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È durante il riposo che il nostro cervello elabora le informazioni sociali

Il nostro cervello è ossessionato dall’essere social. Un nuovo studio della Columbia e California University dimostra la maggiore connessione sperimentata da due regioni del cervello durante il riposo, in seguito alla codifica di nuove informazioni legate alla socialità.

 

Nel presente studio viene analizzato il ruolo di due regioni cerebrali, la corteccia prefrontale mediale e la giunzione tempoparietale, aree deputate all’inferenza sociale, alla capacità di valutare le personalità, gli stati mentali e le intenzioni altrui.

I ricercatori, guidati da Meghan L. Meyer, direttore del Dartmouth Social Neuroscience Lab, basandosi su ricerche precedenti, sono partiti dal presupposto che queste due aree mostrano un picco spontaneo nella connettività durante il riposo, ma ancora nessun studio ha dimostrato empiricamente come tale connettività funzioni in caso di socialità.

Lo studio sperimentale

Lo studio è stato condotto su 19 partecipanti, i quali sono stati invitati a completare delle attività di codifica sociale e di codifica non sociale, durante una sessione di scansione del cervello fMRI.

Il disegno sperimentale prevedeva la scansione di uno stato di riposo al basale, separando le scansioni dello stato di riposo dalle scansioni di codifica sociale e codifica non sociale. Durante il riposo (di 8,4 minuti) i soggetti ricevevano l’indicazione di poter pensare a qualsiasi cosa purché rimanessero svegli. Il compito di codifica sociale prevedeva l’osservazione della fotografia di una persona, “un professionista”. In seguito all’osservazione, i partecipanti avevano il compito di valutare l’impressione della persona valutandone il calore e la competenza su una scala da 1 a 100 sullo schermo di un computer. Il compito di codifica non sociale era basato sull’osservazione di un luogo abbinato a due tratti utilizzati per descriverlo: calore (in termini di temperatura) e piacevolezza, utilizzando sempre una scala da 1 a 100. Nessuna fotografia di persona è stata mostrata in questa fase.

Le prove codificate dai partecipanti erano 120, 60 sociali e 60 non sociali. Le fotografie usate per queste 120 prove sono state recuperate da un database online.

In seguito alla scansione fMRI, i partecipanti hanno completato una prova di memoria associativa a sorpresa, con lo scopo di valutare se potevano identificare con precisione determinate foto di persone e luoghi e il loro rispettivo insieme di tratti, presentati in precedenza durante le 120 prove.

I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: il primo gruppo di partecipanti svolgeva prima i compiti sociali ed in seguito i compiti non sociali, mentre il secondo gruppo di partecipanti svolgeva prima i compiti non sociali e poi quelli sociali.

I risultati

Dai risultati è emerso che durante il periodo di riposo in seguito alla codifica seriale, si è verificato un aumento della connettività tra la corteccia prefrontale mediale e le regioni della giunzione tempo-parietale. È inoltre emerso che maggiore è la connettività tra queste due regioni predefinite, maggiore è il livello delle prestazioni della memoria sociale.

Ciò che i ricercatori hanno avuto modo di osservare è un effetto per cui i partecipanti del primo gruppo hanno mantenuto livelli più elevati di connettività tra le due aree cerebrali durante il periodo riposo post-compito sociale e anche durante il periodo di riposo post-compito non sociale. Questo elemento non è emerso nel secondo gruppo, ovvero tra coloro che svolgevano prima i compiti non sociali.

Tale studio dimostra come il cervello consolida le informazioni sociali non appena ha l’opportunità di riposare. Meyer ha infatti aggiunto “quando la nostra mente ha una pausa, possiamo dare priorità a ciò che apprendiamo sul nostro ambiente sociale”.

FotografiaTerapia

La fotografia nella vita contemporanea, oltre ad essere un’arte, un registratore di ricordi, uno strumento atto all’informazione (come possono essere, ad esempio, i reportage), può essere considerata un modo di esprimere i sentimenti di un determinato istante, di un momento ben preciso.

 

Spesso, ad esempio, accade per ognuno (o per la maggior parte) di fotografare, con uno smartphone o con una fotocamera, dei soggetti particolari, come un palazzo, una persona, un oggetto…poi, dopo qualche ora oppure il giorno dopo, si nota che la stessa fotografia non mostra più quel significato particolare che aveva nell’istante in cui è stata scattata, e questo rende difficile spiegare il motivo per cui quella fotografia sia stata realizzata (in questo caso si parla dell’atto del fotografare e del registrare pensando che il soggetto debba essere mantenuto nella memoria, e non alle fotografie fatte per essere inviate agli altri o per dimostrare qualcosa agli altri).

Fotografia, tecnologia e cervello

Ma il motivo di questa incapacità di dare una spiegazione oppure il fatto di non poter esprimere una sensazione precisa guardando quella foto, quale può essere? Perché si sente l’esigenza di eliminare, o meglio, di distruggere tante fotografie scattate durante il quotidiano? Il cervello umano, avendo la caratteristica di decentratore, oltre a concentrarsi sui soggetti che interessano al conscio, include nel raggio d’interesse anche i soggetti che affascinano l’inconscio; essi, normalmente volatili e legati al tempo, allo spazio e alla situazione fisica e mentale dell’individuo, per diverse ragioni, che possono essere l’autocensura (proveniente dalla morale personale e sociale), le paure, la stanchezza, si celano nella nebbia e vanno a formare il margine, la cornice dei soggetti principali. Quelli secondari registrati nelle fotografie (che possono essere definiti soggetti invisibili), oltre a dare una sensazione piacevole a chi fotografa (e a volte anche non piacevole), permettono, attraverso l’analisi sui soggetti stessi e la concentrazione dell’analisi, di conoscere il processo d’azione dell’inconscio, che può essere di impronta grottesca oppure realistica. Per conoscere qualsiasi cosa, senza dubbio, c’è bisogno dell’ausilio del cervello, ma per conoscere il nostro sistema nervoso centrale e le sue forme psichiche, che strumento bisogna usare? Sicuramente il cervello stesso. E proprio l’impiego di questo strumento, usato per conoscere lo stesso strumento, complica il lavoro ed obbliga ad entrare nello stato di dormiveglia o di anestesia del cervello, al fine di conoscere ed analizzare tutti gli angoli che sono fuori dalla sua forma naturale; questo è il caso specifico del fotografare venuto dall’inconscio che, come l’ingresso nel mondo nebbioso del dormiveglia, aiuta ad illuminare, appunto, gli angoli nascosti del cervello. Un altro motivo per cui si sceglie la fotografia per conoscere questi punti bui, è il metodo secondo cui agisce il cervello nella fase di salvataggio delle informazioni ed in quella di protezione delle informazioni già salvate e catalogate. Il motivo di questo risiede nel fatto che, il cervello umano, invia tutte le informazioni ricevute dai sensi al centro di salvataggio delle stesse ed utilizza la memoria come uno scudo, per evitare che le informazioni immagazzinate salgano in superficie, in quanto, così facendo, le allontana dall’erosione e poiché, salendo in superficie, esse potrebbero perdere le loro peculiarità ed infine perché così evita che il funzionamento del cervello diventi caotico, visto l’alto volume di dati che esso contiene. Per questo motivo, una grande quantità d’informazioni non è a portata di mano, quindi, quelle alle quali si tende, è necessario raggiungerle trovando una strada per attraversare questo confine, questo scudo, giungendo a quelle stesse informazioni che è possibile ottenere attraverso la fotografia e che consentono di conoscere l’inconscio di un individuo.

Le informazioni ottenute con la fotografia, possono essere più utili rispetto a quelle ottenute con altri metodi di Arteterapia, quali l’analisi, la pittura, la danza e, più in generale, con tutti i metodi di espressione in cui esse sono nascoste in modo complicato ed in circonlocuzione.

È possibile, attraverso le fotografie scattate in questa maniera, arrivare alle informazioni che si trovano dietro lo scudo della memoria, anche in un modo diretto e chiaro, già con la prima analisi, in modo da decifrare i soggetti primari ed ottenere una quantità maggiore di informazioni dall’inconscio. Un’altra caratteristica unica della Fotografia-terapia, è il fatto che la documentazione delle espressioni dell’individuo che fotografa, può avvenire in ogni momento e all’improvviso; questo modo di psicoanalizzare, offre all’individuo la possibilità di esprimersi nella sua vita quotidiana ed in ogni luogo, come ad esempio in ufficio o dietro la finestra di casa, potendo cogliere maggiori opportunità e libertà assolute. Ciò significa che, il soggetto in analisi, per esprimersi non deve essere necessariamente in un luogo preciso ed in un momento esatto sotto il microscopio di uno psicologo; infatti, questa circostanza, oltre a dare uno spiccato senso di libertà ed una sensazione piacevole, rende le espressioni più profonde, poiché la mente della persona, in questa assoluta libertà spaziale e temporale, si esprime in un modo meno intenzionale, usando, quindi, meno energia per farlo. Così il risultato sarà di certo più profondo.

Come fare fotografie?

Per realizzare la ricerca secondo questo approccio, la fotografia deve essere scattata attraverso una fotocamera compatta oppure uno smartphone, poiché lo strumento impiegato non deve creare limiti nell’individuo che fotografa e non deve stancarlo, infatti usare una fotocamera di dimensioni normali, sarebbe come tornare al punto di partenza (in un posto preciso ed in un momento preciso), non essendo uno strumento usuale nella vita quotidiana. Fotografare deve essere un’azione continua ma racchiusa in un determinato periodo di tempo (un esempio potrebbe essere fotografare a giorni alterni per 10 giorni) per creare una struttura ritmica nel cervello del paziente, una situazione che pone chi fotografa nei panni di chi riveste un ruolo importante.

Il modo di illustrare lo svolgimento della ricerca al paziente deve essere chiaro, non deve presentare dettagli nascosti, in modo da permettere al paziente di comprendere bene la sua reazione in qualsiasi momento e rispetto a qualsiasi scena (anche se potrebbe sembrare infantile o volgare), perché nel periodo di svolgimento della ricerca, questo potrà fornire una fotografia-chiave, la soluzione. Nel realizzare questa ricerca, il paziente deve sentirsi, quindi, totalmente libero, il che significa che egli potrà fotografare tutto ciò che ritiene interessante e tutto ciò a cui guarda in modo conscio, oltre ai soggetti secondari che, in un istante, suscitano il suo interesse.
A questo punto, è bene sapere che le fotografie che mostrano soggetti primari chiari, sicuramente avranno in esse anche soggetti secondari; se si pensa, ad esempio, alla foto di un palazzo, nei dettagli si potrebbe notare il colore rosso di una tenda dietro una delle finestre, oppure una porta aperta a metà, tutti dettagli che possono essere molto preziosi per il ricercatore. Il risultato di questa ricerca è legato al paziente e può avere un tempo di realizzazione variabile, in base a diversi parametri quali: età, voglia di collaborare, presenza (più o meno forte) di inconscio represso e situazione fisica del paziente, caratteristiche molto importanti se proiettate verso il raggiungimento dell’esatta risoluzione del problema ed alle quali il ricercatore deve porre molta attenzione, poiché esse si rivelano fondamentali durante la fase di osservazione e durante l’intero processo di analisi.

Al termine della ricerca, le foto raccolte, per prima cosa devono essere divise in quattro categorie dal paziente; la prima divisione deve basarsi sull’importanza delle fotografie, vale a dire che egli dovrà dividere, appunto, le sue fotografie in due categorie principali: le fotografie più importanti e quelle meno importanti. Successivamente, tra le più importanti, dovrà selezionare quelle che hanno un’importanza maggiore e, tra quelle meno importanti, quelle che hanno un’importanza minore. Attraverso tale suddivisione nelle quattro categorie sopra descritte, il paziente metterà, inconsciamente, le fotografie con i soggetti più nascosti (che saranno le fotografie-chiave per il ricercatore) tra il gruppo delle fotografie meno importanti, in modo graduale, ovvero posizionando le fotografie che contengono i soggetti più nascosti nel secondo gruppo delle fotografie meno importanti, ovvero tra quelle meno importanti tra tutte. Per la prima analisi dei prodotti fotografici, bisogna considerare le seguenti sei caratteristiche:

1. i soggetti primari

2. i soggetti secondari

3. i colori, la loro quantità ed il modo di combinarsi tra loro nelle immagini

4. il momento dello scatto

5. le condizioni dello spazio, comprese le condizioni acustiche, climatiche, ecc. in cui il paziente fotografa

6. la quantità di fotografie

Nel trovare i soggetti primari, sicuramente il ricercatore non riscontrerà molti problemi, poiché essi sono molto chiari, come ad esempio il mare, gli alberi, il sesso delle persone nelle fotografie, gli oggetti medio-grandi; questi ultimi, di sicuro, riflettono in modo molto chiaro le sensazioni ed il significato che, quegli stessi soggetti, danno al paziente. L’analisi dei soggetti secondari, invece, si deve concentrare su aspetti diversi, prendendo il via dalla conoscenza della simbologia delle forme e della sensazione psicologica dei materiali che sono racchiusi nella fotografia (metallo, legno, plastica…); ad esempio, il desiderio inconscio di fotografare soggetti triangolari, può indicare un animo combattente e guerriero, ma può essere anche l’espressione di una sensualità forte e molto viva, siccome il triangolo dà esattamente queste sensazioni, per i suoi angoli molto appuntiti, così come il quadrato o il cerchio, esprimono sensazioni diverse, in base alle loro caratteristiche.
Anche le sensazioni psicologiche date dai materiali, come visto, possono aiutare a conoscere altre caratteristiche che sono più nascoste; ad esempio, la voglia inconscia di fotografare il color oro, può essere un segno del desiderio di lusso e può simboleggiare la ricerca della ricchezza.

I colori e la loro quantità in combinazione, devono essere analizzati da due punti di vista differenti: sensazione psicologica e sensazione fisiologica. Si prenda ad esempio il colore azzurro: esso indica la sensazione fisiologica del sapore dolce ed è noto per il fatto che provoca l’abbassamento della temperatura corporea, ma, allo stesso tempo, dal punto di vista delle sensazioni psicologiche, esso è noto per essere portatore di tranquillità e del senso di calma. Altrettanto utile nella decifrazione del paziente durante la ricerca, è la combinazione dei colori in un’immagine; ad esempio i colori grigio e nero, che si trovano insieme in una foto, possono simboleggiare insoddisfazione e bisogno di scappare da una pressione psicologica, nonché dallo stress (in questo caso è possibile trarre aiuto dal Color Test, la ricerca effettuata dal Dr. Max Lüscher).

Il tempo, ovvero il momento in cui è stata scattata una fotografia, nell’analisi dell’inconscio può essere molto significativo; ad esempio, una foto scattata alle ore 20.00 (8 pm) da un impiegato d’ufficio, che scatta quella foto tornando a casa da lavoro, potrebbe esprimere il senso di liberazione delle sensazioni represse durante il giorno, siano esse positive o negative.

Infine, le condizioni spaziali, che non sono visibili nella foto, possono essere notevoli se, da parte del paziente, esiste la possibilità di ricordarle e raccontarle. In particolare, sono interessanti le condizioni create dalle persone che gli sono intorno nel momento dello scatto, dalla loro sessualità, dalle loro voci, dagli odori.

Fotografia come terapia: conta anche la quantità

A questo punto, è necessario passare all’analisi del carattere del paziente attraverso un particolare elemento: la quantità delle foto. Se si pensa a tutto ciò che è stato detto fino ad ora, è facile comprendere che le foto prodotte in questa maniera, affermano un tipo di volontà o di espressione che possono essere validi non solo per registrare i soggetti primari e secondari (sia visibili che invisibili) ma, viceversa, anche per fuggire dagli stessi. Nell’analizzare le foto che l’individuo cerca di non considerare oppure di eliminare, a volte ci si trova di fronte a delle fotografie che sembra derivino non da sensazioni piacevoli, ma da uno stato di repressione o da una deviazione della tensione creata da uno stato di ansia o di insicurezza insita nell’individuo.
Nella vita di oggi, a volte, si può considerare l’atto di fotografare come un atto di repressione, come un modo conveniente, accettabile e piacevole (dovuto alla memoria di grande capacità dei cellulari) per la maggior parte della società, oppure come un gesto intellettuale, o ancora come un gesto fatto a dimostrazione della soddisfazione del fotografo. Si immagini, ad esempio, un individuo seduto al ristorante al tavolo con alcune persone che non ritrova nel suo stesso livello: questa è un’incongruenza che abbassa il livello di sopportazione di quell’individuo, ma innalza la sua tensione fino al punto massimo. Così quest’individuo, che si vede soggetto ad una serie di disturbi che si verificano nelle sue sensazioni interiori, sente la necessità di compiere un’azione o, invece, di abbandonare questa situazione ed uscire, il che potrebbe risultare una mancanza di rispetto. In questo istante egli prende il suo cellulare e si mette a fotografare persone o qualsiasi altro oggetto intorno a sé, in modo da abbassare il livello della sua tensione interiore e mostrare, invece, agli altri, di trovarsi in un momento di gioia, un momento da ricordare e che va registrato, oppure lasciar trasparire di aver trovato qualcosa di prezioso da fotografare, qualcosa che gli altri non sono riusciti a vedere o a capire! E questo suscita la curiosità degli altri, li spinge a cercare cose piacevoli e, al tempo stesso, aiuta se stesso a mostrare il suo aspetto intellettuale e la sua soddisfazione. Ci può essere, però, la possibilità che anche quelle persone conoscano questo “gioco” e che, quindi, il risultato sperato non venga raggiunto, ma resta comunque conveniente, in qualsiasi senso, per chi si sente a disagio! È possibile fare un altro esempio: si immagini un individuo seduto in treno, stufo del ritardo rispetto all’orario di partenza; egli cerca, attraverso la produzione di foto, di soddisfare se stesso e di mostrarsi soddisfatto agli altri, anche se tra il “pubblico” non ci sono conoscenti.

Perchè fotografiamo?

Se si guarda alle esperienze nel campo della psicologia, si comprende bene che l’individuo che vive sotto la pressione creata dal mondo degli istinti interiori (o ID), oppure sotto la pressione creata dal mondo dei limiti dell’IO (detto anche Ego o Super Ego) a volte cerca, attraverso atteggiamenti anormali o isterici, come il muovere convulsamente il piede, di abbassare la tensione finché è possibile, o quanto meno di deviarla. Ma si può considerare la fotografia, o l’uso del cellulare, come un atto fuori dal proprio controllo, esattamente come quel muovere il piede o mangiare le unghie?
Il sistema nervoso umano e la complessa rete che lo controlla, sono divisi in due parti: il sistema nervoso centrale e il sistema nervoso autonomo, di cui il primo è responsabile dei movimenti fisici e dei sensi che si trovano vicino o al di sopra della conoscenza (come l’atto di imparare), mentre il secondo è responsabile di gran parte della memoria. È quest’ultimo che ha la responsabilità riflessiva (Reflex Apparatus) come la paura, la rabbia e l’emozione; per questo motivo, si divide ulteriormente in due parti: Sistema Nervoso Simpatico e Sistema Nervoso Para-simpatico. Il primo, sotto l’effetto dell’emozione, fa aumentare il battito cardiaco ed alzare la temperatura corporea, mentre il secondo, nel momento in cui termina lo stato emotivo, fa tornare il corpo alla sua situazione normale. La collaborazione tra il sistema nervoso simpatico e quello parasimpatico, però, non sempre può risolvere tutti i “disagi” del corpo. Ad esempio, quando l’occhio incontra una luce molto forte, il sistema nervoso, diminuendo l’ampiezza della dilatazione della pupilla, abbassa la quantità di luce che entra nell’occhio e, se sente ancora il bisogno di resistere alla luce, reagisce istintivamente chiudendo l’occhio e risolvendo il problema. Diverso è il caso del senso di fame, che non si risolve solo attraverso il cambiamento del movimento dei muscoli dello stomaco, ma con la contrazione dei muscoli e la secrezione di ormoni attraverso il sistema simpatico, arrivando, così, come un messaggio al sistema nervoso centrale che darà all’individuo l’input di muoversi per cercare cibo, ma in modo conscio. Lo stesso accade nei neonati che, per l’incapacità di procurarsi autonomamente da mangiare, dimostrano la fame (in modo simbolico) con il pianto, utile a richiamare i genitori.

