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Memoria autobiografica: scopi e funzioni nella nostra vita quotidiana

Negli ultimi anni la memoria autobiografica è stata oggetto di numerose ricerche che hanno avuto come focus concettuale il capire come essa agisca, qual è la sua finalità e perché alcuni episodi della propria vita sono meglio ricordati di altri.

 

Relativamente all’utilizzo della memoria autobiografica da parte degli individui, essa viene usata per tre scopi ben precisi, ovvero per pianificare i propri comportamenti presenti e futuri, per sviluppare la percezione della continuità della propria storia di vita, per avere cognizione delle interazioni sociali che si sono strutturate nel tempo (Bluck e al., 2005).

 

Primo scopo della memoria autobiografica: la pianificazione del comportamento

Riguardo alla prima funzione, è noto come l’esperienza passata, che entra a far parte della memoria autobiografica, serva a direzionare le condotte del presente e del futuro. In pratica, le informazioni desunte dalla propria storia di vita diventano un archetipo che dirige la capacità di decidere per il presente e per il futuro e fungono da ancora a cui l’individuo può aggrapparsi nei momenti di incertezza (Baddley, 1988; Bluck e al., 2005). Inoltre, le informazioni desunte dalla memoria di tipo autobiografico costituiscono una cognizione utile per capire il comportamento degli altri, inquadrandoli in una cornice di continuità e di prevedibilità, con l’obiettivo di capire meglio il contesto sociale nel quale si vive (Robinson e Swanson, 1990). In aggiunta, la memoria autobiografica ha una funzione di apprendimento che si palesa, soprattutto, in ambito morale, ossia le condotte del passato possono aiutare l’individuo a comportarsi diversamente, laddove i propri comportamenti sono stati fonte di sofferenza per l’alterità (Bluck e Gluck, 2004).

Secondo scopo: garantire un senso di continuità e di stabilità del sé

Riguardo alla seconda funzione, la memoria autobiografica gioca un ruolo importante in quanto fornisce i costrutti necessari a creare una stabile e duratura immagine di sé. In altre parole, le notizie ricavate dalla propria autobiografia sotto forma di ricordi danno il senso di continuità che accompagna il proprio divenire. In pratica, malgrado l’individuo possa fare esperienze disomogenee e frammentarie nel suo arco di vita, la memoria di tipo autobiografico crea l’unitarietà dell’agire come specchio di un sé che si è costruito nel corso del tempo e questo assicura il senso dell’identità personale (Bluck e Alea, 2008).

Terzo scopo: sviluppare e mantenere le relazioni sociali

Relativamente alla terza funzione, ossia quella sociale, la memoria autobiografica serve a selezionare e a far perdurare le relazioni sociali. In altri termini, attraverso la memoria autobiografica il soggetto sceglie quali relazioni sociali coltivare e consolidare e quali, invece, recidere, in quanto i ricordi delle interazioni sociali passate divengono un’unità di misura con cui soppesare le nuove conoscenze sociali (Bluck e al., 2005; Rasmussen e Habermas, 2011).

L’utilizzo delle tre funzioni a cui è deputata la memoria autobiografica varia nel corso del ciclo di vita. Come differenti ricerche hanno evidenziato (Baltes e al., 2016; Vranić e al., 2018), esiste una differenza generazionale nell’uso della memoria autobiografica. Infatti, i soggetti più giovani (età media 28 anni) tendono ad utilizzare più frequentemente, rispetto alle persone più anziane (età media 60 anni), la memoria autobiografica per dirigere i propri comportamenti e per avere la continuità e la stabilità del proprio sé. Le stesse ricerche, inoltre, hanno mostrato che le donne si servono più degli uomini della memoria autobiografica per calibrare le proprie azioni.

In conclusione, la memoria autobiografica è adoperata per tre ragioni principali, ossia per meglio calibrare le proprie condotte, per sviluppare il senso del sé e per selezionare i rapporti sociali.

Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse (2017) di M. C. Strocchi, S. Raumer e T. Segato – Recensione del libro

Cosa porta una persona a diventare affettivamente dipendente da un’altra? Quali sono i tratti di personalità che contraddistinguono le vittime e i carnefici di relazioni basate su violenza e manipolazione? Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse cerca di rispondere a questi e a molti altri quesiti, già dalle prime pagine.

 

Sempre più frequenti, tra le pagine di cronaca nera, gli episodi di femminicidio: cambiano i nomi, i luoghi, i tempi ma la modalità tende a ripetersi. Un copione scritto infinite volte che vede come protagonisti due amanti, una coppia apparentemente normale a detta di vicini e conoscenti ma sui quali, man mano che si scava nella vita di coppia, piombano molte più ombre di quelle non viste dagli altri. Ombre pesanti, incatenanti come la gelosia, la manipolazione, la dipendenza affettiva e la violenza. L’epilogo è sempre lo stesso: lui, geloso e violento, che picchia, maltratta e uccide lei, dipendente da lui, la donna di cui si diceva innamorato, spesso compagna e madre dei suoi figli.

Quello presentato è il quadro più estremo di una relazione patologica, per nulla sana. Altri quadri di questo tipo di relazione, certamente non così estremi ma per nulla scevri da negativi impatti psicologici (e non solo), si dipingono tra le quattro mura domestiche, in cui tra i partner si instaura un perverso gioco di manipolazione e violenza. E a volte a farne le spese non sono solo le donne: anche gli uomini possono diventare vittime di una relazione asimmetrica, dipendenti dalla partner, soggiogati dai ricatti morali e materiali o dalla personalità dominante della propria compagna.

Cosa porta una persona a diventare affettivamente dipendente da un’altra? Quali sono i tratti di personalità che contraddistinguono le vittime e i carnefici di queste relazione d’amore surrogato? Cosa si può fare se pian piano ci si rende conto di essere imprigionati in una relazione del genere?

Liberarsi dalla dipendenza affettiva: perché si diventa dipendenti dall’altro?

Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse di Maria Cristina Strocchi, Sonny Raumer e Tullio Segato, cerca di rispondere a questi e a molti altri quesiti, già dalle prime pagine.

Il libro si apre con un’introduzione che cerca già di spiegare in che modo la società spinge le persone a diventare dipendenti dal proprio partner: in un’epoca caratterizzata da incertezza e cambiamenti repentini che difficilmente si è in grado di gestire, preferiamo seguire i sicuri binari del “accontentati di quello che hai” oppure “non lasciare la strada vecchia per quella nuova, sai quello che lasci ma non quello che trovi”. A ciò si aggiungono le vecchie regole di rapporto fondato sulla sopportazione reciproca, sulla fedeltà, sul rimanere insieme per i figli, per i genitori, per la casa, per i soldi o per la paura di rimanere soli.

Gli autori sottolineano come la dipendenza affettiva abbia due protagonisti: il dominato e il dominante, entrambi incatenati nel gioco della violenza e della manipolazione.

Cosa porta una persona a diventare dominato o dominante? Il libro Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse lo chiarisce fin da subito: al di là del ruolo che attualmente ricoprono, i partner che si incastrano in questo gioco di potere e sottomissione hanno sofferto nella loro infanzia, sebbene da adulti, pur avendo la stessa matrice, sviluppano modalità relazionali opposte.

Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse si divide in due parti: la prima si concentra sulla definizione di dipendenza affettiva, mentre la seconda illustra delle mosse pratiche per gestire le relazioni poco sane e crearne di nuove, più soddisfacenti.

La prima parte del libro, come anticipato, spiega cos’è la dipendenza affettiva. Tutti noi abbiamo sperimentato una condizione di dipendenza affettiva “sana”: da bambini, per esempio, quando i nostri genitori ci accudivano in modo affettuoso ed equilibrato, ma anche nel rapporto con il partner può manifestarsi un po’ di sana dipendenza dall’altro, a patto che ci si senta liberi di “fare e di essere” all’interno del rapporto di coppia.

Quando allora la dipendenza dall’altro diventa un problema? Lo diventa quando il partner rappresenta il nostro unico obiettivo di vita, quando pensiamo che possa essere l’unico che risolverà i nostri problemi personali, quando non abbiamo dell’altro una visione realistica (con pregi e difetti… e spesso questi ultimi sono evidentissimi ma negati), quando la nostra stessa esistenza viene messa in secondo piano rispetto a quella del nostro partner.

In Liberarsi dalla Dipendenza Affettiva in 5 mosse vengono presentate poi, in maniera dettagliata, le caratteristiche dei due protagonisti della dipendenza, partendo dalla vittima. Molto spesso donna, l’età è estremamente variabile. Quasi tutte però presentano dei tratti in comune: sono donne con scarsa autostima che cercano spasmodicamente la conferma dal partner di essere persone di valore; hanno paura dell’abbandono; attribuiscono a loro stesse la responsabilità del buon funzionamento della coppia. Spesso hanno una personalità dipendente che le porta a cercare negli altri le fonti di sostegno e affetto, di cui non possono fare a meno. Con il tempo queste persone riescono a consolidare questo “stile di vita” e divengono delle vere esperte nello scegliere partner incapaci di donare amore.

D’altro canto vi è il dominante, dai tratti narcisistici di personalità molto evidenti oppure si mostra debole, remissivo ma in grado di mettere in atto molti comportamenti di tipo manipolativo, utilizzando questa presunta debolezza per mettere in scacco il partner. I primi, più frequenti, sono persone con un senso grandioso di importanza, hanno bisogno di costante ammirazione, sfruttano gli altri per i loro scopi; Inizialmente persone di questo tipo possono realmente esercitare un certo fascino sugli altri. Con il tempo però questo velo d’apparenza cade e rimangono dei comportamenti deleteri, maleducati, che tendono a svilire il partner creando elevata conflittualità all’interno della coppia.

Gli autori continuano così illustrando quali sono le personalità più predisposte a diventare dominatrici e dominate, concentrando la loro risposta su personalità narcisistiche (quelle dominatrici) e dipendenti o border (quelle dominate).

Un capitolo è dedicato alle definizioni di manipolazione affettiva e di violenza, non solo fisica ma anche psicologica, spesso più subdola e più frequente nelle relazioni tra dominato e dominante. Seguono numerosi casi clinici che aiutano il lettore a comprendere meglio la multi-sfaccettatura del fenomeno.

A questo punto gli autori di Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse forniscono delle utili indicazioni su come valutare il livello di gravità della dipendenza dall’altro, basandosi soprattutto sulla motivazione al cambiamento di chi ne è vittima, sulla comoribilità con altri disturbi psichici o di personalità, sulle caratteristiche del partner e sulla condizione socio-economica.

La seconda parte del libro si concentra sulle mosse pratiche per liberarsi dalla manipolazione. In particolare viene descritto in che modo chiudere la relazione con un manipolatore violento e come difendersi in caso di bisogno (molto importante rivolgersi a professionisti e forze dell’ordine).

Vengono successivamente offerti degli esercizi pratici di autostima ed esercizi pratici per accettare, gestire e comunicare le proprie emozioni. Il focus si chiude poi su modalità e tecniche di comunicazione efficace, per esprimere i bisogni e le necessità e per difendersi dalla prepotenza altrui.

Liberarsi dalla dipendenza affettiva in 5 mosse è un libro che aiuta a comprendere quando dovrebbe attivarsi un campanello d’allarme nella relazione con l’altro. Al contrario di quanto il titolo possa lasciar intendere, è messo in evidenza quando è necessario rivolgersi a professionisti e forze dell’ordine per venir fuori da una relazione pericolosa e quando invece si può imparare in autonomia a interrompere i cicli disfunzionali messi in atto nella relazione con l’altro. Scritto in modo molto chiaro, ha il pregio di essere un testo di semplice lettura: nozioni di psicologia e psicopatologia diventano così accessibili a tutti, non solo ai professionisti del settore.

Social Network delle mie brame, chi è il più fragile del reame?

Cosa attira le persone sui Social Network? Quali sono i rischi psicologici profondi? Relazioni sociali e identità mediate sui Social dal punto di vista psicodinamico.

 

Facebook, Instagram ed altri Social Network sono ormai utilizzati quotidianamente in maniera più o meno assidua e hanno dilagato in poco tempo conquistando dai più piccoli ai più anziani. È interessante provare a capire che cosa ha attirato le persone su questi Social Network, ma anche quali sono i rischi psicologicamente più profondi, oltre ai ben più noti vantaggi, da un punto di vista psicodinamico.

