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La Corona va avanti. Il trigenerazionale all’interno della famiglia Windsor e nella serie “The Crown”

Il ripetersi dei fenomeni trigenerazionali ha consentito alla famiglia Windsor di sopravvivere nelle diverse generazioni. Ora però qualcosa sembra essere cambiato.

Valentina Albertini

 

Per spiegarmi fino in fondo questo interesse mediatico per il Royal Wedding che circa due settimane fa ha inondato le pagine social di ciascuno di noi, ho ripensato a quanto sono rimasta agganciata alla prima stagione della serie “The Crown”. Mi ci ero avvicinata tempo fa in maniera dubbiosa e circospetta, chiedendomi cosa mai ci fosse di interessante da raccontare su un personaggio apparentemente così noioso come la Regina d’Inghilterra.
 Bene, mi sbagliavo. Certamente non è una serie da fuochi d’artificio o colpi di scena e fiato sul collo, ma è un buon prodotto che racconta un pezzo di storia contemporanea in maniera non noiosa e anche, a volte, colorita.
 Gli sceneggiatori di serie, insomma, non finiscono mai di stupire.
 Mi ha talmente incuriosito che ho 
continuato a seguire su Netflix il documentario sui Windsor.

 

The Crown (2016) Trailer italiano

 

I fenomeni trigenerazionali all’interno della famiglia

A livello sistemico c’è una cosa che mi ha molto colpito.
 Noi parliamo di trigenerazionale riferendoci a quei fenomeni che, in una famiglia, si ripetono di generazione in generazione sebbene non vi siano, ad esempio a livello genetico, delle motivazioni perché ciò accada.
 Questo lo spieghiamo sottolineando come la famiglia sia una realtà psichica che precede gli individui e agli individui sopravvive.

Una famiglia è una organizzazione sociale che ha al proprio interno delle regole, una cultura, una struttura: l’analisi dei fenomeni trigenerazionali permette di vedere quanto, nel passare del tempo, certi schemi di comportamento vengano mantenuti, come segnale della difficoltà degli individui a svincolarsi dal sistema familiare di riferimento. Certi copioni funzionano infatti in maniera inconscia dentro di noi e continuano a ripetersi finché non li analizziamo e ne diventiamo consapevoli.

In terapia familiare, ad esempio, questo assunto teorico è alla base della tecnica del genogramma: uno strumento utile appunto a far emergere non solo la storia della famiglia, ma anche pattern di funzionamento ed eventi che si ripetono, generazione dopo generazione.

Quali fenomeni trigenerazionali contraddistinguono la storia della famiglia Windsor?

Ora, se esistono famiglie che della rigida trasmissione dei copioni comportamentali ne fanno addirittura una regola, sono quelle reali, che per necessità storica e sociale rappresentano il non-cambiamento, la tradizione, la solidità del nome che si tramanda.
 Anche con qualche artificio: quello dei Windsor infatti è un casato “inventato”, preso a prestito dal nome del castello di famiglia nel 1917 quando, in piena prima guerra mondiale, essere la famiglia di origini tedesche Sassonia-Coburgo-Gotha non era proprio il massimo per farsi amare dal popolo inglese.

Giorgio V, nonno dell’attuale regina, è stato quindi il primo sovrano Windsor.
 A lui è succeduto Edoardo VIII, conosciuto in famiglia come David, e passato alla storia per aver rinunciato alla corona nel 1936 per poter sposare Wallis Simpson, americana pluridivorziata che, proprio per questo passato niente affatto candido, non avrebbe mai potuto sedere accanto al Re di Inghilterra.

 Dopo l’abdicazione di Edoardo VIII è quindi salito al trono Giorgio VI, padre di Elisabetta, che ha regnato dal 1936 fino alla morte nel 1952. Da allora, è cronaca.

Ragionando di fenomeni trigenerazionali, la figura di Edoardo VIII è fondamentale nella casata dei Windsor: personaggio conosciuto e amatissimo dal popolo, la sua abdicazione mise molto a rischio la Corona, che dopo i cambiamenti politici in tutta Europa vedeva difficile un mantenimento della monarchia.
 Riuscirci, mentre i sovrani di mezza Europa venivano detronizzati, e mantenerla fino ad oggi nonostante gli scandali e i cambiamenti sociali, è un grande successo dei Windsor.
 Proprio Edoardo VIII mise in dubbio la centralità della Corona rispetto alla vita privata, creando nella storia familiare una specie di “trauma”. Paura che si è tramandata ed ha avuto i suoi effetti: uno di questi si chiama Camilla Parker Bowles. Sappiamo dalle cronache che il Principe Carlo era innamoratissimo di lei, che lo ricambiava ma.. non era vergine. E seppure possa sembrare un’usanza medievale, lo spettro dello scandalo Wallis Simpson era talmente presente, talmente forte, che a Carlo fu impedito di sposare Camilla. Cosa fece Carlo, e come andò, lo sappiamo tutti: sposò Diana, figura che comunque portò un grande scandalo a Palazzo, e un grosso rischio per i Windsor.

 Ora, l’innamoramento trigenerazionale per donne dal passato che oggi considereremmo normale, ma fino agli anni ’80 sembrava evidentemente scandaloso per l’aristocrazia inglese, colpisce molto. Colpisce ancor più lo scandalo trigenerazionale che ci sta sotto: pare che siano i matrimoni a mettere a rischio i Windsor, generazione dopo generazione.

Il trigenerazionale ci dice però che se a un certo punto il pattern familiare emerge e viene discusso, questo è già un punto per poter impedire conseguenze emotivamente faticose per gli individui. I singoli membri possono svincolarsi dal mandato familiare e cercare la propria strada, continuando ad appartenere alla famiglia.

 E guardate un po’: il Principe Harry che porta all’altare un’americana divorziata. Tre generazioni fa, la stessa scena aveva portato ad un’abdicazione. Oggi è stata vista da 200.000 persone in diretta streaming.
 Il trigenerazionale fa del mantenimento rigido di copioni una opzione per la sopravvivenza.

Ma è un’illusione: i sistemi troppo rigidi non interagiscono con l’ambiente finendo per scomparire, e le famiglie sono sistemi.
 Come diceva Darwin: non sono i più forti o i più intelligenti a sopravvivere, ma i più adattabili all’ambiente.
 Ed Elisabetta, sul trono dal ’52, deve averlo capito. Sabato, davanti alla nuova nipote americana, l’hanno pure vista un po’ sorridere.

 

L’obesità precoce influisce sull’apprendimento e sulla memoria dei bambini

Un nuovo studio pubblicato su Obesity suggerisce che l’ obesità precoce influenza l’ apprendimento e la memoria dei bambini. Questo studio ha trovato un collegamento tra il peso dei bambini nei primi due anni di vita e le loro prestazioni sui test cognitivi in età scolare, periodo in cui il cervello sviluppa processi neurologici che ne vanno a modificare il funzionamento.

 

I ricercatori sostengono che l’ obesità, che può disregolare gli ormoni che agiscono in più regioni cerebrali, è associata a una cognizione più bassa negli adulti. Fino ad ora, nonostante la crescente prevalenza dell’ obesità infantile, c’è stata una scarsa ricerca sull’impatto dei chili di troppo, su come i bambini imparano, ricordano le informazioni e gestiscono l’attenzione e gli impulsi.

Nan Li, autore principale dello studio ha sostenuto che, i primi anni di vita sono fondamentali per lo sviluppo della cognizione, e ciò che è stato studiato è se l’adiposità della prima vita ha un impatto sulle abilità cognitive negli anni a venire.

I ricercatori dell’università di Broun, a Providence, in Rhode Islad, hanno preso in esame 233 bimbi, dividendoli in due gruppi, magri e non magri. Oltre ad essere misurati per peso e altezza nei primi due anni di vita, ogni bambino è stato seguito nel tempo tramite visite domiciliari da parte di personale formato. Ogni bambino ha partecipato ad almeno una misurazione delle proprie capacità cognitive all’età di cinque anni o otto anni.

I bambini nello studio hanno effettuato una serie di test che valutavano le loro capacità cognitive generali, la memoria, l’attenzione e l’impulsività. Altri test hanno misurato le capacità intellettuali generali dei bambini, comprese le abilità verbali e le capacità organizzative. Una batteria di compiti computerizzati ha valutato l’attenzione dei bambini, l’impulsività e il controllo esecutivo, e un gioco di labirinto ha testato la memoria visuo-spaziale dei bambini. Un test di sequenziamento ha valutato la memoria di lavoro e un altro gruppo di test ha valutato il ragionamento percettivo.

I ricercatori hanno scoperto che il peso corporeo non sembra influenzare le prestazioni in tutti i test, ma ha avuto comunque degli impatti significativi: l’eccesso di adiposità nella prima età è stato associato a un più basso punteggio, in età scolare, di QI, ragionamento percettivo e memoria di lavoro. Per ragionamento percettivo si intende la capacità dei bambini di esaminare un problema, attingere alle capacità visive-motorie e visive-spaziali, organizzare i loro pensieri, creare soluzioni e quindi testare quelle soluzioni.

Gli autori spiegano che ci sono diversi meccanismi biologici con cui il sovrappeso precoce potrebbe influenzare il neurosviluppo, incluse le citochine proinfiammatorie che attivano le vie infiammatorie nei bambini e negli adulti.

L’infiammazione sistematica può interessare più regioni cerebrali rilevanti per le abilità cognitive e, come precedenti studi condotti su roditori hanno dimostrato, influenzare negativamente l’apprendimento spaziale e la memoria. La disregolazione degli ormoni che agiscono sulle regioni del cervello tra cui l’ipotalamo, la corteccia prefrontale e l’ippocampo potrebbe influenzare negativamente la cognizione.

I ricercatori hanno sottolineato che la dimensione del campione del loro studio era limitata e che ulteriori studi dovrebbero essere condotti per confermare i risultati ottenuti.

“Festival della Psicologia”, parte un viaggio nel futuro: come vivremo nel 2030?

COMUNICATO STAMPA – ORDINE DEGLI PSICOLOGI LAZIO

 

Al via l’8 e 9 giugno, al Teatro India di Roma, la quarta edizione del più grande evento in Italia per gli appassionati di Psicologia. “2030: Viaggio nel futuro” proporrà convegni, sperimentazioni tecnologiche e laboratori per immaginare la nostra vita nel 2030. Parteciperanno alla manifestazione, organizzata dall’Ordine degli Psicologi del Lazio, Moni Ovadia, Cristina Bowerman, Edoardo Leo e numerosi protagonisti del mondo del giornalismo, dell’impresa e della cultura.

 Roma, 4 giugno 2018. Italia, anno 2030: i primi millennials sono ormai adulti, i bambini del 2017 sono studenti universitari, i ragazzi degli anni ’60, invece, la generazione “anziana”. In quale società vivono? Quali scenari si sono aperti per loro nei campi dell’educazione, del lavoro, delle relazioni tra i sessi? E dove ha condotto l’ultima rivoluzione tecnologica? Questo esercizio di riflessione sul futuro prossimo, nucleo del “Festival Psicologia 2018”, offrirà l’occasione per esplorare il contributo che la funzione psicologica – fin da oggi – offre nella gestione di processi di cambiamento, integrazione e progettazione che coinvolgono la salute e il benessere di individui, organizzazioni e territori. Nel calendario della due giorni, convegni, sperimentazioni tecnologiche e laboratori in compagnia di ospiti del mondo del giornalismo, dell’impresa e dello spettacolo.

 

Il Programma

venerdì 8 giugno, ore 9.30

“Psicologia e Contemporaneità. Il futuro comincia oggi” Il futuro è il tempo del cambiamento. Atteso, deluso, inaspettato o progettato, qualunque esso sia ci aspetta e nel 2030 saremo chiamati a gestirlo. Il Festival apre con una riflessione di Moni Ovadia sul potenziale trasformativo insito in ciascuno di noi e sul ventaglio di orizzonti che può aprirsi nella nostra vita. A seguire, una carrellata di progettualità di successo in diversi ambiti di riferimento – dall’educazione alimentare all’orientamento lavorativo, dalla tutela delle vittime di violenza alla formazione – in cui la Psicologia ha offerto un contributo essenziale in termini di innovazione e sviluppo.

venerdì 8 giugno, ore 15
“A mente piena: show cooking di Cristina Bowerman” In Italia – il secondo tra i Paesi industrializzati per tempo speso a mangiare e bere – il cibo non è solo cibo: è convivialità, è relazione, è memoria, è lavoro, è salute. Nel 2030 sarà ancora tutto questo, ma forse in modi diversi. Cristina Bowerman, chef stellata di Glass Hostaria oltre che di Romeo Chef&Baker, non solo ne parlerà, ma proverà anche a cucinarlo. Lo farà con Paola Medde, coordinatrice del Gruppo di lavoro “Psicologia e Alimentazione” dell’Ordine degli Psicologi Lazio.

venerdì 8 giugno – sabato 9 giugno, ore 15

“Il cinema incontra il futuro” Rappresentare e descrivere il mondo come potrebbe essere tra qualche decina d’anni, utilizzando come sfera di cristallo le sequenze cinematografiche realizzate dai cineasti più illuminati. E’ la formula pensata per un viaggio alternativo verso il 2030:quali tecnologie verranno utilizzate maggiormente? Quali benefici e rischi porterà il futuro nelle nostre società? Ad accompagnare il pubblico saranno Gabriele Niola, giornalista, autore televisivo e critico cinematografico e Sergio Stagnitta, psicologo, blogger de L’Espresso e fondatore di “Cinema e Psicologia”.

venerdì 8 giugno, ore 16

“Lavoro: le competenze nel futuro” Il lavoro cambia continuamente, quali saranno gli scenari di domani? Le competenze e le professionalità richieste, i servizi da predisporre, il ruolo delle istituzioni? A parlarne Romano Benini, docente di Politiche del Lavoro presso La Sapienza-Università di Roma; Pier Giovanni Bresciani, psicologo e direttore della collana ‘Tempo sapere esperienza’(Franco Angeli); Laura Borgogni, docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso La Sapienza – Università di Roma; Ida Sirolli,

Responsabile Education in TIM e Presidente SCP Italy. A coordinare il dibattito Marco Vitiello, docente di Psicologia del Lavoro presso La Sapienza – Università di Roma.

venerdì 8 giugno, ore 17

“DigiTeen: crescere e far crescere nell’era digitale” Sul piano educativo e relazionale il digitale ha offerto ai nostri ragazzi opportunità inedite ma ha anche favorito la nascita di fenomeni disadattivi nuovi: cyberbullismo, ludopatia, hikikomori. Quali saranno le traiettorie della digitalizzazione e che impatto avranno sulle generazioni più giovani? Ne parleranno Maura Manca, psicologa, presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza; Barbara Volpi, docente di Psicologia presso La Sapienza – Università di Roma; Cristina Bonucchi, direttore dell’Unità di Analisi del Crimine informatico presso il Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni; Stefano Triberti, psicologo ed esperto di cyber-psicologia. A condurre, Anna Maria Giannini, docente di Psicologia presso La Sapienza – Università di Roma.

venerdì 8 giugno, ore 18

“2030: saremo ancora così violenti?” Come dimostra quotidianamente la cronaca, la violenza domestica è una grave emergenza, con costi elevatissimi per la collettività dal punto di vista sociale, assistenziale e giuridico. Pur essendo aumentata negli ultimi anni l’attenzione sugli aspetti del contrasto e della prevenzione, è essenziale riflettere sugli strumenti più efficaci per combattere il crimine ed evitare il rischio di recidiva. Il Gruppo di lavoro “Violenza nelle relazioni intime” dell’Ordine degli Psicologi del Lazio ne discuterà con Alfredo Galasso, docente di Diritto civile presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo; Carla Ciavarella, direttore della Casa di Reclusione di Alta Sicurezza di Tempio Pausania e della Casa Circondariale di Nuoro; Marida Lombardo Pijola, giornalista e scrittrice; Marina Leoni, Editore di OnlusOnAir; Licia D’Amico, avvocato.

venerdì 8 giugno, ore 20.30

“Microcosmi e Macrocosmi: il futuro di famiglie, coppie, amicizie” Nuove forme dello stare insieme, nuovi spazi di incontro, comunità “online” che si sostituiscono a quelle reali. Le priorità di vita e di relazione stanno mutando velocemente e profondamente. Cosa ci riserva il domani e quali sono i nuovi confini che regoleranno gli spazi emotivi e i rapporti interpersonali? Ne discuteranno Edoardo Leo, attore, regista e sceneggiatore; Chiara Simonelli, docente di Psicologia dello sviluppo sessuale presso La Sapienza – Università di Roma e Presidente della European Federation of Sexology; Paolo Conti, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera; Roberta Aloisio, marketing manager per l’Italia di Meetic. Condurrà la discussione Paola Medde, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice dell’Ordine degli Psicologi Lazio.

sabato 9 giugno, ore 15

“Il futuro visto dai bambini” Come immaginano i principali protagonisti del futuro, i bambini, la scuola del 2030? A cinque istituti scolastici di Roma e Provincia abbiamo chiesto di realizzare dei “laboratori” di riflessione ed espressione artistica sull’argomento, declinato in particolare su tre temi: “La scuola multiculturale”; “La scuola digitale”; “Il lavoro del futuro”. L’evento sarà l’occasione per discutere di quanto emerso dai laboratori, esporre i lavori dei bambini e premiare i più votati sulla pagina Facebook FestivalPsicologia. 

sabato 9 giugno, ore 17

“Politica 2030: partecipazione o manipolazione?” I media digitali hanno ridefinito i contorni del dibattito politico in modo radicale. Dopo una prima lettura che ha visto nella tecnologia un’opportunità di allargamento dell’arena del confronto e dei temi in discussione, una riflessione più attenta ha evidenziato i rischi di una democratizzazione solo apparente. Ma quale scenario è lecito attendersi nel prossimo decennio? Ne discuteranno Francesco Costa, giornalista e vice-direttore del “Post”; Dino Amenduni, socio e comunicatore politico dell’agenzia Proforma; Patrizia Catellani, docente di Psicologia Politica dell’Università Cattolica di Milano, Carlo Balestriere, fondatore di “Psicologia Applicata”. A condurre il dibattito Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio.

sabato 9 giugno, ore 20.30

“Macrocosmi e microcosmi: emozioni e territori” Degrado, disinteresse, impotenza: la retorica del pessimismo che attraversa le narrazioni del mondo attuale e dei nostri contesti di vita rende parole come fiducia, investimento, convivenza e condivisione vuote e prive senso. Possiamo immaginare il 2030 da prospettive e con narrazioni diverse? Su questo tema si confronteranno Viviana Langher, docente di Psicologia Clinica presso La Sapienza – Università di Roma; Simone D’Antonio, giornalista e presidente di Youth Press Italia; Emanuele Grazioli, fondatore del servizio di scooter sharing Zig Zag; Luca Setti, E-commerce Manager presso Coop Italia. A condurre, la psicologa Chiara Fregonese.