Fotografia e atteggiamenti anormali

Le nuove ricerche odierne hanno dimostrato che, oltre all’ansia, anche le sensazioni di frustrazione e di desiderio del perfezionismo sono la causa dell’insorgere di atteggiamenti anormali, come mangiare le unghie o muovere il piede, esattamente come un individuo che crede di dover essere in una situazione di un livello più alto rispetto a quella in cui si trova, ma che di fatto non lo è, né in un determinato momento né in un tempo indeterminato; così egli si pone in quegli atteggiamenti anormali. Appurato che queste sensazioni di ansia e frustrazione derivano dal conscio dell’individuo, essendo l’individuo incapace di cambiare la situazione in cui si trova, trasforma il suo comportamento, inconsciamente, in quegli atteggiamenti di cui sopra. Si immagini, ad esempio, una persona che in ufficio, si sente in un livello più alto rispetto al suo posto di lavoro, o una persona che si trova in un momento sbagliato nel posto sbagliato: entrambe si sentiranno a disagio ed in ansia. In questi due esempi, accomunati dal fatto che lo stato di ansia degli individui deriva dal loro conscio, si nota che o per l’incapacità di cambiare la situazione o per la loro educazione sociale, essi non riescono a cambiare quella situazione, quindi, attraverso il sistema nervoso simpatico, sprigionano la tensione e la repressione. In questo punto si pone, però, una domanda: visto che è possibile abbassare le tensione sempre con comportamenti del corpo simbolici, si può considerare l’uso del cellulare o l’atto di fotografare come un atteggiamento anormale del corpo? Oppure, si può considerare un dispositivo come una parte del corpo? Oggigiorno, le nuove esperienze e le nuove scoperte sul sistema cerebrale hanno dimostrato che il cervello non è un sistema duro e fermo, come si è potuto notare, ad esempio, nelle persone che hanno perso un braccio o una gamba in un incidente; è dimostrato che quella parte del loro cervello atta a registrare i sensi degli arti perduti, dopo l’incidente, si mette a disposizione delle altre parti del corpo, rapidamente, così come è stato confermato scientificamente anche degli studi di Alvaro Pascual Leone (1993) svolti circa l’uso della parte ottica del cervello impiegata per la Lettura Breil. I ricercatori, tenendo sempre in considerazione le ricerche svolte in passato, hanno confermato l’idea della flessibilità celebrale come un sistema di cura in casi di danno al cervello o alle sue parti sensibili, mentre le analisi successive hanno dimostrato che la flessibilità è continua ed immensa, e che è presente anche nei sistemi nervosi sani e normali. Quindi, i neurologi hanno concluso che il cervello è in continuo cambiamento e che esso si adatta anche ai più piccoli cambiamenti spaziali e comportamentali. Mark Hallet , direttore della Facoltà di Medicina Cerebrale dell’Istituito Sanitario dell’America, dice:

abbiamo capito che la flessibilità del sistema celebrale non solo è possibile, ma è anche un atto continuo, vuol dire che è un modo attraverso cui noi ci adattiamo sempre all’ambiente che ci circonda, scopriamo verità nuove ed impariamo formule nuove.

Negli anni passati, sono state svolte delle ricerche sulle scimmie, durante le quali esse sono state educate ad usare la forca per raggiungere il cibo che era lontano da loro; in questa ricerca, gli scienziati hanno compreso che le zone ottiche ed i movimenti della parte del cervello responsabile del lavoro manuale (la “mano” con cui loro prendevano il dispositivo, la forca), durante la fase di educazione hanno avuto una grande crescita e che anche la forca o la pinza sono diventate parte della mappa celebrale dell’animale. In altre parole, la forca è diventata una parte del corpo dell’animale. Un’analisi simile è stata svolta sui tassisti inglesi (1990): i ricercatori inglesi, durante queste analisi, hanno effettuato una scansione dei cervelli di 16 tassisti che avevano esperienza in questo lavoro, variabile tra i 2 ed i 42 anni. I risultati hanno dimostrato che la parte lobo-occipitale dell’Hippocampus, cioè la parte che ha un ruolo chiave nel salvataggio e nell’elaborazione della vista spaziale dell’ambiente intorno alla persona, nei tassisti è molto più grande rispetto alla dimensione normale e, inoltre, hanno mostrato che, quanto più elevata è l’esperienza, tanto più grande è la parte lobo-occipitale dell’Hippocampus. Un’ulteriore scoperta interessante è stata che la parte lobo-frontale dell’Hippocampus, responsabile della sfera emotiva e caratteriale della persona, in questi tassisti era più piccola, aspetto che deriva dal fatto che la parte lobo-occipitale dell’Hippocampus, invece, si è sviluppata molto di più per il tipo di lavoro che svolgevano. Alla fine è stato possibile affermare che guidare nella complessa rete stradale di Londra, ha cambiato l’equilibrio tra le due parti del cervello degli autisti.

Ora, considerando tutte queste ricerche ed apprezzandole, è possibile affermare che, in questa realtà carica dell’iper-uso del cellulare e della fotocamera, ha reso questi oggetti parte del corpo per alcuni di noi, modificando la struttura flessibile del nostro cervello. Tenendo questo bene a mente, si può dire che l’atto di prendere il cellulare e fare una foto, per tanti è come usare una parte del proprio corpo; in altre parole, si può dire che, piuttosto che mangiare le unghie o muovere convulsamente il piede, alcuni prendono il cellulare e scattano delle fotografie. Infine, è possibile dire che alcune foto raccolte da una persona, sono piene di sensazioni quali ansia, insicurezza o fallimento, e sono fotografie che rendono vivo il ricordo di quel momento e di quello spazio che risultano fastidiosi; per questo motivo, l’individuo cerca di distruggere quelle foto, non solo di non considerarle. Il lavoro che intendiamo svolgere, quindi, è proprio l’analisi sulle foto che risultano essere al confine con questa distruzione, in cui si possono cogliere i momenti, gli ambienti, le persone, ma anche i fastidi ed allontanarli dall’individuo per trovare una sensazione di sicurezza per il­ pazi­ente.

L’ultimo livello dell’analisi delle fotografie, è dare la possibilità al paziente di modificare le foto scattate, dandogli la possibilità di apportare modifiche quasi impercettibili, attraverso applicazioni semplici, quelle stesse già contenute in fotocamere compatte, smartphone e pc, con le quali può essere modificata la luce ed il colore, magari utilizzando dei filtri già impostati. Inoltre, egli potrebbe modificare la cornice e le dimensioni delle fotografie con il ritaglio. Nelle fotografie ritoccate, qualsiasi modifica effettuata può dimostrare un dettaglio importante, un dettaglio che può rivelarsi la chiave, la soluzione. Ad esempio, se il paziente sceglie di perfezionare una foto scattata in casa sua, applicando un filtro che tende all’azzurro, oppure abbassando il calore dei colori della foto, mostrerà il suo desiderio di creare un ambiente calmo e confortevole tra le mura casalinghe. Un altro esempio può essere il taglio di una fotografia, un taglio che esclude un dettaglio dalla foto stessa, che indica il desiderio di eliminare, naturalmente in modo simbolico, quel determinato soggetto dalla sua vita. Nel caso di eventuali fotografie in bianco e nero, esse devono essere considerate con attenzione, poiché acquisiscono il valore di un sogno: modificando le foto in questo senso, il paziente sta indicando la strada della volontà di creare un legame profondo ed intimo con il suo inconscio, con i suoi sogni, ma anche con i suoi incubi. I risultati raccolti da ogni punto di quest’analisi, di sicuro hanno un legame forte tra loro, e possono completarsi l’un l’altro, essendo l’uno il supplemento dell’altro, in modo che, il risultato finale, sicuramente, sarà un insieme della relazione tra tutti i risultati ottenuti.

“Non sono un algoritmo” – Book Trailer di Claudio Lombardo

L’interazione tra uomo e robot si fa sempre più concreta e porta con sé alcuni interrogativi sulle possibili modalità di interazione e comunicazione con questi nuovi “compagni umanoidi”.

[blockquote style=”1″]Il mio corpo è vergine dal punto di vista elettronico. Io non incorporo chips al silicio, impianti retinici o cocleari, […] ma lentamente sto diventando sempre più un cyborg. Lo stesso succede a voi. […] Perché noi diverremo cyborg non nel banale senso di combinare carne e metallo, ma nel senso più profondo di essere simbionti umano-tecnologici: sistemi che pensano e ragionano, le cui menti e i cui Io sono distribuiti tra cervello biologico e circuiteria non biologica.[/blockquote]
Clark (2005)

“Non sono un algoritmo” è un libro che cerca di rispondere a più domande inerenti alla reciprocità comunicativa che si instaura tra uomo e robot, essendo tale interazione un processo basato principalmente: 1) su come l’essere umano concepisce la relazione con il robot (credenze, convinzioni, modelli mentali ecc.) che dipende anche 2) dalle caratteristiche (l’architettura o il design robotico, le competenze e abilità del robot: intenzionalità, emotività, personalità). Fattori che i ricercatori tentano di studiare e/o manipolare per rendere capaci i robot di partecipare alla ricchezza della società umana.

Un nuovo modo di fare psicologia

Domanda iniziale di questo libro è “Come pensiamo al robot”. Ma non possiamo non far caso al modo in cui il “pensare al robot” ha trasformato come “pensiamo alla psicologia”: i metodi di indagine, di analisi e le teorie, come son cambiati?

A differenza dei tradizionali studi sui soggetti umani, i ricercatori del campo multidisciplinare della robotica, ricalcando passo dopo passo i meccanismi soggiacenti fenomeni psico-sociali, producono un modello empirico in cui la dimostrazione è il comportamento del robot.

In altri termini un modello scientifico di psicologia che utilizza un “andirivieni” tra HHI e HRI per dimostrare con assoluta certezza le proprie ipotesi: l’HRI parte da ipotesi di ricerche di modelli dell’HHI coinvolgendo e accrescendo la comprensione di quest’ultima, così, ad esempio, un robot potrebbe rappresentare una “sonda interattiva” per valutare i meccanismi sensoriali e motori alla base dell’interazione uomo-uomo (Sciutti, Sandini, 2017). Facciamo un esempio.

Tornando alla ricerca di Becchio e collaboratori (2017), il principio di osservabilità/inosservabilità può essere esteso anche ad altri aspetti del comportamento utilizzando la stessa e identica logica presentata in questo studio: 1) prima verificare se in un dato comportamento (ad esempio, oltre al movimento proposto nella ricerca, nell’eloquio) sia presente un’informazione sufficiente che discrimini due stati differenti (felice o triste) 2) identificare quali sono le caratteristiche (del linguaggio) che permettono di discriminare tra questi due stati 3) verificare se un osservatore esterno è in grado di utilizzare l’informazione presente 4a) se la risposta è sì: quale e a quanta di questa informazione è in grado di utilizzare (efficienza percettiva) 4b) Di contro, se colui che deve percepire non riesce, l’osservabilità sarà nulla e, quindi, il “modello psico-comportamentale” andrà modificato fino al raggiungimento del punto 4a.

Questo si traduce non soltanto in un arricchimento delle teorie psicologiche ma implementando, ad esempio, una cinematica o modulazione vocale intenzionale, è possibile studiare approfonditamente le dinamiche della Teoria della Mente (ToM), dato che, in tali termini, uno stato mentale è osservabile.

Psicologia e intelligenza artificiale

Nei vari passaggi multidisciplinari di questo libro si ravvisa un modo di guardare le valutazioni in corso legato alla ricerca psicologica e all’intelligenza artificiale: la presa di coscienza dell’irriducibile complessità di ogni fenomeno che invita a non trascurare gli aspetti meno evidenti dei fenomeni e non tentare una loro riduzione ad aspetti considerati più evidenti e “fondamentali”, come in passato è accaduto con l’intelligenza artificiale in cui la frettolosa creazione di un surrogato cerebrale – appunto, il “cervello artificiale” –, non provvisto di supporto fisico umanoide, ha direzionato la ricerca al fallimento nell’aver trascurato l’essenziale componente embodiment. Un’intelligenza che non può essere rappresentata da una parte riprodotta artificialmente del sistema-uomo ma che nella complessità di tale sistema trova un reale equivalente. (La robotica ha dimostrato in modo tangibile come corpo e cervello siano un’unità e come l’apprendimento non sia essenzialmente una questione mentale.)

HRI/HHI, ToM e evoluzionismo

Le ricerche, come abbiamo visto, suggeriscono che, dal punto di vista dell’utente, l’interazione con un’entità artificiale è simile all’interazione con gli altri umani (Krämer, et al., 2012), anche se l’intera ricerca che gravita attorno l’HRI mira a superare l’ipotesi dell’uncanney valley, ovvero quel senso di spiacevolezza e inquietudine nel momento in cui il robot raggiunge un livello di somiglianza paritetica all’uomo.

Non indagata nelle attuali ricerche la radice di tale ipotesi, tra le righe di questo libro, l’uncanney valley è riconducibile ad aspetti prettamente evoluzionistici e letture freudiane.

Il richiamo alla componente evoluzionistica è in riferimento ad un automatismo primordiale al quale l’uomo si attiene durante l’interazione con un umanoide artificiale: è come se ci fosse una lettura coerente tra l’aspetto umanoide e le sue abilità interne, e se violata tale coerenza si cadesse nell’ipotesi dell’uncanney valley. Si può dedurre che qualsiasi algoritmo/software, il design, la meccatronica dovranno essere implemente in modo da non deludere le aspettative dell’utente umano. I disegni esterni, l’hardware del robot, dovranno essere creati sotto un profilo che rispecchi il software, la parte interna. Nell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) è stato superato questo impasse realizzando un robot (iCUB) con un corpo che non rifletta in maniera identica quello umano, infatti, in iCUB – come ormai in molti robot costruiti in tutto il mondo – troviamo un accenno del naso, ma non la riproduzione del naso vero e proprio come in alcuni robot umanoidi creati quasi per sfida in modo speculare all’uomo, dove, l’ipotesi dell’uncanney valley, trova terreno fertile.

L’altro aspetto considerato riguarda la prospettiva freudiana, ovvero di uno stato di categorizzazione percettiva di incertezza “vivo o morto” dove ne scaturiscono giudizi percettivi necessari a produrre reazioni perturbanti come nel caso di statue, bambole e automi simili a umani. Rendere più “vivi” i robot umanoidi può alleviare o sopperire ai sintomi dell’uncanney valley. La ToM nel robot si configura come una competenza che può permettere di far raggiungere tale obiettivo.

In base a questa incoerenza, si potrebbe sostenere come un robot senza una ToM di base (ad esempio quella riscontrabile nei primissimi anni di vita dei bambini) sia destinato a svolgere un lavoro limitato, in quanto delude le aspettative dell’utente e non potrà così mai coinvolgere efficacemente gli esseri umani o lavorare in modo cooperativo.

In altri termini l’implementazione della complessità dei meccanismi cibernetici degli umanoidi artificiali interattivi con la coesistenza di una ToM artificiale – che possa consegnare quella “coerenza” nell’interazione tra uomo e robot – potrà permettere di superare l’uncanney valley, ovvero quella “dissonanza cognitiva” che proviene dall’incongruenza tra le prestazioni dell’hardware e il software (la perfezione estetica non rispecchia le competenze che gli si potrebbero attribuire con una conseguente uncanney valley. Una dissonanza calcolata in base al livello di trust delle persone in relazione alle skills dimostrate dal robot (Freedy, Amos, et al., 2007; Yagoda, Gillan, 2012; Salem, et al. 2015).

E se nell’introduzione di questo libro è stata utilizzata la metafora di Polifemo nella conclusione possiamo far riferimento al racconto de “La volpe e l’uva”, in cui il desiderio dell’uva (desiderio dell’interazione con il robot da parte dell’uomo) e l’incapacità di arrivarci (impossibilità di interagire in accordo al grado di evoluzione dell’aspetto mostrato) porta alla conclusione che “l’uva è acerba” (uncanney valley).

Lasciamoci guidare dagli odori! L’esperienza sessuale passa dal nostro naso

L’ olfatto gioca un ruolo importante e delicato nell’ esperienza sessuale dei mammiferi. In particolare sembra influenzare la selezione, la scelta o l’evitamento di un probabile partner sessuale con il quale accoppiarsi e l’abilità di riconoscimento delle emozioni altrui.

 

Uno studio di Bendas, Croy e Hummel, recentemente pubblicato su Archives of Sexual Behavior, ha mostrato come un’alta sensibilità agli odori negli adulti sia fortemente legata alla percezione di un maggiore piacere nelle attività sessuali, supportando l’ipotesi per la quale l’ olfatto è in grado di arricchire e migliorare l’ esperienza sessuale.

“[…]non va più via l’odore del sesso che hai addosso” cantava Ligabue in una sua famosa canzone.

Il verso della canzone riporta una relazione tra l’odore, l’ olfatto e il comportamento sessuale che recentemente è stata evidenziata e confermata anche dalla ricerca.

Il senso dell’ olfatto infatti gioca un ruolo importante e delicato nelle interazioni sessuali dei mammiferi. In particolare sembra influenzare la selezione, la scelta o l’evitamento di un probabile partner sessuale con il quale accoppiarsi e l’abilità di riconoscimento delle emozioni altrui (Stevenson, 2009).

I deficit della funzione olfattiva influenzano la qualità dell’esperienza sessuale

Uno studio di Burke, Veltman, Gerber e colleghi (2012) ha sottolineato come la percezione olfattiva di alcuni componenti degli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e testosterone, presenti nell’odore naturale che contraddistingue un individuo, eliciti l’attivazione dell’arousal sessuale nei maschi e nelle femmine andando a stimolare in modo diretto l’ipotalamo.

Da qui l’assunzione che l’odore possa in qualche modo contribuire al comportamento e all’attivazione sessuale negli individui adulti, assunzione ulteriormente confermata da studi condotti su pazienti affetti da disosmia, un’alterazione del senso dell’olfatto, che riportano una ridotta qualità di vita in differenti aree della vita quotidiana soprattutto inerenti alla sfera sociale e sessuale (Croy, Nordin et al., 2014).

In una survey condotta online per la rilevazione delle caratteristiche principali dei disturbi chemo-sensoriali, deficit legati alle facoltà olfattiva e gustativa, più della metà dei partecipanti ha riportato un impatto negativo del disturbo sul loro comportamento sessuale (Merkonidis et al., 2015).

Pertanto un impoverimento della funzione olfattiva sembrerebbe influenzare la vita sessuale di un individuo, che consiste nella riduzione dell’appetito sessuale a seguito dell’esordio del disturbo. Quest’effetto associato alla compromissione dell’olfatto pare più evidente nella popolazione maschile anziché in quella femminile e si manifesta in una mancanza di desiderio sessuale nei confronti di un partner sessuale.

Allo stesso modo uno studio di Passi e colleghi (2003) ha evidenziato come nei pazienti con disturbi sinonasali che compromettono la respirazione nasale, vi sia la riduzione della qualità delle proprie esperienze sessuali a seguito dell’inibizione dell’iperventilazione nel corso di una rapporto sessuale, meccanismo che molto probabilmente intensifica l’ esperienza sessuale.

Tali studi passati velocemente in rassegna sottolineerebbero come vi sia una relazione significativa tra deficit olfattivi e comportamento sessuale che potrebbe essere moderata da un umore depresso, insicurezza sociale e altre comorbilità.

Uno studio specifico su soggetti senza deficit olfattivi

Tuttavia, fino a questo momento, nessuno studio ha indagato la relazione tra olfatto e alcuni specifici aspetti costituenti il comportamento sessuale come il desiderio sessuale, l’esperienza sessuale e la prestazione sessuale, in giovani adulti senza alcuna compromissione della funzione olfattiva.

Utilizzando il “Sniffin Sticks” per la valutazione della sensibilità all’odore e alcuni questionari come il Sexual desire inventory (SDI; Spector, Carey & Steinberg, 1996), la Visual Analogue Scale (VAS) per la valutazione della piacevolezza dell’ esperienza sessuale e della prestazione sulla base della frequenza dei rapporti sessuali e la media di durata in minuti con il proprio partner sessuale, Bendas, Croy e colleghi (2018) hanno studiato la relazione tra sensibilità olfattiva e comportamento sessuale sulle componenti pocanzi descritte (desiderio, esperienza e prestazione sessuale).

Il gruppo sperimentale comprendeva 70 individui subclinici sia di genere maschile che femminile, soprattutto studenti, di età compresa tra i 18 e i 40 anni. Dal gruppo sono stati esclusi soggetti con patologie psicologiche e individui che avevano avuto in passato esperienze sessuali traumatiche.

Ciascun soggetto è stato bendato per evitare che vi fosse una qualche detezione visiva dei cue e sottoposto agli “Sniffin Sticks”, una serie di tre penne, alcune contenenti in misure e diluizioni diverse un solvente odoroso (il feniletilene) e altre inodori.
Il compito del soggetto sperimentale era quello di indicare le penne in cui aveva avvertito un odore; i soggetti che consecutivamente avevano identificato in modo corretto le “penne odorose” venivano indicati come individui con un’alta sensibilità olfattiva, al contrario se l’identificazione non era corretta come individui con una bassa sensibilità olfattiva.

Conclusioni

Lo studio di Bendas, Hummel & Croy (2018) ha confermato la relazione tra i livelli olfattivi e i comportamenti sessuali, evidenziando però una correlazione forte tra un’alta sensibilità all’odore e misure della generale percezione di piacevolezza della propria esperienza sessuale contrariamente con il desiderio e la prestazione sessuale.

Un’alta sensibilità olfattiva ha pertanto degli effetti sull’ esperienza sessuale, in particolare influenza la percezione di piacevolezza dell’interazione sessuale con il partner, maggiormente per il gruppo maschile suggerendo un’influenza maggiore degli input olfattivi per gli uomini sui rapporti sessuali.

Similmente nel gruppo femminile si è osservata una forte correlazione tra alta sensibilità olfattiva e la frequenza degli orgasmi, suggerendo un importante contributo dell’odore sull’ esperienza sessuale femminile.

L’odore di per sé non sembra mediare il modo in cui gli individui desiderano o si comportano durante un rapporto sessuale ma l’attività sessuale stessa, la sua percezione come piacevole sembra essere influenzata da certi cue olfattivi come i fluidi vaginali, lo sperma e il sudore che l’arricchiscono migliorandola (Bendas, Hummel & Croy, 2018).

Paul Ekman e i suoi importanti studi sull’universalità delle emozioni e delle espressioni facciali- Introduzione alla Psicologia

Paul Ekman è l’autore della cosiddetta “teoria neuroculturale” che, riprendendo gli studi di Darwin sulle espressioni facciali delle emozioni, dimostra l’universalità delle emozioni.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Paul Ekman nacque a Washington il 15 febbraio del 1934. Egli è cresciuto nel Newark nel New Jersey, poi si è trasferito con la famiglia in Oregon, e successivamente nel Sud della California. Ekman frequentò l’università di Chicago e completò i suoi studi alla New York University. Nel 1958 conseguì il dottorato all’Adelphy University in Psicologia Clinica, dopo aver svolto uno stage della durata di un anno presso il Langley Porter Neuropsychiatric Institute. In seguito, ha lavorato per due anni nell’esercito statunitense come psicologo e nel 1960 decise di tornare all’Istituto Neuropsichiatrico di Langley Porter, dove lavorò fino al 2004, anno in cui è andato in pensione. Ekman, inoltre, è un professore di psicologia del Dipartimento di Psichiatria dell’Università della California di San Francisco.

