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Il pedagogista e l’educatore a scuola. Intervista all’Associazione Pedagogisti Educatori Italiani (APEI)

L’APEI, sin dalla sua fondazione nel 2007, ha sempre ritenuto che la scuola fosse uno dei principali ambiti di intervento del pedagogista e dell’ educatore, promuovendo un intenso lavoro culturale e di politica professionale in tutto il territorio nazionale tramite laboratori, seminari e convegni.

 

Infanzia e adolescenza: fasi sensibili dell’età evolutiva, dove l’attenzione e la cura del bambino/adolescente investono l’armonia fisica, psicologica, relazionale, e dove la cura interessa le agenzie educative per eccellenza chiamate a monitorare e stimolare lo sviluppo dell’adulto di domani, scuola e famiglia.

In un concerto di compiti evolutivi che struttureranno la personalità adulta, le figure dell’ educatore e del pedagogista assumono un ruolo essenziale nel facilitare l’attuazione del processo educativo. Quale ruolo specifico ha oggi il pedagogista a scuola, quali problemi incontra (e con questi la scuola e l’educazione nel suo complesso) in una società in cui diverse emergenze educative risultano preminenti, e in cui il bambino e l’adolescente ricercano un posto che restituisca il senso della loro esistenza?

Chi sono pedagogisti ed educatori?

I pedagogisti e gli educatori professionali socio-pedagogici sono professionisti con precise competenze scientifiche e metodologiche che intervengono nel naturale processo di crescita e di sviluppo della persona, nell’ottica dell’educazione permanente e della prevenzione​ ​educativa​ ​primaria, e puntano l’accento sulla centralità dell’alunno nel processo educativo, con uno sguardo centrato sulla persona ancor prima che sulla performance, senza il quale si sperimenta la fatica a dare risposte alle innumerevoli problematiche esistenziali, sociali, relazionali e di ricerca di senso dei bambini e degli adolescenti – spiega Samuele Amendola, educatore professionale e presidente dell’Associazione Pedagogisti Educatori Italiani (APEI) per la Sicilia – L’ educatore professionale socio-pedagogico e il pedagogista, esperti della relazione educativa, costituiscono all’interno della scuola quelle risorse indispensabili ad attivare una rete, aiutando tutti coloro che fanno parte dell’ambiente scolastico (famiglie, docenti, extra scuola…) a dare il proprio contributo in collegialità, avendo sempre come punto di riferimento il bambino, l’alunno, protagonista del suo apprendimento e della creazione di un personale progetto di vita.

Una rete che sia responsiva alle esigenze degli alunni, che collabori per un progetto di realizzazione del Sé che investa il futuro, e che contrasti solitudini e impotenze educative.

L’importanza di fare rete

La principale criticità che oggi il contesto scolastico vive è la solitudine, solitudine degli insegnanti, spesso lasciati soli nel loro tanto difficile quanto fondamentale ruolo, ma anche solitudine dei genitori, delle famiglie. È importante quindi spezzare questa solitudine attraverso l’elaborazione di progetti comuni, attraverso la compartecipazione, attraverso il fare rete anche con il territorio. Un fare rete che agisca in senso proattivo e progettuale: in quest’ottica il pedagogista e l’ educatore, prima ancora che ricercare le cause di una determinata emergenza, intervengono su ciò che emerge o che ha bisogno di emergere in termini di progettualità educativa, di espressione e realizzazione personale, di originalità e creatività nell’ottica del pensami adulto. Quel pensami adulto di cui parlava Mario Tortello, cioè il preparare insieme all’alunno e, a tutti coloro che fanno parte del suo mondo, un progetto formativo, culturale e professionale nel quale sarà presente la visione della persona che egli sarà domani.

Un collaborare che facilita il lavoro complesso, talora frustrante, del docente e che diventa per il docente stesso momento di arricchimento professionale e personale.

Come APEI riteniamo che non sia più possibile derubricare l’educazione a un problema di emergenza estemporaneo. – continua Amendola – La scuola e la famiglia necessitano di una figura di raccordo, attenta alle biografie umane e volta ad accompagnare gli alunni senza classificarli o diagnosticarli. Chiedono dei professionisti capaci di mediare quella complessità che a volte può sembrare disorientante e difficile da gestire. Ecco perché lo Stato italiano forma pedagogisti ed educatori, per svolgere quelle funzioni che non possono essere umanamente sostenute, nella loro articolazione ricca e necessaria, dall’attuale formazione del corpo docente, ma che sono individuate come prioritarie per connettere realmente la scuola al tessuto vitale del territorio. Nella scuola c’è bisogno di ripresa della ricerca pedagogica e scientifica, di una ricerca e sperimentazione frutto dell’alleanza tra pedagogia e neurologia (neuropedagogia) con le sue ricadute didattiche; in quest’ottica la presenza di pedagogisti ed educatori a scuola consentirebbe anche agli insegnanti di avvalersi di efficaci strumenti etico-pedagogici e didattico-scientifici per svolgere al meglio le loro funzioni.

Alla luce quindi dell’importanza educativa e sociale della figura del pedagogista in che modo APEI sostiene la figura dell’ educatore a scuola?

L’APEI, sin dalla sua fondazione nel 2007, ha sempre ritenuto che la scuola fosse uno dei principali ambiti di intervento del pedagogista e dell’ educatore, promuovendo un intenso lavoro culturale e di politica professionale in tutto il territorio nazionale tramite laboratori, seminari e convegni. – conclude Amendola – Nel 2015, in occasione della consultazione del Governo per la scrittura della Riforma La Buona Scuola, l’APEI ha avanzato la proposta di prevedere in organico scolastico queste due importantissime figure: proposta che risultò essere la più votata in assoluto sul sito del Miur. Da quest’anno le professioni di educatore professionale socio-pedagogico e di pedagogista sono state riconosciute dallo Stato, con la Legge 205/2017, dove sono stati convogliati i punti essenziali del Disegno di Legge Iori, che segna uno spartiacque nel mondo delle professioni educative.

Salvatore Amendola
Salvatore Amendola – Educatore professionale e presidente dell’Associazione Pedagogisti Educatori Italiani (APEI) per la Sicilia

Il tono delle interazioni sociali influenza il nostro spazio interpersonale

Lo spazio interpersonale è rappresentato da quella distanza che le persone mantengono tra sé e gli altri, la quale può esser modulata da fattori situazionali e da caratteristiche individuali. 

 

In un recente studio, condotto dai ricercatori dell’Anglia Ruskin University, dall’University College di Londra, dall’Universidad Carlos III di Madrid e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, è stata studiata l’influenza che l’interpretazione personale dell’interazione fra terzi può avere sullo spazio interpersonale. Ovvero, come la dimensione dello spazio interpersonale varia in seguito all’ascolto di conversazioni di altre persone con contenuti neutri o aggressivi.

Lo studio sperimentale

I partecipanti allo studio, 33 soggetti di età compresa tra i 19 ed i 30 anni, hanno ascoltato due conversazioni registrare tra due persone, di cui una conversazione aggressiva ed una conversazione neutrale.

In seguito all’ascolto di ciascuna registrazione gli sperimentatori hanno misurato il livello di spazio interpersonale in cui la persona si sentiva a suo agio, attraverso una tecnica di “stop-distance”. Tale tecnica prevede una registrazione audio di passi che si avvicinano al partecipante, il quale deve chiedere di fermare la registrazione non appena i passi erano troppo vicini a loro e hanno cominciato a sentirsi a disagio. L’utilizzo della registrazione dei passi, al posto di una reale persona, è servito a rimuovere il bias di qualsiasi pregiudizio visivo basato sull’aspetto fisico.

I passi che si avvicinavano sono stati registrati in una stanza vuota e silenziosa, lunga 17,4 metri, e la registrazione è stata fatta ascoltare a 20 partecipanti (esterni allo studio principale), i quali hanno valutato il suono su una scala likert da 5 (in lontananza) a 3 (in avvicinamento) a 0 (camminare sul posto).

Per ogni condizione sono state unite le clip audio per un totale di 2 clip audio di 208 secondi circa, di cui 165 s di conversazione, 1 s di pausa e 42 s circa di passi in avvicinamento, ovvero la finestra temporale di risposta durante la quale i partecipanti potevano interrompere la registrazione in base al disagio percepito.

Risultati e Conclusioni

I risultati mostrano come i partecipanti hanno interrotto la registrazione dei passi più lontano dal proprio corpo (media 7 secondi di distanza) in seguito all’ascolto della registrazione con la conversazione aggressiva, mentre hanno tollerato maggiormente l’avvicinarsi dei passi (media 4,5 secondi di distanza), in seguito all’ascolto della conversazione dai connotati neutrali.

Questi risultati supportano l’ipotesi per la quale le persone tendono ad allontanarsi maggiormente dagli altri in seguito all’ascolto di una conversazione aggressiva.

La dottoressa Cardini, docente presso l’Anglia Ruskin University, ha affermato:

Lo spazio interpersonale è lo spazio che manteniamo tra noi e gli altri per sentirci a nostro agio. In questo studio, abbiamo dimostrato per la prima volta che il tono delle interazioni sociali influenza la dimensione di questo spazio, anche quando non siamo direttamente coinvolti nell’interazione. Abbiamo scoperto che la dimensione media dello spazio interpersonale di qualcuno diventa maggiore dopo aver ascoltato una conversazione aggressiva che si svolge nelle vicinanze. Questo è probabilmente un tentativo di mantenere una zona di sicurezza intorno a noi ed evitare qualsiasi interazione o confronto con coloro che sono coinvolti nell’aggressiva conversazione.

Appuntamento all’ Ultimo Samurai – Un’anteprima dal libro di G. Salvatore: Lo Psicoterapeuta in Bilico

Per la rubrica Ritratti – La narrativa incontra la Psicologia, in anteprima per i lettori di State of Mind un brano tratto dal nuovo libro di Giampaolo Salvatore “Lo psicoterapeuta in bilico”

 

Arrivai dieci minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Presi posto al tavolo più lontano dalla porta d’entrata. Lessi otto volte il menù, confezionando un’espressione rapita per chi occupava il tavolo accanto al mio, per distrarli da quello che immaginavo stessero pensando: che ero un uomo sposato di mezza età che nella pausa pranzo di una giornata qualunque aspettava una semi-sconosciuta in un ristorante giapponese

 

Il ristorante giapponese L’ultimo samurai era al pianterreno di un palazzo in stile fascista perennemente inghiottito da ponteggi edili. Si affacciava sul lungomare, da cui lo divideva l’arteria del centro cittadino e la fila immobile di auto che vi transitava.

Gli automobilisti, eternamente fermi nel traffico, non potevano fare a meno di gettare uno sguardo sulle due lanterne rosse poste ai lati della porta d’entrata e sull’insegna, su cui c’era una gigantografia stilizzata di Miyamoto Musashi (i fanatici del Bushido lo riconoscevano dal fatto che impugnava due spade). Era conforme al prototipo dei ristoranti giapponesi che spuntavano come funghi. Quelli che ti offrono al tavolo il Menù fisso Teriyaki a 14,90 euro, il Menù fisso Sushi a 16,90 euro, il Menù fisso Sashimi a 19,90 euro, ecc.

Al centro della sala c’era il serpentone acciambellato del tapis roulant, con la superficie metallica che faceva scorrere le mono-porzioni di sushi e altro che venisse in mente al cuoco giapponese, che in realtà era filippino, di spacciare per pietanza del Sol Levante. Tipo il riso alla cantonese o i ravioli al vapore farciti di carne di maiale, che sono piatti tipici della cucina cinese. Ammuina culinaria che si poggia sulla tendenza dell’italiano medio a sovrapporre le culture cinese e nipponica. La presenza sul tapis roulant delle cotolette tagliate in listarelle sottili, invece, non me l’ero mai spiegata. Era l’ora di punta. Tutte le sedie davanti al serpentone erano occupate dai clienti che vedevano scorrere i piattini colorati davanti al loro sguardo svuotato di capacità decisionale, reso infantile dall’imbarazzo della scelta. Intorno al serpentone, una ventina di tavoli stipati fottendosene dei canoni del feng shui, con la tovaglia arancione hare krishna e le sedie nere con gli schienali in simil-ebano intarsiati, il cui soggetto aveva qualcosa a che vedere con dei draghi un po’ troppo arravogliati su loro stessi.

