expand_lessAPRI WIDGET

L’inizio della terapia sistemica: chi convocare in seduta?

La proposta della terapia sistemica rispetto alla convocazione in seduta è molto articolata e si differenzia sulla base delle caratteristiche del caso specifico.

 

Andare dello psicologo: dall’idea alla prima seduta

Quando una persona decide di rivolgersi ad uno psicologo per un problema che riguarda lei o un suo familiare, di solito lo fa dopo aver tentato altre strade: magari può pensare che il malessere sia passeggero, oppure può parlarne con un amico o un familiare, o magari con il proprio medico di base. Poi, vedendo che le difficoltà persistono, approda allo psicologo.

Prima di andarci probabilmente pensa alla seduta, alla stanza di terapia, agli argomenti di cui parlare, ma raramente crede che lo psicologo farà una proposta su chi convocare all’incontro. Spesso il paziente ritiene che spetti a lui decidere chi deve essere presente, e probabilmente lo fa a ragion veduta, visto che, per la maggior parte degli indirizzi psicoterapeutici, il tema della convocazione non è oggetto di riflessione professionale.

Al contrario, per l’approccio sistemico-relazionale, la scelta di chi convocare alle sedute non è da lasciare al caso: essa ha di per sé un valore terapeutico e da essa spesso dipende l’esito dell’intero intervento (Di Blasio, Fischer e Prata, 1986).

Il vero inizio della terapia sistemica è dunque la telefonata del paziente allo psicologo, momento fondamentale per approfondire la richiesta: il problema è di chi telefona o di un suo familiare? Qual è l’età del paziente e quale periodo del ciclo di vita sta attraversando? Quale il problema? Queste sono alcune delle domande che lo psicologo pone a chi è dall’altra parte del telefono, per valutare chi convocare al primo appuntamento.

La richiesta riguarda chi telefona?

Se la richiesta riguarda chi telefona, possiamo pensare, dopo opportuna verifica, che chi ci sta parlando sia consapevole di avere una difficoltà, abbia raccolto una serie di informazioni che l’hanno portato a contattare uno psicologo, abbia la capacità di esporre al professionista il suo problema ed abbia pianificato le azioni legate allo svolgimento delle sedute (è in grado di recarsi agli incontri e, se necessario, di pagarli). Queste variabili, insieme ad altre cui accennerò successivamente, fanno propendere per una convocazione individuale, perché lo psicologo può ritenere che il paziente sia sufficientemente motivato alla terapia ed abbia le risorse per trarne giovamento. Ma cosa succede se il paziente non chiama personalmente? Probabilmente non è consapevole di avere un problema, oppure non è in grado di contattare lo psicologo ed esporglielo: quale sarà dunque il giovamento che potrà trarre da sedute unicamente individuali? Probabilmente poco o nessuno. A questo punto diventa importante capire chi e perché chiama al posto suo: gli scenari possibili sono molti. Il caso più frequente si ha quando il paziente è un minore e chi telefona è un genitore: in questo caso, il professionista dovrà pensare di coinvolgerlo, come vedremo nel secondo punto. Se il paziente è maggiorenne, perché dunque non chiama personalmente? E’ affetto da una grave patologia fisica o psichica, che lo rende dipendente dal sistema di riferimento? Oppure, pur non avendo una patologia conclamata, non ha consapevolezza delle sue difficoltà? O magari, non ha realmente un problema, ma chi telefona pensa che lo abbia? Quali che siano le ragioni, è chiaro che in questo caso la convocazione individuale del paziente designato non è da preferire, pena il fallimento dell’intervento. E’ invece più utile procedere ad una convocazione allargata al sistema di riferimento.

Quanti anni ha il paziente e quale fase del ciclo di vita sta attraversando?

Bambini

Veniamo al secondo punto. Se il paziente è minorenne, è difficile che si prenda la briga di chiamare personalmente lo psicologo: spesso tutte le decisioni che riguardano la sua salute, anche psicologica, sono demandate ai suoi genitori, o a chi si occupa di lui. Ma non solo. Come afferma Miriam Gandolfi (2008), se gli adulti possono contare su una relativa indipendenza dagli altri, da bambini le cose vanno diversamente. La scuola e le attività extrascolastiche sono regolamentate e supervisionate da adulti, che, comunicando con la famiglia, le consentono di avere sempre la regia della situazione. Anche nel tempo libero si osserva un fenomeno simile: se in passato i bambini, soprattutto se vivevano in campagna, erano solitamente liberi di muoversi lontano dagli sguardi degli adulti, oggi è impensabile che essi godano di una simile indipendenza, soprattutto se vivono in ambienti urbanizzati. E’ quindi naturale, in questa fase del ciclo di vita, che chi si prende cura di loro ed ha un livello di decisionalità così alto su ciò che li riguarda sia coinvolto nel problema, sia perché lo co-costruisce, sia perché è una risorsa per affrontarlo.

Adolescenti

Ma cosa succede se il paziente è adolescente? L’adolescenza è un’età molto particolare, perché presenta alcuni aspetti in comune con l’infanzia, pur differenziandosi nettamente da essa. I ragazzi e le ragazze, anche se godono di una libertà maggiore rispetto ai bambini, sono comunque dipendenti dal contesto familiare: i genitori restano un punto di riferimento fondamentale dal punto di vista emotivo, sia quando i loro figli decidono di aderire ai loro valori, sia quando tentano di differenziarsi da essi in modo netto e dirompente. Tuttavia, rispetto a quanto accade per i bambini, il gruppo dei pari, nel quale l’adolescente vive esperienze diverse rispetto a quelle familiari, è spesso un punto di riferimento stabile ed un importante luogo di formazione dell’identità. Lo psicologo, dopo una prima fase di consultazione familiare in cui è possibile formulare un’ipotesi sistemica ed una strategia di intervento condivisa, può prevedere, a seconda del caso, una parte di intervento individuale in cui il paziente potrà parlargli del suo mondo extrafamiliare.

Adulti

Nel caso del paziente adulto, chiaramente la convocazione individuale è quella più frequente, ma bisogna tenere in considerazione che la fase del ciclo di vita che il paziente sta vivendo non dipende solo dalla sua età anagrafica. Se a quindici anni Metello, protagonista dell’omonimo romanzo di Pratolini, ambientato nella Firenze di inizio novecento, era un vero e proprio capo famiglia, dal cui lavoro dipendevano le sorti dei fratellini, oggi la fascia di età tra i venti e i trent’anni è piuttosto variegata: ci sono giovani che lavorano, vivono da soli, in qualche caso convivono e hanno figli, altri studiano, e, per forza di cose, sono ancora legati economicamente alla famiglia di origine, pur con diverse gradazioni di dipendenza, altri ancora sono in una condizione complessa, dove alla dipendenza economica dalla famiglia si aggiunge la mancanza di progettualità. Di queste variabili un terapeuta sistemico deve tenere conto, perché esse influenzano le sue scelte di convocazione alle sedute.

Qual è la natura e la gravità del problema?

Come afferma Ugazio (1989), se un adulto ha un quadro psicopatologico grave, come una patologia dissociativa, una convocazione familiare è preferibile: la dipendenza del paziente dal suo contesto, spesso, fa sì che la sua patologia sia interamente giocata tra le mura domestiche. In seduta si ragiona sugli effetti pragmatici del sintomo sui suoi familiari. Se, viceversa, un giovane adulto, pur vivendo ancora a casa dei genitori, vive in modo consono al suo ciclo di vita ed ha un problema extrafamiliare non tale da compromettere la sua indipendenza, come ad esempio una difficoltà sentimentale, una convocazione individuale è da preferire.

Le obiezioni

Come si può vedere, la proposta sistemica rispetto alla convocazione in seduta è molto articolata ed in controtendenza al principio individualista della società occidentale: essa è pertanto oggetto di critica, non solo da parte dei pazienti, ma anche dei colleghi di altri orientamenti.

La più importante obiezione è che se un paziente è in seduta con i familiari, non è spontaneo: se fosse da solo, esprimerebbe di più quello che sente, mentre con i familiari presenti è più chiuso. La risposta che si può dare a questa obiezione è almeno a due livelli. Ferdinando Salamino (2019, citazione personale), parlando del problema, afferma che non sempre quando una persona è da sola esprime i propri pensieri più intimi e veri. Se pensiamo a facebook, ci rendiamo conto che spesso, proprio perché mascherate dalla rete, le persone tendono a mostrarsi per quello che non sono: dopotutto, siccome hanno come interlocutori persone lontane che non le conoscono, nessuno le può smentire. Forse allora la vera intimità emerge proprio quando siamo messi a confronto con chi ci sta vicino, che contribuisce a creare la nostra personalità, come noi contribuiamo a creare la sua. Possiamo capire chi siamo solo attraverso il dialogo con chi ci sta intorno, fatto, come afferma Ugazio (2018), più di sguardi ed emozioni che di parole. Ed ecco la seconda risposta all’obiezione: se un paziente, quando è con i familiari, non dice tutto quello che pensa, il suo modo di comportarsi in seduta, le sue espressioni, le emozioni che esprime, ci raccontano più di qualunque parola.

Conclusione

Nella mia esperienza di terapeuta, ho sempre ritenuto che la convocazione alle sedute sia un momento fondamentale della terapia: la conversazione terapeutica può essere orientata in modo diverso a seconda di chi è presente in seduta, pertanto ritengo che tale scelta rientri a tutti gli effetti nelle strategie che il clinico può utilizzare nel processo di trattamento dei propri pazienti.

 

 

Non chiamateci matti! Le due facce della medaglia nel disagio psichico (2019) di Davide Coita – Recensione del libro

Non chiamateci matti, ma persone: avviciniamoci con curiosità, non perdiamo di vista l’unicità al di là di ogni categoria diagnostica, non dimentichiamoci che oltre la sofferenza umana c’è una storia di vita piena di emozioni.

 

E così Davide Coita, racconta la sua storia. Un’infanzia complicata: a 10 anni la madre inizia a soffrire di Sclerosi Multipla, alle elementari diventa vittima di bullismo e viene affetto dal ‘mal-di scuola’. Poi l’adolescenza, periodo di cambiamenti: appassionato di politica e in prima fila a rappresentare i diritti degli studenti. Più avanti l’università, il primo trenta in Diritto Costituzionale. L’estate della pubertà stava finendo quando iniziarono le prime crisi anticipate già da alcune vicissitudini di vita: l’allontanamento dagli amici di sempre, i cambiamenti repentini nei suoi progetti di vita, una convivenza con i famigliari sempre più difficile, le lunghe giornate trascorse nella sua taverna. Così, la lunga stagione degli accessi al Pronto Soccorso, la diagnosi di bipolarismo e i ricoveri nel reparto di SPDC.

L’autore racconta la sua avventura, dando voce anche a professionisti e facendo cogliere al lettore la sofferenza del disagio psichico che coinvolge un intero sistema ponendo la luce sulle due facce della medaglia: se da un lato vuole raccontare la sua storia e promuovere una battaglia di civiltà intenta a superare lo stigma sociale e la ‘psichiatrizzazione’ delle persone, dall’altra esprime i suoi timori dettati dal pregiudizio dopo questa ‘etichetta che si è appiccicato in fronte’.

Un libro per gli esperti del settore, per i pazienti e per i loro famigliari. Una lettura emozionante, a tratti pungente. Di certo da leggere tutta d’un fiato.

I tabù del sesso: disfunzioni sessuali femminili e trattamenti non farmacologici

Nonostante i grandi passi avanti, in alcune culture la discussione sulla sessualità e sulle disfunzioni sessuali femminili sembrano essere un tabù. Sembra, però, che queste patologie possano essere trattate con efficacia grazie a tecniche non farmacologiche.

 

Le disfunzioni sessuali femminili sono diffuse e assumono varie forme tra cui la mancanza di desiderio sessuale, l’alterazione dell’eccitazione, l’incapacità di raggiungere l’orgasmo, il dolore associato all’attività sessuale oppure una combinazione di questi problemi. In questi casi si potrebbe verificare una riduzione della lubrificazione vaginale causata dall’alta concentrazione di progesterone, che spesso provoca disagio o dolore durante la penetrazione (Yıldız, 2015).

La disfunzione sessuale femminile potrebbe avvenire in qualsiasi momento della vita di una donna, ma è particolarmente frequente nei momenti successivi al parto. Il post-partum, infatti, è un periodo caratterizzato da cambiamenti fisici ed emotivi, che riguardano sia la donna che le relazioni sociali, in particolare quella di coppia. La disfunzione sessuale nel periodo post-partum è un problema clinico comune e rilevante che può avere un impatto significativo sulla salute delle donne. Di conseguenza, dopo il parto, anche la sessualità della coppia si modifica. Durante questa fase di transizione, la vita sessuale può migliorare o sperimentare cambiamenti che incidono negativamente sulla salute fisica e psicologica della coppia, ma il parto può anche costituire un momento emozionante per sviluppare una nuova prospettiva sulla sessualità (Monteiro et al., 2016).

I disturbi sessuali possono essere complessi e il loro trattamento può richiedere tempo e competenze specifiche. La gestione della disfunzione sessuale segue un approccio centrato sul paziente; dopo la valutazione della condizione, la comprensione dei problemi di relazione e lo screening per la conoscenza sessuale del paziente, viene ipotizzata una possibile base eziologica della disfunzione, la quale può essere puramente organica, di origine psicologica o entrambe. Le terapie non farmacologiche (Choudhury, Kumari, Sawhney, 2019) come la terapia sessuale e di coppia, gli esercizi del pavimento pelvico, la psicoterapia, i cambiamenti nello stile di vita, il miglioramento dell’immagine corporea e l’uso di lubrificanti vaginali e idratanti sono estremamente importanti. La maggior parte delle terapie influisce su diversi aspetti della sessualità; pertanto, non è generalmente possibile identificare un problema isolato e selezionare una terapia che si rivolga specificatamente a tale problema (Barbara et al., 2016; Wiegel, Meston, Rosen, 2005). Tuttavia, oltre a questi interventi specifici, le misure generali per il trattamento della disfunzione sessuale femminile includono l’educazione sessuale e l’allenamento al rilassamento: queste sembrano risultare utili in tutti i casi, indipendentemente dal tipo di disfunzione, per ridurre l’ansia e normalizzare l’esperienza.

Avasthi e Banerjee (2002) hanno indicato alcuni elementi importanti nella relazione sessuale della coppia, includendo istruzioni sulla masturbazione e sfatando alcuni dei più comuni miti sessuali che impediscono alla coppia e alla persona di vivere serenamente la propria vita sessuale. Tra le indicazioni principali sono incluse:

  • Conoscere l’importanza del tempismo dell’attività sessuale;
  • Come dire di no al partner e come accettare il rifiuto da un partner con garbo e senza insulti;
  • Aiutare le persone timide ad iniziare il sesso;
  • Incoraggiare i pazienti ad esprimere i loro bisogni e il tipo di stimolazione che preferiscono prima e dopo l’orgasmo;
  • Aiutarli a riconoscere e sperimentare orgasmi multipli.

I miti da sfatare:

  • Le donne non dovrebbero iniziare il sesso poiché gli uomini dovrebbero essere il leader e gli iniziatori;
  • La donna non dovrebbe godere del sesso e non dovrebbe masturbarsi;
  • Una donna non dovrebbe mai dire di no quando il suo partner le si avvicina per fare sesso;
  • Tutti i contatti fisici dovrebbero portare al sesso e il sesso significa rapporto sessuale;
  • Il buon sesso porta sempre a orgasmi “selvaggi”;
  • Se il sesso non è buono, implica che la relazione ha dei problemi.

Sono stati evidenziati dei risultati positivi e significativi con la terapia cognitivo-comportamentale, la quale mira a migliorare inizialmente il comportamento affettivo non sessuale e successivamente introduce un comportamento sessuale accettabile da entrambi i partner. Inoltre, fornisce meccanismi di coping per risolvere i problemi relazionali sottostanti e prevede esercizi di intimità sessuale, attenzione sensoriale, formazione sulle abilità comunicative, formazione sulle abilità emotive, formazione sul rinforzo, ristrutturazione cognitiva, formazione sulla fantasia sessuale e terapia di gruppo in coppia.

Di seguito un approfondimento di alcuni disturbi sessuali specifici e i rispettivi trattamenti non farmacologici, con un’attenzione particolare al vaginismo.

Il Disturbo da Eccitazione Sessuale è caratterizzato da una mancanza/assenza di fantasie sessuali e di desiderio di attività sessuale in una situazione che normalmente produrrebbe eccitazione sessuale, oppure dall’incapacità di ottenere/mantenere le risposte tipiche all’eccitazione sessuale.

Il Disturbo da Avversione Sessuale è definito come un’avversione estrema persistente e ricorrente, ed evitamento, totale o quasi, del contatto sessuale genitale con un partner, il quale causa angoscia o difficoltà interpersonali. In questo caso dovrebbe essere effettuata una valutazione dettagliata di eventuali traumi, abusi sessuali ed eventuali difficoltà interpersonali relazionali. I trattamenti più efficaci sono la terapia cognitivo-comportamentale mediante esposizione progressiva a stimoli temuti, la terapia individuale e di coppia e misure comportamentali generali come rilassamento, l’educazione sessuale, la chiarezza dei miti e attenzione sensoriale.

Il disturbo orgasmico femminile è la difficoltà o l’incapacità di una donna di raggiungere l’orgasmo durante la stimolazione sessuale, mentre la dispareunia è un dolore che la donna avverte nell’area della vagina o della pelvi durante un rapporto sessuale.

Il vaginismo, infine, denota un disturbo sessuale che consiste nello spasmo involontario della muscolatura vaginale che ostacola la penetrazione; la donna affetta da vaginismo trova difficoltà nell’accettare l’atto sessuale, nonostante il desiderio di farlo. Probabilmente, il vaginismo riflette condizioni psicologiche nascoste o represse della donna, poiché essa associa il dolore e la paura al rapporto sessuale, legati anche ad una notevole, e talvolta immotivata, fobia della penetrazione.

Uno studio recente mira a presentare le conseguenze biopsicosociali del vaginismo nella vita delle donne. Il metodo utilizzato è una revisione sistematica della letteratura esistente, dalla prima pubblicazione all’ultima (2019). Sulla base dei risultati dei diversi studi, è possibile affermare che le donne affette da vaginismo hanno problemi nella sfera dell’identità personale, psicologica e riproduttiva. Nello specifico, le donne con questa patologia incontrano maggiori probabilità di riscontrare un aumento del taglio cesareo e problemi di fertilità; inoltre, sono riluttanti a cercare servizi di assistenza sanitaria, soprattutto a casa della paura dell’esame ginecologico. La percezione negativa di sé, invece, influenza i livelli di autostima e questo causa, di conseguenza, una possibile insorgenza di disturbi psichiatrici (es. depressione). Inoltre, lo studio afferma che l’ansia generale e specifica della penetrazione sono correlate al vaginismo, quindi, le donne con questo disturbo soffrono di forte ansia per la penetrazione. Infine, è dimostrato che la terapia dovrebbe includere interventi sia individuali che di coppia e dovrebbe concentrarsi sui disturbi psicologici di base piuttosto che esclusivamente sui rapporti sessuali. La terapia cognitivo-comportamentale sembra essere il trattamento con gli effetti più positivi e benefici nelle donne; ma è essenziale includere anche la correzione di qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti del sesso e la promozione di un atteggiamento positivo nei confronti degli organi sessuali, educazione sessuale ed esercizi dei muscoli pelvici.

