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L’infortunio sportivo: fattori psicologici di vulnerabilità e di protezione, prima e dopo l’evento

L’ infortunio sportivo costituisce un momento molto critico nella vita di un atleta. È importante pertanto individuare eventuali segnali di rischio prima e dopo l’infortunio, sui quali allenatore, atleta stesso e psicologo dello sport, possano intervenire in maniera tempestiva ed efficace.

Laura Zamboni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

[blockquote style=”1″]La vita è sempre degna di essere vissuta e lo sport dà possibilità incredibili per migliorare il proprio quotidiano e ritrovare motivazioni. (Alex Zanardi)[/blockquote]

Le ricerche e la letteratura sull’ infortunio nello sport sono aumentate notevolmente negli ultimi venti anni, si possono osservare due macro aree di interesse: da una parte le variabili psicologiche che agiscono sulla vulnerabilità ed aumentano la probabilità che un infortunio possa accadere e, dall’altra, le reazioni emotive e cognitive che si manifestano tendenzialmente negli atleti dopo questo evento e come queste ultime influiscano sul recupero. Entrambi i filoni di ricerca muovono nella direzione di individuare le dimensioni salienti per ridurre l’incidenza e la portata di questi eventi, favorendo una buona preparazione psicologica prima e agevolando il recupero nel percorso successivo.

Porre attenzione su questi aspetti permette di individuare dei segnali di rischio per l’atleta prima e dopo l’ infortunio sportivo, sui quali allenatore, atleta stesso e psicologo dello sport, possano intervenire in maniera tempestiva ed efficace.

L’infortunio

L’ infortunio sportivo dovrebbe essere considerato come un evento che comprende diversi fattori bio-psico-sociali e, in quanto tale, dovrebbe essere trattato in maniera olistica, con attenzione alle funzioni fisiche, emotive e cognitive (Conti, Di Fronso, Bertollo, 2015). Secondo Podlog (2014) in particolare, l’ infortunio sportivo coinvolge quattro aree interconnesse: l’area del benessere fisico (dolore, possibilità di cambiamenti permanenti, restrizioni temporanee dei movimenti), l’area del benessere emozionale (ansia, paura), l’area del benessere sociale (perdita del ruolo, diverso modo di relazionarsi con l’ambiente sportivo) e l’area del sé (immagine personale, obiettivi e piani di vita, auto-efficacia).

Il rischio di infortunio

Nell’ infortunio sportivo una parte delle cause sono da ricercare nella natura fisica: struttura corporea, livello di condizione, attrezzature e superfici di gioco, tipo di sport praticato, etc. Tuttavia, esistono in letteratura diversi modelli che considerano anche il peso delle variabili psicologiche nella vulnerabilità a questo evento.

Uno dei modelli più accreditati è quello di Andersen e Williams (1998): il modello stress-infortunio. Secondo gli autori, una situazione stressante può generare una risposta di stress che varia lungo un continuum ed è strettamente legata alla valutazione cognitiva individuale (quindi al significato che l’atleta attribuisce) rispetto al fattore esterno. In particolare, Andersen e Williams individuano tre categorie di variabili che sembrerebbero influenzare la risposta dell’atleta: personalità (ansia di tratto, perfezionismo), storia degli stressor (eventi di vita maggiormente stressanti, precedenti infortuni) e le strategie e le risorse di coping. Il meccanismo postulato da questi autori per spiegare la relazione tra stress ed infortunio coinvolge sia la sfera attentiva sia quella somatica. Possiamo ad esempio pensare a quanto riferiva Hans Selye già negli anni 50: “ogni stress lascia una cicatrice indelebile, e l’organismo paga per la sua sopravvivenza dopo una situazione stressante, diventando un po’ più vecchio”.

Un atleta che si trova in una condizione di stress, avrà una risposta attentiva alterata da quest’ultimo evento, con un conseguente aumento della tensione muscolare, riduzione del campo visivo e quindi incremento della distrazione. Negli stati di stress, infatti, è comune una contrazione non richiesta di determinati gruppi muscolari, ciò può portare a diverse conseguenze sul piano fisico: riduzione della flessibilità ed affaticamento che possono sfociare in distorsioni, stiramenti e strappi. Allo stesso modo, la riduzione dell’attenzione, oltre a peggiorare la performance, potrebbe più facilmente condurre ad errori o incidenti dovuti proprio alla distrazione.

Un altro approccio che va nella stessa direzione è il modello dell’influenza dei fattori psicologici sull’ infortunio sportivo di Junge (2000), basato su ricerche condotte su calciatori, che distingue tre categorie: stress psicologici, risorse di coping e stato emozionale.

Numerosi studi sono stati intrapresi per verificare il modello stress-infortunio: Thompson e Morris (1994) osservarono come il rischio di infortunio sia elevato quando recenti eventi stressanti di vita siano presenti, non solo, i livelli di vigilanza ed attenzione decrescevano notevolmente in concomitanza degli stressor.

Per quanto riguarda gli aspetti di personalità, è stato evidenziato che persone con sentimenti di depressione, malessere e apatia, riportavano infortuni più di frequente (Kolt & Kirkby, 1999). Altri tratti correlati ad un maggiore rischio sarebbero: ansia di tratto, ansia di stato e vulnerabilità allo stress (Williams & Andersen, 1998).

Diversi approfondimenti del modello provengono da Petrie (2004), secondo cui bassi livelli di supporto sociale aumentano la vulnerabilità individuale al rischio di infortunio, mentre un alto supporto sociale sembrerebbe apportare una maggiore protezione. Questo autore rileva anche che l’ansia competitiva possa avere sia un effetto diretto, sia indiretto sull’infortunio, con una correlazione con umore negativo. Il supporto sociale, inoltre, giocherebbe un ruolo di protezione nel rapporto con rabbia e depressione.

Nonostante questi studi abbiano ricevuto sono alcune verifiche empiriche e sia necessario ancora un approfondimento dell’argomento, ciò che emerge è il fatto che gli atleti non utilizzino uno stile di coping unidirezionale, bensì diverse strategie, funzionali all’evento stressante.

Diverse, inoltre, le implicazioni che è possibile ricavare e che possono essere utili nell’ambito della psicologia dello sport. Nell’ottica della prevenzione, sarebbe utile sviluppare strategie di resilienza per aiutare gli atleti a riconoscere la relazione tra tratti di personalità, eventi di vita negativi, pensieri, emozioni e stati fisiologici, con lo scopo di minimizzare l’impatto degli stressor. A tal fine possono essere predisposti interventi psicoeducativi, tecniche di stress-management e goal setting. Un’operazione importante può essere fatta rispetto all’attenzione, come già osservato da Tamorri, Benzi, Reda (2004), secondo i quali l’utilizzo dell’imagery può essere di notevole sostegno anche nel caso l’atleta stia vivendo situazioni stressanti, scegliendo, a seconda del contesto, se utilizzare immagini riproduttive, creative o emotive. Gli stessi autori suggeriscono la formulazione di una valutazione del rischio psicosociale dell’atleta ad inizio della stagione, con riguardo agli eventi stressanti di vita e alle risorse per gestire lo stress, per pianificare efficaci interventi di prevenzione. In maniera simile Johnson e Ivarsson (2010) suggeriscono che sia gli atleti (nel loro studio, calciatori) sia gli allenatori debbano prestare attenzione nell’identificare le variabili, in particolare, le strategie di coping utilizzate per elaborare le difficoltà di tutti i giorni e, di conseguenza, il loro possibile impatto sul rischio di infortunio. Altre indicazioni derivano da studi di Pensgaard e Roberts (2000): un clima di alta competitività, rivalità interna, concentrazione sulla performance e bassa collaborazione sportiva, sembrano correlare con un maggiore rischio di infortunio sportivo. Ciò mostra come l’intervento di prevenzione che lo psicologo dello sport può mettere in campo, oltre ad essere rivolto al singolo atleta, debba tenere in considerazione anche l’intero contesto di squadra.

L’intervento di recupero dopo l’ infortunio sportivo

Un’interessante review della letteratura inerente le fasi di recupero dall’ infortunio sportivo è stata condotta da Conti, di Fronso e Bertollo (2015), i quali hanno suddiviso in diverse fasi gli interventi di recupero.

Strettamente correlato a quanto sopra descritto rispetto alle strategie di coping, quando si verifica un infortunio intercorrono molteplici fattori nella risposta ed elaborazione. I primi studi vedono l’approfondimento dei modelli di risposta al dolore (Hardy e Crace, 1990) che considerano l’infortunio come una forma di perdita e descrivono, rifacendosi al modello di Kubbler-Ross (1969), diversi momenti contrassegnati da particolari emozioni: rifiuto, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione e riorganizzazione. Di elaborazione più recente sono i modelli di valutazione cognitiva (Albinson e Petrie, 2003; Ardern et al.2015), secondo cui le risposte emotive e comportamentali all’infortunio sono mediate dalla valutazioni cognitive e dall’attribuzione personale di significato. Nella risposta di coping non intervengono quindi fasi uguali per tutte le persone, come descritto nel modello precedente, ma caratteristiche di personalità e situazionali si intrecceranno per dare origine ad un modo soggettivo di elaborazione e fronteggiamento. La considerazione delle particolari chiavi di lettura di ciascuna persona ci permettono di spiegare le reazioni tipiche di catastrofizzazione, over-generalizzazione, colpevolizzazione e negazione. Ad esempio, se per la maggior parte degli atleti l’ infortunio sportivo rappresenta un evento di rottura, per altri può essere una pausa, un sollievo in un periodo di stallo.

L’approccio maggiormente accreditato attualmente è il modello integrato di risposta psicologica all’infortunio e al processo di riabilitazione (Wiese-Bjornstal, Smith, Shaffer e Morrey, 1998), secondo il quale esisterebbe una relazione circolare tra aspetti cognitivi, risposte emotive e comportamentali. Viene teorizzato un collegamento tra le risposte post infortunio e la riabilitazione, dove fondamentali sono sia i fattori personali (caratteristiche dell’infortunio e dell’atleta infortunato) sia dati situazionali (influenza dei compagni, dello staff, dinamiche familiari e caratteristiche dello sport praticato). A seguito di questa prima fase, osservabile nei primi momenti successivi all’infortunio, diversi autori hanno descritto dinamiche tipiche del processo di riabilitazione, nel modello bio-psico-sociale della riabilitazione sportiva (Brewer, Andersen e Van Raalte, 2002) in cui i molteplici fattori si influenzano tra loro. In particolare la motivazione intrinseca sembra svolgere un ruolo fondamentale nell’influenzare l’aderenza al trattamento, così come giocano un ruolo favorevole anche: la tolleranza al dolore, la forza mentale, la percezione di gravità dell’infortunio, autoefficacia e percezione sociale. Al contrario, fattori aggravanti risultano essere i disturbi dell’umore e la paura di infortunarsi di nuovo.

Alla luce di quanto sostenuto nei vari modelli, sono possibili diverse implicazioni per la pratica dello psicologo dello sport, tenendo in considerazione sia la fase d’intervento sia le caratteristiche sopra descritte. Se consideriamo ad esempio la fase acuta post-infortunio, possiamo osservare come l’aspetto centrale sia la valutazione cognitiva ed emotiva dell’atleta rispetto all’evento, per questo, diversi autori (O’Connor, Heil, Harmer e Zimmerman, 2005) suggeriscono che siano utili interventi educativi rispetto all’ infortunio sportivo. Ciò che andrebbe fatto in una prima fase consisterebbe nel fornire accurate informazioni pratiche sia sull’infortunio sia rispetto al percorso di riabilitazione, con tutte le emozioni che si vivranno. Secondo Podlog (2004) questo intervento è in grado di promuovere un senso di investimento personale ed un ruolo attivo, cosicché aumentino le probabilità di aderenza al trattamento. Non solo, anche le tecniche self talk e ristrutturazione cognitiva, influenzano direttamente le risposte emotive e comportamentali dell’atleta.

Evans e Hardy (1995) ritengono che il goal setting sia fondamentale anche in questa fase, con particolare attenzione alla formulazione di obiettivi sia fisici sia psicologici legati alla performance sportiva, secondo una prospettiva olistica.

L’imagery, utile anche nella prevenzione, può essere un’altra tecnica a sostegno del recupero. In letteratura vengono descritte diversi tipi di visualizzazione: healing imagery (focalizzata sui processi di guarigione), pain managment imagery (processi di allontanamento del dolore), rehabilitation process imagery (per velocizzare l’apprendimento e migliorare l’esecuzione di esercizi riabilitativi), performance imagery (fasi di attività dello sport, per continuare ad allenare le abilità sportive). A queste tecniche sono affiancate anche l’imagery con lo scopo di rilassamento, motivazionale, di gestione dell’ansia e per incrementare l’autoefficacia. Per quanto riguarda il rilassamento, anche in questo caso, si rivelano utili metodologie tipiche del mental training, quali: rilassamento muscolare progressivo (Jacobson, 1938), controllo del respiro, biofeedback e training autogeno (Schultz). L’efficacia si manifesta non solo nell’alleviare il dolore, ma anche nel ridurre il livello generale di tensione muscolare, migliorando i parametri neurovegetativi e modulando le varie fasi della riabilitazione (Podlog et al., 2014).

[blockquote style=”1″]Il dolore è temporaneo. Può durare un minuto, un’ora, un giorno, o un anno… Ma a un certo punto sparirà e qualcosa prenderà il suo posto. Se ti fermi, invece, durerà per sempre (Lance Armstrong).[/blockquote]

Conclusioni

Da questa prima breve disamina emerge come siano diversi i fattori psicologici coinvolti nell’evento dell’ infortunio sportivo. Nonostante la letteratura sulla prevenzione psicologica dell’infortunio sia ancora in fase di sviluppo, si può osservare come diverse caratteristiche giochino un ruolo predisponente, caratteristiche rispetto alle quali lo psicologo dello sport può agire, non solo lavorando con il singolo atleta, ma anche informando le altre figure tecniche (allenatori, dirigenza, squadra).

Un’attenta analisi della condizione psicosociale dell’atleta, insieme ai suoi tratti di personalità, interventi mirati alla gestione dello stress ed al miglioramento del focus attentivo, possono essere alcuni degli ambiti di interesse per lo psicologo dello sport che intenda operare in un’ottica preventiva.

Allo stesso modo, una volta verificatosi l’ infortunio sportivo, prima che l’atleta possa ritornare alla pratica sportiva, l’utilizzo di tecniche quali: goal setting, imagery e tecniche di rilassamento, potranno essere d’aiuto nel recupero psicofisico. Ridefinire e ristrutturare insieme all’atleta il significato dell’evento, unita ad una chiara valutazione ed educazione rispetto al percorso che lo coinvolgerà, sono utili passaggi per favorire l’aderenza alla riabilitazione e promuovere l’autoefficacia.

Studiare Psicologia: le borse di studio della Sigmund Freud University per l’anno scolastico 2018-2019

Sigmund Freud University – COMUNICATO STAMPA

Al fine di agevolare gli studenti meritevoli ammessi ai corsi di Laurea in Psicologia con inizio nell’anno accademico 2018-’19, la Sigmund Freud University di Milano prevede l’assegnazione di 6 borse di studio per il corso triennale e 4 borse di studio per il corso magistrale.

Per candidarsi a ottenere la borsa di studio, basterà farne richiesta entro il 7 settembre 2018 ed essere in possesso dei requisiti indicati nel bando relativo al corso di laurea d’interesse: triennale o magistrale. Entrambi i bandi di concorso sono pubblicati sul sito ufficiale SFU.

I candidati per la borsa di studio per il Corso di Laurea Triennale in Psicologia faranno parte di una graduatoria formata in base al voto del diploma di scuola superiore. I primi 2 classificati avranno diritto all’esonero totale dalla retta annua base, i successivi 4 avranno diritto all’esonero dal 50% della retta annua base.

I candidati per la borsa di studio per il Corso di Laurea Magistrale in Psicologia faranno parte di una graduatoria formata in base al voto di laurea. I primi 2 classificati avranno diritto all’esonero totale dalla retta annua base, i successivi 2 avranno diritto all’esonero dal 50% della retta annua base.

Come internet sta cambiando le nostre amicizie

Quante volte oggi hai già aperto Facebook? Letto il nuovo status “postato” da quel tuo amico di scuola di tanti anni fa? O messo “mi piace” alla foto appena pubblicata su Instagram dall’ultimo Influencer che ha attirato la tua attenzione?

 

Le relazioni sociali oggi passano necessariamente tramite i social media. Volenti o nolenti è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti.

Si tratta di un’evoluzione naturale, risultato dell’ingresso sempre più massiccio delle nuove tecnologie nella nostra vita e dal quale le relazioni sociali non sono rimaste immuni.

Cosa significa “essere amici”?

È così che il concetto stesso di “amicizia” ha subito un’evoluzione nel tempo.

In un mondo in costante comunicazione, non importa dove si trovino i nostri amici nel mondo o qual è stata l’ultima volta in cui ci siamo sentiti, l’importante è che si trovino sui social media.

Ci aiuta a comprendere meglio tale fenomeno il contributo di diversi studiosi delle relazioni sociali.

