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Fidarsi dei pazienti (2016) di F. Gazzillo – Recensione di Giancarlo Dimaggio

Fidarsi dei pazienti di Francesco Gazzillo è, semplicemente, un libro che i terapeuti devono tenere sul comodino. Leggerlo. Rileggerlo. Impararlo. Applicarlo.

 

Se vogliamo curare i pazienti la nostra formulazione del caso deve essere di un’accuratezza finissima. Per arrivarci abbiamo bisogno di teorie adeguate, grazie alle quali ascolteremo i pazienti e riorganizzeremo il loro discorso in un modo che li farà sentire visti, accettati, capiti e accompagnati verso la salute, la rottura delle catene mentali che vincolano alla sofferenza.

E ci servono libri che ci spieghino il processo relazionale in terapia, quello che accade tra paziente e terapeuta. Libri che ci mostrino, senza oscurantismi, linguaggio iniziatico, idee strampalate, che il modo in cui il clinico si relaziona al paziente ha un impatto potenzialmente utilissimo sul suo funzionamento.

Fidarsi dei pazienti di Francesco Gazzillo è, semplicemente, un libro che i terapeuti devono tenere sul comodino. Leggerlo. Rileggerlo. Impararlo. Applicarlo.

Perché illustra una delle teorie più utili clinicamente che possiate trovare, la Control Mastery Theory. Sviluppata negli anni ’80 dagli psicoanalisti Joseph Weiss e Harold Sampson, ha una capacità ineguagliabile di spiegare la componente relazionale del processo di cura. La concettualizzazione del caso è formulata esattamente come voglio: chiara, affilata e soprattutto alla luce di una psicologia della salute.

Qual è l’idea? Che i pazienti siano motivati da desideri e spinte sani, funzionali, adattivi. Ma che covino una serie di credenze patogene su come gli altri risponderanno alle loro proposte relazionali. A causa di queste risposte reagiscono in una serie di modi: compiacendo, ribellandosi, estremizzando i comportamenti opposti, reprimendo i desideri sani. E a quel punto si fregano la possibilità di realizzare i propri desideri. Si tratta di credenze che i pazienti possono coltivare in piena coscienza, ma più spesso si tratta di automatismi, procedure relazionali inconsce, agite senza consapevolezza.

Più in dettaglio, l’idea è che ogni relazione interpersonale sia una specie di test. Come dice con chiarezza Gazzillo:

In tutto ciò che facciamo nelle nostre relazioni più o meno intime, e dunque anche in terapia, ci può essere almeno una dimensione di test… visto che vogliamo sentirci al sicuro per realizzare i nostri obiettivi e disconfermare le nostre credenze patogene, ogni volta che ci rapportiamo a un’altra persona facciamo tutto questo e stiamo attenti a vedere se e quanto la risposta dell’altro è in linea con i nostri bisogni (p. 34).

La teoria della cura, almeno per quanto riguarda la relazione terapeutica ha la stessa disarmante chiarezza. Il paziente testerà il terapeuta per vedere se quest’ultimo confermerà le sue credenze patogene o agirà disconfermandole e così facendo lo renderà libero di perseguire il suo desiderio sano con sicurezza e libertà. Grazie a questa teoria, e alle tante vignette cliniche che Gazzillo utilizza per illustrarla, il terapeuta, di qualunque orientamento sia, apprende strumenti per ragionare su come comportarsi quando il paziente lo critica, adotta comportamenti a rischio, salta le sedute, chiede un parere. Insomma, fa ragionare in un modo semplice, lucido e sensato sulla relazione di transfert.

Il clinico esce dal libro e ha capito una cosa: che deve essere di parte. Sapere riconoscere qual è il piano sano, adattivo, il desiderio che il paziente persegue. E supportarlo, validarlo, fare capire con le parole e con le azioni che lo sostiene. In questo modo il terapeuta si scolla di dosso le attribuzioni schema-dipendenti che il paziente gli aveva affibbiato e permette al paziente stesso di vivere le relazioni con un senso di curiosità, scoperta e libertà.

Se non sono stato abbastanza chiaro: un volume del genere ha la stessa importanza degli scritti di Safran e Muran sulla relazione terapeutica e sulla rottura e riparazione dell’ alleanza. Ora sono stato abbastanza chiaro.

Qualche nota personale

A metà degli anni ’90 Joseph Weiss tenne un seminario all’Associazione di Psicologia Cognitiva. Erano presenti cognitivisti e psicoanalisti e quel giorno nessuno era interessato alla scuola di appartenenza. Weiss parlava un linguaggio che veniva fuori pari pari da Piani e strutture del comportamento di Miller, Galanter e Pribram. Lui non lo sapeva, i cognitivisti sì. Lì cognitivismo e psicoanalisi andavano a braccetto.

Qualche anno fa presentavo qualcosa, credo sotto l’ala della scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università La Sapienza. Durante il mio intervento parlai di una mia paziente, mi pare di ricordare fosse narcisista. Francesco Gazzillo faceva da discussant. Fece vari interventi. A un certo punto gli chiesi se avesse conosciuto la paziente perché mi stava dicendo cose su di lei che io non avevo detto! Ed erano tutte giuste. Per fare osservazioni come quelle ci vogliono intelligenza e acume clinico. E una teoria solida come la roccia. Intelligenza e acume clinico sono qualità personali. La teoria solida come una roccia era la Control Mastery Theory.

Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi (2017) di C. Jesurum – Recensione del libro

Nel libro Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi, la psicoanalista e psicoterapeuta Costanza Jesurum affronta una questione importante: come orientarsi nel vasto panorama della psicologia, delle psicoterapie e degli orientamenti teorici che le contraddistinguono?

 

Una domanda che caratterizza sia la ricerca di chi per la prima volta si orienta verso un percorso terapeutico, ma che interessa anche chi lo ha già intrapreso e sta sviluppando una curiosità verso il mondo della psicologia e della psicoterapia.

In Dentro e fuori la stanza l’autrice ripercorre alcune delle domande più frequenti dei non addetti ai lavori, rendendo maneggevoli al lettore alcuni aspetti non sempre di facile comprensione, anche in ragione dell’immagine pubblica frammentata che le psicoterapie contribuiscono a creare nel loro essere scarsamente comunicanti e a volte in competizione l’una con l’altra.

Come nasce la figura dello psicologo? Quali differenze si possono riscontrare rispetto ad altre figure sanitarie che si occupano di salute mentale, come ad esempio lo psichiatra? Quali informazioni sarebbe necessario raccogliere rispetto alla formazione del professionista a cui ci si affida? Funziona la psicoterapia? Che cosa permette di raggiungere un cambiamento?

Costanza Jesurum utilizza le evidenze scientifiche sull’efficacia delle psicoterapie per rispondere al dubbio che accompagna fin dalle prime battute l’avvio di un percorso terapeutico e la possibilità di costruire un’alleanza di lavoro produttiva: le diverse ricerche nell’ambito hanno dimostrato che la psicoterapia produce benefici, e la validità terapeutica è rappresentata secondo la sua definizione dalla “possibilità di costruire un orizzonte di senso, con un nuovo vocabolario e una nuova sintassi per parlare della propria vita, e per dare nome alle proprie scelte”.

Dentro e fuori la stanza: cosa chiede lo psicoterapeuta? Perchè?

Affrontate queste incertezze, l’autrice di Dentro e fuori la stanza ci propone un’analisi delle strane richieste che gli psicoterapeuti fanno ai propri pazienti all’inizio e durante il percorso. Sviscera quegli aspetti che più facilmente possono suscitare molte perplessità sia dentro che fuori dalla stanza di cura come la questione del pagamento delle sedute, la definizione della frequenza degli incontri, gli accordi rispetto a quelli saltati, la durata e l’invio di un proprio famigliare.

Sembra così che Costanza Jesurum sia ben riuscita nel suo proposito di fare un po’ di ordine nella confusione di tanti pazienti e di amici e famigliari degli stessi.

[blockquote style=”1″]ho provato a fornire le risposte alle domande che più spesso mi sono state poste, cercando di includere, per quanto mi fosse possibile, anche sguardi teorici e approcci da me più lontani, e nel pensare a queste risposte ho messo insieme cosa possiamo avere in comune noi terapeuti di diverse scuole[/blockquote]

In questo senso, di Dentro e fuori la stanza colpisce quanto, fornendo risposte chiare e mai semplificate, il lettore possa riuscire ad integrare con successo quella visione spesso troppo caleidoscopica della psicologia e delle psicoterapie.

Soldi e matrimonio fanno la felicità? Come lo status economico e civile influenza il benessere psicologico

Soldi, felicità e..matrimonio: è questa la combinazione perfetta? Il benessere psicologico delle persone varia in base allo status economico e civile? Il matrimonio fa bene alla salute?

 

Uno studio condotto in America ha verificato come le coppie sposate che guadagnano meno di 60.000 dollari all’anno a coppia (all’incirca 50.000 euro – tale cifra è da intendersi all’interno del contesto in cui lo studio è avvenuto, ovvero quello americano, in cui, il costo della vita è più alto rispetto a quello del contesto italiano) hanno meno sintomi depressivi rispetto a coloro che non sono sposati e che guadagnano la stessa cifra da soli. Un ulteriore dato emerso dallo studio mostra come le coppie che guadagnano cifre superiori a 60.000 dollari non mostrano lo stesso stato di benessere mentale delle coppie con reddito inferiore a questo.

Soldi, felicità e.. risorse coniugali

Il presupposto teorico dell’analisi condotta dai ricercatori, dott. Carlson e dott. Lennox Kail della Georgia State University, è il modello delle risorse coniugali. Secondo tale modello il matrimonio fornisce risorse sociali, psicologiche ed economiche capaci di promuovere il benessere dei coniugi. La salute conseguente al matrimonio può esser dovuta ad un aumento delle risorse economiche grazie alla messa in comune della ricchezza e di conseguenza questo può condurre ad un maggiore benessere dovuto ad un miglioramento della nutrizione, dell’opportunità di cure mediche e all’accesso ad altre risorse utili a migliorare la salute (Ross, Mirowsly e Goldsteen, 1990).

Il presente studio è recentemente stato condotto presso la Georgia State University, basandosi sui dati del Changing Lives Survey degli americani, un’indagine nazionale longitudinale composta da interviste con 3.617 adulti negli Stati Uniti di età compresa tra 24 e 89 anni. La Changing Lives Survey indaga differenti elementi, tra cui aspetti sociologici, psicologici, mentali e fisici.

Il ricercatore principale dello studio, il dott. Ben Lennox Kail, ha analizzato i dati emersi dalla survey creando dei gruppi in base allo stato civile:

[blockquote style=”1″]Abbiamo esaminato le interrelazioni tra matrimonio, reddito e depressione, e ciò che abbiamo scoperto è che il beneficio del matrimonio sulla depressione è fruibile dalle persone con livelli di reddito medio o basso[/blockquote].

Dallo studio emerge, dunque, che le persone sposate e con reddito medio-basso sperimentano meno sintomi di depressione (riferendosi gli sperimentatori a livelli di depressione subclinica, i quali seppur non clinicamente rilevanti, impattano sulla salute e sulla felicità del soggetto).

Il dato più rilevante emerso è che non è il matrimonio di per sé ad essere associato alla riduzione di sintomi depressivi, ma l’esito di benessere è concausato sia dallo status civile sia da quello economico.

I ricercatori hanno ipotizzato che tali risultati dipendano dal fatto che coloro il cui reddito personale o di coppia è alto hanno già abbastanza risorse sulle quali investire per la propria felicità. Per quanto riguarda, invece, coloro il cui reddito è medio-basso, il matrimonio di per sé rappresenta un senso di sicurezza finanziaria, dettato dalla probabile messa in comune delle risorse coniugali.

Madre e bambino: qual è il loro legame? Ce lo dice un nuovo strumento: l’ NVA

Le interazioni tra madre e bimbo oggi possono essere studiate attraverso un nuovo strumento, il Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction- NVA.

 

Nel corso degli ultimi trent’anni sono stati messi a punto diversi strumenti per l’osservazione strutturata delle interazioni diadiche. La maggior parte di esse erano finalizzate alla descrizione e valutazione della sensibilità materna nel contesto della relazione madre-bimbo nel corso della prima infanzia (Cassibba & van Ijzendoorn, 2005).

L’utilizzo della videoregistrazione ha dato un grande contributo al miglioramento delle tecniche osservative e ha permesso la creazione di strumenti finalizzati a una sempre maggior correttezza nella valutazione. Ha anche dimostrato il suo grado di efficacia, non solo nell’ambito di ricerca, ma anche in ambito clinico nell’osservazione, nella diagnosi e nel trattamento delle problematiche infantili inscrivibili nei disturbi della relazione e dell’ attaccamento (Ainsworth et al., 1978; Riva Crugnola, 2007).

Un limite di questi strumenti riguarda la difficoltà di interpretazione delle categorie e delle dimensioni di valutazione che tendono a essere piuttosto ampie e globali, difficilmente fruibili in assenza di un’ampia esperienza clinica da parte di chi li utilizza.

Come viene osservato il legame madre e bimbo attraverso l’NVA?

Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction- NVA è uno strumento per l’osservazione strutturata, la valutazione e la codifica di sequenze videoregistrate di interazioni tra il caregiver e il bimbo nei primi tre anni di vita, dove per caregiver si può intendere anche un educatore, un terapista o un insegnante.

La struttura della codifica NVA permette all’osservatore di valutare separatamente i comportamenti dell’adulto e quelli del bimbo, ponendoli sempre in relazione tra loro.

In questa prospettiva il Neuropsychomotor Video Analysis of Adult and Child interaction-NVA (Moioli, 2008; Moioli et al., 2010, 2014) si propone di integrare gli aspetti informativi presenti nelle scale già esistenti in letteratura, fornendo

  • categorie comportamentali (livello microanalitico) maggiormente specifiche e descrittive, più facilmente rilevabili per operatori che lavorano nell’ambito dell’osservazione infantile
  • sette tipologie qualitativamente corrispondenti (livello macroanalitico) con le quali definire la modalità interazionale del genitore e del bambino, una volta rilevate le dimensioni comportamentali microanalitiche

La tecnica di rilevazione e codifica dei comportamenti prevede la ricerca di corrispondenza fra ciò che si osserva e un’ampia varietà di risposte pre-organizzate, a loro volta classificate nelle sette dimensioni categoriali o aree di valutazione:

  1. lo sguardo
  2. la mimica facciale e azioni del viso
  3. i gesti delle mani e delle braccia
  4. la postura corporea, l’uso del corpo e dello spazio
  5. l’uso della voce
  6. l’uso delle parole (dai 12 mesi)
  7. l’uso degli oggetti e del gioco (playing tool) – il momento del pasto (feeding tool)

All’interno di ciascuna area si individuano i comportamenti suddivisi e organizzati a loro volta in tre categorie di “avvicinamento” e tre di “allontanamento” dallo stile relazionale centrale: stile “sensibile” per l’adulto e stile “partecipativo” per il bambino.

NVA è strutturato in modo da collocare al centro le modalità interazionali adeguate, che considerate insieme presentano una doppia polarità negativa: se uno dei 2 (madre o bimbo) va nella direzione della presa di distanza, l’altro va verso l’avvicinamento eccessivo e l’intrusività. I punteggi ottenuti sulla base delle osservazioni rilevate permettono di fare delle riflessioni sia a livello categoriale (per es. categoria con un punteggio più alto o più basso), sia a livello dimensionale, andando a descrivere il profilo specifico di caregiver e bambino.

Legame madre e bimbo: le informazioni offerte da NVA per la gestione diagnostica e terapeutica

NVA offre agli operatori due diversi tipi di valutazione:

  • “NVA Playing tool” per la codifica delle interazioni di gioco
  • “NVA feeding tool” per la codifica delle interazioni tra caregiver e bambino durante il momento del pasto dalla fase dello svezzamento in poi (Moioli, 2017).

Dalla codifica emergono due profili:

  • Il primo profilo è basato sulle frequenze con le quali si presenta uno stile di comportamento ed è visualizzato a livello grafico-quantitativo ponendo a confronto i comportamenti di entrambi i soggetti dell’interazione.