I fattori, oltre il parto, che possono contribuire alla disfunzione sessuale post-partum comprendono il trauma perineale (chirurgico o non chirurgico), il parto cesareo di emergenza o il parto vaginale operativo.

Nonostante i grandi passi avanti, in alcune culture la discussione sulla sessualità femminile e le disfunzioni sessuali sembrano essere un tabù. Inoltre, vi è comunque ancora una forte necessità di eseguire diversi studi in questo settore per trovare altri mezzi efficaci per la gestione delle disfunzioni sessuali femminili.

 

Trauma, EMDR e Compassion: la via dell’integrazione con Roger Solomon – Report dall’evento

Roger Solomon ha portato ai soci AISTED la sua enorme esperienza clinica sul tema del trauma con un workshop dal titolo ‘Trauma Complesso e Dissociazione: aspetti avanzati della Teoria della Dissociazione Strutturale’.

 

Lo scorso 25-26 Gennaio a Milano l’Associazione AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione ha inaugurato il suo secondo triennio di attività ospitando per due ricche giornate di studio Roger Solomon, psicologo e psicoterapeuta, Senior Trainer in EMDR, da molti anni esperto nel trattamento del trauma complesso e dell’utilizzo del protocollo EMDR nella cornice della Teoria della Dissociazione Strutturale della Personalità (Van der Hart, Nijenhuis, Steele, 2011; Van der Hart, Steele, Boon 2013, 2017) in molti ambiti istituzionali americani (FBI, Secret Service, U.S. State Department, Diplomatic Security, Bureau of Alcohol, Tobacco, and Firearms, U.S. Department of Justice).

AISTED è nata a Milano nel Dicembre del 2016, come ramo italiano della più ampia European Society for Trauma and Dissociation (ESTD), ed è impegnata da ormai 3 anni nell’offrire un luogo di incontro a tutti i professionisti che in Italia si occupano di psicotraumatologia, in contesti pubblici e privati. L’opera di sensibilizzazione alla cultura del trauma e di diffusione delle buone pratiche cliniche nella cura dei disturbi trauma correlati, è nata dalla necessità di creare uno spazio di integrazione tra tutti i colleghi che pur arrivando da diversi percorsi formativi, si trovano a lavorare con pazienti complessi. Gli esiti emotivi di esperienze traumatiche vissute nell’infanzia e/o nell’età adulta provocano spesso sintomi invalidanti e molti pazienti faticano nel trovare un corretto inquadramento diagnostico e un percorso di cura adeguato. Per questo l’Associazione AISTED si occupa specificatamente di offrire ai soci supporto e possibilità di approfondire strumenti clinici orientati al trattamento del trauma complesso, dei disturbi dissociativi e della traumatizzazione cronica. L’urgenza di cogliere la complessità e trovare nuove vie di comprensione e cura dei disturbi dissociativi è condivisa da molti terapeuti e formatori che a vario titolo hanno sostenuto la nascita e lo sviluppo dell’attività di AISTED in Italia, tra cui Giovanni Liotti, Khaty Steele e da ultimo Roger Solomon, soci onorari e punti di riferimento inossidabili per chiunque decida di accostarsi a questo ambito clinico.

Il filo comune: la ricerca costante di integrazione tra gli approcci clinici e le tecniche evidence based ad oggi accreditate nel panorama scientifico internazionale, senza perdere la centralità della ricerca e delle neuroscienze nella comprensione degli effetti clinici e fisiologici del trauma, e senza lasciare indietro un’attenta raccolta della storia evolutiva e relazionale di ogni singolo individuo e della specifica traiettoria di sviluppo che ha caratterizzato la sua esistenza, determinando le sue peculiari risposte di sopravvivenza e resilienza.

Con l’obiettivo di tenere insieme questa complessità, Roger Solomon ha portato ai soci AISTED la sua enorme esperienza clinica sul tema: ‘Trauma Complesso e Dissociazione: aspetti avanzati della Teoria della Dissociazione Strutturale’. Il workshop ha visto la condivisione diretta e generosissima dell’esperienza clinica del Dr. Solomon attraverso la discussione di casi clinici e la condivisione di strumenti clinici di intervento centrati sull’utilizzo dell’EMDR, come tecnica di prima scelta negli interventi di cura del trauma, integrati ad un lavoro di stabilizzazione preliminare all’elaborazione delle memorie traumatiche.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DELL’EVENTO:

 

 

 

 

Imm. 1 – 5 – Immagini dal Workshop con Roger Solomon

L’idea di partenza che guida il lavoro di Solomon sul trauma complesso e sui disturbi dissociativi è che la dissociazione traumatica non nasce solo dall’aver vissuto esperienze soverchianti o di minaccia di vita, ma soprattutto dal non aver sperimentato un legame sicuro e una protezione sufficienti a fronteggiare le emozioni provocate da quegli stessi eventi minacciosi, né prima, né durante, né dopo quelle esperienze. La dissociazione è dunque sempre legata ad una disorganizzazione del sistema di attaccamento e conduce ad una sintomatologia tanto più grave quanto più precocemente il sistema nervoso si trova a sperimentare contemporaneamente minaccia e mancanza di protezione. Quando la disorganizzazione dell’attaccamento avviene nei primi anni di vita, la successiva resilienza dell’individuo verso eventi avversi che si potranno verificare in futuro risulterà compromessa o comunque profondamente condizionata da questo, aumentando il rischio di sviluppare sintomi dissociativi e, più in generale, psicopatologia.

Lavorare sul trauma e sulle memorie traumatiche immagazzinate in modo disfunzionale è dunque centrale nel risolvere la sintomatologia post-traumatica legata agli effetti diretti del trauma inteso come ‘evento di minaccia alla vita’, ma l’elaborazione risulta talora insufficiente a risolvere la sintomatologia dissociativa sottostante se non viene preceduta – ove necessario – da una fase di stabilizzazione che aiuti la persona a ridurre la disorganizzazione interna del sistema di attaccamento e la reattività del sistema di difesa.

Come molti altri teorici del trauma, Solomon parte dall’idea di un continuum nei processi di dis-integrazione che va dall’alternanza di Stati dell’Io (ego-states) differenti, passando dal Trauma Complesso con una maggiore frammentazione delle risposte di sopravvivenza, per arrivare al Disturbo Dissociativo dell’Identità come estremo psicopatologico legato alle forme più gravi di dissociazione della coscienza. Il lavoro clinico con EMDR, o con qualunque altro approccio orientato alla elaborazione delle memorie traumatiche, necessita dunque di un preliminare inquadramento del paziente e del suo grado di disorganizzazione interna per poter fare scelte cliniche sicure e offrire il timing giusto all’elaborazione dei ricordi. Per lavorare con l’EMDR su trauma complesso e disturbi dissociativi è perciò indispensabile, ci ricorda Dr. Solomon, conoscere molto bene non solo come il trauma lavora sulla mente e sul corpo, ma anche come il sistema di attaccamento regola il nostro senso di sicurezza e la nostra possibilità/capacità di accedere a risorse interne ed esterne di conforto di fronte alla sofferenza e al pericolo.

Da questa base di partenza, il lavoro terapeutico di Solomon muove verso una costante attenzione ai processi di attaccamento e sintonizzazione emotiva, con l’obiettivo di coltivare da un lato uno stato di sicurezza sufficiente nel presente della terapia e dall’altro di mantenere attivo un sistema cooperativo all’interno della relazione terapeutica, che permetta al paziente stesso di osservarsi nel processo terapeutico senza essere soverchiato (di nuovo!) dalle emozioni del trauma.

Solomon ci ricorda che, soprattutto in situazioni cliniche complesse, nonostante l’EMDR favorisca il ripristino di una elaborazione adattiva bloccata al tempo degli eventi traumatici, il paziente non elabora mai ‘da solo’, ma elabora il ricordo di quegli eventi traumatici nel contesto della relazione terapeutica, in cui diventa centrale dunque la funzione di ‘holding’: tenere il paziente nella sua finestra di tolleranza emotiva e all’interno di una connessione emotiva sicura, incoraggiante e funzionale.

Gli ingredienti essenziali di questo complessissimo lavoro clinico sono molti, ma i principali elementi emersi a fare da ‘mantra’ a queste 2 giornate di lavori sono stati tre: ‘Time Orientation’, ‘Good job!’ e ‘Compassion’.

La ‘Time Orientation’ (Orientamento nel Tempo) riguarda la costante stimolazione della capacità del paziente di percepire la sua Parte Adulta nel tempo presente, cioè di restare connesso alle sue risorse e al suo corpo di adulto, alla sicurezza guadagnata e soprattutto di mantenere ben salda la consapevolezza della distanza fisica e temporale che c’è tra l’oggi e il momento del trauma. L’obiettivo per il paziente non è infatti riattraversare le emozioni traumatiche, ma riuscire a guidare il processo terapeutico per osservare le sue emozioni senza identificarsi con esse; le emozioni soverchianti legate all’attivarsi del sistema di difesa in terapia, rischierebbero infatti di ri-attivare (e di nuovo in modo disfunzionale!) il sistema nervoso preparandolo a rispondere nel presente ad una minaccia che non c’è più e questo impedirebbe – così come lo ha impedito nel passato – di elaborare le emozioni e l’evento in modo più sicuro e adattivo. L’orientamento nel tempo è da considerarsi un vero e proprio intervento terapeutico, centrale nel lavoro su sintomi dissociativi, e si configura di per sé come una risorsa importantissima da rinforzare e installare, per chi usa abitualmente l’EMDR, per potervi accedere in ogni momento della terapia.

Accanto a questo, il lavoro di stabilizzazione spesso include il ‘lavoro sulle parti’, cioè la promozione di un dialogo interno più integrato e collaborativo tra le parti della personalità che entrano in conflitto peggiorando la disorganizzazione del paziente su numerosi stimoli (triggers) del presente; a questo proposito il modello della Dissociazione Strutturale della Personalità (Van der Hart, Nijenhuis, Steele, 2011; Van der Hart, Steele, Boon 2013, 2017) offre una mappa indispensabile per aiutare paziente e terapeuta ad orientarsi tra le emozioni, le difese e le risorse. Naturalmente si tratta di una metafora da usare con cautela e con la chiara idea di lavorare con le rappresentazioni interne di parti emotive di sé, accertandosi che il paziente riesca ad usarla per comprendere il suo funzionamento interno senza aumentare il grado di separazione o di fobia verso questi aspetti differenti della sua unica persona. Il lavoro sulle parti, a partire da queste premesse, può essere al contrario molto utile a promuovere un graduale processo di dis-identificazione con le parti emotive bloccate nel trauma e di ri-conoscimento del ruolo che ogni parte ha avuto nella sopravvivenza del paziente. Spesso infatti le Parti Emotive (EP) vivono gradi di separazione tali dall’Adulto che vive la vita quotidiana, da non riuscire più a percepire sicurezza o calma nel presente, così come l’Adulto che vive più pienamente il presente rischia di non riconoscere come normali le emozioni di paura, rabbia o disgusto del passato, giudicandole inadeguate, inutili o solo dannose nella sua vita attuale. La presenza di questi conflitti va individuata tempestivamente ed elaborata nella fase di stabilizzazione, poiché l’accesso alle emozioni connesse alle memorie traumatiche potrebbe peggiorare lo stato di questi conflitti e porre il paziente in situazioni paradossali e ritraumatizzanti.

A questo proposito il secondo ingrediente clinico emerso offre una via d’uscita: ‘Good job!’ (‘Bravo!’) ovvero riconoscere e validare il lavoro che ogni parte ha svolto nell’arco della vita, come tentativo di offrire soluzioni e dare sollievo alla sofferenza emotiva. In particolare risulta centrale riconoscere questa funzione alle parti critiche o alle parti bloccate nella rabbia o alle parti che si identificano con l’aggressore, poiché spesso svolgono la fondamentale funzione di proteggere aspetti di vulnerabilità e vergogna con cui il paziente non avrebbe potuto convivere costantemente. Nonostante spesso le parti ostili si manifestino in modo molto disfunzionale e talora rischioso per la salute (autolesionismo, ideazione suicidaria, autobiasimo, disprezzo per sé) è fondamentale riconoscere loro il buon lavoro fatto fino a quel momento e aiutarle ad uscire dall’alienazione e dalla solitudine che il ruolo di protettrici ha dato loro: sviluppare questa maggiore comprensione reciproca può diventare una risorsa fondamentale da stimolare e installare nel sistema emotivo, può restituire uno spazio di azione all’Adulto e favorire un accesso sicuro alle parti emotive più vulnerabili e bisognose di aiuto. Validare la funzione, non il comportamento in sé, inoltre aiuta la co-consapevolezza tra le parti e questo guida verso un processo di integrazione sano e organico in grado di ridurre la necessità di separare/dissociare aspetti di sé prima percepiti come inaccettabili, perché incomprensibili.

Ultimo ma non meno importante strumento clinico: la ‘Compassion’. Ogni momento di accettazione empatica della sofferenza, della fatica fatta, dell’ingiustizia subita e del dolore vissuto è un momento prezioso da riconoscere, installare come risorsa e rendere accessibile tutte le volte che si può. Il contatto emotivo con la sofferenza è per definizione evitato grazie alla dissociazione, quindi ogni momento positivo di condivisione e di empatia va valorizzato come un passo verso una maggiore integrazione. Nella dissociazione traumatica c’è spesso il ricordo e la comprensione di quello che è avvenuto, ci possono essere il riconoscimento e la razionalizzazione delle ragioni e delle responsabilità, ma se permane la dissociazione ci segnala che alcuni aspetti emotivi continuano ad essere rifiutati ed estromessi dalla coscienza con l’obiettivo di ridurre l’intensità del dolore emotivo. L’unico antidoto al permanere della disorganizzazione, è dunque sviluppare e promuovere gradualmente tra le Parti Emotive e l’Adulto ‘osservante’ momenti di empatia, di ascolto compassionevole, di accettazione profonda e non giudicante dell’esperienza interna e dei suoi effetti nel presente.

La costante capacità di testimoniare il presente per come esso è, senza giudizio ma senza paura, e di osservare da questa presenza solida e ferma l’orrore del passato, senza sconti ma senza esserne sopraffatti, sono l’eredità più preziosa lasciata da Roger Solomon in queste due giornate di lavori. Uno sguardo saggio e coraggioso, con cui ci ricorda di guardare alla persona intera e non solo ai sintomi o alle singole parti, avendo cura di proteggere ma allo stesso tempo di promuovere con fiducia la guarigione e la ricerca di quello sguardo amorevole verso la propria e altrui sofferenza.

 

Inaugurazione del nuovo Centro di Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia a Milano – Report dall’evento

E’ stato inaugurato il nuovo Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIPda), primo ente clinico sul territorio milanese a fornire una presa in carico unicamente dedicata ai Disturbi dell’Alimentazione, con utilizzo della Cognitive Behavioral Therapy-Enhanced come protocollo clinico di riferimento.

 

Il razionale alla base della realizzazione di una clinica innovativa per i Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione (DA) consiste nel fornire programmi di cura specifici case-based multidisciplinari, per un target di pazienti con diagnosi di DA, in riferimento alle linee guida nazionali ed internazionali (NICE, 2017). 

L’innovazione del centro CIPda risiede nell’essere il primo ente clinico sul territorio milanese a fornire un servizio di tale portata: presa in carico unicamente dedicata ai Disturbi dell’Alimentazione, Cognitive Behavioral Therapy-Enhanced (CBT-E; Fairburn et al., 2013) come protocollo clinico di riferimento e realizzazione di un intervento ambulatoriale intensivo, multidisciplinare e non eclettico.

Programma

17:00-17.15: Introduzione, Dott.ssa Sandra Sassaroli (Direttore Sanitario CIPda)

L’inaugurazione è iniziata con il Saluto di Benvenuto e l’introduzione della Dott.ssa Sandra Sassaroli, Direttore del dipartimento della Sigmund Freud University di Milano e della scuola di specializzazione in psicoterapia Studi Cognitivi, Direttore Sanitario del CIPda.

L’aspetto iniziale su cui è stata focalizzata l’attenzione è la portata innovativa del centro, il primo ente a Milano con determinate caratteristiche e obiettivi: applicazione del protocollo CBT-E (Dalle Grave, Calugi, Doll & Fairburn, 2013; Fairburn et al., 2013) adottato presso la Casa di Cura Villa Garda (VR) per la riabilitazione dei DA, totale dedizione unicamente al Disturbo Alimentare in tutte le sue manifestazioni, connubio costante tra realtà clinica e ricerca scientifica, progetti futuri sull’ampliamento della ricerca su studi longitudinali e la finalità primaria di instaurare un rapporto individualizzato tra paziente e clinico.

17.15-17.45: Mission, approccio, presa in carico e programma di cura del CIPda; Dott.ssa Rosaria Nocita, Psicologa-Psicoterapeuta, Neuropsicologa- Docente Sigmund Freud University, Direttore Operativo CIPda.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL CENTRO:

 

 

 

 

 

 

Imm. 1 – 7: immagini del nuovo centro dei Disturbi dell’Alimentazione

La Dott.ssa Nocita ha presentato gli obiettivi (Mission), l’approccio innovativo, le procedure di presa in carico e i programmi di cura che contraddistinguono il servizio offerto dal CIPda.

Gli obiettivi principali dell’ente sono i seguenti: prevenire il ricovero, preparare ad eventuale ospedalizzazione, gestire la fase di dimissione post-ricovero e ridurre il tasso di ricaduta. L’innovazione riguarda l’unione dei seguenti elementi:

  • adesione a riferimenti teorici e clinici Evidence-Based (Fairnburn et al., 2015) ritenuti dalle linee guida internazionali come trattamenti d’elezione per la cura dei DA (NICE, 2017) con una percentuale di remissione pari al 65% (Poulsen et al., 2014);
  • verifica delle procedure e degli esiti del trattamento attraverso studi sperimentali e uso di strumenti informatizzati (app InTherapy);
  • applicazione di protocolli di cura CBT-E;
  • natura multidisciplinare del servizio;
  • continuità delle cure mediante uno scambio costante di informazioni tra professionista inviante/struttura esterna e referente del CIPda.

Il programma previsto dal trattamento ambulatoriale del CIPda è articolato nelle seguenti fasi: prima visita medico-psichiatrica, valutazione psicodiagnostica, formulazione del progetto terapeutico/definizione degli obiettivi e decisione finale riguardo l’intensità del programma ambulatoriale. La versione intensiva prevede (da lunedì a venerdì): tre pasti assistiti giornalieri, due sedute settimanali con il dietista, due sedute psicoterapiche individuali ed un check del peso ad inizio e fine settimana. Il programma ambulatoriale non intensivo prevede invece: una visita medica ad inizio settimana, una seduta individuale con il dietista e due sedute di psicoterapia.

17.45- 18.15: Lectio Magistralis, Dott.ssa Simona Calugi, Psicologa-Psicoterapeuta, PhD – Membro Comitato Scientifico CIPda.

