expand_lessAPRI WIDGET

La ripetizione dell’uguale – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 38

Da dove nasce quella sensazione di conforto, piacevolezza e in un certo qual modo di rassicurazione che spesso proviamo di fronte a ciò che si ripete sempre uguale giorno dopo giorno?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La ripetizione dell’uguale (Nr. 38)

 

Cosa spinge i bambini a rivedere sempre gli stessi cartoni e addirittura a privilegiare alcuni passaggi che conoscono a memoria senza non che si stanchino mai? Perché vogliono che gli sia raccontata sempre la stessa storia ed anzi richiedono un particolare punto della vicenda che appena finito vogliono sia ripetuto? E addirittura se il genitore introduce delle varianti anche solo lessicali, rispolverando la sua conoscenza dei sinonimi per vincere la noia, lo correggono prontamente e pretendono sia ristabilità la verità come si trattasse della traduzione di un testo sacro dove la parola di Dio è una e una sola?

Cos’è quel piccolo fastidio che si prova quando in una esecuzione dal vivo un cantante cambia, improvvisando, un verso di una sua canzone la cui sequenza abbiamo stampata nella mente?

Perché gli amici si ritrovano a recitare sempre lo stesso prevedibilissimo copione in cene dalla liturgia risaputa?

Perché gli anziani seduti al bar si scambiano secchiate di luoghi comuni sempre uguali che a guardarli da fuori verrebbe da pensare che non possono fare sul serio?

Perché negli ascensori ci affrettiamo a dire tre o quattro ovvietà sul tempo secondo un preciso spartito che prevede come apertura una constatazione circa il meteo (che sia il caldo, il freddo o la pioggia non importa), cui segue da parte dell’altro una solidale lamentela per terminare immancabilmente con la chiusura del primo con l’affermazione che “è il tempo suo, se non lo fa adesso…”? Poi si può prendere la strada dei proverbi con il classico e abusato “non ci sono più le mezze stagioni” ravvivandolo con la dichiarazione della consapevolezza che è un vecchio modo di dire ma che adesso è proprio vero che non ci sono più le mezze stagioni, e giù con i cambiamenti climatici, il surriscaldamento, Trump e via così a seconda del tragitto da percorrere. Oppure proporre una svolta psicologica più intimistica con un “è che non siamo mai contenti…”, cui far seguire a seconda dell’età degli interlocutori un amarcord del tipo “una volta, ai miei tempi (che sarebbe utile intanto stabilire una volta per sempre quale sia l’età cui ci si riferisce con “ai miei tempi” perché a rigor di logica anche gli attuali lo sono se si è ancora in vita – evenienza probabile se si sta in ascensore).

Dunque a fronte della ricerca della novità sbandierata dalla pubblicità come un bene in sé, sembra che si cerchi conforto nella “ripetizione dell’uguale” nella ripercorrenza del risaputo, del già detto.

Sarebbe da calcolare di quanto deve essere migliore una cosa nuova rispetto a quella vecchia per consentire di superare l’inerzia dell’abitudine. Gli amanti che rivaleggiano con i coniugi dovrebbero rifletterci di più.

Il fatto che avvenga soprattutto nell’infanzia e nella vecchiaia (tempi entrambi di fragilità) indica un significato rassicuratorio che credo riferibile alla stabilità del mondo esterno e soprattutto del sé.

È come se quei dialoghi apparentemente banali, quelle ripetitività stereotipate avessero come sottotitoli “tranquillo va tutto bene, il mondo è quello di sempre, tu sei in grado di prevederlo e di fronteggiarlo perché anche tu sei sempre lo stesso, ti riconosco perfettamente”.

Insomma, per illuderci di poter avere un minimo controllo sull’esistenza cerchiamo di fare previsioni e questo è possibile solo se il mondo, gli altri e noi stessi siamo ripetitivi.

Quei dialoghi sono la celebrazione della nostra identità (attenzione va bene pure se l’altro ci maltratta da sempre: l’importante è che non smetta).

Non essere riconosciuti – e peggio non riconoscersi più- deve essere un bel guaio, per cui togliti da davanti allo specchio.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Dizionario clinico di Psicoterapia: una lingua comune (2015) di S. Borgo, L. Sibilia e I. Marks – Recensione del libro

Il Dizionario Clinico di Psicoterapia di Stefania Borgo, Lucio Sibilia e Isaac Marks promette molto, promette una lingua comune per la psicoterapia

 

Una promessa impegnativa in questi tempi in cui è sempre più chiaro che il termine “psicoterapia” è un ombrello dentro il quale convivono approcci disomogenei e frammentati.

Non basta. La frammentazione è anche interna ai singoli approcci. Gli autori, ad esempio, sono di formazione cognitivo comportamentale. Ebbene, anche questo termine è ormai un ombrello troppo largo e al tempo steso pieno di buchi che raccoglie sotto di sé pratiche e teorie che spesso hanno poco in comune e talvolta sono tra loro del tutto incompatibili.

Troppa gente si affolla sotto un ombrello rotto che fa passare troppe fastidiose gocce di pioggia.

Il Dizionario Clinico di Psicoterapia: analisi dei singoli interventi terapeutici

Dopo queste premesse l’obiettivo di Borgo, Sibilia e Marks suonerebbe audace al limite dell’irrealizzabilità. Eppure i tre autori riescono nell’intento. Intendiamoci, non sono riusciti, e nemmeno volevano, creare una lingua comune che mettesse d’accordo le principali scuole e sottoscuole della psicoterapia e ne risolvesse le aporie teoriche e cliniche. Questo sarebbe stato davvero troppo ambizioso. Sono però riusciti a dare definizioni operative affidabili e credibili di una serie d’interventi terapeutici. E ci sono riusciti perché gli autori, umili e ambiziosi al tempo stesso, hanno evitato le secche della teoria e non hanno ambito a risolvere contrasti ormai secolari.

Partendo da un punto di vista ateorico, essi hanno compilato una serie di schede concise (in media un paio di pagine), agilmente consultabili e molto pratiche, in cui di ogni intervento è riportata una definizione operazionalizzata, i nomi degli autori che per primi l’hanno definita, una breve bibliografia che inizia con il lavoro in cui fu pubblicata per la prima volta, i presumibili ambiente ed epoca in cui fu utilizzata per la prima volta, le applicazioni principali e un breve caso clinico.

L’esame delle schede degli interventi che il recensore conosce meglio, ad esempio quelli che riguardano la terapia cognitivo-comportamentale standard, ha rivelato l’elevata qualità e precisione delle definizioni. Ad esempio la freccia verso il basso è correttamente definita come una tecnica che si conclude con l’accertamento di una credenza sul sé. Se lo stesso livello di qualità è sta rispettato anche per gli altri interventi siamo di fronte a un ottimo lavoro.

Non dimentichiamo poi che il Dizionario Clinico di Psicoterapia: una lingua comune è un testo che definisce interventi di tutte le scuole, dalla cognitiva comportamentale alla psicodinamica alla sistemico-familiare.

Insomma le perplessità iniziali si sono rivelate fortunatamente solo dei pregiudizi. Il lavoro di Borgo, Sibilia e Marks è di grande aiuto per mettere ordine e mappare il grande mare degli interventi psicoterapeutici. Una buona bussola che non ci salva dalle tempeste che ancora infuriano e infurieranno ancora per lungo tempo rendendo la navigazione difficile ma che può aiutarci a non affondare. Non è poco.

Olfatto e memoria: una connessione che potrebbe spiegare alcuni sintomi dell’Alzheimer

Esiste un circuito neurale tra Nucleo Olfattivo Anteriore (NOA) e ippocampo, la struttura cerebrale responsabile della nostra memoria e altamente implicita nella malattia di Alzheimer.

 

Una nuova ricerca canadese ha indagato il meccanismo responsabile della formazione della memoria episodica olfattiva.

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, offre una spiegazione del modo in cui il senso dell’olfatto viene rappresentato nella memoria e potrebbe spiegare perché la perdita di questo senso sia un sintomo precoce del morbo di Alzheimer.

I neurobiologi dell’Università di Toronto hanno indagato il modo in cui il cervello rivive esperienze sensoriali utilizzando l’olfatto; Afif Aqrabawi dottorando del Dipartimento di Biologia Cellulare e dei Sistemi, ha detto

[blockquote style=”1″]I nostri risultati dimostrano, per la prima volta, come gli odori che abbiamo incontrato nella nostra vita vengano ricreati nella memoria. Abbiamo scoperto il meccanismo che permette di ricordare il profumo della torta di mele quando si entra nella cucina della nonna.[/blockquote]

I ricercatori hanno indagato il legame esistente tra memoria e olfatto scoprendo che le informazioni spaziale e temporali, il dove e il quando si percepisce per la prima volta un odore, vengono integrate all’interno di una regione del cervello nota come nucleo olfattivo anteriore (NOA).

Olfatto, memoria e malattia di Alzheimer

Gli studiosi hanno scoperto l’esistenza di un circuito neurale tra NOA e ippocampo, la struttura fondamentale per i processi mnestici e altamente implicita nella malattia di Alzheimer. I ricercatori hanno quindi ipotizzato di poter simulare, interrompendo la comunicazione tra le due strutture, i problemi legati alla memoria olfattiva osservati tipicamente nei pazienti affetti da Alzheimer.

Conducendo una serie di esperimenti sui topi si è scoperto che i roditori che presentavano una disconnessione tra ippocampo e NOA tornavano ad annusare più volte e per lunghi periodi odori già percepiti, al contrario i topi con una connessione integra non mostravano questo tipo di comportamento. Gli esperimenti hanno dimostrato l’incapacità negli animali lesionati di creare una memoria per gli odori basata sugli indizi spaziotemporali.

Il professor Junchul Kim del Dipartimento di Psicologia ha affermato

[blockquote style=”1″]I risultati ci hanno permesso di comprendere meglio quali circuiti cerebrali governano e creano la memoria episodica olfattiva. Le evidenze trovate appaiono utili da un lato per studiare meglio questo tipo di memoria nell’uomo e dall’altro per investigare i meccanismi sottostanti la perdita dell’olfatto osservata nelle condizioni neurodegenerative.[/blockquote]

Numerose ricerche in effetti riportano la disfunzione olfattiva, in particolar modo la perdita di memoria relativa agli odori, come sintomi della malattia di Alzheimer indicando come tale deficit preceda il declino cognitivo tipico del morbo e appaia correlato al grado di severità della malattia.

Kim ha precisato

[blockquote style=”1″]Vista la precoce degenerazione del NOA nella malattia di Alzheimer, il nostro studio suggerisce che i deficit di memoria olfattiva riscontrati in questi pazienti comportino difficoltà nel ricordare il quando e il dove sono stati percepiti gli odori.[/blockquote]

Ad oggi i test olfattivi utilizzati per l’individuazione della malattia di Alzheimer risultano imperfetti poiché rimane sconosciuta la causa sottostante i problemi olfattivi in questa malattia. I ricercatoti affermano che con una miglior comprensione dei circuiti neurale alla base della memoria olfattiva, si potrebbero sviluppare test migliori che esaminino efficacemente il corretto funzionamento di questi circuiti giungendo ad una diagnosi precoce della malattia.

Come alleggeriamo il nostro carico cognitivo: il Cognitive Offloading

Ci sono diversi modi in cui possiamo liberare la nostra mente dal carico cognitivo richiestoci nello svolgimento di un compito attraverso l’uso dell’azione fisica: il Cognitive Offloading può essere attuato agendo su noi stessi (sul nostro corpo), sul mondo e gli oggetti esterni oppure sugli altri esseri umani.

Giuseppe Rabini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Se pensassimo a quanto, nella quotidianità dei nostri giorni al lavoro, a scuola, a casa o con gli amici il nostro cervello sia impegnato a risolvere problemi, trovare soluzioni ed elaborare informazioni, ci renderemmo subito conto di una cosa: le nostre capacità cognitive hanno dei limiti.

Attenzione, percezione e memoria, come altre abilità cognitive, hanno un proprio quantitativo di saturazione che certamente può variare a livello individuale e contestuale, e che può essere alterato da condizioni fisiche, neuropsicologiche e psicologiche invalidanti, ma che nonostante ciò resta pur sempre presente.

Una delle peculiarità più affascinanti della mente umana risiede nella capacità di utilizzare il corpo e il mondo esterno per alleggerire il carico di elaborazione cognitiva richiesto per lo svolgimento di determinati compiti. Negli ultimi decenni un vasto numero di ricerche si è concentrato su queste tematiche e su una concettualizzazione più ampia della cognizione: ne sono un esempio le teorie sull’Embedded e Embodied cognition, Extended e Distributed cogntion.

Uno degli articoli scientifici di riferimento risale alla fine degli anni novanta (Andy Clark & David Chalmers,1998), in cui gli autori espongono chiaramente la linea teorica a cui ci si riferisce con Extended Mind. Gli autori sostengono infatti che la linea che separa la nostra mente dal mondo esterno sia così labile da poter concepire l’ambiente come facente parte della mente stessa. Una mente che opera manipolando il mondo esterno, e sul quale fa affidamento per compiere e facilitare le proprie operazioni, una ‘mente estesa’ appunto.

I temi e le argomentazioni che verranno presentate nel proseguo di questo articolo si possono ritrovare negli approcci teorici sopra riportati, il riferimento ad una concettualizzazione più ampia della cognizione umana accomuna infatti tali tematiche. Ciononostante, gli argomenti trattati cercherenno di riferirsi nello specifico ad un processo cognitivo chiamato Cognitive Offloading.

Cosa s’intende per Cognitive Offloading?

Con Cognitive Offloading generalmente si intende “l’utilizzo dell’azione fisica per alterare l’elaborazione dell’informazioni necessaria per lo svolgimento di un compito, in modo da ridurne la richiesta cognitiva” (Risko & Gilbert, 2016). Una traduzione letterale di Cogntive Offloading potrebbe identificarsi con “scaricamento cognitivo”: scaricare la nostra cognizione ci permette infatti di favorire l’attuazione del compito stesso, superare i nostri limiti e capacità di processamento, diminuire lo sforzo e l’impegno richiesti. Se nella vostra vita avete anche solo una volta contato con le dita, inclinato la testa per leggere un testo scritto con un particolare orientamento, appuntato note sui vostri quaderni a scuola, scritto gli appuntamenti della settimana sulla vostra agenda o se l’avete fatto segnandolo sui vostri smartphones, allora stavate agendo secondo quello che appunto chiamiamo Cognitive Offloading.

Risko e Gilbert (2016) evidenziano il fatto che, seppur la tematica sia presente in letteratura da decenni, solo recentemente essa sia diventata oggetto di sistematiche ricerche scientifiche, questo dovuto anche allo sviluppo esponenziale dei prodotti tecnologici che, come si può facilmente intuire, sono potenti strumenti sui quali poter scaricare la nostra cognizione.

Ma come viene studiato questo il Cognitive Offloading dal punto di vista scientifico? Guardiamo un esempio.

Nel loro studio, Risko e colleghi (2014) cercano di investigare come utilizziamo il nostro corpo, in particolare come incliniamo fisicamente la nostra testa, in un contesto di lettura di lettere o parole il cui asse di riferimento è ruotato. In una serie di tre esperimenti, gli autori hanno chiesto ai partecipanti di leggere ad alta voce, nel modo più accurato e veloce possibile, delle lettere (o parole) disposte su righe differenti e orientate in modo differente nelle diverse prove (gli stimoli venivano presentati sullo schermo di un computer). In diverse condizioni sperimentali veniva poi permesso, ristretto o incoraggiato il movimento della testa. I partecipanti venivano videoregistrati durante l’esperimento, in modo da poter osservarne l’eventuale comportamento attivo. I risultati principali indicano che le persone tendevano spontaneamente ad inclinare la testa tanto più aumentava il costo associato alla lettura del testo ruotato presentato. Questo era particolarmente evidente nella condizione in cui non venivano presentate sequenze di singole lettere ma quando venivano presentati a schermo dei brevi paragrafi di testo. In tale condizione non solo i partecipanti ruotavano maggiormente la testa, ma questo favoriva lo svolgiemento del compito, riducendone la compromissione dovuta alla rotazione dello stimolo.

Sembrerebbe quindi che le persone valutino la difficoltà e lo sforzo necessario per l’esecuzione di un compito per decidere quale strategia utilizzare, in questo caso utilizzare il proprio corpo per risolvere l’esercizio. Risko e collaboratori si riferiscono a questa strategia come ‘normalizzazione esterna’. Infatti, per risolvere il compito (lettura di lettere o frasi orientate i modo anomalo) si potrebbero utilizzare tre diverse strategie. La prima prevede di visualizzare il testo e ruotarlo mentalmente per favorirne la lettura (normalizzazione interna); la seconda e la terza prevedono di agire sull’ambiente esterno per favorire il compito (normalizzazione esterna), in questo caso si potrebbe quindi ruotare la propria testa per allineare il sistema di rifereimento del sistema visivo con quello del testo (come nell’esempio sopra riportato), oppure si potrebbe agire direttamente sullo stimolo, ruotandolo in modo da riportarlo all’orientamento canonico di lettura.

In quali modi possiamo quindi scaricare il nostro carico di lavoro mentale, quando lo facciamo e quali risultati porta questo comportamento?

Come accennato anche nell’ultimo paragrafo, possiamo solitamente effettuare Cognitive Offloading in tre modalità differenti: agendo su noi stessi (sul nostro corpo), sul mondo e gli oggetti esterni, e infine sugli altri esseri umani (Risko & Gilbert, 2016).

Per esempio, pressocchè in ogni conversazione utilizziamo dei movimenti delle mani e delle braccia, dei gesti, per esprimere al meglio ciò che stiamo dicendo e allo stesso tempo farci comprendere meglio dagli altri. Ci aiutiamo con le mani per figurare caratteristiche strutturali e relazioni spaziali tra oggetti, per esprimere fisicamente delle misure; se siamo impegnati al telefono e una persona ci chiede delle indicazioni stradali, possiamo utilizzare le mani per indicare il percorso da effettuare, senza dover esprimere alcuna parola e superando così la nostra capacità ‘limitata’ di parlare con una persona alla volta. E ancora, possiamo utilizzare i movimenti oculari e lo sguardo per riferirci a persone o cose anche distali nell’ambiente esterno.

Un esempio divertente a cui la maggior parte delle persone ha assistito almeno una volta è il gioco della morra. In questo gioco, molto brevemente, due persone mostrano contemporaneamente con le dita di una mano dei numeri, lo scopo è quello di indovinare la somma dei due. Il punto interessante è che ogni giocatore “conta con l’altra mano” il proprio punteggio. Questo gli permette di giocare senza dover continuamente memorizzare e aggiornare mentalmente i punti fatti.

Quando invece parliamo di scaricamento cognitivo nel mondo (into-the world) ci riferiamo a tutti quei casi in cui utilizziamo oggetti ed elementi esterni a noi come dei luoghi nei quali depositare le nostre rappresentazioni cognitive, in particolare riguardanti la memoria (Risko & Dunn, 2015).

