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Lacrime di coccodrillo o lacrime reali? Gli psicopatici potrebbero non riconoscere la differenza

Secondo i risultati di un recente studio, le persone con alti livelli di psicopatia non rispondono alle emozioni genuine allo stesso modo della maggior parte delle persone e si dimostrano meno inclini ad aiutare qualcuno che sta esprimendo un vero disagio.

 

La ricercatrice Dawel, della Research School of Psychology dell’Australian National University (ANU) ha indagato come le persone con alti livelli di tratti psicopatici hanno difficoltà a capire quando qualcuno è sinceramente spaventato o turbato, basandosi sulle espressioni facciali delle persone.

Si tratta del primo studio che ha compiuto questa indagine; nello specifico si è cercato di capire come i tratti psicopatici possono influenzare le risposte al disagio genuino (ad esempio un’autentica tristezza) versus disagio finto (ad esempio una finta tristezza volta a manipolare le altre persone).

Lo studio sperimentale

Lo studio è stato condotto su 140 soggetti non clinici, concentrandosi sulle caratteristiche affettive della psicopatia (insensibilità, scarsa empatia, affetto superficiale). Ai partecipanti veniva richiesto di osservare le fotografie di volti che esprimevano un ventaglio di emozioni diverse. Alcuni dei volti fotografati mostravano vere emozioni, mentre altri le fingevano.

I risultati mostrano come le persone con alti livelli di tratti psicopatici non rispondono alle emozioni genuine allo stesso modo della maggior parte delle persone:

molte persone quando vedono qualcuno che è veramente turbato, si sentono male per loro e questo li motiva all’aiuto – ha detto Dawel – Le persone con uno spettro molto elevato di psicopatia non mostrano questa risposta.

È emerso che le persone con alti livelli di tratti di psicopatia mostrano una ridotta capacità di discriminare le espressioni di disagio autentiche da quelle finte; inoltre le persone con bassi livelli di tratti psicopatici riportano una maggiore intenzione di aiutare le persone il cui volto mostra un genuino disagio, propensione che si indebolisce, tendendo a scomparire, quando i tratti di psicopatia aumentano: le persone con alti tratti psicopatici non sono disposte ad aiutare qualcuno che sta esprimendo un vero disagio, così come invece lo è la maggior parte delle persone.

Il dato più interessante emerso è che questi deficit nell’individuazione e nella risposta alle emozioni altrui sembrano esser presenti solo nel caso di emozioni di tristezza o paura.

Nel caso di emozioni quali la rabbia, il disgusto e la gioia, le persone con tratti di psicopatia elevati non hanno mostrato alcun deficit nel comprendere se qualcuno stesse o non stesse fingendo.

Conclusioni e prospettive future

La dott.ssa Dawel auspica che i risultati del suo studio possano portare ad una migliore comprensione della psicopatia e di conseguenza a migliori trattamenti e interventi volti ad una promozione dello sviluppo morale.

Successivi studi andrebbero condotti su un campione di bambini, in quanto la ricercatrice ipotizza un possibile contributo genetico alla presenza di tratti psicopatici: uno studio condotto all’inizio dell’infanzia potrebbe aiutare a far più chiarezza anche su questo punto.

Come si può abbracciare un porcospino? Gli interventi di Anger Management per il discontrollo della rabbia

Gli interventi di Anger Management sono di notevole aiuto per i pazienti con discontrollo della rabbia. Diversi sono i protocolli di Anger Management a disposizione dei clinici. Tali protocolli, per dirsi efficaci, devono prestare attenzione ad alcuni fondamentali elementi.

 

La rabbia rientra tra le emozioni di base individuate da Ekman nel 1972, ciò significa che è un’emozione innata, che si può riscontrare in qualsiasi popolazione e anche in altre specie animali (Darwin, 1872), la rabbia quindi è un’emozione universale.

Come qualsiasi altra emozione, la rabbia è generata da una valutazione cognitiva di un’esperienza, una situazione o un evento (sia interni che esterni) che l’individuo vive. Essa deriva da un senso di ingiustizia: quando qualcosa intorno a noi va come non dovrebbe andare o come non ci aspettiamo che vada, allora proviamo rabbia.

La rabbia, al pari delle altre emozioni, ha un valore adattivo: ci aiuta a ristabilire il senso di giustizia venuto a mancare. Essa quindi, in alcune circostanze, può essere funzionale al benessere dell’individuo. Esistono tuttavia dei casi in cui la rabbia può diventare problematica e disfunzionale, è bene in questi casi intervenire con protocolli di Anger Management.

Il discontrollo della rabbia

La rabbia è un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione), accompagnate da cambiamenti fisiologici e comportamentali che, come abbiamo visto, possono avere una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente. I cambiamenti fisiologici li conosciamo, tra questi troviamo l’aumento della pressione sanguigna e il battito cardiaco accelerato. Vi sono anche dei cambiamenti comportamentali che variano da individuo a individuo. Mentre per alcuni è più facile gestire e controllare questo stato emotivo, per altri non si riscontra la stessa facilità e spesso si manifesta un discontrollo della rabbia che può sfociare in comportamenti aggressivi e violenti verso cose, verso se stessi e verso gli altri.

Facile comprendere come gli individui con discontrollo della rabbia possono andare incontro a problemi psicologici e relazionali: la rabbia è di solito descritta come sgradevole e problematica da chi la prova (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002; Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005), porta le persone a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile per se stessi e per chi sta loro vicino.

Anche da un punto di vista fisico, il discontrollo della rabbia ha i suoi effetti negativi, provocando in particolare ipertensione e malattie coronariche (Suls & Bunde, 2005).

Anger Management: il protocollo di Brandolo, DiGiuseppe e Tafrate

Tra i più autorevoli esperti in tema rabbia e Anger Management è giusto citare Raymond DiGiuseppe, autore, insieme ad altri, di innumerevoli studi sull’argomento. Uno dei più completi protocolli di Anger Management è quello proposto da DiGiuseppe, Brondolo e Tafrate nel 1997. Le fasi del protocollo sono le seguenti:

  • Alleanza terapeutica e presentazione delle tecniche

La rabbia non stimola empatia. Nessuno abbraccerebbe un porcospino! (DiGiuseppe e Tafrate, 2001) Inoltre, i pazienti arrabbiati spesso vogliono solo sfogarsi per le ingiustizie di cui si sentono vittime e vogliono cambiare i comportamenti degli altri piuttosto che la loro reazione emotiva. Ciò può influire negativamente sul raggiungimento di un accordo sugli obiettivi della terapia, aspetto importante dell’alleanza terapeutica. Pertanto, i terapeuti devono convalidare vissuto emotivo dei clienti arrabbiati (ma non la loro reazione) all’inizio del processo di Anger Management.

Per favorire l’alleanza terapeutica e l’inizio della relazione, si può stimolare la speranza “accentuando il positivo”. Ad esempio si può iniziare ogni sessione con “Mi dica qualcosa di positivo che è successo questa settimana. Un evento che l’ha fatta arrabbiare ma in cui è riuscito a gestire la rabbia in modo efficace”. Nel caso in cui il paziente non riporti alcun esempio, potrebbe anche essere utile “accentuare il negativo” evidenziando i costi della rabbia eccessiva, in questo modo potremmo generare la motivazione al cambiamento.

  • Analizzare i trigger

Obiettivo di questa componente è la valutazione completa degli stimoli che causano rabbia, a partire da un’analisi attenta degli aspetti di una situazione (il tono, i gesti, le parole o l’ambiente) che hanno dato il via allo scatenarsi della reazione disfunzionale. La prima volta, se lo desiderano, i pazienti possono raccontare l’intera storia senza fermarsi. Successivamente li fermiamo durante alcuni passaggi del racconto e chiediamo loro di identificare e valutare l’intensità dei loro sentimenti.

  • Focus sui valori

La ristrutturazione cognitiva può essere una componente importante degli interventi di Anger Management. Bondolo, DiGiuseppe e Tafrate (1997) ricorrono al concetto di “valori fondamentali” per identificare gli schemi cognitivi che organizzano la risposta delle persone ai trigger scatenanti la rabbia. I valori (cioè dignità, cura, uguaglianza, fiducia, fratellanza, comunità, integrità, realizzazione, ecc.) sono un modo positivo e facilmente accessibile di etichettare un insieme di credenze e idee interne che ogni persona possiede. Un’analisi dei pensieri, effettuabile tramite la tecnica dell’ ABC, può chiarire i valori della persona. Una certezza comune sostenuta dalle persone arrabbiate è che il non esprimere rabbia di fronte a una provocazione equivale a dare il permesso all’altra persona di continuare a comportarsi in modo provocatorio. Per affrontare obiezioni come questa, il terapeuta può evidenziare l’integrità dei valori delle persone (es. la dignità), restituendo il fatto che questi siano positivi e vantaggiosi. La terapia ha lo scopo di aiutare a cambiare il modo in cui si difendono questi valori ma non i valori stessi: il terapeuta deve aiutare a distinguere tra il valore e i metodi per far fronte alle violazioni di questo valore. In questo caso bisogna stare attenti a non trasmettere ai pazienti l’idea che un abuso vada subito, perché potrebbe portare a un drop-out. Va invece sottolineato che il controllo emotivo è un prerequisito fondamentale per elaborare una risposta efficace a contrastare l’ingiustizia. Una buona metafora da usare è quella delle arti marziali: il buon allenamento alle arti marziali inizia con l’allenamento al controllo emotivo.

  • Ridurre l’eccitazione fisiologica

Un modo per insegnare le abilità di rilassamento è iniziare con un semplice esercizio di respirazione addominale, e quindi adattare molti degli esercizi forniti nel Rilassamento Progressivo (Jacobson, 1974) e praticarli anche a casa. I partecipanti possono iniziare con brevi sessioni di pratica, da 2 a 3 minuti di respirazione addominale lenta 3 o 4 volte al giorno, in macchina o prima di dormire. Durante la sessione, viene fornito un feedback pratico fino a quando i partecipanti non sono in grado di ridurre il loro livello di tensione di circa la metà. Esempi di feedback includono lodi e istruzioni specifiche sulle parti corporee da rilassare (ad es. “Prova a rilassare la mascella” “stai respirando magnificamente”). È importante che i partecipanti siano in grado di ottenere una riduzione del 50% della tensione corporea nella sessione prima di iniziare gli esercizi di esposizione. Alcuni individui possono farlo subito; altri hanno bisogno di più pratica.

  • Esposizione

La maggior parte delle sessioni in un intervento di Anger Management è dedicata alle tecniche di esposizione. Durante l’esposizione, al paziente vengono presentate una serie di provocazioni per un periodo prolungato di tempo, e gli si chiede di provare a calmarsi mentre è esposto alle provocazioni. Questa esposizione prolungata è progettata per consentire alla risposta emotiva di estinguersi. Le parole vanno dette con un’inflessione neutra, i pazienti spesso lo sperimentano come divertente e l’umorismo li aiuta a leggere i commenti attraverso una prospettiva migliore. Un tono piatto aiuta le persone a capire rapidamente cosa li preoccupa del commento. Si può avere anche l’esposizione a un gesto: il terapeuta semplicemente fa il gesto senza altre verbalizzazioni. Se necessario, il terapeuta può fare il gesto più lentamente, diminuendo l’aspetto della minaccia. Il terapeuta aumenta via via l’intensità degli stimoli fino a quando il paziente resta calmo. I pazienti sono incoraggiati a guardare direttamente la persona che provoca (cioè, la persona che li schernisce), senza fare commenti o intraprendere alcuna azione. Un trigger che produce una forte risposta di rabbia può richiedere più sessioni di esposizione.

