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Siamo sempre più sensibili, ma sempre meno tolleranti e maniaci del controllo: cosa è successo a Bessel van der Kolk

Da decenni il lavoro di Bessel van der Kolk è fondamentale per capire gli effetti del trauma sulla vita delle persone. Quali riflessioni possiamo fare apprendendo che è stato licenziato dal Trauma Center del Justice Resource Institute, che dirigeva, in seguito a denunce per maltrattamento e bullismo?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su linkiesta il 21/05/2018

Il nome Bessel van der Kolk probabilmente non dirà molto ai lettori, eppure la sua storia ci racconta qualcosa su quello che ci sta accadendo negli ultimi anni. Van der Kolk è uno psichiatra di Boston noto per le sue ricerche nel campo del disturbo post-traumatico da stress sin dagli anni ’70. Da decenni il suo lavoro scientifico è fondamentale per capire gli effetti del trauma sulla vita delle persone. Il suo libro più importante, il successo di vendite “The Body Keeps the Score”, descrive come il cervello sia modellato dalle esperienze traumatiche e come tale conoscenza possa essere integrata nelle pratiche psicoterapeutiche. Il libro è stato pubblicato anche in italiano col titolo “Il corpo accusa il colpo”. E anche tra noi è stato un successo di vendite.

In seguito alle ricerche di Van der Kolk la consapevolezza e la conoscenza dell’influenza delle esperienze traumatiche sul benessere psichico si sono enormemente ampliate. Non solo il cervello ma perfino il corpo sono rimodellati radicalmente dal trauma. Le ricerche di Van der Kolk sull’istinto di sopravvivenza spiegano come le persone traumatizzate sperimentino un’ansia e una rabbia intollerabili, come sia degradata la loro capacità di provare benessere e come sia accentuata quella di percepirlo violentissimamente nella carne del proprio corpo.

Tutto questo è scienza, scienza rigorosa e confermata. Tuttavia è anche cultura, ed è anche grande cultura. Una cultura che ci permea sempre di più, rendendoci sensibili al trauma, nostro e altrui. Malgrado alcune notizie sembrino dirci il contrario, la nostra è un’età altruistica ed empatica, desiderosa di comprendere la sofferenza degli altri e soprattutto dei deboli. Ben prima delle ricerche di Van der Kolk nelle religioni e in letteratura si era propensi a comprendere le ragioni della vittima e del debole. Concepire la vittima come un traumatizzato è il coronamento scientifico di una sensibilità che nasce con i bambini trascurati e maltrattati di Dickens o ancora prima, fino a risalire al trauma della crocifissione o a quel che volete.

In questi giorni uno sfortunato accidente ha colpito Van der Kolk nel luogo che dirige, il Trauma Center del Justice Resource Institute (JRI) di Boston, una organizzazione senza scopo di lucro che fornisce servizi di salute mentale agli svantaggiati. Il 7 marzo il Boston Globe ha riportato che il JRI ha licenziato Van der Kolk in seguito alle denunce per maltrattamento e bullismo che lui avrebbe perpetrato ad alcuni operatori del suo staff.

Le riflessioni che un simile evento possono ispirare sono a mezza strada tra la nobile pietà, l’umana preoccupazione, l’infantile curiosità e infine un’emozione più confusa e indecifrabile, che confesseremo in seguito. La pietà la proviamo prendendo atto che nemmeno le persone più consapevoli della traumaticità del comportamento umano violento -e chi dovrebbe essere più consapevole di Van der Kolk?- sembrano essere in grado di non cadere in quel peccato originale. La preoccupazione ci colpisce di fronte al timore opposto, il timore di una possibile caccia alle streghe che ormai rischia di non risparmiare più nessuno, timore che nasce quando leggiamo l’elenco molto lungo di colleghi di lavoro che hanno dichiarato innocente Van der Kolk. Stiamo diventando una società così desiderosa di difendere la vittima da accettare il rischio di condannare eccessivamente qualunque comportamento meno che appropriato? Dal quel che si capisce, Van der Kolk sembra essere colpevole di un’eccessiva propensione alla rabbia. Un tempo lo si sarebbe definito un tipo scorbutico. Se è così, gli aspetti penali delle sue sfuriate saranno probabilmente futili e si sgonfieranno; intanto però è stato licenziato dal JRI, o almeno così pare.

E si finisce con il sentimento peggiore, che sarebbe bene non nominare: la shadenfreude. Con questo termine i tedeschi nominano un sentimento più inconfessabile dell’invidia: il piacere per le disgrazie altrui. Intendiamoci, non vi è alcun piacere nell’apprendere che un collega ha subito un brutto infortunio. Anzi, si provano pietà e preoccupazione. Quella piccola lucetta ignobile che si accende accanto a queste due più decorose luci va repressa e confessata solo per un attimo e solo perché forse c’è qualcosa da imparare anche dal fango che ci sporca il cuore. Perché è vero che il merito –o la colpa- di aver innalzato l’asticella dei comportamenti accettabili è anche delle trentennali ricerche scientifiche di Van der Kolk, le quali si sono fatte non solo scienza ma anche cultura e costume morale. Se siamo tutti molto più sensibili al minimo sgarro è un bene per il vivere civile e la buona educazione. Al tempo stesso però molti (e molte, è proprio il caso di usare anche il femminile ora più che mai) di noi sono un po’ infastiditi (e infastidite) e preoccupati (e preoccupate) da un ideale che sembra sempre più difficile da rispettare e che rischia di imbalsamare i rapporti umani in una impersonale buona educazione. E fosse solo questo, passi; ma se si aggiunge il rischio di essere denunciati il malumore aumenta e i rapporti umani s’improntano sempre più a un’estrema prudenza e a un soffocante controllo reciproco. La conseguenza è che il giorno in cui questi fastidi finiscono per colpire Van der Kolk, a suo modo uno degli apostoli di questa nuova grande sensibilità all’offesa, per un attimo e solo per un attimo proviamo il guilty pleasure di vedere il prete sul pulpito colto con le mani nel sacco del peccato. Dopodiché torniamo rapidamente a ricomporci, decisi (e decise) ancora più di prima a comportarci sempre meglio, sempre più educatamente. Sempre più perfettamente.

Come le emozioni influenzano la nostra percezione della realtà

Gli esseri umani recepiscono le informazioni provenienti dall’ambiente grazie i cinque sensi. Gli input sensoriali, attraverso un processo di integrazione, formano un percetto. Quest’ultimo non è una rappresentazione della realtà; infatti, lo stato emotivo in cui le persone si trovano ha un ruolo fondamentale rispetto al significato che viene attribuito alla rappresentazione percettiva.

 

Un esempio molto semplice: raggiungiamo un gruppo di nostri amici e nel momento in cui arriviamo da loro, questi smettono di parlare. In questa situazione, una persona potrà reagire in maniera differente sulla base al suo stato d’animo. Nel caso di uno stato d’animo piacevole, la persona potrà pensare: ”Che gentili, hanno messo fine alla loro discussione per me”; oppure, nel caso di uno stato d’animo negativo, la persona potrebbe pensare: ”Sicuramente stavano parlando male di me”. Questo semplice esempio, mette in evidenza che gli esseri umani vedono il mondo in maniera diversa, quando si trovano in uno stato d’animo piacevole o spiacevole.

Emozioni: influenzano la nostra percezione della realtà

A tal proposito, uno studio condotto da Siegel e collaboratori, mette in evidenza come gli esseri umani non ricevano passivamente le informazioni, ma abbiano un ruolo attivo nell’elaborazione degli stimoli. In questa ricerca, Siegel e colleghi volevano studiare se il cambiamento degli stati emotivi delle persone, che avviene al di fuori della consapevolezza, potesse effettivamente cambiare il modo in cui giudicavano e valutavano le facce neutre.

I ricercatori, utilizzando una tecnica chiamata “soppressione continua del flash“,hanno presentato ai partecipanti degli stimoli al di fuori della loro consapevolezza. Ai 43 partecipanti alla ricerca, è stata presentata al loro occhio dominante un’immagine di un volto neutro;invece, al loro occhio non dominante sono state presentate un’immagine di un volto sorridente, accigliato o neutro. Quest’ultima immagine, presentata all’occhio non dominante, era soppressa dallo stimolo presentato all’occhio dominante, e i partecipanti non lo sperimentavano consapevolmente.

Emozioni inconsapevoli: influenzano le nostre decisioni

Alla fine di ogni prova, veniva presentato ai partecipanti un set di cinque diversi volti, tra cui scegliere. Nonostante il volto che veniva presentato all’occhio dominante dei partecipanti fosse sempre neutrale, essi tendevano a selezionare i volti che avevano una migliore corrispondenza con l’immagine che veniva presentata al di fuori della loro consapevolezza. Ad esempio, quando veniva presentato all’occhio non dominante un viso sorridente, questo incideva positivamente sullo stato d’animo del partecipante, che a sua volta, tendeva a scegliere, alla fine della prova, un volto più sorridente.

Quindi, influenzare inconsapevolmente gli stati emotivi dei partecipanti, indirizzava questi ultimi a focalizzarsi e selezionare volti più o meno simpatici, più o meno affidabili.

In definitiva, stimoli positivi e negativi influiscono in modo significativo sul processo decisionale. Siegel e colleghi, infine, aggiungono che tali risultati potrebbero avere ampie implicazioni nelle interazioni sociali quotidiane e in situazioni più delicate, come quando i giudici o i membri della giuria devono valutare se un imputato è pentito.

Disturbo da binge-eating associato all’obesità: il problema non risolto della perdita di peso 

Il binge eating disorder (BED) viene oggi trattatato con la CBT-ED, la IPT e l’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED. Tuttavia, sebbene questi siano gli approcci che hanno maggiore evidenza di efficacia, non riescono ancora ad incidere sulla riduzione di abbuffate e di peso nel lungo termine.

La terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED) e la psicoterapia interpersonale (IPT) sono gli interventi per il disturbo da binge-eating (BED) con la maggiore evidenza di efficacia. Entrambi gli interventi producono un tasso di remissione del BED maggiore del 50% fino a un follow-up di 48 mesi, ma non determinano una perdita di peso significativa [1].

Risultati promettenti (46% di remissione) sono stati ottenuti anche dall’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED, un trattamento in cui il terapeuta guida il paziente a seguire le indicazioni di un manuale in 10-12 incontri di 20-30 minuti, ma anche questo intervento non produce una perdita di peso significativa [1].

Tuttavia, le linee guida NICE del 2017 raccomandano come trattamento di prima scelta per gli adulti con BED l’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-E. Se questo intervento è inaccettabile, controindicato o inefficace dopo quattro settimane, le linee guida raccomandano di offrire ai pazienti la CBT-ED di gruppo o individuale [2]. Le linee guida di NICE consigliano anche di spiegare ai pazienti con BED che “i trattamenti psicologici finalizzati al trattamento degli episodi di abbuffata hanno un effetto limitato sul peso corporeo e che la perdita di peso non è un obiettivo terapeutico di per sé” [2].

Il trattamento di pazienti con Binge Eating Disorder associato all’obesità

Al  fine di fornire un’opzione di trattamento a “tuttotondo” per i pazienti con BED associato all’ obesità, sono stati testati programmi di perdita di peso basati sulla terapia comportamentale dell’obesità (BT-OB) e la chirurgia bariatrica.

Tuttavia, i dati disponibili suggeriscono che la BT-OB non è efficace quanto la CBT o la IPT nel ridurre la frequenza degli episodi di abbuffata. Inoltre, sebbene la BT-OB produca una maggiore perdita di peso a breve termine, al follow-up a 2 anni la perdita di peso non è più significativamente diversa da quella raggiunta con la IPT e l’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED [3]. La presenza di BED sembra anche predire una minor perdita di peso e un aumento di peso maggiore nei pazienti trattati con la chirurgia bariatrica. In molti pazienti con BED, infatti, dopo l’intervento chirurgico ricompaiono episodi ricorrenti di  abbuffata che, sebbene nella maggior parte siano soggettivi per le limitazioni anatomiche imposte dalla resezione gastrica, nel lungo periodo producono inevitabilmente un recupero del peso [4].

