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Il talamo: anatomia e funzioni – Introduzione alla Psicologia

Il talamo è una area cerebrale posta sotto la corteccia. Si tratta, di una sorta di computer interno che garantisce l’apprendimento ricavando, dall’esperienza sensoriale, informazioni che trasforma in impulsi da trasmettere alla corteccia cerebrale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il talamo si trova nel sistema nervoso centrale, esattamente nel diencefalo, ed è posto bilateralmente ai margini del terzo ventricolo.

Anatomia del talamo

Il talamo è in gran parte formato da sostanza grigia e, in minima parte, da sostanza bianca situata nello strato zonale superiore e nelle lamine midollari interna ed esterna. In generale il talamo presenta 4 aree:

  • Superiore, delimitata dalla stria midollare e dal solco opto-striato che lo separano dal nucleo caudato, dal fornice e dal pavimento della cella media del ventricolo laterale;
  • Mediale, la parete laterale del terzo ventricolo;
  • Inferiore, confina con l’ipotalamo tramite interposizione del solco ipotalamico di Monro, che collega i primi due ventricoli con il terzo;
  • Laterale, definita capsula interna che la divide dal nucleo lenticolare.

I nuclei intralaminari, presenti nello spessore della lamina midollare interna del talamo, determinano la formazione del nucleo centro-mediano, del nucleo reticolare posto lungo la superficie laterale e dei nuclei della linea mediana. La lamina midollare esterna separa il nucleo reticolare dal resto della sostanza grigia talamica.

Internamente, il talamo è costituito da addensamenti nucleari che formano una lamina verticale di sostanza bianca avente una forma a “Y”, grazie alla quale è possibile individuare una ripartizione dello stesso in nuclei: anteriori, mediali e laterali.

Nuclei anteriori del talamo

I nuclei anteriori del talamo sono posti all’interno della biforcazione della Y, della lamina midollare interna del talamo e inferiormente al tubercolo talamico anteriore. Essi sono: il nucleo antero-dorsale e il nucleo antero-mediale. Le principali afferenze che giungono a questa area sono costituite dal tratto mammillo-talamico che proietta al nucleo anteromediale e, a sua volta, invia informaizoni al nucleo antero-dorsale. Inoltre, ricevono afferenze colinergiche dal tronco encefalico, che proiettano, di conseguenza, al giro paraippocampico, al giro del cingolo e alla corteccia limbica anteriore. Questi nuclei pare siano coinvolti nell’acquisizione della memoria e nella regolazione dello stato d’allerta e quindi dell’ansia.

Nuclei posteriori del talamo: mediali e laterali

I nuclei mediali del talamo sono composti dal nucleo mediodorsale e da altri sei nuclei collocati sulla linea mediana. I nuclei mediodorsali sono composti da una parte mediale, formata da grandi cellule dette magnocellulari, da una parte dorsolaterale costituita da piccole cellule o parvocellulare, e da un’area aderente alla lamina midollare interna o paralaminare. A questa area afferiscono informazioni olfattive provenienti dalla corteccia piriforme e dall’amigdala. Questa area, a sua volta, invia informazioni al lobo frontale, alla corteccia prefrontale e alle aree imputate alla percezione olfattiva. Una serie di altri fascicoli efferenti da questa area proiettano al giro del cingolo e all’insula. La componente parvocellulare, posizionata posteriormente, è connessa alla corteccia prefrontale, al giro del cingolo e alla corteccia motoria supplementare. Questa parte del talamo si presume sia implicata nei processi cognitivi legati all’occhio e nella percezione del dolore.

Il nucleo laterale del talamo si divide in diverse parti:

  • Dorsale, riceve informazioni dal pretetto e dal collicolo superiore. Questa parte è connessa con le cortecce cingolata, retrosplenica e paraippocampale posteriore, con la corteccia parietale e con il presubiculum della formazione ippocampale;
  • Posteriore, contiguo al nucleo dorsale e al nucleo ventrale posteriore. Si connette con il lobo parietale superiore e le sue afferenze sottocorticali derivano dal collicolo superiore;
  • Caudale, o pulvinar, si trova tra il nucleo genicolato laterale e il nucleo genicolato mediale e si collega con la via visiva extragenicolata;
  • Ventrale anteriore, riceve gli impulsi dall’area motoria soppressoria attraverso il globus pallidus. Quest’area è connessa con il putamen tramite fibre afferenti l’area motrice primaria e secondaria;
  • Ventrale laterale, consente di collegare la corteccia cerebellare alla corteccia cerebrale tramite le fibre cerebello-rubre-talamiche e cerebello-talamiche e proietta fibre alle aree motrice primaria e secondaria.
  • Ventrale posteriore, è formato dal nucleo posterolaterale intercalato alle vie sensitive del lemnisco mediale, del lemnisco spinale, del lemnisco trigeminalee del lemnisco viscerale, delle fibre bulbo-talamiche e dalle fibre gustative.

Questi ultimi due nuclei contengono una rappresentazione topografica completa del corpo e da qui partono le fibre che veicolano informazioni all’area sensoriale primaria.

Inoltre, sono presenti nel talamo dei nuclei intralaminari, che ricevono afferenze dalla corteccia motoria primaria; i nuclei della base e dalla formazione reticolare, e i nuclei parafascicolari che ricevono afferenze dalla corteccia premotoria. Si assume che questi nuclei integrino le informazioni corticali e subcorticali relative al movimento.

Il nucleo reticolato e quelli della linea mediana ricevono, inoltre, afferenze dalla formazione reticolare.

Il corpo genicolato laterale, il nucleo reticolare talamico e il pulvinar sono caratterizzati da specifici schemi di connessione afferente ed efferente che derivano dalla via ottica e inviano fibre alla radiazione ottica. Inoltre, il corpo genicolato mediale riceve dalla via acustica e invia fibre alla radiazione acustica.

Funzioni svolte dal talamo

Da un punto di vista funzionale, il talamo è in grado di aggiunge alla percezione sensoriale l’aspetto emotivo, unisce informazioni motorie, tramite i circuiti pallido-talamo-corticale del sistema extrapiramidale e cerebello-talamo-corticale, al tono muscolare, invia informazioni alla corteccia encefalica e associa dati provenienti da diverse aree corticali.

Il talamo apprende, seleziona e controlla le informazioni in ingresso in relazione a ogni esperienza acquisita. Quindi, i condizionamenti appresi durante l’arco della vita sono memorizzati dal talamo che, successivamente, sulla base di questa informazione riesce a bloccare una serie di impulsi considerati dannosi per l’individuo.

Il talamo, dunque, rappresenta una sorta di sorvegliante presente nel nostro corpo che concorre a decidere quali sono le emozioni e i pensieri consentiti. Il talamo è la struttura cerebrale che entra in funzione quando si considerano adeguate solo le informazioni coerenti con quelle già presenti, perché congrue a quanto appreso durante l’arco di vita. Si creano, di conseguenza, modelli, valori, obiettivi, regole grazie alle quali è possibile regolare e gestire il comportamento messo in atto da ogni persona.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le voci dentro. Storia e scienza del dialogo interiore (2018) di C. Fernyhough – Recensione del libro

Le voci dentro indaga la natura del pensiero umano. Fernyhough ripercorre come l’uomo ha definito e spiegato il pensiero nel corso dei secoli e il punto di vista scientifico attuale.

 

Il pensiero si muove

afferma Charles Fernyhough nel suo saggio dal titolo Le voci dentro e aggiunge:

Il pensiero crea qualcosa dove prima non c’era nulla, senza aver bisogno di alcuna direzione dettata dal mondo esterno. Questo è parte di ciò che ci rende distintamente umani

Le voci dentro: distinzione tra self talk e psicosi

Nel suo saggio Fernyhough si interroga sulla natura del pensiero umano, esaminando come ci si sente ad essere trascinati dalla corrente del proprio flusso di coscienza. Sembra che il linguaggio interiore non sia onnipresente, tuttavia è presente nell’esperienza di molte persone in modo significativo e con ruoli diversi. Il linguaggio interiore, noto anche come self talk ci fornisce una prospettiva su noi stessi che potrebbe essere l’elemento chiave per pensare in modo flessibile e creativo.

Attraverso la descrizione di ricerche scientifiche e grazie ad un variegato numero di riferimenti culturali l’autore di Le voci dentro ci spiega come funzionano le nostre voci interiori, specificando che “sentire le voci” non sempre è sintomo di psicosi, anzi ci mostra come il nostro pensiero può alimentare processi creativi ed evolutivi.

In modo interessante l’autore cerca di modificare le comuni opinioni sugli “uditori di voci”, riportando i casi di scrittori e letterati che per primi hanno trasformato il proprio flusso di coscienza e le proprie voci interiori in opere di fama mondiale. L’Ulisse di Jaimes Joyce e alcuni scritti di Virginia Woolf ad esempio, sono la prova provata che il dialogo interiore è alla base della creatività.

Tutti gli scrittori sentono le voci – disse un autore di fantascienza in un’intervista del 1990 – ma come sono queste voci? Hanno qualcosa in comune con le voci degli “uditori di voci” o delle persone con schizofrenia?

A queste e ad altre interessanti domande Fernyhough cerca di dare una risposta nel corso del suo interessante saggio.

Le voci dentro: dalle voci divine ai processi creativi

Attraverso un susseguirsi di riferimenti culturali, l’autore ci aiuta a capire che le voci che sentiamo nella nostra testa sono le voci della nostra personalità, del nostro genitore interiorizzato e del nostro Io che dialogano tra di loro; per la maggior parte di noi queste voci vengono classificate come pensieri, tranne in casi di forte stress emotivo e fisico. Se tutto ciò è abbastanza comprensibile per noi, pare non lo fosse in modo così chiaro per i nostri antenati, ad esempio nell’Atene del quarto secolo, era abbastanza comune che una voce interiore fosse identificata come “voce divina”. Diversi sono infatti i capitoli di Le voci dentro che l’autore dedica all’esplorazione di questo tema nel passato, passando da Socrate all’Illiade e all’Odissea.

Oltre ai riferimenti culturali, l’autore dedica alcuni capitoli ai pazienti con psicosi e schizofrenia e al modo in cui la psicoterapia può esser di aiuto per dare un senso alle proprie voci e imparare a gestirle. In particolare, secondo l’approccio Hearing Voices Movement, riportato dall’autore, lo scopo è quello di incoraggiare gli uditori di voci a cercare di capire gli eventi di vita dai quali deriva il disagio emotivo che le voci stanno esprimendo.

La domanda che dovremmo porci non è quale sia il tuo problema, ma quale sia la tua storia

Le voci dentro: le allucinazioni potrebbero originare da una dissociazione post-traumatica

In merito a questo aspetto Fernyhough si chiede se alcune esperienze allucinatorie abbiano caratteristiche simili a quelle dei ricordi e ritiene che un approccio alternativo sia vedere se chi sente le voci presenta alcune differenze nel modo di elaborare i ricordi.

Ci sono ormai solide evidenze del fatto che esiste un collegamento tra allucinazioni uditivo-verbali ed esperienze precoci traumatiche, anche se occorre essere prudenti. L’anello mancante nel collegamento tra trauma e voci allucinatorie potrebbe essere il fenomeno psicologico conosciuto come “dissociazione”, e può darsi che la dissociazione descriva un qualcosa che è presente in ognuno di noi che si manifesta in versione estrema in persone che hanno vissuto esperienze traumatiche.

Concepire le voci all’interno di questa cornice consente di gestire in modo diverso l’esperienza allucinatoria. Se le voci riguardano almeno in parte ciò che è accaduto a qualcuno, allora forniscono anche qualcosa su cui lavorare e offrono una prospettiva di guarigione.

Come può la musica aiutare i pazienti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza?

La musica può essere una strada alternativa per comunicare con pazienti affetti da malattia di Alzheimer, nei quali la memoria linguistica e visiva sono danneggiate precocemente, aiutandoli a ritrovare un contatto con la realtà.

 

I ricercatori della University of Utah Health stanno sviluppando trattamenti basati sulla musica per aiutare ad alleviare l’ansia nei pazienti affetti da demenza. Lo studio, che verrà pubblicato su The Journal of Prevention of Alzheimer’s Disease, ha focalizzato l’attenzione sul funzionamento del Salience Network.

Il Salience Network (SN) è una rete cerebrale che ha lo scopo di rilevare e successivamente elaborare stimoli significativi per l’individuo. Sorprendentemente, questa regione collegata con le strutture limbiche, viene risparmiata dagli effetti della malattia di Alzheimer.

Un precedente lavoro aveva dimostrato l’effetto di un programma musicale personalizzato sull’umore nei pazienti affetti da demenza, alla luce di ciò e, esplicitando lo scopo della ricerca, il professor Jeff Anderson ha dichiarato:

Le persone affette da demenza si trovano di fronte a un mondo sconosciuto che causa disorientamento e ansia. Noi riteniamo che la musica abbia accesso al Salience Netowrk del cervello, che non viene intaccato in questi pazienti. Non ci spingiamo ad affermare che la musica possa essere una cura per la malattia di Alzheimer ma di certo potrebbe rendere i sintomi più gestibili e migliorare la qualità della vita dei pazienti.

Gli effetti della musica su pazienti con Alzehimer: lo studio sperimentale

Per lo svolgimento della ricerca, gli studiosi hanno guidato i partecipanti nella scelta di una playlist di canzoni significative e insegnato a pazienti e caregivers l’utilizzo di un lettore multimediale portatile. Utilizzando poi la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori hanno osservato le imaging cerebrali dei pazienti durante l’ascolto dei brani scelti e in condizioni di controllo.