Ricerche sulle emozioni

Paul Ekman iniziò la ricerca scientifica alla fine degli anni ‘50, periodo in cui portò a termine un esperimento sulle espressioni facciali e sui movimenti e comportamenti del corpo. Questa ricerca nel 1955 divenne la sua tesi di Master e nel 1957 è stata pubblicata.

Egli considerava il comportamento non verbale il terreno feritile su cui si poggiava lo studio della personalità ma, in seguito, mostrò un crescente interesse per la psicologia sociale e per gli studi transculturali, in ottica evolutiva e semiotica. Nel corso del tempo, le sue ricerche si andarono a focalizzare poi sempre più sullo studio delle emozioni, che divenne il vero e proprio interesse di Ekman.

Confermando quanto sostenuto da Darwin, che considerava le espressioni delle emozioni universali e generate da pattern neurobiologici ereditari, Ekman è l’autore della cosiddetta “teoria neuroculturale” delle emozioni.

Egli, dunque, sostiene che esistano espressioni facciali derivanti da emozioni esperite in determinate situazioni, caratterizzate da mimiche universali. Secondo la teoria neuroculturale, oltre alla universalità dell’espressioni emotive, esistono le display rules, ovvero regole sociali di espressione delle emozioni, culturalmente apprese, che determinano il controllo e la modificazione delle espressioni emozionali a seconda della circostanza sociale.
L’esistenza di tali regole fu dimostrata empiricamente da Ekman in uno studio in cui furono analizzate le risposte espressive di soggetti americani e giapponesi alla visione di film contenente elementi stressanti sia in presenza di uno sperimentatore sia quando erano in una condizione di solitudine. I risultati ottenuti dimostrarono che esprimere il proprio giudizio al cospetto di un’altra persona impedisce ai soggetti giapponesi di manifestare le emozioni negative, cosa che non accadeva per gli americani. I dati così ottenuti confermano che le emozioni possono essere modificate grazie a elementi appresi dalla cultura. Per cui, le uniche differenze culturali identificabili nelle espressioni facciali non riguardano l’espressione in sé, derivante dalla spontaneità nell’esprimere una determinata emozione, ma dal controllo esercitato sulla stessa.

Universalità delle emozioni

Paul Ekman per dimostrare la teoria dell’universalità dell’espressione delle emozioni svolse diverse ricerche.

La sua prima ricerca consisteva nel mostrare delle fotografie di espressioni facciali emotive a persone appartenenti a cinque culture diverse: Cile, Argentina, Brasile, Giappone e Stati Uniti. A ciascuno dei partecipanti era chiesto di indicare che tipo di emozione era in grado di riconoscere, tra tante che gli venivano mostrate in relazione a diverse espressioni facciali mostrate tramite delle foto. I risultati attestarono che tra i diversi gruppi culturali emergeva una concordanza rispetto all’emozione indicata e questo dato confermava l’esistenza di una reale universalità delle emozioni. 
Malgrado i convincenti risultati ottenuti, c’erano ancora dei dubbi dovuti al fatto che i soggetti partecipanti alla ricerca potessero avere “appreso” le espressioni facciali grazie alla visione di film occidentali largamente proiettati su scala globale, e questo avrebbe potuto influire sui risultati ottenuti. 

Per ovviare a questo bias Ekman e collaboratori pensarono di effettuare uno studio su delle culture primitive che non avessero mai avuto contatti con l’occidente.

Per questo, nel 1967, Paul Ekman si recò in Papua Nuova Guinea per studiare il comportamento non verbale del popolo Fore, tribù isolata dal mondo civilizzato e con usi e costumi risalenti dall’età della pietra. Per procedere con questo esperimento, Ekman modificò anche il metodo di somministrazione. I Fore erano una popolazione pre-letterata e di conseguenza non si potevano somministrare foto unitamente a una serie di emozioni scritte tra le quali scegliere. Decise dunque di selezionare tre o quattro fotografie di espressioni facciali alle quali i soggetti dovevano indicare quelle che più si adattavano a un breve episodio emozionale che era raccontato in contemporanea. 
I risultati dimostrarono che la percentuale di associazioni corrette tra espressioni facciali e racconti erano molto alte.

Per eliminare ulteriori dubbi, Paul Ekman e i sui collaboratori eseguirono un altro esperimento sempre con i Fore. In questo esperimento un interprete leggeva una storia e chiedeva ai Fore di mostrare che espressione facciale avrebbero mostrato se avessero assunto i panni del protagonista. Ancora una vota, i risultati confermarono l’esistenza di emozioni universali.

Un ultimo esperimento fu quello che Ekman condusse sui Dani, gruppo etnico isolato situato in una parte dell’Indonesia chiamata oggi West Irian. In realtà non fu Ekman in persona a eseguire lo studio, ma Karl Heider, un antropologo sostenitore dell’opposta teoria di Ekman. Se anche in quel caso si fossero ottenuti i risultati degli esperimenti precedenti, allora non ci sarebbe stato più nessun dubbio circa l’universalità delle espressioni emotive. E così fu: i dati confermarono quanto ottenuto fino a quel momento dagli studi precedenti.

Ekman, di conseguenza, sostiene che esistano emozioni universali ovvero emozioni comuni, uguali per tutti in tutte le culture e che possono essere definite come primarie. Tali emozioni primarie sono:

  1. Rabbia
  2. Paura
  3. Tristezza
  4. Felicità
  5. Sorpresa
  6. Disgusto

Successivamente, ampliò la lista delle emozioni aggiungendo altre emozioni definite secondarie:

  • Divertimento
  • Disprezzo
  • Contentezza
  • Imbarazzo
  • Eccitazione
  • Colpa
  • Orgoglio dei successi
  • Sollievo
  • Soddisfazione
  • Piacere sensoriale
  • Vergogna

Ricerche sulla menzogna

Oltre alle ricerche sulle emozioni e le loro espressioni, Paul Ekman approfondì i meccanismi che sono alla base della menzogna. Queste ricerche hanno portato alla scoperta dell’esistenza delle micro espressioni, mimiche connesse alla menzogna che si consumano in una manciata di secondi. Le espressioni possono riguardare tutto il volto o solo in una sua parte di esso, superiore o inferiore. In quest’ultimo caso sono definite espressioni sottili.

Nuovi strumenti all’avanguardia

Negli ultimi anni, Ekman ha sviluppato e messo a disposizione una serie di software utili al riconoscimento delle micro espressioni facciali e delle espressioni sottili, come il F.A.C.E., il Micro Expression Training Tool e il Subtle Expression Training Tool, il Facial Action Coding System.

Ekman ha poi sviluppato il metodo Evaluating Truthfulness and Credibility (ETaC), che consente di analizzare la comunicazione per valutare la credibilità della persona. Recentemente, Ekman si occupa anche del ruolo delle emozioni in ottica Mindfulness e Compassion Theory.

Riconoscimenti

Dal 1971 il National Institute of Mental Health (NIMH) ha sostenuto gli studi di Ekman attraverso contributi, riconoscimenti, donazioni e con l’istituzione di un premio alla ricerca scientifica dal titolo: Research Scientist Award.

Nel 2001, Ekman ha collaborato per la realizzazione della serie documentaristica “The Human Face”, per la serie televisiva “Lie to me” e per il film edito dalla Walt Disney “Inside out”.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La nostra postura e i nostri gesti possono essere il risultato delle prime interazioni di attaccamento?

La postura e il modo in cui ci muoviamo nel mondo si delinea fin dalle primissime interazioni di attaccamento, a partire dal momento in cui veniamo presi in braccio da nostra madre, a seconda di come lo fa, di come ci allatta al seno, e di conseguenza di come reagiamo al suo contatto e al suo comportamento.

 

La postura di una persona dipende dal suo sviluppo ontogenetico ma affonda le sue radici anche nella storia della sua famiglia (Lowen 2007). In pratica, la postura dipende da fenomeni genetici ed epigenetici, ovvero come risposta automatica agli stimoli provenienti dall’ambiente che ci circonda, che favoriscono così uno schema corporeo responsabile di un adattamento posturale all’ambiente in cui si cresce, piuttosto di un altro.

Molto spesso si ritrova lo stesso atteggiamento posturale in più membri di una stessa famiglia. Questo perché, al pari delle patologie, dei comportamenti e delle affettività familiari, si riscontrano anche diversi tipi di atteggiamenti posturali simili e, se si osserva il fenomeno da una prospettiva più generale, è possibile individuarli nella stessa cultura e società di appartenenza della famiglia.

La postura, infatti, dipende dal portamento delle spalle e della schiena ma anche dal peso corporeo dei membri della famiglia e dal carattere emotivo del sistema familiare.

L’importanza delle prime interazioni madre-bambino

Gli atteggiamenti posturali si vanno delineando nelle primissime interazioni della madre con il suo bambino (Bowlby 1952), iniziando dal momento in cui lei lo prende in braccio, a seconda di come lo fa, di come lo allatta al seno, e di conseguenza di come il neonato reagisce al contatto e al comportamento della madre .

Nell’interazione tra una madre ed il proprio bambino si determina, in un certo qual senso, l’affettività, i movimenti e la postura del piccolo. Di conseguenza, l’evoluzione di una persona risente dei comportamenti, degli atteggiamenti, ma soprattutto del suo rapporto diadico con il proprio caregiver. Una spiegazione in tal senso è data dalla teoria dell’ attaccamento di Bowlby (1988, 1982, 1973) che fornisce un’interpretazione della relazione che il bambino intraprende con il proprio genitore, dei loro modi di relazionarsi, delle loro motricità, gestualità, atteggiamenti corporei e della gestione dell’allontanamento-esplorazione, sino alla comunicazione non verbale e verbale.

Dall’osservazione dell’interazione tra genitore e bambino, dalle loro modalità di allontanamento e di riunione nonché dalle interazioni con un estraneo (strange situation), Ainsworth e Blehar, (1978) hanno valutato gli stili di attaccamento, individuando alcuni tipi quali l’ attaccamento A insicuro-evitante, l’ attaccamento B sicuro, l’ attaccamento C insicuro-ambivalente e l’ attaccamento D disorganizzato/disorientato.

Perché sono così importanti questi tipi di attaccamento nella relazione diadica? Perché, secondo la teoria dell’attaccamento, le interazioni con figure di attaccamento evitanti, inaffidabili, insensibili, riducono la resilienza nell’affrontare eventi di vita stressanti e riducono le capacità di coping individuale nei momenti di crisi. L’ attaccamento insicuro, può quindi essere visto come una vulnerabilità che può portare a disturbi mentali, a seconda anche dei fattori genetici, di sviluppo e ambientali che entrano in gioco. Perché, anche se la qualità dell’ attaccamento dalla primissima infanzia all’adolescenza non sia un predittore univoco dello sviluppo di una psicopatologia sembrerebbe che essa sia collegata ad alcuni dei sintomi che sono presenti negli individui affetti da disturbi mentali (Lewis et al., 1984 ; Wright et al., 1995). Vediamo meglio in dettaglio i tipi di attaccamento e cosa questi comportino.

Attaccamento A insicuro-evitante: conseguenze sulla postura

Nell’ attaccamento A insicuro-evitante, il bambino si allontana dai genitori in esplorazione senza richiedere il loro aiuto o sostegno. Di fronte ad un estraneo è capace di avvicinarsi ed interagire con un atteggiamento attento e curioso e se resta solo con lui, non mostra particolare disagio, reagisce però con movimenti non direzionali e non indirizzati al contatto con l’interlocutore. Mette in atto, come difesa, il non seguire con lo sguardo il genitore che si allontana per evitare di innescare risposte negative e non confortanti da parte dei genitori. Al suo rientro, evita di guardarlo, rimanendo concentrato nell’interazione con l’estraneo.

Regola la sua affettività mettendo distanza dal caregiver e inibendo qualsiasi manifestazione affettiva di disagio nei contesti di minaccia. Tutt’al più chiude gli occhi o distoglie lo sguardo, gira la testa per diminuire la percezione di stimoli di disturbo ed eccessi sensoriali accompagnati da emozioni spiacevoli in modo da evitare di fuggire. Il suo comportamento appare autonomo e indirizzato all’esplorazione dell’ambiente e dei giocattoli più che alla presenza del caregiver.

Nell’età scolare i bambini con attaccamento A insicuro-evitante affermano in maniera più decisa i comportamenti, gli atteggiamenti e gli stili corporei delineatisi nella prima infanzia.

L’organizzazione dei corpi in questi bambini è in funzione dell’accessibilità alla figura di attaccamento ma minimizzando il coinvolgimento emotivo e fisico. Valutano il comportamento dei genitori prima di avvicinarsi per evitare il rifiuto e modulano il loro stato affettivo e comportamentale in funzione delle aspettative di comportamento delle figure di attaccamento. In tale ottica, latteggiamento posturale secondo Lambruschi (2004) può essere neutro, quando cercano di rendersi invisibili stando lontani dalla figura di attaccamento, evitando il contatto fisico, adottando una postura più possibile raccolta, gestualità ed espressioni più neutre possibili. Oppure l’organizzazione corporea può essere falsamente allegra, manifestando cioè stati affettivi non spontanei, incompleti come il sorridere con le labbra e non con lo sguardo (sorriso obliquo o storto) o sorrisi intervallati dall’espressione di emozioni contrastanti. Gli indicatori corporei più evidenti sono i rapidi contatti con il genitore privi di una intimità interpersonale vera, come il baciare in “punta di bocca” e il “carezzare in punta di dita”. In genere sono bambini che presentano una forte tendenza all’accudire il genitore mettendo in azione una mimica facciale mobile (ampi sorrisi, modulazioni vocali accattivanti ecc).

Possono presentare anche un atteggiamento posturale sottomesso, specie in presenza di segnali di tensione con la madre in modo da assumere un comportamento da“bravo” e da “buono”. In questi frangenti, i bambini presentano ipertonicità corporea dovuta alla percezione di allarme di fondo, che li rendono pronti a parare i colpi. Assumono una postura chiusa con l’addome esposto, testa reclinata in maniera da mettere in evidenza la nudità del collo.

Il bambino è sempre attento a monitorare la figura di attaccamento e nel cercare di soddisfare le sue esigenze, per mezzo di sguardi indiretti e obliqui, segnale di una volontà di voler mantenere il contatto, o con altri atteggiamenti disarmanti come bocca aperta e denti nascosti.

Durante l’adolescenza, invece, i ragazzi che hanno avuto un iter di sviluppo di attaccamento di tipo insicuro-evitante possono andare incontro a delle risoluzioni come quella depressiva, caratterizzata da sentimenti di inadeguatezza, di non amabilità, e di accudimento compulsivo verso il caregiver o verso eventuali pari. Si tratta di un accudimento improprio che spesso però non viene considerato da chi lo riceve, per cui soffrono per la mancanza di considerazione che ricevono. Così finiscono per soffrire di sensi di colpa e si autopuniscono. Alcuni, per poter essere stimati, si impegnano nello studio, altri, al contrario, abbandonano gli studi scolastici come estremizzazione di alienazione e per mancanza di speranza di essere considerati. A livello posturale si nota un atteggiamento posturale chiuso, gestualità contenuta e una mimica poco espressiva in genere afflitta. Gli adolescenti che hanno avuto questo tipo di attaccamento possono andare incontro a una risoluzione psicosomatica con tendenza ad avere scompensi in termini di obesità o bulimia.

Attaccamento B sicuro: conseguenze sulla postura

Nell’ attaccamento di tipo B sicuro, l’ attaccamento diadico della prima infanzia è equilibrato, per cui la madre assume una postura attenta ai bisogni del suo bambino e, in risposta di ricambio, il bambino acquisirà un atteggiamento posturale speculare.

Il bambino comunica alla madre le sue emozioni e stati d’animo durante l’esplorazione dell’ambiente, che vengono prontamente comprese e recepite da lei.

Anche nel gioco, è evidente la reciprocità dei comportamenti e della postura nella coppia diadica. Il bambino segue i movimenti del genitore quando questi si allontana e si lamenta per la sua assenza, ma trova conforto piangendo o giocando da solo o con l’estraneo sopraggiunto. La reazione del bambino al rientro del genitore è inizialmente di protesta e di rabbia ma subito cede alle manifestazioni affettive così che si calma subito e riprende a giocare.

In questo tipo di attaccamento i bimbi, raggiunta l’età scolare, esprimono i loro sentimenti in maniera diretta, riescono a negoziare con le proprie figure di attaccamento, sino ad assumere il punto di vista dell’altro, il che infonde nel bambino fiducia verso il proprio genitore.

Per mantenere il contatto con il genitore, sviluppano un corpo flessibile in grado di esprimere diversi segnali corporei e affettivi, in base alle diverse situazioni o necessità. La relazione con la figura di attaccamento è armonica il che consente loro, grazie alla flessibilità corporea, di assumere diverse posture e gestualità, in equilibrio euritmico tra corpo, mente, affetti e genitore.

Attaccamento C insicuro-ambivalente: conseguenze sulla postura

In un attaccamento C insicuro-ambivalente la madre, invece, assumerà un atteggiamento asincrono e, a momenti, distaccato. Per contro, il suo bambino alternerà momenti di sincronia per avvicinarla a momenti di indifferenza come se non fosse presente. Presenta stati affettivi negativi, è frenato nell’esplorazione, cerca una vicinanza fisica con il genitore, mostra disinteresse o avversione verso un estraneo o per i giocattoli. La separazione dai genitori è drammatica, la presenza dell’estraneo non lo tranquillizza e a volte neanche il rientro del genitore.

Il bambino desidera la vicinanza e l’allontanamento dal genitore nello stesso momento per cui comunica, per esempio, di voler essere preso in braccio per poi voler essere rimesso subito giù, oppure evita di guardare il genitore, divincolandosi e scalciando. Questi bambini sono caratterizzati da una affettività genitoriale incostante e ambigua.

Questa ambiguità affettiva e comportamentale si riflette anche nella postura che appare anch’essa insicura oppure rigida, pronta a distanziare ogni tipo di stimolo affettivo, anche quelli non pericolosi.

In età scolare, questi bambini cercano di mantenere il più possibile la disponibilità della figura di attaccamento, rispondendo con una forte emotività a tutti gli stimoli provenienti dalla relazione di attaccamento e chiudendosi ai contatti con i pari e alle attività esterne. In questo modo, la relazione di attaccamento diventa stressante.

A livello fisico questi stati emozionali si manifestano attraverso un corpo così detto arrabbiato per via degli stati affettivi amplificati per poter mantenere il controllo della figura di attaccamento ponendosi in una posizione centrale. In questo caso, i segnali posturali e il linguaggio non verbale, sono impiegati in maniera determinante assumendo una postura aperta e dominante con numerosi ravvicinamenti minacciosi nella distanza interpersonale. Presentano iperespressività della mimica facciale se non addirittura aggressività, sostenendo il contatto oculare a lungo. Possono anche essere presenti segnali corporei di paura, come sguardo rabbioso, fisso dominante, che oscilla da destra a sinistra per controllare l’ambiente. La gestualità è diretta ed autoritaria mentre il tono ed il volume della voce sono molto sostenuti. Questi bambini con attaccamento C insicuro-ambivalente possono però presentare anche un corpo fragile e grazioso, uno stile disarmante con una postura fragile che sottintende una richiesta d’aiuto. Si accompagnano a una mimica facciale e posturale molto espressiva, spesso rattristata, con occhi grandi che catturano l’attenzione se non addirittura seducono. La gestualità è calma, educata e delicata. Sono portati ad accorciare la distanza interpersonale per favorire il contatto fisico. Il corpo può essere flaccido per una ipotonia muscolare cronica, lenti e impacciati nei movimenti che nella andatura. La mimica facciale è minima e la voce è bassa e rallentata, anche il respiro è lieve e leggero.

Gli adolescenti con modello di attaccamento insicuro-resistente vanno incontro a risoluzioni di tipo fobico. Avendo infatti, ricevuto un attaccamento iperprotettivo e ansioso, nei confronti di un mondo pieno di pericoli, si sente sicuro solo con la figura di attaccamento principale. Tutto questo comporta l’arresto dell’esplorazione, la limitazione di vivere nuove esperienze, sia la possibilità di mettersi alla prova, il che comporta uno smisurato controllo su qualsiasi tipo di evento per poter evitare rischi. In genere, mostrano un eccessiva cura del proprio aspetto fisico per nascondere i loro difetti e presentano un eccessivo controllo delle emozioni, delle aspirazioni e della libido. Sono frequenti delle somatizzazioni, con tachicardia, iperidrosi, tremori, sensazione di svenimento, oppure paure immotivate (di morire, di perdere il controllo, di impazzire). A livello posturale sono adolescenti con un atteggiamento chiuso ma molto attento a tutti gli stimoli.

Altri adolescenti possono andare incontro anche a una risoluzione ossessiva nel caso i loro genitori siano stati attenti ma distanti affettivamente o addirittura poco solleciti alle esigenze quando erano piccoli. In pratica, mentre nell’infanzia hanno sempre ubbidito alle richieste dei genitori, durante l’adolescenza, età in cui si tende a distanziarsi, questi ragazzi non riescono a gestirsi e rinunciano ai cambiamenti per confrontarsi con ciò che è diverso. Per questo sono portati ad evitare nuove esperienze sia amicali che sessuali. Assumono una postura estremamente rigida (a soldatino di piombo) e sono impacciati nei movimenti nuovi. Anche la mimica è rigida e non lascia vedere alcuna emozione, se non quelle di smarrimento per tutto ciò che è nuovo o diverso.