E’ importante fornire maggiore supporto ai clienti durante le esposizioni alla rabbia. Nello specifico, le persone possono avere convinzioni molto forti sulla necessità di rispondere con aggressività alle ingiustizie percepite, e mettere in discussione queste convinzioni può risultare molto difficile per il paziente. Un modo in cui fornire supporto è quello di dire al paziente cosa esattamente accadrà durante la sessione di Anger Management. È utile descrivere l’intera procedura nel dettaglio e indicare in che modo verrà fornito il supporto (per es: “Se ti agiti troppo ti aiuterò a calmarti ricordandoti di respirare, puoi fermarti in qualsiasi momento”). Durante l’esposizione vanno forniti feedback positivi e frasi che aiutino a rilassarsi come “Continua a respirare, calma te stesso”

Durante le procedure di esposizione e desensibilizzazione, i terapeuti tengono il passo con lodi costanti e incoraggiamenti. Gli autori di questo protocollo di Anger Management suggeriscono di fornire circa dieci commenti positivi per ogni singolo feedback correttivo dato al paziente. L’obiettivo è che i clienti arrabbiati abbandonino la loro convinzione che l’aggressività sia l’unica difesa necessaria contro l’insulto. Il feedback positivo infonde coraggio e porta le persone a riflettere sulla situazione prima di rispondere impulsivamente.

  • Consolidamento del supporto

Il passaggio finale di un intervento di Anger Management dovrebbe essere quello di allenare il paziente all’ascolto attivo e all’assertività. Questo, negli interventi sistemici o di gruppo, è un passaggio di notevole importanza se esteso anche gli altri membri del gruppo o ai familiari: allenare all’ascolto e all’assertività, consente di ottenere uno strumento in più per contenere la rabbia del paziente, nel caso in cui venga nuovamente provocato. Se l’individuo ha una storia significativa di aggressioni fisiche incontrollate, sarebbe utile allenare all’ascolto più di una persona significativa per aiutarlo a calmarsi durante situazioni provocatorie.

Sebbene il programma illustrato possa dirsi di facile applicazione, va posta particolare attenzione in alcuni casi: una valutazione dello stato mentale dei pazienti può essere d’aiuto per riconoscere quei casi in cui l’esposizione potrebbe diventare problematica: è il caso di pazienti psicotici o pazienti che fanno regolare uso di droghe o alcool.

Per i pazienti che presentano altri disturbi, tra cui il disturbo da deficit di attenzione o i disturbi dell’umore, è importante assicurarsi che stiano seguendo un trattamento adeguato e appropriato per queste condizioni sottostanti prima di valutare se i metodi basati sull’esposizione aiuteranno a gestire la loro rabbia (DiGiuseppe, 1995; Tafrate, 1995).

Organizzare lo spazio fisico nel proprio studio è un passo importante. Se vi è la preoccupazione che gli individui possano diventare aggressivi durante un’esposizione in-vivo, si raccomanda di collocare le sedie relativamente distanti tra loro, con il terapeuta seduto tra i due partecipanti (nel caso in cui il protocollo venga applicato alla coppia o al gruppo). Il terapeuta deve sentirsi a proprio agio nel toccare i partecipanti e dovrebbe tenere ogni persona nel suo posto se inizia a sollevarsi.

Gli interventi di Anger Management per aumentare le capacità di mettersi nei panni dell’altro

Feedback visivo

Attraverso questo metodo (Storms, 1979; Önder e Öner-Özkan, 2003) si permette ai pazienti di rivedersi nei filmati ripresi durante delle conversazioni con altre persone (o col terapeuta) mentre si simulano alcune situazioni che hanno scatenato rabbia. Coerentemente con l’effetto attore-osservatore (Jones e Nisbett, 1971), i pazienti, rivedendosi, aumentano la loro capacità di ricondurre sempre meno la rabbia alla situazione (attribuzione situazionale) e sempre più a un loro tratto personale (attribuzione disposizionale). Allo stesso modo, le reazioni dell’altro attore, assumono più carattere situazionale e meno disposizionale. Le attribuzioni situazionali sembrano, non a caso, correlate allo stile di elaborazone cognitiva degli individui antisociali (Mohr et al, 2008), mentre le attribuzioni disposizionali incoraggerebbero una maggiore responsabilità personale per il proprio comportamento.

La tecnica delle sedie

Tecnica molto utilizzata nella Terapia Gestaltica, è utilizzata per aumentare la consapevolezza di sé. La tecnica della sedia aiuta il paziente a rielaborare diversi conflitti, tra sé e con gli altri, poiché incoraggia a usare una prospettiva alternativa per analizzare gli eventi conflittuali e aiuta i pazienti con discontrollo della rabbia ad attribuire delle spiegazioni alternative a quel comportamento che hanno interpretato come provocatorio. Questa tecnica risulta particolarmente utile nei percorsi di Anger Management per quei casi in cui i pazienti sembrano “bloccati” in una situazione confilttuale (Mohr et al., 2007).

Terapia del perdono

La terapia del perdono promuove la risoluzione del conflitto facilitando la presa di prospettiva altrui. Il perdono si ottiene attraverso quattro fasi (Enright e Human Development Study Group, 1996):

  1. una fase di scoperta in cui vengono analizzati i vissuti emotivi (es. analizzare le difese psicologiche, confrontarsi con la rabbia, ecc.);
  2. una fase che analizza le vecchie strategie messe in atto dal paziente (ad es. discutere della visione alterata di un “mondo giusto” secondo il paziente);
  3. una fase di apprendimento nuove risposte (compassione, empatia nei confronti del colpevole, accettazione del dolore);
  4. una fase finale del consolidamento (prendere consapevolezza della diminuzione degli effetti negativi, dell’aumento delle emozioni positive e della liberazione emotiva interna) (Denton and Martin, 1998).

Questo tipo di approccio è più utile per quei pazienti che hanno reagito con rabbia eccessiva a eventi in cui sono stati vittimizzati.

Interventi di Anger Management: le componenti principali

Col passare degli anni alcuni interventi di Anger Management sono stati perferzionati e diversi sono i protocolli da poter utilizzare per la gestione della rabbia. Tuttavia, ci sono degli elementi fondamentali (alcuni già visti) che, a detta di DiGiuseppe e Tafrate (2001), non devono mai mancare in un percorso di Anger Management:

  • Coltivare l’alleanza terapeutica: convalidare il vissuto emotivo dei clienti arrabbiati, ma non la loro reazione
  • Accrescere la motivazione per il cambiamento: aiutare a distinguere tra rabbia funzionale e disfunzionale e diventare consapevoli delle conseguenze negative della rabbia disfunzionale
  • Gestire l’eccitazione fisiologica
  • Favorire il cambiamento cognitivo: aiutare i clienti a promuovere percezioni realistiche e accurate, attraverso degli interventi di ristrutturazione cognitiva, porta a cambiamenti emotivi e comportamentali.
  • Favorire il cambiamento comportamentale: i pazienti con problemi di rabbia spesso hanno dei repertori comportamentali carenti e un certo grado di automaticità associato alle reazioni eccessive. L’apprendimento e la pratica di nuove risposte aiutano i pazienti a introdurre comportamenti alternativi nel loro repertorio comportamentale.
  • Insegnare a prevenire le ricadute: ai pazienti con discontrollo della rabbia va insegnato come porre rimedio a un’eventuale ricaduta nei comportamenti disfunzionali di rabbia.
  • Il ruolo del perdono: bisogna far comprendere al paziente che perdonare non equivale a dimenticare: il perdono si verifica quando le persone imparano che ricordare e ad accettare ciò che è stato fatto loro.
  • Considerare un intervento sistemico: valutare la possibilità di sedute con gli altri significativi per il paziente ed esaminare in che modo questi valutano la sua rabbia, o lasciare che condividano con lui le loro percezioni sulle conseguenze negative di tale emozione.
  • Ambiente di rinforzo: chi ha problemi di rabbia frequenta spesso altre persone che validano le sue reazioni e condividono lo stesso modo di esprimere rabbia (Robins & Novaco, 1999). Ciò può comportare un ambiente che rinforza il discontrollo. Gli interventi di Anger Management devono aiutare il paziente a prendere consapevolezza dell’influenza del proprio ambiente di vita sull’espressione della rabbia e promuovere relazioni con altre persone che possiedono una gestione migliore delle proprie emozioni.

Il discontrollo della rabbia è un problema spesso incontrato dai professionisti della salute mentale. Eppure esso risulta un argomento su cui la ricerca ha fatto molta fatica a decollare: per ogni articolo sulla rabbia presente in letteratura negli anni 90, ne venivano pubblicati 10 sulla depressione e 7 sull’ansia (Kassinove & Sukhodolsky, 1995). Le strategie delineate sono delle proposte da cui attingere per sviluppare programmi di Anger Management ad hoc per il singolo paziente. Sebbene l’elenco di tali strategie non sia esaustivo, esse derivano dai più promettenti dati di ricerca disponibili.

 

Incontrare le persone LGB (2018) di C. Cavina, S. Cavina Gambin, D. Ciriello – Recensione del libro

Incontrare le persone LGB è un testo teorico-applicativo molto attuale e chiaro sui temi delle persone e famiglie LGB, portatrici di domande, richieste, necessità e specificità, che qualsiasi specialista (degli ambiti psico-socio-sanitario, giuridico, educativo) impegnato nelle professioni d’aiuto, ha elevate probabilità d’incontrare nel corso della propria attività lavorativa.

 

Le persone lgb, ovvero lesbiche, gay e bisessuali, nonostante siano ancora oggetto di forti discriminazioni e ostilità sociale, fanno sempre più spesso la scelta di essere visibili. Questa aumentata visibilità, inevitabilmente, si manifesta anche nel contatto con i servizi, siano essi pubblici o privati, e con gli operatori e le operatrici.

Incontrare le persone LGB: l’accettazione per entrare in relazione

Peculiarità del testo Incontrare le persone LGB è il tentativo delle autrici, a mio avviso riuscito, di trasmettere un messaggio di accettazione della specificità nell’uguaglianza: affrontare quello dell’omosessualità come “un tema fra gli altri”, per conferire dignità di esistenza alle persone con orientamento non eterosessuale. Infatti, nonostante siano passati quarant’anni dalla derubricazione dell’omosessualità dalle malattie mentali, esistono ancora persone e professionisti/e che considerano l’omosessualità una “condizione non desiderabile”, e tutti i temi ad essa riconducibili soffrono di categorizzazioni emarginanti. Questo libro invece offre al lettore una prospettiva positiva, mettendo in luce le possibilità di crescita, e l’uscita definitiva dagli assolutismi ciechi sostenuti dai vari tentativi di arretramento ai quali abbiamo assistito (come l’invenzione dell’ideologia gender).