In primis, Robin Dunbar, antropologo all’Università di Oxford, tra i primi a descrivere il nostro mondo sociale come il risultato di una ridefinizione operata dai social network. Secondo lo studioso, questi siti, oltre ad aver infranto le costrizioni della geografia che limitavano le dinamiche sociali, sembrano anche aver dato avvio ad una strana competizione sul numero di amici che si possono contare sulla propria pagina personale, con cifre che possono raggiungere anche le decine di migliaia.

Dalle sue ricerche, emergerebbe anche che il maggior numero di persone con cui è possibile mantenere un rapporto significativo in una sola volta varia da 100 a 200, a seconda di quanto si è “social”. Con il proprio team di ricerca è giunto infine ad identificare quale numero massimo di amici che si possono avere 150, cifra anche detta il Numero di Dunbar.

Attive, dormienti e commemorative: le 3 tipologie di amicizia

William Rawlins propone invece una classificazione delle amicizie in tre categorie: attive, dormienti e commemorative.

  • Un’ amicizia è attiva se si è regolarmente in contatto con quella persona, se si sente che si può contare su di lei per avere un sostegno emotivo e se si è a conoscenza di quanto sta succedendo nella sua vita;
  • Un amico dormiente è qualcuno con cui si ha un passato ma con cui non si parla da un po’ di tempo; si riprenderebbero però velocemente i contatti qualora ci si trovasse nello stesso luogo, nello stesso momento;
  • Un amico commemorativo, infine, è qualcuno che è stato importante in un momento precedente della vostra vita ma che non ci si aspetta davvero di rivedere o risentire, forse mai più. Queste persone vengono ricordate con affetto, ma rimangono saldamente nel passato.

Cosa è cambiato nelle relazioni sociali per via dei social media?

Rispetto alla classificazione delle relazioni sociali proposta da Rawlins, questo è quello che ci si dovrebbe aspettare, con una generale tendenza, con l’avanzare dell’età, a trasformare sempre più amicizie attive in amicizie dormienti o commemorative, risultato di un naturale processo di crescita delle persone.

Ciò non è però propriamente vero da quando i social media si sono imposti massicciamente nel regolare le nostre relazioni sociali.

I social media ci offrono un modo per prolungare la durata delle amicizie dormienti e commemorative, che altrimenti non avremmo mai riportato nel nostro presente.

Scrivere sulla bacheca di Facebook di qualcuno o commentare il loro Instagram, permette in un certo senso di “mantenere in vita” queste amicizie attraverso un minimo sforzo.

Da un lato ciò può essere percepito come l’andare verso relazioni sociali sempre più superficiali, dall’altro, però, offre anche la possibilità, qualora lo si voglia, di riprendere le amicizie proprio dal punto in cui le si era lasciate. In una serie di interviste, Rawlins ha scoperto che molte persone si consideravano ancora amici di persone con cui non erano in contatto da molto tempo proprio perché si sentivano in grado di riprendere il rapporto da dove lo avevano lasciato.

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VIDEO – HOW THE INTERNET IS CHANGING FRIENDSHIP:

Inoltre è bene non dimenticare, che l’uso dei social media può portare un grande valore aggiunto anche nel mantenimento di quelle amicizie che vengono definite attive, aiutando ad approfondire le proprie relazioni sociali. Più piattaforme gli amici usano per comunicare, oltre a vedersi di persona, più forte è la loro relazione.

Forse è questo il regalo più grande che Internet e i social media possono offrirci: un posto dove ritrovare i nostri amici e la possibilità di riprendere rapporti dormienti anche da molto tempo proprio da dove li avevamo lasciati. Lo sforzo deve venire da sé e il gradimento di uno status non sarà sufficiente, ma quando si è pronti, i nostri amici sono lì, in tasca, in attesa di riconnettersi.

 

Articolo tratto dal video documentario di The Atlantic

 

Ogni cosa è segreta (2014) di Amy Berg – Recensione del film

Ogni cosa è segreta è un film dedicato alla ribellione filiale all’invischiamento materno, alla psicopatia infantile, al femminile e alla potenza di due emozioni in genere scarsamente analizzate in relazione all’età evolutiva: l’invidia e la colpa.

 

Ogni cosa è segreta è una produzione cinematografica del 2014 diretta da Amy Berg, scritta da Nicole Holofcener e tratta dall’omonimo bestseller di Laura Lippman Every Secret Thing, con protagoniste Diane Lane e Dakota Fanning.

Ogni cosa è segreta: come nasce il disagio mentale?

In questo film si svela sin dalle prime battute il fulcro del dramma, il crimine commesso ai danni di una minore e della sua famiglia;  ma sono le caratterizzazioni ed i significati psicologici ad addensarsi nello spettatore lentamente e ad indurlo a riflettere sulla poderosità del sadismo psicopatico, sulla ingerenza del materno, sulla potenza del sentimento di invidia e sulla gravità del sentimento di colpa.

Quanto l’interferenza materna, il direzionamento filiale genitoriale e i messaggi contraddittori parentali possono arrivare ad incidere sulla crescita mentale ed affettiva di una figlia? Quanto le emozioni di invidia e gelosia possono pesare sulla psiche di una bambina al punto da deviarla verso tendenze agite di natura psicopatica? E quanto infine il sentimento di colpa protratto, in aggiunta a comportamenti internalizzati, a bassa autostima e a scarse abilità di espressione emotiva possono tradursi in agiti contro la propria persona? La società, in relazione alle tre questioni suddette, come si pone? A favore di chi è più facile che si schieri, fornendo il suo appoggio? Quali comportamenti ed emozioni infantili ed adolescenziali sottostimiamo o siamo abituati a giustificare, senza intravederne gli esiti a lungo termine?

Ogni cosa è segreta: storie di psicopatie infantili

Il film Ogni cosa è segreta narra la vicenda di due bambine in età scolare, Ronnie Fuller (Dakota Fanning) e Alice Manning (Danielle Macdonald), emarginate, ripudiate dai pari e tristemente trascurate dalla famiglia, che -forzate a trascorrere del tempo insieme- si rendono protagoniste del crimine di un sequestro. Le due bambine vengono rappresentate da subito fisicamente e psicologicamente molto diverse tra loro, pur essendo accomunate da una equiparabile sofferenza. All’età di otto anni appena, sulla strada più ricca della città di Baltimora, trovando sotto una veranda una neonata di colore lasciata nella culla temporaneamente senza custodia, le due bambine la prelevano e la fanno propria come si tratti di una bambola, con l’illusione forse di replicare quelle dinamiche di accudimento che sono state loro negate e che appaiono ingenuamente facili da praticare.

Peccando di superficialità, di incuria e di immaturità, Alice e Ronnie somministrano alla neonata del cibo arrangiato per cani e la tengono nascosta malata in una grotta, fino a condurla alla morte. Tra le due, alle prime avvisaglie di malessere, Ronnie propone ansiosamente e responsabilmente di riportare la bimba alla famiglia, ma Alice -un po’ per malvagità e un po’ per il terrore della sanzione- si mostra in grado di manipolare sadicamente la situazione, paventando all’amica le più terribili conseguenze associate alla riconsegna, sottraendosi alla responsabilità ed intimandole di porre termine alla vita della neonata quanto prima. Passivo il personaggio di Ronnie, che acconsente alle direttive della compagna perché spaventata, meno forte e meno abile a destreggiarsi con il linguaggio e nei dinamismi del sociale. La verità del misfatto è camuffata da Alice anche quando entrambe vengono scoperte: Alice incolpa ostinatamente Ronnie di aver commesso l’omicidio in prima persona, funzionalmente a proteggere la sua reputazione e a soddisfare la sua crudeltà.

Ogni cosa è segreta: le dinamiche patologiche tra 2 bimbe ed una donna

Una piccola psicopatica, Alice, obesa ed invischiata nel rapporto con una madre critica ed intrusiva, seppur apparentemente benevola – il padre assente. Inabile ad integrarsi nella socialità e carica di affetti cattivi verso l’amica e la madre, rappresentate come oggetti persecutori da dominare e da distruggere, in Alice serpeggiano l’invidia, la gelosia e la rabbia sin dai primi dialoghi di Ogni cosa è segreta, emozioni trattenute a stento dal corpo obeso, lo sguardo rancoroso ed abile a respingere con crudezza ogni offerta di aiuto.

Divenuta adolescente ed uscita dalle pareti contenitive del carcere, Alice si dice più volte incredula di essere stata condannata parimenti all’amica, confidando nell’insussistenza di prove a suo carico, e proclamandosi ostinatamente innocente e perseguita ingiustamente. Ma la ragazza non è a conoscenza del fatto che la notte dell’omicidio, sua mamma venne in soccorso di Ronnie consegnandole un giocattolo della figlia con su il nome di Alice da apporre come prova accanto al giaciglio della neonata morta, schierandosi senza titubanze al fine di scagionare la sua pupilla. La mamma di Alice appare in qualche modo intuire gli intenti malevoli della figlia, e rintraccia in Ronnie la bambina che avrebbe desiderato: fragile, buona, devota e ricca di talenti. La donna la ricerca come compagnia più per se stessa che per la figlia, e tenta di proteggerla dalla condanna fino all’estremo sacrificio di Alice.

D’altra parte Alice – divenuta più grande di otto anni – mostra di respingere i suggerimenti materni incalzanti che la esortano ad individuare un’occupazione, ad organizzare sistematicamente il tempo e a riscattarsi dagli anni di carcere minorile: il suo fare nei confronti della madre è oppositivo, provocatorio, sarcastico e manipolativo.

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OGNI COSA E’ SEGRETA – TRAILER DEL FILM:

Ogni cosa è segreta: la crescita di Alice e Ronnie ed un secondo delitto

Alice non è solo inabile a trovare lavoro: è grassa, ritenuta ingovernabile sin da piccola, una probabile riedizione del padre nelle sue fattezze fisiche, ed è allontanata dalla madre in favore di Ronnie, lei che è “sulla sua stessa lunghezza d’onda, dotata di spirito creativo ed idee geniali”. L’invidia che Alice sperimenta in relazione a Ronnie è in diretta relazione con la gelosia per la madre, ma finisce con il riguardare altre sue qualità, che rimandano ad Alice un profondo senso di inadeguatezza: Ronnie è magra, delicata, ispira fiducia e seppur mesta e cupa si sa rapportare con gli altri. Alice la spia mentre esce dal lavoro e ne segue la dimensione quotidiana con sguardo malevolo e sentimento profondo di rivalità. Lo stile comunicativo di Alice è aggressivo e pungente, e già da bambina si mostra palese il suo desiderio non soddisfatto di accettazione e riconoscimento. La madre occulta anche a se stessa l’esito disastroso della sua funzione genitoriale, e mostra ambivalenza tra accudimento petulante ed ostilità velata. Irritata dal corpo della figlia, dalla sua indolenza e dalla sua ribellione, rivela uno stile parentale tipicamente ipercoinvolto, ove rimbalzano le pressioni reiterate, le comunicazioni contraddittorie e gli sforzi ad apparire cordiale. Alice appare fissata ad una mancata integrazione dell’oggetto originario materno, le cui parti scisse negative ha fagocitato, annichilito al suo interno come oggetti parziali persecutori e proiettato sin dalle prime fasi infantili all’esterno, sottoforma di agiti ed intenti malevoli. Alice è concentrata sull’ottenimento di un riscatto per se stessa, e il grasso di cui si circonda sin da bambina funge da scudo in grado di respingere ingerenze, rifiuti e contatti autentici con l’alterità.

Ronnie è esile, fatica ad emanciparsi dalla bassa provenienza sociale e da un passato di neglect familiare, ma si sforza di inserirsi in un’occupazione dopo l’esperienza del carcere minorile. All’interno del suo esercizio viene rappresentata stretta dalle abitudini manipolative della clientela, dalla falsità di tutta una serie di manovre che non condivide. Ronnie sarà tre volte vittima: del suo background familiare e culturale che le esaspera la fatica del riscatto sociale, dell’essersi resa colpevole e debole nel cedimento all’amica, dell’essere complice della predilezione accordatagli dalla madre di Alice. Si tratta di colpe che la ragazza non espierà mai fino all’ultimo agito del suicidio nella vasca da bagno. Ronnie è la rappresentazione sofferta della tensione emotiva trattenuta tra i denti, dell’emarginazione silente, della dignità e dell’anelito inespresso ad un mondo leale e corretto, caratteristiche tutte che – associate alla sua mitezza e alla sua riservatezza- finiscono con il renderla il personaggio ingiustamente e dolorosamente perdente dell’intera vicenda.

In Ogni cosa è segreta, il personaggio della madre di Alice, la sig.ra Manning (Diane Lane), merita anch’esso un’approfondita analisi: vittima di un’esistenza di gratificazioni assenti, tiranneggiata dalla figlia che il suo rifiuto e la sua ingerenza hanno reso falsamente obbediente, oggetto di rivendicazioni da parte dei genitori dei bambini cui insegna, è alla ricerca di un oggetto buono su cui investire e da proteggere, che individua nella piccola Ronnie. Pur apparendo insistente, intrusiva, falsamente incoraggiante ed allusiva, preoccupata di restituire la figlia ad una immagine approvata socialmente e priva della capacità di accedere ad un dialogo autentico con la stessa, la donna finisce con il soggiacere alle manovre di ricatto quotidiane di Alice.

Esattamente otto anni dopo l’avvenuto sequestro della neonata, una nuova bimba viene sottratta ai suoi genitori all’interno di un esercizio commerciale di salotti. La dinamica degli interrogatori che le forze dell’ordine attivano per il ritrovamento della bambina richiama in causa le due ragazze quali potenziali soggetti aggressori. Alice seguita miratamente e perversamente a dirottare le indagini sull’amica Ronnie, dicendola ancora unica colpevole dell’antico misfatto: è perfetta l’interpretazione di Danielle Macdonald, assente di rimorso, vergogna e colpa. Ronnie piuttosto scappa alle forze dell’ordine, inquieta ed ostile, rendendosi oggetto di una più probabile focalizzazione dei sospetti. Ma il colpo di scena che inchioda Alice alla sua responsabilità di aver deliberatamente sottratto la bambina dal salone espositivo e di seguitare ad occultare la verità a fini perversi, ne tratteggia più pienamente il profilo. All’interno delle mura del carcere minorile, Alice si sarebbe sentita desiderata da un addetto alle pulizie, lo avrebbe attirato a sé e avrebbe agito integralmente la libertà fino ad allora impeditale fuori: il desiderio di godere una sessualità altrimenti negatale, di consentirsi la trasgressione e l’espressione più ampia della propria femminilità, la conduce a concedersi senza filtri la relazione sessuale con quell’uomo, a farsi ingravidare e a pretendere di tenere il bambino. Ma la mamma di Alice ancora una volta intrude nel suo sogno, la strappa temporaneamente al carcere, la assiste nel parto e poi cede la bambina in adozione. Una soluzione che appare essere la più ovvia alla donna per sostituirsi alla figlia, ritenuta irrecuperabilmente malata, e rimediare al suo ennesimo errore. L’esito di tale ennesima privazione e disconoscimento del sé e delle proprie volontà condurrà Alice -una volta fuori dal carcere- ad alimentare astio e rancore e a passeggiare infinitamente sola per le strade della sua cittadina fino ad individuare quella che crede essere sua figlia. Le pare di intravederla nel salone espositivo per divani, riconoscendola da un segno epidermico e – aggirando lo sguardo dei genitori- senza alcun pensiero di poter loro arrecare dolore, prende con sé la piccola, fiera della sua rivalsa e della sua restituita proprietà.

Ogni cosa è segreta: l’epilogo

Totalmente dissonante con la drammaticità e la gravità della vicenda è il finale del film Ogni cosa è segreta, che vede Alice ergersi su di un pulpito e alla luce del sole – spalleggiata da avvocati terzi e perfettamente consapevole dei suoi diritti – proclamare ai giornalisti e ai media la sua intenzione di perseguire la madre, di ottenere la giustizia per sé e di riprendersi il frutto della sua maternità e la sua pretesa libertà. Sullo sfondo la Sig.ra Manning, oggetto delle profonde accuse della figlia, attonita, sbigottita di fronte al procedere degli accadimenti, vittima ella stessa di responsabilità genitoriali che ha creduto di assumersi per il bene e che ora le si ritorcono contro, impersonate dal mostro di figlia che le incede davanti, onnipotente ed indiscussa, appoggiata dai media, dalle istituzioni, dalle agenzie di trasmissione locali, e resa libera di perpetrare la sua psicopatia contro di lei, a reclamare l’innocenza ed una serie di diritti per sé che appaiono anacronistici nell’attualità e non più accordabili.

Il film sembra sostenere, nella sua conclusione, una condanna rivolta tanto alla particolarità dell’agire materno, vischioso ed ipocrita, quanto al facile appoggio conferito ad Alice dalla medialità e da una società tutta, che non ha saputo affiancare, monitorare, prevenire otto anni prima, e che sa intervenire solo oggi davanti ad un dramma replicato nella sua tragicità, aggiudicando difesa e notorietà a colei che si designa a gran voce impropriamente e con ardire psicopatico la martire ultima di un intero sistema educativo ed istituzionale.