I giovani che presentano invece, una risoluzione psicosomatica, tenderanno ad avere disturbi somatoformi o anoressia. In questi casi l’adolescente avrà difficoltà nel costruire una propria immagine di sé, e nel capire le proprie emozioni, sensazioni. Tuttavia il corpo rimane sempre un mezzo fondamentale per esprimere ciò che non si riesce ad esprimere attraverso le emozioni. Sono persone che curano sino alla mania il loro aspetto e la forma fisica, senza però essere soddisfatti del risultato ottenuto. Per questo tendono a celare il corpo con atteggiamenti e comportamenti sia con abbigliamenti larghi che nascondono i difetti di un corpo che non è da mostrare. Tendono ad una postura con la schiena curva su se stessa per nascondersi con una mimica molto pronunciata.

Attaccamento D disorganizzato: conseguenze sulla postura

Infine l’ attaccamento D disorganizzato, è caratterizzato da un livello di disorganizzazione nel rapporto diadico maggiore del precedente e soprattutto da una imprevedibilità nei comportamenti e nelle risposte. Di conseguenza questi bambini tendono ad assumere comportamenti contraddittori che vanno da una intensa ricerca di attaccamento a dei comportamenti di evitamento oppure anche comportamenti simultanei contraddittori del tipo avvicinamento al genitore con la testa girata dalla parte opposta, oppure riavvicinamenti interrotti da attacchi di rabbia o mal direzionati (verso un giocattolo, o altro) o, ancora, che finiscono in una posizione di stilling, ovvero di arresto per alcuni secondi in una posizione forzata o ancora di freezing in cui rimane immobile per diversi secondi. Possono anche mostrare inquietudine nei confronti del genitore avvicinandosi in maniera incerta e allontanandosi di scatto o mettendo le mani in bocca e piangendo restando lontano dal genitore. Durante il ricongiungimento possono manifestarsi anche stereotipie, movimenti asimmetrici e posizioni anomale (vacillare, tirarsi i capelli etc.) reputati degli indici di stress. Durante la strange situation possono assumere diversi comportamenti anormali o conflittuali in presenza dei genitori come dondolarsi sulle ginocchia con il viso rivolto da un’altra parte, immobilizzarsi con le braccia alzate e in trance, staccarsi dal genitore per appoggiare la testa contro il muro; alzarsi per salutare il genitore per buttarsi a terra e così via.

Musica ed ecologia dei sentimenti. Intervista a Franco Mussida

Franco Mussida, musicista fondatore della PFM, racconta in questa intervista i suoi ultimi progetti per portare la musica nelle carceri italiane e come, dopo 30 anni di lavoro sociale in questo ambito, sia arrivato a capire che la musica ci aiuta nel fare “ecologia di sentimenti”.

Franco Mussida è un personaggio di primo piano nella storia della musica italiana per aver fondato la Premiata Forneria Marconi (PFM) e averne firmato diversi successi, come la celeberrima “Impressioni di settembre”. La band, attiva dagli anni settanta, ha ancora molto seguito in Italia,  ha fatto incursioni sul mercato internazionale (Stati Uniti in particolare) e ha impreziosito con indimenticabili arrangiamenti diversi brani di Fabrizio De Andrè (la perla più nota probabilmente è l’arrangiamento progressive de “Il pescatore”).

Oltre ad avere suonato la chitarra con la PFM fino al 2015, Mussida è anche il fondatore e presidente del Centro Professione Musica (CPM) di Milano (dove ho avuto la fortuna di frequentare anche io tanti anni fa un corso per autori), un centro nato nel 1984, che è molto di più di una normale scuola di musica, un luogo che ha come obiettivo la maturazione musicale e umana dei propri allievi, e che si dedica anche alla ricerca nella pedagogia musicale e ad altri progetti sociali.

Già da alcuni anni è ad esempio attivo CO2, un progetto presente in dodici carceri italiane sostenuto dal Ministero della Giustizia e dalla Società Italiana Autori ed Editori (SIAE), che consiste nella realizzazione di speciali audioteche divise per “stati d’animo”, usufruibili dai detenuti.

Il CPM lancia in questi giorni un’iniziativa davvero interessante sull’uso della musica per incrementare la propria coscienza emotiva. Il corso, rivolto soprattutto a formatori, educatori, insegnati, assistenti e da chi intende operare nel mondo del sociale, si articolerà in sei incontri mensili e il primo sarà Introduzione all’ecologia dei sentimenti, un titolo sicuramente intrigante.

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Ne abbiamo parlato (via Skype) con Franco Mussida in una interessantissima chiaccherata sul rapporto tra musica ed emozioni (e tante altre cose…).

State of Mind (SoM): Ciao Franco e grazie di averci dedicato il tuo tempo. Ci racconti come nasce questa esperienza dell’uso della musica in carcere?

Franco Mussida (FM): La mia personale esperienza nell’uso della musica in abiti di forte disagio sociale e psichico è iniziata nel 1988, nel carcere di San Vittore a Milano. Si era appena insediato Luigi Pagano, l’attuale provveditore alle carceri della Regione Lombardia. Al tempo l’ASL ha preso atto che si era interrotto ogni servizio di assistenza psicologica ai detenuti nel raggio dei detenuti tossicodipendenti di quel carcere e chiese l’introduzione di attività artistiche. Sono di quel periodo i primi laboratori musicali che utilizzavano l’intervallistica musicale per stabilizzare l’umore dei detenuti. Lo si faceva attraverso una delle attività più sociali del fare Musica: il coro. La sintesi di quell’esperienza la racconto in due libri: “La Musica Ignorata” e “Le Chiavi nascoste della Musica”, entrambi editi da Skirà. Il primo traccia la filosofia di base di un lavoro che partì appunto nell’ottantotto e si è evoluto in ricerche anche in altri ambiti sulle quali si fonda il progetto di particolari audioteche del progetto CO2, che chiamo SAEM Stazioni di Ascolto Emozionale della Musica. Il secondo ne descrive e riporta il resoconto e i risultati della sperimentazione triennale in quattro carceri.

Risultati pubblicati su una importante rivista scientifica, verificati e certificati dal comitato scientifico CO2 e dall’Università di Pavia nella figura del Prof. Flavio Ceravolo, Rettore di un collegio di Scienze Sociali, esperto in certificazioni di procedure sperimentali. I risultati che riguardavano attività continuative con più di 15 mila ascolti e il coinvolgimento di un centinaio di detenuti che vi hanno partecipato.

SoM: Se ho capito bene in questa esperienza in carcere l’uso della musica ha quindi finalità pedagogico- emozionali, ma non terapeutiche, giusto?

FM: Considero la Musica un mezzo, un chiavistello per accedere a luoghi interiori altrimenti inaccessibili. Le attività sono a favore di persone che non hanno cultura musicale, sono comuni ascoltatori. La Musica fa in modo del tutto naturale ciò che normalmente dovrebbe, stabilizza l’umore ma non riesce se non le si dà il tempo, esclusività, vera attenzione emotiva. Con un particolare approccio alla Musica indico e oriento un diverso modo di ascoltarla, offrendolo alle persone recluse in carceri o che soggiornano in comunità, gente che spesso vive in uno stato di carcerazione non solo fisica ma interiore. Attraverso una procedura di ascolto affettivo consapevole di Musica strumentale registrata, di tutti i generi, si sollecita la percezione, di un valore interiore grande, la presenza in noi di un mondo che va oltre ciò che gli occhi ci mostrano, quello di un pianeta invisibile che si sposa con la Musica, quel pianeta che chiamiamo interiorità. La Musica ha la capacità di illuminarlo, in modo naturale e senza rischi, rendendo percettibile quello che gli psicologi, per definire l’area emotiva che ci pervade, definiscono con uno parola: inconscio.

SoM: Ci racconti qualcosa di più su queste audioteche divise per stati d’animo?

FM: Finita la fase sperimentale da quattro sono diventate 12, sparse sul territorio nazionale. Sono normali audioteche con playlist non più divise per generi musicali ma per stati d’animo. Sulla scorta di una codifica particolare che si rifà ad un mio modo di intendere l’intervallistica emozionale. Ho sviluppato un sistema che confronta il filtro soggettivo della persona con l’elemento oggettivo della Musica. In principio ho accostato le correnti emozionali che governano il nostro sistema di percezioni emotive confrontandole con circa duecento grandi climi o condizioni emozionali codificati, che ho poi ridotta a ventisette e quindi a nove. A ciascuno di questi 27 stati emozionali vengono associate composizioni musicali, i brani dell’audioteca. Con me c’è una squadra di una ventina di persone, tra musicisti, psicologi, criminologi, neurologi, tecnici informatici e professori universitari. A inserire i brani nelle audioteche da anni sono musicisti, ascoltatori, (si può fare anche ora andando si co2musicaincarcere). Ora lo fanno anche i detenuti, i custodi delle audioteche che inseriscono 50 brani al mese con l’indicazione emotiva dei nove grandi stati emotivi. Da poco è iniziata la fase sei. Una ulteriore fase sperimentale nelle tre carceri (il progetto Nassa). Tutte sono ora tradotte in otto lingue che rappresentano le grandi etnie, comprese quelle dei paesi da dove arrivano i migranti. Quindi anche in arabo, rumeno, albanese, indiano… Supportati dall’organizzazione del CPM stiamo entrando in contatto con le relative Ambasciate per inserire con particolari procedure le loro musiche. Le audioteche sono quindi dei luoghi di incontro, di libertà emotiva dove la musica si ascolta in luoghi silenziosi e protetti. Tutto è supportato da momenti di formazione che coinvolgono anche gli educatori. Tutt’ora entro in carcere decine di volte l’anno per tenere personalmente incontri di ascolto emotivo guidato con gruppi di detenuti in tutt’Italia.

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SoM: Quindi una persona può chiedere di ascoltare un particolare brano che sa che di solito gli genera un certo stato d’animo se ne sente il bisogno?

FM: Sì, lo chiede all’audioteca e ne valuta l’effetto dopo l’ascolto. Scegliendo tra speciali simboli grafici, la persona decide cosa vuol vivere, trovarne conferma o negazione. C’è una fase di ricerca, poi di ascolto, confronto interiore, e quindi di valutazione. Tutti i dati restano memorizzati, grazie ad un personale codice d’accesso.

SoM: Prima accennavi che avete lavorato anche con l’esperienza del coro?

RM: Nel 1988 formavo gruppi corali. Scrivevo musiche, facevo sperimentare la bellezza di cantare assieme accordi anche facili in sequenza, con una intervallistica, che li sollecitata a vivere a manifestare direttamente cantando il loro interiore essere emotivo. Il coro dà la possibilità di vivere l’armonia, cosa che il singolo non può fare, non siamo esseri polifonici. Se ti parlassi adesso in Fa maggiore sarebbe meraviglioso, ma purtroppo non è possibile! E’ anche il nostro limite intellettuale, siamo solo esseri melodici, l’armonia la creiamo insieme. Vale anche per il mondo degli affetti, ne possiamo osservare lucidamente solo un suono per volta, gestiamo un solo sentimento per volta. Quando ce ne arrivano tanti contemporaneamente cominciamo a sognare. E’ questo il potere dell’armonia.

SoM: Mi pare di capire che il vostro lavoro sia più legato all’entità suono, che allo strumento canzone, composta da musica e testo.

FM: E’ così. Le audioteche contengono solo musiche strumentali di molti generi diversi ma non canzoni. Il testo impegna la mente. Spesso mi è capitato di dire che i cantautori capiscano poco di Musica. Il loro obiettivo è usarla per aiutare il viaggio della parola ad essere captata non solo l’intelletto ma dal cuore attraverso il clima sonoro. Il mondo del suono puro è un’altra storia. Le parole nel mondo del suono si chiamano timbri, e i racconti dei timbri, melodie.

SoM: Parlaci invece degli incontri che sono cominciati il 26 maggio rivolti agli operatori. Mi è piaciuta molto la definizione “Ecologia dei sentimenti”. Mi ricorda un po’ l’Ecologia della mente di Gregory Bateson…

FM: La sorgente di questi incontri è sempre la stessa. Raccontare a comuni ascoltatori che nella vita fanno gli operatori, gli educatori, gli psicologi, gli insegnanti come il fenomeno musicale agisce affettivamente su di loro mostrando qualcosa del loro pianeta affettivo che non conoscono. Osservare come attraverso la Musica si possa staccare la mente. Un processo che aiuta a godere del piacere di legarsi affettivamente non solo ai fenomeni musicali, ma alla natura stessa, a ricevere un’energia affettiva in grado di ricaricarci, entrare in contatto con il potente senso della bellezza. Energie utili a supportare chi opera nell’ambito del disagio sociale.

Gli incontri sono frutto della mia esperienza di una trentina di anni di lavoro in ambito sociale in una prospettiva che non ha a che fare solo con chitarre, assoli, composizione di brani, ma con l’incontro diretto con migliaia di persone attraverso il massimo comune denominatore affettivo della Musica. Orientare la propria vita nel senso di una ecologia dei sentimenti credo sia una necessità. Il comportamento delle persone poggia essenzialmente della comunicazione emotiva e oggi più che mai ce ne accorgiamo. Menzogne ed esagerazioni appartengono alla comunicazione pubblicitaria, a quella politica. Entrambe si prefiggono di orientare i sentimenti della gente e con questi le loro scelte. Lo fanno per i loro interessi per soddisfazioni economiche, per potere narcisistico. Tutte queste comunicazioni sono di solito condite di elementi emotivi per essere assorbite e digerite. Vengono usate dosi massicce di finto entusiasmo, di collera e rabbia comunicati ad orologeria dai grandi professionisti del consenso popolare. Insegnano fin da piccoli a giudicare qualsiasi cosa non ad apprezzarne sforzi e differenze.

Ma detto questo convivere con un minimo di serenità con la nostra istintività è complicato. Per cui è importante conoscere come funzioniamo interiormente. E’ la base per potersi muoversi nella direzione dell’ecologia dei sentimenti per realizzare una comunità affettiva più consapevole e cosciente del ruolo del mondo degli affetti nella società. Oggi si vuole far credere che il mondo emotivo intralcia tutto ciò che è logica o intelletto, alimentando la tendenza a volerlo sopprimere più che reprimere. Ci sono tanti modi per farlo, sono state addirittura inventate apposite religioni con questa finalità. Eppure noi rimaniamo principalmente esseri senzienti, bombe emotive con le gambe. In un modo o nell’altro questo è il senso della nostra esistenza, diamo all’intelletto e al pensiero il compito di orientarlo eticamente. Siamo gli unici esseri sul pianeta che lo possono fare. La musica esiste per ricordarcelo, per aiutarci a stabilizzare quell’ immenso mondo emotivo, ad elaborarlo nel tempo fino a trasformare le emozioni in sentimenti. Creare una comunità affettiva basata non solo sulla tolleranza, ma sulla comprensione delle differenze caratteriali è indispensabile per il nostro futuro. Lavorare in luoghi estremi come il carcere lo conferma e la Musica è l’arte che più di altre ci aiuta a renderci emotivamente consapevoli.

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SoM: Hai qualche riferimento teorico specifico che ti ha guidato maggiormente in questo percorso di ricerca?

FM: Ho fatto le mie sintesi. La musica si lega a 360 gradi al mondo del sentire individuale, il suono è il bisogno di esprimere il proprio stato affettivo, i bisogni emotivi interiori dell’essere umano. E’ stato così fin dagli inizi dei tempi. Anche grazie alle testimonianze degli etnomusicologi da Marius Schneider ad altri, che hanno raccolto credenze, leggende tutto ciò che ci arriva fin dagli scritti dei Veda, ci rimanda ad un patrimonio che definisco, periodo pre-espressivo, dove la Musica era fatta da maghi, da medium e iniziati che fungevano da tramiti. Figure che collegavano il mondo del suono al reale visivo planetario alla natura. E’ il periodo prerazionale e appunto i Veda ce lo raccontano. Poi arriva Pitagora che inizia a organizzare e codificare tutto. Passiamo da 4000 anni prima di Cristo a 400 anni prima di Cristo. Il periodo greco diventa già il primo periodo espressivo. Ma serve all’uomo per capire come la Musica è più che altro un elemento educatore del sentire. Tutto il periodo ellenico con Pitagora, Aristotele, Platone, Aristosseno, danno alla Musica questo valore. Ma comincia ad essere intellettualizzata nei suoi principi fisici nonostante si porti dietro il ricordo di quell’altra cosa. Il vero periodo espressivo passa attraverso Guido d’Arezzo e arriva ai giorni nostri. L’intelletto prende il sopravvento e l’uomo comincia a godere nell’utilizzare la Musica come mezzo espressivo, per mostrare le sue abilità nel maneggiarla. “Che bello, come mi piace, vi faccio vedere come sono bravo, senti questa canzone!” Comincia a vivere l’esperienza musicale con uno spirito che non ha niente a che fare con quello precedente. Abbiamo ripercorso qualche milione di anni in poco tempo!

Nel futuro immagino che la Musica possa tornare ad essere considerata per quello che era, orientando l’intelletto verso una coscienza che abbracci il senso della sua origine. Di quell’origine ne parlano in tanti , dovrei citarti tutti gli autori che citavo prima compreso Rudolph Steiner, filosofo tedesco dei primi del 900. Un altro elemento guida sono le mie esperienze di vita, a partire dalle migliaia di concerti fatti e i due momenti fondamentali, il mio personale percorso di vita, aver vissuto a 4 anni un’esperienza potrei dire iniziatica in modo del tutto naturale come accadde anche a 31. Un’esperienza umana fortissima in cui pensiero e intelletto si sono come allontanati da me offrendomi in dono la meravigliosa occasione di vedere il mondo senza filtri. Un’esperienza naturale provocata dalla visione, dalla bellezza del creato e della natura Non so chi devo ringraziare, ma certamente non me stesso. La racconterò in un libro che uscirà l’anno prossimo. Ci ho messo un po’ a capirlo e a uscire dal profondo timore che mi attanagliava, tenermi tutto per me. Poi alla fine ho capito che se ricevi aiuti si ha il dovere di dirlo. Credo nell’arte come servizio, credo nell’arte come scienza sociale, ma non voglio essere scambiato per un santo, non lo sono per nulla.

La visione dell’uomo legato a filo doppio al sentire della natura mi accompagna da allora, e da allora ho perso il senso della solitudine affettiva, mantenendo quello che deriva della natura spirituale. Tutti i lavori fatti da quel lontano 1978 risentono di quella visione. Del resto senza una visione non si può fare arte.

SoM: Hai fatto altre esperienze particolari sull’uso della musica e del potere del suono al di fuori del carcere?

FM: I lavori con sculture vibranti nelle mostre esperienziali che ho realizzato dal 2013 raccontano questo. Ma c’è un luogo permanete dove è possibile leggere ascoltare e vivere ciò di cui abbiamo appena parlato. Il lavoro sull’intervallistica e sulla capacità dei poteri del suono e della Musica organizzata si possono infatti trovare anche in una grande installazione in Svizzera. E’ a Rivera, posizionata in una SPA. Si chiama “Suono di Sole” è stata inaugurata nel 2016.

E’ dentro un’enorme cupola di policarbonato trasparente. E’ composta da sette quadri i cui dipinti raccontano dei poteri dell’intervallo musicale sulla struttura affettiva. Dalle vibrazioni della tavola si diffonde una composizione fatta da 560 brani di tre minuti che sfumano uno nell’altro e legati attraverso un software ai movimenti del sole e delle stagioni. E’ una composizione per orchestra contemporanea e cori. Una composizione durata mesi che mi è costata un po’ di salute. Dovevo scrivere su Sibelius (un software musicale) direttamente sulla partitura senza toccare strumenti. Il progetto lavora al contrario di come normalmente lavora la musica, ovvero non accende in noi l’interesse affettivo, lo mitiga, lo consola, offrendo all’Io e all’intelletto l’opportunità di abbandonare il controllo del corpo assecondando uno stato di grande rilassamento fino a provocare il sonno. Un progetto che non ha niente a che fare con la musica ambient. Si può visitare anche a richiesta.

SoM: Hai mai avuto contatti con il mondo della musicoterapia?

FM: No. Il mio lavoro non è quello di sovrappormi ai medici. Non mi pare esista una fisiologia musicale conclamata e certificata. Mi interessa la sua opera di stabilizzatrice dell’umore e la capacità della Musica di poter essere osservata intellettualmente nei suoi effetti sulla comune struttura affettiva contribuendo a darci il senso di cosa sia davvero la nostra interiorità. Mi interessa divulgare un diverso modo di ascoltarla. Un modo che consente alla genialità dei musicisti di essere apprezzati per il loro vero lavoro: intrufolarsi nel comune spazio affettivo della gente muovendolo sino a farcelo percepire come il territorio di un Pianeta nascosto, invisibile e vibrante, il Pianeta degli affetti. I sei seminari che tengo in CPM, uno ogni mese, destinati a educatori, operatori, insegnanti non solo di musica, hanno proprio questo scopo: rendersi conto che il Pianeta degli affetti e quello della Musica in fondo sono la stessa cosa.

SoM: Grazie mille Franco e buona musica!


VIDEO – Franco Mussida live: Giugno ’73 (F. de André)

Cervelli simili in tutte le specie: il fondamentale equilibrio tra i neuroni

Si fa luce su uno dei misteri evolutivi: ecco come il bilanciamento tra le diverse cellule cerebrali potrebbe essere mantenuto tra le varie specie che presentano dimensioni del cervello molto diverse.

 

I ricercatori del King’s College di Londra hanno scoperto un processo fondamentale implicato nello sviluppo della corteccia cerebrale che potrebbe far comprendere anche le cause di disturbi quali l’autismo e l’epilessia.

La corteccia cerebrale è responsabile di numerose capacità cognitive come l’apprendimento, la memoria e l’abilità di pianificazione futura. Per svolgere queste attività la corteccia utilizza due tipi principali di cellule cerebrali: i neuroni eccitatori, che elaborano le informazioni e aumentano l’attività degli altri neuroni, e quelli inibitori, che frenano questa comunicazione in modo che non siano attivati contemporaneamente tutti i neuroni. Un’eccessiva attivazione porta alla crisi tipica dell’epilessia mentre invece troppa inibizione causa problemi cognitivi.