Iniziamo con il dire che un Social come Facebook concede una possibilità unica nel suo genere: avere un profilo consente di essere parte di un “tutto sociale” senza investire in un contatto reale, vìs à vìs. La parola “virtuale”, in effetti, significa che esiste in potenza ma non si è ancora realizzato: siamo sul tagliente orlo della logica del “potenzialmente sì ma di fatto no”.

Social Network e relazioni: sé – sé virtuale – altro virtuale

Se si parte da questa premessa si può dedurre quale tipo di relazione con l’altro si instaura: una relazione che lo implica solo nella misura in cui questo fa da pubblico, da supporto all’Io, senza uno scambio relazionale vero e proprio. Un utilizzo dell’altro esclusivamente in funzione di oggetto e non di soggetto, in un contesto virtuale che trasforma le emozioni e reprime molte delle responsabilità etiche (per esemplificare basti pensare agli ormai numerosi casi di cyberbulling che sono tragicamente sfociati in suicidio).

Su Facebook ci si può esprimere senza avere l’obbligo di considerare ciò che esprimono gli altri, interpretare frasi e immagini secondo la propria esperienza e lo stato umorale del momento. L’autoreferenzialità è un aspetto dominante e produce quello che M. Franchi e A. Schianchi (2011) chiamano un rischio di isolamento solipsistico. Il rischio di isolamento è infatti alto ed è la quotidianità ad insegnarlo: basta osservare un qualsiasi contesto sociale ordinario per vedere come la nuova tecnologia cellulare sembri parte integrante del corpo; in altre parole, ironicamente, l’articolazione superiore non finisce con la mano, ma con lo Smartphone, lo sguardo è basso e l’attenzione è focalizzata lì. Si osservano persone raggruppate ma sole, ritirate in un mondo di “sé-sé virtuale-altro virtuale”.

Social Network e identità

Bruckman (1992) definisce i cyberplace come Facebook dei puri simulacri autoreferenziali. Questo spazio virtuale viene utilizzato spesso come un laboratorio per la propria identità, quello che l’autrice definisce “Identity Workshop”. Che cosa significa?

Se ci pensiamo, Facebook permette di incorniciare il Sé in un quadro che è possibile abbellire e levigare, smussandone con acquarello o candeggina gli aspetti inaccettabili. I Social Network come Facebook danno in effetti la facoltà di scegliere accuratamente il modo in cui presentarsi su questo “palcoscenico digitale”, tramite immagini, frasi, video, che vengono date in pasto al pubblico;

L’ aspetto narcisistico presente in ogni persona viene a patti con il voyeurismo di chi guarda la pagina profilo (E. Menduini, G. Nencioni, M. Pannozzo, 2011)

La componente voyeurista, e la sua gemella esibizionista, suggeriscono qualcosa nell’ordine di quella che in psicoanalisi viene chiamata perversione: sostanzialmente il paradosso dell’avere un bisogno viscerale di qualcosa dall’altro, ma volerlo ottenere senza passare dall’altro come soggetto.

Su questa linea notiamo che esiste una solida ed adesiva identificazione tra il Sé e l’Ideale, che trasforma il Soggetto in oggetto: questo risulta non soltanto dalla tendenza a pietrificarsi nell’immagine illusoria e perfetta del proprio profilo Social (che a sua volta tenta di copiare quella del canone sociale), ma anche dall’intenzione di voler proporre questo Sé come oggetto, nella sua massima esposizione sregolata di cui, inconsciamente si auspica, l’altro possa godere. Questo processo avviene in maniera prevalentemente ego-sintonica: se prendiamo ad esempio i profili Instagram più cliccati, proporre immagini di sé sessualmente esplicite è divenuto un vanto ed una qualità che vorrebbe incarnarsi. Probabilmente l’idea che questi soggetti hanno, e vorrebbero far passare, è che l’immagine profilo costituisca la realtà, o meglio, che quella sia la verità sul corpo e sulla loro identità. Questo serve a potersi dire “è così che sono”.

Social Network e immagine di sé perfetta

In alcuni casi la serie delle immagini proposte è serialmente tutta uguale: questo richiama qualcosa della ripetizione come godimento (inteso Lacanianamente come ripetitività spasmodica del sintomo) un voler essere ripetitivamente, ritualmente, statuariamente perfetti, non accettando la minima variazione che, umanamente, il corpo subisce di ora in ora per condizioni interne ed esterne. I cosiddetti “filtri” delle nuove applicazioni fotografiche servono proprio a questo: a togliere, forse denegare nei casi più gravi, ogni sbavatura, ogni differenza dall’Ideale. Il sembiante della foto perfetta viene confuso, mescolato con l’essere reale del soggetto.

L’annullamento della differenza tra essere e sembiante, tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce, […] avviene […] per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. È ciò che Cristopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l’espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come distruzione del fattore soggettivo. (M. Recalcati, 2010).

Da un punto di vista psichico strutturale, l’Immaginario dell’individuo in questi casi è sovra saturo, carico del peso dell’immagine identificatoria e ideale che non può né scalfirsi né modificarsi: il costo sarebbe quello di un crollo narcisistico, probabilmente depressivo.

Social Network e narcisismo

L’esasperazione dell’immagine, sempre più a ridosso del limite pornografico, sembra voler disperatamente gridare: “Guardami!”. L’ipotesi è, come accennato, che sia fortemente in gioco l’integrità narcisistica e, di conseguenza, esistenziale: Narciso, in fondo, specchiandosi in una fonte non cerca se stesso, ma se stesso arricchito dallo sguardo (…). Il mito di Narciso ricorda che, in alcuni soggetti psichicamente più fragili, esiste un legame tra l’amore e la conferma della propria esistenza: je t’aime = aime-moi ; je t’aime = j’existe (J. McDougall, 1976). L’impressione è che questi individui rischino la vita, che necessitino lo sguardo su di sé a tutti i costi, o il costo sarebbe quello della disintegrazione narcisistica. Tristemente, ma secondo la parte istintuale della nostra natura, l’ipersessualizzazione dell’immagine costituisce la via che attecchisce più facilmente, la via che può attirare più velocemente e più voracemente lo sguardo dell’altro.

Per dei motivi che andrebbero indagati più a fondo, questo interessa soprattutto il genere femminile:

Il corpo alla moda è il corpo che una donna deve avere per esistere come donna di fronte al sistema del grande Altro contemporaneo e al suo sguardo onnipervasivo. Sottolineo i due verbi: dovere e avere (M. Recalcati, 2010).

Il primo verbo servile ha a che fare con un imperativo categorico che non appartiene alla potenza del Super-Io, ma alla predominanza dell’Es come pura spinta al godimento. Il secondo, avere, è in contrapposizione con l’essere del Soggetto: egli non la possibilità di essere a partire dalla mancanza, ma solo di avere come direttiva di esistenza che si basa sul possedimento di un oggetto, il quale, una volta perso, lascia un vuoto che non può essere significato, simbolizzato, pensato o mentalizzato.

Per meglio comprendere la questione sul corpo si può partire dalla

[…] figura clinica dell’isteria, che non insegna solo che il corpo parla e parla là dove soffre, nei sintomi, nelle cifrature enigmatiche scritte sulla carne del corpo, ma anche che il corpo sfugge sempre ad ogni disegno della padronanza dell’Io. Il corpo isterico rivela, infatti, una plasticità camaleontica, metamorfica, imprevedibile che l’Io non può affatto governare. Questo aspetto del corpo isterico ci pone di fronte non a una patologia ma ad una verità: il corpo non è mai una proprietà del soggetto. È l’illusione filosofica di una certa fenomenologia – e in gran parte ormai della donna moderna – pensare che io sono il mio corpo e che il mio corpo è ciò che io più profondamente sono, ovvero pensare che io non ho ma sono il mio corpo (M. Recalcati, 2010).

In questo modo si spiega lo spasmodico utilizzo del corpo come strumento goduto e godibile, di cui una delle conseguenze risulta molto spesso la mancanza, riscontrabile nella clinica, di sintomi che siano metaforici; il “sintomo dell’avere” non parla, devasta direttamente il corpo somatico, senza mediazioni rappresentative.

Se tutto ciò può dare uno spunto al lavoro psicologico e terapeutico, vale la pena considerare il ruolo che può avere l’utilizzo dei Social Network in persone psicologicamente già fragili da un punto di vista strutturale e narcisistico, oltre a cogliere precocemente i campanelli di allarme di un utilizzo scorretto di queste piattaforme virtuali soprattutto nei giovanissimi e negli adolescenti.

Je so’ pazzo (2018) – Recensione del documentario di A. Canova sull’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli

“Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario, dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per la cui cura medicina e giustizia dovrebbero esistere”.

 

Con queste parole di Franco Basaglia si apre il documentario di Andrea Canova. Sant’Eframo Nuovo è un ex OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ricavato da un vecchio monastero e dismesso nel 2008 perché ritenuto inagibile. Dopo 7 anni di abbandono, nel 2015, mentre in Italia si chiudevano gli altri OPG, l’edificio è stato riaperto e occupato per essere trasformato in un centro sociale nel senso letterale del termine, una casa del popolo, un punto di incontro per tutti.

Per secoli luogo inaccessibile, isolato dalla vita del quartiere, teatro di disgregazione delle relazioni e di annichilimento dell’essere umano, è diventato uno spazio di libertà e di apertura alla comunità.

Je so’ pazzo: Sant’Eframo raccontato da Canova

Andrea Canova scandisce il suo racconto con l’alternarsi di immagini dei nuovi spazi pieni di colore del centro sociale, che hanno ripreso vita grazie ai numerosi progetti di accoglienza e sostegno alla comunità, e le immagini di stanze vuote, grigie e abbandonate che Michele, un ex internato, attraversa narrando, nelle pagine del suo diario, durante gli anni della sua detenzione. Michele è uno dei fortunati, perché ha trascorso in Ospedale Psichiatrico Giudiziario “solo” 5 anni e non ha subìto gravi abusi. Altri non sono stati così fortunati e hanno trascorso in quelle condizioni la maggior parte della loro vita. La durata della reclusione in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, infatti, non era stabilita in modo definitivo, ma le misure di sicurezza potevano essere prorogate fino a trasformarsi di fatto in “ergastoli bianchi”. Molti, troppi, non sono riusciti ad adattarsi a vivere da reclusi e dimenticati e hanno trovato nel suicidio l’unica via di fuga.

Ospedale psichiatrico giudiziario: la testimonianza di Michele

Michele racconta la vita e l’alienazione degli internati, gli abusi di potere, le violenze, la difficile convivenza forzata in spazi ristretti, in cui regnavano gli odori acri e la mancanza d’igiene, la solitudine dolorosa. Dalle sue parole, dai suoi diari, dalle sue lettere, dai versi delle sue poesie emerge lo spaccato di una realtà che il mondo esterno ha cercato di ignorare, di cui ha cercato di liberarsi confinandolo fra quelle mura. Poche tracce della memoria di Sant’Eframo sono sopravvissute agli anni di abbandono e gli scritti di Michele sono la testimonianza più significativa della sua storia dimenticata.

Je so’ pazzo: la rinascita, oggi

All’orrore di questo “carcere disumano” e del suo “popolo di dimenticati” fa da contraltare il coraggioso tentativo del collettivo di trasformare quei luoghi in uno spazio di accoglienza per tutti. Numerosi volontari mettono a disposizione professionalità, impegno e umanità per costruire una vera e propria comunità. E’ stata allestita una palestra, ci sono corsi di teatro, di ballo, un corso di italiano per immigrati, una camera popolare del lavoro, un ambulatorio medico e supporto psicologico. I ragazzi vengono qui a studiare, vengono aiutati a fare i compiti, giocano a pallone e in questo modo si tengono lontani dal “fare guai” per strada.

I colori dei murales, il suono della musica, i concerti fanno da cornice alle iniziative sociali. L’opera del collettivo dell’ex Ospedale Psichiatrico GiudiziarioJe so’ pazzo” è la testimonianza di un grande impegno a trasformare quello che per lunghi anni è stato teatro di continue violazioni di diritti umani in luogo di accoglienza e sostegno alle persone, un impegno affinché “non ci siano più esseri umani di serie B”.