Legame madre-bambino: da oggi è possibile codificarlo con l'NVA- Immagine 1

 

  • Il secondo profilo permette di confrontare gli stili di interazione di caregiver e bambino rispetto alle soglie di rischio e grave rischio di comportamenti problematici differenziati nelle varie aree.

Legame madre-bambino: da oggi è possibile codificarlo con l'NVA - Immagine 2

Un ulteriore vantaggio di questo sistema è rappresentato dalla possibilità di ottenere valori descrittivi per le diverse dimensioni categoriali mettendo in luce quali sono gli eventuali punti di forza o di debolezza della diade.

Lo schema di codifica si pone dunque come uno strumento in linea con la letteratura esistente, in grado di coniugare un’osservazione maggiormente microanalitica basata sulla rilevazione di specifici comportamenti con la possibilità di ottenere informazioni globali e dimensionali sulla coppia genitore-bambino. In particolare, consente di focalizzare in modo dettagliato i punti critici e le risorse delle modalità di interazione materna e di risposta del bambino, mostrandosi particolarmente utile nell’ambito dei progetti di intervento o di screening precoce del rischio.

Questo nuovo sistema di codifica delle interazioni soddisfa pertanto il bisogno di trovare una sintesi capace di restituire al clinico delle indicazioni sempre più dettagliate e precise su come “stanno insieme” genitore e bambino (Stern, 1995).

Le informazioni raccolte dall’analisi codificata delle interazioni consentono una restituzione al genitore o all’adulto precisa ed efficace supportando la tecnica del video feedback (revisione condivisa e commentata del video dell’interazione stessa al genitore).

NVA è uno strumento appositamente pensato e studiato per poter essere utilizzato da operatori sanitari anche non medici e la tecnica proposta ha lo scopo di ridurre al minino il rischio di interpretazione dell’interazione.

Legame madre bimbo: NVA e altri strumenti a confronto

A differenza di altri metodi di classificazione delle interazioni (Biringen, 2008; Crittenden, 1998) il sistema di codifica NVA centra l’attenzione sull’effetto che le azioni dell’uno hanno sull’altro, su ciò che è visibile. Delle 7 categorie definite sia per il bambino sia per l’adulto, ne definiamo una centrale che include i comportamenti di una coppia genitore-bimbo funzionante dove si osserva che i due condividono in pieno lo stesso progetto di gioco con un piacere condiviso.

Da questa categoria centrale (adulto “sensibile” e bambino “partecipativo”) si distanziano con intensità crescente tre categorie che descrivono comportamenti di “avvicinamento” (controllante, intrusivo/reattivo e aggressivo/violento) e tre categorie che descrivono comportamenti di “allontanamento” (collaborante, passivo e espulsivo/escludente).

Recenti applicazioni dello strumento hanno messo in evidenza il contributo che l’analisi codificata delle interazioni adulto-bambino ha apportato in ambito di prevenzione e di sostegno della genitorialità in condizioni di rischio, ad esempio depressione post-partum e genitorialità in adolescenza (Ierardi et al., 2018; Moioli et al., 2016; Riva Crugnola et al., 2009) e non rischio come i percorsi post-partum di accompagnamento alla crescita (Riva Crugnola, 2007; Vigorelli, 2005).

Ulteriori contributi riguardano la valutazione diagnostica e la programmazione terapeutica di bambini della fascia 0-3 con ritardo del linguaggio, sospetto spettro autistico, mutismo selettivo, sospetta iperattività, difficoltà nella gestione del momento del pasto (Caiati et al., 2016; Dosi et al., 2017; Moioli, 2014; Silvano et al., 2018). Alcuni studi sono stati effettuati anche per comprendere e migliorare l’intervento di terapia neuropsicomotoria nelle interazioni madre – bimbo nel caso di bambini con Sindrome di Down e nascita pretermine (Broggi et al., 2014).

Inoltre la compilazione condivisa della codifica NVA permette di affinare le riflessioni dell’equipe multidisciplinare nelle supervisioni di casi clinici.

Prospettive future per l’NVA

La definizione multidimensionale dello strumento fornisce al clinico e al ricercatore la possibilità di cogliere diversi profili funzionali relativi alla diade genitore-bambino o adulto-bambino.

Gli ambiti di applicazione coinvolgono lo screening precoce, la definizione diagnostica, la pianificazione dell’intervento terapeutico e la valutazione della sua efficacia. Significativo può essere inoltre l’apporto del NVA nel dibattito scientifico sul ruolo della sensibilità diadica nel processo di trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento (van Ijzendoorn & Bakermans-Kranenburg, 2018; Zimmermann, 1999).

Le nuove droghe: i catinoni sintetici, dal mefedrone alla flakka – Introduzione alla psicologia

Tra le nuove droghe, sempre più di frequente, si sente parlare dei catinoni sintetici, tra cui troviamo anche mefedrone e flakka, ovvero delle molecole ottenute in laboratorio note anche come sali da bagno, appartenenti al gruppo delle designer drugs.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Si tratta di sostanze che determinano una forte sensazione di eccitazione, comunemente chiamata “sballo”. La particolarità di queste droghe, però, è quella di avere un’azione analoga a quella del catinone naturale, molecola ottenuta dalla pianta del Khat.

I catinoni sintetici agiscono a livello del sistema nervoso centrale, determinando una forte sensazione di eccitazione. Da qualche tempo i catinoni sono diventati un vero e proprio fenomeno sociale, anche in Italia.

Tra i catinoni sintetici, il più importante e maggiormente utilizzato, è il mefedrone, nome in gergo Mafalda, che emula il meccanismo d’azione del catinone naturale. Oltre a questo esistono tanti altri catinoni sintetici, come: il pentedrone cloridrato, il metilone cloridrato e altre varietà di scarsa qualità che non causano effetti particolarmente duraturi ed eccitanti.

Meccanismo d’azione

I catinoni agiscono al livello sinaptico della noradrenalina, della dopamina e della serotonina, stimolando il rilascio di questi neurotrasmettitori.

Il mefedrone, inoltre, è due volte più potente del metilone come transporter di substrato, poiché aumenta maggiormente i livelli extracellulari di dopamina e serotonina, similmente a quanto causato dall’MDMA. Il potenziamento della trasmissione dopaminergica fa presupporre un elevato potenziale di abuso. Al pari di quanto avviene con l’MDMA, inoltre, la ripetuta somministrazione di dosi elevate causa deplezione del patrimonio cerebrale di serotonina, dipendenza e assuefazione.

Storia

Il primo catinone ad essere sintetizzato è stato il mefedrone, nel 1929 in Francia. La sostanza è apparsa sul mercato illegale nel 2003, ad opera di uno sperimentatore noto con il nickname di Dr. Zee che l’ha pubblicizzato sul sito internet The Hive. La prima significativa diffusione del mefedrone è avvenuta in Inghilterra e in Olanda, in concomitanza con la riduzione della disponibilità di MDMA sul mercato illegale. Il mefedrone è circolato legalmente in molti stati europei prima di essere inserito nella tabella delle legislazioni nazionali sugli stupefacenti. Inoltre, era usato anche come sostanza per esperimenti o come fertilizzante per piante, prima di essere dichiarato illegale.

Sintesi e produzione

La sintesi del mefedrone e degli altri catinoni sintetici è relativamente semplice ed è simile a quella dell’MDMA. Esso è sintetizzato soprattutto in estremo Oriente, Cina, Birmania ed India, ma sono stati scoperti laboratori clandestini anche in Italia.

Il mefedrone, generalmente, si presenta in forma di polvere bianca o chiara, eccezionalmente in forma di compresse.

Modalità di assunzione

Il mefedrone e gli altri catinoni sintetici possono essere assunti per via orale, per via intranasale o sniffati, per insufflazione, e possono essere iniettati per via intramuscolare o endovenosa. Il dosaggio del mefedrone varia a seconda da come è assunto.

Effetti e dosaggio del mefedrone e dei catinoni sintetici

Gli effetti del mefedrone e degli altri catinoni sintetici sono spesso indicati come simili a quelli dell’MDMA e della cocaina. In verità si tratta di un’interpretazione non del tutto veritiera, malgrado vi siano catinoni in grado di rimandare agli effetti dell’MDMA, come il metilone. In ogni caso, sono sostanze dotate più di un effetto stimolante che enctatogeno.

Il mefedrone presenta una composizione chimica diversa da quella dell’MDMA e manifesta i suoi effetti prima di quelli dell’ecstasy, ovvero dopo solo 15 minuti e li esaurisce più rapidamente. Per questo, l’assunzione di mefedrone per via intranasale presenta un rischio di abuso maggiore e ancor più l’assunzione per via endovenosa. Generalmente, si sente bisogno di assumere una nuova dose già dopo 45-120 minuti, in relazione alla rapidità di insorgenza dell’effetto.

Come per le altre droghe, gli effetti del mefedrone sugli esseri umani possono essere distinti in:

  • Positivi: euforia, elevazione del tono dell’umore, stimolazione fisica e mentale, sensazione di empatia e di apertura, maggiore tendenza alla socializzazione e desiderio di parlare con altri, rapida salita, vissuta come gradevole. Sono necessari tra i 15-40 minuti per il massimo effetto a stomaco vuoto;
  • Neutri: modificazioni generiche dello stato di coscienza, riduzione dell’appetito, midriasi, vampate di calore, tremori, pelle d’oca, sensazione di energia, alterazioni della temperatura corporea, sudorazione, tachicardia ed aumento della pressione arteriosa;
  • Negativi: forte desiderio di una nuova dose, per vivere nuovamente il piacere della salita veloce dell’euforia, cambiamenti sgradevoli nella temperatura corporea, sudorazione e brividi, palpitazioni, sensazione soggettiva di tachicardia, riduzione della memoria recente, insonnia, trisma (contrazione dolorosa dei muscoli della mascella), bruxismo (drighignamento dei denti), contrazioni muscolari improvvise, nistagmo (movimenti involontari laterali degli occhi), vertigini ed altri disturbi dell’equilibrio, in casi estremi vasocostrizione severa che richiede trattamento farmacologico. Ovviamente, gli effetti negativi sono amplificati dall’assunzione contemporanea di alcol o altre sostanze.

Le reazioni psicotiche associate all’uso di mefedrone insorgono più frequentemente nella pratica dello slamming, assunzione endovenosa in corso di chemsex. In qualche caso queste manifestazioni mentali possono essere severe e richiedere lunghe ospedalizzazioni e alcune ulteriori settimane per la totale remissione dei sintomi. Oltre al delirio di persecuzione, possono essere presenti aggressività, allucinazioni e grave stato di agitazione.

Nei casi di intossicazione più gravi, possono comparire convulsioni, iponatremia, ipertermia, rabdomiolisi (con possibile evoluzione in insufficienza renale acuta), coagulazione intravascolare disseminata ed insufficienza epatica acuta, che possono condurre al decesso.

La flakka: nuova moda nel mondo della droga

Una delle droghe correlate ai catinoni è sicuramente la flakka. Un nome che da qualche tempo finisce sempre più abitualmente sui giornali per via delle notizie che arrivano soprattutto dall’America. I cristalli di flakka sono utilizzati nei paesi americani da tantissimi giovani e gli effetti sono molto importanti. Si tratta di cristalli che possono essere utilizzati in vario modo: sia per via endovenosa sia sniffati, oltre che fumati o strofinati leggermente a livello dei bulbi oculari.

Gli effetti della flakka sono importanti e talvolta impressionanti per un essere umano. Notizie provenienti dall’America parlano sempre più frequentemente di tossicodipendenti che in seguito all’assunzione di flakka sviluppano una forza fisica notevole tanto da non riuscire ad essere bloccati da un paio di persone. Senza dimenticare l’enorme eccitazione che la flakka è capace di creare, così come numerose allucinazioni o anche stati confusionali.

Sono stati registrati anche diversi numeri di morti per via della flakka in quanto è stato visto come questa droga possa portare in pochissimo tempo ad un enorme sovraccarico cardiaco. Da un punto di vista fisiologico, l’assunzione di questa droga determina allucinazioni e deliri, oltre a stati di ipertensione marcati, paranoia, psicosi, aumenti della secrezione di adrenalina, aggressività, forza fisica e soprattutto un elevato rischio di morte.

La flakka nacque qualche anno fa in sostituzione delle amfetamine per studenti che cercavano sostanze energizzanti viste le limitazioni poste su quest’ultime dal Governo Nazionale.

Ciò che comunque gli esperti tendono a sottolineare in merito a questo nuovo tipo di droga è la capacità di venirne a contatto molto facilmente, e, soprattutto, il prezzo assai ridotto con cui si può acquistare tale droga. Per questo motivo, si sta iniziando un’opera di informazione in merito alla flakka, per farla conoscere e limitarne, di conseguenza, i danni.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicoterapia on line? Da oggi c’è la piattaforma Psicoadvise.it

Nasce psicoadvise.it, dedicata esclusivamente alla psicoterapia online. Psicoadvise.it è la piattaforma che permette agli psicoterapeuti di aprire il proprio studio digitale e agli utenti di poter scegliere la propria consulenza via video, scegliendo la persona che più si addice alle proprie necessità: un incontro attraverso il video, facile, discreto, immediato ma soprattutto professionale e certificato. 

 

Come nasce questo progetto?

In Europa e negli Stati Uniti, diverse realtà private e pubbliche stanno già investendo sulla promozione di interventi online e sull’indagine delle loro caratteristiche. Siamo tutti immersi nella “quarta rivoluzione industriale” (espressione usata per la prima volta alla Fiera di Hannover nel 2011 in Germania) e siamo tutti spettatori di uno storico cambiamento. Anche la sanità ora è in rete: con il termine “eHealth“, infatti, s’intende l’utilizzo di strumenti basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per sostenere e promuovere la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il monitoraggio delle malattie e la gestione della salute e dello stile di vita.

La psicoterapia online porta a risultati positivi quanto quella tradizionale faccia a faccia?

L’utilizzo delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia potrebbe portare a importanti sviluppi per il futuro della psicoterapia? Sembrerebbe di si!

Sono stati effettuati numerosi studi con l’obbiettivo di valutare l’esito degli interventi psicologici online e tali ricerche sono volte principalmente ad individuare se gli interventi online portino a miglioramenti clinici rispetto a gruppi di controllo offline.

Tendenzialmente tali studi hanno mostrato risultati incoraggianti. Si rilevano infatti miglioramenti significativi nei soggetti che hanno partecipato a diversi interventi psicologici online, con una gamma di disturbi clinici che includono disturbi di panico (Klein & Richards, 2001), disturbi alimentari (Robinson & Serfaty, 2001), disturbi post-traumatici da stress e in casi di lutto (Lange, van de Ven, Schrieken, & Emmelkamp, 2001). Alcuni ricercatori di Zurigo, in uno studio nel 2013, hanno addirittura superato le loro aspettative, osservando alla fine del trattamento online, una remissione della depressione nel 53% dei pazienti trattati con psicoterapia online e nel 50% dei pazienti trattati con psicoterapia tradizionale faccia a faccia. Jedlicka e Jennings (2001) hanno infine analizzato i racconti di 11 coppie che hanno partecipato ad una terapia di coppia via webcam: non risultavano differenze significative tra la conduzione online e quella in vivo, considerate ugualmente efficaci.

Sulla base degli studi di efficacia e in linea con quelli che sono gli sviluppi della tecnologia e, in particolar modo, quelli relativi alle procedure diagnostiche e terapeutiche, ora anche gli psicologi hanno la possibilità di utilizzare i moderni canali digitali non solo a fini di informazione o di pubblicità, ma per fornire prestazioni professionali.

La psicoterapia online su psicoadvise.it

L’obiettivo di psicoadvise.it è quello di creare un unico luogo in cui l’incontro tra terapeuti e pazienti avvenga in maniera semplice, senza limiti geografici ma in linea con le proprie disponibilità e i propri bisogni.

La piattaforma mette a disposizione della comunità un vasto panorama di professionisti certificati così da rendere più semplice e accessibile la terapia e l’ascolto. Allo stesso tempo abbatte la concorrenza e consente agli psicoterapeuti un accesso alla professione immediato ed economico.

Psicoadvise.it garantisce l’idoneità degli psicoterapeuti e fornisce loro una serie di servizi dedicati, tra cui un sistema di fatturazione automatizzato, sicuro e di facile utilizzo. Grazie alla tecnologia peer to peer inoltre, i dati delle connessioni saranno sicuri e non lasceranno traccia nel web, per garantire ai pazienti il massimo della privacy.

