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Regolazione emotiva: lo sviluppo durante le prime interazioni del bambino

I bambini alla nascita non sono capaci di comprendere le proprie sensazioni corporee, né di attribuire il significato psicologico agli stati affettivi emergenti. L’accudimento primario adeguato agisce come regolatore dello stato interno del bambino e favorisce la comprensione dei vari pattern di attivazione associati ad uno stato emotivo.

 

Tale funzione regolatrice esterna può essere interiorizzata diventando la base della capacità di autoregolazione autonoma.

Regolazione emotiva, caregiving e sviluppo del sé

Nelle prime fasi dello sviluppo fisico e psicologico i bambini sono privi di un senso del sé corporeo e incapaci di attribuire delle spiegazioni mentali e simboliche alle proprie esperienze, vivono degli stati di attivazione fisiologica difficili da interpretare o da collegare al senso della fame, del sonno o del dolore; solitamente le madri svolgono per i loro piccoli il ruolo di organizzatore esterno di tali sensazioni indifferenziate (Lemma, 2011).

Secondo Bion (1962), il bambino molto piccolo si difende dagli stati emotivi soverchianti e dagli aspetti di sé intollerabili proiettandoli all’esterno e introiettando al loro posto oggetti buoni e piacevoli; grazie alla funzione di rêverie materna, il bambino può introiettare un oggetto buono, accogliente e regolatore che si stabilisce come base per lo sviluppo dell’autoregolazione e della capacità di pensare. La capacità della madre di sostenere e confermare i bisogni del bambino alimenta il suo senso di onnipotenza, con il tempo, la madre però deve fornire anche una giusta dose di frustrazione, dando il via al processo di separazione tra madre e figlio: il bambino deve sentirsi amato e al sicuro, ma un eccessivo contatto può dare origine ad un legame invischiante e dipendente.

Un altro concetto molto studiato nell’ambito dello sviluppo del sé del bambino è quello del rispecchiamento. Secondo Winnicott (1967) quando il bambino viene allattato al seno, ciò che vede mentre guarda sua madre è se stesso. Questo è possibile perché una buona madre è in grado di identificarsi con ciò che prova il suo bambino, restituendogli, proprio come farebbe uno specchio, l’immagine di se stesso e di ciò che sta provando, attraverso espressioni del volto congrue al suo stato emotivo. Questa madre sufficientemente buona svolge anche una funzione di handling ovvero di contenimento, sia dal punto di vista mentale che fisico, come quando tiene in braccio il piccolo e il corpo del bambino acquisisce il senso di coesione alla base della formazione dello schema corporeo (Winnicott, 1996).

Per capire come il rispecchiamento da parte della madre possa modulare l’esperienza affettiva del piccolo e dare origine ad un senso del sé si può fare riferimento alla teoria del biofeedback sociale del rispecchiamento affettivo genitoriale di Gergely e Watson (1996). Dato che appena nati i bambini non sono capaci di differenziare e comprendere le proprie emozioni, essi devono affidarsi alle informazioni provenienti dal mondo esterno per capire quello che sta accadendo dentro di loro. Alla nascita, le emozioni sono vissute come insiemi di stimolazioni fisiologiche e viscerali, ma grazie alla ricettività del neonato verso gli stimoli esterni, il rispecchiamento del genitore, con le espressioni facciali, il tono della voce e il contatto fisico, funge da regolatore dello stato del bambino che potrà imparare a distinguere i vari pattern di attivazione fisiologica associati ad uno stato emotivo.

Quando il rispecchiamento è congruente, si verifica una downregulation dell’emozione che alimenta sensazioni piacevoli di controllo ed efficacia. Questo accade perché il bambino impara a collegare l’effetto che lui ha sul comportamento del genitore con le sensazioni piacevoli e la modulazione dello stato emotivo, sviluppando un senso di autoregolazione: il rispecchiamento fornito dalla madre viene interiorizzato e diventa una rappresentazione simbolica dello stato interno (Gergely e Watson, 1996).

Secondo Bateman e Fonagy (2006) esperienze inadeguate di rispecchiamento impediscono la formazione di rappresentazioni simboliche degli stati affettivi e rendono più difficile distinguere la realtà fisica da quella psichica, ripetute interazioni deficitarie possono dare origine a marcate difficoltà nella capacità di tollerare e regolare le emozioni autonomamente.

Anche gli studi di Cohn e Tronick (1983) sono degli ottimi esempi della funzione regolatoria che le espressioni materne possono svolgere durante le interazioni madre-bambino. Quando la madre assume un volto depresso o inespressivo (Still Face), a 3-4 mesi il bambino risponde intensificando le sue vocalizzazioni, dirigendo lo sguardo verso la mamma e sorridendole, se tale inespressività continua, il piccolo allontana lo sguardo, diventa inespressivo e si concentra su se stesso (Cohn e Tronick, 1983); nei mesi successivi compaiono altre risposte all’inespressività materna, risposte fisiologiche come la riduzione del tono vagale ed un aumento della frequenza cardiaca che si ristabilizzano nel momento in cui la madre riprende ad interagire (Weinberg e Tronick, 1996).

Il valore fondamentale dell’accudimento materno è stato dimostrato anche attraverso studi sugli animali, le ricerche di Hofer (1994) sui ratti hanno dimostrato l’impatto positivo del calore materno, degli stimoli olfattivi, della poppata e della stimolazione materna su diversi parametri fisiologici dei cuccioli, compresi i livelli di ormone della crescita. Hofer ha dimostrato anche che la separazione precoce tra la madre e i cuccioli di ratto provoca una riduzione della loro reattività, un rallentamento dei movimenti e aumenta la suscettibilità all’ulcera come risposta allo stress. Questi processi regolatori nascosti mediano un controllo comportamentale, metabolico, sensomotorio, autonomico e interocettivo anche nella diade madre-bambino, dove la madre svolge la funzione di regolatore biologico esterno, favorendo la crescita fisiologica del piccolo e l’internalizzazione della funzione regolatrice mediata dall’esterno (Hofer 1994).

Regolazione emotiva: attaccamento e mentalizzazione

Se per la Psicoanalisi classica il bambino agisce soltanto in funzione delle sue pulsioni e ricerca la madre solo per soddisfare i suoi bisogni biologici, Bowlby mette in primo piano l’aspetto relazionale dell’essere umano, sottolineando che il bisogno fondamentale del bambino è quello stabilire una relazione che solo secondariamente garantisce la sua crescita e la sua sopravvivenza. Bowlby (1973) ha osservato alcuni comportamenti umani ed animali che garantiscono la vicinanza al caregiver (solitamente la madre), oltre che un senso di sicurezza e accudimento, questi comportamenti di attaccamento come piangere, ridere, seguire o aggrapparsi si attivano in particolar modo quando il caregiver si allontana.

Le relazioni di attaccamento si stabiliscono con poche persone (Ainsworth e Bowlby, 1991) e i pattern di interazione ripetuti tra caregiver e bambino nel tempo danno origine a dei modelli operativi interni (Bowlby, 1969), ovvero delle rappresentazioni mentali stabili e durature che il bambino ha di sé, degli altri e del legame che li unisce, rendendo prevedibili i risultati delle future interazioni.

Ainsworth e Bowlby (1991) e Main e Solomon (1990) identificano 4 fondamentali tipi di relazioni di attaccamento in base alla qualità dell’accudimento fornito: i bambini con uno stile di attaccamento sicuro che utilizzano l’adulto come base sicura per esplorare l’ambiente circostante, tipico di bambini con madri sensibili e sintonizzate sui loro bisogni; i bambini con un attaccamento insicuro-evitante, rifiutanti verso madri insensibili e distaccate; i bambini con un attaccamento insicuro-ambivalente che cercano il contatto evitandolo al tempo stesso, con madri incoerenti ed imprevedibili nelle risposte; infine, i bambini insicuri-disorganizzati, confusi e incontrollati, non raramente vittime di maltrattamenti e trascuratezza con madri emotivamente distaccate o troppo intrusive.

Secondo Bateman e Fonagy (2006) nel contesto di un attaccamento sicuro e sulla base dei modelli operativi interni (MOI) ripetuti nelle interazioni precoci, i bambini diventano capaci di comprendere i propri desideri, le emozioni, le credenze e le motivazioni, distinguendole da quelle altrui.

Le relazioni di attaccamento sicuro favoriscono lo sviluppo cognitivo e dell’intelligenza sociale, nonché di una funzione interpretativa interpersonale (IIF) costituita dai meccanismi attentivi, dalla regolazione emotiva e dalla capacità di mentalizzazione. La mentalizzazione rappresenta la massima espressione dell’autoregolazione e si riferisce alla capacità di comprendere implicitamente o esplicitamente i propri ed altrui comportamenti sulla base degli stati mentali che li sottendono, dando loro un significato (Bateman e Fonagy, 2006).

La capacità di mentalizzare facilita l’esistenza perché permette di prevedere quale sarà il comportamento degli altri in certe circostanze ed elicita la comprensione dei propri stati interni a partire dall’esplorazione di quelli altrui (Fonagy e Target, 1997). Essa rende più competenti nelle relazioni e capaci di affrontare le situazioni stressanti in modo adeguato, grazie alla possibilità di regolare gli stati emotivi e le componenti corporee che dipendono da essi.

Esiste una relazione tra il controllo inibitorio e la presenza di un attaccamento sicuro: secondo Bateman e Fonagy (2006), una madre capace di dirigere l’attenzione su specifici stimoli presenti nel campo percettivo del piccolo, distogliendolo da stimoli stressanti, riduce i suoi stati di arousal e media l’inibizione di risposte impulsive, in favore di altre più adeguate. Un fallimento nell’acquisizione della mentalizzazione può compromettere non solo la comprensione della mente dell’altro, ma anche dei propri stati interni, con la conseguente esperienza di vissuti emotivi incomprensibili, difficili da gestire e marcate difficoltà nel controllare le risposte impulsive che dominerebbero quelle più riflessive. L’operazionalizzazione del concetto di mentalizzazione con quello di funzione riflessiva (Fonagy e Target, 1997) ha permesso di indagare la relazione tra l’attaccamento sicuro e la mentalizzazione, dimostrando che la funzione riflessiva è in grado di prevedere la qualità sicura dell’attaccamento tra bambini e madri con vissuti di deprivazione infantile (Fonagy et al., 1994) e che i genitori con maggiori livelli di funzione interpretativa valutati con l’Adult Attachment Interview tendono a stabilire delle relazioni di attaccamento sicuro con i loro figli (Bateman e Fonagy, 2006).

Regolazione emotiva: neuroscienze e sviluppo emotivo

Una serie di studi neuroscientifici suggeriscono che le relazioni precoci hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo dei sistemi cerebrali connessi alla regolazione delle emozioni, all’empatia, alla capacità riflessiva e alla mentalizzazione. Schore (2000) ha messo in evidenza lo stretto legame tra lo sviluppo della relazione di attaccamento, la maturazione dell’emisfero destro e la regolazione affettiva, sottolineando come le esperienze primarie influenzino l’organizzazione di alcuni circuiti cerebrali particolarmente plastici nei primi mesi di vita, capaci di condizionare il comportamento socio-emotivo presente e futuro di un individuo (Schore e Schore, 2008). Altri studi mostrano che le esperienze precoci stimolano il rilascio di ormoni in grado influenzare l’espressione dei geni e in grado di plasmare la costituzione e le funzioni delle strutture cerebrali (Schore, 2001). In condizione di stress per il bambino, il genitore adeguatamente sintonizzato sui suoi stati affettivi è in grado di ristabilire uno stato di attivazione fisiologica ottimale, ripristinando i livelli di energia metabolica e favorendo la produzione di ossitocina, catecolamine e oppioidi endogeni, importanti per lo sviluppo cerebrale e per la comparsa di sensazioni piacevoli associate all’accudimento e all’immagine del caregiver.

Secondo Schore (2000) i modelli operativi interni di Bowlby si inscrivono a livello dell’emisfero destro sotto forma di memoria procedurale implicita, influenzando le strategie di regolazione emotiva e le risposte degli individui alle difficoltà. Il risultato di una buona relazione di attaccamento dovrebbe essere il raggiungimento di un livello di esperienza e di maturazione neurobiologica tale da acquisire la capacità di regolazione emotiva autonoma, ma anche interattiva e condivisa quando ci si trova in contesti sociali.

Lo sviluppo di queste capacità promuove anche la maturazione dell’emisfero sinistro, importantissimo per le funzioni linguistiche e narrative e quindi per l’espressione verbale e la condivisione sociale delle emozioni. I compiti di mentalizzazione implicita ed esplicita e la comprensione sociale coinvolgono l’attività delle aree orbitofrontali e mediali della corteccia prefrontale (Bateman e Fonagy, 2006), stress e sofferenza eccessivi possono alterare l’attività neurotrasmettitoriale a livello prefrontale e causare la perdita temporanea del controllo da parte delle aree corticali su quelle sottocorticali (Arnsten, 1998). Lo spostamento del controllo dalle aree esecutive prefrontali alle aree profonde del cervello, automatiche e impulsive, provoca una regressione dal pensiero riflessivo alla messa in atto di comportamenti non mentalizzanti e reazioni somatiche primitive. I bambini molto piccoli, per rassicurarsi in assenza della loro mamma, utilizzano degli oggetti “prediletti” come una copertina o un peluche, tali “oggetti transizionali” (Winnicott, 1996) permettono al bambino di modulare i suoi stati emotivi.

La tendenza ad utilizzare dei regolatori esterni per calmare le proprie emozioni permane nell’età adulta sotto forma di comportamenti, come agitare una parte del corpo, fare sport, ballare, bere tisane calmanti, leggere o scrivere e possono avere la funzione di sedare uno stato di agitazione oppure di respingere la noia e la tristezza. Quando le risposte somatiche e comportamentali prendono il sopravvento danno origine a modalità primitive e spesso disadattive ed estreme di regolazione emotiva, come l’autolesionismo, l’abuso di alcool o droghe, comportamenti aggressivi e violenti, sesso compulsivo o attività pericolose che provocano cambiamenti a livello emotivo e corporeo, fungendo da regolatori esterni di stati emotivi indesiderati (Baldoni, 2014). L’utilizzo di queste condotte disadattive predispone ad una serie di disturbi fisici e mentali ed è tipicamente presente nei disturbi di personalità, in varie forme di dipendenza e nei disturbi del comportamento alimentare.

Regolazione emotiva e sviluppo di psicopatologie

I neonati percepiscono ed esprimono ogni loro esperienza attraverso il corpo, quindi la presenza di cure genitoriali adeguate, il rispecchiamento affettivo congruente, la funzione di contenimento e lo stabilirsi di un attaccamento sicuro diventano la conditio sine qua non per l’integrazione di corpo e mente, per la nascita del Sé psicologico e l’acquisizione dell’autoregolazione emotiva (Fonagy e Target 1997). In sostanza, la capacità di mentalizzare può essere considerata come il risultato di una buona riuscita di tutte le funzioni di caregiving sinora citate. Raggiungere tale traguardo permette di comprendere e prevedere il comportamento degli altri e di riflettere sui propri stati interni aumentando le capacità di regolazione autonoma. L’internalizzazione della funzione regolatrice mediata dai caregivers facilita il fronteggiamento adattivo delle situazioni stressanti, favorisce il benessere psicologico e sociale, riducendo il rischio di ricorrere a condotte disadattive.

Mio figlio ha un Disturbo Specifico dell’Apprendimento. Cosa vuol dire? Cosa posso fare per aiutarlo?

Negli ultimi anni si sente parlare molto di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) ma cosa sono e cosa vuol dire per un genitore avere un figlio al quale è stata posta questa diagnosi?

 

DSA è l’acronimo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento e sta ad indicare una specifica categoria di disturbi che si manifestano con significative difficoltà nell’acquisire ed utilizzare abilità di ascolto, espressione orale, lettura e ragionamento matematico, pur conservando intatto il funzionamento intellettivo generale.