Arrivai dieci minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Aspettai su una panchina del lungomare, fissando gli autisti fermi nel traffico che fissavano le lanterne e Miyamoto Musashi. Entrai spaccando il secondo. Presi posto al tavolo più lontano dalla porta d’entrata. Lessi otto volte il menù, confezionando un’espressione rapita per i due amici – sicuramente avvocati, tutti Rolex, pancetta ed esuberanza da uso voluttuario di cocaina alternato a maschera distensiva antirughe – che occupavano il tavolo accanto al mio, per convincerli che il motivo sostanziale del mio essere lì fosse un’indomabile curiosità per la cucina orientale.

Questo per distrarli da quello che immaginavo stessero pensando. Che ero un uomo sposato di mezza età che nella pausa pranzo di una giornata qualunque aspettava una semi-sconosciuta bona in un ristorante giapponese con la speranza di scoparsela durante la pausa pranzo di una futura giornata qualunque.

Mentre tenevo lo sguardo fermo sul menù, Nikita comparve alla periferia del mio campo visivo. Feci finta di continuare a leggere, ma avevo già inquadrato il maxi-pullover viola a collo alto che un sottile cinturone nero di pelle faceva aderire pigramente ai fianchi. La figura piccola, snella, agile. Adesso mi sembrava solo un po’ più morbida di Anne Parillaud in Nikita. Fece tre passi sulla punta dei piedi, cercando di assottigliare ancora di più il suo corpo, per passare in uno spazio stretto tra le sedie di due tavoli troppo vicini. Uno di quei gesti che avvengono in una frazione di secondo, apparentemente insignificanti; eppure ti dicono qualcosa della sostanza caratteriale di una persona. In questo caso, l’attenzione estrema a non turbare lo stato delle cose, la tendenza a rendere silenziosissima la propria esistenza. E nello stesso tempo, che tutto questo in lei era al servizio di altro. Serviva a ottenere qualcosa. Appena fu abbastanza vicina, finsi di averla appena messa a fuoco. Si era data appena un filo di trucco. Era bella, purtroppo. In quel momento ebbi la sensazione netta che gli avvocati avessero notato la caricatura del mio trasalimento e avessero capito definitivamente la suonata. Mi costrinsi a sillabare col pensiero chi-sene-fot-te!

«Mi aspetti da molto?»

«Mannòòò, assolutamente.»

Lei, con la massima naturalezza, fece durare il suo sorriso, un po’ tenero un po’ sfottente, per la manciata di secondi che impiegò nel sedersi di fronte a me. Improvvisamente, desiderai di essere a casa. Cercai di distrarmi con i vari “visto che caldo?” e “mi è sempre piaciuta la cucina giapponese”. Questo mi fece tirare avanti per almeno cinque minuti assolutamente insignificanti. Poi mi prese una botta della ribalderia un po’ scanzonata che, dall’età di diciannove anni, aveva sempre funzionato alla grande come antidoto all’imbarazzo paralizzante da ex-chiattone. E cambiai marcia.

«Allora, posso chiederti cosa ti ha spinto a inviarmi quel messaggio?» dissi.

Percepii la vibrazione che le mie parole producevano nell’urtare contro lo spessore della comunicazione formale. Avevo appena fatto una di quelle domande che possono decidere la gerarchia di dominanza in un gioco come quello che stava iniziando.

Silenzio. Nikita guardava il suo menù e mi pareva che lo mettesse pure a fuoco e stesse lì lì per scegliere. Sembrava che la mia domanda così diretta e provocatoria, il mio viraggio brusco dai convenevoli al gioco della verità, non avesse prodotto la minima perturbazione nel suo organismo. Come se avesse cambiato marcia molto prima di me, fosse già avanti e mi stesse aspettando.

«Ti ho mandato quel messaggio parecchio tempo dopo la prima volta in cui ho desiderato mandartelo» mi disse tranquilla, ma con un’inflessione del tono di voce che aggiungeva è ovvio.

«Cosa ti ha… cioè… quando esattamente me l’av… resti voluto mandare?»

Con un incacagliamento come questo ci sarebbe stata benissimo un po’ di acne giovanile.

«Beh, questo non è molto importante. Voglio dire, stabilire con precisione il momento esatto. Non credi anche tu?»

«Assolutamente» dissi, sentendomi un fesso. E cercai di recuperare terreno: «Certo che tu sei proprio la conferma vivente di quanto aveva ragione Oscar Wilde quando diceva che le donne scelgono gli uomini che le sceglieranno.»

Lei abbassò lo sguardo sugli infradito da samurai laccati che di lì a poco avremmo usato come piatti, e sulle bacchette di legno che ogni volta che mangiavo cinese o giapponese mi ricordavano la scena di Karate Kid in cui il maestro Miyagi le usa per cercare di acchiapparci una mosca senza riuscirci. Inclinò un po’ la testa e sollevò impercettibilmente il mento; un’espressione che aveva due strati di significato. Il primo: “quello che dici mi lascia leggermente perplessa”. Il secondo: “il motivo per cui quello che dici mi lascia leggermente perplessa è che potrà anche averlo detto Oscar Wilde, ma a me pare una cazzata”.

Poi disse «mah, non so se sono d’accordo… Se proprio vuoi che parliamo dei meccanismi con cui gli uomini scelgono le donne, io sono disponibile, però bada che ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente voluto.»

Inside Out: una storia su come le emozioni ci possono guidare nel percorso di cambiamento

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out e di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni. Successivamente ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Abbiamo inoltre analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia-psicoeducazione ed il valore di questo film della Disney nel far sì che l’educazione emotiva raggiungesse il grande schermo. In un ultimo articolo, potete trovare un’anticipazione del nuovo cortometraggio basato sulle vicende di Inside Out e le nuove tappe di cambiamento nella vita dei protagonisti. (NdR).

 

Gioia, tristezza, rabbia, disgusto e paura sono i protagonisti indiscussi di Inside Out, commovente film animato che ci guida alla scoperta del valore delle nostre emozioni.

 

Una consolle, un posto di comando, dove cinque “piloti della mente” si destreggiano nel difficile compito di “monitorare” le sfide della crescita della piccola Riley.

Ed ecco che riconosciamo le cinque emozioni di base care ad Ekman, gioia, tristezza, rabbia, disgusto e paura, personaggi intenti ad “agire e reagire” alle vicende che interessano la piccola protagonista, giochi, amici, famiglia, a costituire quelle “isole della personalità” che fanno di ciascuno quello che è.

Inside Out: una storia sul cambiamento

Una storia di vita, una continuità evolutiva, quella di Riley, caratterizzata dalla vicinanza emotiva dei genitori, così come dalle amicizie costruite su un campo di ghiaccio da hockey, in cui Gioia è da considerarsi emozione predominante, punto di riferimento delle altre: fin qui tutto regolare.

Ma, come in ogni storia di vita segnata dal cambiamento, in quanto inevitabile mutamento delle condizioni esistenziali, l’imprevisto, la svolta, l’evento traumatico, insinuarsi nelle vite normali di una famiglia come tante: in Inside Out il lavoro difficile delle emozioni inizia quando arriva per Riley la notizia del trasloco, stressor di per sé in grado di destabilizzare un passato di certezze per molti versi inattaccabile, instabile come le certezze.

Da qui il repentino destabilizzarsi di un mondo interiore solido, sicuro, ecco l’essere sopraffatta da un trauma non elaborato, ecco il ribollire di emozioni mai pervenute alla coscienza, in un riemergere freudiano dell’Es, in quanto depositario delle pulsioni distruttive (e autodistruttive): rabbia, tristezza, paura prendono rapidamente il posto di gioia, finora regina indiscussa della psiche della piccola Riley, che faticherà a “riprendere il comando”, mitigando la forza annientatrice delle emozioni negative sulla scia della teorizzazione degli effetti degli eventi traumatici, negli stadi che dalla negazione e dalla rabbia giungono all’accettazione, cari alla Kubler-Ross.

Rabbia e Tristezza

Nel contrasto tra un passato perfetto e un presente inaccettabile, sotto il comando indiscusso di Rabbia, si gioca la decisione, apparentemente risolutiva, della fuga, nel tentativo di ripristinare un passato gioioso violato, dove anche a costo di “mettersi contro tutti”, sordi al dolore inaccettabile della perdita. Una Rabbia sterminatrice, frutto di una Tristezza innominabile, rifiutata, che, invece di ripristinare Gioia, ottiene l’effetto paradosso di spegnere tristemente quelle isole della personalità, caposaldo della felicità antica, come la famiglia di origine, ritenuta responsabile dell’ingiustizia o le vecchie amicizie, ree solo di continuare a percorrere la loro strada senza la piccola amica lontana.

Da qui lo svolgersi delle vicende di Rabbia e Tristezza al comando della mente, contro una Gioia che fatica a riemergere, a comprendere come riacquistare funzionalmente il comando della consolle psichica.

Sì, perché il piano di Riley appare lucido, netto, insindacabile: eliminare Tristezza, come percorso obbligato per rimettere tutto a posto, cancellando un cambiamento in quanto semplice incidente di percorso, alla fine del quale ritrovare la gioia e la serenità di un’infanzia spensierata, senza cambiamenti da accettare, senza scossoni da rielaborare.

Già, perché se cambiamento implica responsabilità, revisione di sé stessi e degli eventi, ancoraggio a una realtà cruda, ma ineliminabile, il compito evolutivo di Riley si intravede complesso, necessita di tempo (il tempo di elaborazione del lutto, appunto).
Un periodo in cui sviluppare la domanda cruciale: Davvero il mezzo per ritrovare una Gioia dispersa è fuggire dalle emozioni negative, ripudiarle? Davvero bisogna essere sempre ottimisti, felici, fiduciosi e tutto procederà per il meglio? Oppure diversamente affinché la Gioia divenga Felicità essa ha bisogno di Tristezza?

Cosa ci insegna Inside Out?

Ed ecco la sfida della psiche, la sfida che attende ciascuno di noi, a prescindere dall’età, dalle condizioni da affrontare, dall’entità delle sfide e dalla mancanza o presenza di aiuti esterni: accettare i cambiamenti in quanto inevitabili, valutando il flusso delle emozioni in senso non giudicante.

Soltanto in tal modo la tristezza può divenire esprimibile, condivisibile, perciò elaborabile, accettando il conforto degli altri e nel contempo sperimentando la propria forza nell’affrontare un dolore che si credeva insopportabile, unendosi a una comunità umana che soffre, che accetta la sofferenza e lo scacco come emozione intrinseca all’umano, contro cui non scontrarsi, ma da attraversare, per non esserne sopraffatti.

Emozioni, negative e positive, che fluiscono liberamente, che non avranno il potere di sottrarre Gioia, nella misura in cui accettazione e consapevolezza saranno assunte come vie maestre della Gioia, secondo la pratica Mindfulness promossa da John Kabat-Zinn. Poiché solo nell’accettazione della tristezza della perdita di un passato che, come tale, non può tornare, di una vita che comporta naturalmente pericoli, frustrazioni, rinunce, risiede la possibilità di re-investire le energie creative e vitali verso nuovi traguardi, nuove amicizie, progetti fruttuosi, parimenti fonte di gratificazione, canalizzando le energie psichiche e fisiche per i fini della realizzazione personale, in vista di una continuità evolutiva che non dipenda passivamente dalle traversie burrascose dell’esistenza, ma che ci veda protagonisti attivi nel senso dell’autoefficacia in divenire, secondo quanto individuato da Bandura e di un locus of control interno, che consegni a ciascuno il senso profondo della riuscita come frutto di azioni, scelte, obiettivi, controllo della propria vita.