Ciò che ne è emerso è che la musica sembra attivare il cervello generando comunicazione tra intere regioni cerebrali: nell’ascoltare i brani personali infatti l’area visiva, prefrontale, cerebellare e il Salience Network (SN) hanno mostrato una connettività funzionale significativamente più elevata rispetto a quanto accadeva nelle condizioni di controllo.

Norman Foster, autore senior dello studio e direttore del centro per l’Alzheimer presso l’University of Utah Health ha affermato:

Questa è una prova oggettiva che dimostra come la musica con una valenza personale possa essere una strada alternativa per comunicare con pazienti affetti da malattia di Alzheimer. La memoria linguistica e visiva sono danneggiate precocemente con il progredire del morbo, ma programmi musicali individualizzati possono attivare il cervello specialmente in quei pazienti che perdono il contatto con la realtà.

Nonostante i risultati sicuramente sorprendenti e che aprono ad interessanti prospettive future, è bene considerare alcuni limiti consistenti di questo studio. Innanzitutto, il disegno sperimentale includeva una singola sessione di imaging per ciascun paziente, ciò significa che non è possibile giungere a conclusioni certe circa l’influenza della musica sull’attivazione cerebrale a lungo termine. Inoltre gli autori hanno segnalato l’esigua numerosità dal campione, composto da soli 17 partecipanti. Insomma, quello che è stato fatto è sicuramente un passo importante verso nuove forme di trattamento per pazienti affetti da malattia di Alzheimer, ma è importante non fermarsi qui.

Sulle righe, tra le righe: come il lettore interpreta il testo

Definire il ruolo del lettore nei confronti della letteratura, nel tempo, è sempre stata una questione complicata dalla quale sono sorte diverse teorie.

 

Dai modelli classici, fino ai linguisti ed agli strutturalisti, studiare le funzioni dell’interpretazione, la simbologia e la struttura è stato sempre significativo, perché questo lascia scoprire la posizione del lettore:

  • Saussure, con la sua teoria linguistica, in cui il legame tra significante e significato diventa arbitrario
  • Levi-Strauss, strutturalista, che paragona il cervello umano ad una struttura e ad un sistema in cui ogni fenomeno viene analizzato e separato dal suo background storico di valori
  • Sigmund Freud, che collega i fenomeni (qui il testo) all’inconscio e considera la libertà del lettore nella comprensione e nella produzione di significati
  • Roland Barthes, da scrittore francese edonista, introduce il piacere del testo e i suoi aspetti gioiosi.

Insieme a questi, molti altri ancora hanno fatto passi importanti per rafforzare la posizione del lettore nei confronti di un testo letterario

Leggere: un atto interpretativo

La lettura di un testo (qui una storia) per il lettore è iniziare un viaggio spazio-temporale verso un mondo sconosciuto, che prende forma in base all’intenzione dell’autore, al testo ed alla mente del lettore. In questo viaggio le parole, oltre ad essere significanti, fanno da tramite alle idee.

Quando si legge in una storia la frase di fronte al ponte di legno mi sono allacciato strette le scarpe, il tono predominante deriva dall’immaginazione e dall’interpretazione del lettore dell’“Io”, questo ipotetico “Io” che è una creatura sconosciuta, nata dagli stessi fattori: autore, testo e lettore. Mentre procede con la lettura, il cervello umano non solo attribuisce caratteristiche personali all’“Io”, ma ne ripete anche le parole ad alta voce, facendole risuonare. Lasciando da parte quella classe di lettori che, tendenzialmente, si immedesimano meno nell’opera o quelli che cedono al testo l’assoluta padronanza sul presente, perché sia compreso ed intrepretato, si ha una maggioranza di lettori che, immergendosi nella lettura, per ogni personaggio della storia, immaginano una certa voce da poter distinguere, scelta in base alla descrizione del carattere nel testo e all’interpretazione del lettore stesso. La scelta finale di questa voce spetta al lettore, nonostante essa possa essere descritta, nella storia, come la voce di uno specifico personaggio.

Secondo l’ipotesi di Freud sull’inconscio, questa scelta potrebbe derivare dagli impulsi sessuali. La voce di un personaggio che il lettore ritiene negativo, sicuramente si avvicina alle persone negative ch’egli avrà memorizzato nei propri ricordi. Nel paragrafo…

..ha tirato fuori di colpo la pistola che aveva nascosto sotto il vestito e ha puntato verso il proprietario del negozio e ha detto: «butta sul banco tutti i soldi e l’oro che c’è, altrimenti ti faccio scoppiare la testa!»

il lettore sente una voce nella testa che emerge, forse, dal personaggio di un film o da un’esperienza personale in una atmosfera simile. Nel paragrafo

Io ti amo, capisci? Vorrei che tu fossi mia per sempre ed io tuo

ci si trova di nuovo davanti alla medesima procedura: la voce che sentiamo nella nostra testa proviene da un ricordo o da un desiderio personale, oppure è la voce degli attori di uno spettacolo cinematografico o teatrale che abbiamo in mente. Il lettore, anche durante la lettura di una poesia procede nello stesso modo, aiutandosi con il background personale nella scelta delle voci. Se, invece, si prende in considerazione un testo più pragmatico rispetto al testo letterario, come un libro di filosofia o un articolo scientifico, ci allontaniamo notevolmente dal suddetto viaggio spazio-temporale e dall’immaginazione dei suoni, e ci accontentiamo della nostra stessa voce.

Riflettendo su quest’argomento ed analizzando il lettore dal punto di vista psicologico, a questo riguardo, possiamo dedurre la sua relativa libertà nel mondo del testo che è rimasta largamente distante dalle ideologie prevalenti sulla lingua.

Qui il lettore, al di là di qualunque interpretazione, analisi e piaceri sadistici del testo (indicati da Roland Barthes nel suo libro Il piacere del testo dove usa il termine intermittence), in base al suo gusto personale ed ai ricordi prescelti della sua vita, entra nel mondo del testo e, attribuendo delle voci ai personaggi, lo riproduce e crea il suo mondo immaginario.

Perché la flora batterica influenza il nostro comportamento?

Uno studio di Johnson e Foster dell’Università di Oxford, pubblicato su Nature Reviews Microbiology, offre una nuova prospettiva sulla relazione mente-corpo investigando i legami tra cervello, flora batterica e intestino.

 

Una crescente mole di studi sta documentando gli effetti dei microrganismi intestinali, il cosiddetto microbiota, sul cervello e sul comportamento, tanto da coniare un termine per descrivere questa relazione: asse microbiota-intestino-cervello (Rhee, Pothoulakis & Mayer, 2009).

Per esempio, studi animali hanno mostrato come il trapianto del microbiota fecale, da un ratto ad un altro, possa far sì che i tratti comportamentali del ricevente si accomunino con quelli del donatore (Bercik et al., 2011) o come i Lactobaccilli e Bifidobatteri possano ridurre sintomi ansiosi e depressivi sia negli animali che negli umani (Pinto-Sanchez, Hall et al., 2017).

In particolare è stato evidenziato come la specie dei Lactobacilli possa favorire le interazioni sociali in un gruppo di ratti sottoposto a condizioni stressanti ristabilendo la produzione compromessa di ossitocina (Bharwani, Mian, Surette et al., 2017).

È stato inoltre osservato come la specie dei Bacteroides sembrerebbe in grado di migliorare i comportamenti ripetitivi e ansiosi facilitando la produzione di uno specifico metabolita batterico (Hsiao, McBride, Hsien et al., 2013).

Sulla base di queste evidenze è lecito chiedersi quali siano i meccanismi che consentono al microbiota intestinale di influenzare il sistema nervoso e di conseguenza il comportamento e comprendere le ragioni per cui il microbiota influenza il comportamento dell’organismo ospite.

Manipolazione della flora batterica: uno studio sperimentale

A tal proposito Johnson e Foster, appartenenti la prima al dipartimento di psicologia sperimentale e l’altro a quello di zoologia di Oxford, hanno recentemente affrontato l’argomento suggerendo un’ipotesi evoluzionistica circa la manipolazione del comportamento da parte dei microorganismi batterici sull’organismo ospitante (Johnson & Foster, 2018).

Per spiegare gli effetti sul comportamento, l’ipotesi dei ricercatori prevede che essi si determinino come effetto secondario della manipolazione del microbiota sull’organismo ospitante.

Ogni tipo di manipolazione locale sull’ambiente intestinale da parte dei microorganismi produce degli effetti nel sistema neuro-enterico attraverso la comunicazione tra il sistema enterico e nervoso (Rao & Gershon, 2016). In particolare la flora intestinale sembra essere in grado di modulare la motilità intestinale tramite specifici metaboliti che, a loro volta, influenzano la produzione di serotonina nell’organismo ospitante tramite il nervo vago e i suoi neuroni afferenti (Forsythe & Kunze, 2013).

Alcuni sostengono anche che il microbiota possa influenzare il metabolismo e la disponibilità del precursore della serotonina, il triptofano che passando la barriera ematoencefalica aumenta i segnali serotoninergici nel sistema nervoso centrale (O’Mahony, Clarke, Borre et al., 2015).

Pare che la flora batterica abbia anche un ruolo cruciale nell’attivazione dei precursori della dopamina e della noradrenalina nell’intestino (Asano, Hiramoto et al., 2012).

Il microbiota può determinare degli effetti sull’umore e sul comportamento dell’organismo ospitante non solo tramite le connessioni dell’asse microbiota-intestino-cervello ma anche agendo sul sistema infiammatorio riducendo le risposte infiammatorie. Uno studio animale condotto da De Palma e colleghi (2017) ha evidenziato come un gruppo di topi, a seguito del trapianto di microorganismi fecali provenienti da animali con sindrome dell’intestino irritabile, mostrassero un comportamento ansioso solo quando in loro si attivava una risposta immunitaria.

Conclusioni

La raccolta di questi studi ha messo in luce i meccanismi, tramite i neurotrasmettitori e i collegamenti con il sistema immunitario, che consentono al microbiota di influenzare il comportamento dell’organismo ospitante.

Tuttavia Johnson & Foster (2018) hanno suggerito che queste influenze del microbiota possano essere dovute a quella che loro definiscono la “dipendenza dell’organismo ospitante”, per cui quest’ultimo sviluppa una dipendenza nei confronti del microbiota, dipendenza che occorre all’organismo per rispondere agli stati di malattia e relativi alla nutrizione.

Seguendo questa idea, per i ricercatori (2018) il normale funzionamento fisiologico dell’organismo ospitante dipenderebbe dal microbiota che fornisce all’organismo stesso informazioni circa lo stato relativo alla sua nutrizione, al senso di sazietà e al cibo.

L’organismo necessita di alcune informazioni basilari per poter sopravvivere e molte di queste provengono dall’asse microbioma-intestino-cervello; pertanto qualsiasi alterazione della composizione del microbioma intestinale, come nel caso dell’assunzione di antibiotici o una contaminazione batterica patogena, è associata a dei cambiamenti a livello delle funzioni cerebrali e del comportamento (Johnson & Foster, 2018). Da qui l’idea che alcuni ceppi di probiotici possano essere usati per migliorare e favorire la salute mentale (Wallace & Milev, 2017).

Festa in onore del Prof. Ezio Sanavio

È stata una bella celebrazione quella del 9 maggio in onore di Ezio Sanavio che chiudeva la sua carriera accademica. La festa è avvenuta nell’aula magna “Cesare Musatti” dell’Università di Padova dove il prof. Sanavio ha insegnato fino a quest’anno.

Di fronte alla platea sono sfilati amici e colleghi del professore, ora professori illustri e ora clinici dediti all’artigianato del lavoro sul campo. Tutti hanno raccontato sia ricordi personali, ora commossi e ora divertenti, che i risultati scientifici e clinici di un lavoro pluridecennale. Dagli inizi della psicoterapia cognitiva e comportamentale italiana ai giorni nostri, tutto è stato narrato senza risparmiare nulla.

Abbiamo così appreso che malgrado il grande successo internazionale del Padua Inventory- uno dei pochi questionari non provenienti da un paese anglo-sassone diventati un golden standard dell’accertamento cognitivo comportamentale- il prof. Ezio Sanavio detesta i test e non tiene in gran conto questo che è il suo prodotto scientifico più famoso. Un po’ come Petrarca, se ci perdonate la sorridente ironia di paragonare il prof. Sanavio al grande poeta, che sottovalutava il suo capolavoro, il Canzoniere, a favore di altre opere meno note. E però è bene anche dare ascolto al professore e porre attenzione a questi suoi figli meno noti, prima di tutti il CBA (cognitive behavioural assessment), il pacchetto di valutazione e accertamento cognitivo di cui è così orgoglioso (Sanavio, 2002). Oppure il manuale del 1991, una delle opere più esaustive sulla psicoterapia cognitiva e comportamentale.

Lo raccontano Davide Dettore, Paolo Moderato e Sandra Sassaroli, tra i colleghi più noti a festeggiarlo. Lo raccontano anche le colleghe del suo staff clinico Susanna Pizzo e Silvana Cilia, e infine i suoi allievi più giovani, Davide Coradeschi, o i colleghi clinici come Emilio Franceschina. E anche quelli anziani che hanno condiviso con lui perfino gli anni di università, come Cesare Cornoldi, suo coinquilino negli anni di studio.

Una carriera compiuta insomma, fondamentale nell’introdurre in Italia i concetti prima del funzionalismo comportamentale e poi della terapia cognitiva e comportamentale, attenta a custodire i principi più rigorosi di questo approccio ma anche ad aprirsi alle integrazioni nel senso migliore del termine o ai nuovi sviluppi di scuola processuale.