 

Contestualmente alla partecipazione agli incontri, gli spettatori del Festival potranno effettuare negli spazi esterni del teatro test di psicologia, laboratori formativi e colloqui con esperti. Numerose saranno anche le opportunità di utilizzo di dispositivi di realtà virtuale. Con l’ausilio di “Rehub”, software di sollecitazione della funzione mnesica del cervello, sarà infatti possibile misurarsi in contesti altamente realistici e interattivi con sollecitazioni di diverso tipo: mettersi alla prova in occasioni di public speaking, sperimentare situazioni fobiche, sottoporsi a una meditazione guidata e molto altro.

Per ottenere ulteriori informazioni sull’evento è sufficiente visitare il sito ufficiale della manifestazione, all’indirizzo www.festivalpsicologia.it

L’Effetto Stroop in psicologia sperimentale

Uno dei fenomeni più noti in psicologia sperimentale è l’effetto Stroop. Prende il nome da J. Ridley Stroop, che scoprì questo fenomeno nel 1935, e lo fece conoscere a tutti attraverso l’articolo Studies of interference in serial verbal reactions nel Journal of Experimental Psychology. Tuttavia, tale compito sperimentale è stato pubblicato per la prima volta da Jaensch nel 1929 in Germania, e successivamente è stato ripreso nelle opere di James McKeen Cattell e Wilhelm Wundt nel ventesimo secolo. L’articolo originale è stato uno dei lavori più citati nella storia della psicologia sperimentale.

Il test di Stroop

Durante l’esperimeno di Stroop al soggetto vengono mostrate delle parole scritte con colori diversi. Il compito consiste nel pronunciare a voce alta il colore dell’inchiostro cui è scritta la parola. Quindi, il colore è l’informazione rilevante per lo svolgimento del compito, mentre il significato della parola (che non deve essere letto) è l’informazione non rilevante.

Gli stimoli presentati nell’esperimento di Stroop possono essere di tipo neutro, congruente e incongruente. Si parla di neutri quando si visualizza solo il testo o solo colore. Mentre, si ha congruenza quando la parola «rosso» è scritta in rosso, e incongruenza quando la parola «rosso» è scritta in verde. Si ricordi che la risposta richiesta è il nome del colore, cioè rosso nel primo caso e verde nel secondo.

Stroop (1935) notò che i partecipanti sottoposti al compito di denominazione presentavano tempi di risposta più lenti se il colore dell’inchiostro era diverso dal significato della parola scritta, nonostante fossero istruiti affinché non tenessero conto del significato della parola. L’effetto Stroop, dunque, consiste nel produrre una risposta avente latenza più lenta nel caso della condizione incongruente e più veloce nel caso della condizione congruente.

Lo scopo dell’esperimento di Stroop è quello di creare una interferenza cognitiva e semantica: in questo caso ad esempio, la mente tende a leggere meccanicamente il significato della parola (ad esempio legge la parola “rosso” e pensa al colore “rosso”, ma l’inchiostro usato è di colore diverso). Per questo motivo, il test di Stroop rappresenta una consolidata procedura sperimentale per lo studio dell’attenzione selettiva.

Le teorie che tentano di spiegare l’effetto Stroop

Esistono due teorie in grado di spiegare l’effetto Stroop:

1. Teoria della Velocità di elaborazione: l’interferenza si verifica perché le parole sono lette più velocemente rispetto all’individuazione del colore con cui sono state scritte.

2. Teoria dell’Attenzione selettiva: l’interferenza si verifica a causa dei nomi dei colori che richiedono una maggiore attenzione rispetto alla lettura delle parole.

Il paradigma di Stroop è stato largamente utilizzato per studiare le funzioni cerebrali attraverso le tecniche di imaging cerebrale. Il test è stato modificato includendo diverse funzioni per studiare l’effetto del bilinguismo o per indagare l’effetto dell’interferenza cognitiva sulle emozioni. Inoltre, è stato utilizzato per studiare la velocità di elaborazione di uno stimolo, le funzioni esecutive, la memoria di lavoro e lo sviluppo cognitivo in diversi settori. La ricerca sull’età evolutiva che utilizza il Test di Stroop dimostra che il tempo di reazione diminuisce sistematicamente dalla prima infanzia fino all’inizio dell’età adulta. Questi cambiamenti suggeriscono che la velocità di elaborazione aumenta con l’età e che il controllo cognitivo diventa sempre più efficiente. I cambiamenti di questi processi con l’età sono strettamente associati allo sviluppo nella memoria di lavoro e a vari aspetti del pensiero.

Ci sono diverse varianti del test di Stroop che sono comunemente usate in ambito clinico con soggetti con lesioni cerebrali, affetti da demenze, da malattie neurodegenerative, da deficit di attenzione e iperattività o con disturbi mentali, come la schizofrenia, le diverse forme di dipendenza e la depressione.

L’Elettroencefalogramma e il Neuroimaging funzionale hanno evidenziato durante lo svolgimento di un test di Stroop l’attivazione nel lobo frontale e più specificamente del cingolo anteriore e della corteccia prefrontale dorsolaterale, due strutture responsabili del monitoraggio e della risoluzione dei conflitti. Di conseguenza, i pazienti con lesioni frontali ottengono punteggi inferiori nel test di Stroop rispetto a quelli con lesioni più posteriori.

Infine, sono stati realizzati dei video game che utilizzano come base il paradigma di Stroop, ad esempio il Brain Age: Train Your Brain in Minutes a Day software prodotto da Ryuta Kawashima per il Nintendo DS , e il Nova utilizzato per rilevare i cambiamenti della flessibilità mentale in relazione all’altitudine per coloro che scalano le montagne.

 

Psicoterapia psicodinamica per pazienti migranti: presupposti teorici e prassi clinica

La Psicoterapia psicodinamica rivolta ai migranti differisce da qualsiasi altro tipo di intervento supportivo o psicoeducativo perché mira all’integrazione dei fattori inconsci che sottostanno al trauma esperito, mettendo al centro la relazione clinica.

 

Il fenomeno migratorio che coinvolge il popolo africano è sempre più rappresentativo del periodo storico che stiamo vivendo e tocca molto da vicino l’Italia, determinando un cambiamento politico, economico e sociale; gli effetti si evincono dall’attivazione del Welfare che pone in essere sempre più servizi di accoglienza ai migranti.

In questi contesti, lo psicologo risulta chiamato in causa, rappresentando il professionista di riferimento capace di prendere in carico le singole persone, favorendo l’accoglienza prima e l’integrazione poi nel nuovo ambiente socio-culturale.

Psicoterapia Psicodinamica: una possibilità di intervento nel rapporto con i migranti

Se da una parte la letteratura scientifica sull’etnopsichiatria è sempre più florida (utile a fornire chiavi di lettura capaci di prescindere dal DSM 5 per le condizioni più gravi) e sono presenti lavori che dimostrano l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale (Bianco et al., 2016) o della Terapia dell’Esposizione Narrativa (Marzocchi, 2015), manca ancora una comprensione psicodinamica del vissuto dei migranti ed una proposta di trattamento di tipo espressivo.

La psicoterapia psicodinamica potrebbe essere perfetta in uno SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) durante sia la fase di seconda accoglienza ma, compatibilmente con i tempi di permanenza molto lunghi, anche nella fase di prima accoglienza; si potrebbe, infatti, pianificare questo tipo di intervento in ogni contesto che si occupa di servizi per migranti, tenendo conto ovviamente delle caratteristiche personologiche soggettive ed escludendo eventuali criticità psicopatologiche gravi.

In particolare, sarebbe possibile pensare ad un intervento di psicoterapia psicodinamica quando gli individui mostrano, ad una prima analisi, alta tolleranza alla frustrazione, capacità intellettive notevoli e si esclude sintomatologia psicotica; l’intervento deve essere, però, quanto più possibile moderno ed intensivo soprattutto per ciò che riguarda la cadenza e il numero delle sedute.

Il colloquio con il migrante secondo una prospettiva di Psicoterapia Psicodinamica

Una buona comprensione psicodinamica non può prescindere dalla realizzazione di una solida e ben definita relazione clinica, capace di aiutare la persona a mostrarsi progressivamente per quello che realmente è. Ma la domanda sorge spontanea: “Migrante, chi sei? Sei la persona che ha lasciato il suo Paese o sei una persona che è arrivata in Italia?”.

Questo aspetto iniziale, tutt’altro che scontato, apre le porte al disagio esistenziale centrale su cui ruoterà successivamente la terapia, ovvero quello della “disintegrazione dell’identità” (Van der Kolk et al., 2004).

Il primo impatto con persone migranti appare segnato da una generale sensazione di disorientamento: seppur con i piedi sulla terra, la persona appare psicologicamente “in viaggio”, incapace di definire bene il proprio passato, presente e futuro. Questo disorientamento, non è esclusivamente traducibile in diffidenza verso lo sconosciuto “Altro diverso da me”, ma anche e soprattutto verso lo sconosciuto “Altro diverso in me” successivamente proiettato verso l’oggetto esterno. Ecco perché sarà fondamentale, per il clinico, la costruzione fin da subito di una relazione spontanea e diretta, nella quale potrà e dovrà mostrare la parte più autentica del proprio Sé.

Riuscire a creare un clima caldo e accogliente, circostanza che potrebbe sembrare ovvia e scontata, rappresenta la prima sfida per lo psicologo, che deve essere capace di adattarsi alle circostanze puramente logistiche ed alle condizioni psico-fisiche della persona, riuscendo ad essere il più originale possibile nel creare un setting altamente personalizzato. Questo obiettivo deve essere tenuto ben in mente fin dal primo colloquio, cercando di creare un contesto adeguato in grado di garantire riservatezza e che sia totalmente privo di qualsiasi forma di coercizione. Certo sarà difficile definire un ambiente standardizzato, ma proprio per questo è bene non porre alcun limite alla creatività: a volte anche le panchine esterne di un rumoroso cortile o la sala del caffè di una comunità possono rappresentare la scenografia del “primo incontro”.

Pretendere che il migrante possa fidarsi subito di una persona che parla un’altra lingua, che veste in modo diverso, il cui ruolo non è ben definito e riconosciuto, è chiaramente un’aspettativa ambiziosa. Il primo passo che lo psicologo può fare per creare un ponte efficace potrebbe essere proprio quello di presentare se stesso ed il proprio ruolo, utilizzando la lingua conosciuta dal migrante (inglese o francese); in maniera sincera, con parole semplici e dirette, senza prestare eccessiva rilevanza ai titoli, presentare le proprie peculiarità personali e professionali può essere la strada giusta per creare il primo contatto.

In questo, la presenza della figura del mediatore culturale durante il primo colloquio può dimostrarsi fondamentale, soprattutto quando i migranti parlano una lingua totalmente sconosciuta allo psicologo; in queste circostanze, previa idonea spiegazione del ruolo di interprete rivestito dalla figura del mediatore, questi viene a rappresentare un ausilio fondamentale per il lavoro dello psicologo. Se la persona migrante parla però una lingua conosciuta anche solo parzialmente dallo psicologo, che possiede un’adeguata competenza transculturale (Koehn, 2005), è preferibile un incontro vis à vis esclusivamente tra clinico ed utente: non è importante comprendere il 100% del riferito, ma è piuttosto prioritario un ascolto attivo ed empatico.

Durante il colloquio clinico, è importante, inoltre, che lo psicologo abbia la capacità di saper aspettare. La raccolta delle informazioni anamnestiche nel setting dello psicologo, diverso da quello di altre figure professionali coinvolte nell’accoglienza dei migranti, dovrebbe avvenire nel mondo più spontaneo possibile. Prendere appunti, seguire un preciso e dettagliato corso degli eventi, può avere degli effetti negativi sulla realizzazione di una solida relazione terapeutica. Il primo racconto sarà probabilmente ricco di omissioni o incongruenze, ma è fondamentale in questo momento la validazione empatica piuttosto che la stesura successiva di un coerente resoconto della loro vita.

Costruito un “ponte” con la persona migrante durante i primi incontri, sarà possibile seguire questa persona successivamente attraverso un percorso di psicoterapia ad orientamento psicodinamico.

La Psicoterapia Psicodinamica: modalità di intervento

L’intervento psicodinamico rivolto ai migranti differisce da qualsiasi altro tipo di intervento supportivo o psicoeducativo perché mira all’integrazione dei fattori inconsci che sottostanno al trauma esperito, mettendo al centro la relazione clinica.

Il passaggio dall’illusione dell’emigrazione alla sofferenza dell’immigrazione, descritto da Sayad (2002) può essere affrontato in psicoterapia psicodinamica, attraverso un processo di esplorazione emotiva delle aspettative deluse che erano state costruite attraverso criteri definiti da un’identità che non appartiene più alla persona.

Il viaggio della migrazione e le esperienze vissute, di fatto, “cambiano” la persona. Non c’è solo una dislocazione spazio-temporale dell’identità, avviene la disintegrazione della stessa, determinata dalla separazione violenta e repentina tra ciò che la persona era e ciò che la persona è, aggravata dal mancato riconoscimento dell’esperienza lavorativa e dei titoli di studio pregressi, che conduce la persona a doversi accontentare di attività professionali molto dequalificate. Inoltre la qualità dei rapporti con familiari rimasti in Africa cambia radicalmente (e progressivamente anche l’oggetto interiorizzato degli stessi): da un lato perché non vengono accolte e comprese dai familiari le problematiche quotidiane dell’immigrato in Italia, dall’altro perché purtroppo manca un “pezzo di vita” che non può essere immediatamente raccontato. Questo genera sentimenti di rabbia nei confronti dei familiari, che però non può essere razionalmente espressa, tollerata e soprattutto accettata, perciò attraverso il meccanismo di difesa del volgimento contro il Sé la rabbia viene rivolta verso un Sé già frammentato e disintegrato, determinando una forte chiusura in Sé stessi.

In questa cornice, la psicoterapia psicodinamica rappresenta così il luogo dove può avvenire l’integrazione dell’identità. Un fattore terapeutico che può essere catalizzatore di questo processo è il rispecchiamento da parte del terapeuta.

I vissuti legati all’esperienza della migrazione sono molto diversi rispetto a quelli che lo psicoterapeuta è comunemente abituato a prestare attenzione, perciò non sarà difficile sentirsi empaticamente travolti dalle emozioni ascoltando le proprie reazioni controtransferali. Mostrare dispiacere per le drammatiche ed inusuali esperienze condivise, esprimere verbalmente sentimenti di sofferenza, aiuta fortemente non solo a creare la tanto auspicata alleanza terapeutica, ma facilita la nascita di un sentimento nuovo nel cuore del migrante: l’idea che la sua storia merita di essere raccontata, che la sua sofferenza emotiva è ragionevole e non merita di essere repressa o rimossa attraverso meccanismi di gestione del trauma culturalmente indotti come l’oblio o il silenzio (Burnett e Peel, 2001). Va discusso ed affrontato il trauma perché rappresenta il nucleo della sua nuova identità, la cui individuazione può aiutarlo a definire il nuovo progetto della sua esistenza, non necessariamente legato alle aspettative del momento della sua partenza.

Lo psicologo-psicoterapeuta psicodinamico deve essere capace di aiutare la persona a considerarsi “speciale”, per poter successivamente capire che il momento di transizione che sta vivendo può essere il momento in cui può integrare la sua doppia identità, che fa riferimento a ciò che era e ciò che può diventare. Integrarle non significa abbracciarne una, ma decidere realisticamente che è arrivato il momento di creare qualcosa di nuovo che sappia fondare le radici su un adeguato esame di realtà e delle circostanze del qui-ora.

Favorire questo processo narrativo non è l’unico aspetto caratterizzante della psicoterapia psicodinamica: il principio su cui può ruotare l’intero trattamento psicoterapeutico è quello di svincolare il migrante dalla tenaglia del presente per favorire una quanto più adattiva presentificazione del futuro.

Gran parte dei colloqui con il migrante sono caratterizzati dall’espressione di intolleranza: verso il cibo, verso il clima, verso gli operatori o altre persone conosciute, etc. Quest’intolleranza, se da una parte va accolta ed approfondita, dall’altra necessita della giusta lettura analitica: sfruttando l’interpretazione dei sogni, oppure la tecnica delle libere associazioni, o l’osservazione delle dinamiche transferali, è utile aiutare la persona a capire quali meccanismi di difesa alimentano questo vissuto (solitamente proiezione, identificazione proiettiva e compartimentalizzazione) che gli impediscono di considerare l’incertezza del futuro come una risorsa. Questi meccanismi da una parte tendono a reprimere le spinte pulsionali caratteristiche della propria natura, dall’altra determinano un blocco interpersonale e l’impossibilità di attivare un pensiero creativo ed autodeterminante sul futuro.
Promuovere l’insight di questo blocco può sia migliorare il tono dell’umore sia favorire l’integrazione psico-sociale dei migranti, due importantissimi obiettivi della psicoterapia piscodinamica in questo tipo di circostanze.