Frequenti attacchi di collera nei bambini? Potrebbero diminuire grazie ad un maggiore controllo emotivo materno

Irritabilità, distrazione e stanchezza sono segnali di un esaurimento della capacità di controllo emotivo dei genitori. È  importante riconoscere questi segnali e rispondere ad essi concedendosi un time-out.

 

Un recente studio sulla genitorialità rileva come un maggiore controllo emotivo ed una maggiore capacità di risoluzione dei problemi (problem solving) da parte della madre possano rappresentare dei fattori protettivi rispetto allo sviluppo di problemi comportamentali infantili.

Lo studio è stato condotto da Ali Crandall ricercatrice di salute pubblica presso la Brigham Young University e da alcuni ricercatori della Johns Hopkins University e della Virginia Tech. Ali Crandall dichiara:

 Quando perdi il controllo, ciò influisce sulla tua genitorialità e quel caos influenza direttamente e indirettamente il comportamento di tuo figlio.

La ricerca

Lo studio è stato condotto su 152 madri (di età compresa tra i 21 ed i 49 anni) di bambini di età compresa tra i 3 ed i 7 anni.

Il controllo emotivo materno è stato misurato attraverso un questionario a 10 item attraverso i quali è stata misurata la frequenza con cui i partecipanti manifestavano “scoppi d’ira” o “reagiscono in modo esagerato a piccoli problemi”. Per quanto riguarda il funzionamento esecutivo, ovvero ciò che aiuta le persone a gestire la confusione e raggiungere gli obiettivi quotidiani, e che include le abilità di pianificazione, risoluzione problemi e orientamento verso ciò che è importante, è stato misurato attraverso una serie di compiti.

Successivamente alla registrazione dei livelli di controllo emotivo e di funzionamento esecutivo delle madri, i ricercatori hanno fornito ai partecipanti una serie di questionari per identificare gli atteggiamenti genitoriali ed i comportamenti dei bambini. In particolare, gli item vertevano intorno ai livelli di espressività verbale dura (dei genitori) e sulla natura e frequenza dei problemi comportamentali manifestati dai propri figli.

Dall’analisi dei dati è emerso che le madri con un controllo emotivo e cognitivo maggiore hanno segnalato meno condotte infantili problematiche (es. urlare, farsi del male o farlo agli quando non ottengono ciò che vogliono).

Allo stesso tempo è anche emerso che ad un maggiore controllo emotivo materno corrisponde una minore probabilità che esse siano verbalmente dure con i propri figli, così come ad un maggiore controllo cognitivo materno corrisponde una minor probabilità di sviluppare atteggiamenti genitoriali di controllo nei confronti dei propri figli.

Lo studio sembra dunque confermare l’ipotesi secondo cui rigidi atteggiamenti genitoriali sono fortemente associati ad una problematica condotta infantile.

Conclusioni

Dati i risultati ottenuti, per ridurre stili genitoriali duri e di controllo e di conseguenza alcuni problemi comportamentali infantili, si potrebbero predisporre interventi preventivi per aiutare le madri a migliorare la propria capacità di controllo emozionale e cognitivo.

A questo proposito il co-autore Deater-Deckard, professore presso l’University of Massachusetts Amherst, sostiene:

Irritabilità, distrazione e stanchezza sono chiari segnali di un esaurimento di autocontrollo. I genitori possono esercitarsi a riconoscere questi segnali e rispondere ad essi concedendosi un time-out – Inoltre – Dormire abbastanza, fare attività fisica e mangiare bene sono tutte cose che hanno un impatto sul nostro funzionamento esecutivo – ha detto Crandall – Dovremmo creare ambienti sani che ci aiutino a operare al meglio.

Insonnia cronica: aspetti cognitivi e comportamentali

L’insonnia cronica è un disturbo molto comune (circa il 30% della popolazione ne soffre), è più frequente nelle donne e negli anziani (Burton, 2006) e può presentarsi sia come conseguenza o aspetto di un altro disturbo medico o psichiatrico (insonnia secondaria) oppure come forma indipendente e autonoma nella sua eziologia e nel suo sviluppo (insonnia primaria).

 

Le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno definiscono l’insonnia cronica come una reiterata difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno associata ad un mal funzionamento diurno (cattivo umore, irritabilità, difficoltà cognitive, eccessiva sonnolenza nelle ore diurne) (Devoto & Violani, 2010). L’International Classification of Sleep Disorders (ASDA, 2005) distingue cinque forme di insonnia primaria: disturbo di insonnia da adattamento, insonnia soggettiva, insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica, insonnia psicofisiologica.

L’insonnia psicofisiologica è la più comune forma di insonnia primaria ed è quella in cui entrano maggiormente in gioco fattori di mantenimento cognitivi e comportamentali. Secondo Hauri e Fisher (1986) tale forma di insonnia cronica si svilupperebbe a causa di due elementi principali: le preoccupazioni del soggetto riguardo all’insonnia ed alcuni processi di condizionamento. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre sottolineare come nel paziente insonne si sviluppi una sorta di problema secondario legato al fatto stesso di avere difficoltà nell’addormentamento.

 

Dall’ insonnia acuta all’ insonnia cronica

Dopo una occasionale notte insonne dovuta a motivi di stress, eventi ansiogeni o traumatici, lutti o problemi di salute, il soggetto, in prossimità dell’ora in cui abitualmente va a dormire, svilupperebbe dei pensieri intrusivi disfunzionali riguardo all’insonnia (“e se nemmeno stasera riuscissi a dormire?”, “non ci vorrebbe proprio un’altra nottata in bianco!”, “devo assolutamente riuscire a dormire”, “domani ho una giornata impegnativa, non posso permettermi di non dormire”), che hanno due conseguenze negative per il sonno: da una parte tali pensieri determinano un bias attentivo tale per cui l’attenzione si focalizza sul riuscire o meno a dormire e il soggetto si “sforza” a dormire con il risultato paradossale di rimanere sveglio in quanto il sonno è per definizione spontaneo e non a comando, dall’altra parte la preoccupazione per la possibilità di non dormire e il ricordo delle notti precedenti passate insonni determinano un eccessivo arousal emotivo, cognitivo e fisiologico che impedisce il rilassamento fisico e psichico necessario per dormire.

Dal punto di vista comportamentale invece, si sottolinea come gli stimoli interni (i pensieri, gli stati mentali) ma anche ambientali (la camera da letto, le abitudini, i rituali che precedono il sonno) si associno in breve tempo al non dormire (Devoto & Violani, 2010).

In altre parole, mentre i normodormienti associano le abitudini pre-sonno e le caratteristiche della propria stanza da letto ad uno stato di rilassamento che li predispone e li induce al sonno, le persone che soffrono di insonnia cronica associano la stanza da letto con lo stare svegli.

In conclusione si può affermare che sono le implicazioni cognitive e comportamentali a fungere da fattori di mantenimento e a far divenire insonnia cronica un’insonnia acuta e situazionale.

La psicoterapia è un’avventura. Un nuovo approccio alla cura del sé che passa dal contatto con la natura e le attività all’aperto

Nella Terapia dell’Avventura, l’avventura non è intesa solo come divertimento ma è pensata come un fare esperienza che mira ad avere profondi benefici terapeutici e permette di apprendere lezioni di vita preziose, come l’importanza di cooperare con gli altri, lavorare in gruppo e superare i propri limiti.

Alessandra Basso

 

Diversi studi recenti (Oh, B. et al., 2017; Shanahan, D., et al. 2016; Walsh,R., 2011) hanno dimostrato che l’esposizione alla natura e le attività all’aperto possono migliorare la salute mentale, alcuni sintomi e condizioni di persone che stanno attraversando, per diversi motivi, un periodo di difficoltà.

In questi ultimi anni, infatti, la filosofia e la pedagogia dell’outdoor education hanno subito un notevole sviluppo (Harris, 2000; Hattie et al., 1997; Neill, 2008; White, 2012; Zook, 1985). A questo proposito, nello specifico, si sente sempre più spesso parlare di Adventure Therapy (AT) o Terapia dell’Avventura.

Terapia dell’Avventura: di cosa si tratta?

La Terapia dell’Avventura, molto diffusa in paesi come gli Stati Uniti d’America, è una forma di terapia esperienziale che coinvolge vari tipi di attività all’aria aperta (Rusell et al., 2017). L’obiettivo di tali programmi è quello di aiutare i partecipanti a sviluppare importanti abilità di vita di cui potranno beneficiare nella loro quotidianità.

Questo tipo di progetti è particolarmente indicato per coloro i quali soffrono di patologie croniche come il diabete, la depressione, obesità o patologie neoplastiche, ma viene ampiamente utilizzata anche per progetti di prevenzione ed è adatta per tutte le età. 
Basti pensare adolescenti e adulti che provengono da lunghi ricoveri, day hospital, periodi di isolamento ospedaliero: trascorrere tempo all’aria aperta può essere divertente, eccitante e stimolante. È un ottimo modo per imparare e praticare nuovi comportamenti, per migliorare le capacità interpersonali, per affrontare le paure, per provare nuove emozioni positive.

L’avventura, quindi, non è intesa solo come divertimento ma è pensata come una vera forma di terapia che mira ad avere profondi benefici terapeutici e permette di apprendere lezioni di vita preziose, come l’importanza di cooperare con gli altri, lavorare in gruppo e superare i propri limiti.

I primi studi evidenziano i benefici della Terapia dell’Avventura

Alcuni studi dimostrano che la Terapia dell’Avventura può aumentare l’autostima degli studenti delle scuole elementari, medie e superiori (Wright, 1983), altri ancora hanno documentato effetti positivi significativi sull’autostima, sul locus of control e sulla socialità (Steinberg et al., 2001). La letteratura suggerisce che, nel complesso, gli adolescenti con varie diagnosi traggono beneficio dalla partecipazione a programmi di attività nella natura (Autry, 2001; Keats et al., 1999; Russell & Philips-Miller, 2002).

Neill (2003) ha riassunto le prove delle meta-analisi di educazione all’aria aperta, psicoterapia e istruzione, che possono essere utilizzate per aiutare a decidere l’efficacia relativa dei programmi di Terapia dell’Avventura. Uno degli obiettivi di questa terapia è incoraggiare gli adolescenti a migliorare il proprio concetto di sé come parte di una riabilitazione complessiva fisica, cognitiva, emotiva o sociale. La ricerca ad oggi ha quindi dimostrato che l’esposizione alla natura può fornire una vasta gamma di benefici per la salute mentale, relativi all’attenzione e cognizione, memoria, stress e ansia, sonno, stabilità emotiva e benessere auto-percepito o qualità della vita.

Elementi distintivi

Le attività incluse nella Terapia dell’Avventura sono molteplici come il campeggio, escursioni in montagna, arrampicata su roccia o vela: il fattore comune è quello di consentire ai partecipanti di prendere rischi calcolati ed esplorare i problemi personali in un ambiente sicuro sotto la guida di professionisti della salute mentale.

Dopo ogni attività è dedicato del tempo alla sedimentazione: il tempo di una riflessione consente ai partecipanti di acquisire un maggiore senso di consapevolezza di sé. Possono riflettere su ciò che hanno realizzato, le paure che hanno affrontato, le connessioni che hanno stabilito o le difficoltà che hanno incontrato con altri partecipanti e ciò che hanno imparato su se stessi.

Le attività utilizzate nella Terapia dell’Avventura rappresentano, quindi, una metafora delle situazioni e delle sfide che i partecipanti affrontano nel mondo reale. I terapeuti spesso incoraggiano i partecipanti a parlare o pensare alle somiglianze tra una particolare attività e le esperienze che hanno avuto nelle loro vite. Possono anche incoraggiare i partecipanti a pensare ai sentimenti e alle emozioni provate o alle conseguenze (buone o cattive) di una scelta che hanno fatto.