Sandra Sassaroli intervista il Prof. Ezio Sanavio per State of Mind:

 

Il Coping Power Program per il trattamento multimodale del bambino difficile

Il Coping Power Program (CPP) è un programma di intervento di prevenzione secondaria e trattamento multimodale di comprovata efficacia rivolto alle famiglie e ai bambini di età compresa tra i 7 e i 14 anni per la gestione ed il controllo dell’aggressività, dell’impulsività e della rabbia.

Alessandra Bulgarelli, Elisa Lai – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze

 

Il Coping Power Program (CPP) (Lochman e Wells, 2002) è un programma di intervento di prevenzione secondaria e trattamento multimodale di comprovata efficacia (Lochman e Wells, 2004; van de Wiel et al., 2007; Zonnevyelle-Bender et al., 2007) rivolto alle famiglie e ai bambini di età compresa tra i 7 e i 14 anni per la gestione ed il controllo dell’aggressività, dell’impulsività e della rabbia.

Coping Power Program: le basi teoriche

Le basi teoriche del Coping Power Program, di matrice cognitivo-comportamentale e derivato dagli studi sull’eziologia dell’aggressività, sono fondate sul Contextual Social-Cognitive Model (Lochman e Wells, 2002). Tale modello teorico vede l’aggressività del bambino come la risultante diretta e/o indiretta di fattori di rischio ambientale sia sociale che legati al contesto familiare come ad esempio la presenza di conflitti tra i coniugi, depressione nella madre, rifiuto materno, stili educativi eccessivamente permissivi o autoritari, scarso supporto sociale, abuso familiare o extrafamiliare, maltrattamento, contesto urbano o culturale di tipo delinquenziale, basso stato socio economico ecc. (Lochman et al., 2008).

Secondo questo modello i fattori di rischio biologici (fattori genetici, complicanze neonatali, anomalie neurotrasmettitoriali, fattori genetici e temperamentali ecc) conducono allo sviluppo di un disturbo del comportamento dirompente in età evolutiva, esclusivamente se associati ai fattori di rischio ambientali sopracitati.

L’iterazione dei fattori di rischio biologici ed ambientali predispongono lo sviluppo di una modalità di elaborazione dell’informazione sociale distorta e deficitaria che induce il bambino (prevalentemente) a percepire e valutare i segnali sociali interpersonali come ostili e a reagirvi con condotte comportamentali aggressive (Lochman e Dodge, 1994); e inoltre a sviluppare delle strategie di Problem Solving interpersonale scarse ed inefficaci che gli inducono a valutare l’aggressività come l’unica e la più efficace possibilità da utilizzare per la modulazione emotiva e per la regolazione delle relazioni interpersonali (Lochman e Lenhart, 1993; Lochman e Wells, 2003). Più nello specifico tale modello teorico prevede, innanzi alla “situazione problema”, una continua e dinamica interazione reciproca tra:

  1. Lo stile cognitivo di valutazione (Appraisal);
  2. L’attivazione fisiologica indotta (Arousal);
  3. La risposta comportamentale attuata per fronteggiare la situazione (Problem Solving) (Williams et al., 2003).

Partendo dal modello teorico appena descritto gli autori svilupparono nel 1993 l’Anger Coping Program, un programma di gruppo di gestione della rabbia rivolto esclusivamente ai bambini, che è stato recentemente modificato ed ampliato, introducendo anche delle sessioni di gruppo di Parent Training, per originare il Coping Power Program (Lochman e Wells, 2002). Sebbene fosse stato originariamente ideato per l’applicazione al contesto scolastico viene utilizzato, attualmente con ottimi risultati, in numerosi contesti clinici europei (Van de Wiel et al., 2007; Zonnevylle-Bender et al., 2007).

Coping Power Program: la struttura degli interventi

Come già accennato precedentemente il Copig Power Program prevede anche una componente per genitori; il lettore interessato a questa ha a disposizione svariati articoli presenti in letteratura. (Muratori, Polidori, Ruglioni, Manfredi, Milone e Lambruschi, 2010; Muratori, Vaccaro, Farinella, Manfredi, Polidori, Ruglioni, Pezzica e Milone, 2012) e sul manuale CPP (Lochman et al., 2012).

Il Coping Power Program è un trattamento multimodale effettuato in setting di gruppo. Per quanto riguarda la struttura degli interventi con i bambini, il Coping Power Program si propone di sostenere i bambini nel modulare i segnali fisiologici delle emozioni e in particolare della rabbia, nel riconoscere il punto di vista altrui (perspective taking) nell’acquisire strategie per un maggior autocontrollo nel risolvere in modo adeguato situazioni conflittuali attraverso l’apprendimento di abilità sociali e di problem solving. Inoltre è previsto l’utilizzo di contratti comportamentali (chiamati “traguardi”) in cui vengono stabiliti obiettivi minimi scolastici (individuati durante gli incontri con insegnanti) al cui raggiungimento è associato un sistema a premi.

Tra i principali strumenti che vengono impiegati dal Coping Power Program si annoverano l’interazione di ogni partecipante con il gruppo dei pari e il role-playing. In particolar modo, il percorso di trattamento si basa su numerose attività di “provocazione strutturata” in cui i membri del gruppo fungono da attivatori emotivi per il bambino che in quel momento si sta esercitando nell’applicazione, ad esempio, di una tecnica di auto-controllo al fine di incrementare in vivo, durante una situazione in cui il bambino è emotivamente attivato, l’apprendimento delle tecniche di gestione della rabbia.

La componente dedicata ai genitori, invece, è strutturata in incontri di gruppo strutturati in sessioni di Parent Training che hanno l’obiettivo di sviluppare e potenziare le competenze genitoriali relative a diverse aree quali: la promozione dell’organizzazione e delle abilità di studio, la modulazione dello stress genitoriale, l’utilizzo di appropriate pratiche educative, l’incremento della comunicazione famigliare e la progettazione di momenti di condivisione con i figli.

 

Il modello trifasico di Pierre Janet per il trattamento del trauma

A Pierre Janet (1989/1911) si deve l’introduzione del Modello Trifasico: egli infatti, considerato oggi il padre della psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente.

 

Il trattamento delle sindromi trauma-correlate (PTSD, PTSD complesso, Disturbi Dissociativi) vede nel panorama scientifico attuale molti strumenti clinici dedicati e validati scientificamente per lavorare con pazienti che hanno vissuto storie di grave traumatizzazione.

Il nucleo centrale dei disturbi dissociativi è costituito infatti dalla “non realizzazione”, parziale o completa, degli eventi traumatici vissuti. La non realizzazione è più intensa nei casi di grave traumatizzazione avvenuta nell’infanzia, ma può essere molto persistente anche a seguito di eventi di minaccia alla vita vissuti in età adulta.

Questa “non realizzazione” è la principale causa della sintomatologia, poiché da un lato offre una difesa dal dolore, ma allo stesso tempo alimenta la divisione interna (dissociazione) peggiorando la sofferenza psicologica e il funzionamento della persona nella vita quotidiana, sia sul piano personale che relazionale. La cornice di lavoro è molto variabile a seconda della gravità della sintomatologia e dei rischi per il paziente, dunque è necessario rendere il percorso di cura graduale e adeguato alle capacità di elaborazione e di tolleranza emotiva che le persone portano in psicoterapia.

Pierre Janet (1989/1911), padre della moderna psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente. Da allora questo modello, detto Modello Trifasico, è rimasto lo standard di cura per il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso e per i Disturbi Dissociativi (Brown e Fromm, 1986; Courtois, 1999,2008; Herman, 1997; Howell, 2011; International Society for the Study of Trauma and Dissociation-ISSTD, 2011; Loewenstein e Welzant, 2010; van der Hart, 2006).

Modello trifasico

  • Fase 1 del Modello Trifasico: stabilizzazione
    Gli obiettivi terapeutici di questa fase riguardano la riduzione dei sintomi, la stabilizzazione del funzionamento nella vita quotidiana, l’iniziale lavoro di creazione di un’ alleanza terapeutica, l’iniziale lavoro di riconoscimento della parti dissociative e il contenimento delle emozioni soverchianti legate ai ricordi traumatici. La cura di sé, delle relazioni e delle principali attività quotidiane sono centrali in questa fase per aumentare senso di controllo e di autoefficacia nella gestione quotidiana.
  • Fase 2 del Modello Trifasico: elaborazione delle memorie traumatiche
    In questa fase il lavoro terapeutico è centrato sull’elaborazione dei ricordi traumatici, attraverso episodi specifici, immagini, aspetti sensoriali e cognitivi delle esperienze passate. L’integrazione dei ricordi traumatici che di volta in volta la persona riesce a tollerare, verso la soluzione dei legami di attaccamento disfunzionali con gli aggressori e verso la risoluzione delle fobie tra le parti dissociative, al fine di aiutarle ad essere più orientate al presente, riconoscendo i legami ma anche la distanza del passato traumatico rispetto alla vita quotidiana.
  • Fase 3 del Modello Trifasico: intergrazione della personalità e riabilitazione
    Gli obiettivi terapeutici di questa fase sono: rafforzare le risorse, accettare il cambiamento e il lutto per le perdite del passato, costruire relazioni più funzionali e nutritive, sviluppare un senso di sé unificato e costruire le capacità di vivere pienamente la vita quotidiana.

 

Le conseguenze psicologiche e psichiatriche della disoccupazione

Differenti ricerche hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una condizione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità. Inoltre, in condizioni di disoccupazione di lunga durata bisogna dare supporto con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato.

 

Attualmente molte persone in Europa vivono l’esperienza della perdita del lavoro, seguita da un periodo più o meno lungo di disoccupazione. Differenti ricerche negli ultimi anni si sono occupate di evidenziare le correlazioni che esistono fra disoccupazione e benessere personale. Studi epidemiologici svolti in ambito europeo e statunitense hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una situazione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità. Recenti ricerche hanno messo in evidenza che nella disoccupazione di lunga durata non solo bisogna dare supporto con gli ammortizzatori previsti dallo stato sociale, ma anche con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato. Questi interventi, afferenti all’ambito cognitivo – comportamentale, devono incrementare l’autoregolazione emotiva, le abilità comunicazionali e le capacità di coping, ritenuti fondamentali per il mantenimento del benessere nei momenti di difficoltà.

Keywords: recessione, disoccupazione, benessere, patologie mentali, autoregolazione emotiva, abilità comunicazionali, capacità di coping.

Disoccupazione e psicopatologia

Attualmente molte persone in Europa vivono l’esperienza della perdita del lavoro, seguita da un periodo più o meno lungo di disoccupazione. In alcuni paesi dell’Unione Europea la disoccupazione si attesta su valori percentuali abbastanza elevati, raggiungendo altissime percentuali per quel che riguarda la popolazione giovanile, la fascia di età al di sotto dei 25 anni. Differenti ricerche negli ultimi anni hanno evidenziato le correlazioni che esistono fra disoccupazione e benessere personale. Studi epidemiologici svolti in ambito europeo e statunitense hanno mostrato che un livello socio-economico basso, derivante da una situazione di disoccupazione, rappresenta una criticità che incrementa la comparsa di patologie e implementa il tasso di mortalità (Harvey Brenner, 2016). Nello specifico, una disoccupazione di lunga durata è interrelata con un aumento del rischio di malattie cardiache, di ictus, di malattie mentali e incrementa, inoltre, la probabilità di suicidio (Vågerö e Garcy, 2016; Myles e al., 2017; Garcia e al., 2016).

Una condizione di minor introito economico, derivante dalla mancanza di lavoro, di fatto determina un minor ricorso ai percorsi di cura, ovvero il disoccupato di lunga durata sa di non avere le risorse per potersi curare. Questa consapevolezza ha degli effetti negativi sulla salute mentale, determinando sintomi depressivi, disturbi psicosomatici e abuso di alcol e droghe (Stuckler e al., 2009). Inoltre, il più basso livello di entrate, il più delle volte sotto forma di sussidi statali, produce delle ripercussioni a largo raggio sulla famiglia del disoccupato di lunga durata. Specificatamente, i figli dei disoccupati accedono a livelli più bassi d’istruzione e questo ha un riverbero sulla successiva possibilità d’impiego, creando nella prole un incremento della possibilità di divenire a propria volta disoccupati. Infatti, nella perdita del lavoro le prime categorie ad essere colpite sono quelle che presentano una bassa specializzazione, derivante da una minore istruzione (Stuckler e al., 2009).

Disoccupazione e interventi a supporto della salute mentale

Recenti ricerche hanno messo in evidenza che nella disoccupazione di lunga durata non solo bisogna dare supporto con gli ammortizzatori previsti dallo stato sociale, ma anche con programmi sanitari finalizzati, orientati a preservare la salute del disoccupato (Urbanos-Garrido e Lopez-Valcarcel, 2015). A tal riguardo, sono stati sollecitati nelle economie europee più deboli degli interventi di questo tipo con l’obiettivo di preservare il benessere dei disoccupati (Santos e al., 2018). In tale ambito gli uomini appaiono più vulnerabili (Classen e Dunn, 2012): infatti, la condizione maschile di disoccupazione incrementa la disgregazione del nucleo familiare, con frequenti divorzi (Jalovaara, 2002), episodi di violenza domestica (Bowlus e Seitz, 2006) e un maggior numero di suicidi all’interno del nucleo familiare (Milner e al., 2013).