 

Colloqui motivazionali tenuti dai robot: ci sentiamo meno giudicati

Un esperimento tenutosi nella Plymouth University ha visto all’opera dei robot umanoidi nella veste di counselor in colloqui motivazionali per aumentare l’attività fisica.

 

I colloqui motivazionali sono sessioni dialogiche in cui uno psicologo lavora con il cliente per indagare e promuovere la motivazione verso un cambiamento.

NAO robot: gli umanoidi-counselor dell’esperimento

Nel presente studio, condotto presso la School of Psychology della Plymouth University, il tradizionale counsellor umano è stato sostituito da un consulente-robot, il NAO robot della Softbank Robotics, un umanoide di 58 cm nato nel 2006. Lo studio è stato svolto su 20 partecipanti di età compresa tra i 18 ed i 61 anni, volontari della School of Psychology. L’annuncio per il reclutamento dei volontari invitava alla partecipazione soggetti desiderosi di aumentare la propria attività fisica.

Ai partecipanti reclutati è stato spiegato che avrebbero partecipato a due sessioni, di cui una tenuta dal robot-counsellor. A questo proposito il counsellor-robot NAO è stato programmato con una sceneggiatura impostata per suscitare idee e conversazioni sul cambiamento rispetto ad un aumento dell’attività fisica ed i colloqui partecipante-robot duravano circa 1 ora. La procedura è stata strutturata in due fasi, tenutesi a distanza di una settimana l’una dall’altra, in modo che i partecipanti avessero il tempo per riflettere sull’impatto del primo colloquio tenutosi riducendo al massimo la variabile “dimenticanza”.

Nella prima fase i partecipanti sono stati invitati a rispondere alle domande dei robot, toccando il sensore posto sulla testa dell’umanoide per passare alla domanda successiva. I clienti hanno potuto avere un feedback dell’ascolto del robot, infatti gli occhi di NAO cambiano colore quando ascolta la persona che ha di fronte.

Nella seconda fase, i partecipanti sono tornati al laboratorio per compilare un questionario a domande aperte sul colloquio avvenuto nella prima fase.

Colloqui motivazionali: come se la sono cavata i robot

In seguito a quanto emerso dallo studio pilota, il ricercatore principale Jackie Andrade ha spiegato come i robot possono avere vantaggi rispetto agli umani nel fornire supporto alle persone, in quanto sono percepiti come non giudicanti e questa impressione facilita i cambiamenti comportamentali.

Il ricercatore afferma:

Siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla facilità con cui i partecipanti si sono adattati all’esperienza insolita di discutere del loro stile di vita con un robot [..] molti partecipanti allo studio dell’Università di Plymouth hanno elogiato la natura non giudicante del robot umanoide NAO nel momento in cui ha dato il via alla sua sessione. Tant’è che un partecipante ha persino affermato di preferirlo ad un essere umano.

In aggiunta, i partecipanti, intervistati sull’andamento della sessione motivazionale, in seguito ad essa, hanno riportato di aver percepito l’interazione come piacevole, interessante e utile.

Ciò che i partecipanti hanno trovato utile è stato ascoltare se stessi parlando del proprio comportamento ad alta voce, apprezzando che il robot non interrompesse. Per quanto riguarda i contro, i partecipanti hanno riscontrato un’interazione ristretta e manchevole di risposte individualizzate da parte del robot.

Essendo uno studio pilota non sono state svolte delle registrazioni delle interazioni, ma durante le sessioni è emerso come il robot abbia raggiunto un obiettivo fondamentale del couselling motivazionale: NAO ha incoraggiato i clienti ed articolato obiettivi e dilemmi ad alta voce.

I punti forti dell’umanoide-counsellor sono vari e spingono i ricercatori a pensare che la ricerca possa proseguire in questa direzione, così afferma Andrade:

La preoccupazione di essere giudicati da un intervistatore umano ha determinato un alto apprezzamento della natura non giudicante del robot, suggerendo che i robot potrebbero essere particolarmente utili per suscitare confronti su questioni delicate. Il prossimo passo è quello di intraprendere uno studio quantitativo, in cui si possano misurare se i partecipanti hanno sentito l’impatto effettivo dell’intervento sull’aumento dei loro livelli di attività fisica.

 

VIDEO – IL NAO ROBOT CONDUCE UN COLLOQUIO MOTIVAZIONALE:

Vincere la dipendenza (2018) di Judson Brewer – Recensione del libro

Vincere la dipendenza offre un percorso guidato, fondato scientificamente da numerosi studi, per vincere le cattive abitudini in cui tutti possiamo cadere, imparando ad essere consapevoli e attenti.

 

Nella prefazione di Jon Kabat – Zinn, a cui siamo debitori del metodo mindfulness, ci viene ricordato che siamo alla costante ricerca di un metodo per la salvezza fuori di noi, ma che è dentro il nostro essere che dobbiamo ricercare quella completezza e unicità che possono permetterci di trascendere il dolore e la frustrazione del vivere quotidiano.

Vincere la dipendenza : il craving trattabile con la mindfulness

L’autore si pone proprio questo nobile scopo: offrire un percorso guidato per “intraprendere un viaggio all’interno della mente” e arrivare così alla completezza dell’essere, vivendo lontani da qualsiasi dipendenza.

Secondo Judson Brewer – psichiatra con una lunga esperienza nel campo delle dipendenze e direttore del Laboratorio di Neuroscienze Terapeutiche presso il “Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society” dell’Università di Medicina del Massachusetts – le dipendenze derivano da uno stato mentale, il “craving”, traducibile con un intenso desiderio rivolto verso un oggetto che ostacola la nostra innata capacità al cambiamento.

Il concetto di craving non è una novità. Questo tipo di desiderio è presente, come causa di sofferenza e infelicità, già da secoli negli insegnamenti del buddismo.

Uno dei pregi del libro Vincere la dipendenza, evidente fin dalle prime pagine, è la capacità dell’autore di far incontrare la scienza occidentale con i dettami della filosofia buddista. Il risultato di questa unione olistica è la mindfulness, una pratica di meditazione formale e uno stile di vita che l’autore utilizza e studia da vent’anni come trattamento del craving.

Il segreto del metodo illustrato da Brewer è prestare attenzione. Essere consapevoli del nostro funzionamento e del nostro reagire alle esperienze dolorose è il primo passo per arrivare ad un reale stato di benessere.

Craving: arriva quando ci convinciamo di non farcela

Nel manuale Vincere la dipendenza viene mostrato come, quando non ci sentiamo bene, invece di affrontare la radice del problema, tendiamo a cadere in un bias (l’errore cognitivo) che ci convince che la soluzione reale non sia alla nostra portata e che abbiamo assolutamente bisogno di qualcosa che ci consoli.

In questa prospettiva, poco importa se l’oggetto consolatorio è un gelato, una sigaretta o un like su Instagram, il meccanismo alla base è sempre lo stesso: il craving. Questo modello, in cui impariamo ad associare lo stare bene a una ricompensa è quello dell’apprendimento studiato a partire dagli anni ’50 grazie all’opera di B.F. Skinner. Più ricerchiamo l’oggetto, più rinforziamo il nostro bisogno dell’oggetto e quindi la dipendenza da esso. Il problema, nel medio termine, è che la ricompensa ha un effetto benefico solo momentaneo e che per fare in modo che il desiderio rimanga soddisfatto, dobbiamo continuamente ricercare l’oggetto consolatorio, rinforzando, ovvero rendendo più forte, il craving. Sul lungo periodo la ricerca della ricompensa non si basa nemmeno più sull’ottenimento di un benessere, ma sull’evitamento del malessere che la sua assenza ormai causa. A lungo termine avremo aggiunto al problema reale, la dipendenza dalla strategia utilizzata per evitarlo.

Ciò che rende diverso Vincere la dipendenza dagli altri manuali di aiuto per le dipendenze, è che non opera insegnando a reprimere questi desideri, promuovendo una presunta forza di volontà o la prospettiva di una diversa ricompensa, sempre momentanea, ma illustra come arrivare a un cambiamento stabile attraverso la consapevolezza del qui ed ora.

Dipendenze: la mindfulness per relazionarsi con se stessi diversamente

Grazie alla pratica mindfulness quello che viene proposto è un nuovo modo di relazionarsi con se stessi. Vincere la dipendenza non affronta solo le dipendenze “classiche” come le sostanze stupefacenti, l’alcol, il fumo o il cibo. L’autore ci mostra come anche la relazione con gli altri, il rapporto con noi stessi, l’amore o addirittura il pensiero possono causare assuefazione.

Il tono non è mai accademico. Brewer parte sempre dalla sua prospettiva personale. Il libro è costellato, infatti, di esempi aneddotici legati alle difficoltà, alle crisi, alle delusioni e alle cadute in qualche forma di dipendenza che l’autore ha incontrato nel corso della vita e di come è stato possibile superarli, cambiando prospettiva e diventando più consapevole di quello che stava succedendo.

Vincere la dipendenza è divisa in più parti. Si inizia con la spiegazione di come si instaura il craving e il percorso di ricerca scientifica che ha portato l’autore a perfezionare il suo modello terapeutico e di auto-aiuto. Prosegue con con l’approfondimento di diversi tipi di situazioni e modi di essere alla base della dipendenza: l’uso della tecnologia, l’egoismo, le relazioni, perfino sognare ad occhi aperti, per esempio, possono tutte condurre alla dipendenza.

Mindfulness: con la gentilezza disinteressata ci prendiamo cura di noi

Il manuale prosegue con spiegazioni approfondite e consigli tecnici su come migliorare le pratiche meditative. Viene anche approfondito il metodo del surfing che permette di “cavalcare l’onda” del craving e tornare in uno stato mentale non desiderante e di flow, concetto a cavallo tra fisiologia e psicologia che si basa sul lavoro dello psicologo ungherese CsÍkszentmihályi e che è al centro degli insegnamenti buddisti. Il flow è uno stato di coscienza profonda dato dall’essere completamente coinvolti in un’esperienza. Viene promossa, poi, la pratica della gentilezza disinteressata, fare il bene per il bene stesso e non per ottenere una qualche ricompensa, che secondo le evidenze scientifiche non fa stare solo bene e in armonia con gli altri, ma costituisce uno dei modo più efficaci di modificare la mente.

Infine, viene spiegato come allenare la propria resilienza, ovvero l’abilità di riprendersi in modo adattivo dalle difficoltà. Vincere la dipendenza si conclude con un appendice dedicata alla valutazione della personalità, con tanto di test, che Brewer e i suoi ricercatori utilizzano per individuare i tipi di personalità in relazione al modo di vivere le esperienze.

Tra i numerosi pregi di quest’opera vi è quello di approfondire un modello terapeutico delle dipendenze presentando l’approfondito lavoro di ricerca sul quale questo modello si fonda. Un libro che permette, con un linguaggio scorrevole e facilmente comprensibile anche ai non addetti ai lavori, di avvicinarsi, non solo alle neuroscienze e alla psicologia cognitiva e comportamentale, ma anche di scoprire gli insegnamenti millenari delle filosofie orientali, adattando il tutto al metodo della mindfulness che negli ultimi anni ha acquisito una credibilità scientifica sempre maggiore. Meditare per credere!

Multitasking: un’abitudine sempre più diffusa. Dovremmo preoccuparci?

Lo facciamo in maniera inconsapevole, rapida, veloce, ma il multitasking è un fenomeno molto più complesso di quello che può apparire.

 

A ciascuno di noi capita ogni giorno di essere immerso in un’innumerevole quantità di azioni e compiti differenti; non sempre questi si susseguono in maniera ordinata nella nostra giornata, anzi, spesso, ci troviamo a svolgere più mansioni differenti contemporaneamente.

Tale fenomeno viene definito multitasking e sembra essere ormai una conseguenza inevitabile del contesto sociale e culturale attuale. Sempre più le richieste che arrivano, provenienti dall’ambiente (scuola, lavoro, famiglia, partner..) e sempre meno il tempo a nostra disposizione. È così che ci troviamo a fare una telefonata all’amica mentre siamo al supermercato oppure sistemiamo la casa mentre guardiamo il nostro programma preferito in tv.

Lo facciamo in maniera inconsapevole, rapida, veloce, ma il multitasking è un fenomeno molto più complesso di quello che può apparire. In particolare per l’alto tasso di concentrazione e attenzione che richiede svolgere due attività nello stesso momento.

Nel panorama della letteratura scientifica l’opinione è divisa tra studi che ritengono che il multitasking non porti alcun beneficio al nostro benessere, quanto piuttosto a significativi svantaggi, e studi che invece ne rivendicano gli effetti positivi.

Gli effetti del multitasking sulla struttura cerebrale

Numerosi i ricercatori che denunciano in particolare gli effetti negativi del multitasking sulla nostra struttura cerebrale. Tra questi, Sandra Bond Chapman, fondatrice del Center for brain health dell’Università di Dallas, la quale riporta tra i principali effetti del multitasking sul nostro cervello un significativo aumento dei livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. La ricercatrice spiega tale dato come il risultato del fatto che il nostro cervello sa far bene una cosa alla volta: i neuroni, se devono sorvegliare molte attività contemporaneamente, non riescono a spartirsi i compiti e li tengono tutti sotto controllo, millisecondo per millisecondo, commutando il proprio impegno dall’uno all’altro. Risultato: un superlavoro che produce risultati modesti e imprecisi.

Stessa risposta sembra provenire dai ricercatori dell’Università di Sussex, i quali hanno studiato gli effetti del multitasking in particolare in relazione all’utilizzo delle nuove tecnologie, causa oggi della maggior parte delle attività che svolgiamo in multitasking. Lo studio, pubblicato sulla rivista PLoS ONE, è il primo a trovare un collegamento tra multitasking e mutazioni nella struttura del cervello. Nello specifico, i ricercatori hanno scoperto che le persone che usano spesso varie forme di media contemporaneamente avevano in effetti una minore densità di materia grigia nell’area cerebrale della corteccia cingolata anteriore (ACC), coinvolta nell’elaborazione del pensiero e nel controllo emotivo, rispetto a coloro che invece utilizzavano un solo dispositivo per volta. Tale scoperta ha collegato il multitasking ad una ridotta capacità di attenzione, ad un maggior rischio di depressione ed ansia, ed a risultati inferiori a scuola.

Gli effetti positivi del multitasking sui nativi digitali

Di tutt’altro avviso un recente studio intitolato “Limiti di capacità della memoria di lavoro: l’impatto del multitasking sul controllo cognitivo negli adolescenti” di Sarayu Caulfield e Alexandra Ulmer (2014), che ha evidenziato come adolescenti che usano in contemporanea diversi dispositivi multimediali per tanto tempo potrebbero trarre in realtà notevoli benefici dallo svolgere attività in multitasking, con un miglioramento anche del proprio rendimento scolastico (ne parliamo anche qui). Dai risultati è emerso come i partecipanti che dedicano più tempo alle attività mediali e svolgono più attività in contemporanea presentano dei risultati migliori nei compiti con distrattori e risultati peggiori nei compiti senza distrattori. Risultati opposti sono stati registrati nei partecipanti che dedicano poco tempo allo svolgimento di più attività mediali in contemporanea. Il Dott. Caulfield sottolinea come:

La maggior parte delle persone eseguono meglio un compito in assenza dei distrattori, tuttavia una eccezione alla regola si riscontra negli adolescenti che per tanto tempo sono immersi in più attività mediali in contemporanea.

Questo studio suggerisce come i nativi digitali (essendo esposti fin da piccoli ad un ambiente mediale multitasking) potrebbero aver sviluppato una memoria di lavoro maggiore che implica prestazioni migliori nei ambienti con più distrattori rispetto ad ambiti in cui ci si debba focalizzare su un solo compito.

In conclusione, dunque, gli studi e le ricerche sul multitasking ci lasciano aperti a diverse interpretazioni di questo fenomeno, nella cui valutazione non possiamo trascurare un’adeguata considerazione anche dei fattori socio-culturali. Nel frattempo ciascuno di noi può sicuramente soffermarsi ed osservare quelli che possono essere gli effetti propri e personali del multitasking sulla propria vita e valutare direttamente effetti positivi e negativi del multitasking nella propria esperienza quotidiana.

La percezione sociale della violenza di genere e del femminicidio – Report dal convegno di Palermo

La percezione sociale della violenza di genere e del femminicidio tra stereotipi, norme giuridiche e pubbliche rappresentazioni: questi i temi del convegno tenutosi a Palermo il 21 maggio 2018.

 

Violenza di genere, nelle forme più disparate che vanno dalla violenza coniugale fino allo sfruttamento sessuale e alla riduzione in schiavitù: situazioni critiche che richiedono aiuto professionale, riprovazione sociale, una rete assistenziale in grado di fornire supporto alle vittime, e un sistema dell’informazione depurato da linguaggi e immagini stereotipate e di per sé violente.