Iscriversi è semplice, così come è facile effettuare la ricerca di un terapeuta che più si avvicini alle proprie esigenze, grazie ad un attento sistema di filtri e a un calendario personale sempre aggiornato. Provalo subito ed entra anche tu a far parte della naturale evoluzione della psicoterapia.

 

Per informazioni:

Lucia, una storia di depressione vissuta all’ombra del vulcano – Un caso clinico trattato con la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

I pazienti affetti da HIV presentano livelli di depressione almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta, con un tasso più alto nella popolazione femminile. I pazienti, tra il 4 e il 14% dei casi, mostrano un disturbo grave ed almeno il 30% di essi presenta segni di depressione.

 

Da un punto di vista psicologico e sociale, cancro ed infezione da HIV presentano diversi punti di contatto, sia a livello individuale che collettivo. A livello individuale entrambe le condizioni possiedono un carattere disumanizzante, poiché determinano una trasformazione dell’individuo e ne intaccano la propria dignità come persona. I significati della perdita dei propri ruoli e delle proprie funzioni, della minaccia e della sofferenza rappresentano infatti il denominatore comune delle due patologie. A livello collettivo, entrambe evocano angosce legate all’incontrollabilità e alla minaccia. In entrambi i casi, Il corpo può subire importanti alterazioni legate alla malattia stessa o alle terapie, con conseguenti modifiche della propria immagine corporea e cambiamenti importanti dei significati che a quelle parti del corpo vengono dati.

Ciò può avere ripercussioni su altre aree dell’esistenza, intaccando la propria identità temporale, lavorativa, familiare e sociale. A queste corrispondono importanti significati relazionali, poiché la malattia modifica il modo col quale la persona si percepisce rispetto agli altri e da questi è a sua volta percepita. A questo livello la malattia influenza enormemente la percezione che ciascuno ha di far parte del contesto nel quale vive. Il mantenimento di sentimenti di integrazione e appartenenza viene messo in pericolo a scapito di sentimenti di solitudine ed emarginazione che emergono in maniera tumultuosa.

Diversamente dalle patologie neoplastiche, all’infezione da HIV si associano significati diversi che si legano strettamente ad alcune variabili tipiche dell’infezione: le sue modalità di trasmissione, le sue caratteristiche cliniche e le sue conseguenze. L’infezione, tra l’altro, si è presentata come epidemia, quindi con un significato di diffusione e di contagio che ha indotto sensazioni generalizzate di pericolo nella popolazione e, di conseguenza, di bisogno di emarginare la fonte del pericolo. Inoltre, le modalità dell’infezione, specialmente agli inizi della diffusione del fenomeno, quando i gruppi colpiti (o, come venivano definiti, “a rischio”) erano gli omosessuali e i tossicodipendenti, ha determinato risposte sociali estremamente marcate di ostilità, discriminazione e ghettizzazione verso i soggetti sieropositivi.

In questi casi il paziente veniva in qualche modo considerato responsabile diretto della propria condizione.

HIV e Depressione

Nonostante la vastità delle opzioni terapeutiche a disposizione, la depressione rimane il più comune disturbo psicologico tra i pazienti affetti da HIV. I livelli di depressione fra questi soggetti appaiono essere almeno doppi rispetto alla popolazione non infetta: dal 4 al 14% dei pazienti mostra un disturbo grave ed almeno il 30% segni di depressione. La presenza di una condizione depressiva va attentamente indagata sul piano clinico, in quanto essa è risultata associata a:

  1. più rilevante immunodepressione
  2. accelerata progressione di malattia (il paziente depresso è un paziente scarsamente aderente al trattamento e la bassa aderenza è una delle principali cause del fallimento terapeutico)
  3. aumentata disabilità
  4. minore sopravvivenza
  5. più elevata probabilità di morte

Di particolare interesse appare la correlazione fra depressione e sesso femminile. Già nella popolazione generale la percentuale di donne affette da depressione è doppia rispetto agli uomini, fra le donne sieropositive è quattro volte più elevata rispetto alle donne sieronegative (19% vs 5%). La presenza di sintomi depressivi fra le donne HIV positive è stata associata all’età compresa fra 30 e 50 anni, all’uso di sostanze stupefacenti, ad un basso reddito o all’appartenenza a minoranze etniche ma anche a condizioni cliniche quali una bassa conta dei linfociti CD4 o una viremia rilevabile o un trattamento terapeutico subottimale. Le donne HIV positive con elevati livelli di depressione hanno, infatti, minore probabilità di assumere la HAART e vanno più frequentemente incontro ad un outcome sfavorevole, spesso per situazioni cliniche non correlate all’infezione da HIV. La premorienza è addirittura doppia rispetto a donne con assenza o intermittenza di sintomi depressivi, anche in assenza di diagnosi di AIDS.

Un recente studio indaga la relazione tra il “silenzio su di sé” (inteso come evitamento della disclosure e quindi inibizione dei propri bisogni nelle relazioni interpersonali), fattori socioeconomici (istruzione, impiego e reddito) e resilienza in un campione di donne con HIV. Le donne con punteggi più bassi sul “silenzio su di sé” hanno riportato una resilienza significativamente maggiore rispetto alle donne con punteggi più elevati. Sebbene l’occupazione sia significativamente correlata ad una maggiore resilienza, il silenzio tende a predire la resilienza al di là dei contributi di occupazione, reddito ed istruzione (Dale et al., 2014). I risultati suggeriscono che gli sforzi di intervento e prevenzione mirati a ridurre il silenzio delle donne, l’inibizione dei loro bisogni e aspettative nei confronti degli altri siano strumenti preziosi per progredire verso il benessere e la realizzazione di sé, nonché promotori di opportunità lavorative.

In pazienti HIV + il riscontro di un disturbo della personalità è piuttosto frequente (20-40% dei casi). È stato dimostrato che una diagnosi psichiatrica a questo livello si associa a una più elevata prevalenza di disturbi depressivi in soggetti HIV +. Nei pazienti con tale disturbo il rischio di sviluppo di manifestazioni psicopatologiche successivamente all’infezione viene aumentato di circa sei volte e si correla ad una netta riduzione del livello di funzionamento soggettivo del paziente nel condurre la propria esistenza. Inoltre la depressione risulta associata a comportamenti a rischio quali sesso non protetto e si associa spesso ad assunzione di alcol. Nei pazienti sieropositivi il disturbo depressivo è fortemente associato ad aumentato rischio di mortalità per malattie cardiovascolari (Parruti et al., 2013). Aspetti psicologici possono agire sulla salute cardiovascolare sia attraverso meccanismi fisiopatologici, sia indirettamente in quanto si associano all’adozione di stili di vita nocivi per la salute come vita sedentaria, fumo, alcol, squilibri alimentari. Nella maggior parte degli studi presi in esame, i pazienti affetti da depressione dichiaravano che la malattia medica aveva esasperato tematiche legate alla colpa, alla vergogna, al senso di solitudine e stigma percepito.

I principali interventi

Markowitz (Markowitz et al.,1998) ha condotto un trial randomizzato di 16 settimane su 101 pazienti sieropositivi con diagnosi di depressione. I soggetti sottoposti a psicoterapia interpersonale hanno ottenuti maggiori benefici rispetto agli altri gruppi. Carrico e colleghi (2006) hanno visto che la combinazione di psicoterapia cognitiva e training sull’incremento dell’aderenza alle cure mediche dava ottime risposte in termini di riduzione della sintomatologia depressiva e conseguentemente una riduzione del rifiuto della terapia antiretrovirale.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità, con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma (Dimaggio et al.,2016). Rispetto alla Terapia cognitiva Standard, la TMI pone un’attenzione fondamentale alle disfunzioni metacognitive dei pazienti.

Sulla base dell’assunto che uno dei nuclei patogeni della personalità sia la difficoltà ad identificare gli stati mentali e utilizzare tale conoscenza per risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali, la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha sviluppato una serie di tecniche specifiche e di modalità di lavoro sulla relazione terapeutica atte a promuovere la metacognizione.

Recentemente è stata anche applicata con successo al caso di un uomo con sarcoma di Kaposi, neoplasia opportunistica AIDS correlata che, nonostante la gravità della situazione clinica non era aderente alla terapia antiretrovirale. Il paziente era anche affetto da un disturbo di personalità grave (Sofia et al., 2017). La Terapia Metacognitiva Interpersonale è stata adattata al caso clinico al fine di migliorare l’aderenza al trattamento e di ridurre i criteri diagnostici del disturbo di personalità.

La storia di Lucia

Illustriamo di seguito, in forma narrativa, il caso clinico di una paziente sieropositiva affetta da disturbo paranoide di personalità e scarsamente aderente alla terapia antiretrovirale.

Lucia è guidata nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, dei quali non è consapevole e che mette in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai suoi desideri, speranze e bisogni.

In termini di formulazione condivisa del caso, terapeuta e paziente arrivano a capire che: Lucia si sente vulnerabile ma teme l’abuso e l’inganno e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di minaccia. Per gestire il senso di paura e vulnerabilità utilizza coping disfunzionali quali la diffidenza, la fuga, l’isolamento talvolta attacchi verbali accompagnati da una maschera forzata oppure da silenzio ostentato. Questi comportamenti amplificano la rabbia e la costante paura dell’altro, con il conseguente sviluppo di un disturbo depressivo grave che ha portato all’interruzione della terapia antiretrovirale.

In corso di terapia, la paziente è stata aiutata a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza di essere danneggiata può essere parzialmente vera, ma riflette anche uno schema in cui si vede umiliata e sottomessa. Nella storia descritta, gli schemi si fondano sulla figura materna percepita come tirannica e su vissuti traumatici di violenza protratta dai propri partner oltre che per l’incontro con un virus vissuto come “potente e minaccioso”. Attraverso la relazione terapeutica, la paziente si sentirà compresa ed incoraggiata, imparerà a riconoscere i propri schemi interpersonali e sarà portata a valorizzare le parti di sé che funzionano, riconoscendo i propri punti di forza.

Tra gli aspetti tecnici citati, anche guided imagery, rescripting e role play utilizzati con l’obiettivo di modificare gli schemi all’interno dello spazio mentale. Nelle ultime fasi della terapia, la paziente riuscirà ad affrontare con serenità anche uno dei nodi più importanti della vita di questi pazienti: la comunicazione della propria sieropositività ai figli.

L’arrivo di Lucia è preceduto dalla telefonata di un collega infettivologo : “O la paziente è all’ennesima resistenza alla terapia antiretrovirale o mi prende clamorosamente in giro e la terapia non la prende. I suoi esami peggiorano, mi preoccupa. Lei non mi dice nulla. Ci vuoi parlare tu?”

Lucia entra in ambulatorio ridendo, grandi occhi scuri come il cappotto che indossa. Cappotto lungo, portato in pieno Maggio di una afosa mattina catanese. Lucia ha 50 anni ed è sieropositiva da 16 anni. Sul volto i segni evidenti di una dermatite seborroica.

Il cappotto indossato anche in estate “la protegge – lei dice- dalla pioggia nera di cenere vulcanica… Questa terra sottile vomitata dall’Etna è più insidiosa di quello che si pensa. E poi mi fa male alla pelle. Insomma….è difficile la vita sotto il vulcano, ti senti sempre sotto minaccia”.

I nostri primi incontri sono caratterizzati da un ostentazione della sua “onnipotenza”, della sua capacità di “fottere la vita”, nonostante le difficoltà.

Mi racconta che a 14 anni scappa di casa con il primo corteggiatore, a 15 anni ha la prima bambina, a 16 la seconda, a 17 ha la terza bambina.

Lui rapinava ma io non lo sapevo! Ma se li beveva tutti i soldi che rubava… sempre ubriaco fradicio era. Ma io avevo 3 bambine piccole, dove dovevo andare?”. Lucia non ha una narrativa che mette in evidenza dettagli intimi, non accede alle emozioni, sputa fuori eventi in cui è protagonista ai limiti della legalità. Nelle prime sedute non parla mai della sua malattia, vuole parlare di una “storia burocratica”, una vicenda con la vecchia datrice di lavoro a cui faceva le faccende domestiche. Era la seconda volta che le capitava di voler denunciare le persone presso cui lavorava.

La sua narrazione è confusa e frammentata, caratterizzata da sottili attacchi anche nei confronti della terapeuta. “E certo che la devo denunciare, di me se ne approfittano tutti….. ma ora lo vedrà cosa sono in grado di fare. Io senza avvocato cammino. Io, se decido di andare da un magistrato, ci vado da sola e ci so parlare meglio di lei che è laureata e meglio di qualsiasi altro avvocato”.

Difficile interromperla, difficile fermarsi a focalizzare le emozioni durante la seduta. Difficile stabilire un’alleanza terapeutica.

Come quella volta che da quel prepotente me la sono cavata da sola. Era proprietario di un locale e non pagava lo stipendio a mio marito da sei mesi…. Io avevo tre bambine piccole… ci sono entrata con la macchina dentro il locale, gli ho rotto tutte le vetrate al bastardo…. Poi è venuto a suonarmi a casa e mi ha chiesto se volevo essere la sua femmina. Ha capito dottoressa? Mi ha dato lo stipendio di mio marito direttamente nelle mani. Mi ha detto che non lo pagava perché si beveva tutto l’alcool del locale (il marito di Lucia era il cuoco del locale). Ma cosa le dovrei raccontare? Che mio marito stava con la peggio puttana di Catania, la più “viziosa”, lo sapevano tutti tranne io”.

Mentre parla scoppia a ridere e poi sembra trattenere il pianto ma scoppia a ridere più forte.

Il terapeuta TMI è un clinico attentissimo alla mimica facciale del paziente. In particolare, quando un’espressione nel volto del paziente cambia repentinamente o viene soffocata è bene segnalarla tempestivamente per permettere al paziente di individuare con maggiore precisione il pensiero collegato al suo stato emotivo. La fermo un attimo per chiederle cos’era quell’espressione subito dopo la risata, se stava per piangere… Nel caso di Lucia, la segnalazione dell’emozione è servita anche ai fini dell’alleanza terapeutica poiché la paziente si è sentita guardata con attenzione, e ha rivelato uno dei principali nuclei del suo schema interpersonale.

Dottoressa, sorriso fuori e buio dentro. Questa è Lucia!… Gli altri godono se io mostro il mio buio dentro, non lo posso fare vedere a nessuno. E meglio non dire niente e non fare vedere niente. E poi da quando ho saputo come sono…. Non posso essere più felice…Grazie a mio marito, ai suoi divertimenti. Dopo aver fatto una rapina, lo misero dentro a Favignana, io non ci andavo a trovarlo… Avevo 3 bambine piccole… E poi non lo volevo più… E mia madre mi diceva: “non si lasciano i mariti in carcere”… sempre lei ha deciso quello che si doveva fare. Un giorno mi arriva una lettera a casa, era lui. Mi scriveva: fatti le analisi, sono sieropositivo”.

Lucia ride e poi vorrebbe piangere. “Il giorno che ho fatto le analisi… il suo collega infettivologo balbettava, non sapeva come dirmelo e c’era mia madre a fianco che mi ripeteva: una cosa è certa, ora a tuo marito non lo puoi lasciare più, ora chi ti prende a te? Sei malata, sei una donna finita. Il dottore era in collera, io sono scappata. Non mi sono più presentata per anni… la terapia l’ho cominciata dopo… Ma io non sono qui per parlare. Sono qui perché voglio denunciare la mia ex titolare, lei mi può consigliare in questo senso oppure no?

Le dico che sono qui per aiutarla e cercheremo di capire perché si sente nelle condizioni di voler denunciare.

Mi ero fidata della mia titolare, le avevo confidato che mi avevano tolto l’utero e che mi ero sentita sola…Le mie figlie non sono neanche venute a trovarmi nel post-operatorio, eppure io le ho amate tanto. Il pomeriggio dopo mi trovavo a casa sua come sempre a fare le faccende domestiche. Suona suo fratello alla porta, lo faccio accomodare. In un secondo mi sono girata ed era nudo. Mi è saltato addosso e mi ha detto: so che adesso ci possiamo divertire. Ha capito? Me l’ha mandato lei a suo fratello. Quando mostro il mio buio gli altri se la godono sempre”.