Gli interventi proposti, afferenti all’ambito cognitivo – comportamentale, devono incrementare l’autoregolazione emotiva e le abilità comunicazionali, ritenuti fondamentali per il mantenimento del benessere nei momenti di difficoltà (Creed, Machin e Hicks, 1999). In aggiunta, tali programmi di supporto psicologico devono implementare le capacità di coping di ogni disoccupato: infatti, moltissime ricerche (Blau e al., 2013; Sadeh e Karniol, 2012; Sojo e Guarino, 2011) hanno sottolineato che gli individui che hanno perso il lavoro mantengono più a lungo il loro benessere in funzione delle capacità di coping che posseggono.

In conclusione, gli Stati più colpiti dai processi recessivi in ambito economico, con conseguente incremento del numero dei disoccupati, dovrebbero approntare, oltre che degli ammortizzatori sociali, anche degli interventi terapeutici volti a salvaguardare il benessere dei disoccupati.

Trattamento delle fobie: è possibile utilizzare la tecnica dell’esposizione senza che il paziente ne sia consapevole?

Nonostante l’ esposizione sia la tecnica d’elezione nel trattamento della fobia specifica e di altri sintomi ansiosi, spesso rappresenta per i pazienti un ostacolo troppo grande determinando anche l’interruzione del percorso terapeutico.

 

Un recente studio di Taschereau-Dumouchel, Cortese, Chiba, Knotts e colleghi, apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha testato la possibilità di utilizzare la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e metodi di rinforzo neurale su pazienti, per ridurre l’attivazione psicofisiologia fobica senza la necessità di esporli direttamente nel contesto modificando in modo inconsapevole l’attività neurale.

La terapia basata sull’ esposizione è uno degli approcci più efficaci nel ridurre l’ansia, il panico e i comportamenti di evitamento nei confronti di specifici oggetti, situazioni o contesti, come nel caso della fobia specifica (Craske, 2014).

L’ esposizione è una tecnica che consiste nel far entrare in contatto l’individuo con ciò che più teme per consentirgli di esperire gli stati d’ansia e paura, estremamente invalidanti e spiacevoli, che solitamente la situazione elicita e che egli vive come intollerabili. L’obiettivo di tale tecnica, infatti, è quello di dimostrare all’individuo ansioso che è possibile fronteggiare la situazione fobica e sopravvivere a quegli stati psicofisiologici che lo mettono molto a disagio, modificando al contempo le proprie credenze disfunzionali circa l’impossibilità di far fronte a quello stimolo avversivo.

L’ esposizione risulta essere efficace nei confronti dei disturbi d’ansia in quanto consente all’individuo di apprendere che affrontando la sua paura non accadrà nulla di spaventoso, prendendo consapevolezza delle proprie risorse (Craske, 2014).

Lo scopo di tutto questo è ridurre le reazioni di ansia e paura e contrastare i comportamenti di evitamento che i pazienti ritengono essere le uniche soluzioni praticabili per non esperire più quegli stati psicofisiologici così negativi.

Proprio per queste ragioni spesso l’ esposizione si presenta come una sfida non facile da affrontare e molti pazienti, nonostante siano guidati gradualmente da psicoterapeuti, interrompono prematuramente il percorso terapeutico a causa delle prime difficoltà che sorgono: essi infatti sono poco motivati a voler riprovare le sensazioni sgradevoli che gli stimoli avversivi evocano in loro, nonostante siano assolutamente consapevoli, grazie alla psicoeducazione, che questo sia l’unico modo per ridurre l’ansia, la paura e per riappropriarsi della propria esistenza.

Esposizione: è possibile praticarla senza che il soggetto ne sia consapevole?

È possibile dunque esporre il soggetto al proprio stimolo fobico, senza che egli ne sia consapevole, evitando così che abbandoni il percorso di terapia?

Taschereau-Dumouchel e colleghi (2018) hanno voluto testare questa ipotesi utilizzando un metodo chiamato iperallineamento e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per verificare l’efficacia pre e post-trattamento.

Nello specifico, lo scopo dello studio sperimentale, condotto in doppio-cieco in sei sessioni, è stato quello di sviluppare un metodo del tutto inconsapevole in grado di “riprogrammare” le risposte psicofisiologiche elicitate dagli stimoli avversivi bypassando il disagio psicofisiologico causato da un’ esposizione fatta in modo consapevole.

Per lo studio sono stati reclutati 29 partecipanti subclinici e sono state presentate loro più di 3 mila immagini, alcune delle quali emotigene, cioè in grado di elicitare nei soggetti un certo livello di arousal, altre aventi invece una valenza neutra. Ciò ha consentito ai ricercatori di confrontare, iperallineare, tramite risonanza magnetica funzionale, l’attivazione fisiologica legata a specifiche immagini emotigene con specifici pattern cerebrali coinvolti nel processamento di stimoli fobici ed ottenere dei profili legati alla paura relativi a determinate immagini (Taschereau-Dumouchel et al., 2018).

Un passo oltre: cosa succede in pazienti con diagnosi di fobia specifica?

A seguito della costruzione di questi profili “di paura” tramite l’iperallineamento, i ricercatori hanno voluto testare se fosse possibile generalizzare questi profili a pazienti con una diagnosi di fobia specifica e al tempo stesso verificare l’accuratezza dell’iperallineamento.

Per testare tale ipotesi, i ricercatori hanno reclutato 17 pazienti con fobia specifica, in particolare di animali (serpenti ecc.), che sono stati sottoposti a sei sessioni, distribuite in 5 giorni, di cosiddetto “rinforzo neurale” nelle quali i partecipanti osservavano solo le immagini neutre a seguito di un rinforzo monetario.

In queste sessioni di rinforzo, i ricercatori hanno allineato i pattern di attivazione neurale con le medie delle risposte neurali registrate nei soggetti subclinici con le immagini emotigene (Taschereau-Dumouchel et al., 2018). È bene sottolineare che per tutta la durata delle sessioni ai soggetti veniva misurata la conduttanza cutanea come misura fisiologica dell’arousal emotivo.

Dopo le sei sessioni di training, nei pazienti si è osservata una riduzione dell’arousal fisiologico e amigdalico suggerendo una diminuzione generale delle reazioni legate alla paura, senza però che ad essi fossero mai presentate immagini emotigene-avversive (Taschereau-Dumouchel et al., 2018).

Dal momento che lo studio è stato condotto in doppio cieco, nessun partecipante era a conoscenza dell’intento dello studio.

Conclusioni

In conclusione, al di là della complessità della metodologia proposta dallo studio, Taschereau-Dumouchel e colleghi (2018) hanno investigato l’opportunità di utilizzare i recenti sviluppi della risonanza magnetica funzionale per creare un nuovo metodo basato sull’attivazione e sul rinforzo neurale da utilizzare negli approcci psicoterapeutici per i disturbi d’ansia.

Questo studio, per primo, ha evidenziato come le risposte fisiologiche specifiche legate alle paura possono essere ridotte in modo inconsapevole tramite la tecnica dell’iperallineamento senza esporre l’individuo a stimoli fobici.

Preoccupazioni per il peso o la forma del corpo, paura di aumentare di peso, sentirsi grasso e esiti del trattamento in pazienti con anoressia nervosa: uno studio longitudinale

Nel campo dei disturbi dell’ alimentazione la ricerca non ha ancora chiarito se la preoccupazione per l’immagine corporea rappresenti una caratteristica chiave della psicopatologia o più semplicemente un epifenomeno.

Selvaggia Sermattei

 

Infatti, mentre alcuni autori hanno recentemente proposto di considerare l’ anoressia nervosa (AN) come un mero disturbo dell’ immagine corporea, altri ritengono che questa concettualizzazione sia riduttiva e semplicistica rispetto alla natura multifattoriale del problema. Per quanto la revisione della storia del disturbo mostri come la paura del peso sia stata descritta raramente fino al 1930, ad oggi, c’è evidenza in letteratura della relazione fra il timore di aumentare di peso e un più alto livello di psicopatologia nell’ anoressia nervosa e sul ruolo della preoccupazione per l’immagine corporea nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione.

Di fatto, la moderna teoria transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione considera la preoccupazione per l’immagine corporea una caratteristica clinica che deriva direttamente dall’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, cioè dalla psicopatologia specifica e centrale della maggior parte dei disturbi dell’alimentazione. Sulla base di questo presupposto, la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E), derivata dalla teoria stessa e che ha un’efficacia basata sull’evidenza scientifica, mira proprio ad affrontare queste caratteristiche.

Tuttavia, pochi studi, ad oggi, hanno valutato le principali componenti cognitive della preoccupazione per l’immagine corporea (“Preoccupazione per il peso o la forma del corpo”, “Paura di aumentare di peso”, “Sentirsi grassi”) e nessuno studio ha analizzato il loro ruolo nell’influenzare gli esiti a lungo termine in pazienti con disturbo dell’alimentazione trattati con la CBT-E.

Le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea: il ruolo nel mantenimento dei DCA e negli esiti del trattamento

Al fine di fornire ulteriori dati utili al riguardo, l’equipe di ricerca della Casa di Cura Villa Garda ha recentemente effettuato e pubblicato sulla prestigiosa rivista Behaviour Research and Therapy, uno studio con i seguenti obiettivi:

  • Valutare le traiettorie di cambiamento nel tempo delle tre principali componenti della preoccupazione per l’immagine corporea (“Preoccupazione per il peso o la forma del corpo”, “Paura di aumentare di peso” e “Sentirsi grassi”) in pazienti con anoressia nervosa trattati con la CBT-E ospedaliera;
  • Valutare la relazione fra i cambiamenti nel tempo delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea e il cambiamento delle principali misure di esito del trattamento, cioè Indice di Massa Corporea (IMC), psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione (misurata con l’EDE 12.0, in particolare considerando le sottoscale Restrizione Dietetica e Preoccupazione per l’Alimentazione), psicopatologia generale (misurata con il Brief Symptom Inventory) e funzionamento sociale e lavorativo (misurato con la Work and Social Adjustment Scale);
  • Valutare se le tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea (misurate al basale e a fine terapia) possano essere considerate predittrici del cambiamento a lungo termine delle misure di esito della CBT-E.

Il campione è stato reclutato fra i pazienti con diagnosi di Anoressia Nervosa secondo il DSM-IV (ad eccezione del criterio dell’amenorrea) che richiedevano un trattamento presso l’Unità di Riabilitazione Nutrizionale di Villa Garda, che propone una forma di CBT-E adattata per il ricovero della durata di 20 settimane (di cui 13 di ospedalizzazione e 7 di day-hospital). Costituivano criterio di esclusione dallo studio la presenza, in comorbilità con l’AN, di uno stato psicotico acuto o di abuso di sostanze continuativo in atto.

Tutte le valutazioni (sia delle misure di esito della terapia sia delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea, misurate attraverso singoli item dell’EDE) sono state effettuate al momento del ricovero (basale), alla dimissione (fine terapia), a 6 e 12 mesi di follow-up. Il campione è costituito da 66 pazienti con AN, di cui 98% donne, con un’età media di 26.1 anni (DS=5.9) e un IMC al basale di 14.7 kg/m² (DS=2.1). L’84.8% ha concluso il trattamento, tutti i pazienti hanno completato il follow-up a 6 mesi e il 92.9% lo ha concluso a 12 mesi.

I risultati indicano che al basale, le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea correlano con la psicopatologia generica e specifica.

In particolare, la “Preoccupazione per il peso e la forma del corpo” correla significativamente con i punteggi della psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione (in particolare con la sottoscala dell’EDE “Preoccupazione per l’Alimentazione”), la psicopatologia generale e il funzionamento sociale e lavorativo.

La “Paura di aumentare di peso” correla significativamente con le stesse variabili, e anche con la sottoscala dell’EDE “Restrizione Dietetica”.

Il “Sentirsi grassi” correla positivamente con l’IMC, la Preoccupazione per l’Alimentazione e la psicopatologia generale.

Per quanto riguarda gli esiti del trattamento, i risultati mostrano che tutte le variabili considerate ottengono un miglioramento significativo, con una traiettoria di cambiamento più rapida inizialmente (durante il ricovero) e successivamente più lenta (dopo la fine della terapia).

Quando le tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea sono state considerate come possibili predittori di esito, è stato riscontrato che la “Preoccupazione per il peso o la forma del corpo” predice il cambiamento della preoccupazione per l’Alimentazione, la psicopatologia generale e il funzionamento sociale e lavorativo.

L’analisi dell’associazione tra le traiettorie di cambiamento nel tempo, indica che alla riduzione della “Paura di aumentare di peso” corrisponde una riduzione della Restrizione Dietetica, e viceversa.

Infine, l’analisi di regressione univariata mostra che più bassi punteggi della “Paura di aumentare di peso” al basale predicono un peso salutare sia a 6 che a 12 mesi di follow-up e che più bassi punteggi a fine terapia in tutte e tre le componenti della preoccupazione per l’immagine corporea predicono un peso salutare (IMC>18.5) a 6 mesi di follow-up.

Nel complesso, questi risultati contribuiscono senza dubbio al miglioramento delle nostre conoscenze sulle diverse componenti della preoccupazione per l’immagine corporea in pazienti con AN e sulla loro interazione con le principali misure di esito della CBT-E ospedaliera.

In particolare, i risultati delle correlazioni al basale che indicano, che una maggiore sensazione di essere grassi è associata ad un peso più alto, fornisce un’informazione aggiuntiva alla comprensione della psicopatologia dell’ Anoressia Nervosa.