Anche qui, la nostra esperienza quotidiana ci fornisce svariati esempi. In questa area rientra tutto ciò che riguarda la cosiddetta memoria prospettica (Brandimonte et al., 2014), cioè la memoria per eventi ed intenzioni future, come ricordarsi di andare all’appuntamento dal dentista il prossimo mese. Di conseguenza scriviamo i nostri appuntamenti sull’agenda, ci appuntiamo le cose che dobbiamo o non dobbiamo fare su post-it da attaccare sul frigo di casa, in generale troviamo stratagemmi utili per alterare in qualche modo l’ambiente esterno, in modo che funga da attivatore di memoria (Gilbert, 2015). Tali azioni vengono considerate nello specifico come esmpi di intention-offloading, perchè appunto l’oggetto dello scaricamento cognitivo riguarda un’intenzione futura.

Infine, possiamo utilizzare altre persone come depositi di memoria. Ancora una volta, come fonte di memoria prospettica, possiamo per esempio chiedere al nostro amico di ricordarci di andare ad un appuntamento particolare, o ad un collega di ricordarci di rispettare le scadenze di consegne lavorative. In questi casi possiamo dire che utilizziamo la memoria di altri individui come una nostra memoria esterna. Possiamo inoltre suddividere memorie e conoscenze all’interno di un gruppo e riferirci a livello teorico al filone di ricerca sulla memoria transattiva (transactive memory). Con questo termine si intende un sistema in cui le informazioni e le conoscenze vengono distribuite tra più individui, in modo che il gruppo (sistema) abbia delle capacità più elevate e abbia un livello di conoscenza più alto rispetto al singolo individuo (Harris et al., 2014; Risko e Gilbert, 2016).

Un ulteriore passo verso la comprensione delle modalità di attuazione di questi comportamenti e delle conseguenze che questi hanno a livello di prestazione, si ritrova nella concettualizzazione metacognitiva del Cognitive Offloading (Dunn & Risko, 2016; Risko & Gilbert, 2016). Gli autori propongono un modello metacognitivo nel quale, a fronte di un problema da risolvere, la decisione riguardante se affidarsi ad elaborazioni interne o scaricare questa elaborazione sul mondo esterno, si basa su una valutazione metacognitiva delle nostre capacità e delle capacità dei sistemi esterni a cui ci affidiamo (il nostro corpo o il mondo). Questa valutazione metacognitiva, sia chiaro, può anche essere errata e distorta e non portare alcun vantaggio a livello concreto. Essa può infatti dipendere dalla nostra pregressa esperienza sulle nostre capacità, sull’efficacia delle strategie comportamentali utilizzate in passato e sul possibile guadagno percepito a livello di tempo, sforzo ed impegno mentale richiesto.

L’accesa discussione su queste tematiche ha portanto anche i ricercatori a soffermarsi su come attualmente utilizziamo la tecnologia (Dror, 2008), sempre più pervasiva e onnipresente nella nostra vita quotidiana, come strumento di scaricamento cognitivo, aprendo ulteriormente diatribe sull’effetto di queste strategie comportamentali sullo sviluppo cognitivo (Carvalho & Nolfi, 2016). Tuttavia questo delicato argomento non verrà trattato nel presente articolo.

Alcuni spunti di riflessione rispetto all’ambito clinico

Dopo questo breve escursus sulla conoscenza di questa affascinante modalità di Cognitive Offloading che la nostra mente utilizza per affrontare la risoluzione di situazioni e problemi quotidiani, ci si potrebbe chiedere quali possibili applicazioni pratiche in campo clinico si possanno attuare.

Nel campo dei disturbi della memoria, a livello neuropsicologico, potremmo far rientrare tutte quelle tecniche che vengono identificate all’interno delle metodologie aspecifiche in campo riabilitativo, come l’adattamento delle condizioni ambientali, l’addestramento all’uso di ausili mnemonici esterni e attivi, che si avvalgono di tutta una serie di elementi (reminders) per “sostituire” e promuovere un funzionamento più funzionale a livello personale, domestico, sociale (Mazzucchi, 2006).

Anche nel campo della psicoterapia cognitivo comportamentale vengono sovente utilizzati strumenti come il diario personale o compiti che richiedono di annotarsi durante la settimana, a seconda dello stato di avanzamento della terapia, pensieri ed emozioni, frasi e appunti che aiutano a supportare processi mnemonici e favorire la persona nel percorso di miglioramento del proprio stato emotivo, cognitivo e sociale.

Ciò fa emergere quanto questi processi di utilizzo finalizzato del mondo esterno siano ormai integrati nel nostro comportamento e quanto siano potenzialmente efficaci, tanto da poter essere utilizzati come strumenti di riabilitazione.

Introduzione alla lettura e allo studio del pensiero di Carl Gustav Jung (2018) di L. V. Fabj – Recensione del libro

In questo lavoro appena pubblicato Fabj propone qualcosa di diverso da un ennesimo tentativo di sintesi del pensiero junghiano: non ci troviamo dunque tra le mani una delle tante ricapitolazioni dell’immensa opera di Jung. Siamo bensì di fronte ad un testo, breve ma denso e penetrante, in cui l’autore intende delineare le “premesse gnoseologiche fondamentali” utili anche solo per accostarsi alla lettura di Jung.

 

 Carl Gustav Jung ha difatti lasciato scritti – molti dei quali ancora non tradotti in italiano – che assommano a circa il doppio dell’intera Opera di Sigmund Freud. A differenza di quest’ultimo, però, egli si è espresso nei suoi scritti in maniera estremamente più complessa. Lo stile di Jung, ben descritto e analizzato nel lavoro di Fabj, è criptico, tortuoso, a volte ermetico, sicuramente non lineare e spesso persino tormentato.

Il confronto con Jung, in effetti, può spiazzare il lettore inesperto e disorientare anche psicoanalisti di altre scuole, che si accostano per la prima volta ai temi junghiani. In tal senso, alcune tra le reazioni più comuni suscitate da una prima lettura di Jung possono essere di rifiuto totale, o di entusiastica e acritica adesione.

Jung e l’uso dei suoi contributi teorici

La teoria archetipica, in particolare, è stata oggetto di critiche (da Freud a Lacan, senza citare altri autori contemporanei) che nascono per lo più da incomplete, o inesatte letture dell’Opera di Jung, quando persino da un’errata sistematizzazione del suo pensiero, che per essere compreso appieno – come mostra Fabj – deve essere necessariamente studiato in chiave tematica, trasversalmente allo sviluppo temporale dell’intera opera. Per non parlare degli studi sulla “sincronicità”, bollati da alcuni altri autori come scivolamenti da parte di Jung nel trascendentale. Il tentativo di Jung, era probabilmente di giungere a trascendere, ma non certo in senso metafisico – bensì fenomenologico – l’attribuzione soggettiva dei fenomeni alla logica duale caso-causa. Peraltro, Jung era sempre molto attento alle conseguenze cliniche delle proprie teorizzazioni, anche quando queste sembravano avventurarsi su terreni apparentemente molto astratti. Per inciso, tutto il filone della cosiddetta “teoria del campo” in psicoanalisi, si ispira forse inconsapevolmente, con similitudini non trascurabili, alle implicazioni cliniche delle concezioni junghiane sui fenomeni di sincronicità.

A questo proposito, l’opera a cui sta lavorando Fabj da ormai un decennio, che con questo piccolo volume prende corpo con sempre maggiore dettaglio, mostra quanto l’integrazione tra la Psicologia Analitica e la psicoanalisi delle relazioni oggettuali, ha fatto propri senza alcuna variazione significativa interi costrutti junghiani modificandone soltanto il nome. È il caso dell’identificazione proiettiva della Klein, esattamente analoga alla proiezione attiva teorizzata e descritta da Jung alcune decine di anni prima.

Insomma, un lavoro come questo di Fabj, può aiutare il lettore ad avvicinarsi a Jung senza aspettative di aperture “metafisiche” e al contempo, ci auguriamo, senza neppure quel pregiudizio di “non scientificità” che è altrettanto errato.

Jung oggi

Jung fu, a differenza dei luoghi comuni, sempre molto attento alla scientificità delle proprie conclusioni, pur collocandosi in un modello di riferimento proprio delle scienze psicologiche fenomenologico-sperimentali piuttosto che di quelle sperimentali-valutative.

Va subito precisato che, rispetto alla psicologia basata sul metodo sperimentale statistico, la psicologia analitica di Jung non rientra in essa. (…) E ciò spiega la cancellazione di Jung da questo mondo: oggi il vero e indiscutibile dogma “religioso” è la scienza quantitativa basata sul metodo statistico.

Affrontando direttamente e senza infingimenti di sorta anche il problema dell’occultismo, come

…un problema che ogni junghiano deve risolvere

Fabj, relativizza la questione, invitando a disgiungere aspetti personali della vita di Jung, da aspetti riguardanti le sue teorie, che dall’occultismo si tenevano ben distanti considerando, invece, i fenomeni paranormali come ierofanie all’interno della psiche.

…i contenuti simbolici dei vissuti delle esperienze occulte, proprio come gli altri contenuti degli strati profondi della psiche, possono divenire validi strumenti di esplorazione dell’inconscio e, se correttamente usati nel contesto clinico di una psicoterapia analitico-simbolica, anche terapeutici, senza doversi occupare dei loro possibili significati magici ed esoterici che non hanno il benché minimo interesse per lo psicologo medico.

Al contempo, nondimeno Fabj risparmia critiche proprio a un certo modo di intendere lo junghismo da parte di una moltitudine di sedicenti junghiani, che hanno esasperato e “reificato” – in tal modo assegnandogli davvero un’aria metafisica – gli innumerevoli richiami simbolico-esperienziali che Jung sottintendeva ai propri costrutti teorici. Per questo, le immagini archetipiche, l’“individuazione”, i paralleli tra la psicologia e le pratiche alchemico-religiose – sono concetti che – decontestualizzati dal rigore della complessa opera junghiana, sono stati del tutto travisati da schiere di poco attenti “seguaci” di Jung, i quali ne hanno completamente distorto il pensiero, ignorandone per intero il portato clinico ed empirico.

In definitiva, in circa 90 pagine, Fabj fornisce alcune necessarie chiavi interpretative per un confronto che non parta in maniera pregiudizievole – in nessun senso – con l’opera di uno tra i più ostici, prolifici e complessi pensatori del secolo scorso.

Curare i bambini abusati. Imparare a lavorare sul trauma infantile attraverso il racconto di casi clinici – Recensione del libro

Il volume Curare i bambini abusati affronta la tematica dolorosa dell’abuso sessuale infantile, descritto spesso come l’ “Everest dei traumi”.

 

I traumi sono alla base di una grande maggioranza di disagi psichici e fisici. Lo conferma lo studio ACE, ovvero l’ipotesi accertata che le esperienze sfavorevoli infantili siano fattore di rischio per lo sviluppo di malattie psichiatriche e malattie fisiche.

Disregolazione dell’arousal emotivo e sensoriale, difese dissociative, aumento patologico dei mediatori corticosteroidei dello stress e altri fattori sono i punti cardine da prendere in considerazione per la comprensione della sofferenza psichica.

Un numero cospicuo di studiosi è più orientato a considerare il trauma in termini esperienziali, ovvero in stretta associazione alle caratteristiche psicologiche e alle capacità di resilienza del soggetto: capacità che risultano non solo da una predisposizione biologica ma anche, e soprattutto, dalla storia evolutiva della persona. Da un punto di vista evolutivo-relazionale, infatti, il trauma rappresenta l’esito di uno “sviluppo traumatico” (Liotti, Farina, 2011) che indebolisce le abilità personali di gestione emotiva dello stress.

Siegel e il concetto di “finestra di tolleranza”

Siegel ha spiegato, nel testo “La mente relazionale”, che il trauma evolutivo, da intendersi come quel corredo di esperienze di trascuratezza emotiva a cui il soggetto è sottoposto sin dall’infanzia e che continua negli anni successivi, incide sulla tolleranza allo stress e sull’ampiezza della “finestra di tolleranza”. Come spiega Siegel, i margini di questa finestra non si mantengono fissi, in base a una predisposizione genetica e all’attaccamento che il soggetto ha intrattenuto con le sue figure di accudimento sin dai primi giorni di vita. Ciò sta a significare che una figura di accudimento, capace di sostenere le richieste sia fisiche che emotive del bambino, promuove in quest’ultimo una maggiore tolleranza allo stress. Di contro, le cosiddette relazioni di attaccamento di tipo insicuro incidono negativamente sullo sviluppo strutturale del cervello, determinando un abbassamento della soglia di tolleranza e un restringimento dei suoi margini tali da rendere i soggetti più vulnerabili agli eventi stressanti e più a rischio di sviluppare sindromi post-traumatiche.

Vulnerabilità al Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS)

Vi è, quindi, una maggiore vulnerabilità alla sindrome post-traumatica da parte di chi ha una storia di traumi (di tipo relazionale, a partire dall’infanzia) ovvero di emozioni traumatiche. Queste rappresentano il segno di una ferita causata da contesti relazionali poco, o per nulla, contenitivi, in cui sono stati ostacolati i processi di mentalizzazione.

La componente emotiva sarebbe, quindi, l’elemento chiave per comprendere il DPTS. A conferma di ciò, numerosi ricercatori hanno rilevato un ulteriore aspetto che rende complesso il quadro clinico del DPTS: la presenza di un deficit nella regolazione degli affetti (una condizione alessitimica) di origine traumatica. La condizione di alessitimia si può presentare in un’intolleranza verso le emozioni, in una difficoltà a leggere il proprio stato emotivo o in un distacco emotivo che è possibile riscontrare, ad esempio, quando il paziente è invitato a parlare delle dinamiche del trauma.

Le ricerche condotte da Pat Ogden sui soggetti con DPTS hanno messo in evidenza una condizione alessitimica caratterizzata da:

  • eccessiva responsività ad emozioni che si manifestano con rapidità e in maniera intensa
  • difficoltà ad identificare e differenziare le emozioni tra loro o da sensazioni corporee
  • difficoltà a modulare le emozioni in maniera adeguata rispetto al contesto in cui si presentano
  • vulnerabilità al dolore

Anche Van der Kolk riconosce l’esistenza di un’associazione fra DPTS e incapacità di cogliere la funzione di segnale delle emozioni. Negli individui con DPTS i sentimenti non sono utilizzati come indizi per occultare delle informazioni in entrata e l’attivazione ha grandi probabilità di causare delle reazioni di attacco-fuga. Dunque essi spesso passano immediatamente dallo stimolo alla risposta senza valutare psicologicamente la reale pericolosità dell’evento. Ciò causa, in questi individui, una tendenza a bloccarsi o, al contrario, a reagire esageratamente e intimidire gli altri in risposta a provocazioni minime e in cui manca spesso una reale intenzione di procurare un danno.

Henry Krystal, psicoanalista che ha per lungo tempo studiato le vittime dei campi di concentramento, sostiene che il trauma debba essere considerato un disturbo di natura emotiva. I pazienti traumatizzati sembrano infatti non essere capaci di differenziare le emozioni e di riconoscere la natura emotiva delle reazioni somatiche associate ad un evento traumatico. Il contribuito di Krystal non si riduce tanto alla valutazione della reazione emotiva al trauma, quanto alla constatazione che ricorsive esperienze di trascuratezza e/o maltrattamento (fisico o sessuale) minano gravemente i processi di differenziazione, verbalizzazione e desomatizzazione delle emozioni.

Fonagy ha proposto il costrutto di mentalizzazione, da intendere come la capacità di saper leggere gli stati mentali (desideri, sentimenti, intenzioni) che stanno dietro un comportamento proprio o altrui. Per l’autore, è nel contesto di una relazione di attaccamento sicuro che il bambino sviluppa un Sé riflessivo capace di identificare, nominare e modulare le emozioni. Storie di traumi precoci di natura interpersonale (ad esempio abusi sessuali, maltrattamenti fisici) determinano un indebolimento della mentalizzazione che può generare una seria vulnerabilità nella capacità di resilienza a traumi successivi: è quanto dimostrano, ad esempio, studi epidemiologici dai quali emerge una maggiore incidenza del DPTS fra i veterani del Vietnam con una storia di abusi fisici subiti in età infantile (Bremner et al, 1993).

I sintomi post-traumatici sarebbero quindi espressione di una ritualizzazione di stati psichici associati al trauma precoce. La tendenza alla riattualizzazione, al posto del ricordo, risulterebbe a sua volta dal fallimento della mentalizzazione. Proprio per questo motivo, obiettivo del trattamento del DPTS deve essere quello di aiutare la persona a sviluppare le capacità di mentalizzare il trauma (e i pensieri e le emozioni associati) e di sostituire il ricordo alla riattualizzazione del trauma.

Curare i bambini abusati : il trauma dell’abuso sessusale infantile

Il volume Curare i bambini abusati affronta la tematica dolorosa dell’abuso sessuale infantile.

Come dice James Rhodes (Le variazioni del dolore, 2016), dando una voce lucida al bambino dolente dentro di sé, l’abuso sessuale è l’ “Everest dei traumi”.

L’abuso sessuale ai bambini fa male e per lungo tempo. È un male specifico, pieno di sfaccettature che mancano in altre esperienze sfavorevoli infantili. Un bambino sessualmente abusato va accolto, ascoltato e protetto. Ma anche, e sempre, curato, per riparare i danni di quella violenza.

Curare i bambini abusati si apre con una rassegna aggiornata e puntuale della letteratura scientifica sul tema della terapia nell’abuso sessuale all’infanzia.

Alla rassegna introduttiva seguono tredici capitoli, a firme diverse, ciascuno dei quali declina nel dettaglio un singolo caso clinico, attraverso cui gli autori mostrano al lettore il metodo diagnostico e terapeutico adottato, nelle sue specificità, tecniche e strumenti.

L’intento è portare il lettore proprio lì, dove metodo scientifico ed umanità dello specialista si incontrano con il groviglio relazionale che quel bambino rappresenta, descrivendo passo dopo passo la loro avventura.

Gli autori disegnano in particolare il ragionamento clinico che li ha guidati a scegliere tra le varie tecniche nei vari momenti della terapia. Puntualmente vengono messi in luce anche difficoltà, ostacoli incontrati, errori compiuti, ma soprattutto colpisce il paragrafo dedicato alle reazioni controtransferali del terapeuta.

Struttura e contenuti del libro Curare i bambini abusati

Curare i bambini abusati si compone di diverse parti. I primi sei capitoli mettono a fuoco diverse sfaccettature del trauma quando esso si origina nel terreno familiare, dove è più duro il colpo inferto ai processi di attaccamento.

Talvolta il terreno è così infragilito e corrotto che la vittima, per salvarsi, deve affrontare una dolorosa rottura dei legami e ricercare delle alternative, senza mai dimenticare di valorizzare anche le briciole residuali sane dell’ambiente affettivo d’origine.