Violenza di genere: cos’è e le sue conseguenze sulle vittime

Questi i temi intorno a cui si è svolto, lo scorso 21 Maggio, un intenso evento formativo rivolto ai giornalisti, presso l’Ordine dei Giornalisti di Palermo, con la partecipazione di esponenti del mondo della Psicologia e della Giurisprudenza. Apre i lavori Maria Luisa Benincasa, Dirigente psicologo dell’ASP di Palermo:

Secondo la Convenzione di Istanbul del 2011 la violenza nei confronti delle donne si riferisce a ogni atto di discriminazione, compresa la minaccia dell’atto, basato sul genere e in grado di provocare danni psicologici, sessuali, fisici, economici alla donna; parlare di violenza significa riferirsi altresì a un evento lesivo dai confini incerti, come accade nello stupro coniugale, dove la violenza è giuridicamente praticamente indimostrabile, spesso con la donna stessa inconsapevole della portata aggressiva e abusante del gesto dell’aggressore

Parlare di violenza significa poi riferirsi a un fenomeno cruento, sia sul piano fisico che simbolico: infatti il gesto omicida non è solo finalizzato alla morte, ma anche alla distruzione e all’ umiliazione del corpo della donna, ad esempio con l’utilizzo dell’acido, simbolizzando uno sbilanciamento di potere tra i generi. Varie le conseguenze di un abuso sia sul piano fisico che psicologico, come aborti spontanei, ferite, gravidanze indesiderate, disturbi cronici delle pelvi, ansia, depressione, disturbi dell’immagine corporea, iperreattività. Conseguenze che durano nel tempo e che sono resistenti al tempo, verificandosi anche nella vecchiaia.

Violenza di genere: ancora troppi stereotipi nel 2018

Approfondendo il discorso sul versante della rappresentazione mediatica della violenza, il seminario ha quindi evidenziato la presenza di stereotipi veicolati dai mass media, in grado di incoraggiare e giustificare la violenza di genere e la cui conoscenza è necessaria per avviare una riflessione culturale ad ampio respiro sul ruolo della donna nella società e sul rispetto dei diritti umani.

Da una ricerca di Gius e Lalli sui giornali italiani del 2012 emerge una spiegazione del femminicidio basata su un frame pericolosamente idealizzato di amore romantico – spiega Alessandra Dino, Professore associato di Sociologia giuridica e della devianza presso l’Università degli Studi di Palermo – Ecco che per l’uomo sarebbe naturale perdere il controllo, per gelosia, per cui la violenza viene considerata un atto estremo con cui preservare un oggetto d’amore. In realtà la verità è che nella violenza non può esistere amore, poiché esso non include il concetto di possesso o di proprietà privata. A completare questo quadro dobbiamo aggiungere messaggi che indubbiamente inneggiano alla vittimizzazione della vittima “Se l’è cercata!”; Oltre che alla deresponsabilizzazione dell’aggressore: “L’amava così tanto da ucciderla!”. Dobbiamo però anche dire che negli ultimi anni si assiste a un cambiamento nei testi di articoli, dove il termine femminicidio è più adoperato e molto meno il termine raptus come giustificazione del gesto violento.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

La percezione sociale della volenza di genere - Report del convegno-foto

Imm. 1 – Immagine dal Convegno “La percezione sociale della violenza di genere e del femminicidio”

 

Sempre di stereotipi culturali si è occupata la relazione di Mirella Ogliastro, magistrato della Procura Generale presso la Corte d’appello di Palermo, insistendo anche sulla necessità di un lavoro di rete che supporti la donna, a partire dalla fase della denuncia:

Stereotipi deleteri per le donne, in qualche modo responsabili di violenze che spaziano da quella coniugale allo sfruttamento sessuale alla riduzione in schiavitù, consistono in frasi quali “Le donne serie non vengono violentate” oppure “Una donna non deve vestirsi in modo provocante”; stessa funzione di mancanza di tutela svolgono frasi di giustificazione del comportamento del violento quali “Era da tanto che non faceva sesso” oppure “Era ubriaco”. Stereotipi che, in qualche modo, legittimano una violenza sociale, lasciando la donna impaurita, indifesa, al limite, spingendola a non denunciare, per il timore della riprovazione familiare e sociale. Varie le cause della non denuncia tra cui la paura delle ritorsioni sui figli, la dipendenza economica, il vissuto stesso di meritare la violenza, la vergogna, il senso del dovere e la mancanza di sostegno sociale e familiare.

Una condizione allarmante che se, da un lato, beneficia degli interventi della Magistratura, attraverso le sentenze di difesa della vittima, necessita però di una presa di coscienza collettiva e di un lavoro diffuso di specializzazione del personale e di integrazione delle competenze.

Le specializzazioni in grado di supportare la donna sono variegate: avvocati, medici di pronto soccorso, medici di medicina generale, psicologi, giudici, il volontariato, gli operatori di Polizia, le famiglie, che, lavorando sinergicamente, costruiscono quella rete sociale che protegge la donna dall’isolamento. Perché una donna vittima di violenza deve trovare nel proprio cammino persone che l’ascoltino, e non operatori che dicano, allargando le braccia, frasi inascoltabili, umilianti, come “Si risolverà in famiglia”.

L’importanza dell’adulto nello sviluppo delle abilità sociali dei bambini

Una nuova ricerca sullo sviluppo delle abilità sociali condotta dall’Università di Lund, in Svezia, rivela che bambini, anche piccoli, possono mostrare abilità quali l’inferenza di stati mentali altrui, nelle interazioni con l’ adulto.

 

Perché gli esseri umani funzionino socialmente, devono essere in grado di percepire, comprendere e parlare delle credenze, dei desideri e delle intenzioni altrui, in altre parole degli stati mentali.

Non vi è consenso unanime tra i ricercatori circa il periodo in cui si sviluppi questa capacità, tuttavia la letteratura esistente indica l’insorgenza intorno ai 4 anni.

Il nuovo studio svedese dimostra che l’interazione con un adulto permetterebbe la comparsa di tale abilità anche nei bambini più piccoli. La ricerca condotta dalla psicologa dello sviluppo Elia Psouni ha indagato, tramite una variante del test della falsa credenza, l’ abilità sociale nota come teoria della mente, ovvero la capacità del bambino di creare una rappresentazione adeguata dei processi cogntivi-emotivo altrui.

Sviluppo delle abilità sociali: l’esperimento

Ai piccoli partecipanti, bambini dai 33 ai 54 mesi, è stato chiesto di prevedere cosa sarebbe accaduto nel finale di una storia illustrata, improvvisamente interrotta. Lo scopo della ricerca era quello di indagare se la risposta del bambino fosse in qualche modo influenzata dalla presenza o meno di un adulto, il quale poteva essere impegnato nello svolgimento di un’altra attività oppure partecipare attivamente al racconto.

La versione utilizzata per la ricerca prevedeva la visione di un cortometraggio animato in cui il padre del piccolo Maxi spostava un giocattolo che il figlio aveva riposto mentre il bambino giocava all’esterno, al rientro in casa di Maxi il film si interrompeva e veniva chiesto ai partecipanti di indicare il luogo in cui pensavano che Maxi avrebbe cercato il giocattolo. La medesima procedura è stata riproposta in un secondo esperimento attraverso un libro illustrato.

Comunemente i bambini di età inferiore ai 4 anni credono che Maxi cercherà il gioco nella nuova collocazione scelta dal padre, dimostrando così di non essere in grado di formulare false credenze. Al contrario, nello studio svedese, si nota come molti dei bambini che hanno affrontato il compito interagendo con l’adulto hanno previsto correttamente la scelta del protagonista, mentre invece si sono registrate un numero di risposte corrette significativamente inferiore nelle altre condizioni sperimentali.

Sviluppo delle abilità sociali: il ruolo delle interazioni con l’adulto

L’autrice dello studio afferma

Molti bambini hanno risposto correttamente spiegando il proprio ragionamento: Maxi ha cercato il suo giocattolo nel posto in cui lui l’aveva lasciato poiché non poteva sapere che il padre lo avesse spostato. Ciò che sorprende è che questi bambini non ricordavano la storia generale meglio degli altri ma indicavano specificatamente che il padre aveva spostato il giocattolo quando Maxi non era presente. Questo ci suggerisce che questi bambini hanno prestato maggiore attenzione alle caratteristiche salienti della trama rispetto ad altre.

Le evidenze dimostrano la capacità dei bambini di inferire gli stati mentali dell’altro in un contesto di attenzione congiunta con un adulto anche prima di quanto la letteratura dica. Elia Psouni ha concluso

La comprensione precoce della prospettiva altrui da parte dei bambini piccoli sembra richiedere loro di “condividere le prospettive” con l’altro concentrandosi sulle stesse informazioni contemporaneamente. Questa abilità sociale di base appare fondamentale per la nascita di competenze sociali più ampie e per lo sviluppo del pensiero critico.

Le demenze non Alzheimer e l’Afasia Progressiva Primaria

Una diagnosi clinica di afasia progressiva primaria richiede un principale deficit linguistico isolato durante l’iniziale fase della malattia, con insorgenza insidiosa e deterioramento graduale e progressivo della produzione linguistica (tra cui difficoltà in denominazione di oggetti, sintassi o comprensione delle parole) che si fa evidente sia durante la conversazione che attraverso valutazione formale linguaggio.

Francesca Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

In relazione alle demenze, sin dall’Ottocento sono state descritte forme degenerative atipiche, caratterizzate da un esordio non amnesico focale ma interessanti il linguaggio, l’analisi visiva e visuo-spaziale, il riconoscimento dei volti, etc. (Denes & Pizzamiglio, 1996).

Pick (1892) e Serieux (1893) descrissero per primi dei casi di soggetti con disturbo progressivo del linguaggio associato ad atrofia cerebrale a livello delle regioni frontali e temporali dell’emisfero di sinistra. Dopo più di 70 anni dai primi casi storici, nel 1982, l’americano Marek-Marsel Mesulam descrive una serie di sei pazienti con una progressiva riduzione delle capacità espressive verbali, coniando il termine di “afasia lentamente progressiva”. A pochi anni di distanza dal lavoro di Warrington (1970), che individuò una condizione clinica caratterizzata da un disturbo progressivo della memoria semantica, con ingravescenti anomie e difficoltà a riconoscere prevalentemente alcune categorie di stimoli (specificità categoriale per gli stimoli animati) e presentavano un linguaggio fluente con fonologia e articolazione preservata.

Tale quadro venne definito poi da Snowden e collaboratori (1989) una forma di “demenza semantica”. Negli anni si cercò di caratterizzare sempre di più la sintomatologia e l’eziopatogenesi, ma per molto tempo venne utilizzata in maniera pressoché costante la dicotomia “demenza semantica” o “afasia progressiva non fluente” (Gorno-Tempini et al., 2011). Poichè sono stati collezionati anche numerosi casi che non sembravano adattarsi a tale classificazione binaria, venne poi ipotizzata una terza variante, descritta empiricamente e classificata come variante “logopenica” di afasia progressiva da Gorno-Tempini e collaboratori nel 2004.

Afasia progressiva primaria (APP)

L’ afasia progressiva primaria – APP (dall’inglese Primary Progressive Aphasia – PPA) è una sindrome neurologica rara caratterizzata da aspetti clinici polimorfi che tuttavia presentano come elemento in comune la perdita del linguaggio (Mesulam, 2001). Appartiene al quadro delle atrofie corticali focali progressive, nelle quali si riscontra l’alterazione di una funzione cognitiva senza che sia presente demenza per almeno due anni (Masson et al., 2013). La competenza linguistica può risultare destrutturata nei suoi livelli fonologici, semantici e sintattici, sul versante orale o scritto; l’eloquio può presentarsi normale in fluenza o non fuente (Mesulam, 2001).

Mesulam (2003) evidenziò la difficoltà nel riconoscere e diagnosticare un’ afasia progressiva primaria, ponendo particolare attenzione alle difficoltà di diagnosi differenziale. Difatti, in primo luogo esistono plurime affezioni neurologiche in cui la perdita del linguaggio può essere presente ma inclusa in una ampia serie di altri deficit cognitivi a carattere ingravescente (ad esempio memoria, attenzione, ragionamento, prassia-costruttiva, etc). Inoltre, un quadro afasico può essere progressivo ma non primario se inserito in una sindrome più complessa. Infine, altre forme cliniche a carattere degenerativo quali le demenze vascolari, a Corpi di Lewi, la Creutzfeld-Jacob e la malattia di Alzheimer stessa  possono manifestarsi con i disturbi del linguaggio. Alla luce di tali affermazioni, ne consegue che la diagnosi differenziale consista e richieda una lunga e complessa valutazione seriata nel tempo, supportata da esami accessori strumentali e di laboratorio (Vallar & Papagno, 2011; Grossman, 2010).

Il lavoro di Gorno-Tempini e colleghi del 2011 ha fornito una classificazione della afasia progressiva primaria e delle sue tre varianti principali. Stabilire una classificazione o “diagnosi clinica” comporta un processo a due passi. In primo luogo, il paziente deve soddisfare i criteri di base APP, basato su linee guida iniziali e attuali di Mesulam (2001; 2003).

Una diagnosi clinica di afasia progressiva primaria richiede un principale deficit linguistico isolato durante l’iniziale fase della malattia, con insorgenza insidiosa e deterioramento graduale e progressivo della produzione linguistica (tra cui difficoltà in denominazione di oggetti, sintassi o comprensione delle parole) che si fa evidente sia durante la conversazione che attraverso valutazione formale linguaggio (Gorno-Tempini et al., 2013). Le attività di vita quotidiana sono mantenute autonomamente, fatta eccezione per quelle relativi alla lingua (ad esempio, utilizzare il telefono). L’ afasia dovrebbe rappresentare quindi il deficit più evidente in fase iniziale; le altre funzioni cognitive possono essere influenzate in seguito, ciononostante il linguaggio rimane il dominio più compromesso per tutto il decorso della malattia (Mesulam 2003; Mesulam et al., 2009; Libon et al., 2009).

I criteri di esclusione prevedono la presenza di episodi significativi con perdita di memoria non verbale e compromissione nel dominio visuo-spaziale durante le fasi iniziali della malattia. Inoltre va esclusa, tramite accertamenti con neuroimaging, la presenza di eventi morbosi quali ictus o tumore come cause eziologiche del disturbo linguistico (Gorno-Tempini et al., 2013). Ed ancora, i disturbi comportamentali possono presentarsi, specialmente nelle varianti non fluenti e semantiche, ma non dovrebbero rappresentare la principale causa di deficit funzionale, così come la sintomatologia extrapiramidale.

Una volta individuata la diagnosi e sintomatologia clinica di APP, la presenza o assenza di determinate caratteristiche linguistiche consente di classificare le varianti di afasia progressiva primaria; i principali domini considerati sono produzione linguistica, ripetizione, comprensione di parole e frasi, denominazione, conoscenze semantiche, lettura e scrittura. Ne consegue che una valutazione neuropsicologica puntale di tutti questi elementi risulta necessaria per la corretta classificazione dei pazienti in sottotipi di APP (Gorno-Tempini et al., 2013). In particolare, diagnosi e trattamento si fondano su:

  • Esame del dossier clinico e raccolta anamnestica remota e prossima con il paziente e i familiari
  • Esame neurologico
  • Esame neuropsicologico generale e valutazione linguistico/afasiologica
  • Esame psichiatrico
  • Valutazioni longitudinali a distanza di 6-12 mesi con controlli più brevi focalizzati
  • Studio di neuroimaging strutturali (RMN) e funzionale (PET-FDG, SPECT)
  • Eventuale studio del fluido cerebrospinale (marker per demenza)
  • Eventuali indagini genetiche

La classificazione di afasia progressiva primaria in una delle varianti può verificarsi in uno dei 3 livelli: livello clinico, livello supportato dal neuroimaging, e diagnosi patologica definitiva (Gorno-Tempini et al., 2013). La diagnosi clinica si verifica quando un caso si presenta con un profilo linguistico ben definibile e caratteristico di una specifica variante; soddisfatti i criteri clinici, si passa al successivo livello di classificazione in cui sono richiesti pattern al neuroimaging (strutturale o funzionale) coerenti con quelli attesi a seconda della forma clinica. Il terzo livello, ossia una diagnosi di patologia definita, si riferisce a casi che presentano caratteristiche cliniche tipiche di una determinata variante (con o senza neuroimaging) e mutazioni patologiche o genetiche associate con spettro della degenerazione lobare fronto temporale (frontotemporal lobar degeneration FTLD), dell’Alzheimer Disease (AD), o altra eziologia specifica. Gli autori sottolineano tuttavia che la presenza di diagnosi a livello di patologia definita non implica che la sindrome sia meglio definita clinicamente, ma solo che è stata associata a una caratteristica biologica nota.

Classificazione dell’Afasia Progressiva Primaria

Venendo al sistema di classificazione, ad oggi si parla di una variante non-fluente-agrammatica, una variante semantica e una variante logopenica.

Il gruppo di lavoro di Gorno-Tempini e collaboratori (2011)  definisce la caratterizzazione sul piano clinico della variante non-fluente-agrammatica di APP ( non-fluent/agrammatic variant PPA):

  • Presenza di linguaggio non fluente, con numero di parole nell’arco di un minuto ridotte  ad 1/3 del normale
  • Agrammatismo con omissione di funtori e semplificazione della frase
  • Alterazioni della prosodia e della melodia
  • Errori in linguaggio con sostituzioni e distorsioni fonetiche
  • Aprassia del linguaggio
  • Mutismo finale

All’esame neuropsicologico in fase iniziale è possibile riscontrare un’alterata comprensione grammaticale sia in prove scritte che orali a fronte di una buona comprensione semantica e una riduzione della fluenza verbale. All’obiettività neurologica si rilevano segni extrapiramidali, distonia, mioclono, ipertonia assiale; tali elementi fanno ipotizzare un’associazione almeno parziale con la malattia del motoneurone. Al neuroimaging si rilevano alterazioni a livello della regione fronto-insulare sinistra (Gorno-Tempini et al., 2004), così come anomalie a livello delle aree motorie (Kertesz et al., 2000).