 

JE’ SO PAZZO – IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

 


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Affido familiare: accogliere il minore in difficoltà, sostenendo la sua famiglia d’origine

Diversamente dall’ adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’ affido familiare consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

 

Affido familiare: definizione e differenze con l’ adozione

Diversamente dall’ adozione, che comporta l’instaurarsi di un legame filiale definitivo ed esclusivo, l’ affido familiare consiste nell’inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine, che ad essa tuttavia non si sostituisce ma si affianca, costituendo così una misura provvisoria.

In Italia l’istituto dell’ affido familiare è regolamentato dalla legge 149/01, in cui si afferma il diritto del minore ad essere educato nella propria famiglia e, in mancanza di essa, a poter fruire delle cure di una famiglia altra, che possa quindi esercitare una funzione vicariante. Attualmente i minori in affidamento in Italia sono circa 16.800, si tratta pertanto di un fenomeno estremamente diffuso nel nostro Paese, che riguarda tutte le fasce di età e comprende tanto gli affidi etero-familiari quanto quelli intra-familiari (Moretti et al., 2009).

L’ affido familiare, pertanto, si configura come intervento di accompagnamento e supporto alla famiglia di origine, avendo come obiettivo il successivo rientro del minore nel contesto familiare naturale. Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia, l’intervento di affido familiare avviene ad opera dei servizi territoriali di Tutela Minori su incarico dell’Autorità Giudiziaria Minorile, che è garante della protezione dei più piccoli in casi di potenziale pregiudizio.

Ma in quali situazioni è richiesto un intervento di tal genere? Tra le più frequenti troviamo: la malattia di un genitore, la sua carcerazione, la fragilità psicologica o anche la psicopatologia di un genitore.

Le potenzialità dell’ affido familiare sono numerose, ma in esso sono insiti altrettanti rischi. Inserirsi in una nuova famiglia, può significare per il bambino conoscere e sperimentare stili di attaccamento nuovi, andando così a modificare i propri Modelli Operativi Interni, utili a comprendere se stesso e il mondo che lo circonda. In tal senso l’ affido si configura come un’esperienza correttiva e positiva, capace di interrompere i precedenti cicli interpersonali disfunzionali interiorizzati dal bambino nella sua famiglia di origine.

Tuttavia l’ affido familiare porta i suoi protagonisti a fare i conti con una perdita: il minore viene separato dalla famiglia di origine e a volte dal suo intero contesto di vita. Perdita dunque delle abitudini ma anche dei suoi riferimenti.

Dall’ affido all’ adozione: la legge del 15 Ottobre 2015

Il 15 ottobre 2015 è stata approvata la Legge che sancisce il diritto alla continuità degli affetti da parte dei minori che vivono l’esperienze dell’ affido familiare.

L’ approvazione è stata ottenuta dopo una lunga attesa e un lungo lavoro da parte di moltissime associazioni che hanno spinto per il riconoscimento della continuità degli affetti stabilita dal bambino con le figure affettive che si sono prese cura di lui nel periodo dell’ affidamento familiare.

La legge definisce che la famiglia che accoglie un bambino in affido, nel caso in cui si presenti una situazione di adottabilità del minore, potrà inoltrare richiesta di adozione del minore grazie al riconoscimento della continuità affettiva stabilita tra loro.

La legge si configura come un superamento della parte della legge 184/1983 che impediva l’ adozione del minore da parte degli affidatari, anche quando era presente un legame affettivo positivo e funzionale alla crescita del bambino. Un punto questo che stonava con l’attenzione che la legge 184/1983 dava al diritto del minori di vivere in famiglia, grazie all’affidamento famigliare e all’adozione. Si può facilmente comprendere come ciò avesse un effetto deleterio sulla vita del bambino e delle famiglie affidatarie, proprio perché interrompeva la continuità affettiva consolidata nella famiglia e decretava un ulteriore separazione dalle persone che erano diventate dei sostituti genitoriali, un’ulteriore perdita.

La legge sulla continuità degli affetti finalmente interviene su questo punto permettendo alla famiglia affidataria di inoltrare richiesta di adozione del minore o di mantenere i contatti con egli nella situazione in cui, invece, venga adottato da un’altra famiglia.

Un altro aspetto assolutamente degno di note è il riconoscimento del diritto della continuità affettiva anche quando il bambino rientra nella famiglia d’origine o viene adottato da un’altra famiglia: la legge, infatti, stabilisce che è importante garantire momenti di incontro volti a mantenere la continuità affettiva del bambino nei confronti della famiglia affidataria.

E’ inoltre tutelato il riconoscimento del diritto del minore di essere ascoltato in merito alle decisioni che riguardano la sua vita: quindi il bambino potrà essere ascoltato dal giudice e potrà esprime il proprio parere in relazione a qualsiasi proposta degli operatori e giudici che riguarda la possibilità di rientrare nella sua famiglia d’origine, o di essere adottato dalla famiglia affidataria o da un’altra famiglia e di mantenere i contatti con la famiglia affidataria come definito dall’art. 12 della Convenzione sui diritti dell’infanzia.

Con la legge sul diritto alla continuità degli affetti si interrompe finalmente il processo di perdita dolorosa che sembrava caratterizzare la vita dei bambini in affido familiare.

Comunità per minori o affido familiare?

Dibattiti molto accesi sono avvenuti sull’opportunità o meno di inserire bambini, soprattutto quando molto piccoli, in comunità per minori. Da più autori è stato affermato come non sia opportuno, ad esempio, inserirvi bambini e ragazzi che dovranno restarvi a lungo, sostenendo l’importanza di privilegiare l’ affido familiare perché ritenuto un contesto relazionale più vicino alla normalità, più affettivo e più stabile.

Certamente l’ affido etero familiare può essere una risposta adatta per un bambino con esperienze di inadeguatezza, trascuratezza e relazioni distorte nella sua famiglia d’origine; tuttavia l’ affido non è sempre un percorso facilmente praticabile e spesso non sempre si riescono a reperire famiglie affidatarie adeguate e necessariamente preparate ad accogliere i minori allontanati dai loro precedenti contesti di vita. Capita inoltre che problematiche a volte molto gravi, come ad esempio un abuso o un grave maltrattamento, possono rendere difficile un affido familiare per le complesse dinamiche vissute e i susseguenti problemi che si dovranno affrontare. A volte sono i ragazzi stessi a non essere pronti ad un affido da parte di un adulto semi-sconosciuto che in breve tempo diventa “la tua famiglia”

 

 

Psicologi in Zona: focus sul tema della crescita. Il ritorno a Maggio a Milano dell’iniziativa organizzata dall’OPL – Comunicato Stampa

Ordine degli Psicologi della Lombardia:

A Maggio torna a Milano Psicologi in Zona. Focus sul tema della crescita.

Ascolto dei bisogni e informazione: questo l’obiettivo degli psicologi volontari a disposizione di famiglie, insegnanti e ragazzi su questioni come bullismo e la violenza intrafamiliare.

 

Realizzato in sinergia con i Municipi di Milano, il progetto porterà gazebo itineranti in tutte le zone della città, in prossimità delle scuole primarie e secondarie.

 

Milano, 26 aprile 2018 – La psicologia come strumento accessibile, necessario e vicino ai bisogni delle persone: è questo il senso dell’iniziativa Psicologi in Zona, che nel mese di maggio porterà decine di psicologi volontari in tutti i quartieri della città di Milano.

Nello specifico, questa nuova edizione di Psicologi in Zona è dedicata ai temi della Crescita e dell’Età Evolutiva, che sempre più vanno configurandosi come momenti di straordinaria vulnerabilità ed esposizione a rischi quali bullismo, cyberbullismo, dipendenze, etc. Per questa ragione, ogni settimana, i gazebo OPL si alterneranno in 2 diverse zone di Milano, vicino a istituti e comprensori scolastici.

La cronaca e la nostra esperienza professionale ci dicono che l’età infantile e adolescenziale necessitano di una riflessione profonda. Non solo in termini di patologia, ma di evoluzione e crescita dell’individuo. OPL porterà quest’anno gli psicologi proprio nei luoghi di formazione dei ragazzi – le scuole – con l’obiettivo di incrociare i bisogni dei giovani e quelli degli adulti che se ne occupano. La psicologia può e deve essere un alleato di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, per facilitare processi di ascolto, dialogo e intervento in ottica di prevenzione e gestione di gravi situazioni di disagio – commenta Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Dati Psicologi in Zona 2017

A dare una forte indicazione sull’opportunità di dedicare Psicologi in Zona 2018 al tema della Crescita sono stati gli stessi cittadini, che, nella scorsa edizione dell’iniziativa, hanno manifestato la propria preoccupazione proprio rispetto all’età dell’infanzia e dell’adolescenza.

Nel seguito alcune cifre relative a Psicologi in Zona 2017:

  • 120: gli psicologi volontari coinvolti;
  • 1.200 circa: i cittadini coinvolti (70% donne);
  • 19%: percentuale di cittadini che hanno segnalato i problemi dell’età evolutiva e il bullismo come le aree di maggiore criticità e più bisognose di supporto psicologico. Al secondo posto, la questione dell’invecchiamento (14%).

Bullismo e Violenza Intrafamiliare: gli strumenti di sensibilizzazione

In occasione di Psicologi in Zona, OPL presenta due importanti strumenti di sensibilizzazione e divulgazione di base, realizzati in collaborazione con CISMAI (Coordinamento Italiano Servizi Maltrattamento all’Infanzia), Università Cattolica del Sacro Cuore e AIAF Lombardia (Associazione Avvocati per Famiglia e Minori):

  • Violenza intra-familiare: articolato in 7 domande allo psicologo, il documento chiarisce in che termini, con quali tempi e con quali possibili strumenti è importante proteggere i minori dagli scontri violenti tra genitori;
  • Decalogo per gli adulti per battere il bullismo: dal ruolo degli ‘spettatori’ alla complicità del silenzio, dall’impatto delle giustificazioni all’importanza del coordinamento, OPL mette a fuoco 10 linee guida, per contrastare più efficacemente bullismo e cyberbullismo.

All’interno dei gazebo itineranti, sarà possibile incontrare i professionisti, comprendere meglio le proprie necessità in relazione alle diverse discipline della psicologia e conoscere le diverse possibilità di intervento psicologico disponibili sul territorio.

Questo il calendario degli appuntamenti con Psicologi in Zona:

Psicologi in Zona- Calendario 2018

Maggiori informazioni sul sito e sulla pagina Facebook di OPL.

Ordine degli Psicologi della Lombardia

L’Ordine degli Psicologi – Nazionale o Regionale – è un ente pubblico che rappresenta e governa gli iscritti all’Albo degli psicologi. Se l’Ordine, da un lato, è un presidio dello Stato a tutela della salute e del benessere dei cittadini, l’Albo è l’elenco pubblico di tutti gli psicologi abilitati ad esercitare regolarmente la professione a disposizione dei cittadini. Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) è Riccardo Bettiga. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.opl.it.

 

Terapia Metacognitiva: il racconto di Adrian Wells – Report della Conferenza di Modena

Il 21 e 22 aprile Adrian Wells ha tenuto a Modena il seminario sulla Terapia Metacognitiva. L’evento è stato organizzato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi, che da sempre promuove il dialogo aperto tra differenti modelli teorici e di trattamento. Nel 2016, Studi Cognitivi aveva già ospitato il terzo congresso internazionale di Terapia Metacognitiva.

 

MCT Essentials

La conferenza, dal titolo “MCT Essentials”, ha guidato i partecipanti nella scoperta della Terapia Metacognitiva partendo da un’analisi della teoria e dei suoi concetti fondamentali e distintivi, per addentrarsi poi sempre di più nella pratica clinica.

Nel rispetto di quelli che sono i principi propri dell’approccio metacognitivo, Adrian Wells ha sviluppato le due giornate mantenendo l’equilibrio tra conoscenza ed esperienza. È stato così possibile per i presenti conoscere il modello e sperimentarne in prima persona tecniche ed interventi attraverso momenti di simulazione guidata in cui hanno ricevuto la diretta supervisione del Professor Wells.