Attraverso un approccio multidisciplinare (psicologico, educativo e legale) e un chiaro linguaggio adatto ad ogni lettore, il libro Incontrare le persone LGB affronta i punti cardine della consulenza alle persone e alle famiglie LGB (lesbiche, gay, bisessuali). Si spazia allora dai temi portati in consulenza, alle specificità e alle aree di intervento, dagli strumenti di lavoro ai linguaggi possibili, espliciti ed allo stesso tempo non offensivi. Dall’adolescenza, alla coppia, alla genitorialità, ecco quindi le storie, le tematiche e le vulnerabilità specifiche portate in consulenza dalle persone LGB. Vi è un capitolo dedicato agli aspetti legali rilevanti della consulenza psico-socio-sanitaria, con riferimenti chiari ai cambiamenti apportati dalla legge sulle unioni civili e alla genitorialità.

Incontrare le persone LGB: rispetto e attenzione fin dalla scuola

Molto interessante il capitolo che riguarda gli interventi in ambito educativo, indispensabile per affrontare il tema dell’orientamento sessuale a scuola: a partire dall’asilo nido, vengono presentati suggerimenti per l’accoglienza e l’inserimento scolastico, con particolare rilievo dato al ruolo dell’insegnante. Incontrare le persone LGB è un libro chiaro ed aggiornato che ogni professionista potrebbe leggere per ottenere utili spunti di riflessione e suggerimenti, al fine di assistere adeguatamente la propria utenza, con rispetto e con la giusta competenza, partendo dal presupposto, precedente e indipendente dalla comunicazione dell’orientamento sessuale del paziente, di dover assumere un linguaggio neutro e domande inclusive rispetto ai generi di riferimento. La sfida è quella di

accogliere la complessità del linguaggio accanto alla possibilità di doversi sempre interrogare sui cambiamenti

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO LIBRO:

Incontrare le persone LGB (2018) di Ciriello, Cavina e Cavina Gambin: una guida alla consulenza educativa, psicologica e legale – Recensione del libro

Incontrare le persone LGB (2018): recensione ed intervista alle autrici del libro sulla consulenza clinica per persone lesbiche, gay, bisessuali

Guarire i traumi dell’età evolutiva (2018) di Laurence Heller e Aline LaPierre: elaborare il passato col modello NARM – Recensione del libro

Bisogni emotivi e biologici fondamentali, frustrazione e traumi, stili di sopravvivenza adattivi e conseguenze disfunzionali: questi i temi trattati dal libro Guarire i traumi dell’età evolutiva scritto da Aline LaPierre e Laurence Heller.

 

Gli autori utilizzano la cornice teorica del “Modello NARM” (Modello Relazionale Neuroaffettivo) per elaborare il passato alla luce delle difficoltà attuali, comprendere i circoli viziosi in cui si è intrappolati, e superare il disagio emotivo attraverso i canali dell’attaccamento, della mindfulness e dell’esperienza somatica, mettendo in pratica i concetti fondamentali della regolazione del sistema nervoso.

È soprattutto quest’ultimo elemento a essere messo in risalto: il bisogno di entrare in contatto con sé stessi, con il proprio corpo e di sviluppare fiducia e sicurezza interiori.

Modello NARM: i 5 bisogni fondamentali

Il modello NARM ci parla di 5 bisogni fondamentali a base biologica: connessione, sintonizzazione, fiducia, autonomia e amore-sessualità. La frustrazione di uno o più bisogni compromette l’autoregolazione, il senso di sé e lo sviluppo di una sana autostima. Tali frustrazioni possono essere legate a svariate situazioni di vita e ambientali e spesso coinvolgono il rapporto genitori-figli, da cui si sviluppa lo stile di attaccamento predominante.

In base a quanto tali bisogni risultano soddisfatti nelle fasi precoci di vita, l’essere umano sviluppa capacità essenziali per il benessere, che possono tuttavia rivelarsi dei puri “stili di sopravvivenza”, ovvero modalità adattive per un certo periodo di vita ma controproducenti nel lungo periodo a causa della loro rigidità e cristallizzazione.

Il Modello NARM lavora su tali disregolazioni del sistema nervoso, sulle interruzioni nel processo di attaccamento e sulle distorsioni dell’identità. Una forma di psicoterapia somatica da integrare alla classica psicoterapia esplorativa sul passato e di stampo cognitivista. Una psicoterapia incentrata sul sostenere la capacità dell’individuo di aumentare la connessione e la vitalità. Non ignora il passato, ma si concentra sul mettere in risalto i punti di forza, le capacità, le risorse e la resilienza. Esplora la storia personale per capire fino a che punto gli stili di sopravvivenza appresi in fasi precoci della vita interferiscono con la capacità di sentirsi vitali e connessi al momento presente.

Modello NARM: la terapia

Il processo NARM aggiunge due nuovi elementi alla pratica tradizionale della consapevolezza, o mindfulness,: la consapevolezza somatica e la consapevolezza dei principi organizzativi dei propri stili di sopravvivenza adattivi. Il trauma impedisce di essere presenti nel proprio corpo. Esso disconnette dal corpo trasformando le persone in individui troppo cognitivi o particolarmente insensibili. La consapevolezza somatica sostiene progressivamente la nuova regolazione del sistema nervoso attraverso l’uso di alcune tecniche di esperienza somatica, quali radicamento, orientamento, titolazione, pendolazione, finalizzate ad affrontare gli stati di alta attivazione e shock.

Il fine è quello di far riemergere rabbia e dolori inesprimibili senza farsi travolgere da essi, rievocando esperienze positive, fornendo feedback compassionevoli sul modo di sentirsi e agire, sostenendo modalità più funzionali di espressione emotiva, nonché la vitalità, l’espansione e la regolazione del sistema nervoso. I ricordi positivi di qualcuno che è stato in grado di offrire accoglienza, calore e rassicurazione o il focalizzarsi sulla relazione terapeutica caratterizzata da empatia e accettazione, promuove l’autoconsolazione e si concentra sulle capacità residue e sui punti di forza del paziente, piuttosto che rimarcarne difficoltà e mancanze. Il modello NARM si prefigge infatti lo scopo ultimo di superare i problemi di vita attuali, dando la possibilità di conoscersi e accettarsi al di dà dei traumi passati, e sviluppare un’immagine di sé degna, autonoma e fiduciosa.

Prime linee guida per la valutazione e il trattamento della depressione associata alla perimenopausa

Sono state pubblicate sul Journal of Women’s Health le prime linee guida per la valutazione e il trattamento della depressione nel periodo di transizione verso la menopausa.

 

Durante la perimenopausa, il periodo che precede la vera e propria menopausa, gli ormoni subiscono un naturale calo, ciò porta alla manifestazione di diversi sintomi quali irregolarità del ciclo, vampate di calore, aumento del peso e disturbi del sonno.

È ormai risaputo da diversi anni che le donne hanno un rischio maggiore di sviluppare depressione durante il postpartum a causa del cambiamento ormonale, tuttavia poco si sa sul rischio depressivo associato al periodo di transazione verso la menopausa. Finora, anche dal punto di vista clinico, le raccomandazioni circa la diagnosi e la terapia di questo tipo di depressione sono state alquanto carenti.

L’importanza di avere delle linee guida per il trattamento della depressione nel periodo che porta alla menopausa

Un team di esperti convocato dalla North American Menopause Society e dal Network on Depression Centers Women and Mood Disorders Task Group e approvato dalla International Menopause Society ha redatto le prime linee guida per la valutazione e il trattamento della depressione durante la perimenopausa.

Pauline Maki, professoressa di psicologia e psichiatria all’Università dell’Illinois, ha affermato:

Le linee guide sono necessarie perché la depressione durante questo particolare periodo è difficile da identificare, la perimenopausa infatti può facilitare l’insorgenza di nuovi sintomi depressivi in molte donne.

La letteratura scientifica sull’argomento spiega l’associazione tra i sintomi della perimenopausa e il disturbo depressivo: sintomi quali vampate di calore e disturbi del sonno iniziano in questo momento e possono coesistere e sovrapporsi ai sintomi della depressione. In particolar modo quando le vampate di calore avvengono durante la notte, la così detta “sudorazione notturna”, il sonno può essere interrotto; i persistenti disturbi del sonno causati da questo sintomo possono contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi depressivi.

In aggiunta c’è da considerare che spesso le donne a questa età hanno molte responsabilità e affrontano diversi fattori di stress: si prendono cura dei figli, della casa, dei genitori anziani o di richieste di lavoro sempre più crescenti. Tutti questi fattori stressanti, il basso livello di sostegno sociale e i problemi fisici possono essere strettamente correlati all’insorgenza della depressione in questo periodo.

Tuttavia il processo diagnostico è particolarmente ostico perché le cause scatenanti la depressione possono essere difficili da identificare, inoltre molte volte i sintomi esperiti non soddisfano i criteri per una diagnosi piena di depressione. Anche i sintomi depressivi lievi però possono abbassare la qualità di vita, ciò che appare veramente importante quindi è un’analisi dettagliata dei sintomi per giungere ad una diagnosi e identificare la miglior cura possibile.

Le conclusioni a cui sono giunti gli esperti per la stesura delle linee guida permettono di affermare che:

  • la perimenopausa è un periodo di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi depressivi lievi con la possibilità di comparsa di un disturbo depressivo maggiore
  • il rischio di sviluppare sintomi depressivi è elevato anche nelle donne senza precedenti episodi
  • diversi sintomi della perimenopausa si sovrappongono alla presenza della depressione complicandone l’individuazione
  • i fattori stressanti della vita possono influenzare negativamente l’umore, aumentando il rischio di depressione in questo particolare periodo
  • i trattamenti terapeutici per la depressione (terapia farmacologia antidepressiva e interventi di psicoterapia) dovrebbero rimanere i gold standard in casi di depressione associata a perimenopausa

Ragione e Sentimento… Seconda e terza giornata al XIX congresso SITCC

Si è chiuso oggi domenica 23 settembre il XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). In quest’ultima comunicazione da Verona, città del congresso, scriveremo però anche della giornata di ieri. Tra i maggiori eventi di queste due giornate ci sono stati gli ospiti stranieri: Julian Thayer sabato 22, professore al dipartimento di neuroscienze dell’università dell’Ohio e Luiz Pessoa professore e direttore del Maryland Neuroimaging Center domenica 23. Entrambi hanno parlato degli aspetti più viscerali, esperienziali, emotivi e affettivi dell’attività neurologica.