La seconda variante presa in considerazione nei nuovi criteri di Gorno-Tempini e collaboratori (2011), è indicata con la terminologia variante semantica di APP (semantic variant PPA); secondo il gruppo di lavoro essa si caratterizza clinicamente per:

  • Ridotta comprensione di parole singole
  • Degradazione e semplificazione delle informazioni semantiche
  • Presenza di “word finding” e anomie
  • Uso di parole passe-partout (linguaggio vuoto)
  • Comprensione del linguaggio compromessa

L’esame neuropsicologico pone in evidenza alterazioni nelle prove di comprensione e denominazione (confrontation naming), con perdita della conoscenza del significato delle parole e degli oggetti (persone/entità uniche); si osserva inoltre una dissociazione con mantenimento del significato dei concetti astratti rispetto a quello degli oggetti reali; si associa dislessia superficiale e disgrafia, permane tuttavia buona la prestazione in prove di ripetizione di parole e frasi. L’obiettività neurologica evidenzia la possibile presenza di segni extrapiramidali; anche tale variante si trova in associazione con malattia del motoneurone. A livello di studi di neuroimmagine, sono state individuate alterazioni a livello delle aree temporali anteriori bilateralmente (Gorno-Tempini et al., 2004).

Infine, viene proposta una caratterizzazione per la forma definita dagli autori variante logopenica di APP (logopenic variant PPA), il cui profilo clinico si caratterizza per:

  • Difficoltà nel “word finding” in linguaggio spontaneo
  • Difficoltà della memoria fonologica e di lavoro
  • Difficoltà nella comprensione di frasi lunghe
  • Non si rilevano tuttavia difficoltà nella velocità di produzione linguistica e non distorsioni

In fase iniziale, alle rilevazioni neuropsicologiche è possibile oggettivare deficit e alterazioni nelle prove di fluenza verbale, di comprensione di frasi complesse; riduzione delle capacità di ripetizione di frasi e sintagmi; si riscontrano errori fonologici in linguaggio spontaneo e nelle prove di denominazione, con assenza di agrammatismo. L’obiettività neurologica è negativa. Al neuroimaging è possibile rilevare alterazioni, in particolare atrofia a livello della aree perisilviane sinistre e del lobo temporale anteriore (Gorno-Tempini et al., 2004). I casi con patologia definita APP variante logopenica come quando presentano le caratteristiche cliniche, supportate o non dal neuroimaging o meno, e quadro istopatologico noto. Studi recenti evidenziano che la malattia di Alzheimer potrebbe essere la patologia sottostante più comune (Mesulam et al., 2008; Rabinovici et al., 2008 ).

Evoluzione e trattamento

L’evoluzione di queste afasie progressive va verso una demenza frontotemporale al termine di un decorso medio di 7-8 anni; le lesioni neurodegenerative possono essere quelle di una degenerazione frontotemporale o della malattia di Alzheimer (Masson et al., 2013).

Nonostante le differenze di quadro clinico, le sindromi di afasia progressiva primaria collettivamente manifestano problemi di gestione simili e richiedono in generale l’integrazione di approcci non farmacologici e farmacologici (Marshall et al., 2018). Il trattamento è basato su differenti approcci al fine di rallentare e/o bloccare l’evoluzione del disturbo nel tempo.

In particolare, gli autori evidenziano il ruolo della terapia logopedica avente un ruolo fondamentale nel fornire al paziente strumenti e strategie di aiuto e di supporto alla comunicazione, il trattamento poi deve essere “tagliato” sul singolo soggetto e sul suo profilo, con l’obiettivo di ridurre le difficoltà o mantenere le autonomie nella vita quotidiana (per esempio, ordinare il pane dal panettiere).

Anche mezzi tecnologici quotidiani come smartphone e strategie di compenso possono sostenere il soggetto nello svolgimento di attività quotidiane come lo shopping o la cucina (Wong et al., 2009; Bier et al., 2015). Nel corso del tempo poi spesso i soggetti possono manifestare disfagia, prevalentemente attribuibile a deficit di controllo motorio o all’impulsività, anch’essa meritevole di trattamento specifico.

Soprattutto negli ultimi decenni sono state introdotte nel trattamento dell’ afasia progressiva primaria nuove tecniche, come le metodiche non invasive di stimolazione cerebrale tra cui la stimolazione magnetica transcranica (TMS – transcranial magnetic stimulation) e la stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS – transcranial direct current stimulation), a volte combinata con la logopedia.

In aggiunta, sono spesso necessarie misure di supporto ed educazione rivolte sia al paziente che ai familiari o caregivers.

Per quanto concerne la terapia farmacologica, non ci sono attualmente trattamenti in grado di modificare la malattia, inoltre le prove di efficacia dei trattamenti sintomatici è scarsa: gli studi che prevedevano l’uso di farmaci per l’AD hanno difatti portato a risultati modesti. Oltre a ciò, il ricorso a molecole specifiche pare più adatto al trattamento delle patologie in comorbilità più che alla sintomatologica dell’ afasia progressiva primaria: per esempio, per la gestione di gravi stati di agitazione o sintomi psicotici nelle fasi avanzate della malattia potrebbero dare validi risultati neurolettici di nuova generazione (Marshall et al., 2018). È necessario in futuro sviluppare e rinforzare nuovi approcci, valutandone adeguatamente l’efficacia tramite studi controllati, anche in vista di un contesto futuro in cui la riabilitazione cognitiva si muova e si modifichi in concomitanza con le variazioni della farmacoterapia e della malattia stessa.

Lungo un continuum tra normalità e patologia. Cosa s’intende per Disturbo Mentale?

Ancora oggi appare importante interrogarsi sulla definizione di disturbo mentale, compiendo un’operazione che va ben al di là dell’etichettamento teorico.

 

Il costrutto di disturbo mentale è oggi particolarmente analizzato. Attualmente il costrutto di disturbo mentale è delineato nel DSM – 5, ovvero esso è inteso come una sindrome caratterizzata da un significativo disturbo clinico nell’ambito della cognitività, della regolazione delle emozioni o del comportamento, dovuto ad una disfunzionalità nell’ambito dei processi psicologici, biologici o di sviluppo, che sono alla base del funzionamento mentale. Il disturbo mentale è associato ad una significativa sofferenza e inabilità in ambito sociale, lavorativo e in altri importanti settori della vita. Alla luce di ciò, il disturbo mentale si può delineare come una condizione non rapportabile alla cultura di appartenenza dell’individuo, quanto piuttosto alla sua biografia psicosociale e che produce un disadattamento, una notevole sofferenza e una spiccata inabilità.

Keywords: disturbo mentale, classificazione, disfunzionalità, disadattamento, inabilità.

 

Disturbo mentale: la sua definizione e quella del suo opposto, la “normalità”

Il costrutto di disturbo mentale è oggi particolarmente analizzato per una serie di ragioni. In primo luogo il definire il patologico consente di delineare i paradigmi di una “presunta normalità”. Inoltre, avere degli archetipi che permettono di identificare dei sintomi ascrivibili alla patologia ha dei risvolti di ordine legale, riferibili, per esempio, all’imputabilità di un soggetto, di ordine psicosociale, relativi al ruolo di malato mentale, e di ordine terapeutico, rapportabili alla curabilità del disturbo stesso (Telles-Correia e al., 2018).

Attualmente la classificazione dei disturbi mentali più seguita è basata sulle evidenze cliniche presenti in un numero statisticamente elevato di individui (DSM – 5, 2013). Prima dell’avvento della classificazione sancita dal DSM, la nomenclatura delle malattie mentali era basata sui giudizi clinici e sull’esperienza dei medici che si erano interfacciati con le diverse patologie neuropsichiatriche (Feighner e al., 1972). Questo tipo di classificazione, però, risentiva di contaminazioni ideologiche rapportabili ai diversi archetipi epistemici (psicoanalisi, orientamento biologico ecc.). Inoltre, erano evidenti in tale contestualità interpretativa i condizionamenti di tipo morale, culturale e religioso che conducevano ad una distinzione più culturale che clinica fra normalità e patologia (Spitzer e Klein, 1978).

Disturbo mentale: un’etichetta e molto di più

Contro il costrutto di disturbo mentale, in quanto eticchettamento sociale, a lungo si è espresso il movimento dell’antipsichiatria, che ha avuto i suoi maggiori esponenti in Focault, Basaglia, Cooper e Laing (Telles-Correia e al., 2018). I pilastri ideologici dell’antipsichiatria sono stati quelli di combattere le istituzioni manicomiali, intese come luoghi di segregazione sociale, e il potere medico, satellite di altri poteri (politico, economico ecc.), che ha consentito di delineare i confini culturali fra normalità e patologia (Rose, 2006). In pratica, secondo questo approccio non si può parlare di malattia mentale, quanto piuttosto di devianza dalle norme e dai valori socialmente accettati (Szasz, 1960).

Attualmente il costrutto di disturbo mentale è delineato nel DSM – 5 (2013), ovvero esso è inteso come una sindrome caratterizzata da un significativo disturbo clinico nell’ambito della cognitività, della regolazione delle emozioni o del comportamento, dovuto ad una disfunzionalità nell’ambito dei processi psicologici, biologici o di sviluppo, che sono alla base del funzionamento mentale. Il disturbo mentale è associato ad una significativa sofferenza e inabilità in ambito sociale, lavorativo e in altri importanti settori della vita (DSM – 5, 2013).

Disturbo mentale: una definizione tra normalità e patologia

In ambito psichiatrico il definire che cosa è normale e cosa è patologico è legato a tre fattori:

  • la comprensibilità, ovvero se lo stato mentale o il comportamento sia ascrivibile oppure no ad una caratteristica endemica al contesto culturale del paziente;
  • l’adattamento, ossia se la persona presenta un adattamento o un disadattamento al suo ambiente di vita;
  • la relazione con la sofferenza e l’inabilità, cioè se lo stato mentale presentato dal soggetto è fonte di disagio e di disabilità (Telles-Correia, 2018).

In conclusione, il disturbo mentale si può delineare come una condizione non rapportabile alla cultura di appartenenza dell’individuo, quanto piuttosto alla sua biografia psicosociale e che produce un disadattamento, una notevole sofferenza e una spiccata inabilità.

Il trasferimento di memoria da un organismo ad un altro

Uno studio di Glanzman e colleghi del dipartimento di biologia e fisiologia della UCLA University, pubblicato recentemente su eNeuro, ha mostrato come sia possibile il trasferimento di memoria: in particolare si può trasferire un engramma da un organismo semplice ad un altro tramite l’iniezione di RNA, incrementando anche le informazioni su dove e come le memorie vengono immagazzinate.

 

Lo studio di Glandzman e colleghi ha mostrato per la prima volta come sia possibile trasferire un engramma cioè il substrato fisico di una traccia di memoria, da un organismo semplice, l’aplysia, ad un’altro, tramite l’iniezione di RNA (Bédécarrats, Pearce, Glanzman, 2018).

L’esperimento in questione prevedeva la somministrazione di un blando shock elettrico ad una aplysia, una lumaca marina, per far sì che si instaurasse nell’animale marino un condizionamento avversivo: l’animale in questo modo “apprende” a rispondere con un comportamento difensivo, un riflesso incondizionato, cioè il ritiro del sifone e delle branchie per circa un minuto, a seguito di un tocco leggero che era stato precedentemente associato allo shock elettrico.

Traferimento di memoria: l’esperimento

A questo punto, i ricercatori hanno estratto l’RNA dalle cellule del sistema nervoso della lumaca condizionata e hanno iniettato il materiale in uno stesso animale non condizionato (Bédécarrats, Pearce, Glanzman, 2018). L’RNA, detto RNA messaggero, ha il compito cruciale di trasportare all’interno delle cellule le informazioni per la costruzione di proteine, secondo le istruzioni contenute nel DNA (Fiumara et al., 2015).

A seguito di questa manipolazione farmacologica, i ricercatori si sono accorti che la somministrazione di RNA ha determinato nell’animale che non aveva ricevuto in prima persona il condizionamento, il trasferimento di una sensibilizzazione dell’engramma a lungo termine, producendo a sua volta un cambiamento nel suo comportamento difensivo: la seconda lumaca infatti ha mostrato gli stessi riflessi incondizionati a seguito di un leggero tocco come la lumaca condizionata (Bédécarrats, Pearce, Glanzman, 2018).

Oltre a questi sorprendenti risultati sul trasferimento di memoria, il gruppo di Glanzman ha messo in luce come i neuroni sensoriali dell’aplysia che aveva riveuto l’RNA dalla lumaca condizionata, fossero maggiormente eccitabili, come a seguito di uno shock, quando esposti all’RNA delle lumache condizionate, rispetto all’esposizione all’RNA di lumache non condizionate.

Trasferimento di memoria: passerebbe attraverso l’RNA

Queste evidenze, a parere di Glanzman, suggeriscono che le memorie potrebbero essere immagazzinate nel nucleo dei neuroni, dove l’RNA viene sintetizzato e può agire sul DNA attivando o meno i geni che costituiscono la sequenza. Inoltre, l’immagazzinamento di memorie potrebbe essere costituito da cambiamenti epigenetici, cioè da cambiamenti nell’attività dei geni e non nella sequenza del DNA.

Questa visione modifica ampiamente la nozione che l’immagazzinamento sia possibile grazie all’incremento dell’eccitabilità delle connessioni sinaptiche tra neuroni e aumenta le evidenze a favore dell’idea che i meccanismi epigenetici abbiano un ruolo chiave nella formazione delle memorie (Poo, Pignatelli et al., 2016).

Tuttavia molte sono state le critiche avanzate a seguito della pubblicazione di questo studio, prima fra tutte il fatto che le evidenze sul trasferimento di memoria fossero state ottenute su animali con un funzionamento neurale molto più semplice rispetto ad animali complessi o agli umani.

Inoltre questo studio non evidenzia né spiega quali siano i meccanismi che consentono all’RNA di trasferire l’engramma o che consentono all’organismo ricevente il recupero immediato di memorie non proprie (Bédécarrats, Pearce, Glanzman, 2018). Afferma David L. Glanzman

Le sinapsi possono andare e venire, ma la memoria resta ancora lì; le informazioni che costituiscono le memorie potrebbero essere contenute nel nucleo

 

In memoriam: Giovanni Liotti

– COMUNICATO STAMPA – EABCT Pressroom, European Association for Behavioural and Cognitive Therapies

 

In memoriam: Giovanni Liotti

We would like to express our heartfelt condolences to our colleagues from SITCC for the loss of Giovanni Liotti. Here follows a message from Michele Procacci:

On 9th April 2018, 73-year-old psychiatrist and therapist Giovanni Liotti passed away. He founded the Società Italiana di Terapia Comportamentale Cognitiva (SITCC – Italian Society of Behavioural-Cognitive Therapy) with Vittorio Guidano on 30th December 1972; at the beginning it was called Società Italiana della terapia del comportamento. He was also a founder member of the Association for the Research on Psychopathology of Attachment and Development.

Giovanni Liotti, called Gianni, was a master for many of us, a father, a friend, a supervisor and a teacher. His attention to the relationship between the cognitive approach, the research on emotions and the mental disorders treatments is visible right from his first works with Guidano (Cognitive processes and emotional disorders: a structural approach to psychotherapy, Guilford 1983). A book that is the result of the cooperation of the fathers of Italian Cognitive Therapy, who later went on exploring different trajectories. Liotti continued his studies on an evolutionist perspective, that is how primary affective figures create mental representations complex, by studying the theory of attachment and other motivational systems which rule interpersonal relationships. He was a meticulous and interested in different aspects, he made cognitivism roots get closer to other disciplines: ethology, evolutionist psychopathology and neurosciences. In psychopathology his work about dissociative disorders and the importance of traumatic relationships, starting from that of disorganized attachment between mother and child, became a classic. In treatment he dealt with the problem of therapeutic alliance, starting from the ability of both therapist and patient to activate and understand different motivational systems, being also able to create a task group of colleagues to assess them during a therapy (AIMIT), whose results were published in researches and books. He taught in Italian and foreign universities, but above all he trained many therapists, helping some to become his co-workers and write articles, books, essays and conduct empirical researches with him.

Gianni was President of our Society (from 2000 to 2006) and most important he was also able to say the right word, advise and suggest a book to everyone. Last but not least he was a man who had lived his family, happiness and pain, and the recent disease  with great humanity and ability to be close and comforting to others as much as possible.

We are crying for his loss and will try being worthy of what he left behind both under a human and cultural aspect.

Michele Procacci,
SITCC – Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva

 

Image: © SIPNEI Società Italiana Psico Neuro Endocrino Immunologia.

L’influenza delle emozioni nell’apprendimento in età evolutiva

Competenza emotiva e apprendimento sono concetti tra loro collegati in quanto entrambi sono considerati processi che hanno luogo nella nostra mente e in grado di influenzarsi reciprocamente.