Adesso piange disperata: “Non ne posso più, Lucia è stanca… di vivere contando solo su se stessa. A che serve parlare, a che serve prendere la terapia…. E’ meglio accelerare questa agonia, e mettere fine a tutto”.

A Lucia la maschera e la risata ostentata servono per “nascondere il buio dentro che non si può mostrare se no gli altri godono”, però mentre si narra lascia trasparire una mimica che copre il pianto. Farle notare quello che vedo mi permette di accedere alle sue emozioni e di parlarne in seduta. Attraverso la relazione terapeutica, Lucia si sente capita e parla di disperazione, angoscia, caduta nel baratro e desiderio di morte ogni volta che pensa al suo corpo “invaso” da uno straniero. Invasore che l’ha derubata della sua bellezza (la mia pelle adesso fa schifo) e della sua femminilità (questo coso mi ha reso l’utero marcio e io non sono più neanche donna). Non è più possibile godere, avere una vita facile, avere una vita affettiva. Il virus, mai nominato da Lucia, ha portato via con sé le sue attitudini sane e cioè la spensieratezza, la voglia di giocare, di farsi bella, di amare ed essere amata. Attorno a lei un mondo che la pone “vittima” di impostori (le persone presso cui lavora), stalker (gli uomini che incontra), truffatori (commercianti) e ancora una fauna di gente violenta, manesca e approfittatrice a cui si può rispondere solo con l’ostentazione della risata, con tentativi di attacco ma soprattutto con fughe e nuovi isolamenti per non farsi schiacciare ulteriormente e vivere sempre più ai margini.

La storia di Lucia è davvero piena di violenza.

Lo mostrano le memorie autobiografiche che riporta in seduta dopo aver riconosciuto le sue reali emozioni, memorie in cui ad essere quasi sempre protagonista è innanzitutto la madre, descritta come tirannica e ingiusta. Madre che non le concederà l’ultimo saluto alla salma del padre a cui Lucia è particolarmente legata, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Evento traumatico che la segna irrimediabilmente costringendola ad una lettura della mente degli altri assolutamente non flessibile.

“Mio padre è morto quando avevo 13 anni. Il buio nero, quello di cui parlavo prima, è iniziato lì.
Lo sa cosa ha fatto mia madre? Io avevo 7 fratelli che accudivo… lei lo sapeva che avevo un debole per mio padre… Quando mio padre è morto, tutti i miei fratelli lo hanno salutato. Mi ha chiuso in una stanza e mi ha detto che non potevo vederlo. Lo sapeva che ero la preferita, che lo amavo da morire, che avrei passato tutta la notte a baciare la salma… Ma non me l’ha fatto vedere. Quando mostro la mia debolezza, il mio buio oppure il mio bisogno di cure.. l’altro ci gode e mi pugnala apposta. Anche quando ho saputo la diagnosi e sono andata a vivere da mia madre… Separava le posate e non toccava mai il mio bicchiere e mi diceva sempre: e ora chi ti deve prendere a te che sei ridotta così. E allora sono andata via con un nuovo compagno, ed è nato Francesco.
Ma il papà di Francesco, quando vivevo a Torino mi picchiava, lavoravo solo io e mi veniva a picchiare anche nel locale in cui lavoravo. E allora qualche anno fa sono scesa di nuovo a Catania…

Dalla narrazione di Lucia sembra che la madre abbia proprio approfittato della sua debolezza per il padre e del suo momento di dolore per punire la sua preferenza ed impedire solo a lei tra tutti i figli di poter dare l’ultimo saluto al padre. E’ un dolore subito prendendo a calci la porta dietro cui era stata chiusa, è un dolore misto ad impotenza e rabbia, mai raccontato prima.

Da qui l’impossibilità nella sua vita di poter mostrare il buio, il suo dolore agli altri… “perché se mostri il buio gli altri godono”. Così come tutte quelle volte che la madre, dopo la notizia della sieropositività, la fa entrare nella sua casa, ma separa le sue posate, incellofanando tutto quello che ha a che fare con Lucia. “E io mi sentivo umiliata e schiacciata, impossibile per me riprendere il gusto di vivere.”

Durante i mesi siamo riuscite a fare luce sulle emozioni, a comprendere gli schemi principali legati ad una vita piena di violenza e siamo riuscite a compiere quella che in Terapia Metacognitova Interpersonale viene definita “Formulazione condivisa del funzionamento”.

Lucia desidera ancora essere amata e protetta. Negli anni, questa speranza è stata velata dalla paura dell’altro, capace di approfittare di lei, in genere teso ad umiliarla e sottometterla. A questo punto lei si è percepita “fragile” ed ha reagito agli eventi della vita con diffidenza e frequenti ritiri sociali (poca fiducia persino nell’infettivologo che la segue da anni, a cui non ha dichiarato la sua scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale, saltando spesso anche gli incontri ambulatoriali). Altre volte ha disprezzato e minacciato anche lei per sentirsi più forte, ma è stato in corso di terapia che ha capito che il suo desiderio poteva essere ascoltato, poteva parlare del suo dolore senza angoscia, senza quel terrore di essere pugnalata nel momento di maggiore vulnerabilità. Le chiedo se vogliamo provare a portare questa speranza anche fuori dalla nostra relazione per osservare meglio, adesso e con nuova consapevolezza quella che abbiamo definito “fragilità”… quel buio dentro…L’evento della morte del padre torna spesso nei nostri incontri. Quell’impossibilità dell’ultimo bacio, impedito dalla tirannia della madre e dalla ferocia della morte.

Le propongo l’ascolto di una canzone in seduta. Una canzone scritta propria da una nostra concittadina. Si chiama “L’ultimo bacio”, ed è una ballata malinconica, racconto di un addio.

Il brano nasce dalla paura di una Carmen Consoli bambina che, in rapporto di franca ostilità con la madre, immagina di essere abbandonata dal padre, suo unico compagno di giochi con il quale già da piccola condivideva la passione della chitarra. Come sottofondo della scena, il fischiare del vento sembra una sinfonia di violini. Il brano cita un verso del pezzo Piove (mille violini suonati dal vento…), portato al successo da Modugno, che era proprio il brano cantato dal padre di Carmen, quando la salutava la mattina prima di recarsi al lavoro.
Il brano le piace, e sente una “sorta di consolazione. Ma allora soffriva anche lei come me?

Le propongo, se vuole farlo in seduta, insieme a me di scrivere un finale diverso alla sua storia…. Quell’ultimo bacio al padre, lo può dare adesso se riusciamo a immaginare di essere dinnanzi a lui rievocando quella scena di tanti anni fa.

Lucia riesce a farlo, immagina di essere chiusa dentro la stanza ma stavolta di essere aiutata ad uscire dai suoi due fratelli minori. Immagina di avvicinarsi al padre, sempre scortata dai fratelli che la proteggono e di salutarlo come desiderava. Intanto la madre rimaneva “piccola, a guardarmi in lontananza”.

I mesi passano, il legame con il figlio Francesco la tiene fortemente ancorata alla vita. Lucia comincia a dare un nome alla sua malattia, riconosce che è importante assumere costantemente la terapia. Inoltre, è più serena.. c’è un altra buona notizia…Il padre di Francesco non la disturba più, l’hanno arrestato solo in questi giorni, per una denuncia per maltrattamenti che lei aveva sporto contro di lui circa 10 anni fa quando ancora vivevano a Torino (“Dottoressa, lo Stato ce l’ha fatta a darmi ragione…dopo 10 anni!”).

E’ successa una cosa nuova. C’è un “picciotto” del mio quartiere che lavora in pescheria che ogni tanto mi chiede di prenderci un caffè a casa mia. Ho la sensazione che sia una brava persona, ma poi penso che vuole penetrare nel mio appartamento per stabilirsi a casa mia e farsi mantenere da me, insomma un altro inganno… Lo so dottoressa, le mie vecchie esperienze …non mi fanno andare avanti. Non ci ho creduto più nella buona fede. Solo che stavolta volevo mettermi in gioco e volevo parlarne con lei per prendere una decisione. Mentre ero fuori casa per lavoro, si è presentato a casa mia. Gli ha aperto Francesco. E’ venuto munito di strumenti, e nell’arco di poche ore ha eliminato tutta l’umidità della casa. A Francesco ha detto che lo sospettava che a casa mia ci fosse tutta questa umidità, visto che mi vede sempre con il cappotto anche in estate. Niente… ha fatto il lavoro e se n’è andato. Io non l’ho incontrato, mi ha mandata a salutare con Francesco. Volevo ringraziarlo. Avevo paura, mi mancava il coraggio. Ieri sono scesa in Pescheria. Via Etnea era invasa di luce e colori, piazza Duomo piena di turisti. Un gruppo di questi ascoltava una guida che raccontava la storia della Cattedrale, dove sono conservati i resti di Sant’Agata! Allora mi sono fermata a guardare”.

Cosa – ho chiesto io – la guida turistica?”.

No, quel luogo. Racchiude le spoglie mortali di una donna martire, deturpata per il suo amore. Quel visino così bello, offeso da uomini senza Dio. La conosce la storia di Agata, dottoressa?

Certo, una delle prime vittime di femminicidio della storia. Una donna libera.

“Io ho pensato a quegli uomini”, dice Lucia.

Cioè, ha pensato a Quinziano e agli altri carnefici?” Le chiedo io.

No, stavolta no. Ho pensato agli altri uomini. Tutti gli altri. Quei due soldati che ne trafugarono i resti da Costantinopoli per riportarla a casa. Ho immaginato i catanesi che, svegliati nel cuore della notte dalle campane, si affacciavano e con i fazzoletti bianchi dai balconi ne salutavano il ritorno a casa. Ho pensato alla processione, dove centinaia di uomini con un “sacco” bianco portano in giro per la città questa “picciridda” sotto sole e pioggia, percorrendo kilometri spalla a spalla. Gente diversa: avvocati, muratori, disoccupati, per 3 giorni, solamente uomini che sanno amare. Ho pensato che per ogni pezzo di merda, ce ne sono altri cento disposti ad amarti. La vita qualche cosa di buono la restituisce. Ho pensato che questo buono io me lo posso prendere. E così sono scesa in pescheria e sono riuscita a ringraziarlo”.

E’ l’inizio della risalita. Francesco comincia a lavorare in un’autorimessa, e si fidanza con la figlia del portiere del palazzo. Invitano la fidanzata a cena e Lucia cucina per loro. “E’ una ragazza con gli occhi azzurri e limpidi come il mare, ed è innamorata del mio Francesco. Perché Francesco è bello come il sole ed è un ragazzo buono, Lucia ce la fa a fare le cose buone. Me lo sono cresciuto sola a Francesco.. è figlio mio. Dopo cena, abbiamo cantato al Karaoke fino a tardi e abbiamo riso per tutto il tempo. Glielo diciamo a Francesco che sono sieropositiva… Questi farmaci se devo prenderli ogni giorno prima o poi dovrà vederli… Allora mi aiuta a dirlo a mio figlio che sono sieropositiva?

Lucia ha una nuova abitudine, passeggiare sul lungomare di Catania gustandosi una granita alla mandorla. Jeans stretti mettono in evidenza un corpo ancora giovane. Da questa estate, la polvere lavica mista alla brezza marina arriva direttamente sulla sue braccia scoperte, liberate dalla protezione del cappotto ma senza farle male.

Facebook e autostima. L’immagine che abbiamo di noi stessi influenza i contenuti che mettiamo online

Un recente studio ha esaminato come il livello di autostima influenzi il tipo di presentazione che forniamo di noi stessi su Facebook, e come questo abbia effetti sul nostro benessere soggettivo.

 

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Computers in Human Behavior, persone con bassa autostima non sono a proprio agio nel fornire una presentazione autentica di sé stesse sul social network Facebook.

Le precedenti ricerche hanno dimostrato come Facebook sia un’arma a doppio taglio: il coinvolgimento nel social può influenzare sia positivamente che negativamente il benessere soggettivo.

Alcuni studi hanno riscontrato che forme di supporto sociale (ad esempio il ‘Mi Piace’) da amici di Facebook incrementano il benessere soggettivo, mentre altre ricerche hanno evidenziato che l’utilizzo di un atteggiamento competitivo da parte degli utenti di Facebook, fa sviluppare sentimenti di invidia che abbassano il livello di benessere soggettivo.

Jang, autore dello studio, riferisce:

[blockquote style=”1″]Avendo constatato la presenza di modelli contrastanti, si è deciso di verificare se il tipo di strategia adottata per presentare sé stessi online influenza la gratificazione che si ottiene dall’utilizzo del social network. In particolare se la gratificazione psicologica che deriva dall’utilizzo di Facebook, dipenda dal proprio livello di autostima[/blockquote]

Facebook e autostima: ci presentiamo in modo autentico o strategico?

I ricercatori hanno evidenziato due differenti modi in cui le persone possono descriversi sui social network: una presentazione autentica di sé ed una strategica. Nel primo caso viene fornita una descrizione veritiera di se stessi e della propria vita, nel secondo invece, le persone mostrano unicamente contenuti positivi della propria esistenza, in modo tale da creare un’impressione più favorevole di sé.

Nello studio è stato chiesto a 278 utenti di Facebook di pubblicare contenuti che riflettessero se stessi o in modo autentico o in un modo più strategico; in seguito a questa operazione i soggetti hanno compilato un questionario.

È emerso che, solo nelle persone con elevata autostima, e non per quelle con bassa autostima, ad una presentazione autentica di sé si associa maggiore felicità. Invece una presentazione strategica, rende felici sia persone con alta che con bassa autostima. Afferma Jang:

[blockquote style=”1″]I nostri risultati suggeriscono che gli utenti con bassa autostima, probabilmente utilizzano Facebook come mezzo per aumentare il proprio benessere soggettivo, mostrando online solo le caratteristiche più desiderabili. Gli individui con bassa autostima sono maggiormente riluttanti a condividere le proprie caratteristiche, perchè non sono sicuri della propria immagine e percepiscono sé stessi meno attraenti socialmente rispetto alle persone con alta autostima [/blockquote]

Usare Facebook per stare meglio? Funziona davvero?

Le persone percepiscono Facebook come un ambiente relativamente sicuro, in quanto gli utenti possono scegliere i propri amici e controllare cosa viene condiviso. Inoltre momenti d’imbarazzo sono minori e maggiormente controllabili, rispetto ad interazioni di persona.

Le persone con bassa autostima, quindi, utilizzano Facebook come mezzo per condividere aspetti di sé con caratteristiche maggiormente desiderabili e positive, per migliorare la loro attrattiva ed aumentare il loro benessere.

Lo studio presenta alcuni limiti. Non è ancora chiaro se il guadagno in termini di benessere per le persone con bassa autostima sia una conseguenza duratura o temporanea. Subito dopo la pubblicazione di messaggi o immagini si riscontra un incremento del benessere, ma questi benefici potrebbero scomparire nel tempo, anche rapidamente.

I giovani e l’alcol: vecchi vizi e nuove tendenze

Sono sempre di più i giovani, tra gli 11 e i 15 anni, che manifestano comportamenti nell’uso di alcol assimilabili al fenomeno che in letteratura viene definito Binge Drinking.

Bulgarelli Alessandra – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Modena

 

«Bevo. Come potrei altrimenti affrontare l’orrore esistenziale e continuare a lavorare?»

Questa giustificazione dell’uso e dell’abuso di alcol è stata chiama da Stephen King la “spiegazione Hemingway” ma si adatta in realtà a un gran numero di forti bevitori. Giustificare i propri vizi è senz’altro umano, ma ciò, a occhio clinico, svela la volontà di perpetrarli e suscita domande sulle loro radici profonde.

Scopo di questo articolo è quello di proporre un quadro sintetico, ma attuale, rispetto all’assunzione smodata di alcolici, ponendo attenzione in particolare alle abitudini, ai vizi e alle tendenze dei giovani e degli adolescenti rispetto al consumo di alcol. Oggi, infatti, il vizio alcolico è un fenomeno ampiamente diffuso tra i ragazzi e la “bevuta”, che conduce all’eccesso, assume svariate connotazioni di natura psicologica, sociologica e culturale, oltre a presentare modalità nuove, solo di recente formulazione nella letteratura, come quella del Binge Drinking. Indagare questi aspetti e comprenderne i meccanismi è la sola strada per attuare le necessarie strategie preventive che siano in grado di curare, per così dire, prima che si presenti il male e di anticipare con le giuste azioni informative e sanitarie quella che spesso diviene una terapia tardiva.

