’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, cioè dalla psicopatologia specifica e centrale della maggior parte dei disturbi dell’alimentazione. Sulla base di questo presupposto, la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E), derivata dalla teoria stessa e che ha un’efficacia basata sull’evidenza scientifica, mira proprio ad affrontare queste caratteristiche.

Tuttavia, pochi studi, ad oggi, hanno valutato le principali componenti cognitive della preoccupazione per l’immagine corporea (“Preoccupazione per il peso o la forma del corpo”, “Paura di aumentare di peso”, “Sentirsi grassi”) e nessuno studio ha analizzato il loro ruolo nell’influenzare gli esiti a lungo termine in pazienti con disturbo dell’alimentazione trattati con la CBT-E.

Le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea: il ruolo nel mantenimento dei DCA e negli esiti del trattamento

Al fine di fornire ulteriori dati utili al riguardo, l’equipe di ricerca della Casa di Cura Villa Garda ha recentemente effettuato e pubblicato sulla prestigiosa rivista Behaviour Research and Therapy, uno studio con i seguenti obiettivi:

  • Valutare le traiettorie di cambiamento nel tempo delle tre principali componenti della preoccupazione per l’immagine corporea (“Preoccupazione per il peso o la forma del corpo”, “Paura di aumentare di peso” e “Sentirsi grassi”) in pazienti con anoressia nervosa trattati con la CBT-E ospedaliera;
  • Valutare la relazione fra i cambiamenti nel tempo delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea e il cambiamento delle principali misure di esito del trattamento, cioè Indice di Massa Corporea (IMC), psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione (misurata con l’EDE 12.0, in particolare considerando le sottoscale Restrizione Dietetica e Preoccupazione per l’Alimentazione), psicopatologia generale (misurata con il Brief Symptom Inventory) e funzionamento sociale e lavorativo (misurato con la Work and Social Adjustment Scale);
  • Valutare se le tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea (misurate al basale e a fine terapia) possano essere considerate predittrici del cambiamento a lungo termine delle misure di esito della CBT-E.

Il campione è stato reclutato fra i pazienti con diagnosi di Anoressia Nervosa secondo il DSM-IV (ad eccezione del criterio dell’amenorrea) che richiedevano un trattamento presso l’Unità di Riabilitazione Nutrizionale di Villa Garda, che propone una forma di CBT-E adattata per il ricovero della durata di 20 settimane (di cui 13 di ospedalizzazione e 7 di day-hospital). Costituivano criterio di esclusione dallo studio la presenza, in comorbilità con l’AN, di uno stato psicotico acuto o di abuso di sostanze continuativo in atto.

Tutte le valutazioni (sia delle misure di esito della terapia sia delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea, misurate attraverso singoli item dell’EDE) sono state effettuate al momento del ricovero (basale), alla dimissione (fine terapia), a 6 e 12 mesi di follow-up. Il campione è costituito da 66 pazienti con AN, di cui 98% donne, con un’età media di 26.1 anni (DS=5.9) e un IMC al basale di 14.7 kg/m² (DS=2.1). L’84.8% ha concluso il trattamento, tutti i pazienti hanno completato il follow-up a 6 mesi e il 92.9% lo ha concluso a 12 mesi.

I risultati indicano che al basale, le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea correlano con la psicopatologia generica e specifica.

In particolare, la “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo” correla significativamente con i punteggi della psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione (in particolare con la sottoscala dell’EDE “Preoccupazione per l’Alimentazione”), la psicopatologia generale e il funzionamento sociale e lavorativo.

La “Paura di aumentare di peso” correla significativamente con le stesse variabili, e anche con la sottoscala dell’EDE “Restrizione Dietetica”.

Il “Sentirsi grassi” correla positivamente con l’IMC, la Preoccupazione per l’Alimentazione e la psicopatologia generale.

Per quanto riguarda gli esiti del trattamento, i risultati mostrano che tutte le variabili considerate ottengono un miglioramento significativo, con una traiettoria di cambiamento più rapida inizialmente (durante il ricovero) e successivamente più lenta (dopo la fine della terapia).

Quando le tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea sono state considerate come possibili predittori di esito, è stato riscontrato che la “Preoccupazione per il peso o la forma del corpo” predice il cambiamento della preoccupazione per l’Alimentazione, la psicopatologia generale e il funzionamento sociale e lavorativo.

L’analisi dell’associazione tra le traiettorie di cambiamento nel tempo, indica che alla riduzione della “Paura di aumentare di peso” corrisponde una riduzione della Restrizione Dietetica, e viceversa.

Infine, l’analisi di regressione univariata mostra che più bassi punteggi della “Paura di aumentare di peso” al basale predicono un peso salutare sia a 6 che a 12 mesi di follow-up e che più bassi punteggi a fine terapia in tutte e tre le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea predicono un peso salutare (IMC>18.5) a 6 mesi di follow-up.

Nel complesso, questi risultati contribuiscono senza dubbio al miglioramento delle nostre conoscenze sulle diverse componenti della preoccupazione per l’immagine corporea in pazienti con AN e sulla loro interazione con le principali misure di esito della CBT-E ospedaliera.

In particolare, i risultati delle correlazioni al basale che indicano, che una maggiore sensazione di essere grassi è associata ad un peso più alto, fornisce un’informazione aggiuntiva alla comprensione della psicopatologia dell’ Anoressia Nervosa.

Un ulteriore dato importante che lo studio fornisce, riguarda la conferma dell’efficacia della CBT-E ospedaliera nell’ottenere buoni risultati in tutte le misure di esito oltre che una riduzione significativa delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea dal basale ai 12 mesi di follow-up. Questo dato, risulta essere in linea con precedenti studi che avevano indagato la riduzione della distorsione dell’immagine corporea e delle preoccupazioni per il peso e le forme del corpo, ma bisogna considerare che comunque questo è il primo studio ad indagare specificatamente le tre componenti e a provarne la loro significativa riduzione nel tempo. Gli autori ipotizzano che questo risultato sia da attribuire all’efficacia delle procedure che la CBT-E prevede per affrontare le espressioni della psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione. Inoltre, i risultati delle traiettorie di cambiamento delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea, che, se pure con una decelerazione, continuano a migliorare dopo la dimissione, sono in linea con i risultati attesi dalla CBT-E che fornisce strategie utili ad affrontare le preoccupazioni anche dopo la fine della terapia.

Il risultato che indica che una maggior preoccupazione per il peso o la forma del corpo al basale predice un più lento cambiamento nel tempo delle preoccupazioni per l’alimentazione, della psicopatologia generale e della compromissione del funzionamento sociale e lavorativo, se confermato, può indicare che le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo effettivamente, giocano un ruolo importante nella psicopatologia dell’AN e quindi dovrebbero sempre essere valutate e affrontate dai trattamenti.

Ulteriore importanza è da attribuire all’associazione riscontrata fra il miglioramento nel tempo della paura di aumentare di peso e il miglioramento della restrizione dietetica. Infatti, nonostante lo studio non sia in grado di fornire una direzionalità a questa correlazione, gli autori ipotizzano che quest’ultima può essere ridotta direttamente dall’affrontare la restrizione dietetica, dato che la CBT-E affronta direttamente la restrizione dietetica ma non la paura di aumentare di peso.

Infine, il potere predittivo che le tre componenti sembrano avere nella possibilità di ottenere un peso salutare a lungo termine conferma la necessità di monitorare la preoccupazione per l’immagine corporea e suggerisce che le strategie designate ad affrontare queste caratteristiche durante il trattamento dovrebbero essere migliorate per i pazienti con Anoressia Nervosa.

Lo studio pur presentando alcune limitazioni (come la bassa numerosità del campione o la valutazione delle componenti dell’immagine corporea utilizzando un solo item per componente) fornisce senza dubbio un contributo importante alla comprensione dei meccanismi di mantenimento della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione suggerendo che la CBT-E ospedaliera è in grado di produrre una riduzione significativa e duratura della preoccupazione per l’immagine corporea. Inoltre, questi dati forniscono supporto all’ipotesi della preoccupazione per l’immagine corporea come una caratteristica chiave della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione e non come un mero epifenomeno. Gli autori concludono incoraggiando i clinici che si occupano di pazienti con Anoressia Nervosa ad attuare terapie che abbiano come specifico focus di trattamento il miglioramento di questa caratteristica clinica e auspicano che ricerche future possano confermare questi dati e soprattutto far luce sui meccanismi attraverso i quali la preoccupazione per l’immagine corporea si modifica durante il trattamento.

 

L’ insegnante narcisista e le dinamiche dannose con i colleghi e gli alunni

L’ insegnante dai tratti di personalità narcisistica attiva con i colleghi e con gli alunni alcune dinamiche dannose. E’ necessario riconoscerle e supportare gli studenti.

 

I più recenti fatti di cronaca (Gazzetta di Parma; Il resto del Carlino; Il Fatto Quotidiano) occorsi nell’ambito del contesto scolastico hanno acceso ampie discussioni sulle ragioni per cui alcuni studenti si legittimino tanto facilmente ad agire pesanti aggressioni contro il personale docente e l’Istituzione educativa. 

Adolescenti, società narcisista e famiglia

Gli esperti e la letteratura (Twenge, 2006; Millon e Davis, 2000; Beck e al., 1990; Recalcati, 2013) identificano alternativamente variabili psicologiche, familiari, sociologiche e pedagogiche. Alcuni autori argomentano che l’attuale società sia prevalentemente orientata verso valori di tipo narcisistico ( Lasch, 1978; Recalcati, 2013; Paris, 2014 ), sposando i quali il ragazzo si presenterebbe autocentrato, si attenderebbe un accesso facile alle fonti di piacere ed immediate gratificazioni, pretenderebbe indulgenza, uno sgravio dalle frustrazioni e dalle responsabilità ed esprimerebbe per lo più con il suo comportamento consumistico ed iperconnesso un mancato interesse e rispetto per l’Alterità.

Le principali problematicità dell’adolescente nella società odierna si concentrano intorno al culto del corpo e della visibilità, all’intolleranza per la critica e per il conferimento del limite, alla gestione delle emozioni nella intersoggettività e alla difficoltà di individuazione di una direzione progettuale definita. Tale caratterizzazione socio-psicologica non facilita nel contesto scolastico di scuola secondaria inferiore e superiore l’educazione a dismettere l’onnipotenza, ad ammettere l’esistenza di un Altro e ad accettare la disconferma, l’insuccesso o l’imperfezione.

La posizione dei docenti si fa ancora più difficile allorché la famiglia si ponga in maniera intrusiva e disconfermante come alleata del figlio, impegnata a che non sperimenti sofferenza; in tal caso è facile che vengano rintracciate nell’opera del personale educativo scolastico le cause del disadattamento o della scarsa prestazione filiale, finendo con il rinforzare l’ipersensibilità del ragazzo alla valutazione stessa.

Oggi si sottolinea da più parti quanto sia divenuto arduo il mestiere dell’insegnante al pari di quello del genitore, dal momento che ambedue le figure rivestono lo scomodo ruolo di chi pone un contenimento alla pulsionalità, di chi formula un giudizio, di chi si sforza di inoculare la passione per l’impegno e la progettualità.

L’ insegnante narcisista

Ma cosa accade quando ad essere portatrice di tratti di personalità narcisistica è proprio la figura del docente? Come può avvenire che i tratti di colui che dovrebbe rappresentare un modello e che si pone come potenziale oggetto di emulazione o soggetto ispiratore si traducano nell’impossibilità di apprendere serenamente per il gruppo classe o per alcuni allievi, in una coartazione della creatività, in limitazioni più o meno ampie all’espressione libera del Sé, in un’assunzione di potere inoppugnabile e tirannica o in autolegittimazioni a palesare manifestazioni o contenuti poco congrui con il contesto dell’apprendimento? Come riconoscere l’ insegnante narcisista e quali strategie possono essere suggerite per arginare la sua onnipotenza?

Il contesto educativo inevitabilmente comporta dinamiche di rispecchiamento che possono promuovere o inibire la crescita dell’alunno. Ma il cuore della pedagogia narcisistica vede l’insegnante sperimentare gli studenti non come il centro della propria attività ma come una parte di se stesso: l’oggetto di investimento affettivo sarebbe idealizzato quando lo studente rispecchia in toto il docente ed abbandonato quando egli gli si discosta in qualche modo (C. L. Hess, 2003).

La letteratura più recente mostra come tratti di personalità narcisistica del docente possano pesantemente influenzare gli esiti dell’apprendimento e della formazione educativa dei singoli alunni, come pure il clima vigente nel gruppo-classe ed il successo dell’Istituzione scolastica in cui egli è inserito (Jandaghi G. e al., 2015; Westerman J.W. e al., 2016).

In Narcissism in Management Education, J.Z. Bergman, J.W. Westerman e J.P. Daly, dell’Appalachian State University (2010), riconoscono come tanto nelle organizzazioni professionali, quanto in quelle educative, la grandiosità, la mancanza di empatia, la pretesa di godere di trattamenti di favore e privilegi, combinati con l’autorità derivata dal ricoprire una posizione di potere, possa tradursi nell’operato di individui che più facilmente distruggono l’educazione morale e la motivazione, impegnati come sono a tutelarsi da offese percepite e a denigrare le idee altrui al fine di recuperare il focus su di sé. I narcisisti al potere sperimenterebbero altresì una profonda fallacia nel processo di decision making: essi non tollererebbero facilmente chi dissente e spesso si circonderebbero di adulatori, dipendenti in toto dal pensiero del leader. I narcisisti avrebbero inoltre difficoltà ad integrare nuove conoscenze e ad apprendere dagli errori, nel senso che difficilmente mostrerebbero oggettività di pensiero, prenderebbero in considerazione nuovi dati, o consulterebbero altri portatori di un pensiero critico costruttivo. Imparare dagli errori implica riconoscere che si può migliorare le proprie abilità a partire dal fallimento o dal feedback negativo derivato dall’azione, mentre i leader narcisisti si irrigidiscono e si attestano su posizioni risentite, di fronte alla propria caduta. Le decisioni che prendono sono spesso superficiali, con una scarsa analisi delle condizioni in gioco e senza l’apporto della conoscenza altrui, finendo con il decidere in modo avventato, sull’onda della grandiosità, e delle fantasie di potere e successo illimitato.