Terapia farmacologica

I numerosi farmaci testati per il BED hanno determinato nella maggior parte dei casi una riduzione degli episodi di abbuffata superiore al placebo [5]. Tuttavia, ad eccezione del topiramato, che ha dimostrato di ridurre a breve termine (12 settimane) in modo significativo sia gli episodi di abbuffata sia il peso corporeo nel breve termine, ma è gravato spesso da importanti effetti collaterali, tutti gli altri farmaci testati hanno avuto un effetto minimo sulla perdita di peso.

Nel 2015 la Food and Drug Administration ha approvato lisdexamfetamina dimesylate (LDX) sulla base di alcuni studi che hanno dimostrano la sua superiorità a breve termine rispetto al placebo nel ridurre gli episodi di abbuffata dopo 12 settimane di trattamento (40% remissione con LDX  vs 21% con placebo [5]. Tuttavia, la LDX (non in commercio in Italia) è uno stimolante e il suo uso è limitato, perché non è indicato per la perdita di peso o per l’obesità; inoltre ha un elevato rischio potenziale di causare abuso/dipendenza. L’aggiunta dei farmaci alla CBT-ED non ha neanche mostrato di migliorare l’esito del trattamento sia a breve che a lungo termine del BED [2].

Conclusioni

In conclusione, i dati disponibili indicano che il BED risponde abbastanza bene agli interventi psicologici, in particolare alla CBT-ED, alla IPT e all’auto-aiuto guidato basato sulla CBT-ED, ma l’efficacia di questi trattamenti è limitata dal fatto che nessuno di essi produce una significativa perdita di peso. Anche la BT-OB e gli approcci farmacologici hanno fallito nel determinare una significativa perdita di peso a lungo termine, e la chirurgia bariatrica, un trattamento riservato solo al sottogruppo di pazienti con obesità grave, non sembra risolvere nel lungo termine il problema della perdita di controllo nei confronti dell’alimentazione.

Questi dati, confermati da numerosi studi controllati e randomizzati, indicando la necessità e l’urgenza di progettare e testare nuovi trattamenti per il BED associato all’ obesità che siano in grado di produrre sia la remissione dagli episodi di abbuffata sia una riduzione significativa e salutare del peso a lungo termine.

Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali di Michael Bader (2018) – Recensione

“Eccitazione” aiuta a comprendere quali i sono i meccanismi di base con cui vengono sviluppate le fantasie sessuali necessarie all’eccitarsi, partendo da numerosi esempi tratti da casi clinici. Persino la fantasia più bizzarra e apparentemente incomprensibile ha sempre una logica!

Si deve ammettere che hanno ragione i poeti di scrivere di persone che amano senza sapere, o che sono incerte se amano, o che pensano di odiare quando effettivamente amano. Sembra, quindi, che le informazioni ricevute dalla nostra coscienza che riguardano la vita erotica siano particolarmente soggette all’incompletezza, lacunose o false

Sigmund Freud

Michael Bader è uno psicologo e psicoanalista con 30 anni di esperienza clinica. Fa parte del San Francisco Psychotherapy Research Group (SFPRG) fondato da Joseph Weiss e Harold Sampson, fondatori della Control-Mastery Theory (CMT), al quale lo stesso Bader si ispira per illustrare le sue teorie sull’eccitazione sessuale.

Eccitazione: Bader usa l’approccio Control Mastery Therapy

La prima pubblicazione di “Eccitazione” risale al 2002, la versione presentata da Raffaello Cortina editore è stata riveduta e aggiornata per il pubblico italiano e contiene un’introduzione aggiuntiva dello stesso autore.

Bader utilizza l’approccio della Control – Mastery Therapy (CMT) sviluppato da Joe Weiss a partire dal 1994 e da Harold Sampson, mentore dell’autore. Uno dei concetti chiave della CMT è il senso di sicurezza attorno al quale ruota la vita psichica delle persone. In quest’ottica il bisogno di sicurezza psicologica è un motore potente che contrasta le credenze patogene, originate dalle esperienze di vita e in particolare dai traumi.

Il lavoro nasce dalle necessità dello psicoanalista di spiegare in che modo l’eccitazione si sviluppa e viene mantenuta concretamente nella vita sessuale: attraverso le fantasie. Bader parte dall’ipotesi che le preferenze rispetto a questo tema siano un mezzo che uomini e donne usano per ricreare un senso di sicurezza tale da potersi eccitare. Secondo questa teoria sessuale, le fantasie, infatti, hanno lo scopo di disconfermare i vissuti di preoccupazione, colpa, vergogna, ma anche disapprovazione e odio per se stessi originate da credenze patogene che, diversamente, non permetterebbero di eccitarsi e quindi di avere una vita sessuale.

Le fantasie sessuali sono il buco della serratura attraverso cui potremo vedere il nostro vero sé

Eccitazione: ovvero provare piacere in sicurezza

Le fantasie sessuali “bizzarre” non vanno demonizzate o considerate come semplici aspetti di una patologia, ma vanno viste come un percorso obbligato per provare piacere in sicurezza. Molte delle difficoltà sessuali, di contro, nascono da credenze irrazionali e da emozioni e sentimenti che ne derivano, su se stessi e gli altri.

L’opera è suddivisa in capitoli, si parte dallo spiegare le basi del funzionamento sessuale per poi proseguire illustrando la funzione delle fantasie. Per Bader, fantasticare sessualmente ha lo scopo di contrastare le emozioni negative, ogni capitolo si concentra su emozioni specifiche ed è corredato da diversi esempi clinici che permettono di spiegare l’associazione tra la fantasie e il sentimento corrispondente. L’idea alla base è che i sensi di colpa interferiscono con la capacità di provare piacere, non ci si può eccitare nemmeno se ci si sente deboli e impotenti. Le preferenze sessuali nell’intimità hanno, in questa chiave, un valore fortemente simbolico nel contrastare le forze psicologiche che frenano il desiderio. All’interno di questa prima parte è incluso un interessante sezione le varie tipologie di fantasie in cui sono interpretate da Bader, dalle più comuni alle più insolite, similmente allo stile delle antologie pubblicate per interpretare i sogni partendo dalle associazioni psicoanalitiche. La parte centrale del libro, invece, è spesa ad approfondire le ricadute relazionali delle fantasie sessuali, portando ad esempio casi clinici di coppie in terapia. Un aspetto importante è giocato dal ruolo che internet ha assunto negli ultimi decenni rispetto alle difficoltà sessuali derivanti dal confinamento del partner in ruoli stereotipati e idealizzati e come i siti porno o le chat room abbiano permesso di creare scenari sessuali alternativi. L’ultima parte dell’opera è dedicata, poi, all’uso che il terapeuta fa in terapia delle fantasie sessuali dei pazienti per spiegare il ruolo organizzatore delle credenze patogene.

Mentre il nostro desiderio e la capacità di provare piacere sono istintivi, la strada per raggiungere il piacere è complicata

Eccitazione: comprendere le nostre fantasie per non vergognarsi

Il metodo dell’autore è partire dalla fantasia sessuale per scoprire la logica inconscia e la connessione con il problema psicologico che ne è alla base. Lo scopo non è cambiarle o aggiustarle, a meno di esplicita richiesta da parte dei pazienti, ma utilizzarle per capire i meccanismi di funzionamento della mente. Comprendere le motivazioni sottostanti permette di ridurre la vergogna per i propri desideri e fantasie. Una volta superato l’imbarazzo nel comunicarle, la consapevolezza aumenta sempre l’accettazione di sé stessi.

In “Eccitazione” viene proposta una teoria che spiega il funzionamento sessuale in uno stile espositivo chiaro e semplice. L’opera è caratterizzata da numerosi esempi, tratti dall’esperienza clinica dell’autore che spiegano la sua formulazione teorica. Lo psicoanalista è molto bravo, infatti, a presentare casi in cui le fantasie sessuali sono la manifestazione di credenze patogene, spesso sviluppatesi nell’infanzia a partire dal rapporto con i genitori, su se stessi e gli altri. L’opera, così composta, è destinata sia ai professionisti della salute mentale che a quelli formati e specializzati nel trattamento dei disturbi sessuali e nei problemi di coppia.

Cosa rende un uomo attraente agli occhi delle donne?

Un nuovo studio del dipartimento di psicologia e psicologia evoluzionistica dell’Università di Cambridge, pubblicato dalla Royal Society Open Science svela cosa rende un uomo attraente agli occhi di un gruppo di donne eterosessuali e a cosa sia dovuta la scelta del probabile partner sessuale da un punto di vista evoluzionistico.

L’attrattività ha un notevole impatto sia in un’ottica evoluzionistica che di percezione sociale: è infatti risaputo come gli individui considerati più attraenti siano percepiti come più socievoli, intelligenti e in salute rispetto alle loro controparti meno attraenti (Brierley, Brooks et al., 2016).

Uomo attraente: che cosa lo rende tale?

Alcuni studi hanno evidenziato come queste attribuzioni positive, che costituiscono il cosiddetto “effetto alone” (Dion, Berscheid, Walster, 1972), associate all’essere attraenti, influenzino positivamente le prospettive lavorative, la retribuzione professionale, la stabilità matrimoniale e la fecondità biologica (Jokela, 2009; Fales, Frederick et al., 2016).

Una chiave determinante per stabilire l’attrattività di un individuo è la morfologia del suo corpo, la costituzione del suo fisico (Brierley, Brooks et al., 2016). Da un punto di vista puramente biologico ed evoluzionista, i giudizi di una persona ritenuti decisivi per la scelta di un probabile compagno riproduttivo, deriverebbero da tratti morfologici che riflettono il suo buon stato di salute, in particolare la sua abilità di sopravvivere nell’ambiente e riprodursi.

A questo proposito, Bogin e colleghi (2010) hanno sottolineato come la percezione di un buono stato di salute nel partner riproduttivo fosse fortemente associata all’idea che questo con maggiore probabilità sarà in grado di fornire cure, cibo, protezione e un ottimo patrimonio genetico da trasmettere alla prole con una minore probabilità di trasmettere malattie o patogeni.

Uomo attraente: sarebbe questione di proporzioni

Dal momento che alcuni aspetti dello stato di salute correlano con alcuni tratti morfologici, diversi studiosi hanno cercato di individuare nello specifico quali fossero le componenti anatomiche predominanti che influenzano maggiormente il giudizio di attrattività, come ad esempio la forma del volto, la percentuale di massa grassa nel corpo o l’altezza (Sear & Marlowe, 2009).

Seguendo questa prospettiva, alcuni studi si sono concentrati sulla proporzionalità degli arti in particolare tra gambe e corpo (leg to body ratio; LBR) che definisce il rapporto tra la lunghezza delle gambe e l’altezza del corpo, dal momento che Swami e colleghi (2006) hanno riportato una maggiore mole di giudizi di attrattività nei confronti di corpi con un minor LBR.

Tuttavia uno studio di Versluys e colleghi (2017) ha evidenziato come in un gruppo di donne americane, l’attrattività massima era costituita da corpi maschili che raggiungevano una LBR leggermente maggiore rispetto la media della popolazione.

Lo studio, poc’anzi citato, inoltre mostrava come agli uomini con proporzioni gambe-corpo leggermente sopra la media fossero associati ad uno status socio-economico maggiore, un buono stato di salute e una buona stabilità soprattutto nella locomozione (Versluys et al., 2017).

In contrasto, deviazioni significative dalla media di LBR della popolazione maschile sia di molto al di sopra che al di sotto della media, fosse stata associata ad una scarsa salute; in particolare gambe troppo piccole rispetto al tronco sono state associate con il diabete di tipo 2 e con la sindrome da resistenza insulinica, patologie cardiache e coronariche e infine con la demenza (Prince, Acosta et al., 2011) mentre gambe troppo lunghe sono state associate a patologie genetiche come la sindrome di Marfan (Pyeritz, 2000).