Federica Liso – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Numerose ricerche, promosse negli ultimi anni in Italia, hanno indicato che i giovani si avvicinano all’età adulta con grosse carenze in relazione alla competenza emotiva, all’autocontrollo, alla capacità di gestire la propria collera e all’empatia. La scuola diventa un osservatorio privilegiato per l’analisi e la valutazione delle dinamiche emotive e cognitive implicate nei processi di sviluppo, siano essi funzionali o meno. L’intento è di avvalorare l’importanza che le emozioni rivestono in ambito evolutivo e come esse influenzano direttamente i processi cognitivi e l’apprendimento.

Che cos’è un’emozione?

Ogni giorno ciascuno di noi prova emozioni più o meno intense. È un’esperienza altrettanto comune condividerle con gli altri, sapendo di essere prontamente compresi quando si racconta di avere provato paura, rabbia, odio o gioia, fino al punto che definirle diventa superfluo.

In psicologia, con il termine emozione ci si riferisce a un fenomeno o processo complesso, ben definito che ha una durata nel tempo, risultato di una valutazione di eventi esterni o interni all’individuo, detti “eventi emotigeni”. Questi sono caratterizzati da modificazioni fisiologiche di intensità variabile, da particolari quadri espressivi mimico – motori e da precise tendenze a compiere determinate azioni (Lewis, Haviland – Jones, Barrett, 2008).

La maggior parte degli studiosi considera le emozioni come risposte caratterizzate da una certa intensità e durata, parametri che consentono di distinguere le emozioni dalle risposte riflesse o dagli stati dell’umore (di più lunga durata) (Grossi, Troiano, 2009).

Le emozioni possono essere definite come stato (una persona arrabbiata è in stato di collera), come processo (dinamica complessa di interazione tra cognizione, fisiologia e eventi sociali) ed infine come indiretta fonte di conoscenza (indiretta, in quanto non richiede informazioni) (Oatley K., Johnson – Laird, P.N., 1987).

Gli studiosi, appartenenti alla tradizione cognitivista, hanno introdotto una dimensione propriamente psicologica nello studio sperimentale delle emozioni, a lungo oggetto d’indagine quasi esclusivo della fisiologia umana, soffermandosi sulle diverse componenti del processo emotivo, da quelle cognitive a quelle espressive e motorie. Uno schema del processo emotivo, che si colloca nella tradizione della psicologia cognitiva, è il seguente:

competenza emotiva apprendimento

L’ emozione è un processo multicomponenziale, caratterizzato dal rapporto fra diverse componenti, come la valutazione cognitiva di un evento, l’attivazione fisiologica, l’espressività, il comportamento o la tendenza a compiere certe azioni. Tutte queste dimensioni, pur presentando complessi rapporti di interdipendenza, sono tra di loro distinte e non sono necessariamente presenti in ogni esperienza emotiva e in ogni individuo.

Lo sviluppo emotivo

Prima di introdurre il concetto di competenza emotiva, sarebbe preferibile delineare cosa si intende per sviluppo emotivo. Già Darwin, nella sua opera “The expression of the emotions in man and animals”, metteva in evidenza due questioni fondamentali: da un lato la modalità di espressione delle emozioni negli esseri umani e negli altri animali e dall’altro ciò che concerne l’origine delle emozioni stesse. Si arrivò, così, a proporre una tassonomia dettagliata delle espressioni emotive, facendole derivare in gran parte da abitudini espressivo–comportamentali che nel lontano passato della specie umana hanno avuto scopi evolutivi fondamentali.

Sroufe supponeva, invece, che ci siano stretti legami tra componenti di diversa natura, ma riferite allo sviluppo emozionale, cognitivo, sociale ed affettivo. Dunque, è proprio secondo questa concettualizzazione, che l’emozione si colloca alla base dei processi sociali e cognitivi, indagando, così le funzioni sociali delle emozioni e come esse assumano il loro significato nelle transizioni quotidiane, negli scambi interpersonali dai quali gli individui hanno bisogno di emergere sentendosi adeguati ed efficaci (Sroufe, 2000).

La psicologia dello sviluppo, a impostazione sociocostruzionista ha approfondito la funzione di modulazione o regolazione delle emozioni che non sarebbero importanti solo per la sopravvivenza e la salvaguardia del sé, ma soprattutto in rapporto ai “sistemi motivazionali interpersonali” (SMI) che Liotti ha delineato come cinque sistemi a base innata che entrano in gioco nell’interazione sociale e riguardano l’attaccamento, la competizione agonistica, l’accudimento, la cooperazione e l’attività sessuale. Ognuno di questi cinque sistemi motivazionali interpersonali sarebbe attivato e disattivato da precise condizioni: il sistema di attaccamento può essere attivato dal senso di solitudine e disattivato dal conseguimento della vicinanza protettiva di una persona disponibile; il sistema di accudimento può essere attivato dalla richiesta di protezione da parte di un membro del gruppo sociale e disattivato dal segnale di sollievo provenienti da questi. Si sottolinea, così, la natura interpersonale e relazionale di tali sistemi e del loro funzionamento (Liotti, 2001). In questo contesto, le emozioni sono diversamente presenti in funzione delle differenti situazioni di attivazione motivazionale. L’aspetto interessante di questa prospettiva teorica (Liotti, 2005) è la funzione sociale delle emozioni, che caratterizza anche la ricerca sulla competenza emotiva: le emozioni modulano e orchestrano le nostre interazioni quotidiane e influenzano i nostri incontri con l’altro.

Competenza emotiva vs Competenza sociale

Già in età prescolare, i bambini sono esperti in diverse abilità costituenti la competenza emotiva (Dunn, 1994); sono in grado per esempio di discernere i propri e gli altrui stati emotivi, di parlare di questi stati in maniera scorrevole ed, ancora, iniziano a controllare le proprie emozioni a seconda dell’obiettivo che vogliono raggiungere (S. Denham e coll., 2003).

Competenza emotiva e sociale sono altamente connesse tra loro, anche se sono costrutti tra loro separabili. Se un bambino entra a scuola ed è ben gradito dagli amici, è capace di fare e mantenere nuove amicizie, di instaurare rapporti positivi con i suoi insegnanti, si sente più positivo e partecipa maggiormente all’attività scolastica, oltre a riscuotere un successo maggiore tra i pari. Al contrario, un bambino che frequenta la scuola materna ed è ostile nei confronti dei suoi pari o è aggressivo, presenta più problemi di adattamento scolastico ed è a rischio di una potenziale miriade di problemi, ivi compresi le difficoltà scolastiche, delinquenza e l’abuso di droghe (Gagnon, Craig, Tremblay, Zhou, Vitaro, 1995).

In particolare, in uno studio di Denham e coll. si è esaminata la competenza emotiva e sociale di 143 bambini dai 3 ai 4 anni di etnia prevalentemente caucasica, appartenenti a famiglie di medio reddito, in un progetto che prevede più ambienti e metodi (età: M = 46 mesi, SD = 4,88 mesi, fascia = 32–59 mesi) al momento dell’osservazione in età prescolare. La fascia di reddito annuale media per queste famiglie era compresa tra i 30.000 e 50.000 dollari. Del campione totale, il 74% è stato considerato di etnia caucasica. Per le madri, il livello di istruzione è rappresentato dalla laurea; mentre l’88% dei bambini viveva in casa con entrambi i genitori. Durante la frequenza dell’anno di scuola materna, si è riuscito a ristabilire i contatti con solo 104 di questi bambini, ma non esisteva alcuna differenza in ciascuna variabile di studio misurata, quando i bambini avevano un età compresa tra i 3 e i 4 anni tra quelli, che hanno continuato lo studio durante l’asilo e quelli che non l’hanno continuato. Al fine di ottenere tali risultati, sono stati intervistati ed osservati i bambini, oltre ad aver somministrato dei questionari ai loro genitori e agli insegnanti di scuola dell’infanzia o d’asilo nido. Pertanto, sono stati considerati vari aspetti della competenza sociale dei bambini in due periodi di tempo, durante gli anni di scuola materna e d’asilo nido. Le varie scuole materne e gli asili nidi, situati nell’area metropolitana di Washington D.C. sono state scelte, sulla base di rapporti passati e del desiderio di partecipare da parte del dirigente. I t test, che mettono a confronto l’attuale campione e due campioni iniziali sulle variabili demografiche, non hanno dimostrato alcuna differenza a livello medio dei campioni. Pertanto, i ricercatori sono giunti alla conclusione che il basso tasso di partecipazione al medesimo studio non ha comportato deviazioni. Sia le madri sia gli insegnanti hanno completato un questionario; mentre i bambini sono stati osservati nelle loro scuole per la loro capacità di esprimere le emozioni e le reazioni davanti alle emozioni dei pari. Il gruppo dei partecipanti nel complesso appariva positivo in termini di competenza emotiva e sociale: i profili emotivi dei bambini hanno mostrato una prevalenza di episodi di felicità, con qualche episodio di rabbia e pochi di tristezza in età prescolare, inoltre hanno mostrato buoni livelli di comprensione emotiva per le loro età. La competenza emotiva in età prescolare ha dato dei contributi in merito alla competenza sociale nella suddetta fascia d’età, indicando che le capacità di competenza emotiva, acquisite dai 3 ai 4 anni, diventano stabili, con una continua importazione di idee e abilità (S. Denham, 2003).

L’espressione delle emozioni e il suo sviluppo

Uno degli aspetti fondamentali dell’interazione sociale umana è la comunicazione delle emozioni, ottenuta principalmente attraverso lo scambio di una serie di segnali sociali, come le espressioni facciali. Deham (2003), infatti, afferma che, per poter provare un’emozione (ad esempio, la collera), debba esserci una costellazione di espressioni vocali, facciali e corporee, detta nucleo di continuità emotiva, a cui sono associati significati, scopi e vantaggi. Tale costellazione sarà specifica per ogni emozione anche a età differenti del ciclo di vita: ad esempio, una persona arrabbiata, sia che abbia tre anni sia che ne abbia venti, esprimerà la collera modulando la voce sui toni bassi, come se ringhiasse, aggrottando le sopracciglia e guardando furiosamente l’oggetto della sua rabbia.

La competenza emotiva a livello espressivo costituisce un elemento importante a età diverse: se nella primissima infanzia rappresenta la base del dialogo emotivo preverbale, con il crescere dell’età garantisce il buon andamento degli scambi sociali, consentendo di affrontare le relazioni interpersonali attraverso la regolazione delle proprie emozioni.

La comprensione delle emozioni e il suo sviluppo

Gli esseri umani devono comprendere che è possibile esprimersi emotivamente attraverso l’uso di diversi canali comunicativi e sviluppare una vera e propria conoscenza delle emozioni di cui fanno esperienza. Comprendere le emozioni proprie e altrui vuol dire dare significato a eventi interni, o stati mentali di natura emotivo–affettiva e sviluppare una concezione della “mente emotiva” che ha la funzione di orientare le azioni dell’individuo durante gli scambi sociali (Harris P. L., 1995).

La maggior parte della vita quotidiana degli individui è caratterizzata dalla necessità di riconoscere che gli altri hanno intenzioni, desideri, stati d’animo, speranze, sentimenti e che le loro azioni sono motivate da tali stati mentali non direttamente osservabili e nonostante ciò deducibili da comportamenti manifesti. Se, ad esempio, un bambino osserva un compagno piangere sconsolato in un angolo della classe, sarà portato a collegare questo comportamento a uno stato di delusione, oppure a un sentimento di intensa paura. Parimenti, nell’osservare l’espressione adirata di un altro compagno a cui ha sottratto un gioco potrà prevedere un suo attacco fisico o verbale per riappropriarsi di quanto gli appartiene. Nel primo caso, a un comportamento farà corrispondere un presunto stato interno, mentre nel secondo a uno stato interno farà corrispondere un successivo comportamento, in ogni caso ciò sarà possibile perché il bambino possiede una teoria della mente, ovvero una concezione più o meno articolata del ruolo degli stati mentali nella vita delle persone.

La regolazione delle emozioni e il suo sviluppo

La competenza emotiva, oltre all’espressione e alla comprensione, include la regolazione delle emozioni, ossia un’attività psichica complessa e articolata che rappresenta un requisito importante del buon funzionamento sociale. Dalle numerose ricerche condotte risulta che i bambini, già a partire dai tre mesi, modificano le proprie emozioni in risposta al mutamento di quelle materne, adottando condotte di regolazione emotiva in situazioni di stress (Frijda, 1986).

Il trasferimento della regolazione emotiva dal caregiver al bambino stesso è un importante compito evolutivo che impegna il piccolo durante l’infanzia e oltre, non raggiungendo forse mai, nel corso della vita, una conclusione definitiva con la piena autosufficienza emotiva.

Intelligenza emotiva

L’intelligenza emotiva ha a che fare con il ragionamento emotivo della vita quotidiana in quanto le emozioni forniscono importanti conoscenze sulla relazione della persona con il mondo esterno.

Daniel Goleman è lo psicologo che ha contribuito, più di tutti, a divulgare il concetto di intelligenza emotiva, intesa come: la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la giustificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare. Dunque, per Goleman, l’intelligenza emotiva è più importante del QI nel predire il successo nella vita (Goleman D., 2011).

Emozioni e apprendimento

Dopo aver definito il concetto di emozione ed il legame che si instaura con l’intelligenza emotiva, si passa a definire l’ apprendimento, come un processo mediante il quale si acquisiscono nuove conoscenze ed in cui confluiscono diversi aspetti: strategie cognitive personali, stili di apprendimento, esperienze individuali e collettive, fenomeni dell’ambiente circostante, informazioni e stimoli provenienti dalla realtà esterna, modelli, etc.

Il processo di costruzione del sistema di conoscenza è determinato, per ogni individuo, dall’intreccio di componenti intuitive, quantitative e qualitative, sotto l’influenza di condizionamenti sociali, culturali ed emotivi.

Ogni apprendimento, inteso come un processo complesso e multi determinato, deve tener conto delle esperienze relazionali del bambino all’interno del suo nucleo familiare, nel gruppo dei pari, nella realtà scolastica. È la qualità dei rapporti che influenza l’apertura, la curiosità verso nuove esperienze, la capacità di percepire le connessioni e di scoprire i loro significati. Se da un lato, le relazioni inadeguate portano a una costruzione instabile della realtà e quindi possono produrre disturbi delle categorie di spazio, tempo, causalità, dall’altro, le difficoltà di linguaggio, di apprendimento tendono a causare disturbi emotivi e comportamentali, che aumentano con l’età.

Emozioni e apprendimento sono, dunque, concetti collegati, in quanto entrambi sono considerati processi che hanno luogo nella nostra mente. Apprendere significa acquisire conoscenze o competenze. L’ apprendimento richiede di pensare e i pensieri influenzano direttamente i vissuti emotivi. Il legame tra queste due dimensioni è evidente nel momento in cui si valuta come ci si sente quando si apprende. Molti studi confermano l’ipotesi, secondo cui lo stato d’animo attuale è influenzato dal modo di pensare, dal modo di percepire gli eventi, da ciò che viene ricordato e dalle decisioni che si prendono (Goleman, 1999; Mayer, 1983). Poiché non si è in grado di vedere direttamente le emozioni provate, queste si possono inferire solo attraverso il comportamento, interpretabili dalla visione soggettiva degli eventi stessi.

Le emozioni negative possono essere la causa o l’effetto delle difficoltà di apprendimento. Ansia o depressione, rabbia o frustrazione possono interferire con l’ apprendimento creando disadattamento. L’espressione difficoltà di apprendimento, si riferisce, generalmente, a tutti quegli ostacoli che gli alunni riscontrano nel processo di apprendimento dei contenuti disciplinari, con esiti significativamente negativi nei risultati scolastici. In uno studio di D’Andreagiovanni, Giammario e Addario (2002), si è indagato circa le nuove ricerche in campo psicologico e pedagogico con una più efficace prassi educativo–didattica finalizzata all’integrazione scolastica (Goleman, 1999; Mayer, 1983). Partendo dal concetto di QI (quoziente intellettivo) e di QE (quoziente emotivo), nonché dalla differenza diagnostica tra il DAA (disturbo di apprendimento aspecifico) e il DSA (disturbo di apprendimento specifico), si è prefissato di ottimizzare l’integrazione scolastica del bambino o preadolescente con l’eventuale disturbo di apprendimento. L’obiettivo è di formulare con esattezza una eventuale diagnosi differenziale del DAA, la cui natura è prevalentemente di ordine emotivo–relazionale, ma le cui manifestazioni sintomatiche nell’area dell’apprendimento sono spesso simili a quelle riscontrate nel DSA, la cui eziologia è di natura neuropsicologica (Kline, 1996; Tressoldi,1999). Nella scuola, infatti, si assiste spesso ad una confusione tra i diversi aspetti diagnostici (depressioni infantili e comportamenti iperattivi) con ricadute negative sulla gestione/integrazione del soggetto e sulle programmazioni e valutazioni didattiche. Si è visto che, in 30 casi si è verificata una discrepanza tra il QI ottenuto con la scala WISC e il QI ottenuto con il test della figura umana. Questo potrebbe essere spiegato dalla presenza di fattori psicogeni – emotivi che guidano verso un DAA. Ci potrebbe essere una disfunzione nella working memory a causa, ad esempio, di traumi, forti disagi emotivi, inibizioni, tendenze alla depressione infantile, iperattività secondaria etc., che possono avere effetti determinanti sull’ apprendimento simili a quelli prodotti dalle disfunzioni neuropsicologiche specifiche. Ne emerge, così, un quadro clinico maggiormente attendibile che permette agli operatori di programmare attività didattiche più adeguate e funzionali, che finiscono con avere una ricaduta notevole anche sulla stessa autostima.