L’ insegnante narcisista e le relazioni con i colleghi

E’ ipotizzabile che il maestro o professore narcisista assuma in relazione ai colleghi i seguenti comportamenti (G. Jandaghi e al., 2015; C.L.Hess, 2003; Bergman J.Z. e al., 2010):

  • mostri uno schema pervasivo di grandiosità, fierezza, senso di specialità, preoccupazione per il successo e auto assorbimento, sia esso overt e covert
  • sia dipendente dalle conferme esterne, specialmente di quanti occupino posizioni di rilievo in Dirigenza, preoccupandosi di riceverne attenzioni e attendendosi trattamenti speciali; in alcuni casi il bisogno di conferma ed ammirazione potrebbe essere celato sotto un apparente stacanovismo ed una devozione instancabile al lavoro e alla pratica intellettuale
  • non si accosti interattivamente ad altri colleghi suoi pari per conversazioni informali, fiero della sua identità distinta e superiore, o ne ricerchi la vicinanza solo quando possa trarne gratificazioni o protezione
  • tema il rifiuto relazionale e lo scadimento della propria immagine agli occhi dei superiori e rifugga tutte le occasioni per il timore che accada
  • si mostri particolarmente sensibile alla vergogna indotta da valutazioni critiche e feedback negativi: vulnerabile ad offese, rimostranze ed osservazioni, egli potrebbe attivare in difesa forti attacchi rivolti all’esterno
  • dinanzi a fallimenti o prestazioni inadeguate che lo riguardino, ricorra all’iperrazionalizzazione, allo scopo di giustificare e rendere accettabili i propri comportamenti e individuandone più facilmente la causa in fattori esterni e situazionali; è incapace di assumersi la responsabilità per i propri comportamenti fallimentari o inadeguati
  • mostri una possibile ideazione paranoidea in relazione alla minaccia percepita al senso grandioso di sé, alimentando il sospetto di un qualche abuso o di invidia da parte dei colleghi o delle famiglie, ed attivando meccanismi di difesa proiettivi e autoprotettivi
  • non rispetti gli altrui diritti e sentimenti, inabile ad assumere empaticamente la prospettiva altrui, con il risultato di rendere difficili le relazioni interne al Collegio Docenti, e con la probabilità che palesi atteggiamenti arroganti o di chiusura ostinata
  • asserisca con determinazione e sprezzo che gli altri non hanno il diritto di criticarlo, mentre egli facilmente si autorizza alla critica altrui, non fidandosi, ed aggredendo chi si permetta di domandare in merito alle sue decisioni
  • si attenda impropriamente trattamenti di favore e privilegi dai colleghi del Collegio docenti o dell’Istituto, come l’essere esonerato dalle difficoltà o dai compiti più duri, fino a sottrarsi alle regole che valgono per gli altri e a quanto non risponda al suo interesse o non gli procuri un immediato riscontro; se questo non accade, potrebbe gridare all’ingiustizia e al disordine organizzativo, indignandosi perché non ci si muove in accordo alle sue preferenze e alla sua convenienza
  • induca i colleghi a lavorare al suo posto, cerchi opportunità per sfruttarne le competenze o individui i compiti interni che con più probabilità lo conducono ad una più elevata considerazione sociale, tralasciando le mansioni routinarie
  • non ammetta che i colleghi possano conoscere ciò che egli non sa, sperimentando reazioni emotive negative alla percezione di trovarsi in uno stato di ignoranza e trovando difficoltà ad accettare nuovi punti di vista rispetto al suo schema interpretativo; nel contesto di una riunione con finalità di discussione didattica, il narcisista potrebbe irrigidirsi ed attivare una pesante conflittualità
  • non sappia lavorare in team, essendo sostanzialmente incapace di interdipendenza, più o meno apertamente competitivo e sperimentando invidia per i meriti riconosciuti ai colleghi (Chatterjee e Hambrick, 2007).

L’ insegnante narcisista in relazione con i singoli alunni e il gruppo-classe

In relazione agli studenti è probabile che il professore con tratti di personalità narcisistica (C.L. Hess, 2003)

  • conduca le sue lezioni con energia, avvolto da un’aura di carisma, seduttivo o enfatico nell’uso del linguaggio e della comunicazione non verbale, mentre indulge in fantasie di illimitata ammirazione da parte dei suoi alunni
  • palesi un senso di sé ipertrofico per almeno qualche caratteristica (doti culturali, fisiche, estetiche, curriculum formativo o esperienziale, veicolate come impareggiabili)
  • si ponga come Ideale da emulare acriticamente senza dare spazio all’iniziativa personale e alle idee indipendenti dell’alunno, rinforzando processi di imitazione bieca e passiva e pretendendo la riproduzione esatta delle sue parole
  • non consenta di ampliare la sua eredità di conoscenze in maniera soggettiva o critica, respingendo qualunque giudizio espresso personalmente dall’alunno che non si coniughi con quanto egli crede, impedendo creatività e vitalità dello scambio intellettuale e forzando l’alunno a rispecchiare se stesso
  • si mostri eccessivamente sensibile alle critiche, ai mancati apprendimenti attesi, alla messa in discussione dei suoi imperativi, mostrando disappunto, offesa, azioni di rivalsa, manovre di distacco e disconferma ( negazione del contatto oculare, tensione corporea, rifiuto ) o applicando inaspettatamente l’autoritarismo
  • eserciti sugli alunni considerati suoi subalterni la sua superiorità, facendo il bello e il cattivo tempo sull’onda dei suoi umori, mostrando alternativamente fascinazione e atteggiamenti arroganti e minacciosi
  • disponga verifiche ed organizzazione della didattica secondo i suoi desideri ed esigenze
  • non si mostri empatico di fronte al disagio espresso dal gruppo-classe o dal singolo, fallendo nel considerare, rispettare e comprendere tanto i bisogni emozionali dei suoi studenti quanto i loro punti di vista
  • discrimini per primo, aprendosi alla confidenzialità con coloro che reputa “gli alunni eletti e di successo”, intrattenendo relazioni privilegiate con chi lo renda oggetto di adulazione e dichiarata ammirazione, preferendo gli stessi specie se riflettono abilmente e accuratamente le sue posizioni, se possono restituirgli lustro, se si dimostrano leali o se si schierano dalla sua parte contro presupposti rivali intellettuali (Bergman J.Z. e al., 2010)
  • tema l’indebolimento dei ruoli, che potrebbe consentire all’alunno l’insubordinazione e l’emissione di pareri sfavorevoli o di pettegolezzi sul suo conto
  • non scenda mai dal pulpito delle sue affermazioni, nette, rigide e dicotomiche, che appaiono improntate a saggezza e grande esperienza acquisita, ma si fonderebbero per lo più su un fragile concetto di sé e su un’immatura rappresentazione del mondo
  • formuli aspettative elevate circa l’introiezione immediata dei contenuti espressi agli alunni e si attenda un forte riconoscimento per il bagaglio culturale trasmesso, scoraggiando e demotivando gli studenti meno ambiziosi e meno abili
  • introduca rapporti di forza sbilanciati e ricattatori nella relazione con lo studente o il gruppo-classe, non ammettendo in alcun modo il contraddittorio e sviluppando invidia ed una più intensa svalutazione per l’alunno che mostri aree di maggiore abilità e talento
  • reagisca alle obiezioni e all’occasionalità del proprio non sapere con sdegno, rabbia ed insolenza, restituendo rifiuto e squalifica all’alunno che abbia formulato lo scomodo interrogativo o che più sa (Westerman J.W. e al., 2016)
  • non incoraggi in alcun modo la spontaneità, l’originalità e la creatività, né il senso gioioso di aver raggiunto un’insight o una personale e particolare connessione emotiva con l’argomento, giacché l’insegnante narcisista non permette all’alunno di articolare la propria voce soggettiva.

Suggerimenti di sostegno relazionale agli alunni e di intervento sul docente

Al cospetto di tale configurazione di personalità, l’organico dei docenti potrebbe apprendere nel corso del tempo a trattare il collega con particolare cautela per non suscitarne l’aggressione, lo sprezzo, la vendetta o la chiusura nel mutismo e nell’ignoramento ostinato.

Gli studenti, per “sopravvivere”, potrebbero imparare ad accomodarsi alle pretese del docente e a soddisfare le sue esigenze, anche sopprimendo i propri bisogni e la criticità delle proprie idee, finendo con l’impedire la giusta individuazione del Sé (C. L. Hess, 2003).

In casi più estremi gli studenti più vulnerabili a tendenze idealizzanti potrebbero finire con l’essere coinvolti in una devozione tale all’ insegnante narcisista da accettare una posizione di subordinazione e rinuncia al proprio Sé in cambio di approvazione e conferma.

Come fare allora per sostenere gli alunni nella relazione quotidiana con un docente che ha una siffatta caratterizzazione di personalità? E’ giusto inasprire la regolamentazione in merito al comportamento relazionale e alla prassi consentiti al docente per tutelare gli alunni, o si rischia di accentuarne la rivendicazione entro i limiti di quanto il regolamento consente? E’ utile tentare la carta dell’empatia e dell’avvicinamento da parte dei colleghi o si rischia di far paventare all’ insegnante narcisista una minaccia di interferenza nelle sue mansioni e di espropriazione del suo ruolo? Quanto è utile ai fini della promozione e più in generale della loro formazione educativa incoraggiare gli alunni a fare opposizione all’apprendimento acritico suggerito, per seguitare piuttosto a preservare ed incentivare l’originalità della loro espressione?

Malgrado non siano state ancora individuate risorse efficaci per la salvaguardia del sé entro una simile relazione educatore-discente, si ritiene importante restituire sempre al gruppo-classe che l’autenticità e la libertà dei suoi membri non può essere spenta o dismessa in nome di un giudizio o di una norma proposte come incontestabili, pena l’accentuazione di un clima competitivo, di obbligazione alla performance, di chiusura mentale che non favorisce la crescita, il senso ludico, né la passione per il sapere. Il Consiglio di Classe e il sostegno della famiglia in questo senso sono da ritenersi fondamentali, dal momento che la voce di più figure educative in questo caso contiene la potenzialità di introdurre flessibilità, discutibilità e criticità nel dinamismo di una relazione che esclude in ogni caso tolleranza, apertura, riflessività e dinamismo del pensiero.

G. Jandaghi, S. F.Kozekanan e A. Pirannejad, al Farabi Campus all’Università di Teheran (2015) confermano come i tratti di personalità narcisistica dei professori giochino un ruolo siginificativo nel condizionare l’apprendimento e la performance accademica degli studenti e raccomandano di provvedere a procedure di selezione accurate dei membri di facoltà. Si ritiene che l’Istituzione scolastica dovrebbe condurre test psicologici anche dopo l’assunzione, per la rilevazione degli insegnanti dai tratti narcisistici; inoltre dovrebbe monitorare costantemente la qualità della relazione intrattenuta dal docente con i suoi allievi ed attivare risorse interne di consulenza e sostegno psicologico, tanto per gli alunni quanto per il personale docente.

Una nuova strada per raggiungere la ristrutturazione cognitiva. Il valore del corpo in un viaggio “Dal basso in alto (e ritorno)”

Il corpo ha il vecchio vizio di ritornare al centro della scena, non lo ferma nessuno. Neanche gli psicoterapeuti.

 

Per decenni cognitivisti e psicoanalisti hanno curato i pazienti parlandoci. Con stili completamente diversi, certo, e guidati da teorie che spesso confliggevano. Ma, incosciamente e non senza una certa ironia, guidati dalla stessa dimenticanza: il corpo. Sì, lo osservavano, ci riflettevano su, ma alla fine non ci facevano niente. Giusto i comportamentisti, loro sì, lo muovevano, ma guidati da una teoria improponibile in cui la mente non contava niente.

La storia della psicoterapia è buffa. Mentre cognitivisti e psicoanalisti uniti negligevano il corpo, altre scuole se ne occupavano, soprattutto gestalt, analisi reichiana e bioenergetica. Lo hanno fatto guidati da teoria che, ahimé, li hanno tagliati fuori dal dibattito scientifico, facendoli diventare dei cugini bizzarri delle psicoterapie serie, da guardare con un misto di simpatia e imbarazzo.

Il corpo ha il vecchio vizio di ritornare al centro della scena, non lo ferma nessuno. Neanche gli psicoterapeuti.

Cognitivisti e psicoanalisti iniziano a rendersi conto che i loro, più o meno volontari, taboo al contatto fisico, al lavoro attraverso il corpo, non avevano senso. Con quanti pazienti la sola parola era inefficace? Lo sentivamo noi terapeuti che la nostra azione era insufficiente e che a un certo punto con i pazienti stavamo facendo chiacchiere sapendo che erano inefficaci.

Succede qualcosa. Non credo ci sia una storia precisa da scrivere. Succedono una serie di cose. Patricia Ogden riprende, non sempre col dovuto armamentario di citazioni, gli esercizi dei nostri cugini imbarazzanti. Fritz Perls e Alexander Lowen tornano ad essere nominati. Si crea una roba nuova, la chiamano psicoterapia senso-motoria. Si basa sulla teoria del trauma, dello sviluppo, dell’attaccamento, del funzionamento somato-sensoriale a partire da Porges, Bowlby, Damasio, Panksepp. Ridà dignità scientifica al lavoro sul corpo.

Jon Kabat-Zinn porta Buddha in occidente, lo porta tra gli scienziati della psicoterapia. Lascia da parte il ragionamento cosciente, il chiaccherio della mente. Osserva il corpo che pulsa, si tende e distende e soprattutto, respira. Arriva la mindfulness, un nuovo approccio alla sensorialità che permette di osservare i pensieri incarnati e lasciarli scorrere via.

Riesplode Janet e la psicotraumatologia, e van der Kolk scrive quel capolavoro de Il corpo accusa il colpo. Il corpo. Di nuovo. Le credenze patogene fanno male, d’accordo. Ma le reazioni viscerali che seguono a traumi relazionali, cavolo, quelle fanno male anche di più, e non se ne vanno solo ragionando.

Succede qualcosa. Gli allievi delle scuole di psicoterapia, tantissimi dalle scuole cognitive, si iscrivono ai corsi di formazione in psicoterapia sensomotoria e di EMDR, un altro approccio che cerca di passare attraverso un’elaborazione non cognitivamente mediata delle reazioni viscerali che seguono ad un trauma. E questi corsi si riempiono.

Significa che il mondo della psicoterapia è cambiato. I cognitivisti in particolare sentono il bisogno di integrare questo armamentario di tecniche, antico e nuovo allo stesso tempo, nella loro pratica.

Dal basso in alto (e ritorno…) di Cecilia La Rosa, Antonio Onofri e i loro colleghi si colloca in questo momento storico. In un razionale che parte da Janet, Liotti, Bowlby e tutta la psicotraumatologia, gli autori in una cornice di terapia cognitiva descrivono le pratiche sul corpo e sulla regolazione dell’attività mentale (come nell’EMDR) e spiegano come le si possano attuare.

Era un libro necessario. Ve lo immaginate un libro di terapia cognitiva solo 10 anni fa con un paragrafo che si chiamasse: “Assessment mediante il Body Scan guidato?”. Io no.

Qui c’è, a pagina 143. Il terapeuta chiede: “Che cosa accade ora nel suo corpo? In quale parte del corpo? Dove lo nota in particolare? Da cosa lo capisce? Quanto è estesa la sensazione? Quanto è profonda? Che forma ha? Che tipo di sensazione è? Che caratteristiche ha?”