Specificità del deficit

Molto importante è il principio di specificità in quanto i DSA si riferiscono ad uno specifico dominio di abilità. Alla base di questi disturbi ci sono disfunzioni neurobiologiche che interferiscono con il normale processo di acquisizione delle capacita di lettura, scrittura e calcolo. Si distinguono, a seconda delle abilità compromesse: dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia.

Oltre alle disfunzioni neurobiologiche non bisogna tralasciare fattori ambientali quali la famiglia e la scuola, che insieme contribuiscono a determinare difficoltà più o meno marcate nelle aree interessate.

DSA si evidenziano fin da quando il bambino è chiamato all’acquisizione di nuove abilità quali appunto lettura, scrittura e calcolo. Segni precursori fin dalla scuola dell’infanzia possono essere difficoltà del linguaggio come per esempio la capacità di imparare filastrocche o la difficoltà di attenzione.

Molto importante sottolineare che il funzionamento intellettivo è intatto. Spesso i genitori pensano che il proprio figlio abbia un ritardo avendo una diagnosi di DSA. Colpevole in questo caso anche la società che spesso tende a giudicare ma non a comprendere le reali cause della natura di questo disturbo.

Il contributo dei fattori emozionali nell’evoluzione dei DSA

Molto importanti nel processo di crescita sono i fattori emozionali che contribuiscono ad evidenziare un disturbo. Si pensi ad un bambino con difficoltà di lettura posto di fronte la lettura ad alta voce in un contesto quale la classe dei pari o altro luogo pubblico frequentato. L’ansia prestazionale, la paura, la demotivazione e la poca autostima investiranno il bambino tanto da evidenziare maggiormente la performance. In fase di valutazione per un clinico è molto importante valutare tutti gli aspetti che concorrono ad evidenziare un disturbo.

Attualmente ci si trova spesso di fronte bambini iperstimolati, caricati di mille informazioni il cui processamento richiede tempo e comprensione e a cui il genitore, complice la freneticità, quotidiana non riesce a dar conto.

Come si sente un genitore dinanzi a tutto questo? Cosa può fare per essere di aiuto al proprio figlio?

La legge 170 del 2010 tutela i bambini e ragazzi con DSA a scuola e nel contempo propone linee guida di aiuto per i genitori.

La legge 170 riconosce espressamente l’importanza del ruolo della famiglia all’art. 6 “Misure per i familiari” che recita

Fino al primo grado di studenti del primo ciclo dell’istruzione con DSA impegnati nell’assistenza alle attività scolastiche a casa, hanno diritto di usufruire di orari di lavoro flessibili.

La famiglia deve provvede, di propria iniziativa o su segnalazione del pediatra, sia esso di libera scelta o della scuola, a far valutare l’alunno o lo studente secondo le modalità previste dall’Art. 3 della Legge 170/2010 così da consegnare alla scuola la diagnosi di cui all’art. 3 della Legge 170/2010. Successivamente condivide le linee elaborate nella documentazione dei percorsi didattici individualizzati e personalizzati ed è chiamata a formalizzare con la scuola un patto educativo/formativo il PDP nel quale vengono specificate quali sono le strategie e gli strumenti che la scuola utilizza per aiutare il bambino nell’apprendimento. Si parla quindi di misure compensative e dispensative utilizzate secondi le necessità del bambino.

Questo è il primo passo da fare per tutelare il proprio figlio.

Ma i genitori? Le famiglie di bambini DSA, soprattutto nella prima fase, hanno bisogno di essere guidate alla conoscenza del problema, non solo in ordine ai possibili sviluppi dell’esperienza scolastica, ma anche informate con professionalità e costanza sulle strategie didattiche che di volta in volta la scuola progetta per un apprendimento quanto più possibile sereno e inclusivo, sulle verifiche e sui risultati attesi e ottenuti e sulle possibili ricalibrature dei percorsi posti in essere.

Scoprire che il proprio figlio ha una problematica inerente l’ambito scolastico non è facile da accettare ed è comprensibile che i genitori possano essere spaventati all’inzio. Uno degli aiuti per i genitori è il parent training.

Parent training, una risorsa per i genitori

Il parent training rappresenta una risorsa fondamentale nel processo di riabilitazione di un bambino con difficoltà. L’importanza di questa tecnica di sostegno è data dal fatto che non si rivolge al bambino, ma ai suoi familiari.

Si tratta di un modello di intervento la cui caratteristica principale è quella di coinvolgere i genitori quali agenti di primaria importanza nello sviluppo dei figli, offrendo un aiuto specialistico a coloro che desiderano cambiare il modo di interagire con loro e promuovendo lo sviluppo di comportamenti positivi.

I gruppi consentono ai genitori di affrontare i compiti e le difficoltà educative aumentandone le competenze ma anche favorendo, in un clima collaborativo, la condivisione delle esperienze individuali.

Nei casi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, il Parent Training ha come obiettivo principe quello di sostenere la genitorialità al fine di favorire la risposta emotiva e l’atteggiamento educativo ottimali per la promozione delle competenze e del benessere del bambino in difficoltà.

Il Parent Training si pone inoltre come obiettivo quello di facilitare la comprensione dei genitori in merito alle difficoltà scolastiche del figlio; solo con un’opportuna consapevolezza del problema, infatti, saranno capaci di aiutarlo a fare i compiti e migliorare l’apprendimento.

Un altro scopo importante è quello di favorire il confronto tra realtà ed esperienze simili, promuovendo così un clima sereno in cui i genitori hanno la possibilità di rendersi conto di non essere i soli ad avere problemi educativi.

Il gruppo consente infine di incrementare la fiducia nei confronti delle procedure che vengono suggerite, constatando che altri le utilizzano con soddisfazione.

Sia il bambino che i genitori hanno bisogno di trovare ascolto ed essere compresi, in modo da avere consapevolezza e intraprendere il percorso di crescita del bambino con serenità.

Inconsapevolezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 39

Ogni giorno ognuno di noi si muove nel mondo svolgendo un’infinità di azioni differenti, prende decisioni, interagisce con altre persone.. Ma cosa guida il nostro comportamento? Siamo davvero consapevoli di tutto ciò che facciamo? E soprattutto, siamo sicuri che la prospettiva che stiamo adottando sia proprio quella giusta?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Inconsapevolezza (Nr. 39)

 

Per fortuna o purtroppo…” Così cantava Giorgio Gaber nella sua ultima canzone con la voce già incespicante per la malattia. E chissà se se ne rendeva conto, non della morte che da sempre aveva evidentemente avvistato, ma del cambiamento che il suo approssimarsi spesso comporta; chissà se qualcuno a lui vicino glielo avrà detto e se lui ci avrà creduto.

Perché “per fortuna o purtroppo” noi siamo il centro del nostro mondo e da un lato non riusciamo a valutarci dall’esterno, dall’altro le valutazioni che facciamo sul mondo variano nel tempo con il variare del centro stesso. Il centro degli assi cartesiani dal quale descriviamo tutto è esso stesso in continuo cambiamento a diversi livelli.

Il punto di vista dal quale facciamo qualsiasi affermazione (e che è a noi stessi invisibile in quanto dato per scontato e ovvio) è esso stesso in mutamento e dunque produce nel tempo valutazioni diverse dello stesso fenomeno, senza però rendersene conto perché è lui stesso ad essere cambiato. Metaforicamente possiamo immaginarci un predicatore che si alza in piedi e si siede su un pulpito nella cappella di una nave che sale e scende sulle onde di un oceano che s’alza e s’abbassa per via delle maree su di un pianeta che contemporaneamente ruota quotidianamente su se stesso, rivoluziona annualmente intorno al sole mentre oscilla come una trottola intorno al suo asse.

Quando stiamo guidando tutti quelli che vanno più lentamente di noi ci sembrano un incomprensibile intralcio, mentre quelli che ci chiedono strada e ci sorpassano ci sembrano dei folli immotivati frettolosi con noi al centro che andiamo alla velocità giusta.

Noi vecchi siamo caratterizzati principalmente dalla lentezza, nel movimento, nei riflessi, nel ragionamento, ma ciò appare evidente ad un osservatore esterno e non a noi stessi che andiamo, come a diciott’anni al massimo della velocità consentita: per questo non è facile convincerci che dobbiamo smettere di guidare e di fare tante altre cose: noi siamo sempre gli stessi, semmai è il mondo che con tutte queste diavolerie moderne corre troppo.

Di questo fenomeno di traslazione del punto di vista occorrerebbe tener conto quando si scrive il testamento biologico: chi ci dice che il modo di valutare l’opportunità dell’esistenza di un demente, di un ritardato mentale gravissimo o di un tetraplegico sia lo stesso di un vent’enne surfista californiano? E a quale dei personaggi in cui ci siamo trasformati nel corso dell’esistenza spetta il diritto di decidere per tutti? Perché, attenzione, una volta fatto “rien va plus”, qualche zelante infermiere o qualche radicale intollerante di quella che immagina una condizione inaccettabile, lo si trova sempre (e in quelle condizioni non è neppure facile difendersi ed è indecoroso sperare nella difesa d’ufficio di Santa Romana Chiesa prima tanto avversata).

Detto questo il senso del “per fortuna” è evidente perché non esistendo nessuna consapevolezza al di fuori di sé, ci si reputa sempre nel giusto mezzo, a posto, OK.

Il “purtroppo” dipende dal fatto che certi della nostra prospettiva giudichiamo quale sia il bene o il male per gli altri e mossi da velleità salvifiche non ci limitiamo ai consigli ma bruciamo sui roghi, rieduchiamo nei gulag e stacchiamo le spine. Naturalmente a fin di bene, ci mancherebbe.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Quando il tempo vola: come si genera l’esperienza soggettiva del tempo

La memoria episodica è un tipo di memoria autobiografica in cui la persona è protagonista, che si forma a seguito di un evento specifico (cosa e dove) avvenuto in un momento temporale ben preciso (quando).

 

Un nuovo studio recentemente pubblicato su Nature e condotto da Albert Tsao e collaboratori del Kavli Institute for Systems Neuroscience in Trondheim, Norvegia, ha esplorato e messo in luce i meccanismi neurali che presiedono la codifica soggettiva del tempo.

Perché in alcune situazioni ci sembra che il tempo scorra molto velocemente e in altre occasioni ci sembra al contrario che non passi mai, che sia eterno, e ci accorgiamo di guardare con impazienza l’orologio sperando che sia passato almeno una buona mezz’ora dall’ultima volta che l’abbiamo fatto, cioè cinque minuti prima?

Accade altresì molto spesso che le situazioni in cui il tempo “vola” e quelle che consideriamo “infinite” siano definite piacevoli per la prima condizione e noiose per la seconda, tanto da chiedersi se esista una relazione tra spazio e tempo e come questa si concretizzi a livello neurale nella memoria autobiografica.

Lo studio mostra quali aree cerebrali sono coinvolte nella memoria episodica

Lo studio di Tsao e colleghi (2018) ha mostrato come la memoria episodica, cioè una memoria autobiografica in cui la persona è protagonista e che si forma a seguito di un evento specifico (cosa e dove) avvenuto in un momento temporale ben preciso (quando), si generi in aree cerebrali vicine che processano informazioni spaziali e che sono responsabili dell’esperienza del tempo.

Uno studio precedente di Moser & Moser (2005) aveva messo in luce nella corteccia entorinale mediale, una porzione dell’ippocampo, un gruppo di neuroni chiamati “grid cells” contenenti una mappa neurale dello spazio ambientale direzionalmente orientata e topograficamente organizzata, che si attivava ogniqualvolta la posizione dell’animale nello spazio coincideva con qualsiasi vertice di una griglia (grid) di triangoli equilateri che costituivano la superficie dell’ambiente. Pertanto da questo studio è apparso evidente come la codifica dello spazio ambientale fosse a carico della corteccia entorinale mediale.

Tsao e colleghi hanno ipotizzato che esistesse ugualmente una regione cerebrale adiacente alla corteccia entorinale mediale, dove sono state scoperte le grid cells, responsabile della codifica del tempo.

Inizialmente i ricercatori erano alla ricerca di un pattern di neuroni simili alle grid cells ma hanno incontrato notevoli difficoltà a causa del fatto che il segnale dei neuroni della corteccia entorinale laterale (LEC) si modificava nel tempo.

[…] il tempo è qualcosa di unico e di dinamico; se questo network è responsabile della codifica del tempo, il suo segnale dovrebbe cambiare nel tempo con il fine di registrare, come memorie uniche, esperienze di vita (Moser, autore dello studio)

Per tale ragione, Tso e colleghi (2018) hanno deciso di registrare l’attività neurale della LEC per diverse ore durante le quali i topi erano impegnati in una serie di esperimenti: il primo, che consisteva nel correre all’interno di un box le cui pareti cambiavano colore lungo un arco temporale, è stato sottoposto ripetutamente agli animali per 12 volte in modo tale che essi potessero stabilire i cosiddetti “contesti temporali multipli”.

I ricercatori in questo modo hanno potuto esaminare l’attività neurale della regione LEC differenziando i momenti in cui i neuroni stavano codificando i cambiamenti nei colori delle pareti da quelli che si occupavano della codifica della progressione del tempo durante l’esperimento (Tsao, Sugar, Lu, Wang et al., 2018).

Questo primo esperimento ha determinato come effettivamente l’attività dei neuroni della LEC siano possibili fonti di informazioni per l’animale circa il contesto temporale in cui si verifica un certo evento di cui egli è protagonista, informazioni necessarie affinché si possa formare una memoria episodica.

In aggiunta a questo, il secondo esperimento prevedeva che i topi esplorassero liberamente degli spazi scegliendo quali azioni mettere in atto per riuscire a raggiungere del cioccolato.

L’unicità del segnale neurale degli animali durante questo [secondo] esperimento suggerisce che gli animali hanno un’ottima capacità nel registrare il tempo e la sequenza temporale degli eventi nel corso delle due ore che hanno costituito la durata dell’esperimento, e pertanto siamo stati in grado di estrarre, dai dati registrati, la codifica temporale, tracciando esattamente i momenti in cui l’animale ha scelto quell’azione o si è verificato quell’avvenimento (Jørgen Sugar, co-autore dello studio)

Infine nel terzo esperimento, gli animali sono stati costretti a seguire un tracciato ben preciso, con opzioni d’azione più limitate e poche esperienze; in particolare essi dovevano o girare a destra o girare a sinistra per raggiungere il cioccolato.

I ricercatori, nell’analizzare i dati provenienti da questo terzo esperimento, si sono accorti che l’attività neurale responsabile della codifica temporale passava da una sequenza unica (come era successo nel secondo esperimento) ad una ripetitiva e maggiormente prevedibile (Tsao, Sugar, Lu, Wang et al., 2018).

Conclusioni

Lo studio ha pertanto dimostrato come le popolazioni neurali di LEC rappresentino il tempo in modo inerente alla codifica dell’esperienza, fungendo da “neural clock”, cioè organizzando l’esperienza in una precisa sequenza di eventi distinti, dando così un senso al tempo.

L’attività neurale infatti non rappresenta la misura precisa del tempo oggettivo ma di un tempo soggettivo derivato dal flusso delle esperienze in corso, interpretate come piacevoli o spiacevoli.

In conclusione, l’ippocampo è in grado di immagazzinare una rappresentazione omogenea di cosa, quando e dove.

Lo psicologo a scuola: come viene percepito dai docenti?

In numerosi Paesi Europei, tranne che in Italia, la figura dello Psicologo a Scuola ha un ruolo fondamentale nel supportare il sistema educativo e contribuisce al miglioramento delle prestazioni del sistema scolastico. L’esigenza di una specifica risposta professionale quale quella offerta dallo psicologo scolastico non costituisce affatto il tentativo di creare “nuovi posti di lavoro” da parte di una categoria professionale, ma piuttosto la possibilità di rispondere in maniera appropriata e competente ai vari problemi che emergono all’interno del sistema scolastico.

Gruppo di Lavoro Nazionale di Psicologia Scolastica

 

Negli ultimi anni, i profondi cambiamenti avvenuti dal punto di vista sociale, culturale, politico, economico, hanno esercitato una significativa influenza anche all’interno delle istituzioni scolastiche, contribuendo all’emergere di nuove e specifiche esigenze.