Julian Thayer si è concentrato sul funzionamento adattivo e flessibile non solo cognitivo ma anche corporeo nel senso più vero e viscerale del termine ovvero dell’attività cardiovascolare e della funzione del nervo vago, misurate per mezzo della variabilità della frequenza cardiaca, per Thayer vero e proprio segnalatore delle prestazioni cognitive, delle sequenze affettive e delle variabili comportamentali. Invece Luiz Pessoa ha illustrato, mediante metodi di risonanza magnetica comportamentale e funzionale, lo studio delle interazioni tra i sistemi cognitivi ed emotivi del cervello e tra cognizione e motivazione tentando al tempo stesso di approfondire e di superare queste classificazioni, sempre a rischio di rigida dicotomizzazione.

Questo tentativo di superamento di dicotomie tra emozione e ragione è stato un po’ la cifra dell’intero congresso, che ha visto stimolanti incontri scientifici un tempo non facilmente pensabili. Intrigante, ad esempio, assistere a un simposio significativamente intitolato “La matrice relazionale del cognitivismo italiano” e patrocinato da Francesco Mancini come chair mentre Benedetto Farina agiva da discussant. Titolo quanto mai azzeccato per caratterizzare culturalmente e scientificamente il progetto di un intero movimento, autobiografia di una casa comune quale indubbiamente è la SITCC. Gli autori del simposio hanno correttamente intuito che il movimento cognitivo comportamentale internazionale sta vivendo una fase di crisi e poi hanno legittimamente proposto che l’uscita dalla crisi possa essere l’adozione del modello cognitivo evoluzionista di Liotti, sia pure con l’aggiunta di alcuni opportuni correttivi processuali che lo rendano più internazionalmente commestibile e compatibile con la svolta processualista promossa da Steven Hayes e Stefan Hofmann nel loro “Process based CBT” di quest’anno. Correttivi che consistono nel modello metacognitivo interpersonale di Semerari.

LA MATRICE RELAZIONALE DEL COGNITIVISMO ITALIANO TRA STORIA E FUTURO DELLA PSICOTERAPIA - SITCC 2018

Analoghe conclusioni sono state tratte dal simposio sui “Fattori di cambiamento nelle terapie cognitive”, presieduto dalla presidente della SITCC Rita Ardito (peraltro confermata nella sua carica: complimenti!) e ravvivato dalla partecipazione di Francesco Mancini, Antonio Semerari, Fabio Monticelli e Giancarlo Dimaggio mentre Andrea Bassanini fungeva da discussant. Si tratta di un progetto ambizioso e audace al quale si devono fare i migliori auguri di riuscire a conquistare il proprio spazio vitale e il proprio posto al sole. Un modello che potrebbe chiamarsi relazionale procedurale, come proposto da un triumvirato di colleghe e colleghi: Antonio Onofri, Cecilia La Rosa e Giancarlo Dimaggio.

FATTORI DI CAMBIAMENTO NELLE TERAPIE COGNITIVE TEORIA E CASI CLINICI - SITCC 2018

Più defilati rispetto a questa grandiosa convergenza se ne stanno i vecchi post-razionalisti, sempre inguaribilmente affezionati alle care organizzazioni di personalità, sia pure protetti dall’egida della scienza cognitiva imbracciata da Bruno Bara.

E in posizione differente ci sono quelli che potremmo chiamare i processualisti estremi (ma il termine non è nostro: lo abbiamo rubato), capitanati da Sandra Sassaroli e il suo gruppo tra i quali milita anche chi scrive qui e qui si scusa per il conflitto di interesse di essere pittore e dipinto, a scapito dell’affidabilità del quadro che si tenta di rappresentare. Processualisti estremi a volte tacciati di essere paleoconservatori, arcaici cultori della vecchia e screditata CBT, rimprovero invero contradittorio (come poter essere passatisti e futuristi?) ma non privo di una sua sbilenca verità.

Questi processualisti estremi poi, forse sentendosi un po’ soli, hanno invitato alcuni guastatori esterni provenienti dalle arcaiche caverne della modificazione comportamentale, come il prof. Ezio Sanavio, o transfughi della psicoanalisi e approdati nei porti ben accettanti del modello dialettico-comportamentale come il prof. Cesare Maffei, o battitori liberi e inclassificabili ma sempre un po’ improfumati di psicoanalisi come il prof. Nino Dazzi, o infine ambasciatori esotici del modello dell’acceptance and committment therapy come alcuni allievi del prof. Paolo Moderato (purtroppo assente, ma giustificato). Per non parlare dell’orientalismo dei seguaci della mindfulness e degli algidi e anaffettivi seguaci della metacognizione alla Adrian Wells. Un bel mazzo di desperados oscillanti tra conservatorismo neobeckiano e futurismo iperprocessualista, non senza qualche nostalgia per il costruttivismo a ulteriore arricchimento di un quadro già complesso.

Per ora finisce qui e proseguiremo a Bologna nel 2020, sede della prossima edizione del romanzo della SITCC.

 


DAL CONGRESSO SITCC 2018:

Tra convergenze e differenze: la prima giornata del XIX congresso SITCC a Verona

 

Giornata inaugurale del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC): in memoria di Gianni Liotti – SITCC 2018, Report dall’evento

 

 

Silvia Marchesan: la ricercatrice eletta da Nature tra le più promettenti sarà a Trieste Next 2018

Silvia Marchesan dirige il Superstructures Lab all’Università di Trieste. Il riconoscimento della prestigiosa rivista Nature, arriva in un ambito, quello scientifico, in cui le donne in Italia faticano ancora troppo ad emergere.

 

Silvia Marchesan, professoressa dell’Università di Trieste, dove dirige il Superstructures Lab, è stata inserita fra gli 11 i ricercatori emergenti che secondo Nature stanno “lasciando il segno”. Per la prestigiosa rivista scientifica questi ricercatori hanno letteralmente il mondo ai loro piedi.

Il riconoscimento è arrivato anche a un altro italiano: Giorgio Vacchiano, dell’Università Statale di Milano. Insieme a Silvia Marchesan, come la rivista Nature ha sottolineato, sono ricercatori che stanno lasciando il segno. Che sia un segno che va oltre la scienza? Un segno che motiva i tanti ricercatori, in tutti i campi, ad andare avanti anche in contesti, quale quello italiano, in cui alla ricerca non è dato il giusto peso? E che quello della Marchesan in particolare sia un segno rivolto alle ricercatrici donne, che ancora spesso faticano a essere viste nel ruolo di scienziato? Quello di Nature è senza dubbio un riconoscimento che, oltre a promuovere un senso di orgoglio verso gli scienziati nostri connazionali, ci dovrebbe far riflettere.

La notizia del riconoscimento alla Marchesan accende anche i riflettori su Trieste, riconfermandola centro di eccellenza nella ricerca biotecnologica a livello mondiale in attesa del 2020, anno in cui sarà Capitale Europea della Scienza.

Il Trieste Next 2018, che quest’anno ha titolo NatureTech: il sottile confine fra biologico e biotecnologico si svolge dal 28 al 30 ottobre prossimi e vedrà l’intervento della stessa Marchesan, che illustrerà le ricerche che l’hanno portata alla creazione di uno speciale idrogel biocompatibile (quindi ben tollerato dai tessuti dell’organismo) e con proprietà antimicrobiche.

Le sue molecole sfruttano il principio della chiralità. Cos’è la chiralità? Una molecola che possiede questa proprietà non può essere sovrapposta alla sua immagine speculare, come un guanto della mano destra non può essere indossato dalla sinistra. Questa proprietà ha degli effetti sull’attività biologica delle molecole, che Silvia Marchesan ha saputo sfruttare in questo materiale innovativo: il suo idrogel può trasportare farmaci in alcune zone dell’organismo individuate come obiettivi e fungere da sostegno ai tessuti organici in via di guarigione dopo una lesione.

L’articolo sull’idrogel e le sue potenzialità è stato pubblicato dalla rivista Chem, del gruppo Nature, lo scorso agosto: ha riscosso immediatamente molto interesse nella comunità scientifica, tanto da valere il riconoscimento alla Marchesan.

Dal canto nostro, oltre a congratularci con Silvia Marchesan e Giorgio Vacchiano, come non poterci augurare che in un futuro sempre più prossimo, non sia più così raro veder riconosciuto e valorizzato il lavoro dei nostri ricercatori e delle nostre ricercatrici?

 

Il programma di Trieste Next 2018 è consultabile al sito: www.triestenext.it

Nuovo Teatro Orione: in scena una diversa interpretazione del teatro contemporaneo…e della Psicologia, con il progetto Corti da Legare

Teatro Orione Logo

 

Il Nuovo Teatro Orione porta in scena, per la nuova stagione artistica, una diversa interpretazione del teatro contemporaneo.

Comunicato Stampa

 

Una moltitudine di progetti nuovi, eclettici, giovani, inediti che portano l’arte teatrale a rinnovarsi continuamente.

“Diversa interpretazione”, questo il claim della stagione 2018-2019 del Nuovo Teatro Orione, un’affermazione forte che non intende di certo nascondere la voglia di trasmettere una totale eterogeneità artistica.

La prosa, la commedia, la fotografia, la musica, l’intrattenimento per i più piccoli e l’informazione scientifica animano una disparata programmazione che la direzione artistica presenterà al pubblico e alla stampa il 26 settembre 2018 alle ore 12.00.

Dopo essersi confermato lo scorso anno come “Nuovo davvero!”, il Teatro di via Tortona a Roma, punta quest’anno a spiccare il volo e ad affermarsi come realtà poliedrica che intende fare e diffondere arte nella sua totalità e con una propria interpretazione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Nuovo Teatro Orione nella nuova stagione la Psicologia incontra il Teatro

 

Corti da legare: l’incontro tra teatro e psicologia

Il progetto Corti da legare prende vita dal felice incontro di due mondi: il teatro e la psicologia.

Giovani professionisti di entrambi i settori hanno unito competenze e passioni allo scopo di tradurre nell’idioma del dramma le conoscenze che la scienza psicologica ha acquisito negli ambiti di alcuni disturbi mentali. Ne nasce una serie di corti teatrali di natura al contempo narrativa e didattica, al termine dei quali è previsto un approfondimento, con l’ausilio di esperti del settore, sul disturbo di volta in volta messo in scena.

L’obiettivo del progetto è gettar luce sul pregiudizio relativo al disturbo mentale; mettere a nudo l’infondatezza di credenze diffuse su disturbi quali l’autismo, l’alcolismo, la dipendenza sessuale; turbare l’abitudine di rimettersi a etichette diagnostiche di cui sappiamo poco e niente.

Dopo il successo ottenuto dalla rassegna nella passata stagione, quest’anno si affronteranno nuovi disturbi e patologie:

Inoltre, verranno messi in scena tre matinée appositamente pensati per le scuole, nel tentativo di avvicinare i ragazzi a tematiche tanto delicate quante drammaticamente vicine al loro immaginario:

 

Info e prenotazioni:

Nuovo Teatro Orione
Via Tortona, 7 – 00183 Roma – 06 77 206 960 – www.teatroorione.it[email protected]

Curare i bambini abusati (2018) a cura di Marinella Malacrea – Recensione del libro

Marinella Malacrea, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, fa il punto su quello che sappiamo e sappiamo fare per trattare i bambini abusati. Nel libro Curare i bambini abusati che ha curato per Cortina, raccoglie anche casi clinici trattati da colleghi di diversi orientamenti teorici.