La Dott.ssa Calugi ha introdotto la sua Lectio Magistralis sulla Cognitive Behavioral Therapy-Enhanced (CBT-E) sottolineando che l’obiettivo del Comitato Scientifico del CIPda consiste nel riuscire a promuovere e diffondere un trattamento Evidence-Based, rendendolo fruibile alla popolazione clinica affetta da questa categoria di disturbi, in un’ottica transdiagnostica (Fairburn, Cooper, & Shafran, 2003). A tal proposito la CBT-E è stata nominata terapia d’elezione per i DA per le seguenti motivazioni: segue il principio della parsimonia, è applicabile in ugual misura sia su popolazione adolescenziale che adulta con risultati a lungo termine (Dalle Grave, Calugi, El Ghoch, Conti & Fairburn, 2014); non adotta misure coercitive, bensì collaborative ed infine gode di lodevoli evidenze scientifiche le quali affermano una maggiore efficacia sui DA rispetto ad altri trattamenti psicoterapici, come la teoria psicoanalitica (Poulsen et al., 2014) e la terapia interpersonale (Fairburn et al., 2015).

18.15- 18.45: Presentazione di un caso clinico, Dott.ssa Sara Bertelli, Psichiatra – Psicoterapeuta – Membro Comitato Scientifico CIPda.

Il caso clinico selezionato dalla Dott.ssa Sara Bertelli, primario dell’ambulatorio per i Disturbi dell’Alimentazione dell’Ospedale San Paolo di Milano, segue una logica precisa: illustrare i differenti livelli di cura per i DA, comprendendo quando l’uno risulta più idoneo rispetto ad un altro e l’eterogeneità dei possibili invianti. La paziente in questione è una ragazza di 22 anni, con una storia di vita caratterizzata da una condizione di sovrappeso/ normopeso con tendenze all’eccesso non indifferenti, che però in un lasso di tempo assai breve ha subito un calo ponderale eccessivo di 28 kg, fino a raggiungere un BMI sotto-soglia pari a 14,18; accompagnato da un quadro timico notevolmente compromesso.

Il caso di questa paziente è emblematico, in quanto ha attraversato l’intera escalation dei livelli di cura per i DA: ambulatorio, Day Hospital (DH), ricovero, ricovero residenziale. A seguito di un ripristino ponderale (BMI: 18,5) il servizio ambulatoriale, offerto dal nuovo centro per i Disturbi dell’Alimentazione (CIPda) è risultato una soluzione nettamente ottimale per la condizione attuale della paziente e per le sue esigenze cliniche.

18.45: Aperitivo presso Centro Disturbi dell’Alimentazione (CIPda)

La cerimonia di inaugurazione si è conclusa con un piacevole aperitivo, a base di bevande e di un ricco buffet, gustato all’interno del centro stesso. Questo momento conclusivo ha permesso lo scambio di pareri e delucidazioni riguardo al servizio. Oltre all’opportunità di visitare ed esplorare l’ente, è stato possibile cimentarsi all’interno di un’esperienza interattiva di Virtual Reality con macchinari all’avanguardia.

 

Per saperne di più visita il sito web:
Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia

 

La gelosia e il famigliare nel 1500 – Dal corpo familiare all’anima familiare

Dietro i matrimoni imposti dai genitori, spesso si nasconde la passione, l’amore per un terzo che produce gelosia e, quest’ultima, porta a delle vere e proprie tragedie.

 

Vittorio Cigoli, in Albero della Discendenza Clinica dei Corpi Familiari, nel tentativo di dare concretezza alla sua teoria del corpo familiare analizza i cambiamenti che si possono leggere e analizzare nella pittura di famiglia tra il 1500 e il 1900. Partendo dal presupposto che il corpo è la rappresentazione della famiglia attraverso un’immagine cui si aggiunge una storia, l’immagine di corpo familiare è mutuata da tutte le associazioni umane contraddistinte da un simbolo che, da un lato, lega tutti i membri e, dall’altro, permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Così come riportato da Cigoli:

San Paolo si avvale del corpo per delineare l’unità della Chiesa nelle varietà delle membra e dei doni (…) Il principio unificatore è rappresentato dal solo e unico pane che è Cristo e l’Eucarestia è intesa come atto che contrasta le divisioni tra le generazioni, i gruppi e i popoli, ma anche le proiezioni nefaste sul fratello. 

L’analisi della pittura di famiglia, in quanto rappresentazione, ci dà una dimensione dello scenario culturale entro cui opera la relazione familiare nella cultura del mondo occidentale.

Io nel presente lavoro voglio introdurre il concetto di anima familiare partendo della definizione platonica, e soprattutto di Plotino, per cui vi è un’anima universale o animus mundi che in qualche modo precede l’uomo e l’anima individuale che durante tutta la sua esistenza, in altre parole durante tutta la vita, tende a ricongiungersi a essa. Per maggiori informazioni e chiarimenti riguardanti questi concetti, che qui sarebbe lungo mettere in risalto, rimando a un altro mio lavoro in fase di pubblicazione Dalla cultura al culturale ovvero dal culturale alla cultura. Esemplificando la cultura, che potrebbe assomigliare all’animus mundi, ci precede ed è il frutto di uno scambio tra culturale, inteso come il luogo degli atti quotidiani, e la stessa cultura. In questo modo la cultura che dà origine al culturale muta in funzione di quest’ultimo e contemporaneamente il culturale si modifica in funzione della cultura. La poesia, la pittura, la produzione letteraria hanno il potere di metterci in contatto con la cultura che costituisce una sorta d’inconscio collettivo. Così come esistono una cultura e un culturale universale, vi sono una cultura e un culturale familiare, che è trasmesso lungo l’arco delle generazioni. Un’opera pittorica ci mette, sul piano simbolico, di fronte alla storia di una singola famiglia e nello stesso tempo di fronte alla cultura universale. Ancora meglio l’analisi di un’opera letteraria, raccontandoci una storia, ci permette di analizzare le relazioni familiari. Ecco perché nel presente lavoro ho scelto di analizzare la gelosia in funzione dei romanzi dal ‘500 ai nostri giorni. Per fare un esempio Gorkij individua il principio unificatore della rivoluzione d’ottobre nella vedova Pelagèja Nilovna, analfabeta, che attraverso i racconti del figlio rivoluzionario Pavel diventa emblematicamente la madre di tutti i giovani rivoluzionari.

Nel 1500 a seguito della cultura cristiana, il ruolo della donna era stato fortemente valorizzato rispetto alla cultura romana.

Anche nell’ambito pittorico è notabile questo nuovo interesse per la donna che è messa al centro della scena. Cigoli, a questo proposito, cita le opere che riguardano la Sacra Famiglia. Come il mosaico della Natività in Santa Maria Maggiore a Roma, il Polittico della Natività di Giovanni da Milano (galleria comunale di Prato), L’Adorazione dei Pastori di Correggio (Gemaldegalerie di Dresda), L’Adorazione dei Pastori di Rubens (pinacoteca comunale di Fermo), Adorazione del Bambino di Gherardo delle Notti (uffizi Firenze), Madonna con Bambino di Dirk Bouts (Metropolitan Museum of Art New York). In tutti queste opere la centro vi è Maria col bambino, e Giuseppe, quando è presente, diventa un semplice accompagnatore.

La valorizzazione della donna ha comportato immediatamente, anche dal punto di vista culturale, un’elevazione della posizione della donna che improvvisamente diventa oggetto di gelosia (Benvenuto, 2011).

Con l’affermarsi della corrente letteraria dell’amor cortese, la donna diventa oggetto dell’amore nobile e di conseguenza di gelosia. La contessa Maria de Champagne, nel De Amore di Andrea Cappellano, così risponde alla contesa tra i due non ancora amanti:

Anche un’altra ragione contrasta al marito e moglie, perciò che la diritta gelosia non si può trovare tra loro, senza la quale non può essere lo diritto amore, sì come la regola dice: chi non è geloso non può amare.

All’interno di questa corrente il matrimonio era visto come un blocco al desiderio e alla felicità dei due coniugi: più che un rapporto che legava due persone per amore era un rapporto convenzionale, nel quale uno doveva obbedire all’altro, a differenza degli amanti che si scambiano amore senza dover darsi nulla in cambio. Sempre nel De Amore la donna sognata così risponde al suo corteggiatore:

Anche un’altra cosa non piccola mi contraddice ad amare, perch’ò marito di molta gentilezza e cortesia e senno, il quale sarebbe tropo gran male a farli fallo, perch’io so che m’ama di molto grande amore e io son tenuta ad amare lui. Dunque, se m’ama così, per ragione non posso amare lui.

Ci troviamo di fronte al contrasto tra ethos e pathos. La giustizia e la lealtà del patto dichiarato fanno sì che la donna si convinca che per ragione non può che amare suo marito. Ciò che vacilla è il patto segreto. Isotta, nel Tristano e Isotta risolve la contesa trovando il vero amore in Tristano e, nello stesso tempo, facendo credere al marito di essere ancora vergine e fedele a lui così come fa la Regina Ginevra con Lancillotto nel romanzo di Chrétien de Troyes. La vita matrimoniale era tenuta in vita per i figli e, quindi, per il passaggio di stirpe.

Quante volte sentiamo dire in terapia restiamo insieme solo per i figli. Sono quelle che vengono definite le coppie in stallo: né con te, né senza di te. Sono le coppie che per motivi etici o pseudo etici assumono come reale legame di coppia solo quello genitoriale. I figli sono talmente importanti che tendono a lasciarli in tale condizione attraverso la dipendenza economica, abitativa, affettiva, professionale, etc. Così come descritto nei romanzi dell’amor cortese, l’amore va cercato altrove al di fuori della famiglia. Chiaramente non vi è spazio neanche per la gelosia: essa va cercata nel pathos che coppie di questo tipo tendono a vivere al di fuori della famiglia.

La donna descritta dagli autori dell’amor cortese inizia a scegliere l’oggetto del suo amore. Man mano questa tendenza diventa sempre più presente tant’è che:

fino al Settecento, la letteratura, il teatro e le opere popolari hanno messo in scena una donna libidinosa, che cornificava il consorte, d’altra parte, però, nell’esperienza comune, essendo considerata inferiore, essa era sorvegliata da marito, padre e fratelli, che avevano il compito di salvaguardarne l’onore (Benvenuto, 2011).

La donna, in effetti, fino all’ottocento, secolo in cui inizia a lavorare e a emanciparsi, ha un ruolo subalterno all’interno delle famiglie e doveva essere sposa e madre perfetta.

Leon Battista Alberti, architetto e letterato del ‘400, in uno scritto sulla famiglia descrive le doti morali di una sposa ideale: la dignità, la discrezione, l’onestà cui si doveva aggiungere il saper filare, cucinare e governare la casa.

Baldassare Castiglione nel ‘500, descrivendo la corte ideale, elenca le virtù domestiche che deve possedere una buona madre di famiglia; afferma che deve essere una buona padrona di casa, accogliente verso gli ospiti, e deve conoscere e saper parlare di arte e di lettere.

I matrimoni erano ancora combinati e le figlie non erano ben accette. Si racconta che il duca Alfonso D’Este, quando nacque la figlia Beatrice, vietò le feste.

Anche nella pittura si nota questo cambiamento. Se la donna nei quadri della Sacra Famiglia era messa al centro dell’attenzione, all’interno della nascente famiglia borghese fa un passo indietro ridiventando la donna che si deve sacrificare a favore della domus. Cigoli individua in un’opera di Maarten von Heemsskerck Pieter Jan Foppeszon Patrizio di Haarleem con la Famiglia il mutato contesto culturale sul ruolo della donna. In quest’opera appare dimessa, triste e pensierosa a fronte dell’austerità e lo sguardo fermo e sicuro del marito.

I matrimoni decisi dalle rispettive famiglie di origine trovano ampia enfasi nella letteratura e nei racconti popolari. Il matrimonio perdeva il pathos ovvero la straordinaria avventura dello scegliersi.

Nel 1550 a Firenze, nella sala adiacente al chiostro di Santa Maria Novella, fu rappresentata un’opera di Anton Francesco Grazzini (il Lasca) dal titolo La gelosia, che è esemplificativa del contesto in cui s’inserivano la relazione di coppia e i vissuti di gelosia. La vicenda ha per protagonista la giovane Cassandra, destinata in moglie dal padre avaro a un vecchio facoltoso, benché la donna ami riamata Pierantonio. Alla fine tutto si risolve per il meglio: i giovani amanti si sposano e il vecchio è soddisfatto di avere evitato di contrarre matrimonio con una donna da cui non sarebbe stato amato.

Ma non sempre la fine era così piacevole. La baronessa di Carini, moglie di don Vincenzo La Grua Talamanca, fu uccisa il 4 dicembre 1563 dal proprio padre insieme al proprio presunto amante Ludovico Vernagallo.

La famiglia di origine era garante del patto matrimoniale che, in effetti, non era contrattato dai membri della coppia, ma dai loro rispettivi genitori. La gelosia, quindi, non riguardava la coppia ma le rispettive famiglie di origine. Si sposavano due famiglie che mettevano insieme i loro averi e il loro prestigio piuttosto che gli effettivi sposi.

La trasmissione ereditaria dei beni e dello status è un caposaldo del famigliare. Trasmettere discendenza e trasmettere eredità di beni viaggiano accomunati (…) Le parole chiave di tale passione sono continuità familiare, onore, stima, presentabilità sociale, obbedienza. (Cigoli).

La tragedia della baronessa di Carini è l’emblema della suddetta modalità di relazione. Per tantissimi anni e ancora oggi non si ha certezza del luogo in cui possa essere stata sepolta. Le storie popolari la davano lontana dalla tomba di famiglia che si trovava nella Chiesa di San Mamiliano nel centro storico di Palermo. Anche se dalle ultime scoperte sembra che non sia così, ciò che la tradizione popolare ha voluto mettere in risalto è la rescissione del legame sia in vita (il delitto) che dopo la morte (sepoltura lontana dalla cripta di famiglia). Sempre le storie popolari raccontano che il marito della baronessa si sia risposato e abbia fatto scrivere sulla porta della stanza della defunta moglie E tutto sia nuovo. Ciò che si tentava di sanare era l’onorabilità e la presentabilità sociale della famiglia.

La gelosia trovava il suo riscontro nell’ethos piuttosto che nel pathos. Anzi quest’ultimo, per dirla ancora con Cigoli, diventa l’accidens ovvero l’avvenimento inatteso e imprevisto che mette in crisi le relazioni familiari e sociali.

Nel corso del mio lavoro di consulente all’interno delle C.T.A. (Comunità Terapeutiche Assistite nate in seguito alla chiusura dei manicomi) ho trovato una paziente che era stata ricoverata in manicomio, dichiarata pazza, perché si era innamorata dell’uomo sbagliato per la sua famiglia di origine. La paziente proveniva da una famiglia borghese molto in vista nella città di provenienza. Si era innamorata di un suo coetaneo che la famiglia non vedeva di buon occhio. Non riuscendo a interrompere la storia di amore, la famiglia decise di farla dichiarare pazza e, quindi, ricoverarla in manicomio e, addirittura, non si sa in che modo, la fece dichiarare morta. Nella sua città natale, infatti, si celebrarono i funerali. La paziente morì all’età di 90 anni scrivendo continuamente lettere alla famiglia di origine cui chiedeva aiuto e, soprattutto, esprimeva il desiderio di poter ritornare a casa.

Come per la baronessa di Carini, per garantire l’onorabilità della famiglia, si recide il legame di stirpe. Per evitare contaminazioni alla storia generazionale della famiglia si rompe il legame attraverso la dichiarazione di morte e la celebrazione di un finto funerale.

L’accidens che mette in crisi la relazione familiare e la relazione tra stirpi è il rapporto d’amore tra la paziente e un giovane ritenuto non idoneo al suo rango.

Boszormenyi-Nagi e Spark, introducendo il concetto di lealtà nei sistemi familiari, affermano che essa:

nasce da un atteggiamento del singolo al sistema, di cui egli interiorizza le ingiunzioni esplicite e inespresse e verso il quale manifesta totale obbedienza. A sua volta il sistema per la sua esistenza, dipende dai suoi membri e da essi pertanto si attende lealtà di pensiero, emozioni e motivazioni.

La baronessa di Carini e la mia paziente decidono di fare una scelta autonoma che, secondo il modello sopradetto, costituisce il conflitto di lealtà e il sistema considera tradimento i passi verso l’autonomia.

In Romeo e Giulietta, al contrario, il pathos, dopo la morte dei personaggi mette insieme due stirpi i Montecchi e i Capuleti che per secoli si erano osteggiate. L’innamoramento, che resta pur sempre un dramma, può portare risultati positivi.

Scrive ancora Cigoli:

la famiglia, si sa, ha una base contrattuale ed è cosi in tutte le culture, eppure la contrattualità può essere nemica del legame. Sia che si imponga ai figli la logica ereditaria dei padri (il loro volere), sia che il matrimonio avvenga sulla base di un mero interesse economico e/o sociale delle famiglie di origine, è il legame a soffrire e la tragedia è così dietro l’angolo.

L’ethos non regge all’urto del pathos. Dietro i matrimoni imposti dai genitori, spesso si nasconde la passione, l’amore per un terzo che produce gelosia e, quest’ultima, porta a delle vere e proprie tragedie. La gelosia non è frutto della vita di coppia ma di un difetto originario nella strutturazione del legame di coppia. La sterilità di un matrimonio imposto da esigenze familiari porta a ricercare il pathos all’esterno. La tragedia si consuma perché il sistema non può reggere quest’attacco devastante al legame di stirpe e, quindi, attraverso la morte si deve recidere il passaggio generazionale. Il messaggio insito nell’uccisione della persona che ha commesso adulterio sembra voler estirpare il legame di stirpe.

E’ da tenere presente che tutto ciò era regolato da apposite leggi e consuetudini. Da studi approfonditi sembrerebbe che il padre della baronessa di Carini si auto incolpò dell’uccisione della figlia e del suo amante, attraverso una lettera al Re di Spagna, per scagionare il genero. Una legge borbonica, infatti, consentiva al padre dell’adultera di uccidere la figlia e il suo amante, mentre al marito di uccidere solo il rivale.

Solo al padre era consentito estinguere il legame generazionale: il legame di stirpe.

Ai genitori è dato il compito di donare la vita: Il dono della vita diventa così un mezzo per legare l’altro a sé indissolubilmente. Ai genitori e specificatamente al padre, cui spesso è assegnato il compito di garantire la giustizia, è dato il compito di toglierla. La morte nella sua valenza psichica è mancanza di legame-cura, è abbandono, è rifiuto dell’altro (Cigoli 2006).

La gelosia, quindi, tende all’annullamento fisico o psichico dell’altro, anche se, come vedremo in seguito, ottiene il contrario.

Il microbioma influenza il nostro comportamento?

Il microbiota è l’insieme dei microrganismi che convivono nell’organismo umano senza danneggiarlo, mentre il microbioma è l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali di questi microrganismi.

 

Si tratta principalmente di batteri ed è possibile identificare tra le 500 e le 10.000.000 di specie. Il loro numero è circa 10 volte quello delle nostre cellule, tuttavia non si tratta solamente di batteri ma anche, in misura minore, di virus e miceti.

Lo sviluppo del microbioma umano avviene nei primi giorni di vita ed è essenziale per la maturazione e lo sviluppo del sistema immunitario (Belkaid&Hand, 2014).

L’adolescenza è un periodo di sviluppo cognitivo e comportamentale estremamente sensibile e la letteratura ha ampiamente dimostrato come l’ambiente sia in grado di interferire e quindi modificare lo sviluppo cognitivo e comportamentale durante questa fase dello sviluppo.

Tra i fattori che influenzano lo sviluppo dell’individuo in adolescenza ci sono lo status socio-economico e la relazione con i propri caregiver. È stato dimostrato come queste due componenti possano portare allo sviluppo di disturbi psichiatrici (Flannery et al., 2019).

Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato che il comportamento del caregiver potrebbe portare a modifiche nello sviluppo delle funzioni nervose sia a carico del sistema nervoso centrale che di quello periferico (Fisher et al., 2016).

Dalla letteratura si evidenzia come anche il microbioma intestinale sembri influenzare, insieme ad altre variabili, lo sviluppo neurobiologico e mentale in adolescenza (Dinan & Cryan, 2016).

Recenti esperimenti sugli animali mostrano che il microbioma comunica con il sistema nervoso centrale influenzando il comportamento sociale, esplorativo e affettivo dell’animale.

I ricercatori stanno considerando l’ipotesi che il microbioma medi l’interazione trai i fattori esogeni (ovvero fattori esterni che interagiscono con il nostro organismo) e il nostro organismo; di conseguenza la capacità dell’ambiente di influenzare il nostro comportamento dipenderebbe anche dal nostro microbioma, tuttavia non si tratterebbe di un processo unidirezionale dato che l’ambiente, in particolare nel primo anno di vita, impatterebbe in maniera significativa sulla modifica del nostro microbioma. Quindi, riassumendo, l’ambiente modificherebbe il nostro microbioma, e quest’ultimo a sua volta inciderebbe sulla capacità dell’ambiente di modificare il nostro comportamento: si tratta quindi di una relazione bidirezionale.

È stato dimostrato come sia negli umani che negli animali i fattori stressanti, come ad esempio una relazione negativa con i propri caregiver, modifichino la quantità di alcuni batteri del nostro intestino (Flannery et al., 2019).

Secondo una ricerca pubblicata su American Society for Microbiology, sembrerebbe che il microbioma possa essere modificato anche dopo i primi anni di vita, e che vada ad incidere in maniera significativa con cambiamenti comportamentali dell’individuo. Tale cambiamento sembrerebbe essere causato dalla relazione con i propri caregiver; per lo studio sperimentale sono stati presi in esame 40 bambini (età media 7 anni) e i relativi caregiver. A quest’ultimi sono stati somministrati questionari riguardanti il comportamento abituale che avevano nei confronti dei propri figli.

In seguito è stato estratto il DNA dalle feci dei bambini per individuare e categorizzare il microbioma; una volta ottenuti questi dati i ricercatori hanno osservato che la varianza di popolazione batterica nei bambini cambiava a seconda dei comportamenti tenuti nei loro confronti dai caregiver.

In conclusione il suddetto studio suggerisce che, quando consideriamo lo sviluppo psicologico di un bambino, bisogna tener conto di fattori biologici, psicologici, ambientali, psicosociali, e infine risulta essere decisivo anche il microbioma.

I ricercatori sostengono che per la metodologia utilizzata nel suddetto studio non si possa fare un’inferenza di causalità, dato che si tratta di uno studio cross-sectional. Si evidenzia quindi la necessità di ulteriori studi per rafforzare l’ipotesi che il microbioma possa essere modificato dall’ambiente (in particolare dal comportamento dei caregivers) (Flannery et al., 2019).

Sport estremi: strumento di regolazione emotiva o dipendenza?

Sembra che praticare sport estremi possa aiutare alcuni soggetti a rinforzare il proprio senso di agency e a regolare le emozioni. Tuttavia, non è raro che questi sportivi sviluppino una dipendenza da attività estreme.

Alberto Morandi e Marta Venturini – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Gli sport estremi, quali ad esempio il free climbing, alpinismo, sci o snowboard estremo, sono frequentemente definiti come attività nelle quali è probabile il verificarsi di un “errore di calcolo” o incidente mortale (Brymer and Schweitzer, 2017).

La regolazione emotiva è un termine usato per caratterizzare i diversi processi coinvolti nell’iniziare, mantenere e modulare l’intensità, il tipo o la durata delle emozioni (Thompson, 1994). Si riferisce ad azioni che influenzano “quali emozioni abbiamo, quando le abbiamo e come le esperiamo ed esprimiamo” (Gross, 2002, p. 282).

Le persone che si impegnano in attività prolungate ad alto rischio, come fanno ad esempio gli alpinisti, sembrano dimostrare difficoltà nella regolazione delle emozioni e un diminuito senso di agency in importanti aspetti della vita quotidiana  (Woodman, Hardy, Barlow, & Le Scanff, 2010). Alcune attività ad alto rischio possono essere un comportamento con funzione compensatoria per le persone: un’opportunità di esperire una regolazione emotiva e un senso di agency in un modo che non è percepito nella vita quotidiana. Ricerche hanno suggerito che persone che praticano sport estremi possono intenzionalmente cercare situazioni di caos, stress, pericolo in modo da dimostrare il loro senso agency e controllo emotivo (Collins, Collins, & Willmott, 2018).

Se un individuo ingaggia attività ad alto rischio con scopi specifici (impliciti o espliciti) di sperimentare una regolazione emotiva e un senso di agency, può trarre un probabile beneficio dalla partecipazione. Tali soggetti possono inoltre esperire e trasferire un senso di regolazione emotiva e senso di agency da un dominio di sport ad alto rischio ad importanti aspetti della loro vita quotidiana (Woodman et al., 2010).

Tuttavia oltre ai benefici appena descritti, le ricerche hanno visto come questi sportivi possano sviluppare una dipendenza dalle attività estreme.

Il termine dipendenza è spesso collegato a dipendenze da sostanze, alcool o tabacco, ma attività come il gioco d’azzardo, lo shopping, l’uso di internet e l’esercizio fisico possono diventare anch’esse fonte di dipendenza (Griffiths, 1996, 1997).

Tali “dipendenze comportamentali” mostrano sintomi simili a quelle da sostanza. Secondo Brown, inoltre, il concetto teorico di dipendenze comportamentali include la componente di salienza (l’attività diventa la cosa più importante nella vita di una persona), conflitto (tra persone con dipendenza e persone senza), modificazione dell’umore (strategia di coping per regolare le emozioni), tolleranza (aumento dell’ammontare di attività richiesta per ottenerne l’effetto) sintomi d’astinenza (sensazioni spiacevoli vengono avvertite alla riduzione dell’attività), e perdita di controllo (inabilità di limitare il tempo dedicato all’attività) (Brown, 1997).

La dipendenza da esercizio fisico è caratterizzata da un aumento dell’ammontare di esercizi, i quali assumono priorità su altre aree della vita della persona. Tale dipendenza viene spesso associata a sport individuali come il running ed il sollevamento di pesi, mentre non è stata ad oggi ancora investigata negli sport di squadra. La dipendenza da esercizio è stata descritta inizialmente da Glasser (1976) e introdotta in termini di “dipendenza positiva” in relazione ai benefici derivanti dall’attività fisica. Potenziali danni o conseguenze dall’eccessivo esercizio fisico sono stati descritti come infortuni, pattern disfunzionali di alimentazione e perdita delle relazioni sociali (Griffiths, 1997).

Nonostante la mancanza di coerenza della terminologia e dell’approccio di ricerca usato, esistono diverse definizioni e strumenti di misura per la dipendenza da esercizio fisico (Roderique-Davies, Heirene, Mellalieu & Shearer, 2018). Attualmente, la dipendenza da esercizio fisico non esiste tuttavia come diagnosi nell’ICD-10 (World Health Organization, 2004).

Hausenblas e Downs la definiscono come:

un desiderio per l’attività fisica che risulta nell’estremo esercizio e genera sintomi fisiologici (ad es. abuso e tolleranza) e psicologici (ad es. emozioni negative quando inabili all’esercizio) negativi.

A questi autori si deve la realizzazione della Exercise Dependence Scale (EDS) la quale è basata sui criteri diagnostici dell’abuso di sostanza (Hausenblas and Downs, 2002). L’Exercise Addiction Inventory (EAI) è un altro semplice strumento per verificare la dipendenza da esercizio fisico, basato sulle componenti di dipendenza comportamentale spiegate dalla teoria di Brown (Szabo, Griffiths, 2004).

Nell’ambito degli sport estremi è stato indagato anche come skydivers possono esperire, durante periodi di inattività sportiva, aspetti di astinenza quali anedonia e umore negativo simili a quelli osservati in soggetti con dipendenza da sostanze (Franken, Zijlstra and Muris, 2006).

Inoltre, un forte desiderio (craving) e il bisogno di svolgere sport estremi è stato recentemente osservato negli arrampicatori in periodi di astensione dal loro sport: in periodi di inattività è stato possibile osservare esperienze affettive negative e anedonia. Il craving si dimostra quindi centrale nell’esperienza degli arrampicatori: è stato concettualizzato come un forte bisogno di svolgere attività sportiva, relato ad urgenza e compulsione comparabili a quelle osservate in soggetti con dipendenza da sostanze. Alcune misure di tali aspetti potrebbero fornire una maggiore comprensione dei gradi di dipendenza esperiti da atleti che praticano sport estremi in confronto ad altri sport (ad es. surfisti) e attività (ad es. uso di droga). Tali gradi di dipendenza potrebbero essere indagati osservando i livelli di desiderio rispetto alla pratica di attività, gli stati associati (ad es. sintomi di astinenza) e i comportamenti (ad es. eccessivo allenamento e l’incorrere in rischi eccessivi) (Roderique-Davies et al., 2018).

Davies e colleghi hanno svolto due studi per realizzare e validare un questionario multidimensionale finalizzato a misurare il craving in un campione di arrampicatori e alpinisti  (2018): attraverso il Rock Climbing Craving Questionnaire (RCCQ), gli autori hanno confermato l’ipotesi che possano esserci delle similarità concettuali tra il craving per sport estremi e quello per sostanze.

Ad oggi, tuttavia, la mancanza di coerenza nella definizione e negli strumenti di valutazione rende difficile stimare la presenza di dipendenza da esercizio negli sportivi, anche per il fatto che gli studi presenti in letteratura si focalizzano su differenti, e a volte non specifici, tipi di attività sportiva.

Sebbene soggetti con dipendenza da sostanze e soggetti che praticano sport estremi possono fare esperienza di stati psicologici simili, i loro comportamenti sono distinti sul campo della legalità, accettabilità sociale e promozione della salute. Inoltre, l’impatto del coinvolgimento eccessivo in sport estremi può essere meno deteriorante per un individuo a livello personale, sociale e professionale rispetto all’eccessivo uso di sostanze. Infatti, si rende necessario prestare attenzione ad evitare di etichettare come patologici tutti gli atleti di sport estremi, come “dipendenti” che devono essere trattati. L’accettabilità sociale degli sport estremi appare infatti mediata da diversi aspetti, quali ad esempio la possibilità di fare esercizio, sviluppare abilità e soddisfare tratti legati alla ricerca di sensazioni, diventare agenti delle loro emozioni ed esperire libertà, sfida e nuovi ambienti (Roderique-Davies et al., 2018).

 

Frozen: indegnità e controllo nella vita di Elsa – La LIBET nelle narrazioni

Frozen – Il regno di ghiaccio è un film d’animazione (2013) diretto da Chris Buck e Jennifer Lee, prodotto dalla Walt Disney Pictures Studios. Le prime scene inquadrano la relazione protettiva e sicura presente tra le due principesse, le quali si differenziano per la vivacità, noncuranza delle regole e iperattività di Anna da un lato e per la posatezza di Elsa dall’altro.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 4) Frozen

 

L’ambientazione maggiormente ripresa è il Regno di Arendelle, situato nella penisola Scandinava, dove vivono le protagoniste del film: Elsa e Anna (inizialmente insieme ai loro genitori).

Le prime scene inquadrano la relazione protettiva e sicura presente tra le due principesse, le quali si differenziano per la vivacità, noncuranza delle regole e iperattività di Anna da un lato e per la posatezza di Elsa dall’altro.

La dinamica di gioco, che ha un ruolo di apertura nel film, evidenzia una relazione basata sul tentativo di Elsa di soddisfare il desiderio di aumento dell’adrenalina della sorella, che non presta attenzione al pericolo, bensì si lascia completamente trasportare dal divertimento.

Elsa, fin da subito, manifesta una capacità di previsione del pericolo e tentativi, a tratti goffi, di controllare la vivacità della piccola Anna (‘Shhhh’, ‘Anna attenta!’).

Tema e piano semi-adattivo:

Il momento di apprendimento del piano semi-adattivo di Elsa non è ben chiarificato nel film, si potrebbe ipotizzare che sia stata la richiesta genitoriale di responsabilità in quanto sorella maggiore ad aver creato in Elsa quel comportamento di contenimento alle condotte iperattive della sorella; ipotesi a cui non possiamo dare conferma o disconferma basandoci esclusivamente sugli elementi presenti nel film.

Ciò che invece è possibile rintracciare con certezza è il momento in cui le strategie acquisiscono le caratteristiche rigide e invalidanti, esplicitate in Elsa attraverso comportamenti estremamente controllanti (piano prescrittivo) ed evitanti (piano prudenziale).

L’episodio che acquisisce importanza si rintraccia proprio in uno dei momenti di gioco delle due sorelle già descritto in precedenza. Elsa, che fin dalla nascita si contraddistingue per la magia di creare il ghiaccio, colpisce involontariamente alla testa la sorella Anna, lasciandola priva di sensi.

All’arrivo dei genitori, il padre esordisce spaventato ‘Elsa cosa hai fatto!’, frase che può avere avuto un’influenza nell’elaborazione dell’evento traumatico nella principessa maggiore.

I genitori decidono di portare la piccola Anna dai Troll al fine di salvarle la vita, i quali riferiscono che l’unica soluzione per farlo è quella di cancellare il ricordo dei poteri di Elsa nella piccola Anna, pur mantenendo i momenti rappresentativi del legame tra di loro. Inoltre, aggiungono che il dono di Elsa può divenire una maledizione se la principessa non impara a governare le proprie emozioni, quindi i suoi poteri.

Il Re e la Regina di Arendelle decidono di tenere Elsa chiusa nella sua stanza, lontana dal mondo esterno e da Anna, con l’obiettivo di aiutarla ad imparare a controllare la sua emotività. In questo tentativo di apprendimento di controllo, le difficoltà di Elsa sono visibilmente presenti, al punto tale che tanto più cerca di controllarsi, tanto più fatica a controllare la magia del ghiaccio. Insieme all’utilizzo di strategie di controllo (piano prescrittivo), quali utilizzo di guanti e monitoraggio costante di se stessa e dei suoi poteri, si uniscono le strategie di evitamento (piano prudenziale) quali l’allontanamento da tutte le situazioni sociali.

Queste strategie proteggono Elsa dalla sua più grande sensibilità: essere indegna (sbagliata e pericolosa). ‘Se ferisco gli altri con i miei poteri significa che sono indegna, cosa che per me è terribile o insopportabile per cui devo controllare le mie emozioni e le mie relazioni con il mondo esterno per prevenire, evitare, sopprimere e non posso fare altrimenti’.

Invalidazione:

La morte dei genitori e il raggiungimento dei 21 anni, quindi la proclamazione di Elsa come Regina, la costringono a rivalutare i suoi comportamenti protettivi del proprio tema.

Elsa, che è costretta ad esporsi alla società durante la cerimonia (quindi a rendere flessibile il suo piano prudenziale), tenta,  attraverso il rimuginio e il controllo, di gestire la propria emotività, quindi i propri poteri, al fine di adempiere ai suoi doveri di futura regina (piano prescrittivo).

A fine cerimonia, Elsa, ormai divenuta Regina, ha una discussione con Anna. La principessa, innamoratasi la sera stessa del Principe Hans, chiede la benedizione della Regina per la proclamazione delle nozze, quindi per portare di nuovo la vita e le relazioni sociali all’interno del palazzo. Questa immagine porta Elsa direttamente in contatto con il proprio tema e fa scattare in lei un atteggiamento protettivo di rifiuto rispetto alla richiesta così improvvisa della sorella. Durante la discussione Anna sfila inconsapevolmente il guanto a Elsa, la quale spaventata e arrabbiata, non gestisce più le sue emozioni e si palesa con i suoi poteri a tutto il Regno.

A seguito di questo episodio invalidante, Elsa si rifugia libera e sola nella montagna del Nord (‘No Anna, il mio posto è qui, da sola, senza poter ferire nessuno’).

In conclusione, l’invalidazione del piano di Elsa la porta in contatto direttamente con il suo tema (sono sbagliata), quindi alla conseguente manifestazione della sintomatologia. L’evitamento estremo non adattivo di Elsa nella montagna del Nord è, infatti, identificabile come sintomo dell’invalidazione del piano.

La manifestazione sintomatologica è evidente anche dallo stato emotivo negativo esplicitato da Elsa attraverso il canto, che è caratterizzato da significati dolorosi, di solitudine e forte senso di colpa.

Solo successivamente, attraverso un percorso di accettazione di se stessa, Elsa riuscirà a stare in contatto con il suo tema, attraverso comportamenti più flessibili e funzionali, che le permetteranno di stare nuovamente nella società e di lasciarsi vedere dal mondo per la persona che è, nella sua interezza.

 

All’origine del panico

Il paziente con disturbo da attacchi di panico tende a percepire il pericolo là dove non esiste, il locus coeruleus si attiva come se fosse in presenza di un reale pericolo e prepara in pochi secondi l’organismo all’attacco o alla fuga.

 

Il nucleo del disturbo di panico è alimentato da un evidente squilibrio neurochimico, come documentato da referenze internazionali dagli anni ‘80 a oggi. La patogenesi del disturbo consiste in un’alterata regolazione del centro dell’allarme di cui tutti i primati dispongono, situato nel locus coeruleus (dal lat. punto blu), centro nevralgico noradrenergico. In condizioni normali questo centro si attiva in condizioni di allarme reale percepito e nel volgere di 15-30 secondi attiva tutte le funzioni del corpo umano predisponendolo alla difesa della propria incolumità: attacco o fuga. (Gorman et al.,1989-2000; Gold, Machado-Vieira, Pavlatou, 2015).

La reazione di attacco o fuga (in inglese: fight or flight response) fu descritta per la prima volta agli inizi del secolo scorso da Walter Bradford Cannon (Cannon, 1915), affermando che gli animali reagiscono agli eventi/stimolo minacciosi con una forte scarica del sistema simpatico, che serve appunto a preparare l’organismo a una reazione di tipo aggressivo o alla fuga.

Il paziente con disturbo da attacchi di panico ha una disregolazione congenita di questo meccanismo per predisposizione familiare (Pauls et al., 1980; Crowe et al., 1983; Kim, 2018) o acquisita successivamente mediante utilizzo di sostanze psicostimolanti o in seguito a un evento di vita fortemente stressante (Faravelli, 1985; Faravelli e Pallanti, 1989). A causa di questa disregolazione, che può essere già evidente sin da bambini, il paziente percepisce il pericolo là dove non esiste. Il locus coeruleus si attiva come se fosse in presenza di un reale pericolo e prepara, sempre nel volgere di 15-30 secondi l’organismo all’attacco o alla fuga.

A livello fisiologico questa attivazione generale generata dal locus coeruleus determina vasocostrizione, aumento della pressione arteriosa, tachicardia, aumento della frequenza respiratoria, sensazioni di morte imminente, sensazioni di perdere il controllo, sensazioni di svenimento, sensazioni di impazzire.

Risulta essere pertanto evidente che, in base a questo principio, se un soggetto normale dovesse incontrare un leone per strada, dietro un angolo, tutte queste manifestazioni psicofisiologiche che egli potrebbe esperire sarebbero considerate tipiche di una reazione di attacco/fuga e assolutamente normali in base alla situazione contingente. Se un paziente dovesse esperire invece tutti questi sintomi in assenza di uno stimolo minaccioso, senza un pericolo reale di varia entità, a ciel sereno, non si renderebbe conto di quello che gli starebbe per accadere e l’unica spiegazione cognitivamente valida che sarebbe in grado di darsi potrebbe essere questa: sto morendo.