Lo studio sperimentale

Nello studio pubblicato su Nature, il team di ricerca inglese ha scoperto come si giunge al giusto equilibrio nel numero di neuroni eccitatori e inibitori studiando il cervello in via di sviluppo dei topi. Considerato che il rapporto tra i due tipi di cellule è molto simile in tutti i mammiferi, nonostante le notevoli differenze nelle dimensioni cerebrali, è probabile che i risultati si estendano anche agli esseri umani.

Il Professor Oscar Marin, autore dell’articolo, spiega “lo studio mostra che l’equilibrio tra i neuroni eccitatori e inibitori nella corteccia è rimasto costante con il progredire dell’evoluzione. È probabile che questo processo sia stato fondamentale per consentire l’espansione del cervello umano”.

Manipolando le cellule cerebrali dei topolini durante un periodo di sviluppo embrionale critico, gli studiosi hanno scoperto che il numero di neuroni inibitori prodotti dipendeva dal numero di neuroni eccitatori. Una delle autrici della ricerca ha chiarito “Dobbiamo immaginare l’attività cerebrale come una conversazione: i neuroni devono essere connessi tra loro per poter parlare. Nelle prime due settimane dopo la nascita, i neuroni inibitori sono programmati per la morte se non trovano neuroni eccitatori con cui parlare”.

Ciò che si è osservato è che i neuroni eccitatori impedivano la morte degli inibitori bloccando l’attività di una proteina chiamata PTEN. A riprova di questa teoria, si è visto che la mutazione nel gene che codifica per la proteina è fortemente associata all’autismo: quando la proteina PTEN non funziona correttamente, l’equilibrio tra i due tipi di neuroni viene alterato e questo causa diversi problemi nell’elaborazione delle informazioni, caratteristica che si ritrova in alcuni soggetti autistici. 
Su quest’onda i ricercatori, utilizzando i modelli animali, stanno cercando di comprendere le conseguenze di un eccessivo numero di neuroni inibitori provando ad estendere queste scoperte ai disturbi umani, come l’autismo per l’appunto.

La cura del silenzio (2017) – Kankyo Tannier racconta la sua esperienza di pratica meditativa come persona e psicoterapeuta

Kankyo Tannier, in “La cura del silenzio”, racconta con molta umanità, leggerezza e a tratti un po’ di sana autoironia, la propria vita e la propria pratica meditativa, guidando il lettore in un mondo completamente nuovo e da scoprire.

 

Il silenzio è d’oro diceva il proverbio. Quando ho iniziato a leggere le prime pagine di questo libro una delle cose che ho pensato è perché non venga istituito il cosiddetto “minuto di silenzio” come pratica quotidiana e universale, invece che dedicarlo solo a disgrazie nazionali o a lutti catastrofici.

Credo che anche l’autrice, Kankyo Tannier, potrebbe essere d’accordo quando scrive “Un minuto di silenzio strappato alle nostre giornate strapiene è come un piccolo ruscello che scende giù per la collina…e sapete dove va a finire!”.

Uno dei pregi di questo libro è il fatto di essere un racconto in prima persona, molto autentico e molto lontano dall’artificiosità di certa letteratura new age o mistica. Kankyo Tannier, monaca buddista della tradizione zen e psicoterapeuta, racconta la propria vita e la propria pratica meditativa con molta umanità, leggerezza e a tratti un po’ di sana autoironia.

In realtà è un libro tutt’altro che leggero, nel senso che è pienissimo di consigli, esercizi, spunti meditativi e concetti importanti resi semplici. Può essere consigliabile assaporarlo a poco a poco, intervallando le pagine con tanti respiri e cercando di mettere in pratica gli esercizi che vengono consigliati come l’osservazione della natura, il pasto consapevole (e silenzioso), la disintossicazione digitale (fino alla scomparsa digitale), la pausa visiva, il riappropriarsi della consapevolezza corporea. Il tutto al ritmo del bel motto delle 3 R e delle 3 S (Ripetere, ripetere, ripetere, sembra stupido ma serve!).

Una delle parti più belle descrive il rapporto dell’autrice con i propri cavalli, che definisce i grandi silenziosi, che alleva in un monastero in Alsazia. Le nozioni più tipicamente derivate dal buddismo si integrano inoltre a tratti con altri concetti derivati dalla PNL e dell’ipnositerapia, in particolare quando l’autrice racconta della propria esperienza di terapeuta.

Quindi è un libro tutt’altro che silenzioso, anche se i consigli sul silenzio sono preziosi: “È proprio di questo che si tratta: reimparare ad ascoltare. Ascoltare il silenzio, lo spazio tra le parole, la calma nella tempesta e il fluire del tempo”.

 


Eyes wide open on the present moment – is it the limit? | Kankyo Tannier | TEDxAlsace

Psiconcologia del ciclo di vita: il giovane adulto – Report dal Convegno di Palermo

Quali sono le specifiche sfide evolutive a cui devono rispondere i giovani adulti malati di cancro e le loro famiglie? E quali le risposte che la psicologia può dare per migliorare la qualità di vita, infondendo speranza per il futuro? A questi quesiti ha tentato di rispondere il corso di aggiornamento organizzato a Palermo dalla Società Italiana di Psiconcologia lo scorso 25 maggio.

 

La diagnosi di malattia oncologica, spesso a esito fatale, pone sempre familiari e pazienti di fronte a una serie di emozioni violente e impreviste, ansia, paura, rabbia, diniego, quanto più precoce è la scoperta della malattia.

Quali sono le specifiche sfide evolutive a cui devono rispondere i giovani adulti e le loro famiglie e quali le risposte che la psicologia può dare per migliorare la qualità di vita, infondendo speranza per il futuro?

A questi quesiti ha tentato di rispondere il Corso di aggiornamento organizzato a Palermo dalla Società Italiana di Psiconcologia lo scorso 25 maggio presso il Policlinico Paolo Giaccone, in un dialogo stretto tra Medicina e Psicologia, consapevole della necessità di un interscambio di saperi e di professionalità per il benessere di pazienti e famiglie.

Con il termine giovani adulti intendiamo persone la cui età va dai 16 ai 39 anni: si tratta di giovani per cui l’insorgenza del tumore pone difficoltà notevoli, perché incide su importanti decisioni per il proprio futuro, come la fertilità – apre i lavori la Dott.ssa Emanuela Mencaglia, psicoterapeuta – Un’altra decisione importante è quella relativa allo studio, se proseguirlo o interromperlo. Esistono poi tutte le conseguenze negative del tumore sulla sfera cognitiva (perdita di memoria), sulla sfera affettiva e sessuale e sulla vitalità (minore forza vitale). Si parla in questo caso di distress come perdita di anni importanti di vita e come interruzione dello sviluppo delle fasi evolutive fisiologiche.

Conseguenze fisiche e mentali che scatenano risposte emotive solitamente negative, variabili tra rabbia, diniego (con sentimenti di immortalità), paura del futuro, depressione, in una richiesta di visibilità, che può spingere a una dipendenza affettiva per avere conferme identitarie.

I giovani hanno paura di un futuro incerto a cui si intreccia il terrore della morte e della perdita, sensazione amplificata dal fatto di vivere in una condizione di isolamento sociale, per i lunghi periodi di ospedalizzazione e per la concentrazione dei vissuti sui sintomi, sulla loro durata e intensità: ciò provoca un’angoscia di essere esclusi dal mondo, aumentando la dipendenza relazionale o, reattivamente, portando alla decisione di non voler più utilizzare i social network, uno dei mezzi di cui potrebbero disporre per mantenere i contatti con l’esterno.

Quali allora le strategie utili per aiutare questi pazienti e donare una vita da vivere che diminuisca le ansie della morte e della sofferenza?

Per i nostri pazienti l’importante è avere un piano B, un’alternativa, raggiungibile attraverso un Counseling sul lavoro, per esempio sfruttando la facilitazione all’inserimento lavorativo dato dalle categorie protette, un Counseling nutrizionale o sessuologico – conclude Mencaglia.

Per entrare nello specifico dell’area sessuale, quali effetti collaterali delle medicazioni e dei trattamenti, troviamo, nelle donne, i disturbi del desiderio e dell’eccitazione, con cui si può intervenite attraverso tecniche comportamentali quali la lettura erotica o gli esercizi di focalizzazione sensoriale, oltre all’utilizzo di farmaci quali il testosterone – spiega Rossella De Luca, psico-oncologa – Problemi che di rimando interessano la relazione di coppia, con un impatto negativo sul benessere della donna e della coppia nel complesso.

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Psico-oncologia del ciclo di vita il giovane adulto - Report dal Convegno IMM1Imm.1 – Immagine dal Corso di Aggiornamento “Psico-oncologia del ciclo di vita: il giovane adulto”

 

Una sfida per una vita dignitosa e pienamente da vivere, intessuta di relazioni, impegni e decisioni importanti: un percorso che il giovane paziente può percorrere solo se coadiuvato da una rete professionale in costante dialogo.

Quale è il modello di cura specifico per questa fascia di età? Di certo l’integrazione tra chirurgo, psicologo, fisioterapista, educatori e assistente sociale, in dialogo tra loro – suggerisce il Professor Gianluca Lo Coco, Professore Ordinario di Scienze Psicologiche, Pedagogiche e della Formazione presso l’Università degli Studi di Palermo – Bisogna poi pensare al coinvolgimento della famiglia, ma in termini diversi da quanto avviene con il bambino. Il giovane adulto infatti necessita di un sostegno all’autonomia maggiore rispetto al bambino, benchè il dialogo con le famiglie e tra le famiglie e il paziente sia indispensabile per lenire la sofferenza che colpisce tutti i componenti. Un sostegno che gli operatori offrono, ma che non di rado può essere osteggiato, perché il giovane adulto spesso ritiene il suo malessere transitorio e utilizza molto meno i servizi psicologici rispetto agli over 40.

Quali sono le competenze specifiche di uno psicologo in questo settore così coinvolgente e delicato?

Lo psicologo analizza le possibilità evolutive di un progetto di vita influenzato dalla malattia fisica, dalla paura del futuro e dalla sofferenza, senza minimizzare la malattia e senza perdere e far perdere la speranza nel futuro, mantenendo un’attitudine positiva per la vita, attraverso una corretta informazione medica e la strutturazione di spazi dedicati, per esempio, al lavoro, con sale pc all’interno dell’ospedale, che creino una continuità nel progetto di vita, una traiettoria di vita che non rischi di interrompersi o di non proseguire, come purtroppo accade anche dopo la risoluzione del problema medico, soprattutto per la scarsa fiducia del giovane nel futuro e per l’ansia e i dolori fisici causati dal tumore. Ecco che, se lasciato da solo, decide il più delle volte di abbandonare gli studi o le attività di svago, con grave detrimento per la propria salute, fisica e mentale. Una situazione delicata e di complessa gestione emotiva, che richiede, da parte dello psicologo un serio e sereno confronto con il tema della vita e della morte, per elaborare eventuali angosce esistenziali che metterebbero a rischio il progetto di supporto al giovane.

L’educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale stimola i bambini a mangiare frutta e verdura

Secondo un recente studio condotto dall’Università della Finlandia orientale e pubblicato sulla rivista “Public Health Nutrition”, un’ educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale aumenta la volontà dei bambini di scegliere e mangiare frutta e verdura.

 

Questo nuovo metodo, bastato sulla percezione sensoriale, utilizza il naturale modo di affidarsi a tutti i cinque sensi, quando i bambini si approcciano per la prima volta a nuovi cibi.

I bambini hanno un ruolo attivo verso il cibo, e sono incoraggiati a condividere le loro esperienze sensoriali guardando, annusando, assaporando, toccando cose nuove da mangiare. Educare il gusto dei bambini, ad esempio, può esser fatto stimolandoli delicatamente all’utilizzo dei loro sensi.

In un mondo sempre più digitale, in cui si parla di come sviluppare le capacità cognitive dei bambini e una loro crescita sana, una buona educazione dei sensi diventa ancora più importante rispetto al passato. Gli asili in questo giocano un ruolo importante quando si parla di educazione alimentare, ad esempio nelle sessioni pratiche si possono introdurre diversi ortaggi e frutta, i bambini posso essere coinvolti nella coltivazione della verdura. Un aspetto molto importante per i bambini è proprio quello di sperimentare le cose insieme agli adulti, invitandoli a partecipare attivamente alle varie attività e stimolandoli maggiormente.

Educazione alimentare: lo studio sperimentale

In un recente studio condotto presso l’Università della Finlandia orientale, i ricercatori hanno messo a confronto diversi gruppi di bambini di scuola materna, tra i 3 e i 5 anni. Ad alcuni è stata proposta un’ educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale mentre ad altri no.

I risultati hanno mostrato come i bambini ai quali è stata proposta l’ educazione alimentare basata sulla percezione sensoriale abbiano avuto una certa disponibilità e predisposizione nello scegliere verdura e frutta.

Un altro aspetto interessante è stato come questo metodo abbia incoraggiato i bambini, che erano ritenuti dai loro genitori “mangiatori schizzinosi” a scegliere una grande varietà di frutta e verdura. Inoltre è stato riscontato come i figli di genitori con un basso livello di istruzione, tendessero a scegliere più frutta e verdura.

Lo scopo dello studio è stato quello di far notare come, le preferenze alimentari positive apprese durante la prima infanzia e maturate poi nella scuola materna, possano essere d’aiuto a promuovere una buona alimentazione, e soprattutto a promuovere delle sane e corrette abitudini alimentari.

Autolesionismo e Adolescenza: “Non Potevo Farci Nulla”

Chi utilizza l’autolesionismo sostiene che farsi del male li riporti in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.

 

Cominci a prendere a calci la porta. Butti la roba in giro per la stanza, fuori dalla finestra. Non riesci a calmarti. Non sai neppure che cosa ti abbia ridotto in questo stato. Ti pianti le unghie nella pelle del polso. Non senti niente. É come se stessi guardando un film su qualcun altro, non sei tu. Ti togli la camicia, ti guardi allo specchio. Odio, disgusto, frustrazione, rabbia, rimorso. Quasi come in un rituale, senza nemmeno pensare a quel che fai, prendi la lametta… sangue che gocciola. Ci sfreghi su qualcosa di antisettico, lo rifai, fino a quando sei calmo, soddisfatto. Spalmi sangue in giro. É brutto, ma il sangue è reale, è umano, ti fa sentire bene! Al tempo stesso, provi dolore, te lo meriti. Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.”

Dal libro Un urlo rosso sangue di Marilee Strong.

Chiamato da alcuni autori autolesionismo intenzionale (deliberate self-harm, DSH, Favazza 1996), l’autolesionismo si riferisce a una serie di comportamenti che l’individuo mette in atto intenzionalmente per recare danni o lesioni al proprio corpo o ad alcune parti di esso. Secondo Armando Favazza (Favazza, 1996), che per primo ha identificato tali comportamenti come una sindrome con caratteristiche simili al Disturbo del Controllo degli Impulsi NAS, l’autolesionismo presenta alcune specifiche componenti:  pensieri ricorrenti di danneggiare il proprio corpo, incapacità di resistere agli impulsi di danneggiarlo, da cui deriva la distruzione o la alterazione del tessuto corporeo; crescente senso di tensione prima di mettere in atto condotte autolesionistiche, sensazione di gratificazione e di benessere successiva all’atto autolesivo.

Attualmente in Italia viene segnalato un tasso di incidenza che oscilla intorno al 30% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica, contro il 60% circa tra i malati psichiatrizzati. Ferirsi con tagli e ustioni sono le più comuni forme di autolesionismo tra i giovanissimi, alcuni degli altri metodi includono l’avvelenamento e l’overdose in età più adulta. L’autolesionismo è stato associato a depressione e ansia, a comportamenti antisociali e, soprattutto, all’uso di alcool (il rischio è raddoppiato), all’uso di cannabis e al fumo (Cerutti & Manca, 2009; Cerutti et al, submitted).

Vergogna e stigma nelle condotte autolesive

Una delle maggiori difficoltà connesse a questo disturbo è che i comportamenti autolesivi sono spesso sottostimati poiché vengono messi in atto in condizione di segretezza e sono frequentemente accompagnati da sentimenti di vergogna. Coloro che si autoferiscono, infatti, quasi sempre tendono a isolarsi e a nascondere le proprie ferite soprattutto per il timore di essere giudicati.  Ricordo E., 14 anni, che chiusa in bagno con il rasoio in mano si tagliava e guardava il sangue scorrere e cadere sul pavimento e intanto le lacrime le segnavano il viso. Sapeva di avere bisogno di aiuto ma in quella circostanza i suoi unici pensieri erano: “Che cosa penserà la gente di me? Penseranno che sono matta? Che cosa andranno in giro a dire quando lo sapranno? Penseranno che ho qualcosa che non va… Penseranno che lo faccio solo per attirare l’attenzione”.

Le ragioni per cui le persone si feriscono sono molteplici, ma va scardinato lo stereotipo dell’adolescente turbato, emotivamente labile e ribelle che compie gesti estremi come e che quindi può anche autolesionarsi. Questo è, a mio parere, solamente uno stereotipo, uno stigma che serve alle persone a ignorare la malattia mentale, ancora oggi vissuta con grande segreto e forse, come segno di debolezza.

Autolesionismo come meccanismo maladattativo di coping

L’autolesionismo non è un modo per attirare l’attenzione, né un tentativo di suicidio. Prendiamo ancora le parole di chi l’ha vissuto: F. ha 30 anni ora. Nel 1992, quando ha cominciato, non aveva mai sentito parlare di autolesionismo. “Non era la sensazione del dolore stesso, ma la reazione del corpo”, ha detto. “Una sorta di sensazione intorpidita. Quando mi facevo male mi sentivo completamente calma, la mia mente si concentrava sul dolore e la ferita e tutti gli altri pensieri e problemi sconvolgenti abbandonavano la mia mente nel frattempo. C’è un equivoco in base al quale l’autolesionismo sarebbe un tentativo di morire”, dice. “E ‘davvero l’esatto contrario. A volte, quando ho sentito che non volevo più vivere, mi facevo del male e mi sentivo più viva. E’ stato un meccanismo di sopravvivenza”.

Molte persone si fanno del male perché sono invase dalle loro emozioni, come la tristezza o l’ansia o forti stress e recare danno al proprio corpo rappresenta un modo per gestire queste emozioni vissute come intollerabili. Chi utilizza l’autolesionismo in questo modo sostiene che farsi del male li riporta in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.

Ci sono poi tutta una serie di altri motivi connessi a patologie psichiatriche che portano una persona a farsi del male (come purificarsi o tentare di espiare una colpa di un trauma subito), che qui non stiamo ad analizzare. Ciò che forse si può generalmente dire è che l’autolesionismo può essere meglio capito come un meccanismo maladattivo di coping che funziona – almeno al momento (Klonsky, 2007; DiLazzero, 2003).

 

La sessualità: valutazioni cliniche e novità terapeutiche – Report da Firenze

Martedi 29 maggio si è svolta a Firenze una giornata di formazione “La sessualità: valutazioni cliniche e novità terapeutiche”, organizzata dalla Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi. L’obiettivo centrale dell’evento è stato quello di descrivere le principali novità del trattamento psicoterapeutico e farmacologico nei disturbi sessuali all’interno del contesto di coppia.

La mattina si è aperta con l’introduzione del direttore della Scuola Cognitiva di Firenze Dott. Filippo Turchi che, nel presentare il programma della giornata di formazione, si è soffermato sulla prevalenza ed incidenza dei disturbi sessuali sottolineando come, anche per motivi culturali, essi siano sottostimati e come solo recentemente le richieste di trattamento siano in aumento. Il Dott. Turchi ha, inoltre, sottolineato quanto sia importante una corretta valutazione clinica della problematica sessuale affinchè possa dare ulteriori informazioni sul funzionamento globale del paziente.

FIRENZE GIORNATA SESSUALITA - 2

Sessualità: trattamento con Terapia Mansionale Integrata e farmaci

La prima relazione, da parte del Dott. Luca Calzolari, didatta Studi Cognitivi di Firenze, ha avuto come obiettivo quello di descrivere la terapia mansionale integrata, trattamento elettivo per le disfunzioni sessuali laddove queste non siano secondarie a disturbi psicologici e relazionali primari. Dopo aver illustrato le varie fasi che accompagnano la risposta sessuale l’intervento si è focalizzato sulle mansioni, aspetto peculiare della Terapia Mansionale Integrata, e sulla loro prescrizione nelle quattro tappe della terapia: la conoscenza di sé, di sé tramite l’altro e del piacere, proprio e della coppia.

Impatto della terapia farmacologica sulla sessualità

La Prof.ssa Fiammetta Cosci, Università degli Studi di Firenze, ha focalizzato l’attenzione sulle problematiche connesse al trattamento farmacologico nei disturbi sessuali e nella sua influenza rispetto al funzionamento sessuale dei pazienti in cura per altri tipi di problematiche mediche. Nella prima parte della relazione la Prof.ssa Cosci ha sottolineato l’impatto della terapia farmacologica sulla sessualità analizzando per classi di farmaci (antipsicotici, stabilizzatori dell’umore, antidepressivi e ansiolitici) quelli che presentano maggiori effetti collaterali sulla sfera sessuale. La seconda parte dell’intervento è stata invece centrata sulla valutazione delle disfunzioni sessuali durante la fase di riduzione del dosaggio e al momento della sospensione della terapia farmacologica sottolineando come mentre alcuni sintomi regrediscono in un tempo variabile da qualche giorno a qualche settimana in altri casi, con una incidenza comunque ridotta, rimangono sintomi anche a carico della sfera sessuale.