I successivi cinque capitoli affrontano abusi in cui il perpetratore è esterno alla famiglia.

Il penultimo capitolo riguarda poi le situazioni in cui la terapia avviene a distanza dall’ambito spazio-temporale in cui il trauma è avvenuto. Si affrontano storie e percorsi di bambini adottati e si propone come gestire il rischio che i loro modelli operativi, deformati dall’abuso subito nel luogo di origine, finiscano per incrinare la possibilità di attaccamento buono nella nuova famiglia.

Di particolare interesse è infine l’ultimo capitolo, in cui è rappresentata la possibilità di accogliere la domanda di terapia di bambini già curati da piccoli e che, diventati adolescenti, vivono nel corpo e nelle emozioni la riattivazione di quanto, con le risorse che avevano nell’infanzia, non hanno potuto compiutamente elaborare. Cioè come curare adulti che sono stati bambini abusati.

Terapia e obiettivi nel trattamento di pazienti che hanno subito abuso nell’infanzia

L’obiettivo della psicoterapia è, qualunque tecnica si utilizzi (i partecipanti avevano fruito di terapie diverse con tempi diversi, per quanto tutte focalizzate sul trauma), l’integrazione dei ricordi traumatici in una coerente narrazione autobiografica dotata di nuovi significati e connessioni.

In particolare, dal punto di vista degli schemi di attaccamento, l’obiettivo del paziente è l’esperienza di contenimento di sé e dell’altro e di essere “attore” della propria vita: questo può consentire un lutto e il perdono di sé invece di biasimarsi per il danno ricevuto.

Obiettivo del terapeuta è diventare il testimone riflessivo dei cambiamenti nella visione della propria storia da parte del paziente, per aiutarlo a metabolizzarli e a interiorizzarli, processo che può controbilanciare il dolore del processo di lutto.

Colpisce e conforta il fatto che i terapeuti, professionisti con diversa formazione di base e ciascuno facendo riferimento alla propria cassetta degli attrezzi (tra le terapia più efficaci, vengono citate la terapia metacognitiva, EMDR e terapia sensomotoria), effettuino molto spesso scelte cliniche sovrapponibili in aspetti cruciali.

Emozioni e Machine Learning: decodificare le espressioni emotive del volto tramite App

Le nuove tecnologie, si tratti di App, robot o semplici computer, stanno diventando sempre più efficaci anche in quei domini che fanno capo all’uomo e alla propria umanità, tra cui la capacità di riconoscere le proprie emozioni.

 

Feffer, Rudovic e Picard, ricercatori del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno sviluppato un modello di Machine Learning che consente di personalizzare in modo rapido ed efficace l’analisi e l’interpretazione delle emozioni umane come farebbero spontaneamente le persone umane tra di loro, modello recentemente presentato all’International Conference on Machine Learning and Data Mining in Pattern Recognition.

L’importanza dei nuovi sistemi di Machine Learning nell’ambito della salute mentale

Recentemente i sistemi di Machine Learning e le applicazioni nate all’interno del campo definito “affective computing” stanno sviluppando una crescente popolarità, soprattutto nell’ambito delle tecnologie, della robotica e dei computer in quanto essi sono in grado di analizzare, interpretare e decodificare una vasta e differenziata quantità di dati.

L’ambito dell’assistenza sanitaria e della salute mentale è interessata in particolare a poter usufruire e sfruttare tali sistemi tecnologici per monitorare lo stato di benessere delle persone, rendere le diagnosi più affidabili e rispondere alle necessità degli individui con specifici disturbi in modo personalizzato e accurato. Ne è un esempio, nell’ambito dell’autismo, il robot NEO (Rudovic, Lee, Schuller, Picard, et al., 2018).

La ricerca del MIT: perchè è importante riconoscere le proprie emozioni?

L’idea che ha portato alla realizzazione dello studio del MIT riguarda la possibilità di utilizzare i nuovi sistemi di Machine Learning per percepire e comprendere in modo efficace la metrica emotiva umana.

In questo modo i ricercatori ritengono di poter essere d’aiuto alle persone offrendo loro una corretta analisi delle proprie emozioni e guidandoli di conseguenza nell’evitare di mettere in atto comportamenti che potrebbero peggiorare il proprio stato emotivo, influenzandoli piuttosto ad agire in modo da ricercare il proprio benessere. Un esempio di ciò sono le nuove applicazioni sviluppate per richiamare i giovani a rischio di dipendenza da smartphone, che si basano sul calcolo delle ore giornaliere spese dai giovani sul dispositivo (Mussi, 2018).

Ancora, con l’avvento di nuove e potenti funzionalità di Machine Learning per dispositivi mobile, è oggi possibile eseguire l’analisi delle emozioni tramite le videocamere dello smartphone. Pertanto sarebbe possibile programmare un’applicazione in grado di rilevare in modo efficace le emozioni di un utente e raccomandargli strategie per affrontare le emozioni negative, monitorare il suo umore o tentare attivamente di migliorarlo (Feffer, Rudovic, Picard, 2018).

Un modello di Machine Learning per riconoscere le espressioni facciali correlate alle emozioni

I ricercatori del MIT Media Lab hanno dunque sviluppato un modello di Machine Learning in grado di catturare le piccole variazioni nell’espressione dei volti per valutare più efficacemente l’umore e lo stato emotivo delle persone.

Per la realizzazione di questo modello sono state utilizzate migliaia di immagini emotigene di volti, aggiornando anche i vecchi modelli computazionali che non riuscivano a cogliere le mille sfaccettature delle espressioni umane che dipendono da numerose variabili (ad esempio: la quantità di sonno, il momento della giornata in cui si trova una persona, il livello di familiarità che si ha con un partner con cui si è intrapresa una conversazione, la modalità tutta personale di esprimere rabbia, gioia, tristezza).

L’idea dei ricercatori del MIT è stata di ottimizzare le attuali tecnologie di “affective computing” rendendole più accurate e adattabili ad un numero sempre maggiore di popolazioni tra di loro estremamente diversificate per cultura e modalità di espressione delle emozioni.

Questo non è uno strumento intrusivo per monitorare il nostro umore, l’intento è quello di rendere ancora più sociali i nostri sistemi di intelligenza robotica, consentendo loro di rispondere in modo più naturale alle nostre emozioni e alle nostre variazioni di umore come farebbe una persona – afferma Rudovic, ricercatrice del MIT, co-autore della ricerca e dello studio presentato

Nel far questo, i ricercatori hanno combinato insieme la tecnica definita “mixture of experts” (MoE) con tecniche di personalizzazione per estrarre dati dalle espressioni facciali di singoli individui contenuti nel database RECOLA.

I MoEs, un numero di modelli di network neurali, definiti “esperti”, sono stati addestrati a specializzarsi in un compito di elaborazione dei dati estratti per produrre un unico output. Al contempo i ricercatori hanno incorporato ad essi una rete di controllo in grado di calcolare le probabilità dell’ “esperto” di rilevare uno specifico stato d’animo: in sostanza il controllo è stato in grado di fornire l’ “esperto” migliore per quell’immagine emotigena presa in analisi.

Ad ogni “esperto” sono stati sottoposti video di 18 individui contenuti nel pubblico database RECOLA.

Il modello combinato utilizzato in questo studio ha tracciato le espressioni facciali per ogni individuo a partire da singoli fotogrammi, in base al livello di valenza (piacevole vs spiacevole) e arousal (attivazione emotiva) comunemente utilizzati per codificare i diversi stati emotivi.

Separatamente, per valutare il grado di affidabilità, le analisi ottenute sono state sottoposte a sei esperti professionisti per accertare la corretta valenza e arousal.

Sviluppi futuri

L’applicazione futura secondo gli autori sarà quella di addestrare modelli di “affective computing” ad identificare in modo sempre più naturale anche le piccole variazioni nelle espressioni del volto e di farlo in diversi contesti, in modo giornaliero, per poter massimizzare gli effetti dei sistemi di Machine Learning per la salute mentale.

Ci stiamo avvicinando a sistemi che possono analizzare le immagini dei volti di persone reali e decodificarle su scale da molto positive a molto negative, da molto attive a molto passive; i segni emotivi di una persona non sono gli stessi di un’altra e pertanto un sistema di riconoscimento delle emozioni personalizzato sarà il più efficace e soddisfacente, maggiormente in grado di aggregare più giudizi insieme grazie alla rete combinata, anziché utilizzare un unico “super esperto – dichiara Roddy Cowie, professore emerito di psicologia alla Queen’s university di Belfast e studioso di affective computing.

Il Sé e lo sviluppo del Sé. Una panoramica storica sulle principali teorie

Il concetto di , nelle scienze psicologiche ed umanistiche, è stato da sempre oggetto di studio, rispetto al quale diversi autori si sono avvicendati. 

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Non è facile trovare una definizione condivisa da tutti gli autori e spesso il viene associato all’identità, creando confusione ed ambiguità. Esso può essere definito come una struttura centrale che racchiude una serie di componenti personali, consentendoci di auto definirci. Per tali motivi appare centrale nella costruzione dell’autostima.

Esiste un generale consenso riguardo al fatto che il si inizi a strutturare già durante l’infanzia e che questo sviluppo sia legato alle relazioni con il mondo esterno.

In questo contributo, verrà fornita una breve panoramica sulle principali teorie riguardanti il Sé, con particolare attenzione a quelle teorie che pongono l’accento sulla sua natura multidimensionale e sul suo sviluppo in età evolutiva ed adolescenziale.

William James – Io e Me

William James (1890) è stato tra i primi ad affrontare l’argomento, distinguendo due componenti del Sé: l’Io e il Me.

L’Io rappresenta l’istanza di consapevolezza, in grado di conoscere, organizzare l’esperienza, agire e riflettere sul . Esso conferisce unicità e continuità all’individuo.

Il Me rappresenta il modo in cui l’individuo si vede, quanto del è conosciuto dall’ Io. Esso si articola in tre sottocomponenti:

  • Me materiale: include il me corporeo e fisico in senso largo, la rappresentazione e la definizione di come appariamo
  • Me sociale: esso si definisce nelle relazioni ed interazioni sociali, nei rapporti con le persone e nei differenti contesti sociali nei quali siamo immersi
  • Me spirituale: essa è l’istanza capace di riflessione. Definito anche Me consapevole

Cooley – Looking glass self

Da queste premesse, si sviluppa la teoria del “looking glass self”, ovvero il Sé Rispecchiato, di C.H. Cooley (1902). L’autore descrive il come una struttura legata all’autoconsapevolezza che si fonda sulle esperienze sociali e relazionali.

Cooley afferma che il modo in cui ci vediamo e rappresentiamo non dipende solo da riflessioni personali sulle nostre caratteristiche, ma anche dalla percezione di come siamo percepiti dagli altri.

Questa self image si costruisce in diverse fasi: innanzitutto, immaginiamo come appaiamo agli altri. In questo senso non ci riferiamo solo agli altri significativi (familiari, amici, insegnanti, etc.) ma anche alle persone con cui entriamo in contatto e relazione durante la vita quotidiana. Successivamente, immaginiamo come gli altri ci possano valutare. Infine costruiamo e rivediamo l’immagine di noi in base al significato che attribuiamo alle osservazioni e valutazioni che gli altri possono avere di noi.

Un punto chiave di questa teoria risiede dunque nel fatto che la struttura del Sè non si costruisca direttamente a partire dall’immagine che gli altri hanno di noi, ma dal modo in cui ci prefiguriamo come potremmo apparire agli altri. Gli individui sono costantemente influenzati da ciò che immaginano che gli altri possano pensare di loro.

Mead – il Sé in relazione con il mondo

Così come Cooley, anche George Herbert Mead ha teorizzato che lo sviluppo del Sé è molto influenzato dalla relazione e dalla interazione con gli altri (Mente, Sé e Società, 1934).

Mentre il primo, tuttavia, ipotizza come qualsiasi individuo con cui interagiamo contribuisca a modificare il modo in cui ci vediamo e rappresentiamo, Mead sostiene che solo alcuni individui significativi possano avere questa influenza. Inoltre, Mead pone l’accento su alcune fasi evolutive specifiche, piuttosto che su tutto l’arco di vita.

Nell’infanzia ad esempio, in cui vi è una visione del mondo più egocentrica, l’altro è scarsamente considerato e – a causa di una Teoria della Mente non ancora sviluppata – l’individuo non è in grado di assumere il punto di vista degli altri.

Tuttavia, come anticipato, anche Mead sostiene che l’interazione con gli altri significativi sia fondamentale nella costruzione della propria identità in quanto crescendo l’individuo diventa sempre più attento ai comportamenti, alle attribuzioni ed alle opinioni degli altri. Nello specifico, secondo l’autore, ciò avviene attraverso 3 differenti fasi.

  • Nella prima fase (preparatory stage), in cui i bambini interagiscono con l’adulto principalmente attraverso l’imitazione, essi osservano le azioni dell’adulto e tentano di riprodurle in maniera speculare
  • Nella seconda fase (play stage) i bambini iniziano a comunicare con l’altro, piuttosto che imitarlo. Iniziano ad utilizzare un linguaggio simbolico che si andrà con il tempo raffinando. Inizia quindi ad assumere maggior importanza il ruolo delle relazioni sociali nella costruzione della propria identità. Il gioco in questa fase è caratterizzato dall’assunzione di specifici ruoli, in modo differente rispetto a quanto accadeva nella fase precedente in cui vi era una fredda imitazione di specifiche azioni. 
I bambini iniziano dunque a prestare attenzione anche ai comportamenti e ai pensieri degli altri significativi
  • Nell’ultima fase (game stage) questa attenzione si sviluppa ulteriormente. Anche se resta prioritario il ruolo dell’altro significativo, i bambini iniziano a prestare attenzione ai comportamenti e alle opinioni della società in generale, ciò che Mead definisce l’altro generalizzato. Ciò implica che le azioni non sono più influenzate dalle loro credenze personali, ma anche dai principi più vagamente sociali, dalle aspettative dal mondo esterno. Gli individui possono assumere più ruoli ed essi possono essere integrati in un’unica struttura.

Per quanto Mead descriva lo sviluppo del Sé in un’ottica sociale, egli sottolinea sempre il ruolo degli altri significativi (figure di attaccamento, insegnanti, pari, etc.) nel modificare i comportamenti, le attitudini e i pensieri dell’individuo.

L’autore giunge infine alla conclusione che questo processo conduce allo sviluppo di due aspetti distinti del Sé: il Me e l’Io, in cui il Me rappresenta il Sé sociale (come pensiamo di essere percepiti dall’altro generalizzato) e l’Io è la percezione di Sé basata sul Me. Il Sé finale dunque è costituito da un bilanciamento, una sintesi tra Me ed Io, tra come veniamo percepiti dagli altri e come noi ci vediamo in reazione alle opinioni sociali su di noi.

Shavelson – Sé multidimensionale e gerarchico

Se consideriamo il valore multidimensionale del concetto di Sé, un autore a cui è importante fare riferimento è Rich J. Shavelson. Anche egli, coerentemente con quanto postulato dai colleghi che lo hanno preceduto e che abbiamo trattato in questo testo, sottolinea come lo sviluppo del Sé abbia inizio dalla percezione di Sé in relazione con gli altri significativi e con il mondo in generale. Anche in questo caso dunque l’accento è posto in una prospettiva sociale, in quanto i giudizi degli altri e le regole del mondo influenzano il modo in cui noi valutiamo noi stessi (1976).

Secondo l’autore, il concetto di Sé è organizzato e strutturato, ovvero è risultato di una serie di informazioni su di Sé organizzate e collegate tra loro.

Due caratteristiche fondamentali nella teoria dell’autore sono rappresentate dal suo carattere multidimensionale e gerarchico.
Per multidimensionale, si intende che il concetto di Sé è organizzato in dimensioni specifiche relative ai vari ambiti di vita del soggetto. Esisterà dunque un modo specifico in cui ci rappresentiamo e valutiamo per ogni contesto in cui siamo inseriti, come a scuola, nello sport, nelle relazioni intime. Il modo in cui questa rappresentazione cambia può essere molto vario. 
Inoltre, ogni concetto di Sé risulta indipendente e differenziabile dagli altri costrutti a cui è legato.

Esistono quindi varie rappresentazioni specifiche di Sé collocate alla base di un concetto globale di Sé, il quale risulta gerarchicamente superiore agli altri. Tale concetto è inoltre maggiormente stabile, mentre gli altri sono più soggetti alle influenze ed agli avvenimenti specifici e dunque possono essere più labili.

Anche Shavelson inoltre sottolinea come il concetto di Sé si evolva coerentemente con lo sviluppo e con le conquiste evolutive dell’individuo.

L’autore individua nel concetto di Sé sia caratteristiche descrittive che valutative. Anche in questo caso, il ruolo della società è particolarmente forte nell’influenzare il modo in cui valutiamo noi stessi, basandoci sulle aspettative del mondo o dell’altro significativo, sui modelli ideali costruiti socialmente, sui confronti costanti con i pari.

Secondo l’autore dunque, il concetto di Sé ha una struttura piramidale, al cui apice si colloca il concetto di Sé generale e subordinatamente i concetti di Sé legati ai singoli domini. Shavelson, Hubner e Stanton (1976), individuano quattro principali concetti di Sé. Il concetto di Sé accademico, sociale, emozionale e fisico. 
Tali concetti di Sé specifici possono essere suddivisi in ulteriori aree. Ad esempio le singole materie nel sé accademico, il modo in cui ci vediamo in relazione ai pari o ad altri significativi nel sociale, l’espressione di determinate emozioni nell’emozionale e il modo in cui valiamo la nostra apparenza o le abilità nel concetto di sé fisico.

Susan Harter – Il concetto di Sé e l’ autostima

L’ultimo autore che consideriamo in questo contributo è Susan Harter.

Anche Susan Harter (1999) ha posto l’attenzione sugli aspetti evolutivi del Sé, sottolineando come esso inizi a svilupparsi dal momento in cui il bambino inizia a considerarsi come un’entità fisica distinta e con caratteristiche proprie. In tal senso, risulta importante in ottica evolutiva lo sviluppo della memoria autobiografica. Un ulteriore elemento che contribuisce allo sviluppo del Sé già dall’infanzia è la relazione di attaccamento con i genitori.

Nel corso dello sviluppo, ed in particolare durante l’adolescenza, il concetto di Sé acquisisce al suo interno il modo in cui l’individuo si valuta nelle delle differenti aree di vita. Le nuove sfide relative alla fase adolescenziale infatti portano gli individui ad identificarsi in ruoli sempre diversi e tali ruoli a loro volta rivestono un’importanza di volta in volta differente. Un chiaro esempio di ciò riguarda il passaggio da un sistema di relazioni squisitamente familiare ad uno più sociale, in cui il confronto con i pari risulta sempre più importante per autodefinirci e valutarci assumendo col tempo un ruolo prioritario. Ciò implica che in alcuni casi l’individuo può avere un concetto di Sé più positivo in talune aree rispetto ad altre, ad esempio nel ruolo amicale piuttosto che di figlio o di studente, o viceversa, il che può portare ad una percezione discontinua di . Lo sviluppo sociale e cognitivo dell’adolescenza porta l’individuo ad integrare questi ruoli e i diversi concetti di Sé relativi ad ognuno di essi in una struttura unica e coerente.