Alcol e giovani: i numeri del fenomeno

Con il termine alcolismo intendiamo «il cronico disordine comportamentale, caratterizzato dalla ripetuta ingestione di bevande alcoliche in eccesso rispetto agli usi dietetici e sociali della comunità, con gravi conseguenze sulla salute del bevitore e sul suo funzionamento psicosociale» (Janiri & Martinotti, 2008).

L’alcol presente nella birra, nel vino e nei liquori è alcol etilico, meglio chiamato etanolo. Si tratta di una vera e propria droga perchè agisce sul sistema nervoso in maniera del tutto simile alle sostanze psicotrope e stupefacenti che determinano dipendenza. Gli effetti disinibenti ed euforizzanti dell’ alcol tendono ad indurre con maggior facilità le persone a farne uso perchè la sostanza permette di modificare illusoriamente la percezione di se stessi e della realtà.

Ogni anno, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono attribuibili, direttamente o indirettamente al consumo di alcol, il 10% di tutte le malattie, il 10% di tutti i tumori, il 63% delle cirrosi epatiche, il 41% degli omicidi, il 45% di tutti gli incidenti, il 9% delle invalidità e delle malattie croniche.

I giovani sono i più vulnerabili agli effetti sia fisici che mentali dell’ alcol e pertanto sono più esposti ai suoi rischi. I ragazzi tra gli 11 e i 15 anni sono orientati in numero sempre più crescente verso il modello che in America è chiamato Binge Drinking, cioè un abuso di alcol concentrato in singole occasioni. In particolare, gli episodi sono circoscritti al fine settimana: i ragazzi bevono in modo occasionale, alle feste, all’aperitivo o in discoteca, e raramente da soli. Questo comportamento ha effetti devastanti sulla salute in quanto l’organismo di un adolescente è ancora in completa evoluzione e l’alcol ha l’effetto di rallentare lo sviluppo mentale (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Attualmente, in letteratura, la definizione di Binge Drinking è ampiamente utilizzata. Wechsler, nell’ormai noto report del 1992 (Wechsler & Isaac, 1992), lo definì come «l’assunzione di cinque o più drink alcolici in una stessa serata da parte degli uomini e quattro o più per le donne».

Binge Drinking e Binge Drinker

Binge drinking letteralmente significa “bevute compulsive”. In realtà, non si tratta di una vera e propria tendenza legata all’alcool, quanto piuttosto di una tendenza rivolta alla ricerca dello “sballo”, ricercato ingerendo alcolici in quantità superiore al dovuto, solitamente a stomaco vuoto. È una tendenza pericolosa, rispetto alla quale non sempre il soggetto che manifesta Binge Drinking è consapevole delle conseguenze a cui può portare il suo comportamento.

Risulta opportuno descrivere il Binge Drinker sia sulla base della quantità di alcol ingerito che di frequenza d’attuazione del comportamento di abuso. Un episodio di Binge Drinking è caratterizzato dal consumo di 4 o più drink in una sola occasione per le ragazze e più drink per i ragazzi.

Dal punto di vista psicologico, è fondamentale ricordare che, al di là della sostanza ingerita, lo scopo principale delle abbuffate alcoliche è la perdita di controllo, l’ubriacatura. Spesso, dunque, la sostanza rappresenta solo un mezzo e non un fine.

I soggetti possono essere classificati in funzione del consumo alcolico (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008):

  • Non bevitore: abitualmente non consuma alcol o beve una o due volte all’anno
  • Bevitore sociale: beve normalmente alcol con una frequenza che va da 3 o 4 volte all’anno a 3-4 volte alla settimana, senza episodi di Binge Drinking nelle ultime 2 settimane
  • Binge drinker: da 1 a 4 episodi di Binge Drinking nelle ultime due settimane
  • Forte bevitore: più di 4 episodi di Binge Drinking nelle ultime 2 settimane

Le categorie del Binge Drinker possono essere utilizzate anche con soggetti non clinici nell’ambito della ricerca sul consumo e sugli stili di vita dei giovani e fanno riferimento soprattutto al comportamento attuato dal soggetto nell’unità di tempo presa in considerazione.

La prima intossicazione alcolica si verifica di solito intorno ai 13 anni, l’abuso tende poi ad intensificarsi durante l’adolescenza mostrando un picco massimo tra i 18 e i 22 anni, con un tasso più elevato in particolare tra i giovani studenti universitari. Esistono alcune differenze fondamentali nel consumo di alcolici, basate sull’etnia, sulla vicinanza a rivendite di alcolici, sulla presenza o assenza di norme sul consumo di alcolici. L’incidenza varia poi a seconda del sesso, con una la prevalenza del fenomeno tra i maschi: i ragazzi che tendono a mettere in atto comportamenti di Binge Drinking tre o più volte a settimana sono il 56%, contro il 43% delle ragazze. Le percentuali più rilevanti si registrano tra i maschi con un’età superiore ai 21 anni e tra le femmine tra i 12 e i 20 anni. Poi, in genere, la frequenza di fenomeni di bevute compulsive tende a diminuire (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Solo una bassa percentuale (22% per i maschi, 17% per le femmine) ha iniziato a bere alcolici in famiglia, sotto il controllo di un adulto. Il comportamento genitoriale è di particolare rilevanza nel far comprendere all’adolescente, sia dal punto di vista cognitivo che affettivo, la differenza tra l’uso e l’abuso di alcol. (Baiocco, D’Alessio, Laghi 2008)

Il modello di Fishbein (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008) ci permette di analizzare l’uso e l’abuso di alcol in relazione alle intenzioni personali degli adolescenti, a loro volta modulate dalla pressione sociale e dagli atteggiamenti. Secondo questo modello, la spinta al bere compulsivo viene determinata dalla “pressione sociale”, a sua volta dipendente dalle ipotesi normative, cioè dalle opinioni in merito alle aspettative di coloro da cui gli adolescenti desiderano approvazione. In secondo luogo, l’intenzione al bere sarebbe determinata dall’atteggiamento, cioè dalle aspettative che l’adolescente ripone sul fatto che l’assunzione alcolica determinerà un miglioramento del proprio stato affettivo.

Per quanto riguarda, infine, cià che nello specifico bevono i Binge Drinkers, le ricerche mostrano una prevalenza di super alcolici (36%), birra (22%), liquori (18%) e vino (16%) (Baiocco, D’Alessio & Laghi, 2008).

Perchè i giovani bevono? Diverse prospettive a confronto

Secondo la prospettiva della Social Cognition, l’abuso di alcol da parte degli adolescenti è legato all’utilizzo di strategie di coping disadattive (Bear, 2002). I giovani Binge Drinkers attribuirrebbero all’alcol la capacità di ridurre le tensioni e favorire le prestazioni sociali, questo li porta dunque con più probabilità a ricorrere all’alcol nelle situazioni percepite come stressanti. I maschi, in particolare, utilizzano uno stile di coping evitante, dove la modalità più utilizzata è quella che in letteratura si definisce “diversivo sociale”. Le ragazze, invece, utilizzano uno stile di coping emozionale, caratterizzato da ansia, rabbia, sensi di colpa rispetto agli stress da gestire. Di contro, i giovani di entrambi i sessi che fanno uso moderato di alcol utilizzano uno stile basato sull’analisi e sulla valutazione del problema quando ritengono tali stress “situazioni modificabili”. I Binge Drinkers, e ancora di più gli Heavy Drinkers (bevitori forti), considerano invece gli eventi stressanti come immodificabili e ricorrono spesso all’alcol, attribuendogli la capacità di evitare o persino di negare tali stress.

In maniera differente, uno schema interpretativo può spiegare l‘abuso alcolico ricorrendo al bisogno di colmare un vuoto esistenziale, tuttavia il fenomeno appare più complesso e, come nel caso di ogni dipendenza, anche il bere assume differenti valenze, che possiamo riassumere schematicamente in questo modo:

  • Socializzazione: quando aumentano le situazioni sociali per farlo (bar, feste con amici, discoteca), soprattutto se si trascorrono molte ore fuori casa o si ha molto tempo libero, l’assunzione di comportamenti di abuso alcolico tra i giovani aumenta. L’alcol viene spesso considerato dai giovani un mezzo per integrarsi socialmente e per ridurre la tensione, al contrario dei giovani adulti i quali dichiarano di bere per divertimento, per stare bene, per essere alla moda, per sembrare estroversi o semplicemente per combattere la noia. È importante rilevare come nella letteratura specializzata, proprio la “noia” viene assunta come principale causa dell’assunzione di comportamenti potenzialmente rischiosi per la salute, come l’uso di alcolici.
  • Trasgressione: la capacità del pensiero astratto, che si sviluppa proprio nell’adolescenza, porta a criticare i valori del mondo dell’adulto, l’autorità, le leggi, gli obblighi. Anche l’alcol, indicato tutt’ora come divieto, come limite del lecito oltre al quale l’adolescente può inoltrarsi solo trasgredendo, letteralmente “incamminandosi oltre” (lat. Trasgredior), assume l’aspetto di un comportamento di rottura, col quale l’adolescente esprime la propria debole opposizione a una realtà che fatica a riconoscere come propria. In tal modo, il giovane esprime la propria adesione ad un tipico archetipo occidentale della cultura adolescenziale: quello del trasgressore. Purtroppo, con tutti i rischi che questo comporta sulla salute.
  • Cultura del Rischio: esiste una “cultura del rischio” che spiega la valorizzazione che i giovani attribuiscono a gesti pericolosi, come l’assunzione di alcol, droghe, comportamenti sessuali estremi, ricerca di sensazioni forti. La cultura del rischio si presenta sfaccettata: secondo un’indagine condotta nel 2012 (Bastiani Pergamo & Drogo, 2012), alla domanda “perchè assumere rischi volontari?” il 90% dei giovani risponde: “per essere notati”, l’80%: “per sentirsi parte di un gruppo” e il 70%: per “vincere la paura”.

Da ultimo, uno sguardo agli studi sociologici ci porta a considerare l’abuso di alcol come strettamente collegato al concetto di devianza proprio di ogni società. Per questo nell’Ottocento l’alcolista era considerato un criminale, nella prima metà del Novecento un malato mentale e, solo nel dopoguerra, un soggetto in qualche modo malato e bisognoso di un programma di recupero.

Strategie terapeutiche, prevenzione e promozione della salute

Il concetto di prevenzione, intesa come semplice profilassi, cioè come educazione sanitaria legata alla cultura medica, ha sottolineato la necessità di un’educazione in grado di contrastare la visione dell’ alcol inteso come sostanza alimentare e che non etichetta come comportamenti “a rischio” il suo uso e il suo abuso. Tuttavia, la carenza di programmi di educazione alla salute ha portato la popolazione giovanile a ignorare i rischi dell’alcol (Pollo, 2012).

Appare quindi importante definire una vera e propria strategia di prevenzione rivolta alla diminuzione dei consumi alcolici e all’adozione di stili di vita sani nei giovanissimi. Fare prevenzione significa “produrre dei cambiamenti stabili nel tempo e che vanno al di là dell’intervento individuale. È necessario creare programmi che non si limitino a interventi riparativi e limitati nel tempo bensì che coinvolgano le persone e le rendano consapevoli delle loro scelte” (Bastiani Pergamo & Drogo, 2012).

Adolescenza: i cambiamenti nel comportamento sociale sono dovuti agli ormoni? – FluIDsex

Cosa determina i cambiamenti nel comportamento sociale durante l’ adolescenza? E’ davvero colpa degli ormoni? La risposta di un recente studio condotto a Buffalo.

 

E se non fossero gli ormoni sessuali rilasciati in pubertà a dettare i cambiamenti nel comportamento sociale degli adolescenti?

L’autore dello studio recentemente uscito sulla rivista Current Biology, Matthew Paul, assistente professore del Dipartimento di Psicologia dell’University at Buffalo (UB), ritiene che i cambiamenti sociali che si verificano durante il periodo dell’ adolescenza siano indipendenti dai cambiamenti ormonali.

E per dimostrare ciò, dato che pubertà e adolescenza insorgono contemporaneamente, è necessario separare i due processi. Non potendo scindere questi due processi in un soggetto umano, i ricercatori di questo studio hanno riprodotto questo processo di separazione sui criceti siberiani.

L’ adolescenza è risaputo essere un periodo critico. Le motivazioni che rendono tale periodo perturbato sono varie, tra cui lo sviluppo di un pensiero complesso dato dal pieno sviluppo cognitivo, il passaggio dallo status di bambino a quello di adulto e gli innumerevoli altri cambiamenti di carattere biologico, psicologico e sociale. Per quanto riguarda infatti, le relazioni, in questa fase di sviluppo l’attenzione si sposta dalla famiglia al gruppo dei pari.

Qual è la differenza tra pubertà e adolescenza?

È stato spesso ritenuto che questo insieme di variegati cambiamenti dipendano dalla pubertà, ovvero dall’aumento del rilascio di ormoni gonadici.

I co-autori dello studio Clemens Probst, studioso del Massachusetts General Hospital, Geert de Vries, professore alla Georgia State University e Lauren Brown, uno studente laureato alla UB, ricordano come in termini colloquiali pubertà e adolescenza vengano utilizzati come sinonimi, eppure sono due processi biologicamente distinti.

  • La pubertà è quel processo attraverso cui, in seguito all’attivazione dell’asse riproduttivo, le persone sviluppano, oltre alle caratteristiche sessuali secondarie, la capacità di riprodursi
  • L’adolescenza, invece, non si riduce ad un cambiamento prettamente ormonale e biologico, ma oltre a comprenderlo, include anche cambiamenti di carattere cognitivo, sociale ed emotivo.

Tutti i cambiamenti evolutivi dipendono dagli ormoni puberali?

Utilizzando i criceti siberiani, una specie animale di allevamento stagionale, il dr. Paul è stato in grado di controllare i loro tempi puberali.

I criceti siberiani nati all’inizio della stagione riproduttiva (quando le giornate sono lunghe) attraversano rapidamente i cambiamenti puberali per riprodursi nello stesso anno, a circa 30 giorni dalla nascita. Invece i criceti nati in ritardo (quando le giornate sono più brevi), subiscono un ritardo anche nell’ insorgenza puberale per evitare parti in pieno inverno. Infatti, l’ arrivo della pubertà per loro si attesta intorno ai 100 giorni di età.

Dati i presupposti della specie, il dr. Paul ha deciso di controllare sperimentalmente la luce che un criceto riceve e ritardare così l’arrivo della pubertà. Nel frattempo, il ricercatore ha osservato i comportamenti di passaggio dal gioco al predominio sociale (passo importante per i criceti siberiani per disperdersi, ovvero trovare il proprio territorio).

I criceti sono stati divisi in due gruppi, che affrontano il passaggio puberale in momenti differenti, in modo da consentire un’osservazione temporale dei comportamenti sociali sopracitati.

Comportamenti sociali e ormoni: i risultati dello studio

Il gruppo di ricerca ha scoperto che la transizione dal gioco alla dominanza si è verificata in entrambi i gruppi di criceti (sia quelli a lunga giornata sia quelli a breve giornata) nello stesso momento, indipendentemente dal momento puberale. In questo modo la transizione gioco-dominanza è avvenuta ben prima della pubertà, per i criceti del secondo gruppo, in cui la pubertà è iniziata a 100 giorni. Sostiene il dr. Paul:

[blockquote style=”1″]Questi risultati sono importanti anche per la salute mentale degli adolescenti. Comprendere i meccanismi alla base dello sviluppo adolescenziale fornirà informazioni sul perché così tanti disturbi mentali si presentano durante questo periodo della vita[/blockquote]

Inoltre, egli non sembra esser titubante nel creare questo parallelismo tra comportamento animale e umano, in quanto

[blockquote style=”1″]Il gioco è un comportamento importante in molte specie, in particolare i mammiferi. È conservato in modo evolutivo, nel senso che non è stato perso da un antenato comune in quanto le specie si sono staccate l’una dall’altra nell’albero evolutivo. Poiché il gioco è espresso in così tante specie, è probabile che stia svolgendo una funzione importante, anche negli umani. Suggerisce anche che ciò che impariamo dai nostri criceti sarà probabilmente vero per molte altre specie[/blockquote]

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Realtà virtuale: nuovo alleato del terapeuta CBT nel trattamento delle paranoie in pazienti con disturbi psicotici?