Si è in particolare assistito ad un cambiamento nella concezione dei processi di apprendimento, di cui oggi si riconosce la stretta interconnessione con le componenti emotive, affettive e relazionali.

Inoltre, come testimoniato da recenti casi di cronaca, stiamo assistendo allo sviluppo di un crescente malessere, individuabile a più livelli – dagli alunni, ai genitori, agli insegnanti – nonché di una difficoltà di relazione tra i vari protagonisti.

Alla luce di tali considerazioni, per una scuola in continuo mutamento che è chiamata a rispondere ad esigenze diversificate e complesse, occorre ripensare ad una Psicologia in azione dentro la scuola secondo un intervento rinnovato, nel quale si rivela essenziale e necessaria una risposta proveniente da una specifica professionalità: quella dello psicologo scolastico.

Lo psicologo a scuola

La continuità operativa che l’intervento richiede mira al raggiungimento di una presenza dello psicologo a scuola che sia costante, attiva e partecipante.

L’obiettivo è quello di poter realizzare uno specifico piano d’azione mirato alla prevenzione, alla promozione del benessere e all’intervento in aree di disagio conclamate. Lo psicologo scolastico si pone dunque come sostenitore del cambiamento, operando in collaborazione e in sinergia con tutti gli attori del sistema scolastico.

Al di là delle specificità che i singoli interventi messi in atto possono perseguire rispetto alle diverse aree della Psicologia, è sempre più opportuno considerare la Scuola come sistema complesso in cui la crescita didattica e personale degli studenti sono intimamente e inevitabilmente connesse e su cui è utile, nonché doveroso, operare un cambiamento che integri il ruolo educativo al benessere psico-sociale di ogni soggetto che lo compone.

Osservare questo sistema complesso significa, in primis, ascoltare e ridare voce a chi svolge quotidianamente il proprio operato all’interno della scuola, affinché le esigenze espresse diventino per lo Psicologo una guida con cui orientare il suo lavoro.

Un’indagine esplorativa: somministrazione del questionario “Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti”

Da qui è nata l’idea di effettuare un’indagine esplorativa, attraverso la costruzione e la somministrazione del questionario “Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti”, compilato da un campione di 440 docenti, provenienti da tutta Italia ed operanti in asilo nido, scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di primo e di secondo grado.

Il campione analizzato si suddivide secondo le seguenti ripartizioni: l’area geografica di appartenenza vede la maggiore percentuale al centro (35,1%), seguita dal sud (33%) e, infine, dal nord (31.9%), con una netta predominanza di personale femminile (91,8%) rispetto a quello maschile (8,2%). Più del 50% dei docenti intervistati lavora all’interno della scuola da almeno 10 anni, di questi il 27% da più di 20.

La lunga permanenza all’interno del settore scolastico dei docenti che hanno risposto al questionario offre un’idea strutturata e consapevole del “vissuto” della propria professione, nonché delle aree maggiormente problematiche e della richiesta di risorse specifiche per possano lavorare ad una risoluzione.

Dai dati raccolti è emerso che la problematica maggiormente evidenziata dagli insegnanti risulta essere la gestione delle classi difficili (60,5%), seguita dalla gestione degli alunni con un “bisogno educativo speciale” o un “disturbo dell’apprendimento” (13,6%) che richiedono un’adeguata formazione degli insegnanti. Vengono inoltre evidenziati problemi relativi alla scarsa comunicazione fra scuola e famiglia (9,3%) ed in ultimo una mancata organizzazione del lavoro di rete tra insegnanti e tra insegnanti e dirigenti scolastici (7,7%).

Un’altra tematica esplorata nell’indagine riguarda gli aspetti maggiormente apprezzati degli interventi psicologici sperimentati durante la propria attività scolastica, che risultano essere:

  • la gestione dei conflitti del gruppo classe
  • la mediazione tra insegnanti e famiglie
  • il miglioramento dell’autostima e della consapevolezza delle emozioni negli studenti
  • la formazione del corpo docente sul riconoscimento precoce di varie problematiche e delle modalità per affrontarle

I risultati dell’indagine: qual è il ruolo dello Psciologo scolastico secondo i docenti?

Emerge una percezione dello Psicologo come risorsa (51%) e, per il 21,3% dei partecipanti, la sua presenza viene vista come una vera e propria necessità per il benessere scolastico. Per la quasi totalità dei partecipanti (97,3%) lo Psicologo rappresenta la figura più preparata per migliorare l’intero ambiente scolastico.

Alla luce dei dati emersi risulta fondamentale continuare a percorrere la strada del riconoscimento della figura dello Psicologo Scolastico come professionista che può operare attraverso svariate modalità, ben oltre l’attività dello “sportello d’ascolto”, intervento peraltro già ripensato dal GdL Nazionale di Psicologia Scolastica in un’ottica interattiva e dinamica.

Come si evidenzia dal nostro campione di riferimento, solo il 12% considera la prevenzione come un’attività importante, confermando l’idea ancora diffusa che la presenza dello psicologo a scuola sia necessaria prevalentemente in condizioni di emergenza, per intervenire clinicamente in situazioni di disagio sfociate in comportamenti disadattivi.

La proposta di intervento del GdL Nazionale di Psicologia Scolastica: il ruolo proposto per lo psicologo a scuola

La proposta di intervento di cui il GdL si fa portatore si fonda sull’idea di una presenza sistematica dello Psicologo scolastico al fine di poter attivare servizi più complessi e strutturati a vari livelli per le diverse aree di intervento. Tali aree comprendono: attività di prevenzione e di promozione del benessere, contrasto del disagio e prevenzione di comportamenti disfunzionali.

Al fine di un miglioramento di qualsiasi tipo di intervento scolastico risulta però fondamentale condividere e chiarire, a inizio attività, le aspettative e gli obiettivi realmente perseguibili a seconda del tempo e dei finanziamenti a disposizione, nonché effettuare una valutazione dell’intervento stesso sia in itinere che al termine per monitorare costantemente l’andamento del percorso e potenziarne l’efficacia.

I dati osservati nell’indagine superano il pregiudizio infondato di alcune categorie professionali che tendono a mostrare la Psicologia a Scuola come un intervento ancora in fase di sperimentazione.

I dati ci mostrano non solo come la Psicologia a scuola è una realtà già esistente ma, soprattutto, che l’esigenza di una specifica risposta professionale non costituisce affatto il tentativo di creare “nuovi posti di lavoro” da parte di una categoria professionale, ma piuttosto la possibilità di rispondere in maniera appropriata e competente ai vari problemi emersi.

La psicologia per la scuola è una realtà, esistente da anni attraverso collaborazioni, progetti, successi, vantaggi e sviluppi che sono ampiamente documentati in letteratura (Francescato, Putton, Cudini 2000; Gelli e Mannarini 1998, 1999; Pellai A. 2005; Gavazzi, Ornaghi, Antoniotti 2011). L’indagine N.E.P.E.S. del 2010 (cit. in Matteucci M.C., 2016), ad esempio, mette in evidenza che in tutti i paesi Europei, tranne che in Italia, lo psicologo a scuola ha un ruolo fondamentale nel supportare il sistema educativo e contribuisce al miglioramento delle prestazioni del sistema scolastico.

L’indagine del GDL Nazionale di Psicologia Scolastica offre un ulteriore e recente dato a sostegno di questa realtà, mettendo in luce la necessità di dare risposta alla richiesta di ben-essere globale di cui, oggi più che mai, i protagonisti del sistema scolastico sono portatori.

Alla luce dei dati emersi, che evidenziano un bisogno sempre maggiore dell’intervento dello psicologo rispetto alle dinamiche e alle problematiche presenti nel contesto scolastico, il GdL di Psicologia Scolastica è impegnato nel mettere a disposizione le sue competenze in progetti ed attività psicosociali di prevenzione primaria, secondaria e terziaria che, in stretta collaborazione con docenti e famiglie, possano contribuire al reale miglioramento del benessere a scuola.

Recensionde del libro “Nati a perdere” di G. Salvatore – Un esperimento narrativo basato su storie reali

Nati a perdere è un libro che propone una sequenza rapida, implosiva, di personaggi-racconti.

 

Chi fa lo psicoterapeuta come me sceglie di bere dolore più volte a settimana. Se è condito di speranza non avvelena. Un dolore curabile, che può recedere. A fine giornata lo abbiamo ridotto di una tacca, torniamo a casa pacificati. Chi fa lo psicoterapeuta e diventa scrittore spilla veleno umano.

Nati a perdere è questo: storie del Sud dove “troneggiante, moribondo, c’era Gesù inchiodato a una croce di legno spesso”. E si fa i fatti suoi, non offre antidoto.

Al suo cospetto Giorgio, timido da stare appiccicato con l’adesivo alle pareti della chiesa. Unica gloria della sua vita i cross perfetti per Carmine che segnava in mezza rovesciata. Careca passa a Maradona. Quello che fa Giorgio il parroco non lo sa.

Alice mena mazzate tremende a Jenny, Carlotta e Alice piccola. Fossimo a El Paso e non a Salerno sarebbe Alice junior. Figlie? No, le sue bambole. Che però si comportano bene, sanno evitare la furia di Alice grande. Una bambina così, che mamma ha alle spalle?

Uno psicoterapeuta che diventa scrittore sa che Gesù non risponde, e racconta sconfitte. Senza redenzione. Noi possiamo ingoiare dolore perché nelle nostre vene scorre una sorta di onnipotenza curativa, noi quella pena la facciamo passare.

Ma non è vero. Siamo utili solo a chi entra nel nostro studio con la speranza accesa. Se proviamo ad ascoltare le stesse storie lì fuori usciamo pazzi, finiamo nella terra perfida di Céline, Palahnuk, Di Monopoli. La speranza appare in un calcio circolare. Giovanni lo impara dal maestro di karate, per puro assorbimento. Di nascosto dalla madre mediterranea paralizzante e onnipresente, capace di invadere lo spazio sacro del tatami esegue il calcio insieme al kiai, l’urlo rituale: “Un kiai vero, fatto di vita e di morte”

 

 

 


 

Nati a perdere (2015) di Giampaolo Salvatore – Anteprima –

L’intolleranza dell’incertezza nelle malattie reumatiche

Secondo quanto riportato dall’ISTAT (Istat, 2017), nel 2016 in Italia tra le malattie o condizioni croniche più diffuse, ossia tra i problemi di salute di lunga durata e generalmente di lenta progressione, spiccavano al secondo posto, subito dopo l’ipertensione (17,4 per cento), malattie reumatiche quali l’artrosi e l’artrite (15,9 per cento). 

 

L’artrosi e l’artrite appartengono al più ampio gruppo delle patologie reumatiche. Le malattie reumatiche sono una categoria di condizioni croniche che coinvolgono il sistema muscolo-scheletrico. Esse possono portare ad una perdita della produttività, ad un aumento dei costi per il servizio sanitario e ad una ridotta qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie (Chopra & Abdel-Nasser, 2008).

L’importanza di prestare una maggiore attenzione all’incremento della qualità di vita dei soggetti con disturbi muscolo-scheletrici è stata sottolineata, negli ultimi anni, dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) (Franco-Aguirre, Cardona-Tapias, & Cardona-Arias, 2017).

Ciò anche alla luce del fatto che i sintomi principali di queste malattie – la fatica ed il dolore – essendo per lo più non visibili (Geenen & Finset, 2012), vengono spesso mal riconosciuti e non compresi dalle altre persone (Cameron, Kool, Estevez-Lopez, Lopez-Chicheri & Geenen, 2018) e sottovalutati dai professionisti sanitari (Franco-Aguirre, Cardona-Tapias & Cardona-Arias, 2017). A volte, si assiste infatti ad un vero e proprio divario tra le misure più oggettive di gravità della malattia (ad esempio, la radiografia) e quello che i pazienti riportano circa il loro dolore e la loro disabilità (Finan et al., 2013; Wolfe et al., 2014).

Il dolore nelle malattie reumatiche: la componente psicologica

Il dolore, sintomo debilitante di malattie reumatiche come l’artrite reumatoide, la fibromialgia e la spondiloartrite, può essere influenzato da una serie di fattori, inclusi quelli psicologici (Hadjistavropoulos & Craig, 2004; Knotek & Knotkova, 2008; Linton, 2005; Simons, Elman & Borsook, 2014).

L’ansia, l’ipervigilanza e la catastrofizzazione hanno infatti dimostrato di avere un peso sulla percezione del dolore (Hollins et al. 2009; McDermid, Rollman & McCain, 1996; Ruscheweyh, Albers, Kreusch, Sommer & Marziniak, 2013; Spielberger, Gorsuch & Lushene, 1970; Sullivan et al., 2001).

Un altro costrutto che sembrerebbe contribuire a configurare l’esperienza del dolore ed il modo in cui l’individuo la affronta è l’intolleranza dell’incertezza (Bélanger et al., 2017).

L’intolleranza dell’incertezza

Negli anni sono state proposte diverse definizioni di intolleranza dell’incertezza. Una delle più recenti risulta essere la seguente: “un’incapacità disposizionale da parte dell’individuo a tollerare una risposta avversiva innescata dall’assenza percepita di informazioni salienti, chiave, o sufficienti e sostenuta dalla percezione associata
 di incertezza” (Carleton, 2016b).

Come si evince dalle parole di Carleton (2016b), la caratteristica centrale dell’intolleranza dell’incertezza è la paura dell’ignoto (Carleton, 2016a; Carleton, Mulvogue, Thibodeau, McCabe, Antony & Asmundson, 2012), emozione condizionata probabilmente sia da predisposizioni individuali (ad esempio, il temperamento) che dall’apprendimento (Oglesby, Allan, & Schmidt, 2017).

L’intolleranza dell’incertezza deriva da un bias cognitivo che influenza il modo in cui un soggetto percepisce, interpreta e risponde a situazioni incerte o ambigue. Più specificatamente, tale costrutto psicologico fa riferimento alla tendenza a rispondere, a livello emotivo, cognitivo e comportamentale, a situazioni o eventi che sono incerti percependoli ed interpretandoli come negativi o minacciosi (Dugas, Schwartz & Francis, 2004).

L’ intolleranza dell’incertezza è stata descritta come un fattore di rischio per emozioni negative quali l’ansia, la preoccupazione ed il panico (Fischerauer, Talaei-Khoei, Vissers, Chen & Vranceanu, 2018).

Tuttavia, all’ incertezza non seguono necessariamente sempre reazioni spiacevoli. Secondo la teoria della gestione dell’incertezza (Brashers, 2001; Brashers, Neidig, Haas, Dobbs, Cardillo & Russell, 2000), quando l’ incertezza include la speranza, i soggetti desiderano rimanere incerti circa il problema ed evitare l’informazione. Quando invece l’ incertezza viene letta come una minaccia, si genera un’emozione di ansia legata all’esposizione all’informazione (Brashers, 2001). Ciò è proprio quello che succede agli individui con alta intolleranza dell’incertezza, i quali – lo ripetiamo – hanno la tendenza ad aspettarsi eventi negativi a partire da situazioni incerte (Dugas, Hedayati, Karavidas, Buhr, Francis & Phillips, 2005).

Intolleranza dell’incertezza e Piscopatologia

Benchè i primi lavori abbiano considerato l’intolleranza dell’incertezza esclusivamente come un elemento di vulnerabilità per il disturbo d’ansia generalizzato (Dugas, Gagnon, Ladouceur & Freeston, 1998), le evidenze degli ultimi anni indicano che essa potrebbe essere importante per lo sviluppo ed il mantenimento di tutti i disturbi d’ansia (Carleton, 2012; Carleton et al., 2012; Mahoney & McEvoy, 2012a, 2012b; McEvoy & Mahoney, 2012).

Nonostante correli con elevati sintomi ansiosi (Oglesby, Allan, & Schmidt, 2017), l’intolleranza dell’incertezza pare essere fortunatamente malleabile ed un suo decremento si associa ad esiti positivi di trattamento. Ad esempio, in alcune evidenze, diminuzioni nell’intolleranza dell’incertezza hanno previsto miglioramenti nel disturbo ossessivo-compulsivo (Kyrios, Hordern & Fassnacht, 2015; Manos, Cahill, Wetterneck, Conelea, Ross & Riemann, 2010), nel disturbo d’ansia sociale, nell’ansia generalizzata e nella gravità del pensiero negativo ripetitivo (McEvoy & Erceg-Hurn, 2016).