La preferenza da parte di gruppo di donne americane nei confronti di uomini con LBR leggermente al di sopra della media si accorda con l’idea che una particolare morfologia degli arti sia un segnale importante dello stato di buona salute ed è da considerarsi cruciale nel momento in cui si procede alla scelta del partner riproduttivo (Versluys, 2017).

Per cercare di fare ulteriormente chiarezza e comprendere quale componente fosse predominante nel giudizio di LBR, un recente studio di Versluys, Foley & Skylark (2018) ha cercato di investigare due componenti della morfologia degli arti che non erano mai stati presi in considerazione e che potrebbero essere in relazione con il giudizio di attrattività: il rapporto tra la lunghezza totale degli arti con l’altezza totale (arm-to-body ratio; ABR) e il rapporto tra gli arti distali e prossimali (intra-limb ratio; IR).

Per tale scopo, i ricercatori hanno creato immagini computerizzate modificate di corpi maschili utilizzando come misura di riferimento la media delle proporzioni corporee di più di 9 mila uomini appartenenti alle forze militari americane. Una volta ottenuta la media, le immagini dei corpi sono state aumentate o diminuite di alcune deviazioni standard rispetto la media, creando corpi maschili con arti superiori e gambe leggermente più lunghi o corti. Successivamente i ricercatori hanno chiesto ad un gruppo di 800 donne eterosessuali statunitensi, dai 18 anni in su, di giudicare l’attrattività di ciascuna immagine di corpo maschile generata al computer (Versluys, Foley & Skylark, 2018).

Uomo attraente: il migliore ha Leg to Body Ratio entro o sopra la media

I risultati hanno mostrato una chiara preferenza per corpi maschili con LBR leggermente sopra la media complessivamente all’interno del gruppo femminile, come già evidenziato dallo studio precedente di Versluys e colleghi (2017).

In aggiunta, i ricercatori però non hanno riscontrato alcuna influenza di ABR sui giudizi di attrattività lasciando supporre che probabilmente questo non influisce in modo determinante sulla scelta di un partner maschile in quella popolazione da parte del gruppo femminile, mentre hanno rilevato un’influenza ridotta di IR sul giudizio complessivo di attrattività (Versluys, Foley & Skylark, 2018).

In conclusione, Versluys, Foley e Skylark hanno interpretato i risultati ottenuti dal loro studio basandosi sull’idea che la preferenza, riscontrata nel gruppo femminile per una specifica lunghezza delle gambe, possa riflettere un compromesso tra i “vantaggi genetici” osservabili in proporzioni corporee nella media, ritenute segnali cruciali di immunocompetenza e minori probabilità di trasmettere patologie da parte del maschio scelto alla futura prole, e i vantaggi dovuti a tratti che sono leggermente al di sopra della media, segni invece di una buona efficienza biomeccanica nella locomozione e di un ottimo stato di salute e di conseguenza socio-economico.

Il Disegno Narrativo Condiviso (2017) di Gianluigi Passaro – Recensione del libro

Il Disegno Narrativo Condiviso di Gianluigi Passaro, è un invito a immaginare e giocare con la propria fantasia, non un manuale teorico sul disegno infantile. L’autore afferma che il suo scopo è: “rendere partecipe il lettore del mio mondo interno e del mio modo di essere in terapia così da rendere l’attività solitaria della scrittura un’opera a due che riguarda la coppia narrativa scrittore-lettore”.

Per questa ragione il testo si legge, si studia e si guarda. Ho letto il testo e ho ritrovato elementi teorici della psicoanalisi infantile e della psicologia della gestalt. Ho seguito le indicazioni dell’autore ed ho giocato con la mia fantasia, mi sono divertita e rilassata piacevolmente con il frutto delle mie storie inventate e disegnate immaginandomi in un dialogo virtuale con l’autore.

Il Disegno Narrativo Condiviso

L’autore condivide generosamente con il lettore il suo metodo di lavoro in psicoterapia fondato sul suo patrimonio di conoscenze certamente sia teoriche sia metodologiche nell’ambito di psicoanalisi, psicologia della gestalt, arte e letteratura, il mito, la fiaba.

In particolare Passaro riprende dall’ambito psicodinamico la tecnica dello Scarabocchio di Winnicott, nella quale il disegno è un esperienza di relazione e di condivisione.

Il disegno è un mezzo per il bambino di rielaborazione della realtà e di espressione del suo punto di vista. Usare carta e matita per la sciare una traccia di se è un esperienza importante per il bambino, che inizierà ad usare il disegno anche come mezzo di comunicazione del proprio mondo interno (pensieri e emozioni) con il mondo sociale.

Il disegno del bambino, a differenza delle parole o del pianto, resta nel tempo una volta realizzato e potrà essere guardato e riguardato sia dal bambino sia da mamma e papà e da molti altri osservatori. Lasciare una traccia di sé è una meraviglia di esperienza per il bambino!

Come afferma l’autore:

Il disegno è un oggetto sociale, è fatto per essere guardato dal bambino e visto dagli altri ed è una delle prime proiezioni del mondo interno per i genitori e gli altri in generale.

Attraverso i disegni dei bambini possiamo ricostruire il loro percorso di maturazione cognitiva, motoria, creativa ed emotiva.

Il disegno infanitle è a tutti gli effetto uno strumento psicoterapeutico .

Il Disegno Condiviso: dallo scarabocchio di Winnicott al puntastorie

Come per primo Winnicott, anche Passaro unisce il disegno al gioco e costruisce un procedimento ove i partecipanti, terapeuta e bambino, disegnano, costruiscono una storia che diviene un prodotto condiviso, l’incontro di due mondi interni.

A differenza dello Scarabocchio di Winnicott, il Puntastorie è una tecnica più strutturata, come spiega lo stesso autore:

la tecnica proposta da Winnicott lascia al bambino la possibilità di proiettare fantasie e immagini sul foglio senza alcuna regola formale, il Puntastoria presuppone uno spazio contenitivo, che lascia libertà di espressione e di invenzione al bambino, ma chiede alcune regole.

Sebbene con alcune regole la tecnica di Passaro permette l’espressione piena della creatività del bambino in una relazione di reciprocità e contenitore. Il puntastorie po’ essere unsato sia in una seduta con un singolo bambino, sia in gruppo, sia con bambino, mamma e papà.

Il Disegno Condiviso: cosa serve per il puntastoria

  • due fogli bianchi, uno per il disegno e uno per trascrivere la storia e i personaggi (formato A4 per un un incontro individuale, formati A3 o i cartoncini Bristol se in piccolo gruppo o con i genitori)
  • una matita per ciascun partecipante
  • una gomma per cancellare
  • un temperamatite
  • per colorare: pastelli, colori a cera, tempere, acquerelli.

La consegna, dalle parole dello stesso autore, è la seguente:

Adesso disegniamo dei puntini sul foglio, dove vogliamo noi, io farò i miei e tu i tuoi. L’unica cosa importante è che si vedano bene.

In media per un Puntastoria occorrono circa trenta minuti; la durata dipenderà dalla tecnica di colorazione usata e dalla ricchezza delle associazioni che emergeranno nella storia. Il terapeuta non dovrà avere fretta di finire o interpretare, perchè talvolta occorre un intera seduta solo per il disegno e la storia. L’autore, riferendosi alla propria esperienza clinica, consiglia la metodologia dai quattro sino ai quattordici anni di età.

Il disegno narrativo condiviso è una tecnica ma soprattutto un’esperienza relazionale e di creatività.

Nel testo, che consiglio vivamente agli psicologi dell’età evolutiva, l’autore nonché, il clinico spiega passo a passo il metodo che ha messo a punto; egli inoltre ha arricchito la sua descrizione con numerosi esempi clinici e disegni condivisi.

Concludo, sottolineando ciò che tutti i terapeuti che lavorano con i bambini sanno, ovvero l’importanza di mettersi in gioco ed avere le mani in pasta, citando l’autore:

nella psicoterapia con i bambini, giocare, disegnare e raccontare sono atti immaginativi che hanno un potere trasformativo: giochi, storie e parole diventano semi.

Ossitocina: un ormone che influenza le nostre interazioni sociali

L’ ossitocina è un ormone peptidico composto da 9 aminoacidi, prodotto dai nuclei ipotalamici, in particolare sopraottico e paraventricolare, e prodotto dalla ghiandola pituitaria posteriore (neuroipofisi).

 

È ormai da tempo assodato come questo ormone giochi un ruolo centrale durante il travaglio e il parto e successivamente nel processo di allattamento. Più recentemente è stato inoltre indicato come elemento chiave nelle interazioni sociali e nelle nostre reazioni sentimentali, da questo il soprannome di “ormone dell’amore”. L’ ossitocina difatti aumenta i comportamenti pro-sociali come altruismo, generosità ed empatia e ci porta ad essere più propensi a fidarci degli altri. Questi effetti socio-cognitivi emergono in conseguenza della soppressione dell’azione dei circuiti prefontale e cortico-limbico, con conseguente abbassamento dei freni inibitori sociali come la paura, l’ansia e lo stress.

Il ruolo dell’ossitocina nella percezione dei rapporti sociali

In merito a questo aspetto, l’ ossitocina sembra essere implicata in particolare nella percezione dei volti, delle emozioni e di altre informazioni sociali. Negli ultimi anni sono stati numerosi gli studi che hanno cercato di indagare tale fenomeno, alcuni mediante anche la somministrazione dell’ormone per via nasale. I risultati hanno dimostrato, ad esempio, che la somministrazione intranasale di ossitocina può aumentare il riconoscimento delle emozioni e l’attività cerebrale durante la percezione di un volto. L’ormone in questione, quindi, sembra giocare un ruolo significativo nell’elaborazione delle informazioni interpersonali e nel mantenimento dei legami sociali.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, però, in alcune situazioni sarebbe proprio l’ ossitocina ad impedirci di comprendere a fondo le intenzioni non del tutto amichevoli del nostro interlocutore, inibendo la nostra capacità di rilevare le intenzioni nascoste nelle facce degli altri. La psicologa ricercatrice Eyal Winter e il suo team hanno chiesto a un campione di 84 individui di guardare il programma “Friend or Foe?” (amico o nemico?) e valutare, dopo dopo essere stati istruiti per farlo, chi era sincero e degno di fiducia e chi no. Prima di guardare lo spettacolo, alcuni partecipanti hanno ricevuto una dose intranasale di ossitocina, mentre altri hanno ricevuto un placebo. Nel complesso, entrambi i gruppi erano in grado di identificare i volti amichevoli e quali concorrenti sarebbero stati in grado di cooperare. Tuttavia i risultati nei due gruppi si discostavano quando si trattava di identificare i concorrenti più falsi e ingannevoli. Secondo i ricercatori, infatti, l’ ossitocina sopprimerebbe l’attenzione per gli stimoli sociali negativi, con conseguente diminuzione della capacità di identificare l’astuzia nascosta in un volto apparentemente amichevole: “Quando motivazioni miste si nascondono sotto la patina di un volto amico, l’ ossitocina può ostacolare la nostra capacità di riconoscere che qualcosa non quadra” concludono.

Ossitocina e disturbi psichici

Proprio perché l’ ossitocina gioca un ruolo di grande importanza nella regolazione delle abilità sociali, è stato naturale il chiedersi da parte della comunità scientifica quale potesse essere il ruolo di quest’ormone nello sviluppo di quelle patologie che proprie nelle abilità relazionali trovano il loro principale aspetto di deficit.

Alcuni studi hanno riportato una “disfunzione nel processo dell’ ossitocina” nei bambini con disturbi autistici. Ci sono anche prove che i geni che influenzano l’ ossitocina, ad esempio il gene del recettore dell’ ossitocina, OXTR – possano essere coinvolti nello sviluppo dei disturbi dello spettro autistico.