Secondo un nuovo studio pubblicato su The Lancet Psychiatry la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) basata sulla realtà virtuale può aiutare a ridurre la paranoia e apporta benefici sulla cognizione sociale nelle persone con disturbi psicotici.

 

I ricercatori hanno implementato un disegno di ricerca controllato e randomizzato di terapia cognitivo-comportamentale basata sulla realtà virtuale personalizzata in 116 pazienti con un disturbo psicotico e ideazione paranoide. La ricerca prevedeva sedici sessioni di terapia in realtà virtuale, ciascuna della durata di un’ora. I risultati alla fine delle sessioni sperimentali mostrano una significativa riduzione delle autovalutazioni riferite alla paranoia sia immediatamente dopo il trattamento che in seguito a un follow-up a 6 mesi. Al contrario, il gruppo di controllo trattato con cure classiche quali antipsicotici, consultazioni psichiatriche e trattamenti riabilitativi, ha mostrato un leggero aumento dei pensieri paranoici. Gli autori hanno notato anche modificazione nella cognizione sociale, osservando miglioramenti nel funzionamento interpersonale.

Realtà virtuale in terapia: quali vantaggi offre?

Uno dei grandi vantaggi dell’utilizzo della CBT basata sulla realtà virtuale è quello che essa può essere utilizzata per aggirare alcuni limiti delle terapie più classiche basate sull’esposizione. Nelle impostazioni di realtà virtuale, infatti, l’ambiente e i personaggi possono essere totalmente gestiti dal terapeuta. Ad esempio, lo studio prevedeva lo svolgimento della terapia in 4 ambienti sociali virtuali: nel mezzo di una strada, su di un autobus, all’interno di un bar e in un supermercato. Il terapeuta era in grado di controllare le caratteristiche delle risposte di 40 avatar umani, consentendo in questo modo esercizi di trattamento personalizzati per ciascun paziente.

Gli autori hanno affermato che

[blockquote style=”1″]I pazienti comunicavano con il terapeuta durante la sessione di realtà virtuale descrivendo il pensiero paranoide che scaturiva nella situazione sociale inscenata, permettendo così di abbandonare i “safety behaviors” che solitamente questi pazienti mettono in atto: evitare il contatto oculare, mantenere la distanza e astenersi dalla comunicazione[/blockquote] .

I limiti maggiori della ricerca sono risultati essere: la presenza di un unico follow-up dopo 6 mesi che non ha permesso di stabilire gli effetti a lungo termine di questa forma innovativa di CBT. Inoltre, alcuni pazienti hanno rifiutato di partecipare alla ricerca poiché ritenevano l’ambiente virtuale troppo terrificante, per questo motivo il campione non include i pazienti più paranoici ed evitanti.

In conclusione, appaiono sicuramente necessarie ulteriori ricerche per indagare l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale all’interno della terapia cognitivo comportamentale, quello che si può affermare è che emergono dati a favore dell’utilizzo di questo tipo di terapia in pazienti con disturbi psicotici e paranoidi, oltre che con i pazienti ossessivo-compulsivi come affermano diversi studi presenti in letteratura.

Yoga e ritmo di respirazione: perchè aiutano a gestire ansia e paura

Uno studio pubblicato recentemente su Nature Communication ha dimostrato l’interazione tra pattern di neuroni appartenenti al sistema olfattivo, il comportamento e il ritmo respiratorio. Un’evidenza a favore delle pratiche di meditazione e di Yoga, legate alla respirazione ritmica, nell’alleviare i sintomi ansiosi.

 

Diversi studi (Yackle, Schwarz et al., 2017) avevano precedentemente sottolineato come la modulazione delle onde cerebrali potesse anche avvenire tramite i centri del tronco dell’encefalo relativi alla respirazione; tuttavia poco si sapeva sull’impatto della respirazione sui circuiti neurali tramite il sistema olfattivo.

Con ogni ciclo respiratorio, il flusso d’aria attiva l’attività neurale nel bulbo olfattivo (OB) e nelle cortecce olfattive tramite l’attivazione dei neuroni olfattivi meccano-sensitivi nell’epitelio nasale. Quando questi neuroni sono compromessi, le attività legate alla respirazione diminuiscono (Onoda & Mori, 1980).

Tuttavia recenti studi hanno evidenziato come il flusso d’aria sia in grado di influenzare i circuiti neurali in diverse aree cerebrali oltrepassando le vie olfattive: nei ratti, la corteccia prefrontale e l’ippocampo mostrano delle oscillazioni che sono strettamente associate con la respirazione, oscillazioni che subiscono interferenze quando i segnali olfattivi periferici vengono rimossi (Biskamp, Bartos & Sauer, 2017).

Da qui l’idea che le oscillazioni in queste regioni fossero modulate dai ritmi respiratori per mantenere l’omeostasi fisiologica (Kleinfeld, Deschênes et al., 2014).

Yoga e respirazione: cosa succede nel cervello?

Basse frequenze delle oscillazioni fanno in modo che avvenga la sincronizzazione delle regioni corticali con quelle sottocorticali; queste  vengono reclutate per differenti comportamenti come si osserva nella discriminazione di stimoli avversivi e nell’espressione della paura che si producono a seguito dell’interazione dinamica fra la corteccia prefrontale, l’amigdala basolaterale e l’ippocampo (Likhtik, Stujenske et al., 2014).

Specificamente, l’espressione comportamentale delle memorie di paura, come il freezing, è associata con le oscillazioni di 4-Hz del circuito che coinvolge la corteccia prefrontale e l’amigdala (Karalis, 2016).

Partendo da tutte queste evidenze, Ma, Moberly, Schreck e colleghi (2018) hanno investigato il ruolo della respirazione e del sistema olfattivo nei circuiti preposti alle risposte fisiologiche e comportamentali della paura e dell’ansia.

In particolare nel loro studio sui ratti, gli autori, concentrandosi sulla corteccia prefrontale prelimbica (plPFC), hanno combinato l’optogenetica, l’elettrofisiologia e i comportamenti animali con lo scopo di comprendere i meccanismi che consentissero a input olfattivi di modulare i ritmi respiratori e a sua volta di influenzare plPFC e i comportamenti di freezing (Ma Moberly, Schreck et al., 2018).

Dapprima i ricercatori hanno indotto nei ratti, tramite condizionamento, il freezing, addestrandoli ad associare un suono ad uno shock. È bene sottolineare che nei ratti, utilizzati negli esperimenti, l’attività cerebrale in plPFC e nel bulbo olfattivo (OB) è stata misurata tramite elettrodi mentre questi erano in stato di freezing.

Tramite la misurazione dell’attivazione di OB durante l’inalazione di un flusso d’aria, di plPDF e del comportamento di freezing, i ricercatori hanno osservato come quest’ultimo, il ritmo respiratorio e l’attività elettrica dei circuiti neurali fossero sincronizzati e coordinati letteralmente sulla stessa lunghezza d’onda, 4 Hz (Ma Moberly, Schreck et al., 2018).

I risultati dello studio

Lo studio di Ma, Moberly, Schreck e colleghi (2018) ha dimostrato come nei topi vi sia una sincronizzazione tra respirazione nasale e comportamento rafforzando l’ipotesi per cui la respirazione ha degli effetti su di esso e sulla regolazione autonomica prodotta dai circuiti predisposti alle reazioni di paura e ansia. Gli umani diversamente dai roditori sono in grado di modificare il ritmo e la frequenza respiratoria in modo volontario e consapevole tramite la meditazione e la pratica dello yoga.

Pertanto tale studio (2018) dimostrerebbe come effettivamente un cambiamento nella respirazione possa influenzare i circuiti neurali e autonomici e di conseguenza i comportamenti e gli stati emotivi.

Sarebbe interessante investigare quale specifico pattern di respirazione sia più efficace nell’influenzare l’attività cerebrale e gli stati emotivi e se realmente diversi tipi di frequenze respiratorie hanno effetti diversi su di essi.

Le memorie traumatiche nel Disturbo Ossessivo Compulsivo – Report del seminario internazionale dell’Università di Firenze

Lo scorso 21 marzo si è tenuto presso la sede del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze, un seminario internazionale incentrato sulla rassegna di alcuni dei più recenti sviluppi scientifici nell’ambito del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo complesso.

 

Ha introdotto il seminario il Professor Davide Dèttore (Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze), che ha illustrato come indagare l’eventuale presenza di aspetti traumatici nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), soprattutto in pazienti resistenti ai gold standard del trattamento indicati nelle linee guida internazionali (tipicamente psicoterapia CBT e farmaci serotoninergici), trovi giustificazione nelle evidenze scientifiche più recenti. Vari studi negli ultimi anni hanno suggerito, infatti, che un evento traumatico possa avere un ruolo nell’eziopatogenesi del Disturbo Ossessivo Compulsivo e, in altri casi, che possa esistere un legame tra quest’ultimo ed il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).

Il Dottor Jaime Delgadillo (Department of Psychology, University of Sheffield, UK) ha presentato alcuni trial randomizzati controllati che hanno evidenziato una sinergia positiva nel trattamento del DOC associando la terapia cognitivo-comportamentale standard (CBT) all’approccio terapeutico EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), efficace nel favorire la desensibilizzazione e la rielaborazione di ricordi traumatici o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo attraverso i movimenti oculari o delle stimolazioni tattili.

Il Dottor Nitsa Nacash (Department of Psychiatry, Chaim Sheba Medical Center, Tel Ashomer, Israel) ha illustrato alcuni studi in cui sono state utilizzate tecniche di Esposizione per il trattamento di ossessioni post-traumatiche.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da relazione

L’intervento del Professor Guy Doron (Baruch Ivcher School of Psychology Interdisciplinary Center Herzliya, Israel) è stato incentrato sulla presentazione di alcuni studi sulle memorie di conflitti relazionali in soggetti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo da relazione. Si tratta di una manifestazione particolare del DOC in cui le ossessioni sono incentrate sulla relazione o sul partner. Nel primo caso, le persone si sentono perseguitate da dubbi e preoccupazioni su ciò che provano nei confronti dei loro partner, sui sentimenti che i partner hanno nei loro confronti e su quanto la relazione sia o meno quella ‘giusta’. Nel caso di una sintomatologia focalizzata sul partner, invece, il nucleo delle ossessioni è rappresentato da caratteristiche fisiche del partner, da qualità sociali o ancora da aspetti quali, ad esempio, la moralità, l’intelligenza o la stabilità emotiva. I sintomi del DOC da relazione possono essere estremamente invalidanti e ingenerare costanti richieste di rassicurazione e rimuginii.

Sono inoltre stati identificati specifici fattori di vulnerabilità, quali particolari credenze disfunzionali, perfezionismo clinico, attaccamento insicuro, tratti narcisistici e/o borderline di personalità, instabilità del . Negli studi presentati, sono stati indagati in particolare l’esposizione alla conflittualità genitoriale e a quella tra genitori e figli. E’ emerso dai risultati come l’acquisizione di modelli relazionali negativi possa costituire un fattore predittivo rispetto allo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi, oltre a causare interferenze nel funzionamento relazionale e sessuale, credenze catastrofiche in ambito sentimentale e vulnerabilità dell’autostima.

Dissociazione e disorganizzazione in pazienti DOC

Il ruolo della dissociazione e della disorganizzazione dell’attaccamento in pazienti DOC resistenti è stato illustrato dal Dottor Fabio Monticelli (Centro Clinico De Sanctis, Roma), che ha evidenziato come in questo gruppo particolare di disturbi dissociativi giochino un ruolo fondamentale i Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI). Il genitore spaventante genera uno stato mentale di paura senza sbocco alla quale si può reagire solo in termini di attacco, fuga o dissociazione. Se contempliamo l’idea di uno “spettro psicopatologico dissociativo” in cui i due poli sono costituiti, rispettivamente, dall’attaccamento sicuro e da quello disorganizzato, in quest’ultimo si riscontreranno esperienze di dissociazione come, ad esempio, dissociazione cognitivo-affettiva o congelamento (freezing).

Gli studi presentati hanno messo in evidenza come nei casi in cui i sistemi motivazionali interpersonali siano multipli, scomposti e disorganizzati si riscontrino sintomi dissociativi. Pertanto, nel trattamento di questo particolare sottogruppo di pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo potrebbe essere utile strutturare un intervento differito, nel quale si proceda anzitutto a stabilizzare i sintomi dissociativi, senza perdere di vista l’importanza della relazione terapeutica che si instaura con questi pazienti. Solo successivamente alla stabilizzazione sarebbe possibile intervenire con le tecniche CBT indicate per il trattamento del DOC, come l’Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP).

Conclusioni e ringraziamenti

A conclusione del seminario, il Dottor Gian Paolo Mazzoni (Studi Cognitivi, Firenze) ha presentato tre casi complessi di DOC con diversi livelli di intensità sintomatologica che sono stati trattati in setting differenti, rispettivamente in struttura residenziale, in contesto ambulatoriale ed in studio privato. In tutti e tre i casi è stata utilizzata la tecnica terapeutica EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per gestire le memorie traumatiche e superare le resistenze al trattamento, così come indicato in ricerche recenti, in base alle quali quest’ultima può essere utilizzata in associazione alla psicoterapia CBT standard o in forma singola.

Al momento i risultati emersi rispetto al trattamento dei dati clinici e di ricerca presentati nel corso del seminario possono contribuire a delineare nuove ed interessanti prospettive di intervento da incrementare e verificare sperimentalmente per la terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo complesso.

Questo seminario ha messo ancor più in evidenza, data la complessità sintomatologica e di trattamento del DOC, l’utilità della ricerca in questo ambito, al fine di riuscire a migliorare sempre di più la qualità e l’efficacia dei trattamenti. Inoltre é emersa, altresì, l’utilità di una formazione specifica e sempre più mirata per i clinici che intendano occuparsi di questo disturbo dalla struttura multiforme e complessa.

Un sentito ringraziamento va all’Università di Firenze, in particolare al professor Dèttore, per aver ospitato e presentato l’evento, agli organizzatori quali il Dottor Pozza ed a tutti gli ospiti italiani ed internazionali che sono intervenuti con i loro innovativi contributi.

Cognitivismo Clinico n. 2, Dicembre 2017: l’ editoriale – Ricerca e psicoterapia

Questo numero speciale di Cognitivismo Clinico è dedicato alla presentazione di sette lavori, sei dei quali sono tesi magistrali che hanno ricevuto il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva” indetto dalla sezione regionale Lazio della Società Italiana di Terapia Comportamentale Cognitiva (SITCC Lazio) nel 2017.

 

La SITCC è una società scientifico-professionale che ha come oggetto sociale la promozione delle attività che conducono a un approfondimento degli aspetti teorici, metodologici, clinici e applicativi nell’approccio cognitivo e comportamentale alle tematiche e ai problemi psicologici, psichiatrici e sociali. Tale mandato statutario rispecchia la profonda convinzione della necessità imprescindibile di collegare l’intervento terapeutico alle conoscenze sulle strutture e sui processi mentali messi in luce dalla ricerca scientifica in ambito psicologico e all’obbligo di proporre trattamenti di dimostrata efficacia. Al fine di incoraggiare e promuovere la ricerca in psicoterapia cognitiva e, più in generale, nella psicopatologia sperimentale, e contribuire alla diffusione di una cultura psicoterapeutica fondata sulla ricerca sperimentale, da due anni la SITCC Lazio organizza il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva” riservato a tesi magistrali inerenti ricerche sugli esiti e sul processo terapeutico in psicoterapia cognitiva, e sui processi psicologici che generano e mantengono la psicopatologia.

Non ha partecipato al concorso per il Premio “Fare e Conoscere la Ricerca in Psicoterapia Cognitiva”, l’articolo “La mente non accettante” anche se deriva dalla tesi magistrale di Elio Carlo, relatore Francesco Mancini, perché la tesi è stata presentata dopo la chiusura dei termini per partecipare alla selezione.

In questo numero di Cognitivismo clinico verranno presentati sette lavori inerenti temi diversi, tra cui la procrastinazione, la ruminazione e il suo ruolo nella fobia sociale, il problema secondario nella fobia sociale, il disgusto nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, i bias di memoria nella Depressione, i processi cognitivi alla base della “mente non accettante”.