“Il contenuto dei pensieri non ha importanza, ciò che è causa della sofferenza psicologica è il processo con cui noi ci approcciamo ai nostri pensieri”

queste le parole di Adrian Wells che raccontano le differenze rispetto al modello di trattamento classico della Terapia Cognitivo-Comportamentale. Una grande differenza rispetto a quello che molti di noi fanno nella loro pratica clinica e agli aspetti su cui lavorano con i propri pazienti.

Fin dalla prima giornata, è questo il concetto fondamentale che Wells chiede di non dimenticare e che ci porta verso una nuova comprensione della psicopatologia.

Rimuginio e Ruminazione, come processi di pensiero, acquistano un’importanza centrale nella comprensione della sofferenza del paziente. Come lavorarci? L’invito di Wells e della Terapia Metacognitiva è quello di non addentrarsi nel loro contenuto quanto piuttosto di andare ad indagare le metacredenze cognitive, positive e negative, che sostengono tali processi. È necessario portare il paziente verso una nuova modalità di approccio ai propri pensieri che gli consenta di non restare “incastrato” in un circolo ripetitivo e sterile di pensieri negativi, che altro non causano se non la sua sofferenza.

Terapia metacognitiva: protocolli di intervento

Nella seconda giornata il Prof. Adrian Wells ha illustrato i protocolli di intervento per disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia generalizzata, depressione e disturbo ossessivo compulsivo. La chiarezza e la semplicità che contraddistingue il suo modo di fare didattica è uno degli aspetti che sono stati più apprezzati; un altro è la generosità nel condividere il suo modo di lavorare con i pazienti; infine lo spazio dato alle esercitazioni e alla sperimentazione di tecniche e strumenti – come la detached mindfulness – o di parti di seduta.

Al di là delle specificità di trattamento di ogni disturbo, che si snoda in protocolli di 12 sedute, Wells tiene a sottolineare che la complessità del disturbo di cui ci occupiamo non presuppone o richiede un trattamento complesso. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, come terapeuti, sono pochi, solidi strumenti, una logica d’uso molto chiara, grande preparazione e rigore nell’applicazione. Tutto questo – e solo questo – insieme ad una solida base teorica e all’evidenza scientifica di efficacia ci consente di offrire un valido aiuto clinico al paziente e ci assicura un futuro come professionisti della salute.

La Sindrome Cognitivo-Attentiva

La presa di coscienza della Cognitive Attentional Syndrome (CAS) e di come e quanto rimuginio e/o ruminazione alimentino i sintomi è una delle parti fondamentali del trattamento di tutti i disturbi ed è possibile grazie al dialogo socratico. Questo percorso all’insegna della scoperta guidata alimenta una relazione di cooperazione tra paziente e terapeuta. Insieme possono muoversi in un clima caldo, per sperimentare ed apprendere come “lasciar andare” i pensieri, senza bloccarli in processi ricorsivi e maladattivi, che chiedono senza sosta “… e se …?” o “Perchè …?”.

Sapere come funziona spontaneamente la mente, scoprire che siamo noi a imporle un funzionamento che ci provoca ansia o tristezza, da o ridà al paziente quel controllo sulla sua vita che tentava di ottenere rimuginando o ruminando. Ne consegue, ad esempio, che non c’è trauma che non possa esser trattato con la terapia metacognitiva.

 

Terapia Metacognitiva - Adrian Wells a Modena 2


Cenni sulla Terapia Metacognitiva

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. L’approccio MCT  è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norma, van Emmerik e Molina, 2014).

La metacognizione è l’aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi attentivi e di pensiero. Molte persone hanno dirette esperienze metacognitive, per esempio quando sono incapaci di ricordare il nome di una persona pur sapendo di conoscerlo. Questo esempio chiarisce come le componenti metacognitive lavorino per informare una persona che un ricordo è immagazzinato da qualche parte nella memoria anche se le persone non sono in grado di ricordarlo. Molte altri aspetti della metacognizione operano al difuori della nostra coscienza.

Una delle caratteristiche dei disturbi psicologici come ansia e depressione è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare o tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi. Questa modalità di funzionamento viene definita Sindrome Cognitivo-Attentiva (cognitive attentional syndrome o CAS). La CAS consiste solitamente in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali. La CAS è controllata da credenze e regole metacognitive.

La Terapia Metacognitiva ha come obiettivo ridurre questo stile di pensiero, vale a dire rimuovere la CAS, e riportarla sotto il controllo cosciente. La MCT mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti. Protocolli di intervento basati sulla teoria metacognitiva sono stati sviluppati per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione (Wells, 2008).

Il docente

Adrian Wells, è uno psicologo e clinico britannico; è docente di psicologia clinica alla University of Manchester e professore presso la Norwegian University of Science and Technology di Trondheim.

Adrian Wells è autore di oltre 200 articoli scientifici in cui evidenzia i meccanismi cognitivi e metacognitivi sottostanti i disturbi psicologici, in particolar modo relativi alla sfera dell’ansia e della depressione. La sua ricerca ha portato alla teorizzazione e alla validazione della Terapia Metacognitiva.

Je so’ pazzo (2018): il toccante documentario di Andrea Canova – Recensione

L’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo vive tanto nelle sue crudeli disumanità quanto nei momenti di arricchimento personale. Oggi la stessa struttura a Napoli vive della buona volontà e della professionalità di chi nel sociale ci crede e spende tempo e risorse.

 

[blockquote style=”1″]Unica finalità del manicomio giudiziario è la punizione di coloro, per la cui cura e tutela, medicina e giustizia dovrebbero esistere. [/blockquote]

Questa la frase di Franco Basaglia ad apertura del Documentario Je so’ pazzo del regista Andrea Canova, che emblematicamente riassume la criticità che accompagna storicamente il concetto di manicomio criminale e che ha condotto alla sua soppressione, alla luce proprio delle osservazioni di Basaglia sulla disumanità delle condizioni di vita in cui versavano i reclusi nelle strutture psichiatriche giudiziarie in cui lui stesso prestò servizio negli anni della sua carriera di psichiatra.

Sui concetti di cura, riabilitazione, sofferenza (e speranza) ruota di fatto l’intero documentario, che racconta, attraverso scene e suoni densi di pathos, la vita quotidiana dei detenuti dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo a Napoli, beneficiando della testimonianza diretta di Michele Fragna, ex detenuto, e della lettura degli stralci del diario tenuto nei suoi cinque anni di reclusione.

Sant’Eframo, Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario: lo racconta Michele Fragna

Sant’Eframo “un luogo per secoli inaccessibile, isolato dal quartiere da cui per anni si sentivano provenire urla strazianti a ogni ora del giorno”, “un luogo che adesso appartiene alla memoria di tutti”, dopo la sua dismissione nel 2008 e il ritorno alla luce nel 2015, sotto forma di Centro Sociale, “luogo di incontro, di solidarietà e di libertà”. Sant’Eframo, un luogo di comune, umana, sofferenza, da non stigmatizzare come insana, disumana pazzia poiché “i detenuti qui sono persone normali, come accadde per chi si rompe un braccio o una gamba, normali, con qualche problema”.

Ecco che lo spettatore viene accompagnato lungo le scene di normale vita quotidiana di un “popolo dimenticato”, con un solerte Michele Fragna che ricorda la “piatta regolarità [dove] i più fortunati lavoravano o facevano teatri o corsi professionali”, o il “grigio e maleodorante” ambiente in cui era costretto a vivere, immagine rafforzata dallo scorrere di immagini di pareti scrostate, pavimenti sporchi e spioncini che restano chiusi tutta la notte e che lasciano i detenuti prigionieri del buio pesto della notte dentro le celle minuscole.

Viene naturale essere progressivamente coinvolti nella testimonianza delle violenze fisiche e psicologiche a cui i detenuti erano sottoposti: detenuti picchiati, come abuso di potere, “tenuti legati con delle fascette a letti di ferro”, come metodo di contenzione, oppure che hanno visto nel suicidio la fine di orrori e di una vita “per cui non trovavano una logica e una soluzione”, come Enrico.

Testimonianze senz’altro toccanti, rese ancora più vivide dal suono metallico, a tratti inquietante, delle chiavi delle celle, e smorzate dalla lettura delle pagine del diario di Michele in cui questi invocava, ai tempi della sua detenzione, la forza di non arrendersi, la speranza di uscire, di trovare la pace e continuare la propria vita da uomo libero.

Uomini liberi, uomini riabilitati al legame sociale: riabilitazione, ricostruzione delle relazioni sociali, contro la disintegrazione delle stesse a opera del reato, sono queste le finalità garantite dai professionisti operanti nell’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario, tra cui psicologi, infermieri, psichiatri, che mettono in campo la loro “umanità oltre che professionalità”. Una “squadra” che Michele ricorda con un sorriso, operosa nell’organizzare le attività ricreative che si svolgevano all’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in particolare il teatro, in grado, come egli sottolinea, di “illuminare le sue giornate”.

L’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziariodi Sant’Eframo oggi è un Centro Sociale rivolto alla comunità

E se la memoria storica dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo vive tanto nelle sue crudeli disumanità quanto nei momenti di arricchimento personale, oggi la stessa struttura a Napoli vive della buona volontà e della professionalità di chi nel sociale ci crede e spende tempo e risorse.

Riqualificato come Centro Sociale, quello che una volta fu luogo di detenzione e oscurità oggi si propone come “luogo entro il quale sentirsi parte di una Comunità” come raccontato dagli operatori che svolgono la loro opera sociale. Attività libere, gratuite, “per chi non può permettersi di pagare il teatro o uno spazio sportivo”, che vanno dai campi di calcetto all’insegnamento della lingua italiana agli immigrati all’orientamento al lavoro.

Questa riqualificazione, se riconsegna dignità agli abusi subiti, mai dimenticati dai detenuti e dalla Comunità, non riesce tuttavia a togliere dagli occhi e dalla mente le immagini di degrado e umiliazione di chi il documentario l’ha visto, di chi ha udito la voce tremante di Michele nel racconto del suo “essere legato al letto, senza pietà, fino a quando non si calmava” o la storia di Vito De Rosa, recluso in una cella senza sedia per cinquantadue anni, e dei tanti altri reclusi di cui Michele dichiara di avere perso ogni traccia.

Un intrecciarsi di storie tristi e sofferenze oltremisura, rese e rinascite (come l’epilogo della vicenda di Michele, attualmente in libertà, dopo cinque anni di reclusione, e che conduce adesso una vita autonoma). Una catena di sofferenze umane inflitte da altri esseri umani e che rimanda all’osservazione iniziale di Basaglia sul ruolo curativo di medicina e giustizia, sul ruolo e la reale efficacia dei metodi punitivi, gratuitamente disumani e spersonalizzanti, sul senso etico e terapeutico del rispetto umano, non solo come diritto inalienabile, ma come misura educativa finalizzata alla cura e alla tutela tanto del detenuto quanto della Comunità in cui dovrà, una volta scontata la sua condanna, utilmente reinserirsi.

JE SO’ PAZZO – IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

Il lascito di Liotti

Per arrivare a idee così semplici su come curare il malessere psicologico ci sono voluti decenni e ancora non sono abbastanza diffuse. Giovanni Liotti e Fabio Monticelli partono dal buon maestro Darwin.

 

Chi soffre psicologicamente lo fa a partire da un buon motivo. Il comportamento umano è guidato da una serie di spinte – istinti li chiamavano – a sperare qualcosa nelle relazioni. Eccole di seguito:

  • Vogliamo che venga riconosciuto il nostro valore, così da stabilire l’ordine di accesso alle risorse: rango sociale.
  • Cerchiamo conforto in momenti di vulnerabilità: attaccamento
  • Ci muoviamo a prenderci cura di chi soffre: accudimento
  • Cerchiamo di essere parte di un gruppo, pena l’assenza di senso: appartenenza
  • Formiamo legami stabili che portino sensualità e piacere erotico: sessualità
  • Ci alleiamo per raggiungere scopi al di fuori dei nostri limiti individuali: cooperazione
  • Di importanza fondamentale: vogliamo esplorare l’ambiente in modo autonomo, innovare, scoprire. Guidati da arcaici nervi di rettile, usciamo dal territorio cercando risorse, diventiamo giocatori, scienziati, sognatori.