Ovviamente il futuro incerto che caratterizza la vita dei migranti spesso può determinare precoci e frequenti drop-out legati a motivi di forza maggiore (trasferimenti improvvisi, passaggio dalla prima alla seconda accoglienza, etc.), per questo è fondamentale favorire quanto più possibile il processo di introiezione della figura del terapeuta da parte del paziente, in modo che possa facilmente acquisire la capacità di un “dialogo interno” capace di determinare meccanismi riflessivi sui propri pensieri, sui propri comportamenti e sulla propria identità tutt’altro che rigidamente predeterminata da ciò che era, ma piuttosto orientata verso il ventaglio di possibilità che possono aprirsi alla luce della sua esperienza e che può garantirgli un’apertura al “sentire” profonda ed efficace.

Mamma che pappa! Come il modo che i genitori hanno di sfamare i propri figli influenza lo sviluppo di sovrappeso e obesità?

Il problema dell’ obesità infantile sta diventando una sorta di emergenza sociale su cui sembra influire anche lo stile genitoriale. Tra i bambini in età prescolare, c’è stato un aumento del tasso di prevalenza di problematiche legate al peso che è passato dal 4.2% del 1990 al 6.7% nel 2010.

Elena Mazzieri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Che duro il mestiere del genitore!
Oggigiorno non basta essere genitore, bisogna essere anche animatori, compagni di giochi, insegnanti, educatori, tassisti, organizzatori di eventi, cuochi, allenatori, psicologi, e chi più ne ha più ne metta.

I bambini, lo sappiamo, non sempre sono facili da gestire. Ci sono bambini che hanno problemi di sonno, bambini che non vogliono mangiare, bambini che mangiano troppo, bambini iperattivi, bambini sedentari e così via.

Il momento della pappa, per alcune mamme, diventa una guerra aperta! Si armano di cibi diversi, di cucchiai, forchette, tovaglioli, salviettine, frullatori, bavaglini, canzoncine, cartoni animati, giochini e, soprattutto, di tanta, tanta, tanta pazienza. Ci sono bambini che proprio non vogliono sentire parlare di mangiare. E allora la mamma si impegna, cerca di distrarlo, prepara i cibi preferiti del bambino facendo attenzione però a variare qualcosa per stimolare i gusti del figlio, lo implora di mangiare almeno un boccone, gioca con lui mentre lo imbocca sperando che non sputi tutto e, se riesce ad ottenere un piatto almeno dimezzato, gioisce per la vittoria e si prepara per la battaglia del pasto successivo.

Ci sono bambini, invece, che mangiano volentieri tutto quello che la mamma prepara. Che soddisfazione per quella mamma, vedere che il figlio apprezza i suoi sforzi culinari e che cresce sano e forte. Se richiede dell’altro cibo, perché privargliene? Sì certo, ha mangiato molto, ma guarda come apprezza e mangia tutto! Ha addirittura mangiato le verdure! Un’altra cucchiaiata di pappa se la merita proprio!

Ci sono bambini poi che fanno i capricci finché non trovano sul piatto esattamente quello che desiderano, bambini che mangiano soltanto un alimento, bambini che assaggiano tutto, bambini che non amano toccare il cibo, e così via.

Dietro ad ognuno di questi bambini ci sono dei genitori, una mamma ed un papà che si preoccupano molto se il bambino non mangia o se mangia troppo, genitori attenti alla linea, genitori che mangiano solo cibi salutari e biologici, genitori che premiano i comportamenti positivi dei figli con il cioccolatino o la merendina, genitori stanchi, genitori sovrappeso, genitori ansiosi, genitori magri, insomma… genitori.

Lo stile genitoriale può influenzare il comportamento alimentare dei figli?

Sembra piuttosto logico immaginare che il modo di essere dei genitori, in particolare rispetto ai comportamenti alimentari, influenzi il modo di mangiare dei figli. Detta così la correlazione sembra molto semplice e, per certi versi, anche accusatoria. Sembrerebbe quasi che se il bambino è sovrappeso sia colpa esclusivamente del genitore. Ovviamente la questione è molto più complessa.

Nello sviluppo dei problemi di peso del bambino interagiscono molteplici fattori, legati sia ad alcune caratteristiche del genitore che al temperamento del bambino.

I problemi alimentari nei bambini: sovrappeso e obesità infantile

Ma andiamo con ordine. Perché per i ricercatori è così importante studiare quali sono gli elementi che possono avere un ruolo nello sviluppo di problemi di sovrappeso ed obesità infantile? Il problema dell’ obesità infantile sta diventando una sorta di emergenza sociale. Addirittura in età prescolare, in bambini di circa 5 anni, abbiamo assistito ad un aumento del tasso di prevalenza di problematiche legate al peso che è passato dal 4.2% del 1990 al 6.7% nel 2010 (De Onis et al, 2010). Questo incremento desta non poche preoccupazioni, dal momento che i bambini con obesità infantile hanno maggiori probabilità di diventare adulti obesi, con ricadute di tipo fisico, quali ad esempio malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e cancro (Lloyd et al., 2012), e conseguenti basse aspettative di vita, e di tipo psicologico, quali maggiore ansia, depressione e problemi comportamentali (Eschenbeck et al, 2009; Reilly & Kelly, 2011).

Poter studiare quali sono i fattori che concorrono nel causare problematiche di sovrappeso e obesità infantile consente di poter creare interventi ad hoc finalizzati a prevenire e trattare tale problematiche nei bambini e, di conseguenza, negli adulti.

L’ obesità è causata da una discrepanza cronica tra l’energia calorica assunta e quella consumata. Nello specifico, viene assunto cibo in eccesso rispetto a quanto richiesto dal metabolismo corporeo, causando così un aumento dell’indice di massa corporea (BMI) (Shloim et al.,2015). Questo squilibrio cronico è influenzato dall’interazione tra geni e ambiente (Hetherington & Cecil, 2010). Numerosi studi hanno stabilito che ad influenzare lo sviluppo dell’ obesità interagiscono fattori quali: fattori genetici, lo status socio-economico, l’esercizio fisico, i comportamenti sedentari ed il sonno (Hetherington & Cecil, 2010; Craigie, et al, 2011; Hart, et al., 2011; Wang, et al., 2011; Ho et al., 2012; Magee & Hale, 2012).

Nel mondo, secondo l’Organizzazione Mondial della Sanità (OMS), nel 2014, 41 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni di età erano in sovrappeso o obesi. Inoltre, secondo le stime, il 60% di coloro che sono sovrappeso prima della pubertà saranno adulti sovrappeso (Oms, 2016 – Report of the commission on Ending childhood obesity). Attualmente nel mondo circa 43 milioni di bambini sotto i 5 anni di età sono in sovrappeso. In Europa, è in sovrappeso un bambino su cinque sotto i 5 anni di età ed uno su tre nella fascia compresa fra 6 e 9 anni (Centro Medico i Mulini).

Anche in Italia la situazione non è delle più rosee, l’ obesità, compresa l’ obesità infantile, infatti, resta uno dei maggiori problemi di sanità pubblica. (Oms, 2016 – Report of the commission on Ending childhood obesity). Sebbene negli ultimi 10 anni siano diminuiti del 13% i bambini sovrappeso ed obesi in Italia, la situazione resta comunque preoccupante. L’Italia permane nella classifica dei peggiori Paesi europei per obesità infantile, come dimostra la “Childhood Obesity Surveillance Initiative – COSI” della Regione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). L’indagine, coordinata dall’Istituto Superiore della Sanità, mostra che la percentuale di bambini obesi di età compresa tra i 6 e i 10 anni scende dal 12% del 2008/09 al 9,3% del 2016, e quella dei bambini in sovrappeso passa dal 23,2% del 2008/9 al 21,3% del 2016. Tuttavia si è rilevato che tra i bambini siano fortemente diffuse abitudini alimentari errate, sebbene negli ultimi anni si sia rilevato un aumento del consumo di frutta e verdura ed una diminuzione di bevande zuccherate e/o gassate (Okkio alla salute, 2017).

Il ruolo dei genitori

Un ruolo importante viene giocato dai genitori. Lo conferma l’indagine di cui sopra, dalla quale si evince che circa il 40% delle madri di bambini in sovrappeso o obesi ritiene che il peso del proprio figlio sia nella norma (Comunicato Stampa ISS – 4 maggio 2017). Va da sé che tale atteggiamento non possa che influenzare il comportamento alimentare del proprio figlio.

I genitori sono importanti agenti attraverso i quali si strutturano modelli di comportamento alimentare nei bambini. Questo può avvenire sia in modo diretto, come ad esempio controllando in modo costante i cibi assunti dal bambino, sia in modo indiretto, ad esempio tramite un modellamento passivo, essendo loro stessi un esempio di dieta più o meno salutare tramite il proprio comportamento alimentare (Birch & Fisher, 1998; Brown & Ogden, 2004; Cooke et al., 2004; Clark et al., 2007; Beydoun & Wang, 2009; Larsen et al., 2015).

Durante l’interazione mamma-figlio che si ha nel momento del pasto, sia lo stile genitoriale che il modo specifico di dar da mangiare al bambino, possono influenzare il comportamento alimentare del bambino e, di conseguenza, avere un ruolo nell’insorgere di problematiche di sovrappeso e obesità infantile. Partendo da queste ipotesi, numerose ricerche hanno indagato come lo stile genitoriale in generale e il modo che i genitori hanno di dar da mangiare al figlio possano influenzare l’insorgere di problematiche legate al peso.

Stile genitoriale e modalità di dare da mangiare al proprio figlio

Prima di andare oltre, chiariamo cosa si intende per stile genitoriale. Lo stile genitoriale è una costellazione di comportamenti ed atteggiamenti che i genitori hanno nei confronti del bambino e che caratterizzano il contesto emotivo in cui essi interagiscono (Darling & Steinberg, 1993). Questo costrutto comportamentale è costruito intorno a due dimensioni: la richiesta di disciplina ai figli (quanto controllo esercitano i genitori) e il sostegno emotivo (calore e accettazione in risposta ai bisogni del bambino). Rispetto a queste dimensioni, si strutturano quattro tipi di stili genitoriali (Sholoim et al., 2015):

  • autorevole (alto controllo ed alto affetto)
  • autoritario (alto controllo e basso affetto)
  • permissivo (basso controllo ed alto affetto)
  • trascurante/rifiutante (basso controllo e basso affetto)

Per quanto riguarda i comportamenti alimentari dei bambini, gli stili genitoriali maggiormente indagati sono stati quelli autorevoli ed autoritari.

Diversi studi hanno evidenziato una correlazione tra questi stili genitoriali ed il peso dei bambini. Dal punto di vista longitudinale, i bambini educati da genitori con uno stile genitoriale autorevole, rispetto ai bambini con genitori che mostrano uno stile genitoriale autoritario, hanno migliori traiettorie di salute, incluse un più basso rischio di obesità infantile, insieme con più alti livelli di attività fisica e più bassi comportamenti sedentari (Lohaus et al, 2009). Sebbene alcuni studi non abbiano riscontrato collegamenti significativi tra stili genitoriali autorevoli e autoritari e stato di peso dei bambini (Agras et al., 2004; Blissett & Haycraft, 2008; De Bourdeaudhuij et al., 2009), altri studi cross-sectional (Chen & Kennedy, 2004; Kremerset al, 2003) e longitudinali (Lohaus et al., 2009; Rhee, et al., 2006) hanno mostrato abitudini alimentari migliori ed un più basso indice di massa corporea in bambini con genitori autorevoli (Enten & Golan, 2008; Sleddens, et al., 2011), collegando dunque la presenza di uno stile genitoriale autoritario e l’alto controllo da parte dei genitori con il mangiare in modo non sano ed un più alto BMI (Kakinami, et al., 2015; Kim et al., 2008; Rhee et al., 2006).

In linea generale, questi stili genitoriali sono risultati influenzare le abilità dei bambini di autoregolarsi. Soprattutto un alto livello di controllo genitoriale è risultato limitare l’abilità dei bambini di controllarsi rispetto a varie situazioni, incluse il mangiare, ed in particolare il mangiare senza controllo, comportamento alimentare spesso correlato all’aumento di peso (Tanofsky-Kraff et al., 2009). Il mangiare senza controllo è un episodio di assunzione di cibo durante il quale c’è un senso soggettivo che non si possa controllare cosa o quanto si sta mangiando, indipendentemente dalla quantità di cibo che si sta assumendo. La quantità di bambini e adolescenti, indipendentemente dal peso, che hanno avuto almeno un episodio in un periodo di un mese precedente all’assessment, varia dal 9 al 29.50%. La percentuale arriva fino al 20-36% tra i bambini (6-12 anni) e adolescenti (10-17 anni) sovrappeso in cerca di un trattamento (Tanofsky-Kraff et al., 2009; Tanofsky-Kraff et al., 2008).

Stile genitoriale – senso di controllo – obesità infantile

Partendo da queste evidenze, Matheson et al., (2015) hanno condotto una ricerca finalizzata ad indagare la correlazione esistente tra il mangiare senza controllo da parte del bambino e lo stile genitoriale. Nello studio non sono emerse relazioni tra lo stile genitoriale generale e i comportamenti di perdita di controllo durante il pasto da parte dei bambini. Forse perché il modo di dar da mangiare al bambino correla positivamente non con lo stile genitoriale generale, ma con i comportamenti alimentari del bambino. Questo perché il modo di alimentare il figlio influenza il bambino per tutto il tempo del pasto (Matheson et al., 2015).

Studi precedenti suggeriscono che i fattori genitoriali potrebbero essere differenti in famiglie con bambini sovrappeso e bambini affetti da obesità infantile, rispetto a famiglie con bambini normopeso. Gli stili genitoriali che si basano sullo spingere il bambino a mangiare sono associati con l’incapacità del bambino di regolare l’apporto calorico (Johnson & Birch, 1994) interrompendo l’abilità innata del bambino a rispondere a indizi interni di fame e sazietà (Scaglioni et al., 2008), spesso con il risultato di aumentare l’apporto di cibo (Birch & Fischer, 2000), il peso durante l’infanzia (Birch & Fisher, 2000; Johnson & Birch, 1994) e l’autovalutazione negativa (Fisher & Birch, 2000). Gli stili genitoriali restrittivi sono inoltre collegati a comportamenti alimentari senza controllo, come l’aumento dell’assunzione di snack nelle bambine durante test laboratoriali (Fisher & Birch, 1999; 2002; 2000).

Per quanto riguarda le modalità che i genitori usano nel dar da mangiare al proprio figlio, quelle che sono risultate collegate a problematiche di peso dei bambini sono state la restrizione, la pressione a mangiare ed il monitoraggio (Birch et al., 2001; Faith et al, 2004b; Ventura & Birch, 2008). La restrizione rappresenta il limite imposto dai genitori nell’assunzione o accesso a certi tipi di cibi. La pressione a mangiare include comportamenti come forzare il bambino a mangiare certi tipi di cibi o a finire tutto ciò che è sul piatto. Il monitoraggio, invece, si riferisce al fatto che i genitori prendono nota dell’apporto calorico dei bambini. (Birch et al., 2001; Blissett, 2011).

Va da sé che lo scopo del genitore sia quello di implementare un’alimentazione sana, forzando i bambini a mangiare cibi sani, monitorando l’assunzione di cibo e limitando l’assunzione di cibo non sano. Ciò nonostante diverse ricerche hanno evidenziato che queste modalità di monitoraggio di assunzione di cibo comporti, involontariamente, conseguenze sia nei comportamenti alimentari dei bambini che nell’aumento di peso. Ad esempio, la restrizione materna rispetto a certi cibi è stata collegata ad un aumento, piuttosto che una diminuzione, nelle preferenze e assunzioni di questo cibo, sia durante l’infanzia che, in modo longitudinale, in età adulta (Birch et al., 2003; Faith et al., 2004b; Fisher & Birch, 1999).

Per di più, questi comportamenti restrittivi diminuiscono l’autocontrollo dei bambini rispetto al loro comportamento alimentare (Johnson & Birch, 1994) ed aumenta il mangiare in assenza di fame (Birch et al., 2003). A dimostrazione di questo, vi è l’evidenza che bambini con genitori più restrittivi tendono ad avere un indice di massa corporea più alto (Faith et al, 2004b; Taylor, Wilson, Slater & Mohr, 2011).

Ed ancora, diversi studi hanno indicato che quando i bambini sono costretti a mangiare cibi sani, aumenta il consumo e la preferenza per cibi non sani (Galloway et al. , 2006; Lee et al., 2001) e mangiano con meno probabilità frutta e verdura. Inoltre sono meno propensi ad assaggiare nuovi cibi (Brown et al., 2008). Si è inoltre rilevato che, una volta cresciuti, i ragazzi dichiarano di non preferire o non gradire affatto il cibo che erano forzati a mangiare da bambini (Batsell et al., 2002). Tuttavia, queste preferenze di cibo non si possono sempre tradurre in un più alto indice di massa corporea durante l’infanzia. Molti studi longitudinali e trasversali hanno mostrato l’effetto opposto, vale a dire che i bambini che erano costretti a mangiare determinati cibi avevano un minore BMI (Birch et al., 2003; Blissett & Haycraft, 2008; Faith et al., 2004a; Taylor et al., 2011).

Occorre sottolineare, tuttavia, che alcuni studi riportano un’influenza positiva della pressione dei genitori rispetto ai comportamenti alimentari dei bambini, mostrando che i bambini mangiano più frutta e verdura quando sono “costretti” (Bourcier et al., 2003).

Rispetto ad altre modalità di dar da mangiare al proprio figlio, studi hanno evidenziato come lo sfamare in risposta alle emozioni del bambino (Wardle et al., 2002), usare il cibo come ricompensa (Wardle et al., 2002) e l’organizzare un momento strutturato durante l’assunzione di cibo del bambino (Baughcum et al., 2001), non siano correlate con il peso ed il comportamento alimentare del bambino.

Alcuni studi suggeriscono che il controllo del cibo da parte dei genitori potrebbe essere dovuta, in parte, al peso del bambino e a fattori alimentari (Rhee et al., 2009; Webber et al., 2010). Bambini di genitori che praticano maggiormente il controllo del cibo, mostrano comportamenti alimentari disinibiti, come ad esempio il consumare un grande numero di calorie durante il pasto in assenza di fame (Fisher & Birch, 1999; 2002). Tuttavia, gli studi devono ancora approfondire questa questione.