 

Nel 1993 nasce in Italia il CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia): un primo, storico passo secondo M. Malacrea, che si occupa di bambini maltrattati e abusati fin dagli anni ‘80. Questo libro ripercorre le scoperte teoriche e cliniche della comunità scientifica e offre numerosi spunti di riflessione e confronto per i colleghi specializzati nel trattamento di questi pazienti o per tutti coloro che vogliono approfondire le conseguenze ed il trattamento dei traumi legati all’abuso in infanzia nella pratica clinica.

Curare i bambini abusati: dai primi studi alle scoperte più recenti

La prima parte del libro Curare i bambini abusati, di M. Malacrea, offre una ricchissima rassegna della letteratura scientifica sulla terapia per bambini e adulti che hanno subito abusi nell’infanzia.

Una tappa fondamentale è la prima pubblicazione, nel 1998, del lavoro di Felitti e Anda che, coinvolgendo oltre 17.000 pazienti, ha portato alla creazione dell’ACE (Adverse Childhood Experience).

Da allora è cresciuta l’attenzione alla patologia post-traumatica degli adulti vittime nell’infanzia, sostenuta dal crescente bagaglio di conoscenze sulla neurobiologia del trauma (neuroimaging, mediatori chimici).

Attualmente il trattamento più efficace per gli adulti che hanno subito traumi nell’infanzia sembra essere la terapia cognitivo-comportamentale e l’EMDR. Altre tecniche utili al trattamento del trauma sono la terapia sensomotoria, le tecniche di mentalizzazione (Mentalizing-Based-Treatment, MBT) ed il neurofeedback.

Curare i bambini abusati: trattare il PTSD complesso

L’ISTSS (International Society for Traumatic Stress Studies) si è occupata della definizione di trauma PTSD complesso: include i sintomi del PTSD classico (intrusione di ricordi traumatici, evitamento/obnubilamento e iperarousal) insieme a una gamma di disturbi nella capacità di autoregolazione. Nel 2012 l’ISTSS ha prodotto le linee guida per il trattamento in terapia individuale degli adulti; consta di 3 fasi principali:

  1. Stabilizzazione e rinforzamento delle competenze, per mettere il paziente in sicurezza
  2. Rivisitazione dei ricordi traumatici
  3. Consolidamento delle competenze emotive, sociali e relazionali

Per quanto riguarda i bambini, la rassegna composta dalla Malacrea conferma l’utilità delle psicoterapie centrate sul trauma che includono i genitori nel trattamento (ove possibile) e che si prefiggono di promuovere resilienza oltre al miglioramento dei sintomi.

L’autrice dedica un focus specifico agli studi che si sono dedicati alla terapia per bambini con abuso sessuale, citando il lavoro di meta-analisi del 2015 di Benuto e O’Donohue, da cui estrae delle conclusioni generalizzabili: tra queste che la CBT pare superiore ad altri modelli teorici nel garantire una migliore risoluzione di problemi comportamentali, di autostima, di sintomi da PTSD ed il migliore impatto sul caregiver. Nel concludere la parte teorica, l’autrice auspica che le recenti e nuove scoperte sul trattamento del trauma non perdano di vista la specificità richiesta nel trattamento dell’abuso sessuale.

Curare i bambini abusati: i casi clinici

Dopo la parte iniziale, i successivi 13 capitoli, scritti da altrettanti terapeuti, raccontano 13 casi clinici illustrandone il metodo diagnostico e terapeutico adottato. In apertura di ogni caso viene esplicitato l’approccio terapeutico che caratterizza il lavoro del terapeuta/equipe/centro in cui è stato trattato il minore e questo facilita il lettore nella comprensione delle scelte e della logica che ha guidato la terapia. Questa parte può diventare per ogni collega un’occasione stimolante e molto utile di confronto e riflessione sul proprio operato, dal momento che sono illustrate anche le tecniche, gli strumenti e gli approcci (dallo psicodramma alla mindfulness) che sono stati usati nelle diverse fasi del percorso.

Più nello specifico:

  • i primi 6 capitoli parlano di piccoli pazienti che hanno subìto questi traumi in ambito famigliare e delle gravi ripercussioni per i loro processi di attaccamento
  • i pazienti dei successivi 5 capitoli sono stati abusati da persone esterne al nucleo famigliare, ad esempio all’asilo o a scuola
  • il penultimo capitolo riporta i percorsi di 2 bambini adottati: a ben vedere, il fatto che per molto tempo, se non anche adesso, non si guardasse ai bambini in adozione come, di default, a bambini traumatizzati, ha dell’assurdo
  • l’ultimo capitolo tratta la terapia di adolescenti che, anche se trattati da bambini, tornano in terapia per affrontare ciò che non lo era anni prima.

I casi descritti includono le difficoltà incontrate: ad esempio nel doversi interfacciare con gli organi istituzionali, come i Tribunali, oppure nella gestione e coordinazione di diversi attori e professionisti in interventi, come questi, di elevatissimo grado di complessità e delicatezza. Vengono analizzati gli errori commessi e viene fatta una riflessione rispetto ai risultati raggiunti finora se la terapia è ancora in corso.

Colpisce molto e fa riflettere, nel leggere i casi clinici, la gestione della forte risonanza emotiva che i terapeuti si sono trovati a gestire: un aspetto fondamentale nel trattamento di ogni paziente, che ha a che fare anche con l’ascolto empatico e l’accettazione di quanto accaduto.

In alcuni casi è il paziente che tende a difendersi […]Ma in altri casi il paziente non c’entra. C’entra piuttosto la tendenza difensiva del terapeuta, che ha fretta di allentare l’attenzione nei confronti della sofferenza traumatica vissuta dal bambino. È il terapeuta che vuole allontanare da sé il calice amaro della messa a fuoco di qualche aspetto impensabile, mentalmente insopportabile, della particolare vittimizzazione subita dal paziente.

ADHD e instabilità emotiva: cosa ci dice il nostro cervello a riguardo?

Sia in pazienti con ADHD che in soggetti che mostrano tratti di instabilità emotiva, sembrerebbero essere presenti alterazioni a livello cerebrale molto simili. Tutto ciò porta ad interrogarsi sulla possibilità che esista una correlazione tra queste due condizioni, o almeno è quello che hanno cercato di scoprire alcuni ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia in uno studio poi pubblicato su Molecular Psychiatry

 

L’attenzione clinica ha dimostrato che le persone con ADHD presentano diverse difficoltà nella gestione delle risposte emotive, ad esempio reagiscono con risposte caotiche, ansia e depressione. Non è stata tuttavia ancora rilevata in modo chiaro quale relazione esista tra ADHD e deficit di regolazione emotiva, sebbene siano state proposte teorie dove entrambe le condizioni siano radicate in una disfunzione nel modo in cui il cervello controlla l’elaborazione delle informazioni.

In questa direzione si è orientato anche lo studio condotto presso il Karolinska Institutet, che sembrerebbe confermare l’ipotesi secondo la quale sia l’ADHD sia forme di instabilità emotiva presente nei disturbi del comportamento infantile possano essere associati ad alterazioni simili o persino sovrapponibili a livello cerebrale.

Lo studio, che ha coinvolto più di 1.000 adolescenti, ha studiato le immagini strutturali del cervello di questi pazienti riscontrando come sia in soggetti con ADHD sia in soggetti con disturbi del comportamento caratterizzati da instabilità emotiva fosse presente un volume cerebrale ridotto in aree del cervello che generalmente coincidevano.

In conclusione, obiettivo dello studio è stato quello di fornire una migliore comprensione di come si sviluppano il cervello e il comportamento.

La speranza è che ciò porti non solo a diagnosi migliori ma anche a trattamenti migliori, in cui le persone con una diagnosi di ADHD possano ricevere una terapia adeguata in grado di consentirgli una gestione più efficace delle proprie emozioni.

Tra convergenze e differenze: la prima giornata del XIX congresso SITCC a Verona

La prima giornata del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) è stata un’occasione per confrontare i diversi orientamenti di vari esponenti della nostra società. Ho potuto ascoltare colleghi interessati alla mindfulness (Bassanini, D’Angerio, Donatella Fiore e Minniti), al modello metacognitivo interpersonale (Semerari, Carcione, Dimaggio e Nicolò), al modello post-razionalista (Mario Reda, Dodet, De Riso, Frassi, Fiori, Goretti, Mangini e Merigliano) e a quello cognitivo evoluzionista (Farina, Fassone, Ivaldi, Ruberti e Brasini).

 

Come ha notato Saverio Ruberti, in questo congresso l’esposizione delle proprie opinioni e dei propri modelli è accompagnata da una minore, o anzi assente, tensione personale rispetto a quanto accadeva un tempo. Questo è vero ed è un segnale, oltre che di un benedetto ingentilirsi dei costumi, anche forse di una crescente convergenza dei due modelli probabilmente più popolari della SITCC, quello metacognitivo interpersonale e quello cognitivo evoluzionista, sulla variabile chiave della relazione terapeutica, pur tra le inevitabili differenze.

Il modello metacognitivo interpersonale conserva un interesse per il funzionamento mentale non interpersonale e per un lavoro di analisi consapevole mentre quello cognitivo evoluzionista sembra accentuare sempre più il proprio interesse per la relazione, declinandola sempre più come esperienza emotiva intensa. Questo aspetto è apparso particolarmente evidente nel simposio in cui Nicolò, Mario Reda, Cecilia la Rosa e io stesso ci siamo cimentati in una seduta simulata di accoglimento di una paziente grave e suicidaria, recitata da Elena Prunetti, organizzatrice del congresso. Gli interventi di la Rosa e Reda hanno puntato molto sul coinvolgimento emotivo, mentre Giuseppe Nicolò ha lavorato sulla definizione degli stati mentali. A mia volta nella mia prova simulata ho tentato di lavorare sulla formulazione condivisa del caso e quindi sull’accertamento condiviso del funzionamento come fondamento e contratto del trattamento. In questo senso la relazione, nel nostro orientamento, diventa accertamento formalizzato delle barriere al trattamento e anch’essa diventa una formulazione condivisa e non un’esperienza emotiva che agisce correttivamente, come forse sembrano invece concepirla i cognitivo evoluzionisti e, in misura minore, i metacognitivo interpersonalisti.

SITCC 2018 Simposio TERAPEUTI E MODELLI TEORICI DIFFERENTI IN AZIONE

Queste differenze e convergenze si sono confermate anche negli altri simposi. I post-razionalisti che usano le organizzazioni di personalità per formulare il caso, sia in una maniera condivisa che potrebbe avvicinarli a noi che per relazionarsi col paziente in modalità che li avvicinano ai cognitivo evoluzionisti; questi ultimi che accentuano sempre più la componente teorica darwiniana e un interesse crescente per l’emotività e affettività; i metacognitivo interpersonalisti nella loro consueta posizione intermedia ma, a mio parere, sempre più o meno comunque sbilanciati verso il polo evoluzionista, visto il ruolo significativo che presso di loro gioca la componente relazionale. E la nostra posizione processualista fin dai tempi in cui Sandra Sassaroli iniziò a studiare il rimuginio invitando in Italia Tom Borkovec, sia pure senza dimenticare il vecchio interesse per la storia di vita, e la sfida è oggi riuscire a declinare questo aspetto evolutivo (e non evoluzionista) in termini processuali. È interessante poi come questo processualismo porti a riscoprire certi tesori metodologici del comportamentismo, storicamente incarnati nella SITCC da Stefania Borgo e Lucio Sibilia.