Il concetto di finestra di tolleranza e il lavoro di Siegel

Daniel Siegel, autore statunitense di fama mondiale, è riuscito a rendere divulgabili alcune idee relative a complessi concetti psicopatologici come la regolazione emotiva e la neurobiologia interpersonale. A lui si deve in particolare il concetto di finestra di tolleranza

 

Siegel ha costruito l’intero suo impianto teorico intorno al concetto di integrazione. La sua idea di integrazione si appoggia su una visione multi-componenziale del cervello, gerarchicamente costruito su livelli diversi e differenziato nei suoi emisferi destro e sinistro.

All’interno dei suoi lavori, l’autore spiega come la salute psichica coincida con la possibilità di utilizzare in modo integrato e fluido tutte le componenti e le funzioni del cervello. Per fare questo, parte della semplice ma fondamentale teoria del cervello tripartito di McLean, secondo cui esistono tre strutture, evolutivamente comparse in modo sequenziale nel corso dello sviluppo del cervello umano: il troncoenecefalo, evolutivamente più antico e primevo; il sistema limbico sottocorticale e la neo-corteccia, ultima in termini di tempistiche evolutive.

Il contributo specifico di Daniel Siegel alla Psicologia

Siegel nei suoi lavori indaga ciò che ritiene essere alla base della sofferenza psichica in senso allargato: la mancanza cioè di integrazione. Integrazione di parti del Sé, integrazione della coscienza, integrazione tra strutture cerebrali più antiche e più recenti, integrazione tra funzionamento destrorso o “sinistro” del cervello.

Sulla scia di molteplici autori impegnati nello studio delle stesse problematiche, Daniel Siegel approfondisce questioni focali della disciplina psicotraumatologica, come il fenomeno della dissociazione a seguito di traumi cumulativi o grandi traumi, e le conseguenti ricadute in termini di sintomi clinici. Per fare questo, oltre alla sopra citata teoria del cervello tripartito di McLean, il suo lavoro si appoggia sulle teorie più recenti relative allo stile di attaccamento, gli studi di neurobiologia relazionale e le recenti derive della psicoterapia cognitiva in ambito di tecniche di rilassamento/meditative prese a prestito dalla cosiddetta psicologica “buddhista”, per esempio la mindfulness.

Il concetto di finestra di tolleranza

Tra i suoi principali contributi, Daniel Siegel ha il grande merito di aver introdotto il concetto di finestra di tolleranza, di grande rilevanza clinica e facilmente divulgabile e utilizzabile con i pazienti durante le sedute. Qui di seguito un’immagine esplicativa:

Siegel finestra di tolleranza

Il concetto di finestra di tolleranza va spiegato in relazione al concetto di disregolazione emotiva, fenomeno molto frequente nella pratica clinica e per questo di grande rilevanza soprattutto nel trattamento di pazienti difficili.

La linea sinusoidale che si osserva tra le due linee orizzontali segnalate dalle due frecce, rappresenta il tono di attivazione neuro-fisiologica con le sue normali fluttuazioni. Nel corso della giornata, il nostro stato di arousal si muove a tratti verso l’alto (tendendo allo stato di iper-arousal) e a tratti verso il basso (ipo-arousal), contestualmente a situazioni percepite più o meno “attivanti” o più o meno “calmanti”.

Fluttuare all’interno della finestra di tolleranza è totalmente normale, fino al punto in cui per varie ragioni il tono di arousal non superi verso l’altro o verso il basso i confini della finestra di tolleranza: in quel momento inizia il senso di “disregolazione”, percepito soggettivamente come un senso di essere “fuori controllo” (troppo agitati/ansiosi/attivati) o al contrario troppo “scarichi”o apatici (lo stato di ipo-arousal) e accompagnato da uno stato di profondo malessere soggettivo psichico, da cui si tenta di fuoriuscire.

Secondo questa rappresentazione del malessere psichico, indotto da una disregolazione del tono di attivazione neuro-fisiologica, il problema consiste nell’incapacità di trovare strategie di regolazione emotiva che consentano all’individuo di ri-entrare all’interno della finestra di tolleranza quando ci si trova al di fuori, sia in termini di iper o di ipoarousal.

Il concetto di regolazione/ disregolazione emotiva e le strategie di mastery

Siegel nei suoi lavori spiega con chiarezza come ognuno trovi le sue proprie strategie di regolazione emotiva per rientrare all’interno della finestra di tolleranza in questi momenti di profondo dolore psicologico. Queste strategie sono chiamate tecnicamente strategie di mastery, termine inglese utilizzato per descrivere il senso di padronanza, cioè la “sensazione di avere il controllo” sulla propria vita, sulle proprie risorse e le proprie mancanze, sensazione molto piacevole e associata spesso a un senso di euforia e progettualità. Siegel parla di strategie di mastery intendendo con questo tutto ciò che consente ad un individuo di riappropriarsi del controllo sulla propria emotività, di calmarsi quando troppo “attivato” o di attivarsi quando troppo “apatico”, rientrando metaforicamente all’interno della finestra di tolleranza.

In merito a questo tempo, è importante anche il contributo di Antonio Semerari (2003) che, sulla scia di molteplici altri autori, spiega come esistano diverse tipologie di strategie di mastery, aventi un diverso livello di raffinatezza ed efficacia e raggruppabili genericamente in tre tipologie/livelli:

  • Strategie di mastery di I livello. Attraverso queste strategie, l’individuo sperimenta un effetto regolativo sulle proprie emozioni veementi attraverso l’utilizzo del corpo. A questo livello appartengono, ad esemprio, le pratiche sportive usate in senso regolativo (per calmarsi quando si è troppo attivati, o per “darsi una scossa” quando troppo apatici, per esempio), ma anche l’utilizzo di sostanze a fini auto-terapeutici. Genericamente si può affermare che tutto ciò che passa attraverso il corpo e che abbia un effetto regolativo rappresenta una strategia di mastery di I livello. Facendo un esempio concreto, un ragazzo che utilizzi cannabis per placare alcuni stati di ansia o attivarsi quando depresso, o un cocainomane che voglia sfuggire da stati di vuoto/depressivi, utilizzano questo tipo di strategie.
  • Strategie di mastery di II livello. Le strategie di II livello passano attraverso l’interazione sociale: l’individuo utilizza il contatto con l’altro per regolare stati di ansia/iper-arousal o al contrario stati di depressione/ipo-arousal. SI tratta di una modalità regolativa dialettica, che contempla la presenza dell’altro, che viene ricercato attivamente attraverso per esempio una telefonata, un’uscita, un gesto di ricerca di contatto. Attraverso queste strategie di regolazione emotiva il tono di attivazione neuro-fisiologica viene fatto rientrare all’interno della finestra di tolleranza a partire da un momento di condivisione. Queste strategie di mastery sono considerate più evolute rispetto alle precedenti e, in un ideale percorso di “maturazione” psicologica (per esempio nel contesto di un percorso di psicoterapia), l’utilizzo di strategie di mastery di II livello da parte del paziente è da considerarsi un passo avanti per quanto riguarda la capacità di auto-regolazione emotiva.
  • Strategie di mastery di III livello. Le strategie di III livello consentono alla persona di auto-regolare la propria attivazione (o disattivazione) neuro-fisiologica a partire da un lavoro solamente interiore. Non è necessario né passare attraverso il corpo, né appoggiarsi ad un’altra persona per regolare il proprio stato emotivo. Chi utilizza questa tipologia di strategie di mastery riesce, attraverso un lavoro interiore (visualizzazioni, dialogo interno rassicurante e contenitivo, il sapersi spiegare le ragioni sottese al momento disregolativo, etc.), a ritornare autonomamente all’interno della finestra di tolleranza. Sono le strategie di regolazione emotiva più evolute e sofisticate. Rappresentano un punto di arrivo nel percorso relativo alla capacità di auto-regoalzione, di fondamentale importanza nel corso dello sviluppo e nel contesto di una psicoterapia.

Altro aspetto da mettere in rilievo a proposito della finestra di tolleranza, è la sua ampiezza. Dopo la nascita, l’ampiezza della finestra di tolleranza è minima: qualunque sovra o sotto-attivazione neurofisiologica vissuta dal bambino lo porterà a uscire dalla finestra (essendo la sua ampiezza molto ridotta) creando sofferenza psichica. La capacità di sopportare la frustrazione di un bambino piccolo, come sappiamo, è minima. Uno sviluppo equilibrato, insieme ad un’educazione fornita dai caregivers che mira alla gestione dello stato di frustrazione, significheranno per lui ampliare la sua finestra di tolleranza, imparando a reggere sbalzi emotivi di portata più ampia senza però arrivarne a soffrirne.

Nel discorso quindi relativo alle competenze di auto-regolazione emotiva, è importante considerare due aspetti portanti:

  1. La regolazione emotiva permette all’individuo di riportare il tono di attivazione neuro-fisiologica all’interno della finestra di tolleranza, verso il basso quando in fase di iper-arousal e verso l’altro se in ipo-arousal. Le strategie per fare questo vengono chiamate strategie di mastery e sono più o meno sofisticate. Genericamente diciamo che un individuo il cui tono di attivazione neuro-fisiologica stia all’interno della finestra di tolleranza, non soffre per questioni relative a disregolazione emotiva: non sarà dunque in balia di emozioni veementi come rabbia o profonda tristezza, ma riuscirà a percepirle in sè sufficientemente regolate da essere psicologicamente tollerabili.
  2. Per sentire un senso di controllo e di “sovranità” sulle proprie emozioni senza che queste diventino veementi o soverchianti, è importante ampliare l’ampiezza stessa della finestra di tolleranza cosicchè per fuoriuscire dai confini della stessa sia necessario un livello di iper o ipoattivazione molto maggiore. A parità di stressor, persone diverse si “regoleranno” in modi diversi, a seconda di quanto ampie saranno le rispettive finestre di tolleranza a consentirgli di mantenere il senso di mastery. La maturazione interiore, un percorso di psicoterapia, l’uscire rinforzato da esperienze difficili: tutti questi sono esempi di situazioni di ampliamento della finestra di tolleranza che ci rendono maggiormente schermati di fronte agli sbalzi neurofisiologici seguenti a eventi più o meno stressanti.

Multitasking e media multitasking: gli effetti su lavoro e apprendimento

Il multitasking, ovvero l’esecuzione di due compiti simultaneamente, è un fenomeno divenuto ormai consueto nella società odierna ed è considerato un modo per massimizzare i risultati. Molti ricercatori ne stanno però mettendo in dubbio l’efficienza.

 

Nell’ambito scolastico e in quello lavorativo il multitasking si è diffuso in maniera esponenziale ed è considerato da un vasto numero di persone una pratica utile per velocizzare e aumentare l’efficacia del proprio operato. Tuttavia molti ricercatori, attraverso l’analisi delle conseguenze che si verificano sull’attenzione e le prestazioni da essa dipendenti, esprimono pareri opposti circa la sua efficienza. Sappiamo infatti che le risorse attentive del nostro sistema cognitivo sono limitate e dunque un carico eccessivo di materiale da elaborare può condurre a un decremento nella performance di più compiti eseguiti simultaneamente.

Lo svolgimento di un compito presuppone un controllo cognitivo che può essere soggetto a interferenze ambientali, quindi la capacità di rimanere concentrati sugli stimoli target escludendone altri, inibendo inoltre certi tipi di risposte inappropriate, è la condizione necessaria per una corretta esecuzione. Pare quindi scontato ritenere l’unitasking (o single-tasking) il modo più efficace di lavoro; eppure il multitasking ha acquisito negli anni un valore tale da ritenerlo il modo migliore di approcciarsi alla moltitudine di attività alle quali la società moderna ci espone e alle quali difficilmente sappiamo (o vogliamo) sottrarci.

Multitasking e dispositivi tacnologici: il media multitasking

Il multitasking come fenomeno di massa è stato inoltre favorito dalla velocità con cui si sono diffusi i dispositivi tecnologici sia in ambito lavorativo che privato, per cui oggi si parla di media multitasking, definibile come lo svolgimento di due o più compiti, uno dei quali implica l’uso di un mezzo tecnologico (Lang & Chrzan, 2015). Laptop, smartphone e tablet hanno reso le comunicazioni istantenee, i compiti più veloci ed in generale hanno semplificato molti aspetti della nostra vita quotidiana, creando però un ambiente di enorme distraibilità. È proprio da questa constatazione che emerge il bisogno di studiare il multitasking e le ripercussioni che può avere sulle funzioni cognitive di un individuo, al fine di valutarne le conseguenze (positive/negative) sull’apprendimento (es: scuola, università) e sulla qualità delle prestazioni (es: la produttività di un lavoratore in un’azienda).

Media multitasking: effetti sull’ attenzione

Uno studio di Ophir e collaboratori (Ophir et al., 2009), ha mostrato quanto l’utilizzo costante del media multitasking conduca a un considerevole decremento dell’ attenzione e quindi ad una maggiore probabilità di distrarsi e di peggiorare le prestazioni a compiti che implicano il controllo cognitivo. Nello specifico, i ricercatori hanno reclutato un campione di soggetti suddividendoli (attraverso un questionario sviluppato dagli stessi autori) in due gruppi, uno costituito da individui che si servono in modo eccessivo del media multitasking (heavy media multitaskers), l’altro formato da individui che ne fanno uso moderatamente (light media multitaskers). In un secondo momento ad entrambi i gruppi è stato chiesto di sottoporsi ad una serie di compiti volti a valutare alcuni domini cognitivi (allocazione/filtraggio dell’ attenzione, switching, memoria di lavoro). I risultati ottenuti confermano quanto un uso esagerato del media multitasking induca un calo notevole nella qualità delle prestazioni dal momento che i soggetti “heavy” sono risultati essere maggiormente suscettibili alla distrazione (difficoltà nel discriminare stimoli rilevanti da quelli irrilevanti per l’esecuzione del compito), mostrando problemi nello spostare l’ attenzione da certe informazioni ad altre e nell’inibire risposte inappropriate, riportando inoltre un deficit nella gestione di rappresentazioni multiple nella memoria di lavoro.

Multitasking e media multitasking a scuola

Le indagini condotte nell’ambito dell’ apprendimento accademico hanno rivelato che da un lato l’introduzione dei dispositivi tecnologici come ausilio alla didattica (es: presentazioni in PowerPoint) ha favorito un aumento di motivazione, soddisfazione ed impegno tra gli studenti, dall’altro invece l’utilizzo dei laptop da parte dei ragazzi ha costituito una fonte irresistibile di distrazione. Sono molti infatti gli studenti che dichiarano di servirsi del media multitasking durante le ore di lezione, prendendo ad esempio appunti con i propri computer portatili e cedendo inevitabilmente alla tentazione di collegarsi ai social media (Facebook, Instagram ecc.). Il media multitasking in classe correla con un calo dell’ apprendimento che si traduce in una difficoltà di comprensione del materiale scolastico e, in generale, di un decremento nelle prestazioni accademiche.

Il fenomeno del media multitasking all’interno delle classi è stato dimostrato avere conseguenze negative in quanto la presenza di laptop può causare un decremento nell’apprendimento non solo al diretto utilizzatore, ma anche ai compagni che si trovano vicini nello spazio. Sana e colleghi (Sana et al., 2013) hanno condotto una ricerca attraverso due esperimenti mirati a verificare quanto il media multitasking durante le ore di lezione sia dannoso per gli studenti. Nel primo esperimento, due gruppi randomizzati di studenti universitari hanno assistito ad una lezione in classe e ad una metà di loro è stato chiesto in aggiunta di completare una serie di compiti online. Successivamente tutti i partecipanti sono stati sottoposti ad una verifica di comprensione del materiale (domande a risposta multipla e quesiti in cui è necessario applicare i concetti appresi durante la lezione per risolvere nuovi problemi) ed è stato osservato un punteggio significativamente più basso nel gruppo impegnato con il multitasking.

Media mutlitasking: conseguenze anche per i compagni che usano carta e penna

Sono stati poi reclutati nuovi studenti per partecipare ad un secondo esperimento in cui veniva chiesto loro di assistere ad una lezione (la stessa del primo esperimento) e prendere appunti con carta a penna: alcuni di loro erano strategicamente seduti in modo da poter vedere alcuni compagni impegnati nel multitasking sui loro computer portatili (a cui era stato chiesto di navigare in internet a loro piacimento e fingere di prendere appunti sulla lezione in corso), altri invece erano disposti in modo da non avere alcun tipo di distrazione digitale. Alla fine della lezione è stato condotto il test di verifica di comprensione del materiale; in aggiunta, agli studenti soggetti alla vista dei multitaskers, sono state poste domande in cui veniva chiesto quanto, secondo loro, fossero stati distratti nel vedere i compagni impegnati nell’utilizzo della tecnologia e quanto questo avesse ostacolato l’apprendimento del materiale. I risultati del test di verifica mostrano una performance significativamente peggiore da parte degli studenti esposti alla vista dei compagni impegnati nel media multitasking rispetto a coloro che erano lontani dalle fonti di distrazione; inoltre gli studenti esposti alla tecnologia dei compagni hanno ritenuto di essere stati distratti, ma non in modo eccessivo. Gli esperimenti di Sana e collaboratori confermano quindi lo svantaggio che deriva dall’utilizzo del media multitasking durante l’apprendimento di nuovo materiale, il cui effetto negativo si estende anche a chi si trova fisicamente vicino.