Studi sul rapporto tra ossitocina e schizofrenia hanno prodotto risultati contrastanti: le associazioni con geni legati all’ ossitocina non appaiono così forti come per l’autismo. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che l’ ossitocina potrebbe essere un trattamento utile per i pazienti affetti da schizofrenia, in alcuni trial sperimentali infatti ci sono stati effetti incoraggianti sulla gravità della schizofrenia e sulla cognizione sociale.

Poiché l’ ossitocina è coinvolta nelle risposte allo stress, è stato anche studiato il suo potenziale ruolo nei disturbi dell’umore e disturbi d’ansia. Ad esempio, ci sono prove che l’ ossitocina possa essere coinvolta nelle risposte positive alla terapia elettroconvulsiva per la depressione grave. Finora ci sono  tuttavia poche prove che l’ ossitocina possa costituire un trattamento utile per l’ansia e la depressione. Lo stesso vale per i primi studi sull’ ossitocina per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo di personalità borderline.

In conclusione “l‘evidenza suggerisce un ruolo dell’ ossitocina nella fisiopatologia di alcuni disturbi psichiatrici, in particolare quelli caratterizzati da menomazioni nel funzionamento sociale” scrive Cochran, dell’University of Massachusetts Medical School. “Tuttavia, la natura preliminare dei dati attualmente disponibili preclude una chiara comprensione della natura esatta di questo ruolo”. Così, nonostante alcuni risultati promettenti, è troppo presto per concludere che l’ ossitocina possa essere un trattamento utile per l’autismo, la schizofrenia, o qualsiasi altro disturbo psichiatrico.

Non è affatto detto che riempire i pomeriggi dei bambini di attività extrascolastiche sia fonte di benessere!

Sempre più bambini e ragazzi sono coinvolti in attività extrascolastiche che si vanno necessariamente ad inserire nella routine della vita familiare. Lezioni di musica, di teatro, attività sportive, etc. scandiscono quasi tutti i giorni della settimana.

 

Gli autori del presente studio, i ricercatori Wheeler e Green della Chester University, vogliono indagare l’impatto che le attività extrascolastiche dei figli hanno sulla vita familiare.

I genitori, anche come conseguenza dell’emancipazione femminile, tendono a considerare i propri figli “progetti di sviluppo”, investendo considerevolmente nel loro sviluppo educativo con l’obiettivo di garantire loro un futuro migliore. In particolare, per quanto riguarda lo sport viene ritenuto che l’infanzia sia l’età migliore in cui poter gettare le basi per costruire future carriere agonistiche sportive.

Seguendo questa rotta il settore commerciale si è aperto al mondo dell’istruzione primaria, rispondendo ai bisogni dei genitori di sviluppo delle competenze e abilità dei loro figli.

Lo studio

I dati del progetto di ricerca sono stati ricavati attraverso 90 interviste semi-strutturate rivolte ai genitori e bambini di 62 famiglie inglesi, abitanti in aree urbane (25), semi-rurali (16) e rurali (7).

Il reclutamento è avvenuto attraverso 24 scuole situate entro 4 km dal centro cittadino. Le famiglie partecipanti erano per la maggior parte dei casi composte da due genitori biologici (41), 4 famiglie composte dai figli, madre biologica e padre non biologico e 3 famiglie composte dai figli e dalla madre single. Inoltre, la maggior parte delle famiglie era composta da due figli (30), alcune famiglie composte da un figlio (7) ed altre famiglie composte da tre o più figli (11).

Le interviste semi-strutturate, di durata di circa 2-3 ore per genitore e di 15 minuti per bambino, progettate ad hoc per indagare i processi sociali e le dinamiche interne alle famiglie si sono basate su tre punti centrali:

  • Modalità con cui i genitori sono stati coinvolti nell’istruzione dei propri figli e nelle attività extrascolastiche;
  • I fattori che hanno influenzato il coinvolgimento dei genitori nelle attività extrascolastiche;
  • I cambiamenti generazionali nel coinvolgimento dei genitori nelle attività extrascolastiche dei propri figli.

Durante l’intervista sono stati inoltre indagati il tipo di attività, la cadenza ed i luoghi in cui tale attività avvengono.

Le interviste sono state registrate e trascritte, per essere analizzate su base settimanale durante il corso dello studio, attraverso un software NVivo per l’analisi qualitativa computer assistita.

I risultati: attività extrascolastiche e conseguenze sulla vita familiare

Dai risultati emerge come la maggior parte dei bambini (88%) svolge attività extrascolastiche 4-5 pomeriggi alla settimana ed il 58% del campione svolge più di una singola attività extrascolastica a pomeriggio/sera.

Da questi dati risulta come il coinvolgimento extrascolastico domina la vita familiare, in modo particolare per le famiglie con più di un figlio. Questo determina un minor tempo di qualità vissuto in famiglia, una minore quantità di risorse in termini di denaro ed energia dei genitori.

Dunque, di fronte alla pressione di avere un programma settimanale extrascolastico completo, sembra che gli effetti di questa costante occupazione gravino in maniera significativa sul benessere familiare.

Conclusioni

La Dr.ssa Wheeler, principale ricercatrice dello studio, afferma:

[blockquote style=”1″]I genitori sono particolarmente desiderosi di assicurare che i loro figli entrino a pieno nella vita adulta: i genitori avviano e facilitano la partecipazione dei loro figli alle attività organizzate dimostrando di essere dei buoni genitori. Sperano che tali attività possano avvantaggiare i loro figli sia a breve termine (mantenendoli in forma e sani e aiutandoli a sviluppare gruppi di pari) sia a lungo termine (migliorando le loro prospettive di lavoro). Tuttavia, la nostra ricerca evidenzia che la realtà può essere in qualche modo diversa: mentre i bambini potrebbero sperimentare alcuni di questi benefici, un programma di attività organizzate può mettere a dura prova le relazioni dei genitori e delle famiglie, nonché potenzialmente danneggiare lo sviluppo e il benessere dei bambini.[/blockquote]

 

Le riserve di tempo, denaro ed energia dei genitori sono spesso notevolmente esaurite ed i matrimoni possono essere messi a rischio a causa delle esigenze di sostenere la partecipazione dei loro figli alle attività pomeridiane per garantirgli un futuro migliore.

Sulla base di quanto emerso, è dunque possibile affermare che il benessere personale dei componenti della famiglia ed il benessere della famiglia stesso sembra esser messo al secondo posto rispetto a speranze sociali, presenti e future, per i propri figli.

Aumentare la consapevolezza rispetto alle conseguenze sul benessere/malessere di questa pressione può aiutare i genitori a pianificare un programma meno frenetico per i propri figli. A supporto di questo difficile compito che attende i genitori e, più in generale l’intera famiglia, è importante che la ricerca futura continui ad indagare lo stato di salute fisica, mentale e sociale associato alla partecipazione costante ad attività extrascolastiche organizzate.

Il Training Autogeno, una pratica di auto distensione. Cos’è e come funziona

Il training autogeno è un metodo di auto distensione mente-corpo che una volta acquisito, praticato ed allenato può essere di sostegno nelle situazioni di difficoltà.

In primis è un metodo, cioè significa che consta di precise regole per l’apprendimento e, in quanto tale, di applicazioni ripetute nel corso del tempo perché risulti efficace. Il training autogeno è un metodo, appunto,  di auto-distensione, ciò significa che chiunque lo impari poi lo potrà gestire in maniera autonoma in praticamente qualsiasi situazione e luogo. Ciò conferisce a colui o colei che lo apprende l’opportunità di avere un “asso nella manica” da utilizzare in estrema autonomia senza il bisogno di aiuto da parte di altre persone. Per apprendere ed utilizzare la tecnica del training autogeno ci vogliono diversi mesi ed è necessario inoltre mantenere fresca la tecnica nel corso del tempo una volta terminano il training di base.

Questo metodo, che non è il solo utilizzato, è stato introdotto per la prima volta negli anni trenta da Johannes Heinrich Schultz, psichiatra tedesco, e risulta essere il cugino delle ben più note meditazione ed ipnosi.

Le applicazioni del training autogeno

Il training autogeno è risultato essere uno strumento estremamente versatile ed utile in molteplici situazioni problematiche. In particolare è di aiuto in situazioni di ansia e stress nelle quali avvengono molte attivazioni a livello fisico ed emotivo. La finalità degli esercizi è quella di riuscire ad esercitare una maggiore controllo per prevenire l’acutizzarsi di questo tipo di reazioni che possono, se non controllate, sfociare in attacchi di panico con le relative conseguenze.

Il training autogeno è inoltre indicato per problematiche legate all’insonnia e in tutte quelle manifestazioni dolorose acute quali l’emicrania dove l’aspetto psicosomatico risulta estremamente rilevante.

Altro ambito di applicazione del training autogeno è il settore sportivo, questa tecnica viene infatti utilizzata per stimolare e facilitare la concentrazione alla vigilia di importanti eventi sportivi.

Risulta inoltre molto utile in casi di fobie specifiche come ad esempio la paura di volare ed è inoltre consigliato in casi di somatizzazioni quali disturbi gastrointestinali, disturbi della pelle e disturbi sessuali.

Pur essendo estremamente versatile il training autogeno non è adatto a tutti, è infatti fortemente sconsigliato nelle patologie depressive e psicotiche. Un occhio di riguardo va dato nella pratica alle donne in stato di gravidanza che possono comunque avvicinarsi alla tecnica con alcune dovute accortezze, è infatti necessario apporre alcune modifiche nell’esecuzione dell’esercizio del calore e della pesantezza a causa della presenza di eventuali cambiamenti nel sistema circolatorio.  La pratica del training autogeno è inoltre controindicata per persone in fasi acute di cardiopatie, soprattutto in soggetti che hanno riportato infarti negli ultimi sei mesi.

La pratica del training autogeno: gli esercizi della calma, della pesantezza, del calore

La pratica del training autogeno necessità di abiti comodi e di un luogo preferibilmente protetto da rumori e luci intense. Gli esercizi si possono attuare in tre posizioni, la posizione sdraiata, la posizione seduta e la posizione del cocchiere. In genere la posizione privilegiata nella fase di apprendimento è quella distesa. Il soggetto deve sentirsi comodo e a proprio agio.

Il primo passaggio è l’acquisizione della respirazione che generalmente è una respirazione diaframmatica e profonda che ossigenando i tessuti induce un primo stato di rilassamento psicofisiologico. Seguono poi gli esercizi di base chiamati: esercizio della calma, esercizio della pesantezza ed esercizio del calore. L’acquisizione e la padronanza di questi tre esercizi in aggiunta alla respirazione sono da considerarsi gli elementi base per la pratica del training.

A questi tre esercizi ne seguono altri tre che sono secondari ed aiutano a stabilizzare le sensazioni positive provocate dagli esercizi svolti precedentemente: l’esercizio della fronte fresca, l’esercizio del cuore e l’esercizio del plesso solare.

Al termine della sessione di training autogeno è inoltre buona prassi praticare degli esercizi di risveglio e recupero delle normali funzioni vitali, è consigliabile consentire a ciascun soggetto di prendersi il tempo necessario per quest’ultima fase.

Generalmente al termine di ciascuna sessione, svolta in sede di training o svolta a casa come esercitazione viene chiesto ai partecipanti un breve feedback riguardo all’esperienza appena conclusasi nella quali generalmente si approfondiscono le sensazioni fisiche e psichiche provate durante gli esercizi.

Per concludere questo metodo risulta essere efficace per la maggior parte delle persone e una volta applicato può essere interiorizzato come un utile e sempre disponibile strumento per far fronte ad alcune piccole o grandi difficoltà della vita quotidiana!

 

Arte e disabilità a confronto: al via la seconda edizione di ETD #ètuttodiverso.

COMUNICATO STAMPA

10 giugno 2018 a Milano, presso la Cascina Linterno – Parco delle Cave

Milano, 4 giugno 2018. In arrivo la seconda edizione di ETD #ètuttodiverso, il festival dedicato interamente al dialogo tra disabilità e arte: un viaggio sensoriale tra musica, informazione, arte e nuove tecnologie.