Abbracciando una teoria multidimensionale del concetto di Sé in quanto risultante dalla valutazione di sé in differenti aree di vita, Harter ipotizza come tali valutazioni conducano alla formulazione del valore di Sé (self-worth) e dell’autostima (self-esteem).

L’autrice inoltre sottolinea come queste aree possano avere un’importanza di volta in volta differente per gli individui, il che comporta che sentirsi competenti (self-worth) nelle aree che un individuo ritiene personalmente importanti contribuisca a strutturare un concetto di Sé più positivo.

Secondo Harter l’autostima è un concetto più globale, legato a come ci valutiamo, al valore che ci attribuiamo nei diversi contesti (Harter, 1993).

Il concetto di Sé è dunque strettamente legato all’autostima, ovvero al modo in cui ci valutiamo nelle diverse aree di vita. Sebbene siano due costrutti differenti e separati, risultano strettamente collegati tra loro.

Adolescenti e giovani adulti con disabilità intellettiva e autismo: una sfida che scienza e società devono raccogliere

Di Autismo e metodologia ABA si è parlato a Milano, a Febbraio, nella giornata Percorsi innovativi per adolescenti e giovani adulti con disabilità intellettiva. Di questo ha parlato nella Summer School di IESCUM a Rimini Patrick Mc Greevy, autore di Essential for Living. Di questi temi dobbiamo continuare a parlare nel prossimo futuro.

Roberto Cavagnola

 

L’azione combinata e congiunta del vertiginoso incremento della prevalenza della diagnosi di autismo, in tutti i paesi occidentali, e la pubblicazione di innumerevoli linee guida dei diversi sistemi sanitari, a partire dai primi anni duemila, ha certamente portato all’attenzione del mondo sanitario e socio-sanitario italiano della scienza del comportamento e, in particolare, della sua branca applicata: l’ ABA.

Per tutta l’Europa mediterranea, in particolare modo per l’Italia, questo ha voluto dire l’inizio di un cambio importante di paradigma sul piano dei trattamenti abilitativi e clinici. Questo ha rappresentato, da un lato un indubbio passo in avanti per l’affermarsi di una cultura scientifica, e quindi basata su evidenze, nel campo del disturbo autistico e, più in generale, all’interno dei disturbi del neurosviluppo, dall’altro ha voluto dire trattamenti efficaci per centinaia, e forse migliaia, di bambini in Italia.

ABA e Autismo: possibili criticità

Questo indubbio avanzamento mostra tuttavia, ad una più attenta lettura, alcune criticità. Riteniamo sia importante segnalarne almeno due.

La prima è probabilmente ascrivibile a una certa insensibilità, in alcuni ambienti ABA, verso quella che potremmo definire la naturale “apertura” della conoscenza scientifica. Ci riferiamo specificatamente ai contributi offerti dalla Relational Frame Theory, fondamento sperimentale di quella che potremmo definire la clinica di “terza generazione” e di programmi specifici, che da questa dipartono, e che hanno offerto significativi riverberi anche nel campo educativo ed abilitativo dell’ autismo e delle disabilità intellettive.

La seconda invece è riconducibile al focus, quasi esclusivo sulla prima infanzia, che gli interventi ABA hanno sin qui prevalentemente avuto, a fronte di una problematica, come quella dell’ autismo e della disabilità intellettiva, drammaticamente life span. A fronte di questo la scienza del comportamento non può sottrarsi alle sfide che tali condizioni pongono ad una scienza che ha come obiettivo precipuo quello di offrire risposte socialmente rilevanti.

Se assumiamo questa prospettiva, le sfide aperte per chi in Italia voglia ricercare attivamente un approccio che sia nel contempo, ecologico e rigorosamente scientifico possono essere riassunte, senza presunzione di esaustività, in alcuni temi:

  • Il progetto di vita. Costruire un percorso di senso per organizzare e pianificare le azioni cliniche ed abilitative nelle persone con disturbi del neurosviluppo giovani ed adulte assume una specificità rispetto a un progetto riabilitativo per l’infanzia. Non è questa forse la sede per dettagliare i diversi punti di distanza che necessariamente esistono tra questi due tipi di progettazione. Ci limitiamo a sottolineare come, per l’età adulta, ai tipici outcome funzionali e clinici, sia fondamentale affiancare specifici percorsi volti a realizzare obiettivi personali e un miglioramento relativo alla qualità della vita. Su questo versante quindi, quello che nella terminologia comportamentale viene comunemente definito choice assessment, assume un rilievo ed un’importanza inedita, unitamente alla necessaria contaminazione con i modelli di qualità della vita che dovrebbero informare tutti gli interventi
  • La psicopatologia. Scarsa attenzione è stata fin qui accordata nel sillabus dei master ABA per l’ autismo alla tematica dei quadri psicopatologici. Esiste ormai un robusto corpus di ricerche di carattere epidemiologico sulla prevalenza di tutti i quadri psicopatologici in questa popolazione che è tra le 4/5 volte superiori a quello della popolazione normotipica. Assumere tutta questa problematica e questa complessità nell’ambito della categoria dei challenging behavior è, oltre che riduttivo, assolutamente limitante sul piano dell’efficacia delle risposte
  • La psicofarmacologia comportamentale. La pervasiva tematica della psicopatologia ha come importante ricaduta, nell’ambito dei trattamenti, l’uso di farmaci psicotropi. La farmacologia comportamentale rappresenta da questo punto di vista una conoscenza irrinunciabile proprio perché capace di mostrare le specifiche alterazioni che questa tipologia di farmaci produce sui pattern di apprendimento e, di conseguenza, migliorare la prevedibilità del comportamento delle persone in trattamento farmacologico
  • L’inclusione sociale e lavorativa. L’esigenza di articolare nuovi e più articolati curricoli di insegnamento che riguardano sia il tempo libero nella comunità sia all’interno di luoghi di lavoro. Tutto questo ovviamente non può non considerare l’impatto delle nuove tecnologie e dei social network che tanto spazio ed importanza hanno all’interno della compagine giovanile ed adulta
  • Le demenze. L’incremento considerevole della speranza di vita in tutta la popolazione con disturbo del neurosviluppo ha determinato l’insorgenza di una condizione inedita fino a pochi anni fa. In particolare oggi, sempre di più, dobbiamo affrontare tematiche relative alle demenze che sembravano appannaggio solo della Sindrome di Down
  • Il fine vita. L’aumento della speranza di vita ha portato all’attenzione, anche grazie ad una nuova sensibilità verso i temi delle scelte e dell’empowerment, la tematica delle scelte sul fine vita. Si tratta di una frontiera inedita che richiede tuttavia un’attenta riflessione e ampliamento del codice dentologico unicamente allo sviluppo di procedure adeguate per insegnare e rendere possibili scelte importanti ed impegnative
  • OBM e problematiche organizzative. L’ambito dei servizi sanitari e socio sanitari presenta un grado di complessità che non è paragonabile a quello che tipicamente troviamo nei servizi ambulatoriali o domiciliari per la prima infanzia. L’esistenza di molti profili professionali di diversa estrazione, un’organizzazione del lavoro spesso basata su turni, complessità gestionali ed organizzative richiedono un contributo specifico ed uno spazio di ricerca che potrebbe essere ottimamente occupato da quella branca dell’analisi del comportamento che va sotto il nome di Organizational Behavioral Management
  • Motivazione del personale. Il lavoro continuativo con persone affette da autismo e disabilità intellettive in condizioni di cronicità, gravità e, non di rado con importanti problematiche del comportamento, ci pone un importante problema circa il mantenimento di elevato tenore della motivazione del personale educativo ed assistenziale
  • Stress familiare. La tematica dello stress familiare costituisce un tassello non irrilevante all’interno di un piano di trattamento che si fondi su basi contestualistiche. Da questo punto di vista il passaggio da interventi di parent training basati, in forma prevalente o esclusiva, sull’insegnamento di skills educative ad interventi sulla consapevolezza genitoriale dove viene accordato spazio per l’ascolto ed il fronteggiamento della dimensione emozionale, rappresenta un decisivo progresso verso la messa a punto di procedure di intervento verso i genitori e, più in generale, i familiari della persona disabile. Va ricordato in questa sede che esistono tematiche specifiche che ineriscono ai familiari delle persone con autismo e disabilità intellettiva in età adulta, si pensi al “dopo di noi” o a temi quali il diritto alla sessualità per il figlio con disabilità o problematiche comportamentali che assumono un’intensità ed una dirompenza inedita
  • Transizioni. L’età tardo adolescenziale ed adulta reca in sé una quantità di transizioni che, oltre che rappresentare una potenziale fonte di stress per la famiglia e per la persona con disabilità, rappresentano importanti snodi decisionali che possono fare la differenza in un progetto di vita. Dal termine della scuola dipartono infatti una serie di possibili percorsi, pensiamo ad esempio alla formazione professionalizzante o all’inserimento lavorativo o, a partire dal diverso livello di funzionamento o alle problematiche presentate, la complessa ed articolata rete dei servizio sociali, socio sanitari o sanitari. Temi quali l’orientamento e l’accompagnamento rappresentano pertanto argomenti non eludibili che devono trovare spazio all’interno di un curricolo formativo per operatori del settore

Di questi temi si è parlato a Milano, a Febbraio, nella giornata Percorsi innovativi per adolescenti e giovani adulti con disabilità intellettiva. Di questo ha parlato nella Summer School di IESCUM a Rimini Patrick Mc Greevy, autore di Essential for Living. Di questi temi dobbiamo continuare a parlare nel prossimo futuro.

L’ adozione, una risorsa inaspettata (2017) di A. Guerrieri e F. Marchianò – Recensione del libro

L’ adozione è considerata una risorsa per la coppia e la società nel libro scritto da Guerrieri e Marchianò. L’ adozione è un diritto per i minori, come afferma la Convenzione dell’Aja.

 

In Italia dal 2000 al 2015 sono entrati tramite l’ adozione internazionale circa 46.500 minori. Un numero rilevante di bambini che, dopo un passato di abbandono e trascuratezza alle spalle, si accingono a costruire una nuova vita in altrettante famiglie.

Adozione: protagonisti, diritti e significati

Se ad uno sguardo superficiale sembra essere la coppia la protagonista di tutto il percorso adottivo, destinataria di valutazioni psicosociali di idoneità e di gruppi di sostegno e formazione, non dobbiamo dimenticare che la realtà è ben diversa. Alla base dell’ adozione c’è il diritto fondamentale di ogni bambino ad avere una famiglia; la coppia di aspiranti genitori non ha alcun diritto, ma esprime semplicemente la propria disponibilità ad accogliere uno o più minori in difficoltà. L’ adozione internazionale è una misura estrema di tutela dei diritti del minore qualora non siano possibili misure alternative (per es. affido a parenti, adozione nazionale, altre forme di sostegno e cooperazione da attuarsi nel paese estero di origine del minore). A questo proposito è stata redatta nel 1993 la Convenzione dell’Aja per la protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale; adottare in un paese estero che ha ratificato questa convenzione è garanzia che vengano rispettati i diritti dei minori.

Adottare significa accogliere una persona “altra”,“diversa” da noi in tutti i sensi (diversa per origini, per fisionomia, per abitudini, per odori e sapori), quando ciò che ci verrebbe naturale sarebbe allontanarla proprio perché differente. I legami affettivi si costruiscono nel tempo, non sono scontati né immediati, occorre che avvenga prima un riconoscimento reciproco. Ma una volta instaurati sono legami forti al pari di quelli “di sangue” e, forse, con una marcia in più proprio perché costruiti giorno per giorno, passo dopo passo, con desiderio, pazienza e consapevolezza.

Adozione: di cosa ha bisogno la coppia adottiva

Il libro L’ adozione, una risorsa inaspettata esplora i bisogni delle coppie adottive, sottolineando come sia necessario un sostegno non solo prima dell’arrivo del minore ma soprattutto nel post adozione, quando la famiglia adottiva diventa una famiglia normale a tutti gli effetti. Il sostegno non deve essere un insegnamento (che implica un’asimmetria di potere), ma un confronto, uno stare a fianco della coppia senza sostituirsi a lei. Il rischio altrimenti è quello di non sentirsi mai pienamente genitori, mai una famiglia come le altre ma sentire la necessità di essere riconosciuti dall’esterno nel proprio ruolo genitoriale. In questo senso un utile strumento sono appunto i gruppi di mutuo aiuto (non necessariamente con la conduzione di operatori). Le famiglie possono così aprirsi e confrontarsi senza giudizio, imparando ad ascoltare l’altro e quindi il “diverso”, riproponendo all’interno del gruppo una capacità di apertura e confronto che si ripeterà durante l’incontro con il bambino.

Proprio dall’esperienza di questi gruppi organizzati dall’Associazione di famiglie “Genitori si diventa” sono esplorate all’interno del libro le tappe fondamentali di tutto il percorso: la valutazione per l’idoneità, l’attesa, i primi incontri con il minore adottato e la fase post adozione, corredate da stralci di commenti dei genitori e in alcuni casi anche dei minori coinvolti.

Durante l’indagine psicosociale per l’ottenimento del decreto di idoneità rilasciato dal Tribunale, le coppie si sentono giudicate dagli operatori e si giustificano dicendo che

il mestiere di genitore è qualcosa che si impara sbagliando strada facendo e non una capacità che può essere stabilità a priori

Le emozioni prevalenti sono quelle di rabbia e di frustrazione. Il contesto valutativo porta a uno squilibrio di potere tra la coppia e gli operatori che invece dovrebbero affiancare la coppia aiutandola a trovare dentro di sé le risorse e le capacità di fronteggiare le situazioni adottive. Se è vero che non c’è un modo per essere genitori perfetti occorre tenere presente tuttavia la realtà da cui provengono i minori adottati, i vissuti traumatici e di forte trascuratezza emotiva che si portano dietro e a cui occorre essere preparati per poter costruire un buon legame di attaccamento.

Durante la fase dell’attesa (dal conferimento del mandato ad un Ente autorizzato fino al momento dell’abbinamento con un minore) prevalgono invece le ansie e i timori: il senso di inadeguatezza, il timore di non essere amati dal figlio, il timore di non sapersela cavare nelle difficoltà.

Adozione: il legame in costruzione tra coppia e minori adottati

Ma i bambini che giungono in adozione cosa provano? Il loro è principalmente un vissuto di perdita, di abbandono a volte anche ripetuto nel tempo; non si fidano dell’altro, si aspettano punizioni e tradimenti a cui reagiscono spesso con rabbia e violenza. Dietro questa aggressività tuttavia, si nasconde un profondo bisogno di affetto e di attenzioni che pensano di non meritarsi.

La riflessione più rilevante si trova nella parte finale del libro, dedicata alle crisi e ai fallimenti adottivi. E’ proprio nella crisi dei legami affettivi che emerge l’idea della adozione come risorsa (che poi è il concetto contenuto nel titolo dell’opera). L’ adozione è una risorsa per conoscere non solo i propri punti di forza ma anche i propri limiti al fine di superarli; è una sfida a non mollare davanti alle difficoltà. Una crisi adottiva, come qualsiasi altra crisi di una relazione, comporta la rottura dell’equilibrio di un sistema; solo se i legami che si sono costruiti tra le persone sono forti allora lo stravolgimento di un sistema riporta a instaurare un nuovo equilibrio. Altrimenti nella crisi il figlio diventa nuovamente “altro” da sé e per questo respinto. Con la genitorialità biologica è più difficile disconoscere un figlio e spesso ci si limita a respingerlo con le parole (quando i genitori non parlano più di “nostro” figlio ma di “tuo” figlio, per indicare un distaccarsi dal problema e individuare la causa nell’altro). Nell’ adozione, dove i legami sono stati costruiti volontariamente tra estranei, questo distacco è più immediato perché più facile.

I legami interni alla famiglia adottiva sono quindi allo stesso tempo risorsa e fragilità: risorsa perché costituiscono un arricchimento per le persone coinvolte, ma allo stesso tempo sono un aspetto di fragilità proprio perché costruiti e non immediati. I fallimenti adottivi esistono, se ne deve parlare perché purtroppo costruiscono una realtà concreta. Se ne deve parlare né per colpevolizzare chi non ce l’ha fatta né per spaventare le coppie in attesa di adozione; si parla di crisi per sottolineare come anche gli eventi negativi e critici possono rivelarsi una risorsa per crescere.

Adozione come risorsa, quindi, non solo per le famiglie che decidono di intraprendere questo percorso ma anche per la società, che si deve confrontare con l’accoglienza, l’ascolto, il rispetto di chi è diverso da noi.

Disturbo borderline di personalità: un approfondimento interdisciplinare

Una recente review di Nature Disease Primers si pone come obiettivo un approfondimento interdisciplinare sul disturbo  borderline di personalità.

 

La review condotta dal dipartimento di Psichiatria di Harvard e dell’università di Heidelberg, Germania, di Oslo e dell’Arizona College of Medicine, ha lo scopo di sintetizzare i capisaldi fondamentali in atto nel disturbo relativi ai suoi meccanismi neurobiologici, i fattori di rischio ambientali, i fenotipi interpersonali, la disregolazione emotiva e comportamentale, nonché le alterazioni relative ai circuiti del dolore.

Disturbo di personalità borderline: epidemiologia e duffusione

Un’analisi di tredici studi epidemiologici di nazioni diverse ha evidenziato una prevalenza dallo 0 al 4,5 % con una media di 1,6% per il disturbo borderline di personalità (BPD), che ne fa il quarto disturbo di personalità più rappresentato tra i diversi disturbi della personalità, anche se la prevalenza lifetime di questo disturbo è certamente più rilevante (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018).

La National Epidemiologic Survey on Alcohol and related conditions (NESARC) negli Stati Uniti ha evidenziato una prevalenza lifetime del BPD del 5,9 % (Grant, Chou et al., 2008).

È bene precisare che, nonostante la prevalenza di disturbo borderline di personalità (BDP) nella popolazione generale non sia significativamente più alta rispetto alla media di prevalenza di altri disturbi di personalità, tuttavia questa risulta essere maggiormente prevalente nelle popolazioni cliniche-psichiatriche; infatti i pazienti con BPD costituiscono circa il 15-28 % di tutti i pazienti psichiatrici ricoverati nelle cliniche e negli ospedali, il 10-15% di tutte i servizi psichiatrici emergenziali (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018).

Disturbo borderline di personalità : i meccanismi neurobiologici

Un modello neurobiologico del BPD propone che i sintomi fenotipici che si riscontrano siano il prodotto dell’interazione tra influenze genetiche e ambientali che impattano sullo sviluppo cerebrale, delle vie ormonali e dei neuropeptidi del bambino in età precoce di sviluppo.