L’intolleranza dell’incertezza nelle malattie reumatiche

Gli studi che esplorano il legame tra intolleranza dell’incertezza e percezione del dolore sono scarsi in letteratura (Bèlanger et al., 2017). Tuttavia, ricerche passate hanno dimostrato che persone intolleranti all’incertezza sono sia più ansiose (Nelson & Shankman, 2011) sia più attente a situazioni potenzialmente pericolose (Gole, Schäfer & Schienle, 2012), due predisposizioni che incrementano l’esperienza soggettiva del dolore (Spielberger, Gorsuch & Lushene, 1970; Wiech, Ploner & Tracey, 2008).

Inoltre, uno studio recente (Bélanger et al., 2017) suggerisce che alti livelli di intolleranza dell’incertezza predicono un peggioramento nella percezione del dolore, quando il dolore è inaspettato.

Pertanto, se la ricerca futura confermerà l’associazione tra intolleranza dell’incertezza ed amplificazione del dolore, la variabile psicologica dell’intolleranza dell’incertezza potrà essere considerata uno dei possibili target di indagine e di intervento in persone con malattie reumatiche che soffrono di dolore cronico.

Nelle sindromi reumatologiche, le caratteristiche fisiopatologiche del dolore possono cambiare nel corso del tempo e quindi non essere facilmente prevedibili. Nell’artrite reumatoide, ad esempio, quando l’infiammazione colpisce inizialmente le articolazioni, il dolore è probabilmente nocicettivo, ovvero evocato dalla stimolazione dei recettori del dolore (nocicettori), attivati da danno o infiammazione ai tessuti. Tuttavia, esso diviene gradualmente centralizzato, ossia mantenuto principalmente dal sistema nervoso centrale, piuttosto che dal sistema nervoso periferico, nel momento in cui si diffonde nel corpo (Atzeni, Cazzola, Benucci, Di Franco, Salaffi & Sarzi-Puttini, 2011; Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012).

Uno dei modi più immediati per identificare quei soggetti il cui dolore è per lunghi periodi di tempo sia nocicettivo che centralizzato consiste nel cercare clusters di sintomi somatici (ad esempio, fatica, dolore, problemi di memoria e disturbi del sonno) in co-morbilità (Goesling, Clauw & Hassett, 2013; Stisi et al., 2008). Questo perché i neurotrasmettitori ad azione centrale, presenti a livelli anomali, che plausibilmente rivestono un ruolo chiave nel causare il dolore (ad esempio, bassi livelli di norepinefrina, GABA o serotonina, ed alti livelli di glutammato o sostanza P), sono implicati anche nel controllare il sonno, l’umore e lo stato di vigilanza (Goesling, Clauw & Hassett, 2013).

Pertanto, in individui che sviluppano il dolore centralizzato non è inusuale osservare l’occorrenza di dolore in associazione con altri sintomi, mediati a livello centrale (Alciati et al., 2012; Goesling, Clauw & Hassett, 2013), che di frequente non rispondono alle terapie standard (Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012; Stisi et al., 2008).

Per proporre un esempio, pazienti con osteoartrite al ginocchio, disturbo articolare diffuso soprattutto tra la popolazione over 50, provano spesso una fatica funzionalmente limitante (Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012; Goesling, Clauw & Hassett, 2013) ed un dolore intenso non solo nell’articolazione del ginocchio e nelle strutture circostanti ma anche in zone non colpite direttamente dall’osteoartrite (Atzeni, Cazzola, Benucci, Di Franco, Salaffi & Sarzi-Puttini, 2011; Atzeni, Salli, Benucci, Di Franco, Alciati & Sarzi-Puttini, 2012).

Malattie reumatiche e gestione del dolore cronico

Nelle malattie reumatiche, il dolore cronico viene di frequente gestito in modo non appropriato (Cherubino, Sarzi-Puttini, Zuccaro & Labianca, 2012).

Un trattamento inadeguato del dolore cronico rischia di non consentire la partecipazione alle attività della vita quotidiana, di influenzare negativamente le capacità lavorative e di contribuire ad un elevato indice di ansia (Sarzi-Puttini, Atzeni & Salaffi, 2014), effettivamente riscontrato spesso nelle persone con condizioni croniche dolorose (Asmundson & Katz, 2009; Bair, Robinson, Katon & Kroenke, 2003; Edwards, Cahalan, Mensing, Smith & Haythornthwaite, 2011; McCracken & Vowles, 2014). Di conseguenza, un opportuno sollievo dal dolore, benché complesso, si rivela di fondamentale importanza.

Essendo un fenomeno influenzato da variabili biologiche, psicologiche e sociali, il dolore richiede, per essere trattato efficacemente, l’adozione di un approccio multidisciplinare che prenda in considerazione interventi farmacologici e non farmacologici basandosi sul tipo di disturbo, sulle caratteristiche del dolore stesso, sulle abilità psicologiche di coping e sullo stile di vita (Cunningham & Kashikar-Zuck, 2013; Sarzi-Puttini, Vellucci, Zuccaro, Cherubino, Labianca & Fornasari, 2012).

Tra le strategie non farmacologiche, la terapia cognitivo comportamentale, il biofeedback, la meditazione e la mindfulness, ed il rilassamento sono risultati essere in grado di aiutare i pazienti con dolore reumatico (Cazzola, Atzeni, Salaffi, Stisi, Cassisi & Sarzi-Puttini, 2010; Sarzi-Puttini, Buskila, Carrabba, Doria & Atzeni, 2008; Sarzi-Puttini, Vellucci, Zuccaro, Cherubino, Labianca & Fornasari, 2012).

Considerata la relazione – preliminare – tra intolleranza dell’incertezza ed aumento dell’esperienza soggettiva di dolore, un intervento che si ipotizza essere altrettanto utile è un training cognitivo mirato all’intolleranza dell’incertezza. Insieme ad altre tecniche, esso potrebbe servire a trattare e, se possibile, a prevenire gli aspetti centralizzati del dolore in quei pazienti affetti da malattie reumatiche che alla valutazione clinica risultano essere alti in intolleranza dell’incertezza.

Purtroppo, non esistono ancora markers clinici, di laboratorio o di neuroimaging capaci di stabilire perché in certi pazienti, a differenza di altri, il dolore rimane localizzato, senza diffondersi (Warren, Langenberg & Clauw, 2013), e perché (e quando) il dolore localizzato in una specifica articolazione o zona del corpo si trasforma in cronico e diffuso (Sarzi-Puttini, Atzeni & Salaffi, 2014).

Data questa incertezza relativa al timing, all’intensità ed alla localizzazione del dolore, i pazienti reumatologici con il bias dell’intolleranza dell’incertezza possono essere più a rischio – per via del legame preliminare tra intolleranza dell’incertezza e peggioramento dell’esperienza soggettiva di dolore – di sviluppare un dolore cronico. Il dolore cronico, a sua volta, può contribuire ad innalzare il livello dei sintomi ansiosi che possono intensificare ulteriormente la percezione del dolore (Edwards, Dworkin, Sullivan, Turk & Wasan, 2016), in un vero e proprio circolo vizioso.

Di conseguenza, individui affetti da malattie reumatiche con il fattore di vulnerabilità psicologica dell’intolleranza dell’incertezza potrebbero – in via ipotetica – beneficiare di un breve training cognitivo orientato a facilitare interpretazioni neutre/non minacciose delle sensazioni dolorose provenienti dal danno nocicettivo periferico. Questo tipo di intervento, anche se testato finora solo su un campione di 79 studenti di psicologia, sembra promettente: è riuscito a ridurre in modo significativo l’intolleranza dell’incertezza (Oglesby, Allan & Schmidt, 2017).

Obesità e problemi ponderali: il peso dello stigma e lo stigma del peso negli uomini

Un nuovo studio di Himmelstein, Puhl e Quinn pubblicato su Obesity rileva che una significativa parte degli uomini adulti riferisce di essere stato bistrattato a causa del peso.

 

In tema obesità e problemi ponderali si tende spesso a credere che siano soprattutto le donne ad essere vittime dello stigma legato al peso. Questo, se da un lato tende ad alimentare l’idea errata che il dover essere in forma è un problema per lo più femminile, d’altro lato potrebbe rendere difficile comprendere la sofferenza che anche gli uomini con obesità provano quando si sentono stigmatizzati.

Per questo motivo, la ricerca di Himmelstein, Puhl e Quinn pubblicata su Obesity, tra le prime a studiare il problema dello stigma legato al peso esclusivamente negli uomini, fornisce dati interessanti per capire in che modo gli uomini vivono lo stigma percepito.

I risultati suggeriscono che gli uomini potrebbero sperimentare lo stigma basato sul peso in percentuali simili alle donne. Gli atteggiamenti negativi verso le persone con obesità sono diffusi e possono essere causa di problematiche fisiche ed emotive.

 

Obesità negli uomini: ne soffrono come le donne?

Le precedenti ricerche su questo tipo di stigma si sono focalizzate prevalentemente sulle donne lasciando intendere che fosse più diffuso in queste ultime. Questo studio tuttavia mostra come il divario tra uomini e donne sia minore.

Lo studio ha coinvolto un campione di 1513 uomini di cui il 40% ha riferito di avere sperimentato stigma a causa del proprio peso.

Gli uomini che hanno riportato esperienze di stigma erano più giovani, meno coinvolti in una relazione matrimoniale, più facilmente in una condizione di obesità e avevano tentato di perdere peso l’anno precedente.

Lo stigma basato sul peso é risultato occorrere maggiormente nell’infanzia e adolescenza, in forma di maltrattamenti verbali e prese in giro, mentre i coetanei, famigliari ed estranei sono risultati le più comuni fonti di stigma.

Stigma del peso per gli uomini

A differenza delle donne che tendono a sperimentare maggiormente lo stigma ponderale all’aumentare del peso corporeo, gli uomini in questo studio sperimentavano maggiormente lo stigma in una condizione di sottopeso od obesità rispetto a quelli in una condizione di normopeso e sovrappeso.

É importante per la ricerca sullo stigma coinvolgere maggiormente gli uomini, e visto che i soggetti che cercavano di perdere peso erano maggiormente coinvolti, inserire nei programmi di gestione del peso strategie per fronteggiare questa forma di stigma purtroppo diffusa e socialmente accettata.

Freud Promenade: passeggiare tra i monti respirando psicoanalisi

Camminare tra i boschi e le montagne respirando psicoanalisi; viaggiare tra i paesaggi dell’ Alto Adige, da Soprabolzano a Collalbo, sulle parole e sulle teorie di Sigmund Freud; discutere di Es, Ego e Superego all’ombra dei meli o ripensare ad Anna O. tra l’odore di campanule…non c’è nulla di allegorico in tutto questo, ma una vera e propria prassi viva dal 2006 grazie all’idea del Dott. Francesco Marchioro.

 

Il Dott. Francesco Marchioro, psicoanalista e storico della psicoanalisi, ha fondato nel 2006 una passeggiata “Freud promenade” vicino a Bolzano (sul Renon – Alto Adige): un progetto nato in collaborazione con il Comune di Renon con l’associazione Imago Ricerche di psicoanalisi applicata di Bolzano, per celebrare i 150 anni dalla nascita di Sigmund Freud (1856 – 6 maggio – 2006).

Al fondatore della Psicoanalisi è stato dedicato il sentiero principale, nr. 35, che va da Soprabolzano a Collalbo, con il nome di “Passeggiata – Freud – Promenade”.  La Freud Promenade è il primo e unico sentiero al mondo dedicato al Maestro viennese. Il progetto è stato arricchito il 23 settembre 2016 con l’apposizione di 13 panche artisticamente disegnate dagli architetti David e Verena Messner. Ciascuna panchina è caratterizzata da un aforisma scelto dal Dott. Marchioro dalle Opere di Freud.

L’auspicio dell’ideatore della Freud-Promenade è quello di creare un contatto tra i professionisti e proporre incontri sulla psicoanalisi, proprio a partire da quei paesaggi di cui lo stesso padre della psicoanalisi si è innamorato, come ben ci ricorda suo figlio Martin nel libro di memorie “Mio padre Sigmund Freud“:

ogni anno vagava come un esploratore per le montagne in cerca del posto più bello dove soggiornare

 

Per saperne di più: www.freudpromenade.it

IMMAGINI DELLA FREUD PROMENADE:

 

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 2

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 3

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 4

Freud Promenade un sentiero tra i monti per discutere di psicoanalisi 5

Neuroni specchio: storia della scoperta e teorie a confronto

Gli esseri umani sono animali sociali capaci di elaborare e capire le azioni e le intenzioni degli altri, questa capacità è di primaria importanza per poter agire ed interagire correttamente e in maniera adattiva con il mondo, qual’è il ruolo dei neuroni specchio?

Beatrice Agostini – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Immaginiamo di camminare per strada e di vedere un signore che si avvicina muovendo una mano. Essere in grado di capire se quel movimento è un movimento di saluto o se il signore in questione ci sta per lanciare addosso qualcosa è di primaria importanza per pianificare correttamente il nostro comportamento (ricambiare il saluto nel primo caso, scappare o attaccare nel secondo).

Neuroni specchio: la scoperta

Negli anni ’90 i ricercatori iniziarono ad interrogarsi su come il nostro cervello riconosce le azioni altrui. Nel 1992, di Pellegrino e colleghi studiarono un gruppo di neuroni localizzati nella parte rostrale della corteccia premotoria ventrale del cervello della scimmia (area F5) ed osservarono come questi neuroni si attivavano non solo quando la scimmia faceva un movimento, ma anche quando osservava lo stesso movimento eseguito dallo sperimentatore (Rizzolatti et al., 1996). Questi neuroni vennero chiamati “neuroni specchio”, in inglese “mirror neurons”, proprio per enfatizzare questa loro capacità di rispecchiare una specifica azione motoria nel cervello dell’osservatore.

Studi più approfonditi hanno dimostrato che l’osservazione di azioni altrui determina anche negli esseri umani, e non solo nelle scimmie, l’attivazione delle regioni precentrali (Gallese et al., 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004; Keyser e Gazzola, 2009). Questo risultato è stato immediatamente interpretato come parte cruciale del processo di riconoscimento delle azioni: un osservatore comprende le azioni delle altre persone perché le rappresenta nel proprio cervello, proprio come se lui stesso stesse eseguendo quell’azione. Rizzolatti e colleghi (2001) non si fermano qui, ma ipotizzano anche l’esistenza di un network (mirror neuron system), che comprende aree parietali, frontali inferiori e premotorie, che è deputato al riconoscimente delle azioni non solo quando le osserviamo ma anche quando leggiamo un verbo o ascoltiamo una parola associata ad una azione. Ad esempio, un concetto come saltare (indipendentemente se osserviamo una persona che salta, se la immaginiamo o se leggendo un libro incontriamo questa parola) verrebbe compreso grazie alla riattivazione dello stesso programma motorio che si attiverebbe se stessimo effettivamente facendo un salto.

Neuroni specchio: come funzionano?

Iniziò così, verso la metà degli anni ’90, a prendere piede l’idea che le rappresentazioni concettuali riferite alle azioni (ovverso le rappresentazioni semantiche, il significato) siano rappresentate all’interno del nostro sistema sensorimotorio (embodied cognition hypothesis o teoria della cognizione incarnata). In particolare, il concetto di simulazione come il “processo attraverso il quale i concetti rievocano gli stati percettivi e motori presenti quando percepiamo e agiamo nel mondo” (Chatterjee, 2010 –p.80) divenne il focus delle ricerche nell’ambito dell’osservazione e del riconoscimento di azioni (review: Martin, 2007; Mahon e Caramazza, 2008; Kiefer e Pulvermüller, 2012). Lo stesso concetto è stato utilizzato per speculare su altri domini cognitivi come ad esempio l’empatia e il riconoscimento delle emozioni (Spaulding, 2012), la teoria della mente (Gallese e Goldman, 1998, Schulte-Ruchter et al., 2007), e sulla natura di diversi disturbi come l’autismo (Dapretto et al., 2005; Oberman et al., 2005; Hadjikhani et al., 2006).