I problemi psicologici cronici nascono dalla previsione che a fronte di questi nostri umani, ineludibili desideri, gli altri risponderanno in modo insoddisfacente. Vogliamo essere apprezzati: ci svaluteranno. Abbiamo bisogno di affetto: levati di torno. Vogliamo esplorare il mondo: fermo lì, resta nel tuo seminato, rispetta gli anziani. Speriamo di sentirci parte di una comunità: non sei dei nostri. In tutti questi casi, se manca la speranza in un destino diverso, la sofferenza è inevitabile.

La terapia che ne consegue parte da quest’idea semplice: il desiderio che hai è sensato, non ti posso promettere che si avveri, ma possiamo riaccendere la speranza.

 

Leggi anche:

L’Alleanza Terapeutica secondo la Prospettiva Cognitivo-Evoluzionista di Liotti e Monticelli

Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

Le nuove epidemie di morbillo in Europa – Infografica

Emergenza Morbillo - Epidemie Morbillo Europa - INFOGRAFICA - Stampaprint

È possibile nel 2018 parlare di un’emergenza morbillo nel bel mezzo dell’Europa? Pare proprio di sì, stando ai dati pubblicati nelle scorse settimane dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità. L’Ente internazionale, di fatto la massima autorità in materia, fotografa una situazione preoccupante: in un solo anno i casi di morbillo nel Vecchio Continente sono cresciuti del 400%, e ad aumentare è anche il numero delle vittime causate dalla malattia infettiva.

Basti aggiungere che ben 15 Paesi su 53 appartenenti alla regione europea hanno fatto registrare delle epidemie con più di cento casi. La situazione, insomma, appare tutt’altro che sotto controllo. L’infografica realizzata da Stampaprint Srl illustra tutti i dati riferiti a questo nuovo focolaio, ma non solo: l’Oms indica anche le probabili cause di quello che possiamo senza dubbio definire un inatteso e non gradito ritorno.

Adolescenti violenti contro i genitori: le cause e i possibili trattamenti terapeutici

L’ aggressività contro i genitori è diventata oggetto di interesse nel mondo accademico solo recentemente, rispetto ad altre forme di violenza privata; è importante capire le motivazioni che spingono a esibire comportamenti aggressivi contro i coetanei e i genitori e a diventare degli adolescenti violenti, e quali sono gli interventi più efficaci per prevenire e trattare questo tipo di problema.

 

I conflitti tra figli e genitori sono molto comuni nell’ adolescenza e le cause sono da ricondurre al risveglio di nuovi bisogni fisiologici e psicologici quali il desiderio di autonomia, l’eccitazione motoria ed un particolare interesse per l’immagine del proprio corpo.

L’ aggressività contro i genitori è stata attribuita anche a fattori di natura sistemica come le modalità comunicative disfunzionali in famiglia, l’aver assistito a episodi di violenza tra genitori, l’inadeguata canalizzazione di emozioni negative come la rabbia. Alcuni studiosi (Margolin, Baucom 2014) hanno tuttavia dimostrato che i comportamenti violenti degli adolescenti contro i propri genitori sono più diffusi tra i soggetti affetti da disturbi della condotta e da disturbi di personalità piuttosto che negli individui con sviluppo nella norma.

E’ stato dimostrato che in seguito a profonde influenze genitoriali negative, i bambini e gli adolescenti possono sviluppare dei disturbi nella sfera emotiva, come una scarsa regolazione delle emozioni, impulsività, scarica motoria della rabbia e della frustrazione (acting-out). Problemi nella sfera affettiva possono portare ad una bassa tolleranza allo stress con conseguenti reazioni disfunzionali in caso di litigi e conflitti.

Adolescenti violenti: quali i fattori di rischio?

Tra i fattori di rischio più comuni che influenzano lo sviluppo di comportamenti violenti nell’adolescenza e che rendono gli adolescenti violenti nei confronti dei genitori e non solo, ritroviamo:

  • educazione basata sulle punizioni corporee, sensi di colpa, denigrazione, derisione ed esasperata coercizione
  • frequenti litigi tra i genitori, soprattutto se violenti
  • violenza assistita
  • disregolazione emozionale (a partire dalla relazione diadica madre-figlio)
  • basso status socio-economico della famiglia
  • vulnerabilità (predisposizione all’affettività negativa, tratti temperamentali)
  • disturbi della condotta presenti durante l’infanzia
  • sesso (i maschi hanno una tendenza maggiore a sviluppare disturbi esternalizzanti rispetto alle femmine)
  • l’appartenenza a bande criminali
  • complesso edipico non superato
  • crescere senza genitori o con un genitore la cui autorità non è riconosciuta
  • difficoltà a inibire gli impulsi

Secondo alcuni studi longitudinali, nessuno di questi fattori di rischio preso singolarmente è responsabile dello sviluppo di comportamenti violenti, quanto una loro combinazione. L’individuazione precoce di alcuni tra questi fattori di rischio (ad esempio nell’infanzia o nella pre-adolescenza), può essere utile nel proteggere gli adolescenti dallo sviluppo di un disturbo antisociale di personalità.

Adolescenti violenti: dall’ acting-out ai casi estremi di omicidi intrafamiliari

Gli adolescenti tendono a comunicare i loro bisogni e le loro emozioni, così come i conflitti più profondi, principalmente attraverso l’azione. L’ acting-out infatti è uno dei meccanismi di difesa più utilizzati dai soggetti con disturbi esternalizzanti (l’ acting-out, per definizione, non è patologico, a meno che non rechi danno a sé e al prossimo- per approfondimenti sul tema dell’ acting-out si veda Lingiardi, Madeddu 2002). Anche nei casi di disturbi del comportamento come i Disturbi del Comportamento Alimentare o l’abuso di sostanze siamo in presenza di una prevalenza di acting-out, a testimonianza di un fallimento nel processo di mentalizzazione. Il proprio corpo diventa centrale nella mente dell’adolescente: colpito, graffiato, svuotato, amato e odiato, funge da mezzo di comunicazione e testimone di dolore e sofferenza interiori. Le azioni violente sul proprio corpo e sul corpo altrui portano con sé il significato della vendetta e della punizione come risultato di rabbia repressa e narcisismo ferito (Maggiolini 2014).

In tutto questo, centrale è anche il risveglio del Complesso Edipico quale configurazione primaria del sistema figlio-madre-padre già sperimentato nella primissima infanzia. Nel periodo edipico si assiste ad una rivalità e competizione con il genitore dello stesso sesso (complesso di Elettra per le femmine) ed un desiderio erotico (inconscio) nei confronti del genitore di sesso opposto. Per quanto la dinamica relazionale sottostante la configurazione edipica sia in larga parte inconscia, assume un ruolo importante nella conflittualità esasperata tra genitori e figli adolescenti.

In casi più estremi, ma fortunatamente isolati, la violenza contro i genitori può trasformarsi in omicidio, come gesto disperato di affrancamento dalla morsa di un genitore vessatorio o opprimente. Lo psichiatra italiano Vittorino Andreoli, studiando casi di adolescenti violenti e omicidi intrafamiliari, ha evidenziato che il più delle volte

La relazione con il genitore è chiaramente di natura nevrotica, basata su un legame di dipendenza in gran parte inconscia, che rende la presenza dell’altro necessaria e condizionante […] vi sono odio e amore, una relazione dalla quale non si può scappare perché il nodo non è logico-razionale ma radicato nel profondo della psiche. Diventa impossibile cancellare l’altro, la cui presenza è forte come un magnete, non lo si può eludere, lo si può solo uccidere (2002, p.24).

L’uccisione di cui parla Andreoli può essere intesa anche come eliminazione simbolica del genitore percepito come opprimente e invalidante, agendo sul suo corpo con violenza e brutalità.

Tra le motivazioni più profonde della ribellione violenta contro i genitori vi è un disperato bisogno di libertà: gli adolescenti non sopportano le restrizioni e le imposizioni dei genitori che sono sentiti come ostili ed egodistonici (dall’immagine di sé, dalle proprie emozioni e dai propri bisogni). Vergogna, umiliazione, psicopatologia, inadeguatezza genitoriale sono quindi elementi di cui tenere conto quando si cerca di comprendere le ragioni del comportamento degli adolescenti violenti.

Alcuni studi scientifici suggeriscono che gli adolescenti non sono in grado, quanto gli adulti, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e di calcolare il rischio. Queste caratteristiche possono essere di natura temperamentale (impulsività, ricerca di sensazioni, scarsa abilità decisionale). Inoltre i soggetti con ipofunzionalità della corteccia prefrontale esibiscono una marcata disinibizione comportamentale (Gennaro, Scagliarini 2007).

Il ruolo della comunicazione famigliare nello sviluppo di condotte violente

Secondo alcune teorie sulla comunicazione (Watzlawick, Jackson 1971; Laing 2002), gli adolescenti violenti e arrabbiati presentano delle difficoltà nel comunicare pensieri ed emozioni ai propri genitori: le famiglie disfunzionali utilizzano modalità interattive “patologiche” come i silenzi, espressioni ambigue, sguardi sfuggenti, incoerenza tra ciò che viene detto e ciò che viene mostrato. In gran parte dei casi, ciò che emerge da un’analisi approfondita delle dinamiche relazionali disfunzionali appartiene al registro dell’implicito, del non-detto, causando nella mente del figlio fantasmi di distruzione. La comunicazione patologica può influenzare i soggetti con predisposizione all’affettività negativa.

Adolescenti violenti contro i genitori: cosa si può fare?

Comprendere le ragioni che spingono gli adolescenti a diventare adolescenti violenti e a commettere azioni criminali è rilevante ai fini della pianificazione di strategie di prevenzione e trattamento. La prevenzione è un beneficio sia per il soggetto autore di violenze sia per la società (Huntley et al. 2017).

Come spiegato in precedenza, lo sviluppo del comportamento violento affonda le radici nelle dinamiche familiari disfunzionali e in fattori come disturbi di personalità, storie di abusi, impulsività, difficoltà nel regolare le emozioni, nella vulnerabilità biologica e in sistemi di attaccamento inadeguati.

L’intervento precoce può essere la chiave: inizialmente i figli possono evitare di parlare degli abusi dei genitori  perché non li vogliono tradire, per proteggere il senso di lealtà che tiene unita la famiglia (Onnis 2013). Tuttavia, incoraggiare i ragazzi (ma anche i genitori) a chiedere aiuto ai professionisti della salute mentale può rinforzare le azioni preventive e impedire l’esacerbazione della conflittualità intrafamiliare.

Tra gli interventi terapeutici più efficaci vi sono quello sistemico-familiare e il colloquio motivazionale. Lo scopo del primo approccio è quello di incoraggiare sia i figli che i genitori ad adottare modalità interattive prosociali basate sull’ascolto reciproco e sull’espressività emozionale, sull’accettazione e la comprensione dei rispettivi punti di vista. Il secondo, è uno strumento molto efficace che ha come scopo quello di promuovere nell’ adolescente uno stile di vita più salutare facendo leva sulle sue risorse interiori, capacità e abilità sia cognitive che emozionali. Il giovane viene stimolato a riflettere sulle proprie scelte e azioni, a immaginare comportamenti alternativi più funzionali al suo benessere e a quello altrui, attraverso feedback personali e l’implementazione di piani di cambiamento sotto la guida dell’operatore. Il colloquio motivazionale raggiunge risultati migliori quando viene coinvolta anche la famiglia.

Mancanza di coordinazione tra aree cerebrali? Possibile causa di disturbi dell’attenzione

I disturbi da deficit dell’attenzione potrebbero derivare da una compromissione della coordinazione tra alcune aree cerebrali.

 

I ricercatori del Case Western Reserve University School of Medicine, hanno scoperto che due regioni del cervello, la corteccia prefrontale e l’ippocampo, lavorano normalmente insieme per mantenere l’ attenzione. Contrariamente, la mancanza di sincronizzazione tra queste regioni cerebrali può portare a disturbi seri, tra cui il disturbo dell’attenzione , il disturbo bipolare e la depressione maggiore.

Le persone con deficit dell’attenzione hanno difficoltà a focalizzare e spesso mostrano comportamenti compulsivi.

Il nuovo studio suggerisce che questi sintomi potrebbero essere dovuti ad una disfunzione del gene ErbB4. L’attività di questo gene è già stata correlata, in ricerche precedenti, a diversi disturbi psichiatrici ma ora, secondo questo nuovo studio, si afferma che il gene ErbB4 sia necessario alla coordinazione di una cascata di segnali cerebrali indispensabili per sincronizzare la corteccia prefrontale e l’ippocampo.