I maltrattamenti infantili e la scarsa qualità delle cure parentali durante l’infanzia possono determinare degli effetti epigenetici e alterare così lo sviluppo delle funzioni e della struttura cerebrale con il risultato di pattern di tratti stabili di comportamento lungo tutta la propria esistenza (Cattane, Rossi, Lanfredi et al., 2017).

In particolare sembra che disfunzioni nel circuito prefronto-limbico siano un fenomeno transdiagnostico legato ad un’affettività instabile e negativa in contesti di stress interpersonali e instabilità che si riscontra però anche in altri disturbi psichiatrici.

Disturbo di personalità borderline: i fattori di rischio ambientali

Tra i fattori di rischio ambientali più noti del BPD ci sono le esperienze di vita precoci; in particolare esperienze infantili negative come traumi, abusi fisici e sessuali, episodi ricorrenti di negligenza emotiva possono aumentare notevolmente il rischio di sviluppare un disturbo borderline di personalità .

Cure parentali inconsistenti, ipercoinvolgimento materno, comportamenti genitoriali avversivi o maltrattanti, contribuiscono allo sviluppo nel bambino di profili caratterizzati da alto nevroticismo, scarsa consapevolezza e bassa apertura all’esperienza che tendono a persistere e ad assomigliare ai tratti di personalità borderline dell’adulto.

In aggiunta, comportamenti genitoriali non conformi, come ad esempio la separazione precoce dal bambino o un ambiente di crescita poco stimolante e accogliente, messi in atto in specifiche finestre temporali di sviluppo sono implicati nella genesi di tratti di personalità patologici che determinano un impoverimento nella regolazione emotiva e nell’autocontrollo.

Un’alta reattività allo stress in un bambino e un pattern di attaccamento insicuro tra bambino e madre predice la comparsa di sintomi borderline nella popolazione di giovani adulti (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018).

Altri tipi di sintomi psicopatologici nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza come la depressione, l’ansia, l’abuso di sostanze, comportamenti oppositivi e disregolati, l’ADHD, comportamenti deliberati autolesivi, impulsività, scarsa capacità di pianificazione goal-directed, atteggiamenti aggressivi e risk-taking predispongono allo sviluppo del Disturbo di personalità borderline.

Disturbo di personalità borderline: l’attività dei circuiti neurali

Il presente articolo di Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini e colleghi (2018) ha evidenziato come alcune alterazioni in specifici circuiti neurali sottostanno i fenotipi del Disturbo borderline di personalità , in particolare nei circuiti relativi all’instabilità interpersonale che coinvolgono le funzioni di teoria della mente, dell’empatia, del pensiero referenziale e del senso di Sé.

Le strutture cerebrali mediali hanno un ruolo nella comprensione degli stati mentali altrui e propri, supportando il modello di Fonagy circa lo sviluppo del Sé a partire dalla risonanza e dalla contingenza dei comportamenti precoci del caregiver nei confronti del bambino (Fonagy, Luyten & Allison, 2015).

Queste strutture nello specifico comprendono la corteccia mediale prefrontale, il precuneo, la corteccia cingolata posteriore, la giunzione temporoparietale; strutture che si sovrappongono con la rete di default-mode che si attiva nel momento in cui non vi è attenzione o concentrazione verso l’ambiente esterno.

Gli individui con disturbo di personalità borderline hanno la tendenza ad iper-mentalizzare (sovra-attribuire intenzioni ed emozioni a Sé e agli altri) in un modo complesso e astratto (Sharp, Pane, Venta et al., 2011).

Studi che prevedono un compito di working memory mentre vi è l’interferenza di scene emotigene hanno evidenziato una forte associazione del circuito amigdala-corteccia prefrontale mediale-aree ippocampali nei pazienti piuttosto che nei soggetti di controllo.

Queste evidenze potrebbero essere legate ai problemi nello shifting attenzionale tra informazioni riguardanti il Sé e quelle esterne in questo tipo di compiti.

Un altro studio di Beeney e colleghi (2016) ha riguardato il processamento di questi due tipi di informazioni (auto-rappresentazioni vs rappresentazioni riguardo l’Altro) tramite la richiesta ai pazienti con disturbo borderline di personalità  di valutare i loro tratti di personalità e quelli di un loro amico, evidenziando in essi un’iperattivazione delle strutture mediali sia durante la valutazione del Sé che dell’Altro a confronto con un gruppo di controllo e dimostrando di conseguenza un overlap tra i correlati neurali legati ai deficit nella lettura del Sé e dell’altro.

Uno studio di New e colleghi (2012) ha altresì sottolineato che nonostante gli individui con BPD abbiano una compromissione nei circuiti legati alla teoria della mente, mostrano tuttavia delle performance maggiori in compiti di empatia rispetto ai soggetti di controllo e di conseguenza un’iperattivazione dell’insula associata all’arousal emotivo.

Queste evidenze sono sulla stessa linea con gli studi circa la predominanza di componenti affettive piuttosto che cognitive nei pazienti con disturbo di personalità borderline che sono pertanto più vulnerabili al cosiddetto “contagio emotivo”: essi infatti hanno una marcata incapacità a differenziare le emozioni altrui dalla proprie.

Essi inoltre mostrano un’iperattivazione ai segnali di allarme ambientali o sociali, come l’esclusione sociale, anche quando questi non sono presenti ma si trovano a partecipare al virtual ball-tossing game (Gunderson, Herpertz, Skodol, Zanarini et al., 2018)

Per quanto riguarda l’instabilità affettiva, molti studi hanno mostrato come siano correlati ad anormalità nella sincronizzazione tra processi bottom-up di detezione dello stimolo ambientale saliente e top-down, corticali di controllo, goal-directed e decision-making: i soggetti con BPD falliscono nelle strategie di regolazione ed elaborazione affettiva a seguito di segnali sociali di minaccia e rispondono in modo iperattivato ed emotivamente instabile agli stimoli negativi ambientali, mostrando un’iperattivazione amigdalica e un decremento dell’attività della corteccia orbitofrontale e della corteccia cingolata anteriore (Koenigsberg, Fan et al., 2009).

La disregolazione comportamentale è stata investigata tramite compiti di delay discounting, l’abilità cioè di rinunciare nell’immediato ad una ricompensa in attesa di un’altra maggiore ma a lungo termine.

I soggetti con BPD generalmente falliscono in questo genere di compiti in quanto mancano della capacità di inibire le proprie risposte emotive che interferiscono con il funzionamento cognitivo e la pianificazione (Turner, Sebastian et al., 2017).

Una componente che contraddistingue la disregolazione comportamentale nel Disturbo di personalità borderline è l’impulsività che si riscontra nei compiti go/no-go, nei quali i partecipanti sono istruiti a rispondere solo quando sono presenti determinati stimoli e a inibire la loro risposta quando non presenti.

Gli individui con BPD sono caratterizzati da alterazioni nella corteccia prefrontale ventrolaterale e orbitofrontale che indicano la presenza di un’interferenza tra i processi emotivi e i compiti di inibizione motoria, soprattutto quando sottoposti ad alti livelli di stress, come ad esempio a seguito dell’induzione della rabbia.

Disturbo boderline di personalità e processamento del dolore

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da comportamenti autolesivi messi in atto come strategia di coping emotivo disfunzionale.

Secondo alcuni studi riportati nella review, i pazienti con BPD hanno una soglia più alta del dolore rispetto ai soggetti di controllo e ciò potrebbe essere associato a due meccanismi: il primo meccanismo riguarda la deattivazione dell’amigdala e un’iperattivazione dei circuiti prefrontali-limbici che rifletterebbe una modulazione inibitoria corticale; il secondo meccanismo riguarda l’aumento dell’attività nei circuiti tra l’insula posteriore e la corteccia prefrontale dorso laterale che potrebbe riflettere un’anomala valutazione del dolore che contribuisce all’ipoanalgesia nel Distubo borderline di personaità (Niedtfeld, Kirsch et al., 2012).

Burocrafilia – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 37

Il padreterno creò la terra, non in sette ma in un solo giorno. Anzi i vecchietti che si sporgevano dal bordo dell’universo sul cantiere sostennero che prima di pranzo il caos aveva già perso la sua partita e tutto era in ordine, ma fece figurare che tirò fino a sera per una questione di cartellino.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Burocrafilia (Nr. 37)

 

Del resto o è onnipotenza o non lo è ed allora un giorno basta e avanza. I giorni successivi però non furono meno intensi ed è da allora che una schiera di satanassi coordinati da Lucifero gli diede una mano. Il secondo giorno si dedicò alle leggi generali (per esempio tutte quelle della fisica, dell’astronomia e della chimica) che gli scienziati avrebbero cercato di scoprire nei millenni a seguire. Il terzo furono le leggi sui rapporti umani e, a seguire quelle sui rapporti tra tutti gli oggetti creati animati e non, insomma un lavoraccio concettuale che aveva sottovalutato.

Ma le leggi non bastavano, troppo generali, e nei giorni successivi seguirono nell’ordine: i decreti attuativi, le normative generali, i regolamenti e tutta l’infinità modulistica che li accompagna. Una commissione si occupò di risolvere le incongruenze frequentissime che creavano delle situazioni di assoluta paralisi come quella per cui per prendere la patente speciale occorre fare l’esame con l’auto di propria proprietà, ma per comprare l’auto ci vuole la patente speciale. Dopo giorni di lavoro rinunciò a dipanare il groviglio normativo ed emanò una disposizione che recitava pressappoco così “Arrangiatevi”, segnando così definitivamente il vantaggio evolutivo degli italici.

La storia si è poi continuamente ripetuta. All’inizio prevale e soffia lo spirito, poi arriva immancabilmente la legge. Gli ebrei hanno ricevuto la thorà, ma poi si sono impiccati con il libro dei numeri normando ogni istante della vita. Noialtri siamo passati dal discorso della montagna alla santa inquisizione. Lo spirito di giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità ha prodotto prima la ghigliottina e il terrore e poi i gulag, KGB, la Stasi. Badare alle regole perdendo lo spirito è appunto come guardare al dito che indica la luna, ma ci viene proprio naturale. Sant’Agostino dice “ama e fa quello che vuoi”, il solito lassista, e la Chiesa ha minuziosi prontuari su tutte le minuzie illecite e non (quante volte?, fino a dove?, da solo o in compagnia?).

E’ chiaro che per ogni regola c’è un controllore, per ogni pratica un usciere o un maresciallo che può metterla in cima o in fondo alla pila e dunque ogni norma e ogni modulo, ogni timbro necessario rappresenta un possibile livello di corruzione. Si aggiunga, con lo stesso effetto, che l’enorme massa di regole e regolette fa sì che tutti siamo irregolari (tutti colpevoli= nessun colpevole) e dunque la sanzione è assoluta discrezione del controllore. Intendo che se una pattuglia vi ferma con la macchina e vuole multarvi certamente troverà un motivo, così come non esiste un locale che sia completamente a norma per la sicurezza (legge 626).

In casa nostra questa libido delle regole si esprime nella continua brama verso i protocolli, ma la ritroviamo in ogni campo. Fa sorridere l’aneddoto reale del vecchietto cui è stato chiesto di produrre ogni anno il certificato di esistenza in vita per avere diritto alla pensione, al quale è stato contestato che seppure era in regola per l’anno in corso non lo era per quello precedente. Meno sorridere fa il film “Io, Daniel Blake” di Ken Loack (2016) che lascia intravedere la fine dell’umanità non per il riscaldamento globale ma per il soffocamento da burocrazia.

Sarebbe interessante capire le ragioni evolutive di questa idolatria delle regole e questo compito spetterebbe a sociologi (appartenenza? Ordine?) o psicopatologi (identità? Incertezza? Fragilità? Perfezionismo?).

Incapace di ciò mi limito, scopiazzando l’idea di Roland Barthes, a rappresentare alcune figure, immagini, icone della paralisi da norme:

  • “Questa è la procedura”

E’ ciò che nella vita quotidiana si chiama abitudine e in psicopatologia, quando diventa rigida e immodificabile, rituale compulsivo. Nasce per raggiungere un obiettivo, è dunque strumentale rispetto ad un fine. 
Poi progressivamente perde il rapporto di strumentalità e diventa essa stessa un fine, rimanendo immutabile persino quando arriva ad essere un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo per cui era nata. Si tratta di un perverso ribaltamento del rapporto fini/mezzi, una sorta di rivolta degli schiavi. L’averlo messo in discussione con la famosa frase in cui ricordava che “è il sabato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” è costato carissimo al ribelle procedurale dalla bianca tunica.

  • Call center

Sono le invalicabili torri di guardia, la cintura protettiva lakatosiana a difesa dell’area impenetrabile del potere, che esso sia una ASL, una qualsivoglia istituzione, un gestore di servizi, un agenzia. E’ contro di essi che si scarica la furia e l’indignazione dei sudditi. Dai call center è stato mutuato il concetto di “scudi umani”. In trincea infatti col petto offerto alle pallottole nemiche, giovani ostaggi miti e gentili dalla barbagia, dal casertano o dall’Albania, non hanno risposte da dare, non sanno, non possono, non è di loro competenza. Sono come le prime truppe sul bagnasciuga della Normandia nel giugno del ’43, solo carne da macello, e scatta tra i marosi immancabile la solidarietà tra sconfitti. Ci si sente come Maramaldo dinnanzi a Fancesco Ferrucci morente, non si infierisce. Li si immagina giovani e carini, come i propri figli, universitari che vogliono arrotondare ed invece magari sono prepensionati, esodati con una famiglia a carico, un mutuo e la badante per la madre.

  • “Deve aspettare”

L’attesa è l’attività degli impotenti. Altri, gli adulti, fanno e disfano e intanto si attende senza sapere quanto, cosa e perché. L’ignoranza è ingrediente essenziale della passività che fa smarrire prima l’agentività e infine la dignità. Ma essere in balia di forze superiori che non hanno da render conto del proprio operato e celano i loro disegni non è forse metafora dell’esistenza umana?

  • “Dipende”

Un tormentone estivo del 1998 cantava “depende, da che depende?” perché è ovvio che “dipende” non è una risposta, in quanto sposta semplicemente la domanda al livello superiore, dal quale la cosa appunto dipende. Ma il non verbale che accompagna il “dipende” lascia intuire che i fattori sono troppi e la situazione è complessa per cui non è dato capire ai presuntuosi non addetti ai lavori e ci si sente impertinenti e indiscreti, come quando si chiese alla nonna come nascevano i bambini e la povera vecchia svenne.

  • “Stiamo facendo il possibile, guardi che non mi sto divertendo”

Il tono irritato che accompagna la frase fa venir voglia di autodenunciarsi immediatamente per comportamento antisindacale e ci si sente come il padrone della zolfara che punisce a nerbate sulla schiena i carusi che hanno portato in superficie il sacco più leggero o indugiato troppo a dissetarsi e detergersi il sudore impastato di zolfo.

  • “Abbiamo sempre fatto così”

E’ talmente radicato l’attaccamento degli umani alla tradizione che c’è da meravigliarsi che non si stia ancora nelle caverne e non ci si nutra di semi e piccoli animali. Ho l’impressione che le ragioni per cambiare debbano essere perlomeno doppie di quelle per mantenere lo status quo perché il cambiamento avvenga davvero e Kaneman lo spiega in termini del diverso peso emotivo che hanno le perdite e i guadagni. Siamo così abituati a questo primato, appunto, dell’abitudine che dire “abbiamo sempre fatto così” sembra una argomentazione che giustifica la prassi corrente, quando al massimo è una constatazione spesso solo della dilagante stupidità.

  • “Tutti gli operatori sono momentaneamente occupati”

Nella mente si aprono due scenari contrapposti. Da un lato un formicaio silente, organizzato e laborioso o, meglio, la fabbrica di cioccolato con gli instancabili Umpa Lumpa in perfetto coordinamento operativo. Dall’altro rumorose macchinette per il caffè e gli snack in fumose sale per la pausa, animate discussioni sul fuorigioco dell’ultimo derby, trucchi da riaggiustare e gonne da riposizionare dopo affannate sveltine e, naturalmente, italiche telefonate ai pupi fino a feste sui triclini intorno ai tavoli imbanditi con le pietanze provenienti dai confini dell’impero. A distogliere da queste fantasie l’invito a non riattaccare per non perdere la priorità acquisita. Ci si sente dei privilegiati, si sta in corsa, si sono acquisiti dei diritti, si conta dunque qualcosa. Taluni comunicano di tanto in tanto il posto in graduatoria e ci si sente orgogliosi quando si entra in zona punti o addirittura ci si avvicina al podio in zona medaglia. Quando si è secondi e ci si chiede cosa mai dovrà fare così a lungo l’utente che ci precede e telepaticamente lo si sollecita a tagliar corto, il suono improvviso dell’occupato per la linea caduta mischia le fantasie ed ora sono gli Umpa Lumpa a possedersi l’un l’altro sui triclini cibandosi di formiche abbrustolite.

  • “Doveva informarsi”, “Doveva essere lei”, “L’ignoranza non è ammessa”, “Mancano i seguenti documenti”

Il reato di lesa maestà non può restare impunito, a lasciar correre anche una sola volta si aprirebbe una falla fatale. L’errore è inammissibile, le scuse inimmaginabili, chi ha sventolato il vessillo del buon senso va punito come esempio per gli altri. Per additarlo colpevole è sufficiente un termine scaduto, un documento stantio, una precedente normativa abrogata ma non troppo, una fotocopia che non si legge bene, l’approssimarsi dell’orario di chiusura. E se ancora, novello Enrico Toti, non si arrende allora la minaccia: “Lei non sa cosa rischia!”

  • “Deve ritornare”

Non è una rottura definitiva, entrambi sanno di non poter fare a meno dell’altro, sono condannati a convivere. E torna alla mente quella sera di aprile su ponte Garibaldi a guardarle le spalle impiccolirsi in prospettiva, nelle orecchie “possiamo restare amici, no?”, nelle mani un mazzetto di roselline, negli occhi il tevere esondante. Ora nelle mani una pratica.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

La Terapia dell’Esposizione Narrativa: ridonare un significato alla vita e al dolore delle esperienze traumatiche attraverso la narrazione

La Terapia dell’Esposizione Narrativa (Narrative Exposure Therapy – NET) è una terapia a breve termine per individui che manifestano i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico a seguito di esperienze traumatiche. Il trattamento prevede l’esposizione emotiva ai ricordi degli eventi traumatici e la riorganizzazione di questi ricordi in una coerente narrazione cronologica di vita. Questo tipo di terapia è oggi utilizzata soprattutto con le persone vittime di violenza ripetuta, torture, calamità naturali e discirminazioni politico-religiose, come i migranti.