Matheson et al., (2015), partono dall’evidenza che i genitori che sfamano i bambini in modo strumentale ed utilizzano tecniche basate sull’incoraggiamento, hanno figli con minore probabilità di riportare episodi di perdita di controllo dell’assunzione di cibo. Per spiegare questo fenomeno ipotizzano che probabilmente i genitori usano il mangiare strumentale con bambini che hanno bisogno di maggiore motivazione a mangiare o che sono più esigenti nel mangiare, cosa questa che potrebbe essere collegata con il minore senso di perdita di controllo riportato dai bambini. In più, i bambini che riportano episodi di perdita di controllo, potrebbero trovare il cibo più gratificante in generale, e per questo i genitori non usano tecniche di incoraggiamento per motivarli a mangiare. Mentre le tecniche di incoraggiamento sono associate con una diminuzione della probabilità di perdita di controllo da parte dei bambini, la pressione a mangiare è associata con un più grande probabilità di perdita di controllo. Questo perché la pressione a mangiare rappresenta un comportamento genitoriale più manifesto che può avere un impatto differente sulla perdita di controllo durante il pasto rispetto alle tecniche di incoraggiamento a mangiare (Matheson et al., 2015). In conclusione, non si può interpretare l’impatto dell’influenze genitoriali sul modo di mangiare dei bambini senza considerare l’impatto che il modo di mangiare dei bambini ha sui genitori (Matheson et al., 2015).

Qual è il ruolo del temperamento del bambino

Questa evidenza ha fatto ipotizzare che anche il temperamento del bambino possa giocare un qualche ruolo nello sviluppo di problematiche di obesità infantile e sovrappeso.

Bambini che hanno un’alta affettività negativa durante l’infanzia potrebbero avere un più alto rischio di obesità. Questi bambini, infatti, sono più esigenti e più difficili da confortare, e per questo motivo i genitori sono più propensi a consolare i figli con il cibo, piuttosto che fare attenzione ad indizi che indichino la sazietà del bambino (Stifter et al., 2011). Ciò aumenta la probabilità di sviluppare il mangiare di tipo emotivo. In più, si è notato che il dar da mangiare con lo scopo di consolare il bambino aumenta il mangiare del bambino, negli anni successivi, come risposta ad emozioni piuttosto che a fame, causando una minore capacità di autoregolarsi durante i pasti. Tutto questo contribuisce allo sviluppo precoce e duraturo dell’ obesità (Anzman-Frasca et al., 2012).

Diversi studi, tra cui quello condotto da Yavuz et al., (2018), mostrano che in realtà non c’è una relazione significativa tra il temperamento del bambino e l’ obesità infantile in età prescolare e negli anni successivi. Questo probabilmente perché l’associazione tra il temperamento del bambino e il dar da mangiare in modo consolatorio da parte della mamma non conduce a comportamenti alimentari problematici negli anni successivi, quando ai bambini viene dato maggior controllo rispetto all’assunzione di cibo.

In conclusione…

Insomma, purtroppo non esiste una ricetta magica che insegna ai genitori la tecnica migliore per crescere figli sani e forti. Ogni modo di essere dei genitori, ogni stile genitoriale, ogni modalità di dar da mangiare al figlio, interagisce con uno specifico bambino, con un proprio temperamento, un proprio gusto alimentare, un proprio modo di reagire agli stimoli genitoriali.

In questa particolarissima interazione madre-figlio, va ad influire anche il contesto. Non basta il contesto familiare, fatto di nonni, zii, fratelli, cugini, e così via. Anche i fattori culturali hanno la loro importanza e non possono non giocare un ruolo in questa interazione.

Alla luce di tutto questo, cosa devono fare i genitori? La ricerca sta ancora lavorando per trovare quali sono gli elementi che partecipano allo stabilirsi di problematiche di peso. Va da sé che per formulare interventi che mirano a diminuire il problema dell’ obesità infantile, non si può prescindere dal tenere presenti le caratteristiche specifiche di quei genitori, di quel bambino e di quel contesto. La sfida che attende i ricercatori è sicuramente ardua, ma mai quanto la sfida che ogni giorno affronta la mamma nel momento del pasto.

Mamme… in bocca al lupo! Anzi… a vostro figlio!

Identity Report: l’ identità tra concettualizzazioni teoriche a confronto, dati di ricerca, psicopatologia e intervento clinico – Report dal convegno di Roma, 25 Maggio 2018

Di cosa parliamo quando parliamo di identità? Si tratta di un concetto che si presta a una molteplicità di rappresentazioni, le quali hanno un’ampia gamma di ricadute in ambito sia di ricerca che di intervento clinico.

 

Il convegno Identity Report tenutosi a Roma lo scorso venerdì 25 maggio presso l’Università LUMSA, organizzato dal Consorzio universitario Humanitas, è stato occasione di confronto e di scambio, presentando alcuni contributi sul tema provenienti da studiosi afferenti a differenti aree di indagine.

Identity Report: la ricerca sul tema identità

Le relazioni della prima parte della mattinata, dopo il saluto di apertura da parte del rettore dell’Università LUMSA Francesco Bonini, circoscrivono il tema in esame attraverso contributi forniti dalla ricerca.

L’intervento iniziale del convegno Identity Report, del prof. Santino Gaudio, ricercatore presso il dipartimento di Neuroscienze dell’Università Svedese di Uppsala, prende in esame la rilevanza che i processi corporei hanno nella definizione dell’ identità; vengono presentati i risultati di alcuni studi volti ad indagare l’esistenza di una correlazione tra caratteristiche neurobiologiche e insorgenza e mantenimento dei disturbi alimentari. Alcune ricerche mettono in evidenza come le donne, rispetto agli uomini, avvertano le critiche al proprio aspetto fisico in termini di minaccia alla propria percezione di identità (come si evince dalle aree cerebrali attivate).

La relazione a seguire del prof. Cristiano Castelfranchi mette a fuoco il tema dell’ identità intesa come rappresentazione del sé nel mondo; viene preso in esame il concetto di appartenenza: l’appartenere ad un determinato gruppo ci induce a conformare il nostro comportamento a determinate aspettative. Ciò costituisce una pratica identitaria nella misura in cui ci permette di riconoscerci come facenti parte di una specifica categoria.

Nel terzo intervento del convegno Identity Report il prof. Domenico Parisi illustra gli esperimenti che conduce insieme al proprio gruppo di ricerca presso il CNR di Roma; le ricerche hanno per obiettivo lo studio di funzioni mentali identitarie di natura elementare e si avvalgono dell’utilizzo di robot in grado di compiere comportamenti esplorativi e comportamenti finalizzati al raggiungimento di uno scopo.

Idenity Report: identità in ambito clinico

Gli interventi della seconda parte della mattinata del convegno Identity Report si situano in ambito clinico, mettendo a fuoco l’impatto esercitato sul senso dell’identità personale dalla presenza di conflitti intrapsichici, le declinazioni dell’identità osservabili nell’ambito dei disturbi di personalità e le invalidazioni dell’identità che possono fare da substrato all’insorgenza di episodi deliranti.

Il prof. Mancini incentra la propria relazione sui conflitti intrapsichici che minano il senso dell’identità; la coscienza, intesa come consapevolezza critica del conflitto, rappresenta una forma di integrazione rispetto alle istanze in gioco nel conflitto.

Possiamo distinguere i seguenti tipi di conflitto:

  • oscillazioni tra stati mentali diversi e separati non rappresentati nello stesso contesto mentale di scelta;
  • oscillazioni all’interno dello stesso contesto mentale di scelta – conflitti pratici, cedimenti alle tentazioni.

Nel caso di oscillazioni tra stati mentali diversi e separati, maggiore è l’importanza e l’urgenza degli scopi attivi, maggiore è la focalizzazione sull’obiettivo perseguito e la defocalizzazione di obiettivi in competizione; ciò rende più difficile costruire un prospetto di scelta in cui si tenga conto delle opinioni in contrasto.

Viene riportato, a titolo di esempio, il caso di una paziente che oscilla costantemente tra il desiderio di costruire una relazione e il desiderio di salvaguardare la propria autonomia. Quando è impegnata nella costruzione di una relazione affettiva stabile è talmente dedita a questo scopo da trascurare totalmente il bisogno opposto e complementare, cioè quello dell’autonomia, fino a realizzare di aver investito troppo nella relazione, cosa che la porta a investire nel recupero dell’autonomia perdendo di vista lo scopo opposto della stabilità affettiva.

In questo tipo di conflitto si osserva un fenomeno denominato framing: quando un evento è valutato nel dominio delle perdite ha un valore doppio di quanto ne ha se è valutato nel dominio dei guadagni; la stessa persona può valutare lo stesso evento nel dominio delle perdite e, alternativamente, in quello dei guadagni.

Ad esempio, quando la paziente è impegnata nella relazione, confronta stabilità affettiva e libertà, minimizzando gli aspetti negativi della libertà che le risultano, invece, evidenti quando la riconquista. Quando è single desidera rapporti affettivi stabili, ma non considera i momenti di noia della relazione; ciò facilita il ripetersi delle oscillazioni.

Nel caso, invece, di oscillazioni all’interno dello stesso stato mentale, osserviamo conflitti del tipo “cedimento alle tentazioni”, ad esempio quando siamo in conflitto sull’aderire alla dieta o mangiare qualcosa che ci piace. Il cedimento alle tentazioni è spiegato dal fenomeno del temporal discounting, per il quale il valore soggettivo di un oggetto o di un evento aumenta in modo iperbolico con la vicinanza: più qualcosa è vicino nel tempo, facendo balenare la prospettiva di una soddisfazione immediata, più appare attraente, anche se compromette obiettivi desiderabili nel medio-lungo termine.

La prof.ssa Manca presenta, nel proprio contributo, l’ identità intesa, secondo la definizione di Mosticoni, come una classe di risposte (oggetti, aggettivi, esperienze, eventi, azioni) che ha una duplice funzione:

  • rendere costante la percezione e la memoria di sé nel tempo (identità diacronica);
  • rendere costante la percezione di sé nel confronto con altri oggetti o individui (identità sincronica).

Il concetto di identità è sovrapponibile ai concetti di autodeterminazione, autonomia decisionale e agentività: tutto ciò che permette riconoscimento delle azioni compiute come proprie, non sollecitate da pressioni esterne.

In questo quadro vengono declinate le variazioni di natura psicopatologica cui il processo di definizione dell’ identità può andare incontro nell’insorgenza di disturbi di personalità; viene, inoltre, prospettato come strutturare l’intervento clinico, ponendo l’accento sull’importanza di definire il frame, la cornice entro cui sviluppare strategicamente tutta la terapia e di procedere con lentezza, perché il cambiamento, per quanto desiderabile, può essere visto, dal paziente, come una modificazione strutturale del proprio sé, del proprio modo di essere, cambiamento da cui si difende.

Il convegno Identity Report continua con il prof. Lorenzini che indaga il fenomeno delirante come estrema difesa da un’invalidazione gravissima del senso di identità; il delirio, nella sua insensatezza e irrealtà, ha un senso rispetto agli eventi di vita che ne hanno scatenato l’insorgenza.

Per andare ad operare sul delirio è importante accogliere la sofferenza senza colludere, creare una buona alleanza terapeutica e non attaccare il delirio, aiutando il soggetto a riprendere il contatto con la realtà, realtà fonte di dolore dalla quale egli cerca disperatamente di difendersi, attraverso interventi di ristrutturazione cognitiva che hanno il fine ultimo di aiutare il soggetto a riformulare il proprio progetto esistenziale, ricentrandosi sui propri bisogni e desideri.

Le relazioni pomeridiane approfondiscono ulteriormente i nessi esistenti tra identità ed empatia (prof. Giambattista Presti), facendo riferimento all’Acceptance and Commitment Therapy; empatia e autodeterminazione (prof. Rosario Capo); identità e significato personale (prof. Maurizio Dodet), avvalendosi dei contributi di Varela sull’autopoiesi.

Il convegno Identity Report si conclude con l’intervento del prof. Armando Cotugno che riprende il tema dell’ identità e dell’immagine corporea nei disturbi alimentari, trattato nella relazione di apertura dal punto di vista delle neuroscienze, e lo affronta da un punto di vista squisitamente clinico.

In conclusione, l’ identità nelle sue molteplici rappresentazioni costituisce una chiave di lettura fondamentale per comprendere l’agire umano e per strutturare interventi di natura terapeutica.

Deferred Acceptance Algorithm. Una revisione cognitivista del Nobel 2012 per l’economia

Il contributo alla teoria stabile dell’allocazione per le analisi sulla configurazione dei mercati è valso il Nobel per l’economia a Lloyd Shapley e Alvin Roth, nel 2012. Una rilettura cognitivista offre degli spunti di riflessione sull’effettivo funzionamento della teoria nelle prese di decisione quotidiane.

 

What Eve did in the garden of Eden was not to eat the fruit of the knowledge of good and evil, but to swing on the universal discount curve from delayed rewards, bending it permanently from a shape that had always generated simple preferences to a shape that generates persistent motivational conflicts.

Ainslie – Picoeconomics

Deferred Acceptance Algorithm: cos’è e di cosa tratta

La Reale Accademia Svedese delle Scienze ha assegnato il Nobel 2012 per l’Economia a Lloyd Shapley e Alvin Roth per il loro contributo alla teoria della stabile allocazione e per le analisi sulla configurazione dei mercati. Lloyd Shapley (University of California Los Angeles) e Alvin Roth (Harvard University) hanno dedicato il loro ingegno a studiare il funzionamento dei mercati, lavorando sulla “teoria dei giochi cooperativi” e sulla “progettazione dei mercati”.

Il meccanismo di Gale-Shapley, “Deferred Acceptance Algorithm“, consente di rimandare le scelte definitive, sullo studio, il lavoro, la vita privata, fino a quando si è trovata la soluzione ideale. Quando si giunge alla soluzione ideale tutte le opzioni sono state considerate e non ce n’è una migliore.

Il presente lavoro si occupa di condurre una revisione cognitivista, con opportune obiezioni, del Deferred Acceptance Algorithm.

Shapley e Roth dimostrano che nel mercato, che rappresenta un effettiva interazione tra persone, ci sono strade efficienti per ottimizzare la vita economica, non necessariamente legate al metro del denaro. I due economisti hanno studiato il problema della allocazione stabile, cioè dell’incontro tra domanda ed offerta, attraverso una modalità che renda la soluzione duratura. Quando c’è da abbinare un gruppo a un altro secondo le preferenze di entrambi ci troviamo dinanzi a un problema di matching.

Matching: quando lo scambio produce ricchezza per entrambe le parti

Nel mercato il problema è solitamente risolto tramite i prezzi, cioè la risorsa va a chi la valuta di più, ma quando non si può operare tramite i prezzi o è considerato immorale che vengano applicati, sono necessari meccanismi alternativi per prendere decisioni. Nel mondo le risorse sono scarse e non tutti possono avere tutto, per cui anche in mancanza di prezzi bisogna stabilire chi otterrà cosa. La teoria del matching si occupa proprio di questo. L’ applicazione di questa teoria consentirebbe di comprendere meglio un importante concetto economico: lo scambio tra due persone produce ricchezza per entrambi, senza che il guadagno di uno comporti la perdita di un altro.

Shapley ha impiegato la teoria dei giochi di John Nash per studiare e raffrontare diverse soluzioni al fine di trovare la migliore per le parti in causa, producendo anche uno speciale algoritmo. Il contributo di Lloyd Shapley e David Gale è stato dimostrare l’esistenza di allocazioni stabili, cioè in cui entrambi i partecipanti sono contenti del loro ‘matching’ e non vorrebbero cambiarlo. Il meccanismo, chiamato di Gale-Shapley, è ciò che consente di trovare questa allocazione. Roth, partendo dai risultati di Shapley, ha studiato numerosi casi, in campo ospedaliero o della sanità, in cui il meccanismo di Gale-Shapley era fondamentale, permettendo di ottenere allocazioni migliori delle risorse.

Il meccanismo di Gale-Shapley, ovvero Deferred Acceptance Algorithm, consente di rimandare le scelte definitive, sullo studio, il lavoro, la vita privata, fino a quando si è trovata la soluzione ideale. Quando si giunge alla soluzione ideale tutte le opzioni sono state considerate e non ce n’è una migliore.

L’algoritmo di Gale-Shapley in riferimento all’ analisi dei meccanismi di distribuzione delle risorse, si basa su un concetto piuttosto astratto. Se le persone razionali, che conoscono i loro interessi e si comportano di conseguenza, si impegnassero semplicemente in scambi reciproci senza restrizioni, allora il risultato dovrebbe essere efficiente. In caso contrario, alcune persone intraprenderebbero altri affari o scambi più convenienti.

Deferred Acceptance Algorithm: alla base c’è la cooperazione

La nozione di stabilità è un concetto centrale nella teoria dei giochi cooperativi, un’area astratta dell’economia matematica che cerca di determinare come ogni costellazione di individui razionali potrebbe cooperativamente scegliere un’allocazione.

Lo scambio senza restrizioni è alla base del concetto di stabilità. Sebbene ciò permetta una chiara analisi, è difficile da immaginare in molte situazioni del mondo reale.

All’indomani della proclamazione del premio Nobel per l’economia 2012, il quotidiano La Stampa (16 Ottobre 2012) affermava in merito al Deferred Acceptance Algorithm: “E’ potente: aiuta a raggiungere la felicita’ ”, Roth:Migliorando il mercato risolviamo anche i problemi concreti delle persone”. Il Fatto Quotidiano: “Nobel a Shapley e Roth: quando l’economia ha un respiro umanistico”. Nell’articolo sempre di La Stampa, si legge che il deferred acceptance algorithm consente di rimandare le scelte definitive, sullo studio, il lavoro, la vita privata, fino a quando si è trovata la soluzione ideale, e quando si giunge alla soluzione ideale tutte le opzioni sono state considerate e non ce n’è una migliore.

Basta questo per stimolare una lettura cognitivista dell’ argomento, mettendo in discussione il fatto che tale algoritmo possa rappresentare la formula della felicità.