Un assessment del genere rivoluziona il trattamento. Se noi, con La Rosa e Onofri, andiamo a esplorare le cognizioni connesse a particolari stati del corpo, allontaniamo i pazienti dall’idea che soffrano a causa della realtà. Li avviciniamo all’idea invece che in determinati stati somatici hanno determinate convinzioni e che cambiando lo stato somatico, magari attraverso esercizi mirati, cambi il contenuto della cognizione. I pazienti arrivano a qualcosa che alla fine è la ristrutturazione cognitiva, ma lo fanno da un’altra strada. Dal basso verso l’alto. E ritorno.

Ascoltare la musica insieme migliora la relazione futura con i propri figli

Secondo un recente studio dell’Università dell’Arizona, i bambini che vivono esperienze musicali condivise con i propri genitori riferiscono di avere rapporti di migliore qualità con loro quando raggiungono la giovane età adulta.

 

I ricercatori hanno scoperto che i giovani adulti che hanno condiviso esperienze musicali con i propri genitori durante l’infanzia, specialmente durante l’adolescenza, riferiscono di avere migliori relazioni con i loro genitori quando entrano nella giovane età adulta.

Il coautore dello studio Jake Harwood, professore e capo del dipartimento di Comunicazione dell’Università dell’Arizona, sostiene che

[blockquote style=”1″]Se hai bambini piccoli e suoni musica con loro, questo ti aiuta ad essere più vicino a loro, e più tardi nella vita ti renderà più vicino a loro. Inoltre, ascoltare della musica insieme ai propri figli adolescenti o condividere esperienze musicali con loro ha un effetto ancora più forte sulla tua relazione futura e sulla percezione del bambino della relazione nell’età adulta.[/blockquote]

Esperienze musicali condivise: lo studio dell’Università dell’Arizona

I ricercatori hanno intervistato un gruppo di giovani adulti, con età media di 21 anni, circa la frequenza con cui hanno trascorso del tempo con i loro genitori, da bambini, in attività come ascoltare musica insieme, assistere a concerti o suonare strumenti musicali. In particolare, veniva chiesto loro di riferire ricordi di esperienze comprese tra gli 8 e 13/14 anni di età. Inoltre, è stato chiesto a ciascun partecipante di esprimere un giudizio circa la propria percezione della qualità attuale della propria relazione con i genitori.

Risultati e Conclusioni

Le esperienze musicali condivise a tutti i livelli di età sono state associate a una migliore percezione della qualità del rapporto genitore-figlio nella giovane età adulta, tuttavia l’effetto è stato più pronunciato per le esperienze musicali condivise che hanno avuto luogo durante l’adolescenza.

Due sono i fattori che possono aiutare a spiegare la relazione tra esperienze musicali condivise e una migliore qualità della relazione: il coordinamento e l’empatia. Questo sembra dovuto al fatto che, se si suona o si ascolta musica con i propri genitori è possibile fare esperienza di attività sincronizzate come ballare o cantare insieme. Attraverso la musica, inoltre, molto emozioni possono essere evocate e questo favorisce lo sviluppo di risposte empatiche.

Le esperienze musicali condivise con i propri figli non devono risultare troppo complesse ed articolate; attività semplici, come ascoltare musica in macchina insieme, possono avere un impatto maggiore rispetto a esperienze musicali più formali.

La ricerca futura dovrebbe esaminare più da vicino le differenze tra esperienze musicali formali e informali e considerare anche come la musica possa influenzare la qualità di altri tipi di relazioni, comprese le relazioni romantiche, ha affermato Wallace.

L’invito ai genitori è dunque quello di aumentare le loro interazioni musicali con i propri figli, specialmente nel periodo adolescenziale.

Ritratti del desiderio: il concetto di desiderio secondo Lacan e Recalcati, due visioni a confronto

Nella prefazione alla seconda edizione di Ritratti del desiderio, Massimo Recalcati apre una riflessione che si pone in contrasto con una certa lettura egemone di Lacan che valorizza il desiderio come godimento a scapito di una visione trascendente del desiderio stesso.

 

Prima di addentrarsi nel disegnare diversi ritratti del desiderio, l’autore cerca di tracciare un percorso caratterizzato dalla dimensione dialettica, e contraddittoria per alcuni versi, tra il desiderio che viene sempre dall’Altro, ma assunto e fatto proprio dal soggetto, e il desiderio d’Altro, del Nuovo, di Altra Cosa. In quest’ultimo senso per lo psicanalista “il desiderio assomiglia ad un esilio permanente, ad un’erranza inquieta che non può mai trovare l’appagamento che pure ricerca affannosamente”.

Solo se si assume la mancanza a essere come condizione dell’esistenza, il desiderio può divenire un’apertura verso la vita, viceversa, il desiderio come godimento è godimento di morte.

Il godimento illimitato, della cultura dominante capitalista, privo di responsabilità, sregolato, compulsivo, soffoca la progettualità, la creatività, l’amore.

Il godimento che rende vivibile la vita, il godimento come effetto del potenziamento della vita non è mai il godimento incestuoso, non è mai il godimento del “tutto”, ma è il godimento che si può raggiungere solo a partire dall’impossibilità dell’incesto, ovvero dall’impossibilità di avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto.

L’elemento comune dei ritratti che traccia Recalcati in Ritratti del desiderio è la forza del desiderio che supera l’Io, che non dà la possibilità di essere governato, non è a disposizione: “L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di un’alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità” e rappresenta per questo una grande possibilità di sganciarsi dalle illusioni narcisistiche dell’Io, dalla sofferenza generata dal suo attaccamento per andare verso un desiderio dell’Altro, un desiderio trascendente.

Desiderio e Bisogno

E’ una prospettiva molto interessante che richiama i contenuti di un articolo pubblicato tempo indietro su questo giornale in cui mettevamo in evidenza le profonde differenze tra desiderio e bisogno (leggi qui). Si sosteneva nell’articolo che il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare può così trasformarsi in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile.

Molte ricerche hanno messo bene in evidenza come il benessere non sia vincolato alla soddisfazione dei desideri, ma piuttosto a una visione eudemonica in cui alcuni bisogni fondamentali siano appagati (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Nella storia evolutiva di ogni individuo l’identità e quindi l’integrazione e la coerenza del sé nasce da esperienze in cui la tolleranza alla frustrazione è conditio sine qua non di un buon adattamento a ciò che ci propone la realtà, spesso matrigna e poco propensa a rispondere alle nostre attese. Le immagini maladattive compaiono proprio quando è presente la ricerca di soddisfazione di un desiderio (May et al., 2004, 2010).

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto dell’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto possibile d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario, quindi, distinguere il desiderio dal bisogno, i bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli indotti e falsi dell’avere, del possesso, dell’avidità, del potere, dell’affermazione (Fromm, 1976). E in Ritratti del desiderio troviamo un’ampia panoramica di questi falsi bisogni indotti.

Il desiderio invidioso, che assume un carattere infantile, si manifesta strutturalmente come desiderio dell’oggetto desiderato dall’altro bambino.

Il desiderio e l’angoscia per la sensazione di essere in balìa del desiderio dell’Altro, di essere ridotti a un oggetto nelle mani del capriccio dell’Altro.

Il desiderio di niente, per cui quello che c’è non è mai sufficiente, non è mai abbastanza e il desiderio si consuma in se stesso.

Il desiderio di godere come diritto al dispendio, al superfluo, all’inutile.

Il desiderio dell’Altrove che trasferisce l’illusione di salvezza sempre su un nuovo oggetto senza però impedire la riproduzione fatale della stessa delusione una volta che l’oggetto viene posseduto.

Il desiderio sessuale che “non è mai la manifestazione di un istinto naturale, ma mostra il carattere tutto culturale, artificiale, strutturalmente perverso-polimorfo direbbe Freud, della sessualità umana”.

Il desiderio amoroso che si rappresenta in una “sfasatura strutturale tra il desiderio maschile – che è desiderio feticistico del pezzo – e quello femminile – che è desiderio amoroso, desiderio che si nutre non di pezzi ma di segni d’amore”.

Il desiderio puro o il desiderio di morte rappresentato dalla figura di Antigone.

Il desiderio dell’analista che nel curare mette in gioco l’amore per il paziente. Un amore per la vita dell’altro che deve essere taciuto, né dichiarato, né agito e diventare così il dono che l’analista offre alle vite che si rivolgono a lui raccontandosi.

Infine, il desiderio dell’Altro come apertura, come legame positivo, come domanda rivolta verso l’Altro.

Il desiderio è domanda di riconoscimento e la sua soddisfazione simbolica è tutta nell’ottenere il riconoscimento di questa domanda. Desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall’Altro, significa voler avere un valore per l’Altro. Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro. Non esiste desiderio senza l’Altro. Il circuito del desiderio passa necessariamente dall’Altro perché il desiderio non può bastare a se stesso.

Nell’ultima parte del libro Ritratti del desiderio, Recalcati traccia le tappe fondamentali del suo incontro con Lacan e ne dipinge un ritratto personale che parte dal problema della propria esistenza sottolineando in modo particolare un’affermazione dello psicoanalista francese: “L’amore è ciò che mantiene convergenti il desiderio e il godimento”.

Psicologia e turismo: qual è la motivazione che ci spinge a viaggiare?

Si sono susseguite diverse teorie che hanno cercato di spiegare come nasce la nostra motivazione ed è possibile avvalersi di alcune di queste per spiegare cosa spinge un individuo a viaggiare.

 

Viaggiare è come innamorarsi: il mondo si fa nuovo” (Jan Myrdal).

 

Respirare l’aria speziata di Marrakech, rinfrescarsi con una sangria in un caldo pomeriggio a Granada, applaudire al tramonto a Santorini… Qualsiasi sia la ragione che ci spinge a viaggiare sappiamo che amiamo farlo. Che sia una breve gita fuori porta o un viaggio lungo settimane, ogni volta che aggiungiamo una bandierina sulla cartina del mondo abbiamo una storia nuova da raccontare. Da quando iniziamo a pensare alla meta siamo mossi da precise motivazioni, consapevoli o meno, che ci spingono a voler evadere, conoscere, esplorare o rilassarci. È difficile pensare a una motivazione univoca poiché ognuno di noi ha dei precisi bisogni da soddisfare e obiettivi da raggiungere.

Ma da cosa deriva la motivazione a viaggiare?

Sappiamo che ad oggi l’esperienza turistica non è più la stessa: sono cambiati i trend e il viaggio non è più considerato un lusso (Puggelli & Gatti, 2004; Di Nuovo, 2008). Queste modificazioni socioculturali hanno ridefinito anche il comportamento turistico rendendo più interessante lo studio delle scelte del viaggiatore che risultano a questo punto legate ad aspetti ancor più variegati e personali (valori, di stile di vita, ecc.).

Se pensiamo alla motivazione come all’insieme di processi di attivazione e di orientamento del comportamento verso la realizzazione di un determinato scopo (Feldman, 2008) possiamo cominciare a delineare il viaggio come un’attività da compiere al fine del raggiungimento di un obiettivo personale superiore.

Si sono susseguite diverse teorie che hanno cercato di spiegare questo concetto ed è possibile avvalersi di alcune di queste per spiegare cosa spinge un individuo a viaggiare. Pensiamo a un conoscente che ci ha appena raccontato di avere in programma un viaggio in solitaria in una terra estrema o a un amico che ha sempre la valigia pronta.

Zuckerman (1979) farebbe rientrare i casi appena citati nella categoria di soggetti definibili “sensation seekers”. Questo filone facente parte delle teorie dell’arousal secondo le quali ognuno di noi ha livelli di attività e stimolazione sensoriale che non devono scendere sotto una certa soglia, sostiene che alcune categorie di individui hanno bisogno di ricercare sensazioni e stimolazioni sempre nuove, a volte anche correndo rischi fisici per provarle. Questa ricerca di sensazioni è articolata secondo 4 componenti:

  • la ricerca di brivido e di avventura
  • la ricerca di esperienze nuove
  • la tendenza a liberarsi dalle inibizioni
  • la suscettibilità alla noia

Oltre la motivazione, i bisogni

Nel momento in cui lo scopo da perseguire può essere considerato in ottica di bisogno subentrano altri approcci che aiutano a comprendere la spinta al viaggio. Secondo Murray (1938) i bisogni sono forze interne che organizzano tutte le attività e il comportamento dell’individuo e possono essere suddivisi in bisogni primari, fisiologici, necessari all’organismo come la fame e la sete, e bisogni secondari che vengono acquisiti mediante le esperienze di apprendimento all’interno del contesto di vita come il bisogno di autonomia o di riuscita. Murray, inoltre, considera insieme ai bisogni anche le pressioni, ossia le situazioni ambientali che scatenano i bisogni dell’individuo. È quindi presente una costante associazione tra pressione ambientale e bisogno per cui un soggetto ricerca la soddisfazione di un bisogno date delle circostanze ambientali.

Se è possibile quindi applicare questo approccio al viaggio è altrettanto possibile dedurre che si può essere motivati a partire perché, ad esempio, ci si trova in un periodo particolarmente stressante e si ha il bisogno di “staccare la spina”. Allo stesso modo, un giovane studente fortemente motivato a imparare una lingua straniera potrebbe scegliere di trascorrere soggiorni all’estero per favorire il suo apprendimento della lingua.

Ma non ci si può limitare a una visione “motivazione – azione – soddisfazione” così lineare e statica. Secondo Maslow (1970; 2010), infatti, i bisogni sono classificati secondo una gerarchia piramidale e affinché i bisogni al vertice possano essere soddisfatti è necessario prima appagare quelli alla base. L’autore pone alla base i bisogni fisiologici (cibo, acqua, ecc..); appena sopra i bisogni di sicurezza (ambiente sicuro); al centro della piramide si trovano i bisogni di appartenenza legati alla necessità di donare e ricevere affetto; il penultimo gradino lo guadagnano i bisogni di stima verso sé stessi e l’apice lo si raggiunge con il bisogno di autorealizzazione inteso come uno stato di appagamento raggiunto dalle persone, ognuna a proprio modo, grazie alla realizzazione del proprio potenziale più alto. Il bisogno che motiva al viaggio, quindi, potrebbe essere collocato nei punti più alti della piramide di Maslow e decide di fare la sua comparsa solo a seguito del raggiungimento di obiettivi più “basali” per il soggetto.

Tuttavia questo non basta a spiegare la voglia di partire che ci fa passare ore alla ricerca di un low-cost con gli orari migliori e l’alloggio più conveniente ma vicino ai luoghi di interesse.

Le teorie a tal proposito sono molto più specifiche e, come sostiene Pearce (1993) prevedono una multidimensionalità che rende la motivazione del turista dinamica, in continua evoluzione, sensibile alle influenze sociali, episodica e orientata al futuro.