FIRENZE GIORNATA SESSUALITA - 3

Sessualità: focus su funzionamento interpersonale e concettualizzazione LIBET

Nella terza relazione la Dott.ssa Daniela Rebecchi, direttrice Studi Cognitivi di Modena, integrando il primo intervento ha concentrato l’attenzione sul funzionamento interpersonale affrontando la problematica sessuale all’interno della dinamica di coppia e introducendone i fondamenti della terapia cognitivo comportamentale. Successivamente ha portato degli esempi clinici concettualizzati attraverso il modello LIBET illustrandone i possibili interventi terapeutici e stimolando la platea ad un riflessione condivisa.

Parafilia e Disturbi Parafilici, e trattamenti psicoterapici

Il Professor Davide Dettore, Università degli Studi di Firenze, ha concluso gli interventi approfondendo la distinzione tra parafilia e disturbi parafilici, questi ultimi caratterizzati rispetto ai primi da una percezione di sofferenza psichica del soggetto. Nella seconda parte della relazione il Professor Dettore si è successivamente concentrato sul trattamento psicoterapeutico dei disturbi parafilici descrivendo i modelli attualmente più efficaci per la cura di questa psicopatologia.

FIRENZE GIORNATA SESSUALITA - 4

L’evento si è concluso con una tavola rotonda che ha visto partecipare tutti i relatori ed all’interno della quale è stato discusso un caso clinico di deficit erettile. Diverse sono state le domande e le riflessioni che hanno accompagnato i vari interventi, indice di un interesse sempre costante per tutto l’arco della giornata.

Da questo evento organizzato dalla Scuola Cognitiva di Firenze sono stati molteplici gli spunti di riflessione rispetto sia ai modelli che al trattamento della sessuologia clinica evidenziando come spesso però sia un tema, quello della sessualità, poco esplorato in psicoterapia privando l’accesso a quelle informazioni molto utili per una più corretta valutazione clinica del paziente.

Inconscio cognitivo Vs inconscio dinamico: il falso mito della censura. Un modello di spiegazione sui processi mentali di simbolizzazione

Il processo di simbolizzazione alla base dei meccanismi inconsci della nostra mente costituisce una tendenza psicologica di estremo interesse tanto all’interno del panorama psicoanalitico quanto di quello cognitivo. Tre i costrutti teorici che ci guidano nella scoperta dell’inconscio cognitivo: euristica, memoria e dissociazione.

Alessandra Signorile

 

L’inconscio alla luce delle moderne teorie cognitive non è più il luogo della rimozione, il magazzino in fondo a cui l’io getta i suoi rifiuti, bensì è la condizione strutturale senza cui l’io cosciente non sarebbe possibile, l’insieme di tutte le complesse relazioni tra processi neurobiologici e atti mentali automatici generati in risposta a specifici stimoli.

A questo punto però, sul piano epistemico della giustificazione scientifica di una teoria, ci si trova di fronte a un problema ancora insoluto: Da un lato, abbiamo già da tempo modelli scientifici sul mentale che fanno a meno del concetto di censura, poiché considerata sperimentalmente non controllabile, dall’altra però, le terapie psicologiche partono spesso da essa come premessa fondante del comportamento del paziente. Colpisce la distanza tra questi punti di vista che riflette una perdurante disconnessione tra coloro che affermano di osservare il fenomeno o i suoi effetti e coloro che ribadiscono la necessità di precisare e valutare questo costrutto con il massimo rigore.

Si vuole presentare una proposta di ricerca: trovare un modello cognitivo ed evoluzionistico, esplicativo che riesca a mettere in luce le cause sottostanti ai processi di simbolizzazione (sogni, lingua, arte, mito e in genere ogni comportamento propriamente simbolico) falsificando la teoria freudiana della rimozione per mezzo di un approccio scientifico logico e verificabile. Con il progetto qui proposto si tenta di giustificare la tendenza psicologica al simbolico, facendo ricorso a tre costrutti teorici: euristica, illustrata da Kahneman in seno al cognitivismo evoluzionistico, (Kahneman, trad. it., Serra 2012) memoria e dissociazione. Tuttavia si farà leva principalmente sul primo dei tre, sia perché è quello di cui si possiede maggiore competenza, sia perché si pensa che indebolendo il paradigma della rimozione con una teoria cognitiva, possa emergere una visione maggiormente rinforzata della psicologia dell’arte e più autonoma.

Simbolizzazione e inconscio. Lo sfondo culturale e teorico

L’approccio cognitivista nella comprensione dei fattori mentali inconsci non è certamente una novità; se un secolo fa il paradigma psicoanalitico era quasi l’esclusiva colonna portante delle scienze mentali, dà gli anni 50, il metodo di Allan Mellis (sviluppatosi proprio in seno alla psicoanalisi) avrà un eco altrettanto forte per la psicologia moderna e contemporanea, non più univocamente incentrata su concetti edipici, pulsioni e principio di realtà, cioè non solo sui contenuti mentali ma anche, piuttosto sulle modalità, gli schemi attraverso cui la mente elabora le informazioni.

L’inconscio alla luce delle moderne teorie cognitive non è più il luogo della rimozione, il magazzino in fondo a cui l’io getta i suoi rifiuti, bensì è la condizione strutturale senza cui l’io cosciente non sarebbe possibile, l’insieme di tutte le complesse relazioni tra processi neurobiologici e atti mentali automatici generati in risposta a specifici stimoli.

A questo punto però, sul piano epistemico della giustificazione scientifica di una teoria, ci si trova di fronte a un problema ancora insoluto: Da un lato, abbiamo già da tempo modelli scientifici sul mentale che fanno a meno del concetto di censura, poiché considerata sperimentalmente non controllabile, dall’altra però, le terapie psicologiche partono spesso da essa come premessa fondante del comportamento del paziente. Colpisce la distanza tra questi punti di vista che riflette una perdurante disconnessione tra coloro che affermano di osservare il fenomeno o i suoi effetti e coloro che ribadiscono la necessità di precisare e valutare questo costrutto con il massimo rigore.

Si vuole presentare una proposta di ricerca: trovare un modello cognitivo ed evoluzionistico, esplicativo che riesca a mettere in luce le cause sottostanti ai processi di simbolizzazione (sogni, lingua, arte, mito e in genere ogni comportamento propriamente simbolico) falsificando la teoria freudiana della rimozione per mezzo di un approccio scientifico logico e verificabile.

Un dizionario attuale di psicologia, definisce il simbolo in questo modo:

[blockquote style=”1″]Termine derivante dal greco synballein, che significa mettere insieme. In origine, designava le due metà di un oggetto spezzato, un anello o una moneta, ad esempio, ricomponibile attraverso il loro avvicinamento: in tal senso, ciascuna parte diveniva un segno di riconoscimento. Il s. ha tratto dall’evoluzione di tale funzione pratica una funzione rappresentativa, configurante lo stare al posto di, che da una parte lo avvicina al segno, a tal punto da esserne talvolta assimilato, e dall’altra lo oppone a esso. In quest’ultimo caso, mentre il segno combina convenzionalmente qualcosa con qualcos’altro, il s., richiamando la sua parte corrispondente, rimanda a una particolare realtà non determinata dalla convenzione, bensì dalla ricomposizione delle parti. Al di là della filosofia, della teologia e dell’antropologia, in cui il s. è un tema centrale, largo è l’impiego di tale concetto da parte della psicoanalisi e soprattutto della psicologia analitica.[/blockquote](dizionario di scienze psicologiche).

 

L’attività simbolica è un’opera di sostituzione tra ciò che è assente e ciò che invece è disponibile, un mezzo di rappresentazione per contenuti inaccessibili, velati e svelati da materiale accessibile, e soprattutto è un processo di sintesi tra due sistemi che altrimenti, cognitivamente, rimarrebbero scissi: significante e significato.

Come sostiene Umberto Fontana:

[blockquote style=”1″]La dinamica del simbolo sostiene tutti i processi del pensare: sostiene la codifica della sensazione (la percezione organizzata), permette il formarsi delle sequenze di contenuti provenienti dall’esterno, mantiene la memoria, media la rielaborazione astratta e la formazione dei concetti, collega il pensiero individuale ai contenuti del sociale (la cultura).[/blockquote](U. Fontana, 2011, pp. 22).

Quello che ancora non sembra chiarito completamente è il perché strutturale di questo sofisticato processo mentale di sostituzione e sintesi. Bisogna davvero comprendere le ragioni per cui così tanti contenuti mentali non sono rappresentabili per sé stessi e quindi non sono cognitivamente disponibili alla coscienza, al punto di attivare quella precisa funzione evolutiva del simbolico.

Conosciamo la risposta della psicoanalisi: la simbolizzazione è la funzione primaria affidata alla censura.

Inevitabilmente, in L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899), Freud nel sesto capitolo parla del contenuto onirico manifesto come di una traduzione di una scrittura a geroglifici che va decifrata per poter giungere al contenuto latente e insiste sulla necessità di oltrepassare il segno per accedere al contenuto originale. Il processo di simbolizzazione quindi consentirebbe di escludere dalla coscienza determinati fatti connessi a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con altre esigenze psichiche. Il processo rimotivo però, non è sistematizzabile all’interno dell’intero corpus freudiano se non al prezzo di qualche tollerante piccola incoerenza come questa: il materiale rimosso non smette mai di operare, esso si manifesta in forme diverse dal suo contenuto, più distorte e lontane quanto più è forte la resistenza, accrescendo la connotazione emotiva relativa a tali esperienze (Freud 1938). Ci sarebbe molto d’approfondire e non è affatto così scontato immaginare una natura che elabori strategie per allontanare il dispiacere escogitando meccanismi di difesa che poi però…non funzionerebbero come vorrebbe; un rimosso non rimosso, una censura che galleggia, che non urla la verità è vero, ma neanche tace come la censura dovrebbe fare!

Il pensiero simbolico trova una sua spiegazione anche alla luce di teorie moderne come ad esempio il famoso sistema del codice multiplo TCM, che pur affondando ancora le sue radici in concetti psicoanalitici, parallelamente ne tenta un superamento tramite il modello delle scienze cognitive. Esistono, secondo questo modello teorico (Bucci 1997), tre modalità di base in cui gli esseri umani elaborano le informazioni e ne costruiscono rappresentazioni: modalità subsimboliche (risposte fisiologiche automatiche generate da singole unità prive di significato) simboliche non-verbali e simboliche verbali, connesse tra loro da quello che la Bucci definisce processo referenziale. La nozione di simbolo è qui definita in senso generale come elaborazione dell’informazione (Fodor e Pylyshyn, 1988), le funzioni simboliche non verbali sono immagini mentali di esperienze provenienti da canali sensoriali differenti. Il linguaggio poetico ad esempio:

[blockquote style=”1″]Comprende e riassume in sé quasi tutte le forme di comunicazione verbale e non verbale, evoca forme, colori, immagini, odori, è dotata di un ritmo come la musica e anche questo ha a che fare con la corporeità.[/blockquote](G. Bosco 2015).

Da questa prospettiva appare più facile osservare la differenza tra un processo di simbolizzazione sano e uno patologico, che all’interno della psicoanalisi classica non è del tutto comprensibile. Infatti la teoria del codice multiplo vede i simboli come pacchetti contenenti tante unità e sub unità operative e questi pacchetti sono opere di significazione attraverso cui il soggetto attribuisce senso al proprio vissuto grazie a un atto sintetico e unitario in cui si risolve tutto il molteplice sensoriale. Se le cose stessero così, non solo il meccanismo di difesa comincerebbe ad apparire una premessa superflua, ma ci si ritroverebbe dinnanzi a una simbolizzazione univoca, inevitabile e sana, mentre il disturbo sarebbe imputabile non tanto a un processo simbolico bensì a una rottura, una dissociazione tra significante e significato, dove alcune emozioni non troverebbero una spiegazione e rimarrebbero indicibili fino alla successiva fase di una risignificazione che però sarebbe parziale e incompleta ( ad esempio la somatizzazione).
La Bucci fa un importante passo scientifico avanti: riesce, con la TCM, a spiegare la simbolizzazione senza il ricorso del meccanismo di difesa, ma quest’ultimo non è ancora eliminato dalla spiegazione, viene solo trasferito dal processo di simbolizzazione a quello della dissociazione, cioè il simbolico non è inconscio rimosso, ma la dissociazione e l’incapacità di significazione lo sono oppure no?
Si diceva…se le cose stessero cosi, ecco che resterebbero comunque aperte in ogni caso delle domande:

  1. A quale precisa funzione cognitiva ed evolutiva assolve specificatamente il processo di simbolizzazione?
  2. Perché e secondo quali modalità tali esperienze emotive sono inaccessibili alla memoria?
  3. Perché e come, al contrario, porzioni di realtà vissuta, vengono dissociate dall’io?

Dalla prospettiva del presente testo, è prioritaria la risoluzione della prima questione.

Le teorie della Bucci oltre che spiegare come il mentale implichi l’integrazione di diversi sistemi organici e cognitivi, non sembra approfondire del tutto la fase del simbolico non verbale. Infatti, a prescindere dalla TCM, risulta evidente esserci un’ulteriore demarcazione all’interno di questo processo: c’è una differenza significativa tra le rappresentazioni comuni denotanti direttamente la realtà (l’immagine del sole per indicare il sole, l’immagine della casa per rappresentare la casa ecc.) e quelle che invece sono rappresentazioni simboliche sostitutive (l’immagine del sole che denota indirettamente la forza, o l’immagine della casa che rappresenta la sicurezza).

Queste ultime sono proprie del simbolismo onirico, o dei fenomeni espressivi quali l’arte, la religione o più in generale la cultura e mentre il primo tipo è spiegabile come processo intermedio, essenziale alla successiva categorizzazione linguistica, il secondo appare come una funzione indipendente che non necessita di essere concettualizzata. Perché, ad esempio, nelle fasi oniriche del sonno, posso sognare un sole enorme e luminosissimo senza giungere coscientemente alla concettualizzazione di forza, energia, felicità? Perché nel sogno, il simbolico non verbale non si completa del tutto nel simbolico verbale e la coscienza preferisce restare nel limbo delle immagini?

Anche in questo caso Wilma Bucci ci offre un tentativo di spiegazione, chiarendo che esistono entità prive di etichette disponibili, come ad esempio una certa sfumatura di colore, o certi processi subsimbolici come i pattern di attivazione viscerale e somatica, Questi ultimi possono essere elaborati solo grazie al fatto di essere connessi in prima istanza alle immagini specifiche del livello non verbale, come è evidente nel potere delle metafore poetiche di evocare emozioni che sorgono da tali connessioni; inoltre il processo referenziale da lei teorizzato è bidirezionale, cioè non va solo dal subsimbolico al verbale ma compie anche la direzione opposta, a partire da categorie concettuali si forniscono rappresentazioni che a loro volta influiscono su singoli pattern sensoriali, generando dunque ulteriori effetti di feedback, ma con una sostanziale differenza: le connessioni referenziali dal sistema verbale a quello non verbale sono più indirette e parziali per termini astratti e generali come verità, bellezza, giustizia, postmodernismo, epistemologia. Il significato di queste parole astratte e categoriali deriva dalle connessioni con altre parole nell’ambito delle gerarchie logiche del linguaggio e può essere connesso con le rappresentazioni non verbali solo indirettamente, quando ci si riesce, attraverso connessioni con le parole concrete e specifiche all’interno delle gerarchie verbali. Ecco perché diventa utile fornire esempi quando si presenta del materiale astratto. (Bucci 1984). Da qui la comprensione del valore sostitutivo dell’immagine, che non denota il concetto se non per somiglianza e analogie.

In sintesi, il modello del sogno secondo la teoria del codice multiplo è questo (Bucci 1999, Bellavia 2007):

modello del sogno teoria del codice multiplo

Tuttavia, potrebbe trattarsi di un modello parziale, non del tutto soddisfacente, poiché le ultime fasi (3 e 4) non sono in rapporto di continuazione diretta con le prime, si attivano solo in fase di veglia, e la coscienza onirica e quella ordinaria sono due sistemi di riferimento ben distinti seppure in connessione. Infatti i contenuti onirici che vengono verbalmente elaborati sono solo quelli dell’ultima fase del sonno prima della veglia e di cui il soggetto conserva quindi un ricordo; si tratta di un processo referenziale incompleto in cui innanzi tutto è necessario troppo tempo affinché ci sia il passaggio dal simbolico al concettuale e infine i due livelli risultano spezzati e separati, ognuno è chiuso nel relativo stato di coscienza a sé consono con i propri valori di riferimento, non convertibili del tutti da un sistema all’altro.

Si crede dunque, che il simbolo non sempre necessiti di un’elaborazione verbale per assolvere alle sue funzioni energetiche e cognitive, poiché potrebbe essere visto esso stesso come un’elaborazione autosufficiente ed esaustiva e, il processo referenziale potrebbe completarsi già a un livello puramente rappresentativo e iconico. In sintesi, non necessariamente bisogna recuperare il presunto contenuto originario indisponibile a cui rimanda un’immagine sostitutiva, dato che la sostituzione simbolica, se ben fatta, può da sola produrre un senso compiuto. Si pensi al valore intrinseco di una canzone, di una poesia, di un’opera d’arte o di un rituale religioso: si tratta di processi creativi non convertibili del tutto in schemi razionali e che se trasferiti sul piano concettuale perderebbero gran parte del loro valore emotivo.

Simboli e immagini come scorciatoie. L’euristica cognitiva

A questo punto occorre chiedersi quale potrebbe essere questa specifica funzione cognitiva di cui si è accennato fin ora e l’idea qui proposta tenta di giustificare la tendenza psicologica al simbolico, facendo riscorso all’idea di euristica illustrata da Kahneman in seno al cognitivismo evoluzionistico (Kahneman, trad. it., Serra 2012).

Le euristiche sono strategie acquisite dal cervello nel corso dell’evoluzione, esse agiscono visceralmente nel pensiero grazie alla funzione intuitiva che pur non fornendo al soggetto, risposte precise ed ottimali come invece è in grado di fare la funzione analitica, possiede un enorme vantaggio in termini di costi e benefici: permette un problem solving molto rapido in cui viene generata una risposta non ottimale ma abbastanza sufficiente e adeguata a risorse limitate, per arrestare il processamento d’informazioni, risparmiando quindi considerevoli costi in termini di tempo ed energia.

L’euristica cognitiva funziona per mezzo di un sistema chiamato sostituzione dell’attributo, che avviene senza consapevolezza. In base a questa teoria, quando qualcuno esprime un giudizio complesso da un punto di vista inferenziale, risulta essere sostituito da un’euristica che è un concetto affine a quello precedente, ma formulato più semplicemente. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo e funzionano come una scorciatoia mentale permettendo di avere accesso a informazioni immagazzinate in memoria
 (Kahneman e Frederick, 2002).

Kahneman non affronta direttamente i processi di simbolizzazione, poiché le euristiche sono descritte come schemi mentali generali, non ascrivibili direttamente al modello psicoanalitico, incentrato invece sul valore specifico dei significati creati da un inconscio mitopoietico. Così, da un lato ci troviamo immersi nel suggestivo mondo della psicologia classica, fatta di archetipi, paure tormenti ed eroi, dall’altro, cominciamo a conoscere i macchinosi processi cerebrali, molto più controllabili degli assiomi psicoanalitici, meno inquietanti, ma con l’ovvio problema di essere strutture vuote a cui è difficile attribuire un senso e un significato. L’obiettivo è quello di favorire l’incontro tra il paradigma cognitivo dell’elaborazione dati e quello psicoanalitico (o meglio, estetico) della creatività simbolica, dimostrando che quest’ultima può essere considerata proprio una modalità euristica utile dal punto di vista del costo energetico e cognitivo dell’organismo. Kahneman pur non parlando esplicitamente di simboli, distingue due sistemi cognitivi: quello analitico, pigro, lento ma tendenzialmente preciso, e quello intuitivo che è fulmineo, spesso molto produttivo ma non garante di esatta informazione (Kahneman, trad. it Serra 2012).

Già a questo primo livello di spiegazione è facile intravedere una certa somiglianza di famiglia tra la proprietà simbolica e la categoria mentale dell’intuitivo. Inoltre egli definisce le euristiche così:

  • escamotage di accesso alle informazioni in memoria
  • tecniche di sostituzione
  • sistemi emotivamente carichi
  • schemi che fanno uso di memoria associativa in cui l’informazione ignota viene sostituita da una disponibile che ne è affine per rappresentazione e similarità

Si tratta di definizioni che lasciano ben pochi dubbi riguardo alla compatibilità tra le euristiche e le simbolizzazioni, in quanto tutte le citate proprietà sono attribuibili anche a quest’ultime.

Persino nelle teorie sulle euristiche della matematica di George Poyla si legge di uno stretto legame tra il problem solving e la rappresentazione (Pòlya 1975):

  • Provare a fare un disegno quando si ha difficoltà nel comprendere un problema
  • Provare ad esaminare un esempio concreto nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un problema molto astratto

(torna anche qui il discorso su l‘immagine)

L’euristica ha come caratteristica principale la rapidità di esecuzione e si vuole sostenere in queste pagine che anche la simbolizzazione sia una un’euristica e che la funzione sia la stessa: risparmiare tempo, velocizzando l’elaborazione dell’informazione che se non fosse simbolica ma concettuale richiederebbe costi maggiori in termini temporali. Per fare un esempio, la media delle fasi oniriche vissute in una notte è di 112 minuti (Jovanović U. J,1975) e ogni fase REM dura in media 20 minuti, senza addentrarci in questioni neurobiologiche immaginiamo che l’elaborazione dati nella fase onirica non superi una certa soglia temporale e che questa soglia potrebbe essere relativamente piccola.