Ad oggi, non tutti i ricercatori condividono questa interpretazione. Il dibattito su quale sia il ruolo di questo processo di simulazione mentale nel riconoscimento delle azioni è ancora aperto. In particolare ci si domanda: è davvero necessario simulare un’azione nel nostro sistema motorio per comprenderla? Ovvero, l’informazione motoria è fondamentale per comprendere un concetto? In alternativa: è possibile comprendere il significato di una azione solo utilizzando una rappresentazione simbolica, senza il contributo del circuito motorio necessario per metterla in atto? E se si, dove si trova, nel cervello, questa rappresentazione simbolica? Queste sono le domande chiave che caratterizzano il dibattito tra teoria motoria e teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni (in qualche misura sovrappoinibili alle embodied/disembodied cognition hypothesis).

Neuroni specchio e teoria motoria del riconoscimento delle azioni

La teoria motoria del riconoscimento delle azioni concorda con la teoria dei neuroni specchio e quindi con la teoria della embodied cognition hypothesis, la quale afferma che la cognizione dipenda anche da caratteristiche di tipo corporeo (nel nostro caso l’informazione contenuta nel sistema motorio). Questa teoria sostiene che l’abilità di capire o riconoscere il significato di un’azione è situata nel nostro sistema motorio. Come si diceva prima, è possibile riconoscere un’azione solo se vi è una simulazione dell’azione osservata nel sistema motorio dell’osservatore.

La maggior parte degli studi comportamentali citati a favore della teoria motoria cercano di dimostrare come le rappresentazioni motorie e le rappresentazioni concettuali interagiscono tra loro, e, soprattutto, come le prime sono in grado di influenzare le seconde. In un esperimento per dimostrare che le parole automaticamente attivano la rappresentazione motoria, Glover e colleghi (2004) mostrarono ai partecipanti il nome di un oggetto grande o piccolo (ad esempio mela o uva). Il compito dei partecipanti era quello di leggere il nome dell’oggetto e subito dopo raggiungere ed afferrare un oggetto target presente sul tavolo (grasping movement). I risultati mostrarono che l’apertura della mano durante il movimento di grasping era influenzato dalla parola che veniva letta in precedenza: se veniva letto il nome di un oggetto grande, i partecipanti aprivano la mano di più rispetto a quando leggevano il nome di un oggetto piccolo. Questo indipendentemente dalla dimensione dell’oggetto target che dovevano afferrare. Questo esperimento, insieme a molti altri (Glenberg e Kaschak, 2002; Brass et al., 2001, Craighero et al., 2002; Tucker e Ellis, 2004; Bub et al., 2008) vennero utilizzati come prova del fatto che il nostro sistema motorio si attiva automaticamente quando leggiamo determinate parole.

Studi più recenti hanno utilizzato la stimolazione magnetica transcranica (TMS) per investigare in maniera più diretta il ruolo del sistema motorio nel riconoscimento delle azioni. Quando si utilizza la TMS si va ad interferire con la normale attività di un’area cerebrale e questo genera un cambiamento nel comportamento del partecipante (Rossini et al., 2015). Solitamente, a seconda della procedura seguita, si può osservare un aumento o una diminuzione dei tempi di reazione del partecipante oppure si possono osservare delle variazioni in alcuni parametri elettrofisiologici, come, ad esempio, nei potenziali motori evocati (MEP). Ad esempio, se applichiamo un elettrodo su un muscolo della mano e poi applichiamo un impulso TMS sull’area motoria (M1) che controlla la mano, osserveremo una contrazione del muscolo della mano. L’intensità della contrazione cambia a seconda dell’eccitabilità corticale: più l’attività dell’area motoria è intensa, maggiore sarà la contrazione. MEP è dunque una misura non invasiva dell’eccitabilità del sistema cortico-spinale e quindi una misura della sensibilità di M1. Utilizzando questo metodo è stato dimostrato che osservare il movimento di una mano provoca nei soggetti un aumento dei MEP nel muscolo della loro mano (Fadiga e Rizzolatti, 1995; Strafella e Paus, 2002; Maeda et al., 2002). Questo significa che l’area motoria dell’osservatore era “attiva” mentre osservava il movimento e che quindi osservare azioni determina una modulazione del sistema motorio.
Altri studi hanno dimostrato che M1 è sensibile non solo all’osservazione ed esecuzione di azioni, ma anche quando abbiamo a che fare con un linguaggio associato ad un’azione (ad es. “spegni la luce”). In un esperimento del 2005, Buccino e colleghi applicarono la TMS sull’area motoria della mano o del piede del partecipante, mentre questo ascoltava delle frasi che si riferivano ad azioni manuali o che coinvolgevano l’uso dei piedi. Durante la stimolazione venivano registrati i MEP. I risultati mostrarono che l’intensità dei MEP del muscolo della mano era diversa quando i partecipanti ascoltavano frasi contenti azioni manuali rispetto a quando ascoltavano frasi che coinvolgevano l’uso dei piedi. L’osservazione che l’area motoria si attiva in maniera specifica quando comprendiamo un’azione, venne interpretata come evidenza del suo coinvolgimento nel riconoscimento semantico delle azioni e venne utilizzata in supporto delle teorie motorie.

Non da ultimo, studi di risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno mostrato che stimoli che fanno riferimento ad azioni motorie (come ad esempio osservare un movimento) portano all’attivazione, tra le altre aree, del giro precentrale (per una review: Martin, 2007; Puvermuller e Fadiga, 2010).

E’ tuttavia importante notare come gli studi sopracitati mostrino una certa variabilità nei risultati. Ad esempio, negli studi di TMS a fronte dello stesso stimolo alcuni studi trovano un aumento dell’intensità dei MEP, altri una diminuzione. In entrambi i casi il risultato è significativo ma la direzione dell’effetto è opposta ed è dunque difficile compararlo o interpretarlo (review: Papeo et al. 2013). Non solo, gli studi di fMRI citati a favore della teoria motoria mostrano sì che il giro precentrale (l’area premotoria) risponde quando elaboriamo il significato delle azioni, ma non è il solo. Molte altre aree sono attive quando osserviamo un’azione (vedi Figura 1). Il ruolo delle altre aree e in particolare della corteccia temporale viene spesso sottostimato dai sostenitori della teoria motoria e relegato ad una funzione di mera analisi visuo-motoria di basso livello.

Neuroni specchio dalla scoperta al dibattito scientifico sul funzionamento immagine

Aree che fanno parte dell’action-observation network (AON). Casper et al., 2010

Neuroni specchio e teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni

I sostenitori della cosiddetta teoria cognitiva offrono una visione alternativa riguardo a come il nostro cervello associa i significati alle azioni. Punto chiave di questa ipotesi è che le rappresentazioni concettuali sono immagazzinate in aree prettamente concettuali che si trovano al di fuori del sistema sensorimotorio (Mahon e Caramazza, 2008; Papeo et al., 2009; Hickok, 2009). In altre parole, l’informazione semantica riguardante le azioni non dipenderebbe da un programma motorio specifico ma è astratta e si trova in regioni non-motorie.

Come abbiamo visto nel precedente paragrafo, le regioni motorie rispondono durante compiti che coinvolgono l’elaborazione di azioni. Rizzolatti e collaboratori (2001 p.6610) affermano che una

azione è compresa quando la sua osservazione causa una risonanza nel sistema motorio dell’osservatore.

I sostenitori della teoria cognitiva non negano che ci sia un’attivazione delle regioni motorie, ma rispondono che questa risonanza potrebbe essere la conseguenza di una connessione associativa con aree concettuali, o avere comunque altre funzioni meno specifiche. Questo significherebbe che quando osserviamo un’azione, prima viene attivata l’area concettuale non-motoria che contiene tutte le informazioni relative al significato dell’azione e che ci permette di comprendere l’azione, e solo in un secono momento, tramite connessioni associative, viene attivata l’area premotoria.

Studi neuropsicologici hanno esaminato le conseguenze di lesioni all’emisfero sinistro durante lo svolgimento di compiti in cui veniva chiesto di elaborare il significato di azioni. Se il riconoscimento e l’esecuzione di un’azione si basano sullo stesso meccanismo neurale, come sostiene la teoria motoria, allora entrambe le abilità dovrebbero essere compromesse quando le strutture neurali motorie e premotorie sono danneggiate (Pazzaglia et al., 2008). Al contrario, numerosi studi mostrano doppie dissociazioni tra riconoscimento di azioni e esecuzione di azioni (Rumiati et al., 2001; Negri et al., 2007; Kalénine et al., 2010; Urgesi et al., 2014). Questo significa che ci sono pazienti che non sono in grado di eseguire correttamente un’azione, ma sono però in grado di comprendere e interpretare le azioni altrui (Vannuscorps e Caramazza, 2016) e viceversa. Questi risultati vanno in direzione opposta rispetto a coloro che sostengono la teoria pura dei neuroni specchio. Questi studi, esaminando la connessione tra luogo della lesione e performance hanno individuato nella corteccia temporale e in particolare nel giro temporale mediale posteriore (pMTG) l’area concettuale dove sarebbe immagazzinata l’informazione concettuale delle azioni.

Questo risultato viene confermato da studi di fMRI che non solo mostrano l’attivazione di pMTG durante l’elaborazione di azioni, ma, tramite tecniche più avanzate, come il multivoxel pattern analysis (MVPA) mostrano come la corteccia occipito-temporale contenga informazione più astratta (e quindi la rappresentazione dell’azione distaccata dalla sua componente motoria), mentre il giro precentrale informazione di più basso livello (come può essere la chinematica di un movimento, la sua direzione ecc… – Wurm e Oosterhof, 2013; Lingnau, 2015; Wurm et al., 2015). Inoltre, in un recente studio di TMS, è stato dimostrato che la perturbazione di pMTG (collocato nella corteccia occipitotemporale) porta ad una interruzione del processo di riconoscimento semantico dei verbi (Papeo et al. 2014) e un’interruzione delle connessioni tra pMTG e l’area premotoria.

Neuroni specchio: spazio alle teorie moderate

Gli studi sopracitati suggeriscono quindi che l’informazione concettuale delle azioni è astratta ed è rappresentata nel lobo temporale e non nelle aree motorie e premotorie come sostiene le teoria motoria.

Si è visto come la teoria motoria e la teoria cognitiva del riconoscimento delle azioni si basino su due diverse assunzioni: la teoria motoria sostiene che il contenuto concettuale è costituito dall’informazione che è rappresentata nel sistema sensorimotorio e che quindi l’attività dei neuroni specchio è fondamentale per riconoscere il significato di un’azione. La teoria cognitiva, invece, sostiene che le rappresentazioni concettuali sono simboliche e astratte e che sono immagazzinate in aree concettuali al di fuori del sistema sensorimotorio e più in particolare, nella corteccia occipitotemporale e che quindi l’attività dei neuroni specchio non è necessaria per riconoscere il significato di un’azione. Queste due teorie si collocano a due estremi opposti e tendenzialmente una esclude l’altra. Tuttavia, tra questi due estremi si trovano altre teorie più moderate che, sbilanciandosi più verso un estremo o verso l’altro, cercano di conciliare queste due visioni.

San Salvador. Storia di un omicidio (2016) di A. Ganci – Recensione del libro

San Salvador. Storia di un omicidio è un libro, scorrevole e avvincente, adatto a tutti gli appassionati del genere giallo e psicologico-introspettivo, ma capace anche di fornire un’analisi tecnica dettagliata di alcuni aspetti della psiche dei propri personaggi.

Antonino Leonardi

 

Florida, mese di Marzo. Chiusa in una pericolosa ispirazione, Martha sta preparando meticolosamente il piano che la libererà da Thomas e dal suo insopportabile tradimento.

Questo l’incipit dell’appassionante romanzo della psicologa, giornalista e scrittrice Angela Ganci.

Dal preambolo inziale sono chiare le intenzioni dell’Autrice, ovvero toccare importanti questioni di carattere sociale e psicologico, tematiche forti e attuali nella società odierna dove le cronaca spesso ci informa di fatti di vendetta privata legati al tradimento, che spesso degenerano in crimini di sangue, dall’esito fatale.

San Salvador. Storia di un omicidio

Questo libro, scorrevole e avvincente, risulta adatto a tutti gli appassionati del genere giallo e psicologico-introspettivo, sebbene sia tecnico soprattutto nell’analisi di alcuni aspetti della psiche dei personaggi (la protagonista, Martha, donna dalle intenzioni omicidarie travestite da giustizia personale, rabbiosamente rannicchiata nei propri pensieri; la zia, sapiente modello di ispirazione per il delitto; Thomas, vittima colpevole della sua distrazione; Anthony, strumento di revisione interna e di salvezza, speranza che viene dal passato).

Un libro, San Salvador. Storia di un omicidio, quindi tecnico, nella minuziosità con cui descrive le azioni umane, fornendo loro un tono emotivo tale da farci entrare dentro le azioni narrate, dove i personaggi entrano a contatto con tutte le emozioni, angoscia, rabbia, allegria, delusione, al punto che da spettatori veniamo immersi in una trama corposa e quasi catturati in essa, come avviene in un film 3D.

Queste emozioni si fanno più forti e si connotano magicamente del tono della tragedia nella scena più cruenta, dell’omicidio consumato a danno di Thomas, destinato a non trovare risposta al gesto omicidiario, che resterà sospeso in un flebile Perché?

Crudeltà, disagi della non accettazione, tutto questo avvicina San Salvador. Storia di un omicidio a un romanzo giallo dai toni classici di caccia al colpevole (in realtà in questo caso il colpevole lo conosciamo fin dall’inizio, e tutto il libro si snoda nella scoperta dell’assassino da parte della giustizia umana): eppure San Salvador ha altresì una luce diversa che lo rende singolare, differenziandolo dagli altri romanzi gialli, attraverso l’aspetto redentivo e la capacità di introspezione e di riflessione da parte dei personaggi, soprattutto di Martha.

Il tema della redenzione

La redenzione è un aspetto importante e interessante in un contesto così tragico, un elemento innovativo, che inserisce pienamente il romanzo all’interno dei romanzi introspettivi e psicologici-introspettivi.

La redenzione avviene a opera di un uomo che cercherà di capire, perdonare, il personaggio Martha e questo fa si che il giudizio del lettore non sia quello della condanna, come la prima parte del libro suggerisce quasi istintivamente.

Redenzione di fronte alle proprie colpe e di fronte al tribunale degli uomini, vergogna che scava nel tempo e restituisce al carnefice un senso di umanità che lo avvicina infine al lettore empaticamente.

Un percorso di redenzione da vivere personalmente, destinato a cambiare in meglio una vita segnata dalle colpe, l’umilazione e l’emarginazione sociale.

Un cammino sostenuto dalla ferrea volontà di cambiamento, confortato da un amore che non abbandona nemmeno nelle prove più difficili, e da clamorosi colpi di scena investigativi (che confermano come l’intenzione dell’autrice sia, in fondo, improntata al finale positivo, alla seconda chance, al di là della verità giudiziaria e della sicurezza della pena) che permetteranno di iniziare una marcia trionfale sotto i migliori auspici, memore degli errori di percorso e grata per una nuova opportunità.

La vera forza della psicoterapia: il cambiamento epigenetico

Il rapporto tra genetica e ambiente è un interrogativo caro alla Psicoterapia e sta diventando terreno d’incontro anche di altre scienze mediche: si tratta di epigenetica

 

La Psicoterapia, disciplina che integra i contributi della Psicologia e della Psichiatria, ha sempre abbracciato una tradizione occidentale organicista che, nel corso della sua evoluzione, ha considerato le caratteristiche psicologiche individuali nel modo il più omogeneo e lineare possibile, al punto da suggerire la costruzione di assunti teorici quali il temperamento, la personalità o il carattere, col preciso intento di creare dei modelli teorici utili a “disegnare” le evidenze osservate.