ETD #ètuttodiverso vuole valorizzare la diversità attraverso la sperimentazione artistica, sfidando le persone a capovolgere il proprio punto di vista: “Si può sentire la musica senza ascoltarla? Si può gustare il cibo toccandolo?”.

L’intera giornata del 10 giugno, da vivere nella suggestiva cornice del Parco delle Cave, sarà dedicata alla sperimentazione di inedite forme di arte e di intrattenimento: il pubblico potrà viverle dalla prospettiva di chi è diversamente abile. ETD #ètuttodiverso si propone di sollevare l’attenzione su un tema poco conosciuto e raramente approfondito, la disabilità, e di sensibilizzare giovani e adulti alla conoscenza di una differente condizione di vita, considerando la diversità una risorsa dell’uomo.

Un programma ricco di appuntamenti guiderà le persone tra gli spazi della Cascina Linterno, in un viaggio a più tappe tra workshop, talk, mostre e i live musicali di alcuni degli artisti più interessanti del panorama emergente italiano.

Sul solco della prima edizione, la programmazione sarà suddivisa in tre momenti:

▪ Diurno 11:00- 12:30, dedicato a conferenze e workshop, tra i tanti: un approfondimento del metodo Montessori in collaborazione con Boboto, associazione che promuove attività orientate al mondo dell’educazione, dell’inclusività e dell’innovazione sociale; lezioni di musica con i fondatori dell’orchestra per disabili AllegroModerato; esperienze culinarie tattili a cura della food designer Giulia Soldati.

▪ Pomeridiano 12.30 – 21:00: dopo l’esibizione di Checcoro, un coro composto da trenta elementi che accompagnerà il pranzo in cascina, il talk Netflix & Think, un’occasione di confronto sul rapporto tra media e disabilità a cura della webzine The Submarine con ospiti: Laura Faraone, psicologa, Diego Cajelli, sceneggiatore, autore televisivo e radiofonico, e Violetta Bellocchio, scrittrice e docente della Scuola Holden di Torino. A seguire dj set e concerti dBEETH, Eurocrash, Mr. Island.

▪ Serale – 21:00 – 00:00: Typo Clan, Materianera e una passeggiata notturna guidata all’interno del Parco delle Cave per scoprire che la magia delle lucciole è possibile anche a Milano.

L’intero ricavato del festival verrà devoluto in beneficenza all’Associazione Il Gabbiano: noi come gli altri attiva dal 1987 nella zona 7 di Milano, che opera al servizio delle persone disabili e delle loro famiglie. Il contributo raccolto andrà a finanziare i lavori di ristrutturazione della Comunità Alloggio per persone disabili in via Don Gervasini.

Già nella scorsa edizione ETD #ètuttodiverso, grazie all’ottimo riscontro ottenuto in

termini di pubblico con circa 900 presenze, ha raccolto 1400 € devoluti in beneficenza all’Associazione ATLHA, che promuove tempo libero, vacanze e viaggi in tutto il mondo per giovani disabili.

ETD #ètuttodiverso

Pagina Facebook: www.facebook.com/ETDetuttodiverso/
Crowdfunding: https://www.produzionidalbasso.com/project/etd-etuttodiverso-one-day-festival/

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La manifestazione è organizzata da TO.T.EM, associazione culturale nata nel 2014 per creare progetti innovativi partendo da tematiche di rilevanza sociale e
culturale, in collaborazione con “Associazione amici cascina Linterno”, che dal 1994 opera a Baggio ed organizza attività di carattere didattico, sociale, ricreativo e culturale all’interno degli spazi in gestione.

Contatti Ufficio Stampa

Olga Di Bello 340.1553169 – [email protected]

Annalisa Baiocco 3336789222 – [email protected] Alessandra Di Caro 340.1575562 – [email protected]

 

Adolescenti e ACT: il lavoro con il modello DNA-V.

Intercettare l’adolescente nel suo specifico “qui ed ora”, anziché adeguare ad una delicata fase evolutiva modelli concepiti per l’infanzia o l’età adulta. Questo un importante obiettivo del lavoro che ha condotto Louise Hayes e Joseph Ciarrochi (tra i massimi esperti dell’Acceptance and Commitment Therapy, specializzati nel trattamento dell’adolescenza) al modello DNA-V, ricco di spunti, metafore, strumenti, decisamente a misura di adolescente.

Il modello DNA-V, di chiara matrice ACT, è finalizzato all’azione terapeutica nello specifico contesto adolescenziale, con l’obiettivo di aiutare il giovane ad individuare e sviluppare i propri valori e vivere in modo pienamente vitale.

DNA-V Model: l’ACT per gli adolescenti

L’acronimo DNA-V rivela con immediatezza la struttura del modello per adolescenti, imperniato su 3 competenze fondamentali:

  1. Esploratore (Discoverer)
  2. Consulente (Advisor)
  3. Osservatore (Noticer)

utilizzate al servizio dei Valori (Values). Il presupposto di base è che i giovani, spesso, facciano fatica a spostarsi in modo flessibile tra tali competenze, o necessitino di svilupparle.

Inoltre, nella sigla DNA-V vi è il richiamo a quella materia essenziale che costituisce ciascuno di noi: ogni ragazzo o ragazza può esprimere il proprio pieno potenziale, se riceve il giusto sostegno e una formazione adeguata.

DNA-V Model: le 3 competenze Consulente-Osservatore-Esploratore

Il Consulente: è la competenza finalizzata ad utilizzare insegnamenti ed esperienze passate per farsi strada nel presente. Nel modello, quella “voce interiore” che – attraverso il linguaggio e la cognizione – da senso al passato, al presente, al futuro, anche in assenza di un contatto diretto con l’esperienza. Da un lato, dunque, una competenza che ci orienta e ci preserva; da un altro, una possibile fonte di fusione cognitiva e di blocco della vitalità.
Il DNA V promuove, attraverso metafore ed attività mirate, la defusione cognitiva del ragazzo e la flessibilità in favore delle altre competenze vitali.

L’Osservatore: è la classe di comportamenti che ci permettono di notare gli eventi fisici, psicologici ed ambientali così per come accadono, trovando il nostro centro e la nostra stabilità. Una caratteristica molto presente nell’infanzia (il mondo di un bambino è tutto ciò che vede, sente, tocca, annusa o gusta) e che viene via via assottigliandosi con lo sviluppo del pensiero e del linguaggio.
Notare permette di creare uno spazio tra le esperienze interne (sentimenti, pensieri, sensazioni) ed il comportamento overt, offrendoci la possibilità di scegliere come reagire, anziché dar seguito all’azione automatica, quando fronteggiamo pensieri o emozioni difficili. Consente inoltre di acquisire consapevolezza dell’esito delle nostre azioni.
Il DNA V presenta training, metafore ed attività utili a potenziare l’Osservatore, competenza utilizzabile strategicamente per sbloccarsi dallo spazio del consulente, quando necessario.

L’Esploratore: incarna il legame tra valori, flessibilità ed azione impegnata, aspetti fondamentali dell’ACT. Lo scopo di questa competenza è quello di stimolare l’espansione del repertorio comportamentale, attraverso l’esplorazione di nuove esperienze, l’osservazione e la mappatura dell’efficacia a livello individuale, l’individuazione dei Valori e, di conseguenza, la costruzione dei propri punti di forza.

Per Valori si intendono quelle qualità dell’agire che, come una bussola, possono orientarci nelle direzioni “importanti per noi”. Vivere in maniera coerente ai propri valori dona pienezza, vitalità ed energia. Il repertorio dei valori, in adolescenza, è in fase di sviluppo: il ruolo del terapeuta è quello di accompagnare il giovane alla scoperta e sperimentazione dei propri valori.

DNA-V Model: Adolescente e terapeuta nella danza della vitalità

Quali scenari terapeutici si aprono, dunque, attraverso l’utilizzo del DNA-V?
Nei giovani, il modello promuove la flessibilità psicologica, o meglio una “forza flessibile”, intesa come capacità di utilizzare le 3 competenze di base per promuovere la crescita, la vitalità e le azioni orientate verso i valori.
Ai terapeuti, il DNA V permette (anche attraverso il lavoro sulla visione di sé e sulla visione sociale) di creare contesti idonei a promuovere le 3 competenze, per costruire nuovi comportamenti orientati ai valori.
Come sottolinea la Hayes, è fondamentale che terapeuta e adolescente “danzino insieme”. La flessibilità riguarda dunque anche lo psicologo, che si lascia condurre nel mondo adolescenziale, attivando le proprie competenze di Esploratore, Osservatore, Consulente, insieme al ragazzo, in un tempo scandito dal suo ritmo e dalle sue passioni.

In Italia è attivo il gruppo di ricerca di ACT for Kids and Teens, che si occupa di sviluppare ed applicare nuove terapie cognitivo comportamentali all’età evolutiva. Di recente validazione due importanti strumenti di assessment: l’Avoidance and Fusion Questionnaire for Youth (I-AFQ-Y, misura dell’inflessibilità psicologica dell’adolescente) e la Child and Adolescent Mindfulness Measure (I-CAMM, misura delle abilità di mindfulness).

La ricerca smentisce: intimità sessuale e declino cognitivo in terza età non sembrano essere tra loro connessi – FluIDsex

Il declino cognitivo, in particolare delle prestazioni della memoria, non sembra  essere correlato all’ attività sessuale o alla vicinanza emotiva con il proprio partner.

 

La letteratura ha mostrato varie volte come le persone anziane che godono di una vita sessualmente attiva ed emotivamente stretta con il proprio partner tendono a migliorare nei test cognitivi rispetto alle persone anziane inattive sessualmente. In particolare, un precedente lavoro sperimentale aveva stabilito come l’ attività sessuale migliora la memoria episodica e la salute cognitiva di roditori, ovvero l’ attività sessuale ha stimolato la crescita dei neuroni presenti nell’ippocampo, regione cerebrale deputata alle attività mnemoniche (Andreano & Cahill, 2009; Leuner, Glasper & Gould, 2010; Wright & Jenks, 2016).

L’anno precedente era stato pubblicato sul The Journals of Gerontology (series B) uno studio della Coventry University e Oxford University su un campione umano, nel quale emergeva come un’ attività sessuale regolare fosse collegata al miglioramento della funzione cerebrale negli anziani (73 soggetti di età compresa tra i 50 e gli 83 anni), in particolare in compiti di fluidità verbale ed in compiti visuo-spaziali (Wright et al., 2017).

Esiste davvero una relazione tra attività sessuale e declino cognitivo?

Nel presente studio, condotto da Mark Allen della Wollongong University (Australia), vengono presi in considerazione i dati di 6000 adulti maggiori di 50 anni (media 66 anni, deviazione standard 8 anni) e ciò che emerge è in contrasto con quanto emerso nei precedenti studi: non esiste alcun legame tra attività sessuale e tasso di declino cognitivo.

Nonostante diversi fattori legati allo stile di vita, tra i quali livelli di istruzione, abitudini di consumo di fumo e alcol e livelli di attività fisica giochino un ruolo nella velocità e nell’estensione del declino cognitivo dell’anziano, l’ attività sessuale non sembra rientrare in questi fattori. In particolare, l’autore ha indagato se l’ attività sessuale continua e l’esperienza della vicinanza emotiva con un partner hanno qualche effetto sulla memoria e sul suo decadimento.

I dati analizzati da Allen fanno parte degli elementi registrati durante lo studio longitudinale inglese dell’invecchiamento (ELSA) tenutosi dal 2012 al 2014. Il bagaglio di dati contenuti in questo studio include informazioni sulla salute, sulla dieta, sul benessere e sullo stato socio-economico di un gruppo di 6016 adulti inglesi, i quali hanno completato compiti di memoria episodica ed un questionario in cui hanno riportato la frequenza di attività intime (baci, contatto sessuale e rapporti sessuali).