Un individuo vive una vita frustrante, condizionata dalle aspettative altrui, una vita che fatica a essere autonoma, il signor x si sente sottomesso e vorrebbe sentirsi finalmente libero.

Quante emozioni! Tutte messe al punto giusto e sistematizzate in un’espressione coerente. Però, una proposizione, un pensiero più o meno articolato, è formulabile in tempi più ampi rispetto alle immagini e al linguaggio metaforico, insomma appare uno scarto tra la breve intensità di una sensazione e la lunga successiva concettualizzazione, uno scarto compensabile solo con il simbolo:

Mi sento immobilizzato da catene di ferro mentre io sto qui e sogno di volare.

Prima si faceva l’esempio del sole come metafora di forza. C’è un modo altrettanto veloce di spiegare cosa è la forza?

Energia fisica, vigore, capacità di resistenza, sopportazione, determinazione. Si tratta a loro volta di categorie così astratte che per essere comprese necessitano il rimando a ulteriori enti linguistici:

Energia: efficienza psicofisica

ma che vuol dire efficienza? Che vuol dire psicofisico?

Resistenza: saper contrastare determinati effetti

Ma il contrasto a sua volta è un’opposizione ecc.

In tutti questi casi il passo dal concetto alla sensazione denotata implica fasi molto lente, in cui il contenuto emotivo con il tempo rischia di essere troppo diluito.

Sole = forza

Sintetizza in un solo atto informativo il modo in cui mi sento: non mi sento efficiente, mi sento proprio forte come la luce del sole!

Quest’idea sull’utilità cognitiva della rappresentazione simbolica, può fare luce anche sulla comprensione terapeutica delle emozioni: dichiariamo di soffrire per un motivo ed etichettiamo questo motivo con un concetto.

Possiamo immaginare una semiretta in cui sono disposti via via dei termini e in cui gradualmente si passa  da parole con un referente diretto ad altre più astratte. Maggiore è la probabilità di accesso a termini concreti (attivati più direttamente da precisi circuiti sensoriali e quindi passibili di una rappresentazione meno simbolica), maggiore è la possibilità che la sofferenza sia innescata da quel motivo; mentre, inversamente, maggiore è la tendenza all’astrazione concettuale, più diventa alto il rischio di un’informazione erronea e di un motivo illusorio. Quest’ultimo infatti, implica rappresentazioni sostitutive per analogie e le seguenti simbolizzazioni risulterebbero compatibili con diversi schemi cognitivi, la causa reale sarebbe quella che ha un rapporto più diretto con l’immagine.

Un conto è credere di stare male per aver vissuto un abbandono, un altro è convincersi di stare male per un mancato riconoscimento professionale. La seconda categoria è molto più sfumata, è rappresentabile in mille modi diversi, è relativa alla cultura di riferimento ed è scomponibile fino al recupero di altri bisogni più specifici: autoaffermazione-identità- autostima- attaccamento.

A questo punto non solo si può finalmente dare forma alla sensazione iniziale ma si può anche capire che la frustrazione non era realmente imputabile alla professione. Semplicemente questa era un frammento segnico, un’interpretazione di significato parziale in cui si è investita l’intera esperienza interiore.
Tempistica quindi, come fattore determinante nello spiegare i processi cognitivi relativi al lavoro sulle informazioni, sul problem solving e dunque anche sulle rappresentazioni simboliche, intese come strategie informative e veloci.

Per quando riguarda le due problematiche successive (contenuti inaccessibili alla memoria e dissociazione), esse rimanderebbero a spiegazioni approfondite e a ricerche specificatamente cliniche che in seno a queste pagine e in base alle conoscenze fin ora ottenute, non è il caso di ampliare. Si propone comunque un abbozzo di ipotesi, con l’invito di approfondire ulteriormente tale modello per mezzo d’indagini sperimentali.

Rimozione o memoria implicita? L’impossibilità di verbalizzare e catalogare consciamente dati emotivi non categoriali

Ritorniamo alla seconda domanda che ci eravamo posti: Perché e secondo quali modalità, alcune esperienze emotive sono inaccessibili alla memoria? Si tratta di una risposta per niente esoterica all’interno delle scienze psicologiche, una teoria già da tempo riconosciuta, si è deciso di illustrarla (brevemente) solo per chiamarla a testimoniare contro il meccanismo di difesa e utilizzarla come argomento contro di esso.

La teoria sulle due memorie, esplicita (dichiarativa, conscia, consapevole) ed implicita (procedurale, corporea, automatica, inconsapevole), riesce da sola a fronteggiare la questione poiché è chiaro che non ricordare un evento non significa averlo rimosso ma vuol dire essere sprovvisti di memoria dichiarativa per accedere a quel contenuto, mentre però, il contenuto è presente ugualmente alla memoria, esiste, ma solo per mezzo del fattore mnemonico implicito.

Un arricchimento ulteriore della questione proviene dai contributi di Mauro Mancia che in Psicoanalisi e Neuroscienze spiega come le due memorie si sviluppino in fasi evolutive differenti e che mentre quella implicita è posseduta dalla nascita, la seconda si attiva dopo i due anni di vita. Dunque, la memoria precoce non è collegata in nessun modo alla rimozione seppur condizionante l’intera vita futura dell’adulto (Mancia, 2007).

Si obbietterà che la seguente ipotesi riesce a spiegare solo l’evento infantile, non recuperato consciamente dall’adulto ma cosa ne è delle esperienze traumatiche vissute in età matura e comunque non recuperabili consapevolmente? Già con Le-Doux nel 1996 possiamo provare a rispondere e anche in questo caso possiamo fare a meno del processo rimotivo: l’evento spiacevole o meglio l’evento emotivamente intenso, sarebbe in ogni caso mediato prima dalla memoria implicita. La valutazione di uno stimolo esterno o interno ad un trauma, sarebbe valutato prima dall’amigdala (coinvolta nella memoria implicita) rispetto all’ipotalamo (coinvolto nella memoria esplicita), si tratterebbe di una valutazione rapidissima e grossolana ( anche questa può essere letta come conferma del legame tra tempo, velocita e simbolico) e ciò comporta che la persona sia portata a rispondere in modo condizionato prima che possano intervenire modalità di controllo più raffinate come quelle corticali (LeDoux, 1996).

Dissociazione e abito mentale appreso

Ricapitolando, il modello fin qui esposto ha illustrato:

  • come il vissuto psicologico non accessibile alla coscienza, non sia implicato da nessun meccanismo di difesa, ma piuttosto da un dislivello fisiologico tra i fattori emotivi e quelli razionali, dove essendo i primi a predominare, è inibita gran parte della memoria esplicita
  • come di fronte all’impossibilità del ricordo cosciente siano possibili due modalità opposte di reazione, una vantaggiosa e l’altra no, simbolizzazione o dissociazione

Da cosa deriva la scelta di intraprendere una via e non l’altra? Abbiamo visto che con la Bucci il simbolo non scaturisce da rimozione ma il dissociato si, la risposta consueta sarebbe quindi che la scelta sia dettata dalla specifica resistenza che si metterebbe in atto.

In queste ultime pagine si cercherà di rispondere in modo alternativo all’ultimo quesito, debellando completamente dalla spiegazione tutti i resti mitici della difesa freudiana anche per il caso della dissociazione.

La prima considerazione da fare è che nell’elaborazione simbolica, nonostante l’impossibilità d’accesso al contenuto originario, è possibile l’accesso alla connotazione emotiva suscitata da tale contenuto; non si riconosce il fatto ma si riconosce l’emozione (che ne è l’aspetto primario ai fini dell’elaborazione psicologica), l’emozione è trasferita in rappresentazioni simboliche a lei consone, che le permettono l’adeguato sbocco energetico.

La dissociazione al contrario, sembra essere manchevole di questo tono emotivo, essa si caratterizza anzi, per essere emotivamente più neutra mentre invece è più densa di esperienze percettive primarie, non ancora elaborabili come emozioni (da qui la malattia psicosomatica), e non a caso, il disturbo di alessitimia (incapacità di riconoscere emozioni) è ampiamente connesso con il disturbo dissociativo somatico (Bucci 1997).

La menomazione emotiva non può essere simbolizzata, ma da cosa deriva? L’idea che si vuole sostenere parte dalla premessa del codice multiplo: Ogni esperienza psicologica è una sintesi tra diversi stimoli sensoriali inizialmente separati e lavorati da organi diversi.

Ora, s’immagina che tra questi stimoli, alcuni suscitino reazioni emotive forti e immediate, per esempio secondo LeDoux, gli stimoli mediati dall’amigdala, cioè quelli emotivamente carichi, sono percepibili prima che si attivino sistemi di controllo più raffinati (come quelli corticali) e prima ancora che venga portata a termine l’attività percettiva (LeDoux 1996). Da questa prospettiva sembra che moduli emotivi, moduli razionali e moduli sensitivi (per intenderci, quelli più propriamente subsimbolici), anche se in connessione, restano sistemi separati e abbastanza autonomi.

D’altro canto tra le varie unità sensoriali costituenti l’esperienza, alcune sono invece più specificatamente fisiche, percettive e sensitive a un livello più grossolano rispetto ad altre unità, e in questo caso l’elaborazione emotiva dello stimolo, appare mediata di molto da sensazioni fisiche primarie che attirano l’attenzione del soggetto maggiormente verso il corpo che verso la mente.

L’ipotesi è che non tutti i traumi siamo ematogeni, sembrerebbe un paradosso ma si vuol credere che un vissuto sia significativo per la persona anche se sprovvisto di carica emotiva.

Un trauma emotivamente intenso potrebbe essere quello provocato da stimoli sopraggiunti all’improvviso, verso cui l’individuo non può avere controllo e la reazione emotiva è scatenata prima ancora di percepire sensazioni fisiche. Un urlo improvviso mentre dormo, un terremoto, un pestaggio, tutto ciò che inneschi un’interpretazione immediata di fuga, pericolo ecc. Si tratta di esperienze a cui il soggetto non è abituato e a cui è costretto a rispondere emotivamente per interpretare cognitivamente segnali non riconosciuti.

Non tutti i traumi presentano queste proprietà. Alcuni non sono imprevedibili, non subentrano in modo violento e intenso, sono stimoli che vengono ripetuti nel tempo al punto che la persona li riconosce come familiari aspetti della sua quotidianità (nonostante l’elemento patogeno da cui sono connotati). Ripetuti abusi sessuali vissuti da un bambino da parte di un caregiver, ripetuti episodi di violenza… sono tutti casi in cui la componente emotiva è decisamente piatta, componente che si attiverebbe sono per innescare segnali di riconoscimento e che in queste circostanze sarebbe superflua poiché la persona, ormai abituata, riconoscerebbe il modello traumatico come normale.

Assenza di emozioni però, non vuol dire assenza di stimolazioni fisiologiche; l’esperienza in sé resterebbe comunque composta da stimoli sensoriali percepiti direttamente dal corpo e questi a differenza delle emozioni, restano esattamente dove sono entrati: nel corpo. Le percezioni non sono convertibili da una rappresentazione simbolica all’altra, solo le emozioni hanno questo vantaggio, da qui il motivo per cui le emozioni sono elaborabili positivamente con i simboli, mentre le percezioni fisiche restano relegate all’organico, incatenate al corpo e dissociate negativamente dalla mente.

L’assenza delle emozioni quindi, anche qui, non sarebbe imputabile a un meccanismo di rimozione bensì alla caratteristica tipica di alcune esperienze che sebbene traumatiche, si sarebbero infiltrate in modo così subdolo nella vita del soggetto che alla fine questo ci si sarebbe perfettamente abituato; e tali esperienze connotate più dal percettivo che dall’emotivo, non troverebbero altra via se non nella dissociazione.

Ecco presentata un’ipotesi di spiegazione alle problematiche connesse al fenomeno della rimozione, un’ipotesi primariamente basata sui processi di simbolizzazione intesi non più come maschere ma come euristiche necessarie a velocizzare i tempi di elaborazione cognitiva. L’assenza di memoria non più come rimozione ma come impossibilità di recuperare razionalmente vissuti emotivi che non hanno natura razionale; dissociazione non come difesa ma come risposta organica a eventi che essendo famigliari non innescano reazioni emotive intense, restano impressi solo nel codice corporeo non trasferibile in codici differenti.

A casa tutti bene (2018) di Gabriele Muccino – Recensione del film

A casa tutti bene è il titolo del nuovo film diretto da Gabriele Muccino, uscito da pochi giorni nelle sale cinematografiche italiane, forte di un cast corale che vede nomi come quello di Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Massimo Ghini, Giammarco Tognazzi, Stefania Sandrelli e Claudia Gerini.

A casa tutti bene: una famiglia costretta su un’isola

Alba e Pietro festeggiano le loro nozze d’oro e invitano figli e nipoti su questa loro isoletta volutamente a parer mio utilizzata come chiave simbolica. Il programma come per tutte quelle occasioni di festeggiamento implicitamente imposte da questa nostra società è cerimonia, pranzo e ritorno.  Il traghetto però, causa mal tempo, non riesce a riportare indietro gli invitati costringendoli a rimanere sull’isola; questo mette in moto forti emozioni e costringe gli ospiti a far fronte a scomode verità. Le buone maniere crollano, gli atteggiamenti di circostanza cedono, gli altarini si scoprono, il tutto in uno stile Mucciniano tornato finalmente alle origini. Isterico e nevrotico, ma non troppo, il tema portante del film è la famiglia ed i valori che essa rappresenta.

Paragonando la famiglia ad un palcoscenico, è facile rendersi conto di quanti ruoli è possibile giocare al suo interno, anche in funzione del suo tempo ciclico che permette l’intrecciarsi e il susseguirsi di vite diverse, nonché l’alternarsi delle generazioni.

I modi e le strategie per vivere insieme sono molteplici, ma ognuna fa capo al particolare momento di ciclo vitale che si sta vivendo: lo svincolo dalla famiglia d’origine e la decisione di crearsi una propria famiglia, la vita di coppia, la nascita dei figli, le cure per la loro crescita, l’allontanamento dei figli, di nuovo la vita di coppia ma nella condivisione della vecchiaia.

Sono tutti momenti questi in cui l’assetto di base della struttura familiare deve essere riformulato, momenti di “crisi”, dove si rende necessaria la rielaborazione delle regole e dei confini al suo interno per ripristinare l’equilibrio delle relazioni e dei ruoli.

A casa tutti bene: coppie di ieri e di oggi a confronto

Come seguire le regole del ciclo della famiglia se questo ciclo oramai è diverso? Arricchito, deprivato, svalutato, il ciclo della famiglia non segue più rigidamente queste regole, questo ciclo di vita, e nel film il tema è ampiamente trattato, da più punti di vista.

Lo stampo tradizionale è raccontato da Alba e Pietro che festeggiano le loro nozze d’oro e invitano i tre figli e i diversi nipoti. Sono benestanti, sono solidali tra loro, sono belli da vedere, mentre cercano in ogni modo di sorreggere i figli ormai adulti, ormai apparentemente formati, in quelle situazioni anomale che loro non comprendono, o meglio, che loro magari hanno affrontato diversamente, avendo vissuto con i principi della coppia tradizionale. In quelle vecchie coppie ci si rifugia, si trova certezza, conforto, forza. Coppie da ammirare, che sono state brave a tener duro insieme, a non far trapelare mai il sicuro momentaneo cedimento. Può sembrare che queste coppie non abbiano subito mai paure, rabbia, noia, tradimenti e invece certo che hanno subito, ma hanno continuato a costruire anche nelle difficoltà. Costruire richiede costanza, costruire è mettere in conto che qualche volta qualcosa si può rompere, costruire è pazienza, chi crede nel voler costruire va avanti e nei cedimenti trova risorse per migliorare, fortificare. Costruire è amare sempre e comunque quella persona, perché si sceglie di continuare a farlo, nonostante tante cose.

Carlo, Paolo e Sara invece? I tre figli che da una coppia cosi solida avrebbero dovuto trarre esempio che cosa ci raccontano? Ci raccontano la modernità generazionale portando non pochi spunti di riflessione.

Carlo con la sua doppia famiglia tutta al femminile. Paolo, artista, libertino, un po’ zingaro e dedito solo a se stesso. Sara: apparentemente inserita in un contesto famigliare tradizionale ma tradita, consapevolmente, dal marito.

A casa tutti bene: cosa offre la famiglia moderna

Quanto è difficile di questi tempi perseguire e mantenere un valore così importante come quello della famiglia? E’ un valore fondamentale da cui scaturiscono tutte le nostre diverse particolarità di vita, che ci condiziona, soprattutto nella costruzione della nostra identità.

Il ciclo di vita della famiglia come accennato è in continuo riassestamento. Nella famiglia tradizionale la condizione fondamentale per l’attuazione del cambiamento e il raggiungimento del nuovo equilibrio risultano essere l’elasticità, la non rigidità delle regole e delle relazioni e la facoltà di riformulare i ruoli; si tratta di armi a doppio taglio, soprattutto oggi e soprattutto in quelle famiglie dove i ruoli sono altresì fragili e confusi. Il conflitto invece? E’ un altro elemento chiave da un punto di vista evolutivo per la famiglia, gioca un ruolo cruciale. Saperlo gestire risulta più difficile del suo superamento, soprattutto nelle famiglie “modificate” che non devono cedere a sensi di colpa o all’opposto a ferrea rigidità, in quanto portatore di nuovi elementi della costruzione del sé.

Muccino descrive la famiglia e lo fa senza troppi fronzoli, siamo una generazione confusa, troppo libera, dove il venir meno di una buona e marcata definizione di ruoli ha degradato calore e conforto. Ognuno di noi proietta nel proprio desiderio di famiglia molte cose, desideri agli antipodi alle volte. Chi ha vissuto nella tradizione necessità di libertà, chi in una famiglia allargata ha desiderio di tradizione.

Paolo dice alla mamma “Vorrei solo avere una vita normale”, Alba lo conforta, gli risponde “ Le vite normali non esistono” e se la frase arriva da una figura cosi tradizionale, possiamo ancora ben sperare.

A CASA TUTTI BENE – IL TRAILER

L’aborto non è causa di depressione

Da tempo gli studiosi cercano di capire il rapporto tra aborto e salute mentale delle donne, specialmente per quanto riguarda la depressione. È un tema di salute psicologica delle donne che viene sempre più spesso usato a scopi sociali e politici.

 

Secondo un recente studio pubblicato dal JAMA Psychiatry, che ha visto la partecipazione di quasi 400.000 donne, subire un aborto non aumenta il rischio di depressione. Nonostante la recente letteratura scientifica abbia dimostrato come l’ aborto non influisca negativamente sulla salute mentale delle donne, continuano ad essere pubblicati articoli che dichiarano il contrario, giustificando così le diverse politiche pubbliche degli Stati Uniti che limitano l’accesso all’ aborto.

Aborto e depressione: c’è una relazione?

La Dott.ssa Julia R. Steinberg, della University of Maryland School of Public Health, e colleghi, allo scopo di comprendere meglio che tipo di relazione intercorra tra l’ aborto e la salute mentale delle donne, hanno analizzato dati di donne danesi nate tra il 1980 e il 1994. I dati includevano informazioni riguardo gli aborti, le nascite e le prescrizioni di antidepressivi. È il primo studio che indaga la relazione tra aborto ed assunzione di antidepressivi (Steinberg et al., 2018).

Dalla ricerca emerge come, tra l’anno precedente all’ aborto e quello successivo, non risultano esserci differenze nell’assunzione di antidepressivi. Inoltre sembrerebbe che in seguito all’ aborto, con il trascorrere del tempo ci sia una diminuzione nell’uso di antidepressivi.

La presenza di un maggiore rischio di depressione per le donne che hanno abortito rispetto alle donne che non l’hanno avuto è contestato dalla Dott.ssa Steinberg, la quale sostiene che il rischio è lo stesso sia prima che dopo l’ aborto, ed il maggior utilizzo di antidepressivi non è dovuto all’ aborto, ma a problemi di salute mentali preesistenti o altre esperienze avverse.

Aborto e depressione: l’informazione negli Stati Uniti

Secondo il Guttmacher Institute, in almeno otto paesi degli Stati Uniti vengono divulgate informazioni riguardo all’ aborto che ne enfatizzano gli aspetti psicologici negativi.

In ben 27 stati, viene chiesto alle donne di aspettare un determinato periodo di tempo, che va dalle 24 alle 72 ore, tra il momento in cui ricevono una consulenza e il momento in cui decidono di abortire, spesso con la giustificazione che l’ aborto può danneggiare la salute mentale.

Visto il numero crescente di leggi emanate negli Stati Uniti per limitare l’ aborto, i risultati dello studio “Examining the Association of Antidepressant Prescriptions With First Abortion and First Childbirth” (Steinberg et al., 2018) forniscono importanti evidenze che potrebbero essere di grande aiuto per lo sviluppo di nuove politiche.

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori?

I comportamenti aggressivi dei bambini in età scolare, soprattutto nelle società occidentali, costituiscono un problema a più livelli, sia per la problematicità del comportamento stesso e della sua gestione, sia a lungo termine, per il fatto che i “bambini aggressivi” presentano più frequentemente difficoltà relative al rendimento scolastico (Rubin et al., 1998) e alle competenze sociali, con conseguenze che si ripercuotono negli anni, come lo sviluppo di comportamenti criminali, l’abuso di sostanze e comportamenti che mettono a rischio la propria salute e incolumità fisica.

I comportamenti aggressivi dei bambini

Ma in cosa consiste esattamente un comportamento aggressivo e come si differenzia da altre forme di condotte problematiche come, per esempio, quelle antisociali? Si può generalmente affermare che l’aggressività viene considerata come sotto-categoria del più ampio comportamento antisociale (Coie & Dodge, 1998). In particolare, scale che misurano i comportamenti aggressivi nei bambini includono la disobbedienza alle insegnanti, inventarsi storie mai accadute e mentire, mettersi nei guai, attuare comportamenti che infastidiscono gli altri e iniziare uno scontro sia fisico che verbale con i compagni.