Lo studio pubblicato su Neuron è stato condotto su topi ed ha coinvolto i processi di attenzione selettiva top-down. L’ attenzione può essere o “bottom-up” (dal basso verso l’alto), e si verifica quando alcuni input ambientali ci catturano indipendentemente dalla volontà, o al contrario “top-down” (dall’alto verso il basso), quando utilizziamo la capacità di selezionare determinati stimoli per un probabile vantaggio o premio.

L’ attenzione top-down è orientata quindi al raggiungimento dell’obiettivo e collegata alla messa a fuoco: le persone che non dispongono di un’ attenzione top-down efficiente sono ad alto rischio per il disturbo da deficit dell’ attenzione.

 

 

Assassine – Storie di (stra)ordinaria normalità (2017) di A. Ganci – Recensione del libro

Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità è un volume molto interessante sull’omicidio perpetrato dalle donne; lo confronta con quello maschile ed indaga la psicologia della parte più nera dell’animo umano.

 

Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità è un testo che attraversa la storia di donne comuni, che giungono alla violenza estrema.

L’ autrice, cercando di analizzare la logica della mente criminale di queste assassine, attraverso la lente delle più recenti teorie criminologiche, ne analizza anche le ipotetiche cause scatenanti e le conseguenti vicende giudiziarie.

Assassine: le più famose donne serial killer

 Angela Ganci offre al lettore un’opportuna premessa sulla “banalità del male”: descrive le teorie sociologiche della criminalità femminile, partendo da quelle classiche e più datate, passando attraverso l’evoluzione storica del femminismo, per arrivare agli sviluppi attuali delle teorie di genere. Successivamente il testo si occupa prettamente di serial killer, cercando inizialmente di spiegarne il significato in senso generale; poi ne confronta le somiglianze e le differenze di genere. L’autrice descrive poi una classificazione delle donne serial killer, presentando per ciascuna di esse un caso di cronaca di riferimento, analizzandone nel dettaglio la storia: la vedova nera (il caso Belle Guinness), l’angelo della morte (gli orrori di Saronno), le assassine mentalmente disturbate (il caso Leonarda Cianciulli) ed infine le coppie assassine (il caso dei coniugi West).

La violenza in famiglia

La seconda parte del testo Assassine – Storie di (stra) ordinaria normalità si riferisce alla violenza attraverso l’analisi degli eventi formativi tenuti dallo studio di Psicoterapia e mediazione familiare dell’autrice, cercando di evidenziare che “il tema della violenza intrafamiliare diviene causa della vittimizzazione o del comportamento abusante messo in atto del vittimizzato.”

Numerosi gli argomenti dei seminari presentati nel testo che fanno riferimento al tema della violenza a danno dell’infanzia: l’autrice evidenzia il ruolo degli abusi fisici, psicologici e/o sessuali sul minore in termini di conseguenze a breve-lungo termine sulla sfera cognitiva, affettiva e dell’identità. Il tema all’abuso sui minori, si focalizza anche sulle misure giuridiche a difesa dell’infanzia violata e nell’ottica del diritto a una famiglia che possa assolvere alle sue funzioni curative. Interessanti anche i seminari dedicati alla violenza tra pari, al bullismo e al cyberbullismo, e agli attualissimi aspetti della psicologia dell’immigrazione.

Il contratto terapeutico

Parlo coi pazienti, supervisiono molti giovani colleghi, discuto casi durante le lezioni. L’esperienza è sempre la stessa, nessuno, davvero nessuno degli allievi o dei giovani colleghi mette in pratica una cosa: la formulazione e il continuo rinnovo del contratto terapeutico.

 

Giancarlo, la terapia va male, il paziente non risponde, non so più che fare. Gli ho spiegato che dovrebbe attivarsi, affrontare il sintomo attivamente, parlare diversamente con la moglie, il marito, il collega, ma niente, non fa niente.

Dopo questo discorso le reazioni del terapeuta sono spesso: scoraggiamento e impotenza, insieme all’idea di essere scarso. Irritazione verso il paziente. Facilmente: oscilla tra le due. E nessuna delle due è particolarmente benefica per il trattamento.

Mi chiedo sempre: il concetto di alleanza terapeutica, merita di essere ignorato così? È così ingiusto che un concetto così bello, utile, commovente nella sua semplicità, resti inosservato? Eppure è così: i terapeuti lo dimenticano.

L’ alleanza terapeutica ha tre componenti. Il bond, il legame. Che traduco come: passare un’ora in questa stanza insieme non è poi così male. E qui i terapeuti spesso ci arrivano. Poi c’è il goal, la meta, l’obiettivo. E qui i terapeuti ci devono arrivare. Il paziente entra in terapia e si definisce, si spera in modo congiunto, paritetico, collaborativo, dove si vorrebbe andare a parare. Varie declinazioni specifiche del concetto di ‘stare meglio’.

E infine casca l’asino. La terza componente. Se la scordano tutti. Eppure dovrebbe definire la terapia cognitiva. Ma se la scordano tutti. Il task, il compito. Lei vuole andare lì, siamo d’accordo, e per farlo sarà necessario che io faccia questo e lei faccia, tra una seduta e l’altra, quello. Ok? Stretta di mano?

La mano, i terapeuti di solito non la stringono. E la pagano cara questa mancata stretta.

Che significa? Che i terapeuti, giovani e meno giovani, esperti e meno esperti, cognitivisti e meno cognitivisti o non pensano proprio che la cura passa attraverso l’esecuzione degli homework, oppure lo sanno – fiuuu, meno male – ma pensano di dovere convincere il paziente a farli.

Una delle cose che trovo meno facili da tollerare nei colleghi è quando vogliono convincere i pazienti di qualcosa: insistono, pressano, spiegano, alzano la voce, rimproverano spesso con grande soddisfazione: ‘Eh, sapessi, ma io gliel’ho detto al paziente, sai? E sì, proprio non vuole capire, ma gliene ho cantate quattro’. Come canzone quasi quasi preferisco Anna Tatangelo.

No. La strada per la cura è un’altra. Il terapeuta crea il legame. Fatto? Definisce la meta. Fatto? E spiega al paziente che per raggiungere la meta bisognerà seguire una certa strada. Se quella strada non la vuole percorrere se ne può provare un’altra. Poi una terza. La quarta di solito non c’è o almeno io, come terapeuta, non la conosco.

Ecco, questo è il momento di formulare il contratto. Il terapeuta non deve spingere il paziente su quella strada, saggia, foriera di futuro e speranza, colma di salute, benessere e felicità. Il terapeuta la deve prefigurare quella strada, disegnarla nell’aria con ipnotici movimenti delle dita, evocarla, tracciarla su carta nel caso. E poi il contratto: ‘Senta, lei se la sente di fare questo viaggio al fine di arrivare a quell’approdo?’.

Il terapeuta bravo, a questo punto, fa una cosa strana. Respira. A lungo, profondamente, quasi un respiro mindful.

Respira. A lungo. E poi. Aspetta.

Il concetto chiave del contratto terapeutico è che il terapeuta aspetta. Spiega al paziente lo spiegabile, definisce il definibile. Ma poi chiede: ‘Questi passi le va di compierli? Se la sente? Ne è convinto?’. Alla fine, fatta la domanda.

Aspetta. Bravi, quello.

Adesso la terapia entra in uno stato di sospensione, un’attesa infinita dell’istante successivo. Il momento prima del calcio di rigore, dopo che il calciatore ha piazzato la palla sul dischetto, prima di tirare. Il pubblico trattiene il fiato. Il terapeuta trattiene il fiato.

Trattiene il fiato significa disciplina interiore, ovvero il terapeuta regola le sue tendenze a preoccuparsi, irritarsi, agire per essere efficace.

La terapia esce dallo stato di sospensione quando e solo quando il paziente dice: ‘Sì, lo voglio’. Ok, non è proprio come il matrimonio, ma il concetto è simile, se non dici sì a voce alta non risulti sposato.

I terapeuti saltano a piè pari tutta questa fase di attesa e di ascolto del sì definitivo del paziente. E quindi penano di fronte a pazienti passivi, confusi, oppositivi, sfidanti. Invece la soluzione è semplice: si tratta di scrivere e riscrivere continuamente il contratto.

Attenzione: il contratto non è quella cosa che si scrive, magari firmata col sangue, all’inizio del trattamento. Esattamente allo stesso modo dell’ alleanza, che va continuamente riparata dopo che si è rotta, il contratto va continuamente aggiornato dopo essere stato scritto e firmato. La terapia si evolve, cambiano le mete, cambiano i compiti e quindi si ridefinisce l’accordo.

Una mia giovane collega mi porta in supervisione un caso di una donna che entra in terapia con sintomi d’ansia. I sintomi in un certo grado migliorano con un insieme di affrontamento delle situazioni temute e tecniche per la riduzione del rimuginio. Lo scenario diventa quello di un problema interpersonale. La donna descrive il marito come distante, strafottente, verbalmente aggressivo e sprezzante. Ha due figlie piccole di cui fatica a occuparsi. Vorrebbe separarsi ma ha timore che se lo facesse sarebbe solo per dare ragione alla madre che pressa affinché lei lasci un uomo tanto orribile. Allo stesso tempo se non lo lascia si sente infelice. È in uno stato di paralisi, di scontentezza cronica. La terapeuta cerca di ricostruire gli schemi interpersonali maladattivi e con un po’ di fatica ci riesce. Lo scopo desiderato è quello di autonomia/esplorazione. Se si muove nella direzione di un desiderio proprio descrive l’altro come critico, sprezzante, punitivo e che l’abbandona. A quel punto risponde sentendosi inetta, incapace o abbandonata. Si attiva l’attaccamento e si sottomette per evitare l’abbandono. Ritorna a quel punto infelice e desiderosa di autonomia. Non esce dal circolo vizioso di mantenimento.

Passano alcuni mesi e la paziente non fa nessun passo. La terapeuta si dibatte, si preoccupa, si irrita, si accusa: “Perché la paziente non si muove, dove sto sbagliando? Però mi fa pure incazzare”.

Le dico: “Hai chiesto alla paziente qual è l’assetto desiderato? E soprattutto, come parte dei vostri accordi, quali azioni è disposta a fare per raggiungerlo”. “No”. “Prova”.

Lo fa. Glielo chiede. La paziente risponde. La terapeuta è sorpresa dalla risposta che ascolta: “Vede, è come se vivessi in una gabbia dorata. Avere il sostegno economico di mio marito e la presenza di mia madre è comodo e io non so se voglio rinunciare a questa comodità”.

Svelato l’arcano. La terapeuta voleva guarire la paziente, ma la paziente non le stava dando strumenti. Non aveva deciso di volere andare verso la metà.

La terapia è cambiata. La terapeuta si è rasserenata. E ha fatto la domanda più semplice del mondo. Una domanda fatta all’interno di uno stato relazionale di assoluta presenza, non una minaccia, un aut-aut. Sono qui, le resto e le resterò vicino, ma le chiedo: “Benissimo, mi rendo conto che la gabbia dorata può essere confortevole. Lo capisco, l’ho sperimentata anche io. Però se non vuole lasciarla, in terapia cosa possiamo fare? Che strumenti mi dà perché io possa condurla verso il benessere”.

Se i pazienti ascoltano quella domanda iniziano per la prima volta a pensare.

Gravidanza e infiammazione: quali conseguenze potrebbero esserci nei bambini?

L’infiammazione è una normale della risposta del corpo alle infezioni, allo stress cronico o all’obesità. Nelle donne in gravidanza, si ritiene che un’accentuata infiammazione aumenti il rischio di malattie mentali o problemi di sviluppo del cervello nei bambini. Quali? In che misura?

Lucia Marangia

 

Uno studio condotto dai ricercatori dell’OHSU di Portland, in Oregon, ha stabilito un legame tra l’infiammazione nelle donne in gravidanza e il modo in cui il cervello del neonato è organizzato in reti.

I risultati dello studio, pubblicati su Nature Neuroscience, potrebbero fornire strade promettenti per esplorare trattamenti potenzialmente in grado di modificare questi impatti negativi sulla funzione cerebrale neonatale.