Dunque gli elementi chiave che caratterizzano la Terapia dell’Avventura e che la differenziano dalle altre modalità di trattamento psicoterapeutico sono l’enfasi sull’apprendimento attraverso l’esperienza, la presenza e l’interazione con la natura, la possibilità di sperimentare alcuni rischi (in condizioni di sicurezza) creando eustress (positivo risposta allo stress) e il contesto di gruppo.

La Terapia dell’Avventura in Italia

In Italia, la Terapia dell’Avventura è praticata da oltre dieci anni da Tender to Nave Italia Onlus che promuove la cultura del mare e della navigazione come strumento di riabilitazione, inclusione sociale e terapia.

I progetti, basati su questa metodologia, mirano a promuovere relazioni interpersonali, vissuti emotivi ed autonomia, aspetti caratterizzanti il costrutto dell’autostima. A bordo di Nave Italia tutti i partecipanti, entrando a far parte di un vero equipaggio della Marina Militare, navigano, si tuffano, sperimentano nuovi equilibri, convivono in spazi stretti, imparano i nodi e alzano le vele.

Nel corso degli anni alcuni studi hanno dimostrato che il confronto continuo con gli altri, con i propri limiti e con le proprie certezze, in un contesto avventuroso ed emozionante, migliora la percezione che i partecipanti hanno del proprio corpo. Autostima e sicurezza in se stessi giocano un ruolo importante nella ristrutturazione della personalità in fasi di vita rese difficili da disagio e malattia e la Terapia dell’Avventura a bordo di Nave Italia si è mostrata come una buona risorsa per coloro i quali hanno forte necessità di sperimentarsi come abili e capaci.

I risultati italiani preliminari spingono nella direzione di ampliare la numerosità campionaria e aggiungere il campione di controllo per valutare in modo più controllato l’impatto della Terapia dell’Avventura in aggiunta alle metodologie tradizionali.

I Gangli della base – Introduzione alla Psicologia

I gangli della base si trovano alla base dell’encefalo e sono costituiti da 4 formazioni principali: lo striato, il globus pallidus, la substantia nigra e il nucleo subtalamico.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

I gangli della base – Lo striato

Lo striato è una grande struttura nervosa, percorsa da strie che lo caratterizzano e ne determinano il nome. Esso si divide in striato dorsale, costituito dal nucleo caudato e dal putamen che controllano l’attività motoria, e striato ventrale, formato dal nucleo accumbens, l’amigdala, l’ippocampo e le aree corticali, tutte strutture deputate alla modulazione delle emozioni, della memoria, del comportamento e dell’esperienza cosciente.

Lo striato è formato prevalentemente da neuroni dopaminergici che proiettano dal mesencefalo. Esso riceve afferenze dai nuclei della base, dalla corteccia cerebrale, dal talamo e dal tronco dell’encefalo. Invece, diverse aree della corteccia cerebrale inviano proiezioni eccitatorie e glutammatergiche a specifiche zone che lo costituiscono.

Lo striato, dunque, è formato da diversi tipi cellulari, di cui la maggior parte a proiezione gabaergici. Generalmente, sono neuroni silenti, che si attivano solo in seguito all’attuazione di un movimento o dopo l’applicazione di stimoli periferici. Lo striato è anche costituito da interneuroni locali inibitori che riescono a ridurre l’attività dei neuroni efferenti e determinano la maggior gran parte dell’attività tonica dello striato.

Lo striato riceve anche segnali eccitatori dai nuclei intralaminari del talamo e dai nuclei del rafe.

I neuroni dello striato proiettano, invece, al globus pallidus e alla substantia nigra.

Lo striato, ancora, proietta informazioni attraverso due vie efferenti: una via detta diretta che è eccitatoria ed una via indiretta di tipo inibitorio.

I gangli della base – Il globus pallidus

Il globus pallidus è una struttura subcorticale caratterizzata da corpi cellulari neuronali situati alla base del proencefalo. Il globus pallidus è formato da una parte interna o mediale ed esterna o laterale, queste due parti sono divise, l’una dall’altra, dalla lamina midollare mediale. Invece, la capsula interna corre medialmente al nucleo lentiforme, l’arto posteriore della capsula interna separa il talamo dal nucleo lentiforme e l’arto anteriore della capsula interna separa il putamen dalla testa del nucleo caudato.

II globus pallidus è coinvolto nella regolazione del movimento volontario e in particolare svolge una funzione principalmente inibitoria che equilibra l’azione eccitatoria del cervelletto. Questi due sistemi si sono evoluti per consentire movimenti fluidi e controllati. Gli squilibri possono causare tremori e altri problemi di movimento, come si è visto in alcune persone con disturbi neurologici progressivi caratterizzati da sintomi come tremori.

I gangli della base – La substanzia nigra

La substantia nigra è una struttura formata da parti molto scure da cui prende il nome. Essa è posta nel mesencefalo e si divide in due parti aventi connessioni con aree diverse e svolgono funzioni differenti. Queste due parti sono la pars compacta, che è costituita da fibre efferenti che utilizzano la dopamina, e da neuroni gabaergici che trasmettono i segnali elaborati finali dei gangli basali al talamo e al collicolo superiore; e la pars reticulata è implicata nel controllo del movimento in maniera indirettamente tramite lo striato, è coinvolta nelle risposte apprese agli stimoli, nell’apprendimento spaziale, nell’elaborazione temporale attivata durante la riproduzione del tempo.

La substantia nigra, inoltre, svolge un importante ruolo nell’esecuzione dei movimenti oculari, nella pianificazione motoria, nella ricerca di ricompense, nell’apprendimento e nella dipendenza. Molti effetti della substantia nigra sono mediati dallo striato, che attraverso la via nigrostriatale svolge diverse funzioni legati al movimento e un suo deficit determina problemi relaativi alla patologia di Parkinson. Inoltre, la substantia nigra svolge la funzione di inibizione del GABA in varie sede cerebrali.

I gangli della base – Il nucleo subtalamico

Il subtalamo è una porzione del diencefalo che si trova ventralmente al talamo, sotto il solco ipotalamico, lateralmente all’ipotalamo e tra il mesencefalo e il diencefalo. In basso il subtalamo continua con la callotta del mesencefalo; infatti la parte superiore della sostanza nera e del nucleo rosso sporgono nel subtalamo stesso. Lateralmente comunica con la capsula interna che lo separa dal nucleo lenticolare.

Il nucleo subtalamico è composto da sostanza grigia compresa nel nucleo di luys che consiste in un piccolo nucleo a forma di lente biconvessa posto in prossimità della capsula interna, in rapporto sia con la sostanza nera che col nucleo rosso.

Questo nucleo riceve afferenze dalla corteccia frontale, dai nuclei intralaminari del talamo, dal pallido esterno e dal nucleo peduncolopontino. Inoltre, invia efferenze al globo pallido, alla sostanza nera e anche al nucleo peduncolopontino. Il nucleo subtalamico di Luys si può suddividere in:

  1. Parte postero-mediale, implicata nelle funzioni motorie
  2. Parte ventro-mediale che ha funzione associativa
  3. Parte mediale che appartiene al sistema limbico

Inoltre, è coinvolto nell’avvio della deambulazione e della progressione in avanti, per questo rappresenta il centro del sistema extrapiramidale.

L’altra parte del nucleo subtalamico è definita zona incerta, ovvero un raggruppamento nucleare di cui non si conoscono le reali funzioni. Esso costituisce il prolungamento della formazione reticolare del mesencefalo e sembra essere coinvolta nella regolazione dell’assunzione di acqua, quindi importante nel bilancio idrico.

Nel nucleo subtalamico è presente anche la sostanza bianca rappresentata dai fasci e dal lemnisco mediale, spinale, trigeminale e gustativo che attraversano proprio questa area per arrivare al talamo.

Conclusioni

Per concludere, i gangli della base attraverso le interazioni con la corteccia cerebrale contribuiscono al movimento volontario e ad altre forme di comportamento come le funzioni scheletro-motorie, oculomotorie, cognitive ed emozionali. Ad esempio, in alcuni individui colpiti da morbo di Huntington è stato osservato che alcune lesioni a livello dei nuclei della base producono danni emotivi e cognitivi negativi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

VeriPol: un sistema di predizione della menzogna utilizzato dalla polizia spagnola per individuare e contrastare le false testimonianze

Secondo le evidenze empiriche pubblicate sul journal Knowledge-based Systems e ottenute dall’università di Madrid in collaborazione con “La Sapienza” di Roma e il ministero degli interni spagnolo, sarebbe possibile riconoscere un resoconto vero di una rapina da uno falso, esclusivamente basandosi sulle parole utilizzate nel resoconto stesso (Quijano-Sánchez, Liberatore, Camacho-Collados et al., 2018).

 

In che modo le persone mentono agli agenti di polizia e come è strutturato un resoconto veritiero di un accadimento criminale come ad esempio una rapina, rispetto ad uno stesso ma falso?

Per rispondere a questa domanda nel 2017 i commissariati di polizia di Murcia e Malaga in Spagna si sono dotati per primi di un algoritmo in grado di processare il linguaggio naturale (NLP; Hirschberg & Manning, 2015) in combinazione con un sistema di Machine Learning (Jordan & Mitchell, 2015) in grado di analizzare il contenuto e la struttura di un resoconto di una rapina e valutarne il grado di falsità con un alto livello di precisione, superiore al 91%.

L’algoritmo, denominato VeriPol, segnala agli agenti di polizia le parole “sospette” di un resoconto appena costruito dal sospettato, dalla vittima o da un testimone del reato.

L’apporto di Quijano-Sánchez, Liberatore e Camacho-Collados (2018) dell’università di Madrid ha infatti evidenziato come i resoconti e le testimonianze falsi siano costituiti nel corso della narrazione da specifici pattern, che li rendono per l’appunto falsi, e che l’algoritmo è in grado di rilevare.

In particolare per i report sulle rapine, i ricercatori hanno mostrato come quelli veritieri presentino solitamente molti dettagli, descrizioni e informazioni personali, diversamente da quelli falsi che invece sono caratterizzati per la maggior parte da brevi descrizioni, dall’impossibilità di fornire informazioni precise sul luogo e il momento in cui è avvenuto l’incidente, sull’aggressore e sui probabili testimoni e si focalizzino maggiormente sull’oggetto rubato e meno sull’aggressione perpetuata per poterlo ottenere.

I report veritieri, inoltre, adottano un linguaggio più concreto e preciso e hanno configurazioni temporali e spaziali verificabili nell’immediato e meno autoreferenziali.

Come funziona VeriPol

Veripol (Quijano-Sánchez, Liberatore, Camacho-Collados et al., 2018) è in grado di analizzare il contenuto del resoconto ed estrarre tre principali aspetti che, secondo i ricercatori, ne caratterizzerebbero la veridicità: come si è svolta l’aggressione a scopo di rapina, la morfosintassi generale del report e la quantità di dettagli.

Un’alta frequenza di verbi al gerundio, all’infinito, di pronomi personali e dimostrativi sarebbe segnale di una presenza molto precisa nella descrizione tramite “story telling” di un’interazione tra gli attori e l’avvenimento, tra la vittima, l’aggressore e la rapina e di conseguenza appare veritiero.

L’alta frequenza di congiunzioni subordinate, di verbi all’infinito sarebbero al contrario un segnale di una mancanza di informazioni o di conoscenza dei fatti molto parziale e generale.

Quali sono i vantaggi di VeriPol?

L’esistenza di uno strumento in grado di rilevare la falsità di una testimonianza e allo stesso tempo di fornire un modello predittivo della menzogna ha il vantaggio di incoraggiare i cittadini, se correttamente informati, a non fornire report falsi, a migliorare le risorse limitate, attualmente in possesso agli agenti della polizia, e a creare un database con una percentuale ridotta di testimonianze false o troppo generali.