Ciò che è emerso è stato un calo generale del punteggio al test di memoria proporzionale all’aumentare dell’età, in tutti i partecipanti. L’autore ha infatti dichiarato:

[blockquote style=”1″]Il declino delle prestazioni della memoria nel tempo non era correlato all’ attività sessuale o alla vicinanza emotiva durante l’ attività sessuale associata.[/blockquote]

In base ai risultati ottenuti, Allen non può riconfermare quanto emerso da precedenti studi rispetto al miglioramento cognitivo come conseguenza di un’ attività sessuale frequente.


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Stimolazione cerebrale (dTMS) e obesità: una nuova strada per il trattamento

Uno studio italiano, presentato alla riunione annuale dell’European Society of Endocrinology, ha rivelato che la stimolazione cerebrale potrebbe essere una strada sicura e innovativa per il trattamento dell’obesità, evitando così gli interventi chirurgici invasivi e gli effetti collaterali dei farmaci.

L’obesità è sicuramente un’epidemia globale che continua ad aumentare e preoccupare.

Alcune ricerche presenti in letteratura riportano un’alterazione del sistema di ricompensa cerebrale in alcuni soggetti obesi: questo comporterebbe una sensazione di piacevolezza maggiore nell’assunzione di cibo e un desiderio di mangiare più elevato con conseguente aumento di peso.
Un’alterazione analoga al sistema di ricompensa si verifica nei casi di dipendenza siano essi da sostanza o comportamentali come il gioco d’azzardo.

dTMS: l’uso nelle alterazioni del sistema di ricompensa

La stimolazione magnetica transcranica profonda (dTMS) è una tecnica molto spesso utilizzata per trattare comportamenti di dipendenza. Studi precedenti avevano suggerito che tale trattamento rappresentasse una buona opzione per ridurre il desiderio di cibo nell’obesità tuttavia il meccanismo alla base della sua efficacia non era stato studiato finora.

Il professor Livio Luzi dell’IRCCS Policlinico di San Donato ha studiato gli effetti della dTMS sul senso di appetito e sazietà in 40 soggetti obesi. I ricercatori hanno analizzato gli effetti di una singola sessione di 30 minuti, ad alta o bassa frequenza, sui marcatori presenti nel sangue potenzialmente associati alla ricompensa alimentare. Ciò che si è osservato è che una sessione di dTMS ad alta ma non a bassa frequenza, ha portato ad un aumento significativo dei livelli di beta-endorfine (i neurotrasmettitori responsabili della sensazione di piacere dopo l’ingestione di cibo).

DTMS e obesità: i risultati dello studio

Luzi ha affermato

Per la prima volta siamo stati in grado di fornire una spiegazione di come la stimolazione magnetica possa alterare il desiderio di mangiare. Abbiamo notato inoltre che alcuni marcatori ematici associati alla ricompensa del cibo, come il glucosio ad esempio, cambiano a seconda del sesso. Questo suggerisce che esistono differenze tra maschi e femmine nel modo in cui i soggetti ricercano il cibo e di conseguenza nella loro capacità di perdere peso.

Il limite maggiore riscontrabile nella ricerca riguarda le misurazioni svolte esclusivamente sui marcatori ematici, gli sviluppi futuri includeranno studi di neuro-imaging per comprendere il modo in cui la dTMS modifica la struttura e la funzione del cervello obeso.

Il professor Luzi ha concluso

La stimolazione cerebrale è un’alternativa molto più sicura ed anche economica rispetto alle attuali cure proposte per l’obesità. Ciò che è certo è che appare necessario individuare nuove strategie per contrastare gli effetti dell’obesità e le ricadute socioeconomiche della condizione.

Parlare da soli: follia? No, stimolo cognitivo

Parlare da soli: Quante volte ci capita di osservare il nostro compagno, la nostra amica, nostra madre a “parlottare” tra sé e sé? Quante volte non ne capiamo il senso e ci chiediamo se dobbiamo preoccuparci e se questi sono i primi segni di un giorno di ordinaria follia, di “qualche rotella fuori posto”?

Poi finiscono con il parlare da soli.
Non c’è mica niente di male però non cominciare a risponderti figliolo.
Jack Kerouak

 

Parlare da soli ci aiuta a trovare le cose più in fretta

In uno studio pubblicato sul Quarterly Journal of Experimental Psychology, ci vengono dati gli elementi per arrivare a dire che parlare da soli non solo non è segno di follia, ma al contrario è uno strumento efficace e regala importanti benefici cognitivi. Infatti, questo bizzarro uso del linguaggio per fini apparentemente non comunicativi, sembra avere un preciso ruolo di stimolo per alcune funzioni cognitive.

Gli autori, gli psicologi Gary Lupyan (Università del Wisconsin) e Daniel Swingley (Università della Pennsylvania), hanno condotto una serie di esperimenti per scoprire se parlare da soli sia d’aiuto nella ricerca di oggetti particolari. Questa ricerca trova spunto nell’immaginario comune, per cui spesso, quando perdiamo qualcosa o quando stiamo cercando, ad esempio, le chiavi della macchina prima di uscire, siamo soliti parlare da soli, quasi a richiamare l’oggetto stesso: “Il cellulare, dove avrò messo il cellulare?”.

Pronunciare il nome dell’oggetto cercato oltre ad esprimere una richiesta d’aiuto per le persone che abbiamo vicino, ci aiuta anche a focalizzare l’attenzione sull’oggetto stesso.

In un primo esperimento, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: dopo che era stata mostrata ad entrambi una serie di immagini di oggetti, ad un gruppo era stata data la consegna di cercare un oggetto target (cercate la teiera), mentre al secondo gruppo era stata data la consegna di nominare a voce alta gli oggetti mentre li cercavano. Dai risultati è emerso che gli appartenenti al secondo gruppo trovavano gli oggetti molto più rapidamente. In un secondo esperimento, è stata invece simulata la spesa al supermercato, ed anche in questo caso le persone a cui era stato chiesto di nominare a voce altra l’oggetto sono risultate essere più veloci ed efficaci nella ricerca degli alimenti.

Dai risultati della ricerca si evince che: “Ripetendo il nome dell’oggetto cercato, è come se stimolassimo il cervello a focalizzarsi meglio sulla ricerca”; “Troviamo le cose più rapidamente, parlando. Soprattutto quando c’è una forte e diretta associazione tra il nome e l’obiettivo“. Questo studio va nella direzione del non considerare il linguaggio soltanto come uno strumento per comunicare con i propri simili, ma anche come un modo per influenzare i propri processi cognitivi:

«Questo nostro lavoro è il primo che esamina gli effetti del parlare da soli rispetto a un compito visuale relativamente semplice, e si aggiunge alla letteratura esistente che mostra come il linguaggio abbia una serie di funzioni extracomunicative e, in certe condizioni, possa arrivare a modulare i processi visivi».

Parlare da soli favorisce l’autocontrollo e aiuta nel prendere decisioni

Un altro studio sull’abitudine di parlare da soli condotto dagli Psicologi della Toronto University, al termine di una serie di test su volontari, ora pubblicati sulla rivista online Acta Psychologics, sono giunti alla conclusione che parlare da soli non solo non è da “matti”, ma al contrario fa bene, aiuta nei processi decisionali, aumenta l’autocontrollo e diminuisce i comportamenti impulsivi. In alcuni compiti sperimentali, ad alcuni soggetti veniva impedito di parlare con sé stessi; coloro che potevano parlare con sé stessi a voce alta hanno regolarmente ottenuto risultati migliori ai test.

«Ci siamo resi conto che la gente agisce in modo più impulsivo quando non può usare la propria voce interiore e dunque, in sostanza, parlare con sé stessa, mentre fa qualcosa», afferma il professor Michael Inzlicht, che ha diretto la ricerca. «Senza la possibilità di verbalizzare messaggi a sé stessi, i volontari esaminati nei nostri test non erano in grado di esercitare lo stesso ammontare di autocontrollo». Di fatto, giorno dopo giorno mandiamo continuamente dei messaggi a noi stessi con l’intenzione di aiutarci – accudirci, esaminarci, motivarci.

«Parlando con noi stessi ci diciamo, per esempio, che dobbiamo continuare a correre anche se siamo stanchi mentre facciamo jogging, oppure di smettere di mangiare anche se avremmo voglia di un’altra fetta di torta, o di trattenerci dal perdere le staffe nel pieno di una discussione. Talvolta questi messaggi esistono solo a livello di pensieri, restando silenziosi, altre volte vengono esplicitati, in una sorta di conversazione ad alta voce con noi stessi. Il nostro esperimento dimostra che questo dialogo interiore è comunque utile e molto diffuso, anche se non sempre la gente si rende conto di farlo». Sicché, la prossima volta che vediamo qualcuno parlare da solo, non diciamo che è un po’ matto. Anche perché la volta dopo potremmo essere noi a parlare da soli, senza accorgercene.

“E ‘ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.”

(Cesare Pavese, 4 maggio 1946)

Neuroethics: Re-Mapping the Field – Report del convegno

Enhancement cognitivo: nuove prospettive e considerazioni etiche dal Convegno “Neuroethics: Re-Mapping the Field”, decima Conferenza Scientifica Internazionale sulla Neuroetica e quinta Conferenza della Società Italiana di Neuroetica e Filosofia delle Neuroscienze (SINe).

Lilia del Mauro e Lenor Romero

Nelle giornate 16-17-18 Maggio si è tenuto, presso la prestigiosa sede milanese dell’Università Vita-Salute San Raffaele, il convegno “Neuroethics: Re-Mapping the Field”, decima Conferenza Scientifica Internazionale sulla Neuroetica e quinta Conferenza della Società Italiana di Neuroetica e Filosofia delle Neuroscienze (SINe).

La SINe, nata a Milano il 3 Luglio 2013 ed attualmente presieduta dal Professore Michele Di Francesco, si pone come ambizioso obiettivo la promozione della ricerca e della divulgazione nell’intento di arrivare a una maggiore comprensione dell’essere umano.

A tal proposito, il Convegno ha accolto numerosi studiosi e ricercatori specializzati in vari campi del sapere – dalle neuroscienze alla filosofia, dalla medicina alla psicologia, dall’estetica al diritto – che hanno incoraggiato la riflessione critica su tematiche attuali, connotate da potenziali ricadute a livello etico, sociale, legale e politico.

Enhacement cognitivo e neuroenhachement

Uno dei temi che in queste giornate è stato maggiormente discusso riguarda l’enhancement cognitivo, inteso come l’utilizzo di strumenti di diversa natura al fine di potenziare la prestazione cognitiva nell’ambito del funzionamento normale. Nel caso particolare in cui ci si trovi di fronte l’impiego di tecniche neuroscientifiche, in grado cioè di influenzare l’attività di strutture neurali e di interi network cerebrali, si parla di neuroenhancement.

Ad oggi il tema dell’enhancement cognitivo si colloca nel panorama scientifico come uno degli “hot topic” più discussi e dibattuti, considerate le evidenti implicazioni etiche e morali che si associano a questo concetto. Non stupisce quindi che diversi Relatori, seppur da punti di vista differenti, abbiano trattato questa tematica proponendo interessanti spunti di riflessione.

È il caso dell’intervento tenuto dalla Ricercatrice Lorena S. Colzato (Università di Leida), la quale ha illustrato come in tempi recentissimi si sia assistito ad un crescente utilizzo di tecniche, ampiamente radicate nella tradizione clinica e sperimentale, al fine di migliorare e ottimizzare la performance cognitiva e comportamentale dell’individuo sano.

Enhacement e tDCS

Tra questi strumenti troviamo la stimolazione transcranica a correnti dirette (tDCS), una tecnica di neuromodulazione cerebrale non invasiva. Il meccanismo di funzionamento della tDCS è molto semplice: due elettrodi (anodo e catodo) che erogano corrente costante a bassa intensità vengono applicati sulla testa del soggetto. La trasmissione di corrente elettrica continua nell’encefalo, pur avendo voltaggio molto basso, è in grado di modulare la frequenza di scarica neuronale. Vi sono due principali tipologie di stimolazione: con la stimolazione anodica (positiva) si ritiene di poter incrementare l’eccitabilità corticale dell’area stimolata, mentre con quella catodica (negativa) si ritiene di poter decrementare l’eccitabilità. Inoltre le modificazioni dell’eccitabilità corticale indotte dall’applicazione della tDCS persistono oltre il tempo di stimolazione, presumibilmente attraverso meccanismo di plasticità sinpatica, con effetti che dipendono dalla durata e dall’intensità della stimolazione, caratteristica che contribuisce a rendere questa metodica di neuromodulazione molto interessante non solamente dal punto di vista sperimentale, ma anche da quello terapeutico e riabilitativo.