Il gruppo di ricerca ha raccolto campioni di sangue da 84 donne a ogni trimestre di gravidanza, misurando i livelli di interleuchina, 6 (IL-6), un marker d’infiammazione, già noto per la sua influenza nello sviluppo del cervello del feto.

Quattro mesi dopo la nascita, hanno valutato il grado di imaging a risonanza magnetica funzionale. Hanno infine misurato le prestazioni della memoria di lavoro dei piccoli all’età di due anni, un fattore predittivo per la successiva riuscita negli studi e dell’eventuale presenza di disturbi mentali.

Gravidanza e infiammazioni: i risultati dello studio

I dati ricavati mostrano che le differenze nei marker d’infiammazione nelle madri erano direttamente associate a differenze nelle vie di comunicazione cerebrale appena formate, cosi come alla successiva memoria di lavoro a due anni di età. In particolare, i livelli d’infiammazione più alti della madre durante la gravidanza sono risultati correlati negativamente con la capacità di memoria dei bambini.

[blockquote style=”1″]È importante sottolineare che il risultato non significa che ogni esposizione all’infiammazione possa avere un impatto negativo sul bambino, tuttavia questi risultati offrono nuove possibilità di ricerca e possono aiutare gli operatori sanitari a pensare a come e quando l’infiammazione potrebbe avere un impatto sullo sviluppo dell’apprendimento a lungo termine del bambino e sulla salute mentale [/blockquote]

ha spiegato Alice Graham, coautrice dello studio. Un altro aspetto notevole dello studio, è lo sviluppo di un modello previsionale:

[blockquote style=”1″]Ora, disponiamo di un approccio basato anche sulla tecnica d’intelligenza artificiale noto come apprendimento automatico, che sulla base delle scansioni di risonanza magnetica funzionale, permette di risalire a livelli complessivi d’infiammazione durante la gravidanza[/blockquote]

ha aggiunto la ricercatrice. Inoltre

[blockquote style=”1″]Questa comprensione fornisce alcune informazioni sulle future prestazioni di memoria dei bambini, consentendo un precoce intervento clinico, se necessario[/blockquote] .

In futuro, gli autori intendono approfondire in che modo fattori presenti prima e dopo la nascita, come la società e l’ambiente, possono interagire per influenzare la funzione cognitiva nei bambini.

[blockquote style=”1″]Lo stress aumentato e la cattiva alimentazione sono considerati normali secondo gli standard odierni, ma influiscono notevolmente sui tassi di infiammazione in tutti gli esseri umani, non solo nelle mamme in attesa. Dobbiamo anche capire quali fattori portano a un più elevato livello d’infiammazione, e predisporre terapie mirate per ridurre i tassi d’infiammazione e l’impatto complessivo sul cervello in via di sviluppo[/blockquote]

ha concluso Graham.

 

Stress e performance atletica (2017) – Recensione del libro di Cesare Picco

Nel libro Stress & Performance Atletica, Cesare Picco affronta il tema delle relazioni tra lo stress e le prestazioni sportive dipingendo un quadro ben più complesso rispetto a quello basato solamente sulle informazioni riferite alle medie della popolazione.

 

Cesare Picco, infatti, parte dal presupposto che esistano le eccezioni alle regole, eccezioni rappresentate da atleti e sportivi il cui funzionamento non coincide con quello delineato dalle teorie formulate finora. L’autore, attraverso i cinque capitoli che compongono il libro Stress & Performance Atletica, accompagna il lettore nel mondo dello stress, dapprima introducendolo al concetto con riferimenti alle dottrine classiche, per poi entrare nella fitta rete di relazioni tra stress e performance atletiche.

Cos’ è lo stress?

Nel primo capitolo l’autore Cesare Picco presenta lo stress come un processo di adattamento ad un qualsiasi cambiamento, che deriva sia da un eccesso sia da una mancanza di stimolazione rispetto ad un livello ottimale. Per approfondire il tema, l’autore riporta nel dettaglio la Sindrome Generale di Adattamento, spiegando le fasi che attraversa il nostro organismo nel momento in cui reagisce a uno stress: la fase di allarme, suddivisa nelle sottofasi Shock e Contro-Shock; la fase di resistenza e la fase di esaurimento. Per ognuna di queste, sono indicate le variazioni che avvengono a livello corporeo ed endocrino. È poi esposta la sintomatologia legata allo stress, nei livelli fisico, comportamentale e psicologico. Cesare Picco si mostra attento a non lasciare nulla al caso, dedicando spazio anche a quella che definisce l’altra faccia della medaglia dello stress, ovvero la resilienza, spiegandone le varie componenti e i collegamenti con determinate caratteristiche di personalità. Si continua affrontando l’esperienza di flow, uno stato di immersione nell’attività in cui si raggiunge la prestazione ottimale.

È interessante notare come le spiegazioni in Stress & Performance Atletica siano chiarificate da numerosi esempi e riferimenti alla pratica atletica, che rendono molto più comprensibili i significati descritti.

Stress & Performance Atletica: come agisce lo stress sulle prestazioni sportive?

Nel secondo capitolo di Stress & Performance Atletica si inizia a collegare lo stress alle performance atletiche, partendo dalla rappresentazione della legge di Yerkes e Dodson, che mette in relazione il livello di stress provato con la bontà della performance, spiegando come le prestazioni migliori avvengano all’interno di una fascia intermedia di attivazione (eustress). È qui che Cesare Picco introduce le conoscenze derivanti dalla sua esperienza, spiegando come questa curva stress-performance non valga per tutti gli atleti. L’autore propone quindi cinque differenti curve, definite utilizzando nomi di motori: Motore a benzina, Motore a diesel, Motore a gas, Motore misto di tipo A, Motore misto di tipo B. Esplicitare al meglio e nel dettaglio l’ associazione tra stress e performance è basilare affinché ogni atleta possa identificare il proprio livello ottimale di attivazione, compresi coloro che si discostano dal funzionamento della maggioranza della popolazione. Sono ipotizzate cinque curve normali, non più una, nelle quali rientrano percentuali diverse di casi. Avere consapevolezza della posizione che si occupa nella propria curva in un determinato momento, continua l’autore, consente di mettere in atto strategie di ipo- o iper-attivazione che permettano uno spostamento verso la personale fascia ottimale di stress, massimizzando le possibilità di performance positive.

Anche qui si nota l’attenzione posta da Cesare Picco nel cercare di fornire una visione completa dell’argomento che comprenda anche gli aspetti negativi, ad esempio con la descrizione della sindrome del burn-out sportivo, illustrato nelle varie componenti, e dell’overtraining, il sovrallenamento, di cui si riportano i principali sintomi. In Stress & Performance Atletica, Cesare Picco accenna anche alle relazioni tra stress e altri fattori costituenti la vita di un atleta, come gli infortuni e l’ alimentazione.

Cosa sono le curve stress-performance?

Il terzo capitolo di Stress & Performance Atletica è dedicato all’esposizione vera e propria delle curve stress-performance menzionate precedentemente. Per ognuna di queste tipologie atletiche vengono riportate le principali caratteristiche, la fenomenologia corrispondente ai diversi livelli della risposta allo stress, secondo il modello della Sindrome Generale di Adattamento, e le indicazioni su come si concretizzino tali specificità nelle fasi dell’attività atletica, cioè allenamento/preparazione, pre-gara, gara e recupero. Vale la pena spendere due parole sulle diverse curve.

  • Il Motore a benzina rimanda alla condizione più diffusa tra gli atleti. Questi sono caratterizzati da una reazione psico-fisica allo stimolo veloce ma non immediata e da una resistenza di durata medio-lunga, che viene terminata dal soggetto prima che lo stress raggiunga picchi elevati, per permettere un buon recupero. Un soggetto di questa categoria è definito “All-Around Player”, un atleta che riesce ad essere performante in una molteplicità di situazioni e contesti e a livelli competitivi differenti. D’altro canto, lo svantaggio è proprio la difficoltà nel trovare quella specificità in grado di farlo emergere davvero.
  • L’atleta con il Motore a gas mostra un funzionamento migliore e una migliore prestatività quando scarsamente sollecitato. Il basso livello di stress deve però essere presente sia a livello sportivo sia extra-sportivo. È caratterizzato da una risposta immediata al cambiamento, che avviene cioè a bassi livelli di attivazione, e passa velocemente alla fase di resistenza e a quella di esaurimento, rendendolo poco efficace in situazioni che richiedono un impegno duraturo e nei momenti decisivi di alto stress. Le capacità dell’atleta sono inficiate negativamente da livelli di stress anche bassi.
  • Il Motore a diesel è caratterizzato da prestazioni buone sulla lunga durata e se stimolato abbondantemente. La risposta allo stress è tendenzialmente lunga, seguita da una fase di resistenza anch’essa prolungata che permette di gestire una grande mole stressogena o stress molto intensi e che si esaurisce, invece, con un repentino tracollo, seguito spesso da una sintomatologia fisica invalidante. La performance migliora all’aumentare dello stress ma, nel momento del decadimento, raggiunge livelli decisamente inferiori alle proprie capacità, generando effetti controproducenti per sé o per la squadra. Il grande vantaggio di riuscire ad essere molto efficienti in presenza di stress elevati si accompagna al rischio di incappare nella troppa attivazione che comporta la caduta libera delle proprie abilità.
  • Gli atleti con Motore misto A e B presentano prestazioni positive in due momenti, ai livelli di stress medio-basso e medio-alto, e prestazioni inferiori con attivazioni basse, medie e alte. Il primo tipo ha una partenza molto buona, cui segue un calo nella fase centrale dell’attività, per poi tornare a crescere sul finale, senza però riuscire più a raggiungere la qualità della prova iniziale. Il Motore misto B ha un andamento sovrapponibile che si differenzia solo per il fatto che la performance migliore si posiziona al secondo picco di performance positiva, ovvero a livelli medio-alti di stress, in modo speculare al tipo A.

Stress & Performance Atletica: il ruolo delle caratteristiche di personalità

Cesare Picco allarga il suo lavoro indagando alcune caratteristiche di personalità coinvolte nella percezione e nella gestione dello stress. Di esse sono descritte le varie proprietà e ne vengono spiegate le relazioni con e le influenze sulla prestazione. Di seguito è riportato un elenco delle componenti prese in esame:

  • autoefficacia: un atleta che ha fiducia nelle proprie capacità e si sente in grado di affrontare le sfide, percepirà meno stressanti gli eventi, si mobiliterà più facilmente e metterà in pratica soluzioni più efficaci;
  • ansia di tratto: la predisposizione a reagire in modo ansioso anche in situazioni poco attivanti;
  • vigoria psicologica: è composta da Commitment, la capacità di provare piacere in ciò che si fa, da Control, un approccio attivo alle situazioni stressanti, e da Challange, la considerazione dei cambiamenti e delle difficoltà come sfide positive;
  • locus of control: la personale interpretazione delle cause degli eventi, dei successi e degli insuccessi, come dipendenti da sé stessi o da fattori esterni;
  • comportamento di tipo A e B: in generale, le personalità A vivono stati affettivi e mettono in atto comportamenti volti a raggiungere nuovi obiettivi nel minor tempo possibile, mentre le personalità B affrontano la vita con tranquillità e meno ambizione;
  • sensation seeking: i “ricercatori di sensazioni” sono individui che necessitano di sperimentare un livello decisamente elevato di sensazioni e di emozioni;
  • alessitimia: una caratterizzazione cognitiva contraddistinta da una preponderanza di pensiero concreto/operatorio, a discapito della sfera emozionale, ideativa e onirica, dalla povertà nei rapporti sociali, da una rigidità posturale, da un’attenzione marcata a sintomi fisici specifici, da una difficoltà a leggere i propri e gli altrui sentimenti, da scarsa capacità introspettiva;
  • perfezionismo: tendenza a cercare standard elevati di prestazione, che può essere considerata un fattore predisponente al successo sportivo, ma che può anche sfociare in eccessiva autocritica e in uno stile di pensiero ruminativo;
  • ottimismo: una predisposizione che sembra incidere positivamente sulla risposta allo stress, ad esempio contrastando l’emersione di sintomatologia fisica stress-correlata;
  • apertura sociale: la presenza di relazioni significative e di rete sociale è un fattore protettivo nei confronti di eventi stressanti o nei momenti problematici della vita;
  • senso di coerenza: gli atleti con questa caratteristica percepiscono gli eventi della loro vita come comprensibili, gestibili e densi di significato;
  • affettività negativa/nevroticismo: consiste nello sperimentare frequentemente stati mentali interni negativi come insoddisfazione e rabbia;
  • pensiero autotelico: consente di trovare la motivazione nel praticare una determinata attività, per il piacere stesso provato durante lo svolgimento;
  • self-handicapping: strategia che identifica preventivamente i motivi, con causa esterna, per cui si potrebbe incappare in un fallimento;
  • paura di vincere: o Nikefobia, porta l’atleta a comportarsi in modo poco produttivo nei momenti decisivi.