La psicoterapia Cognitiva nel servizio pubblico

Accanto a queste presentazioni è stato poi interessante seguire le analisi sulla diffusione e l’applicabilità della psicoterapia cognitiva nel servizio pubblico e privato della professoressa Mirella Ruggeri in plenaria e del simposio di Gabriele Caselli, Bravi, Paolo Michielin, Alessia Offredi, Daniela Rebecchi, e Michele Simeone. Il nocciolo di questa esperienza è sempre la dialettica tra bisogno di formalizzare gli interventi in procedure controllabili e replicabili e rischi di forzature artificiali, insomma la dialettica tra evidenze based practice e practice based evidence.

SITCC 2018 - Simposio VALUTAZIONE DEGLI ESITI NELLA PRATICA CLINICA

Giornata inaugurale del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC): in memoria di Gianni Liotti – SITCC 2018, Report dall’evento

Elena Prunetti, organizzatrice insieme a Francesco Mancini del XIX congresso nazionale della Società di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), ha aperto l’evento con la commossa e doverosa commemorazione di Gianni Liotti, mancato purtroppo quest’anno.

 

Una sessione inaugurale a suo modo attiva e propositiva e non funebre, aperta da Roberto Lorenzini co-autore dell’ultima opera di Gianni Liotti, un articolo sul narcisismo apparso su Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, la rivista ufficiale della SITCC, in cui i due autori hanno interpretato il narcisismo in termini evoluzionistici. E in questi termini ne ha parlato Lorenzini, raccontandoci anche come questo loro lavoro sia nato insieme al fiorire di un’amicizia più intima tra i due autori che per decenni era rimasta allo stato potenziale, un seme che non attecchiva e che infine è sbocciato.

Nella stessa linea anche gli interventi di Farina e Lambruschi, allievi affezionati di Liotti i quali, però, a evitare un rischio di eccesso di miele, hanno parlato anche di qualche contrasto sia caratteriale che scientifico. E tuttavia era chiara la linea della continuità tra il loro lavoro e quello del loro mentore.

Forse più scientificamente intensi gli ultimi due interventi, quelli di Antonio Semerari e Francesco Mancini, sia pure nei limiti di un momento giustamente commemorativo e non adatto a elucubrazioni troppo sottili. E tuttavia si è trattato di un momento anche scientificamente interessante. È da anni in atto una convergenza tra il modello della terapia metacognitivo interpersonale (TMI) di Semerari e quello cognitivo evoluzionista di Liotti e i sui allievi.

Tuttavia sul tema del narcisismo, cavallo di battaglia della TMI, Semerari ha voluto marcare un confine rispetto a Liotti, esponendo la sua posizione clinicamente più salda e meno propensa ai voli teorici dell’evoluzionismo psicologico. Analoga la posizione di Mancini, la cui collaborazione con il cognitivismo evoluzionista appare del resto meno convinta e più strumentale rispetto a Semerari. Continueremeo a seguire le svolte di questa convergenza, convergenza che potrebbe essere la griglia d’interpretazione dell’attività scientifica di questo congresso.

Queste puntualizzazioni cliniche di Semerari e Mancini sono state smagliature limitate nel tessuto di un pomeriggio che ha mantenuto un tono di rispettoso ricordo dell’opera di Liotti, ricordo che ha poi assunto toni commossi nella parte finale con la laudatio di Bruno Bara e poi l’invito sul palco della figlia di Liotti, venuta a ritirare un premio forse tardivo al padre.

SITCC 2018 la giornata inaugurale in ricordo di Gianni Liotti - Report IMM1Imm.1 – SITCC 2018: La figlia di Gianni Liotti ritira il premio al padre

 

Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare (2018): i DCA attraverso gli occhi di chi ne ha sofferto – Recensione del libro

In Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare, l’autrice Sandra Zodiaco racconta la sua esperienza e convivenza con il disturbo alimentare. Dal sentirsi in trappola, allo stare in bilico, al sentirsi in equilibrio con sé stessi e il mondo: sono queste le tappe principali che scandiscono il suo vissuto emotivo e che rappresentano le tre fasi in cui è suddiviso il testo.

 

Non è una narrazione di fatti ed episodi puramente descrittivi, non è un racconto in cui troverete personaggi che interpretano ruoli e maschere da decifrare.

È un libro di emozioni, di impressioni, è una storia scritta da dentro, che parla di sensazioni, di convivenza con la malattia, di un disagio a cui all’inizio non si sa dare nome e che ingloba tutto, facendo il vuoto intorno.

Oltre: il disturbo alimentare raccontato da dentro

Sandra ha scelto di spalancare le porte della sua interiorità, di ciò che ha provato, sentito e pensato per tutto il tempo in cui ha convissuto e lottato con(tro) il disturbo alimentare. Lo ha fatto nella maniera più diretta e vera possibile, con parole crude, mirate, precise, che vibrano forte. Lo ha fatto volendo spingersi Oltre la malattia, verso la Vita, verso la rinascita, verso la scoperta dei suoi veri bisogni e necessità.

Parole che per tanto tempo sono rimaste dentro di lei, nella sua mente, nel suo cuore, senza essere condivise, esplorate, risolte. Perché è proprio dell’accoglienza e dell’ascolto che la sua anima aveva bisogno. E non solo, non in primis, dell’accettazione e dell’ascolto da parte degli altri quanto piuttosto del rivolgersi a se stessa. Il bisogno di prendersi cura di sé, come esplicitato nel paragrafo introduttivo del volume: “DCA: Dona-ti Cure e Amore”.

In Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare, Sandra ci porta nel lungo viaggio dalla “prigione” alla visione della luce in fondo al tunnel. Lo fa parlando dei più forti sentimenti che hanno caratterizzato questo percorso: il senso di inadeguatezza, il vuoto, la solitudine, la paura, la depressione, il senso di impotenza, i rituali ossessivi, il perfezionismo, il timore della perdita di controllo.

Oltre: accettazione e responsabilità per uscirne

Oltre. Scoprirsi fragili: confessioni sul (mio) disturbo alimentare non è un testo scientifico e non si parla di cause e di strategie risolutive. Si parla di presa di responsabilità, la responsabilità di prendere in mano la propria vita, il proprio futuro e il proprio benessere affidandosi a mani esperte e in grado di curare questa malattia. Perché di questo si tratta: il disturbo alimentare non è un capriccio, non è una scelta, non è mancanza di forza di volontà o energia.

Il libro può essere visto come supporto per i pazienti che si affacciano alla terapia, o che non sono ancora sicuri di voler intraprendere un percorso psicoterapeutico, per la possibilità di identificarsi con l’autrice e sentirsi meno soli. Può essere un valido mezzo di sostegno anche per i genitori di persone con DCA, per capire meglio il vissuto dei propri figli e stargli accanto nel miglior modo possibile. È infine un testo che può aiutare ad espandere l’informazione e la comprensione dei DCA in generale, per andare Oltre il pregiudizio e sensibilizzare la popolazione.

La pedagogia di Maria Montessori – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Mia figlia aveva tre anni. Mia moglie e io parlavamo con la maestra Renata. Una donna magra, alta, dagli occhi azzurri che ti entravano dentro, uno scrutare implacabile e gentile. Di quelle donne verso le quali sviluppi una gratitudine che non morirà mai. Diceva: “Vostra figlia è una bambina” e faceva una pausa “impegnativa”. Sorrideva, non poneva alcun accento negativo sul termine.

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per Il Corriere della Sera il 19/08/2018

 

Non puoi semplicemente dirle le cose, ci devi ragionare”. Mia figlia ora ha sedici anni e non è cambiata. Renata teneva un piccolo asilo Montessori. Nell’educazione dei miei figli è stato un pilastro. Non solo dei miei.

Maria Montessori era un genio. Una donna che, nata in un paese poco incline al metodo scientifico, fonda una pedagogia scientifica e inventa un metodo educativo che ancora oggi ha pochi eguali. Partiva da un’idea semplice, chiara:

che i bambini possano liberamente esprimersi e così rivelarci bisogni e attitudini che rimangono nascosti o repressi quando non esista un ambiente adatto a permettere la loro attività spontanea.

A questa accompagnava un corollario: realizzazione personale e progresso vengono dalla vocazione, dalla fiamma interna, quel piccolo fuoco sacro dal potere di rendere ogni individuo speciale. La stessa idea, più di un secolo dopo, guida il mio operato di psicoterapeuta: portare gli adulti sofferenti a contatto con quella scintilla interiore e farle prendere vento.

Lei sosteneva che la pedagogia dovesse rispettare la libertà del bambino. Oggi so che si riferiva ad altro, a concetti che oggi chiamiamo autonomia, autoregolazione, agency. Forgiare nel piccolo il senso di competenza, così che padroneggi il piccolo mondo che lo circonda. Era una visionaria, immaginò una pedagogia basata sulla creatività e non sulla disciplina. L’aveva sviluppata sui bambini che all’epoca chiamava “idioti”, scoprendo che poteva portarli al livello dei bambini “normali”. E allora si disse: perché non estenderla? Si industriò e, in una cultura che non favoriva una donna scienziato, ci riuscì.

Arriva l’obiezione: libertà? E che ne è del dovuto rigore necessario a temperare i naturali impulsi vandali dei bambini? Ho una testimonianza diretta: per tutti gli anni che ho accompagnato, visitato, ripreso i miei figli da Renata, non ho mai sentito urlare. L’effetto magico del metodo Montessori: un’educazione individualizzata che insegna a vivere meglio in gruppo.

Sono scienziato anche io, tendo a formulare domande logiche. Premessa, ragionamento, conclusioni. Mi chiedo: abbiamo avuto una delle più grandi pedagoghe di sempre, quindi l’educazione primaria in Italia sarà basata in prevalenza sul metodo Montessori? Mi rispondo: sì. La risposta vera è: no. La domanda che segue è: perché? Mi paralizzo.

Quando sono perplesso reagisco sempre nella stessa maniera, studio. Voglio risposte sensate. Magari questo metodo Montessori è superato, obsoleto. Mi imbatto negli studi di Angeline Lillard, Università della Virginia (è negli Stati Uniti, non in Italia), una psicologa che ha dedicato la sua ricerca al mondo dell’immaginazione. Con sanissima vocazione empirica anglosassone, per loro fortuna non hanno dovuto fare i conti con Benedetto Croce, si è chiesta: il metodo Montessori funziona? Ci ha fatto, guarda un po’, delle ricerche.