Violenza organizzata, PTSD e Terapia dell’Esposizione Narrativa

La Terapia dell’Esposizione Narrativa è una tecnica oggi utilizzata soprattutto nel trattamento di persone vittime di violenza organizzata e ripetuta. Con l’espressione violenza organizzata si fa riferimento a quei fenomeni violenti alla base dei quali vi è una strategia sistematica messa in atto da membri di gruppi con struttura centralizzata o con specifico orientamento politico (organizzazioni di ribelli, organizzazioni terroristiche, organizzazioni paramilitari e unità militari). Tale violenza viene agita nei confronti di individui con differenti orientamenti politici o differenti nazionalità e/o diversi background culturali, etnici e razziali. La violenza organizzata è caratterizzata dalla sistematica violazione dei diritti umani.

Il carattere prolungato e ripetuto di questo tipo di violenza mette le vittime di fronte a un continuo stato di stress e allarme che la mente umana difficilmente può tollerare a lungo. Si sviluppano così delle strategie di sopravvivenza che restano attive anche dopo molto tempo dall’esposizione a stimoli traumatici o a situazioni di pericolo: allerta persistente, flashback e ricordi intrusivi, intense reazioni emotive (soprattutto di collera) anche a stimoli ambientali lievemente pericolosi. Si va così incontro allo svilupparsi di un vero e proprio Disturbo da Stress Post-Traumatico e agli effetti negativi sulla salute mentale e fisica che da questo derivano.

Come intervenire, dunque, in questi casi? Uno dei metodi attualmente utilizzati è la Terapia dell’Esposizione Narrativa (NET) sviluppata da Schauer, Neuner, Elbert.

La Terapia dell’Esposizione Narrativa si basa sulla narrazione degli eventi traumatici come strumento terapeutico per raggiungere due importanti obiettivi clinici: ridurre i sintomi correlati al trauma e favorire una ricostruzione coerente della propria storia, utile a recuperare la propria identità e la dignità personale.

La Terapia dell’Esposizione Narrativa: come nasce

Neuner, Schauer, Elbert, & Roth (2002) hanno sviluppato la Terapia dell’Esposizione Narrativa come approccio standardizzato a breve termine, basandosi sui principi della terapia espositiva utilizzata nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, adattandola ai bisogni degli individui traumatizzati sopravvissuti a guerre e torture.

Nella terapia espositiva viene chiesto di parlare ripetutamente del peggior evento traumatico, nel dettaglio, portando il paziente a rivivere tutte le emozioni associate all’evento. Attraverso questo processo, la maggior parte dei pazienti subisce un “abituarsi” alla risposta emotiva scatenata dalla memoria traumatica, che di conseguenza, col tempo, porta a una remissione dei sintomi del PTSD.

A volte però la maggior parte delle vittime di violenza ha sperimentato molti eventi traumatici ed è spesso impossibile identificare l’evento peggiore prima del trattamento. Per superare questa difficoltà, Neuner, Schauer, Elbert, & Roth hanno integrato al loro approccio alcuni aspetti della terapia della testimonianza, un metodo di terapia creato da Lira e Weinstein (pubblicato sotto gli pseudonimi Cienfuegos e Monelli, 1983) per curare i sopravvissuti traumatizzati dal regime di Pinochet in Cile. In questo caso, infatti, invece di definire un singolo evento traumatico come bersaglio della terapia espositiva, il paziente costruisce una narrazione della sua intera vita, dalla nascita fino alla situazione attuale, mentre si concentra su una relazione dettagliata delle esperienze traumatiche.

L’obiettivo della procedura della Terapia dell’Espositizione Narrativa è duplice: come con la terapia espositiva, il primo obiettivo è ridurre i sintomi del PTSD, facendo confrontare il paziente con i ricordi dell’evento traumatico. Tuttavia, teorie recenti sul PTSD e sull’elaborazione emotiva, suggeriscono che l’assuefazione delle risposte emotive è solo uno dei meccanismi per il miglioramento dei sintomi. Altre teorie suggerisco che la distorsione della memoria autobiografica esplicita degli eventi traumatici porta a una narrativa frammentaria di ricordi traumatici, che si traducono nel mantenimento dei sintomi del PTSD (Ehlers & Clark, 2000).

Quindi, la ricostruzione della memoria autobiografica e una narrazione coerente dovrebbero essere utilizzate in concomitanza con la terapia di esposizione. La Terapia dell’Esposizione Narrativa pone l’accento su entrambi i metodi, cioè l’assuefazione della risposta emotiva al richiamo di eventi traumatici e la costruzione di una narrativa dettagliata dell’evento e delle sue conseguenze (Neuner, Schauer, Elbert, & Roth, 2002).

Il trauma infatti rende la memoria frammentata e questo rischia di alterare i ricordi o la loro precisa collocazione nel tempo, generando inevitabile confusione nella vittima, dubbi sulla veridicità degli eventi e sulle responsabilità degli stessi, elementi che sul piano clinico possono mantenere e peggiorare il malessere psicologico.

Nella Terapia dell’Esposizione Narrativa il paziente parla ripetutamente di ogni evento traumatico in dettaglio, mentre fa di nuovo esperienza delle emozioni, delle cognizioni, delle sensazioni fisiologiche e sensoriali e dei comportamenti associati all’evento. Allo stesso modo il paziente racconta le esperienze positive. Con l’aiuto e la guida del terapeuta, il paziente costruisce una narrazione della sua vita, focalizzandosi sui dettagli del contesto relativi alle esperienze traumatiche, così come sugli elementi importanti delle reti emozionali e su come tutte queste parti siano tra loro connesse. Il processo narrativo permette di riconoscere che la rete della memoria incentrata sulla paura, che nel presente provoca i sintomi di allerta, viene da esperienze passate e che la sua riattivazione nel racconto è nient’altro che un ricordo di quelle esperienze. Attraverso la narrazione ripetuta i pazienti perdono la risposta emotiva al ricordo degli eventi traumatici, il che porta alla lenta remissione dei sintomi post-traumatici. Allo stesso tempo guadagnano l’accesso ai ricordi passati e sviluppano un senso di coerenza, controllo e integrazione.

Terapia dell’Esposizione Narrativa: i principi teorici

Lo stress attiva prevalentemente due aree del cervello: l’ippocampo, coinvolto nei processi di memoria, con l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene – HPA- che regola il rilascio di cortisolo, e l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione delle emozioni (Schauer at al, 2011). Dinnanzi a un evento traumatico, nelle persone che sviluppano un PTSD, l’alterazione del funzionamento di queste aree cerebrali porta al formarsi di memorie persistenti e invasive e a un recupero compromesso della memoria.

Il modello di elaborazione cognitiva postula che il PTSD derivi da una narrativa frammentata mantenuta da una memoria autobiografica del trauma distorta e distaccata. (Schauer at al, 2011; Ehlers e Clark, 2000) La teoria dell’elaborazione emozionale del PTSD, inoltre, postula che traumi ripetuti danneggiano l’amigdala responsabile della regolazione emotiva (Schauer at al, 2011). Di conseguenza, a seguito di un trauma, la memoria emotiva e autobiografica si frammentano e ciò porta a un funzionamento alterato che provoca iperarousal, dissociazione, flashback, evitamento e depressione (Volpe et al, 2017).

La Terapia dell’ Esposizione Narrativa si mostra promettente per il trattamento del PTSD e della depressione correlata all’esperienza di traumi multipli (Schauer at al, 2011; Robjant e Fazel 2010; McPherson, 2012) in quanto mira a ricostruire i ricordi e la regolazione emotiva associata, inclusi gli eventi traumatici, fornendo dei significati alle esperienze vissute e un’integrazione sensoriale, in un contesto sicuro quale quello della relazione terapeutica (Schauer at al, 2011). La Terapia dell’Esposizione Narrativa opera focalizzandosi sull’intera vita dei pazienti (Schauer at al, 2011): le sessioni di terapia individuale consentono al paziente di rivedere tutti gli eventi positivi e negativi significativi nella propria vita, rallentando e soffermandosi nell’esposizione dei ricordi traumatici più problematici. Il terapeuta assiste il paziente nell’integrare memorie frammentarie in un’autobiografia coerente e contestualizzata in accordo con una risposta emotiva adattiva (Schauer at al, 2011).

La Terapia dell’Esposizione Narrativa, seguendo i principi della CBT, mira a cambiare il comportamento e le emozioni, affrontando il pensiero disfunzionale attraverso la ricostruzione della memoria autobiografica (Schauer at al, 2011). In particolare, cerca di ridurre i sintomi del PTSD ricostruendo il modo in cui la persona pensa e reagisce ai traumi e agli stimoli ad essi collegati. In questo senso, la Terapia dell’Esposizione Narrativa segue il modello dell’ elaborazione cognitiva e il terapeuta guida il cliente a correggere la narrativa frammentata mantenuta attraverso la memoria autobiografica distorta e distaccata del trauma (Schauer at al, 2011; Ehlers e Clark, 2000). D’altra parte, la Terapia dell’Esposizione Narrativa si basa anche sulla teoria dell’elaborazione emotiva, sostenendo che l’esposizione ripetuta favorisce l’assuefazione alle risposte emotive riducendo così i sintomi del PTSD (Schauer at al, 2011).

Il processo terapeutico nella Terapia dell’Esposizione Narrativa

La Terapia dell’Esposizione Narrativa è un trattamento a breve termine; tipicamente si conclude in 8-12 sessioni (Schauer at al, 2011), anche se, recenti studi hanno mostrato l’efficacia di questa Terapia anche con un numero inferiore di sessioni, dalle 3 alle 6 (Schaal et al, 2009; Neuner et al. 2008; Zang et al., 2013; Hijazi et al. 2014; Bichescu et al. 2007). Tuttavia è sempre bene che sia il terapeuta a determinare il numero di sessioni in base alla gravità e alla quantità degli eventi traumatici subiti.

Gli elementi della Terapia dell’Esposizione Narrativa (Schauer et al. 2014) che risultano efficaci nel trattamento del trauma sono:

  1. Ricostruzione cronologica attiva della memoria autobiografica/episodica;
  2. Esposizione prolungata ai “punti caldi” della memoria e piena riattivazione dei ricordi dolorosi per modificare la rete emotiva attraverso il racconto (es. imparare a distinguere memoria traumatica dalla sua risposta emotiva condizionata, separare piani temporali, comprendere che gli stimoli sono solo temporaneamente associati alla sofferenza attuale);
  3. Associazione significativa e integrazione delle risposte fisiologiche, sensoriali, cognitive ed emotive all’ interno del proprio contesto di vita spazio-temporale (es. comprensione del contesto originario di acquisizione e del riemergere delle risposte condizionate nel corso della vita);
  4. Rivalutazione cognitiva del comportamento (es. distorsioni cognitive, pensieri automatici, credenze, risposte);
  5. Rivisitazione delle esperienze di vita positive per un supporto (mentale) e per aggiustare le assunzioni di base su di sé e sulla propria storia;
  6. Recupero della dignità personale attraverso la soddisfazione del bisogno di riconoscimento e attraverso l’orientamento sui diritti umani alla “testimonianza”.

La Terapia dell’Esposizione Narrativa con bambini e adolescenti

La Terapia dell’Esposizione Narrativa è applicabile anche con bambini e adolescenti. In questo caso il protocollo a cui si fa riferimento è quello illustrato nel manuale kidNET, una versione modificata del manuale NET, che include l’uso di materiali illustrativi tra cui disegni e giochi di ruolo per aiutare i bambini a ricostruire i ricordi. Inoltre, il terapeuta estende la narrazione oltre il presente per discutere le speranze e le aspirazioni future (Onyut, 2005). Gli studi hanno mostrato come la Terapia dell’Esposizione Narrativa abbia risultati positivi anche nei bambini e negli adolescenti (Catani et al. 2009; Ertl et al. 2011)

La Terapia dell’Esposizione Narrativa ha il vantaggio di essere un protocollo standardizzato e organizzato in fasi ben precise. La procedura per fasi e la presenza delle evidenze empiriche positive, rende il protocollo di Schauer e colleghi un validissimo riferimento per gli operatori e i terapeuti che lavorano pazienti sopravvissuti a violenze organizzate di diverso tipo ma anche a storie costellate da esperienze traumatiche ripetute.

Condividi ma non condivido: analfabetismo emotivo ed empatia nell’era dei social

L’ analfabetismo emotivo si diffonde online? Le emozioni che frequentemente traspaiono online su temi molto dibattuti nel web sono emozioni di rabbia e frustrazione ma non è l’emozione in sé a preoccupare, oltre all’emozione c’è di più: c’è una mancata regolazione emotiva, c’è una tendenza all’azione, c’è una totale cecità verso l’altro.

Leoni da tastiera: quando la rabbia è online

Nell’ultimo periodo lo scorrere delle bacheche dei social si fa sempre più prevedibile e, tra i selfie di amici che non vedi da una vita dei quali ti fermi a osservare le inspiegabili rughe chiedendoti se anche su di te l’età sta avanzando in quel modo così inesorabile, è facile trovare numerose e fantasiose fake news condivise con tanto di post personale degli utenti che commentano l’articolo (o il più delle volte solo il titolo!) urlando allo scandalo con un trasporto emotivo tale da far invidia al grido “Adriana!” del caro vecchio (e malconcio) Rocky. Leggendo i commenti il quadro non cambia: si difende la propria posizione con le unghie e con i denti, anche al costo di offendere pesantemente chi espone un punto di vista diverso o mostra la falsità della notizia. Non è solo il fenomeno fake news a preoccupare (esatto, preoccupare), altrettanto degni di nota sono i post scritti da persone con un forte impatto mediatico (e sì, mi riferisco anche e soprattutto ai politici) su temi ben prevedibili: vaccini e immigrazione tanto per fare un esempio. I commenti a questi post? Leggasi sopra: “si difende la propria posizione con le unghie e con i denti, anche al costo di offendere pesantemente chi espone un punto di vista diverso”.

Lungi dal difendere uno o più di quei punti di vista sui temi di cui tanto si dibatte sui social, il punto della situazione è un altro. Se fin qui, dei commenti inappropriati e aggressivi verso persone sconosciute (ma forse non abbastanza per credere di sapere quale appellativo sia più o meno appropriato per offendere) non preoccupano, dovrebbero preoccupare le altre manifestazioni comportamentali a cui tutto questo porta. Sono infatti molto frequenti i casi in cui chi ha mostrato un’opinione diversa nel coro di commenti che all’unisono difendono un’idea, è stato letteralmente invaso da centinaia (a volte migliaia) di messaggi privati sul proprio profilo. Il contenuto di questi messaggi? Non certo un invito a confrontarsi sulla tematica pomo della discordia in maniera civile e aperta, ma una sfilza di parolacce, turpiloqui, offese e addirittura minacce (al solo commentatore fuori dal coro se si è fortunati, all’intera sua famiglia se si è un po’ meno fortunati). E non è tutto: la veemente difesa così tanto portata avanti sui social a volte sconfina dallo schermo e i leoni da tastiera si fanno strada nella vita reale. Appoggiati da quei personaggi amati e famosi che tanto scrivono su quel tema e supportati da centinaia di altri impetuosi commentatori, ci si sente quasi giustificati a difendere le proprie convinzioni anche con l’altro che si palesa davanti a noi, al supermercato per esempio, al parco, in piscina o sul treno!

Le uniche emozioni che traspaiono in questo quadro sono emozioni di rabbia e frustrazione. Non è l’emozione in sé a preoccupare, tutti possiamo provare rabbia dinnanzi a una frase dai contenuti per noi non condivisibili. Oltre l’emozione c’è di più: c’è una mancata regolazione emotiva, c’è una tendenza all’azione, c’è una totale cecità verso l’altro.

Spesso si è parlato, a questo riguardo, di analfabetismo funzionale, riferendosi soprattutto alla condivisione di post e false notizie derivate da una comprensione poco chiara di ciò che si legge, ma come si spiega la deriva comportamentale a cui spesso si assiste e che si fa largo, per l’appunto, attraverso attacchi scritti nei commenti e successivamente attraverso attacchi verbali e dal vivo? A questo riguardo si può citare un altro tipo di analfabetismo che potrebbe essere alla base di tutto ciò: l’ analfabetismo emotivo.

Dall’ Intelligenza emotiva all’analfabetismo emotivo

Definita per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come: “La capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il prorio pensiero e le proprie azioni”, l’ Intelligenza Emotiva racchiude al suo interno quelle capacità di consapevolezza e padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nelle gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano.

L’ intelligenza emotiva viene definita come quell’abilità di riconoscimento e comprensione delle emozioni sia in se stessi che negli altri e di utilizzo di tale consapevolezza nella gestione e nel miglioramento del proprio comportamento e delle relazioni con gli altri.

L’ autore che resta più influente in tema Intelligenza Emotiva è Goleman che, alla base dell’intelligenza emotiva, individua due tipi di competenze, ognuna caratterizzata da specifiche caratteristiche:

La prima competenza è quella Personale, ovvero come controlliamo noi stessi. Essa si caratterizza per:

  • Consapevolezza di Sé: capacità di riconoscere le proprie emozioni, i propri limiti e le proprie risorse ed avere sicurezza nelle proprie capacità;
  • Padronanza di Sé: saper dominare i propri stati interiori, saper guidare gli impulsi e sapersi adattare e sentirsi a proprio agio in nuove situazioni;
  • Motivazione: spinta a realizzare i propri obiettivi sapendo cogliere le occasioni che gli si presentano, impegnandosi nonostante le possibili avversità.

La seconda competenza è quella Sociale: ossia il modo in cui gestiamo le relazioni con l’Altro. Questa capacità è caratterizzata da:

  • Empatia, intesa come la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui.
  • Abilità sociali, ossia tutte quelle abilità che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili. Si va dall’utilizzo di tattiche di persuasione efficienti, al saper comunicare in maniera chiara e convincente, così da saper guidare il gruppo sia in un eventuale cambiamento, sia nel risolvere eventuali disaccordi. Rientra inoltre nell’abilità sociale il cercare di favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni.

Lo stesso Goleman afferma che questi concetti vanno appresi in tenera età: possono essere insegnati ai bambini, mettendoli nelle migliori condizioni per far fruttare qualunque talento intellettuale la genetica abbia dato loro (Goleman, 1995).

Cosa accade quando non si sviluppa l’ Intelligenza Emotiva? Si corre il rischio di diventare analfabeti emotivi (o analfabeti emozionali), ovvero si diventa incapaci di riconoscere e controllare le proprie emozioni, e si ha difficoltà a riconoscere anche le emozioni altrui, il che rende incapaci di provare empatia e compassione; un analfabeta emotivo è quindi freddo, imprevedibile.

Secondo Goleman, la consapevolezza delle proprie emozioni diventa piuttosto bassa: le dinamiche emotive sono scarsamente conosciute e risulta arduo, se non impossibile, attribuire a sé stessi il potere di influenzare i propri stati emotivi. E’ in questa inadeguatezza che ha radice l’ analfabetismo emotivo (Pacchin, 2011).