Cognitivismo clinico presenta le testi di Laurea premiate

  • Il lavoro di Salvatori sulla procastinazione

Nel primo lavoro Salvatori presenta un’interessante rassegna sulle origini della procrastinazione, sui relativi meccanismi psicopatologici e sulle tecniche di intervento cognitivo comportamentali. In particolare in questo lavoro si sottolinea la trasversalità di questo processo, che accomuna diverse forme di psicopatologia come fattore di vulnerabilità e di mantenimento.

  • La ruminazione nella fobia sociale: Aquino e Liguoro con Couyoumdjian

Il secondo lavoro presentato nell’ultimo numero di cognitivismo clinico da Aquino e Couyoumdjian è una ricerca che prende in considerazione il ruolo che la ruminazione ha nel mantenimento della fobia sociale. Nello specifico hanno confrontato un gruppo di fobici sociali con un gruppo di soggetti non clinici per verificare l’ipotesi di una differente variabilità cardiaca e attivazione fisiologica associata alla ruminazione post-evento.

Il terzo lavoro di Liguoro e Couyoumdjian esamina il ruolo della ruminazione come fattore di mantenimento della fobia sociale. Nello specifico viene indagato l’effetto della ruminazione sul valore personale e sul tono dell’umore, e si osserva come il pensiero ripetitivo incrementi stati emotivi negativi, pensieri negativi e autocritica.

  • Il secondario nella fobia sociale: Morticcioli e Couyoumdjian

Anche il quarto lavoro di Morticcioli e Couyoumdjian prende in esame gli effetti del problema secondario nel mantenimento della sintomatologia della fobia sociale, tuttavia gli autori si concentrano sull’efficacia di alcune tecniche di intervento orientate alla riduzione del secondario. In sintesi, osservano che le tecniche di defusione risultano essere più efficaci rispetto all’esposizione.

  • Disgusto e DOC: Ferracuti e Couyoumdjian

Ferracuti e Couyoumdjian, nel quinto studio presentato su Cognitivismo Clinico, si propongono di differenziare i correlati psicofisiologici del disgusto morale confrontando soggetti con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e soggetti con DOC di Personalità. Effettivamente dai risultati i due disturbi si differenziano per attivazione di sistemi psicofisiologici con caratteristiche differenti.

  • Bias mnestici nel disturbo depressivo: Torre e Couyoumdjian

La sesta tesi magistrale qui presentata di Torre e Couyoumdjian ha indagato i bias mnestici nel disturbo depressivo indagandone l’associazione con gli stili di personalità di Blatt analitico e introiettivo. Gli autori hanno osservato che i depressi hanno difficoltà a ricordare singoli episodi passati, e mostrano un bias verso i ricordi a contenuto negativo, ciò riguarda soprattutto i depressi-dipendenti.

  • La mente non accettante: Mancini e Carlo

Infine, l’ultimo lavoro sviluppato da Mancini e Carlo presenta un interessante modello della “mente non accettante”, che comprende le strategie cognitive e gli stili di ragionamento che ostacolano il disinvestimento da scopi compromessi o minacciati. In altre parole, prendendo spunto dalla Hyper Emotion Theory e dalle ben note strategie cognitive precauzionali, gli autori forniscono una chiara lettura dei meccanismi cognitivi della “mente non accettante”, che sarebbero alla base dello sviluppo dei disturbi emotivi e, soprattutto, del loro mantenimento e aggravamento.

Sette: analisi psicologica dei meccanismi di affiliazione e affrancamento – Report dal webinar organizzato dall’OPL

Si è svolto lo scorso 18 aprile un interessante evento Webinar, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia e aperto ai professionisti di tutti gli Ordini regionali, che ha indagato il fenomeno delle sette e i meccanismi di affiliazione attraverso cui i nuovi adepti vengono “captati” all’interno delle sette, e realtà totalitarie, dotate di propri codici insindacabili e finalizzate all’attaccamento esclusivo agli ideali del gruppo settario.

 

Relatrice esperta la Dottoressa Lorita Tinelli, psicologo, specializzato in criminologia e fondatrice del CESAP, Centro Studi Psicologici Abusi Psicologici Onlus.

Il termine sette si riferisce alla funzione delle stesse, ovvero quella di separare, nel senso di un distacco dalle realtà sociali, alla guida di un leader con precise caratteristiche – precisa Tinelli.

Un fenomeno allarmante e che necessita di interventi di tipo psicoterapeutico e criminologico: ottomila le sette in Italia, 600 mila gli adepti in Italia e 500 milioni nel mondo, secondo un’indagine di Focus dell’Aprile 2006, all’origine di storici fatti di sangue. Resterà nella memoria collettiva il caso del reverendo Jim Jones, predicatore statunitense, che ordinò (e ottenne) il suicidio di massa di 909 membri della sua congregazione nello stato della Guayana, inclusi bambini per mano degli stessi padri. Cosa può aver spinto a tale decisione collettiva definitiva, quali i poteri carismatici di influenzamento e le finalità da attribuire al leader Jones e quali i meccanismi di controllo delle menti degli adepti?

In termini generali, finalità primaria del leader è l’indottrinamento dei suoi membri al fine di accentrare il poter su di sé, sfoderando uno spiccato narcisismo, e portando a un controllo totale dell’adepto, a vari livelli, compreso quello economico, con la frequente espoliazione dell’intero patrimonio dell’adepto o l’appropriazione dei proventi della sua attività professionale – sottolinea la docente – Nel caso Jones un genitore che decide di consegnare nelle mani del leader-predicatore il proprio figlio dimostra un totale controllo della sua mente e un’alienazione dal mondo e dalla sua funzione genitoriale. D’altronde anche i testimoni di Geova agiscono dimostrando una cieca acritica adesione alla dottrina del gruppo, quando proibiscono le trasfusioni e permettono la morte dei propri piccoli.

Un indottrinamento lento, quello delle sette, costante, inesorabile che si fonda sulle capacità seduttive del leader e sul sapiente utilizzo di tecniche di indebolimento della volontà, e che sfrutta personalità vulnerabili, malleabili, soddisfando bisogni di dipendenza affettiva.

Il leader di una setta ha precise caratteristiche che lo rendono seduttivo, in grado di vendere un prodotto che non c’è, alla ricerca di un solo vantaggio personale: si autodefinisce maestro, veggente, dedica molto tempo alla cura della sua immagine, inventando spesso anche storie false su di sé, come il possesso di lauree inesistenti, utilizzando uno stile linguistico ampolloso. Riguardo all’indottrinamento vengono utilizzati metodi scientifici per aggirare le difese psichiche, come la deprivazione del sonno, i digiuni, in grado di alterare lo stato di coscienza e facilitare l’indebolimento della volontà, oltre alle regole su chi abusare sessualmente. Ciò induce confusione mentale nei confronti di adepti di per sé vulnerabili, in particolari momenti di fragilità, che, in qualche modo, a fronte di una forza vacillante, sulla base di una scelta emotiva, sono spinti ad attribuire forza, verità, misticismo al guru, accettando fideisticamente tutto, compreso l’isolamento totale dalla famiglia e dagli amici, verso cui vinee indotta aggressività. Ben si comprendono i danni psicologici, che persistono anche dopo l’abbandono della setta: del 25%, infatti, è la percentuale di ex seguaci che soffrono di danni psicologici irreversibili, senza contare i danneggiamenti fisici che possono condurre alla morte continua Tinelli.

Nelle sette troviamo metodi comportamentali di influenzamento e convincimento a cui si affiancano tecniche psicologiche ben note nel campo della psicologia sociale, finalizzate alla persuasione e all’indebolimento delle capacità decisionali e di critica.

La tecnica dell’adescamento consiste nel dare al soggetto informazioni errate rispetto alla richiesta, aggiungendo particolari allettanti che poi verranno smentiti. Il vincolo psicologico nasce dalla credenza per il soggetto di avere preso liberamente una certa posizione, al punto da sentirsi vincolato a rispettarla, quindi a seguire la volontà e la dottrina del gruppo. Da ricordare anche la tecnica del piede sulla porta, che consiste nel coinvolgere il soggetto in un compito poco impegnativo (come la compilazione di un questionario) cui segue un altro più impegnativo. Ciò accade nei movimenti per lo sviluppo del potenziale che propongono innocui tests sulle proprie risorse personali su cui proporre dei corsi di miglioramento personale volti a colmare le carenze evidenziate dal test stesso, ma sempre più incalzanti e risolutivi rispetto al problema rilevato, e finalizzati alla dipendenza dal movimento stesso.

Un percorso di suggestione e induzione di una realtà “alternativa”, potremmo dire, che segue delle fasi specifiche, ben descritte dal modello di Steve Hassan: nella fase di decongelamento si inducono negli adepti dubbi sulla propria vita precedente, quindi vengono inseriti nuovi valori e “poteri”, come l’apprendimento di poteri magici per controllare l’ambiente o la convinzione dell’esistenza di vita ultraterrene, insomma una strutturazione di un nuovo ego più solido e forte che maschera quello precedente, e che costituisce un vero e proprio controllo del pensiero, su cui avviene infine una fissazione, un ricongelamento, una normalizzazione della “nuova vita”.

Controllo del pensiero certamente fondamentale, a cui si aggiunge un controllo del comportamento (abbigliamento per imitazione), un controllo emozionale e un controllo delle informazioni (non leggere o guardare certi programmi televisivi).

A fronte quindi della santificazione del leader che porta gli adepti a difenderlo anche a fronte di accuse di reato o di fallimenti nelle previsioni (come accade per le previsioni mai verificatesi sulla fine del mondo), frutto dell’adesione fideistica al gruppo, fonte di vita (al punto che l’espulsione equivale alla morte stessa), si pone un intervento di recupero complesso, che prevede per esempio la creazione di reti amicali, come coadiuvanti nel reinserimento sociale dell’adepto e nell’allontanamento dalla setta, e il supporto di professionisti, adeguatamente formati.

Per chi svolge la professione di psicologo non esistono corsi specifici all’interno dell’Università, per cui suggerisco una formazione eclettica per poter usufruire di strumenti operativi per la terapia, e l’appartenenza a realtà associative anche europee – conclude Tinelli.

Bullismo: un fenomeno in crescita. Come riconoscere episodi di bullismo e come intervenire

Un’importante preoccupazione con cui genitori e insegnati si trovano a fare i conti sono gli episodi di bullismo che, soprattutto tra gli undici e i tredici anni, si manifestano tra coetanei all’interno degli ambienti scolastici, ma anche sportivi.

Tale preoccupazione ha ragione di esistere soprattutto per il fatto che episodi di bullismo spesso si verificano lontano dalla supervisione degli adulti, ad esempio nei corridoi e nei bagni delle scuole, o negli spogliatoi nei contesti sportivi.

Con il termine bullismo ci si riferisce ad un insieme di comportamenti violenti, di natura intenzionale, che si protraggono nel tempo. Esso può essere di natura fisica, nel caso di agiti aggressivi e violenti nei confronti della vittima, o psicologica, che si manifesta attraverso pettegolezzi, prese in giro, ecc.. Esiste una forma di bullismo più indiretta, in cui il target dei comportamenti messi in atto dai bulli, non è la vittima, ma gli oggetti che ad essa appartengono. In questi casi, i bulli potrebbero nascondere o danneggiare oggetti che sono di proprietà della vittima, come nascondere i suoi libri o danneggiare il suo zaino.

Chi sono le vittime di bullismo?

Spesso atti di bullismo vengono prepetrati nei confronti di alcuni soggetti, piuttosto che altri, a causa dello stigma sociale, sulla base della razza, dell’orientamento sessuale, del genere o di altre caratteristiche. Da queste caratteristiche è possibile inferire che tali episodi vengano perpetrati nei confronti delle minoranze, che mostrano delle diversità, infatti, tra gli undici e i tredici anni, periodo in cui gli atti di bullismo raggiungono il loro apice, è presente un elevato conformismo tra gli adolescenti. Questo potrebbe spiegare come mai le minoranze vengano, in maniera sensibilmente più elevata, “prese di mira”.

Interventi e prevenzione

Sono state implementate diverse forme di interventi che si sono dimostrate utili nell’affrontare questa problematica. Innanzitutto, può essere molto importante portare avanti delle campagne di sensibilizzazione rispetto a tale fenomeno, che coinvolgano non solo gli studenti, ma anche i genitori. Ottenere la collaborazione e l’aiuto dei genitori è fondamentale, proprio perché episodi di bullismo sono difficili da scovare e si verificano spesso in contesti in cui gli adulti non possono esercitare la loro supervisione. Intervenire in maniera preventiva è spesso la scelta più saggia. Molte scuole, a tal proposito, adottano una politica anti-bullismo allo scopo di scoraggiare tale fenomeno, promuovendo invece la costruzione di un clima di classe basato sulla collaborazione e sulla messa in atto di comportamenti prosociali.

Data la rilevanza delle conseguenze negative a cui il fenomeno del bullismo sottopone tutti i suoi partecipanti, siano essi vittime, bulli oppure osservatori, è fondamentale che tale fenomeno non venga minimizzato o sottovalutato. Intervenire preventivamente sulla politica della scuola e sul clima di classe incide positivamente sul benessere e sul rendimento scolastico dei singoli alunni.

Farma party: la pericolosa moda delle feste a base di farmaci, sempre più diffusa tra gli adolescenti

Perché i farma party sembrano essere la nuova pericolosa moda degli adolescenti? Alcune caratteristiche adolescenziali correlano positivamente con la probabilità di mettere in atto comportamenti devianti o di utilizzare sostanze stupefacenti o, nel caso in esame, prodotti farmaceutici allo scopo di “sballarsi”.

Rachele Recanatini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I comportamenti devianti tra variabili biologiche e variabili psicosociali

I comportamenti cosiddetti devianti hanno alla base molteplici cause, che possono essere di tipo biopsico-sociale. Un atto considerato pericoloso, che viola le norme sociali, potrebbe infatti risultare multideterminato da una combinazione di variabili biologiche funzionali, come ad esempio un deficit a livello del lobo frontale, da processi psicologici, quali per ipotesi l’essere vittima di violenza e da fattori contestuali di riferimento, come l’instabilità economica (Baron, Richardson, 1994).

Durante il delicato periodo adolescenziale tali variabili risultano particolarmente significative, in quanto ricche di cambiamenti. A livello biologico si riscontra una notevole modificazione organica, nello specifico un decremento della sostanza grigia cerebrale nei lobi frontali e nella corteccia prefrontale, fenomeno chiamato “frontalization” (Rubia, 2000); un cambiamento proprio in quelle zone deputate al controllo degli impulsi, alla regolazione emotiva ed alla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni (Giedd, 2004); ciò indica come gli adolescenti siano maggiormente predisposti a fornire risposte comportamentali istintive (Yurgelun-Todd, 2006).

Le cause ambientali rivestono un ruolo altrettanto significativo. L’azione dell’ambiente appare maggiormente determinante sui minori rispetto agli adulti, a causa di una maggiore sensibilità agli stimoli esterni; infatti l’ambiente socioculturale di riferimento, ovvero l’insieme dei fattori sociali, culturali ed economici, le usanze e le abitudini, incidono profondamente sull’adolescente e sul suo eventuale comportamento antisociale (Monniello, Quadrana, 2010).

Il risk taking negli adolescenti

Numerose ricerche scientifiche sono ad oggi concordi nell’indicare come la delinquenza adolescenziale possa essere considerata una forma di “comportamento fisiologico”, che nella maggior parte dei casi regredisce in maniera spontanea (Zara, 2006). Le trasformazioni fisiologiche e psicologiche che avvengono a questa età, di fatto, incidono notevolmente sul desiderio di ribellione, di indipendenza e volontà decisionale, di contrasto con le figure di riferimento istituzionali e familiari, di accettazione nel gruppo dei pari. L’adolescente ricerca, per natura, forme di gratificazione immediata, subordinando la percezione e la valutazione delle conseguenze future (Zara, 2005). Il comportamento delinquenziale giovanile può essere visto come una modalità di risposta ad un cambiamento fisico e psicologico che l’adolescente spesso ha difficoltà a gestire, un’espressione di malessere esistenziale, una richiesta di attenzione, una curiosità di scoprire, una reazione alla frustrazione, un modo per uscire dalla noia, un sentirsi parte del gruppo.