A ciascuno la sua motivazione per viaggiare

Qualunque sia la ragione che ci spinge a viaggiare pare che ne esista una che accomuna tutti: la ricerca di una “stimolazione ottimale” (Iso-Ahola, 1982). Analogamente a quanto proposto da Zuckerman l’individuo ambisce a uno stato soggettivo ideale che dipende da tratti e predisposizioni personali e da stimoli ambientali. Dietro il desiderio di viaggiare si nascondo quindi bisogni emotivi del momento troppo personali per qualificare in modo oggettivo la motivazione alla vacanza. Non ci può essere un viaggio uguale per tutti. Il modello bidimensionale dell’autore spiega la ricerca della stimolazione ottimale ponendo la scelta della vacanza su un continuum che va dalla ricerca di posti nuovi, nuove esperienze, all’evitamento di condizioni quali ad esempio lo stress e la routine.

Similmente, secondo Crompton (1979) la stimolazione ottimale si raggiunge in questo modo, anzi, in questi sette modi:

  • evadere dal quotidiano percepito ricercando luoghi di vacanza diversi rispetto a quelli quotidiani casa-lavoro
  • esplorare sé stessi ricercando nuove occasioni in ambienti non familiari che ci portano a conoscerci meglio
  • rilassarsi allentando le tensioni psico-fisiche di tutti i giorni
  • ricercare il prestigio nel viaggio come mezzo di promozione sociale
  • regredire attuando comportamenti meno razionali (es.: non avere orari, giocare sulla spiaggia) per sganciarsi dalle costrizioni sociali
  • spingersi verso le relazioni familiari per rafforzarle anche con attività semplici (es.: giocare a carte) a cui non ci si può dedicare solitamente
  • migliorare le relazioni sociali mediante soluzioni turistiche come i villaggi che portano a una disinibizione e favoriscono gli scambi interpersonali

L’autore inoltre ha individuato due forze principali che ci spingono a viaggiare: i fattori di spinta (push) e i fattori di attrazione (pull). I primi sono fattori legati più a scelte socio-psicologiche di tipo emozionale come, ad esempio, il bisogno di relax, di socializzazione, di fare altro e farlo altrove. I secondi, invece, vengono “solleticati” dal bisogno di avventura, di novità e dalla destinazione stessa che quindi deve possedere determinate caratteristiche che vengono vissute come arricchimento personale (ad es.: un viaggio culturale).

Da un viaggiatore “pull” sentiremmo dire che “la parte migliore del viaggio non è la meta ma il percorso per raggiungerla”. Un viaggiatore “push”, invece, difficilmente potrebbe rinunciare al suo braccialetto all inclusive in un resort da sogno che trasuda pace e tranquillità.

A tutti questi aspetti, inoltre, dobbiamo aggiungere una determinante non da poco nella scelta del viaggio: l’età. Le motivazioni turistiche sembrano essere soggette a cambiamenti determinati dalla fascia d’età (Gibson & Yannikis, 2002). Tra i 28 e i 40 anni si può essere più orientati a viaggi studio, culturali e conoscitivi. Tra i 40 e i 50 anni è possibile che il viaggio diventi una sorta di status symbol per dimostrare la posizione sociale raggiunta. Infine, tra i 50 e i 65 anni si potrebbero ricercare più facilmente esperienze di viaggio dal sapore meno avventuroso, in contesti sicuri e il meno stancanti possibile.

Ognuno con la propria ragione, con la miglior compagnia o in solitaria, godendosi il viaggio o sognando la meta, siamo dei piccoli Marco Polo pronti a scrivere il nostro Milione.

Violenza online e cyberbullismo: un’ipotesi neuroscientifica e le prospettive di intervento

Alla luce di una sempre maggior diffusione del fenomeno del cyberbullismo, proponiamo in questo articolo una lettura del fenomeno connessa all’ipotesi neuroscientifica di un’alterazione a livello del sistema di neuroni specchio, che sottenderebbe una compromissione nella responsività empatica. Riteniamo quindi fondamentale la promozione a tutti i livelli di attività che coinvolgano socialmente i ragazzi, che stimolino le loro competenze sociali ed empatiche e che allenino le loro capacità di assunzione della prospettiva altrui, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a queste abilità.

Samantha Baldassarre, Eddy Chiapasco, Gabriella Gandino

 

Cyberbullismo e alterazione del “sistema specchio”

Un fenomeno che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale e nazionale nell’odierna società è quello del cyberbullismo, che può essere definito come l’insieme di azioni aggressive, deliberate e ripetute, attuate da uno o più perpetratori, attraverso strumenti elettronici (ad esempio pc, smartphone e tablet), con l’obiettivo di danneggiare e/o isolare uno o più soggetti che non possono facilmente difendersi (Smith et al., 2008; Hinduja & Patchin, 2009).

Essendo un fenomeno molto recente, risulta importante effettuare studi scientifici per meglio comprenderne i meccanismi e poter attuare interventi clinici mirati e adeguati. A tal proposito, facendo riferimento alla teoria del “sistema di neuroni specchio” (Rizzolatti et al., 1996) – situato in varie zone cerebrali tra cui la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore, il settore inferiore del giro pre-centrale, il settore posteriore del giro frontale inferiore, un’area anteriore del giro frontale inferiore, il solco temporale superiore e la corteccia pre-motoria dorsale – si vuole proporre un’ipotesi di stampo neuroscientifico, dal momento che suddetto sistema si è dimostrato particolarmente rilevante in ciò che Gallese ha denominato “simulazione incarnata” (Gallese et al., 1996). Quest’ultima è un processo biologico secondo cui quando una persona ne osserva un’altra compiere una determinata azione e/o sperimentare una certa emozione, si attiverebbero in chi osserva non solo le medesime reazioni fisiologiche, ma anche le stesse strutture neuronali (che appunto coincidono con le aree cerebrali del sistema specchio) e, pertanto, tale processo sembra essere alla base della comprensione dei vissuti altrui e in ultima istanza dell’empatia (Gallese et al., 1996; Bracco, 2005). È proprio per via di tale meccanismo di “simulazione incarnata” che quando vediamo un altro individuo soffrire soffriamo un po’ anche noi, perché nel nostro corpo si innescano tutte quelle reazioni viscerali-motorie-neurali che riguardano anche la persona che stiamo osservando.

Ma cosa succede nell’epoca della “rivoluzione digitale” (Cantelmi, Talli, D’Andrea, Del Miglio, 2000), in cui la quotidianità è pervasa dai nuovi strumenti elettronici, che permettono di nascondersi dietro uno schermo e di non vedere direttamente l’altro? Proprio per via del sempre maggior tempo trascorso nel cyberspazio, caratterizzato dalla mancanza di relazioni face-to-face, è possibile che gli adolescenti siano oggi meno abituati ad attivare e ad allenare il loro “sistema specchio”, con la conseguente carenza nel riconoscimento delle emozioni altrui e nell’elicitazione della risposta empatica. Alcuni studiosi, infatti, hanno mostrato che i perpetratori di atti aggressivi online manifestano una minor responsività empatica rispetto ai loro coetanei non cyberbulli (Renati et al., 2012). Sempre la mancanza di un contatto diretto tra cyberbullo e cybervittima sembra essere un elemento importante per spiegare la particolare violenza raggiunta in alcuni casi dalle aggressioni online. Questo aspetto può, infatti, essere letto alla luce del celebre esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità, in cui l’autore aveva notato come all’aumentare della distanza tra insegnante e allievo (che faceva perdere il contatto visivo tra i due), aumentava anche la violenza del soggetto sperimentale che tendeva ad infliggere alla vittima scosse sempre maggiori (Delcuratolo, 2016).

Ipotizziamo dunque che un deficit funzionale a livello empatico possa essere connesso ad una sottostante alterazione neurologica del “sistema di neuroni specchio”.

I più recenti studi neuroscientifici, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze sociali e affettive, hanno, inoltre, evidenziato la plasticità che caratterizza il cervello umano e la sua capacità di trasformarsi non solo durante l’età evolutiva, ma in tutto il ciclo di vita, in presenza di adeguate stimolazioni da parte dell’ambiente sociale (Schore, 2015). Alla luce di tali considerazioni, riteniamo sia necessario promuovere nei ragazzi attività che consentano loro di sviluppare le competenze sociali, di allenare la capacità di assumere la prospettiva altrui e di riconoscere e comprendere le emozioni, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a suddette abilità.

Attività di sviluppo degli aspetti empatici e role-playing formativo

Come possiamo intervenire per aiutare gli adolescenti a migliorare la loro capacità di comprendere i vissuti altrui?

A livello preventivo, in ambito scolastico, sono già presenti in Italia e in Europa molteplici progetti basati sull’informazione e la sensibilizzazione nei confronti del cyberbullismo, che mirano a diffondere la conoscenza del fenomeno, ma tuttavia non esaustive sul piano preventivo. Sarebbe auspicabile che a tali progetti si affiancassero attività pratiche, che coinvolgano in prima persona i giovani e che consentano loro di sviluppare e implementare quelle abilità psicosociali ed empatiche il cui sviluppo non è favorito dall’utilizzo massivo delle nuove tecnologie.

Una tecnica che a questo scopo sembra essere particolarmente efficace è quella del role-playing formativo, o gioco di ruolo, di Jacob Moreno (1961), una pratica di simulazione in gruppo che prevede lo svolgimento da parte dei partecipanti, per un tempo limitato, del ruolo di attori. Ciò che viene richiesto ai soggetti è di rappresentare una scena di vita quotidiana, impersonando alcuni ruoli in interazione tra di loro, mentre altri individui assumono la funzione di osservatori (Masci, 2009). Una volta conclusa la rappresentazione, segue un confronto tra gli attori e gli osservatori circa le dinamiche relazionali emerse e i vissuti esperiti (Masci, 2009).

Questa tecnica offre la possibilità di immedesimarsi in ruoli diversi, sperimentando i disagi e le emozioni tipici di questi ruoli, e stimola l’apprendimento di competenze psicosociali ed empatiche attraverso l’imitazione, l’osservazione del comportamento altrui e la riflessione sui commenti ricevuti rispetto alla propria condotta (Capranico, 1997).

Nella nostra esperienza di lavoro con i ragazzi della scuola secondaria di primo grado, nell’ambito delle attività di prevenzione al cyberbullismo, abbiamo potuto constatare l’efficacia del role-playing. I ragazzi, dovendo mettersi nei panni dei vari personaggi coinvolti in una situazione di cyberbullismo (cyberbullo, cybervittima e bystanders), possono coglierne al meglio le dinamiche emotive e relazionali. Il confronto finale tra il gruppo classe permette loro, inoltre, di acquisire una maggiore consapevolezza sul fenomeno e individuare potenziali vie uscita dalle situazioni più critiche.

Ci auguriamo, pertanto, che i futuri programmi di prevenzione, oltre alla necessaria parte di informazione e sensibilizzazione sull’argomento, dedichino anche particolare attenzione a questo tipo di attività. Riteniamo, altresì, fondamentale il compito educativo dei genitori, i quali dovrebbero porre ai loro figli dei limiti nel tempo di utilizzo dei nuovi strumenti elettronici e promuovere al contempo delle attività alternative che favoriscano la socializzazione dei loro ragazzi, in modo da fornire delle opportunità di relazione face-to-face per sviluppare quelle competenze empatiche che le nuove tecnologie paiono impoverire.

Relazioni famigliari e tra fratelli: come influenzano il successo scolastico?

Le esperienze tra fratelli nel passaggio tra l’infanzia e la prima adolescenza predicono differenze nel successo scolastico, in particolare negli esiti universitari, secondo un recente studio condotto presso la Pennsylvania State University.

 

Lo studio, condotto da Xiaoran Sun, dottorando in Sviluppo Umano e Studi Familiari, e da Susan McHale, professore di demografia presso la Pennsylvania State University e coautore dello studio, illustra come le relazioni tra famigliari influenzino esiti accademici tra fratelli.

Gli autori hanno sviluppato un disegno di ricerca che consentisse di indagare se e come le esperienze tra famigliari, ed in particolare tra fratelli nel passaggio tra l’età infantile e la prima adolescenza, potessero condurre a differenze nel rendimento scolastico. Inoltre hanno voluto verificare se gli studenti, 15 anni dopo le esperienze vissute con i propri famigliari, si fossero laureati o meno.

Lo studio sul rapporto tra relazioni famigliari e successo scolastico: il disegno di ricerca

Proponendosi come un’analisi longitudinale, in una prima fase dello studio sono state raccolte informazioni sulle relazioni famigliari, ed in particolare tra fratelli, in un campione di 152 famiglie. Affinchè le famiglie potessero essere selezionate ed incluse nello studio dovevano essere composte da almeno due figli di età compresa tra i 9 e gli 11 anni.

In media, le famiglie intervistate abitavano in piccole città o in aree rurali della Pennsylvania, appartenevano alla classe media operaia ed erano di origine americana.

Ciò che si è valutato è stato il calore emotivo reciproco tra fratelli ed il tempo da loro impiegato in attività condivise, il calore emotivo e l’affetto che le madri ed i padri mostravano nei confronti di uno piuttosto che dell’altro/degli altri figlio/i ed il tempo trascorso da ciascun genitore con ciascun bambino, nonchè le percezioni di ogni bambino circa l’imparzialità con la quale i genitori si relazionavano a loro rispetto ai loro fratelli.

La seconda fase dello studio, svolta 15 anni dopo la prima raccolta dati, ha visto i ricercatori impegnati nel verificare se i fratelli intervistati nella prima fase si fossero in seguito laureati o meno.

I risultati dello studio

L’affetto tra i fratelli ha rappresentato un predittore della probabilità che tutti i fratelli raggiungessero lo status di laureati o meno in età adulta (ovvero, entrambi/tutti i fratelli laureati o entrambi/tutti non laureati). È infatti emerso che quanto più l’affetto tra i fratelli era alto, tanto più i fratelli tendevano a seguire un percorso simile: laurearsi entrambi o meno. Quando, invece, l’affetto rilevato in infanzia/prima adolescenza era minore, i fratelli mostravano più spesso esiti di laurea differenti (ovvero, un/alcuni fratello/i laureato/i e l’altro/i no).

Inoltre, sia la percezione che i bambini avevano riportato rispetto all’equità dei loro genitori nel trattamento messo in atto nei loro confronti, sia la differenza nella quantità di tempo che i padri spendevano con i fratelli, sono risultati essere predittori rispetto al loro successo scolastico e al conseguimento del titolo di laurea. Quando vi era una maggiore discrepanza nella quantità di tempo impiegata dai padri con i fratelli o quando questi ultimi sentivano di esser trattati in modo differente dai loro genitori rispetto ad altri fratelli, i risultati rispetto alla laurea tendevano ad esser differenti (ovvero, un/alcuni fratello/i laureato/i e l’altro/i no).

I risultati del presente studio hanno implicazioni sulla genitorialità e sulle dinamiche famigliari.