Umberto Galimberti, uno tra i più noti e influenti filosofi italiani dei nostri tempi, ha approfonditamente analizzato il fenomeno dell’ analfabetismo emotivo, soprattutto tra i più giovani. Come egli stesso scrive:

Nel nostro tempo caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e da carenza di comunicazione, si avvertono i segnali di quella indifferenza emotiva per effetto della quale non si ha risonanza emozionale di fronte a fatti a cui si assiste o a gesti che si compiono (Galimberti, 2009).

La violenza diventa pratica normale, è aggressività indefinibile, futile, casuale. Manca una educazione emotiva e quindi un’educazione ai comportamenti e alle relazioni (Pacchin, 2011; Galimberti, 2009).

E così, estendendo tale visione anche agli adulti a cui è mancata un’adeguata educazione emotiva, è facile spiegare come mai si assiste a una sempre più rabbiosa e aggressiva difesa verso chi mostra pensieri contrari ai nostri, a partire dai social network fino alla vita reale.

Facile il rimando al bullismo, spesso relegato a fenomeno manifesto tra i più piccoli, che si caratterizza per comportamenti aggressivi, intenzionali e ripetitivi di tipo verbale, fisico, psicologico e, sopresa, anche cibernetico (Pacchin, 2011) ma che nulla ha di diverso da ciò a cui noi oggi assistiamo online. Di fondo si assiste alla difficoltà della vittima di difendersi e alla volontà del bullo di nuocere per ottenere dei vantaggi o semplicemente per il piacere emotivo di umiliare l’altro (Roland, 2001).

Galimberti, analizzando famosi casi di cronaca nera in cui i fautori di gesti violenti sono i più giovani, si chiede se il mondo emotivo non sia oggi vissuto come un ospite sconosciuto a cui non si sa dare neppure un nome.

Chi mostra analfabetismo emotivo si muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile e quindi con una vigilanza aggressiva spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto come un potenziale nemico (Galimberti, 2002).

Analfabetismo emotivo e empatia

Chi è dotato di alti livelli di Intelligenza Emotiva sa riconoscere le emozioni in se stesso, le sa padroneggiare e gestire e questo consente di mettere in atto comportamenti più funzionali alle situazioni sociali. In particolare, alti livelli di Intelligenza Emotiva ci consentono di essere empatici verso gli altri, capirli e saperci mettere nei loro panni.

Abbiamo visto come per Daniel Goleman l’educazione delle emozioni porta a sviluppare l’ empatia intesa come capacità di percepire le esigenze dell’altro, mostrandosi pronti a soddisfare le sue esigenze e aiutarlo cercando di mettere in risalto quelle che sono le sue risorse. L’ empatia, per Goleman, è anche la capacità di individuare e coltivare le opportunità che vengono offerte dall’incontro con persone di diverso tipo, e il saper interagire all’interno di un gruppo sulla base dell’interpretazione delle correnti emotive e dei rapporti di potere esistenti nel gruppo stesso.

Per Galimberti, l’ analfabetismo emotivo porta a un timore eccessivo e quindi a un atteggiamento aggressivo verso l’altro, percepito spesso come un potenziale nemico.

Quindi, se già dalla più tenera età, non si ha accesso a un’adeguata educazione emotiva, ciò che se ne ricava è una poco sviluppata empatia verso l’altro, unita al timore della diversità delle persone e alla scarsa capacità di regolare le proprie emozioni: tutti effetti dell’ analfabetismo emotivo dunque.

Analfabetismo emotivo e il ruolo del corpo

Riva (2010) ha sottolineato come un eccessivo uso delle piattaforme social possa favorire il disinteresse emotivo dei soggetti legato ad un loro deficit di lettura delle emozioni altrui. Comunicando tramite un post, una foto, un link, una notifica, etc. la mancanza del corpo toglie tutta una serie di informazioni presenti nell’interazione face-to-face. Anche l’attività dei neuroni specchio diventerebbe deficitaria in assenza di un corpo. Quando gli interlocutori sono privati della presenza del corpo e interagiscono assiduamente attraverso un medium, aumenta il rischio di favorire l’ analfabetismo emotivo (Goleman, 2011).

Cosa fare per contrastare il dilagare dell’ analfabetismo emotivo?

L’ analfabetismo emotivo è dunque alla base di un mancato riconoscimento delle proprie emozioni e della capacità di gestirle, nonché della scarsa empatia verso l’altro e dunque dei comportamenti irrispettosi verso chi non la pensa come noi. Quel che spesso accade sui social potrebbe dirsi la manifestazione di questo: vedo un post su un argomento che mi indigna, provo rabbia, frustrazione, commento con toni forti mostrando la mia opinione. Ma accade altro: una persona mi dice che ho torto, la rabbia aumenta e la gestisco offendendo l’altro, andando sul suo profilo personale, vedendo le sue foto in modo da cercare altri spunti per rendere le offese più dirette, magari in un messaggio privato. E forse, forte di un’altra schiera di commentatori che la pensa come me e usa i miei stessi mezzi per far capire le ingiustizie (e qui si potrebbe aprire un’altra parentesi di psicologia sociale sull’identità sociale), mi sento autorizzato a estendere questi comportamenti al di fuori, anche nella vita reale.

Sembra mancare, oggigiorno, l’ educazione emotiva. L’ educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quelle precedenti, perché prive di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare.

La famiglia è il primo contesto in cui si apprende la conoscenza e la gestione della vita emotiva, non solo attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate al bambino, ma anche attraverso i modelli che gli offrono mostrandogli come gestiscono i loro sentimenti e la propria relazione coniugale. Avere dei genitori intelligenti, sotto il profilo emotivo, è una fonte di beneficio per il bambino.

I bambini che imparano a gestire le proprie emozioni e a controllare i propri istinti tollerano meglio le situazioni stressanti, imparano a comunicare meglio i propri stati emozionali e sono in grado di sviluppare relazioni positive con la famiglia e gli amici e ottengono maggiori successi a scuola.

Tra i programmi più efficaci, di cui anche Goleman parla nel suo libro Intelligenza emotiva, vi sono i programmi di alfabetizzazione emotiva che si attuano nelle scuole; si richiede che “gli insegnanti e gli studenti si concentrino sul tessuto emozionale. Si sceglie un “argomento del giorno” che può andare dalle tensioni ai traumi presenti nella vita dei bambini, e se ne parla facendo riferimento a questioni concrete: del dolore di sentirsi esclusi, dell’invidia e dei contrasti che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola (Goleman, 1995).

Nel contrasto alla scarsa lettura delle emozioni dell’altro, un famoso blog americano sembra aver fatto dei notevoli passi avanti: Brendon Stanton, mosso dall’intento di promuovere comportamenti funzionali alla crescita della competenza emotiva sui social network, ha pensato di predisporre nel suo blog quella dose di informazioni in grado di favorire la lettura efficace delle emozioni altrui. Humans of New York, questo il nome del blog, è nato da un progetto personale di fare un censimento fotografico di New York: camminare per le vie della città, chiedere ai passanti di poterli fotografare, pubblicare le foto categorizzandole per borghi. L’incontro con lo sconosciuto e l’inevitabile scambio di parole, ha portato Brendon a integrare una variante alla sua idea originaria: associare alla fotografia pubblicata, una didascalia che ripercorresse uno stralcio di conversazione con il soggetto della fotografia stessa. I fans e i followers vedono, leggono, commentano, condividono, ma soprattutto sembrano esperire le storie raccontate come proprie: tra le righe dei commenti si possono trovare parole di supporto per storie tristi, di approvazione per quelle di successo, di stupore per quelle bizzarre e così via.

Nel ruolo di operatori della salute mentale è nostro dovere sensibilizzare le persone, i genitori e gli insegnanti in primis, all’importanza di un’adeguata educazione emotiva e contrastare così l’espandersi dell’ analfabetismo emotivo e dei fenomeni a cui spesso oggi, purtroppo, siamo abituati ad assistere online e dal vivo.

Nella vita quotidiana ci si trova spesso di fronte a idee poco condivisibili, che si possono controbattere o meno, l’importante è farlo nel pieno rispetto di chi espone tali idee, sia che si trovi davanti a noi, vis-à-vis, sia che si trovi dall’altra parte dello schermo.

 

Complimenti per la trasmissione – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 36

Le manifestazioni più inspiegabili della mente umana si nascondono nelle pieghe dell’esistenza quotidiana e passano fischiettando disinvolte, certe di non essere notate.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Complimenti per la trasmissione (Nr. 36)

 

La mente umana è affascinante e la sua straordinaria grandezza, già evidente nel consentirci un adattamento sempre nuovo alle mutevoli condizioni del mondo e spesso una garrula vita di relazione, si evidenzia ancora di più nelle sue espressioni più estreme da cui l’interesse per le forme più bizzarre di psicopatologia e, più in generale di devianza.

Forse la smania di trovare un senso nell’insensato, una ragione plausibile nel comportamento dei serial killer e di tante altre bizzarrie estreme è il tentativo di normalizzarle per rassicurarsi che il vero insensato, incomprensibile, indominabile non esiste.

Forse è lo stesso motivo per cui il magico, il soprannaturale, il misterioso mi hanno sempre inquietato anche nel tempo in cui il mondo delle fate e dei folletti doveva essere benevolo e verso esso e i terrori confinanti ho alzato barriere difensive di razionalismo a buon mercato. L’esercito del misterioso tuttavia non s’arrende e bivacca da anni assediando la fortezza e seduce, ammorbidendone la vigilanza, le sentinelle sugli spalti.

Le manifestazioni inspiegabili della mente nella vita quotidiana

Le manifestazioni più inspiegabili della mente umana si nascondono anche nelle pieghe dell’esistenza quotidiana e passano fischiettando disinvolte, certe di non essere notate (pensano forse “non sono mica un drago a tre teste che sputa fiamme”).

Una che osservo da tempo sono le telefonate degli ascoltatori alle trasmissioni radio. Soprattutto d’estate quando in vacanza, ai conduttori esperti, subentrano nuove reclute che stentano ad intrattenersi tra loro. Partendo dalle loro vicende personali di cui un canale nazionale con tanto di canone non poteva fare a meno, lanciano temi di riflessione da condividere come “perchè preferire il mare o la montagna”, “come liberarsi delle zanzare senza macchiare i muri bianchi”, “dieci escamotage per gestire l’inaspettato arrivo dei suoceri”, “lo scherzo più bello da fare ai vicini che tanto non rivedrete mai più”.

Loro sono di scarso interesse ma un segnale che ci permette di intravedere o almeno ipotizzare gli estremi confini frattali della mente sono le telefonate degli ascoltatori che prontamente giungono.

Attenzione, non parlo di programmi storici e classici con un pubblico fidelizzato che si ritrova su internet e spesso in raduni annuali; no, si tratta di programmi del tutto nuovi che durano al massimo due mesi.

La domanda è cosa spinga una persona a segnarsi al volo il numero telefonico annunciato e chiamare, magari col vivavoce mentre guidano o comunque sospendendo ciò che stanno facendo per raccontare all’Italia intera la prima volta che la loro cagnolina ha toccato l’acqua del mare oppure la schienata dell’amico obeso quando si è rotta la corda dell’amaca o dello scompiglio creato dal geco caduto sulla tavola dalla pergola. I solerti conduttori non paghi e quasi increduli di quanto stanno ascoltando sollecitano la rapida messa delle immagini dell’evento sul sito della trasmissione.

Mosul sarà pure caduta, Al-baghdadi i giorni pari è morto e i dispari è vivo, ma noi comunque dove possiamo andare?

PS: Tranquilli Al Jazeera sembra meglio solo perché io non capisco l’arabo.

PPS: Sbaglio a parlare di cose che non ho sperimentato, oggi chiamo il Ruggito del coniglio perché un laccio del costume ha bloccato la guarnizione della lavatrice e stanotte mi si è allagato il bagno: un esperienza indimenticabile!

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il crollo del ponte Morandi, l’impatto psicologico e le sue conseguenze

Il 14 agosto è una data che resterà impressa nel cuore dei genovesi e non solo: il ponte Morandi, snodo cruciale per il collegamento tra il Levante e il Ponente ligure, si è sgretolato sotto le ruote delle persone che lo stavano attraversando sui loro mezzi, davanti agli di occhi di abitanti e passanti, sopra le teste dei residenti e di chi lavorava lungo il torrente Polcevera.

Laura Casnaghi, Mara Soliani e Gabriele Caselli (Psicoterapia e Scienze Cognitive, Genova)

 

Un evento del genere provoca sgomento, paura, e terrore difficili da dimenticare per chi ha vissuto l’evento in prima persona, per chi l’ha visto accadere, per chi ha preso parte ai soccorsi che si sono attivati subito dopo il dramma.

Da subito il terrore di aver perso qualcuno ha attanagliato le persone che a Genova vivono, che in città hanno familiari e amici, che sapevano che i propri cari erano in viaggio sull’autostrada A10. Tutti i liguri hanno vissuto ore drammatiche in cui hanno temuto per qualcuno a loro caro. Molti comuni della riviera hanno annullato i festeggiamenti per il Ferragosto, in segno di lutto. Quando qualcosa crolla e crolla in modo definitivo, paura, angoscia, rabbia e profonda tristezza si susseguono in una morsa di dolore. Quando qualcosa crolla e crolla così ci troviamo di fronte ad un lutto.

Lutto è la parola chiave per capire quello che sta accadendo e potrà accadere nei prossimi mesi alle persone che sono state coinvolte. Il lutto è una condizione psicofisiologica che accompagna il sentimento di perdita di qualcuno, o qualcosa, che aveva un ruolo rilevante nella propria esistenza. E quel ponte, così importante per la viabilità genovese, tra i simboli del capoluogo ligure, era certamente “qualcosa di rilevante per molti”, tanto che uno dei commenti più ricorrenti è “potevo esserci io lì”. L’elaborazione del lutto prevede l’attraversamento di quattro fasi, che possono presentarsi in differenti sequenzialità, con differenti tempistiche e con differente intensità. Queste prevedono la fase della negazione e del rifiuto, la fase della rabbia in cui sono frequenti la ricerca di un colpevole o la presenza di senso di colpa, la fase della depressione che segue generalmente un momento di rivalutazione dell’episodio e delle proprie risorse, infine la fase di rielaborazione del lutto in cui avviene l’accettazione delle nuove condizioni di vita (Kübler Ross, 1990; 2002).

Ancora più intenso, è, e sarà, il sentimento dei famigliari delle vittime del crollo. Nel lutto (Onofri e La Rosa, 2015; Parkes, 2001) sono presenti emozioni diverse, intense e anche contrastanti: le persone in lutto provano profonda tristezza e al contempo intensa collera (sia verso sé stessi, per non aver impedito che la persona cara si trovasse in quella situazione tragica, sia verso coloro ritenuti colpevoli dell’evento), sensi di colpa irrazionali derivanti da pensieri del tipo “se avessi fatto, se avessi detto…” che si riferiscono a qualcosa che avrebbe potuto modificare l’esito dell’accaduto, preoccupazione per la propria incolumità dopo aver avuto un contatto ravvicinato con la morte e con la fragilità della vita, sentimenti di solitudine e di isolamento sociale, ma soprattutto stati di shock emotivo dovuti all’imprevedibilità dell’accaduto e sensazione di stordimento emotivo in cui ci si ritrova incapaci di provare emozioni.

A questi stati emotivi spesso si accompagnano sensazioni fisiche di vuoto gastrico, difficoltà a respirare e a deglutire, mancanza di energia, debolezza, ipersensibilità al rumore e senso di depersonalizzazione (cioè esperienze di irrealtà o sensazioni di essere distaccato dal proprio corpo o dalla propria mente caratterizzate da alterazioni percettive, senso del tempo distorto, intorpidimento) (Lindemann, 1944). Le persone in lutto si sentono incredule e confuse, possono fare molta fatica a distrarsi dal pensiero della perdita, questo può rendere difficile anche compiere attività di routine indispensabili per la sopravvivenza (come mangiare o dormire), temono che distrarsi dal pensiero della persona cara possa essere una mancanza di rispetto o indice di poco affetto nei suoi confronti, possono avere pensieri intrusivi (pensieri percepiti come fastidiosi, e non volontari) del deceduto in situazioni di sofferenza o avere allucinazione visive o uditive. Tutto questo porta spesso ad avere disturbi del sonno (sia nell’addormentamento che con la presenza di risvegli precoci), alterazioni dell’appetito (che può sparire oppure essere molto intenso), irrequietezza e attivazione motoria, desiderio di isolamento. Fin da subito possono essere messi in atto comportamenti di ricerca di oggetti del defunto e di luoghi dove era solito stare (ad esempio andare nella sua camera, cercare foto e immagini, rileggere i messaggi…), o al contrario possono essere messi in atto comportamenti di evitamento, perchè anche solo vedere qualcosa appartenuto alla persona scomparsa diviene insopportabile.

Questa condizione generalmente si attenua fino a permettere il ritorno alla vita pre-lutto in 12-18 mesi: oltre questo periodo di tempo il lutto viene definito patologico per l’incapacità del soggetto di accettare l’ineluttabilità dell’accaduto. Morti improvvise e tragiche possono portare allo sviluppo di un lutto patologico, in particolare in persone che non hanno come risorsa una buona rete sociale, che già in infanzia hanno avuto relazioni problematiche con i genitori o con le figure di riferimento (Bolwby, 1973) o che vivevano una relazione conflittuale con la persona che è mancata (Parkes, 1983).

Le immagini del crollo così come le immagini dell’intervento da parte da parte dei soccorsi sul luogo dell’accaduto hanno toccato il cuore e le anime di molti. A tutti coloro che hanno valorosamente affrontato le macerie va un sentito grazie da parte di tutti noi, ed è importante citare anche le associazioni intervenute per fornire supporto e prevenire l’incorrenza di problemi psicologici. Dopo lo scuotimento e il supporto immediato viene il tempo delle esigenze pratiche, della sopravvivenza, di sistemare le cose sistemabili e lentamente riprendere a vivere senza che la tragedia ci inchiodi nel dolore e nella paura. Certo quelle verranno con noi, per un po’, probabilmente per sempre ma possiamo cominciare facendo piccoli passi verso la ricostruzione.

Dopo aver mosso i primi passi potremmo però accorgerci che certi sintomi non ci abbandonano, infatti un’altra conseguenza psicologica che potrebbe insorgere dopo eventi come quello del crollo del ponte Morandi, è lo sviluppo di Disturbi da Stress Post-Traumatico (PTSD) per chi ha assistito al crollo, per chi ad esso è sopravvissuto, e spesso anche per i soccorritori. Questo disturbo si presenta in persone che hanno assistito a situazioni in cui la propria vita o la vita altrui è stata in pericolo mortale (Liotti e  Farina, 2011). Le persone che soffrono di PTSD hanno difficoltà a gestire i ricordi e i flashback dell’evento, che sembra loro ripresentarsi improvvisamente, reale e vivido, come lo stessero rivivendo. Questa situazione porta ad aumentare la vigilanza e le risposte di allarme, è spesso associata a difficoltà di concentrazione e problemi del sonno. Chi soffre di PTSD può provare intense e inopportune reazioni fisiologiche, difficoltà nel rievocare aspetti importanti dell’evento traumatico, persistenti convinzioni negative su di sé, sugli altri e sul mondo, ricorrenti emozioni negative di terrore, rabbia, senso di colpa o vergogna, in ultimo può insorgere la tendenza ad evitare di ricordare, pensare ed entrare in relazione con persone o cose che riportino all’evento traumatico. Ad esempio dopo il crollo del ponte Morandi, le persone che hanno assistito alla tragedia potrebbero evitare di camminare su ponti o strade rialzate, avere timore di prendere l’auto o di guidare in autostrada, evitare di andare in quel quartiere di Genova o nell’intera città.