È intuibile come tutte queste particolarità possano incidere sulla percezione e sulla gestione dello stress.

Una marcia in più per vincere

L’ultimo capitolo di Stress & Performance Atletica, infine, sottolinea i risvolti positivi che può avere una considerazione approfondita della relazione stress-performance nell’attività di ogni atleta. Il libro fornisce un ottimo contributo volto a massimizzare le possibilità di miglioramenti e di risultati positivi nell’attività sportiva. Delineare un profilo adeguato dell’atleta, permette di dare un significato alle reazioni manifestate nei diversi momenti costituenti lo sport e di aumentare la conoscenza di se stessi nell’ottica non solo di ottimizzare le prestazioni, ma anche di favorire il proprio benessere psico-fisico.

 

Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici – Report del convegno di Palermo

Obiettivo dell’ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI.

 

Etica, psicologia, medicina, diritto: discipline al servizio dell’umana sofferenza nel momento cruciale in cui essa esita nel passaggio verso l’altro aspetto della vita stessa, la morte, in quanto evento fisiologico, inevitabile, che necessita accompagnamento, supporto professionale, sociale ed emotivo.

Quali allora le competenze comunicative e terapeutiche da mettere in atto nel momento delicatissimo in cui la malattia cronica, terminale, diviene diagnosi clinica e in cui la “scelta” delle cure diviene determinante nel senso alto del “prendersi cura” del malato e dei suoi ultimi giorni? Ancora, quale ruolo concesso all’autonomia decisionale rispetto alla scelta stessa delle cure di fine vita da parte del paziente?

Queste in sintesi gli interrogativi mossi dalla Giornata Nazionale FADOI-ANIMO del fine vita, svoltasi il 7 aprile scorso a Palermo, con il Patrocinio del Ministero della Salute.

Il nostro obiettivo come ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI

commenta Maria Lucia Rita Di Grigoli, Referente Regionale ANIMO per la Sicilia.

Il fine vita: dimensione medica, psicologica e sociale

Il fine vita, inevitabile momento di conclusione del ciclo vitale in cui garantire la qualità della vita e la dignità del paziente, diviene aspetto etico imprescindibile, che si traduce, a livello medico, in adeguata nutrizione, idratazione, igiene del corpo e riduzione del dolore fisico attraverso sedazione e l’utilizzo delle cure palliative, ma anche in ascolto del disagio emotivo, familiare e sociale che ogni paziente porta con sé.

“L’obiettivo di una terapia del fine vita è rendere la vita residua la miglior vita possibile – precisa Roberto Garofalo, Medico Chirurgo, specializzato in Geriatria e Gerontologia e Cure Palliative dell’ASP di Palermo – Ciò implica anche l’evitamento dell’accanimento terapeutico, ovvero la messa in atto di cure inutili o sproporzionate, che causano solo sofferenza, come 15 o 20 compresse al giorno, e l’invito a circondare il malato dei suoi affetti, offrendo altresì assistenza domiciliare. Non esistono regole standard per la terapia, da individuare in base a ogni singolo paziente e il supporto deve coinvolgere la famiglia, il sociale, oltre gli aspetti medici, mettendo in chiaro che la guarigione è solo un’opzione terapeutica e bisogna puntare sulla qualità di vita, a prescindere dalla guarigione”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Fine vita aspetti psicologici etici e giuridici - Report congresso di Palermo IMM1

 

Fine vita aspetti psicologici etici e giuridici - Report congresso di Palermo IMM2

Immagini dal Convegno “Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici”

Comunicare la diagnosi di fine vita

Una qualità della vita che non può prescindere dalla collaborazione del paziente alle cure, garantita da una corretta comunicazione tra medico e paziente e medico e familiari, a partire dal delicato momento della comunicazione della diagnosi infausta.

Se molti familiari sostengono di non dire la verità al paziente perché morirebbe prima dei suoi giorni, la pratica clinica suggerisce invece che una diagnosi che altera drammaticamente la prospettiva di vita, comunicata con empatia, non in maniera brusca e frettolosa, e secondo modalità che infondono speranza, aumenta la collaborazione con il paziente e la qualità della sua vita. D’altronde l’atteggiamento empatico del medico e del paramedico è fondamentale per non far morire il paziente nella disperazione – spiega Valentina Bordino, Psicologo dell’ASP di Agrigento – Per comunicare con empatia la diagnosi è importante essere consapevoli dell’esistenza, nei familiari, di automatismi che li spingono a non voler sapere, corrispondenti alla negazione iniziale del trauma della malattia, secondo un modello a cinque fasi a cui segue la rabbia, la depressione e che auspicabilmente condurrà all’accettazione della malattia, secondo il modello di Elisabeth Ross.

Far accettare la morte al paziente e ai suoi familiari, cercando spazi di collaborazione, significa reinserirla nel ciclo vitale, curando con rispetto fino alla fine, accettando ciò che deve accadere – sottolinea ancora Valentina Vegna, Psicologa Area Emergenza Ospedale Civico di Palermo.

Accettazione e autonomia decisionale del paziente nel fine vita

Sull’accettazione (o meno) dell’inevitabile e delle cure che vi si accompagnano, si gioca tutto il dibattito odierno sul principio dell’autonomia decisionale del paziente.

Esso è legato agli aspetti legali ed etici di un’eventuale decisione di “sospensione delle cure” secondo quanto predisposto dalle modernissime Disposizioni Anticipate di Trattamento, emanate a gennaio del 2018.

Spiega Pietro Virgadamo, Professore Associato Istituzioni di diritto privato LUMSA di Palermo:

Il più noto Testamento biologico predispone che, nella piena capacità di intendere e volere, e in previsione di una malattia cronica che comporti il sopraggiungere dell’incapacità di intendere e volere, si possa esprimere se accettare o rifiutare trattamenti sanitari o accertamenti diagnostici. Molte le note critiche, in relazione al delicato confine concettuale con l’eutanasia, tra cui il ruolo dell’idratazione e della nutrizione artificiali che non è chiaro, dal testo di legge, se si debbano intendere come terapia (quindi da potere rifiutare) o mera sussistenza.

La genitorialità: una visione neuroscientifica

Per la prima volta, gli scienziati hanno analizzato i circuiti cerebrali implicati nella gestione del comportamento genitoriale nei topi.

 

Il team, guidato da Catherine Dulac dell’Howard Hughes Medical Institute, ha scoperto che oltre 20 diverse parti del cervello sono integrate in questo circuito: distinti gruppi di cellule all’interno di un centro di controllo genitoriale innescano i cambiamenti motivazionali, comportamentali e ormonali coinvolti nella cura dei piccoli di animali.

Non è ancora noto se gli esseri umani e altri animali condividano gli stessi circuiti cerebrali inerenti al pattern comportamentale del parenting identificati nei topi, ma i ricercatori sottolineano che altri neuroni, che sono stati identificati come responsabili del controllo di altri comportamenti essenziali nei roditori, esistono anche in altri vertebrati.

Identificare il modo in cui il cervello controlla il circuito neuronale del parenting potrebbe, un giorno, aiutare i ricercatori a escogitare dei modi per aiutare le madri nella creazione di un legame con i propri bambini in caso di depressione postpartum.

Lo studio: premesse e sviluppo

Ciò che ha incuriosito i ricercatori non è solo come i circuiti cerebrali controllano il comportamento genitoriale ma anche la distinzione fondamentale tra maschi e femmine. I topi femmine mostrano comportamenti materni indipendentemente dal fatto che abbiano o meno un cucciolo. I topi maschi, invece, non condividono quello stesso istinto genitoriale, a meno che non si siano accoppiati di recente; il loro comportamento abituale nei confronti dei giovani topi è l’aggressività, ma tre settimane dopo l’accoppiamento – circa il tempo in cui la potenziale prole sarebbe nata – le cose cambiano: “I maschi perdono la loro aggressività verso i cuccioli, e il loro comportamento sembra esattamente quello di una femmina”, sostiene Dulac.

Questi topi passano il loro tempo costruendo nidi, accalcandosi vicino ai cuccioli, pulendoli e tenendoli vicino. Diventano meno interessati a interagire con gli animali adulti e molto più interessati a interagire con i cuccioli. Anche i livelli degli ormoni cambiano.

Diversi anni fa, Dulac e il suo team avevano scoperto un gruppo di neuroni in una parte del cervello nota come area preottica mediale che coordina questi cambiamenti diffusi.

Per lo studio corrente, il team ha tracciato le connessioni da e verso queste cellule di controllo genitoriale, che producono tutte una molecola di segnalazione chiamata galanina. Le loro mappe hanno rivelato che l’hub genitore riceve segnali da 20 diverse regioni del cervello e trasmette le informazioni ad altrettante aree: ogni singolo neurone che produce galanina proietta in una sola di queste regioni cerebrali, suggerendo che sottoinsiemi di cellule controllano funzioni diverse. Per svelare questi ruoli, il team, insieme a Johannes Kohl, un assegnista di ricerca all’interno del laboratorio di Dulac, ha utilizzato strumenti basati sulla luce per manipolare l’attività di diversi insiemi di cellule: un insieme di proiezioni dal centro del controllo del pattern del comportamento genitoriale a una regione all’interno dell’area del cervello mediano premotoria chiamata sostanza grigia periacqueduttale. “Quei neuroni sono dedicati al controllo motorio della genitorialità, dice Dulac. Quando il team ha attivato questi neuroni, i topi hanno aumentato il loro accudimento nei confronti dei cuccioli, anche i maschi, che normalmente non hanno tale istinto. Spegnendo gli stessi neuroni si riduceva la toelettatura dei cuccioli sia nei maschi che nelle femmine.

Un’altra serie di neuroni galaninici invia segnali all’area tegmentale ventrale, una componente chiave del centro di ricompensa del cervello. L’attivazione di quei neuroni aumentava notevolmente la motivazione degli animali a interagire con i cuccioli. Quando il team ha attivato queste cellule, sia i topi maschi che femmine hanno scalato le barriere di plastica poste nella loro gabbia per raggiungere i cuccioli dall’altra parte. Attivare queste cellule non ha tuttavia avuto alcun impatto sul comportamento genitoriale degli animali. Questo è stato più chiaro in esperimenti con topi maschi, che hanno scalato la barriera solo per attaccare i cuccioli.

Il team ha anche mostrato che i neuroni galanici che si proiettano nell’amigdala, una regione a forma di mandorla nota per il suo ruolo nell’elaborazione emotiva, tengono i genitori concentrati sui loro cuccioli: i genitori rimangono concentrati ignorando i segnali sociali di altri adulti.

Inoltre, i segnali delle cellule inviate alla regione dell’ipotalamo, che si occupa della regolarizzazione degli ormoni, modulano gli ormoni legati al parenting: l’ossitocina, la vasopressina, e l’ormone di rilascio della corticotropina, ormone dello stress. Il team non ha riscontrato differenze drammatiche nel cablaggio dei circuiti genitoriali tra maschi e femmine ma continueranno a indagare su ciò che attiva il comportamento genitoriale post-accoppiamento dei maschi.

Conclusioni e sviluppi futuri

È interessante notare che, come dice Dulac, il circuito responsabile del pattern del comportamento genitoriale che il suo team ha scoperto condivide somiglianze organizzative con i neuroni del midollo spinale che controllano il movimento dei muscoli. Entrambi comprendono pool di celle coordinati ma distinti che controllano le funzioni discrete. Resta da vedere se i circuiti che sono alla base di altri comportamenti sociali condividono questa logica.

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