Per molto tempo, le associazioni tra gli studi della psicopatologia e della genetica molecolare si sono esclusivamente considerate in termini di “fattori predittivi”. Le cose sono iniziate a cambiare con l’avanzamento della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) che ha definito il presupposto teorico secondo cui genetica e ambiente, nella loro interazione, determinano la costruzione dell’essere umano nel suo complesso.

In questo quadro epistemologico diventa possibile introdurre un nuovo campo che sta rivoluzionando tutti i rami della medicina, l’epigenetica.

Epigenetica: cos’ è?

L’ epigenetica è difficile da definire: si riferisce alle modificazioni che intervengono non direttamente sulla sequenza del DNA (cioè sulla successione di basi che compone un gene) ma sulla sua struttura (Laruffa 2017). È la modalità attraverso cui l’ambiente interagisce con il genoma a livello molecolare.

È una disciplina trasversale che probabilmente ha molto da dire anche nel campo dello studio della psiche: può essere considerata il “ponte” (assieme alle neuroscienze) capace di collegare la biologia con la psicoterapia, perché dimostra che l’ambiente non interagisce con il DNA esclusivamente attraverso l’evoluzione, ma può farlo direttamente attraverso l’interazione con l’individuo tramite l’azione di meccanismi che modulano l’espressione genica.

Epigenetica: il rapporto con psichiatria e neuroscienze

L’interesse per l’ epigenetica in psichiatria è iniziato con le ricerche sui meccanismi epigenetici che influenzano i normali pattern del neurosviluppo delle funzioni cerebrali e, conseguentemente, dei meccanismi che intervengono nello sviluppo inadeguato implicato in alcuni disturbi psichiatrici (Iannitelli e Biondi, 2014).

Successivamente si è considerato che le modificazioni epigenetiche avvenute durante la vita uterina rimangono stabili per tutta la vita, tuttavia “rimodellamenti” epigenetici possono avvenire durante la vita adulta sotto l’influenza di fattori ambientali, quali farmaci, sostanze chimiche, ma anche fattori psicosociali.

Nel frattempo lo sviluppo delle conoscenze relative alla plasticità cerebrale sta sempre più orientando gli studi verso una prospettiva della psicoterapia più neurobiologica, che riflette la natura dinamica dell’interazione tra geni e ambiente (Siracusano et al., 2008). La plasticità neurale è la capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente (Lazzerini et al., 2015): questa evidenza, dagli studi degli anni novanta di Kandel (1999) in poi, orienta da tempo gli sviluppi delle neuroscienze che danno conferma circa l’efficacia dei trattamenti.

Epigenetica e psicoterapia: potenzialità future

In questa cornice epistemologica, che nasce dall’integrazione dei contributi della psichiatria genetica e delle neuroscienze, la psicoterapia, oltre essere capace di determinare dei veri e propri cambiamenti nella morfologia del cervello, merita davvero la definizione di “droga epigenetica” fornita da Stahl (2012) perché può essere capace di determinare un cambiamento biologico che si riflette nel pensiero, nel comportamento, nell’interazione umana.

L’ epigenetica può nel tempo fornire istruzioni ed incoraggiamenti per la promozione della salute mentale attraverso un approccio capace di andare “oltre” traiettorie ben definite. Per intenderci: abbracciando il noto modello di Cloninger (1994) le probabilità che un giovane novelty seeking svilupperà un ADHD o un disturbo di personalità del cluster B del DSM non dipendono dalla passività genetica predisposta dal temperamento ma dipendono da fattori ambientali capaci di modifiche epigenetiche. La prevenzione dovrebbe dunque mirare alla creazione di adeguati e personalizzati ambienti psicosociali, capaci di dare spazio ad interventi psicoterapici che possano coinvolgere a più livelli i sistemi (familiari, scolastici e professionali) in cui le persone interagiscono e vivono.

Frequente uso dei media e problemi comportamentali negli adolescenti

Gli adolescenti che usano frequentemente smartphone e dispositivi multimediali hanno maggiori probabilità di sviluppare sintomi del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD).

 

Un team di ricercatori della University of Southern California (USC) ha rilevato che gli adolescenti che utilizzano intensivamente dispositivi digitali hanno il doppio delle probabilità di mostrare sintomi di ADHD, descritto dal National Institute of Mental Health come una patologia che include sintomi del pattern dell’attenzione, del comportamento iperattivo e impulsivo, e che interferisce con il funzionamento e lo sviluppo dell’individuo.

Il razionale alla base della ricerca

Lo studio ha monitorato circa 2.600 adolescenti per due anni, concentrandosi in particolare sulle conseguenze per la salute mentale di una nuova generazione che s’interfaccia con device digitali onnipresenti.

I precedenti studi hanno indagato l’uso della TV e dei videogiochi sulla patologia.

La novità è che precedenti studi su questo argomento sono stati fatti molti anni fa, quando non esistevano social media, telefoni cellulari, tablet e app mobili – ha dichiarato Adam Leventhal, professore di medicina preventiva e psicologia e direttore della USC Health, Laboratorio di Emotion and Addiction presso la Keck School of Medicine di USC – Le nuove tecnologie mobili possono fornire una stimolazione rapida e ad alta intensità accessibile tutto il giorno, che aumenta l’esposizione ai media digitali ben oltre ciò che è stato studiato in precedenza.

L’autore illustra i risultati di un sondaggio condotto da Common Sense Media: gli adolescenti usano media online quasi nove ore al giorno. Il fenomeno è effettivamente importante ed i risultati del presente studio possono essere utili a genitori, scuole, aziende tecnologiche e pediatri: gli adolescenti dipendenti dalla tecnologia sono spinti a distrarsi e la dipendenza dalla tecnologia è oggi diventato un fenomeno molto diffuso.

ADHD e social meida: la ricerca

Gli studiosi hanno reclutato 2.587 studenti, di età compresa tra i 15 ed i 16 anni, da 10 scuole pubbliche di Los Angeles. I ricercatori si sono concentrati sui ragazzi perché l’adolescenza è un momento significativo per l’insorgenza dell’ ADHD e l’accesso senza restrizioni all’uso dei media.

Sono stati esclusi dallo studio tutti quei soggetti che avevano già manifestato sintomi ADHD precedentemente allo studio: i ricercatori volevano infatti indagare l’insorgenza di nuovi sintomi manifestatisi durante i due anni di studio.

Innanzitutto è stata registrata la frequenza (nessun uso, uso medio e alto utilizzo) con cui i partecipanti hanno usato 14 piattaforme di media digitali popolari. In un secondo momento, gli studenti sono poi stati monitorati ogni sei mesi per due anni allo scopo di determinare se l’uso dei media fosse associato o meno ai sintomi dell’ ADHD.

Risultati: il 9,5% dei 114 studenti che hanno usato la metà delle piattaforme frequentemente ed il 10,5% dei 51 studenti che hanno usato tutte e 14 le piattaforme hanno mostrato frequentemente sintomi nuovi dell’ ADHD. Al contrario, il 4,6% dei 495 studenti che non erano utenti abituali di attività digitali non mostravano nuovi sintomi dell’ ADHD.

Possiamo dire con sicurezza che gli adolescenti che sono stati esposti a più alti livelli di media digitali hanno avuto maggiori probabilità di sviluppare sintomi di ADHD.

Essendo l’ ADHD una patologia abbastanza comune nei bambini e adolescenti, con un’incidenza del circa 4%, i presenti risultati aiutano a colmare una lacuna nella comprensione di come i nuovi dispositivi multimediali mobili rappresentano un rischio per la salute mentali dei ragazzi. Questi risultati servono da avvertimento poiché i media digitali sono sempre più diffusi, più rapidi e stimolanti.

Questo studio solleva preoccupazioni sul fatto che la proliferazione di tecnologie multimediali digitali ad alte prestazioni potrebbe mettere a rischio una nuova generazione di giovani per l’ ADHD – afferma Leventhal.

Emozioni, funzioni, metacognizioni e biofeedback alla giornata di chiusura del congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT)

L’ultimo giorno del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) a Sofia inizia con una sessione plenaria di Stefan Hofmann dedicata alle emozioni. Hofmann sta compiendo un’operazione politica e scientifica al tempo stesso, una sorta di offerta di acquisto del dominio clinico della terapia cognitivo comportamentale.

È chiaro che l’operazione conservativa di Salkovskis non potrà andare avanti all’infinito ed è altrettanto chiaro che nel campo cognitivo qualunque apertura ai processi relazionali è improponibile, per una serie di ragioni che abbiamo discusso altrove. In breve, il problema della scelta di privilegiare le componenti relazionali non è il cedimento identitario ma il cambio di rotta che presupporrebbe l’abbandono del patrimonio clinico cognitivo e comportamentale fondato sulla condivisione della formulazione del caso e non sulla gestione narrativa di una esplorazione terapeutica libera –fin troppo!- che fiorisce spontaneamente sul terreno della relazione terapeutica.

La soluzione è invece adottare definitivamente la svolta funzionalista, ed è quello che sta facendo Stefan Hofmann. Dopo avere combattuto Steven Hayes per anni in compagnia di Paul Salkovskis, e dopo averlo riaccolto l’anno scorso a Lubiana, Hofmann ha pubblicato proprio insieme a Hayes un libro manifesto chiamato Process-Based CBT: The Science and Core Clinical Competencies of Cognitive Behavioral Therapy col quale si candida a definire di nuovo il campo cognitivo comportamentale, uscendo dall’attuale crisi di crescita.

Parigi val bene una messa! E Hofmann, come Enrico IV di Borbone quando si convertì al cattolicesimo pur di salire sul trono di Francia, integra la sua osservanza beckiana con il funzionalismo di Hayes, il fondatore della Acceptance e Committment Therapy (ACT).
Un’operazione politica? Certo, ma questo non significa automaticamente che l’aspetto scientifico debba essere debole; del resto Enrico IV fu un grande re. Valuteremo sulla lunga distanza il valore scientifico di Hofmann. Al momento però i segnali non sono buoni. Ieri Hofmann ci è parso arrabattarsi tra mille idee tradendo una tendenza all’eclettismo che finisce per danneggiare quello che è il migliore frutto di quel funzionalismo che Hofmann vorrebbe assorbire, la semplicità e la linearità della formulazione del caso. La presentazione di oggi sulle emozioni soffre dello stesso problema, mescolando ancora una volta funzionalismo, evoluzionismo (si, c’è anche questo) e cognitivismo classico in un minestrone pesantissimo da mandare giù e  che non ha nulla della leggerezza digeribile del vero funzionalismo. Vedremo.

Intanto un gruppo di giovani spagnoli dai nomi risonanti, Jesús Alonso-Vega, Víctor Estal-Muñoz, María Xesús Froxán-Parga, Miguel Núñez de Prado-Gordillo e Ricardo de Pascual-Verdú con il loro simposio un po’ giovanilmente pedante dal punto di vista teorico ma intrigante ci hanno voluto ricordare come la terapia cognitiva comportamentale, carica di compromessi strutturalisti, non abbia sempre saputo adottare in pieno la semplicità lineare dell’analisi funzionale, e questo può spiegare il sovraccarico teorico a cui sta andando incontro Hofmann. Un tema che è caro anche a noi.

EABCT 2018 - Simposio degli spagnoli
Simposio: The cognitive behavioral model in the 21st century: a critical analysis

Dopo Hofmann abbiamo ascoltato Hollon che ha parlato di depressione con una presentazione molto vieux style, una massa infinita di dati di efficacia che confermano che la terapia cognitivo comportamentale per i depressi funziona. Ringraziamo e lo sapevamo.

Tullio Scrimali - EABCT 2018
Tullio Scrimali – EABCT 2018

Nel pomeriggio siamo andati ad ascoltare i colleghi italiani Michele Procacci e Tullio Scrimali che hanno presentato i loro modelli, rispettivamente la terapia metacognitiva interpersonale e il biofeedback applicato alla terapia cognitiva. Procacci ha esplorato solo alcuni aspetti del suo complesso modello, ovvero il caso dei pazienti socialmente ritirati, confermando il metodo di lavoro suo e del suo mentore e padre fondatore della terapia metacognitiva interpersonale Antonio Semerari, ovvero un lavoro di minuziosa ricostruzione delle abilità metacognitive all’interno di una relazione terapeutica significativa. Sarebbe stato interessante riflettere su punti di contato e differenze tra eclettismo di Hofmann ed ecumenismo metacognitivo relazionale del modello di Semerari, ma per fare questo occorrerebbe una plenaria e giustamente Procacci si poneva un obiettivo più focalizzato. Ampio invece lo sguardo di Scrimali che ha illustrato il suo metodo in maniera più completa, confermandone l’interesse applicativo per le classi di pazienti soggetti alla disregolazione emotiva.

L’insulto e la responsabilità

Certo colpisce che alla proiezione di un film a Venezia, un giovane giornalista di una testata non famosissima e underground (Shivaproduzioni.com) alzi la voce alla fine e insulti la regista così: “Vergognati, puttana fai schifo!”. Il nome della regista: Jennifer Kent, il nome del giovane giornalista: Sharif Meghdoud.

Ma la cosa che più mi ha colpito è il tipo di scuse che il giovane ha postato su facebook: di cui vi scrivo solo una frase:

“l’insulto viene fuori da un pensiero irrazionale e iperbolico di un cinismo che potrebbe andar bene (ma in realtà anche no) al bar tra amici ma è assolutamente fuori luogo all’interno di una mostra d’arte.”

Qui comprendiamo cosa ci disturba spesso dei social usati maldestramente e delle goffe scuse a posteriori: il fatto che ciò che vi si dice, “viene fuori” e non è considerato una scelta deliberata. Sia chiaro il mio pensiero: non esiste che un insulto “viene fuori”, per urlare una frase insultante come questa devo averla pensata, devo essermi detto dilla pure, devo avere dato molti comandi al mio sistema vocale, alla bocca, ai muscoli ecc…

Purtroppo tutto il tono delle scuse ruota sul fatto che ci si scusa ma in quel momento le cose sono uscite al di fuori della propria coscienza e responsabilità. Punto. Invece qui tutti dicono “ma in realtà è uscito senza che veramente decidessi….“. Il punto è che se le cose escono così, le scuse non esistono perché si può avere responsabilità solo di cose che ho fatto, deciso. Altrimenti non esiste scusa, si è persone che non governano atti e non decidono. Si deve allora stare zitti nella consapevolezza dello scarso controllo sulle proprie vite e azioni.

E questo piccolo ma interessante evento mediatico mi fa pensare al concetto di raptus nelle violenze contro le donne, la logica del raptus è la stessa: è accaduto, non è che veramente ho deciso, non sono riuscito a fermarmi, forse non ero io e non ero in me, è accaduta una cosa più forte di me….forse sono due persone…non so, non ricordo.

Ecco, già le cose nei social e nella vita reale delle violenze di genere cambierebbero se si avesse la consapevolezza piena che ogni atto delle nostre esistenze è sottoposto a decisione, questa si che si chiama responsabilità.

Avere e riconoscersi veramente una responsabilità ci rende umani, capaci di reale riconoscimento del danno inflitto e di reale contatto con emozioni di colpa e di vergogna, il resto è teatrino. Squallido ma favorito dal sistema digitale che spesso nasconde in un marasma mediatico il dito che sta premendo il grilletto.

Sarebbe bello ricominciare veramente a sbagliare, a comprenderlo, a comprendere che siamo stati noi, a scusarci o non scusarci, a tollerare il peso e le conseguenze dei nostri errori, ma da persone intere. Responsabili e umani, allora si, veramente.

 

Il post di scuse pubblicato su Facebook da Sharif Meghdoud:

Sharif Meghdoud - Post di scuse

Dal congresso EABCT: Judith Beck e la relazione terapeutica, Stefan Hofmann e l’integrazione con i processi e Paul Salkovskis custode dell’ortodossia.

La seconda giornata del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) ha visto entrare in campo tre figure prestigiose: Judith Beck, Stefan Hofmann e Paul Salkovskis, che hanno incarnato tre modi diversi di affrontare i problemi di crescita della psicoterapia cognitivo comportamentale e i suoi sviluppi.