Il punto chiave del disturbo di panico quindi, sembra sia rappresentato dalla tendenza, nei soggetti che ne soffrono, a iniziare in maniera inappropriata la reazione di attacco/fuga senza che vi sia un vero allarme da dover gestire e un vero pericolo da affrontare. Questa attivazione fisiologica inopportuna fa scivolare inevitabilmente gli individui panicosi in uno stato di perenne allerta, che in maniera inequivocabile, finisce per rovinare poi la produttività e il benessere individuale.

 

One night stand e Tinder: ecco quanto l’app aiuti effettivamente a trovare un partner

Tinder è un’applicazione particolarmente conosciuta da tutti quei giovani che almeno una volta nella vita hanno desiderato incontrare un nuovo partner (occasionale o meno), restando comodamente a casa propria.

 

Il funzionamento dell’app è molto semplice: prima di tutto bisogna iscriversi tramite il proprio account Facebook o Instagram, in secondo luogo è necessario caricare le foto migliori e, infine, indicare il sesso e l’età desiderata del futuro partner. Una volta registrati, Tinder sarà in grado di individuare tutte le persone che, a distanza di pochi chilometri, corrispondono ai criteri di ricerca inseriti mostrando le loro foto: scorri a sinistra se la foto è di tuo gradimento oppure a destra se non lo è. Solo nel caso in cui entrambe le persone interessate abbiano espresso un giudizio positivo sull’altro (detto match) l’applicazione consentirà di iniziare una conversazione privata.

Tinder è stata sempre considerata, per lo più, un’applicazione utile a trovare incontri sessuali occasionali (Sevi et al., 2018), piuttosto che per la ricerca di un partner a lungo termine. Tuttavia, alcuni recenti studi hanno mostrato che non sempre è così (es., LeFebvre, 2017): infatti alcuni utilizzatori hanno affermato di cercare, tramite Tinder, qualcosa di più di una semplice relazione one night stand (Timmerman & Courtois, 2018).

Nonostante l’app abbia incuriosito diversi autori negli ultimi anni, nessuno studio ha indagato sul fatto che Tinder effettivamente aiuti le persone a trovare partner occasionali o a lungo termine, ed è proprio partendo da questo quesito che è stata sviluppata la presente ricerca (Grøntvedt et al., 2019).

È stato preso in considerazione campione di 283 studenti di scienze umane, reclutati in un campus a Trondheim in Norvegia. A ognuno di loro è stato chiesto da quanto tempo utilizzassero Tinder, quanti incontri avessero fatto grazie all’applicazione, quanti partner occasionali fossero riusciti a trovare e quanti invece fossero riusciti a cominciare una relazione a lungo termine.

I risultati hanno mostrato che, al contrario delle aspettative, solo un numero limitato di partecipanti erano riusciti a trovare un partner sessuale occasionale grazie a Tinder. Tra coloro che affermavano di avere uno scarso successo nel trovare partner occasionali nel ‘mondo reale’ (senza quindi utilizzare nessuna app di incontri), Tinder non si è dimostrato in grado di ribaltare questa tendenza: l’applicazione non ha quindi incrementato il numero di incontri per gli users. Allo stesso modo, chi aveva sempre avuto successo nel corteggiamento tradizionale, era più avvantaggiato anche con l’utilizzo di Tinder. Nemmeno per coloro che utilizzavano l’app con lo scopo di trovare partner a lungo termine Tinder ha mostrato risultati migliori.

In conclusione, il presente studio sembra sfatare il mito che Tinder sia un modo più utile e rapido di trovare un partner rispetto ai metodi più tradizionali: infatti, nonostante i limiti dello studio, tra cui è possibile citare una bassa diversificazione del campione, i risultati dimostrano che tra gli utilizzatori di Tinder solo 2 persone su 10 riescono a trovare un partner occasionale o a lungo termine grazie all’applicazione.

La recovery dai disturbi alimentari: il punto di vista dei pazienti

La ricerca qualitativa si è dimostrata particolarmente idonea per indagare aspetti che difficilmente potrebbero essere catturati con altrettanta profondità dalle ricerche quantitative. Il processo e l’esperienza di remissione da un disturbo alimentare, così come descritti e narrati dai pazienti, hanno il potenziale di essere una ricca fonte di informazioni fornendo nuove comprensioni e preziosi contributi per la creazione di piani di trattamento più efficaci.

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Recentemente, le ricerche condotte con l’impiego di metodologie di stampo qualitativo, stanno assumendo un crescente utilizzo e stanno iniziando ad essere adoperate per indagare numerosi aspetti connessi ai vissuti e alle problematiche di svariate psicopatologie. Le particolari caratteristiche che contraddistinguono questo modo di fare ricerca contribuiscono a connotare la ricerca qualitativa di elementi che la rendono particolarmente idonea, laddove condotta nel rispetto di procedure rigorose e rintracciabili, ad indagare aspetti che difficilmente potrebbero essere catturati con altrettanta profondità dalle ricerche condotte con disegni di ricerca quantitativi che, per definizione, fanno impiego di strumenti maggiormente standardizzati.

Accanto a questa proliferazione di ricerche assistiamo anche ad un crescente interesse verso i vissuti esperienziali dei pazienti, a come questi ultimi sperimentano la loro malattia e a come riescano a raggiungere, da questa, uno stato di remissione. L’attenzione a come il paziente percepisce lo stato di guarigione e a ciò che è più funzionale o, di contro, ostacolante in questo processo, sta divenendo un ambito di ricerca in molte psicopatologie compresi i disturbi alimentari (DA).

I disturbi dell’alimentazione sono disturbi particolarmente complessi, caratterizzati da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo. Stanno avendo una sempre più larga diffusione, per genere, fasce di età e area geografica. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza, interessando soprattutto il sesso femminile e possono alterare il normale corso dello sviluppo  (Berkman, Lohr, & Bulik, 2007). Gli aspetti collegati alle comorbilità di questi disturbi, alle gravi complicanze a livello fisico, sociale, relazionale e a quelli di cronicità, li rendono disturbi difficili da riconoscere precocemente, trattare e dai quali ottenere una remissione completa.

Il concetto di recovery è emerso a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ed è un aspetto sempre più importante all’interno dei servizi che si occupano di salute mentale. I processi di recovery appaiono spesso complessi e difficili da misurare e possono essere compresi in maniera più approfondita focalizzandosi sulle prospettive dei pazienti mediante l’impiego di metodi di ricerca di stampo qualitativo (Jacobson, 2001).

La ricerca qualitativa impiega numerosi metodi per la raccolta e l’analisi dei dati che si distinguono tra loro in quanto si basano su assunti epistemologici specifici e per i quali non è presente una tassonomia definita. I principali sono la Grounded Theory  (Glaser & Stauss, 1967), l’etnografia (Remotti & Fabietti, 1997), i focus group, (Albanesi, 2004) e l’approccio narrativo come il metodo delle storie di vita (Lieblich, Tuval-Mashiac & Ziber, 1998). Altri metodi che possono essere impiegati sono l’analisi del discorso (Van dijk, 1997) e l’analisi della conversazione (Sacks, Schegloff, & Jefferson, 1974).

Le caratteristiche essenziali che possono descrivere questo tipo di approccio sono:

  • l’impiego di metodi di raccolta dei dati open-ended;
  • l’uso di parole e immagini visive al posto di dati statistici per descrivere eventi o esperienze psicologiche;
  • la convinzione che le scoperte siano costruite socialmente piuttosto che sia la “verità”ad essere scoperta;
  • il focus costante sul participant meaning (Hill, Knox, Thompson, Williams, Hess &Ladany, 2005).

Per quanto riguarda i tassi di guarigione da un disturbo alimentare, questi oscillano nelle ricerche tra il 24 e il 76% (Katzman, Golden, Neumark-Sztainer, Yager, &Strober, 2000; Zipfil, Lowe, Reas, Deter, & Herzog, 2000). Le differenze nei tassi sono dovute parzialmente alle varie definizioni applicate al concetto di guarigione, così come ai criteri impiegati per definirne il raggiungimento (peso corporeo, severità dei sintomi accusati, comportamenti riguardanti l’assunzione di cibo e ricomparsa e stabilità del ciclo mestruale) (Herzog, Nussbaum, &Marmor, 1996). Questi criteri tuttavia sono stati messi in discussione dal momento che è stato rilevato come alcuni pazienti con anoressia nervosa (AN) che sono riusciti a recuperare il loro peso precedente, mantengano degli atteggiamenti controversi nei riguardi del cibo e delle forme del proprio corpo (Fenning, Fenning, & Roe, 2002) e altri, nonostante abbiano sospeso la pratica di comportamenti alimentari disfunzionali, continuano ad esibire problemi psichiatrici e limitazioni nel funzionamento sociale e lavorativo . Quando la remissione da un DA viene determinata solo dai clinici e dai ricercatori, importanti aspetti di questo processo potrebbero essere sottovalutati e fattori di natura psicologica dovrebbero essere considerati nella valutazione della recovery. Una valutazione globale, che tenga conto sia dei fattori fisici che psicologici, è molto rara e difficile da perseguire e non sempre fattibile nella pratica clinica (Couturier & Lock, 2006).

Il processo e l’esperienza di remissione da un disturbo alimentare, così come descritti e narrati dai pazienti, hanno il potenziale di essere una ricca fonte di informazioni fornendo nuove comprensioni e preziosi contributi per la creazione di piani di trattamento più efficaci.

Tra i temi ricorrenti che emergono dagli studi qualitativi ci sono i turning points o punti di svolta. Questi vengono definiti dalle pazienti come momenti o eventi particolari fondamentali per intraprendere l’iter verso la guarigione. Possono essere descritti come epifanie, altre volte sono più graduali, ma in ogni caso fungono da fattori di innesco per la presa di decisione. La malattia o la scomparsa di una persona cara ha agevolato la scelta di vivere in alcuni pazienti con AN (Nillson& Hӓgglöf, 2006; Mitchison, Dawson, Hand, Mond, &Hay, 2016), così come il giungere a pensare di togliersi la vita (Dawson, Rhodes, &Touyz, 2014). I turning points possono essere anche eventi spaventanti connessi alla propria salute:

Stavo malissimo e penso che quello sia stato un punto di svolta per me […] ogni volta che vomitavo sentivo le palpitazioni forti del mio cuore e sudavo freddo, […], mi resi conto che se avessi continuato così sarei morta, perché quello non era normale…sapevo solo che qualcosa doveva cambiare. (Patching & Lowler, 2009, p.17)

Altri eventi individuati sono stati ad esempio il collasso in spiaggia per una giovane paziente con AN, l’irregolarità e velocità del proprio battito cardiaco durante un episodio di vomito auto indotto per un’altra affetta da bulimia nervosa (BN) (D’Abundo & Chally, 2004) e l’ospedalizzazione (D’Abundo & Chally, 2004;  Matoff & Matoff, 2001). Alcune pazienti descrivono di aver fatto esperienza di una sorta di “click”, o switch mentale alla cui base ci può essere anche il riconoscimento di nuovi bisogni, in aree diverse della vita, aldilà delle restrizioni offerte dai disturbi alimentari:

[Mi stavo chiedendo] come posso essere felice nella mia vita?…è come se stessi sprecando il mio tempo facendo quello [le abbuffate]. Non stavo facendo nient’altro..non avevo un buon lavoro, non avevo un’educazione…dovevo impiegare le mie capacità per fare qualcos’altro. (Krentz et al., 2005, p. 124)

I “click” possono essere innescati anche da commenti sullo stato di deprivazione fisica o sulle conseguenze negative dei disturbi dell’alimentazione:

Il mio dottore mi disse che mi stavo bruciando l’esofago e che sarei potuta morire…e allora ho iniziato a riflettere se liberarmi o meno dal disturbo e… ho capito che non volevo assolutamente morire! (Las Hayas et al., 2015, p.13)

Anche aspetti connessi alla maternità possono fungere da improvvisi punti di svolta, sia che si declinino nello scoprire di aspettare un figlio (Lindgren, Enmark, Bohman, & Lundström, 2015), sia nell’apprendere di averlo perso a causa delle compromissioni fisiche causate dalla malattia (Weaver, Wuest & Ciliska, 2005).

La comprensione e l’accettazione delle conseguenze negative causate dal disturbo in molti contesti della vita sono aspetti frequentemente implicati nel percorso di guarigione. Possono riguardare le complicanze fisiche legate ai DA, come i danni all’esofago a causa del vomito autoindotto o la connessione tra le aritmie, i collassi e la protratta malnutrizione (Lindgrenet al., 2015). Altre conseguenze negative emerse sono i sentimenti di imbarazzo provati per i propri comportamenti alimentari, la sofferenza psichica e fisica causata dagli episodi di abbuffate e dai conseguenti meccanismi di purging, le difficoltà di concentrazione e la sensazione di stanchezza e spossatezza costanti (D’Abundo & Chally, 2004). Molte pazienti riportano di aver preso coscienza di come il disturbo alimentare abbia impedito loro di ottenere i risultati sperati come terminare l’università o migliorare la propria carriera (Jenkins & Ogden, 2012; Matoff & Matoff, 2001). In senso più ampio, le riflessioni delle pazienti si possono allargare anche alla presa di coscienza delle ristrette possibilità di vita offerte dalla malattia:

Ad un certo punto ho iniziato a pensare a tutte le cose che avrei potuto ancora perdere e a tutte le cose che invece avrei voluto fare, e tutti i Paesi che avrei voluto visitare. (Lindgrenet al., 2015, p. 864)

Anche accettare che molte occasioni lavorative non sono state colte o che non si è riusciti ad istaurare delle relazioni intime a causa del disturbo fa parte del percorso:

Sento un grande dolore perché ho speso 25 anni della mia vita con la bulimia e ora so che molti treni sono passati e che ormai li ho persi. (Pettersen, Wallin & Björk , 2016, p.6)

La recovery viene descritta come un processo nel quale le donne sentono di aver riguadagnato il controllo delle loro vite, ad esempio decidendo di alimentarsi in maniera più sana:

Penso che il fattore più importante per me per star bene è stato assumere il controllo in un modo sano piuttosto che in un modo non sano. La malattia ha controllato la mia vita e dal momento che ho deciso [di voler star meglio], ho riassunto il controllo sulla mia alimentazione…e così ho iniziato a sentire di nuovo anche altre cose nella mia vita di più sotto il mio controllo. (Patching & Lowler, 2009, p. 7)

Come è emerso dallo studio di Lamoureux e Bottorff (2005) il potere e il controllo offerti dall’AN sono fattori che aumentano la vulnerabilità dei soggetti e rendono più difficile il distanziamento progressivo dalla malattia. Una “cura consapevole di sé attraverso un’alimentazione sana” (Weaveret al., 2005) e un “avvicinarsi a dei comportamenti sani e salutari” (D’Abundo & Chally, 2004) vengono descritti dalle pazienti come modalità efficaci e non più distorte attraverso le quali poter riacquistare il controllo perso a causa del disturbo:

Credevo che non mangiando potessi ottenere il controllo. Ad un certo momento ho improvvisamente realizzato che solo mangiando, potevo ottenerlo. […] Quando smetti di mangiare sei veramente fuori controllo. Ora mangio in maniera sana e ho il controllo della mia vita! (D’Abundo&Chally, 2004, p.1102)

Alcuni fattori connessi al ruolo delle terapie e dei trattamenti vengono ritenuti particolarmente importanti, come ad esempio la disponibilità all’ascolto da parte del terapeuta e la sua empatia, la possibilità per il paziente di avere una certa quota di controllo sul piano di trattamento e il sentirsi aiutato nell’identificare le cause profonde del disturbo (Jenkins e Ogden, 2012).

Aspetti problematici per alcune pazienti sono stati trovare un terapeuta con la necessaria esperienza e il controllo del peso, considerato come un elemento che accentua la sensazione di essere ancora “giudicate da una scala” (Arthur-Cameselle e Quatromoni, 2014). Il focus eccessivo sul peso e sulle misure viene percepito come un elemento ostacolante laddove molte donne ritengono che i trattamenti dovrebbero riporre enfasi maggiore alla salute e al benessere a livello globale (Linville, Brown, Sturm, &McDougal, 2012). Gli obiettivi raggiunti in termini di peso riacquistato o stabilizzato vengono considerati come tra i punti più bassi nel processo personale di recovery:

L’ho raggiunto [il target di peso] […] ma un sacco di cose nella mia testa non sono cambiate…il trattamento è stato molto focalizzato sul fisico e loro [i dottori] non guardavano al lato mentale delle cose e sebbene misi su del peso, non prendevano realmente in considerazione cosa la mia mente stesse facendo, dicevano – stai molto meglio, tu dovresti sentirti meglio – ma dentro di me non lo ero, non lo ero per niente! (Jenkins&Ogden, 2012, p. 27)

La figura del nutrizionista è stata ritenuta di supporto solo quando ha provveduto a fornire piani personalizzati e graduali, mentre in altri casi è stato controproducente:

Sono andata due volte [dal nutrizionista], ma personalmente pensavo che mi facesse più male che bene perché dovevo scrivere ogni cosa che mangiavo…la passione delle anoressiche proprio…misurare, controllare ogni piccolo pezzettino di cibo che viene inserito in bocca. (Arthur-Cameselle&Quatromoni, 2014, p. 8)

Essere non giudicate e ricevere un atteggiamento compassionevole sono fattori molto importanti, laddove invece, non sentirsi comprese o l’essere trattate con superiorità o con sufficienza vengono rintracciati come elementi ostacolanti la guarigione (Fogarty & Ramjan, 2016). L’aiuto maggiore è stato percepito quando i terapeuti si sono aperti alla prospettiva delle donne concentrandosi nell’ascolto di cosa fosse ritenuto per loro rilevante e nel prendersi cura della loro sofferenza piuttosto che approcciarsi con un insieme di preconcetti o di risposte preimpostate (Weaveret al., 2005). Il bisogno di essere coinvolti nelle decisioni riguardante la recovery può significare anche negoziare le condizioni per l’acquisizione del peso e su quanto rapidamente ciò debba avvenire (D’Abundo e Chally, 2004).