Un ulteriore dato importante che lo studio fornisce, riguarda la conferma dell’efficacia della CBT-E ospedaliera nell’ottenere buoni risultati in tutte le misure di esito oltre che una riduzione significativa delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea dal basale ai 12 mesi di follow-up. Questo dato, risulta essere in linea con precedenti studi che avevano indagato la riduzione della distorsione dell’immagine corporea e delle preoccupazioni per il peso e le forme del corpo, ma bisogna considerare che comunque questo è il primo studio ad indagare specificatamente le tre componenti e a provarne la loro significativa riduzione nel tempo. Gli autori ipotizzano che questo risultato sia da attribuire all’efficacia delle procedure che la CBT-E prevede per affrontare le espressioni della psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione. Inoltre, i risultati delle traiettorie di cambiamento delle tre componenti della preoccupazione per l’immagine corporea, che, se pure con una decelerazione, continuano a migliorare dopo la dimissione, sono in linea con i risultati attesi dalla CBT-E che fornisce strategie utili ad affrontare le preoccupazioni anche dopo la fine della terapia.

Il risultato che indica che una maggior preoccupazione per il peso o la forma del corpo al basale predice un più lento cambiamento nel tempo delle preoccupazioni per l’alimentazione, della psicopatologia generale e della compromissione del funzionamento sociale e lavorativo, se confermato, può indicare che le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo effettivamente, giocano un ruolo importante nella psicopatologia dell’AN e quindi dovrebbero sempre essere valutate e affrontate dai trattamenti.

Ulteriore importanza è da attribuire all’associazione riscontrata fra il miglioramento nel tempo della paura di aumentare di peso e il miglioramento della restrizione dietetica. Infatti, nonostante lo studio non sia in grado di fornire una direzionalità a questa correlazione, gli autori ipotizzano che quest’ultima può essere ridotta direttamente dall’affrontare la restrizione dietetica, dato che la CBT-E affronta direttamente la restrizione dietetica ma non la paura di aumentare di peso.

Infine, il potere predittivo che le tre componenti sembrano avere nella possibilità di ottenere un peso salutare a lungo termine conferma la necessità di monitorare la preoccupazione per l’immagine corporea e suggerisce che le strategie designate ad affrontare queste caratteristiche durante il trattamento dovrebbero essere migliorate per i pazienti con Anoressia Nervosa.

Lo studio pur presentando alcune limitazioni (come la bassa numerosità del campione o la valutazione delle componenti dell’immagine corporea utilizzando un solo item per componente) fornisce senza dubbio un contributo importante alla comprensione dei meccanismi di mantenimento della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione suggerendo che la CBT-E ospedaliera è in grado di produrre una riduzione significativa e duratura della preoccupazione per l’immagine corporea. Inoltre, questi dati forniscono supporto all’ipotesi della preoccupazione per l’immagine corporea come una caratteristica chiave della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione e non come un mero epifenomeno. Gli autori concludono incoraggiando i clinici che si occupano di pazienti con Anoressia Nervosa ad attuare terapie che abbiano come specifico focus di trattamento il miglioramento di questa caratteristica clinica e auspicano che ricerche future possano confermare questi dati e soprattutto far luce sui meccanismi attraverso i quali la preoccupazione per l’immagine corporea si modifica durante il trattamento.

 

L’ insegnante narcisista e le dinamiche dannose con i colleghi e gli alunni

L’ insegnante dai tratti di personalità narcisistica attiva con i colleghi e con gli alunni alcune dinamiche dannose. E’ necessario riconoscerle e supportare gli studenti.

 

I più recenti fatti di cronaca (Gazzetta di Parma; Il resto del Carlino; Il Fatto Quotidiano) occorsi nell’ambito del contesto scolastico hanno acceso ampie discussioni sulle ragioni per cui alcuni studenti si legittimino tanto facilmente ad agire pesanti aggressioni contro il personale docente e l’Istituzione educativa. 

Adolescenti, società narcisista e famiglia

Gli esperti e la letteratura (Twenge, 2006; Millon e Davis, 2000; Beck e al., 1990; Recalcati, 2013) identificano alternativamente variabili psicologiche, familiari, sociologiche e pedagogiche. Alcuni autori argomentano che l’attuale società sia prevalentemente orientata verso valori di tipo narcisistico ( Lasch, 1978; Recalcati, 2013; Paris, 2014 ), sposando i quali il ragazzo si presenterebbe autocentrato, si attenderebbe un accesso facile alle fonti di piacere ed immediate gratificazioni, pretenderebbe indulgenza, uno sgravio dalle frustrazioni e dalle responsabilità ed esprimerebbe per lo più con il suo comportamento consumistico ed iperconnesso un mancato interesse e rispetto per l’Alterità.

Le principali problematicità dell’adolescente nella società odierna si concentrano intorno al culto del corpo e della visibilità, all’intolleranza per la critica e per il conferimento del limite, alla gestione delle emozioni nella intersoggettività e alla difficoltà di individuazione di una direzione progettuale definita. Tale caratterizzazione socio-psicologica non facilita nel contesto scolastico di scuola secondaria inferiore e superiore l’educazione a dismettere l’onnipotenza, ad ammettere l’esistenza di un Altro e ad accettare la disconferma, l’insuccesso o l’imperfezione.

La posizione dei docenti si fa ancora più difficile allorché la famiglia si ponga in maniera intrusiva e disconfermante come alleata del figlio, impegnata a che non sperimenti sofferenza; in tal caso è facile che vengano rintracciate nell’opera del personale educativo scolastico le cause del disadattamento o della scarsa prestazione filiale, finendo con il rinforzare l’ipersensibilità del ragazzo alla valutazione stessa.

Oggi si sottolinea da più parti quanto sia divenuto arduo il mestiere dell’insegnante al pari di quello del genitore, dal momento che ambedue le figure rivestono lo scomodo ruolo di chi pone un contenimento alla pulsionalità, di chi formula un giudizio, di chi si sforza di inoculare la passione per l’impegno e la progettualità.

L’ insegnante narcisista

Ma cosa accade quando ad essere portatrice di tratti di personalità narcisistica è proprio la figura del docente? Come può avvenire che i tratti di colui che dovrebbe rappresentare un modello e che si pone come potenziale oggetto di emulazione o soggetto ispiratore si traducano nell’impossibilità di apprendere serenamente per il gruppo classe o per alcuni allievi, in una coartazione della creatività, in limitazioni più o meno ampie all’espressione libera del Sé, in un’assunzione di potere inoppugnabile e tirannica o in autolegittimazioni a palesare manifestazioni o contenuti poco congrui con il contesto dell’apprendimento? Come riconoscere l’ insegnante narcisista e quali strategie possono essere suggerite per arginare la sua onnipotenza?

Il contesto educativo inevitabilmente comporta dinamiche di rispecchiamento che possono promuovere o inibire la crescita dell’alunno. Ma il cuore della pedagogia narcisistica vede l’insegnante sperimentare gli studenti non come il centro della propria attività ma come una parte di se stesso: l’oggetto di investimento affettivo sarebbe idealizzato quando lo studente rispecchia in toto il docente ed abbandonato quando egli gli si discosta in qualche modo (C. L. Hess, 2003).

La letteratura più recente mostra come tratti di personalità narcisistica del docente possano pesantemente influenzare gli esiti dell’apprendimento e della formazione educativa dei singoli alunni, come pure il clima vigente nel gruppo-classe ed il successo dell’Istituzione scolastica in cui egli è inserito (Jandaghi G. e al., 2015; Westerman J.W. e al., 2016).

In Narcissism in Management Education, J.Z. Bergman, J.W. Westerman e J.P. Daly, dell’Appalachian State University (2010), riconoscono come tanto nelle organizzazioni professionali, quanto in quelle educative, la grandiosità, la mancanza di empatia, la pretesa di godere di trattamenti di favore e privilegi, combinati con l’autorità derivata dal ricoprire una posizione di potere, possa tradursi nell’operato di individui che più facilmente distruggono l’educazione morale e la motivazione, impegnati come sono a tutelarsi da offese percepite e a denigrare le idee altrui al fine di recuperare il focus su di sé. I narcisisti al potere sperimenterebbero altresì una profonda fallacia nel processo di decision making: essi non tollererebbero facilmente chi dissente e spesso si circonderebbero di adulatori, dipendenti in toto dal pensiero del leader. I narcisisti avrebbero inoltre difficoltà ad integrare nuove conoscenze e ad apprendere dagli errori, nel senso che difficilmente mostrerebbero oggettività di pensiero, prenderebbero in considerazione nuovi dati, o consulterebbero altri portatori di un pensiero critico costruttivo. Imparare dagli errori implica riconoscere che si può migliorare le proprie abilità a partire dal fallimento o dal feedback negativo derivato dall’azione, mentre i leader narcisisti si irrigidiscono e si attestano su posizioni risentite, di fronte alla propria caduta. Le decisioni che prendono sono spesso superficiali, con una scarsa analisi delle condizioni in gioco e senza l’apporto della conoscenza altrui, finendo con il decidere in modo avventato, sull’onda della grandiosità, e delle fantasie di potere e successo illimitato.

L’ insegnante narcisista e le relazioni con i colleghi

E’ ipotizzabile che il maestro o professore narcisista assuma in relazione ai colleghi i seguenti comportamenti (G. Jandaghi e al., 2015; C.L.Hess, 2003; Bergman J.Z. e al., 2010):

  • mostri uno schema pervasivo di grandiosità, fierezza, senso di specialità, preoccupazione per il successo e auto assorbimento, sia esso overt e covert
  • sia dipendente dalle conferme esterne, specialmente di quanti occupino posizioni di rilievo in Dirigenza, preoccupandosi di riceverne attenzioni e attendendosi trattamenti speciali; in alcuni casi il bisogno di conferma ed ammirazione potrebbe essere celato sotto un apparente stacanovismo ed una devozione instancabile al lavoro e alla pratica intellettuale
  • non si accosti interattivamente ad altri colleghi suoi pari per conversazioni informali, fiero della sua identità distinta e superiore, o ne ricerchi la vicinanza solo quando possa trarne gratificazioni o protezione
  • tema il rifiuto relazionale e lo scadimento della propria immagine agli occhi dei superiori e rifugga tutte le occasioni per il timore che accada
  • si mostri particolarmente sensibile alla vergogna indotta da valutazioni critiche e feedback negativi: vulnerabile ad offese, rimostranze ed osservazioni, egli potrebbe attivare in difesa forti attacchi rivolti all’esterno
  • dinanzi a fallimenti o prestazioni inadeguate che lo riguardino, ricorra all’iperrazionalizzazione, allo scopo di giustificare e rendere accettabili i propri comportamenti e individuandone più facilmente la causa in fattori esterni e situazionali; è incapace di assumersi la responsabilità per i propri comportamenti fallimentari o inadeguati
  • mostri una possibile ideazione paranoidea in relazione alla minaccia percepita al senso grandioso di sé, alimentando il sospetto di un qualche abuso o di invidia da parte dei colleghi o delle famiglie, ed attivando meccanismi di difesa proiettivi e autoprotettivi
  • non rispetti gli altrui diritti e sentimenti, inabile ad assumere empaticamente la prospettiva altrui, con il risultato di rendere difficili le relazioni interne al Collegio Docenti, e con la probabilità che palesi atteggiamenti arroganti o di chiusura ostinata
  • asserisca con determinazione e sprezzo che gli altri non hanno il diritto di criticarlo, mentre egli facilmente si autorizza alla critica altrui, non fidandosi, ed aggredendo chi si permetta di domandare in merito alle sue decisioni
  • si attenda impropriamente trattamenti di favore e privilegi dai colleghi del Collegio docenti o dell’Istituto, come l’essere esonerato dalle difficoltà o dai compiti più duri, fino a sottrarsi alle regole che valgono per gli altri e a quanto non risponda al suo interesse o non gli procuri un immediato riscontro; se questo non accade, potrebbe gridare all’ingiustizia e al disordine organizzativo, indignandosi perché non ci si muove in accordo alle sue preferenze e alla sua convenienza
  • induca i colleghi a lavorare al suo posto, cerchi opportunità per sfruttarne le competenze o individui i compiti interni che con più probabilità lo conducono ad una più elevata considerazione sociale, tralasciando le mansioni routinarie
  • non ammetta che i colleghi possano conoscere ciò che egli non sa, sperimentando reazioni emotive negative alla percezione di trovarsi in uno stato di ignoranza e trovando difficoltà ad accettare nuovi punti di vista rispetto al suo schema interpretativo; nel contesto di una riunione con finalità di discussione didattica, il narcisista potrebbe irrigidirsi ed attivare una pesante conflittualità
  • non sappia lavorare in team, essendo sostanzialmente incapace di interdipendenza, più o meno apertamente competitivo e sperimentando invidia per i meriti riconosciuti ai colleghi (Chatterjee e Hambrick, 2007).