 

Il senso di Judith per la relazione

Judith Beck prosegue il lavoro del padre biologico e fondatore della psicoterapia cognitiva Aaron T. Beck, proseguendo la sua missione di rispondere all’accusa che questa psicoterapia sia troppo tecnica e poco interessata agli aspetti relazionali. La presentazione espone gli aspetti tecnici della gestione della relazione, integrando l’eredità di Carl Rogers in quella di Beck. Ciò che conta nel lavoro di Judith Beck è che in lei la relazione rimane un mezzo importante di ingaggio e motivazione del paziente ma non è considerata un fattore specifico del cambiamento terapeutico: la Beck, beninteso, cita i dati sull’impatto dei fattori comuni, prevalentemente relazionali ma – a mio avviso correttamente- li considera fattori che assicurano la componente placebo –nel senso positivo del termine- del cambiamento su cui devono poi agire i fattori specifici corrispondenti sia a una teoria del funzionamento mentale che del cambiamento terapeutico che non sia solamente relazionale. Niente di nuovo ma è utile ribadirlo.

Stefan Hoffmann pericolosamente in bilico tra contenuti e processi

Stephen Hoffmann - EABCT 2018Il contributo di Stefan Hofmann è stato onestamente un po’ una delusione. Il compito che si era dato il relatore era di proporre un’integrazione tra vecchia terapia cognitiva focalizzata sui contenuti mentali e nuovi orientamenti che preferiscono lavorare sui processi. In realtà l’integrazione raggiunta da Hofmann è scarsa, perché nella sua proposta dei contenuti mentali è rimasto ben poco mentre i processi ormai prevalgono. Questo però non era la delusione maggiore, visto che questo sviluppo era abbastanza prevedibile: i due approcci sono poco compatibili tra loro e ogni integrazione porta in realtà alla prevalenza di uno dei due. Ciò che è stato più deludente è la forma che hanno assunto i processi nella visione di Hofmann. Una forma troppo onnicomprensiva che finiva per essere un eclettismo più descrittivo che davvero esplicativo, nel cui calderone finivano per entrare ogni sorta di processi. Nelle diapositive sono arrivato a contarne diciannove!

Per concludere infine Hofmann finiva per andare a cercare le radici evolutive del benessere psicologico, secondo un “modello dei modelli” a mio parere tanto generico quanto fin troppo ampio e ambizioso e, in fondo , con scarse ricadute pratiche. E infatti nelle esercitazioni –che consistevano nella stesura di una formulazione di un caso- tutto questa massa di saperi finiva per tramutarsi in un accumulo di nozioni nel quale c’era ben poco di nuovo.

Paul Salkovskis, il custode dell’ortodossia

Dopo queste due proposte innovative, entrambe un po’ deludenti in una maniera o nell’altra, il conservatorismo di Paul Salkovskis ha finito per sembrarmi una boccata di ossigeno, se non altro per la linearità e coerenza del progetto. Si tratta della vecchia terapia cognitiva per il disturbo ossessivo compulsivo, il lavoro di una vita di Paul Salkovskis. Certo, ci si chiede per quanto tempo il vecchio volpone britannico potrà andare avanti a raccontare la stessa storia come un Tolkien in un pub di Oxford che non si accorge di raccontare l’impresa dell’anello a un gruppo di gente che ha già letto il suo libro. Qualche insicurezza trapela, come quando Salkovskis sostiene che la terapia cognitiva è ancora la migliore se non altro perché -parafrasando Churchill- è la peggiore se si eccettuano tutte le altre. Sono riuscito perfino a filmare questo momento.

 

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Le capacità affabulatorie sono però intatte e il racconto funziona ancora, con perfino qualcosa di nuovo: uno studio che dimostra come la terapia cognitivo comportamentale sia superiore al trattamento solo comportamentale per gli ossessivi. Era un vecchio dubbio che aleggiava sull’orgoglio di Salkovskis. Intendiamoci: uno studio sia pure rigoroso non basta a fugarlo, però nemmeno si può negare che qualcosa nel carniere Salkovskis l’abbia messa.

EABCT 2018: un ritorno all’ordine?

In conclusione questo congresso è un po’ un ritorno all’ordine dopo le aperture dell’anno scorso ai veri processualisti, Steven Hayes e Adrian Wells. Un ritorno vissuto in maniera diversa: Hofmann ormai avviato a diventare una sorta di proconsole processualista di Hayes nelle vecchie provincie della terapia dei contenuti; Salkovskis impegnato a tenere fieramente fuori dai confini ogni contaminazione processualista difendendo la sua vecchia idea del disturbo ossessivo generato dal contenuto cognitivo della responsabilità eccessiva, inflated responsability. Dall’altra parte del fronte nella nostra tavola rotonda abbiamo portato avanti una versione più pura del processualismo incentrata sul nostro modello Life themes and plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment (LIBET) e su quello metacognitivo di Adrian Wells. Vedremo cosa accadrà l’anno prossimo a Berlino.

 

Il pensiero del giorno, dal team di State of Mind in missione al congresso:

EABCT 2018: La psicoterapia cognitivo comportamentale nel servizio pubblico inglese e sui supporti online

Nella prima giornata vera e propria del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) ho assistito alla sessione plenaria di Clark dedicata all’avventura dell’adozione della psicoterapia cognitivo comportamentale da parte del servizio sanitario pubblico inglese e al lungo workshop di Per Carlbring sull’erogazione della psicoterapia per via online e utilizzando la realtà virtuale.

 

La sessione plenaria di David Clark

EABCT 2018 - David Clark KeynoteLa plenaria di David Clark è stata un po’ il suo consueto racconto di come il governo inglese ormai più di un decennio fa abbia deciso che il servizio pubblico dovesse diffondere massicciamente il trattamento cognitivo per l’ansia e la depressione tra la popolazione britannica. Racconto consueto perché già narrato da almeno un paio di edizioni, ovvero da Stoccolma 2016 a cui rimandiamo per i dettagli. Sarebbe però ingiusto pensare che Clark abbia intonato ancora la stessa sonata. Ci sono ogni volta particolari nuovi.

Questa volta mi ha colpito il dato che fino a metà del decennio scorso c’era stata una costante diminuzione della fruizione di psicoterapia: dal 1987 al 2007 la percentuale di persone in trattamento psicoterapeutico passava dal 71% al 43% mentre quelli che usano farmaci passavano dal 37% al 75%. L’adozione della psicoterapia nel servizio pubblico è stata importante per invertire la tendenza.

Tra le altre notizie sparse che mi hanno colpito vi è come, nella descrizione del protocollo per l’ansia sociale, Clark  abbia rimarcato che l’esposizione non fosse intesa a promuovere l’abituazione comportamentale, non era organizzata per gradi gerarchici di gravità, non prevedesse auto-istruzioni o monitoraggi del livello d’ansia, né addestramento ad abilità sociali (social skills training) e documentazione dei pensieri (thought records). Insomma si privilegiava già allora la consapevolezza di una disfunzione all’addestramento ed era quindi più funzionalista e metacognitiva di quel che pensassimo. Io ci ho sentito la mano di Wells.

Altre informazioni sparse riguardavano gli effetti positivi dell’operazione politica di Clark sulla formazione (diecimila terapeuti addestrati dal 2008), l’erogazione di cinquecentomila trattamenti all’anno, la documentazione del 99% dei trattamenti (e non più del solo 38% come precedentemente), la remissione del 53% dei pazienti, il miglioramento del 68% e l’effetto sul benessere sociale della nazione.

Erogazione online della Psicoterapia e Realtà Virtuale (Per Carlbring)

Nel pomeriggio lo svedese Per Carlbring ci ha istruito sull’uso di tecniche di realtà virtuale e di erogazione online della psicoterapia, in particolare per le fobie specifiche (e ancora più in particolare quella dei ragni) e il buon uso di applicazioni online per fare psicoterapia.

Virtual reality for Spider Phobia – VIDEO –

La presentazione ha avuto una grande valore pratico di apprendimento, mentre tra i dati più significativi ci sono la sostanziale parità di risultato tra trattamenti online e di persona e una maggiore focalizzazione del trattamento online sugli aspetti operativi e pratici, mentre gli aspetti negativi erano una minore gratificazione del terapeuta e una minore enfasi sugli aspetti relazionali.

Un pensiero cattivo che non ha potuto fare a meno di comparire nella mente: la minore enfasi relazionale si accompagna a un’efficacia invariata ma a una minore soddisfazione personale del terapeuta. Vuoi vedere che alla relazione in fondo tiene più il terapeuta che il paziente? Ma è solo una provocazione basata su un dato isolato.

 


EABCT 2018 – L’aggiornamento quotidiano dal Direttore a Sofia:

Psicoterapia e interventi online: efficacia, alleanza terapeutica, orientamenti teorici e implicazioni etico-legali

E’ da secoli ormai che le telecomunicazioni e più recentemente l’informatica sono al servizio (e in alcuni casi al disservizio) dell’uomo; nel caso della psicoterapia online, è fondamentale decretare l’efficacia dell’intervento per considerare i new media un canale utilizzabile

Giulia Giannelli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La vastità della rivoluzione digitale sta apportando grossi cambiamenti anche nell’ambito dell’assistenza sanitaria. In particolare sono in aumento i dibattiti riguardo l’impatto dell’innovazione tecnologica ed informatica sui servizi di psicoterapia, valutazione e consulenza psicologica.

Negli anni il progresso tecnologico è avanzato velocemente e di conseguenza sono aumentate e migliorate le modalità in cui possono essere offerti i servizi sanitari online. Attualmente vengono utilizzati i termini “e-therapy” oppure “e-health” per fare riferimento ai servizi di assistenza sanitaria offerti tramite video-chiamate, e-mail, piattaforme o siti sui quali intraprendere percorsi di auto aiuto, consultare materiale psico-educativo e informativo. Ma quali potrebbero essere i benefici e i rischi di questo rivoluzionario approccio alla cura?

Psicoterapia on-line: opportunità e possibilità

Sicuramente i servizi online potrebbero avere un enorme potenziale nell’aumentare l’accessibilità all’assistenza psicologica. Di essi ne potrebbero usufruire anche persone con mobilità limitata, restrizioni temporali di vario genere, come chi vive in luoghi difficilmente raggiungibili, più isolati e/o in cui vi è una ristretta scelta di servizi; chi per lavoro ha una limitata disponibilità oraria oppure è costretto a viaggiare e a trasferirsi in paesi dove non consulterà un professionista della salute mentale a causa di barriere linguistiche; chi è fisicamente disabile e gli stessi caregiver. Inoltre, c’è chi ha paura di essere stigmatizzato in quanto fruitore di determinati servizi ma potrebbe provare meno vergogna nel chiedere aiuto in rete (Mitchell & Murphy, 1998 citati in Rochlen, Zach & Speyer, 2004). Ad esempio c’è anche chi trova più semplice esprimersi attraverso la scrittura e potrebbe sentirsi maggiormente incoraggiato a chiedere aiuto, sapendo dell’opportunità di poter ricevere una consulenza tramite email. Tra l’altro, tramite email, vi potrebbe essere una maggiore comprensione tra terapeuta e paziente e una più veloce interiorizzazione dei contenuti delle sedute da parte del paziente grazie alla possibilità di rivedere in qualsiasi momento quanto scritto. Un altro target di pazienti, che potrebbe essere più facilmente agganciato grazie ai servizi di e-health, è quello degli adolescenti che si isolano e che non vogliono andare più a scuola. Infine potrebbero trarre beneficio da tali servizi anche i pazienti in lista d’attesa, che difficilmente possono iniziare azioni costruttive senza un aiuto professionale (Cuijpers, Van Straten & Andersson, 2008 citati in Apolinario-Hagen & Tasseit, 2015). O a chi è semplicemente indeciso o poco motivato nell’intraprendere una terapia potrebbe risultare meno faticoso provarci prima online (Gupta & Agrawal, 2012; Heinlen, Welfel, Richmond & Rak, 2003b; Postel, Hein, Elke, Eni & Cor, citati in Hrivnak, Coble & Byrd, 2015).

Psicoterapia on-line: difficoltà

Invece una delle prime difficoltà che si potrebbero riscontrare consiste nel fatto che non tutti i pazienti potrebbero essere dei candidati ideali per usufruire di questi tipi di servizi.

Un modo per gestire questo punto a sfavore potrebbe essere quello di fare un attenta valutazione dei pazienti e di lavorare solo con coloro che saranno nelle condizioni di beneficiare del servizio (Suler et al., 2001, citato in Rochlen et al., 2004). Sarebbe comunque raccomandabile incontrare il paziente di persona almeno una volta (Doverspike, 2009, citato in Hrivnak et al., 2015). Il linguaggio del corpo e i segnali non verbali sono assenti nello scambio di email e poco disponibili durante le videochiamate, ciò potrebbe portare a più alti tassi di incomprensione o difficoltà di comunicazione (Gupta et al. 2012, citato in Hrivnak et al., 2015).

La consulenza tramite e-mail è asincrona, quindi non è ideale in situazioni di emergenza. Oltretutto i vari dispositivi di comunicazione potrebbero funzionare male da un momento all’altro per vari motivi. Problemi e sintomatologie potenzialmente più adatte per tali tipi di intervento comprendono la crescita e la realizzazione personale, i disturbi d’ansia come agorafobia e fobia sociale. Invece sarebbe sconsigliato proporre questi servizi a chi presenta rischio auto ed eterolesivo (come nei casi di depressione grave, tossicodipendenze, alcolismo) o disturbo di personalità borderline (Stoffle, 2001, citato in Rochlen et al., 2004). Inoltre può sembrare banale ma in realtà è di importanza fondamentale per usufruire al meglio di tali servizi, essere abili nell’utilizzo del computer, avere una buona connessione ad internet e avere la disponibilità di un luogo tranquillo e riservato, lontano da occhi e orecchie indiscrete. Tutto ciò va chiarito con il paziente. Soprattutto per quanto riguarda gli interventi svolti per email, bisognerebbe fare attenzione nel trovare un modo per verificare le identità di paziente e terapeuta in quanto potrebbe accadere che un utente esterno riesca ad acquisire le informazioni di contatto e assumerne le identità.

Un altra difficoltà consiste nel fatto che la tecnologia si sviluppa ad un ritmo più veloce e con più facilità rispetto alle leggi (Doverspike, 2009, citato in Hrivnak et al., 2015). Infatti si è posta anche la questione di come gestire quelle situazioni in cui il terapeuta offre un servizio di e-therapy ad un paziente che si trova in un altro Stato. Alcuni esperti in diritto hanno cercato di capire se si dovrebbero applicare le leggi dello stato in cui il professionista può praticare o le leggi dello stato in cui si trova il paziente (Rummell & Joyce, 2010 citati in Hrivnak at al., 2015). Compresa in questa problematica è la validità dell’assicurazione. In genere, l’assicurazione è valida solo entro i limiti del territorio in cui il professionista è abilitato ad esercitare (Mallen,Vogel & Rochlen, 2005, citato in Hrivnak et al., 2015). Ciò potrebbe comportare ad esempio che i pazienti non possano chiedere il rimborso da eventuali danni.

Psicoterapia on-line: efficacia

Ma aldilà dei pro e dei contro riscontrati nell’ultimo ventennio, nella letteratura più recente quali differenze emergono tra i servizi di psicoterapia online e quelli offerti faccia a faccia in termini di efficacia e alleanza terapeutica?

In una ricerca di Hallgren e colleghi (2015) la terapia cognitivo-comportamentale online (iCBT) ha ricevuto una grande prova di efficacia. I ricercatori avevano confrontato l’efficacia di tre tipi di intervento per la depressione lieve e moderata: l’esercizio fisico, la terapia cognitivo comportamentale online (iCBT) e il trattamento usuale che consiste in sedute di counselling in cui vengono utilizzate tecniche cognitivo comportamentali dal medico di base (TAU). Prescrivere l’ esercizio fisico è stato proposto da molti come un trattamento alternativo efficace per la depressione, e in letteratura è stata dimostrata la sua efficacia (Rethorst, Wipfli & Landers, 2009; Rimer et al., 2012 citati in Hallgren et al., 2015). La terapia cognitivo comportamentale invece è il primo trattamento consigliato dalle linee guida per la pratica clinica nella cura della depressione e ha ricevuto un forte supporto empirico (Cuijpers, Straten & Andersson, 2008, citato in Hallgren et al., 2015).