In conclusione dello studio che supporta i sorprendenti risultati ottenuti grazie all’utilizzo di VeriPol, i ricercatori sottolineano la necessità di estendere lo strumento a tutti i tipi di agenti investigativi e di poterlo in futuro utilizzare anche per altri reati, non solo per rapine.

La mente bipartita – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr 27

In molte scelte della vita la persona si tormenta se seguire ciò che gli sembra buono e giusto o ciò che gli piace. Ma cosa muove davvero la nostra mente? 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La mente bipartita (Nr. 27)

 

Ancorchè falsa, è molto diffusa una concezione bipartita della mente che ipotizza una parte razionale, misurata, saggia che, se al timone condurrebbe l’individuo verso ciò che più gli conviene per il suo reale bene (la chiameremo S che sta per “saputello”) ed un’altra parte dominata dalle emozioni, impulsiva e incontrollabile che conduce necessariamente alla catastrofe (la chiameremo B che sta per “bestiaccia”).

Grossolanamente si presume altresì che la prima sia cosciente, segua il principio di realtà e sia localizzata prevalentemente nelle nobili parti frontali della corteccia cerebrale, ultimo prodotto dell’evoluzione cerebrale. La seconda invece si ritiene prevalentemente inconscia, capace solo di scegliere in base al principio del piacere e domiciliata nelle parti più primitive del cervello che condividiamo anche con molti animali.

Il rapporto tra le due è immaginato come una continua lotta per prevalere nella gestione del comportamento.

A volere la psicoterapia è in genere Saputello, con la richiesta di addomesticare Bestia (il terapista domatore) o perlomeno di garantire un negoziato (il terapista arbitro o notaio).

Secondo la teoria cognitivista la dicotomia è inesistente e le emozioni sono il frutto proprio delle valutazioni più o meno coscienti. Forse sarebbe meglio superarla ancora di più non mettendo neppure in relazione di causa-effetto i due fenomeni, ma considerando le emozioni delle valutazioni incarnate e il pensiero un’emozione chiacchierata.

In molte scelte della vita la persona si tormenta se seguire ciò che gli sembra buono e giusto o ciò che gli piace. Se dunque si potesse dimostrare che le due cose non sono affatto diverse, molti tormenti potrebbero rottamarsi. Non c’è dubbio che molti comportamenti e piani di vita siano guidati da ciò che procura emozioni positive e piaceri piuttosto che da ciò che apparirebbe conveniente, ma possiamo ipotizzare che tale dicotomia sia solo apparente e di basso livello e che se si sale di livello ciò che piace coincida esattamente con ciò che alla lunga conviene (quantunque nell’immediato possa comportare qualche mal di pancia).

Personalmente ritengo che sia stata semplicemente l’evoluzione, ma può essere più esplicativo e pittoresco immaginarsi un creatore che sfiduciato nel buon senso dei viventi e preoccupato per le loro distrazioni che per garantirsi il successo della vita (e che dunque i singoli individui sopravvivano e si riproducano) abbia marcato l’itinerario che conduce alla vita, con una serie di piaceri attrattori come le briciole di Pollicino e ha disseminato il percorso verso la morte con dolorosi dissuasori, come il tunnel degli orrori al Luna Park. Mi piace pensarlo a rimuginare preoccupato “Ma questi sciagurati si ricorderanno sempre di mangiare e di bere? Meglio dargli la sgradevole sete e la sgradevole fame e fare in modo che mangiare e bere sia un godimento”. Avuta questa prima idea il format è stato poi esteso dandoci il fastidio per il troppo freddo, il troppo caldo e il piacere per un morbido tepore. Per stare attenti ai predatori ci ha dato la paura. Restava l’aspetto più decisivo della riproduzione, complicato dal fatto che necessitava della cooperazione contemporanea di due viventi: come convocarli e convincerli? Tormentato dalla preoccupazione che si dimenticassero di scopare (non ricordo esattamente il termine aramaico) si è superato, non si è regolato ed ha messo a punto il piacere perfetto, talmente grande che va necessariamente spartito con un altro. A dire il vero però ha scopiazzato dalle precedenti trovate e ha fatto un minestrone mischiando un pò tutti i piaceri con un risultato sorprendente: il mangiare, il bere, il tepore, la protezione, la morbidezza.

È chiaro che i singoli individui quando mangiano non perseguono lo scopo dell’omeostasi glicemica e lo fanno solo perché è buono; e solo raramente quando fanno l’amore sono interessati alla perpetuazione della propria popolazione esogamica, lo fanno perché è bellissimo, ma in realtà le due cose coincidono.

Gli esseri umani dunque quando seguono il piacere sono in realtà guidati da una saggezza profonda e antica, sovraindividuale e orientata alla promozione della vita di gran lunga più stabile delle valutazioni di Saputello, le quali sono molto influenzate dalle mode culturali che quantunque, nel momento in cui si vi è immersi, appaiano verità assolute ed eterne nella storia complessiva della vita nell’universo, non sono altro che fragili e transitori tentativi di adattamento, presto sostituiti da un nuovo paradigma.

Insomma la Bestiaccia disarciona quasi sempre Saputello ma scossa (così si dice di un cavallo del Palio che perde il fantino) arriva comunque alla meta perché la sa davvero lunga e l’universo intero, che ci sia o meno il Creatore in tribuna d’onore, fa il tifo per lei.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Gli interventi e gli effetti della musicoterapia nelle demenze

L’aumento della popolazione anziana e l’allungamento della vita media ha comportato un incremento delle patologie legate all’invecchiamento, come ad esempio le demenze che rappresentano ormai una delle più grandi sfide di salute per l’umanità. La musicoterpia sembra essere un efficace strumento di cura

Federica Aloisio  – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La demenza è una sindrome clinica con differenti cause, caratterizzata dal deterioramento delle funzioni cognitive, comportamentali, sociali ed emozionali

(Van der Steen J.T. et al., 2017).

I sintomi possono essere raggruppati in tre grandi ambiti: aspetti cognitivi, aspetti funzionali e sintomi neuropsichiatrici. Il declino cognitivo può coinvolgere diverse aree: la memoria, il linguaggio, l’apprendimento, le funzioni esecutive, l’attenzione, il movimento, la cognizione sociale (APA, 2013). La forma di demenza più comune è quella di Alzheimer: il numero di persone che ne sono affette

ha raggiunto oltre 35 milioni in tutto il mondo nel 2013, e questo numero è stimato a triplicare nel 2050

(Hosseini S. M. et al., 2014).

Interventi di natura medica hanno dimostrato una limitata efficacia nel rallentare il declino cognitivo e, come riportato in letteratura, allo stato attuale non esiste un trattamento farmacologico capace di curare la demenza di Alzheimer (Algar K. et al., 2016).

Musicoterapia per la demenza

La limitata efficacia dei trattamenti farmacologici e la plasticità del cervello umano sono le due maggiori spiegazioni dell’interesse crescente per i trattamenti non-farmacologici che hanno lo scopo principale di sostenere ed attivare quelle funzioni mentali non completamente deteriorate, intervenendo sulle potenzialità residue e sul miglioramento della qualità di vita (Mendiola-Precoma J. et al., 2016; Fusar-Poli L. et al., 2017).

Uno dei più comuni approcci non farmacologici per il trattamento dei sintomi neuropsichiatrici, comportamentali e psicologici della demenza è l’uso della musica (Mitchell G. & Agnelli J., 2015).

L’utilizzo dell’effetto piacevole e rilassante, in alcuni casi “terapeutico”, della musica nelle persone malate affonda le sue radici in tempi molto lontani; esso nasce e si sviluppa prevalentemente in ambiente psichiatrico, ma ha allargato i suoi confini di applicazione alla geriatria e alla vasta problematica delle demenze.

La musica è caratterizzata da due aspetti positivi: il primo è la grande influenza che essa può avere sul tono dell’umore; il secondo aspetto è il forte potere mnestico in quanto riascoltare un brano può evocare con molta precisione un episodio della vita, ricostituendo il ricordo sia nella sua complessità cognitiva che emozionale

(Villani D. & Raglio A., 2004).

La musicoterapia, che fa parte delle Arti-Terapie, è un intervento non farmacologico che mira ad aumentare il benessere emotivo attraverso la stimolazione cognitiva e l’interazione sociale

(Craig J., 2014).

Musicoterapia: tipi ed effetti

Gli interventi di musicoterapia possono essere individuali o di gruppo e attivi o recettivi: attivi, in cui i pazienti sono invitati a fare esperienze dirette e creative; recettivi, dove viene privilegiato l’ascolto e l’aspetto della verbalizzazione successiva (Garrido S. et al., 2017). A tal proposito un recente studio mette in evidenza che l’intervento di musicoterapia recettiva è più efficace per alleviare i sintomi comportamentali e psicologici della demenza (Tsoi K.K et al., 2018).

Nonostante le difficoltà dovute al deterioramento cognitivo il mezzo sonoro-musicale costituisce una via privilegiata per arrivare direttamente al cuore e stimolare le parti sane del cervello delle persone interessate. Infatti, il paziente con demenza sembra conservare intatte certe abilità e competenze musicali fondamentali (intonazione, sincronia ritmica, senso della tonalità) come ha rilevato lo studio di Jacobsen in cui si evince che la memoria musicale si mantiene intatta più a lungo prima di essere intaccata da deterioramento cognitivo (Jacobsen J.H. et al., 2015).

Molti sono gli studi a supporto dell’applicazione della musicoterapia alla demenza.

Villani e Raglio sostengono che il suono e la musica attivino modalità espressive e relazionali arcaiche e che l’utilizzo della musicoterapia nella malattia di Alzheimer

può migliorare gli aspetti relazionali e ridurre i disturbi del comportamento

(Villani D. & Raglio A., 2004).

Esistono pubblicazioni in merito ad attività di musicoterapia svolte con malati di Alzheimer le quali dimostrano che gli stessi pazienti ne traggono benefici per diversi aspetti: la memoria a breve termine, il tono dell’umore, l’orientamento spazio-temporale, il senso di identità, le competenze espressive e relazionali.

Musicoterapia per la demenza: effetti sui sintomi comportamentali

Finora la ricerca si è concentrata principalmente sui sintomi comportamentali e psicologici della demenza (ovvero “BPSD”, da Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia), come agitazione, aggressione, irritabilità, depressione o apatia. I risultati sono promettenti, mostrando un effetto positivo su questi sintomi comportamentali (Ueda T. et al., 2013).

Nello specifico l’agitazione è un problema comportamentale molto comune nei pazienti con demenza e comprende una varietà di condotte quali ripetitività, irrequietezza, vagabondaggio ed aggressività. A tal proposito la revisione di Pedersen ha indagato la sua reale efficacia su questo tipo di sintomatologia; sono stati analizzati sia studi in cui era necessaria la partecipazione attiva del malato (cantare, ballare, battere le mani o suonare uno strumento) sia interventi di tipo ricettivo in cui al partecipante si chiedeva solamente di ascoltare musica. Nonostante il numero esiguo degli studi presi in considerazione è emerso che gli interventi musicali sono significativamente efficaci nel ridurre l’agitazione in questo tipo di pazienti (Pedersen S.K. et al., 2017).

In altri studi, la terapia musicale ha dimostrato di migliorare nei pazienti con demenza Alzheimer di grado lieve-moderato la memoria, l’orientamento e i sintomi ansioso-depressivi (Gallego & García, 2017). Un altro studio sottolinea come l’uso di strumenti a percussione da parte di anziani dementi istituzionalizzati è in grado di abbassare il livello di ansia sebbene il livello di agitazione sia rimasto invariato (Sung et al., 2012).