Tipicamente, sulla base di evidenze provenienti da ricerche in cui successivamente a stimolazione a polarità anodica è stato possibile osservare un miglioramento della prestazione in compiti di natura sensorimotoria o cognitiva, la tDCS anodica è stata associata ad enhancement cognitivo.

tDCS ed efficacia

Per esempio, un recente studio condotto dal gruppo di ricerca della Dott.ssa Colzato (Jongkees…& Colzato, 2017) ha dimostrato che una singola sessione di stimolazione anodica in corrispondenza della corteccia prefrontale dorsolaterale è in grado di determinare un miglioramento della performance di memoria di lavoro.

Cavalcando l’entusiasmo di questi esperimenti, l’industria del training cerebrale ha recentemente sviluppato alcuni devices commerciali che, riproducendo grossolanamente il meccanismo di azione della tDCS, vengono pubblicizzati come potenziali ottimizzatori della performance cognitiva e vengono distribuiti senza alcun controllo all’intera popolazione. È questo il caso delle cuffiette tDCS “foc.us”, la cui efficacia e sicurezza sono state presto smentite da una ricerca condotta dal gruppo della Dott.ssa Colzato (Steengergen et al., 2015).

La riflessione promossa dalla Relatrice si è concentrata sull’evidenziare la necessità che la comunità scientifica si attivi per esercitare un ruolo più critico nel contesto della validazione di strumenti promossi dall’industria del brain-training. Solamente un enhancement “responsabile”, supportato cioè dalla comprensione dei chiari meccanismi di azione, che tenga in considerazione delle differenze individuali e che sia adeguatamente controllato e regolamentato può essere considerato legittimo e auspicabile, al fine di garantire nel pieno rispetto dell’individuo il soddisfacimento di quelli che sono i bisogni più profondi del consumatore odierno.

Enhacement cognitivo: mindfulness e meditazione

I Relatori Davide Crivelli e Irene Venturella (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) hanno catalizzato l’attenzione dell’aula su nuove metodiche di enhancement cognitivo che, oltre ad aver acquisito nel tempo un progressivo consenso, stanno velocemente trovando nuove applicazioni. Si tratta delle pratiche di meditazione e di training mentale che, così come le ultime ricerche neuroscientifiche ci informano, sono in grado di apportare modifiche strutturali e funzionali nel nostro cervello.

Tra tutte la Mindfulness, tecnica sviluppata a partire dalle tradizioni di meditazione orientale, è forse la pratica di training mentale che vanta maggiori applicazioni, considerati i suoi numerosi effetti positivi. Tra i benefici della Mindfulness è infatti possibile ricordare l’efficacia nell’alleviare il dolore cronico e la sintomatologia ansiosa e depressiva, la capacità di migliorare le abilità attentive, di memoria di lavoro e di regolazione emotiva promuovendo al contempo comportamenti prosociali ed interazioni positive.

Neuroethics Re-Mapping the field - Report del Convegno di Milano foto 1

Sembrerebbe che la Mindfulness, favorendo l’acquisizione di una maggior consapevolezza del sé e del corpo congiuntamente a un miglior controllo delle reazioni affettive elicitate da stimoli esterni, aiuti l’individuo ad orientare e calibrare le risposte a stressors ambientali, favorendo così un miglior adattamento e un’ottimizzazione del funzionamento cognitivo.

Come rimarcato dal Dottor Crivelli e dalla Dottoressa Venturella, uno dei nodi critici di queste tecniche di training mentale, responsabile della progressiva demotivazione e degli elevati tassi di drop-out, ha a che fare l’impegno sistematico e la regolarità degli esercizi richiesti a coloro i quali intendano trarre un reale beneficio da queste pratiche di meditazione.

Enhacement cognitivo: wearable neurofeedback devices

Da qui, il recente sviluppo di wearable neurofeedback devices, tecnologie altamente sofisticate progettate per guidare e personalizzare la pratica di training mentale, calibrato sulla base di informazioni circa gli stati corporei e mentali del fruitore. Per mezzo di questi dispositivi la pratica è resa più semplice e funzionale alle esigenze degli utenti moderni, che risultano costantemente motivati all’esercizio attraverso un mappaggio in tempo reale dei propri progressi e degli indici di attivazione elettrofisiologica.

Il Dottor Crivelli ha quindi illustrato uno studio (Balconi, M., & Crivelli, D. In press) finalizzato a testare l’efficacia di un intervento integrato di mental training e wearable neurofeedback device.

I partecipanti, dopo essere stati sottoposti per quattro settimane a sedute giornaliere di mental training supportato da un wearable device, esibivano una riduzione dell’ansia, del livello di stress e di affaticamento mentale, insieme a un miglioramento delle capacità attentive e di controllo esecutivo. In questo caso ci troviamo di fronte a un chiaro esempio di come devices commerciali, opportunamente testati e validati dalla comunità scientifica, possano contribuire al benessere dell’individuo sano, ottimizzando la performance cognitiva e comportamentale in una modalità semplice, funzionale e completamente non invasiva.

Wearable neurofeedback devices e riduzione dello stress manageriale

Direttamente connessa all’intervento del Dottor Crivelli, la presentazione della Dottoressa Venturella si è focalizzata sull’esposizione di un possibile campo di applicazione di queste nuove tecnologie di wearable devices: il mondo manageriale, tipicamente caratterizzato da richieste di performance e livelli di stress elevati.

La ricerca scientifica ha ampiamente dimostrato che livelli significativi e prolungati di stress si associano a strategie di coping maladattive, le quali possono influenzare negativamente abilità mentali e cognitive. Lo stress, soprattutto quando cronico, può inficiare il benessere psico-fisico dell’individuo, aumentando la vulnerabilità clinica, il rischio di disfunzioni cardiovascolari causando altresì alterazioni del nostro sistema nervoso. Il campo manageriale viene tipicamente inquadrato come una categoria professionale a rischio, considerate le notevoli responsabilità, il rilevante carico di lavoro e la significativa pressione a cui questi professionisti sono quotidianamente sottoposti.

Per aiutare chi lavora in questo settore a migliorare la performance sul lavoro e a gestire efficacemente aspetti emotivi, comportamentali e interpersonali della vita quotidiana si è pensato di testare l’efficacia di un approccio di training mentale supportato da un warable neurofeedback device.

La Ricercatrice Venturella ha quindi esposto una ricerca in cui sono stati coinvolti sedici manager professionisti, sottoposti a un protocollo integrato di mental training. Al termine dello studio i risultati hanno evidenziavano un’acquisizione di una maggior capacità di controllo e di focalizzazione dell’arousal in condizioni stressanti, migliori abilità manageriali, un incremento delle capacità esecutive e dei processi inibitori, insieme a un decremento dei livelli di ansia e di stress percepiti.

Globalmente, se l’intervento della Dott.ssa Colzato ha contribuito a mettere in evidenza alcune implicazioni etiche direttamente relate al tema dell’enhancement, caldeggiando un atteggiamento consapevole e responsabile direttamente supportato dall’attività della comunità scientifica, i Relatori Crivelli e Venturella hanno esposto due esempi di quelli che possono essere i potenziali benefici dei nuovi dispositivi di neuroenhancement che, se opportunamente validati, possono risultare in un miglioramento del benessere e della performance cognitiva dell’individuo.

Da qui l’auspicio, condiviso dalla platea multidisciplinare e internazionale presente al Convegno, che si possa pensare a nuovi sviluppi e a nuovi campi di applicazione nel contesto della prevenzione dello stress e della promozione del benessere e del funzionamento cognitivo, servendosi delle conoscenze che provengono dai diversi campi del sapere.

Cantiere costruttivista – Report del IV cantiere

Il IV Cantiere Costruttivista si è tenuto a Milano dal 17 al 20 maggio scorsi. Lo scopo era ripensare, vivere e condividere la terapia.

Salito dentro la carrozza che conduce verso la magia, guardando dal finestrino, osservo di uscire dal mio tempo per entrare nello spazio-temporale dove le emozioni ed il corpo incontrano la persona, dove il soggetto protetto dal gruppo e dal contesto si lascia sprofondare nella scoperta di nuove parti di sé o scopre altri modi di stare al mondo. Non termina mai il processo che genera la dimensione della consapevolezza.

La destinazione del viaggio è Milano, dove dal 17 al 20 maggio 2018 si è svolto il IV Cantiere Costruttivista organizzato dall’Associazione di Terapia Cognitiva (ATC) di Roma e Nous di Milano. Il senso del cantiere è ripensare, vivere e condividere la terapia. I punti centrali sono la condivisione e l’assoluta parità tra i partecipanti.

I fondatori dell’ATC sono Toni Fenelli e Cecilia Volpi, sono trascorsi quattro anni da quando hanno pensato e creato l’evento annuale. I primi tre sono stati effettuati ed organizzati ad Alghero, in un camping in cui tutti gli organizzatori e partecipanti hanno convissuto per i quattro giorni di lavoro. Come dice Toni

quando sono al cantiere sono felice, la felicità dà dipendenza e quindi andiamo verso un nuovo cantiere.

Cantiere costruttivista: confronto e sperimentazione come fil rouge delle giornate

L’Officina è un evento formativo per numero limitato di persone, per poter utilizzare il corpo nella clinica cognitiva, aspetto talvolta poco approfondito; altamente consigliato per completare la formazione psicoterapeutica.

È rivolto

agli allievi, giovani terapeuti, terapeuti esperti e didatti delle scuole che avranno l’opportunità di incontrarsi nel cantiere costruttivista per vivere e condividere le proprie esperienze.

Il Cantiere è stato anticipato nel pomeriggio di giovedi 17 e la mattina di venerdi 18 a cura dell’Officina costruttivista. Questi momenti erano dedicati ad un numero minore di iscritti e tutti i partecipanti si ritrovavano allo stesso workshop per lavorare sulla stessa esperienza: mindfulness negli aspetti introduttivi e lavoro esperienziale sul corpo. La prima parte dell’Officina è stata condotta da Fabio Giommi della Nous, il quale ha proposto l’esperienza che ci ha condotti a comprendere come l’attenzione possa essere un fenomeno non prettamente cognitivo ma anche corporeo, come organo.

Il venerdi mattina il lavoro esperienziale ha preso una dimensione opposta, riprendendo gli aspetti del giorno prima, si è orientato prestando consapevolezza al corpo per condurci all’astrazione cognitiva.

Cosa si è fatto? La risposta è difficile. Si è agito, si è fatta esperienza senza soluzione di continuità che generalmente chiamiamo “confine”.

Un laboratorio interessante, a mio avviso, era centrato sul confronto tra i diversi modi in cui scuole di pensiero affrontano la trasmissione del sapere e gli aspetti formativi dei futuri psicoterapeuti. Non solo esposizione delle diverse teorie della mente e le tecniche utilizzate da ciascuno modello; il role playing e il dialogo sono stati un elemento fondamentale per comprendere come lavorano gli altri: in assenza di competizione e volontà di dimostrare la superiorità concettuale.

La fine dello spazio-tempo è l’inizio del cantiere di ognuno dei partecipanti, i quali hanno creato un gruppo coeso che sprigiona anche nei giorni successivi l’energia e lo spirito del Cantiere Costruttivista. In ultima analisi parliamo di futuro: ad Alghero il prossimo anno … o in Sicilia?

Il continuo lavoro del nostro cervello: le regioni cerebrali deputate all’elaborazione di informazioni sociali sono attive anche durante il riposo

Nuove ricerche dimostrano come, anche durante il riposo, il nostro cervello continua ad elaborare informazioni provenienti dal nostro ambiente sociale.