Lo studio di Hallgren e colleghi è stato svolto in Svezia su un campione di 946 pazienti dai 18 anni in su. In tale ricerca l’ iCBT era offerta in moduli di un manuale di auto aiuto consultabili dai pazienti su un sito web apposito. I moduli si focalizzavano ognuno su diversi sintomi della depressione ed erano costituiti da parti di testo, immagini e video. Uno di questi moduli era stato personalizzato in base alle difficoltà riportate da ciascun paziente le quali erano emerse da interviste precedenti condotte dai ricercatori. I partecipanti almeno alla fine di ogni modulo ricevevano dei feedback da parte di uno psicologo assegnato e potevano contattare quest’ultimo nel caso di bisogno di un aiuto aggiuntivo.

Gli studiosi avevano riscontrato miglioramenti significativi in tutti e tre gli interventi a tre mesi di distanza ma ancor di più in seguito all’intervento basato sull’esercizio fisico e alla psicoterapia online. Nella ricerca questi due tipi di intervento hanno ottenuto risultati molto simili. I ricercatori non hanno rilevato differenze significative in base all’età o al sesso, nonostante i pazienti più giovani (18-34 anni) sembrassero più favorevoli alla psicoterapia online e le donne in media avessero effettuato più accessi al sito rispetto agli uomini. Gli studiosi avevano individuato un maggior numero di drop out tra i partecipanti che avevano ricevuto il trattamento usuale, i quali infatti hanno riportato di essere rimasti insoddisfatti del tipo di intervento in quanto avevano reputato che fosse poco pratico e interferisse con i loro impegni. Tuttavia questo studio, come ogni altro studio, presenta dei punti di forza e di debolezza, messi in chiaro dagli stessi ricercatori. I punti di forza, individuati dagli stessi ricercatori, sono l’ampiezza del campione e il tipo di disegno di ricerca utilizzato: in particolare l’assegnazione casuale e a distanza dei pazienti alle tre condizioni, la valutazione post intervento da parte di ricercatori che erano all’oscuro dell’assegnazione alle tre diverse condizioni e l’inclusione nel campione di pazienti in trattamento farmacologico (ciò rendeva meno “puro” l’effetto degli interventi ma ne aumentava la validità esterna). Mentre per quanto riguarda i punti di debolezza, Hallgren e colleghi hanno ipotizzato che la diversa frequenza degli incontri tra i tre interventi potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale sugli esiti. Infatti i trattamenti erano tutti della durata complessiva di 12 settimane ma il TAU prevedeva una sola seduta di counselling settimanale, mentre nell’intervento basato sull’esercizio fisico erano previsti tre incontri settimanali e durante l’intervento online i partecipanti potevano accedere al sito quante volte lo desideravano. Inoltre nell’intervento basato sull’esercizio fisico e nell’iCBT i partecipanti potrebbero essere stati maggiormente coinvolti dai ricercatori. Se i pazienti non accedevano al sito o non si presentavano in palestra per una settimana o più venivano ricontattati nel primo caso dallo psicologo assegnato e nel secondo caso dal trainer e venivano incoraggiati a continuare. Infine nell’intervento basato sull’esercizio fisico potrebbe aver influito sugli esiti positivi anche l’ aver favorito la socializzazione, in quanto i partecipanti svolgevano gli incontri in gruppo.

Al contrario in uno studio di Victor e colleghi (2018) l’intervento faccia a faccia ha ottenuto risultati significativamente migliori rispetto alla psicoterapia online. I ricercatori hanno confrontato i risultati ottenuti tra l’intervento cognitivo-comportamentale faccia a faccia, quello online e le liste d’attesa. Essi hanno paragonato gli interventi in base a determinati indici ovvero sia in base agli esiti ottenuti su sintomi psicopatologici quali depressione e ansia sociale sia in base agli esiti ottenuti su resilienza, qualità di vita e alleanza terapeutica in un campione di 94 studenti della Witten/Herdecke University in Germania i quali riportavano problematiche di stress psicosociale.

Nell’intervento di psicoterapia online gli studiosi hanno applicato un protocollo basato sul Modello Personale di Resilienza (PMR). Vi sono prove che la CBT basata sui punti di forza del paziente (ovvero sul PMR) dia maggiori risultati rispetto al protocollo CBT “tradizionale” per quanto riguarda l’ ansia sociale (Willutzki, Teismann & Schulte, 2012, citato in Victor et al., 2018), ma non la depressione (Teissman, Dymel, Schulte & Willutzki, 2011, citati in Victor et al., 2018). In Psicologia, la resilienza viene definita come “la capacità di far fronte e adattarsi di fronte alle avversità e/o di “rimbalzare” indietro e ripristinare un funzionamento positivo”. Nei primi studi su tale modello, esso si è dimostrato utile per gli studenti in attesa di una terapia (Victor, Teismann & Willutzki, 2016, citato in Victor et al., 2018) o di una consulenza (Victor, Teismann & Willutzk 2017, citati in Victor et al., 2018), in tal caso era stato utilizzato in tre sedute sia di gruppo sia individuali.

Invece nella ricerca di Victor e colleghi l’intervento online è stato condotto tramite la piattaforma Minddistrict in tre sessioni individuali suddivise in quattro fasi. I ricercatori avevano cercato di rendere più flessibile l’intervento prevedendo sia una modalità di comunicazione asincrona ovvero scambio di messaggi di testo sia una modalità di comunicazione sincrona come chiamate telefoniche e video-chiamate tra paziente e terapeuta (Baumeister, Reichler, Munzinger & Lin, 2014, citati in Victor et al., 2018). Gli studiosi hanno scelto un intervento guidato per favorire l’impegno dei partecipanti e hanno previsto anche il supporto dei counselor tramite feedback scritti almeno al termine di ogni sessione per aumentare l’efficienza del trattamento rispetto ad un trattamento senza interazioni (Richards, Timulak, Rashleigh, McLoughlin & Colla, 2016; Lancee, Sorbi & Van Straten, 2013; Farrer, Christensen, Griffiths & Mackinnon, 2011, citati in Victor et al., 2018). Comunque i ricercatori hanno riscontrato un cambiamento qualitativo della vita significativamente superiore sia nel gruppo iCBT sia in quello FTF-CBT (faccia a faccia) rispetto alla lista d’attesa.

Contrariamente alle meta-analisi dalle quali è emerso che l’intervento CBT computerizzato è vantaggioso come quello faccia a faccia (Andrews, Cuijpers, Craske, Mc Evoy & Titov, 2010, citati in Victor et. al. 2018), lo studio di Victor e colleghi ha riscontrato ulteriori tendenze, l’intervento di psicoterapia online non è risultato così ben accetto e vantaggioso rispetto a quello faccia a faccia. In secondo luogo i ricercatori hanno riscontrato anche un maggior tasso di drop out nella CBT online. Gli studiosi hanno ipotizzato che l’ intervento online non abbia funzionato così come in altri studi a causa della modalità di comunicazione asincrona (De Bruin & Meijer, 2017, citati in Victor et al., 2018) ovvero hanno riportato che nella FTF-CBT veniva dato un feedback immediato sulle strategie di coping rispetto alla iCBT in cui ci potevano essere dei ritardi nell’inviare i feedback e ciò potrebbe aver influito sul beneficio tratto dai partecipanti. Inoltre, i ricercatori hanno ipotizzato che i risultati potessero essere dovuti anche al fatto che alcuni dei partecipanti del gruppo i-CBT avessero chiesto di essere inseriti nel gruppo di intervento FTF-CBT e sembravano essere delusi e poco motivati per tal motivo dopo l’assegnazione. Inoltre gli studiosi hanno riscontrato che la ricerca su interventi online sia stata condotta principalmente non su interventi brevi come in questo studio e hanno dedotto che sia probabile si debbano svolgere più sessioni per ottenere maggiori risultati. Infine dallo studio di Victor e colleghi è emerso anche che nonostante l’alleanza terapeutica fosse migliorata significativamente nel corso del tempo in entrambi i gruppi, rimanesse comunque una differenza significativa tra gli interventi. I ricercatori hanno ipotizzato che ciò potrebbe aver influito sugli esiti raggiunti, dato che anche il setting può avere un ruolo sull’instaurarsi dell’alleanza di lavoro tra terapeuta e paziente.

Psicoterapia on-line: alleanza terapeutica

Sull’alleanza terapeutica purtroppo è stato svolto un numero relativamente piccolo di ricerche per quanto riguarda gli interventi online, quindi se ne sa poco (Andersson et al., 2012b, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Per esempio, è stata riscontrata un’alleanza terapeutica positiva e stabile in vari studi in cui veniva applicata la CBT online per il trattamento del disturbo da stress post traumatico (Knaevelsrud & Maercker, 2007; Knaelvesrud et al., 2014; Wagner, Brand, Schulz & Knaevelsrud, 2012, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Inoltre, in una ricerca sul trattamento della depressione, non è stata trovata alcuna differenza significativa nella percezione dell’alleanza terapeutica tra i pazienti che avevano ricevuto una terapia faccia a faccia e quelli che avevano ricevuto una psicoterapia online (Preschl, Maercker & Wagner, 2011, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Tra l’altro, in un altro studio sul trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia, Andersson e colleghi (2012b, citati in Apolinario-Hagen et al.,2015) non hanno trovato alcuna correlazione significativa tra la qualità dell’alleanza di lavoro terapeutico e i risultati del trattamento, che sembra essere insolito per la ricerca in un setting psicoterapeutico. Essi hanno concluso, in base a loro studi precedenti, che l’alleanza terapeutica nelle terapie online, rispetto a quanto avviene nelle terapie faccia a faccia, potrebbe giocare un ruolo secondario sugli esiti terapeutici. In una ricerca sul trattamento dell’acufene, Jasper e colleghi (2014, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) hanno riscontrato una buona alleanza terapeutica sia nel gruppo iCBT che nel gruppo CBT faccia a faccia. Tuttavia, i pazienti che avevano ricevuto il trattamento faccia a faccia, hanno percepito come più forte l’alleanza instaurata con il terapeuta rispetto a quella percepita dai pazienti dell’ iCBT. Inoltre, i pazienti del gruppo iCBT hanno avuto bisogno di molto più tempo per costruire una forte relazione terapeutica. A tal proposito, una meta-analisi (Spek et al. 2007b, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) ha fornito prove sull’importanza del supporto del terapeuta in particolare nel trattamento online della depressione e dei disturbi d’ansia. Infatti è stato riscontrato che i trattamenti guidati riducono significativamente i sintomi della depressione al contrario di terapie online non guidate.

Psicoterapia on-line: incide anche l’approccio?

Dopo aver riportato ricerche in cui si è studiata solo l’applicazione delle tecniche cognitivo-comportamentali sugli interventi di psicoterapia online, sorge spontanea la domanda: vi sono studi in cui si è fatto riferimento ad orientamenti teorici diversi?

A tal proposito in una revisione della letteratura (Apolinario-Hagen et al., 2015) si è riscontrato che la maggior parte degli interventi online si basano sui principi della CBT, sebbene di recente siano stati sviluppati trattamenti online con orientamento psicodinamico. Gli interventi di e-mental health hanno come target pazienti per lo più adulti affetti da disturbi dell’umore e da ansia (Lal & Adair, 2014, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Questo è motivato dal fatto che sono stati ottenuti significativi effetti terapeutici positivi applicando la CBT agli interventi online (Arnberg, Linton, Hultcrantz, Heintz & Jonsson, 2014; Barak, Hen, Boniel-Nissim & Shapira, 2008; Bee et al., 2008; Hedman, Ljótsson & Lindefors, 2012, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015).

Tuttavia allo stesso modo della CBT anche la psicoterapia psicodinamica (PDT) è risultata essere un orientamento efficace per il trattamento della depressione maggiore. Alla luce di ciò è stato sviluppato un intervento online basato sui principi della psicoterapia psicodinamica. Johansson e colleghi (2012, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) hanno studiato l’efficacia dell’IPDT sulla depressione tramite uno studio di tipo randommizzato controllato condotto in Svezia. I ricercatori hanno riscontrato che appena più della maggior parte dei pazienti che avevano ricevuto il trattamento era migliorata. L’IPDT è stato applicato anche al trattamento dei disturbi d’ansia. In uno studio sul trattamento del disturbo d’ansia generalizzato, Andersson e colleghi hanno confrontato tra gli esiti terapeutici ottenuti tramite IPDT, ICBT e la lista di attesa. Gli studiosi hanno rilevato che entrambi gli interventi alleviano significativamente i sintomi, anche se con dimensioni di effetto moderate. Comunque vi è un ristretto numero di studi che attestano l’efficacia della IPDT. Per tal motivo, fornire alternative all’ICBT appare importante, poiché le preferenze dei pazienti per un particolare orientamento terapeutico potrebbero avere un influenza anche sugli esiti degli interventi online (Johansson, Nyblom, Carlbring, Cuijpers & Andersson 2013, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015).

Psicoterapia on-line: cosa rimane da capire

In conclusione gli interventi di psicoterapia online, in particolar modo quelli in cui si è utilizzata la terapia cognitivo comportamentale, hanno ottenuto prove di efficacia in vari studi. Andrebbero svolte più ricerche in cui si utilizzano anche altri orientamenti teorici per offrire delle valide alternative ai pazienti. Altro fattore da indagare sarebbe il ruolo dell’alleanza terapeutica in questi interventi. Approfondimenti in merito sarebbero di centrale importanza in quanto buona parte del lavoro psicoterapeutico faccia a faccia si fonda sull’alleanza terapeutica e quindi sulle teorie dell’attaccamento (Bowlby, 2008/1988, citato in Apolinario-Hagen et al., 2015). Inoltre, è emerso un dato molto importante ovvero che questi tipi di servizi aumentano relativamente l’accessibilità all’assistenza psicologica. Infatti l’aumentata possibilità di accedere riguarda solo alcuni target di pazienti come spiegato precedentemente. Quindi i servizi di cura online non sono affatto uno strumento “democratico”, ovvero alla portata di tutti. Aldilà del tipo di disturbo presentato e dalla sua gravità, potrebbero essere facilitati nel loro utilizzo solo alcuni pazienti con determinate caratteristiche socio-culturali come i giovani con alto livello di istruzione (Borzekowski et al., 2009, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015) . Nonostante ciò questi servizi potrebbero comunque colmare alcune lacune dell’assistenza psicologica tradizionale, soprattutto potrebbero costituire un modo per ovviare alle lunghe liste d’attesa dei servizi pubblici ed evitare il peggioramento di alcune prognosi. D’altro canto la diffusione di questi servizi potrebbe portare anche alla riduzione degli sforzi per migliorare la qualità o il finanziamento di trattamenti convenzionali, all’aumento di interessi finanziari di ricercatori e sviluppatori (bias di pubblicazione), ad un utilizzo posticipato delle terapie convenzionali, cattive relazioni terapeutiche, uso inappropriato o addirittura a trattamenti dannosi (Lal et al., 2014, citati in Apolinario-Hagen et al., 2015). Infatti da alcune indagini di Heinlen e colleghi (2003a, citati in Hrivnak et al., 2015) è emerso che nella maggior parte dei servizi online veniva meno la conformità ad alcuni principi etici e legali della professione tra cui la trasparenza ovvero completezza nell’informazione e la riservatezza.

Infine sarebbe auspicabile un miglioramento di questi servizi, viste alcune importanti barriere che riescono ad abbattere, ma non vi sono ancora prove che possano essere preferibili ai servizi faccia a faccia; anzi la maggiore efficacia degli interventi online guidati, riscontrata da alcuni studi (Victor et al., 2018), potrebbe essere ancora un importante conferma della centralità della relazione come strumento di cura in psicoterapia.

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