Seppure con qualche limitazione appare evidente che diversi studi nella letteratura avvalorano l’efficacia dell’approccio musicoterapeutico, soprattutto nei disturbi psico-comportamentali nelle demenze

In un recentissimo studio viene riportato che elevati livelli di cortisolo, l’ormone di regolazione dello stress, è associato a compromissioni cognitive. Quando il cortisolo è costantemente alto, la funzione cognitiva è compromessa e un alto livello di stress cronico induce depressione e ansia a livello psicologico (de la Rubia Ortì et al., 2018). I risultati dello studio del 2018 hanno dimostrato che dopo la musicoterapia i livelli di cortisolo decrescono e quindi diminuiscono significativamente il livello di stress, depressione e ansia, stabilendo una correlazione lineare tra la variazione di queste variabili e la variazione di cortisolo.

Musicoterapia per demenza: gli effetti sulle funzioni cognitive

Per quanto riguarda gli effetti della musicoterapia sulle funzioni cognitive, le ricerche hanno dimostrato che questo tipo di intervento può proteggere le funzioni cognitive nella demenza di tipo Alzheimer specialmente la memoria autobiografica ed episodica, la velocità psicomotoria, le funzioni esecutive e la cognizione globale (Herholz S.C. et al., 2013).

Lo studio di Chu e colleghi del 2014 ha dimostrato che la musicoterapia di gruppo, oltre a ridurre la depressione nelle persone affette da demenza, ritarda il deterioramento delle funzioni cognitive, in particolare della memoria a breve termine. Inoltre Gallego e altri ricercatori hanno osservato dei miglioramenti cognitivi dopo sei settimane di intervento di musicoterapia in particolare sulla memoria e l’orientamento (Gallego & García, 2017).

Nonostante le varie ricerche che forniscono prove dell’efficacia della musicoterapia nel preservare le funzioni cognitive nella demenza, in particolare di Alzheimer, i risultati non sono abbastanza convincenti: si ha bisogno di più studi clinici non solo per verificare l’effetto immediato, ma soprattutto quello a lungo termine (Fang R. et al., 2017; Van der Steen J.T. et al., 2017).

In aggiunta Fang afferma che la musicoterapia deve essere considerata una terapia complementare nel trattamento della demenza: gli interventi farmacologici non possono essere interrotti durante un intervento riabilitativo di musica e la musicoterapia deve essere avviata il più presto possibile in quanto l’effetto terapeutico della musica per la protezione delle funzioni cognitive non è significativo quando il grado di demenza è severo.

Un altro lavoro che mette in evidenza i limiti della musicoterapia, in particolare sulla cognizione, è la meta-analisi di Fusar-Poli che ha preso in considerazione non solo la cognizione globale, ma funzioni cognitive più specifiche come l’attenzione, il linguaggio, la memoria e l’abilità percettivo-motoria non evidenziando alcun effetto positivo su questi dominii (Fusar-Poli L. et al., 2017).

Quest’ultimo studio ha tuttavia dimostrato, in linea con quanto emerso da altre precedenti ricerche, che la musica è strettamente associata a forti sensazioni emotive e infatti attiva il sistema limbico che è coinvolto sia nella regolazione delle emozioni che nel controllo della memoria. Inoltre, il rapporto tra emozioni e musica può diventare molto più forte quando un professionista esperto è coinvolto nel trattamento (Fusar-Poli L. et al., 2017).

In conclusione si può asserire che la musicoterapia è un valido intervento complementare per il trattamento delle demenze, in particolare per i suoi effetti vantaggiosi sui sintomi comportamentali e psicologici, così come per il suo ruolo sociale ed emotivo. I possibili effetti sulla cognizione meriterebbero, invece, di essere meglio esaminati con studi e campioni più grandi, al fine di poter appurare l’efficacia della terapia musicale su tutti i piani, da quello psicologico-comportamentale a quello cognitivo, per un miglioramento complessivo della qualità di vita del paziente demente.

Quale emozione sto provando? Le difficoltà degli adolescenti nel riconoscere e discriminare le proprie emozioni

L’abilità di differenziazione emotiva, ovvero la capacità di discriminare i diversi tipi di emozione, varia in base alla fase di sviluppo.

 

Secondo una recente ricerca, gli adolescenti distinguono le emozioni negative in modo diverso rispetto ai bambini e agli adulti. Lo studio mostra come le esperienze emozionali varino a seconda dell’età e risponde al perché l’adolescenza risulta essere un periodo particolarmente vulnerabile nello sviluppo emotivo.

Lo studio sperimentale

Lo studio, pubblicato su Psychological Science, prevedeva la somministrazione di un compito di differenziazione emotiva a 143 partecipanti di età compresa tra 5 e 25 anni. I soggetti posti di fronte a diverse immagini raffiguranti scenari negativi, dovevano scegliere tra reazione emotive quali rabbia, tristezza, disgusto, paura e agitazione e quantificare l’intensità dell’emozione provata su una scala da 0 (per nulla) a 100 (moltissimo) in risposta a ciascuna figura.

Lo psicologo Erik Nook della Harvard University e autore dello studio afferma:

Abbiamo trovato una traiettoria di sviluppo piuttosto interessante per quanto riguarda la differenziazione delle emozioni. I bambini tendono a riferire di provare una sola emozione alla volta, gli adolescenti invece iniziano a sperimentare più emozioni contemporaneamente mentre gli adulti non presentano difficoltà nel differenziare le diverse emozioni che provano.

I risultati hanno mostrato una traiettoria di sviluppo non lineare riguardo la differenziazione delle emozioni negative: la capacità di differenziazione emotiva diminuisce in adolescenza rispetto all’infanzia per innalzarsi di nuovo con il passaggio nella prima età adulta. 
Come l’autore spiega, l’infanzia appare caratterizzata dalla tendenza ad indicare una sola risposta emotiva; al contrario gli adolescenti dichiarano di sperimentare diverse emozioni contemporaneamente senza però essere in grado di distinguerle. La scarsa differenziazione emotiva osservata in adolescenza potrebbe derivare dal fatto che i soggetti adolescenti sono poco abili nel concettualizzare le emozioni concomitanti, cosa che invece avviene in età adulta.

Nook spiega anche perché l’adolescenza sembra essere un periodo particolarmente complesso dal punto di vista emotivo: “L’adolescenza è un periodo di rischio elevato per l’inizio della psicopatologia. Grazie a questo studio sappiamo che è anche un periodo di maggiore confusione sul versante emotivo. Sarebbe interessante indagare la possibile correlazione esistente tra malattia mentale e instabilità emotiva: c’è il rischio che l’aumento di emozioni sperimentate in questo periodo renda più complicata la loro differenziazione e regolazione e che questo contribuisca allo sviluppo di disturbi mentali” e conclude “Spero che le nostre scoperte possano aiutare a chiarire il modo in cui la differenziazione emotiva varia nel corso dello sviluppo e quanto questo processo appaia complicato nello stadio adolescenziale”.

Disarmare il Narcisista

Disarmare il Narcisista: un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

 

Chi può dire di non avere mai incontrato nella propria vita un narcisista? Che sia il fratello, il fidanzato, il figlio, il collega di lavoro o una persona vicina a noi. Chi non si è almeno una volta sentito schiacciato? Chi non si è mai arrabbiato? Tutti abbiamo esperienza più o meno chiara di quanto sia difficile avere a che fare con un narcisista, di quanto sia difficile comunicare, farsi capire e ascoltare, rompere le difese che ostacolano un rapporto affettivo sereno, che ostacolano la “messa in circolo delle emozioni” .

Con 25 anni di formazione alle spalle e numerose certificazioni, Wendy Behary è fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Center del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy (ISST).

Come esperta sul disturbo narcisistico di personalità ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema. Tra questi anche “Disarmare il Narcisista” un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

È un libro che fornisce sia ai terapeuti che ai pazienti diversi strumenti per migliorare la conoscenza di sé stessi e imparare a “disarmare” il narcisista,  imparando a gestire la relazione in modo più consapevole senza subire la personalità dell’altro. In questo libro Wendy Behary ci fornisce un importante kit di strumenti pratici che ci aiutano a capire come gestire le sfide emotive che subentrano quando ci relazioniamo con qualcuno che non si relaziona con noi, così come accade con il narcisista.

Vincente in questo libro il fatto che l’autrice utilizza la cornice teorica sia della Schema therapy sia della neurobiologia interpersonale per far arrivare chiaro al lettore come il narcisista veda il mondo e quale sia la connessione tra relazioni interpersonali, mente e cervello. Ci spiega in modo comprensibile e semplice come le componenti biologiche combinate con le esperienze precoci possano plasmare in modo anche drammatico le nostre impressioni e le nostre credenze, e così diventa chiaro per il lettore come gli schemi maladattivi precoci possano essere simili a un boomerang che lo riporta spesso al punto di partenza nonostante i suoi sforzi.

Molto bello il quadro che fa l’autrice del narcisista, un cavaliere maestro d’illusione, e molto utile l’esercizio presentato nella parte iniziale del libro che aiuta a identificare con quale tipo di narcisista si ha a che fare. Un importante riflettore viene posto sulla connessione emotiva come possibile via di soluzione della relazione, come motore per un cambiamento emotivo e mentale.

Il lettore è accompagnato nel capire come molto spesso gli ostacoli che gli impediscono di relazionarsi con il narcisista siano le proprie esperienze di vita e caratteristiche biologiche, e quindi i propri schemi. Molti sono gli strumenti, che con la lettura di questo libro, si acquisiscono per imparare a riconoscere e anticipare il momento in cui si rischia di cadere nei vecchi schemi maladattivi, dando maggior respiro e importanza alle sensazioni somatiche del momento.

Un passaggio verso l’apprendimento delle abilità di mindfulness come primo step del cambiamento, e tanti altri strumenti che accompagnano nel lungo e faticoso percorso di cambiamento della modalità di relazione, il confronto empatico, la compassione, lo stabilire dei limiti. E infine ancora l’autrice fa chiarezza su quali sono le strategie di comunicazioni maggiormente efficaci con il narcisista.

Un libro sicuramente da leggere non solo per chi ha a che fare con un narcisista, ma poi chi non ha a che fare almeno con un narcisista, ma anche per chi ha voglia di fermarsi a riflettere sui propri schemi e intraprendere un viaggio pieno di possibili spunti e strumenti per la conoscenza del sé e per migliorare le proprie relazioni.

Attività ludica infantile: dalla dimensione psicologica alle connotazioni neurobiologiche

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva.

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva. Nel gioco infantile si possono riconoscere differenti morfologie: ognuna con una finalità differente. Dal punto di vista sociale, la modalità di gioco cambia nel corso del tempo. Inizialmente il gioco dell’infante si situa nel rapporto diadico con la madre, successivamente il gioco dell’infante diviene triadico, ovvero si crea una triade ludica formata dalla mamma, dal bambino e dal giocattolo. A livello neurobiologico, il gioco sembra attivare tre circuiti, ovvero il circuito corticale esecutivo, il circuito sottocorticale limbico e il circuito somatosensoriale. L’attività ludica, inoltre, si ritiene possa incrementare la neuroplasticità delle aree del cervello coinvolte nei processi sensorio – motori.

Keywords: attività ludica, circuiti neuronali, neuroplasticità, sviluppo.

Attività ludica: come gioca il bambino?

L’attività ludica è presente nell’infante già dalle primissime fasi del suo sviluppo. Nel piccolo il gioco agevola l’acquisizione di abilità sociali e cognitive, favorisce il raggiungimento della competenza linguistica ed emotiva (Thibodeau e al., 2016; Fung e Cheng, 2017). Nel gioco infantile si possono riconoscere differenti morfologie: ognuna con una finalità differente. C’è il gioco motorio, nel quale oggetto dell’attività ludica divengono il corpo e le prestazioni corporee (correre, saltare, arrampicarsi ecc.). La finalità di questo gioco è quella di facilitare l’acquisizione degli schemi motori di base (St George e al., 2016). Nel gioco sociodrammatico l’attività ludica investe i ruoli sociali che il bambino vede svolgere dagli adulti. L’obiettivo di questo gioco è quello di aiutare ad apprendere le caratteristiche dell’adultità e, al contempo, implementare il pensiero creativo attraverso l’esercizio della fantasia, che questo gioco comporta (Lillard e al., 2013). Ci sono poi i giochi cooperativi, che possono assumere le sembianze di giochi di squadra, attraverso i quali il bambino comprende che ogni giocatore ha un suo ruolo definito e che la riuscita del gioco dipende dalla cooperazione che si instaura. La finalità di questi giochi è quella di far apprendere le abilità sociali (Hassinger – Das e al., 2017). Da quanto detto, il gioco svolge un ruolo importante per la crescita del bambino, coinvolgendo più domini (cognitivo, emotivo, sociale, motorio).