Deferred Acceptance Algorithm: l’uso di euristiche

Le obiezioni all’algoritmo di Gale-Shapley vengono condotte a partire da un approccio di tipo descrittivo e tengono conto della capacità del ragionamento di realizzare gli scopi del soggetto e di essere funzionale.

Un approccio di tipo descrittivo si propone di produrre teorie che descrivano il comportamento decisionale senza far ricorso ai modelli normativi della scelta razionale. L’approccio descrittivo, psicologico, si propone di determinare i pattern cognitivi sottostanti i reali comportamenti decisionali.

Questo approccio si basa sull’evidenza che nella vita quotidiana gli esseri umani sono sistematicamente lontani dalle prescrizioni della razionalità formale e normativa, ricorrendo invece alle euristiche, note scorciatoie di pensiero.

Le euristiche in quanto procedure economiche di risoluzione, ad un primo sguardo sembrano avere tutte le caratteristiche dell’irrazionalità. Tuttavia se si valuta il ragionamento rispetto ai criteri normativi esso può solo definirsi come logico o illogico, senza dirci nulla rispetto alla capacità di tale ragionamento di realizzare gli scopi del soggetto e di essere funzionale. Per cui la logica formale non ci permette di discriminare tra processi razionali e processi irrazionali su un piano funzionale.

Le euristiche ci consentono di arrivare rapidamente ad una soluzione, contrapponendosi per questo agli algoritmi. Questi ultimi garantiscono il raggiungimento della risposta normativamente corretta, ma necessitano di tempi molto lunghi, perché considerano sistematicamente tutte le alternative per arrivare alla meta e richiedono una ricerca esaustiva di informazioni dirimenti. Le euristiche, pur essendo formalmente irrazionali, si rivelano in molteplici circostanze, strumenti cognitivi utili agli individui per il raggiungimento dei loro scopi.

Le euristiche, sebbene non normative, consentono il raggiungimento di soluzioni “abbastanza buone”. Gli algoritmi proprio perché sistemi di risoluzione sistematici, richiedono una ricerca esaustiva di informazioni prima della formulazione di un giudizio o di una decisione e per questa ragione possono far perdere al ragionatore delle occasioni d’oro. L’euristica è dunque utile, funzionale, razionale se non si può agire altrimenti, ovvero in condizioni di tempo e risorse limitate e di costi elevati.

Deferred Acceptance Algorithm: l’uso di modelli normativi della scelta

Le obiezioni che emergono tengono conto della capacità del ragionamento di realizzare gli scopi del soggetto e di essere funzionale.

Il deferred acceptance algorithm fa ricorso ai modelli normativi della scelta razionale, che come è noto non descrivono il reale comportamento di scelta degli individui. Infatti nella vita quotidiana gli esseri umani sono sistematicamente lontani dalle prescrizioni della razionalità formale e normativa, ricorrendo invece a procedure economiche di risoluzione, le euristiche. La vita quotidiana infatti è tipicamente caratterizzata da situazioni di incertezza, dove si decide e si sceglie in modo irrazionale, cioè senza rispettare né il principio economico della massimizzazione dell’utile atteso, né le prescrizioni bayesiane del calcolo delle probabilità.

Gli algoritmi è vero che garantiscono il raggiungimento della risposta normativamente corretta, ma necessitano di tempi molto lunghi, perché considerano sistematicamente tutte le alternative per arrivare alla meta e richiedono una ricerca esaustiva di informazioni dirimenti prima della formulazione di un giudizio o di una decisione e per questa ragione possono far perdere al ragionatore delle occasioni d’oro.

E’ noto che la ricerca eccessivamente lunga si scontra con uno dei principali scopi del buon ragionatore: non impiegare l’intera vita a prendere una sola decisione! Riprendiamo quì il criterio 3 di Baron, secondo cui il buon pensiero richiede che la quantità di tempo e di energia dedicata alla formulazione e alla scelta delle ipotesi e alla raccolta delle informazioni sia “adeguata” o “sufficiente”, cioè tale da risultare appropriata alla situazione e da minimizzare i costi della ricerca, così da servire al meglio gli scopi del soggetto. In alcuni casi ci viene richiesto di decidere velocemente, il nostro obiettivo è dunque quello di pensare velocemente. Il rischio è la paralisi intellettuale! Da quanto compreso sul Deferred Acceptance Algorithm non sembra che in tutte le sue applicazioni realizzate si possa considerare la presenza di condizioni ottimali di disponibilità di tempo e risorse.

Deeferred Acceptance Algorithm: come funzionerebbe nella quotidianità

Nella vita quotidiana le scelte sono influenzate dal modo in cui sono formulate e rappresentate dagli agenti, ma anche dalle emozioni che sono attive al momento della scelta. Una procedura come quella del Deferred Acceptance Algorithm, che rimanda le scelte definitive fino a quando non si è trovata la soluzione ideale, non terrebbe conto delle rappresentazioni e delle emozioni dell’agente, che tra l’altro al momento della scelta potrebbero non essere le stesse di quando si è avviato il processo decisionale.

Il conflitto può essere definito un gioco a somma zero. Protrarre in maniera indefinita un gioco a somma zero porta immancabilmente alla perdita di entrambi i giocatori. Con l’utilizzo del Deferred Acceptance Algorithm le scelte definitive vengono rimandate, fino a quando si è trovata la soluzione ideale, e quando si giunge alla soluzione ideale tutte le opzioni sono state considerate e non ce n’è una migliore. Viene da supporre che nelle situazioni conflittuali non sia realisticamente consigliabile rimandare in maniera indefinita la scelta!

Gale e Shapley hanno dimostrato matematicamente che questo algoritmo porta sempre ad un accoppiamento stabile. Il sospetto è che tuttavia questo accoppiamento possa essere in realtà “una soluzione abbastanza buona” piuttosto che la migliore.

Deferred Acceptance Algorithm: risolverebbe i problemi delle persone?

Il Deferred Acceptance Algorithm pare quindi un po’ lontano dalla possibilità di risolvere i problemi concreti delle persone, proprio perché nella vita quotidiana gli esseri umani sono sistematicamente lontani dalle prescrizioni della razionalità formale e normativa. Cercando di non contraddirmi, il lavoro non giunge solo a formulare delle obiezioni, si tratta pur sempre di un premio Nobel.

Nel Deferred Acceptance Algorithm si evince che il fattore tempo ha un ruolo principale. La distanza temporale è uno dei parametri con cui costruiamo dei domini di scelta, essa modifica le preferenze creando delle inversioni (temporal discounting). In molte situazioni di scelta vi è la creazione di due distinti interessi: un interesse a breve termine basato sulla prossimità di una ricompensa più piccola, e un interesse a lungo termine, basato su una ricompensa maggiore ma più distante nel tempo. La preferenza per una ricompensa sarà inversamente proporzionale al ritardo di quella ricompensa dal momento della scelta.

I due interessi non trovano mai un equilibrio, la scelta dell’uno esclude l’altro, sono alternativamente dominanti in tempi differenti.

Il Deferred Acceptance Algorithm in qualche modo sembrerebbe seguire lo stesso meccanismo di inversione delle preferenze. Tuttavia il fatto che l’algoritmo porti sempre ad un accoppiamento stabile avrebbe come vantaggio che anche se nel tempo T una scelta esclude l’altra, attraverso l’elaborata procedura di matching, la migliore scelta a lungo termine è comunque assicurata, è come prendere sia l’uovo oggi che la gallina domani, trattandosi di decisioni in condizioni di certezza, e senza alcun conflitto, è solo questione di tempo!

Un’ulteriore osservazione “positiva” sul Deferred Acceptance Algorithm è la presenza di una particolare illusione positiva: l’ottimismo irrealistico, cioè la convinzione che il futuro abbia in serbo uno spiegamento mirabile di opportunità favorevoli e una singolare assenza di avversità. Si tratta di illusioni favorevoli intorno a sé stessi, al mondo e al futuro in genere, che contrassegnano il pensiero e la percezione degli esseri umani normali (Taylor 1988 e Brown 1989). Tali illusioni sembrano avere una funzione adattativa, favorendo la salute mentale. Quale migliore illusione se non quella di credere nella possibilità di trovare una soluzione ideale oltre la quale non ce n’è una migliore!

Alla fine di questa modesta revisione, al di fuori delle obiezioni precedenti, emerge una provocatoria e ironica considerazione cognitivista.

Pare che il Deferred Acceptance Algorithm presenti una certa intolleranza per l’incertezza e un’evidente predilezione per la certezza. È quindi evidente che l’algoritmo preferisca scelte certe piuttosto che rischiose. Il DOC direbbe: “Beato lui, che ha un desiderio di certezza esasperato ma non irraggiungibile!”.

Eppure l’algoritmo persegue anch’esso un bisogno pragmatico di certezza, ma lo fa con un rituale che non gli fa esperire disagio, né dubbio. Tuttavia ci è familiare quel funzionamento in base al quale in ambito decisionale vi sia una preferenza per le scelte certe piuttosto che per quelle rischiose se il decisore si sente dalla parte del torto. Sarà forse che anche l’algoritmo ha il suo senso di colpa!

Dialogando si cambia: il dialogo socratico come strumento terapeutico

Il dialogo socratico è una tecnica utilizzata all’interno della terapia cognitivo comportamentale, che consente di mettere in discussione le false credenze del paziente, i propri errori di pensiero, attraverso un approccio dialogico tra paziente e terapeuta.

 

Il dialogo socratico è una tecnica utilizzata all’interno della terapia cognitivo comportamentale, che consente di mettere in discussione le false credenze del paziente, i propri errori di pensiero, attraverso un approccio dialogico tra paziente e terapeuta, caratterizzato da domande e risposte che tendono a disconfermare quanto sostenuto fino a quel momento dal paziente stesso. Nata dalla maieutica socratica, viene descritta per la prima volta da Platone nei “Dialoghi”.

Dalla maieutica alla terapia cognitivo comportamentale

Il termine maieutica, che letteralmente significa “arte della levatrice”, designa l’aspetto pedagogico a cui faceva ricorso Socrate, il quale non volendo imporre il suo sapere o persuadere il suo allievo o discepolo, si ispirava all’operato di una levatrice che aiuta il bambino a nascere, e dunque il suo fine ultimo era quello di far nascere la verità all’interno dei suoi discepoli, non limitandosi ad un semplice trasferimento di saperi, aspetti questi ancora oggi non soltanto pedagogici ma anche terapeutici. Il dialogo socratico infatti, si ritrova anche che tra le tecniche utilizzate all’interno della terapia cognitivo comportamentale, la quale, influenzata da capisaldi come A. Beck e A. Ellis, sostiene che il disagio è determinato da errori di pensiero, distorsioni cognitive, false credenze o belif e pertanto tale strumento diviene un valido ausilio alla loro individuazione, messo in discussione e disconferma.

Il dialogo socratico come strumento terapeutico

Il dialogo socratico, comincia ad essere utilizzato in terapia sotto l’influenza dell’ondata cognitivista di A. Beck. Riprendendo l’utilizzo originario di Socrate, tale tecnica viene strutturata da un’alternanza di domande poste dal terapeuta, attraverso le quali si aiuta il paziente ad esplorare e analizzare similitudini, differenze, tra gli argomenti trattati in seduta, considerando punti di vista alternativi e consentendo di acquisire nuove informazioni.

Il dialogo socratico non avrebbe la finalità di provare l’irrazionalità delle convinzioni del paziente, ma ha lo scopo di consentire al paziente di identificare, testare e rivalutare le proprie assunzioni e credenze che forse hanno generato e mantengono il suo disagio psichico.

Svolto con una modalità collaborativa tra paziente e terapeuta, viene descritto da diversi autori che hanno contribuito a strutturarne il metodo.

Overholser (1993) descrive il dialogo socratico come un processo a tre stadi:

  1. Identificazione: identificare importanti definizioni universali, le generalizzazioni cognitive che il paziente usa per interpretare e predire ciò che accade nella sua vita;
  2. Valutazione: testare le condizioni ottenute cercando delle prove di inconsistenza logica;
  3. Ridefinizione: integrazione e assimilazione di queste nuove informazioni nella struttura cognitiva del paziente, favorendo lo sviluppo di un nuovo sistema di cognizioni più adattive.

Padensky (1995) lo descrive come un processo a quattro stadi:

  1. Psicoeducazione: elicitazione, identificazione di cognizioni e assunzioni ed individuazione di emozioni e comportamenti ad essi associati;
  2. Ascolto empatico: da parte del terapeuta, con utilizzo del linguaggio del paziente, ed evidenziazione di informazioni potenzialmente importanti ma sottovalutata da questi;
  3. Sintesi delle condizioni e assunzioni del paziente: L’uso della sintesi e delle riflessioni importante per mantenere la relazione collaborativa;
  4. Riflessione sulle nuove informazioni: usando queste rivalutazioni delle condizioni esistenti.

Se il termine psicoterapia significa letteralmente, cura dell’anima (Psiche), attraverso l’uso della parola (colloquio), il dialogo socratico ne designa e descrive la modalità, soprattutto all’interno della terapia cognitivo comportamentale. Un dialogo collaborativo ed attivo, guidato, empatico e razionale, volto a disconfermare gli errori di pensiero, le distorsioni cognitive o le false credenze del paziente, responsabile del suo disagio psichico, attraverso l’apprendimento di una modalità di pensiero più flessibile e razionale, adattiva e funzionale al suo benessere.

 

Psicopillole. Per un uso etico e strategico dei farmaci (2017) di A. Caputo e R. Milanese – Recensione del libro

Il volume Psicopillole. Per un uso etico e strategico dei farmaci, è stato scritto da Alberto Caputo e Roberta Milanese, rispettivamente psichiatra e psicologa, psicoterapeuti entrambi. Inserito nella Collana Saggi di Terapia breve diretta da Giorgio Nardone, rappresenta un apprezzabile contributo scientifico-divulgativo sul corretto uso degli psicofarmaci e la loro integrazione all’interno di una terapia psicologica nei disturbi mentali maggiori.

 

Il volume Psicopillole si compone di sei capitoli, il primo dei quali, Diamo pure i numeri analizza il fenomeno, non solo americano, del boom nel consumo dei farmaci per la psiche che caratterizza gli anni Duemila ed il cui trend, secondo i dati dell’Agenzia italiana del farmaco è in crescita per i più svariati disturbi, dai più gravi casi di psicosi fino ai disturbi d’ansia e del sonno. Ad esempio, le modifiche introdotte nel Dsm-5, hanno portato al forte aumento delle diagnosi relativamente al disturbo depressivo: oltre 350 milioni di persone nel 2015 sono state diagnosticate come depresse, di cui 4,5 milioni in Italia (Osservatorio Onda, 2016).

Psicopillole : la maggior fonte di entrate per le aziende farmaceutiche oggi

Questo continuo spostamento del tutto arbitrario della linea di demarcazione tra normalità e patologia, produce un’inevitabile sovradiagnosi e con essa il conseguente trattamento farmacologico di persone che non richiedono alcun trattamento e che finisce per produrre più danni che benefici (Paris, 2015).

I capitoli successivi di Psicopillole descrivono come gli psicofarmaci rappresentino ai giorni nostri la maggior fonte di entrate per le aziende farmaceutiche, e come inconsapevoli alleati di questi meccanismi siano alle volte le stesse associazioni a tutela dei malati che, nella speranza di veder riconosciuta la loro “malattia” ed in vista di eventuali rimborsi per le cure, finiscono con il sostenere la creazione di nuove etichette e dei relativi trattamenti farmacologici.

Considerare i disturbi psicologici come l’esito di una causalità circolare di fattori psicologico-individuali, biologico-organici, socio-ambientali in continua interazione tra loro, dove ciascuno è reciprocamente causa ed effetto dell’altro, permetterebbe di recuperare finalmente lo storico modello biopsicosociale di salute indicato dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità, e di fornire linee guida fondamentali a chi si occupa di benessere psichico.

Al capitolo quattro, Conoscere le psicopillole, vengono descritte poi le varie categorie di psicofarmaci ovvero: gli ansiolitici, gli ipnotici, gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore.

Psicopillole e/o psicoterapia: una scelta da effettuare con cura

Purtroppo, secondo gli autori, nella scelta del tipo di trattamento – farmacologico o psicoterapeutico – si tende a favorire, interventi del primo tipo a discapito del secondo, anche a livello di politiche sociali e sanitarie.

Il quinto capitolo di Psicopillole intende delineare una guida che possa aiutare chi debba prendere decisioni relative alla propria salute, senza cercare necessariamente la via più breve per uscire fuori dalle difficoltà.

Uno degli aspetti presi in considerazione dagli autori è relativo alla scelta del trattamento rapportato alla valutazione costi/benefici dello stesso, il tutto considerato in termini esistenziali, temporali ed economici.

Obiettivo del sesto ed ultimo capitolo è quello di veicolare il messaggio che

le aspettative del paziente giocano un ruolo importante nel determinare l’efficacia di qualunque tipo di trattamento medico (effetto placebo), ma in pochi altri trattamenti farmacologici sono così potenti come nel caso degli psicofarmaci.

Farmaco e parola rivestono dunque un ruolo altrettanto importante, e vanno valutati con accortezza in base alle situazioni, affinchè ogni intervento terapeutico consti di una scelta etica e strategica in egual misura.

Le fenetilamine sintetiche: storia, meccanismo d’azione ed effetti – Introduzione alla Psicologia

Le fenetilamine sono sostanze psicoattive come l’amfetamina, la metamfetamina e l’MDMA. Fanno parte delle sostanze scoperte attraverso ricerche e sperimentazioni sulla struttura e sulla attività di droghe già note.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Le fenetilamine rappresentano delle sostanze psicoattive che comprendono diverse molecole, tra cui l’amfetamina, la metamfetamina e la 3,4-metilendiossimetamfetamina o MDMA. L’ambito di riferimento è quello delle designer drugs, termine attraverso il quale si definiscono le sostanze psicoattive scoperte attraverso ricerche e sperimentazioni sulla struttura e sulla attività di droghe già note.