I risultati sono impressionanti. I bambini che hanno frequentato asili Montessori, purché vi si applicasse il metodo con fedeltà, acquisivano più abilità che in altre scuole. Aumentava la loro capacità di regolare gli impulsi e di risolvere problemi sociali. Sono entrambe doti che predispongono ad una vita scolastica e di relazione di successo. Non è quello che speriamo per i nostri figli? Per inciso, migliore capacità di regolare gli impulsi da bambini significa minor rischio di diventare criminali da adulti. Ancora: negli asili Montessori imparavano a leggere prima e avevano un vocabolario più ampio. Sviluppavano una migliore teoria della mente e in parallelo avevano maggiore senso di giustizia e tenevano in considerazione il punto di vista dell’altro. Un altro risultato straordinario? Avevano più fiducia nell’affrontare problemi difficili: ci provo perché credo di potercela fare. Ed erano più creativi.

Un altro risultato da pelle d’oca: notoriamente i bambini che vengono da famiglie più povere hanno risultati peggiori a scuola. Negli asili Montessori il gap si riduceva. Coerentemente con lo spirito che nel 1907 portò a fondare nel quartiere San Lorenzo a Roma la prima Casa dei bambini, è possibile fare crescere le abilità anche di chi parte svantaggiato.

Forse ho visto troppi episodi di Black Mirror – la serie TV -, a volte vivo in una realtà parallela. Mi convinco che le ricerche che ho descritto sono state effettuate in Veneto, Sicilia, Lazio. Ci sto comodo per un po’, poi mi risveglio. Erano in Connecticut.

Pubblicare l’opera di Maria Montessori? Sperando che svolgano le prossime ricerche in Italia? Perché non sognare? Io intanto mi tengo stretti i ricordi di quando parlavo con la maestra Renata dei miei figli e con la coda dell’occhio scorgevo bambini attivi, vitali, curiosi.

Il dolore negato. Affrontare il lutto per la morte di un animale domestico (2018) di Pier Luigi Gallucci – Recensione del libro

Il dolore negato è un piccolo contributo – come lo definisce l’autore – per affrontare un tema tanto diffuso quanto poco trattato. Il tema in questione è il lutto, quel lacerante percorso che tutti conosciamo, stavolta però relativo ad un ambito davvero poco trattato e forse ancora poco compreso: la perdita di un compagno speciale, il proprio animale.

 

Un lutto che non trova spazi di condivisione

Nato dall’esperienza clinica di uno psicologo, Il dolore negato, vincitore del premio Bastet 2018, scende dolcemente nei vissuti di quanti hanno subito la perdita del proprio amico animale.

Un lutto specifico, perché sebbene la sofferenza sia grande, e secondo alcuni studi simile alla perdita di una persona cara, il dolore per la perdita di un animale amato appare socialmente ignorato o poco compreso.

Chi vive il dolore per la perdita, quindi, sperimenta anche un senso di solitudine, di esclusione, di vergogna: in letteratura, un lutto delegittimato, minimizzato, banalizzato. Nessuna ritualità del distacco, nessun sostegno sociale.

Il messaggio che passa tra le righe è che si debba riuscire, in tempi brevi, a dimenticarsi del proprio animale e continuare a guardare avanti e vivere felici.

Il dolore negato: sentimenti e processi

L’autore descrive il profondo legame di attaccamento tra uomo ed animale, spesso membro a tutti gli effetti della famiglia, della quale condivide storie e situazioni. Un amore incondizionato e capace di costituire un’importante base di sostegno in molti casi (ad esempio per le persone anziane, o per chi fisicamente o psicologicamente è impossibilitato al movimento o alle relazioni).

Inevitabilmente, la perdita di un legame così importante necessita di un processo di elaborazione ampiamente sovrapponibile a quello conseguente alla morte di una persona. Stordimento, shock, sintomi fisici e psicologici (senso di colpa, tristezza, rabbia, nostalgia) sono passaggi inevitabili del percorso che conduce all’accettazione e alla riorganizzazione della propria vita senza l’animale.

Il dolore negato: validare le proprie emozioni

Tempo, spazio, condivisione. L’autore tratteggia piccoli e fondamentali suggerimenti per fronteggiare il dolore, che invertono la rotta socialmente consona: non negazione ma legittimazione, non solitudine ma condivisione. Spazio, dunque, alle emozioni. Spazio al pianto e alla tristezza, alla rabbia o alla colpa – reprimerli acuisce la sofferenza e rallenta il processo di elaborazione.

Ma anche condivisione e tempo: tempo per esprimere ciò che si prova, per chiedere comprensione, per parlarne con le persone care, per commemorare il proprio amato animale, per chiedere aiuto – se se ne avverte il bisogno.

Il dolore negato: il Ponte dell’Arcobaleno

Il libro si conclude con un racconto, che arriva tra le pagine come un dono che delicatamente l’autore porge al lettore. Non un oggetto ma un luogo: il Ponte dell’Arcobaleno, quel posto speciale dove – narra la leggenda dei nativi americani – ciascuno di noi rivedrà il proprio amico animale corrergli felice incontro.

Nel leggerlo, la sensazione provata è quella del ristoro, della speranza, di un delicato abbraccio finale a quanti sperimentano il dolore negato.

Genitori e insegnanti: fondamentali nella prevenzione della depressione infantile

In merito al problema della depressione nei bambini, The Anxiety and Depression Association of America sostiene che circa il 2-3% dei bambini di età compresa tra 6 e 12 anni potrebbe avere un disturbo depressivo maggiore

 

Questa patologia si presenta in modo differente nei bambini rispetto agli adulti; in questi ultimi, vi è una maggiore presenza di sintomi cognitivi, come eccessivi sensi di colpa e ideazione suicidaria.

Nel caso di depressione nei bambini si riscontra un fenotipo diverso, caratterizzato soprattutto da sintomi fisici e comportamentali, come irritabilità, scarso interesse per il gioco, lamentele somatiche, aggressività.

Depressione nei bambini: la ricerca

Rilevare i segnali che indicano la presenza di un disturbo depressivo maggiore non sempre è un compito facile, e in molti casi, richiede una certa preparazione e attenzione. A tal proposito, Keith Herman, professore nel MU College of Education, afferma che quando viene chiesto, a insegnanti e genitori, di valutare il grado di depressione nei bambini, di solito c’è una bassa sovrapposizione nelle loro valutazioni, pari al 5-10% dei casi. Ad esempio, come riporta Keith Herman, l’insegnante potrebbe segnalare che un bambino ha difficoltà a farsi degli amici in classe, ma il genitore potrebbe non rilevare questo problema a casa.

Keith Herman e Wendy Reinke hanno portato avanti l’analisi del profilo di 643 bambini che frequentavano la scuola elementare, allo scopo di osservare il livello di concordanza tra insegnanti, genitori e bambini, rispetto allo stato di salute mentale di questi ultimi.

I ricercatori hanno scoperto che, anche se il 30% dei bambini che partecipavano allo studio riportava di sentirsi depresso con un livello che poteva andare da lieve a grave, spesso genitori e insegnanti non riuscivano a riconoscerli come depressi.

Insegnanti e genitori erano però discretamente abili nell’identificare altri sintomi importanti, che se rilevati in tempo sono in grado di prevedere il rischio a lungo termine per la depressione nei bambini, ad esempio problemi sociali, disattenzione e deficit di abilità. A tal proposito, Herman ha scoperto che i bambini che mostravano gravi segni di depressione, avevano sei volte più probabilità di avere deficit di abilità rispetto ai loro coetanei.

In conclusione

Sulla base di questi risultati, Herman ha affermato che per quanto il parere degli insegnanti e dei genitori sullo stato mentale dei bambini sia fondamentale, è sempre importante effettuare una valutazione che coinvolga entrambe le figure, e quindi integrare le infomazioni provenienti dalle diverse fonti.

Ad esempio, nel caso in cui il bambino riportasse di non sentirsi depresso, l’identificazione di certi comportamenti da parte degli adulti, come ritiro sociale, scarso interesse per il gioco etc., assumono un ruolo fondamentale per prevenire i problemi a lungo termine che si manifestano con un disturbo depressivo maggiore.

Herman sostiene anche che, per identificare precocemente la presenza di alcuni segni/sintomi tipici della depressione nei bambini e per favorire uno stato di benessere, la presenza di professionisti della salute mentale sia di fondamentale importanza all’interno dei contesti scolastici/sportivi. Così come una corretta campagna di sensibilizzazione sull’identificazione di alcuni segni, sintomi e/o comportamenti indicativi, rivolta a genitori e insegnanti, può avere un ruolo cruciale in un lavoro di prevenzione della patologia.

In ricordo di Walter Mischel, non solo lo psicologo dell’esperimento del marshmallow

Il 12 settembre è venuto a mancare a 88 anni Walter Mischel, uno dei più citati psicologi del Novecento. Numerosi quotidiani americani hanno così ricordato il suo famoso esperimento del marshmallow.

Prof. Renato Foschi – Università La Sapienza, Roma

 

In breve negli anni Sessanta Walter Mischel dimostrò che, posti di fronte ad una scelta fra mangiare subito un marshmallow o attendere 20 minuti e ricevere un secondo marshmallow, i bambini capaci di attendere diventavano poi adulti di successo e maggiormente soddisfatti rispetto agli altri. Walter Mischel divenne così noto al grande pubblico e l’esperimento del marshmallow continuò ad essere una delle prove maggiormente riprodotte e discusse della psicologia contemporanea.

Mischel non fu però solo il rappresentante di una psicologia accademica che si limitava a condurre esperimenti in linea con una cultura democratica che desiderava un individuo saggio, previdente e coscienzioso e tendeva a celebrarne il primato rispetto ad un individuo incapace di autocontrollo.

Walter Mischel e la critica ai dogmi della psicologia contemporanea

Da un punto di vista metodologico, Walter Mischel fu invece uno psicologo radicale che mise in crisi, criticando duramente, alcuni dogmi della psicologia contemporanea. Nel 1968 pubblicò il volume Personality and Assessment in cui prendeva sistematicamente di mira l’uso dei questionari che misuravano disposizioni e fattori invarianti della personalità che seppure risultavano significativi erano in grado di spiegare proporzioni di variabilità modeste e correlavano comunque solo limitatamente con i comportamenti osservati.

A partire da queste evidenze, Walter Mischel diede la massima importanza alle situazioni in cui emergevano comportamenti che sembravano invarianti ed in realtà invece erano condizionati e moderati dall’interazione individuo-contesto. Mischel fu dunque uno dei socio-cognitivisti più critici di una psicologia oggettivista e realista che ancora oggi si riduce a generalizzare delle dimensioni interindividuali considerate come fattori latenti in grado di determinare la vita delle persone.

La sua visione invece si fondava sull’analisi e l’individuazione dei particolari contesti psicologici che favoriscono o impediscono la messa in atto di uno specifico comportamento da parte di uno specifico individuo. L’approccio di Walter Mischel era dunque sostanzialmente orientato alla ricerca di particolari pattern di comportamento in un’ottica che poneva al centro della sua attenzione l’interazione fra i fattori psicologici di un individuo e una specifica situazione. Nelle sue ricerche più recenti ad esempio i comportamenti aggressivi dei bambini erano studiati covariando comportamenti e singole situazioni sperimentali in grado di fermare o accentuare l’aggressività.