I genitori devono essere consapevoli di come i fratelli possono influenzarsi a vicenda e monitorare le interazioni dei loro figli – sostiene Xiaoran Sun. Ancora, secondo la professoressa Susan McHale, coautore dello studio – L’educazione dei genitori e i programmi familiari dovrebbero andare oltre l’attenzione ai rapporti tra madre e figlio includendo i padri e studiando le esperienze dei fratelli.

Psicologo in farmacia: sull’onda degli entusiasmi…e dei dubbi!

Che il passaggio dal paradigma biomedico al paradigma biopsicosociale della salute sia stato un grande traguardo per la comunità scientifica è un dato di fatto: pensare alla salute come alla semplice assenza di malattia, così come si pensava in passato, era di fatto un riduzionismo ormai stretto, di cui ci siamo liberati ben volentieri. Oggi infatti l’OMS definisce la salute come “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solamente assenza di malattia o infermità”.

I concetti dunque evolvono, i paradigmi per fortuna cambiano e si trasformano di conseguenza le professioni: l’interfacciarsi di diverse figure professionali nella cura delle persone è la meta da raggiungere, se davvero si ha in mente una cura del paziente a 360 gradi. Tra le figure professionali protagoniste di questo cambiamento, vi è senza dubbio la figura dello psicologo. Emblematica a riguardo è la figura dello psicologo in farmacia.

Psicologo in farmacia: come nasce

Per capire il potenziale del cambiamento e le ragioni che spingono psicologi e farmacisti a collaborare è utile fare riferimento alle attuali disposizioni legislative: con il D.L. 153 del 2009 “le farmacie partecipano alla realizzazione dei programmi di educazione sanitaria e di campagne di prevenzione delle principali patologie a forte impatto sociale”. Dunque la farmacia diviene un punto di riferimento per il territorio, offrendo ai cittadini servizi di facile accesso utili al benessere personale.

Il progetto nasce a Verona nel 2012, diffondendosi poi nelle grandi città del territorio nazionale. Il progetto pilota veronese ha visto collaborare un pool di psicologi che hanno condiviso procedure e protocolli per garantire la diffusione del benessere passando da un luogo, la farmacia per l’appunto, facilmente accessibile a tutti i cittadini. In questo modo, attraverso dei colloqui con i clienti delle farmacie, gli psicologi sono stati in grado di indirizzare chi presentava problematiche alle strutture e ai servizi territoriali più indicati per il trattamento.

Il progetto, come dicevamo, si è successivamente diffuso a macchia d’olio sul territorio italiano e i pionieri di questa esperienza hanno così costituito delle associazioni che tutelano la figura dello psicologo in farmacia. Tra questi Fiorella Palombo Ferretti, oggi presidentessa dell’Associazione Nazionale Psicologi in Farmacia (ANFIP), la quale descrive il suo lavoro come una vera e propria missione, che mira alla “cura di sé”, passando, per l’appunto, attraverso ciò che la stessa definisce “il tempio della salute“, ovvero le farmacie.

In una delle sue prime interviste, la Dott.ssa Palombo Ferretti racconta la sua esperienza: presente inizialmente in farmacia un pomeriggio ogni 15 giorni su appuntamento, svolgeva i colloqui in un locale appositamente adibito, in modo da garantire la privacy dei clienti. I colloqui erano effettuatti su appuntamento prefissato dal personale della farmacia a cui le persone chiedevano di accedere al servizio. Consapevole fin da subito dei rischi per la sua figura professionale, ad esempio un cattivo passaparola, si è fatta sempre forte di una programmazione ben strutturata e specifica. Dimostrarsi una risorsa per i clienti della farmacia, per Fiorella Palombo Ferretti, è stato sempre decisivo:

Dobbiamo ricordare sempre che stiamo “seminando” e se lo facciamo bene,il raccolto ci sarà e sarà buono.

Ed in effetti il raccolto è stato buono: dopo anni di lavoro in farmacia, come psicologa ma anche come progettista di formazione per agevolare e diffondere un lavoro strutturato, arriva la chiamata di FarmaCap che vorrebbe assumerla con un contratto a tempo indeterminato per occuparsi di formazione di dieci psicologi, per altrettante farmacie, presso le quali erano stati aperti dieci presidi socio-sanitari a forte valenza psicosociale.

Pertanto FarmaCap – che gestisce le farmacie comunali di Roma – è una delle protagoniste della promozione della figura dello psicologo in farmacia. E non è l’unica… anche FederFarma da anni promuove la diffusione della figura. Lo stesso Presidente di Federfarma Roma, Vittorio Contarina, sostiene che poter contare sulla figura di uno psicologo in farmacia, è un notevole vantaggio che facilita l’accesso ai servizi di consulenza psicologica. Contarina rimanda inoltre all’importanza dell’offerta di servizi in farmacia: il nucleo centrale dell’attività della farmacia continua a essere la dispensazione professionale del farmaco, alla quale devono essere abbinati servizi direttamente correlati per favorire il corretto uso dei farmaci, l’aderenza alle terapie e la prevenzione. Dunque i servizi aggiuntivi offerti sono un corollario, un di più che agevola i cittadini, perché permette loro un più facile accesso ad altre prestazioni sanitarie. La presenza dello psicologo in farmacia rientrerebbe proprio in quest’ottica, nella tutela della salute delle persone, salute che è insieme fisica e mentale.

Anche alcuni nomi della politica si sono espressi in merito alla questione psicologo in farmacia. E’ il caso di Emilio Carelli, ex direttore di Sky Tg24, oggi parlamentare del Movimento 5 stelle, che nella trasmissione “Il caffé di Federfarma” ha dichiarato che la figura del farmacista dovrebbe rinnovarsi ponendosi come il primo operatore sanitario vicino al cittadino, un primo interlocutore per il territorio e per il malato. Secondo il parlamentare, dunque, le farmacie si configurano come presidi utili a indirizzare il paziente verso soluzioni più mirate di cura della patologia,  attraverso la consulenza di altri professionisti. Aggiunge, inoltre, che è il percorso è stato messo al vaglio dell’Ordine degli Psicologi.

Vediamo proprio la posizione dell’ Ordine degli Psicologi: il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) ha recentemente istituito il gruppo di lavoroPsicologo in farmacia”, costituito da psicologi, da rappresentanti del Ministero della Salute e dell’Ordine dei Farmacisti, insieme per definire quali sono le competenze professionali e le modalità operative dello psicologo all’interno della farmacia. A inizio anno, ad esempio, il CNOP con il patrocinio della Federazione Ordini Farmacisti Italiani ha organizzato il convegnoPsicologia in Farmacia. Un nuovo modello di aiuto” nel quale sono intervenuti rappresentati di aziende farmaceutiche quali Assofarm, Farcom e Farmacap, oltre alla già citata Fiorella Palombo Presidente ANPIF.

A fronte del proliferare del consenso intorno alla figura dello psicologo in farmacia, si sono diffusi su tutto il territorio Italiano, dei percorsi formativi ad hoc, con l’intento di dare a tutti i colleghi interessati, gli strumenti idonei ad operare in farmacia. Si può anche diventare soci di alcune associazioni, dietro il corrispettivo di una quota annuale, che consente agli iscritti di ricevere il materiale identificativo dell’associazione a cui si è iscritti e, su richiesta, il supporto per promuovere i progetti su tutto il territorio nazionale. Infine, solo per i soci, vengono forniti, alle farmacie richiedenti, i nominativi degli psicologi in possesso di adeguata formazione.

Psicologo in farmacia: alcuni dubbi

Ricapitolando: non si può dire che manchi l’entusiasmo relativamente alla figura dello psicologo in farmacia e i presupposti di base, ovvero il puntare a una cura non solo biomedica del paziente, sono anche validi e solidi. Di pari passo però, forse anche a causa di un certo scetticismo che accompagna sempre il nuovo, è lecito anche l’affiorare dei dubbi. In questo caso, mi preme sottolinearlo, vorrei che i dubbi di seguito esposti vengano presi come tali, come domande che necessitano di risposte – tra l’altro domande sorte in conversazioni sostenute con altri colleghi psicologi sull’argomento- e non da interpretare come domande dettate da una vena di polemica.

Formazione ad hoc e obblighi di affiliazione
Di fianco all’affermarsi del consenso intorno alla figura dello psicologo in farmacia, sono proliferati eventi formativi pensati per gli interessati. Inoltre, per alcune associazioni è indispensabile iscriversi in modo da poter accedere alle farmacie convenzionate ed esercitare in veste di psicologo in farmacia. I programmi sono più o meno gli stessi: il colloquio psicologico in farmacia, il counselling psicologico, la valutazione neuropsicologica, la psicologia dell’emergenza o anche l’ansia e le tecniche di rilassamento. Determinati strumenti formativi sono preziosi per i neofiti che, alle prime armi, hanno giustamente il desiderio di mettersi in gioco senza rinunciare a un’idonea formazione. Verrebbe da chiedersi però se uno psicologo o anche uno psicoterapeuta esperto debba necessariamente frequentare tali corsi per prestare servizio in farmacia, avendo avuto a che fare con determinate tematiche nel corso di anni di studio e di pratica.

Farmacista counselor?
D’altro canto, contemporaneamente, emergono anche corsi per il farmacista counsellor: che si stia andando incontro a una probabile confusione di ruoli per giustificare un ampliamento del pacchetto dell’offerta formativa?

Chi paga lo psicologo?
Inoltre, sarebbe anche lecito chiedersi quale impatto tutto questo abbia per la figura professionale dello psicologo. Ben più volte è stato ripetuto dai protagonisti della promozione della figura dello psicologo in farmacia come le farmacie non devono trasformarsi in vetrine per altri professionisti (e questo, si sa, dipende anche dall’atteggiamento che ciascun professionista mette in atto in determinati contesti). Sempre gli stessi promotori della figura dello psicologo in farmacia affermano che tali professionisti sono sicuramente da retribuire ma il loro costo non dovrebbe essere a carico della farmacia, quanto piuttosto dei servizi sociali del territorio. Si corre forse il rischio di perdersi nel mare del “chi deve corrispondere quanto” ai professionisti che vogliono promuovere la salute sul territorio, rischiando di sottovalutare la loro figura?

Sarebbe interessante confrontarsi su questi punti, ben accette sono le esperienze di chi magari contro tutte queste perplessità ha dovuto lottarci, per giungere infine a realizzarsi ed essere appagato dal proprio ruolo di psicologo in farmacia.

Il nostro sguardo, è bene ricordarlo, deve sempre mirare al benessere del paziente. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, sarebbe opportuno ogni tanto porsi delle domande anche sul nostro ruolo e sulla nostra professione, conoscere meglio ciò che noi possiamo offrire ai pazienti e quale sia il modo migliore per farlo, confrontarci per trovare delle risposte. Sarebbe opportuno raggiungere il nostro obiettivo senza alcun ostacolo. Perché, si sa, il benessere del paziente dipende, in parte, anche dal benessere del professionista…

Gianni Liotti – Introduzione alla Psicologia

Lo studio dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) permise a Gianni Liotti di proporre una nuova spiegazione della genesi e del mantenimento dei disturbi psicopatologici.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Giovanni Antonio Liotti è nato a Tripoli, in Libia, il 27 marzo 1945. Si è laureato in Medicina a Roma e poi si è specializzato in Psichiatria (1962-1973). Subito dopo la laurea continuò a frequentare l’università in qualità di borsista e poi di ricercatore. I principali interessi di Liotti erano centrati sull’applicazione e integrazione della teoria dell’attaccamento di John Bowlby alla psicoterapia e alla psicopatologia.

Liotti nel 1978 è stato socio fondatore della Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva (SITCC), di cui è stato presidente dal 2000 al 2006.

Nel 1983 scrisse insieme a Vittorio Filippo Guidano il libro “Cognitive processes and emotional desorders“, che fu premiato come il miglior libro dell’anno sulla psicoterapia. Da allora il suo interesse si è focalizzato sullo studio della connessione tra dissociazione psicopatologica e attaccamento disorganizzato e nel 2005 Liotti ha ricevuto il premio Pierre Janet’s Writing Award.

Liotti e i sistemi motivazionali

Liotti fin da subito cercò di unire la ricerca svolta in ambito evolutivo, le neuroscienze, il funzionamento dell’affettività, al mestiere di psicoterapeuta, in un periodo in cui l’unico paradigma psicoterapeutico accettato era quello psicoanalitico. Questo tentativo d’integrazione è stata la sua grande innovazione ed evoluzione, in cui metteva insieme il nuovo, risultati della ricerca, alla clinica per costruire un progetto psicoterapeutico rivoluzionario e innovativo.

Liotti, studiò le emozioni, partendo dalla teoria di autori come Darwin, Ekman, Bowlby, Panksepp e Gilbert. Bowlby e Panksepp, condividono essenzialmente la tesi centrale dell’esistenza di sistemi psicobiologici frutto dell’evoluzione, omologhi negli animali e nell’uomo, che regolano sequenze caratteristiche sia di comportamenti sia di emozioni, in vista del perseguimento di specifici obiettivi adattativi.

La teoria evoluzionistica della motivazione di Liotti tiene in considerazione sia i processi alti sia i processi bassi in un’organizzazione gerarchica tripartita in cui i vari sistemi motivazionali si collocano al livello inferiore, intermedio o superiore in accordo con la loro successiva comparsa nel corso dell’evoluzione. Si delinea, perciò, una ricorsività dell’informazione fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale il livello arcaico, intermedio e il livello superiore evoluzionisticamente più recente.

La gerarchia dei sistemi motivazionali

Il cervello umano ha una struttura evolutiva gerarchica organizzata su tre livelli: rettiliano, limbico e neo-corticale. L’architettura dei sistemi motivazionali segue questa tripartizione, aumentando la propria influenzabilità ambientale col salire di livello gerarchico.

Il livello evolutivamente più arcaico dell’organizzazione motivazionale è connesso all’attività neurale localizzata nel cervello rettiliano, tronco encefalico, nuclei della base. Esso è costituito da sistemi che regolano condotte non-sociali rivolte alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, all’esplorazione dell’ambiente, a definire e controllare un proprio spazio fisico vitale, al procacciamento di cibo, e alla riproduzione sessuale.

Su queste sistemi non-sociali poggiano quelli appartenenti alla storia evolutiva più recente che controllano l’interazione sociale caratteristica dei mammiferi. Questo secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali localizzate nell’area limbica del cervello che comprende l’amigdala e il giro del cingolo. Le condotte sociali messe in atto dai mammiferi rivelano alcune omologie universali: la separazione identifica il sistema motivazionale dell’attaccamento, o richiesta di cura; il contatto corporeo morbido e ripetuto quello dell’accudimento o offerta di cura; i rituali di corteggiamento quello della sessualità; posture e mimiche di sfida e di resa identificano il sistema competitivo di rango o agonistico e, infine, nei mammiferi più evoluti, come i primati, il gioco sociale e l’attenzione congiunta riportano al sistema cooperativo paritetico.

Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è localizzato nella neo-corteccia, riguarda la dimensione cognitiva dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Esso è responsabile di combinazioni e variazioni individuali della loro espressione, in funzione della cultura di appartenenza.

Il sistema dell’intersoggettività, in quanto evoluzionisticamente più recente, esercita una funzione regolatrice sui sistemi sottostanti da cui emerge, mentre un’abnorme attivazione di questi ultimi può condurre a una più o meno protratta dissoluzione della motivazione intersoggettiva.

Ne consegue che nessuna influenza culturale sui contenuti della coscienza può annullare il fondamento evoluzionistico e dunque universale sul quale la coscienza di ordine superiore poggia.

Ne discende che ogni emozione umana presuppone l’intervento dei processi cognitivi superiori dell’uomo: le componenti fisiologiche delle emozioni sono trasformate in emozioni propriamente dette soltanto grazie all’intervento delle regioni neocorticali e “cognitive” del cervello umano.

I sistemi motivazionali interpersonali

I sistemi appartenenti al secondo livello gerarchico sono nell’uomo denominati sistemi motivazionali interpersonali (SMI). I sistemi motivazionali interpersonali sono quindi tendenze universali, biologicamente determinate e selezionate su base evolutiva, la cui espressione nel comportamento presenta variabilità individuali. Essi regolano la condotta in funzione di particolari mete e sono in stretta relazione con l’esperienza emotiva. Le emozioni accompagnano infatti l’azione dei sistemi motivazionali interpersonali e possono esserne considerate indicatori di attività. Quindi, secondo Liotti, ogni specifica esperienza emotiva può essere meglio compresa se rapportata al sistema motivazionale interpersonale entro cui si colloca. Le emozioni sono modalità di funzionamento dei sistemi motivazionali interpersonali e possono essere avvertite dalla coscienza. Quando due persone si incontrano, dunque, il loro scambio intersoggettivo è sempre regolato e motivato dagli SMI che, di conseguenza, si attivano.
 Gli SMI sono sistemi di regolazione fisiologici che, una volta attivati, organizzano il comportamento sociale, interpersonale, oltre che l’esperienza emozionale e la rappresentazione di “sé-con-l’altro”.

Gli SMI di base sono cinque e da ognuno di essi si generano emozioni diverse.

Il sistema dell’attaccamento

Il sistema motivazionale dell’attaccamento è finalizzato all’ottenimento di aiuto e vicinanza protettiva da parte di un’altra persona individuata come idonea. Il sistema si attiva e assume il controllo di emozioni e comportamenti nelle situazioni di dolore, pericolo, percezione di vulnerabilità e solitudine. Quando è attivo regola una serie di emozioni tipicamente percepibili in sequenza: paura da separazione, collera da protesta, tristezza da perdita e, infine, il distacco emozionale. La disattivazione del sistema permette l’attivazione di altri registri motivazionali come quello dell’esplorazione, del gioco cooperativo, della sessualità di coppia.

Il sistema di accudimento

Il sistema è reciproco a quello dell’attaccamento. Esso porta all’offerta di cura verso un conspecifico, agevolando le possibilità di sostentamento di altri individui all’interno del proprio gruppo. Il sistema è attivato dai segnali di richiesta di conforto e protezione emessi da un altro individuo, a sua volta motivato dal sistema di attaccamento, o da percezione della sua fragilità/condizione di difficoltà. Le emozioni derivanti dall’attivazione di questo sistema sono ansia, compassione, tenerezza protettiva o colpa per il mancato accudimento. Il sistema si disattiva alla cessazione delle condizioni attivanti, quindi alla percezione di segnali di sollievo e sicurezza da parte dell’altro.

Il sistema sessuale di coppia

Il sistema della sessualità è finalizzato alla formazione e al mantenimento della coppia sessuale. Il sistema è attivato da segnali fisiologici interni all’organismo, come variazioni ormonali, più importanti negli animali che nell’uomo, e da segnali comportamentali di corteggiamento emessi da un altro individuo. Emozioni collegate all’attivazione del sistema sono il pudore, la paura del rifiuto e la gelosia; la percezione dell’avvicinarsi della meta invece è collegata all’esperienza emotiva del desiderio e piacere erotico. L’orgasmo pone termine all’attivazione del sistema, che può essere disattivato anche dall’attivazione di altri SMI. All’interno della coppia sessuale può naturalmente verificarsi l’attivazione di altri SMI (attaccamento-accudimento, agonistico, cooperativo) con il conseguente arricchimento di forma e qualità della relazione.

Il sistema agonistico o di Rango

Il sistema agonistico di competizione per il rango è finalizzato alla definizione dei ranghi di potere e di dominanza/sottomissione per regolare all’interno di un gruppo il diritto prioritario di accesso alle risorse. Una volta stabilita la gerarchia all’interno del gruppo, questa rimane presente ed attiva nel tempo, con il vantaggio biologico di eliminare la necessità di continue lotte che potrebbero sfiancare gli individui. La definizione dei ranghi avviene attraverso forme ritualizzate in cui l’aggressività non è primariamente finalizzata a ledere l’antagonista ma ad ottenere da quest’ultimo un segnale di resa. Il sistema agonistico è attivato (a) dalla percezione che una risorsa è limitata e appetibile da più di un membro del gruppo sociale, (b) da segnali di sfida provenienti da un conspecifico, (c) nell’uomo da giudizio, ridicolizzazione, colpevolizzazione e altri segnali di rango. La disattivazione del sistema è determinata dal segnale di resa che comporta il riconoscimento della propria subordinazione al vincitore. Questo sistema può essere disattivato da un altro sistema motivazionale che subentra.

Il sistema cooperativo paritetico

Il sistema cooperativo ha come meta il conseguimento di un obiettivo comune, più facile da raggiungere attraverso un’azione congiunta. Il sistema è attivato appunto dalla percezione che risorse non limitate risultano più accessibili attraverso uno sforzo congiunto di più individui.
 Il sistema è attivato dalla percezione degli altri individui interagenti, in funzione dei fini prefissati e la percezione da parte dei “pari” di segnali di non-minaccia agonistica, come il sorriso. Il sistema può essere disattivato dal raggiungimento dell’obiettivo, dal tradimento della lealtà cooperativa da parte di uno o più interagenti o anche dall’attivazione di altri sistemi motivazionali in forme incompatibili. Quando la meta è vista avvicinata o raggiunta le emozioni collegate all’attivazione del sistema riguardano la gioia da condivisione, la fiducia e l’amore amicale; senso di colpa, sfiducia e risentimento segnalano invece la trasgressione dalle mete proprie del sistema.

Emozioni

Le emozioni giocano un ruolo intermedio fra la percezione della situazione, che attiva un dato sistema motivazionale, e la condotta che mira alla meta del sistema. Le operazioni di regolazione della condotta di ogni SMI sono radicalmente inconsce e le emozioni, dunque, sono le prime fasi nell’attività del sistema che possono essere esperite dalla coscienza. Le emozioni sono parte delle operazioni di un sistema motivazionale, e non hanno di per sé proprietà motivanti se non a livello di causalità prossimale.

Alcune emozioni sembrano attivarsi solo in concomitanza di uno specifico sistema motivazionale e non si manifestano mai durante l’attivazione di altri sistemi interpersonali. Altre emozioni, invece, si possono attivare nell’ambito di più di un sistema motivazionale, all’interno di sequenze emozionali molto diverse tra loro.

L’Analisi degli Indicatore delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti

L’Analisi degli Indicatore delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti (AIMIT) ha lo scopo di valutare le dinamiche motivazionali complesse, che potrebbero avere un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento dei disturbi psicopatologici.

In particolare, consente di individuare gli indicatori che segnalano l’attivazione di un singolo sistema motivazionale o di  identificare segnali di transizione da un sistema motivazionale all’altro.
 Ad ogni sistema motivazionale è associato un codice: At (Attaccamento), Ac (Accudimento), Sex (Sessuale), Ra (Rango), Pa (Cooperazione Paritetica); se il sistema è attivo nella relazione terapeutica del momento si usa Rel (Relazione), se invece il sistema è attivo nella narrazione che però non coinvolge l’interlocutore si usa Nar (Narrazione)

Attaccamento e trauma

Liotti evidenzia come l’attaccamento disorganizzato nel primo anno di vita sia un potente predittore della dissociazione, più di quanto lo siano traumi successivi, avanzando l’ipotesi che l’interazione fra ricordi traumatici e attaccamento disorganizzato possa essere il necessario antecedente della dissociazione patologica.

Secondo Liotti, il possibile meccanismo alla base di ciò sembrerebbe risiedere nella particolare interazione tra due sistemi motivazionali innati frutto dell’evoluzione: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento. Mentre in condizioni ottimali questi due sistemi funzionano in perfetta armonia (il bambino scappa dal pericolo rifugiandosi dalla mamma, ed essendone confortato disinnesca il sistema di difesa), nell’attaccamento disorganizzato la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di pericolo e di conforto, generando nel bambino un terrore senza sbocco.

La teoria polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.

Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento. Queste strategie controllanti funzionano bene finché una sollecitazione troppo intensa del sistema di attaccamento non le faccia collassare, facendo emergere il MOI disorganizzato.

Il sistema di difesa merita particolare attenzione perché è coinvolto in tutte le esperienze traumatiche. Il trauma per definizione comporta sempre una minaccia alla vita o all’incolumità. Una volta attivato dalla percezione di una tale minaccia, il sistema di difesa si manifesta con una sequenza comportamentale descritta con le quattro “F”: Freezing, Flight, Fight, Feigned death. L’attivazione del sistema di difesa inizia con un’immediata e automatica immobilità (freezing, congelamento) comandata dal sistema ortosimpatico e accompagnata da tachicardia e iperpnea oltre che da un incremento del tono muscolare che ha il fine di preparare alla fuga (flight) o alla lotta (fight). La scelta fra la fuga e la lotta avviene durante la fase di congelamento, ed è legata a operazioni cerebrali che si svolgono a livello del tronco encefalico, essa non richiede dunque l’intervento della coscienza di ordine superiore. Si attua una valutazione puramente percettiva, non concettuale, dei rapporti di forza con l’aggressore o predatore. Se tale valutazione è favorevole all’aggredito, al freezing segue l’attacco al predatore, altrimenti la scelta è per la fuga. Se poi la fuga si rivela impossibile, può subentrare una manifestazione estrema, anch’essa automatica, ovvero una variante della sincope vagale nota come finta morte.

Mentre le prime tre fasi dell’attivazione del sistema di difesa sono regolate dal sistema ortosimpatico, la finta morte è regolata da una sezione del nucleo del vago, il nucleo vagale dorsale. L’espressione facciale riflette in modo diretto lo stato polivagale della persona; attraverso un processo di “neurocezione” (si tratta di un processo neurofisiologico) il sistema nervoso valuta il rischio presente nell’ambiente circostante senza consapevolezza e, spesso, indipendentemente da una narrazione cognitiva. In questo quadro, è possibile che la neurocezione del pericolo, in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche, si attivi in modo automatico anche quando non esiste un pericolo “reale”. L’attivazione del nucleo dorsale del vago ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.
 L’importanza per i clinici di conoscere le implicazioni dell’attivazione del nucleo dorsale del vago nelle esperienze traumatiche consiste nel fatto che tale attivazione può spiegare molti sintomi osservabili nei pazienti che soffrono degli esiti di traumi psicologici: i sintomi somatoformi di accasciamento e incertezza motoria, l’ottundimento e il tipico sentimento pervasivo di impotenza personale.

La centralità della relazione terapeutica e del sistema paritetico collaborativo

Questa teorizzazione ha una ricaduta di primaria importanza nella relazione terapeutica con pazienti traumatizzati: un terapeuta troppo accudente potrebbe far emergere i modelli operativi interni disorganizzati, con la fobia dell’attaccamento e la fobia della perdita di attaccamento, favorendo processi dissociativi. Un migliore assetto relazionale è invece garantito, secondo la teoria di Liotti, da una posizione collaborativa, paritetica, fra terapeuta e paziente. La costruzione e la riparazione dell’alleanza terapeutica ancora una volta, sembra essere uno dei principali strumenti del trattamento, soprattutto per pazienti pesantemente traumatizzati.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

6° Convegno Internazionale Autismi. Benessere e sostenibilità – Report dall’evento di Rimini, 4 e 5 Maggio

Anche quest’anno Centro Studi Erickson risponde senza deludere alla richiesta di aggiornamento continuo da parte di chi si occupa di autismo organizzando il 6° Convegno Internazionale Autismi: due intense giornate formative con il contributo di oltre cento esperti di fama mondiale che hanno presentato le ultime novità in tema di diagnosi e trattamento nel pieno rispetto delle più recenti evidenze scientifiche.

 

Rendere giustizia alla complessità ed alla specificità dei temi trattati in poche righe è un’impresa impossibile motivo per cui mi limiterò a descrivere sommariamente i principali temi trattati dai professionisti che ho avuto il piacere di ascoltare.

Autismo: le dimensioni messe in evidenza da ciascun relatore

La giornata di venerdì si apre con una plenaria destinata a tutti i partecipanti in cui Hilde De Clerq (Linguista, Docente e Formatrice, Bruxelles) mette l’accento sulla necessità di un approccio etico all’ autismo, il che implica una conoscenza “dall’interno” come prerequisito essenziale per un programma terapeutico che miri ad una qualità soddisfacente e come garanzia di un contesto educativo che rispetti maggiormente la neurodiversità.

Segue l’intervento di Erica Salomone (Research Fellow, Dipartimento di psicologia, Università di Torino) sul tema dell’apprendimento nell’ autismo. La dottoressa ci spiega come alcune caratteristiche che risultano deficitarie nel primo periodo di sviluppo di un autistico possono ridurre le occasioni di apprendimento sociale e ritardare così l’acquisizione di alcune importanti competenze. Si tratta di aspetti importantissimi e presenti fin dalla nascita in un bambino neurotipico come l’attenzione verso la novità, l’orientamento sociale, la reciprocità sociale ed emotiva, la capacità di imitazione e l’attenzione congiunta.

Promuovere fin da subito un ambiente che tenga in preziosa considerazione lo stile cognitivo del bambino autistico, negli aspetti di limite ma anche di risorsa, è così di cruciale importanza per impostare qualsiasi intervento educativo.

Salomone ci illustra inoltre i risultati di alcune ricerche e chiude l’intervento con la descrizione del programma CST (Caregiver Skills Training) per i caregiver di bambini con disturbi dello sviluppo dai 2 ai 9 anni, attivo in 33 paesi nel mondo a livello sperimentale: un programma che mira ad essere efficace e sostenibile.