L’ insegnante narcisista in relazione con i singoli alunni e il gruppo-classe

In relazione agli studenti è probabile che il professore con tratti di personalità narcisistica (C.L. Hess, 2003)

  • conduca le sue lezioni con energia, avvolto da un’aura di carisma, seduttivo o enfatico nell’uso del linguaggio e della comunicazione non verbale, mentre indulge in fantasie di illimitata ammirazione da parte dei suoi alunni
  • palesi un senso di sé ipertrofico per almeno qualche caratteristica (doti culturali, fisiche, estetiche, curriculum formativo o esperienziale, veicolate come impareggiabili)
  • si ponga come Ideale da emulare acriticamente senza dare spazio all’iniziativa personale e alle idee indipendenti dell’alunno, rinforzando processi di imitazione bieca e passiva e pretendendo la riproduzione esatta delle sue parole
  • non consenta di ampliare la sua eredità di conoscenze in maniera soggettiva o critica, respingendo qualunque giudizio espresso personalmente dall’alunno che non si coniughi con quanto egli crede, impedendo creatività e vitalità dello scambio intellettuale e forzando l’alunno a rispecchiare se stesso
  • si mostri eccessivamente sensibile alle critiche, ai mancati apprendimenti attesi, alla messa in discussione dei suoi imperativi, mostrando disappunto, offesa, azioni di rivalsa, manovre di distacco e disconferma ( negazione del contatto oculare, tensione corporea, rifiuto ) o applicando inaspettatamente l’autoritarismo
  • eserciti sugli alunni considerati suoi subalterni la sua superiorità, facendo il bello e il cattivo tempo sull’onda dei suoi umori, mostrando alternativamente fascinazione e atteggiamenti arroganti e minacciosi
  • disponga verifiche ed organizzazione della didattica secondo i suoi desideri ed esigenze
  • non si mostri empatico di fronte al disagio espresso dal gruppo-classe o dal singolo, fallendo nel considerare, rispettare e comprendere tanto i bisogni emozionali dei suoi studenti quanto i loro punti di vista
  • discrimini per primo, aprendosi alla confidenzialità con coloro che reputa “gli alunni eletti e di successo”, intrattenendo relazioni privilegiate con chi lo renda oggetto di adulazione e dichiarata ammirazione, preferendo gli stessi specie se riflettono abilmente e accuratamente le sue posizioni, se possono restituirgli lustro, se si dimostrano leali o se si schierano dalla sua parte contro presupposti rivali intellettuali (Bergman J.Z. e al., 2010)
  • tema l’indebolimento dei ruoli, che potrebbe consentire all’alunno l’insubordinazione e l’emissione di pareri sfavorevoli o di pettegolezzi sul suo conto
  • non scenda mai dal pulpito delle sue affermazioni, nette, rigide e dicotomiche, che appaiono improntate a saggezza e grande esperienza acquisita, ma si fonderebbero per lo più su un fragile concetto di sé e su un’immatura rappresentazione del mondo
  • formuli aspettative elevate circa l’introiezione immediata dei contenuti espressi agli alunni e si attenda un forte riconoscimento per il bagaglio culturale trasmesso, scoraggiando e demotivando gli studenti meno ambiziosi e meno abili
  • introduca rapporti di forza sbilanciati e ricattatori nella relazione con lo studente o il gruppo-classe, non ammettendo in alcun modo il contraddittorio e sviluppando invidia ed una più intensa svalutazione per l’alunno che mostri aree di maggiore abilità e talento
  • reagisca alle obiezioni e all’occasionalità del proprio non sapere con sdegno, rabbia ed insolenza, restituendo rifiuto e squalifica all’alunno che abbia formulato lo scomodo interrogativo o che più sa (Westerman J.W. e al., 2016)
  • non incoraggi in alcun modo la spontaneità, l’originalità e la creatività, né il senso gioioso di aver raggiunto un’insight o una personale e particolare connessione emotiva con l’argomento, giacché l’insegnante narcisista non permette all’alunno di articolare la propria voce soggettiva.

Suggerimenti di sostegno relazionale agli alunni e di intervento sul docente

Al cospetto di tale configurazione di personalità, l’organico dei docenti potrebbe apprendere nel corso del tempo a trattare il collega con particolare cautela per non suscitarne l’aggressione, lo sprezzo, la vendetta o la chiusura nel mutismo e nell’ignoramento ostinato.

Gli studenti, per “sopravvivere”, potrebbero imparare ad accomodarsi alle pretese del docente e a soddisfare le sue esigenze, anche sopprimendo i propri bisogni e la criticità delle proprie idee, finendo con l’impedire la giusta individuazione del Sé (C. L. Hess, 2003).

In casi più estremi gli studenti più vulnerabili a tendenze idealizzanti potrebbero finire con l’essere coinvolti in una devozione tale all’ insegnante narcisista da accettare una posizione di subordinazione e rinuncia al proprio Sé in cambio di approvazione e conferma.

Come fare allora per sostenere gli alunni nella relazione quotidiana con un docente che ha una siffatta caratterizzazione di personalità? E’ giusto inasprire la regolamentazione in merito al comportamento relazionale e alla prassi consentiti al docente per tutelare gli alunni, o si rischia di accentuarne la rivendicazione entro i limiti di quanto il regolamento consente? E’ utile tentare la carta dell’empatia e dell’avvicinamento da parte dei colleghi o si rischia di far paventare all’ insegnante narcisista una minaccia di interferenza nelle sue mansioni e di espropriazione del suo ruolo? Quanto è utile ai fini della promozione e più in generale della loro formazione educativa incoraggiare gli alunni a fare opposizione all’apprendimento acritico suggerito, per seguitare piuttosto a preservare ed incentivare l’originalità della loro espressione?

Malgrado non siano state ancora individuate risorse efficaci per la salvaguardia del sé entro una simile relazione educatore-discente, si ritiene importante restituire sempre al gruppo-classe che l’autenticità e la libertà dei suoi membri non può essere spenta o dismessa in nome di un giudizio o di una norma proposte come incontestabili, pena l’accentuazione di un clima competitivo, di obbligazione alla performance, di chiusura mentale che non favorisce la crescita, il senso ludico, né la passione per il sapere. Il Consiglio di Classe e il sostegno della famiglia in questo senso sono da ritenersi fondamentali, dal momento che la voce di più figure educative in questo caso contiene la potenzialità di introdurre flessibilità, discutibilità e criticità nel dinamismo di una relazione che esclude in ogni caso tolleranza, apertura, riflessività e dinamismo del pensiero.

G. Jandaghi, S. F.Kozekanan e A. Pirannejad, al Farabi Campus all’Università di Teheran (2015) confermano come i tratti di personalità narcisistica dei professori giochino un ruolo siginificativo nel condizionare l’apprendimento e la performance accademica degli studenti e raccomandano di provvedere a procedure di selezione accurate dei membri di facoltà. Si ritiene che l’Istituzione scolastica dovrebbe condurre test psicologici anche dopo l’assunzione, per la rilevazione degli insegnanti dai tratti narcisistici; inoltre dovrebbe monitorare costantemente la qualità della relazione intrattenuta dal docente con i suoi allievi ed attivare risorse interne di consulenza e sostegno psicologico, tanto per gli alunni quanto per il personale docente.

Una nuova strada per raggiungere la ristrutturazione cognitiva. Il valore del corpo in un viaggio “Dal basso in alto (e ritorno)”

Il corpo ha il vecchio vizio di ritornare al centro della scena, non lo ferma nessuno. Neanche gli psicoterapeuti.

 

Per decenni cognitivisti e psicoanalisti hanno curato i pazienti parlandoci. Con stili completamente diversi, certo, e guidati da teorie che spesso confliggevano. Ma, incosciamente e non senza una certa ironia, guidati dalla stessa dimenticanza: il corpo. Sì, lo osservavano, ci riflettevano su, ma alla fine non ci facevano niente. Giusto i comportamentisti, loro sì, lo muovevano, ma guidati da una teoria improponibile in cui la mente non contava niente.

La storia della psicoterapia è buffa. Mentre cognitivisti e psicoanalisti uniti negligevano il corpo, altre scuole se ne occupavano, soprattutto gestalt, analisi reichiana e bioenergetica. Lo hanno fatto guidati da teoria che, ahimé, li hanno tagliati fuori dal dibattito scientifico, facendoli diventare dei cugini bizzarri delle psicoterapie serie, da guardare con un misto di simpatia e imbarazzo.

Il corpo ha il vecchio vizio di ritornare al centro della scena, non lo ferma nessuno. Neanche gli psicoterapeuti.

Cognitivisti e psicoanalisti iniziano a rendersi conto che i loro, più o meno volontari, taboo al contatto fisico, al lavoro attraverso il corpo, non avevano senso. Con quanti pazienti la sola parola era inefficace? Lo sentivamo noi terapeuti che la nostra azione era insufficiente e che a un certo punto con i pazienti stavamo facendo chiacchiere sapendo che erano inefficaci.

Succede qualcosa. Non credo ci sia una storia precisa da scrivere. Succedono una serie di cose. Patricia Ogden riprende, non sempre col dovuto armamentario di citazioni, gli esercizi dei nostri cugini imbarazzanti. Fritz Perls e Alexander Lowen tornano ad essere nominati. Si crea una roba nuova, la chiamano psicoterapia senso-motoria. Si basa sulla teoria del trauma, dello sviluppo, dell’attaccamento, del funzionamento somato-sensoriale a partire da Porges, Bowlby, Damasio, Panksepp. Ridà dignità scientifica al lavoro sul corpo.

Jon Kabat-Zinn porta Buddha in occidente, lo porta tra gli scienziati della psicoterapia. Lascia da parte il ragionamento cosciente, il chiaccherio della mente. Osserva il corpo che pulsa, si tende e distende e soprattutto, respira. Arriva la mindfulness, un nuovo approccio alla sensorialità che permette di osservare i pensieri incarnati e lasciarli scorrere via.

Riesplode Janet e la psicotraumatologia, e van der Kolk scrive quel capolavoro de Il corpo accusa il colpo. Il corpo. Di nuovo. Le credenze patogene fanno male, d’accordo. Ma le reazioni viscerali che seguono a traumi relazionali, cavolo, quelle fanno male anche di più, e non se ne vanno solo ragionando.

Succede qualcosa. Gli allievi delle scuole di psicoterapia, tantissimi dalle scuole cognitive, si iscrivono ai corsi di formazione in psicoterapia sensomotoria e di EMDR, un altro approccio che cerca di passare attraverso un’elaborazione non cognitivamente mediata delle reazioni viscerali che seguono ad un trauma. E questi corsi si riempiono.

Significa che il mondo della psicoterapia è cambiato. I cognitivisti in particolare sentono il bisogno di integrare questo armamentario di tecniche, antico e nuovo allo stesso tempo, nella loro pratica.

Dal basso in alto (e ritorno…) di Cecilia La Rosa, Antonio Onofri e i loro colleghi si colloca in questo momento storico. In un razionale che parte da Janet, Liotti, Bowlby e tutta la psicotraumatologia, gli autori in una cornice di terapia cognitiva descrivono le pratiche sul corpo e sulla regolazione dell’attività mentale (come nell’EMDR) e spiegano come le si possano attuare.

Era un libro necessario. Ve lo immaginate un libro di terapia cognitiva solo 10 anni fa con un paragrafo che si chiamasse: “Assessment mediante il Body Scan guidato?”. Io no.

Qui c’è, a pagina 143. Il terapeuta chiede: “Che cosa accade ora nel suo corpo? In quale parte del corpo? Dove lo nota in particolare? Da cosa lo capisce? Quanto è estesa la sensazione? Quanto è profonda? Che forma ha? Che tipo di sensazione è? Che caratteristiche ha?”

Un assessment del genere rivoluziona il trattamento. Se noi, con La Rosa e Onofri, andiamo a esplorare le cognizioni connesse a particolari stati del corpo, allontaniamo i pazienti dall’idea che soffrano a causa della realtà. Li avviciniamo all’idea invece che in determinati stati somatici hanno determinate convinzioni e che cambiando lo stato somatico, magari attraverso esercizi mirati, cambi il contenuto della cognizione. I pazienti arrivano a qualcosa che alla fine è la ristrutturazione cognitiva, ma lo fanno da un’altra strada. Dal basso verso l’alto. E ritorno.

Ascoltare la musica insieme migliora la relazione futura con i propri figli

Secondo un recente studio dell’Università dell’Arizona, i bambini che vivono esperienze musicali condivise con i propri genitori riferiscono di avere rapporti di migliore qualità con loro quando raggiungono la giovane età adulta.

 

I ricercatori hanno scoperto che i giovani adulti che hanno condiviso esperienze musicali con i propri genitori durante l’infanzia, specialmente durante l’adolescenza, riferiscono di avere migliori relazioni con i loro genitori quando entrano nella giovane età adulta.

Il coautore dello studio Jake Harwood, professore e capo del dipartimento di Comunicazione dell’Università dell’Arizona, sostiene che

[blockquote style=”1″]Se hai bambini piccoli e suoni musica con loro, questo ti aiuta ad essere più vicino a loro, e più tardi nella vita ti renderà più vicino a loro. Inoltre, ascoltare della musica insieme ai propri figli adolescenti o condividere esperienze musicali con loro ha un effetto ancora più forte sulla tua relazione futura e sulla percezione del bambino della relazione nell’età adulta.[/blockquote]

Esperienze musicali condivise: lo studio dell’Università dell’Arizona

I ricercatori hanno intervistato un gruppo di giovani adulti, con età media di 21 anni, circa la frequenza con cui hanno trascorso del tempo con i loro genitori, da bambini, in attività come ascoltare musica insieme, assistere a concerti o suonare strumenti musicali. In particolare, veniva chiesto loro di riferire ricordi di esperienze comprese tra gli 8 e 13/14 anni di età. Inoltre, è stato chiesto a ciascun partecipante di esprimere un giudizio circa la propria percezione della qualità attuale della propria relazione con i genitori.

Risultati e Conclusioni

Le esperienze musicali condivise a tutti i livelli di età sono state associate a una migliore percezione della qualità del rapporto genitore-figlio nella giovane età adulta, tuttavia l’effetto è stato più pronunciato per le esperienze musicali condivise che hanno avuto luogo durante l’adolescenza.

Due sono i fattori che possono aiutare a spiegare la relazione tra esperienze musicali condivise e una migliore qualità della relazione: il coordinamento e l’empatia. Questo sembra dovuto al fatto che, se si suona o si ascolta musica con i propri genitori è possibile fare esperienza di attività sincronizzate come ballare o cantare insieme. Attraverso la musica, inoltre, molto emozioni possono essere evocate e questo favorisce lo sviluppo di risposte empatiche.