Alcuni dei sintomi che sono stati citati possono rappresentare un fenomeno naturale e normale nelle settimane successive ad eventi di questa portata, un effetto di come la mente si riadatta una volta che percepisce un pericolo scampato e cerca di osservare e monitorare se la situazione è sicura. In questo lasso di tempo talvolta preoccuparsi eccessivamente di questi sintomi può essere controproducente, continuare a pensarci può portare ad un aggravamento degli stessi e ostacolare il normale riflesso di adattamento della mente. Non combatterci ma prenderli come il naturale modo con cui la mente si sta riadattando a uno shock e attendere prima di preoccuparsi è un passo cruciale in questa primissima fase. Se però questi segnali anzichè attenuarsi con il trascorrere delle settimane dovessero permanere o addirittura peggiorare, allora vale la pena considerare la possibilità che lo shock rischia di danneggiare la nostra qualità di vita più a lungo di quanto non gli sia naturalmente consentito.

Va ricordato infatti che un evento così grave, improvviso e inaspettato presenta tutte le caratteristiche che incidono sulla probabilità dei presenti di sviluppare un disturbo da stress post traumatico.

Nei prossimi mesi sarà importante monitorare le persone che sono state partecipi di questa tragedia. Invitiamo i loro amici e familiari a fare attenzione a comportamenti particolari e inconsueti: eccessivi comportamenti di evitamento (non prendere più l’automobile, non uscire di casa,…), isolamento, frequenti e persistenti stati di acuta attivazione fisiologica (tachicardia, difficoltà di respirazione, attivazione psicomotoria,…), cambi radicali di routine, negazione di quanto accaduto, atteggiamenti di censura della sofferenza (come mostrare eccessiva freddezza o mancanza totale di coinvolgimento), aumento improvviso dell’operosità e della dedizione al lavoro o ai propri compiti (la così detta “fuga nell’operosità” di Kast, 1996).

Parlare dell’accaduto, rendersi disponibili all’ascolto, fornire supporto pratico ed emotivo, creare situazioni di condivisione, aumentare la presenza, non censurare né ostacolare la manifestazione delle emozioni rispetto a quanto successo, accettare l’immodificabilità dell’evento e smettere di pensare a possibili soluzioni che si potevano mettere in atto per evitarlo sono buone indicazioni per arrivare alla riorganizzazione di sé e alla rielaborazione del trauma (Perdighe e Mancini, 2010).

Se però sentite che questo non basta a avvertite la necessità di un aiuto e supporto maggiore per voi o i vostri cari, non esitate a contattare i centri che offrono supporto per affrontare l’accaduto.

 

Ci sono cadute che non scordiamo mai
ci sono cadute dolorose,
cadute in cui ci facciamo solo un graffio,
cadute in cui quando ci alziamo ci diciamo “mi è andata bene”.
Ci sono cadute da cui alcuni non si rialzano,
mentre ci sono alcuni che vanno ricercando il brivido della caduta per continuare ad illudersi di essere più forti del destino.
Tutti prima o poi cadiamo
Il punto fondamentale non è tanto cadere ma rialzarsi
Ripartire
E continuare ad affrontare la nostra strada
Va fatto per noi stessi, va fatto per chi non ce l’ha fatta, e avrebbe voluto ma non ha potuto rialzarsi.
Ha fatto male,
fa male,
lo farà ancora e forse per sempre
ma per chi si è rialzato,
per chi può rialzarsi,
continuiamo a respirare,
continuiamo a camminare,
continuiamo a crearci sempre e di nuovo

(Mara Soliani)

La verità è enormemente sopravvalutata: la diagnosi differenziale tra pseudologia fantastica e confabulazione

Da piccolo, avrò avuto tra i 5 e i 10 anni, mi trascinavano a comprare i vestiti (la biancheria immancabile regalo di Natale proveniva dalle bancarelle del mercato rionale) in un negozietto all’angolo di via Piave che si chiamava “La Madre di famiglia”.

 

Si andava lì sia perchè molto più economico dei grandi magazzini adiacenti (la lussuosa Rinascente di piazza Fiume con il suo avverinistico palazzo con le scale mobili, orgoglio della ricostruzione del dopo guerra che aveva aperto da poco) e sia perché i gestori regalavano ai clienti bambini un palloncino gonfiato con l’elio con il nome del negozio. Era esattamente per questo secondo motivo che si aggiungeva alla più generale insofferenza di ogni bambino alle prove degli indumenti, che cercavo in ogni modo di evitare “La madre di famiglia”.

Potrei proporre argute interpretazioni psicoanalitiche sulla mia avversione, collegando la perdita di mia madre e il nome del negozio. Sarebbe bello e commovente ma falso come una moneta da 3€. Non era ciò che mi dicevo allora almeno coscientemente, anzi quello era il tempo in cui dell’essere orfano di madre avvertivo soprattutto gli innumerevoli vantaggi sociali che mi hanno poi indirizzato alla efficace strategia relazionale del “poveretto me!!”.

Il fatto è che durante il percorso verso casa il palloncino legato con un filo al mio polso sinistro si librava guizzante proteso verso il cielo (talvolta il filo si spezzava e mi struggeva vederlo scomparire in quell’infinito azzurro dove mi dicevano, senza che li abbia mai creduti, si collocavano gioiosi tutti gli assenti insieme agli angeli, i babbi natali e le befane della compagnia del bambinello sempre vigilante e pronto a lacrimare ad ogni mia disobbedienza), ma una volta giunti a casa veniva staccato dal polso e raggiungeva il soffitto nello sgabuzzino in fondo al corridoio. Siccome spettava un palloncino per ogni capo di abbigliamento acquistato di importo superiore alle cinquemila lire a volte tornavo a casa anche con tre e persino quattro palloncini di colori diversi tanto più sbiaditi quanto più gonfiati e con la superficie tesa. Gagliardi si spalleggiavano affollandosi verso il soffitto ed immaginavo si tenessero compagnia l’un l’altro, soprattutto la notte con la luce spenta. Col passare dei giorni (metafora della vita?) perdevano turgidità, si ammosciavano e la superficie si increspava di rughe. La visione di questo progressivo avvizzimento mi procurava una melmosa malinconia in cui mi pareva di sprofondare specialmente al tramonto. Almeno due volte, mosso da pietas raggiunsi con uno sgabello il filo del palloncino più sgonfio – e dunque più calato degli altri- per porre fine con uno spillo da balia di nonna a quelle che reputavo le sue indicibili sofferenze. Ero evidentemente fin da allora favorevole all’eutanasia.

Quando compravo un nuovo disco in vinile a 45 o 33 giri lo facevo ascoltare a tutti gli altri che già avevo perché non si sentissero trascurati e lo accogliessero benevolenti tra loro. Procedura analoga quantunque più sbrigativa valeva anche per i libri: la presentazione si limitava alla lettura della copertina e ad un rapido sfogliare per tre volte le pagine in cui sarebbe stato facile intuire la tendenza ossessivo-compulsiva in seguito perfezionatasi.

Alle elementari durante la ricreazione la maestra Maria Eleonora Vincenti mi chiamava alla cattedra a raccontare una storia che dovevo inventare in diretta con due o tre elementi che mi forniva lei per tenere buoni gli altri bambini. Il giorno successivo la storia continuava come in una serie tv aggiustata secondo le richieste degli amichetti e soprattutto delle ragazzine più carine.

Dopo un intenso apprendistato autoerotico su zie, cuginette, domestiche e insegnanti con l’aiuto del catalogo di intimo di postal market e qualche esplorazione omosessuale, avevo quasi 15 anni quando la mia ragazza di allora venne a trovarmi accompagnata da un’altra compagna di classe al campo scout nel parco nazionale d’Abruzzo e, sperando che avrebbe dormito nella mia tendina canadese, mi feci insegnare a baciare da un altro caposquadriglia che millantava una maggiore esperienza, dimostratasi inconsistente la notte stessa proprio con la compagna di classe accompagnatrice. Della notte ho ricordi confusi quantunque vi abbia collocato convenzionalmente il mio primo rapporto sessuale (quante date fondamentali nel percorso di una vita e della Storia stessa sono di fatto convenzionali perché la maggior parte delle transizioni sono un continuum senza soluzioni e gradini netti). Molto più nitida è l’immagine della lambretta 125 bianca con l’odore della miscela al due per cento che mio padre mi comprò a patto che lasciassi quella ragazza che giudicava una poco di buono. Cedetti immediatamente al ricatto ma poiché non mi sembrava corretto rispettare gli accordi con un bieco ricattatore utilizzai poi la Lambretta stessa per andare più rapidamente da lei. Non insegnano anche i “Promessi sposi” che persino i voti fatti alla Vergine non sono validi se assunti in stato di necessità?

Il giorno della mia laurea in pieno luglio sono stato rimandato dalla commissione a cambiarmi perché non ero in giacca, tornato a casa ho indossato un abito invernale di mio padre e sono dovuto tornare in università a piedi di corsa perché era finita la miscela nella suddetta lambretta.

Ma tutto quanto scritto sopra sarà vero o è solo nella mia fantasia?

Potrei continuare pagine e pagine con brandelli di ricordi tutti rappresentati con sequenze di parole ma privi di componenti sensoriali ed emotive e inoltre cronologicamente completamente confusi. Macchie oleose confuse e mutevoli galleggianti in un mare di amnesia che mi fa dubitare di aver fatto le elementari e persino il liceo. Ad esempio neppure un piccolo barlume riguardo all’esame di maturità che sento dire ricorra non di rado nei ricordi e persino nei sogni di molti. Dell’ingresso alla scuola di specializzazione o del primo giorno di lavoro a Civita Castellana ricordo il racconto che tante volte ne ho fatto ma nulla di più tangibile o sensoriale. Questo oblio mi insegue. Angosciato lo sento sempre più sopraggiungere al galoppo alle mie spalle e l’allarmante deterioramento cognitivo ovviamente non aiuta. Inghiotte vorace ogni cosa e trasforma in fantasmi inodori, insapori e inconsistenti luoghi, avvenimenti e persone. L’incalzare dell’oblio lo sento più veloce dello scorrere del tempo ed ho il timore che ad un certo punto metta la freccia, mi sorpassi e divori anche il presente. Forse sarà questa la demenza: la working memory di un pesce rosso che ci appiattisce in un’unica dimensione di presente puntiforme e assoluto in cui è rappresentato solo l’ultimo bite informativo. Non è detto che sia poi così male, vedremo!

Sono convinto che la verità sia enormemente sopravvalutata.

Ho sempre detto un sacco di bugie, alcune per perseguire i miei scopi e dunque avere dei vantaggi, e queste mi sembrano le più “ sane” e persino indice positivo di una buona costruzione della mente altrui e delle strategie per manipolarla. Altre per esaltare la mia immagine agli occhi degli altri e soprattutto ai miei. Ricordo da ragazzino che raccontavo di avere una flotta di piccoli aerei telecomandati che facevo volare in formazione su tutta l’Italia. Il loro utilizzo era direttamente proporzionale alle frustrazioni reali. Erano né più né meno che delle fantasie consolatorie come quella che immaginavo nel mio letto se una giornata era stata particolarmente dolorosa. Quella in cui ero un pilota di formula uno che, costretto a partire in ultima fila e con il muletto per le ingiustizie degli arbitri di pista, vinceva il gran premio sebbene si fosse fermato due volte a far pipì a bordo pista ed una volta persino per un picnic.

Credo che per queste mi meriti la diagnosi ormai poco usata di “pseudologia fantastica” o “ mitomania” o “ bugiardo patologico” considerato che la pseudologia fantastica è una categoria nosografica descritta per la prima volta da Anton Delbrück nel 1891, caratterizzata dal ricorso abituale alla bugia che può riguardare i più disparati eventi o argomenti (per esempio: luoghi diversi, avventure galanti, situazioni improbabili, ecc.), talora amplificati parossisticamente fino a raggiungere gradi altissimi di inverosimiglianza. Viene giudicata un prodotto diretto dell’immaginazione le cui caratteristiche principali sono:

  • Le storie raccontate sono di solito avvincenti e fantasiose, ma non vanno mai oltre la realtà. La possibilità di verità è la chiave di sopravvivenza del bugiardo patologico.
    Durante il confronto il bugiardo patologico può ammettere che le storie non sono vere, anche se controvoglia e vergognandosi un po’ mentre si arrampica sugli specchi per giustificarsi, il che lo porta a sviluppare notevoli doti dialettiche
  • La tendenza ad inventare storie è cronica; non è provocata dalla situazione immediata o da pressioni sociali, ma più da un innato tratto della personalità.
    Un motivo totalmente personale, e non esterno, serve a discernere la patologia clinicamente: es., situazioni pericolose o di stress possono indurre una persona a mentire ripetutamente, ma in questi casi non si può considerare patologico
  • Le storie raccontate tendono a dipingere come positiva la persona del narratore. Il bugiardo “decora la sua stessa persona” raccontando storie che lo presentano come eroe o come vittima. Per esempio, la persona si presenta nelle storie come estremamente coraggiosa, dice di conoscere persone importanti e famose o di guadagnare più soldi di quanti ne guadagni in realtà. In un verso o nel verso opposto comunque “esagera”.

Un ulteriore motivo del mio mentire che peraltro lo giustifica ai miei occhi come un semplice adeguamento per meglio comunicare è il bisogno di ingigantire i fatti per renderli all’altezza dell’intensissima emozione che mi hanno suscitato e che altrimenti l’interlocutore non capirebbe. E’ come se per far davvero capire il mio vissuto interiore, ciò che più conta, debba ingigantire i fatti per renderli ad esso proporzionali. Si tratta dunque di ricercare una comunicazione davvero autentica e sincera attraverso la menzogna.

Al di là delle diverse cause che giustificano il mentire, una delle conseguenze più allarmanti è che non riesco più a distinguere il vero dal falso, ciò che è davvero accaduto da ciò che ho e mi sono raccontato. Inizio ad avere il dubbio che proprio la circostanza che alcuni fatti sembro ricordarli sia la prova certa della loro irrealtà e costruzione per via della pseudologia fantastica mentre la realtà vera sia l’assoluto nulla. A volte mi chiedo se sia mai nato o tutto questo sia il farneticare di un feto ancora al calduccio nel ventre materno.

In questo vuoto pneumatico della mia esistenza che cresce con l’aumentare dell’età si espande rigogliosa la tendenza alla confabulazione, sintomo frequente in alcune malattie psichiatriche, dovuto alla falsificazione dei ricordi per cui il malato colma lacune di memoria con invenzioni fantastiche e mutevoli, oppure trasforma in modo non intenzionale i contenuti della memoria stessa. E’ frequente in alcune forme di schizofrenia, nella sindrome di Korsakov, nella lue cerebrale, durante l’uso di droghe e nella sindrome da astinenza da esse (la totale sospensione di ogni forma di alcolico non ha per nulla mutato la situazione). Nella demenza senile è associata a falsi riconoscimenti di persona, perché è assente la memoria dei fatti recenti: ai ricordi perduti il paziente sopperisce con invenzioni fantastiche.

La confabulazione subentrante, intrecciandosi con la preesistente pseudologia fantastica, crea non pochi problemi di diagnosi differenziale quantunque entrambe non siano che due obbedienti orchestrali agli ordini del direttore d’orchestra: il maestro “narcisismo”.

Autoinganno – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 35

Teniamoci stretto Autoinganno, fedele servitore, capace di non alzare lo scontro e mantenere leggere coerenze.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Autoinganno Nr. 35

 

Spesso e volentieri la realtà è davvero disturbante e viene avanti con i suoi cosiddetti “fatti” a rompere le uova nel paniere, volendo affermare la sua indipendenza dai nostri desideri, come se avesse esistenza autonoma senza che qualcuno la pensi: la sua arroganza è intollerabile.

Per fortuna un robusto buttafuori vigila l’ingresso e lo consente solo a chi è gradito al padrone di casa e sa come dargli sempre ragione, cosa cui il capo tiene molto non tollerando incertezze o peggio disconferme.

L’ autoinganno è un signore deciso ma educato che accompagna i respinti nella cantina dell’oblio da dove eventualmente ritirarli fuori in caso di radicale conversione, talvolta nel grande parco della disattenzione dove possono fare ciò che vogliono senza che nessuno vi badi oppure nel recinto della sterilizzazione dove ognuno viene castrato con una ipotesi ad hoc a sua misura.

Così dentro si respira un clima sereno, in un ambiente raffinato dove tutto torna senza sbavature e contraddizioni.

Unica modesta incombenza per gli invitati, la recita delle lodi del padrone con la cadenza della preghiera delle ore.

Alcune parti del salmo restano le stesse per tutta la vita, altre sono transitorie; e non si creda che si tratti sempre di lodi. C’è chi preferisce essere denigrato, svalutato, l’importante è che il ritornello sia stabile e riconoscibile, quale che sia.

L’ambiente interno è protetto dalla vigilanza sulla soglia che quando sente crescere il tumulto dei fatti che protestano e spintonano per entrare a turbare le stabili armonie interne, come alla prima della Scala a Sant’Ambrogio, chiama prontamente i rinforzi con la campanella dell’angoscia che allerta tutti per la difesa dell’identità personale.

Il primo ad accorrere è il fratello maggiore del signor autoinganno un armadio di due metri che tutti chiamano confidenzialmente “Del” non si sa se per “delete= eliminare” o per “delirio” – ammesso che ci sia differenza. Del è molto meno garbato del fratellino e del resto è chiamato solo in situazioni di minaccia grave. Volano gli insulti e poi gli schiaffoni, i pugni e i calci. Il padrone di casa che non riusciva a dormire per il suono continuo della campanella si affaccia alla finestra per seguire apprensivo l’esito della rissa. Quando le truppe comandate da Del sembrano sul punto di prevalere e consegnare tutto il potere alla dittatura del desiderio del padrone ecco spuntare tutto intorno le milizie infinite del senso comune formate da empiristi fanatici dei fatti. In un attimo gli equilibri in campo si ribaltano.

Il padrone, Del e Autoinganno vengono portati via con una camionetta camuffata da ambulanza in modernissimi centri dove solertissimi medici li riporteranno alla ragione.

In un momento di disattenzione Del e il padrone sono saltati oltre il davanzale. Autoinganno invece si è messo al servizio del primario del reparto e ora vivono insieme con reciproca soddisfazione.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

cancel