Per alcune donne la guarigione dal disturbo alimentare ha comportato riscoprire un senso di libertà anche nei confronti del rapporto con il cibo. Questa libertà, nel caso della BN, è espressa da una nuova capacità di gustare cibi una volta proibiti, come i dolci senza diventare ansiosi o cibi non salutari senza abbuffarsi né mettere in atto comportamenti compensatori (Lindgrenet al., 2015). Nel percorso viene sottolineato come le pazienti abbiano provato spesso sentimenti di ambivalenza e paura collegate alla necessità di mangiare esclusivamente cibo salutare seguendo una routine. Dopo la recovery una parte dei soggetti sembra aver sviluppato una competenza alimentare maggiore, mentre un’altra sperimenta ancora vissuti di disagio nelle interazioni sociali che vedono il cibo coinvolto e difficoltà nel capire i livelli di sazietà:

é ancora difficile capire quando sono sazia. A volte penso di esserlo e mangio il resto per ghiottoneria. Non so esattamente quando mangiare di più o di meno, non so realmente se mi sento soddisfatta, mangio tutto quello che c’è nel piatto e punto, è tutto. (Ulianet al., 2013, p. 279)

I soggetti fanno esperienza di una “dualità” tra la voce anoressica residuale, che richiederebbe loro di restringere l’intake calorico, e le nuove competenze acquisite durante la terapia, che invitano invece a bilanciarlo e adeguarlo ai propri bisogni. Spesso, dopo anni passati con il disturbo, le pazienti  hanno dovuto “reimparare” a mangiare normalmente e ad avere una relazione sana e spontanea con il cibo, il peso e il proprio corpo:

Non avevo idea di cosa fosse una normale porzione di cibo. Ho dovuto imparare tutto di nuovo come farebbe un bambino. (Pettersenet al., 2012, p.4)

Dopo la recovery la questione di cosa e quanto mangiare non è più così dominante nelle loro vite quotidiane:

Ora posso gustare quello che mangio e me lo permetto […] e non mi preoccupo più un’intera settimana se sono stata invitata da qualche parte e non ho il controllo sul pasto che verrà servito. (Björk & Ahlström, 2008, pp. 932-933)

Una flessibilità maggiore viene acquisita anche sfidando le regole auto imposte su cosa è permesso mangiare e su cosa non lo è, abbandonando anche la rigidità nei confronti degli orari dei pasti (Pettersenet al., 2016). Nel caso particolare del binge eating disorder (BED) è stato evidenziato lo sforzo delle pazienti nello sperimentarsi in maniera nuova con il cibo, eliminando o modificando le precedenti regole imposte, prestando maggiore attenzione al rispetto dei pasti e alla consapevolezza di quanto assumono:

Non mangio più di corsa, ma provo a…pianificare i pasti. […] Almeno tre pasti al giorno e non ho eliminato nessun specifico alimento perché appena provo a farlo comincio ad esserne ossessionata. (Krentzet al., 2005, p. 126)

Mangiare poi in maniera regolare evitando di acquistare troppo cibo, non avere bilance in casa e mantenere un peso stabile trovando un equilibrio con una regolare attività fisica, viene impiegata anche come strategia per evitare possibili ricadute (Björk, Wallin & Pettersen, 2012).

Lo sport e l’attività fisica possono essere visti sia come elementi di supporto alla recovery (Las Hayeset al., 2015; Nillson & Hӓgglöff, 2006) sia aspetti per i quali si deve trovare maggiore equilibrio se venivano adoperati in maniera compulsiva o compensatoria. Durante il processo di recovery, l’attività fisica può essere utilizzata per tenere sotto controllo il peso, per regolarizzare il tono dell’umore, ma anche per diminuire l’ansia sperimentata nei confronti delle preoccupazione verso le proprie forme corporee. Un processo caratteristico di questa fase è quello che riguarda la trasformazione dell’esercizio da un set di comportamenti e pensieri compulsivi e dannosi a un’attività bilanciata dalla quale trarre ristoro e divertimento, sino a diventare parte di uno stile di vita sano e equilibrato (Young, Rhodes, Touyz, &Hay, 2015). Nel caso di pazienti atlete, i progressi migliori si sono presentati quando le ragazze si sono rese conto che le proprie performances miglioravano se si nutrivano in maniera corretta e lo sport ha contribuito ad allentare la paura di aumentare di peso che è spesso una barriera alla recovery:

Se vuoi fare ogni cosa al meglio devi avere l’energia altrimenti non puoi farcela. (Arthur-Cameselle&Quatromoni, 2014) p.340)

L’ambiente sportivo può essere utile perché aiuta ad avere uno scopo ma nello stesso tempo  può anche essere d’ostacolo a causa delle pressioni subite per eccellere e delle norme stringenti che ruotano intorno all’esercizio e al cibo o favorire le ricadute quando i propri compagni sono ancora affetti da Disturbi Alimentari.

Un’ attività che viene ritenuta particolarmente utile dalle pazienti è lo yoga, che per molte pazienti ha contribuito a favorire la riconnessione con se stesse ad istaurare una relazione più positiva con il proprio corpo (Hay&Cho, 2013; Lamoureux & Bottorff, 2005).

Nel processo di recovery il ruolo del supporto sociale è il fattore più menzionato e in alcuni casi è stato identificato dalle pazienti come un fattore fondamentale (Arthur-Cameselle & Quatromoni, 2014; Las Hayas et al., 2015; Hay & Cho, 2013; Pettersen & Rosenvinge, 2002). Le relazioni sono essenziali alla recovery, sia perché provvedono a fornire amore incondizionato, supporto, fiducia e speranza durante l’intero percorso (Dawson et al., 2014), sia perché forniscono il contesto ideale per mettere in pratica e familiarizzare con le nuove strategie di coping o con le skills apprese durante l’eventuale trattamento (Matoff&Matoff, 2001).

Per alcune pazienti ad esempio, nonostante l’utilità del supporto psicologico, la presenza di un persona particolarmente importante è stato individuata come il fattore essenziale per la guarigione (D’Abundo &Chally, 2004; Moulding, 2015). La persona identificata è più frequentemente la madre, il partner ma anche il padre (D’Abundo & Chally, 2004). Il supporto da parte degli amici viene individuato come un fattore importante, perché questi ultimi possono essere d’esempio per stili di vita più equilibrati (Nillson & Hӓgglöff, 2006). Il partner può esercitare sia un’influenza sia positiva che negativa, influendo sull’autostima delle donne in base all’importanza attribuita da quest’ultimo al peso e all’aspetto (Granek, 2007). Altre pazienti hanno riconosciuto come importante anche il supporto di altri individui con Disturbi Alimentari (Dawson et al., 2014; Hay&Cho, 2013). perché le ha aiutate a capire di non essere le sole o ad incitarle a chiedere aiuto. Le relazioni possono essere anche d’ostacolo quando i pazienti non si sentono compresi da familiari o amici che non conoscono il disturbo alimentare, che lo rilegano ad una questione di vanità o di richiesta di attenzione o che ridicolizzano la loro battaglia (Las Hayas et al., 2015; Linville et al., 2012), ed ha un peso importante anche nel favorire le ricadute (Federici & Kaplan, 2007). Un fattore di ostacolo viene rintracciato anche nella sensazione di apprezzamento e di approvazione da parte dei pari che supportano la perdita di peso (Granek, 2007).

Intraprendere nuove sfide e attività, come l’attivismo politico, il volontariato o nuovi hobbies come scrittura, pittura, danza, canto, lettura e i viaggi (Las Hayas et al., 2015; Matusek & Knudson, 2009), sono stati riferiti come fattori importanti nel sostenere il percorso. E’ stato evidenziato anche il beneficio apportato dall’acquisto e dall’accudimento di un animale domestico (Hay & Cho, 2013; Matoff&Matoff, 2001).

Nuovi interessi e attività sono stati identificati come utili perché hanno permesso alle pazienti di distanziarsi dalla malattia che tende a consumare il loro tempo e la loro energia (Hay&Cho, 2013). Anche il coinvolgimento in una causa o in un obiettivo comunitario sentito come più grande viene individuato come

Un modo per cercare attivamente alternative per dare senso al mondo e trovare valore nella vita aldilà della prigione sperimentata a causa del DCA. (Matusek & Knudson, 2009, p.704)

Diventare capaci di mantenere un’occupazione giornaliera come il lavoro o la scuola sono considerati aspetti altrettanto importanti.

Molte pazienti riportano come abbiano iniziato a modificare gradualmente i propri patterns di pensiero imparando a “priorizzare le cose importanti della vita”, accettando  l’immodificabilà di alcuni eventi e potenziando i dialoghi interni positivi. Alcune strategie riportate dalle pazienti per modificare la mentalità anoressica sono state diventare consapevoli di alcune idee distorte, come quella che mangiare rende “cattive persone” o che aumentare di peso significa diventare automaticamente obese, e lavorare per decostruirle. Questo lavoro ha comportato anche lo sfidare le credenze relative al fatto che l’AN fosse l’unico mezzo per raggiungere l’autostima. Riconoscere tutti questi come “pensieri anoressici” o “pensieri sbagliati” potendosene poi distanziare le ha aiutate a sviluppare una prospettiva più accurata sulle loro vite e su se stesse. Per molte donne questo processo riflessivo è stato facilitato dal possedere un diario nel quale annotare il pensiero “corretto” e quello “distorto” (Lamoureux & Bottorff, 2005; Linvilleet al., 2012). Quando le pazienti hanno iniziato a pensare in maniera più razionale, hanno cominciato anche a realizzare che il cibo, il nutrirsi correttamente e adeguatamente è necessario e fondamentale alla sopravvivenza:

Pensare che si può buttar giù solo una cosa per cena e vivere è molto irrazionale. Ora so che non si possono affrontare i problemi in questo modo. (D’Abundo&Chally, 2004, p. 1102)

Mi sento forte, mi sento bene, forse mangiare non è così sbagliato perché mi fa sentire meglio. Se posso sentirmi così, forse, aver preso giusto un po’ di peso non è una cosa così brutta. (Lamoureux&Bottorff, 2005, p. 179)

Sebbene talvolta ci siano momenti nei quali sentono ancora le voci critiche interiori hanno appreso nuove strategie di coping e attività che le hanno aiutate a smorzare le litanie mentali punitive o a gestire più efficacemente le loro emozioni (Matoff & Matoff, 2001). Lo sviluppo di queste nuove strategie richiede tuttavia molta disciplina e persistenza. Anche i comportamenti più salutari devono essere praticati ripetutamente fino a quando viene creato un nuovo stile di vita:

Ho cambiato il mio atteggiamento mentale e il mio modo di pensare. Ho iniziato a credere sempre più che mangiare equivale a salute, benessere, libertà, e scelta. È stato quasi come se mi fossi riprogrammata, come si fa con i computer…è stato difficile cambiare il mio modo di pensare perché è come se mi sono dovuta fare il lavaggio del cervello. (Dawson et al., 2014, p. 501)

L’inclusione di una dimensione spirituale nella propria quotidianità è stata riportata come un aiuto nel processo di accettazione di se stesse e dei loro corpi e ad iniziare a nutrire stima per quello che sono e viene declinata nell’avere speranza, nel valorizzare la vita ed avere fede (D’Abundo & Chally, 2004; Linville et al., 2012). Alcune pazienti hanno riferito che l’aver instaurato una relazione con una “forza superiore” le ha aiutate a riconoscere come i loro comportamenti fossero autodistruttivi e pericolosi per la loro salute. Una giovane riporta di aver smesso di abbuffarsi e vomitare durante la Quaresima: “può suonare strano, ma l’ho fatto solo per Dio” (D’Abundo &Chally, 2004, p. 1101).

La mancanza di speranza viene riportato dalle pazienti come uno tra gli ostacoli maggiori del percorso (Dawson et al., 2014) e se la speranza non proviene dalle pazienti può essere utilmente infusa anche da chi si trova loro accanto come ad esempio dalla famiglia (Las Hayas et al., 2015). Apprendere di percorsi completati da altri con successo infonde validazione e speranza, soprattutto nei momenti in cui si sperimentano i maggiori dubbi e reticenze, come in riferimento ad alcuni ostacoli alla guarigione come il temuto aumento di peso. Sono soprattutto i percorsi sentiti come più rassomiglianti ai propri ad evocare un senso di speranza maggiore nelle pazienti (Shaw & Homewood, 2015),

Un elemento giudicato fondamentale è giungere e nutrire l’accettazione di se stesse :

Desidero essere esattamente come sono. Riconosco che c’è una componente genetica nel mio corpo che mi fa essere così e lo accetto. Questo è stato un input importante per accettare me stessa così come sono. (Krentzet al., 2005, p. 125)

Alcune pazienti hanno iniziato a vedere i loro corpi più realisticamente enfatizzando le potenzialità realizzabili attraverso questi ultimi e gli aspetti connessi alla salute. Alcune donne hanno smesso di pesarsi, concentrandosi di più sui segnali della fame e lasciandosi guidare da questi (Krentzet al., 2005), giungendo ad avere un rapporto con il peso meno teso e reagendo ad un’eventuale aumento non come se fosse “la fine del mondo” (BjöRk & Ahlström, 2008). Accettare il proprio corpo ha significato per molte pazienti cominciare a sentirsi a proprio agio con le altre persone ed essere in grado di avere una relazione con un partner stabile condividendone l’intimità (Pettersen & Rosenvinge, 2002). Soprattutto le relazioni intime hanno contribuito nell’accettazione delle proprie forme corporee (Jenkins & Ogden, 2012). Una cura maggiore di sé e dei patterns di vita più regolari hanno aiutato altri pazienti a concentrarsi più su se stessi, ad essere più amorevoli nei propri confronti, a scoprire e soddisfare i propri bisogni e a sentire di “meritare” la guarigione (Pettersenet al., 2016). Alcune pazienti riportano inoltre che certi tratti di personalità, che a loro avviso hanno giocato un ruolo essenziale nello sviluppo del disturbo, siano stati adoperati per facilitare i cambiamenti positivi (ad esempio la pazienza, la resistenza, la determinazione e il perfezionismo). L’auto accettazione poi, unita alla determinazione, ha potenziato anche il ritmo e la velocità del processo di recovery (Patching & Lowler, 2009). Alcune pazienti hanno adoperato termini come “trovare me stessa”, “celebrare me stessa” (Weaveret al., 2005) o “diventare la reale me stessa” (Lamoureux & Bottorff, 2005) o “scoprire la vera me stessa” (Williams et al., 2016)  per riferirsi alle ultime fasi del lungo e complicato processo verso l’autoaccettazione:

quando tu stai bene e quando se ne è andata [l’AN] tu sarai semplicemente tu, tu non sarai l’anoressica, tu sarai te stessa. (Williams et al., 2016, p. 222).

Imparare ad amarsi ha contribuito inoltre ad avere maggiore compassione verso se stessi e gli altri tollerando le imperfezioni umane e a sviluppare la capacità di essere più indulgenti.

 

ASMR, la nuova tecnica di rilassamento sul web

La Risposta Autonoma dei meridiani Sensoriali (ASMR) ha catturato l’attenzione di un vasto pubblico negli ultimi anni. Questa esperienza sembra comune a molti, ma tanti altri non riescono a sperimentarla. Perché questa diversità?

 

Immagina di essere in una biblioteca silenziosa. Due persone dietro di te iniziano a sussurrare, digitano delicatamente sulla tastiera e qualcuno inizia a mangiare tranquillamente una mela, poi alzi lo sguardo e guardi qualcuno che gira delicatamente le pagine di un libro. Per molti, queste potrebbero essere distrazioni frustranti e irritanti in un ambiente apparentemente tranquillo mentre, per altri, questo tipo di immagini e suoni porterebbe all’innesco di una vera e propria una sensazione di formicolio, in genere esperita a livello del cuoio capelluto, del collo o delle spalle. Questa sensazione nasce in risposta a specifici stimoli (trigger) tattili, audio e visivi ed è stata denominata per la prima volta nel 2010 da Jennifer Allen come “Risposta Autonoma dei Meridiani Sensoriali” (ASMR; Poerio et al., 2018).

Soltanto recentemente questo fenomeno è stato portato all’attenzione del pubblico (del Campo e Kehle, 2016), infatti, attualmente sono moltissimi i video ASMR pubblicati e ricercati sul web allo scopo di sperimentare la sua conseguente sensazione di rilassamento e benessere (Copeland, 2017).

Per raggiungere tale rilassamento, in questa pratica vengono raccolti, tramite microfoni super-sensibili, rumori delicati e ripetitivi, infatti, tra i trigger comunemente utilizzati per ottenere ASMR ritroviamo spesso il sussurro, suoni nitidi e movimenti lenti come la spazzolatura dei capelli o il martellare le unghie su una specifica superficie (Barratt & Davis, 2015).

L’ASMR sembra un’esperienza comune a molti, ma tanti altri non riescono a sperimentarla; perché?

Un fattore determinante è probabilmente la personalità. Infatti, nello studio di Fredborg, Clark e Smith (2017), 290 individui con ASMR e 290 controlli corrispondenti hanno completato il Big Five Personality Inventory (BFI; John et al., 1991). Gli autori concordano con ricerche precedenti nelle quali emerge che le persone che sperimentano ASMR otterrebbero un punteggio superiore ai controlli nel dominio Openness-to-Experience del modello di personalità dei Big Five. Questa previsione si basava sul presupposto che i partecipanti all’ASMR avrebbero aumentate la sensibilità e la ricettività alle sensazioni. Inoltre, una maggiore sensibilità alle questioni estetiche, misurata da questo dominio, potrebbe essere generalizzata alle sensazioni corporee dell’ASMR, come le esperienze di formicolio.

Precedenti ricerche di Barratt e Davis (2015) hanno anche portato gli autori ad ipotizzare che gli individui con ASMR differiscano dai controlli sul dominio del nevroticismo del BFI. Gli autori, infatti, hanno trovato una grande percentuale di livelli di depressione da moderati a gravi nel loro campione. Dato che la depressione è associata al nevroticismo, si aspettavano che gli individui con ASMR producessero punteggi più alti su quest’ultimo rispetto ai controlli corrispondenti. Questa ipotesi è stata supportata, poiché gli individui con ASMR hanno ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto ai controlli, indicando livelli più bassi di stabilità emotiva. Per quanto riguarda gli altri tre domini del Big Five, ovvero Estroversione, Coscienziosità e Piacevolezza, gli individui con ASMR hanno ottenuto punteggi significativamente inferiori rispetto ai controlli. Tuttavia, il motivo preciso di queste relazioni non è chiaro. Soltanto per quanto riguarda il dominio dell’Estroversione, gli autori hanno ipotizzato che le persone che guardano verso l’interno abbiano maggiori probabilità di manifestare sintomi di ASMR rispetto alle persone più socievoli e che guardano verso l’esterno.

Nello studio di Smith, Fredborg e Kornelsen (2019), è stato recentemente approfondito questo fenomeno: un totale di 17 soggetti con ASMR e 17 partecipanti al controllo sono stati sottoposti a scansione fMRI durante la visione di sei video di 4 minuti. Tre di questi video sono stati progettati per suscitare formicolio ASMR e tre no. I risultati di questo studio evidenziano la complessità del fenomeno: durante la visualizzazione di video che suscitano l’ASMR, le persone con ASMR hanno mostrato un aumento dell’attività neuronale nelle regioni della corteccia correlate all’attenzione, all’udito, alle emozioni e al movimento. Questa attività non è stata osservata nei partecipanti al controllo. Quando sono state confrontate le risposte dei soggetti con ASMR e dei partecipanti al controllo che guardano i video dell’ASMR, gli individui appartenenti al primo gruppo hanno mostrato una maggiore attività nel talamo, nella corteccia cingolata anteriore, nel precuneo e nelle regioni sensomotorie mediali. Nell’insieme, queste analisi dimostrano che l’ASMR non è semplicemente un fenomeno sensoriale o emotivo ma suggeriscono un coinvolgimento delle componenti sensoriali, motorie, affettive e attenzionali.