Fenetilamine: la struttura

Le fenetilamine sono sostanze che possiedono una struttura di base, consistente in un gruppo aminico e un anello benzenico, simile a quella delle catecolamine, neurotrasmettitori secreti dal sistema endocrino come adrenalina, noradrenalina e dopamina, ma affine anche ad altre droghe come le amfetamine e i catinoni sintetici.

La classe delle fenetilamine psichedeliche o sintetiche sono definite anche 2C-Class, poiché sono presenti 2 carboni tra l’anello benzenico e il gruppo aminico terminale. I loro nomi, dunque, sono caratterizzati da numeri e lettere che riflettono, sostanzialmente, la struttura molecolare presentata dalla sostanza, a esempio la serie 2C, ha 2,5-dimetossi o la serie D (DOI, DOC), ha un metile sulla catena.

Le fenetilamine si dividono in diversi sotto-gruppi distinti in base alla diversa sostituzione di molecola che si applica sull’anello aromatico, sulla catena alchilica e sull’azoto. Queste variazioni strutturali causano degli effetti sui meccanismi d’azione che portano al manifestarsi di maggiori stati allucinatori o maggiore arousal di alcune aree del sistema nervoso centrale. Quindi, apportando delle piccole modifiche alla struttura di base, si generano dei cambiamenti nell’azione neurochimica della droga stessa.

Fenetilamine: la storia

La fenetilammina 2C è stata inventata da Alexander Shulgin, chimico, farmacologo statunitense e creatore anche dell’MDMA. Egli ha descritto la sintesi, la produzione e i dosaggi della fenetilammina sperimentando la sostanza su se stesso e documentando il tutto nei libri PIHKaL e TIHKaL, acronimi rispettivamente di Phenethylamines I Have Known And Loved e Tryptamines I Have Known And Loved, scritti a quattro mani con sua moglie Ann.

Alexander Shulgin ha lottato per reinserire gli psichedelici, come l’LSD e l’MDMA, in medicina e in ambito di ricerca, e per questo è stato definito il padrino psichedelico.

Fenetilamine: formato e tipi

Le fenetilamine sono commercializzate in compresse di vari colori e forme, in capsule, in polvere o cristalli. Per questo, possono essere ingerite, sniffate o assunte per via sublinguale.

La più nota è la 2C-B FLY o Bromo-Dragon Fly, nome dovuto alla formula chimica del composto che ricorderebbe un drago in volo e che di questa classe rappresenta la molecola più potente e con maggiore durata del meccanismo d’azione. Spesso, è possibile trovare la fenetilammine della serie NBOMe sotto forma di francobolli, blotters. Si tratta di una sostanza dal sapore amaro, estremamente allucinogena ad elevata potenzialità d’azione e avente effetti analoghi a quelli dell’LSD, in quanto estremamente potente anche a dosi molto basse.

Fenetilamine: meccanismo d’azione

Le fenetilamine sono chimicamente simili alla feniletilammina naturale, alcaloide biosintetizzato tramite la decarbossilazione enzimatica dell’amminoacido fenilalanina, contenuta in diversi alimenti, come il cioccolato, il vino e i formaggi, ma non produce effetti psicotropi.

Le fenetilamine, di conseguenza, utilizzano i recettori catecolaminergici già presenti sui neuroni per agire, inibendone la recaptazione di dopamina, serotonina e noradrenalina. La metabolizzazione della sostanza avviene attraverso la deaminazione ossidativa, a livello del fegato, per mezzo di un enzima chiamato Monoamino Ossidasi (MAO). Per questo, potrebbe entrare in conflitto con i farmaci MAO-Inibitori tipicamente usati dagli antidepressivi, interferendo con il normale funzionamento.

Fenetilamine: effetti

Le fenetilamine agiscono sia come stimolanti del sistema nervoso centrale sia come allucinogeni. Gli effetti iniziano poco dopo l’assunzione, da un minimo di 15 a un massimo di 120 minuti, e durano dalle 4 alle 16 ore.

Tra i sintomi si annoverano allucinazioni, nausea, vomito, diarrea, vertigini, dolori corporei, rigidità muscolare e confusione. Inoltre, mostrano effetti simpaticomimetici e neurologici come tachicardia, ipertensione, euforia, agitazione, psicosi, allucinazioni visive, e in casi estremi anche arresto cardiaco con conseguente decesso.

Le fenetilammine determinano un aumento del battito cardiaco, della respirazione, della pressione sanguigna e della temperatura corporea; quest’ultimo effetto, però, può causare convulsioni e coma. Gli effetti, tuttavia, variano da sostanza a sostanza. Per esempio:

  • la 2C-I genera pressione sanguigna molto alta associata a crisi epilettiche e confusione
  • la 2B-B disturbi cardiovascolari, disidratazione e confusione
  • la 2C-T, depressione del sistema nervoso centrale, attacchi di panico, vomito, delirio, perdita di memoria
  • la 2C-T2 , attacchi di panico, paranoia, rigidità muscolare, vomito, ansia
  • la 2C-T-7, vomito, mal di testa, confusione, delirio, alta pressione sanguigna e spasmi muscolari
  • la 4FA, chiamata anche Flux o para-fluoroamphetamine, causa psicosi, paranoia e allucinazioni

Non esistono studi scientifici sui potenziali danni a lungo termine, ma è stato visto che l’assunzione di queste sostanze può provocare psicosi, paranoia, ansia, disturbo post-traumatico da stress e altri disturbi di natura psichiatrica. Ovviamente, sono stati certificati cosi in cui il loro uso ha portato alla morte per arresto cardiaco.

Le fenetilammine risultano non facilmente rilevabili ai normali test di screening, ma sono rilevabili attraverso analisi del sangue e delle urine condotte in laboratorio. In caso di positività a queste sostanze alla guida di auto, moto o motorino, le Forze dell’Ordine possono ritirare la patente o il passaporto, sequestrare il veicolo, infliggere sanzioni e fare segnalazione alla Prefettura.

Attualmente, non sono disponibili trattamenti specifici per intossicazioni da fenetilammina, ma è possibile solo utilizzare terapie di supporto e psicoterapia.

Per concludere, sono ancora scarsi i dati epidemiologici sul consumo di queste sostanze, ma si stima che possano rappresentare complessivamente il 30% delle droghe presenti nelle discoteche, complice, ovviamente, la facile reperibilità delle stesse su internet. I consumatori medi di questa sostanza sono giovani ragazzi di sesso maschile, aventi una storia di poliassunzione.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La depressione maschile e l’uso dei farmaci nelle donne possono ridurre le possibilità di avere un figlio in coppie non fertili

Secondo uno studio finanziato dal National Institutes of Health, nelle coppie in cura per la fertilità, la depressione dell’uomo potrebbe essere correlata ad una minore probabilità di concepire un figlio.

 

L’ autore dello studio Esther Eisenberg, MD, della Fertility and Infertility Branch sostiene che questo studio ha fornito, ai pazienti con infertilità e ai loro medici, informazioni utili per prendere importanti decisioni terapeutiche.

I ricercatori dello studio compiuto dall’Istituto nazionale di Salute Eunice Kennedy Shriver, hanno analizzato i dati relativi a 1.650 donne e 1.608 uomini. Lo scopo della ricerca, coordinata da Emily Evans-Hoeker, è riuscire a determinare se la depressione o l’uso di farmaci antidepressivi da parte della futura madre o del padre potessero essere correlati al successo o insuccesso di una gravidanza nel corso dei trattamenti per la fertilità, esclusi quelli in vitro.

I ricercatori hanno notato come il 41% delle donne sottoposte ai trattamenti per la fertilità avevano sofferto sintomi di depressione, mentre tra gli uomini la percentuale saliva al 50% nel caso dei trattamenti per la fecondazione in vitro. Gli autori hanno preso poi in esame le coppie che non si erano sottoposte alla procreazione assistita, analizzando i due diversi studi precedenti: il primo studio aveva analizzato l’efficacia di due diversi farmaci per l’ovulazione nelle donne che avevano la sindrome dell’ovaio policistico per stabilire una gravidanza.

Il secondo studio aveva confrontato,invece, l’efficacia di tre farmaci i quali inducono l’ovulazione al raggiungimento della gravidanza e del parto in coppie con infertilità inspiegabile. In entrambi gli studi le donne e gli uomini hanno risposto a un questionario volto a riconoscere i sintomi della depressione. Solo alle donne è stato poi chiesto se fossero in trattamento con antidepressivi.

I due diversi studi sono stati poi incrociati per analizzare gli esiti dell’interazione tra farmaci, depressione e fertilità.

I risultati dimostrano che le donne che usavano alcuni tipi di farmaci, hanno evidenziato i ricercatori, avevano una probabilità di incorrere in un’interruzione spontanea di gravidanza nel primo trimestre superiore rispetto a coloro che non usavano antidepressivi. Le coppie in cui l’uomo presentava depressione avevano poi il 60% di probabilità in meno di concepire un figlio rispetto alle coppie in cui l’uomo non era depresso.

 

L’infortunio sportivo: fattori psicologici di vulnerabilità e di protezione, prima e dopo l’evento

L’ infortunio sportivo costituisce un momento molto critico nella vita di un atleta. È importante pertanto individuare eventuali segnali di rischio prima e dopo l’infortunio, sui quali allenatore, atleta stesso e psicologo dello sport, possano intervenire in maniera tempestiva ed efficace.

Laura Zamboni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

[blockquote style=”1″]La vita è sempre degna di essere vissuta e lo sport dà possibilità incredibili per migliorare il proprio quotidiano e ritrovare motivazioni. (Alex Zanardi)[/blockquote]

Le ricerche e la letteratura sull’ infortunio nello sport sono aumentate notevolmente negli ultimi venti anni, si possono osservare due macro aree di interesse: da una parte le variabili psicologiche che agiscono sulla vulnerabilità ed aumentano la probabilità che un infortunio possa accadere e, dall’altra, le reazioni emotive e cognitive che si manifestano tendenzialmente negli atleti dopo questo evento e come queste ultime influiscano sul recupero. Entrambi i filoni di ricerca muovono nella direzione di individuare le dimensioni salienti per ridurre l’incidenza e la portata di questi eventi, favorendo una buona preparazione psicologica prima e agevolando il recupero nel percorso successivo.

Porre attenzione su questi aspetti permette di individuare dei segnali di rischio per l’atleta prima e dopo l’ infortunio sportivo, sui quali allenatore, atleta stesso e psicologo dello sport, possano intervenire in maniera tempestiva ed efficace.

L’infortunio

L’ infortunio sportivo dovrebbe essere considerato come un evento che comprende diversi fattori bio-psico-sociali e, in quanto tale, dovrebbe essere trattato in maniera olistica, con attenzione alle funzioni fisiche, emotive e cognitive (Conti, Di Fronso, Bertollo, 2015). Secondo Podlog (2014) in particolare, l’ infortunio sportivo coinvolge quattro aree interconnesse: l’area del benessere fisico (dolore, possibilità di cambiamenti permanenti, restrizioni temporanee dei movimenti), l’area del benessere emozionale (ansia, paura), l’area del benessere sociale (perdita del ruolo, diverso modo di relazionarsi con l’ambiente sportivo) e l’area del sé (immagine personale, obiettivi e piani di vita, auto-efficacia).

Il rischio di infortunio

Nell’ infortunio sportivo una parte delle cause sono da ricercare nella natura fisica: struttura corporea, livello di condizione, attrezzature e superfici di gioco, tipo di sport praticato, etc. Tuttavia, esistono in letteratura diversi modelli che considerano anche il peso delle variabili psicologiche nella vulnerabilità a questo evento.

Uno dei modelli più accreditati è quello di Andersen e Williams (1998): il modello stress-infortunio. Secondo gli autori, una situazione stressante può generare una risposta di stress che varia lungo un continuum ed è strettamente legata alla valutazione cognitiva individuale (quindi al significato che l’atleta attribuisce) rispetto al fattore esterno. In particolare, Andersen e Williams individuano tre categorie di variabili che sembrerebbero influenzare la risposta dell’atleta: personalità (ansia di tratto, perfezionismo), storia degli stressor (eventi di vita maggiormente stressanti, precedenti infortuni) e le strategie e le risorse di coping. Il meccanismo postulato da questi autori per spiegare la relazione tra stress ed infortunio coinvolge sia la sfera attentiva sia quella somatica. Possiamo ad esempio pensare a quanto riferiva Hans Selye già negli anni 50: “ogni stress lascia una cicatrice indelebile, e l’organismo paga per la sua sopravvivenza dopo una situazione stressante, diventando un po’ più vecchio”.

Un atleta che si trova in una condizione di stress, avrà una risposta attentiva alterata da quest’ultimo evento, con un conseguente aumento della tensione muscolare, riduzione del campo visivo e quindi incremento della distrazione. Negli stati di stress, infatti, è comune una contrazione non richiesta di determinati gruppi muscolari, ciò può portare a diverse conseguenze sul piano fisico: riduzione della flessibilità ed affaticamento che possono sfociare in distorsioni, stiramenti e strappi. Allo stesso modo, la riduzione dell’attenzione, oltre a peggiorare la performance, potrebbe più facilmente condurre ad errori o incidenti dovuti proprio alla distrazione.

Un altro approccio che va nella stessa direzione è il modello dell’influenza dei fattori psicologici sull’ infortunio sportivo di Junge (2000), basato su ricerche condotte su calciatori, che distingue tre categorie: stress psicologici, risorse di coping e stato emozionale.

Numerosi studi sono stati intrapresi per verificare il modello stress-infortunio: Thompson e Morris (1994) osservarono come il rischio di infortunio sia elevato quando recenti eventi stressanti di vita siano presenti, non solo, i livelli di vigilanza ed attenzione decrescevano notevolmente in concomitanza degli stressor.

Per quanto riguarda gli aspetti di personalità, è stato evidenziato che persone con sentimenti di depressione, malessere e apatia, riportavano infortuni più di frequente (Kolt & Kirkby, 1999). Altri tratti correlati ad un maggiore rischio sarebbero: ansia di tratto, ansia di stato e vulnerabilità allo stress (Williams & Andersen, 1998).

Diversi approfondimenti del modello provengono da Petrie (2004), secondo cui bassi livelli di supporto sociale aumentano la vulnerabilità individuale al rischio di infortunio, mentre un alto supporto sociale sembrerebbe apportare una maggiore protezione. Questo autore rileva anche che l’ansia competitiva possa avere sia un effetto diretto, sia indiretto sull’infortunio, con una correlazione con umore negativo. Il supporto sociale, inoltre, giocherebbe un ruolo di protezione nel rapporto con rabbia e depressione.

Nonostante questi studi abbiano ricevuto sono alcune verifiche empiriche e sia necessario ancora un approfondimento dell’argomento, ciò che emerge è il fatto che gli atleti non utilizzino uno stile di coping unidirezionale, bensì diverse strategie, funzionali all’evento stressante.

Diverse, inoltre, le implicazioni che è possibile ricavare e che possono essere utili nell’ambito della psicologia dello sport. Nell’ottica della prevenzione, sarebbe utile sviluppare strategie di resilienza per aiutare gli atleti a riconoscere la relazione tra tratti di personalità, eventi di vita negativi, pensieri, emozioni e stati fisiologici, con lo scopo di minimizzare l’impatto degli stressor. A tal fine possono essere predisposti interventi psicoeducativi, tecniche di stress-management e goal setting. Un’operazione importante può essere fatta rispetto all’attenzione, come già osservato da Tamorri, Benzi, Reda (2004), secondo i quali l’utilizzo dell’imagery può essere di notevole sostegno anche nel caso l’atleta stia vivendo situazioni stressanti, scegliendo, a seconda del contesto, se utilizzare immagini riproduttive, creative o emotive. Gli stessi autori suggeriscono la formulazione di una valutazione del rischio psicosociale dell’atleta ad inizio della stagione, con riguardo agli eventi stressanti di vita e alle risorse per gestire lo stress, per pianificare efficaci interventi di prevenzione. In maniera simile Johnson e Ivarsson (2010) suggeriscono che sia gli atleti (nel loro studio, calciatori) sia gli allenatori debbano prestare attenzione nell’identificare le variabili, in particolare, le strategie di coping utilizzate per elaborare le difficoltà di tutti i giorni e, di conseguenza, il loro possibile impatto sul rischio di infortunio. Altre indicazioni derivano da studi di Pensgaard e Roberts (2000): un clima di alta competitività, rivalità interna, concentrazione sulla performance e bassa collaborazione sportiva, sembrano correlare con un maggiore rischio di infortunio sportivo. Ciò mostra come l’intervento di prevenzione che lo psicologo dello sport può mettere in campo, oltre ad essere rivolto al singolo atleta, debba tenere in considerazione anche l’intero contesto di squadra.

L’intervento di recupero dopo l’ infortunio sportivo

Un’interessante review della letteratura inerente le fasi di recupero dall’ infortunio sportivo è stata condotta da Conti, di Fronso e Bertollo (2015), i quali hanno suddiviso in diverse fasi gli interventi di recupero.

Strettamente correlato a quanto sopra descritto rispetto alle strategie di coping, quando si verifica un infortunio intercorrono molteplici fattori nella risposta ed elaborazione. I primi studi vedono l’approfondimento dei modelli di risposta al dolore (Hardy e Crace, 1990) che considerano l’infortunio come una forma di perdita e descrivono, rifacendosi al modello di Kubbler-Ross (1969), diversi momenti contrassegnati da particolari emozioni: rifiuto, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione e riorganizzazione. Di elaborazione più recente sono i modelli di valutazione cognitiva (Albinson e Petrie, 2003; Ardern et al.2015), secondo cui le risposte emotive e comportamentali all’infortunio sono mediate dalla valutazioni cognitive e dall’attribuzione personale di significato. Nella risposta di coping non intervengono quindi fasi uguali per tutte le persone, come descritto nel modello precedente, ma caratteristiche di personalità e situazionali si intrecceranno per dare origine ad un modo soggettivo di elaborazione e fronteggiamento. La considerazione delle particolari chiavi di lettura di ciascuna persona ci permettono di spiegare le reazioni tipiche di catastrofizzazione, over-generalizzazione, colpevolizzazione e negazione. Ad esempio, se per la maggior parte degli atleti l’ infortunio sportivo rappresenta un evento di rottura, per altri può essere una pausa, un sollievo in un periodo di stallo.