Le invarianti comportamentali in questa concezione non erano più i tratti o le disposizioni ma invece i singoli contesti di interazione individuo-situazione.

La prospettiva socio-cognitiva di Walter Mischel ha, quindi, proposto un approccio fortemente indirizzato a dare rilievo scientifico alle caratteristiche psicologiche, soprattutto socio-cognitive, che costruiscono l’individualità.

In tal senso, nella concezione di Mischel, anche l’incapacità di rimandare la gratificazione dei bambini che tendevano a mangiare il marshmallow non era considerata una disposizione immodificabile ma legata invece anch’essa all’individuo che estrae regole di comportamento da contesti specifici che memorizza, seleziona e agisce in funzione dei propri obiettivi.

WALTER MISCHEL SPIEGA IL MARSHMALLOW TEST – GUARDA IL VIDEO:

Per saperne di più:

 

Le terapie di riconversione sessuale: una nuova maschera per il pregiudizio omofobico?

L’idea cardine che regola l’articolato mondo delle terapie riparative e delle associazioni che le sostengono è quella secondo cui l’ omosessualità sarebbe un problema di natura emotiva, derivante da bisogni insoddisfatti dell’infanzia, specialmente nella relazione con il genitore dello stesso sesso.

 

Gli studi sulla terapia «riparativa» impiegano teorie che rendono difficile la formulazione di parametri di selezione scientifica per la pratica terapeutica. Questi studi non solo ignorano il peso dello stigma sociale sottostante alle richieste di curare l’ omosessualità, ma la stigmatizzano anche in maniera attiva […] ( American Psychiatric Association, 2000 )

Negli ultimi decenni il nostro Paese, come buona parte dell’Europa e degli Stati Uniti, ha avuto la possibilità di assistere ad una radicale trasformazione del pregiudizio omofobico in una sorta di moderna intolleranza, più sottile e subdola (Aronson, Wilson, Akert, 2006) che, facendo leva sugli intenti etici e filantropici insiti nella terapia psicologica, ha permesso alle schiere del potere ecclesiastico di avanzare la pretesa di poter curare o “porre rimedio” all’ omosessualità; tutto ciò attraverso l’offerta di servizi di assistenza e consulenza la cui utilità e fondatezza professionale, come vedremo, risultano assai dubbie.

Terapie riparative: quando nascono e come possiamo definirle

Sotto il nome di terapie riparative (reparative theraphy), o di riconversione, cade una serie abbastanza ampia di modelli terapeutici tesi a modificare l’orientamento o l’identità sessuale di un individuo, da omosessuale a eterosessuale. L’approccio “riparativo” all’ omosessualità nasce nei primi anni ‘80 dagli studi di Elizabeth Moberly, una teologa inglese, che, nel testo Homosexuality: A New Christian Ethic (1983), individua tra le cause dell’ omosessualità, “incomprensioni” nel rapporto tra padre e figlio.

Le terapie riparative hanno assunto visibilità mediatica internazionale per il lavoro di Charls Socarides, uno psichiatra americano, e Joseph Nicolosi, uno psicologo clinico americano, cattolico conservatore, fondatore e direttore della Thomas Aquinas Psychological Clinic ed ex presidente del Narth, l’Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell’ omosessualità. Nicolosi fornisce altresì, una descrizione chiara e al contempo articolata dell’intero paradigma teorico-applicativo a pilastro delle terapie di riconversione, nel suo libro Reparative Therapy of Male omosexuality: A New Clinical Approach (1997).

Proprio grazie a Nicolosi, Socarides e Kaufman, la “moda” delle terapie di riconversione prende piede negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘80, sino a raggiungere il suo apice nel 1992 con la fondazione della già citata NARTH, inizialmente gestita dallo stesso Nicolosi, in qualità di presidente. Tuttavia, prima ancora di immergerci in quelle che secondo Nicolosi sarebbero le origini psico-sociali dell’ omosessualità, è bene fare riferimento all’insieme dei principi religiosi fondamentalisti sui cui, come risulta noto, poggiano le terapie riparative.

L’ideologia fondamentalista evangelica e quella cattolica, espressa a suo tempo da Benedetto XVI, definisce i principi dogmatici, come l’ordine eterosessuale dell’umanità, valori non negoziabili: verità assolute e del tutto inopinabili. L’ordine sacro prevede solo due identità, “maschile” e “femminile”, contraddistinte da qualità differenti e complementari su ogni piano dell’essere. Le due sole identità possibili corrispondono, infatti, a due costituzioni naturali diverse e, dunque, a scopi, ruoli, espressioni, psicologie e poteri diversi (Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2012).

In linea con i principi evangelici lo stesso Nicolosi ha affermato a più riprese che

La natura stessa è eterosessista […], aspetto fondamentale per la sopravvivenza del genere umano […] Io parto dalla premessa che tutti gli esseri umani, per loro stessa natura sono eterosessuali, e che alcuni individui hanno un problema omosessuale[…] uso il termine “omosessuale” come abbreviazione di “persona eterosessuale con un problema omosessuale (Nicolosi, 2002).

Unicamente gli eterosessuali con problemi di omosessualità possono essere tollerati, in quanto, riconoscendosi in una condizione problematica, bisogna avere compassione di essi. Forti di tali certezze i terapeuti riparativi pretendono che ogni dinamica psichica sia sottomessa all’ordine naturale eterosessuale in quanto matrice che Dio ha stabilito per il corretto sviluppo umano (Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2012).

Principi cardine delle terapie riparative

L’idea cardine che regola l’articolato mondo delle terapie riparative e delle associazioni che le sostengono – tra le quali anche NARTH Italia, Exodus International, Courage etc – è quella secondo cui l’ omosessualità sarebbe un problema di natura emotiva, un problema derivante dai bisogni insoddisfatti dell’infanzia, specialmente nella relazione con il genitore dello stesso sesso: in altre parole l’attrazione per il proprio sesso è ridotta a sintomo della mancata connessione emotiva del ragazzo con il proprio padre, e della ragazza con la propria madre (Donatio, 2010).

Nello specifico, la dimensione epistemologica delle terapie riparative trae fondamento da alcuni princìpi (destituiti di ogni fondamento scientifico), di cui Rigliano e colleghi (2012) forniscono una visione fortemente chiara ed esaustiva. Tuttavia, per questioni di maggiore sinteticità, risulta vantaggioso fare riferimento solo ad alcuni di essi, ovvero:

  • l’ omosessualità è una tendenza all’atto sessuale, un impulso solo comportamentale: è una compulsione sessuale (essa rappresenta un comportamento oggettivo, individuabile ma soprattutto eliminabile);
  • l’ omosessualità è una parte superficiale ed estranea, una cosa aliena dal soggetto, una tendenza avulsa dal suo essere e dal suo “vero io mascolino” (essa è una parte morbosa dell’individuo, una cosa aliena, un escrescenza erotica);
  • l’ omosessualità è un difetto di mascolinità, dovuto a una carente identificazione con il genitore dello stesso sesso (secondo Nicolosi l’omosessuale erotizzerebbe ciò in cui non si identifica);
  • gli uomini omosessuali sono persone che hanno queste tendenze a causa di una fissazione che impedisce l’identificazione con la mascolinità;
  • le relazioni d’amore omosessuali sono impossibili.

Distanti anni luce dal processo di depatologizzazione dell’ omosessualità, inaugurato agli inizi della seconda metà del XX secolo grazie agli studi condotti da Alfred Kinsey e da Evelyn Hooker ( Lingiardi & Nardelli, 2014), i terapeuti riparativi possono illudere i pazienti di asportare con una sorta di chirurgia psicoterapeutica dall’organismo sano, la malattia dell’ omosessualità; il tutto mediante una sorta di teopsicologia che vede nell’autoinvalidazione dell’omosessuale, nonché nella preghiera, i pilastri della guarigione da una patologia che oggi sappiamo non essere tale ( Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2012).

Talvolta, nonostante le accortezze professionali che si acquisiscono lungo il percorso di formazione alla psicoterapia, alcuni interventi clinici, pur non essendo espressamente definibili come “riparativi”, sono comunque caratterizzati da bias antiomosessuali e da scarsa informazione. In definitiva, tanto più il terapeuta sarà condizionato da bias antiomosessuali, tanto più tenderà al modello riparativo propriamente detto, in maniera più o meno consapevole (Lingiardi & Nardelli, 2014).

Una critica alle terapie riparative

Attraverso un auspicabile spirito di riflessione critica e di onestà intellettuale, ciò che in questa sede si vuole evidenziare, non è altro che l’attuale assenza di fondatezza scientifica del corpus di pratiche o metodologie cliniche connotanti l’articolata dimensione delle terapie di riconversione sessuale. In tal senso, Serovich (2008), attraverso la revisione di 28 studi empirici riguardanti il controverso tema della riconversione sessuale, ha messo in luce la possibilità di “identificare un certo numero di problemi metodologici, che suggerisce che questi studi sono privi di rigore scientifico. Le limitazioni includono mancanza di teoría, definizioni e misurazioni inconsistenti dell’orientamento sessuale, campioni limitati, mancanza di disegni longitudinali e disparità dei sessi”. Non di meno, ulteriori ricerche, hanno individuato la possibilià d’insorgenza di seri danni a carico della sfera personale, relazionale e della relazione terapeutica, legati ai percorsi terapeutici di riconversione sessuale ( Haldeman, 2001; Shildo & Schroeder, 2002; Beckstead & Morrow, 2004).

Alla luce di quanto fin qui detto e in controtendenza rispetto al paradigma delle terapie riparative, risulta doveroso sottolineare che lo psicologo (o psicoterapeuta che sia) deve ascoltare e capire quella che è la rappresentazione mentale ed emotiva che il paziente ha di sé, dei propri desideri e della propria sessualità. Il tentativo ultimo dovrebbe essere quello di promuovere un “ascolto rispettoso” per arrivare a comprendere, insieme, le motivazioni del disagio e cosa sottende il desiderio di diventare eterosessuale: quali aspettative, quali certezze infrante, quali paure (Donatio, 2010).

In ultimo, ma non per minore importanza, anche il Codice Deontologico degli Psicologi mette in guardia i professionisti dall’adozione di pratiche professionali invalidanti, lesive della dignità umana e di dubbia, se non inesistente, fondatezza scientifica. Il Testo, infatti, in maniera del tutto disambiguante, all’art.4 recita testualmente:

Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche che salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi […] ( Calvi e Gullotta, 2012).

Per concludere, lungi dal rischio di cadere in un processo di ri-patologizzazione “pseudo-competente” dell’ omosessualità, ci si dovrebbe chiedere che peso specifico abbia l’esigenza/urgenza di integrare nei percorsi formativi dei professionisti della salute mentale, l’acquisizione di competenze nette e imprescindibili in materia di deontologia; il tutto, come fine inderogabile di una disciplina (la psicologia) che, anche in seno all’etica, riesca a rivendicare il suo statuto di scienza a pieno titolo.

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