 

Da uno studio condotto dal Darmouth College emerge come, anche durante il riposo, il nostro cervello continua ad assimilare informazioni, utili per l’apprendimento sociale. In un precedente articolo della Cerebral Cortex, è stata dimostrata empiricamente la funzione di due regioni del cervello, che sembrerebbero sperimentare maggiori connessioni durante il riposo, in seguito ad aver appreso informazioni riguardo il nostro ambiente sociale.

Lo studio ha preso in esame due regioni del cervello, la corteccia prefrontale mediale e la giunzione temporoparietale, deputate all’elaborazione di informazioni sociali, come personalità, stati mentali e intenzioni delle persone.

Ricerche precedenti hanno scoperto che queste due regioni presentano un picco di connessione spontaneo durante il riposo. Lo studio, condotto dal gruppo di ricerca del Darmouth College, ha voluto approfondire quanto emerso dalla ricerca a riguardo di queste aree cerebrali.

Sapevamo che le regioni coinvolte nel pensiero sociale fossero attive durante il riposo, ma non abbiamo mai capito il perché. Questo studio porta alla luce un’importante funzione di questa regione del cervello: avvalersi di queste informazioni ci permette di avere maggiore conoscenza riguardo l’ambiente sociale – dice l’autrice Meghan L. Meyer.

Nell’esperimento, 19 soggetti sono stati sottoposti a una scansione cerebrale attraverso fMRI, mentre svolgevano compiti a tema sociale e non-sociale. Prima dello svolgimento del compito, quindi a riposo, veniva effettuata una scansione cerebrale, ed un’altra in seguito ad ogni compito, durante la quale i soggetti potevano pensare a qualsiasi cosa, purché rimanessero svegli.

Per quanto concerne il compito a tema sociale, ai partecipanti veniva chiesto di guardare una fotografia di una persona, il suo titolo di lavoro (per esempio “dottore”) e due tratti utilizzati per descrivere la persona, come “educato, sincero”. In seguito i soggetti venivano invitati a dare una valutazione della persona, in particolare sul calore e la competenza che avevano percepito, su una scala da 1 a 100.

Nel compito non-sociale veniva mostrata ai partecipanti una foto di un luogo, associata a due termini che la descrivevano. È stato poi chiesto di valutare il luogo in base al calore e alla piacevolezza.

In totale sono stati completati 60 compiti sociali e 60 non sociali. Alcuni hanno svolto prima compiti sociali, altri invece compiti non-sociali. Subito dopo la scansione, i partecipanti hanno completato un test per la memoria, al fine di verificare la loro capacità di identificare persone e luoghi e i rispettivi tratti, presentati precedentemente.

È emerso dai risultati che durante il periodo di riposo dopo il compito sociale, era presente un aumento di connessioni tra la corteccia prefrontale mediale e la giunzione temporoparietale. All’aumento di connessione tra queste due regioni, corrispondeva un maggiore livello di performance nel compito della memoria.

Un’ulteriore dato che emerge dallo studio riguarda le differenze tra i soggetti che hanno completato prima i compiti sociali e i soggetti che hanno completato prima quelli non sociali: chi ha effettuato prima compiti sociali, ha presentato livelli di connessione maggiori tra le due regioni cerebrali durante il periodo di riposo sia del compito sociale che non sociale. Questo dato non è emerso negli altri soggetti.

In conclusione, lo studio dimostra una possibile funzione del cervello sembra essere quella di consolidare le informazioni sociali non appena ha la possibilità di riposare. Mayer aggiunge:

Quando la nostra mente fa una pausa, probabilmente da priorità all’apprendimento di informazioni riguardo il nostro ambiente sociale.

Conferenza Internazionale sull’Educazione Cognitivo Affettiva. Roma 26 e 27 maggio

Davide Moscone, psicoterapeuta e Presidente di Spazio Asperger, e David Vagni, fisico, dottore in psicologia e ricercatore, introducono questo workshop raccontando come è nato l’interesse per il CAT-Kit e più in generale l’importanza dell’educazione cognitivo affettiva all’interno dei percorsi terapeutici rivolti alla popolazione affetta da disturbi dello spettro autistico

 

A differenza degli approcci puramente comportamentali basati sulla pliance (ubbidienza), tutta la tradizione dell’educazione cognitivo affettiva si basa sul principio del tracking (seguire le tracce), è cioè rivolta a stimolare la comprensione delle conseguenze naturali e non arbitrarie dei propri comportamenti e non ha come obiettivo immediato il comportamento atteso ma una crescita graduale delle capacità di comprendere se stessi e gli altri per poter compiere delle scelte in linea con i propri scopi e valori.

Dopo un necessario approfondimento sulla natura delle emozioni con un accento all’importanza di esse come nuclei di generalizzazione del comportamento, Vagni approfondisce i temi della motivazione e dei rinforzi per evidenziare quanto sia importante uscire da una logica strettamente comportamentista nell’insegnamento di abilità sociali, laddove le risposte rapide e automatiche generate da un apprendimento stimolo-risposta si scontrano con la complessità delle richieste provenienti dal mondo sociale.

Disturbi dello spettro autistico: nuove tecnologie e possibilità di trattamento

Giovanni Pioggia, ingegnere presso il CNR di Messina, ci presenta le potenzialità dell’impiego dei robot nei percorsi riabilitativi rivolti a bambini con disturbi dello sviluppo. In particolare l’interazione tra persone con disturbi dello spettro autistico (ASD) e robot è stata testata con un gran numero di modelli robotici e ha mostrato vantaggi in diverse sfere: comportamenti sociali, attenzione condivisa, imitazione, linguaggio e comportamenti ripetitivi.

A Messina i robot sono in uso presso l’HOME-LAB, un insieme di strutture che simulano l’ambiente domestico, per ridurre i vissuti ansiogeni elicitati dagli ambienti ospedalieri e per riprodurre il più fedelmente possibile le relazioni interne all’ecosistema familiare, così da rendere più significativo un percorso diagnostico e più sostenibile un intervento terapeutico.

Dopo la pausa caffè Davide Moscone prende nuovamente in mano il microfono per illustrarci alcuni strumenti utili nel trattamento della depressione e del disturbo ossessivo-compulsivo in persone affette da disturbi dello spettro autistico: Il Mio Scudo e la Mia Bussola. Il primo è volto a incrementare le capacità di resilienza mentre il secondo vuole sostenere la motivazione, indispensabile in qualsiasi percorso di trattamento e in particolare nella cura del DOC che può presentare, in un primo momento, costi emotivi difficili da sostenere.

L’esperienza italiana: alcuni casi di successo

Nell’arco delle due giornate del workshop 4 poster danno spazio al racconto di alcune esperienze italiane di successo nell’ambito delle iniziative a favore della popolazione autistica.

Giulia Cavallo, tutor dell’apprendimento, e Manuela Ciallella, prossima alla laurea in psicologia, occupano lo spazio del primo poster del congresso e ci raccontano la nascita della loro associazione, AltaMente differente, che ha come obiettivo la diffusione della cultura della neurodiversità, intesa come un concetto neutro che, a seconda delle situazioni, può far emergere difficoltà, opportunità o talento. L’Officina Pedagogica di AltaMente Differente si dedica a diverse attività che sono esempi di impiego dell’Educazione Cognitivo Affettiva.

Il secondo poster che chiude la mattinata è dedicato alla visione del cortometraggio Il Re del Mercato realizzato dalla Fondazione ARES per sensibilizzare i bambini, compagni di scuola o fratelli, alla conoscenza delle caratteristiche del funzionamento autistico.

CAT-Kit (Cognitive Affecctive Training Kit): uno nuovo strumento per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico

Dopo pranzo prendono parola le psicologhe danesi Kirsten Callen e Annette Moller Nielsen che hanno collaborato insieme al collega Tony Attwood all’ideazione del CAT-Kit (Cognitive Affective Training Kit), uno strumento operativo che ha le proprie radici nella CBT (Cognitive Behavior Therapy) ed è rivolto soprattutto a bambini e giovani ragazzi che mostrano difficoltà nella comunicazione e nella gestione delle emozioni.

Le autrici ci guidano all’uso dello strumento CAT-Kit attraverso esercitazioni pratiche utilizzando la versione App che, ultimamente, si è aggiunta come alternativa al materiale cartaceo diffuso già da diversi anni e il cui adattamento italiano è stato curato proprio da Davide Moscone.

Obiettivo principale dello strumento non è il cambiamento comportamentale ma l’aumento nell’individuo della consapevolezza di sé, dei propri processi mentali ed emotivi e diverse sono le risorse all’interno del CAT-Kit che promuovono tali obiettivi. Gli strumenti di automonitoraggio (per es. La Ruota e Il Misuratore) hanno lo scopo di aumentare la conoscenza di sé, delle proprie parti, dei propri pensieri e vissuti emotivi, mentre strumenti come Il Giorno, La Settimana e L’Anno forniscono un supporto visivo per la prevedibilità degli eventi e la gestione dell’ansia spesso associata al cambiamento.

La creatività del clinico rende comunque il CAT-Kit, come ogni altro strumento, adattabile a diversi obiettivi terapeutici e poter vedere le autrici operare con lo strumento ha il valore aggiunto di poter fare esperienza della flessibilità di uno strumento che, di primo impatto, potrebbe invece apparire rigido.

Seconda giornata: nuovi strumenti ed esempi per una migliore educazione cognitivo affettiva

Kirsten Callen inaugura la seconda giornata formativa mostrandoci le ultime risorse contenute nella CAT Web-App e diventa così sempre più evidente che si tratta di uno strumento di educazione affettiva la cui applicazione può essere estesa non solo a bambini affetti da disturbi dello spettro autistico ma a tutta la popolazione, con l’intenzione di promuovere autoconsapevolezza e migliorare la comprensione della circolarità tra pensieri, emozioni e comportamenti.

Annette Moller Nielsen ci presenta a seguire il programma Aktoren, sviluppato con il collega Gun Iversen, rivolto ai bambini dai 6 ai 12 anni destinato ad aumentare le competenze sociali. Grande enfasi è data all’apprendimento basato sull’esperienza all’interno di un background teorico di chiara derivazione cognitivo-comportamentale. I contenuti del programma riguardano anche in questo caso l’esplorazione delle emozioni, la consapevolezza del proprio sistema sensoriale, l’individuazione di qualità e talenti personali, obiettivi perseguiti attraverso canali multimediali, esperimenti, illustrazioni e giochi di gruppo e condivisi con genitori e insegnanti.

Dopo pranzo è il momento di altri due poster, il primo presentato da Enza Giarratano, insegnante specializzata nel sostegno che ha realizzato un progetto laboratoriale con l’obiettivo principale di realizzare un’effettiva inclusione scolastica prima ancora che di raggiungere gli obiettivi di espressione e alfabetizzazione emotiva.

Il secondo poster è illustrato da Lisa Costagliola e Francesco Bianco e dedicato al Progetto Stravedo, con l’obiettivo di fornire materiali utili, belli e in italiano e favorire la partecipazione dei non professionisti in interazioni di gioco e quindi in relazioni motivanti ed educative.

Un video mostra l’impiego nel contesto di una classe materna delle CAAnzoncine: materiali cartacei che facilitano il coinvolgimento dei bambini che prediligono il canale visivo all’interno delle attività di canto così diffuse nelle routine scolastiche in questa fascia di età.

È poi nuovamente il turno di Kirsten Callen che torna al tema del trauma solo accennato in mattinata, evidenziando i trattamenti più efficaci nel trattamento del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), spesso presente in comorbidità nella popolazione autistica e mostrando gli effetti neurobiologici del trauma sul cervello.

Questa ricca esperienza formativa si chiude nel migliore dei modi, con un po’ di pratica con la CAT Web-App applicata a casi clinici presentati dai partecipanti.

Un convegno interessante che arricchisce di un altro strumento operativo il bagaglio di risorse a cui il professionista può attingere per comprendere e aiutare i propri pazienti.

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