L’approccio maggiormente accreditato attualmente è il modello integrato di risposta psicologica all’infortunio e al processo di riabilitazione (Wiese-Bjornstal, Smith, Shaffer e Morrey, 1998), secondo il quale esisterebbe una relazione circolare tra aspetti cognitivi, risposte emotive e comportamentali. Viene teorizzato un collegamento tra le risposte post infortunio e la riabilitazione, dove fondamentali sono sia i fattori personali (caratteristiche dell’infortunio e dell’atleta infortunato) sia dati situazionali (influenza dei compagni, dello staff, dinamiche familiari e caratteristiche dello sport praticato). A seguito di questa prima fase, osservabile nei primi momenti successivi all’infortunio, diversi autori hanno descritto dinamiche tipiche del processo di riabilitazione, nel modello bio-psico-sociale della riabilitazione sportiva (Brewer, Andersen e Van Raalte, 2002) in cui i molteplici fattori si influenzano tra loro. In particolare la motivazione intrinseca sembra svolgere un ruolo fondamentale nell’influenzare l’aderenza al trattamento, così come giocano un ruolo favorevole anche: la tolleranza al dolore, la forza mentale, la percezione di gravità dell’infortunio, autoefficacia e percezione sociale. Al contrario, fattori aggravanti risultano essere i disturbi dell’umore e la paura di infortunarsi di nuovo.

Alla luce di quanto sostenuto nei vari modelli, sono possibili diverse implicazioni per la pratica dello psicologo dello sport, tenendo in considerazione sia la fase d’intervento sia le caratteristiche sopra descritte. Se consideriamo ad esempio la fase acuta post-infortunio, possiamo osservare come l’aspetto centrale sia la valutazione cognitiva ed emotiva dell’atleta rispetto all’evento, per questo, diversi autori (O’Connor, Heil, Harmer e Zimmerman, 2005) suggeriscono che siano utili interventi educativi rispetto all’ infortunio sportivo. Ciò che andrebbe fatto in una prima fase consisterebbe nel fornire accurate informazioni pratiche sia sull’infortunio sia rispetto al percorso di riabilitazione, con tutte le emozioni che si vivranno. Secondo Podlog (2004) questo intervento è in grado di promuovere un senso di investimento personale ed un ruolo attivo, cosicché aumentino le probabilità di aderenza al trattamento. Non solo, anche le tecniche self talk e ristrutturazione cognitiva, influenzano direttamente le risposte emotive e comportamentali dell’atleta.

Evans e Hardy (1995) ritengono che il goal setting sia fondamentale anche in questa fase, con particolare attenzione alla formulazione di obiettivi sia fisici sia psicologici legati alla performance sportiva, secondo una prospettiva olistica.

L’imagery, utile anche nella prevenzione, può essere un’altra tecnica a sostegno del recupero. In letteratura vengono descritte diversi tipi di visualizzazione: healing imagery (focalizzata sui processi di guarigione), pain managment imagery (processi di allontanamento del dolore), rehabilitation process imagery (per velocizzare l’apprendimento e migliorare l’esecuzione di esercizi riabilitativi), performance imagery (fasi di attività dello sport, per continuare ad allenare le abilità sportive). A queste tecniche sono affiancate anche l’imagery con lo scopo di rilassamento, motivazionale, di gestione dell’ansia e per incrementare l’autoefficacia. Per quanto riguarda il rilassamento, anche in questo caso, si rivelano utili metodologie tipiche del mental training, quali: rilassamento muscolare progressivo (Jacobson, 1938), controllo del respiro, biofeedback e training autogeno (Schultz). L’efficacia si manifesta non solo nell’alleviare il dolore, ma anche nel ridurre il livello generale di tensione muscolare, migliorando i parametri neurovegetativi e modulando le varie fasi della riabilitazione (Podlog et al., 2014).

[blockquote style=”1″]Il dolore è temporaneo. Può durare un minuto, un’ora, un giorno, o un anno… Ma a un certo punto sparirà e qualcosa prenderà il suo posto. Se ti fermi, invece, durerà per sempre (Lance Armstrong).[/blockquote]

Conclusioni

Da questa prima breve disamina emerge come siano diversi i fattori psicologici coinvolti nell’evento dell’ infortunio sportivo. Nonostante la letteratura sulla prevenzione psicologica dell’infortunio sia ancora in fase di sviluppo, si può osservare come diverse caratteristiche giochino un ruolo predisponente, caratteristiche rispetto alle quali lo psicologo dello sport può agire, non solo lavorando con il singolo atleta, ma anche informando le altre figure tecniche (allenatori, dirigenza, squadra).

Un’attenta analisi della condizione psicosociale dell’atleta, insieme ai suoi tratti di personalità, interventi mirati alla gestione dello stress ed al miglioramento del focus attentivo, possono essere alcuni degli ambiti di interesse per lo psicologo dello sport che intenda operare in un’ottica preventiva.

Allo stesso modo, una volta verificatosi l’ infortunio sportivo, prima che l’atleta possa ritornare alla pratica sportiva, l’utilizzo di tecniche quali: goal setting, imagery e tecniche di rilassamento, potranno essere d’aiuto nel recupero psicofisico. Ridefinire e ristrutturare insieme all’atleta il significato dell’evento, unita ad una chiara valutazione ed educazione rispetto al percorso che lo coinvolgerà, sono utili passaggi per favorire l’aderenza alla riabilitazione e promuovere l’autoefficacia.

Studiare Psicologia: le borse di studio della Sigmund Freud University per l’anno scolastico 2018-2019

Sigmund Freud University – COMUNICATO STAMPA

Al fine di agevolare gli studenti meritevoli ammessi ai corsi di Laurea in Psicologia con inizio nell’anno accademico 2018-’19, la Sigmund Freud University di Milano prevede l’assegnazione di 6 borse di studio per il corso triennale e 4 borse di studio per il corso magistrale.

Per candidarsi a ottenere la borsa di studio, basterà farne richiesta entro il 7 settembre 2018 ed essere in possesso dei requisiti indicati nel bando relativo al corso di laurea d’interesse: triennale o magistrale. Entrambi i bandi di concorso sono pubblicati sul sito ufficiale SFU.

I candidati per la borsa di studio per il Corso di Laurea Triennale in Psicologia faranno parte di una graduatoria formata in base al voto del diploma di scuola superiore. I primi 2 classificati avranno diritto all’esonero totale dalla retta annua base, i successivi 4 avranno diritto all’esonero dal 50% della retta annua base.

I candidati per la borsa di studio per il Corso di Laurea Magistrale in Psicologia faranno parte di una graduatoria formata in base al voto di laurea. I primi 2 classificati avranno diritto all’esonero totale dalla retta annua base, i successivi 2 avranno diritto all’esonero dal 50% della retta annua base.

Come internet sta cambiando le nostre amicizie

Quante volte oggi hai già aperto Facebook? Letto il nuovo status “postato” da quel tuo amico di scuola di tanti anni fa? O messo “mi piace” alla foto appena pubblicata su Instagram dall’ultimo Influencer che ha attirato la tua attenzione?

 

Le relazioni sociali oggi passano necessariamente tramite i social media. Volenti o nolenti è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti.

Si tratta di un’evoluzione naturale, risultato dell’ingresso sempre più massiccio delle nuove tecnologie nella nostra vita e dal quale le relazioni sociali non sono rimaste immuni.

Cosa significa “essere amici”?

È così che il concetto stesso di “amicizia” ha subito un’evoluzione nel tempo.

In un mondo in costante comunicazione, non importa dove si trovino i nostri amici nel mondo o qual è stata l’ultima volta in cui ci siamo sentiti, l’importante è che si trovino sui social media.

Ci aiuta a comprendere meglio tale fenomeno il contributo di diversi studiosi delle relazioni sociali.

In primis, Robin Dunbar, antropologo all’Università di Oxford, tra i primi a descrivere il nostro mondo sociale come il risultato di una ridefinizione operata dai social network. Secondo lo studioso, questi siti, oltre ad aver infranto le costrizioni della geografia che limitavano le dinamiche sociali, sembrano anche aver dato avvio ad una strana competizione sul numero di amici che si possono contare sulla propria pagina personale, con cifre che possono raggiungere anche le decine di migliaia.

Dalle sue ricerche, emergerebbe anche che il maggior numero di persone con cui è possibile mantenere un rapporto significativo in una sola volta varia da 100 a 200, a seconda di quanto si è “social”. Con il proprio team di ricerca è giunto infine ad identificare quale numero massimo di amici che si possono avere 150, cifra anche detta il Numero di Dunbar.

Attive, dormienti e commemorative: le 3 tipologie di amicizia

William Rawlins propone invece una classificazione delle amicizie in tre categorie: attive, dormienti e commemorative.

  • Un’ amicizia è attiva se si è regolarmente in contatto con quella persona, se si sente che si può contare su di lei per avere un sostegno emotivo e se si è a conoscenza di quanto sta succedendo nella sua vita;
  • Un amico dormiente è qualcuno con cui si ha un passato ma con cui non si parla da un po’ di tempo; si riprenderebbero però velocemente i contatti qualora ci si trovasse nello stesso luogo, nello stesso momento;
  • Un amico commemorativo, infine, è qualcuno che è stato importante in un momento precedente della vostra vita ma che non ci si aspetta davvero di rivedere o risentire, forse mai più. Queste persone vengono ricordate con affetto, ma rimangono saldamente nel passato.

Cosa è cambiato nelle relazioni sociali per via dei social media?

Rispetto alla classificazione delle relazioni sociali proposta da Rawlins, questo è quello che ci si dovrebbe aspettare, con una generale tendenza, con l’avanzare dell’età, a trasformare sempre più amicizie attive in amicizie dormienti o commemorative, risultato di un naturale processo di crescita delle persone.

Ciò non è però propriamente vero da quando i social media si sono imposti massicciamente nel regolare le nostre relazioni sociali.

I social media ci offrono un modo per prolungare la durata delle amicizie dormienti e commemorative, che altrimenti non avremmo mai riportato nel nostro presente.

Scrivere sulla bacheca di Facebook di qualcuno o commentare il loro Instagram, permette in un certo senso di “mantenere in vita” queste amicizie attraverso un minimo sforzo.

Da un lato ciò può essere percepito come l’andare verso relazioni sociali sempre più superficiali, dall’altro, però, offre anche la possibilità, qualora lo si voglia, di riprendere le amicizie proprio dal punto in cui le si era lasciate. In una serie di interviste, Rawlins ha scoperto che molte persone si consideravano ancora amici di persone con cui non erano in contatto da molto tempo proprio perché si sentivano in grado di riprendere il rapporto da dove lo avevano lasciato.

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VIDEO – HOW THE INTERNET IS CHANGING FRIENDSHIP:

Inoltre è bene non dimenticare, che l’uso dei social media può portare un grande valore aggiunto anche nel mantenimento di quelle amicizie che vengono definite attive, aiutando ad approfondire le proprie relazioni sociali. Più piattaforme gli amici usano per comunicare, oltre a vedersi di persona, più forte è la loro relazione.

Forse è questo il regalo più grande che Internet e i social media possono offrirci: un posto dove ritrovare i nostri amici e la possibilità di riprendere rapporti dormienti anche da molto tempo proprio da dove li avevamo lasciati. Lo sforzo deve venire da sé e il gradimento di uno status non sarà sufficiente, ma quando si è pronti, i nostri amici sono lì, in tasca, in attesa di riconnettersi.

 

Articolo tratto dal video documentario di The Atlantic

 

Ogni cosa è segreta (2014) di Amy Berg – Recensione del film

Ogni cosa è segreta è un film dedicato alla ribellione filiale all’invischiamento materno, alla psicopatia infantile, al femminile e alla potenza di due emozioni in genere scarsamente analizzate in relazione all’età evolutiva: l’invidia e la colpa.

 

Ogni cosa è segreta è una produzione cinematografica del 2014 diretta da Amy Berg, scritta da Nicole Holofcener e tratta dall’omonimo bestseller di Laura Lippman Every Secret Thing, con protagoniste Diane Lane e Dakota Fanning.

Ogni cosa è segreta: come nasce il disagio mentale?

In questo film si svela sin dalle prime battute il fulcro del dramma, il crimine commesso ai danni di una minore e della sua famiglia;  ma sono le caratterizzazioni ed i significati psicologici ad addensarsi nello spettatore lentamente e ad indurlo a riflettere sulla poderosità del sadismo psicopatico, sulla ingerenza del materno, sulla potenza del sentimento di invidia e sulla gravità del sentimento di colpa.

Quanto l’interferenza materna, il direzionamento filiale genitoriale e i messaggi contraddittori parentali possono arrivare ad incidere sulla crescita mentale ed affettiva di una figlia? Quanto le emozioni di invidia e gelosia possono pesare sulla psiche di una bambina al punto da deviarla verso tendenze agite di natura psicopatica? E quanto infine il sentimento di colpa protratto, in aggiunta a comportamenti internalizzati, a bassa autostima e a scarse abilità di espressione emotiva possono tradursi in agiti contro la propria persona? La società, in relazione alle tre questioni suddette, come si pone? A favore di chi è più facile che si schieri, fornendo il suo appoggio? Quali comportamenti ed emozioni infantili ed adolescenziali sottostimiamo o siamo abituati a giustificare, senza intravederne gli esiti a lungo termine?

Ogni cosa è segreta: storie di psicopatie infantili

Il film Ogni cosa è segreta narra la vicenda di due bambine in età scolare, Ronnie Fuller (Dakota Fanning) e Alice Manning (Danielle Macdonald), emarginate, ripudiate dai pari e tristemente trascurate dalla famiglia, che -forzate a trascorrere del tempo insieme- si rendono protagoniste del crimine di un sequestro. Le due bambine vengono rappresentate da subito fisicamente e psicologicamente molto diverse tra loro, pur essendo accomunate da una equiparabile sofferenza. All’età di otto anni appena, sulla strada più ricca della città di Baltimora, trovando sotto una veranda una neonata di colore lasciata nella culla temporaneamente senza custodia, le due bambine la prelevano e la fanno propria come si tratti di una bambola, con l’illusione forse di replicare quelle dinamiche di accudimento che sono state loro negate e che appaiono ingenuamente facili da praticare.

Peccando di superficialità, di incuria e di immaturità, Alice e Ronnie somministrano alla neonata del cibo arrangiato per cani e la tengono nascosta malata in una grotta, fino a condurla alla morte. Tra le due, alle prime avvisaglie di malessere, Ronnie propone ansiosamente e responsabilmente di riportare la bimba alla famiglia, ma Alice -un po’ per malvagità e un po’ per il terrore della sanzione- si mostra in grado di manipolare sadicamente la situazione, paventando all’amica le più terribili conseguenze associate alla riconsegna, sottraendosi alla responsabilità ed intimandole di porre termine alla vita della neonata quanto prima. Passivo il personaggio di Ronnie, che acconsente alle direttive della compagna perché spaventata, meno forte e meno abile a destreggiarsi con il linguaggio e nei dinamismi del sociale. La verità del misfatto è camuffata da Alice anche quando entrambe vengono scoperte: Alice incolpa ostinatamente Ronnie di aver commesso l’omicidio in prima persona, funzionalmente a proteggere la sua reputazione e a soddisfare la sua crudeltà.

Ogni cosa è segreta: le dinamiche patologiche tra 2 bimbe ed una donna

Una piccola psicopatica, Alice, obesa ed invischiata nel rapporto con una madre critica ed intrusiva, seppur apparentemente benevola – il padre assente. Inabile ad integrarsi nella socialità e carica di affetti cattivi verso l’amica e la madre, rappresentate come oggetti persecutori da dominare e da distruggere, in Alice serpeggiano l’invidia, la gelosia e la rabbia sin dai primi dialoghi di Ogni cosa è segreta, emozioni trattenute a stento dal corpo obeso, lo sguardo rancoroso ed abile a respingere con crudezza ogni offerta di aiuto.

Divenuta adolescente ed uscita dalle pareti contenitive del carcere, Alice si dice più volte incredula di essere stata condannata parimenti all’amica, confidando nell’insussistenza di prove a suo carico, e proclamandosi ostinatamente innocente e perseguita ingiustamente. Ma la ragazza non è a conoscenza del fatto che la notte dell’omicidio, sua mamma venne in soccorso di Ronnie consegnandole un giocattolo della figlia con su il nome di Alice da apporre come prova accanto al giaciglio della neonata morta, schierandosi senza titubanze al fine di scagionare la sua pupilla. La mamma di Alice appare in qualche modo intuire gli intenti malevoli della figlia, e rintraccia in Ronnie la bambina che avrebbe desiderato: fragile, buona, devota e ricca di talenti. La donna la ricerca come compagnia più per se stessa che per la figlia, e tenta di proteggerla dalla condanna fino all’estremo sacrificio di Alice.

D’altra parte Alice – divenuta più grande di otto anni – mostra di respingere i suggerimenti materni incalzanti che la esortano ad individuare un’occupazione, ad organizzare sistematicamente il tempo e a riscattarsi dagli anni di carcere minorile: il suo fare nei confronti della madre è oppositivo, provocatorio, sarcastico e manipolativo.