Un altro documento clinicamente rilevante riguarda uno studio pubblicato da Barratt e Davis (2015) condotto su 475 persone, con il quale viene dimostrata l’utilità dell’ASMR nel rilassarsi, affrontare lo stress (70%) e dormire con maggiore facilità (82%), mentre solo una piccola percentuale (5%) ha riferito di utilizzare i media-ASMR per la stimolazione sessuale. Gli autori dimostrano anche che questa tecnica provoca un effetto positivo sull’umore e una significativa riduzione dei sintomi del dolore cronico per diverse ore successive a una sessione di ASMR. In questo stesso studio sono state riportate, inoltre, le differenti aree dove viene sperimentata la sensazione di formicolio dai partecipanti: in genere, nella parte posteriore della testa e delle spalle, se però intensa, questa sensazione è in grado di estendersi lungo la linea della colonna vertebrale, delle braccia e delle gambe; sebbene ciò non si verifichi in ogni sessione e ogni individuo non sperimenti lo stesso percorso. Inoltre, in uno studio condotto da Smith, Fredborg e Kornelsen (2017), è stata riportata dai partecipanti un’intensità maggiore dei formicolii quando gli attori dei video erano rivolti direttamente allo spettatore anziché vedere la scena in terza persona.

L’ASMR può essere usata a scopo terapeutico?

Come già riportato sopra, l’ASMR viene utilizzato come meccanismo di coping per aiutare a gestire e ridurre i sintomi di alcune condizioni psicologiche e dolore cronico. Barratt e Davis (2015) hanno identificato livelli più bassi di depressione e dolore cronico durante e dopo aver sperimentato l’ASMR, i quali sono gradualmente tornati ai livelli di pre-intervento nell’arco di tre ore. È interessante notare che i partecipanti a cui è stata diagnosticata la depressione clinica hanno riportato la più grande diminuzione delle misure post-intervento della depressione, tuttavia questo effetto si è dissipato più rapidamente. Collettivamente, questi risultati suggeriscono che l’ASMR può essere utilizzato per fornire miglioramenti a breve termine dell’umore e del dolore cronico, sebbene venga riconosciuto che questi risultati si basano su indagini limitate. Per quando riguarda gli effetti a lungo termine, Ditchburn e Bedwell (2018), hanno cercato di stabilire se la stimolazione regolare di ASMR, per un periodo di una settimana, potesse conferire miglioramenti significativi dell’umore rispetto a un gruppo di controllo; i risultati suggeriscono, però, che l’ASMR è un intervento a lungo termine inefficace.

Nonostante la comunità scientifica abbia già compiuto numerosi studi volti ad indagare il fenomeno dell’ASMR, risulta ancora necessario un ulteriore approfondimento dello stesso, sia riguardo al suo funzionamento che al suo possibile utilizzo terapeutico. Risultano, invece, chiari ed evidenti i suoi effetti benefici su alcuni sintomi come il dolore cronico e l’umore, anche se solamente a breve termine. Potrebbe, quindi, essere interessante approfondire l’utilizzo di tale tecnica per la cura dei disturbi non ancora indagati. Rimane, in ogni caso, una buona modalità di rilassamento con effetti a breve termine, da utilizzare anche in autonomia.

 

Distanze ravvicinate – Nel film “Storia di un matrimonio” un’introspezione sulla distanza nel processo di separazione

Storia di un matrimonio, il film vincitore del Leone d’oro a Venezia, come un’introspezione che pone la metafora spaziale della “distanza” al centro del processo di separazione.

 

C’è una scena, minuta e quasi insignificante, una manciata di fotogrammi piazzati dopo nemmeno un quarto d’ora dall’inizio del film, che forse basta a spiegare ogni cosa.

Nicole e Charlie hanno appena imboccato la via che li porterà verso la separazione e ancora lavorano nella stessa compagnia teatrale. Lui regista e lei prima attrice. Al termine di uno spettacolo si ritrovano, con l’intera comitiva, a brindare in un locale. Loro però sono cupi, assorti nei rispettivi dolori, inesorabilmente lontani. A un certo punto Charlie viene avvicinato da una collaboratrice, che Nicole già sospettava essere sua amante. Lei lo vede, si alza indispettita dalla sedia e fugge via. Charlie se ne accorge, scosta immediatamente l’altra e le si precipita dietro.

Quello che noi vediamo nell’inquadratura successiva è la scena in questione.

Loro due soli, immobili nel silenzio della metro che li porta a casa, poggiati l’uno di fronte all’altra, ai lati opposti della carrozza. I due corpi, stretti nella vicinanza inevitabile e desiderata del vagone, che eppure si sforzano di mantenere tra loro la massima distanza possibile. E restano così prigionieri in un gioco immobile di due movimenti contrari che impediscono loro di trovare la corretta misura.

Saranno 5 secondi o meno di pellicola, scarni, essenziali, privi di movimento o parole. Eppure questa è la scena che meglio di qualsiasi altra coglie e riassume il senso del film. Perché fondamentalmente Storia di un matrimonio è tutto qui: un’unica minuziosa, a tratti raffinata, ingarbugliata riflessione sulla distanza o, meglio ancora, sull’impossibilità della distanza per chi si ritrova alla fine di un rapporto d’amore.

In mezzo certo, sulla superficie, c’è molto altro. Ci sono il teatro e la televisione, c’è la bizzarra famiglia di Nicole, c’è un procedimento legale e c’è soprattutto Henry, l’unico figlio, intorno a cui sembra snodarsi lo sviluppo narrativo. Ma Henry, almeno dalla prospettiva scelta da Baumbach, non vive di luce propria, non è pienamente soggetto, ma ci appare più verosimilmente come uno strumento, un sofisticato artificio retorico che serve a cucire o a interporre nuove distanze tra Charlie e Nicole. Gli unici soggetti veri sulla scena sono loro e l’unico filo reale che lega il succedersi degli eventi è questa domanda: se sia mai possibile, per chi ha alle spalle una “storia di matrimonio” come la loro, raggiungere la distanza necessaria per poter continuare autonomamente ad esistere.

La questione non è affatto banale, anzi: è una domanda che ci coglie anche un po’ di sorpresa e a cui fatichiamo a trovare una risposta, forse troppo abituati a vedere, vivere o immaginare la fusione, il delirio psicotico di vicinanza che soggioga due persone quando inizia una storia d’amore.

Ma qual è invece la distanza giusta quando l’amore diventa memoria e una relazione importante si avvia alla sua conclusione?

L’altro ci resta dentro, in qualche modo, ma è una presenza che angoscia, indesiderata ed indigesta da sopportare, e noi restiamo spesso spaccati a metà, tra l’esigenza di chiudere qualcosa che ormai non ha più una prospettiva futura e il morso doloroso di una storia che continua, inevitabile, ad esistere. Perché la presenza dell’altro non affligge solo i ricordi, come ci vorrebbe comodo pensare, ma si radica e si infiltra nei nostri ragionamenti, nei nostri moti affettivi, arriva addirittura a distorcere la nostra percezione della realtà. Stare insieme a qualcuno, condividendo con lui un percorso di vita, è un’esperienza che rimodula l’esistenza e mina più di quanto siamo disposti ad accettare la nostra soggettività: Io mi sono talmente profuso nell’altro che quando esso mi viene a mancare non riesco più a riprendermi, a recuperarmi, sono perduto per sempre scriveva Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso”. Ma come mi trasfondo in lui, alla stessa maniera lui si trasfonde in me, cosicché la barriera in parte illusoria dell’IO si disperde e noi ci ritroviamo ad essere un sistema aperto e confuso, due atomi che hanno intrecciato gli orbitali e ora non riescono più a distinguere di chi sia questo o quell’elettrone. Come ci spiega anche Nicole, nel pieno di uno dei suoi monologhi vagamente isterici, in cui il pensiero pare sbandare e deragliare fino a che non si posa, quasi sorpreso, su di una verità ineluttabile: “Ti rendi conto che alla fine, in una relazione, tutto è uguale a tutto”. Ovvero, non c’è più possibilità di discriminare tra momenti, attività, luoghi o emozioni, tra qualcosa che è mio o qualcosa che è tuo. Una relazione diventa un’entità a sé stante che abita due corpi assieme e che, quando finisce, ci mette di fronte alla dolorosissima prova di ri-scindere ciò che era mio da ciò era tuo, i tuoi pezzi finiti dentro di me e i miei pezzi finiti dentro di me.

Ed è proprio questa con-fusione a rendere così vivido e crudele il tema della distanza quando ci si separa. Perché distanza fisica e distanza interiore non possono coincidere e l’una deve necessariamente inseguire l’altra, in un movimento oscillatorio che avvicina e allontana e che ferisce nell’una e nell’altra direzione.

E in questa lotta per ripristinare l’equilibrio, non è facile assecondare la lentezza urticante delle spinte opposte, che ci costringe spesso a forzarne, in una direzione o nell’altra, l’evoluzione: così si può provare a “cancellare” l’altro, eliminando completamente la sua immagine esterna dalla nostra vita e diniegando a noi stessi ogni aspetto positivo del tempo trascorso insieme, per ritrovarsi a fare i conti soltanto con il lutto inconfessabile di ciò che di noi si è per sempre perduto – “Tu mi ha rovinato la vita”. Oppure si può, dall’altro versante, proteggersi dal vuoto restando eternamente agganciati, rifiutandosi di fare i conti con la separazione e preservando una relazione idealizzata e sotterranea, in cui tutto ciò che abbiamo di meglio rimane ancorato all’immagine dell’altro – “Come te, nessuno mai” – e in cui noi restiamo alla stessa maniera orfani di quanto ci sarebbe necessario per ristabilire dei solidi confini individuali.

Ma nel film questo non avviene. Perché Charlie e Nicole arrancano, annaspano, ma lottano disperatamente contro le tentazioni perverse di rifondersi o di uccidersi per sempre, e sono disposti a mettersi in croce pur di tentare di raggiungere la “distanza giusta” tanto invocata.

Se noi riscorriamo la pellicola, non potremo che notare quanto il tema ricorra in una miriade di forme: compare subito, nelle primissime scene, quando le discutibili tecniche del mediatore familiare tentano di “riavvicinare” i coniugi e riescono soltanto ad illudere noi di trovarci nel pieno di una febbrile, smielata e canonica storia di amore; ritorna nella crudele dicotomia New York-Los Angeles, antipodi d’America, e in quello spazio vuoto tra East e West Coast che Charlie percorre e ripercorre freneticamente, avvicinandosi ed allontanandosi senza mai riuscire a sentire sua, e quindi vicina, una città in cui ci si deve spostare con l’auto e non a piedi; ed ugualmente ricompare nella corsa agli armamenti legali, in cui Nicole e Charlie si prodigano per rintracciare gli avvocati più spietati nella speranza, già tradita, che la loro cavillosa ferocia potesse finalmente spezzare il vincolo che li teneva troppo vicini. Ma anche quando entrambi tentano la via del distacco e sembrano lì lì per cedere alla tentazione di cancellarsi, alla fine non riescono a mantenersi fedeli alla linea, e tornano immancabilmente a rimettere in scena le reliquie della loro storia. E sono così costretti a guardarsi con voglia, a sfiorarsi le labbra in un saluto, a indugiare su ogni smorfia significante dell’altro.

È interessante notare come non solo i frangenti drammatici, ma anche quelli volti a strapparci un sorriso attingano alla medesima fonte: pensiamo all’esaltazione improvvida della madre di Nicole che, appena saputo della separazione in atto e incurante dell’imbarazzo della figlia accanto, si getta al collo del genero al grido battagliero di “CharlieBello”; oppure agli scambi nelle prime uscite solitarie tra padre e figlio dove Henry, nella sua presunta e feroce innocenza, non fa che rimarcare a Charlie quanto la madre si stia allontanando da lui molto più di quanto egli immagini.

Queste scene ci fanno ridere proprio perché sapientemente vanno a raccogliere e lasciano riaffiorare quel filo sotterraneo che attraversa la narrazione. Emblematica in tal senso è una delle scene comiche più riuscite del film, quando Charlie disattende ogni dettame logico o razionale e decide di mostrare all’insondabile valutatrice il “gioco del taglierino” che fa tanto divertire Henry, finendo per sbagliare malamente le misure e squarciandosi il braccio di fronte a lei. Ancora una volta, l’essenza della commedia così come del dramma, è l’incapacità di tenersi alla giusta distanza.

Solo nella sottile letizia del finale, Baumbach pare volerci suggerire che all’estenuante contesa delle spinte contrapposte può esserci soluzione e che, anzi, forse è solo prestandosi a vivere in pieno e per intero la lentezza dolorosa di un gioco che “sembra” immobile, fuggendo le scorciatoie del diniego, che si può ripristinare un equilibrio tale per cui, alla fine di un amore, due persone siano in grado di riprendere realmente in mano le redini della propria esistenza. Un equilibrio che non potrà mai essere totale distacco e per cui occorrerà accettare l’impossibilità di sconnettersi completamente, perché la de-fusione è comunque un processo parziale, e ciò che è stato una volta unito porterà in eterno la memoria di quella unione: una parte dell’altro rimarrà invariabilmente intrappolata dentro di me, così come una parte di me sarà irrimediabilmente perduta nell’altro.

Eppure esiste, almeno come miraggio teorico, una distanza giusta, una misura corretta che non mette al riparo dalla sofferenza, ma che consente di proseguire in avanti la propria esistenza senza naufragare nelle memorie del passato o recidere i ponti che ad esso ci legano. Quella misura che infine Charlie e Nicole riescono a trovare e che consente loro di tornare a “toccarsi” senza sentire sgretolare il precario e rinnovato confine della loro individualità.

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo: potrebbe servire una mano (di gomma)

Un recente studio, condotto da Jalal e colleghi (2019), ha replicato in laboratorio la rubber hand illusion (illusione della mano di gomma), scegliendo come propri soggetti individui con disturbo ossessivo-compulsivo, per verificare la possibilità di utilizzare tale illusione nel trattamento del disturbo.

 

La Rubber Hand Illusion, o Illusione della Mano di Gomma, è un’illusione inducibile in maniera relativamente semplice: consiste nel porre una mano di gomma, coperta da un telo fino al polso, in corrispondenza del busto del soggetto, mentre il braccio dello stesso si trova in posizione analoga ma nascosto alla vista.

Somministrando a questo punto una stimolazione alla mano finta, ad esempio sfiorandola con un pennello, mentre alla mano vera si applica lo stesso sfioramento in maniera sincrona e nella stessa direzione, spesso, dopo qualche minuto, i soggetti riferiscono la mano finta come propria. Effetto confermato anche dagli studi di Risonanza Magnetica che hanno riscontrato un’attivazione della corteccia premotoria, area dedicata alla pianificazione del movimento, in concomitanza con l’insorgere dell’illusione; effetto invece assente nei soggetti che non risultavano suscettibili alla stessa. Manipolare la prospettiva del soggetto, fornendo al contempo dei segnali visivi e tattili congruenti a quelli vissuti in quel momento, fa sì che il nostro cervello li interpreti come subiti da noi stessi (Ehrsson, Holmes, & Passingham, 2005).

Un’interpretazione sul perché l’Illusione della Mano di Gomma sia effettivamente efficace, si basa sulla presunta ‘Logica Bayesiana’ del sistema percettivo (Armel&Ramachandran, 2003; Jalal, Krishnakumar, & Ramachandran, 2015; Ramachandran, Krause, & Case, 2011). Il sistema sensomotorio del cervello è intrinsecamente programmato per trovare correlazioni statistiche che siano la base per fare predizioni e cogliere al contempo la rappresentazione visiva del mondo esterno: nel caso dell’illusione appena descritta – la percezione degli sfioramenti del pennello presentati in maniera perfettamente sincrona a quella che al contempo si vede sulla mano posta di fronte a noi, che sappiamo essere di gomma – viene inferito che non possa essere frutto di coincidenza, inducendo la sensazione di possedere quell’arto.

Un recente studio, condotto da Jalal e colleghi (2019) ha replicato in laboratorio l’illusione della mano di gomma, scegliendo come propri soggetti individui con disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). Questa condizione si presenta in una delle sue varianti con intense paure di contaminazione, che possono venire scatenate anche da contatti relativamente innocui con oggetti di uso comune; la terapia d’elezione è l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP, Meyer, 1966), che prevede, come è facile intuire, che il paziente venga esposto ad una contaminazione minima, impedendo poi che ricorra ai rituali compulsivi per estinguere l’ansia provata; l’esposizione ripetuta abbassa il livello d’ansia, generando abituazione (Abramowitz, Taylor, &McKay, 2009) e lasciando spazio a nuove strategie per gestire la situazione stressante.

Tuttavia, com’è intuibile, esporsi consapevolmente ad una situazione spiacevole non risulta sempre facile e la compliance dei pazienti a questo tipo di intervento è piuttosto bassa, il 20% abbandona la terapia (Abramowitz, 2006) e il 25% si rifiuta di iniziarne una principalmente per paura del trattamento (Maltby&Tollin, 2005). Inoltre, una delle poche alternative, costituita dall’immersione nella realtà virtuale richiede però l’ausilio di costose apparecchiature e non risulta ancora adeguatamente accessibile.

Nel 2015 Jalal e colleghi avevano utilizzato l’illusione della mano di gomma su di un campione sperimentale costituito da soggetti sani, riuscendo a provocare una reazione di disgusto simile a quella dei soggetti OCD nell’85% dei partecipanti contaminando la mano di gomma con una sostanza simile a feci.

La ricerca condotta sui pazienti con OCD ha confermato la presenza in tutti i soggetti di una forte responsività all’illusione della mano di gomma, meno un soggetto che ha valutato l’intensità dell’illusione 5 su un punteggio massimo di 20, indicando una bassa responsività. Nei soggetti assegnati alla condizione di controllo, similarmente, tutti i soggetti hanno riportato di sperimentare l’illusione, eccetto un partecipante che ha assegnato 2 su 20.

In seguito, si è proceduto ad illudere i soggetti che la loro mano venisse contaminata, misurandone la reazione di disgusto, le manifestazioni ansiose e l’urgenza di lavare le mani. Inizialmente, durante una stimolazione sincrona, le reazioni dei pazienti con OCD non differivano da quelle dei soggetti di controllo. Dopo 5 minuti di stimolazione tuttavia, sia che la stimolazione fosse sincrona o asincrona, si assisteva all’emergere di un’intensa reazione di disgusto a suggerire come vi possa essere una maggiore malleabilità nella percezione dell’immagine corporea nei pazienti con OCD, che reagivano con uguale intensità sia che la stimolazione fosse accompagnata da segnali congruenti che incongruenti.

Questo studio ha esplorato il potenziale terapeutico di uno strumento relativamente semplice da implementare nei protocolli di esposizione per i pazienti OCD, che permetterebbe di offrire un’alternativa accessibile che risulti meno avversiva della pura esposizione per quei pazienti che sono riluttanti ad intraprendere un percorso terapeutico.

Paura delle altezze? I vantaggi della realtà virtuale in uno studio di Daniel Freeman, Professore dell’Università di Oxford

Daniel Freeman, psicologo, professore e ricercatore presso la University of Oxford, ha co-fondato l’Oxford VR, un’azienda spin-off dell’Università stessa che utilizza tecnologie immersive automatizzate per la terapia allo scopo di sviluppare dei trattamenti clinicamente validati e convenienti da un punto di vista economico.

Daniel Freeman aprirà con una lectio magistralis la prima European Conference on Digital Psychology che si terrà a Milano il 19 e 20 Febbraio 2021 organizzata dalla Sigmund Freud University

 

Nell’Oxford VR sono stati realizzati diversi studi in questi anni. Uno degli ultimi studi condotti sull’uso della realtà virtuale (virtual reality, VR) a scopo terapeutico è stato pubblicato nel 2018 sulla rivista The Lancet Psychiatry e riguarda la paura di volare, o acrofobia, un disturbo d’ansia molto diffuso.