Le esperienze musicali condivise con i propri figli non devono risultare troppo complesse ed articolate; attività semplici, come ascoltare musica in macchina insieme, possono avere un impatto maggiore rispetto a esperienze musicali più formali.

La ricerca futura dovrebbe esaminare più da vicino le differenze tra esperienze musicali formali e informali e considerare anche come la musica possa influenzare la qualità di altri tipi di relazioni, comprese le relazioni romantiche, ha affermato Wallace.

L’invito ai genitori è dunque quello di aumentare le loro interazioni musicali con i propri figli, specialmente nel periodo adolescenziale.

Ritratti del desiderio: il concetto di desiderio secondo Lacan e Recalcati, due visioni a confronto

Nella prefazione alla seconda edizione di Ritratti del desiderio, Massimo Recalcati apre una riflessione che si pone in contrasto con una certa lettura egemone di Lacan che valorizza il desiderio come godimento a scapito di una visione trascendente del desiderio stesso.

 

Prima di addentrarsi nel disegnare diversi ritratti del desiderio, l’autore cerca di tracciare un percorso caratterizzato dalla dimensione dialettica, e contraddittoria per alcuni versi, tra il desiderio che viene sempre dall’Altro, ma assunto e fatto proprio dal soggetto, e il desiderio d’Altro, del Nuovo, di Altra Cosa. In quest’ultimo senso per lo psicanalista “il desiderio assomiglia ad un esilio permanente, ad un’erranza inquieta che non può mai trovare l’appagamento che pure ricerca affannosamente”.

Solo se si assume la mancanza a essere come condizione dell’esistenza, il desiderio può divenire un’apertura verso la vita, viceversa, il desiderio come godimento è godimento di morte.

Il godimento illimitato, della cultura dominante capitalista, privo di responsabilità, sregolato, compulsivo, soffoca la progettualità, la creatività, l’amore.

Il godimento che rende vivibile la vita, il godimento come effetto del potenziamento della vita non è mai il godimento incestuoso, non è mai il godimento del “tutto”, ma è il godimento che si può raggiungere solo a partire dall’impossibilità dell’incesto, ovvero dall’impossibilità di avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto.

L’elemento comune dei ritratti che traccia Recalcati in Ritratti del desiderio è la forza del desiderio che supera l’Io, che non dà la possibilità di essere governato, non è a disposizione: “L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di un’alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità” e rappresenta per questo una grande possibilità di sganciarsi dalle illusioni narcisistiche dell’Io, dalla sofferenza generata dal suo attaccamento per andare verso un desiderio dell’Altro, un desiderio trascendente.

Desiderio e Bisogno

E’ una prospettiva molto interessante che richiama i contenuti di un articolo pubblicato tempo indietro su questo giornale in cui mettevamo in evidenza le profonde differenze tra desiderio e bisogno (leggi qui). Si sosteneva nell’articolo che il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare può così trasformarsi in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile.

Molte ricerche hanno messo bene in evidenza come il benessere non sia vincolato alla soddisfazione dei desideri, ma piuttosto a una visione eudemonica in cui alcuni bisogni fondamentali siano appagati (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Nella storia evolutiva di ogni individuo l’identità e quindi l’integrazione e la coerenza del sé nasce da esperienze in cui la tolleranza alla frustrazione è conditio sine qua non di un buon adattamento a ciò che ci propone la realtà, spesso matrigna e poco propensa a rispondere alle nostre attese. Le immagini maladattive compaiono proprio quando è presente la ricerca di soddisfazione di un desiderio (May et al., 2004, 2010).

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto dell’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto possibile d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario, quindi, distinguere il desiderio dal bisogno, i bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli indotti e falsi dell’avere, del possesso, dell’avidità, del potere, dell’affermazione (Fromm, 1976). E in Ritratti del desiderio troviamo un’ampia panoramica di questi falsi bisogni indotti.

Il desiderio invidioso, che assume un carattere infantile, si manifesta strutturalmente come desiderio dell’oggetto desiderato dall’altro bambino.

Il desiderio e l’angoscia per la sensazione di essere in balìa del desiderio dell’Altro, di essere ridotti a un oggetto nelle mani del capriccio dell’Altro.

Il desiderio di niente, per cui quello che c’è non è mai sufficiente, non è mai abbastanza e il desiderio si consuma in se stesso.

Il desiderio di godere come diritto al dispendio, al superfluo, all’inutile.

Il desiderio dell’Altrove che trasferisce l’illusione di salvezza sempre su un nuovo oggetto senza però impedire la riproduzione fatale della stessa delusione una volta che l’oggetto viene posseduto.

Il desiderio sessuale che “non è mai la manifestazione di un istinto naturale, ma mostra il carattere tutto culturale, artificiale, strutturalmente perverso-polimorfo direbbe Freud, della sessualità umana”.

Il desiderio amoroso che si rappresenta in una “sfasatura strutturale tra il desiderio maschile – che è desiderio feticistico del pezzo – e quello femminile – che è desiderio amoroso, desiderio che si nutre non di pezzi ma di segni d’amore”.

Il desiderio puro o il desiderio di morte rappresentato dalla figura di Antigone.

Il desiderio dell’analista che nel curare mette in gioco l’amore per il paziente. Un amore per la vita dell’altro che deve essere taciuto, né dichiarato, né agito e diventare così il dono che l’analista offre alle vite che si rivolgono a lui raccontandosi.

Infine, il desiderio dell’Altro come apertura, come legame positivo, come domanda rivolta verso l’Altro.

Il desiderio è domanda di riconoscimento e la sua soddisfazione simbolica è tutta nell’ottenere il riconoscimento di questa domanda. Desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall’Altro, significa voler avere un valore per l’Altro. Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro. Non esiste desiderio senza l’Altro. Il circuito del desiderio passa necessariamente dall’Altro perché il desiderio non può bastare a se stesso.

Nell’ultima parte del libro Ritratti del desiderio, Recalcati traccia le tappe fondamentali del suo incontro con Lacan e ne dipinge un ritratto personale che parte dal problema della propria esistenza sottolineando in modo particolare un’affermazione dello psicoanalista francese: “L’amore è ciò che mantiene convergenti il desiderio e il godimento”.

Psicologia e turismo: qual è la motivazione che ci spinge a viaggiare?

Si sono susseguite diverse teorie che hanno cercato di spiegare come nasce la nostra motivazione ed è possibile avvalersi di alcune di queste per spiegare cosa spinge un individuo a viaggiare.

 

Viaggiare è come innamorarsi: il mondo si fa nuovo” (Jan Myrdal).

 

Respirare l’aria speziata di Marrakech, rinfrescarsi con una sangria in un caldo pomeriggio a Granada, applaudire al tramonto a Santorini… Qualsiasi sia la ragione che ci spinge a viaggiare sappiamo che amiamo farlo. Che sia una breve gita fuori porta o un viaggio lungo settimane, ogni volta che aggiungiamo una bandierina sulla cartina del mondo abbiamo una storia nuova da raccontare. Da quando iniziamo a pensare alla meta siamo mossi da precise motivazioni, consapevoli o meno, che ci spingono a voler evadere, conoscere, esplorare o rilassarci. È difficile pensare a una motivazione univoca poiché ognuno di noi ha dei precisi bisogni da soddisfare e obiettivi da raggiungere.

Ma da cosa deriva la motivazione a viaggiare?

Sappiamo che ad oggi l’esperienza turistica non è più la stessa: sono cambiati i trend e il viaggio non è più considerato un lusso (Puggelli & Gatti, 2004; Di Nuovo, 2008). Queste modificazioni socioculturali hanno ridefinito anche il comportamento turistico rendendo più interessante lo studio delle scelte del viaggiatore che risultano a questo punto legate ad aspetti ancor più variegati e personali (valori, di stile di vita, ecc.).

Se pensiamo alla motivazione come all’insieme di processi di attivazione e di orientamento del comportamento verso la realizzazione di un determinato scopo (Feldman, 2008) possiamo cominciare a delineare il viaggio come un’attività da compiere al fine del raggiungimento di un obiettivo personale superiore.

Si sono susseguite diverse teorie che hanno cercato di spiegare questo concetto ed è possibile avvalersi di alcune di queste per spiegare cosa spinge un individuo a viaggiare. Pensiamo a un conoscente che ci ha appena raccontato di avere in programma un viaggio in solitaria in una terra estrema o a un amico che ha sempre la valigia pronta.

Zuckerman (1979) farebbe rientrare i casi appena citati nella categoria di soggetti definibili “sensation seekers”. Questo filone facente parte delle teorie dell’arousal secondo le quali ognuno di noi ha livelli di attività e stimolazione sensoriale che non devono scendere sotto una certa soglia, sostiene che alcune categorie di individui hanno bisogno di ricercare sensazioni e stimolazioni sempre nuove, a volte anche correndo rischi fisici per provarle. Questa ricerca di sensazioni è articolata secondo 4 componenti:

  • la ricerca di brivido e di avventura
  • la ricerca di esperienze nuove
  • la tendenza a liberarsi dalle inibizioni
  • la suscettibilità alla noia

Oltre la motivazione, i bisogni

Nel momento in cui lo scopo da perseguire può essere considerato in ottica di bisogno subentrano altri approcci che aiutano a comprendere la spinta al viaggio. Secondo Murray (1938) i bisogni sono forze interne che organizzano tutte le attività e il comportamento dell’individuo e possono essere suddivisi in bisogni primari, fisiologici, necessari all’organismo come la fame e la sete, e bisogni secondari che vengono acquisiti mediante le esperienze di apprendimento all’interno del contesto di vita come il bisogno di autonomia o di riuscita. Murray, inoltre, considera insieme ai bisogni anche le pressioni, ossia le situazioni ambientali che scatenano i bisogni dell’individuo. È quindi presente una costante associazione tra pressione ambientale e bisogno per cui un soggetto ricerca la soddisfazione di un bisogno date delle circostanze ambientali.

Se è possibile quindi applicare questo approccio al viaggio è altrettanto possibile dedurre che si può essere motivati a partire perché, ad esempio, ci si trova in un periodo particolarmente stressante e si ha il bisogno di “staccare la spina”. Allo stesso modo, un giovane studente fortemente motivato a imparare una lingua straniera potrebbe scegliere di trascorrere soggiorni all’estero per favorire il suo apprendimento della lingua.

Ma non ci si può limitare a una visione “motivazione – azione – soddisfazione” così lineare e statica. Secondo Maslow (1970; 2010), infatti, i bisogni sono classificati secondo una gerarchia piramidale e affinché i bisogni al vertice possano essere soddisfatti è necessario prima appagare quelli alla base. L’autore pone alla base i bisogni fisiologici (cibo, acqua, ecc..); appena sopra i bisogni di sicurezza (ambiente sicuro); al centro della piramide si trovano i bisogni di appartenenza legati alla necessità di donare e ricevere affetto; il penultimo gradino lo guadagnano i bisogni di stima verso sé stessi e l’apice lo si raggiunge con il bisogno di autorealizzazione inteso come uno stato di appagamento raggiunto dalle persone, ognuna a proprio modo, grazie alla realizzazione del proprio potenziale più alto. Il bisogno che motiva al viaggio, quindi, potrebbe essere collocato nei punti più alti della piramide di Maslow e decide di fare la sua comparsa solo a seguito del raggiungimento di obiettivi più “basali” per il soggetto.

Tuttavia questo non basta a spiegare la voglia di partire che ci fa passare ore alla ricerca di un low-cost con gli orari migliori e l’alloggio più conveniente ma vicino ai luoghi di interesse.

Le teorie a tal proposito sono molto più specifiche e, come sostiene Pearce (1993) prevedono una multidimensionalità che rende la motivazione del turista dinamica, in continua evoluzione, sensibile alle influenze sociali, episodica e orientata al futuro.

A ciascuno la sua motivazione per viaggiare

Qualunque sia la ragione che ci spinge a viaggiare pare che ne esista una che accomuna tutti: la ricerca di una “stimolazione ottimale” (Iso-Ahola, 1982). Analogamente a quanto proposto da Zuckerman l’individuo ambisce a uno stato soggettivo ideale che dipende da tratti e predisposizioni personali e da stimoli ambientali. Dietro il desiderio di viaggiare si nascondo quindi bisogni emotivi del momento troppo personali per qualificare in modo oggettivo la motivazione alla vacanza. Non ci può essere un viaggio uguale per tutti. Il modello bidimensionale dell’autore spiega la ricerca della stimolazione ottimale ponendo la scelta della vacanza su un continuum che va dalla ricerca di posti nuovi, nuove esperienze, all’evitamento di condizioni quali ad esempio lo stress e la routine.

Similmente, secondo Crompton (1979) la stimolazione ottimale si raggiunge in questo modo, anzi, in questi sette modi:

  • evadere dal quotidiano percepito ricercando luoghi di vacanza diversi rispetto a quelli quotidiani casa-lavoro
  • esplorare sé stessi ricercando nuove occasioni in ambienti non familiari che ci portano a conoscerci meglio
  • rilassarsi allentando le tensioni psico-fisiche di tutti i giorni
  • ricercare il prestigio nel viaggio come mezzo di promozione sociale
  • regredire attuando comportamenti meno razionali (es.: non avere orari, giocare sulla spiaggia) per sganciarsi dalle costrizioni sociali
  • spingersi verso le relazioni familiari per rafforzarle anche con attività semplici (es.: giocare a carte) a cui non ci si può dedicare solitamente
  • migliorare le relazioni sociali mediante soluzioni turistiche come i villaggi che portano a una disinibizione e favoriscono gli scambi interpersonali

L’autore inoltre ha individuato due forze principali che ci spingono a viaggiare: i fattori di spinta (push) e i fattori di attrazione (pull). I primi sono fattori legati più a scelte socio-psicologiche di tipo emozionale come, ad esempio, il bisogno di relax, di socializzazione, di fare altro e farlo altrove. I secondi, invece, vengono “solleticati” dal bisogno di avventura, di novità e dalla destinazione stessa che quindi deve possedere determinate caratteristiche che vengono vissute come arricchimento personale (ad es.: un viaggio culturale).