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OGNI COSA E’ SEGRETA – TRAILER DEL FILM:

Ogni cosa è segreta: la crescita di Alice e Ronnie ed un secondo delitto

Alice non è solo inabile a trovare lavoro: è grassa, ritenuta ingovernabile sin da piccola, una probabile riedizione del padre nelle sue fattezze fisiche, ed è allontanata dalla madre in favore di Ronnie, lei che è “sulla sua stessa lunghezza d’onda, dotata di spirito creativo ed idee geniali”. L’invidia che Alice sperimenta in relazione a Ronnie è in diretta relazione con la gelosia per la madre, ma finisce con il riguardare altre sue qualità, che rimandano ad Alice un profondo senso di inadeguatezza: Ronnie è magra, delicata, ispira fiducia e seppur mesta e cupa si sa rapportare con gli altri. Alice la spia mentre esce dal lavoro e ne segue la dimensione quotidiana con sguardo malevolo e sentimento profondo di rivalità. Lo stile comunicativo di Alice è aggressivo e pungente, e già da bambina si mostra palese il suo desiderio non soddisfatto di accettazione e riconoscimento. La madre occulta anche a se stessa l’esito disastroso della sua funzione genitoriale, e mostra ambivalenza tra accudimento petulante ed ostilità velata. Irritata dal corpo della figlia, dalla sua indolenza e dalla sua ribellione, rivela uno stile parentale tipicamente ipercoinvolto, ove rimbalzano le pressioni reiterate, le comunicazioni contraddittorie e gli sforzi ad apparire cordiale. Alice appare fissata ad una mancata integrazione dell’oggetto originario materno, le cui parti scisse negative ha fagocitato, annichilito al suo interno come oggetti parziali persecutori e proiettato sin dalle prime fasi infantili all’esterno, sottoforma di agiti ed intenti malevoli. Alice è concentrata sull’ottenimento di un riscatto per se stessa, e il grasso di cui si circonda sin da bambina funge da scudo in grado di respingere ingerenze, rifiuti e contatti autentici con l’alterità.

Ronnie è esile, fatica ad emanciparsi dalla bassa provenienza sociale e da un passato di neglect familiare, ma si sforza di inserirsi in un’occupazione dopo l’esperienza del carcere minorile. All’interno del suo esercizio viene rappresentata stretta dalle abitudini manipolative della clientela, dalla falsità di tutta una serie di manovre che non condivide. Ronnie sarà tre volte vittima: del suo background familiare e culturale che le esaspera la fatica del riscatto sociale, dell’essersi resa colpevole e debole nel cedimento all’amica, dell’essere complice della predilezione accordatagli dalla madre di Alice. Si tratta di colpe che la ragazza non espierà mai fino all’ultimo agito del suicidio nella vasca da bagno. Ronnie è la rappresentazione sofferta della tensione emotiva trattenuta tra i denti, dell’emarginazione silente, della dignità e dell’anelito inespresso ad un mondo leale e corretto, caratteristiche tutte che – associate alla sua mitezza e alla sua riservatezza- finiscono con il renderla il personaggio ingiustamente e dolorosamente perdente dell’intera vicenda.

In Ogni cosa è segreta, il personaggio della madre di Alice, la sig.ra Manning (Diane Lane), merita anch’esso un’approfondita analisi: vittima di un’esistenza di gratificazioni assenti, tiranneggiata dalla figlia che il suo rifiuto e la sua ingerenza hanno reso falsamente obbediente, oggetto di rivendicazioni da parte dei genitori dei bambini cui insegna, è alla ricerca di un oggetto buono su cui investire e da proteggere, che individua nella piccola Ronnie. Pur apparendo insistente, intrusiva, falsamente incoraggiante ed allusiva, preoccupata di restituire la figlia ad una immagine approvata socialmente e priva della capacità di accedere ad un dialogo autentico con la stessa, la donna finisce con il soggiacere alle manovre di ricatto quotidiane di Alice.

Esattamente otto anni dopo l’avvenuto sequestro della neonata, una nuova bimba viene sottratta ai suoi genitori all’interno di un esercizio commerciale di salotti. La dinamica degli interrogatori che le forze dell’ordine attivano per il ritrovamento della bambina richiama in causa le due ragazze quali potenziali soggetti aggressori. Alice seguita miratamente e perversamente a dirottare le indagini sull’amica Ronnie, dicendola ancora unica colpevole dell’antico misfatto: è perfetta l’interpretazione di Danielle Macdonald, assente di rimorso, vergogna e colpa. Ronnie piuttosto scappa alle forze dell’ordine, inquieta ed ostile, rendendosi oggetto di una più probabile focalizzazione dei sospetti. Ma il colpo di scena che inchioda Alice alla sua responsabilità di aver deliberatamente sottratto la bambina dal salone espositivo e di seguitare ad occultare la verità a fini perversi, ne tratteggia più pienamente il profilo. All’interno delle mura del carcere minorile, Alice si sarebbe sentita desiderata da un addetto alle pulizie, lo avrebbe attirato a sé e avrebbe agito integralmente la libertà fino ad allora impeditale fuori: il desiderio di godere una sessualità altrimenti negatale, di consentirsi la trasgressione e l’espressione più ampia della propria femminilità, la conduce a concedersi senza filtri la relazione sessuale con quell’uomo, a farsi ingravidare e a pretendere di tenere il bambino. Ma la mamma di Alice ancora una volta intrude nel suo sogno, la strappa temporaneamente al carcere, la assiste nel parto e poi cede la bambina in adozione. Una soluzione che appare essere la più ovvia alla donna per sostituirsi alla figlia, ritenuta irrecuperabilmente malata, e rimediare al suo ennesimo errore. L’esito di tale ennesima privazione e disconoscimento del sé e delle proprie volontà condurrà Alice -una volta fuori dal carcere- ad alimentare astio e rancore e a passeggiare infinitamente sola per le strade della sua cittadina fino ad individuare quella che crede essere sua figlia. Le pare di intravederla nel salone espositivo per divani, riconoscendola da un segno epidermico e – aggirando lo sguardo dei genitori- senza alcun pensiero di poter loro arrecare dolore, prende con sé la piccola, fiera della sua rivalsa e della sua restituita proprietà.

Ogni cosa è segreta: l’epilogo

Totalmente dissonante con la drammaticità e la gravità della vicenda è il finale del film Ogni cosa è segreta, che vede Alice ergersi su di un pulpito e alla luce del sole – spalleggiata da avvocati terzi e perfettamente consapevole dei suoi diritti – proclamare ai giornalisti e ai media la sua intenzione di perseguire la madre, di ottenere la giustizia per sé e di riprendersi il frutto della sua maternità e la sua pretesa libertà. Sullo sfondo la Sig.ra Manning, oggetto delle profonde accuse della figlia, attonita, sbigottita di fronte al procedere degli accadimenti, vittima ella stessa di responsabilità genitoriali che ha creduto di assumersi per il bene e che ora le si ritorcono contro, impersonate dal mostro di figlia che le incede davanti, onnipotente ed indiscussa, appoggiata dai media, dalle istituzioni, dalle agenzie di trasmissione locali, e resa libera di perpetrare la sua psicopatia contro di lei, a reclamare l’innocenza ed una serie di diritti per sé che appaiono anacronistici nell’attualità e non più accordabili.

Il film sembra sostenere, nella sua conclusione, una condanna rivolta tanto alla particolarità dell’agire materno, vischioso ed ipocrita, quanto al facile appoggio conferito ad Alice dalla medialità e da una società tutta, che non ha saputo affiancare, monitorare, prevenire otto anni prima, e che sa intervenire solo oggi davanti ad un dramma replicato nella sua tragicità, aggiudicando difesa e notorietà a colei che si designa a gran voce impropriamente e con ardire psicopatico la martire ultima di un intero sistema educativo ed istituzionale.

 

Colloqui motivazionali tenuti dai robot: ci sentiamo meno giudicati

Un esperimento tenutosi nella Plymouth University ha visto all’opera dei robot umanoidi nella veste di counselor in colloqui motivazionali per aumentare l’attività fisica.

 

I colloqui motivazionali sono sessioni dialogiche in cui uno psicologo lavora con il cliente per indagare e promuovere la motivazione verso un cambiamento.

NAO robot: gli umanoidi-counselor dell’esperimento

Nel presente studio, condotto presso la School of Psychology della Plymouth University, il tradizionale counsellor umano è stato sostituito da un consulente-robot, il NAO robot della Softbank Robotics, un umanoide di 58 cm nato nel 2006. Lo studio è stato svolto su 20 partecipanti di età compresa tra i 18 ed i 61 anni, volontari della School of Psychology. L’annuncio per il reclutamento dei volontari invitava alla partecipazione soggetti desiderosi di aumentare la propria attività fisica.

Ai partecipanti reclutati è stato spiegato che avrebbero partecipato a due sessioni, di cui una tenuta dal robot-counsellor. A questo proposito il counsellor-robot NAO è stato programmato con una sceneggiatura impostata per suscitare idee e conversazioni sul cambiamento rispetto ad un aumento dell’attività fisica ed i colloqui partecipante-robot duravano circa 1 ora. La procedura è stata strutturata in due fasi, tenutesi a distanza di una settimana l’una dall’altra, in modo che i partecipanti avessero il tempo per riflettere sull’impatto del primo colloquio tenutosi riducendo al massimo la variabile “dimenticanza”.

Nella prima fase i partecipanti sono stati invitati a rispondere alle domande dei robot, toccando il sensore posto sulla testa dell’umanoide per passare alla domanda successiva. I clienti hanno potuto avere un feedback dell’ascolto del robot, infatti gli occhi di NAO cambiano colore quando ascolta la persona che ha di fronte.

Nella seconda fase, i partecipanti sono tornati al laboratorio per compilare un questionario a domande aperte sul colloquio avvenuto nella prima fase.

Colloqui motivazionali: come se la sono cavata i robot

In seguito a quanto emerso dallo studio pilota, il ricercatore principale Jackie Andrade ha spiegato come i robot possono avere vantaggi rispetto agli umani nel fornire supporto alle persone, in quanto sono percepiti come non giudicanti e questa impressione facilita i cambiamenti comportamentali.

Il ricercatore afferma:

Siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla facilità con cui i partecipanti si sono adattati all’esperienza insolita di discutere del loro stile di vita con un robot [..] molti partecipanti allo studio dell’Università di Plymouth hanno elogiato la natura non giudicante del robot umanoide NAO nel momento in cui ha dato il via alla sua sessione. Tant’è che un partecipante ha persino affermato di preferirlo ad un essere umano.

In aggiunta, i partecipanti, intervistati sull’andamento della sessione motivazionale, in seguito ad essa, hanno riportato di aver percepito l’interazione come piacevole, interessante e utile.

Ciò che i partecipanti hanno trovato utile è stato ascoltare se stessi parlando del proprio comportamento ad alta voce, apprezzando che il robot non interrompesse. Per quanto riguarda i contro, i partecipanti hanno riscontrato un’interazione ristretta e manchevole di risposte individualizzate da parte del robot.

Essendo uno studio pilota non sono state svolte delle registrazioni delle interazioni, ma durante le sessioni è emerso come il robot abbia raggiunto un obiettivo fondamentale del couselling motivazionale: NAO ha incoraggiato i clienti ed articolato obiettivi e dilemmi ad alta voce.

I punti forti dell’umanoide-counsellor sono vari e spingono i ricercatori a pensare che la ricerca possa proseguire in questa direzione, così afferma Andrade:

La preoccupazione di essere giudicati da un intervistatore umano ha determinato un alto apprezzamento della natura non giudicante del robot, suggerendo che i robot potrebbero essere particolarmente utili per suscitare confronti su questioni delicate. Il prossimo passo è quello di intraprendere uno studio quantitativo, in cui si possano misurare se i partecipanti hanno sentito l’impatto effettivo dell’intervento sull’aumento dei loro livelli di attività fisica.

 

VIDEO – IL NAO ROBOT CONDUCE UN COLLOQUIO MOTIVAZIONALE:

Vincere la dipendenza (2018) di Judson Brewer – Recensione del libro

Vincere la dipendenza offre un percorso guidato, fondato scientificamente da numerosi studi, per vincere le cattive abitudini in cui tutti possiamo cadere, imparando ad essere consapevoli e attenti.

 

Nella prefazione di Jon Kabat – Zinn, a cui siamo debitori del metodo mindfulness, ci viene ricordato che siamo alla costante ricerca di un metodo per la salvezza fuori di noi, ma che è dentro il nostro essere che dobbiamo ricercare quella completezza e unicità che possono permetterci di trascendere il dolore e la frustrazione del vivere quotidiano.

Vincere la dipendenza : il craving trattabile con la mindfulness

L’autore si pone proprio questo nobile scopo: offrire un percorso guidato per “intraprendere un viaggio all’interno della mente” e arrivare così alla completezza dell’essere, vivendo lontani da qualsiasi dipendenza.

Secondo Judson Brewer – psichiatra con una lunga esperienza nel campo delle dipendenze e direttore del Laboratorio di Neuroscienze Terapeutiche presso il “Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society” dell’Università di Medicina del Massachusetts – le dipendenze derivano da uno stato mentale, il “craving”, traducibile con un intenso desiderio rivolto verso un oggetto che ostacola la nostra innata capacità al cambiamento.

Il concetto di craving non è una novità. Questo tipo di desiderio è presente, come causa di sofferenza e infelicità, già da secoli negli insegnamenti del buddismo.

Uno dei pregi del libro Vincere la dipendenza, evidente fin dalle prime pagine, è la capacità dell’autore di far incontrare la scienza occidentale con i dettami della filosofia buddista. Il risultato di questa unione olistica è la mindfulness, una pratica di meditazione formale e uno stile di vita che l’autore utilizza e studia da vent’anni come trattamento del craving.

Il segreto del metodo illustrato da Brewer è prestare attenzione. Essere consapevoli del nostro funzionamento e del nostro reagire alle esperienze dolorose è il primo passo per arrivare ad un reale stato di benessere.

Craving: arriva quando ci convinciamo di non farcela

Nel manuale Vincere la dipendenza viene mostrato come, quando non ci sentiamo bene, invece di affrontare la radice del problema, tendiamo a cadere in un bias (l’errore cognitivo) che ci convince che la soluzione reale non sia alla nostra portata e che abbiamo assolutamente bisogno di qualcosa che ci consoli.

In questa prospettiva, poco importa se l’oggetto consolatorio è un gelato, una sigaretta o un like su Instagram, il meccanismo alla base è sempre lo stesso: il craving. Questo modello, in cui impariamo ad associare lo stare bene a una ricompensa è quello dell’apprendimento studiato a partire dagli anni ’50 grazie all’opera di B.F. Skinner. Più ricerchiamo l’oggetto, più rinforziamo il nostro bisogno dell’oggetto e quindi la dipendenza da esso. Il problema, nel medio termine, è che la ricompensa ha un effetto benefico solo momentaneo e che per fare in modo che il desiderio rimanga soddisfatto, dobbiamo continuamente ricercare l’oggetto consolatorio, rinforzando, ovvero rendendo più forte, il craving. Sul lungo periodo la ricerca della ricompensa non si basa nemmeno più sull’ottenimento di un benessere, ma sull’evitamento del malessere che la sua assenza ormai causa. A lungo termine avremo aggiunto al problema reale, la dipendenza dalla strategia utilizzata per evitarlo.

Ciò che rende diverso Vincere la dipendenza dagli altri manuali di aiuto per le dipendenze, è che non opera insegnando a reprimere questi desideri, promuovendo una presunta forza di volontà o la prospettiva di una diversa ricompensa, sempre momentanea, ma illustra come arrivare a un cambiamento stabile attraverso la consapevolezza del qui ed ora.

Dipendenze: la mindfulness per relazionarsi con se stessi diversamente

Grazie alla pratica mindfulness quello che viene proposto è un nuovo modo di relazionarsi con se stessi. Vincere la dipendenza non affronta solo le dipendenze “classiche” come le sostanze stupefacenti, l’alcol, il fumo o il cibo. L’autore ci mostra come anche la relazione con gli altri, il rapporto con noi stessi, l’amore o addirittura il pensiero possono causare assuefazione.

Il tono non è mai accademico. Brewer parte sempre dalla sua prospettiva personale. Il libro è costellato, infatti, di esempi aneddotici legati alle difficoltà, alle crisi, alle delusioni e alle cadute in qualche forma di dipendenza che l’autore ha incontrato nel corso della vita e di come è stato possibile superarli, cambiando prospettiva e diventando più consapevole di quello che stava succedendo.

Vincere la dipendenza è divisa in più parti. Si inizia con la spiegazione di come si instaura il craving e il percorso di ricerca scientifica che ha portato l’autore a perfezionare il suo modello terapeutico e di auto-aiuto. Prosegue con con l’approfondimento di diversi tipi di situazioni e modi di essere alla base della dipendenza: l’uso della tecnologia, l’egoismo, le relazioni, perfino sognare ad occhi aperti, per esempio, possono tutte condurre alla dipendenza.

Mindfulness: con la gentilezza disinteressata ci prendiamo cura di noi

Il manuale prosegue con spiegazioni approfondite e consigli tecnici su come migliorare le pratiche meditative. Viene anche approfondito il metodo del surfing che permette di “cavalcare l’onda” del craving e tornare in uno stato mentale non desiderante e di flow, concetto a cavallo tra fisiologia e psicologia che si basa sul lavoro dello psicologo ungherese CsÍkszentmihályi e che è al centro degli insegnamenti buddisti. Il flow è uno stato di coscienza profonda dato dall’essere completamente coinvolti in un’esperienza. Viene promossa, poi, la pratica della gentilezza disinteressata, fare il bene per il bene stesso e non per ottenere una qualche ricompensa, che secondo le evidenze scientifiche non fa stare solo bene e in armonia con gli altri, ma costituisce uno dei modo più efficaci di modificare la mente.

Infine, viene spiegato come allenare la propria resilienza, ovvero l’abilità di riprendersi in modo adattivo dalle difficoltà. Vincere la dipendenza si conclude con un appendice dedicata alla valutazione della personalità, con tanto di test, che Brewer e i suoi ricercatori utilizzano per individuare i tipi di personalità in relazione al modo di vivere le esperienze.

Tra i numerosi pregi di quest’opera vi è quello di approfondire un modello terapeutico delle dipendenze presentando l’approfondito lavoro di ricerca sul quale questo modello si fonda. Un libro che permette, con un linguaggio scorrevole e facilmente comprensibile anche ai non addetti ai lavori, di avvicinarsi, non solo alle neuroscienze e alla psicologia cognitiva e comportamentale, ma anche di scoprire gli insegnamenti millenari delle filosofie orientali, adattando il tutto al metodo della mindfulness che negli ultimi anni ha acquisito una credibilità scientifica sempre maggiore. Meditare per credere!

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