Secondo un recente sondaggio dell’Eurodap (Associazione Europea Disturbi Attacchi di Panico, 2018) 6 italiani su 10 soffrono di aerofobia. Data la frequenza di questo disturbo d’ansia, si ritiene importante poter sviluppare delle tecniche terapeutiche destinate al trattamento della “paura di volare”.

La fobia del volo può essere considerata una fobia specifica capace di determinare una paura travolgente e debilitante, sproporzionata rispetto al rischio effettivo. Tale emozione può generare sintomi tra cui nausea, aumento della sudorazione, aumento della frequenza cardiaca e tremori. La presenza di queste sgradevoli e talvolta terrificanti sensazioni emotivo-fisiologiche conducono spesso le persone ad evitare l’oggetto, fonte della fobia. Così le persone il cui timore maggiore è quello di volare, tenderanno ad evitare di volare, rinunciando a grandi opportunità lavorative, a piacevoli vacanze oppure trovandosi a svolgere queste attività prendendo altri mezzi di trasporto, riducendo indubbiamente le emissioni di CO2 , ma sacrificando al contempo il proprio tempo e disperdendo grandi quantità di risorse.

Aiutare le persone a fronteggiare la paura del volo, così come altre forme fobiche, permette loro di aumentare il proprio benessere e diviene, per questo, focus principale di setting clinici e laboratori di ricerca. Daniel Freeman, a questo proposito, ritiene che la realtà virtuale abbia il potenziale di aumentare sostanzialmente l’accesso ai migliori trattamenti psicologici, i quali possono divenire automatizzati e così accessibili a basso costo e su larga scala. Inoltre, essendo il trattamento in VR più rapido e coinvolgente di un trattamento in vivo, si ritiene che i pazienti possano mostrare una maggiore aderenza all’intervento.

Ho appena finito le mie sedute, ne ho fatte quattro in totale. La settimana scorsa, dopo la mia terza sessione, sono andato al Westgate [un negozio in centro]; la differenza nella mia capacità mentale di affrontare l’altezza è stata incredibile. In precedenza, non mi sarei mai avvicinato ai bordi, stavo quasi penzolando, guardando in verticale giù.

Nel presente studio randomizzato e controllato il professor Freeman ed i suoi collaboratori hanno prescritto a 100 persone con paura dell’altezza, reclutate tramite annunci radiofonici, una terapia in VR (n. 49) oppure il proseguo delle proprie cure abituali, generando così il gruppo di controllo (n. 51).

La terapia in realtà virtuale presupponeva la progettazione di un software automatico capace di presentare un coach avatar il cui scopo era quello di supportare il paziente all’interno del programma (sei sessioni di 30 minuti in due settimane), con compiti interattivi in un edificio virtuale di dieci piani. La presenza di uno psicologo reale è stata predisposta per motivi di sicurezza.

È stato innanzitutto somministrato un questionario di interpretazione delle altezze (Heights Interpretation Questionnaire, HIQ) e, in seguito al trattamento VR/trattamento abituale, la paura dell’altezza è stata rivalutata, ricorrendo all’utilizzo di ulteriori strumenti psicometrici, ottenendo i seguenti risultati: i pazienti assegnati al gruppo di trattamento virtuale hanno visto la propria paura dell’altezza ridursi maggiormente rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo. Gli stessi benefici sono stati mantenuti nella misurazione di followup. Lo strumento psicometrico utilizzato è un questionario composto da 16 item capace di indagare l’angoscia, l’ansia e l’evitamento delle altezze reali. Le misure secondarie sono state registrate tramite un questionario sull’acrofobia (acrophobia questionnaire, AQ), un questionario sull’evitamento (Improving Access to Psychological Therapies, IAPT phobia scale–avoidance) ed un questionario sulla sensazione di disagio provocata dal simulatore VR (Simulator Sickness Questionnaire, SSQ).

Inoltre, sono state osservate delle riduzioni nel miglioramento nell’evitamento per quanto riguarda il gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo. Nel gruppo sperimentale è stato inoltre registrato un aumento del disagio relativo alla simulazione. Si auspica che, nel tempo, le migliorie tecnologiche potranno garantire minori sensazioni sgradevoli.

È stato ritenuto al contempo che i partecipanti, selezionati tramite pubblicità radiofonica, non siano esattamente rappresentativi di una popolazione generale, in quanto potrebbero essere più ricettivi di altre persone. Nonostante questa limitazione si ritiene che ci siano tutti i presupposti per proseguire in questa direzione, implementando gli studi di laboratorio inerenti l’uso delle tecnologie digitale a livello terapeutico.

Di seguito la testimonianza di un partecipante allo studio:

Tutto quello che pensavo sarebbe stato, non lo è stato. Mi aspettavo che sarebbe stato come un gioco, che sarebbe stato qualcosa che non avrebbe risvegliato i miei sensi. Mi sono ritrovato anche dopo il terzo piano, quarto piano, ad andare in piedi, nervoso, ansioso per quello che sta per succedere al prossimo scalino. Ha decisamente spinto i limiti (…) e poi mi sono fatto superare. Ora che è fatta, dopo la mia quarta seduta, devo dire che mi sento meglio per questo. Ho già sperimentato nelle settimane per vedere come sarebbe in un ambiente di vita reale (…). Penso che il mio timore delle altezze ora sia sicuramente molto meglio di prima.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

Contatti per informazioni: [email protected]

Digital Perspectives in Psychology 2021: clicca qui per saperne di più

 

L’autodifesa degli operatori sanitari

Capita sempre più frequentemente che gli operatori sanitari siano vittime di comportamenti aggressivi, così si stanno diffondendo tecniche di prevenzione e protezione. Ma come siamo passati dal prendersi carico a imparare tattiche e tecniche di combattimento per difendersi dal paziente e dai parenti?

 

La relazione paziente-curante è stata dai tempi di Esculapio in poi sempre al centro dell’operare dei professionisti della salute. Negli ultimi tempi, se da una parte chi si occupa di bioetica ripete che la relazione di cura va rimessa al centro del rapporto medico paziente, dall’altra sempre più frequentemente sono denunciati comportamenti aggressivi che riguardano operatori sanitari, pazienti e famigliari di questi ultimi. Le statistiche ci dicono che i pazienti più aggressivi sono affetti da malattie neurologiche (demenze, Alzheimer, ecc.), dipendenza da sostanze psicotrope e, con più bassa percentuale, da disturbi psichiatrici.

Il Ministero della Salute e le Regioni hanno emanato, ognuno per le proprie competenze, una serie di norme per monitorare questi fenomeni e sono attivi nelle Aziende Sanitarie Locali servizi preposti alla prevenzione e protezione cui vanno segnalati eventi sentinella e avversi.

Per prevenire è necessario predisporre misure di natura strutturale, organizzativa e tecnologica atte a evitare che possano accadere i fenomeni, mentre le misure di protezione hanno l’obiettivo di non permettere che, una volta verificatisi, le conseguenze siano eccessivamente lesive dell’integrità fisica e psichica dell’offeso.

Vorrei far notare che già nello scrivere queste poche righe sembra di descrivere un contesto che assomiglia più a un campo di battaglia che a un ambiente dove ci si dovrebbe prendere cura della salute di una persona. Ormai si parla di medicina difensiva e i termini che sono utilizzati sono significanti di un sistema curante che si va sempre più connotando come terreno d’interessi contrapposti e confliggenti.

Inutile parlare della persona al centro dei processi di cura se le istituzioni preposte non riescono a rendere effettivi i diritti che le leggi garantiscono. Il sistema di concorrenza amministrata previsto dalla normativa vigente sta restringendo l’intervento pubblico ed espandendo il privato accreditato e convenzionato.

Le cause che rendono sempre più complesso garantire il Welfare State sono molte e sarebbe lungo, controverso e poco interessante inoltrarsi in questa riflessione in considerazione dell’enorme letteratura sul tema già presente.

Più interessante è soffermarsi, invece, sul paradosso cui stiamo assistendo per svelarlo e smascherarlo.

Lavorando nel Sistema Sanitario Nazionale ho partecipato di recente a un corso di formazione sui comportamenti aggressivi. Oltre all’illustrazione dei numerosissimi moduli che devono essere riempiti per rispettare gli adempimenti di legge e alle modalità di de-escalation e tranquillizzazione rapida (TR) sono state illustrate delle tattiche e tecniche di autodifesa da un maestro di Arti Marziali Miste (MMA). Non so se a qualcuno è capitato di vedere qualche volta in Tv quei combattimenti che si svolgono dentro una gabbia senza esclusione di colpi, sì proprio quelle tecniche.

Naturalmente i formatori ci hanno avvisato che preliminarmente occorre mettere in atto tecniche di de-escalation e la risposta deve essere proporzionata all’offesa, quindi colpi che possono interrompere il ciclo vitale devono essere sferrati solo se l’operatore è alla presenza di una minaccia di vita, ma nonostante ciò sono uscito stordito, come se effettivamente avessi ricevuto uno di quei colpi.

Come siamo arrivati a questo punto? Come siamo passati dal prendersi carico del paziente – e mi viene in mente quella bella immagine di Enea che si carica sulle spalle Anchise – a imparare tattiche e tecniche di combattimento per difendersi dal paziente e dai parenti?

L’odio diffuso, la violenza della nostra società, la rabbia di chi vive frustrazioni continue per la mancanza di risposte ai propri bisogni, la necessità di difendere i propri diritti che vanno perdendo garanzie e tutele, aspettative sempre più alte, l’illusione di saperne di più rispetto a chi ha una expertise maturata in lunghi anni di studi e di attività sul campo, l’impossibilità di rispondere da parte delle istituzioni per la scarsità delle risorse a disposizione.

Forse tutte queste e altre ancora, ma, qualunque siano le ragioni, è necessario riflettere su quello che sta accadendo per far sì che si possa uscire dalla “gabbia” e tornare a curare senza la necessità di andare in palestra per apprendere tecniche di autodifesa, e per questo è necessario ristabilire un patto tra stato e cittadini basato su ciò che è fattibile e realizzabile senza indulgere a false illusioni o effimere promesse con l’obbligo di entrambe le parti di rispettare ciò che si è pattuito.

Non è solo così che si può risolvere il problema che presenta una complessità tale da richiedere interventi in più direzioni, ma sarebbe già questo un primo passo per evitare che si scaglino colpi proibiti dall’una e dall’altra parte in quei presidi sanitari che restano luoghi di cura e non di combattimento.

 

Tu chiamale se vuoi emozioni

L’intelligenza artificiale (IA) vuole imparare a provare emozioni e a comprendere quelle degli esseri umani. Questione di empatia?

 

Gli algoritmi della IA hanno ‘dato vita’ a soggetti famosi. Il dipinto della Monna Lisa – o, meglio, una sua fotografia – si è tramutata anche in video in cui ella parla, muove la testa e gli occhi. Durante la fase di training, gli sviluppatori hanno ‘nutrito’ il relativo algoritmo di apprendimento attraverso migliaia di immagini/dati insegnandogli come isolare e distinguere alcuni movimenti del volto, compresi quelli degli occhi, della bocca e delle sopracciglia. In questo modo l’IA ha capito che a determinate azioni – per esempio, parlare – si accompagnano certi altri movimenti del viso – come l’apertura e la chiusura delle labbra. L’immagine statica – foto, dipinti – si anima, dunque. Evviva!

Stessa sorte – anzi animazione – per Marilyn Monroe e Salvador Dalί. Anche Albert Einstein non è stato risparmiato. Che scherzo del destino il suo: proprio lui che affermava che la creatività è l’intelligenza che si diverte. Ma perché? l’intelligenza artificiale è forse capace di divertirsi? Si emoziona, crea, si diverte… sembra che a breve tutto le sarà possibile nel campo della deep fake, e quindi anche questo. E’ già in grado di essere creativa; basta intendersi, però, su cosa si intenda per creatività… L’arte contemporanea si intreccia e si fonde progressivamente con la scienza e le tecnologie, si ibrida con esse creando nuove sinergie. Ed ecco entrare ‘in mostra’ forme di new media art quali la Net Art, la Digital Art, la Bioarte, l’Arte transgenica.

Realtà virtuale e aumentata quindi.

E’ stato il turno degli ologrammi di Michael Jackson, della Callas e la lista è lunga e nota. Tra i più recenti, la versione olografica di Gianna Nannini che canta.

E’ amore per la ricerca, per la sfida, puro divertissement, è voglia di nuovo e di superare il limite, è democratizzare e divulgare il sapere o un nuovo modo di fare cultura? O, anche, sottostanti attori tramano cattive intenzioni? Forse un po’ di tutto questo, ma anche molto altro.

L’algoritmo in sé non è né buono né cattivo; il suo comportamento dipende sia dal fatto che il cibo che gli si somministra sia di buona qualità, sia per quali scopi lo si voglia utilizzare. Le sue finalità possono essere pubblicitarie, economiche, criminali, destabilizzanti, terroristiche, innocue, utili per il progresso e il miglioramento della qualità della vita degli esseri – dagli umani alla vegetazione, e così via.

Si pensi alle possibili emozioni sottostanti all’arrossire. Questo è un esempio utile per comprendere l’importanza delle emozioni in economia (Frank, 1987). In un contesto di informazione asimmetrica – dove un soggetto possiede maggiori informazioni della controparte circa la propria onestà, generosità, la qualità delle commodities che intende vendergli, e così via, le emozioni assumono un importante valore segnaletico (signalling). In qualche modo possono essere ‘gestite’ ad hoc per inviare un segnale alla controparte che ha minori informazioni sull’altro (Frank, 1987). Un ad hochismo questo che permette di stipulare contratti e scambi, che altrimenti non potrebbero essere realizzati in assenza di sufficienti informazioni. In un sistema economico, quindi, le emozioni diventano un succedaneo delle informazioni e permettono, di conseguenza, di superare un market failure e di raggiungere un miglioramento paretiano (Frank, 1987).

Tuttavia, non mancano i rischi e i pericoli. Secondo il sito web d’attualità statunitense Mashable, le conseguenze del filone di ricerca volto a realizzare algoritmi ‘emotivi’ possono essere pericolosissime. Non solo le persone o i dipinti più celebri diventano oggetto di deep fake, ma il rischio riguarda potenzialmente tutti, anche in considerazione di come stiano diventando potenti e, allo stesso tempo, facili da ottenere tali apparecchiature.

C’è di più: l’errore umano può generare quello artificiale, e viceversa. Mai riporre una fiducia incontrastata, dunque!

E proprio la lettura delle emozioni attraverso l’uso della IA e le conseguenze che possono trarsi da tale lettura sono parecchio allarmanti. Ci sono due Case che tentano di insegnare all’intelligenza artificiale il mondo delle emozioni umane, l’Affectiva e l’Empath, rispettivamente statunitense e giapponese.

Il database di emozioni di Affectiva ha raggiunto quasi 6 milioni di visi, analizzati in 75 paesi; più precisamente, ha raccolto oltre 5 milioni di video facciali, corrispondenti a 40 mila ore di flussi di dati. Si tratta del database più grande del mondo che rappresenta le spontanee reazioni emotive di persone in contesti autentici – ‘in the wild’, secondo la terminologia di Affectiva (casa, ufficio, ecc.). Le persone vengono riprese mentre sono impegnate in qualche attività, soprattutto quando stanno guidando o guardando film, show televisivi, campagne pubblicitarie virali online, ecc. Il meta-obiettivo di questa attività è ovvio: usare le espressioni umane ‘nature’ per addestrare l’IA a interpretare cosa provano le persone. Il sorriso significa felicità, le labbra in giù segnalano tristezza, gli occhi socchiusi la rabbia, e così via. Tale approccio sembra costituire, tuttavia, una semplificazione enorme, oltre che pericolosissima: ad esempio, un sorriso può essere solo affettazione o cortesia; nulla a che fare con la gioia; gli occhi socchiusi possono essere sonnolenza o relax, l’esatto contrario della rabbia. L’obiettivo finale dell’attività dello studio delle emozioni della IA è altrettanto ovvio: migliorare le interazioni uomo-macchina. L’idea è che se il robot comprende ciò che prova la persona che ha accanto, può offrirle un servizio migliore. Tipico esempio è quello della guida: capire le condizioni del conducente, se è stanco, se ha sonno, se è arrabbiato. Tutte situazioni di pericolo mentre è alla guida di un veicolo. Tale ‘segnaletica emotiva’ è importante specialmente per le vetture che guidano da sole, sempre più robuste, piene di airbag, radar, sensori, telecamere. Auto sempre più sicure, sì certo,… ma soprattutto per chi è a bordo: né per ciclisti, né per pedoni.

I pericoli sono sottolineati anche da un importante studio del 2019 condotto da un team prevalentemente di psicologi: nello studio si nota come un punto di vista molto diffuso sia che lo stato emotivo di un individuo può essere inferito dai suoi movimenti facciali, chiamati espressioni emotive o espressioni facciali (in modo inquietante si coglie una certa analogia con gli argomenti à la Lombroso): la convinzione circa la capacità predittiva dell’algoritmo che coglie le emozioni umane ha ricadute in settori delicatissimi come quello della giustizia, i protocolli per la sicurezza nazionale, le decisioni politiche, i settori dell’istruzione e della sanità (anche per la diagnosi e il trattamento dei disturbi psichiatrici), gli scambi commerciali, e così via.

Lo studio testa la validità del senso comune che attribuisce specifiche relazioni tra espressioni facciali ed emozioni. Fra queste, lo studio considera le sei principali: gioia, rabbia, tristezza, timore, disgusto, sorpresa.

Sebbene l’evidenza scientifica supporti il senso comune (se una persona sorride vuol dire che è felice), tuttavia – si osserva nello studio – il modo attraverso cui le persone comunicano tali emozioni variano in funzione di fattori culturali e situazionali. E anche fra le persone che esperiscono la medesima circostanza, il tipo di emozione che provano può essere diverso: essendo le persone diverse, la medesima circostanza può suscitare un’emozione diversa. Le emozioni, come le preferenze, sono qualcosa di estremamente soggettivo, e poi possono sfumarsi in tante nuance intermedie con confini porosi: ‘mixed feeling’ appunto. Quindi, il rapporto fra stato emotivo ed espressione facciale non ha una correlazione 1:1, poiché una certa configurazione facciale può essere il risultato di un misto di emozioni e uno stato emotivo, quale l’essere accigliati, non necessariamente significa rabbia, bensì può sottendere concentrazione o riflessione.

Scendendo più in profondità, uno dei coautori – Lisa Feldman Barrett, docente di Psicologia alla Northeastern University di Boston – osserva che i nostri sentimenti non sono solo un sopracciglio che si alza, una lacrima che scende o un sorriso che viene dispensato. Le emozioni non sono solo nel viso, esso è solo la facciata (appunto!), quella che si vede quale effetto finale di una cascata di cambiamenti interiori. Insomma: analizzare solo gli occhi, o solo gli occhi e la bocca, o solo gli occhi, la bocca e il battito del cuore non sarebbe sufficiente per comprendere veramente un individuo.

Le emozioni degli esseri viventi, e soprattutto le emozioni degli esseri umani, sono qualcosa di estremamente sofisticato. E’ un complesso poliedrico, ricco di sfaccettature, dai contorni non sempre distinti, evanescenti, è ricco di sfumature e di nuance, si contraddice, evolve, si contestualizza. Nell’ambito del capitale umano, il complesso delle emozioni è un patrimonio inestimabile, che a volte può tracciare persino il corso della nostra esistenza.

Può l’intelligenza artificiale cogliere tutto questo? Ma su, siamo seri!

cancel