La prima sessione plenaria si chiude con l’intervento di Serafino Corti (Direttore Dipartimento delle Disabilità, Fondazione Sospiro Onlus e Università Cattolica di Brescia) che affronta il tema della qualità di vita in una prospettiva Life Span.

Autismo nell’arco di vita

Corti ci invita a riflettere circa le scarse opportunità di inclusione sociale e lavorativa delle persone con autismo e la conseguente necessità di sostegni “generalizzati” per tutto l’arco della vita e nei diversi contesti, con gravi ricadute in termini di stress a carico del sistema familiare che si vede impoverito di risorse di natura economica, relazionale e di salute.

L’età adulta è di fatto un’età complessa dal punto di vista degli aiuti erogati dallo stato, con un decremento delle opportunità di sviluppo individuale e di inclusione a fronte però di nuove sfide nell’ambito del progetto di vita: vita indipendente, inserimento lavorativo e ridefinizione della qualità dei sostegni.

L’invito è dunque all’accettazione aperta, che non è rassegnazione, per garantire una vita piena di senso, un’accettazione che si muova verso il riconoscimento del valore della persona, avendo in mente traguardi coerenti e veri perché un obiettivo eticamente sostenibile deve essere sfidante e al contempo credibile. È necessario inoltre lavorare molto di più sui sostegni indiretti, sui contesti di vita, non solo perché eticamente corretto ma perché significa avere risultati più grandi e più sostenibili anche dal punto di vista economico.

La sessione si chiude dunque con una raccomandazione che pervaderà i contributi di molti altri colleghi: un richiamo ad una maggior responsabilità sociale nei confronti di una minoranza che prima ancora di chiedere aiuto chiede di essere accettata e rispettata nella sua diversità.

Apprendimento di una nuova lingua: è più importante la produzione o la comprensione?

Nell’ apprendimento di una lingua straniera vengono prediletti esercizi che allenano la comprensione, con prove di ascolto e attività carta-matita. 
Una nuova ricerca dimostra che, seppur questo tipo di formazione dia agli studenti il giusto input linguistico, appare estremamente importante parlare la lingua per impararla al meglio.

 

I ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison, in uno studio pubblicato su Psychological Science, hanno confrontato gli effetti degli esercizi di comprensione e produzione nell’ apprendimento di una lingua straniera.

La ricerca nasce dalla presenza di dati discordanti riguardo l’argomento.

Le stesse autrici affermano:

Alcuni dati riguardanti la memoria di lavoro indicano che la produzione del linguaggio fornisce una forte esperienza di apprendimento, allo stesso tempo però la letteratura sull’ apprendimento delle lingue sottolinea, in modo schiacciante, l’importanza della comprensione nell’ apprendimento di un nuovo idioma.

Lo studio

L’ipotesi che le autrici dello studio, Elise Hopman e Maryellen MacDonald, hanno cercato di verificare è stata quella secondo cui l’esercitarsi nell’espressione e nella produzione di frasi in una lingua straniera possa aumentare la capacità degli studenti anche nella sua comprensione.

I partecipanti che hanno preso parte alla ricerca sono stati suddivisi in due gruppi e a ciascuno di essi è stato poi insegnato un linguaggio artificiale. Il gruppo sperimentale denominato “di produzione” parlava liberamente e riceveva feedback immediati riguardanti il vocabolario e la grammatica mentre il gruppo di controllo chiamato “di comprensione” era sottoposto ad una tipica serie di esercizi di ascolto. Entrambi i gruppi hanno poi completato dei test per valutare le loro capacità lessicali e grammaticali.

I risultati hanno mostrato che il gruppo sperimentale otteneva punteggi migliori in entrambi i test, anche analizzando le performance dei singoli studenti. I ricercatori per valutare l’ apprendimento avvenuto hanno tenuto conto di diversi fattori tra cui: accuratezza e velocità di comprensione, apprendimento lessicale, relazioni grammaticali semplici e complesse.

È da sottolineare inoltre che il gruppo che praticava il parlato superava il gruppo di ascolto anche in compiti che erano quasi identici a quelli presentati a quest’ultimo gruppo durante la sessione di apprendimento.

Conclusioni

Le autrici suggeriscono che la spiegazione dei risultati potrebbe risiedere nel fatto che la produzione linguistica richiede l’integrazione contemporanea di più funzioni cognitive. Affidarsi alla memoria di lavoro durante la produzione di un discorso potrebbe aumentare il “legame” tra grammatica e vocabolario, aumentando così la connessione tra questi elementi linguistici. Secondo le autrici e alla luce dei risultati ottenuti, tutto questo processo non si verificherebbe nel caso della sola comprensione.

Per concludere, si può affermare che le evidenze trovate presentano importanti implicazioni per l’apprendimento delle nuove lingue. Nella maggior parte dei casi infatti l’insegnamento della lingua straniera sottostima l’importanza della produzione e questo appare un grave errore stando a quanto affermato dalle studiose:

Esporre spontaneamente quanto appreso e ricevere feedback immediati sull’output prodotto rende l’apprendimento di una nuova lingua un’esperienza incredibilmente più forte rispetto alla sola comprensione orale.

Tre concetti trasversali in psicoterapia

In un crocevia di idee, modelli, tecniche e approcci, che oggi caratterizzano il contesto psicoterapeutico, è più che mai importante mantere l’attenzione su alcuni concetti fondamentali che ci consentano di selezionare e proporre scopi e interventi efficaci ai nostri pazienti.

 

Viviamo in un periodo storico in cui la scienza psicoterapeutica è florida e produce continuamente nuove idee, modelli, tecniche e approcci. Questa rappresenta una ricchezza, a maggior ragione se accompagnata da una prospettiva scientifica. Tuttavia, come in tutti i periodi di grande crescita, nasconde rischi che occorre comprendere e imparare a regolare, specie quando i professionisti si aprono a numerose potenziali specializzazioni che spesso risultano difficili da integrare. Ad esempio, ogni approccio o modello tende a presentare se stesso come “il migliore” e ancora (purtroppo) poco interesse c’è nell’esplorare sinergie ma ancor di più possibili interazioni deleterie tra diversi modelli.

Non possiamo dire con certezza che l’associazione di diverse tecniche o modelli non abbia alcun impatto deleterio sul percorso di terapia. Così come due farmaci potenzialmente utili possono avere interazioni indesiderate, così anche due approcci con diversi modelli di riferimento possono incorrere nello stesso problema. Quindi la mescolanza eclettica di approcci differenti, seppur individualmente di una certa utilità, trascura una serie di rischi.

Secondo il nostro parere, ciò spinge verso alcune direzioni necessarie per la ricerca in psicoterapia:

  1. occorre esplorare l’interazione tra diversi approcci e tecniche e possibili controindicazioni
  2. occorre ritornare a un’analisi accurata dei mediatori della sofferenza patologica e del processo di cambiamento, cioè verso la validazione scientifica delle teorie prima che delle terapie
  3. occorre costruire modelli di formulazione e progettazione condivisa del percorso terapeutico che possano orientare il professionista a prendere decisioni in modo informato nella gestione della terapia di un paziente

Queste direzioni possono regolare a ragion veduta la selezione e la conseguente proposta di scopi e interventi per i pazienti anche in aggiunta all’inquadramento diagnostico.

In queste direzioni ci sono almeno tre concetti che ci pare utile considerare.

1 – Sequenza

Il primo è sequenza, vale a dire l’ordine con cui vengono proposti gli interventi durante una psicoterapia. Cambiare tecnica, obiettivo o addirittura modello di riferimento ha un impatto significativo e non sempre controllabile a priori. Dal nostro punto di vista è una questione da affrontare con un buon grado di cautela. Iniziare un intervento basato su EMDR all’inizio o in fase avanzata del percorso di terapia può cambiarne l’impatto o no? Dedicare uno spazio alla narrazione della storia di vita e a comprendere le origine storiche della sofferenza è un passo utile e/o necessario? Lo è sempre o solo in alcuni casi? Non abbiamo risposte certe a ciascuna di queste domande perché i confronti di questi tipo a livello della ricerca scientifica scarseggiano e ci tocca talvolta limitarci all’esperienza del clinico più esperto. Tuttavia qualcosa si comincia a sapere. Ad esempio, sappiamo che può essere efficace sviluppare una terapia a partire dai contenuti, ad esempio discutere su schemi interpersonali, per spostarla in un secondo tempo su processi e credenze metacognitive, come la riduzione del rimuginio su problematiche interpersonali.

Alcune ricerche ci dicono che la direzione opposta può invece essere controindicata e potenzialmente dannosa per il paziente (Gkika & Wells, 2015). La ragione ipotizzata è che trasmettere due messaggi in contrapposizione tra loro, analizzare i propri schemi e abbandonare l’analisi di sé, possa generare confusione, blocchi o addirittura peggiori lo stato sintomatologico del paziente. Un’altra cosa che sappiamo è che il grado di complessità e il numero di diversi interventi che vengono utilizzati in terapia possono avere un effetto negativo sull’esito della terapia stessa (Cougle, 2012). Una buona meta per il professionista è garantire il maggior grado di parsimonia. In primo luogo, l’uso di molteplici tecniche aumenta il rischio di messaggi confusivi. Secondariamente, aumenta il carico cognitivo per il paziente, che viene spinto a molteplici sforzi di apprendimento piuttosto che verso la graduale generalizzazione e stabilizzazione dello stesso apprendimento.

Infine, l’uso di molte tecniche richiede più tempo con conseguente prolungamento del percorso terapeutico. La future direzioni della ricerca in psicoterapia dovranno mettere al centro la necessità di parsimonia a vantaggio sia dei terapeuti in formazione che dei pazienti. Conseguentemente, la decisione di inserire un nuovo approccio o un nuovo intervento all’interno della terapia diventa un passaggio delicato e la sua attuazione dovrebbe richiedere di valutare se (1) effettivamente non esiste la possibilità di proseguire con il medesimo approccio e (2) quali sono le implicazioni del cambiamento di intervento in corso d’opera.

2 – Condivisione

E poi naturalmente questo cambiamento va condiviso a fondo. E veniamo al nostro secondo concetto: condivisione, un altro elemento centrale, spesso chiamato in causa, non sempre colto nelle sue implicazioni concrete. In una professione in cui due persone collaborano a un progetto, ma uno solo è l’esperto della materia, diventa chiaro come ottenere un consenso ‘consapevolmente’ informato sia un passaggio eticamente fondamentale. A maggior ragione innanzi a un periodo come questo dove abbiamo molteplici derive teoriche e tecniche in ascesa, molte con diversi gradi di supporto scientifico. Il paziente si trova nella condizione di affidarsi alla cieca sulla base della simpatia o del feeling realizzato con il terapeuta durante il primo incontro, che può dipendere da qualità intellettuali, dialettiche, seduttive del terapeuta e non sempre e solo dalla solidità dell’approccio che propone.

Scopo non è certo condannare le personalità carismatiche né tanto meno negare la libertà di affidarsi al professionista con cui ci sente più a proprio agio. Ma è sul professionista che cade la responsabilità di mettere il paziente nella condizione migliore per fornire un consenso informato. La condivisione non è quindi solo una restituzione del funzionamento secondo il proprio modello di riferimento ma è anche una trasmissione di informazioni su quale potrebbe essere lo scopo, quali i tempi previsti, quali le tecniche proposte per raggiungerlo, cosa sappiamo sul modo in cui operano e quali potrebbero essere eventuali percorsi alternativi.

È importante nell’area cognitivo-comportamentale condividere necessità e metodo con cui verranno messe in discussione certe convinzioni che alimentano la sofferenza del paziente. È altrettanto importante nell’area relazionalista condividere con il paziente che certi interventi sulla relazione con il terapeuta o certe condivisioni del terapeuta sui propri vissuti personali non sono solo buona educazione e neanche un improprio avvicinamento relazionale ma hanno un preciso intento terapeutico.

3 – Razionale o Logica

La condivisione si applica quindi al razionale di ogni intervento, intesa come la ragione o la logica che guida le nostre proposte al paziente. Questo è il nostro terzo concetto. Il razionale costruisce la cornice che guida l’elaborazione delle esperienze che avvengono in terapia e permette sia la possibilità di condividere un contratto terapeutico, sia la possibilità di usare l’esperienza della terapia in una direzione coerente con il modello che viene proposto. Non neghiamo che un certo grado di serendipità (cerco qualcosa ma trovo qualcos’altro di altrettanto o più utile) possa accompagnare ogni nuova esperienza di vita, ivi compreso ciò che accade in terapia, tuttavia pensiamo che il clinico non possa scommettere sulla serendipità. A maggior ragione visto che sappiamo che la condivisione del razionale non solo è etica, ma rappresenta essa stessa un elemento fondante la tecnica.

Alcuni studi recenti (Caselli, Gemelli, Spada & Wells, 2017) e meno recenti (Wells & Fisher, 2005) mostrano come la stessa identica esperienza di esposizione, porti a effetti molto diversi sul paziente in base al razionale con cui viene introdotta. La cornice informativa che viene fornita al paziente modella ciò che il paziente elabora di una esperienza, suggerendo anche un ruolo potente e in buona parte inevitabile o comunque attivo dei processi cognitivi di ordine superiore cosiddetti top-down. Secondo noi anche questo dato traccia alcune importanti linee. Se il razionale non viene condiviso, il paziente è sottoposto a un intervento a cui non può dare consenso ‘consapevolmente’ informato. Se il razionale non viene condiviso, si ha meno controllo sulla modalità con cui la tecnica agisce e ci si affida maggiormente alla serendipità.

Tre concetti trasversali in psicoterapia

Questi tre concetti hanno per noi un respiro trasversale rispetto a specifici modelli di terapia. Crediamo che in futuro, questi e altri, dovrebbero diventare una base per lo sviluppo e la definizione di come opera uno psicoterapeuta. Definizioni concettuali maggiormente accurate e trasmesse nei corsi di formazione potrebbero già da sole aiutare molto i futuri professionisti a evitare derive eclettiche o artigianali, i futuri formatori a non basare l’insegnamento esclusivamente su narrazioni aneddotiche delle proprie terapie, i futuri pazienti a ricevere terapie più comprensibili, condivise ed efficienti.

Nuove frontiere nella cura del trauma 2018. L’elaborazione dei ricordi traumatici – Report del convegno di Venezia

Ormai giunto alla VII Edizione, il Corso Internazionale Nuove Frontiere nella cura del Trauma è il luogo di incontro di molti traumatologi italiani che seguono dal 2012 una formazione specifica sulla clinica dei Disturbi dissociativi e del Trauma Complesso.

Il gruppo segue dal 2012 questa alta formazione – da 3 anni promossa da Area Trauma fondata da Giovanni Tagliavini e Paola Boldrini – avvalendosi della presenza di formatori autorevoli nel campo del trauma e della dissociazione, come Bessel van der Kolk, Janina Fisher, Suzette Boon, Khaty Steele, Dolores Mosquera, Annabel Gonzalez, Gianni Liotti, Benedetto Farina.