Attività ludica: veicolo di sviluppo per il bambino

Dal punto di vista sociale, la modalità di gioco cambia nel corso del tempo. Inizialmente il gioco dell’infante si situa nel rapporto diadico con la madre ed è proprio la mamma, attraverso questa attività ludica, che agevola lo sviluppo del proprio figlio, promuovendo l’acquisizione di competenze comunicazionali, linguistiche, cognitive e sociali (Bernier e al., 2016). Successivamente il gioco dell’infante diviene triadico, ovvero si crea una triade ludica formata dalla mamma, dal bambino e dal giocattolo. Questa relazionalità triadica, come molte ricerche hanno evidenziato (Tomasello, 1999; De Schuymer e al., 2011), è importante per l’acquisizione degli aspetti simbolici del linguaggio e di tutti i simboli culturali che caratterizzano il contesto di appartenenza (Rodriguez, 2009). Attraverso l’oggetto di gioco si arricchisce la comunicazione fra infanti e adulti. Inoltre, l’esplorazione del giocattolo da parte del bambino svolge un ruolo fondamentale nel miglioramento delle abilità di problem solving e delle capacità attentive (Clearfield e al., 2014).

Attività ludica: attiva e aumenta la neuroplasticità di alcune aree cerebrali

A livello neurobiologico sono state condotte diverse ricerche per capire quali circuiti neuronali si attivano nelle situazioni di gioco. La maggior parte degli studi è stato realizzato sui ratti. In questi animali il gioco sembra attivare tre circuiti, ovvero il circuito corticale esecutivo, il circuito sottocorticale limbico e il circuito somatosensoriale. Il circuito corticale esecutivo, che è costituito dalla corteccia prefrontale e da quella orbitofrontale, si attiva per dirigere i movimenti individuali in risposta alle azioni di gioco del partner (Siviy e Panksepp, 2011). Il circuito sottocorticale limbico, costituito dall’amigdala, dall’ipotalamo e dal nucleo striato, è responsabile degli aspetti motivazionali ed emozionali che sono presenti nell’attività ludica (Burgdorf e al., 2007). Il circuito somatosensoriale, formato dalla corteccia somatosensoriale, dal talamo e dal cervelletto, controlla le performance motorie in ambito ludico (Byers e Walker, 1995). L’attività ludica, inoltre, sembra incrementare la neuroplasticità delle aree del cervello coinvolte nei processi sensorio – motori, come, ad esempio, la corteccia parietale (Gordon e al., 2002). In aggiunta, l’attività ludica implementa la neuroplasticità della zona mediana della corteccia prefrontale, che invia degli stimoli al sistema limbico, finalizzati al controllo dei comportamenti sociali (Cheng e al., 2008). Con la dovuta cautela che la comparazione fra specie diverse richiede, si può supporre che gli stessi circuiti cerebrali si attivano anche negli esseri umani durante l’attività ludica e viene incrementata la neuroplasticità nelle zone cerebrali menzionate (Neale e al., 2018). Questo spiegherebbe, insieme ad altri elementi, i benefici che il gioco apporta allo sviluppo cognitivo, emotivo, sociale e motorio dei bambini.

In conclusione, il gioco svolge un ruolo importante per la crescita del bambino, in quanto consente l’acquisizione di abilità e competenze in vari domini (cognitivo, emotivo, sociale ecc.). Questo dipende anche dal fatto che nell’attività ludica infantile sono attivati dei circuiti neuronali specifici.

L’incidenza del Diabete di Tipo 2 è influenzata dal proprio orientamento sessuale? – FluIDsex

La più alta incidenza di diabete di tipo 2 tra le donne lesbiche e bisessuali sembra poter essere spiegata in parte come il risultato di più alti fattori di rischio legati a tale patologia in questa popolazione, quali: obesità, fumo, alcol, ma anche all’esposizione a situazioni stressanti di discriminazione.

 

Uno studio longitudinale guidato da H.L. Corliss, professore della Graduate School of Public Health della San Diego University, California, ha indagato l’incidenza del diabete di tipo 2 in un gruppo di donne.

Il diabete di tipo 2 è il tipo di diabete più diffuso, il quale solitamente si sviluppa in soggetti di età matura e produce un incremento di livelli di glucosio nel sangue, a causa di una ridotta produzione di insulina o di una sua produzione inefficace (Al-Delaimy, Willett, Manson, Speizer & Hu, 2011).

Lo studio sperimentale

In uno studio recentemente pubblicato, che ha coinvolto 94.250 donne negli Stati Uniti, i ricercatori hanno scoperto che le donne lesbiche e bisessuali (LB) hanno più probabilità rispetto alle donne eterosessuali di sviluppare il diabete di tipo 2 nel corso del follow up dello studio a 24 anni.

I partecipanti erano 94.250 donne americane tra i 24 ed i 44 anni (ad inizio studio), valutate per una diagnosi di diabete di tipo 2, ogni due anni, per identificarne l’incidenza. Lo studio è durato 24 anni. Una variabile considerata è stata quella dell’orientamento sessuale: 1267 soggetti erano omosessuali o bisessuali, mentre 92983 eterosessuali.

Ciò che è emerso è che, nei 24 anni, le donne lesbiche e bisessuali hanno dimostrato di avere un rischio maggiore del 27% di sviluppare diabete di tipo 2, rispetto alle donne eterosessuali. Inoltre, le donne omosessuali o bisessuali sviluppano il diabete di tipo 2 in età più giovane rispetto alle donne eterosessuali e questo potrebbe esser dovuto ad un più alto indice di massa corporea nelle donne lesbiche e bisessuali.

Cosa ci dice lo studio?

Nonostante studi precedenti sul tema avessero ottenuti dati inconcludenti, il team di ricerca ha creduto ci fosse una ragione per sospettare tale differenza: “Le donne LB possono riportare disparità in condizioni di salute fisica cronica (incluso il diabete 2), in quanto i fattori di rischio legati ad essa sono più alti: obesità, fumo di tabacco, alcolici ed esposizioni a situazioni stressanti”, afferma Corliss.

Lo stress legato alla discriminazione e alla vittimizzazione rispetto alla violenza fisica e psicologica è nettamente più alto nel gruppo di donne lesbiche e bisessuali e questo fattore contribuisce indubbiamente a più alti tassi di problemi di salute. Infatti, “sebbene sia importante affrontare i fattori comportamentali come l’attività fisica, il comportamento sedentario e l’assunzione di cibo, questi fattori non sono sufficienti per eliminare le disparità delle donne LB nelle malattie croniche”, ha spiegato il team.

Così, un miglioramento della prevenzione pubblica nell’individuazione e gestione dell’obesità e di stili di vita malsani è necessario, insieme ad una consapevolezza dello staff medico rispetto alle componenti che contribuiscono a creare questo divario: una gestione dello stress legato all’appartenenza ad un gruppo minoritario e alle conseguenze che ciò comporta è impegno sociale, professionale e personale.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Genitori critici: il cervello dei bambini risponde diversamente agli stimoli emotivi

L’esposizione alla critica dei genitori influisce sul modo in cui i bambini elaborano e prestano attenzione alle espressioni facciali delle emozioni.

 

Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali.

I risultati dello studio suggeriscono che i bambini con un genitore critico potrebbero evitare di prestare attenzione ai volti che esprimono qualsiasi tipo di emozione. Questo comportamento potrebbe influenzare le loro relazioni con gli altri e, in ultima analisi, essere legato in qualche misura a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici.

Lo studio

I ricercatori hanno voluto esaminare in che modo l’esposizione alla critica dei genitori influisce sul modo in cui i bambini elaborano e prestano attenzione alle espressioni facciali delle emozioni.

Un strumento utilizzato per misurare l’attenzione è un marker neurale chiamato Late Positive Potential (LPP), che fornisce una misura di quanto qualcuno presta attenzione alle informazioni emotive come, ad esempio, un volto che è felice o triste.

I ricercatori hanno selezionato per questo studio genitori di bambini di età compresa fra i 7 e gli 11 anni, facendoli parlare dei loro figli per cinque minuti. Le affermazioni dei genitori sono state successivamente codificate per livelli di critica. In seguito sono state misurate le attività cerebrali dei bambini che, durante il test, osservavano una serie di immagini rappresentanti dei volti, ognuna con emozioni diverse.

I risultati emersi dimostrano che i figli di genitori molto critici mostravano meno attenzione a tutte le espressioni facciali emotive, contrariamente a figli di genitori meno critici.

È plausibile dunque che i bambini in stato di angoscia, con un genitore criticista, abbiano maggiori probabilità di ricorrere a strategie di coping evitanti, rispetto ai bambini che non hanno genitori criticisti. Il soggetto che subisce le critiche potrebbe sviluppare credenze psicopatogene, quali convinzioni di inadeguatezza personale, bassa autostima, sensi di colpa. Alla luce di questo risultato, una possibile spiegazione è che i bambini con genitori critici evitano contatti visivi per evitare o ridurre l’esposizione a espressioni critiche.

I ricercatori hanno l’obiettivo di implementare un nuovo futuro studio che andrebbe ad esaminare le reazioni in tempo reale che si sviluppano nel cervello dei bambini sollecitati da commenti positivi e negativi dei loro genitori.

L’itinerario criminologico di Melanie Klein: crimine e riparazione

Il presente contributo offre una disamina dell’itinerario criminologico della psicoanalista Melanie Klein e dell’attualità delle sue riflessioni sulle tendenze criminali e sulle tendenze alla riparazione nei bambini.

Gaetano Esposito

Agli inizi degli anni venti del Novecento anche la Germania conobbe il fenomeno dei serial killer e dei loro crimini efferati. Karl Denke era solito rapire e mangiare vagabondi per poi venderne la carne al mercato nero spacciandola per maiale; il più famoso Fritz Haarmann, “il lupo mannaro di Hannover”, tra il 1919 e il 1924 commise almeno 24 omicidi; abbordava ragazzi di strada, li violentava, li uccideva con un morso alla gola e terminava il suo macabro rito vendendo i loro indumenti.

In quegli stessi anni Melanie Klein compiva i suoi pioneristici studi sul mondo dei bambini sfatando il mito dell’infanzia come oasi di serenità e innocenza. Utilizzando la tecnica del gioco entrava in quel mondo e rinveniva conflitti, angoscia, sensi di colpa e tendenze distruttive.

Uno dei suoi piccoli pazienti immaginava di decapitare un bambolotto e di venderne il corpo a un immaginario macellaio affinché ne rivendesse i pezzi come carne da mangiare. Un altro dei suoi pazienti, Peter, giocando con due pupazzi, costruiva una storia in cui entrambi uccidevano padre e madre e ne mangiavano i corpi.

Le evidenti analogie tra le fantasie dei bambini e gli orrendi delitti commessi dai serial killer non potevano sfuggire alla grande psicoanalista che ne fece oggetto di studio ed espose i risultati della sua ricerca nel simposio tenutosi al British Psycoanalytical Society del 1927, con una relazione dal titolo significativo: Tendenze criminali nei bambini normali. Lo scopo dello scritto non era soltanto quello di dimostrare l’esistenza di tendenze criminali nei bambini normali ma anche quello di risalire all’origine dei conflitti che generano siffatte tendenze.