Nonostante sia largamente dimostrato dalla ricerca scientifica che l’essere umano possiede risorse attentive limitate e che occuparsi di due o più compiti simultaneamente può compromettere la qualità della prestazione, il multitasking viene oggigiorno considerato un modo efficace di approcciarsi ai molteplici compiti a cui l’individuo viene sottoposto quotidianamente. Non è ancora possibile stabilire con certezza se l’efficacia del multitasking sia un mito da sfatare o meno. È presumibile che questa modalità di lavoro abbia effetti altamente dannosi quando tutti i compiti richiedono la stessa quantità di attenzione e che invece la prestazione non risenta di alcun effetto negativo se i compiti secondari sono meno impegnativi rispetto al compito principale. Sarà dunque opportuno proseguire con la ricerca al fine di stabilire gli effetti del multitasking e come essi varino a seconda delle condizioni prese in esame.

Un selfie al giorno toglie lo psicologo di torno: gli effetti positivi della condivisione di foto sui social network

Scattarsi una foto al giorno e pubblicarla sui social network sembra favorire il proprio benessere personale.

 

Sul social network Instagram è possibile trovare milioni di foto sotto il tag #365. In questo modo, milioni di utenti pubblicano quotidianamente foto, condividendole con i propri amici o con un pubblico virtuale ben più vasto del giro di amicizie “reali”.

Così come avviene su Instagram, anche su social meno conosciuti in Italia, come Blipfoto, si verifica lo stesso fenomeno digitale.

Partendo da questa evidenza empirica, il dott. Liz Brewster della Lancaster University ed il dott. Andrew Cox della Sheffield University si sono interessati al fenomeno.

Lo studio sperimentale

I ricercatori hanno registrato, per due mesi, le foto scattate quotidianamente da 30 persone reclutate attraverso la pagina Facebook “friends of Blipfoto”. Inoltre, sono stati analizzati anche il testo inserito a capo della foto e le modalità con le quali i soggetti hanno interagito con gli altri utenti.

Da queste osservazioni etnografiche, supportate da interviste approfondite, è emerso che scattarsi una foto al giorno sembra migliorare il benessere nelle dimensioni della cura di sé, dell’interazione sociale, della riflessione su se stessi e dell’esplorazione delle novità.

I partecipanti allo studio hanno usato le proprie foto quotidiane per documentare ed adottare un atteggiamento riflessivo verso se stessi e tale atteggiamento è ritenuto dagli utenti stessi una forma di miglioramento del proprio benessere.

Lo studio inquadra il miglioramento del benessere come un processo attivo da parte dei soggetti, i quali creano significati e nuove concettualizzazioni di “salute”.

Volendo implementare lo studio, i ricercatori ritengono sia utile avere ulteriori dati sul contesto di vita dei partecipanti per comprendere meglio le aspettative sul proprio benessere. Sarebbe inoltre opportuno raggiungere un ampliamento del campione al fine di ottenere risultati più facilmente generalizzabili rispetto alla popolazione generale.

Quello che si augurano gli autori del presente studio è che i risultati possano aprire le porte ad ulteriori studi legati alle pratiche digitali.

Contesti di sviluppo della competenza sociale: la famiglia e il gruppo dei pari

Allo sviluppo sociale dei bambini concorrono in maniera ugualmente importante il rapporto con i genitori e la propria famiglia e il rapporto che, più avanti, si viene ad instaurare con il gruppo dei pari.

Valentina Pastore – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

Il bambino, già alla nascita, dispone di caratteristiche che lo predispongono alla costruzione di rapporti affettivi con gli altri. La famiglia è il primo contesto utile per la crescita fisica e lo sviluppo sociale del bambino. Le famiglie sono l’ambito ideale per l’educazione dei bambini: sono piccoli gruppi intimi, che facilitano l’apprendimento di regole di comportamento coerenti, sono inoltre legate a vari ambienti esterni nei quali i bambini possono essere gradualmente introdotti.

La famiglia è considerata l’unità di base nell’ambito della quale un bambino viene addestrato all’esistenza sociale (Schaffer, 1998). Le pratiche educative svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale di un soggetto, poiché contribuiscono a trasmettere valori e norme che porteranno l’individuo a diventare un adulto adeguatamente integrato all’interno della società di appartenenza (Grusec & Goodnow, 1994; Grusec, Goodnow & Kuczynski, 2000; Hoffman, 1994). Infatti il processo di interiorizzazione dei valori e delle norme avviene in un contesto in cui l’interazione delle esperienze sociali di vita dei figli con i genitori e con i pari, si unisce ai processi di strutturazione attiva degli uni e degli altri, che sono a loro volta un prodotto delle situazioni vissute (Wainryb & Turiel, 1993).

Il coinvolgimento di entrambi i genitori nell’educazione dei figli, la disponibilità e il grado di sostegno percepito dai figli, nonché un adeguato livello di comunicazione, sono tutti fattori che vanno a promuovere un sostegno strumentale ed emotivo ai figli (Rodrigo, Maiquez, Garcia et al., 2004). Come conseguenza è necessario adattare gli stili educativi sia alla personalità dei figli che alle esperienze e alle situazioni vissute (Mestre, Tur, Samper, Nàcher & Cortés, 2006).

È stato inoltre dimostrato che i genitori che trasmettono sostegno e affetto ai figli, utilizzano il ragionamento induttivo come tecnica di disciplina, insegnano la comunicazione in ambito familiare e stabiliscono norme di comportamento in famiglia, hanno maggiori possibilità di migliorare la competenza sociale, la collaborazione e l’autonomia nei propri figli (Alonso & Roman, 2005; Lila & Gracia, 2005).

La famiglia costituisce il nucleo primario nello sviluppo personale, emotivo, cognitivo e socio-affettivo del bambino

È proprio all’interno della famiglia che il bambino riceve le prime indicazioni su ciò che è bene fare o non fare, cosa è lecito e cosa invece non lo è, percependo così messaggi riguardo al valore e all’importanza delle proprie azioni.

Al giorno d’oggi i bambini trascorrono molto meno tempo con i genitori rispetto quanto avveniva in passato, ma ciò non significa che la famiglia stia perdendo il suo ruolo fondamentale di agente socializzante, anche se è necessario tenere in considerazione la presenza di altri importanti agenti di socializzazione, come il gruppo dei pari (Mestre, Tur, Samper, Nàcher & Cortés, 2006).

Il ruolo della famiglia nello sviluppo sociale dei propri figli comprende sia gli stili di disciplina adottati dai genitori, sia la trasmissione di rappresentazioni globali del funzionamento della realtà sociale, di conseguenza è possibile affermare che il processo di socializzazione ingloba sia aspetti di contenuto (che riguardano “ciò che si trasmette”) che di forma (che riguarda “come si trasmette”) (Molpeceres, Musitu & Lila, 1994).

Stili educativi e sviluppo sociale

In riferimento agli stili educativi, interessante è la descrizione effettuata dell’autrice statunitense Diana Baumrind (1967). Per l’autrice, i genitori, a seconda delle pratiche educative utilizzate nei confronti dei propri figli, posso essere contemplati in tre categorie (Baumrind, 1967; 1971):

  • Genitori autorevoli o direttivi. In questa categoria rientrano tutti quei genitori che trasmettono norme comportamentali ai figli mediante ragionamenti, non impongono il proprio punto di vista al figlio ma tengono in considerazione il punto di vista di quest’ultimo favorendo in un certo senso l’autonomia nascente. Nello stesso tempo, questi genitori sono in grado di esprimere affetto e sostegno nei confronti dei figli, tenendo in considerazione i loro bisogni e le loro richieste.
    Questo stile educativo favorisce nei figli comportamenti di responsabilità, di indipendenza, di collaborazione e competizione leale con i pari. I bambini che vengono educati attraverso questo stile, manifestano nel tempo una maggiore autostima e autocontrollo, hanno buoni rapporti con i pari e sono orientati a comportamenti positivi (Hetherington & Parke, 1993).
  • Genitori autoritari. Contrariamente ai genitori descritti in precedenza, i genitori autoritari, impongono le norme ai propri figli e tentano di controllare i loro comportamenti mediante divieti e la coercizione sia fisica che verbale. Inoltre non dimostrano nessun interesse per le richieste e i bisogni dei figli, trattandoli con freddezza e dimostrando poco affetto nei loro confronti.
    Risultato di questo stile educativo, sono generalmente bambini tristi, vulnerabili allo stress e con bassa fiducia in se stessi, senza obiettivi precisi che alle volte manifestano condotte aggressive (Ibidem).
  • Genitori permissivi. Quest’ultimo gruppo di genitori utilizza una comunicazione delle regole molto ambigua, bassi livelli di calore emotivo e impartiscono la disciplina in modo incoerente.
    Questo modo di imporre la disciplina, provoca nei figli comportamenti poco equilibrati, bassa autostima, scarso autocontrollo e una tendenza ad essere impulsivi ed arroganti (Ibidem).

L’autrice afferma inoltre l’esistenza di un processo di sviluppo sociale dinamico, influenzato non solo dai genitori ma anche dal comportamento del bambino: attraverso il feedback, questo processo struttura e modifica gli stili parentali in modo da adattarsi alle necessità evolutive del bambino (Baumrind, 1989, 1991).

I risultati empirici hanno dimostrato che gli stili disciplinari non si presentano in modo “puro”, ma che essi si possono modificare e adattare nel tempo ai soggetti e alle circostanze, proprio grazie al loro carattere bidirezionale (Bandura, Caprara, Barbaranelli et al., 2003; Caprara & Zimbardo, 1996; Darling & Steinberg, 1993).

Successivamente, Maccoby e Martin (1983) hanno proposto che dalla combinazione dei diversi pilastri delle pratiche parentali, quali affettività, richieste e controllo, possano emergere tipi diversi di famiglie, ognuna con caratteristiche peculiari e con un proprio stile comunicativo (Maccoby & Martin, 1983). In particolare vi sono:

  • Famiglie autorevoli e reciproche, rette con un’autorità ferma e ragionata, costruite sulla base di modelli di comportamento chiari. I genitori manifestano in modo chiaro l’approvazione o il disaccordo a riguardo dell’educazione dei figli senza mostrare elementi di incoerenza e utilizzano una comunicazione aperta e bidirezionale. All’interno di queste famiglie si respira un clima caloroso che permette di passare dalla richiesta alla collaborazione (Sorribes & Garcia Bacete, 1996)
  • Famiglie autoritarie, caratterizzate da rigidità e inflessibilità, fanno rispettare le norme e le regole ai figli attraverso costrizioni e punizioni. Non viene data importanza alla comunicazione, la quale è solamente unidirezionale (dai genitori ai figli), unico interesse dei genitori è ottenere l’obbedienza dei figli (Berk, 1994)
  • Famiglie indulgenti sono caratterizzate da leggerezza, permettono ai propri figli di fare qualsiasi cosa senza imporre castighi e punizioni. Nonostante ciò la comunicazione all’interno della famiglia risulta aperta, affettiva e democratica.
  • Famiglie negligenti o indifferenti, all’interno delle quali i genitori dimostrano una certa indifferenza nei confronti della crescita dei propri figli, infatti non si interessano delle loro necessità e delle loro richieste (Berk, 1994)

Sviluppo sociale e relazioni con il gruppo dei pari

Degne di nota sono anche le relazione extrafamiliari in cui è coinvolto il bambino e che contribuiscono al suo sviluppo sociale, in particolar modo le relazioni che il bambino costruisce con i membri appartenenti al proprio gruppo. Le relazioni con i pari sono in grado di rivelare i meccanismi messi in atto per affrontare il mondo sociale. Questi meccanismi sembrano essere stabili negli anni e possono contribuire a prevedere lo sviluppo di futuri problemi di adattamento (Rubin, Bukowsky, Parker, 1998).

Allo scopo di differenziare le relazioni tra bambini rispetto a quelle con adulti, Hartup (1983, 1989) ha distinto le dimensioni di “orizzontalità” e “verticalità”. I bambini interagendo con gli adulti, sono coinvolti in relazioni verticali, caratterizzate da asimmetria, in quanto si stabiliscono tra partner che si trovano su due piani differenti, dal punto di vista sia delle competenze sia della posizione di potere occupata all’interno della relazione. L’adulto, trovandosi in una posizione di “superiorità” fornisce al bambino cure, sostegno, affetto oppure può impartire ordini manifestando un comportamento assertivo. Queste relazioni svolgono la funzione fondamentale di fornire protezione e sicurezza, da un lato, e di trasmettere conoscenze, dall’altro (Corsano, 2008). Le relazioni sviluppate con i coetanei sono invece di tipo orizzontale e quindi sono caratterizzate da simmetria, sono di tipo reciproco e finalizzate ad offrire al bambino l’opportunità di apprendere le abilità di cooperazione, competizione, condivisione e assunzione dei ruoli (Hartup, 1983, 1989). All’interno delle relazioni verticali i bambini si trovano in una condizione di inferiorità, solo le relazioni con i coetanei assicurano loro una posizione relativamente uguale in termini di potere, in quanto si presume che i pari hanno per definizione età, abilità e ruolo simili tra loro (Furman & Buhrmester, 1985).

Secondo Schaffer (2004) le relazioni tra pari appaiono particolarmente importanti per lo sviluppo successivo, proprio per la loro dimensione di orizzontalità.

Gli studiosi hanno affrontato i benefici della relazione tra pari nei bambini da due punti di vista: alcuni si sono soffermati sul fatto che stare con gli altri bambini aiuti ad acquisire capacità diverse, non necessariamente legate alla socializzazione; altri si sono invece concentrati sullo studio delle abilità necessarie per stare bene con gli altri e solo in un secondo momento hanno preso in esame gli esiti evolutivi legati a queste abilità (Di Norcia, 2009).

Nel primo filone di autori emerge l’importante contributo di Piaget (1932), il quale sostiene che le interazioni tra pari possono offrire un contesto unico per l’acquisizione di alcune abilità. Infatti nell’interazione con i coetanei i bambini sono chiamati a cooperare e ad accordarsi con qualcuno che è al loro stesso livello; in questo modo imparano ad assumere il punto di vista dell’altro. Da questi primi studi, ha iniziato ad emergere l’idea che l’interazione con i pari non favorisce solamente lo sviluppo sociale del bambino (Hartup, 1983) ma anche quello intellettuale (Carugati & Perret-Clermont, 1999).

Nella stessa direzione, Vygotskij (1934) riconosce il ruolo svolto dalle interazioni tra pari allo sviluppo intellettuale: l’autore evidenzia come le discussioni che possono sorgere all’interno del gruppo dei pari, possono aiutare il bambino a risolvere i problemi, le soluzioni vengono successivamente interiorizzate e fatte proprie dal bambino stesso (Di Norcia, 2009).

Harris (1995), propone una visione estremamente radicale dell’importanza della relazione tra pari. L’autore, giunge ad affermare che il comportamento dei genitori non ha alcun effetto poiché l’unico contesto significativo per lo sviluppo sociale dei bambini è quello dei pari; secondo quest’idea la socializzazione avviene in modo specifico per contesto e quindi il bambino impara dai genitori solo il comportamento da tenere in casa, mentre apprende dal gruppo di coetanei le norme culturali necessarie per vivere nell’ambiente esterno (Harris, 1995).

L’importanza della relazione tra pari è confermata dal fatto che la povertà delle relazioni durante l’infanzia predice successivi disagi a livello psichiatrico (Brown & Dodge, 1997; Kupersmidt & Coie, 1990; Parker & Asher, 1987).

Il contributo dei vari autori ha evidenziato che le buone relazioni tra coetanei favoriscono condizioni uniche per apprendere abilità che non si possono imparare dagli adulti (Di Norcia, 2009). Accanto a queste opportunità, le relazioni tra coetanei possono anche avere effetti indesiderabili. Infatti diversi studi hanno dimostrato che in alcune situazioni i coetanei possono veicolare contenuti non sempre positivi e potrebbero avere un ruolo determinante nel percorso verso la devianza. Basti pensare agli adolescenti che all’interno del gruppo dei pari, mettono in atto comportamenti a rischio come uso di droghe e azioni violente (Bonino & Cattelino, 2000).

Processi simili sono stati osservati anche tra bambini, frequentanti la scuola primaria o la scuola dell’infanzia, i quali mettevano in atto frequenti condotte aggressive con lo scopo di assumere un ruolo dominante e per essere accettati dai pari (Costabile, 1996; Boivin, Coie, Dodge, 1995; Rodkin et al., 2000).

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