Per le giornate dal 29 aprile all’1 maggio 2018, la cornice teorica di riferimento è sempre quella della Dissociazione Strutturale, mentre la struttura dei trattamenti proposti negli anni ha da sempre seguito quella del Modello Trifasico, già proposto da Pierre Janet (1898-1911) e da allora rimasto lo standard di cura più riconosciuto in Psicotraumatologia per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso e dei Disturbi Dissociativi (in Steele, Boon, van der Hart 2018).

Trauma, dissociazione ed elaborazione delle memorie traumatiche

Dopo il lavoro degli anni precedenti sulla stabilizzazione, sulla elaborazione delle fobie dissociative e sull’importanza di ottimizzare la regolazione affettiva (Fase 1), il lavoro del gruppo “veneziano” si è concentrato quest’anno sulla Fase 2 del trattamento: l’elaborazione delle memorie traumatiche. Le guide di quest’anno sono state Dolores Mosquera e Lana Epstein, alternando lavoro in plenaria e la presentazione di casi clinici tramite workshop in piccoli gruppi esperienziali.

Dolores Mosquera, ospite di tradizione della formazione veneziana, è una Psicologa e Psicoterapeuta, supervisore EMDR, terapeuta certificata Sensorimotor, lavora privatamente a La Coruña e a Santiago di Compostela, Spagna, dove ha fondato Intra-TP, un centro clinico che si occupa in particolare di trauma complesso, disturbi dissociativi e disturbi di personalità borderline e antisociali.

Lana Epstein, per la prima volta a Venezia, è una Psicoterapeuta, supervisore EMDRIA, supervisore ASCH (American Society for Clinical Hypnosis) e formatrice senior del Sensorimotor Psychotherapy Institute, vive e lavora in Massachusetts (Stati Uniti) e dedica la sua attività clinica all’applicazione di forme integrative di terapia, in particolare nel campo del trauma complesso e dei disturbi dissociativi. Ha lavorato con Janina Fisher come supervisore clinico nel Trauma Center di Bessel van der Kolk a Boston.

Il cuore di entrambi gli interventi è stato raccontare il loro lavoro clinico con i pazienti vittime di traumatizzazione cronica, nella fase di elaborazione delle memorie traumatiche, proponendo diversi metodi di intervento volti però ad un unico obiettivo: affrontare un passo alla volta il dolore legato alle esperienze traumatiche del passato, senza generare emozioni soverchianti e senza ri-traumatizzare il paziente durante il processo terapeutico stesso. Essenziale punto di partenza per questa popolazione clinica!

Elaborazione del trauma: i punti fondamentali

I comuni denominatori tra i modelli proposti da Dolores Mosquera e Lana Epstein sono stati:

  • Il mantenimento costante dell’attenzione duale tra presente e passato
  • Far muovere il paziente sempre dentro una “finestra di tolleranza emotiva” (Siegel, 1999) per lui/lei tollerabile
  • La focalizzazione attenta sui segnali emotivi e somatici di attivazione delle difese (fight, flight, freeze, faint) come linea di confine per il lavoro di elaborazione
  • Il mantenimento della Co-consapevolezza tra tutte le parti del paziente sul lavoro terapeutico
  • La promozione del dialogo tra le parti dissociative sempre attraverso la mediazione dell’Adulto sano, che via via riesce a guadagnare competenza e capacità di coping per gestire il dolore all’interno del suo sistema emotivo
  • La trasparenza, la chiarezza e la condivisione degli obiettivi terapeutici con il paziente
  • Il rispetto della volontà, della motivazione e del livello di energia del paziente in ogni fase
  • La focalizzazione molto precisa sul tema di lavoro scelto in ogni seduta, per non correre il rischio di elaborare troppi aspetti dello stesso evento, che il paziente non riesce a sopportare
  • Restare curiosi di fronte ai blocchi e alle resistenze, sono solo nuovi elementi da esplorare insieme al paziente e non comportamenti da interpretare
  • La flessibilità sugli obiettivi terapeutici e la disponibilità a fermarsi o tornare indietro quando emergono blocchi, fobie, nuovi conflitti o nuove parti nel corso del trattamento.

Elaborazione secondo Dolores Mosquera: le Micro-Elaborazioni

Dolores Mosquera - FOTO
Dolores Mosquera

Durante i tre giorni di formazione, Dolores Mosquera ha raccontato il suo lavoro terapeutico orientato prevalentemente all’utilizzo dell’EMDR come strumento clinico di sostegno all’elaborazione. La cautela è il principio base di questa fase di lavoro: affrontare le memorie traumatiche per pazienti con Trauma complesso e Disturbi Dissociativi può essere molto soverchiante e spesso la frammentazione interna è così complessa e stratificata, da impedire la creazione di una mappa chiara e definitiva del sistema interno. Da dove si parte?

Laddove il paziente non possa tollerare il dolore o non sia possibile rintracciare un unico evento traumatico scatenante (trauma T) o il trauma sia coperto da parziale o totale amnesia, è necessario possedere strumenti specifici e procedere con metodi di elaborazione frazionata o graduale dei ricordi: le “micro-elaborazioni”. Quali dunque i possibili target per le “micro-elaborazioni”?

Spesso è necessario intervenire tempestivamente su sintomi intrusivi che invadono il quotidiano e che risultano molto invalidanti: ad esempio flash back o incubi ricorrenti che causano insonnia, fobie o evitamenti. Quando tuttavia il ricordo non è accessibile per intero, la micro-elaborazione può coinvolgere: frammenti di ricordo (fotogrammi), frammenti intrusivi che generano triggers nel presente (immagini, parole, odori, sensazioni), fobie trauma correlate (fobia del ricordo, fobia del terapeuta, fobia degli stati interni, fobia delle parti dissociative); infine possono diventare target di elaborazione aspetti periferici – e meno attivanti – del ricordo T, che condizionano però altri aspetti del presente. Quest’ultima tecnica è stata descritta e codificata come “Strategia della punta del dito” (Gonzalez e Mosquera, 2015) e consiste nel lavorare su dei target traumatici che non sono presenti nella memoria centrale del trauma, ma che si collocano alla periferia del ricordo e spesso rappresentano una conseguenza del trauma, ma non una parte stessa dell’evento.

Di particolare interesse e utilità clinica è stata inoltre la descrizione del CIPOS (Constant Installation of Present Orientation and Safety, di Jim Knipe 2008), metodo EMDR specifico che permette al paziente di esporsi al ricordo per una finestra temporale molto breve (spesso alcuni secondi), di elaborare micro-frammenti di immagini, sensazioni, pensieri o emozioni, e di tornare poi nel presente e nella percezione di sicurezza. Solo dentro la “finestra di tolleranza emotiva” è possibile infatti che avvenga l’elaborazione; se il paziente è fuori in iper- o ipo- arousal la sua mente non ha adeguate risorse per elaborare il materiale mnestico e il rischio è solo di produrre un’intensa abreazione senza processamento di informazioni.

Le fasi del CIPOS possono essere considerate un framework di lavoro da utilizzare come traccia anche all’interno di approcci terapeutici diversi dall’EMDR:

1) chiedere il Permesso al paziente per lavorare sul ricordo/frammento

2) Sviluppare un senso di sicurezza nel qui ed ora

3) Rafforzare l’orientamento nel presente

4) Utilizzare una scala di valutazione per misurare l’attenzione duale (Back of the Head Scale)

5) Iniziare il lavoro di micro-elaborazione. Il processo di elaborazione muove continuamente dalla fase 1 alla 5, finché il frammento iniziale scelto non risulta desensibilizzato e non più disturbante.

La chiarezza illuminante di Dolores Mosquera ha reso comprensibile un processo terapeutico altrimenti complesso e ricchissimo di variabili da considerare contemporaneamente, ma è evidente come solo l’esperienza e la formazione continua possano aiutare ad applicare i metodi di elaborazione in modo controllato, appropriato ed efficace. Una raccomandazione per tutte: l’EMDR è molto efficace e potente, ma va usato con l’attenzione di un “laser”: il target deve essere molto preciso, circoscritto e centrato rispetto al problema riferito dal paziente nel momento presente. Vietato improvvisare!

Elaborazione secondo Lana Epstein: la Memory Reconsolidation

Lana Epstein
Lana Epstein

Il lavoro presentato da Lana Epstein mantiene lo stesso rigore e gli stessi obiettivi clinici, ma muove dalla cornice teorica della Memory Reconsolidation (Ecker, Ticic e Hully, 2012) e predilige la Terapia Sensomotoria (SP) come metodo di elaborazione delle memorie traumatiche e delle ferite d’attaccamento. L’obiettivo di lavoro esplicito è quello di raggiungere e intercettare attraverso i frammenti sensoriali dell’esperienza presente del paziente, la memoria implicita procedurale legata ai ricordi traumatici e aiutare il paziente a letteralmente “ri-cablare” la memoria di quegli eventi, modificandone l’impatto emotivo e gli effetti sintomatici nel presente.

Il legame con le prime teorie di Pierre Janet risulta a questo proposito naturale e coerente:

I pazienti influenzati dai ricordi traumatici non sono capaci di eseguire nessuna delle azioni caratteristiche dell’Atto di Trionfo

(Janet, 1919-1925), cioè se il trauma blocca delle azioni adattive di difesa, poiché le emozioni soverchianti impediscono alla vittima di agire attivamente in favore della propria sopravvivenza, allora quelle azioni tronche possono restare bloccate nella memoria procedurale e creare sintomi e sofferenza psichica nel presente anche a distanza di anni. Un lavoro profondo sulle memorie procedurali può andare a sbloccare quelle azioni e ripristinare delle difese attive, che aiutino a modificare l’impatto del ricordo traumatico del passato sul cervello del paziente nel presente.

La ricerca sulla Memory Reconsolidation (MR) è iniziata negli anni 70 attraverso i primi studi condotti sull’ECT (Elettroshock) e ha subìto diverse battute d’arresto nel corso della sua storia, ma grazie alla ricerca neuroscientifica attuale, l’interesse clinico e dei ricercatori si è ravvivato. Il meccanismo di base della MR si incentra sulla sorprendente scoperta delle capacità del cervello di eliminare uno specifico apprendimento emozionale indesiderato (convinzioni, azioni o schemi disfunzionali), non cosciente, a livello delle sinapsi neuronali fisiche che lo codificano nella memoria emozionale. La cancellazione di quell’apprendimento emozionale disfunzionale che sta alla base di un particolare sintomo, permette di eliminare il sintomo alla radice (Ecker, Ticic e Hully, 2012). Secondo la MR è possibile riscrivere delle esperienze emotive del passato incorporando nuovi elementi in quella traccia mnestica legata all’esperienza negativa e traumatica (Lana, Ryan, Nadel, Greenberg 2015).

Il lavoro terapeutico presentato da Lana Epstein è completamente coerente rispetto a questi modelli teorici e la Terapia Sensomotoria (SP) offre lo strumento clinico ideale per accedere a questo livello di memoria implicita. Il suo metodo è il risultato – molto complesso e articolato – della sinergia tra le fasi della Memory Reconsolidation e i 4 Passi del metodo di lavoro della Psicoterapia Sensomotoria (Ogden, Fisher 2018).

Le fasi descritte della MR sono:

1) Ri-attivare il ricordo traumatico e farlo emergere in modo esperienziale, osservando più la componente sensoriale rispetto agli altri dettagli del ricordo (es: immagine, pensiero)

2) Fornire un esperimento di “Mis-Match” (disadattamento), evocando e stimolando cioè una difesa attiva opposta alla difesa passiva originale emersa nel passato

3) Rivedere il ricordo tramite nuovo apprendimento e consolidare/integrare il nuovo apprendimento collegandolo a tutti i livelli di elaborazione coinvolti: sensoriale, comportamentale, emotivo e cognitivo.

In questa cornice teorica la fase di elaborazione è quella centrale (2) ed è qui che vengono integrati gli interventi di Terapia Sensomotoria – SP (Ogden, Fisher 2016). Gli inquadramenti terapeutici in SP possono riguardare due obiettivi clinici essenziali: il lavoro sul trauma o l’elaborazione delle ferite d’attaccamento. Se l’obiettivo terapeutico (inquadramento) è lavorare sul trauma, e sono presenti nel corpo delle azioni di difesa primarie (fight, flight, freeze, faint), è necessario contattare quell’azione “tronca” e promuovere una difesa attiva nel corpo che guidi il paziente a sentire che l’azione rimasta bloccata nel passato, possa riprendere vitalità ed esprimersi nel presente (Atto di Trionfo), restituendo energia e senso di padronanza; se invece si sta lavorando con le ferite d’attaccamento ed è possibile accedere attraverso l’Adulto (Adult state) alla Parte Bambina (Child State) che ha visto frustrati i suoi bisogni nell’infanzia, senza sentire minaccia o emozioni soverchianti, allora è possibile cercare un contatto con quella parte e aiutarla a rivedere il suo schema di attaccamento. Questa esplorazione viene condotta attraverso l’osservazione della memoria procedurale legata ai 5 movimenti di attaccamento primari: protendersi, spingere via, raggiungere, afferrare, tirare.

Da trauma e dissociazione verso il cambiamento neurale profondo

La graduale esplorazione del corpo, del movimento, dei 5 sensi, delle emozioni e dei pensieri, permette in entrambi gli inquadramenti di elaborare l’esperienza attraverso tutti i canali sensoriali e di integrare tutti i diversi livelli, fino a raggiungere un’integrazione completa della nuova esperienza che va a consolidarsi come nuova memoria procedurale. In questo modo la finestra temporale in cui il ricordo è riattivato, viene utilizzata per promuovere il cambiamento neuronale profondo e il risultato verrà consolidato e rafforzato attraverso l’integrazione e l’utilizzo della nuova risorsa nella vita quotidiana.

La complessità del modello e la spettacolarità del risultato, rendono questo metodo straordinariamente interessante e innovativo, ma tutt’altro che facile nella sua applicazione clinica. Quelli che possono apparire “semplici” esperimenti di movimento, non sono mai utilizzati per il loro valore simbolico, ma al contrario devono essere collocati all’interno di una cornice di ascolto profondo in cui paziente e terapeuta si pongono in osservazione non giudicante (mindful) del corpo, delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri che emergono. Solo questa premessa permette l’accesso ad un livello fisiologico molto antico e allo stesso tempo immediato nella sua capacità di portare la persona a realizzare e rendere consapevoli, vissuti emotivi diversamente difficili da raggiungere.

Insomma anche quest’anno la formazione veneziana ha riservato belle sorprese e ha permesso di approfondire la clinica dei disturbi dissociativi attraverso esempi clinici eccellenti, metodi di lavoro innovativi e scientificamente fondati, in un’ottica di integrazione guidata dal rigore dell’applicazione clinica e dall’attenzione al panorama internazionale.

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