Il caso del piccolo Peter offrì alla Klein spunti di grande interesse. Il bambino immaginava che i due pupazzetti, rappresentanti egli stesso e il fratellino, erano in attesa della punizione da parte della madre per essersi comportati male ma la paura della punizione diventava così insopportabile da condurre i pupazzi a uccidere barbaramente padre e madre, i quali, resuscitati nella mente del bambino, tornavano e trucidavano, altrettanto barbaramente, i due figlioletti.

Il gioco, che si ripeteva sempre secondo le stessa modalità, evidenziava un nesso di circolarità tra gesti riprovevoli e punizioni, il che portava la Klein alla conclusione che “il desiderio di punizione”, che nel bambino è una causa determinante del suo continuo ripetere azioni riprovevoli, “si ritrova più o meno uguale nel criminale che continua a delinquere” (Klein, 2012, p. 30). Il bambino dunque sviluppa tendenze criminali quanto più teme di essere punito con altrettanta atrocità da parte dell’immaginario genitore che è l’oggetto delle sue fantasie aggressive.

Il senso di colpa del bambino, ingenerato da un Super – io altrettanto sadico, gioca un ruolo importante nella “coazione a ripetere continuamente azioni proibite”.

Riaffiora anche qui il criminale vittima del senso di colpa, evidente richiamo alla tipologia del delinquente per senso di colpa teorizzata da Freud nel 1916, reviviscenza a sua volta del nietzschiano “pallido delinquente”.

Ma Melanie Klein non si fermò alla generica, intuitiva definizione freudiana, spingendosi ben oltre nell’analisi delle tendenze distruttive nei bambini studiò il funzionamento del Super – io e il ruolo che rivestiva nella genesi dell’atto criminale. In particolare fu il caso di un piccolo paziente destinato a finire in riformatorio che offrì alla psicoanalista ulteriori elementi su cui riflettere.

Questo ragazzino di dodici anni, la cui madre era morta precocemente, era stato per lungo tempo sottoposto a continue violenze sessuali da parte della sorella e non riusciva ad avere rapporti con gli altri se non in maniera conflittuale. Le sue azioni criminose consistevano nello scassinare gli armadietti della scuola, nel rubare e nell’aggredire sessualmente le ragazzine della sua età. Secondo Melanie Klein la differenza tra questo piccolo delinquente e Peter, il ragazzino nevrotico, si radicava nel mancato sviluppo del Super – io che, nel primo ragazzo, era rimasto fissato al momento dell’esperienza dolorosa. Un Super – io primitivo e crudele produceva maggiore angoscia e dunque una forte rimozione che “bloccava ogni sbocco alla fantasia e alla sublimazione sicché non rimaneva altro che ripetere continuamente il desiderio e la paura in azioni dello stesso tipo di quelle subite” (Klein, 2012, p. 36).

Klein: l’atto criminoso conseguenza di un Super-io bloccato a uno stadio precoce

Melanie Klein si spingeva un gradino più avanti di Freud ipotizzando che l’atto criminoso trova la sua scaturigine nel senso di colpa e nell’angoscia azionate da un Super – io severo che operava in maniera diversa, essendo rimasto fissato a uno stadio precoce. Il crimine è dovuto dunque a un arresto dello sviluppo del Super – io e non alla sua carenza, come comunemente si crede. Naturalmente anche in questo itinerario criminologico, come in quello di Freud, i fattori sociali vengono sottovalutati e la loro importanza giudicata non rilevante.

Se le cause dello sviluppo criminale nel bambino si annidano nella evoluzione del Super – io, sull’analisi grava il compito, arduo e ambizioso, di modificare tale sviluppo e deviare le tendenze criminali allo stesso modo in cui si trattano le nevrosi. Il trattamento del delinquente si modella su quello delle altre patologie dell’anima, secondo il modello scientista di matrice positivista. L’analisi può guarire il ragazzo delinquente perché la delinquenza trova la sua origine in cause interne ai moti dell’anima e può riuscire nell’impresa perché non esistono bambini irrimediabilmente cattivi nei quali non si possa mobilitare la capacità di amare.

Ma che cos’è questa capacità di amare che l’analisi dovrebbe mobilitare e come si manifesta?

Nel Simposio tenutosi nel 1934 alla Medical Section della British Pasycoanalytical Society l’insigne psicoanalista tornò sull’argomento con una breve relazione dal titolo: Sulla criminalità. In questo breve scritto Melanie Klein ribadiva le conclusioni precedenti e avvertiva che anche nelle profondità della psiche del bambino delinquente si ritrova la capacità di amare. L’analisi del gioco aveva messo in evidenza che i bambini tormentati dall’angoscia distruggevano i giocattoli e ogni sorta di oggetti che si trovavano tra le mani ma poi, quando grazie all’analisi l’angoscia diminuiva, le tendenze sadiche ai attenuavano e il senso di colpa generava tendenze costruttive. Il bambino infatti si adoperava a ricostruire i giocattoli e gli oggetti che aveva distrutto (Klein, 2012, p. 75).

Klein: la tendenza a riparare che segue alla fase depressiva

Questa tendenza costruttiva, che la Klein chiamò tendenza a riparare, costituisce il sostrato della capacità di amare che nel delinquente è solo nascosta e rappresenta la sensazionale scoperta per la psicoanalisi infantile e non solo infantile. Ma da dove trae la sua origine questa tendenza a riparare?

Nello scritto “Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa” del 1948 Melanie Klein fece risalire il senso di colpa e la tendenza a riparare a una particolare forma di angoscia, che definì depressiva, la quale nasce dal male inferto agli oggetti d’amore. Nella fase depressiva il bambino avverte che “l’oggetto leso dai suoi impulsi distruttivi è una persona amata”, da qui la tendenza a riparare, a “ridar vita agli oggetti d’amore”. Questa spinta a riparare ha inoltre una funzione strutturante e benefica per l’Io in quanto “rendendo all’oggetto d’amore la sua integrità ed eliminando tutto il male che gli è stato fatto, il bambino si garantirebbe il possesso di un oggetto pienamente buono e stabile la cui introiezione rafforza il suo Io” (Klein, 2012, p. 96).

In sintesi il senso di colpa nasce dal male cagionato agli oggetti d’amore e attiva le tendenze riparatorie. L’angoscia depressiva, il senso di colpa e la spinta a riparare, secondo la Klein, emergono “solo quando i sentimenti d’amore per l’oggetto predominano sugli impulsi distruttivi”, cioè quando, potremmo dire in termini freudiani, le pulsioni di vita prevalgono su quelle di morte.

Il senso di colpa dunque genera due tendenze: quella distruttiva e quella riparatoria, due forze contrapposte la seconda delle quali si aziona quando prevalgono i sentimenti di amore; da qui l’arduo compito dell’analisi di attivare quella capacità di amare di cui Melanie Klein parlava nell’articolo del 1927 e che si traduce nel riparare l’oggetto – persona danneggiato.

Le scoperte di Melanie Klein offrono notevoli spunti di riflessione in un momento come quello attuale segnato dalla recrudescenza della criminalità infantile soprattutto in relazione a reati particolarmente violenti. L’insegnamento della Klein costituisce un monito per tutti coloro che operano nella giustizia minorile, pedagoghi, educatori, psicologi, giudici, i quali dovrebbero adoperarsi per stimolare forme di riparazione a favore della persona offesa dal reato, risvegliando così, quella capacità di amare che giace nascosta nel cuore di ogni criminale.

Le scoperte di Melanie Klein offrono un contributo di non poco rilievo anche all’odierno dibattito sulla giustizia ripartiva. Nella visione più moderna del reato questo costituisce un fatto sociale o meglio fatto relazionale, cioè un evento che incrina una relazione tra due individui, relazione che va ricostruita per quanto possibile.

In questa ottica di idee la riparazione crea un contatto tra reo e persona offesa al fine di eliminare o quantomeno di attenuare le conseguenze derivanti dal reato. Riparare significa riflettere sulla propria condotta, sui propri errori e adoperarsi per ricostruire la situazione antefatta al reato, fin dove possibile.

Riparare è dunque un gesto consapevole ed è molto più che risarcire il danno, gesto il più delle volte rispondente a un disegno calcolante dell’imputato.

Infine, nell’ottica del recupero del delinquente e della sua risocializzazione, la riparazione rappresenta forse la forma più alta e più concreta di rieducazione.

Le aspettative in gravidanza possono avere un effetto sullo sviluppo postnatale del bambino

Durante la gravidanza le madri si creano delle aspettative rispetto alle caratteristiche del proprio bambino, al modo di entrare in relazione con lui e rispetto al nuovo ruolo di genitore. Queste aspettative deriverebbero da diversi fattori, come la relazione della futura madre con i propri genitori, precedenti esperienze di aborto, depressione, ansia, etc.

 

Le fantasie e le aspettative che le madri hanno durante la gravidanza sul proprio bambino possono configurarsi come un importante fattore di protezione rispetto allo sviluppo dei propri figli ma possono anche rappresentare un fattore di rischio in presenza di distorsioni o polarizazzioni nelle aspettative. Ad esempio, se durante la gravidanza il figlio viene idealizzato nelle sue caratteristiche, è molto probabile che l’immagine idealizzata non coinciderà con le effettive caratteristiche del bambino, generando un forte senso di frustrazione o, peggio, di disprezzo.

A tal proposito, diversi studi hanno dimostrato che una rappresentazione idealizzata è tipica soprattutto durante le prime fasi della gravidanza e, normalmente, tali aspettative tendono a ridimensionarsi in previsione del parto, così che vi sia un migliore adattamento delle fantasie della madre con le reali caratteristiche del bambino.

Gli studi in letteratura

Numerosi studi hanno tentato di dimostrare l’esistenza di un legame tra il modo in cui i genitori pensano al proprio bambino durante la gravidanza e il loro comportamento postnatale. Queste ricerche hanno esaminato, attraverso interviste e questionari, i pensieri e le sensazioni dei futuri genitori riguardo al proprio bambino, durante la gravidanza.

Mediante l’utilizzo di tali strumenti di valutazione, i futuri genitori erano stati distinti sulla base delle loro rappresentazioni:

  • Genitori con rappresentazione bilanciata: mostravano un’anticipazione positiva della loro relazione con il bambino, presentavano rappresentazioni più equilibrate, data l’assenza di polarizzazioni (idealizzazione, svalutazione). Una caratteristica fondamentale di questi genitori, era la loro propensione a riconoscere il proprio figlio come dotato di una mente, con pensieri e sentimenti propri. Tale abilità è definita come Mind-mindedness.
  • Genitori con rappresentazione distorta: al contrario, descrivevano il proprio figlio mediante narrazioni ristrette, incomplete, incoerenti e idealizzate. Tali genitori non sembravano essere in grado di integrare diverse caratteristiche del bambino, aspetti positivi e possibili elementi negativi, così da formare una rappresentazione bilanciata e non idealizzata.

Dopo la nascita, i ricercatori hanno osservato e studiato le interazioni tra genitori e figli. Un elemento a cui hanno prestato particolare attenzione è stata la “sensibilità genitoriale”: ovvero la capacità di notare, interpretare e rispondere in modo tempestivo e appropriato i segnali dei bambini, ad esempio nel momento in cui esprimevano un bisogno/disagio.

I risultati di queste ricerche, secondo una recente meta-analisi svolta dal team dell’Università di Cambridge, hanno evidenziato una modesta associazione tra i pensieri e i sentimenti dei genitori sul bambino durante la gravidanza e la successiva interazione con il bambino, ma tali risultati sono stati rilevati soltanto nelle madri.

Sarah Foley, tra gli autori dello studio, sostiene che l’aver trovato una relazione tra l’atteggiamento di una madre nei confronti del suo bambino durante la gravidanza e le successive interazioni tra questi, rappresenta sicuramente un risultato fondamentale; ma, siccome questo legame è solo modesto, è probabile che sia parte di un processo più ampio in cui rientrano molti altri elementi importanti.

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