L’insieme di tali caratteristiche definisce il concetto di risk taking, ovvero l’aumento dell’assunzione di rischio, atteggiamento tipicamente adolescenziale; un’attrazione per le sensazioni estreme, le emozioni forti, il coinvolgimento in attività pericolose, il senso di immediatezza degli agiti, la sfida verso l’autorità, la megalomania del sé ed il tipico pensiero dicotomico “tutto o niente” (Fuligni, 2002). Il sensation seeking e l’ impulse control sono costrutti alla base del risk taking adolescenziale (Lydon-Staley, Geier, 2017), e si riferiscono alla ricerca costante di sensazioni intense, che porta a voler superare i propri limiti e, spesso, a perdere il controllo.

Farma party: l’uso dei farmaci per “sballarsi”

Le caratteristiche adolescenziali elencate correlano positivamente con la probabilità di utilizzare sostanze stupefacenti o, nel caso in esame, prodotti farmaceutici allo scopo di “sballarsi”. Tale comportamento, così come altri collocabili approssimativamente tra i 12 ed i 18 anni d’età, potrebbe essere legato a cause di vario genere: l’imitazione ed il condizionamento del gruppo di appartenenza, la volontà di affermare il proprio sé ed auto-valorizzarsi, di proteggersi da eventuali insuccessi o di ridurre la consapevolezza (“non pensare”). Le sostanze scelte dai giovani sono in preponderanza facilmente recuperabili ed accessibili, rendono nell’immediato più disinibiti, euforici ed espansivi, ma provocano a lungo termine effetti drammatici quali ad esempio stati depressivi ed ansiosi, paranoia, pensieri psicotici e, in alcuni casi, pensieri di morte.

Tali considerazioni generali relative all’adolescenza possono ben rappresentare un fenomeno in recente espansione in Italia, i cosiddetti farma party. Il termine pharma parties è stato ideato dai mass media americani per descrivere feste (parties) in cui adolescenti si scambiano ed ingeriscono casualmente alcuni prodotti farmaceutici (pharma), fino ad esserne intossicati. L’8 marzo 2002 questo termine compare per la prima volta nella rivista Public Opinion di Chambersburg, in Pennsylvania, che lo descrive come problematica che coinvolge vari paesi (Shafer, 2008). Da allora vicende legate ai farma party si sono diffuse su riviste e programmi televisivi in tutti gli Stati Uniti (Shafer, 2010).

Episodi simili ai farma party erano già stati descritti durante gli anni sessanta; nello specifico, un evento chiamato fruit salad party fu segnalato il 30 marzo 1966 in una edizione della famosa rivista The Sun, nel Massachusetts. La vicenda si riferiva ad una festa in cui alcuni adolescenti portarono tre pillole ciascuno che, mescolate in una ciotola, furono ingerite casualmente. La maggior parte dei giovani fu ricoverata in ospedale ed uno di essi rimase in coma. Non furono reperite informazioni certe, nomi dei protagonisti o tipologia specifica di farmaci assunti. Le notizie relative ai fruit salad parties continuarono durante tutti gli anni settanta; in alcuni casi, fonti non ufficiali riferirono che i farmaci furono nascosti all’interno di vera e propria frutta, che gli adolescenti mescolavano creando effettive “macedonie” (Shafer, 2008). Nella maggior parte dei casi i portavoce autorevoli erano rappresentati da poliziotti o “drug counselor”, i quali non mostrarono prove effettive ma riferirono elementi salienti ascoltati dai giovani direttamente coinvolti negli episodi in oggetto.

Dal primo decennio del ventunesimo secolo si possono trovare informazioni più dettagliate relative ai farma party o, come chiamati dai media, ai pharming parties o pharming. Così come durante la prima ondata di notizie, le fonti informative furono indirette, le statistiche assenti o ingannevoli, e non fu identificato alcuno specifico incidente. Nonostante ciò, tra il 2005 ed il 2006, vennero redatti numerosi articoli relativi al fenomeno in America, dove furono trasmessi perfino episodi di telefilm incentrati sull’argomento (CSI: NY – nel novembre 2005; Boston Legal – nel maggio 2006).

Nel giugno del 2006 l’editore della rivista statunitense Slate, Jack Shafer, iniziò ad investigare sui farma party, concludendo che il fenomeno era reale, popolare e in crescita, ma molto ben nascosto e poco conosciuto ai media. Sebbene studi internazionali indicano che più di un adolescente su cinque ha abusato di prescrizioni mediche (Institute for Good Medicine, 2008), non è ancora chiaro se queste feste, specificatamente organizzate per scambiarsi farmaci, contribuiscano a tali abusi. L’ente governativo americano FDA (Food and Drug Administration) ha di recente lanciato l’allarme, con l’obiettivo di regolare il commercio di medicinali negli Usa.

I protagonisti della nuova moda dei farma party sono adolescenti che rubano all’interno delle proprie abitazioni farmaci di ogni genere, per poi portarli alle feste dove vengono scambiati ed ingeriti in maniera casuale, spesso accompagnati dal consumo di alcol. I prodotti farmaceutici possono essere di qualsiasi tipologia: antinfiammatori, antidolorifici, fino ad arrivare a psicofarmaci quali ansiolitici, antidepressivi o inibitori dell’iperattività, che spesso sono reperibili nelle proprie case, in quanto utilizzati da familiari.

Le sostanze, durante i farma party, vengono dapprima condivise in una grande ciotola, per poi essere deglutite in un mix totalmente imprevedibile, come fossero caramelle. Le conseguenze del consumo casuale appaiono naturalmente gravissime: frequenti sono i ricoveri ospedalieri per avvelenamento ed intossicazione, che nei casi più gravi si traducono in decessi.

L’elemento che appare maggiormente assurdo ed incomprensibile di questi farma party risulta essere la randomizzazione sia della tipologia di sostanza che del dosaggio. I giovani racimolano ciò che riescono a trovare all’interno degli armadietti contenenti prodotti farmaceutici nelle proprie abitazioni, li portano con sé durante le feste, spesso appositamente organizzate, dove vengono ingeriti in maniera indiscriminata, fino a far perdere i sensi. In alcuni casi gli adolescenti leggono le etichette del farmaco o si istruiscono sul web per verificare gli effetti previsti, ma una volta versati nella ciotola risulta difficile differenziare – ad esempio – l’ossicodone o la benzodiazepina da un semplice antistaminico o antibiotico, soprattutto dopo aver assunto alcol. La pillola ingerita potrebbe essere qualsiasi sostanza.

È questo l’elemento dei che maggiormente suscita preoccupazione ed inquietudine: chi è solito utilizzare droghe, o commerciarle, fino all’avvento dei farma party non avrebbe accettato di condividere un oppiaceo con il rischio di ricevere in cambio un prodotto che allevia sintomi allergici. Ciò che attrae è invece propriamente l’assunzione del rischio nel provare effetti diversi ed imprevedibili. Sostanze farmacologiche da sempre vengono utilizzate dagli adolescenti per alleviare lo stress, rilassarsi o migliorare performance scolastiche. Ben diverso da quanto invece oggi sembra accadere durante i farma party. Tra i farmaci più diffusi ci sono le benzodiazepine, gli ipnotici, gli antidepressivi ed i farmaci a base anfetaminica, usati per ridurre lo stimolo della fame. All’elenco si possono aggiungere anche medicine anti-tosse poiché alcune contengono piccole dosi di oppiacei e, infine, gli antidolorifici.

Recentemente è giunta anche in Italia questa nuova folle moda. Un importante studio modenese ha analizzato i capelli di alcuni giovani con il gas cromatografico rilevando che circa il 10% dei campioni analizzati risultavano essere ragazzi di età inferiore ai vent’anni che assumono farmaci non prescritti dal medico. Tra i positivi, il 40% ha assunto ansiolitici ed il 30% antidepressivi (Studio Lab 2000, 2010).

Oltre i farma party: altre fenomeni pericolosi che riguardano gli adolescenti

La notizia rimanda per similitudine ad un’altra malsana abitudine, derivante anch’essa dagli Stati Uniti, ovvero il Binge Drinking: il consumo di alcol in maniera occasionale ed esagerata al di fuori dei pasti. Nel 2015, infatti, è proprio il Ministero della Salute che all’interno di un report al Parlamento redatto in relazione al consumo di alcol ed alle problematiche ad esso correlate, ne denuncia la diffusione. Nello stesso anno si diffuse sul web un’altra moda statunitense altamente pericolosa: la KylieJenner Challenge, ovvero la sfida a gonfiarsi le labbra infilandole nel collo di una bottiglia ed aspirando, alterando così la circolazione sanguigna in una zona ricca di capillari, provocando lividi e tagli profondi alla bocca, allo scopo di somigliare ad un personaggio famoso.

Ma che cosa spinge gli adolescenti ad assumere comportamenti altamente a rischio? Spesso la mancata tolleranza alla noia. Un recente studio rileva come il bere in maniera occasionale ed esagerata possa essere predetto dalla maggiore propensione ad annoiarsi tipica degli adolescenti (Biolcati et al., 2016). In alcuni casi, è una condizione di vittimizzazione a poter influenzare la delinquenza giovanile. Una ricerca recente indica che giovani poli-traumatizzati risultano significativamente più a rischio di comportamenti quali binge drinking, probabilmente a causa della difficoltà di autoregolazione, ponendoli come categoria altamente a rischio verso comportamenti problematici a lungo termine (Davis et al., 2018).

Cause diverse spingono dunque gli adolescenti alla ricerca di un elevato rischio e di sensazioni estreme allo scopo di divertirsi: una netta diminuzione del senso di responsabilità al fine di sentirsi potenti e sicuri, durante agiti di natura differente, come atti sessuali promiscui, violenza ed aggressività fisica, guida imprudente e in stato di ebrezza, binge drinking o, nel caso in esame dei farma party, assunzione sregolata di farmaci.

I farma party rappresentano una roulette russa in cui i farmaci, assunti in maniera esagerata, casuale ed associata al consumo di alcol, provocano gravissimi danni alla salute, fino al possibile decesso. Il rischio è amplificato dalla totale inconsapevolezza del tipo di compresse ingerite: antidolorifici, antinfluenzali, ansiolitici o antidepressivi combinati insieme hanno effetti devastanti sul cervello e sul corpo. In particolare, danni elevati vengono riscontrati a livello del sistema cardiocircolatorio, neurologico e cerebrale: l’abuso di benzodiazepine, ad esempio, può portare all’ipotrofia, ovvero alla riduzione del volume del lobo frontale, struttura deputata a molteplici funzioni cognitive, quali l’attenzione, il coordinamento e il controllo del comportamento volontario. Lesioni significativamente più gravi se le sostanze vengono assunte durante la fase adolescenziale di sviluppo e crescita psicofisica. Inoltre, l’associazione di alcuni psicofarmaci con l’alcol deprime ed indebolisce le funzioni neuro-psichiche. In un sempre maggior numero di casi, anche nel nostro paese, il desiderio di provare forti emozioni partecipando ad un farma party procura overdose letali.

Breve storia teorica della terapia cognitivo comportamentale tra funzionalismo e strutturalismo

Una versione un po’ diversa di come è nato il cognitivismo clinico racconta un’evoluzione non proprio armonica dal comportamentismo al cognitivismo, fino a quella che oggi viene definita “terza onda”.

 

In un articolo che abbiamo appena pubblicato sul Journal of Rational Emotive and Cognitive Behavior Therapy e che qui potete scaricare in formato pdf, presentiamo la nostra versione della storia del movimento cognitivo clinico – sia americano che italiano – di fronte alle sfide a cui è andato incontro degli ultimi anni, sia in termini di cosiddetta “terza onda” (vedi Dai contenuti ai processi mentali: la terza ondata della Terapia Cognitiva) che di integrazione con gli interventi relazionali (vedi La relazione terapeutica è pervasiva ma non risolutiva. Due argomentazioni contro la centralità della relazione: i “fattori comuni” e il “paziente difficile”).

Narriamo un racconto un po’ diverso dalla storia del comportamentismo che si sarebbe armonicamente sviluppato in cognitivismo e che a sua volta sarebbe sfociato – un po’ meno armonicamente – nella “terza onda”. Nella nostra storia, invece, vi è una posizione iniziale che denominiamo “funzionalista” e che fu quella del comportamentismo e poi del primo cognitivismo teorico/sperimentale, ma non del cognitivismo clinico. La posizione funzionalista mostrò alcuni limiti pratici nelle applicazioni cliniche ma aveva in sé un rigore e una correttezza che poi in parte abbiamo trascurato a favore della significatività clinica. Beninteso, riteniamo che fosse un passaggio necessario e nessuna perdita è mai definitiva, tutto può essere recuperato.

Vi fu poi una prima forte crisi – non un’evoluzione armonica – che portò alla svolta clinica, cognitiva di Beck e costruttivista di Mahoney e Guidano, svolta che denominiamo “strutturalista” e che corrispose ad alcuni bisogni clinici concreti e che portò a un grande passo in avanti a cui non vogliamo rinunciare, ovvero la superiore efficacia specifica della terapia cognitivo-comportamentale per alcuni disturbi-bersaglio, ma che determinò anche – a nostro parere – alcuni fraintendimenti teorici su cui è bene riflettere, senza catastrofismi.

Noi proponiamo che la svolta cognitiva nella clinica non fu propriamente l’esatto corrispettivo della “rivoluzione cognitiva” che era avvenuta nel campo teorico-sperimentale. Essa fu anche un primo esempio, in parte felice ma non del tutto, d’integrazione tra concetti che non appartenevano all’impostazione funzionalista e alla sua attenzione per i processi mentali. Si introdussero concetti che ipotizzavano strutture sottostanti, soprattutto quelle centrate sul sé. E’ questo passaggio dalle funzioni mentali alle strutture psicologiche che ci fa chiamare questa evoluzione “strutturalista”.

Si noterà che in questa nostra storia il cognitivismo di Beck e il costruttivismo di Mahoney e Guidano sono raccontati nelle loro somiglianze e comunanze e non – come si fa di solito – nelle loro differenze.

La storia prosegue sostenendo che alcune caratteristiche “strutturaliste” di Beck, Mahoney e Guidano abbiano prodotto alcune conseguenze in parte positive ma con alcuni rovesci della medaglia. L’aspetto migliore fu quello che portò alla fioritura delle procedure efficaci di Beck e alle intuizioni cliniche sull’importanza della storia di vita di Mahoney e Guidano, insomma gli sviluppi esplorativi ed evolutivi tipici del costruttivismo in tutte le sue declinazioni.

Altri aspetti della svolta ci lasciano più perplessi. L’attenzione data alle credenze centrate sul sé – la cosiddetta self-knowledge – ebbe un grande valore clinico e pratico, ma spostò l’attenzione dei clinici lontano dai processi e dalle funzioni mentali a favore di concetti strutturali, come appunto il sé o i significati personali. I concetti “strutturalisti” come il sé erano forse più maneggevoli e intuitivamente comprensibili per il clinico. Questo però forse generò un interesse verso la storia di vita del paziente come scoperta di sé clinicamente promettente, ma anche a rischio di riduzione della terapia (e della relazione terapeutica) a un lavoro di scoperta esistenziale a due – terapista e paziente – emotivamente ricco ma operativamente vago e dalla efficacia non chiarissima, con scarsa attenzione alla condivisione contrattata con il paziente di un modello di funzionamento e di apprendimento di un funzionamento diverso.

Insomma, forse si perse qualcosa della rigorosità dell’impostazione funzionalista del cognitivismo e comportamentismo iniziale. Perdita parziale che forse contribuì al calo di fiducia nell’intervento esplicito sulle funzioni esecutive e consapevoli del paziente a favore di interventi provenienti da altre tradizioni, la cui integrazione nel cognitivismo/comportamentismo è – a nostro parere – ancora tutta da elaborare teoricamente.

La nostra storia si conclude con una descrizione forte della “terza onda” come recupero del funzionalismo – ovvero il recupero del rigore teorico del comportamentismo – tenendo però presente il meglio della seconda onda di Beck, Mahoney e Guidano, ovvero l’operatività clinica e non da laboratorio, applicata finalmente sul giusto bersaglio scientifico: i processi mentali.

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