In generale, per considerare aggressivo un comportamento, il bambino deve agire con l’intenzione di creare disagio agli altri – sia ai pari che agli adulti; anche se spesso questi atteggiamenti vengono segnalati dalla scuola primaria, numerose ricerche longitudinali hanno mostrato che l’insorgenza di comportamenti aggressivi si collochi addirittura in età pre-scolare (Loeber & Stouthamer-Loeber, 1998): uno studio longitudinale di Trembley (1999) nel Quèbec che ha considerato tali problematiche in ragazzi fino ai 17 anni, indica che l’80% degli adolescenti considerati aggressivi, aveva mostrato una qualche forma di aggressività già prima dei 2 anni di età, secondo quanto riportato retrospettivamente dalle madri.

Comportamenti aggressivi in adolescenza

Che cosa succede allora in adolescenza, quando oltre il 40% di questi bambini vengono segnalati dalla scuola per la prima volta, rendendo consapevoli i genitori di tale problema? La risposta è semplice: succede che questi bambini, oramai cresciuti, iniziano a mettere in atto comportamenti fisicamente violenti o rischiosi per sé e per gli altri con intenzionalità e in maniera eclatante. Questo dato ha una grande importanza dal punto di vista clinico e della prevenzione, per la credenza ancora diffusa di sovrapporre l’aggressività alla violenza fisica e alla “serietà” del comportamento aggressivo: per chiarire, se un bambino della scuola materna ripetutamente risponde male alle maestre o dà un pizzicotto ai compagni, verrà più facilmente giustificato o non considerato propriamente aggressivo. Questo è dovuto a un errore negli adulti di ignorare tutti i segnali “aggressivi” del bambino più piccolo giustificandoli come “non intenzionali”, “non gravi”, “senza la volontà di fare davvero del male” e di sottovalutare tutte le forme di aggressività non fisica, come quella verbale o indiretta (Cynader & Frost, 1999). Come a dire: se una mamma riceve uno schiaffetto dal suo bimbo di 5 anni o se riceve un “no” deciso, non lo considererà comportamento aggressivo perché, nella mente del genitore, il piccolo “non sa quel che fa”, mentre il discorso è diverso se ad alzare le mani o ad opporsi è un ragazzino di 12 anni.

Quali sono allora le cause di questi comportamenti, che ruolo giocano i modelli, la società e la famiglia in tutto ciò? Anche se rimane indubbiamente vero che l’esposizione a modelli violenti sia nei mass media che nel mondo reale rappresentano una parte centrale nel creare una struttura cognitiva ed emotiva nel bambino favorevole allo sviluppo e al mantenimento di comportamenti aggressivi (Huesmann, 1998), il ruolo chiave ce l’hanno sempre i genitori. Ebbene sì. Sembrerebbe che ancora una volta la “colpa” o, meglio, la responsabilità di tutto ciò, cada su mamma e papà.

Aggressività nei bambini e comportamenti aggressivi: il ruolo della famiglia

In questa seconda parte vedremo in che modo e perché lo stile genitoriale influisce direttamente sul comportamento aggressivo dei figli. Anche se il luogo comune “E’ sempre colpa dei genitori” è effettivamente limitativo e i fattori in gioco nella crescita di un figlio sono tanti, non si può ignorare che i genitori svolgano, indipendentemente dalle altre variabili, un ruolo determinante nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale del bambino.

Uno studio pubblicato sulla rivista Child Development dimostra proprio questo: 260 diadi madre-bambino sono state osservate dalla nascita del bambino fino alla prima elementare. Dal primo mese di vita fino ai tre anni, le misure di valutazione includevano l’osservazione diretta della diade da parte di uno psicologo accompagnate ai resoconti della madre; successivamente, i ricercatori hanno osservato e codificato i comportamenti delle madri in situazioni create ad hoc, come ad esempio il dare un compito che mettesse in difficoltà il bambino e che richiedesse l’aiuto della madre; durante il primo anno di scuola, infine, i comportamenti dei bambini venivano rilevati in classe dalle insegnanti e a casa dai genitori.

Uno stile genitoriale negativo: lo stile genitoriale autoritario

I risultati dello studio parlano chiaro: ciò che conta nell’insorgenza di problematiche comportamentali aggressive, più del temperamento del bambino o dell’ambiente esterno, è lo stile genitoriale negativo. Nello specifico, quando il genitore esprime emozioni negative dirette al proprio figlio e quando vi siano presenti conflitti tra la mamma e il bambino, si creerebbe un circolo vizioso in cui la negatività della madre suscita alti livelli di rabbia, nervosismo e ostilità nel piccolo, il quale a sua volta, così facendo, stimola più ostilità nella madre stessa. I bambini, con il passare del tempo, diventerebbero incapaci di regolare le proprie emozioni negative quando queste si manifestano nel gruppo dei pari, portando quindi all’insorgenza del comportamento aggressivo.

Connesso a questa problematica è lo stile genitoriale autoritario, caratterizzato da bassa responsività ai bisogni del bambino, poco calore nella relazione parentale ed elevato controllo coercitivo, espresso attraverso punizioni anche fisiche, ostilità verbale e mancanza di spiegazioni date ai figli relativamente ai comportamenti sbagliati che hanno portato alla punizione.

Tale modalità nel relazionarsi favorirebbe l’insorgenza di comportamenti oppositivi e aggressivi per svariati motivi: prima di tutto per un basico meccanismo di apprendimento, in cui il bambino utilizza la disciplina imparata dal genitore anche con il gruppo dei pari. In secondo luogo, vi è il motivo menzionato sopra, ovvero un’emotività negativa e ostile nei confronti del figlio che non fa altro che suscitare nel bambino stesso emozioni altrettanto negative, e quindi lo renderebbe meno capace di focalizzarsi su altri modi di risolvere i problemi e di programmare attività diverse. E quando queste capacità sono sotto-stimolate, diventano presto anche sotto-sviluppate.

Questi dati devono farci riflettere a livello clinico, sia per orientare l’intervento il più precocemente possibile, addirittura nei primi mesi di vita del bambino, sia per sottolineare ancora una volta come il lavoro vada pensato prima di tutto rivolto ai genitori e alla famiglia.

La prossima settimana vedremo come si può lavorare su problematiche comportamentali di questo tipo, sia a livello genitoriale sia scolastico.

I Comportamenti aggressivi dei bambini: allora diteci che cosa fare!

Genitori che reagiscono alla rabbia dei figli con altrettanta rabbia e aggressività o che usano la minaccia e toni di voce molto elevati hanno possibilità marcatamente maggiori di avere figli aggressivi rispetto a genitori che utilizzano, invece, strategie positive (Weiss et al., 1992). Anche la sola aggressione verbale è associata allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini, così come la delinquenza e i problemi interpersonali dall’età pre-scolare fino all’adolescenza (Vissing et al., 1991).

Se è vero che i genitori hanno una così forte influenza nel modellare i comportamenti dei figli, non dobbiamo disperarci. Anzi, proprio per questo motivo, i suggerimenti provenienti da pediatri e terapeuti ci dicono di utilizzare proprio il comportamento di mamma e papà per cambiare quello del bambino.

ABC comportamentale

Prima di iniziare qualsiasi intervento, il primo passo da compiere è quello di individuare con precisione gli episodi di comportamenti aggressivi del bambino e il contesto in cui questi si manifestano. Una delle metodologie più semplici e diffuse è quella dell’ “ABC- Antecedent, Behaviour, Consequences” comportamentale (attenzione a non confonderlo con l’ABC usato nella terapia cognitiva):

A- antecedente: quali sono stati gli eventi che hanno preceduto i comportamenti aggressivi?

B- comportamento: in che cosa consiste precisamente i comportamenti aggressivi?

C- conseguenze: che cosa hanno fatto i genitori per risolvere la situazione?

Questa fase serve per avere una descrizione il più precisa possibile del comportamento-problema; per questo sarebbe utile, anche attraverso griglie osservative che possono utilizzare insegnanti o specialisti, informarsi sulla frequenza e i luoghi in cui i comportamenti aggressivi si manifestano, ad esempio sia a casa che a scuola o solamente a casa. Solitamente, infatti, più un comportamento è pervasivo e generalizzato a situazioni diverse, più è indice di problematicità e indica la necessità richiedere un parere specialistico. Inoltre, quando si vanno a osservare i comportamenti aggressivi, bisogna considerare, ad esempio, la modalità con cui la famiglia stabilisce delle regole chiare e come si impegna per farle rispettare.

Se infatti, un bambino è sempre aggressivo a casa e mai nel contesto scolastico, si potrebbe ipotizzare un problema specifico del setting casalingo, dove per esempio vi potrebbero essere regole poco chiare.

Una volta escluse cause mediche o legate a disturbi dello sviluppo (che richiedono l’intervento più complesso di diversi specialisti con procedure appropriate al disturbo specifico) i genitori possono provare a mettere in pratica delle strategie alternative di gestione del problema.

Bambini che hanno comportamenti aggressivi: che cosa possiamo fare? Alcuni suggerimenti pratici.

Sul numero di Settembre 2011 di Child Development troviamo una guida su come impostare un lavoro con bambini che hanno comportamenti aggressivi. A fornirci questi spunti, riassunto di ricerche internazionali e di casi clinici, sono il medico Angela Luangrath, del Royal Children’s Hospital di Melbourne e Harriet Hiscock, pediatra e ricercatrice presso l’Università di Melbourne.

Come comportarsi con bambini aggressivi: le linee guida

(1)Incoraggia i comportamenti positivi: anche se può sembrare contro-intuitivo, le punizioni servono a poco e soprattutto non fungono da deterrente per il comportamento aggressivo futuro. Ciò che invece diventa determinante è il rinforzo dei comportamenti positivi, ad esempio sottolineando e lodando il bambino quando si comporta in maniera appropriata. Si possono dare dei piccoli “punti” per ogni comportamento adeguato, come ad esempio delle figurine, e al raggiungimento di un certo numero di punti si può stabilire il guadagno di un premio.

(2)Sii costante nei comportamenti con i bambini: è fondamentale che il bambino sappia che a un determinato comportamento seguirà una certa conseguenza. È altrettanto importante che si renda conto che il genitore terrà una linea costante e coerente nell’educazione (rispetto delle regole, che cosa fare nel caso vengano infrante, come stabilire le eccezioni ecc…), in modo da non essere confuso e da poter stabilmente prevedere cosa è concesso e cosa è vietato. Sarebbe molto utile che venisse tenuta una linea comune tra famiglia e scuola. Sono molto frequenti, infatti, i casi in cui i bambini sembrano “degli angeli” in classe e a casa “fanno disperare”. Questo problema potrebbe proprio essere dovuto a una mancanza di coerenza che il bambino percepisce nell’ambiente domestico, dove magari vengono applicare regole troppo flessibili e poco chiare.

(3)Stabilisci dei limiti chiari e crea delle aspettative: i bambini, soprattutto i più piccoli, dovrebbero avere una chiara comprensione di ciò che ci si aspetta da loro e tali aspettative vanno loro spiegate con precisione, ad esempio il condividere un giocattolo.

(4)Stabilisci che cosa fare di fronte ai comportamenti aggressivi: ovviamente in questo caso dipende dall’età e dal tipo di comportamento aggressivo messo in atto da bambino. In generale è importante che i genitori abbiano chiaro che cosa fare nel momento in cui si verifichi un problema e che tengano una linea comune e costante nel tempo. Una strategia generalmente usata è quella di ignorare il comportamento problematico o di distrarre il bambino – se si tratta di aggressività “minore”, ovvero che non implichi pericolo per sé o per gli altri. È utile che i genitori, al posto di arrabbiarsi a loro volta, spieghino con calma le conseguenze delle azioni del bambino. Anche per i comportamenti aggressivi più importanti è bene ricordare di non alzare il tono di voce e di porre fine al comportamento aggressivo e lasciare calmare il bambino – in queste situazioni, infatti, solitamente il bambino proverà a rimettere in atto il comportamento più volte e sarà troppo attivato per comprendere una spiegazione. È bene quindi allontanarlo dalla situazione in caso di pericolo, se ad esempio sta lanciando oggetti contro la sorella, e dargli il tempo il calmarsi. Anche se può sembrare a prima vista difficile, è molto importante lodare sempre il proprio bambino quando smette il comportamento-problema, proprio per andare a rafforzare il comportamento positivo.

Arteterapia: la creatività che cura.

L’incontro con la malattia ci fa sperimentare l’esistenza di un limite doloroso, che nasce all’interno: un vuoto, un lutto, un trauma. Attraverso l’esperienza dell’arteterapia, si rende possibile la ricerca del nascosto, del represso e del bizzarro.

L’arte diventa un modo per liberare ciò che blocca la persona e così si possono scoprire nuove risorse per migliorare la qualità della vita.

Arteterapia: le origini con F. D. Brandeis

In Europa, tra le due guerre, la prima pioniera dell’arteterapia, fu Frield Ducker Brandeis, che specializzandosi nel campo dell’arte tessile e fotografia, impara che l’arte può tessere un legame con la parola, il suono, la forma, il colore, il gesto. Apre un negozio di belle arti e parallelamente inizia a collaborare con il Partito Comunista, dedicandosi all’attività politica clandestina, che la porta ad essere arrestata.

Dal 1934 al 1938, diventa insegnante d’arte per i bambini del ghetto di Praga, dove ha modo di osservare come i suoi piccoli allievi utilizzavano l’arte per far fronte alla discriminazione e al sopruso, vissuto ogni giorno e per elaborare i traumi, i lutti e le violenze che alcuni di loro si trovavano a subire.

Nel 1942, viene deportata nel campo di concentramento per le sue origini ebree e nel campo di transito di Terezin, diventa insegnante d’arte per centinaia di bambini, allontanati dalle loro famiglie e ricoverati presso i dormitori infantili del campo. A Terezin, con i suoi laboratori artistici, ella pone l’obiettivo di riequilibrare il mondo emozionale dei bambini, attraverso le lezioni d’arte e i disegni creati dai bambini. In questo modo sostiene e aiuta i bambini sottoposti a situazioni traumatiche.

Arteterapia: l’evoluzione ad opera di E. Kramer e M. Naumburg

Negli Stati Uniti, a partire negli anni ’50, inizia l’esperienza più importante ai fini della definizione metodologica dell’arteterapia, con la nascita dei due importanti orientamenti di arteterapia, legati ai nomi di Edith Kramer e di Margeret Naumburg. La Naumburg, psichiatra e psicoanalista, elabora uno specifico approccio dell’arteterapia.

Ella parte dal presupposto che i sentimenti inconsci sono più facilmente riconoscibili nelle immagini che nelle parole e stimola la comunicazione simbolica tra paziente e arte terapeuta, facendo riferimento alle immagini prodotte dal paziente sulle quali inevitabilmente vengono proiettate emozioni e vissuti personali. Le stesse immagini vengono analizzate attraverso la cornice teorica freudiana. La Naumburg elabora un metodo di orientamento dinamico, con cui utilizza l’arte come strumento per svelare significati inconsci, che vengono poi descritti e resi comprensibili, grazie l’utilizzo della comunicazione verbale utilizzata nella seduta di psicoterapia.

Diversa è l’impostazione di Edith Kramer: provenendo dal mondo dell’arte, riserva un valore particolare all’espressione artistica.

La Kramer considera la terapia d’arte distinta dalla psicoterapia e sostiene che le sue virtù curative dipendono da quei procedimenti psicologici che si attivano nel lavoro creativo.

Attraverso le sue esperienze, la Kramer si è resa consapevole del grande aiuto dell’arte sia per il disagio psichico che nella sofferenza esistenziale.

E’ a partire dalla sua esperienza di arteterapeuta con bambini ed adolescenti e dai suoi approfonditi studi psicologici che nasce l’elaborazione di una precisa linea metodologica che vede la centralità del processo creativo ed artistico nel percorso terapeutico e che rientra sotto il nome di “Arte come terapia”.

L’arte diventa terapia, il prodotto artistico rimane subordinato al processo e la tecnica terapeutica non cerca tanto di svelare e interpretare il materiale inconscio, ma diventa percorso significativo e simbolico in cui vengono attivate capacità, risorse e processi, diventando un vero e proprio mezzo di sostegno per l’Io, favorendo lo sviluppo del senso d’identità e promuovendo una generale maturazione. La Kramer sottolinea il fatto che l’arteterapeuta debba avere una profonda conoscenza sia dei processi artistici che delle caratteristiche e possibilità dei materiali proposti, condizione indispensabile all’intuizione artistica che deve sostenere la relazione terapeutica.

Arteterapia: una definizione, oggi

Essa è una forma di intervento, nel quale si fa uso di differenti mediatori artistici al fine di favorire l’empowerment della persona o del gruppo, la piena utilizzazione delle proprie risorse e il miglioramento della qualità della vita.

L’arteterapia si caratterizza come un approccio di sostegno non-verbale, mediante l’utilizzo di materiali artistici, basandosi sul presupposto secondo cui il processo creativo corrisponda a un miglioramento dello stato di benessere della persona, migliorandone la qualità del vissuto. Tra i mediatori artistici si annoverano: la danza, la musica, il teatro, la fotografia, la pittura.

Questi mediatori artistici vengono usati in laboratori di arteterapia che rispettano tutte le regole del setting: lo spazio e il tempo sono ben definiti e tutto ciò che accade all’interno di tale spazio e tempo acquisisce un significato che facilita la comprensione del paziente. Questi laboratori sono un ambiente molto diverso dal classico studio dello psicologo. Il laboratorio è uno spazio ampio, luminoso e ricchissimo di stimoli. Vi si trova di tutto: carta, matite, colori, das, stoffe, lane, legno, farina, teli, burattini, strumenti musicali. Si può trovare anche uno spazio vuoto, libero da stimoli, da riempire come si vuole.

Nel laboratorio, su indicazioni dell’arteterapeuta, ci si può dedicare a:

  • Arti visive: si può disegnare, colorare, modellare das o creta, utilizzare fotografie o filmati
  • Musicaterapia: si può ascoltare musica per favorire una maggiore attivazione o il rilassamento
  • Danzaterapia: con cui di certo non si apprendono coreografie ma si impara a liberare il corpo consentendogli di esprimere pensieri, emozioni e sentimenti
  • Teatroterapia: che permette di comunicare con il corpo e con la voce, di osservare il mondo con gli occhi di un altro e di giocare con ciò che è finzione e ciò che è verità
  • Gioco: si propongono i giochi che fanno i bambini: rubabandiera, nascondino, lanciare la palla, ecc. Il gioco allena il bambino (e anche l’adulto) alla vita e gli permette la ricerca del sé, di un sé corrispondente ai proprio bisogni.

Arteterapia: aree d’intervento e i destinatari

Le aree di intervento dell’arteterapia sono tre:

1- Area Terapeutica: l’arteterapia può essere inserita nel programma riabilitativo dei casi di handicap gravi e disturbi psichiatrici

  • in aggiunta ai trattamenti psicoterapici e psichiatrici protocollari/di routine
  • integrandosi al lavoro di equipe fatto di diverse competenze e professionalità, può portare il paziente al raggiungimento di buoni risultati.

In questi casi le tecniche espressive non sono mai le uniche responsabili dei miglioramenti, poiché ciò che “cura” è la relazione terapeuta-paziente, ma diventano gli strumenti che un operatore sensibile può utilizzare per scoprire e conoscere le immagini, le sensazioni e i sogni di un paziente che non riesce ad esprimersi con le parole

2- Area riabilitativa: l’arteterapia può essere utilizzata anche con bambini, anziani, adolescenti e adulti portatori di handicap fisici in assenza di vere e proprie patologie psichiche. L’arteterapia diventa un’esperienza ludica, di gioco in cui si è liberi di esprimersi attraverso le proprie possibilità senza ricevere giudizi, né condizionamenti. L’obiettivo non è “fare bene”, ma è comunicare i nostri pensieri ed emozioni così come viene istintivamente fare. Si può produrre anche uno scarabocchio se è questo che riusciamo a fare e ci rappresenta. In questa maniera l’utente con un corpo trasformato o diversamente abile vive il proprio corpo, non lo subisce.

3- Area preventiva ed educativa: le tecniche espressive sono utili per favorire una maggiore conoscenza di sé stessi nei momenti di cambiamento che capitano nella vita. Durante una crisi coniugale, un cambiamento di lavoro, nei casi di leggera depressione a seguito del pensionamento può essere utile liberare le proprie energie creative attraverso un percorso in un laboratorio artistico.

Arteterapia: i benefici

L’arteterapia cura attraverso il lavoro artistico: il soggetto, attua un riconoscimento di sé e della propria presenza in grado di lasciare una traccia. Inoltre nel momento in cui le sensazioni si traducono nell’oggetto artistico avviene un processo di auto comprensione più profonda. Il riuscire a raffigurare immagini, sentimenti ed emozioni esprimendoli simbolicamente in una forma visiva concreta permette di poterli osservare come qualcosa di staccato da sé. Ecco allora che anche nelle immagini più cariche di sofferenza e di angoscia si crea uno spazio di comprensione ed elaborazione che può essere di aiuto all’individuo nella ricerca di nuove modalità di interazione tra il proprio mondo interno e il mondo relazionale esterno.

L’arteterapia potenzia l’autostima, migliora l’immagine di sé e il rapporto con gli altri, promuove il benessere e sviluppa le potenzialità individuali. L’arte dà gioia e con la gioia cadono le difese, sparisce la paura, la creatività coincide con l’essere vivi; nel creare e nel dipingere si è liberi, ci si permette di vivere esperienze di trasgressione e di libertà.

L’arteterapia, vissuta come un’attività ludica e divertente, accompagna l’individuo in uno dei viaggi più affascinanti dell’uomo: la scoperta di se stessi.

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