Da un viaggiatore “pull” sentiremmo dire che “la parte migliore del viaggio non è la meta ma il percorso per raggiungerla”. Un viaggiatore “push”, invece, difficilmente potrebbe rinunciare al suo braccialetto all inclusive in un resort da sogno che trasuda pace e tranquillità.

A tutti questi aspetti, inoltre, dobbiamo aggiungere una determinante non da poco nella scelta del viaggio: l’età. Le motivazioni turistiche sembrano essere soggette a cambiamenti determinati dalla fascia d’età (Gibson & Yannikis, 2002). Tra i 28 e i 40 anni si può essere più orientati a viaggi studio, culturali e conoscitivi. Tra i 40 e i 50 anni è possibile che il viaggio diventi una sorta di status symbol per dimostrare la posizione sociale raggiunta. Infine, tra i 50 e i 65 anni si potrebbero ricercare più facilmente esperienze di viaggio dal sapore meno avventuroso, in contesti sicuri e il meno stancanti possibile.

Ognuno con la propria ragione, con la miglior compagnia o in solitaria, godendosi il viaggio o sognando la meta, siamo dei piccoli Marco Polo pronti a scrivere il nostro Milione.

Violenza online e cyberbullismo: un’ipotesi neuroscientifica e le prospettive di intervento

Alla luce di una sempre maggior diffusione del fenomeno del cyberbullismo, proponiamo in questo articolo una lettura del fenomeno connessa all’ipotesi neuroscientifica di un’alterazione a livello del sistema di neuroni specchio, che sottenderebbe una compromissione nella responsività empatica. Riteniamo quindi fondamentale la promozione a tutti i livelli di attività che coinvolgano socialmente i ragazzi, che stimolino le loro competenze sociali ed empatiche e che allenino le loro capacità di assunzione della prospettiva altrui, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a queste abilità.

Samantha Baldassarre, Eddy Chiapasco, Gabriella Gandino

 

Cyberbullismo e alterazione del “sistema specchio”

Un fenomeno che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale e nazionale nell’odierna società è quello del cyberbullismo, che può essere definito come l’insieme di azioni aggressive, deliberate e ripetute, attuate da uno o più perpetratori, attraverso strumenti elettronici (ad esempio pc, smartphone e tablet), con l’obiettivo di danneggiare e/o isolare uno o più soggetti che non possono facilmente difendersi (Smith et al., 2008; Hinduja & Patchin, 2009).

Essendo un fenomeno molto recente, risulta importante effettuare studi scientifici per meglio comprenderne i meccanismi e poter attuare interventi clinici mirati e adeguati. A tal proposito, facendo riferimento alla teoria del “sistema di neuroni specchio” (Rizzolatti et al., 1996) – situato in varie zone cerebrali tra cui la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore, il settore inferiore del giro pre-centrale, il settore posteriore del giro frontale inferiore, un’area anteriore del giro frontale inferiore, il solco temporale superiore e la corteccia pre-motoria dorsale – si vuole proporre un’ipotesi di stampo neuroscientifico, dal momento che suddetto sistema si è dimostrato particolarmente rilevante in ciò che Gallese ha denominato “simulazione incarnata” (Gallese et al., 1996). Quest’ultima è un processo biologico secondo cui quando una persona ne osserva un’altra compiere una determinata azione e/o sperimentare una certa emozione, si attiverebbero in chi osserva non solo le medesime reazioni fisiologiche, ma anche le stesse strutture neuronali (che appunto coincidono con le aree cerebrali del sistema specchio) e, pertanto, tale processo sembra essere alla base della comprensione dei vissuti altrui e in ultima istanza dell’empatia (Gallese et al., 1996; Bracco, 2005). È proprio per via di tale meccanismo di “simulazione incarnata” che quando vediamo un altro individuo soffrire soffriamo un po’ anche noi, perché nel nostro corpo si innescano tutte quelle reazioni viscerali-motorie-neurali che riguardano anche la persona che stiamo osservando.

Ma cosa succede nell’epoca della “rivoluzione digitale” (Cantelmi, Talli, D’Andrea, Del Miglio, 2000), in cui la quotidianità è pervasa dai nuovi strumenti elettronici, che permettono di nascondersi dietro uno schermo e di non vedere direttamente l’altro? Proprio per via del sempre maggior tempo trascorso nel cyberspazio, caratterizzato dalla mancanza di relazioni face-to-face, è possibile che gli adolescenti siano oggi meno abituati ad attivare e ad allenare il loro “sistema specchio”, con la conseguente carenza nel riconoscimento delle emozioni altrui e nell’elicitazione della risposta empatica. Alcuni studiosi, infatti, hanno mostrato che i perpetratori di atti aggressivi online manifestano una minor responsività empatica rispetto ai loro coetanei non cyberbulli (Renati et al., 2012). Sempre la mancanza di un contatto diretto tra cyberbullo e cybervittima sembra essere un elemento importante per spiegare la particolare violenza raggiunta in alcuni casi dalle aggressioni online. Questo aspetto può, infatti, essere letto alla luce del celebre esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità, in cui l’autore aveva notato come all’aumentare della distanza tra insegnante e allievo (che faceva perdere il contatto visivo tra i due), aumentava anche la violenza del soggetto sperimentale che tendeva ad infliggere alla vittima scosse sempre maggiori (Delcuratolo, 2016).

Ipotizziamo dunque che un deficit funzionale a livello empatico possa essere connesso ad una sottostante alterazione neurologica del “sistema di neuroni specchio”.

I più recenti studi neuroscientifici, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze sociali e affettive, hanno, inoltre, evidenziato la plasticità che caratterizza il cervello umano e la sua capacità di trasformarsi non solo durante l’età evolutiva, ma in tutto il ciclo di vita, in presenza di adeguate stimolazioni da parte dell’ambiente sociale (Schore, 2015). Alla luce di tali considerazioni, riteniamo sia necessario promuovere nei ragazzi attività che consentano loro di sviluppare le competenze sociali, di allenare la capacità di assumere la prospettiva altrui e di riconoscere e comprendere le emozioni, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a suddette abilità.

Attività di sviluppo degli aspetti empatici e role-playing formativo

Come possiamo intervenire per aiutare gli adolescenti a migliorare la loro capacità di comprendere i vissuti altrui?

A livello preventivo, in ambito scolastico, sono già presenti in Italia e in Europa molteplici progetti basati sull’informazione e la sensibilizzazione nei confronti del cyberbullismo, che mirano a diffondere la conoscenza del fenomeno, ma tuttavia non esaustive sul piano preventivo. Sarebbe auspicabile che a tali progetti si affiancassero attività pratiche, che coinvolgano in prima persona i giovani e che consentano loro di sviluppare e implementare quelle abilità psicosociali ed empatiche il cui sviluppo non è favorito dall’utilizzo massivo delle nuove tecnologie.

Una tecnica che a questo scopo sembra essere particolarmente efficace è quella del role-playing formativo, o gioco di ruolo, di Jacob Moreno (1961), una pratica di simulazione in gruppo che prevede lo svolgimento da parte dei partecipanti, per un tempo limitato, del ruolo di attori. Ciò che viene richiesto ai soggetti è di rappresentare una scena di vita quotidiana, impersonando alcuni ruoli in interazione tra di loro, mentre altri individui assumono la funzione di osservatori (Masci, 2009). Una volta conclusa la rappresentazione, segue un confronto tra gli attori e gli osservatori circa le dinamiche relazionali emerse e i vissuti esperiti (Masci, 2009).

Questa tecnica offre la possibilità di immedesimarsi in ruoli diversi, sperimentando i disagi e le emozioni tipici di questi ruoli, e stimola l’apprendimento di competenze psicosociali ed empatiche attraverso l’imitazione, l’osservazione del comportamento altrui e la riflessione sui commenti ricevuti rispetto alla propria condotta (Capranico, 1997).

Nella nostra esperienza di lavoro con i ragazzi della scuola secondaria di primo grado, nell’ambito delle attività di prevenzione al cyberbullismo, abbiamo potuto constatare l’efficacia del role-playing. I ragazzi, dovendo mettersi nei panni dei vari personaggi coinvolti in una situazione di cyberbullismo (cyberbullo, cybervittima e bystanders), possono coglierne al meglio le dinamiche emotive e relazionali. Il confronto finale tra il gruppo classe permette loro, inoltre, di acquisire una maggiore consapevolezza sul fenomeno e individuare potenziali vie uscita dalle situazioni più critiche.

Ci auguriamo, pertanto, che i futuri programmi di prevenzione, oltre alla necessaria parte di informazione e sensibilizzazione sull’argomento, dedichino anche particolare attenzione a questo tipo di attività. Riteniamo, altresì, fondamentale il compito educativo dei genitori, i quali dovrebbero porre ai loro figli dei limiti nel tempo di utilizzo dei nuovi strumenti elettronici e promuovere al contempo delle attività alternative che favoriscano la socializzazione dei loro ragazzi, in modo da fornire delle opportunità di relazione face-to-face per sviluppare quelle competenze empatiche che le nuove tecnologie paiono impoverire.

Relazioni famigliari e tra fratelli: come influenzano il successo scolastico?

Le esperienze tra fratelli nel passaggio tra l’infanzia e la prima adolescenza predicono differenze nel successo scolastico, in particolare negli esiti universitari, secondo un recente studio condotto presso la Pennsylvania State University.

 

Lo studio, condotto da Xiaoran Sun, dottorando in Sviluppo Umano e Studi Familiari, e da Susan McHale, professore di demografia presso la Pennsylvania State University e coautore dello studio, illustra come le relazioni tra famigliari influenzino esiti accademici tra fratelli.

Gli autori hanno sviluppato un disegno di ricerca che consentisse di indagare se e come le esperienze tra famigliari, ed in particolare tra fratelli nel passaggio tra l’età infantile e la prima adolescenza, potessero condurre a differenze nel rendimento scolastico. Inoltre hanno voluto verificare se gli studenti, 15 anni dopo le esperienze vissute con i propri famigliari, si fossero laureati o meno.

Lo studio sul rapporto tra relazioni famigliari e successo scolastico: il disegno di ricerca

Proponendosi come un’analisi longitudinale, in una prima fase dello studio sono state raccolte informazioni sulle relazioni famigliari, ed in particolare tra fratelli, in un campione di 152 famiglie. Affinchè le famiglie potessero essere selezionate ed incluse nello studio dovevano essere composte da almeno due figli di età compresa tra i 9 e gli 11 anni.

In media, le famiglie intervistate abitavano in piccole città o in aree rurali della Pennsylvania, appartenevano alla classe media operaia ed erano di origine americana.

Ciò che si è valutato è stato il calore emotivo reciproco tra fratelli ed il tempo da loro impiegato in attività condivise, il calore emotivo e l’affetto che le madri ed i padri mostravano nei confronti di uno piuttosto che dell’altro/degli altri figlio/i ed il tempo trascorso da ciascun genitore con ciascun bambino, nonchè le percezioni di ogni bambino circa l’imparzialità con la quale i genitori si relazionavano a loro rispetto ai loro fratelli.

La seconda fase dello studio, svolta 15 anni dopo la prima raccolta dati, ha visto i ricercatori impegnati nel verificare se i fratelli intervistati nella prima fase si fossero in seguito laureati o meno.

I risultati dello studio

L’affetto tra i fratelli ha rappresentato un predittore della probabilità che tutti i fratelli raggiungessero lo status di laureati o meno in età adulta (ovvero, entrambi/tutti i fratelli laureati o entrambi/tutti non laureati). È infatti emerso che quanto più l’affetto tra i fratelli era alto, tanto più i fratelli tendevano a seguire un percorso simile: laurearsi entrambi o meno. Quando, invece, l’affetto rilevato in infanzia/prima adolescenza era minore, i fratelli mostravano più spesso esiti di laurea differenti (ovvero, un/alcuni fratello/i laureato/i e l’altro/i no).

Inoltre, sia la percezione che i bambini avevano riportato rispetto all’equità dei loro genitori nel trattamento messo in atto nei loro confronti, sia la differenza nella quantità di tempo che i padri spendevano con i fratelli, sono risultati essere predittori rispetto al loro successo scolastico e al conseguimento del titolo di laurea. Quando vi era una maggiore discrepanza nella quantità di tempo impiegata dai padri con i fratelli o quando questi ultimi sentivano di esser trattati in modo differente dai loro genitori rispetto ad altri fratelli, i risultati rispetto alla laurea tendevano ad esser differenti (ovvero, un/alcuni fratello/i laureato/i e l’altro/i no).

I risultati del presente studio hanno implicazioni sulla genitorialità e sulle dinamiche famigliari.

I genitori devono essere consapevoli di come i fratelli possono influenzarsi a vicenda e monitorare le interazioni dei loro figli – sostiene Xiaoran Sun. Ancora, secondo la professoressa Susan McHale, coautore dello studio – L’educazione dei genitori e i programmi familiari dovrebbero andare oltre l’attenzione ai rapporti tra madre e figlio includendo i padri e studiando le esperienze dei fratelli.

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